Rn I É T) % ° ) bd ce | pg Pubblicazione bimensile. Roma 14 luglio 1912. CNIL 79 cei gt A s3 UL I REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CGCCIX. T519 Lo 9.) SERE QI TETRAZENIA: RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XXI. — Fascicolo 1° 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all'Accademia durante le ferie del 4942. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d’arrivo). 1 la) ROMA TIPOGRAFIA DELIA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROBRIETÀ DEL CAV. Vv. SALVIUCCI i inn iii iii serra ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Coi 1892 si è iniziata la Serze quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l’Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soc e Corrispondenti, e 50 agli estranei» qualora l'autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.1 Rendiconti von riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, cha vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretaria, seduta stante, una Nota per iscritto. II. 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com: missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. Tia relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - 4) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra: ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro. posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall'art. pre. cedente, la relazione è letta in seduta pubblies, nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5.L' Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 sé estranei. La spesa di un numero di copie in più che fossa richiasto. è messe a carico degli autori. iti nante nnt (RS REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CCCIX. 1912 SRRURI OÙ NPA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. VOLUME XXI. 2° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI 224754) PROPRIETÀ DFL CAV. Vv. SALVIUCCI 1912 SAAS drrtate Mi 0 moda vato in DI IDA LI COR MAoA. È | | Ù ARI) «0.070 FINO (RENO y iL RENDICONTI DELLE SEDUTE DELI,A REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTI DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI pervenute all'Accademia durante le ferie del A942. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d’arrivo) Matematica. — Vibrazioni elastiche nel caso della eredità. Nota del Socio Vito VoLTERRA ('). 1. I problemi delle vibrazioni di una corda elastica, di una sbarra ela- stica, in generale di corpi elastici, conducono, quando si tenga conto della eredità, ad equazioni integro-differenziali di tipo iperbolico della forma d°u(s, è) Di due, 6) dul4 , €) (1) di de? Sa de y(i, T) dt d*u(s , è) ul t) fa , T) (II) Di? n + a de! Yy(t, T) da 2 (111) dele 50 (0,958, V+ fs, y, 3,1) W(6,1) de, in cui £, denota un istante anteriormente al quale l'eredità si suppone tra- scurabile (*). Fino dalla prima Nota sulle equazioni integro-differenziali ho posto in evidenza equazioni di questa natura (*), accennando a quelle speciali equa- zioni integro-differenziali nelle quali una stessa variabile comparisce come variabile di derivazione e fra le variabili di integrazione (nelle prime due (1) Pervenuta nella seduta del 16 giugno 1912. (?) Alla equazione integro-differenziale (II), delle vibrazioni di una sbarra elastica, è giunto il prof. Webster nelle sue interessanti ricerche, e me la ha segnalata. (*) Sulle equazioni integro-differenziali. Rendic. della R. Accademia dei Lincei, vol. XVIII, ser. 5°, 1° sem., pag. 167. LAI, IRERE la seconda variabile di cui è funzione la v, e nella terza equazione la quarta variabile da cui dipende la «). Esporrò in una prossima Nota altri metodi di analisi. Qui mi permetto di limitarmi ad indicare brevemente i resultati ai quali conduce il metodo della separazione delle variabili, che è il più opportuno impiegare per le applicazioni pratiche a cui sono rivolte queste questioni, cioè a indicare come si possa ricavare le leggi della eredità dalle osservazioni sperimentali. 2. Riprendiamo dapprima la (I). Onde applicare il procedimento ana - logo a quello che si tiene nel caso ordinario della corda vibrante, poniamo (1) u(c,t)=senm(e + a)f(t), in cui m ed @ sono quantità costanti. Avremo che / dovrà soddisfare l'equazione integro-differenziale ) “Lit /0+/ Oy, |=o. Supponendo per semplicità = 0, sia iz). Con una integrazione avremo DO Lu (0) 1+ f vEmatana, e ponendo (fo = sì avrà + f 10): \e-g+ (e (vo. dn) de=at+ bd. Serivendo Tad; A (-9+ | d| vm )M=F,9), l'equazione precedente diverrà t + m? INTONICO) de=at+d. 70 3. Ciò premesso sia (3) S(t,c|e) = —«F(t,0) batF(6,0) — eF(6;)+-, Pe ove F?,F*,... denotano resultati di operazioni di composizione di prima specie (!), cioè F°(t, 2) [7 ,E) FE 7) dé Ù RE(C00)== fee sE) F(E, ©) dé miao {F=(,8) Wood 221) La funzione S(£,|x) sarà una funzione intera di x e avremo (4) f=a|1+ f e St, elm) a+ 0}1+ | S(,1)m0) de. Posto (+ SC, 7|0) de = (112). 14 (SU rl) =S(|2). S, e Ss saranno due trascendenti intere di x e la (4) e la (1) si scriveranno (4) (= aSs(t|m) + bS(t|m2) (1) u(,t)= senm(2 + a)[aS,(t|m) + 6Ss(t|m°)]. _ Combinando linearmente un numero infinito di tali soluzioni otterremo (nelle ben note ipotesi di convergenza continuità e derivabilità della serie) la soluzione della (I) AE) |d8 800 Mn(6 + en) [an Sa (t| mi) + da Se(t|2)], ove CONSE > b, sen Ma(2 + &,) (*) Questioni generali sulle equazioni integrali ed integro-differenziali. Rendiconti R. Accademia dei Lincei, vol. XIX. ser. 58, 1° sem. 1910. SL SE Nella ipotesi, per esempio, che la corda, di lunghezza /, sia fissa agli estremi, avremo an=0, ma e (o) 2 2 a, 9=Y sen (Z:)| @8( td s.(( call 0 4. Consideriamo il caso particolare in cui sia verificato il principio del ciclo chiuso ("). Posto t_-aq=È, sarà y(i,)=y—-)=Y(). Quindi E Ga (5) re,9=#+ fa f W(E2) dé, = F(È) " F({,)= f F(£) FE — #1) dé = F5) d F°(£ 9 t) = fl F°(é,) F(é 3 E) de, = F3(£) (6) d PU) = f FOR)FME=5) FO). (7) S(, |a) = — a F(i) + &?F°(E) — e°F°(8) += S(E|2), (8) 8112) (+ f eS%— lo) di = (+ f@-©S( (|a) de, (9) S.(12) =1+ f SU 69) d=1+ f Stla) i; Supponiamo che manchi l'eredità: sarà allora w=0 , FE=8 , SE&a=—Vesen(V/ee), Sic) = a. sen(V/at) , Ss(t|x)=cos(Yet), Va (1) Sulle equazioni della elettrodinamicà. Rendic. della R. Accademia dei Lincei, vol. XVIII, ser. 5*, 1° sem., art. III. Sur les équations intégro-différentielles et leurs applications. Acta Mathematica, tome 35, chapitre II, art. 29Me. RATE ITA AIRBAG fo-2 eee Riepiee ivi co e la (1’) diverrà u(,t)= sen m(2 + a) [È sen mt + d cos mi | È ossia la soluzione si ridurrà all’integrale particolare di Taylor della equa- zione differenziale dalle corde vibranti. Noi vediamo dunque che, per passare dal caso non ereditario al easo ereditario, basta sostituire alle trascendenti intere trigonometriche sex e cos le nuove trascendenti intere S,(t|2), Se(t|2) (!). 5. Passiamo adesso all’equazione integro-differenziale (II). Posto t#=0, e u(e,t)=[Ae"" sen m(2 + &) + Be" sen m(é + a')] /(4) in cui A,B,7,@ sono costanti, si trova Lori + 4m' [100 na 0) y(t, 1) de | (0, quindi, 4 e d essendo delle costanti, sarà f(t) = a Si(t|4m4) + d Se(t|4m4). Otteniamo dunque la soluzione u(e,t)= e" sen m(2 +4 a)[aS,(t|4m4) + d Sx(t|4m4)] + + e": sen m(2 + @)[a'S,(4|47m24) + d'S(t|4m4)], in cui a’, d' sono nuove costanti. Combinando linearmente infinite soluzioni di questa natura otterremo una serie come nel caso precedente. 6. Se nella (IIl) poniamo u(x,Yy,8,t)=vc,Y,2)f(d), nella ipotesi f#= 0, troviamo le equazioni (10) dA°v+4-4%v = 0 (1) +ta|10+ (10 vene ]=0. I valori eccezionali di À per cui la (10) è soddisfatta dipendono, come è ben noto, dalle condizioni al contorno. Essendo 4; uno di tali valori ecce- (*) Cfr. Sopra una proprietà generale delle equazioni integrali ed integro-diffe- renziali. Rendic. R. Acc. dei Lincei, vol. XX, ser. 5%, 2° sem, 1911. E zionali e vi(2,4,) la soluzione eccezionale corrispondente, abbiamo la soluzione della (III) vi(e,Y 8,0) =0i(2,9,2)[aSa(0]2) +0 S:(629], in cui 4 e d sono quantità costanti. Combinando linearmente infinite di tali soluzioni, otterremo, anche in questo caso, una soluzione data da una serie. Se confrontiamo la soluzione adesso trovata e quella ottenuta nel $ pre- cedente, con quelle che si hanno nel caso in cui manchi l’eredità, si vede che il passaggio del caso non ereditario a quello ereditario si ottiene sempre sostituendo alle trascendenti trigonometriche sex e cos le nuove trascendenti intere Si(t|2), S:(t|2). 7. Nel caso del ciclo chiuso, dalle (8) e (9) si ricava dSi(6|2) ; bo == S»(1|2) dSs(t)e) _ e dalla (7) (?) a F(E) = — S(2)5) + S|) — S(2]9) +, ove gli esponenti denotano operazioni di composizione, cioè S(|)= REC S(ele— #1) dè E S|) = ]. S*(0|t) Se|e— #) de, Finalmente dalla (5) si ha d' F() _ de? dan: Y(È). Dunque, el caso în cui la condizione del ciclo chiuso sia verificata, si può ricavare il coefficiente di eredità dalla legge di vibrazione. Per esempio, nel caso della corda elastica, conoscendo il numero dei nodi e la legge di vibrazione di un punto della corda potremo ricavare il coefficiente di eredità. 8. Nel $ VII delle lezioni fatte alla Clark University (*) ho mostrato che le oscillazioni di un filo dovuto alla torsione, allorchè si tien conto (!) Questioni generali ecc. già citato, $ 4. (°) Lectures delivered at the celebration of the twentieth anniversary of the foun- dation of Clark University, Worcester, Mass, September 1909. se 1 OA della eredità, dipendono dalla equazione integro-differenziale Mou el Lu + fo) da ove M() e (7) denotano respettivamente il momento e l'angolo di torsione, x(t,t) è il coefficiente di eredità e u e K sono coefficienti costanti Considerando le oscillazioni libere (non forzate) del filo, dovremo fare M(:)=0. Ponendo È —m?, Ky(t,c)=wW(t,t), te=0, l'equazione pre- cedente si scriverà cell + m° | 00) +f 00) W(L, 7) te | =0. Si ricade dunque, anche in questo caso nella equazione integro-differenziale (2). Quindi ove 5 denota la torsione iniziale, e @ la velocità angolare iniziale di torsione. 9. Rispetto alle radici della equazione f()=0, essendo /(?) definita dalla equazione SOA + m? 1/0 L I fa) y(t, 7) de | a è facile dimostrare che, se w(#,7) è positivo, esiste sempre una radice com- IT Ino presa fra 0 e pai supposto # positivo. Infatti consideriamo l’equazione de p(t CAO I meg) =0 che è soddisfatta da g(t) = sen mi. Si avrà d? 2 7 t OE 9 LO _ meg) fw), d'onde fe 11 SEO gi LO um (So LARIO RenpIcoNTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 2 LEO cioè —n|10+/(£) ja (0 TANTICHOTI Se /() conservasse lo stesso segno nell'intervallo (0,5) il primo membro ed il secondo membro resulterebbero di segno contrario (se /(t) non si annullasse in ambedue gli estremi), oppure il primo membro sarebbe nullo senza che lo fosse il secondo (se /(/) si annullasse in ambedue gli estremi, il che è assurdo. Dunque /(#) deve cangiar segno nell'intervallo (0,5) e per conseguenza /() deve avere una radice nell'interno di questo intervallo. 10. Supponiamo soddisfatta la condizione del ciclo chiuso; vogliamo ve- dere se è possibile un moto periodico. Naturalmente dovremo ammettere che la periodicità abbia luogo dal tempo — co, ossia dovremo supporre nella (2) il limite inferiore dell’integrale £ = — co (*). Essa quindi si scriverà d°/(t (e (12) DO Ln 10+f fmue-oa]=0. Per la validità delle formule si porrà M 0), M ed = essendo quantità positive. La (12) può scriversi d°f(t No 0 SO Lal fO+f 2) (0) de ]ò. Dimostreremo adesso il teorema: se y(x) è una funzione positiva de- crescente, l'equazione precedente non ammette soluzioni periodiche diverse da sero. La possibilità quindi di moti periodici resta esclusa da questo teorema, quando si ammetta che i coefficienti di eredità siano positivi e de- crescenti. Supponiamo che l'equazione integro-differenziale (12') abbia una solu- zione periodica, di periodo T, sviluppabile in serie di Fourier uniformemente convergente insieme alle sue derivate prima e seconda. Avremo (13) i0)= Di |a sen a i) + bn cos a )] i (1) Cfr. la Nota: Sulle equazioni della elettrodinamica già citata, pag. 207, nota 1 a pie’ di pagina. 15 quindi sostituendo nella iL sarà STEIN SI Up (o Son (e 2) v(2) da | n (fe) +[- i. fi sea RE x) ele + du ‘= IT + m + fi cos a x) w(x) de) | cos (on i} : e perciò iran, (© + foco (a 2) w(x) dx) + + da È nen (CS 2) vo)de=0. — n f sen CR : y(x) de + + dn (-5 ++ fo cos(*n ©) v() de)=0. Dalle equazioni Zia segue che a, e d, dovranno esser nulli a meno che il determinante dei loro coefficienti sia nullo, ossia si abbia a +m° + fi cos (3 2) Wide O sen E 2) y(x) dx = fo sen (n° 2) y(x) da , = i RE fi co. (F 2) y(x) de (14) (15) 0= 1 =|-& sr sun + m° + fo cos (2 2) W(x) de | Se [S, sea (e 2) yY(x) dx | ; Ma, se y(x) è positivo e decrescente e n> 0, fon (E 2) y(a) dex > 0 frese (a 2) y(x) de > 0 T (h+1)T . Ji sen i x) y(c) de > 0 h 0 h essendo un numero intero e positivo qualunque, onde si (2rrn f sen (n x) W(ALEAVLE 0 e per conseguenza l'equazione (15) non può essere soddisfatta. La (12°), dunque, non può ammettere nessuna soluzione periodica all'infuori di f= 0. Chimica. — Sulla chimica dell’argentoterapia. Nota del Socio A. ANGELI ('). In uno degli ultimi numeri della « Chemiker Zeitung » (?) è comparso il riassunto di una interessante comunicazione che sotto lo stesso titolo (Zur Chemie der Silbertherapie) venne fatta dal prof. Th. Paul di Monaco di Baviera in occasione del Congresso che la Società tedesca Bunsen ha tenuto recentemente in Heidelberg. L'autore, dopo aver passato in rivista i brillanti risultati che si sono ottenuti applicando a questo ramo di studio le leggi della chimica fisica, chiude il suo discorso accennando alla speranza che le future ricerche permetteranno di chiarire il modo di agire dei preparati di argento nell'organismo vivente. A questo proposito io mi permetto di ricordare all’illustre professore che un tentativo in questo senso venne da me fatto ancora alcuni anni or sono e la notizia gli è sfuggita proba bilmente per il fatto che la mia comuni- cazione è comparsa solamente in un periodico italiano e che poi venne rias- sunta in modo incompleto dai periodici stranieri. Le mie considerazioni hanno preso origine dallo studio di alcune decom- posizioni spontanee che subiscono certi sali d’argento, che procedono in modo netto, che conducono a prodotti ben definiti (*) e che perciò differi- scono da quelle che finora vennero studiate e nelle quali avvengono processi oltremodo complicati per causa della natura dei riducenti impiegati ed anche delle condizioni in cui avviene la reazione (4). Le reazioni da noi prese in esame ebbero origine dallo studio della decomposizione che a temperatura ordinaria subisce il sale d'argento del- l’acido nitroidrossilamminico : (1) Pervenuta all'Accademia il 4 luglio 1912. (*) Annata XXXVI (1912), pag. 603. (3) Questi Rendiconti, Angeli "e Marchetti (1908), vol. XVII, 1° sem., pag. 695; Angeli, Castellana e Ferrero (1909), vol. XVIII, 2° sem., pag. 38; Angeli e Alessandri (1910), vol. XIX, 1° sem, pag. 784. (4) Confronta anche V. Kohlschitter, Liebig's Annalen (1912), 387, pag. 96. e che in seguito venne esteso ai sali analogamente costituiti della nitrosofe- nilidrossilammina, dell'acido mentonbisnitrosilico, della pernitrosocanfora ece. e come pure ai sali dei nitroderivati alifatici : 2R.CHNO;Ag = (R.CH.NO;)) + 2Ag. Ho pure dimostrato che affinchè queste decomposizioni si compiano a temperatura ordinaria, è necessario che i metalli sieno poco elettroaffini e che gli acidi sieno molto deboli; mentre infatti la reazione avviene col sale d’argento del fenilnitrometano : CsHs.CHs. NO, essa non si compie più col sale d'argento del nitrofenilacetonitrile : CHs. CH(NO;). CN ed è noto che il residuo cianico aumenta notevolmente l'energia degli acidi; infatti, mentre per l'acido acetico si ha K= 1,86.10, per l'acido cianacetico =} K=3,7.10 (?). È evidente che si tratta di processi di ossidazione perfettamente ana- loghi a quelli che talora vengono effettuati per mezzo della corrente elet- trica e qui basti rammentare la formazione dei persolfati, dei percarbonati e del prodotto: $ NO». C(COOR). {» dall’etere nitromalonico (*). In appoggio di questo modo di vedere sta il fatto che la maggior parte dei sali d’argento da noi esaminati, quando vengano asciugati rapidamente, si mantengono inalterati per lunghissimo tempo; questo comportamento indica che la decomposizione del sale: R Ag in presenza di acqua è dovuta alla sua solubilità, per quanto piccola essa sia, ed alla debole elettroaffinità dei due ioni che lo compongono: Re Aot le) î quali in soluzione sì scaricano reciprocamente all’atto della decomposizione. Lo sviluppo di calore, che accompagna queste reazioni, molto probabilmente (1) Wilh. Ostwald, Zeit. fir. phys. Chemie, III (1889), pag. 178. (2) Ulpiani e Gasparini, Gazzetta Chimica, XXXII (1902), b., pag. 235. è dovuto in gran parte all'argento che si separa (*), ed è noto che Ostwald ha stabilita la relazione (°): Agt =Ag + 26200. cal. Questi processi di ossidazione operati dallo ione argento, portano na- turalmente a considerare quale sia l'azione fisiologica dei preparati d’argento nell'organismo. Essa molto probabilmente deve consistere in processi di ossi- dazione analoghi a quelli considerati, dovuti a scissione di composti a debole elettroaffinità con separazione di argento allo stato metallico (*); e potrà avvenire solo in determinati punti dell'organismo, dove cioè si trovino so- stanze capaci di fornire di tali composti. Molto probabilmente agiscono in modo analogo a quelli d'argento, i sali di mercurio e d'oro ed in generale dei metalli poco elettroaffini (4) e la natura elettrochimica del processo viene (*) Zeit. fir phys. Chemie, XI (1903), pag. 501. (3) Questi fatti portano a considerare un po’ più da vicino anche la natura di al- cune sostanze esplosive di carattere salino. Qui pure il metallo ha una gran parte. Per citare qualche esempio, ricorderò che gli acetilenuri d'argento e di rame sono molto esplosivi mentre, come tutti sanno, non lo è il carburo di calcio; il sale sodico dell’acido azotidrico è perfettamente innocuo, tanto che viene in commercio in hoccie con tappo di vetro, mentre invece i corrispondenti sali di argento, mercurio, rame e piombo sono in alto grado esplosivi, tanto che possono venire impiegati come detonatori iniziali, e come detonatori iniziali funzionano anche i fulminati di argento e mercurio, ma non quello di sodio (cfr. L. Wohler, Zeit. fir augew. Chemie XXIV (1911), pag. 2089). A mio modo di vedere il carattere esplosivo di questi sali è in rapporto col calore di ionizza- zione del metallo che li costituisce, come risulta dai seguenti dati: Na — 56300 cal. Ca — 53500.» Ag + 26200» Hg + 20500.» Cu (biv.) + 8800.» Pb + 500 » Come recentemente io ho trovato assieme al dott. Alessandri, il sale d’argento della benzofenonossima, in presenza di acqua, si decompone in gran parte nel seguente modo: (CsHs)a. C:NOAg = (CsHs)a CO + Ag +N ed ognuno vede che essa rassomiglia perfettamente all'altra decomposizione che si compie in modo infinitamente più rapido, l'esplosione del fulminato d’argento; C:NO0Ag=C0O+4 Ag + N. (*) È noto che il mercurio si separa sotto forma di metallo; così sulle ossa di indi- vidui sottoposti a lunghe cure mercuriali si rinviene il mercurio sotto forma di goccioline. (4) Naturalmente nell'impiego di questi sali conviene, a seconda dei casi, dare la preferenza a quelli dell'uno o dell'altro metallo; così p. e. i sali d’argento si usano per azioni di indole locale, altrimenti verrebbero tosto trasformati nella forma meno solubile e più stabile, il cloruro d’argento. Pl TU convalidata dalle osservazioni fatte sulla relazione che passa fra azione tos- sica e grado di dissociazione. Volendo usare una immagine rappresentativa, l’azione fisiologica di questi ioni metallici si potrebbe paragonare a quella di proiettili che col- piscono solo determinati elementi del tessuto in cui avviene l'ossidazione; l'azione dei proiettili è dovuta alla forza viva da cui sono animati, quella dei ioni metallici invece alla loro carica elettrica. Senza dubbio anche il celebre metodo di ricerca istologica dovuto al Golgi è basato sopra reazioni dello stesso genere. Naturalmente le mie considerazioni non hanno altra pretesa che quella di rappresentare un tentativo diretto a spiegare l’azione di questi sali, e mi si potrà obbiettare che nell'organismo potranno compiersi processi di gran lunga più complicati; ma come giustamente in altra occasione ha fatto 0s- servare Arrhenius (1) è ben difficile che un problema possa venire risolto dal lato fisiologico prima che ne sia stato chiarito il lato più semplice, quello chimico. Zoologia. — Nuova contribuzione alla storia dello sviluppo dei murenoidi. Nota preliminare del Socio B. Grassi (?). Avendo ripreso lo studio della metamorfosi dei murenoidi, da me la- sciato interrotto per molti anni, ho potuto mettere in sodo alcuni fatti nuovi che mi preme far conoscere fin d'ora, perchè so che altri si occupa dello stesso argomento. Sono lieto di esser riuscito a identificare una forma che mi aveva a lungo occupato senza che fossi potuto venire ad una conclusione definitiva. Si tratta di quelle larve leptocefaliche che vennero denominate 7i/urus. Già da molti anni, in una Nota preliminare, io inclinavo a riferirle ai Nemictidi. Recentemente, anche il Roule, accennando a una forma tilurica, a quanto sembra, ben differente dalle nostre (7ilurella), soggiunge che si potrebbe ritenere per una forma larvale di Nemictide, soprattutto perchè i rappresen- tanti di questa famiglia sono forniti di un filamento caudale. Quanto ai Tilurus egli nota che certe disposizioni sembrano riannodarli alle Murenide (ripetendo così un vecchio errore del Facciolà) o ai Simenchelidi (ottobre 1911). Io invece mi sono persuaso che il 7/urus trichiurus Sin. Oxystomus Rafinesquii Facciolà, ossia quella delle nostre due specie che ha il corpo meno alto e gli occhi più grossi, deve essere la larva del Nemichthys sco- (*) Arrhenius, /mmunochemie (1907), prefazione, pag. V. (?) Presentata nella seduta del 1° giugno 1912. RDS lopaceus Rich. La mia asserzione è basata sullo studio di due esemplari di questa specie in abito definitivo, di cui l'uno completo, lungo 0,49 cm., e l'altro col filamento caudale mozzato. Posso assicurare che essi trovano per- fetto riscontro in uno di provenienza oceanica del Museo civico di Milano, ceduto al Bellotti dal Museo di Washington. I due esemplari da me stu- diati provengono invece da Messina e appartengono alla collezione centrale dei vertebrati italiani lasciata dal compianto prof. Giglioli (mi furono con- cessi in esame dal prof. Giglio-Tos che qui pubblicamente ringrazio). Purtroppo, questi esemplari sono in cattive condizioni; devono essere stati raccolti alla spiaggia del mare e avere subìto un certo disseccamento. Tuttavia si prestano benissimo per fissare alcuni punti importanti. Così nel- l'esemplare completo si rileva molto facilmente il cuore caudale e il penul- timo ipurale; l’ultimo sembra mancare. Colla radiografia (1) sono riuscito a contare, nell'eseomplare completo, 242 vertebre; restano ancora gli ultimi dieci centimetri circa del filamento caudale, dove ne sono distinte molte altre. Si può calcolare che, in tutto, le vertebre sono circa 300; presso a poco lo stesso numero doveva riscontrarsi nell'altro esemplare. Le fenditure branchiali sono ampie e quasi confluenti, come si legge già nella diagnosi di Giinther. La parte intermedia della pinna dorsale pos- siede, oltre a raggi filamentosi, raggi grossi e corti a forma di aciculi. Mi fisso per ora sopra questi caratteri perchè essi ci permettono di fare la identificazione di questa specie col 7i/urus trichiurus, il quale presenta appunto: 1°) un numero di miomeri che si può calcolare di c. 300; 2° cuore caudale e penultimo ipurale presso a poco come nel sud- detto esemplare completo; anche nel 7i/urus trichiurus, come in questo esemplare, non ho potuto riscontrare l’ultimo ipurale ; 3°) una parte della pinna dorsale, che si può dire intermedia, benchè poco discosta dalla estremità anteriore di questa, è differente dal resto questa parte intermedia, caratterizzata dalla presenza di portapinne e raggi, è breve, ma ben distinta già ad occhio nudo negli individui conservati in formalina (non l’ho riscontrata nei piccoli esemplari); 4°) fenditure branchiali, ampie, quasi confluenti: questo carattere deve sembrare decisivo per chi tenga presenti i varî murenoidi che si riscon- trano nel Mediterraneo. Dì 7ilurus trichiurus io ho sott'occhio esemplari che vanno da qualche sentimetro fino a circa 38 cm. di lunghezza. Come ho già detto, i 7/urus che si raccolgono a Messina sono almeno di due specie e perciò noi dobbiamo domandarci a quale Nemzchthys appar- (*) Questa ed altre radiografie (vedi più sotto), sono state eseguite con l'apparecchio portatile a corrente alternata, sistema U. Magini, dallo stesso Magini, che vivamente ringrazio. Le TN 7/A tenga l’altra specie, denominata Zur» hyalinus (Facciolà). A questa do- manda posso soltanto rispondere che certamente nel Mediterraneo esiste un’altra specie di Memzcehthys e anzi non è del tutto escluso che ne esi- stano due, oltre allo scolopaceus. In proposito debbo dare alcune notizie. L’Ariola, da me pregato, ha riveduto l'esemplare del Museo Civico di Genova da lui descritto come MNemichthys mediterraneus (nuova specie), e ha potuto confermare che la determinazione da lui fatta si deve mantenere perchè, mentre tutti gli altri caratteri coincidono col Memzehthys scolopaceus, invece la distanza che corre tra la inserzione della pinna pettorale e il principio dell’anale è poco meno di una volta e mezzo la lunghezza della pinna pettorale: supporre che si tratti di una anomalia, non mi sembra giu- stificato. Forse un’altra differenza risulterà dal numero delle vertebre, nu- mero che approssimativamente si potrà ricavare, senza nessuna difficoltà, da una buona radiografia. Io non sono nemmeno sicuro che l'esemplare descritto dal Brauer e quello descritto dal Roule (l'esemplare del Roule proviene dal Mediterraneo) come MNemzichthys scolopaceus siano veramente tali, perchè la coda nelle loro figure è ben lungi dal presentare quel lungo filamento sot- tile che si riscontra nei Memzichthys scolopaceus del Museo di Washington, in quello completo di Messina e nello stesso esemplare dell'Ariola. In conclusione, deve esistere nel Mediterraneo una seconda specie di Nemichthys. e questa seconda specie deve avere per larva il 7ilurus hya- linus che ha un numero di miomeri molto inferiore, quantunque possa rag- giungere la cifra di circa 250; ve ne sono però esemplari che ne hanno sol- tanto 220 circa. Questo numero dei miomeri impedisce di riferire il Vemzch- thys scolopaceus alla larva in discorso (in essa si distingue facilmente l’ul- timo ipurale). Si potrebbe obbiettare che i 7il/urus hanno muso corto, mentre invece i Nemichthys l'hanno lunghissimo; senonchè il muso può allungarsi nel pas- saggio della larva alla forma definitiva, e già ne conosciamo, benchè molto meno spiccato, un esempio (ZL. Kefersteini, larva dell'O. serpens). A x x Johs. Schmidt, il cui nome è diventato popolare per le sue bellissime scoperte sulla biologia dell'anguilla, in due lunghe crociere fatte nel Me- diterraneo ha raccolto un materiale prezioso di leptocefali, e tra gli altri una forma semilarvale a me del tutto sconosciuta, che con tutta sicurezza egli ha recentemente definita come appartenente al Chlopsis dicolor, sopra tutto per la presenza di 131-136 miomeri, di cui circa 48 preanali, per l’ultimo ipurale con 5-4 raggi, per il penultimo ipurale con 3-4 raggi, per la narice anteriore tubulare ecc. Io ho dei gravissimi dubbî sopra questa identificazione; e riserbandomi di dare un giudizio definitivo a quando potrò aver sott'occhio la semilarva RENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. B) MORTE in discorso, mi permetto di osservare che lo Schmidt non ha tenuto conto dell'esistenza, nel Mediterraneo, di quel murenoide che piglia il nome di Muraenesox savanna. Questo murenoide è stato ripetutamente trovato a Napoli e nella collezione lasciata dal Giglioli se ne vede un buon esemplare raccolto presso Portoferraio (isola d’ Elba). Esso. come dimostra la radio- grafia, possiede 130 vertebre, di cui circa 39 preanali; gli ultimi ipurali coi relativi raggi corrispondono a quanto accenna lo Schmidt nella larva da lui segnalata; così pure la narice anteriore tubulare. Questi dati trovano casualmente riscontro anche nel Chlopsis dicolor (*), tranne insignificanti differenze; essi rendono perciò incerto il giudizio del- l'autore danese. V'è anzi un carattere il quale sembra deporre favorevol- mente al riferimento della larva in discorso al Muraenesox savanna, ed è la presenza delle pinne pettorali (sta però il fatto che le pinne pettorali dei leptocefali possono scomparire nelle forme definitive). Si aggiunga che, in complesso, l’estremità posteriore del corpo della larva in discorso si asso- miglia più a quella del Muraeresox che non a quella del Ch/opsis. Che anzi, nota lo stesso Schmidt, tutt'insieme l'aspetto della larva ha qualche somi- glianza col Z. brevirostris, come il Muraenesoa savanna l'ha coll'anguilla. + * x Io ho avuto da Messina quattro esemplari d’un nuovo leptocefalo col muso molto allungato e cogli occhi telescopici. Tutto (numero dei miomeri, ultimi ipurali e relativi raggi) tende a farlo ritenere larva del 7odarus brevirostris. Fa però eccezione il muso, il quale in questo caso dovrebbe allungarsi passando dalla forma larvale a quella definitiva: fatto, questo, per ora senza esempio. * * X Nel Mediterraneo io non ero riuscito a trovare alcun Leptocephalus brevi- rostris di lunghezza inferiore a 51 mm. (?) Facciolà però ne avrebbe segnalati alcuni di soli 40 mm.; e così pure Sanzo crede di averne avuto sottocchi uno notevolmente piccolo, che purtroppo è andato smarrito. Invece lo Hjort, in vicinanza delle Azorre, è riuscito a trovare anche larve che vanno da 40 a 50 mm. Il breve cenno che egli ha dato intorno a queste larve, aveva sol- levato nel mio animo qualche dubbio, o che si trattasse di una specie di ansuilla differente, o di larve anomalamente piccole, come accade per altre (1) Il Chlopsis bicolor, per quanto io so, è stato rinvenuto soltanto a Messina, ed è rarissimo: finora se ne conoscono solo una diecina di esemplari. È stato scoperto da Rafinesque, poi confuso con altre forme, infine da me rimesso in luce e illustrato in base al materiale da me fatto raccogliere a Messina dal mio scolaro Supino. Le vertebre in questa specie sono da 131 a 134, di cui 37 c. preanali. (*) Il mio materiale è conservato in acqua di mare e formalina del commerelo (5 2/0). LAICO specie di murenoidi. Mi sono perciò rivolto al celebre ittiologo svedese, che gentilmente ha messo a mia disposizione due delle larve piccole da lui rin- venute. Ho così potuto stabilire che si deve escludere qualunque dubbio, e che si tratta veramente di stadî più giovani di quelli da me finora riscon- trati. Infatti, nell’individuo di circa quattro centimetri, che io ho potuto esa- minare, gli archi vertebrali caudali sono in minor numero e meno svilup- pati che non nelle larve da me raccolte; e i raggi degli ipurali non sono an- cora bifidi, mentre lo sono di già in un individuo alcuni millimetri più lungo. Aggiungerò alcune misure fatte sui Leptocefali brevirostri dello stretto di Messina. Quattro individui presi in marzo nelle zoocorrenti misuravano rispettivamente mm. 66-51-57-59. In una giornata di marzo ne vennero but- tati migliaia sulla spiaggia del Faro di Messina. Di 102 di essi, presi a caso, la media lunghezza era mm. 63,93; solo 3 superavano ì 70 mm. e misura- vano rispettivamente 71-72-73 mm.; 12 erano inferiori ai 60 mm. Di 102 individui presi a caso ancora viventi nello stomaco di parecchi Orthagoriscus, in maggio, uno solo era di 69 mm.; gli altri arrivavano ai 70, e superavano questa cifra fino a raggiungere gli 85 mm.: la media era di mm. 77,29. Nei 102 individui suddetti raccolti sulla spiaggia, la distanza dal- l'apice del muso all’ano era in media mm. 44,30, in quelli raccolti negli Orthagoriscus 52,54. Il numero dei miomeri preanali e caudali era pochis- simo differente nei due gruppi in discorso. Si è ritenuto che le ragioni da me addotte per fondere le specie defi- nite come Anguilla Kieneri Kaup e Anguilla Bibroni Kaup, coll Anguilla vulgaris, non fossero sufficienti. Ho perciò voluto verificare se nel numero delle vertebre e negli ultimi ipurali e relativi raggi si manifestassero di- vergenze. Non potendo sezionare alcun esemplare delle prime due forme, che sono rarissime (per quanto io so, in Italia non se ne conservano che cinque individui), anche in questo caso son ricorso con successo alla radiografia che mi ha permesso di stabilire che le supposte differenze non esistono. * x x Nella Collezione centrale dei vertebrati di Firenze trovasi anche un mu- renoide catalogato come Muraena unicolor juv.? Nizza (esemplare interes- sante, nota Giglioli, proveniente dai fratelli Gall). Per gentile concessione del prof. Giglio-Tos io ho studiato questo pesciolino e ho concluso che esso è invece un Wropterygius; esso ha tutti i caratteri dell’ Wropterygius necturus (Jordan a. Gilbert), non raro nel golfo di California, che dall’. concolor Rippel del Mar Rosso differisce per avere soltanto la narice anteriore tubu- lare (converrebbe riesaminare quest'ultima specie). L'esemplare di Nizza presenta 114 vertebre, come risulta dalla radio- grafia. Tale circostanza solleva dei forti dubbî contro l’ipotesi da me avan- zata, circondandola invero d'ogni riserva, che la larva 9 figurata nella mia Contribuzione allo studio dello sviluppo dei murenoidi (Memorie del Comi- tato talassografico, 1910), possa appartenere all’anguilla per il numero dei miomeri corrispondente press' a poco a quello dell'anguilla e allontanantesi da quello di tutti gli altri murenoidi del Mediterraneo. Si potrebbe sospettare che il Giglioli fosse stato ingannato dai suoi for- nitori, che come pesce del Mediterraneo gli avrebbero venduto un pesce fore- stiero; la cosa però sembra poco probabile. Meccanica. — Sopra le vibrazioni normali di un corpo ela- stico immerso în un fluido. Nota II di E. LAURA, presentata dal Socio U. SOMIGLIANA. Sfera vibrante radialmente in un fluido. 3. Faccio le posizioni: a,b=-velocità di propagazione delle onde longitudinali e trasversali nel fluido; e== velocità di propagazione delle onde longitudinali nel fluido; 0,0,==densità rispettive della sfera e del fluido; R = raggio della sfera; u(r,t)= spostamento radiale nella sfera; ®(r,t)= potenziale di velocità nel fluido. Tanto la sfera quanto il fluido non sono sollecitati da forze di masse; il moto puramente radiale nella sfera è individuato da condizioni iniziali opportunamente date. Il fiuido inizialmente è in quiete, e le vibrazioni della sfera generano in esso un sèguito di onde sferiche propagantisi all’esterno del vibratore con velocità c. Le equazioni indetinite del moto saranno: SR =R (1) di e rd, "i ) 2 2_p® 2° = e — (PE R La solita ipotesi della continuità della tensione e della velocità normale attraverso la superficie del vibratore dà le equazioni in superficie: È) $ 2 dP \ e| a+ (0-20) 7 nidi d7 {P di i | du ___ 39 AO Sul bordo dell'onda che si propaga nel fluido si ha la condizione dD dD (9) xi rai) r=R+ct. Per soddisfare alla 2* delle (7) e tenendo presente che nel fluido si hanno solo onde progressive devesi porre, (10) o=ir(i- tt). La (9) per questa posizione si riduce semplicemente a (11) B(O)}_0% Quindi le equazioni del problema divengono: du __ (du 2 221) I) da nia DI r= R 2 9% 2 o) 2U i a = Il) e| a nt l@ 20) | r=R dU 1 1. #6 II III) gp l0+ FO r=R IV) F(0)=0. : La u(r ,t) è regolare per i valori di r dell'intervallo 0 — R, e la funzione F, poichè nell'espressione del potenziale di velocità si ha R RUEL À Sen-7 ,2( a PRI de \ E ORE CRIi Si elimini w tra queste due equazioni e si ponga: 4R =—=% a Dopo qualche riduzione si perviene all’equazione trascendente : B) Tanga (1+px°) x ____ma° ( x — Tanga —_ 1+na' Lo O a nella quale si son fatte le posizioni: Qi a ; a i a E L'equazione (B) ha ufficio analogo a quello dell'equazione di frequenza nel caso delle vibrazioni libere. Ad ogni radice x, di essa corrisponde una coppia di valori Àn , Un e quindi le due soluzioni semplici: | une) = e un(7) Î ROTA anti Queste formule z0n definiscono una vibrazione normale, esse non soddisfano invero la IV). Combiniamo due di questi moti semplici corrispondenti a due diverse radici di (A) ponendo: (15) \ Tales )= wp em Um(#) — Mm en Un(r) ( Fn(t) = Um u,(e'm' SI dal) 3 È allora evidente che si ha ReA0)=0 e quindi pure la IV) è soddisfatta. Dimostriamo che la equazione (B) ha le radici complesse coniugate con parte reale negativa. La semplice ispezione di questa equazione rivela l’assenza di radici immaginarie pure, quindi tra le vibrazioni normali non ve ne possono essere delle armoniche semplici. Si dimostra che l'equazione (B) nell'ipotesi (!): Mm ('), allora esiste una soluzione dell'equazione (3) (oppure (4)), e solamente una, regolare entro lo stesso campo, che prenda rispetti- vamente per t=%,, per a=C,, e per a=c> gli stessi valori f(), Pi(d) , P2(0) (*). 2. L'equazione (4) si può evidentemente riscrivere nella forma in cui con B»(£, ©) si indica la funzione Per dimostrare il teo- IB(4,1) DEI rema poniamo «= %, + w', in cui la %, soddisfi alle condizioni seguenti: (dtt Die dI de DI PE lo) f() a per t=6, per 2=c, e per a=c2. Questa soluzione si trova facilmente per mezzo del teorema di Green, ed è regolare dentro il campo ci. Z< (0 LOCERIZO n! ESTASI e la S è uniformemente convergente in quel campo, e, come si vede dalla ineguaglianza sopra scritta è soluzione dell’equazione (5). Ponendo u=$, avremo dunque che u=%,+%' è una soluzione dell'equazione (3) che sod- disfa alle condizioni specificate. Per dimostrare che questa soluzione è univocamente determinata, è suffi- ciente dimostrare che u=0 è la sola soluzione regolare dell'equazione 2 W GURU) — | Be si) ult) de, la quale s'annulli identicamente per £#=%&, per x=c;,, e per x=c3. E infatti, applicando ancora il teorema di Green, abbiamo l’ineguaglianza POM 20 = (ur (De — ue je co SEE per c SaS, ==, in cui C' è una certa costante e 7 è un numero intero arbitrario. Ne segue che (x , 7) si annulla dappertutto nel campo cx =c,,&,3tSt S 2. — EqQuazionI RELATIVE. 3. L'equazione i. è equivalente alla seguente » Ue Vest) (6) ZaZ+fa0 de, purchè non sia a = 0. Nel caso a=0, questa equazione si riduce con una integrazione per parti ad una forma analoga alla (4'): Dai dm A(t,t)u(x,t)—- B(t, to) f(x) — fia ,)ule,t) dt, caso unidimensionale dell'equazione seguente: (6’) VUE Ù + f%,%2,9,5,9 de + F(0,915,0). to IE Per questa equazione il problema al contorno si risolve in maniera completa solamente per quegli spazî che sono abbastanza piccoli, mentre che per gli spazî più grandi può avvenire in alcuni casi il fenomeno dell’oscillazione. 4. Ma se nell'equazione (6°) si ha c(2,y,2,t)=0, ne ricaviamo la equazione t (TM) Ve, 96,0) OC) uUz,y,:, dr +F7,4,5,0), Vito e di quest'ultima, nel caso del problema interno si dimostra facilmente, per mezzo del teorema di Green, che esiste una soluzione regolare, e una sola- mente, che prende valori arbitrarî sopra una superficie chiusa, data nello spazio x,Y,%. 5. Nello svolgimento eseguito queste equazioni integro-differenziali (3), (6'), (7). si vede che sono ricondotte a certe equazioni differenziali per mezzo di approssimazioni successive. In fondo questo procedimento non è altro che ridurre ciascuna, per mezzo della soluzione di un'equazione puramente diffe- renziale, a un'equazione puramente integrale. E infatti queste equazioni integrali, una del tipo di Fredholm, e due del tipo di Volterra, si possono immediatamente scrivere. $ 3. — SOLUZIONI PARTICOLARI. 6. In confronto con questi metodi di forma, che si può dire « chiusa », stanno quelli che sono basati su soluzioni particolari dell'equazione. Per l'equazione (3) si ha immediatamente, o col metodo simbolico o direttamente, che una soluzione particolare si può scrivere nella forma (8) u= R(t)(asenka 4 deoskx), in cui R(t) soddisfa all'equazione SO _eRM— f FAME, ossia R(i)=h - f.#(1 +fAC,0 at) R(2) de. La soluzione di questa equazione è R() = APx(t), in cui PID -,{el + SAC, de) ___—__________.; essendo conosciuta la DE (i + LL A(/,%) at) , funzione associata al T nucleo dell'equazione integrale per la R(é). Il prof. Volterra mi ha fatto BACI (are noto, che la funzione P,(#) è una delle funzioni trascendenti esaminate da lui nel trattamento del problema delle vibrazioni ereditarie. È interes- sante di vedere che quelle funzioni si applicano anche qui, in un problema diverso. La soluzione particolare u = Px(%) (4: sen 42 + dx cos 4x) ha dunque per t=% il valore axsen ke + dx cos ke. Quindi per la soluzione del- l'equazione (3) che prende per «=0 e x= i valori u=0, e per =0 i valori arbitrarî g(x), si avrà \ ua) Dan En (1)iseninre | tim="® [ (x) sen ma da . IT /o Le stesse soluzioni particolari Py servono per risolvere il problema in 3 ” È dU cui su <= 0 e suz=7 si ha la relazione ie le 4 essendo le soluzioni della solita equazione trascendente. 7. L'equazione (7) è un'equazione del tipo statico, e può quindi essere completamente risoluta per mezzo dei metodi simbolici. Consideriamo l’equa- zione di questo tipo che, adoperando la notazione della sopra citata Me- moria ('), possiamo scrivere nella forma simbolica seguente: d°È DE PAZ 2 = (9) Liri. DL sla TÉ E fa 0°È, in cui per d prendiamo una funzione di nullità. Una soluzione particolare di questa equazione si scrive nella forma simbolica = 0Ualt,)g(ylt, o) Welt, 7), in cui possiamo avere, per esempio, 0) 0) 0 =n,senm-a-|+z,cosm-a (04 (02 D) Do) = ni senn- 113 C0S N = Y P 1 a 2 B peg xi 5) nt la moltiplicazione essendo sempre simbolica nel senso definito. In questa espressione i coefficienti 77, = P, + jP,(4, 1), ecc., si possono prendere ar- bitrariamente; le funzioni esponenziali si intendono quelle estensioni definite nella sopra citata Memoria (*), e le funzioni trigonometriche estese si defi- niscono in termini di queste per mezzo delle solite formule. (1) Evans, loc. cit., Capitoli I, III. (?) Evans, loc. cit. a pag. 14. Sa Matematica. — Sull’equazione alle potenze. Nota del dottore L. ORLANDO, presentata dal Corrisp. A. Di LEGGE (*). Un notevole studio del prof. M. Bottasso (*) mi ha richiamato in mente alcune idee, che, pur avendo le apparenze di ordinarie esercitazioni d’algebra, contengono tuttavia il germe di nuovi e felici svolgimenti. Sia (1) f(e)= ana + ao + + ann 0 + an=0 un'equazione algebrica, edi numeri x,,%2,...,%n siano le radici di questa equazione. Consideriamo ancora il seguente polinomio (2) P(Y) = do y" 4 by 4 A Om Y + dm; e chiamiamo y,,%2;--Ym le radici dell'equazione in y (3) gy)=. Queste radici saranno funzioni algebriche della variabile x, considerata in- dipendente da y. Formiamo ora la seguente funzione di : (4) F(2)= f(Y2) f(42) -- f(Ym). Essa è evidentemente una funzione razionale intera simmetrica delle radici Y1,Y23-*3Ym dell'equazione (3); dunque è una funzione razionale intera: in x. È facile determinarne le radici. Affinchè F(x) si annulli, è necessario e sufficiente che si annulli qual- cuno dei termini /(Y1) (42); ---:1/(Ym) del prodotto che figura nella for- mula (4). Si richiede quindi ed è sufficiente che sia (5) ge dove w e v rappresentano genericamente, senza obbligo di diversità, due numeri delle rispettive serie 1,2,3,..,7#;1,2,...,%. Dalla (5) si deduce (yu) = (x); e allora, per intervento della (3), possiamo scrivere (6) r= p(2,). È dunque necessario e sufficiente che x verifichi la (6) affinchè F(x) si ('*) Pervenuta all'Accademia il 28 giugno 1912. (€) Sull'equazione alle potenze di un'equazione secolare ecc. Atti del R. Istituto Veneto, t. LXXI. parte 2* (1912). annulli; ciò vale come dire che le radici di F(x) sono g(x1),g(c2),..., 9(x,). Il prodotto 4 yf y ... um, che vale (12) (Om — 2)", darà evidente- 70 mente il termine di grado più alto in x che possa figurare in F(#); dunque il polinomio F(«) risulta di grado x in 4. Non occupandoci in modo spe- ciale del caso di radici multiple dell’equazione /(x)= 0 (e ce ne dà diritto una considerazione molto frequente e molto semplice) noi veniamo senz'altro a stabilire che l’equazione (7) E (2)N0 rappresenta una /rasformata di Tschirnhausen dell'equazione (1); le sue radici &,, é2,...,én sono legate colle x1, x», ..., 2, dalla relazione generica (8) Via (xy) . Nel caso particolare g(y) =”, noì otteniamo la cosiddetta equazione alle potenze relativa all'equazione data. Per riferirci al lavoro del prof, Bottasso, consideriamo l'equazione Ce VARO din 9 VEN doo — X A oi da (9) f(a)= f =0, Ani Ana . . . Ann => dh senza menomamente ammettere la simmetria, cioè il generico vincolo 4,s= sr. Scriviamo a norma della formula (4), il relativo polinomio F(x). Chiamando o un valore di ‘/x, noi possiamo rappresentare F(x) con /(0) /(05) /(0e°) ... f(0*"7), purchè e rappresenti una radice primitiva mn” dell'unità. Le fun- zioni simmetriche (razionali intere) di 0,08, ..., 08" conducono ai coeffi- cienti dell'equazione y" — x = 0, cioè a zero o ad «, il che facilita molto l'esecuzione del prodotto in questione; ma alcune considerazioni teoriche sulla composizione delle matrici ci lasciano pervenire ad una rapida e sem- plice formazione del polinomio F(%). Consideriamo la sostituzione lineare Tia + 41° ct + din Cn di = 42, LI + 422 La + du + Uan Ln Cn, = Anr Qi + Ana La + "a + Onn Ln ponendoci nell'ipotesi che il determinante differisca da zero. La T trasforma le coordinate (non omogenee) di un punto P= (x1,%2,...,%,) nelle coordi- nate (non omogenee) di un punto P'= (x1,%3,...,%,). Se vogliamo che P e P' siano allineati coll’'origine, bisognerà che sia x1=Z,, x3=422,..., xn=4xn, dove 4 dev'essere una radice dell'equazione (9); ed, in quella RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 5) RSI, e direzione invariante, le lunghezze OP subiranno l'allungamento unitario 4. Evidentemente l'applicazione della T” conduce alle medesime direzioni in- varianti, e l'allungamento sarà 4”. Ciò prova che eseguendo (in modo op- portuno) il prodotto di 70 determinanti 2 © 410 42g -.- Qnvs SÌ ottiene un de- terminante Î = Zia og -.. 7ny, tale che l'equazione kia Ki Li e dd (10) F(x) e ka koo mi Ù o 0 kan pe I) Eni kne OORLIOM LO VE 34 ha come radici le potenze m”° delle radici dell'equazione (9). Per esempio, dal determinante 01) = GE (9) = / 2 dA sì giunge (volendo l'equazione alle terze potenze) al determinante — 0 —-% — 7 (12) be 14 lo —-x Il determinante (11) ha le radici 1;2 ; il determinante (12) ha per radici le terze potenze 1;8. Nel caso del determinante nullo, la regola non varia; il che si vede subito, se si considerano i due determinanti (9) e (10) come funzioni ra- zionali intere delle 7? variabili @,s. Parrebbe, dal nostro ragionamento, che la potenza m” del determinante T+T— @a sg... Un dovesse eseguirsi in un modo speciale; ma l'osserva- zione ben elementare che T e la trasposta hanno le stesse direzioni inva- rianti ci svincola da questa pretesa precauzione. Riferendoci al prodotto degli m determinanti /(0),/(0£),.... f(08), noi vediamo che le radici @,g£,..., 08”! dell'equazione y= x lasciano traccia soltanto nella combinazione #, che, a meno del segno, ne rappre- senta il prodotto. Ciò risulta chiaro dalla teoria delle funzioni simmetriche; ma non era evidente a przori che dai singoli termini del determinante pro- dotto si potessero fare sparire le eventuali combinazioni non simmetriche. Insistiamo su questo concetto, perchè, per esempio, a proposito del deter- minante Ao dA Ug . . ° Un — l CASOMAI LO (0) VARCO ee le cose avvengono in modo alquanto diverso. Matematica. — Sulle superficie algebriche, del 5° ordine, irriducibili, con un fascio ellittico di coniche. Nota di EuGENIO G. ToGLIATTI, presentata dal Socio 0. SEGRE ('). Il sig. De Franchis, in una breve Nota comparsa in questi Rendiconti (*), enumera varie superficie algebriche del 5° ordine, irriducibili, contenenti un fascio di coniche, 2, di genere 1: esse posseggono una linea doppia del 2° ordine, piana, irriducibile o no, per cui le loro sezioni piane generiche hanno il genere 4; posseggono inoltre due punti tripli, distinti o coincidenti, la cui congiungente, che sta sulla superficie, è per questa una retta semplice, comune ai piani delle coniche. In una ricerca sulle superficie del 5° ordine, F°, con infinite coniche, mi si presentarono, tra le F° con un fascio ellittico di coniche, alcune su- perficie che non rientrano tra le precedenti. Poichè tra esse ve ne son di quelle che, a quanto mi sembra, non furono tuttora studiate, espongo, in questa breve Nota, i principali risultati che ho ottenuto in proposito. 1. Le F° in questione hanno tutte tre rette doppie d,,d,,d3, concor- renti in un punto V. che sarà triplo per la superficie, dal momento che le rette d,,d,.d43 non possono essere complanari; ne segue che le sezioni piane generiche di dette superficie hanno il genere 3. Esse possono presentare due casi ben distinti, per cui le ripartirò in due gruppi. Su quelle del 1° gruppo, i piani delle coniche del fascio Z passano tutti per un punto, O, inviluppando un cono ellittico della 5 classe, di vertice O. Il punto O non sta su alcuna delle rette d,,4,,43, ed è per la F° un tacnodo; il piano singolare nel punto O è toccato, in O stesso, da tutte le coniche di X, ciascuna delle quali, poi, è appoggiata a ognuna delle rette d,,4:,43 in un punto variabile. Il piano di una conica # generica di ® sega ulteriormente la F° in una cubica piana ellittica tangente a f in O. Il tipo più generale si ha quando le 3 rette doppie sono distinte; esso trovasi accennato in: Castelnuovo, Sulle superficie algebriche le cui sezioni sono curve di genere tre. Atti Acc. Torino, 25 (1889-1890), pp. 697-715, nota 4* al n. 10; ed in: Sisam, Concerning Systems of Conics Lying on Cubic Quartie and Quintice Surfaces. Amer. Journal, 30 (1908), pp. 99-116, alla fine. Se ne può dare una generazione geometrica osservando che i coni qua- drici del fascio avente per generatrici base le rette 4,,4:,43, VO, segano (1) Pervenuta all'Accademia il 22 giugno 1912. (?) Ze superficie irrazionali di 5° ordine con infinite coniche. Rend. Lincei, (5) 15 (19063), pp. 284-286. LOI la F° (fuori di d,,d:,43) in coppie di coniche di X, per modo che tra i conì di un tal fascio e la varietà dei piani delle coniche di X si viene ad avere un riferimento algebrico (1, 2). Inoltre, è facile costruire una trasformazione cremoniana dello spazio che muti la F° in un cono cubico ellittico (!.asta considerare il sistema delle F4, di Steiner, aventi d,, 43,403 per rette doppie e contenenti una conica generica di X); sì vede allora che la rappresentazione biunivoca della F* sul cono cubico si fa con un sistema lineare 003, completo, di C° (bisecanti le generatrici del cono), avente un punto base doppio e 3 punti base semplici in posizione generica. 2. Sulle F° del 2° sruppo le coniche di X sono contenute, a coppie, nei piani di un fascio, il cui asse, 7, è una retta semplice della F* ('), appog- giata ad una delle tre rette doppie, es. d,; e tutte le coniche di X toccano 7 nel punto 0= rd,, sicchè ogni conica di 2 incontra in un punto variabile le rette d., dz, ed in un punto fisso la d,. Nel caso in cui delle rette d,, 4; nessuna sia infinitamente vicina alla d,, (caso di cui anche il Sisam dà un brevissimo cenno), il punto O è, per la F°, un punto triplo biplanare (il cono cubico ivi tangente alla F° contiene il piano rd, contato due volte), a cui è successivo, nella direzione 7, un punto triplo ordinario. Se una delle rette d.,d3 è infinitamente vicina a d,, si ha una F5 con una retta deppia tacnodale ed una nodale, e per la quale O è un punto triplo biplanare a cui è successiva una retta doppia infinitesima contenente, nella direzione 7, un nuovo punto triplo a cui è ancora successiva una retta doppia infinitesima. Se poi le rette 4, d3 sono entrambe successive alla d,, sì ha una F° con una retta doppia oscnodale; il punto O è ora un punto triplo biplanare a cui è successiva una retta doppia (infinitesima) cuspidale di 2 specie, contenente, nella direzione 7, un nuovo punto triplo biplanare, a cui succede un'ulteriore retta doppia infinitesima. Anche ora, osservando che il fascio dei coni quadrici passanti per d,,ds,43 e tangenti ad 7 in O sega sulla F° un fascio di linee tutte spez- zate in coppie di coniche di 2, si trae, per la F°, una generazione geome- trica mediante un riferimento algebrico (2,2) tra i coni quadrici del fascio suddetto ed i piani per 7. È pure facile, per ciascuno dei tre casi enumerati, la costruzione d'una trasformazione quadratica dello spazio che muti la F° in un cono cubico ellittico: su questo si trova allora, come immagine del sistema lineare delle sezioni piane di F°, un sistema lineare co 8, completo, di CS (bisecanti le generatrici del cono), avente un punto base doppio e tre punti base semplici, (1) Che si potrà perciò anche riguardare, volendo, come un caso speciale delle E del sig. De Franchis. SOIA di cui due sulla generatrice ulteriore comune al cono cubico ed al piano che lo tocca nel punto base doppio. 8. I sistemi lineari così ottenuti sul cono cubico rientrano tutti nel sistema 006 delle C° con un punto base doppio, A; sistema che, com'è noto, si può segare mediante le quadriche tangenti al cono in À. Ne segue che le F*, di cui ho dato la descrizione, hanno in comune la proprietà di esser proiezioni della F8 di S, rappresentata sul cono cubico ellittico dal sistema lineare anzidetto. Meccanica. — Sulla deformazione idrostatica degli scafi. Nota di U. CisoTTI, presentata dal Corrisp. 0. TEDONE ('). Le forze agenti sullo scafo di una nave liberamente galleggiante (oppure di un sottomarino totalmente immerso) in equilibrio in mare tranquillo, si riducono, com'è noto, al peso dello scafo (e dei corpi eventualmente su esso caricati) e alle pressioni idrostatiche superficiali. Queste forze costituiscono un sistema staticamente nullo: ad esse ri- mane però subordinata una deformazione dello scafo. Della entità di questa deformazione sono bene edotti gli architetti na- vali. Ed in vero, nell'assegnare le dimensioni e la struttura geometrica e materiale dello scafo di una nave, si ricorre ordinariamente ai criterî della meccanica applicata per avere indicazioni, per quanto è possibile più vicine alla realtà, circa il massimo cimento cui può venire sottoposto lo scafo, senza che questo abbia a perdere le qualità elastiche, e trovarsi, di conse- guenza, in pericolo di rottura (?). Non è pertanto da trascurarsi ogni contributo, per quanto modesto, atto a precisare vieppiù lo stato di deformazione idrostatica di un solide immerso in un liquido: sia parzialmente (nave) oppure anche totalmente (sottomarino). Per questa considerazione nutro fiducia che possano presentare qualche interesse le formule assai semplici che formano oggetto della presente Nota. Le formule in questione permettono di valutare il valor medio della contrazione cubica. Mi riferisco al caso di un solido omogeneo, anche mol- teplicemente connesso. Intendo, con ciò, che il solido può presentare nel suo interno quante vogliansi cavità. Sieno: S il volume del galleggiante (intendo dire lo spazio effettiva- mente riempito dal materiale); » l'abbassamento del suo centro di gravità (') Pervenuta all'Accademia il 22 giugno 1912. (*) Cfr. ad es. — mi limito ad accennare autori italiani — Scribanti, Lezioni sui calcoli relativi alla robustezza longitudinale degli scafi. Genova, tip. R. Ist. Sordomuti, 1903, pp. 14 e seg.; Russo, Manuale di architettura navale. Torino-Roma, Roux e Viarengo, 1905, pp. 32 e seg. METRO dalla sezione di affioramento; S' il volume d'acqua spostata; po la pressione atmosferica alla superficie libera; 9 l'accelerazione di gravità. Assunta eguale ad 1 la densità del liquido, il valor medio C della contrazione cubica del galleggiante è definito dalla formula assai semplice (I) c=g|m+o13 |. q designando una costante che dipende solo dalle qualità elastiche del gal- leggiante, e che nel caso di materiale isotropo è il noto coefficiente di com- pressibilità cubica. Se il solido ha delle cavità interne, nelle quali regni una pressione costante pari all'atmosfera po, la formula (I) continua a valere. Se il solido è completamente immerso, S' coincide con Z, designando con tale lettera lo spazio limitato dalla superticie esterna del solido. > coincide manifestamente con S quando il solido è privo di cavità. In caso opposto, chiamando S,, Ss, ... Sn le cavità interne, si ha ovviamente DISSE SA e la (I) dà, per gl scafi completamente immersi, la formula notevole (1°) C=9| pot gh (ì + n È La formula fondamentale (I), come vedremo, è una immediata conse- guenza del classico teorema di reciprocità di Betti. 1. Richiamo della formula di Betti. — Siano x,y, le coordinate di un generico punto di un corpo elastico omogeneo, le cui 21 costanti ela- stiche indicheremo, seguendo il Cesàro, colle lettere ASSIBRC.: FG rA eb Cee RISE: E, Gi, HG Ho; E GH3E Sia @ la densità del solido; S lo spazio da esso occupato e o la super- ficie (o il complesso delle superficie) che limita S. Designino: F la forza unitaria di massa; ® gli sforzi specifici distribuiti sopra o. Introduciamo il vettore s, le cui componenti sx, sy, s: sono definite dalle relazioni (| ss= 0x4 ny +4 me, (1) si na L by d- le, ss =Mmx + lYy+ CE 4 En) pes essendo a,d,c,l,m,n costanti determinate dal seguente sistema di equa- zioni lineari: | Aa+C% +B'e=—- 1, Ca + Bb + A'e=— 1, Ba+A5+Cc=—-1, F/+Hm+Gn=—34(aF +0F,+cF.), H+ Gm + Fa=—4(aG, + 6G. + cG3), GI+Fm+Hnax=—+4(cH, +4 dH. + cH;). (2) ®© essendo il coefficiente di dilatazione cubica, si ha, dopo ciò, la for- mula (*) (3) — (04s= (epxsds+ fwxsdo. Questa formula, dovuta a Betti, fa conoscere la contrazione totale del solido elastico, quando siano note le forze esterne. 2. Deformazione idrostatica. — Immaginiamo, per maggior generalità, che lo spazio S, occupato dal solido elastico, sia molteplicemente connesso. In modo preciso entro lo spazio limitato dalla superficie esterna o di S, vi siano 7 cavità S, , S»,... Sn, limitate alla lor volta da altrettante super- ficie chiuse 0,0», ...[0,, di guisa che si ha SSL LS SR Immaginiamo ancora il solido galleggiante sopra un liquido omogeneo di densità unitaria, e il tutto in equilibrio. Designi 2 la quota di un generico punto, contata positivamente verso il basso a partire dal baricentro P, di S. Detta p la pressione in un generico punto del liquido, p, la pressione atmosferica, — % la quota della sezione di affioramento, abbiamo, come è ben noto, (4) p=p+g(6+1), 9g essendo l'accelerazione della gravità. Diciamo o’ la porzione di o immersa nell'acqua, e o” quella a contatto coll’aria atmosferica. Tanto o' quanto o” sono soggette, in ogni lor punto, a pressioni normali: quest'ultima con un'intensità uniforme po, l’altra con una intensità la cui legge di variazione è definita da (4). (1) Cfr. ad es. Cesàro, /ntroduzione alla teoria matematica della elasticità. Torino, Bocca, 1894, pag. 46. Ammettiamo che, nelle eventuali cavità S,, Sa, ... Sn, regni una pres- sione costante po . Notiamo infine che le forze di massa agenti sul solido si riducono ai pesi dei singoli suoi elementi: pertanto la forza di massa unitaria è g. Ciò posto, se si indica con n il vettore unitario normale, in un gene- rico punto, alle superficie che limitano S, diretto verso l'interno di S, si ottiene, applicando la (3) al caso nostro, (6) — f@dS=0 (ex5484 fpux sd + + Do {mxsdo"+pd, | nXsdo;. / gII I / Gi Si noti ora che, per le (1), gXs=gs=g(mra+lrytcrz), avendo indicato con r il vettore P— Pi, e corrispondentemente con 7,= x, ry=yY,Tz= #8 le sue componenti rispetto ad una terna di assi coll'origine in P, e avente per terzo asse la verticale discendente. Si tenga inoltre presente la identità (7) If rds=0. Risulta allora, identicamente, (8) fexs48=9 [(mre+0y4 er) 8=0. D'altro canto, per la (4), si ha (0% X sdo' = po fax 5 do' +9 [e+anxsd:; ovvero, poichè sulla sezione di affioramento è z = — 7), potremo scrivere, chiamando 7 questa sezione, (9) fronxsdo=p (mxsd+g f (C+ 2)nXsdo. Ciò posto, per le (8) e (9), la (6) diviene — (048=» | nX 84049 f. (+ i) nXsdo. /G+04+09+-**+0n Si noti che 0,0,,0,..0, costituiscono il contorno completo di S, e che COLO o' e t limitano il volume S' del liquido spostato. Avremo dunque, appli- cando il teorema della divergenza a ciascuno dei due integrali del secondo membro, e tenendo presenti (1) e (7), nXsdo=— idivsdS$S=—(a+d5+c)S, G+G1+Ga+"+0n il (+A)nXsdo= — | div[(£ +4)s]dS'=—(a+0+c)4S. Sostituendo, si otterrà — f@418=—(2+3+ 0) (084918). Dividendo ambo i membri per S e ponendo 1 (19) c=—j[048, —q=c+0+c, con che C designa il valor medio della contrazione cubica, si ha in defi- nitiva S' (11) =i|p+o al che è la formula che si voleva dimostrare. Matematica. — Sopra un’ estensione del teorema di Riesa- Fisher. Nota II del dott. Lurei Amoroso, presentata dal Corrispon- dente G. LAURICELLA. 4. Dal teorema dimostrato nella nostra Nota precedente, vogliamo trarre alcune conseguenze di cui vedremo l’importanza per l'applicazione alla risoluzione di un nuovo tipo di equazioni integrali. Sia data una funzione H($,), reale e simmetrica delle due variabili 1 reali £, x; tale che l'integrale, in senso di Lebesgue If (H(£, x))? risulti 0 una funzione di «, finita e continua inferiore ad un numero finito M, in tutto il campo 0=x =1. Supponiamo inoltre che H(£,x) costituisca un nucleo quasi definito: con ciò intendiamo che l'integrale doppio SJ H(£, x) dt dx non risulti negativo, qualunque sia la funzione p($), purchè sommabile, in- sieme col suo quadrato, in senso di Lebesgue nell'intervallo (01). RenpiconTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 6 RE gol Se allora diciamo 4,,4s,... i valori eccezionali del nucleo H(£, x); D(x), D.(x),... le funzioni eccezionali corrispondenti in modo che si abbia ®,(x) + n {00 Go) eso, le costanti Z,,4s,... sono tutte negative (1): esse si possono ordinare in una serie procedente secondo l'ordine crescente dei loro valori assoluti: e ciò supposto, se, come avviene in generale, esse sono in numero infinito, la successione 4, , 42, ...,4n;-. tende, al crescere di 2, al limite — co. Supponiamo ancora che sia data una funzione 0($) integrabile insieme al suo quadrato in senso di Lebesgue nell'intervallo (01) ed una funzione y(é , t) finita e continua senza eccezione, rispetto alla coppia di variabili @,% per0i=*2 == Supponiamo scelto il numero M così grande che si abbia Ere 4, deri- vabili rispetto a /, colle derivate Q7,(7) finite e continue per {> o. Oggetto di questa Nota II è di mostrare che esiste una funzione v(,4), finita e continua, senza eccezione, rispetto alla coppia di variabili 4,4, v = essendo cl per 0=z<1,%=t; derivabile rispetto a # (la derivata una funzione integrabile parzialmente rispetto ad x, in senso di Lebesgue, (3) Infatti si ha Va) ] 1 1 f f PE) #2) H(E o) dede=—2 | (G(0)dE=—-25. 20/0 S0 da cui, poichè il nucleo H(éÉ,) è quasi definito segue: 45.= 0. Ma Z6=0 non può essere, perchè si avrebbe allora Pa) =0, onde è Ro <0. nidi nell'intervallo (01), qualunque sia # = #), che verifica le equazioni: fonte) va, 0) de = Qn(t) , {lle DI de = Y (Q( i)? ELICAR OE di | On(a) ==20) del 0() TEZZE 00 la serie > (Q,())® essendo convergente uniformemente per {= /o. n=l 5. Lemma II. Za serze 0 (14) > Dn(x) Qu(1) n=l converge assolutamente ed uniformemente rispetto alla coppia di variabili E cU SP VO = IA Si ha infatti dalla (12), ricordando che ®,(x), ®.(x),... sono le fun- zioni eccezionali al nucleo H(é, x) dia =| I ‘9(5) ®.(7) H(E n) de dn = 15 0(è) ®,(£) dé. D'altra parte applicando il teorema del valor medio, detto #* un valore in- termedio fra 4, e t, si ha: ta) eo) 10) fe Beat —B.(1)= 1 An(t_to) I | I y(E,1*) ®,(£) dé. Dalla (13), tenendo presente le (15), (16) si ha quindi: D(0) Qu = Pe + (2 a D,(È) di + 1 An(t—to) i +2) [0 0) 02 = e" (Dm) HM,2) di [ 00) 08) + An(t—to) +e non 4 LE, gg da cui segue, tenuto conto che le 4, sono negative e si considerano solo valori di {=> o 10,(0) (1 <|f 08,2) | 060,18) #|+ +|fo.MH 0a [Me]. Ma allora, secondo una formula ben nota di E. Schmidt ('), si ha 3 foMmHm, 2) )an f 0 O.( (8) de = Co) N == = da TH. 0)} a | 00) de =M = x(n) H(m, ©) an f IE 1°) D,(8) dé|= SA Ukyo217 Di [y(E, )] de = M Ciò porta, come conseguenza: > |0,(7) Qu] <4M e>e (1) Cfr. E. Schmidt, Entwicklung willkrlicher Funktionen nach Systemen vor- geschriebener. Math. Ann., Bd. LXIII. Sia Q(z,2) una funzione reale delle variabili reali 2,0 pera =x =b,a0=z=}, integrabile parzialmente rispetto ad < nell'intervallo ad, insieme al suo quadrato Q*(z,%): f(&) una funzione integrabile insieme al suo quadrato nello stesso intervallo. Siano inoltre wi), ws(7),... una successione infinita di funzioni normali ortogonali nello stesso inter- vallo. Si ha allora (loc. cit., $ 2) la formula seguente: 00 b ò S si /) o) dy il OE, aule) de |< Va —=—_—_
(Q,(4)?. D (Q;(1)? convergono unifor- n=1 n= ta! memente per tutti i valori di t=> ty. Si ha infatti, sostituendo nell'espressione (13) i valori di AxBn(6) tratti dalle (15), (16) n(t—-to) nl T) gelo 4 B,(t) dv = In(ttto) i Re to) =] Mn f16.M00e, n 70 da cui segue, tenuto conto che le 4, sono quantità negative e si considerano valori di {=> [An Q())= | INCO, ®,.(£) a Li | NET 2) 2.) as| e quindi de =2( IRCOLAGTAEE | f VE. 0) D(8) de), da cui, per la disuguaglianza di Schwartz, tenuto conto che le ®,(x) sono normali e ortogonali Vao=2f rete forever. e da questa disuguaglianza, tenendo conto che le 4, crescono indefinitamente in valore assoluto, discende a fortiori la convergenza della serie S (Q,(0)?. n=0 Passiamo alla serie delle derivate: otteniamo, dalla (13) Ei, o) VE, 0) DE) de, e conseguentemente: HQ = AGO + (| 16,000 4), da cui, tenuto conto della disuguaglianza precedente, si raccoglie INZE _(Q(0))? = AM + J (y(£ , 0)? de = 5M, DI Il Li n ovvero > (GG) = 10M t=> to disuguaglianza, che prova che la serie DI (Q:())? converge uniformemente Perta=N- di 7. Corollario. Siccome la serie > (Q/())? converge uniformemente per t= t,, ne segue, secondo il teorema dimostrato nella nostra Nota I (!), che è possibile determinare dei numeri interi, positivi e crescenti, Mi, Ma, 33... tali che posto: (17) Sm(e, 4) = Di(x) Qi(4) + Po(4) Q(49 + + Qm(e) Qu(0) la serie: (18) Su, (& , t) + (Sp. (£ ’ t) pra Sp, (£ ’ t) + Dod sta convergente uniformemente in generale rispetto ad x per 0=«=1, ed uniformemente rispetto a t per t = t, (nel senso spiegato al n. 1 della Nota I). 8. I numeri w,,,... essendo quelli stessi indicati or ora, formiamo le espressioni (19) Rm(& , 0) = Di(2) Qi(49)+ Do(2) Qe(0) 4 + Dr(€) Qn(6) dRm(£ , 8) dI uniforme della serie (14) discende che anche la serie: (20) Ru, (x ,6) + (Ru,(4,6) Ru@, 5) + Sarà evidentemente S,(x , {)= . Dalla convergenza assoluta ed converge assolutamente ed uniformemente per 0O %, i valori di x cor- rispondenti ai punti di un insieme di misura nulla, discende senza altro: f0,() v(x, t) de = Qn(6) "N Dn 2 = eli de = Qn(0) mie e quindi, successivamente fe, 0Fd= Sr. Risulta così dimostrato il seguente: Teorema II. — Date le funzioni D(x), De(x),... normali ed or- togonali nell'intervallo (01), e le funzioni Qi(t), Qe(t),... definite dalle formule (13) secondo quanto è stato indicato al n. 4, la serie > ®,(2)Q.(1) converge assolutamente ed uniformemente per O0=x=<=1,t, = verso una funzione v(x ,t) finita e continua, senza eccezione per 0=x=<1, to =t, derivabile rispetto a t (la derivata essendo una funzione integra- bile în senso di Lebesgue nel campo 01, per t= ty), per la quale si ha: Set sOtdz= S (Q(0)* K ®,(2) (2,1) do =Qu(6) WIE m=1,2, Ci proponiamo di mostrare tra breve quale importante applicazione possa trarsi dal risultato così stabilito. Matematica applicata. — Della volgarizzazione ed appli cazione della Fisicamatematica in medicina ('). Nota del prof. S. SA- LAGHI, presentata dal Socio S. PINCHERLE. Negli ultimi anni mi sono occupato attivamente della volgarizzazione della Fisicamatematica ad uso dei medici. I risultati che ne ho ottenuto meritano, a mio avviso, di essere conosciuti dai cultori delle matematiche. L’opera fu rivolta alle applicazioni dell'idrodinamica alla circolazione del sangue (emodinamica). In questa materia fino ad ora dominava non poca confusione tra i medici. E la confusione si era recentemente accresciuta per un fatto, pel quale io dovetti intervenire anche per mezzo della stampa. Ecco in breve di che si tratta. Da varî anni si era andato avviando in Germania un largo movimento scientifico intorno ai problemi attinenti all’emodinamica. V'era un crescendo continno di pubblicazioni, come suole avvenire là quando dei temi importanti sono proposti allo studio, per quell’istinto di benevola cooperazione che è proprio della razza. Senonchè io ebbi ad accorgermi che laggiù i medici, nel fare largo uso della matematica, seguivano più la tecnica ed il formalismo che non il vero spirito di questa scienza: e giungevano così a risultati per nulla attendibili. Questi, essendo divulgati da clinici autorevoli, si erano infiltrati nella massa dei medici, avevano già invaso la scuola. Per por fine a questo stato di cose, il mezzo migliore era di far cono- scere ai medici, in termini volgari, i principî dell’idrodinamica. Ciò non può essere fatto da un matematico o da un fisico, perchè ignari della dottrina e della letteratura medica; può invece esser fatto da un medico, il quale sia istruito in matematica superiore ed in idrodinamica. Avendo compiuto gli studî necessarî in riguardo, ho creduto opportuno di intraprendere io stesso l'opera di volgarizzazione. Ho pubblicato un com- pendio di idrodinamica, facendone l'applicazione al circolo sanguigno (*). (*) Lavoro fatto nel Laboratorio di Terapia fisica della R. Università di Bologna. Pervenuto all'Accademia il 18 giugno 1912. (*) S. Salaghi, Errori odierni di Emodinamica. Rivista critica di clinica medica, 1908, n. 3. Vi è compreso un compendio di idrodinamica volgarizzata ad uso dei medici. Idem, Dello stato presente dell'Emodinamica (Rivista sintetica e critica). Auto- riassunti e Riviste di lavori italiani di Medicina interna, 1911, n. 6. Vi è compreso un complemento al precedente compendio di idrodinamica. | | | ] On Ho reso la materia in forma piana, perchè fosse compresa dai medici. Met- tendola poi in relazione cogli studî odierni, ho fatto vedere quali fossero i punti incriminabili. Nel lavoro di volgarizzazione mi sono fondato principalmente sui seguenti dati teorici, applicandoli alla circolazione del sangue. I. Per mostrare la relazione tra la forza motrice del cuore, la pressione sanguigna che si riscontra nelle grosse arterie a monte delle resistenze del circolo e la velocità della corrente nelle arterie stesse si è fatto uso della equazione 2 Vel 1) H=ePtdg, II. Se in una arteria viene disturbato il corso del sangue, allora, mentre vi diminuisce la velocità della corrente, una corrispondente quantità della forza viva che aveva la corrente medesima si converte in pressione (contin- gente cinetico della pressione). Questo si desume dalla equazione (1), se rimane costante il carico totale H. III. Ad illustrare i fenomeni del moto perturbato, il quale si propaga agli strati retrostanti della vena fluida dando luogo ad aumenti di pressione, furono utilizzati gli studî teorici dell'ing. Allievi ('). Per il colpo di ariete semplice, determinato dalla chiusura completa di un tubo, egli dà per il carico massimo H la formula @) Hosekoo in cui y, € ® sono rispettivamente il carico e la velocità prima della per- turbazione; a è la velocità di propagazione dell'onda. Nelle arterie la velo- cità di propagazione dell'onda è in media da 8 a 9 metri al secondo. IV. Colla scorta di queste e d’altre nozioni elementari della meccanica dei liquidi ho riveduto e sottoposto alla critica gli studî odierni di emodi- namica. Mi sono fermato principalmente su quelli, i cui risultati hanno già avuto una attuazione nella pratica clinica, perchè, se errori vi fossero, questi più facilmente verrebbero a diffondersi nella massa dei medici. La parte molto sviluppata a tal riguardo è quella che si riferisce alla pressione del sangue nelle arterie. La determinazione della pressione arte- riosa, mentre negli animali si fa in modo diretto, senza alterare la corrente sanguigna, mettendo un manometro in comunicazione coll’ interno di un'arteria, nell'uomo si fa per via indiretta, naturalmente incruenta (misura clinica della pressione). Attraverso le carni viene compressa una grossa arteria, fino a che (*) Allievi, Z'Aéorie générale du mouvement varié de l’eau dans les tuyaua. Revue de Mécanique, janvier et mars, 1904. RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 7 ite nel tratto a valle del punto compresso scompaia il polso. Lo sfigmomano- metro clinico più usato è quello di Riva-Rocci. Consiste in un largo tubo di gomma elastica che è avvolto ad un braccio a guisa di bracciale pneu- matico ed è in comunicazione con un manometro. Lo si gonfia mediante insufflatore, e si osserva nella colonna manometrica il grado della contropres- sione esterna occorrente per chiudere l'arteria del braccio (l’omerale), ciò che corrisponderebbe al grado della così detta pressione massima. L' indi- cazione dell’ istrumento, oltre al carico di pressione preesistente, contiene un contingente cinetico di pressione derivato dalla trasformazione della forza viva in pressione all’ inceppamento che avviene della corrente nell'arteria (*). V. A meglio determinare la parte spettante al contingente cinetico di pressione nella misura clinica della pressione arteriosa, bisognava tener conto altresì delle condizioni speciali della circolazione sanguigna. Nelle arterie la corrente è continua con rinforzi periodici, secondo il ritmo delle pulsazioni del cuore. La pressione e la velocità presentano un elemento costante ed un elemento variabile. Quanto all'elemento variabile, per mostrare il rapporto che passa tra la curva della pressione e quella della velocità, in tubi elastici come sono le arterie, ho fatto uso della relazione differenziale (3) Co, pipe PI) dI dove - i - indicano rispettivamente le derivate parziali della pressione p e della velocità v rispetto al tempo /; A e B delle costanti dipendenti dal raggio e dalla elasticità del tubo, dall’attrito e dal peso specifico del liquido. (*) L’errore fondamentale ed il più diffuso della Scuola tedesca è stato di credere che col solo dato della pressione, fornito dal detto sfimmomanometro applicato al braccio, possa valutarsi la velocità della corrente nelle arterie, ossia, in linguaggio medico, fare la diagnosi funzionale della circolazione, riconoscerne lo stato buono o deficiente. Se- condo i sani principî, loro avrebbero dovuto al contrario dedurre la velocità dal carico di velocità, come io a suo tempo feci notare (loco citato) e posteriormente mostrai col- l'esempio per mezzo di un nuovo istrumento, lo sfismodinamometro (Il Policlinico, sez. medica, 1909, n. 3). Intanto quel concetto erroneo ebbe in Germania, pel corso di parecchî anni, un ampio svolgimento in ogni lato, e via via fino all'applicazione nella pratica corrente. Diede luogo alla costruzione di appositi istrumenti, a diversi metodi per la verifica negli infermi; a ricerche sperimentali e in animali ed in tubi elastici; ad elucubrazioni mate- matiche ed a formule pratiche per l'esercizio medico. Pu propugnato da moltissimi scrit- tori. In breve può dirsi che avesse invaso l’intera Scuola. Era diventato un tema di moda. Dopo la nostra critica, cessò d’un tratto il movimento in quella direzione. Si avviò invece verso la parte da me indicata: verso al carico di velocità. Ma anche qui ebbero a verificarsi altre inesattezze; ed io dovetti intervenire una seconda volta colla cri- tica (Nuovi e più gravi errori di Emodinamica in Germania. Rivista critica di Clinica medica, 1909, n. 41). ee A detta relazione sì giunge dopo aver considerato il movimento di un liquido in tubi elastici ed avere applicato la serie di Fourier per le funzioni perio- diche. Con essa si dimostra che il massimo della velocità precede di un tempuscolo il massimo della pressione. Ciò fu pure riscontrato sperimental- mente negli animali. L'analisi dì questa relazione differenziale, coll’aiuto di una rappresentazione grafica, è riuscita facile ed intelligibile aì medici al pari di una qualunque operazione elementare, poichè non vera che da por mente come varino le funzioni a seconda del segno delle loro derivate ('). Questo esempio serve a far vedere come talvolta dei risultati importanti di analisi infinitesimale potrebbero essere volgarizzati a profitto dei non matema- tici. La teoria ci dice poì che î massimi delle due funzioni coinciderebbero, se in quella relazione differenziale mancasse il termine relativo al coefficiente di attrito. Il leggiero ritardo che si osserva nel massimo della pressione rappresenta il tempo che impiega la forza viva a portare il suo contributo sotto forma di pressione in rapporto alle resistenze. Il nostro contingente cinetico di pressione, che è di uguale provenienza, seguirà pertanto non la curva della velocità, sibbene quella della pressione. Sicchè nella cifra della così detta pressione massima fornita dagli sfigmomanometri clinici — la quale comprende l'elemento costante e l'elemento variabile della pressione — insieme col massimo della pressione preesistente è contenuto pure il massimo del contingente cinetico di pressione derivato dall'ostacolo frapposto dall’istru- mento al corso del sangue. Vera un'altra condizione a considerare, e cioè che la velocità della corrente sanguigna è variabilissima. Varia soprattutto in eccesso, come nel- l'esercizio muscolare, in malattie febbrili, negli stati emotivi, ecc. Talora può sorpassare perfino di 3-4 volte la velocità ordinaria. Ora per la formula vè (4) 0= gg la forza viva cresce in ragione diretta del quadrato della velocità. Corri- spondentemente aumenta il contingente cinetico di pressione, quando il moto della vena fluida è perturbato, di modo che il suo valore, nella misura cli- nica della pressione, è molto variabile secondo lo stato della circolazione negli infermi (?). (1) S. Salaghi, Z’energie cinétique du courant sanguin et son importance dans les données sphygmomanométriques d’après la théorie du mouvement des liquides. Archives générales de Meédecine, 1907, n. 7. (3) Un altro errore comune ai lavori odierni di emodinamica dei quali fu parola, è di ritenere che nella cifra della pressione rilevata cogli sfigmomanometri clinici sia trascurabile il contributo del carico di velocità, e che quindi il valore ottenuto possa considerarsi come espressione del solo carico preesistente di pressione. Si è creduto di poterlo dedurre dalla formula di Torricelli (equaz. 4). Data la non eccessiva velocità ZIONE L'opera compiuta in questo Laboratorio di Terapia fisica, che è l’unico esistente in Italia, segna un avanzamento della Fisicamatematica nel campo della medicina. Se io, da solo, ho potuto far argine all'intera Scuola tedesca, e se fa- cilmente ne ho avuto ragione, lo devo unicamente agli studî che avevo fatto in quella disciplina. Coll'avere volgarizzato la teoria del moto dei liquidi ad uso dei medici ho altresì provveduto affinchè in avvenire non abbiano più a ripetersi simili traviamenti. Il mio esempio ha già dato buoni frutti in Italia. Il lavoro di volga- rizzazione, da me iniziato, dell'idrodinamica viene ora proseguito dal dott. Morandi nella Clinica medica di Torino, diretta dal senatore professore C. Bozzolo (*). Elettrotecnica. — etica. — (Studio critico sulla teoria del Poynting). Nota dell’ing. 0. Fossa-MANCINI, presentata dal Socio PAPIZzE nni Nel mio Studio critico sulla teoria del Poynting, $ 4. pag. 13, dopo aver dimostrato che il vettore di Poynting risulta dalla somma del vettore cinetico, col vettore statico, diceva che, per tener conto di questo fatto, era necessario aggiungere alla formola del Poynting un termine correttivo. Ciò non è esatto, perchè in verità detta formola non richiede alcuna modifica- zione, sempre che si conservi la distinzione tra il vettore cinetico ed il vet- tore statico. Questa rettifica non modifica affatto le conclusioni finali alle quali si giunge nella predetta Memoria. della corrente arteriosa — a circolazione tranquilla è di circa cm. 50 al secondo nel principio dell’aorta —- il valore manometrico della forza viva sarebbe scarso. Ma, come io feci notare, la formula di Torricelli dà teoricamente il valore della pressione che eser- citerebbe l’unità di volume della massa liquida in movimento contro una superficie che non opponga nessun impedimento al suo corso. Siffatta condizione qui non si verifica, perchè anzi il movimento viene molto inceppato per effetto dell’applicazione stessa dello istrumento. Ed è appunto ciò che dà luogo al contingente cinetico di pressione, che fu da me fatto rilevare e studiato colla scorta della teoria. (*) E. Morandi, Appunti di Emodinamica. Rivista critica di Clinica medica, 1912, n. 21. (3) Pervenuta all'Accademia il 5 luglio 1902. Fisica. — Sulle forze termomagnetiche dei metalli (*). Nota del dott. P. SENEPA, presentata dal Socio P. BLASERNA (°). 1. Il prof. Corbino (*) ha recentemente osservato che un disco di Bismuto, sospeso verticalmente tra le facce polari di un elettromagnete, quando venga riscaldato al centro od alla periferia, tende a disporsi parallelamente o nor- malmente alla direzione del campo. La coppia che si desta è massima allorchè il disco è a 45° dalle linee di forza. La spiegazione del fenomeno è immediata, ricorrendo alla teoria elet- tronica della conducibilità dei metalli. Se ammettiamo, con Drude, che il numero N,,N; delle due specie di ionì (ioni positivi, ionì negativi) presente in ogni cm? sia funzione della temperatura, ne deriverà per essi una differenza di concentrazione tra punti del metallo a temperatura differente. Effetto di ciò sarà una migrazione di ioni in un determinato senso e, se il metallo è isolato, si genereranno in esso (a cagione della carica che lo ione trascina seco) forze elettriche capaci di modificare una ulteriore diffusione di essi. A questa migrazione è dovuto il fenomeno termomagnetico osservato. E difatti questa diffusione nel senso radiale si modificherà sotto l’azione del campo magnetico, in modo che gli ioni descriveranno delle spirali anzichè delle traiettorie rettilinee; ne ri- sulta che il disco presenterà proprietà analoghe a quelle di una lamina ma- gnetica, e quindi dal campo subirà forze orientatrici. Il prof. Corbino potè così dimostrare che il disco metallico, riscaldato al centro, possiede una certa energia di posizione nel campo, data dalla formula des 2 Aaa? W_-_UQSH? cosa, dove U è un coefficiente caratteristico del metallo, Q la quantità di calore fluente dal centro, S la superficie del disco, H l'intensità del campo, e @ l'angolo formato da questo con la normale al disco. Ne risulta una coppia, massima per a = 45° ed uguale a En ggsH? : 87 (!) Lavoro eseguito nell'Istituto Fisico della R. Università di Roma. (?) Pervenuta all'Accademia il 25 giugno 1912. (*) Rend. Lincei, 1911, pag. 569. MIA Quanto al coefficiente U, esso è esprimibile con le costanti caratteri- stiche del metallo introdotte da Drude. Si può dare un'altra espressione per M, prendendo in considerazione, invece del flusso calorifico totale Q, la differenza di temperatura T, — Tx fra il cerchietto centrale a temperatura costante T, e la periferia a tempe- ratura Tx. Risulta così (1) M=m(T,—T.)A?, dove o, N KUS ilo SD R indicando con % lo spessore del disco, con R, il raggio del cerchietto interno a temperatura costante e con K la conducibilità termica. Mi son proposto nelle presenti ricerche: a) di dimostrare sperimentalmente la validità della formula (1) per diversi valori del campo e della differenza di temperatura fra il centro e la periferia, in un disco di Bismuto di date dimensioni, determinando il coeffi- ciente m, che rappresenta il valore della coppia che si desta sopra il disco cimentato. quando questo sì trovi immerso in un campo unitario con la dif- ferenza di temperatura di 1 grado fra cerchio centrale e periferia; b) di determinare, a pari condizioni, l'entità della coppia termoma- gnetica per altri materiali che la subiscono in misura sensibile. 2. Disposizione generale delle esperienze. — Un disco di Bismuto di cm. 4,57 di diametro e cm. 0,2 di spessore, annerito al centro con un cer- chietto di cm. 0,53 di diametro, fu verticalmente sospeso ad un filo di ottone, tra i poli di un elettromagnete Weiss, con facce polari piane di 10 cm. di diametro poste alla distanza di 5 cm. Per evitare la perturba- zione dovuta alle correnti d'aria, il disco venne rinchiuso in un cubetto di cartone, munito di un foro superiore, per dare libero passaggio al filo di sospensione, e di vetrino anteriore per permettere il riscaldamento. Questo veniva prodotto proiettando, sul cerchietto annerito, l’immagine del cratere di una lampada ad arco Zeiss a corrente continua. Il filo di sospensione era assicurato superiormente ad una ghiera gire- vole, munita di specchio per valutare, mediante cannocchiale e scala, le tor- sioni date al capo superiore del filo. Un altro specchio, rigidamente connesso al disco, serviva alla valutazione delle deviazioni prodotte per le forze termo- magnetiche. L'esperienza era così condotta: Disposto il disco di Bismuto a 45° dalle linee di forza del campo, si produceva il riscaldamento centrale, valutando con un dispositivo termoelettrico, che verrà descritto in seguito, la differenza di temperatura T. — Tx fra centro e periferia. Eccitato il campo, nei due sensi, si leggeva alla scala la deviazione dovuta al fenomeno termomagne- tico. In ultimo si rideterminava, a campo nullo, la differenza T, — Tr. La doppia valutazione dell'effetto, col campo nei due sensi, sì faceva per poter discriminare il fenomeno termomagnetico da qualsiasi altro di na- tura termoelettrica, derivante da eventuali dissimmetrie nel disco; giacchè, mentre il fenomeno Corbino è proporzionale al quadrato del campo, e quindi non si inverte alla sua inversione, qualunque effetto di origine termoelettrica, essendo proporzionale al campo, s inverte con esso. Le esperienze si facevano durare circa 15 minuti per permettere al disco di raggiungere lo stato di regime termico. Usando la lampada Zeiss, le oscil- lazioni inevitabili di T, e Tx non superavano il 3 °/. 3. Misura della coppia. — Per la misura della coppia M, le devia- zioni osservate si confrontavano con quelle prodotte da determinate rotazioni del capo superiore del filo. A tale scopo si ricercò, a disco freddo e con campi di varia intensità, quale rotazione + occorreva produrre sul capo su- periore del filo, per originare nel disco lo stesso spostamento angolare, osser- vato per il fenomeno termomagnetico. Così facendo, non occorre conoscere il valore della energica coppia antagonista dovuta al diamagnetismo, la quale potrebbe anche non esser costante nelle diverse posizioni del disco. Il valore assoluto della coppia torcente e, dovuta alla rotazione di 1 grado della testa del filo, fu determinato col metodo di oscillazione, sostituendo al disco una sfera di momento d'inerzia conosciuto. Per il filo d’ottone adoperato ottenni, prendendo come unità d'angolo il grado, e= 1,05 dine-centimetro. 4. Misura della differenza di temperatura fra centro e periferia. — Per misurare la differenza di temperatura T, — Tx si fece uso della coppia termoelettrica Rame-Bismuto del disco, saldando, uno al centro e uno alla periferia, due filini di rame che potevano venir messi in comunicazione con un galvanometro Hartmann-Braun. Per la taratura di questa coppia Rame - Bismuto fu necessario ricorrere ad una coppia ausiliaria Rame-Argentana; questa, i cui filini avevano la lunghezza complessiva di 60 cm e un dia- metro di 0,1 mm, fu tarata a parte, creando differenze note di temperatura alle saldature e leggendo le corrispondenti deviazioni al galvanometro. Per passare alla taratura della coppia Rame-Bismuto, si fece uso della disposizione schematicamente rappresentata nella figura qui retro, B è il disco di Bismuto cui son saldati i filini A A' di argentana ed RR' di Rame. Le due saldature {# delle coppie AR. A"R' si facevano pescare separa- tamente in recipienti pieni d’acqua, alla temperatura dell'ambiente, control- lata con opportuni termometri. Le coppie AR, A"R' erano state antecedentemente campionate. Si dispose allora avanti al centro del disco una spiralina di Platino, resa incandescente dalla corrente, per produrre differenze di temperatura variabili fra centro e periferia. Rilegando al galvanometro i fili EF, si deduceva la temperatura T, al centro; rilegando invece i fili CD, si aveva la temperatura Tx alla periferia. Bastava allora connettere al galvanometro i fili CE, per avere la campionatura della coppia Rame-Bismuto in corrispondenza delle temperature note T,, Tx. Tutte queste operazioni, come è bene evidente, poterono essere eseguite prima di disporre il disco tra i poli dell'elettromagnete. Tarata così la coppia Rame-Bismuto, fu possibile misurare la differenza di temperatura T, — Tr durante le esperienze termomagnetiche. Si ricorse, per questo, alla disposizione seguente: La pinza di sospensione del disco passava attraverso ad una piastra di legno forata nel mezzo. Questa, provvista di due canaletti circolari concen- trici, ripieni di Mercurio, serviva per raccogliere la corrente termoelettrica quando, mediante apposito montante, innalzando la piastra, si faceva in modo che i filini RR’, assicurati alla pinza e opportunamente ripiegati, venissero a pescare nel Mercurio. Con questa disposizione fu possibile di lasciare il disco di Bismuto completamente libero di ruotare durante la misura della coppia termomagnetica, potendosi subito dopo procedere alla determinazione di To — Tx a campo nullo. o. Risultati. — Il seguente prospetto riassume i risultati, con il cal- colo finale del coefficiente #2, avvertendo che il simbolo 4 è la media delle deviazioni dovute al fenomeno termomagnetico, cui corrisponde l'angolo 4 di rotazione dell'estremo superiore del filo, capace di produrre la medesima rotazione del disco per lo stesso valore del campo. Intensità del campo T,—T, d 99 10°m 1500 6,6 140 2° 141 9,4 182 20,40" 133 16,9 297 49,20” 29, 1600 6,4 148 90,15! 145 9,7 231 3°,283' 147 15,8 355 5°,16' 144 1800 6,6 200 29,56' 145 9,7 297 {OA 146 15,9 455 69.38" 144 2000 6,9 237 39,26" 140 10,9 402 550! 143 Il valore della coppia #m, precedentemente definita, risulta così sensi- bilmente costante, com'è richiesto dalla teoria, ed uguale in media a 140 .10-? dine-centimetro per un disco di Bismuto delle dimensioni date, con una superficie centrale annerita corrispondente a quella di un cerchio di cm. 0,53 di diametro. 6. Per avere un'idea dell'entità del fenomeno con gli altri metalli che lo manifestano, si procedette a misure relative prendendo come corpo di riferimento il Bismuto. I materiali cimentati furono: Bismuto — Artimonio — lega Bismuto- Piombo a 66,6%, — lega Bismuto-Piombo a 50%. Per avere risultati comparabili tra di loro bisogna operare (presi i dischi tutti con le stesse dimensioni) sotto l'azione di campi uguali, in condizioni identiche di riscaldamento. Per soddisfare a quest’ultima condi- zione, è necessario ricorrere ad una sorgente di calore la quale si mantenga costante durante il seguito delle esperienze. La luce solare, nelle ore pros- sime al mezzogiorno, si mostrò adatta allo scopo; una lente concentrava i raggi, inviati da un eliostata, sul centro annerito dei dischi. In tali condi- zioni, quando il fascio di raggi si faccia cadere per intero nell'interno del cerchietto annerito, si è sicuri che la quantità di calore, fluente dal centro è la stessa per tutti i dischi. La tabella seguente, accanto alle ottenute deviazioni con specchio e scala per i diversi materiali usati, contiene il valore della coppia termo- magnetica riferita a quella che subisce il Bismuto: Campo 1620 Campo 1830 Effetto relativo Bismuto, ee Rei 18260 380 1 AIGIMO NOR 18 0,054 Bismuto-Piombo 66.6°/, . 15 19 0,057 Bismuto-Piombo 50 °/,. . 11 16 0,045 RenpICONTI, 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 8 «o Osserviamo che i numeri dell'ultima colonna non rappresentano i valori relativi di 72, ma quelli del coefficiente U della teoria data dal prof. Corbino; questo coefficiente, come egli ebbe a dimostrare, è proporzionale alla devia- zione dalla legge di Wiedemann e Franz, alla conducibilità elettrica e al coefficiente P_del fenomeno Ettingshausen (effetto termico) relativi al metallo. Coi dati già esistenti nella letteratura, egli aveva previsto per l'Antimonio una coppia termomagnetica 14 volte minore che non nel Bismuto ; la previ- sione risulta abbastanza bene verificata, tenuto conto della incertezza dei dati utilizzati nel calcolo e della diversità dei materiali. È ancora notevole la forte diminuzione constatata nell’entità del feno- meno, aggiungendo al Bismuto un altro metallo: ad es., il Piombo. Meteorologia. — Andamento diurno della temperatura a Tri- poli. Nota di FiLipPo EREDIA, presentata dal Socio &. MiLLOSEVICA. All'Osservatorio meteorologico italiano di Tr.poli, a cominciare dal set- tembre 1905 furono messi in funzione il termografo, il barografo e l’igro- grafo; il loro funzionamento, sospeso il 25 settembre 1911, venne ripreso il 25 dicembre 1911 e continua tuttora per cura del solerte direttore pro- fessore P. Martinuzzi. In una precedente pubblicazione (*) venne esaminato il comportamento dei principali elementi meteorologici desunto dalle osser- vazioni dirette raccolte dal 1892 al 1911, periodo di funzionamento di quello Osservatorio. Le registrazioni servono a completare quelle notizie, poichè ci dànno contezza dello svolgersi degli elementi meteorologici in tutte le ore del giorno; e con la presente Nota intraprendiamo l'esame delle particola- rità che risultano dalle registrazioni termometriche. E prima di sottoporle ad accurato esame si è accertata l'esattezza dei dati comparando, per ciascun giorno di funzionamento del termografo, tipo Richard, le osservazioni dirette, eseguite a 9°, 15°, 21°, con i dati rilevati dalle zone registratrici. È da osservare che talvolta le curve termografiche presentano rapide oscillazioni che con molte irregolarità perturbano l'andamento diurno ; ciò si verifica, più specialmente, allorquando spirano venti forti di Sud: e rappresentando successione non normale dei fenomeni atmosferici, sì è creduto scartare le registrazioni di tali giorni (in numero molto limitato) rimandando l'esame di queste ultime ad una prossima ricerca. In apposite tabelle vennero trascritti i singoli valori orarii; ed effet- tuando la media, se ne dedussero ì seguenti valori decadici. Notiamo che la 3* decade del febbraio è costituita dagli ultimi giorni del mese, a partire dal giorno 21. (1) Climatologia di Tripoli e Bengasi: studio di F. Eredia, con prefazione di L. Palazzo. Monografie e rapporti coloniali, n. 4, febbraio 1912. Roma, G. Bertèro, 1912. Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre 2a gh | GL o ) 10.68 | 10,32 10.66 | 10.24 9.90 9.22 9.62 9.19 10.09 9.73 11.26 | 10.97 11.95 | 11.63 12.85 | 12.49 13.75| 13.27 14.48 | 14.03 14.59 | 14.36 15.98 | 15.75 15.64 | 15.71 18.23 | 18.17 18.32 | 18.41 19.80 | 20.10 19.96 | 20.42 20.67 | 20.88 22.89 | 23.06 23.15 | 23.03 22:97 | 122.92 23.27 | 23.21 24.08 | 23.71 23.05 | 22.75 22.91 | 22.75 23.15 | 22.71 23.27 | 22.87 21.13 | 20.70 20.76 | 20.47 19.59 | 19.13 18.30 | 17.87 17.79 | 17.48 14.93 | 14.48 13.40 | 12.76 11.81 | 11.55 10.93 | 10.42 gh 10.22 9.99 9-12 9.25 9.97 11.27 11.97 13.23 14.58 15.72 16.75 17.65 18.13 20.77 20.82 23.09 | 22.91 23.55 26.06 25.98 25.80 26.47 26.18 25.30 | 24.88 24.65 24,37 22.05 21.37 20.09 18.90 17.66 14.83 12.77 11.49 10.21 24.12 24.25 | 24.90 26.90 27.21 2745 28.13 28.66 27.87 27.55 27.73 | 27.62 26.04 20.76 25.13 24.18 22.15 19.90 18.19 16.19 15.85 162 | (o) 14.48 14.45 14.23 13.49 14.74 15.58 16.59 17.54 17.63 18.54 19.40 19 81 19.83 21.61 21,83 24.10 24.05 25.13 26.88 27.48 27.57 28.13 28.61 27.37 27.24 27.34 27.06 20.43 25.28 24.41 23.83 21.74 19.41 17.82 16.18 15.68 18% | (e) 13.95 13.75 13.39 12.77 13.83 14.80 15.50 16.68 16.79 17.54 18.41 19.04 19.32 21.41 | 21.49 23.19 23.60 24.51 26.69 27.07 27.06 27,70 27.99 26.90 26.47 26.40 26.11 24.42 24.24 23,29 22.86 20.84 18.68 16.88 15.49 14.77 agi | o 12.44 12.40 11.94 10.99 12.33 13.13 14.01 14.79 15.36 16.07 16.78 17.36 17.51 19.97 19.74 21.49 | 21.79 | 22.63 24.23 25.04 25.07 25.79 26.18 25.26 Do) GI (uo) CS Dm UU i Rot) [ori 23.12 22.89 21.68 20.81 19.41 16.88 15.00 13.55 12.91 24» (e) 11.66 11.57 11.15 10.45 11.34 12.25 13.22 14,24 14.72 15.57 16.14 18.82 16.73 19.36 19.34 21.05 21.07 22.14 23.84 24.44 24.32 24.91 25.47 24.45 24.20 24.33 24.60 22.36 22.07 20.68 19.97 18.72 15.80 14.20 12.82 11.85 Media (°] 12.35 12.30 11.78 sg) La temperatura più bassa suole avvenire nelle ore vicine al sorgere del sole; ma talora, come in Juglio e in agosto, l'abbassamento termico segue il levar del sole. Tale ritardo può trovare la spiegazione nella presenza del vapore acqueo che trasportato dai venti di NE, e nelle notti serene, conden- sandosi in rugiada, sviluppa quantità considerevole di calore in modo da ritar- dare ulteriori abbassamenti della temperatura. La più elevata temperatura media oraria avviene intorno alle 14°: e solo nelle decadi dei mesi estremi, la temperatura di tale ora è poco diversa da quella delle ore vicine, cosicchè l'intervallo con temperatura elevata oc- cupa buona parte del meriggio. I valori contenuti nell'ultima finca indicano che la media diurna più bassa ha luogo nella prima decade di febbraio, e la più elevata nella seconda decade di agosto; e tali estremi si discostano di soli 15°. Adunque la va- riazione della temperatura media decadica raggiunge cifre non elevate e poco diverse da quelle che si osservano in Liguria (17°) e nelle città costiere me- ridionali dell’Italia, ove si hanno cifre che oscillano tra 15° e 16°. Dalla 2% decade di dicembre alla 3* decade di febbraio, la temperatura si man- tiene poco variata: e difatti in tale periodo di tempo si ha una oscillazione di quasi 2°. Da luglio a settembre si manifesta un altro periodo di tempe- ratura quasi costante; e, così, dal valore di 25°,29 si arriva al valore di 259,45, passando per il massimo di 26°,54. Abbiamo pertanto due distinti periodi, corrispondenti alle epoche del maggior freddo e del maggior caldo, incui la temperatura è soggetta a minore variazione da una decade all'altra. Però è da notare che nel periodo corrispondente al massimo caldo, la tem- peratura, pur variando di poco, da una decade alla suecessiva, oscilla in modo quasi irregolare. Nella seguente tabella trascriviamo le temperature medie orarie pei singoli mesi: o | gu | 6. | gu | 10 | 12% | 140 | 16% | 188 | 208 | 22 | os Gennaio. > . 0... | 10838] 1041] 998] 978] 1°67] 1873] 1647] 14639] 18270] 1803] 1226| 11.46 Febbraio . . . . . .| 10.76] 10.32| 9.96] 1013] 12.68| 1412] 14.58| 14.59| 13.80] 13.14] 12.15] 11.85 Marzo . . ... . | 1381] 12.85] 12.46] 13.28] 15.87 17.11] 1761] 17:25] 1632] 15.45| 1472] 1406 Aprile < . . 0. +. | 15.58] 15.02] 1471] 16.71] 18.72] 19.33| 19.53| 19.25| 1833] 17.31] 16.70] 16.18 Maggio. . . . . . .| 17.89] 17.40] 1743| 19.93] 2112] 21.22] 21.09] 21.16] 20.81| 19.67] 19.07| 18.48 Giugno . . . . . . . 420.83] 20.14| 2047] 23.18] 24.10] 2428] 2442] 2443| 23.77] 22.50] 21.97] 2142 Luglio . . . . . . .|23.55|23.00| 23.00] 25.95] 27.02] 27.05] 27.19] 27.31] 26.94] 25.51] 2478| 24.20 Agosto . . . . . . .| 2416] 2347] 2322] 25.98] 27.59] 28.01] 28.22] 28.04] 27.53 | 26.33] 25.74| 24.94 Settembre . . . . . .| 23.79] 29.11] 22.78] 24.63] 27.10] 27.58| 27.63 27.21] 26.33] 25.65| 25.12| 24.88 Ottobre... . . . | 2117] 2049] 20.10] 21.17] 2449| 25.61] 25.64] 25.04| 23.93 | 2331] 2256] 2170 Novembre . . . . . . | 17.59| 1701] 16.59| 17.13| 19.94| 21.92| 2208| 21.33| 20.79| 2001] 19.038| 18.16 Dicembre . . . . +. . | 12.47] 12.05] 11.58] 11.49] 13.70] 16.03| 16.74| 16.56] 15.71| 14.72] 13.82| 12.96 Gi: — Nel mese di gennaio la temperatura più bassa si osserva a 8°, e aumenta nelle ore successive gradatamente, toccando il valore più elevato a 14°, per diminuire in seguito in modo regolare. Nei mesi successivi la temperatura, a 8°, cessa di rappresentare la più bassa: e difatti in febbraio, marzo e aprile essa capita a 6°, nei mesi di maggio e di giugno a 4°, in luglio a 4° e 6°, da agosto a novembre cade a 6°, e in dicembre a 8°. La media massima è a 14°; eccetto nel mese di luglio, in cui si verifica a 16°. Le molte particolarità che presentano i singoli valori orarî risultano, più che da qualunque descrizione, dalla rappresentazione delle isoplete (fig. 1). Per la costruzione delle quali si presero per ascisse i mesì e per ordinate le ore; in corrispondenza di ogni singolo mese venne riportata la temperatura media relativa alle singole ore, e dopo si riunirono tutti quei dati aventi la me- desima grandezza. GENNAIO FEBBRAIO : SETTEMBRE " DICEMBRE i MARZO < OTTOBRE iS = NOVEMBRE £ DICEMBRE de << i o eee o RS SORA Pale \-\-- CÒ Co Sa L. PONCRCAZISALI CU LA în 12 134645 16 1718 192021 22 23 24 25 26 23 22 2126/91 Fic. 1. — Termo-isoplete di Tripoli. gd — Siffatta rappresentazione mostra che la temperatura del giorno, in media, raggiunge il valore elevato di 28° in agosto, dalle 12° alle 16°; nei mesi di luglio e di settembre, nel medesimo intervallo di ore si osservano tem- perature superiori a 27°. Le ore della sera, nel periodo da luglio a settembre, hanno temperature elevate che si aggirano intorno a 25°, valori poco discosti dal valore massimo diurno e al contrario di quanto si nota nei rimanenti mesi. La temperatura più bassa si osserva intorno a 6°, e, nei mesi inver- nali, intorno a 8°. Da una data ora alla successiva là temperatura assume valori diversi a seconda dei mesi: e ciò risulta chiaramente dal seguente grafico (fig. 2), ove le varie linee riuniscono gli scostamenti delle singole medie orarie mensili dalla media di tutte le ore del mese, compresi nel valore indicato alla fine della linea. Rag La u > Sii da AE (o) = ca si 00,4 BO n = = © ei = 9 O © A E È DÈ w (cal (u) (i) (e) > O) a sa < o < 2 3 tO) na Da iS) 2 S » E = cd bI ® par) E<@ v ©) 2 Q Hjgsa 12° cere evita mea eli 0 — Pe Ù - L) o B 0 quia dd + QO0* AR Guado aio 0» 0 + 4444 29 2.0 225 Fic. 2. — Termo-isoplete di Tripoli, è Argo In tutti i mesi, ma più marcatamente da luglio a ottobre, la tempe- ratura da 8% a 10° è sottoposta a più rapide variazioni, le quali sono di poca entità nelle ore del massimo caldo e divengono più sensibili da 18° a 22°, per diminuire in seguito. Adunque, soltanto nell’intervallo orario 8%-10° la temperatura presenta più rapide variazioni, che del resto rimangono sempre comprese fra stretti limiti. Emerge chiaramente la limitata variazione della temperatura da 10° a 18° in estate, intervallo che in primavera si riduce a quattro ore e, nelle altre due stagioni, a una minore durata. Nelle ore della temperatura più elevata e più bassa, vediamo riprodotte tutte le particolarità avanti notate. Indichiamo qui sotto la differenza tra la media oraria più bassa e la media più elevata, e inoltre la differenza tra la media delle temperature massime e la media delle temperature minime verificatesi nel medesimo intervallo di tempo. G F M A M G L A S (0) N D 00 Ae oiprtni selen VR 00 LEA GRAMMO 5 A SIOE NOI GA GHAMASI 700, 7.44. 6.80 I valori della seconda serie, che definiscono l’amplitudine aperiodica diurna della temperatura, sono sempre più elevati di quelli dedotti dalle medie orarie; e ciò è dovuto al fatto che le massime e le minime tempe- rature non hanno luogo tutti i giorni alla medesima ora e, conservando tutta la loro influenza nel calcolo delle temperature medie orarie, attenuano i valori di queste ultime e rendono minime le differenze dei valori estremi, differenze che definiscono l'amplitudine periodica diurna della temperatura. Diamo qui sotto la distribuzione oraria negli aggruppamenti stagionali e nell'anno, ricordando che l’inverno risulta formato dai mesi di dicembre, gennaio e febbraio; la primavera dai mesi di marzo, aprile e maggio; l'estate dai mesi di giugno, luglio e agosto; e l'autunno dai mesi di settembre, ot- tobre e novembre. Inverno... . . . . | 1235] 10098] 1049| 1047] 1968 1263] 1526] 1518] 140] 1868] 1274] 10.90 Primavera . . . . . .| 15.58] 15.09] 14.87] 16.63] 18.51| 19.22] 19.41] 19.20] 13.46] 17.48] 16.83| 16.24 Estate... ... .| 22.85 22.20] 2223] 25.04] 26.24] 26.45] 26.61] 26.59] 26.08 | 24.78 | 24.16| 23.52 Autunno . . . . . .|20.85|2020| 1989] 20.98] 23.84] 25.04| 25.12] 2453| 23.70] 22.99| 22.24] 2141 Anno. . + +. . + +. | 17.66] 17.11] 16.85] 18.28| 20.33 | 21.33 | 21.60] 21.38| 20.67 | 19.72 | 19.00 | 18.27 RE] Riunendo tutte le temperature medie orarie, si hanno i seguenti valori che esprimono la vera temperatura media diurna per le varie stagioni; e quantunque ricavati da un solo sessennio si discostano poco dai valori de- dotti nel precedente studio citato: e ciò sta a provare la poca variazione che la temperatura subisce da un anno all’altro. Inverno Primavera Estate Autunno Anno 120,80 170,29 249,74 229,97 199,34 Giunti a questo punto possiamo esaminare quale combinazione oraria possa fornire valori che siano poco diversi da quelli ottenuti dalla media delle osservazioni eseguite in tutte le ore. Tale determinazione, quantunque limitata a Tripoli, è di somma importanza, poichè, volendo in seguito disci- plinare il servizio meteorologico nella Libia, occorrerà rilevare i dati ter- mometrici con letture dirette effettuate sui termometri ad ore determinate osservando contemporaneamente gli altri elementi meteorologici. Nell'indicare tali combinazioni, dobbiamo limitarci a considerare quelle che sono usate nei paesi vicini e nella nostra Italia, e che perciò permettono di fornire suffi- cienti elementi per indicare il valore medio. Per la nebulosità, umidità, pressione atmosferica, correnti aeree ecc., occorre conoscere il valore almeno in tre periodi diversi del giorno; e perciò le combinazioni (4) e (0), qui sotto indicate, possono essere utilizzate. Considerando che nella Libia potranno estendersi e magari diffondersi impianti molto modesti, consistenti di un pluviometro e di una coppia di termometri (uno che indichi la massima temperatura ragginnta in un giorno, e l'altro la minima), si comprende come interessi esaminare se, effettuando la semplice semisomma della massima e della minima temperatura del giorno, si possa avere un valore molto vicino al vero valore diurno. È anche bene esaminare se è adoperabile il noto metodo del Kaemtz che permette di ottenere la temperatura media con la sola conoscenza delle temperature massime M e le temperature minime m, utilizzando la seguente formula : Media=m + K(M— m). Però occorre conoscere il valore del coefficiente K che è dato dalla formula edia— mn. os Mm © quantità variabile, a seconda delle stagioni e a seconda dei luoghi. e gn Nella unita tabella sono indicati i valori del coefficiente di Kaemtz, valori che quasi coincidono con quelli ottenuti in un precedente studio ('). Indichiamo inoltre per ogni singolo mese la quantità che bisogna ag- giungere (segno +) o togliere (segno —) alla temperatura diurna di Tripoli dedotta con ciascuna delle predette combinazioni, per ottenere la vera tem- peratura media diurna. Mass.+ min. 2 — 0;1 0,0|+-0,1 | 0,1 |— 0,3 {— 0,4 [|—0,4 |— 0,3 |[— 0,2 {0,1 [0,1 | 0,1 h_L.9]jh (a) SENIO +0,2/+- 0,2 |4+-0,1 |—0,2 | 0,4 |—-0,4 |- 0,8 |—0,1 |—0,1 | 0,0 {+-0,1 |+0,2 h h 9h (0) i ..|—0,1]—0,1 |—0,2 |— 0,8 |— 0,4 |— 0,5 [—0,5 |—0,5 {0,3 |— 0,2 |— 0,1 [—0,1 erate dla ner 0,51) 0,51] 0,50) 0,46] 0,45) 0,46| 0,47] 0,49) 0,49) 0,49) 0,49] 0,50 m+EM—-m). . . . 0,0|+0,1 | 00 00|—0,1|—0,1|—01]|+01| 00| 090| 00| 00 E deduciamo come la combinazione m + K(M — m) la combinazione M-+m +9" +21" 4 , ela combinazione , sono quelle che dànno Mass. + min. 2 valori molto vicini al vero; e pertanto è consigliabile determinare la tempe- ratura media diurna con la prima o con la seconda combinazione in quelle stazioni che si limiteranno a osservare i fenomeni una volta al giorno, e con . la terza combinazione in quelle stazioni che osserveranno i fenomeni diverse volte al giorno. Chimica-fisica. — Solubilità allo stato solido tra solfati e carbonati ad alta temperatura (*). Nota di MarIO AMADORI, pre- sentata dal Socio G. CIAMICIAN (*). Ho stimato non privo d’interesse studiare il comportamento ad alta temperatura tra due specie di sali di natura molto diversa, sia chimicamente, che cristallograficamente: i solfati e i carbonati. Questi composti infatti sono derivati ossigenati dello zolfo e del car- bonio al loro massimo grado di valenza; appartengono quindi a gruppi di- (1) Eredia F. e Martinuzzi P., /l clima di Tripoli di Barberia. Annali dell'Ufficio Centrale di Meteorologia e Geodinamica, vol. XXX, parte I, 1908. Roma 1909. (*) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Padova, diretto dal prof. G. Bruni. (3) Presentata nella seduta del 16 giugno 1912. RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 9 DIR versi del sistema periodico e dal punto di vista chimico presentano molte e profonde differenze. Cristallograficamente ne sarebbe difficile riassumere le molteplici varietà in cuì si possono presentare, poichè gran parte di questi sali cristallizzano con un numero vario di molecole d'acqua di cristallizzazione in forme assai diverse, senza che nessuna relazione specifica esista, nè tra la forma cristal- lina, nè tra il grado di idratazione del solfato e del carbonato corrispondente. A quanto ho potuto vedere finora non è stato affermato, nè provato, se tra i solfati e i carbonati esista isomosfismo, e in quale grado (1): le diversità tra le due serie di sali, alle quali ho brevemente accennato, non sono suffi- cienti ad escluderlo, perchè sappiamo come possano esser isomorfi anche sali di natura chimica e cristallografica assai diversa, come i nitrati e i car- bonati. Naturalmente ad uno studio ad alta temperatura fra solfati e carbonati non possono prestarsi che i sali alcalini; gli altri carbonati in genere si scompongono per riscaldamento prima della fusione. Ho stimato opportuno esaminare tutte le tre coppie costituite dai sali di Li, Na, K, che rappresentano i tipi dei metalli del primo gruppo. Le Chatelier (*), di queste tre coppie aveva studiato in parte le tempe- rature di cristallizzazione, ma dalle sue esperienze non risulta quali fenomeni avvengono nella solidificazione. Le esperienze vennero eseguite fondendo le miscele in crogiolo di pla- tino posto in forno a resistenza di nickel. La massa salina adoperata era generalmente di 15 gr.: in qualche caso dubbio venne adoperata una massa doppia. Le temperature di solidificazione e di trasformazione dei singoli solfati e carbonati risultarono: Lis SO, solidificazione a 860° trasformazione a 578° Na, SO, ’ 892° ” 238° K, SO, ” 1066° ” 083° Li, CO; ) 732° ” —_ Nas CO; ” 854° ’ 430° K; CO, ” 396° ” 405°; queste temperature accostano con quelle trovate precedentemente da altri sperimentatori. (1) Fels, Zeit. f. Krist., 26, 117 (1902), avrebbe trovato che esiste isogonismo tra alcuni acidi organici della serie aromatica contenenti i gruppi — SO;H e — CO:H e tra i loro i loro eteri: però lo stesso Fels, per cristallizzazione da soluzioni miste, e Bruni (este Lbòsungen und Isomorphismus, pag. 66 (1908)) per via crioscopica, trovarono che essi non formano soluzioni solide. (9) C. R., 1/8, 350, 709 (1894). Il carbonato di litio non ha alcun punto di trasformazione visibile ter- micamente. I carbonati di sodio e di potassio mostrano al punto di trasfor- mazione solo un lieve rallentamento di temperatura per una massa di 30 gr. Le temperature soprasegnate hanno quindi un valore approssimativo; Hiittner e Tammann (') diedero queste temperature di trasfosmazione a 450 e a 410°. ll. — SALI DI LITIO. I punti di fusione del solfato e del carbonato vengono abbassati reci- procamente per aggiunta dell'altro sale. La curva di cristallizzazione pri- maria è costituita di due rami che s'incontrano alla concentrazione di 60°/, mol. Li, SO,: a questa concentrazione corrisponde la minima temperatura di cristallizzazione iniziale, 540°, temperatura che, come vedremo, si trova come secondo arresto in molte miscele. Il punto di trasformazione del solfato viene pure abbassato per aggiunta di carbonato: quest'ultimo quindi è, per lo meno in parte, solubile nel sol- fato anche nella fase solida. Questa solubilità però non è completa: il punto di trasformazione del solfato non continua ad abbassarsi con l'aumento in carbonato nelle miscele; per le concentrazioni superiori a 10°/ mol. Li. CO; esso giace costantemente fra 540° e 530°. TABELLA 1?. to 2° punto °/o in peso | °/o molecolare o “ie © (trasformazione ed eutettico) i i Lis S04 Lia $04 cristallizzazione | trasformazione Tompstatare Durata. 0 0 732° _ — - 10 6,95 714 = 530° 30 15 10,61 706 = 528 30 20 14,38 692 = 580 50 35 26,62 657 = 530 70 40 30,96 647 — 592 100 50 40,20 606 = 536 160 60 50,22 975 = 542 250 65 55,58 ? = 540 250 69,5 60,50 _ = 540 250 75 66,86 595 = 936 270 80 72.90 642 = 538 250 85 79,22 692 — 585 260 90 85,83 759 — 588 240 95 92.74 799 550° = = 97,5 96,33 836 568 — —_ 100 100 860 578 —_ _ (*) Z. anorg. Ch., 43, 215 (1905). > mol. Li,-CO, Fre. 1: Li, S0, + Lis C0, Il secondo arresto che si osserva fra 540 e 530° nel raffreddamento delle miscele contenenti da 10 a 90 °/, mol. Li, SO, è dovuto allo sviluppo di calore della cristallizzazione eutettica e della trasformazione dei cristalli misti, come risulta anche dalle durate dei tempi d’arresto: da 60 a 90°/: mol. Li, SO, le durate di questi arresti sono pressochè uguali per le varie miscele, compensandosi le quantità di calore che sviluppa la cristallizza - zione eutettica e la trasformazione dei cristalli misti, infatti al diminuire della massa eutettica corrisponde una maggiore quantità di cristalli misti e viceversa. Da 60 a 10°/, mol. Li SO, la durata dell'arresto va diminuendo, poichè diminuisce contemporaneamente la quantità di miscela eutettica e la quantità di cristalli misti che si trasformano. Essendo assai prossime le temperature di cristallizzazione eutettica e la temperatura di trasformazione di cristalli misti è impossibile distinguere questi due punti. La miscela a 6,95 ®/, mol. Li, SO, ha il secondo punto a 505°, 25 gradi inferiore alla temperatura d'arresto delle altre miscele. A questo arresto po- trebbe pure corrispondere la separazione eutettica che per le concentrazioni estreme avviene comunemente a temperature un po' inferiori, ma è forse più probabile corrisponda una scissione di cristalli misti aventi questa concen- trazione formatisi nella solidificazione; in tal caso anche il solfato si scio- glierebbe allo stato solido fino a circa 10°/ mol. nel carbonato. SEA 2. — SALI DI SODIO. Tra i sali sodici alla temperatura di solidificazione delle varie miscele la solubilità allo stato solido è completa. La curva di cristallizzazione è continua con minimo a circa 40 °/, mol. Na», SO,. TABELLA 2?. °/o in peso | °/o molecolare pnizio Sepipertvureo Nag S04 Nas SO4 cristallizzazione | trasformazione 0 0 854° 430° 10 | 7,66 848 —_ 20 | 15,03 837 — SSL 28,67 828 Lat 47 | 39,82 828 — 62 | 54,90 833 de 75 | 69,13 848 — 88 | 84,56 866 — 93,5 91,49 874 = Ce | 94,06 882 183 96,3 95,11 886 200 98,5 98,00 888 223 100 | 100 892 238 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 0) o mol. Nas SO, Fic. 2: NasS0, + Nas CO; Il punto di trasformazione del solfato puro, 238°, viene abbassato per aggiunta di carbonato; per una concentrazione di 5,94 °/, mol. Na» CO; esso giace a 183°: per questa concentrazione la trasformazione è segnata da un lieve rallentamento, per le miscele contenenti una quantità maggiore di carbonato non fu più possibile osservare la trasformazione. Il punto di trasformazione del carbonato, appena visibile per il sale puro non sì lascia più notare nelle miscele con il solfato; è quindi impos- sibile seguire questo punto. E 3. — SALI DI POTASSIO. Anche fra i sali potassici la solubilità allo stato solido è completa. La curva di cristallizzazione è continua e giace tutta tra i punti di fusione dei singoli sali. TABELLA 34. °/o in peso | °/o molecolare nicio Fomperature Ka S04 Ka S04 cristallizzazione | trasformazione 0 0 896° 415° 10 8,10 902 _ 20 16,55 907 = 34 29,00 920 — 40 34,58 926 _ 46 40,33 935 sa 50 44,23 938 — 99,77 50,00 945 = 60 60,62 964 = 68 62 77 975 _ 75 70,40 995 628 80 76,04 1010 622 85 81.80 1024 608 88 85,33 1033 598 90 87,71 1041 595 92 90,12 1045 993 95 95,80 1052 586 97,5 96,87 1060 585 100 100 1066 583 sa 1000 | | 1000 si 900 900 i i 700 | i 700 600 600 °/o mol. K, SO, a 9 IGO, SL io, gi Il punto di trasformazione del solfato puro, 583°, viene innalzato per aggiunta di carbonato; esso può esser seguìto fino a 29,60 °/, mol. K,C0; cui corrisponde una temperatura di trasformazione di 628°; per concentra- zioni superiori non è più visibile. Anche il punto di trasformazione del carbonato non si lascia più no- tare nelle miscele con il solfato. Riassumendo i risultati ottenuti abbiamo: Sali di litio: solubilità da 0 a 10°/ mol. Lis CO; in Li, SO, e probabilmente da 0 a 10 °/, mol. Li, SO, in Li, C03. Sali di sodio: solubilità completa: curva di cristallizzazione con minimo. Il punto di trasformazione viene abbassato. Sali di potassio: solubilità completa, curva di cristallizzazione fra i punti di fusione dei singoli sali. Il punto di trasformazione viene innalzato. A differenza dei sali sodici e potassici la solubilità fra solfato e car- bonato di litio è molto limitata. Ad ogni modo anche tra questi due sali si manifesta la tendenza a dare soluzioni solide. 3 Degna di nota è la variazione del punto di trasformazione del solfato di sodio e di potassio. Probabilmente la diversità che si osserva è più che altro apparente, ed è in relazione con il punto di trasformazione del carbo- nato corrispondente; la debole variazione termica che accompagna la trasfor- mazione di questo sale e di gran parte delle miscele non permette però di trarre conclusinoi. È poi da considerare che la trasformazione del solfato sodico e delle miscele rieche di questo sale ha luogo a temperature molto inferiori alle corrispondenti dei sali potassici, e abbastanza prossime alla temperatura ordinaria, alla quale temperatura probabilmente la miscibilità è nulla. Chimica. — .So/fati amidri (*). Nota III di G. CALCAGNI, pre- sentata dal Socio E. PATERNÒ (°). In questo lavoro mi sono occupato della formazione di solfati doppî anidri possibili tra Sr SO, e K.SO,, Sr SO, e Na» SO,, nelle stesse condi- zioni sperimentali del precedente (5). I solfati doppî noti finora che Sr SO, forma con i solfati dei metalli alca- lini sono quelli del tipo R, SO, . R"SO, . Il sale K, SO, . Sr SO, fu ottenuto prima da H. Rose (‘) agitando Sr SO, in soluzione di K, SO,. In seguito (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio chimico della Sanità pubblica di Roma. (*) Presentata nella seduta del 16 giugno 1912. (3) R. Acc. dei Lincei, scienze fis. e mat., vol. XXI, serie 52, 483. (4) Pogg. Ann. Phys. Ch. 93, 594 (1854). SRO M. Barre(') ne ha studiato il campo di esistenza arrivando alla conclusione che con altro composto altro K,S0, non si ottiene nell’intervallo di temperatura tra 0° e 100°C. Il sale è stabile e M. Barre l’ha ottenuto cristallizzato aggiungendo ad una soluzione di K,SO, una soluzione di Sr S0,; questo fatto dimostra che la solubilità di Sr SO, si abbassa per aggiunta di K,SO,. Il sale (NH,), SO, . Sr SO, fu anche preparato da H. Rose (*) e studiato poi da M. Barre (loc. cit.); è molto simile al precedente. Il campo di esistenza del sale di ammonio è meno esteso; esso si decompone facilmente, è stabile solo in soluzione satura di (NH,), SO,. Sali corrispondenti a questo tipo e ad altri di solfati doppî possibili, non sono stati ottenuti nelle stesse con- dizioni sperimentali con Nas SO,. I diagrammi qui riportati presentano maggiore interesse di quelli otte- nuti con Ba SO,, perchè sono più complessi e maggiori conclusioni da essi si sono tratte. Il punto di fusione del Sr SO, per quanto non sia molto elevato e per ciò facilmente raggiungibile con i mezzi a mia disposizione, tuttavia non mi è riuscito di determinarlo direttamente per la rapida decomposizione che subisce oltre i 1200°. La massa in principio pastosa, persistendo nel riscaldamento, diventa sempre più densa; lo stesso fenomeno si verifica in miscugli più ricchi in SrSO, sì che non sono potuto andare oltre il 20 °/ circa di solfato alcalino. La temperatura di fusione di Sr SO, determinata in entrambi i dia- grammi per estrapolazione dei due ultimi punti, risulta di circa 1220-25°; probabilmente sarà questa, poichè oltre i 1200° il solfato di stronzio inco= mincia a rammollirsi, ma non essendo possibile mantenere l’ambiente a tem- peratura costante durante il tempo necessario per la fusione, rapidamente si decompone. Sistema Sr SO, - Na, SO). I risultati ottenuti sono raccolti nella tabella I e diagramma fig. 1. (1) Compt. rend. de l’Acad. des sciences, /49, 292. (3) Pogg. Ann. Phys. Ch. 2/0, 296 (1860). ENI IAT DILIVALONE eratura Nag$0,°/o| Sr$04°/0| Mol. °/o | Mol. °/ " tigiae lr a iano Temperatura sizione in peso | in peso | Nas SO Sr SO, lia eutettica |delle soluz, | trasforma- A e e I, rione. Giri (0. solide AO 100 0 100 0 887° = 234 97 3 97,76 2,94 918 = = 219 95 5) 96, ,09 3,91 920 = — 224 93 7 94° 50) 5,90 928 = = 214 90 10 92,09 7,91 938 —- — - 85 15 88,00 12,00 952 = = 219 82 18 85,48 14,52 955 = = 224 80 20 83,80 16,20 960 — = 224 7 22 82,09 17,91 962 = 975 — 75,48 24,52 79,92 20,08 965 = = 224 75 25 79,50 20,50 965 = 229 73 27 77,76 22,24 967 = 680 209 70 30 75,11 24,89 973 = 695 219 68 32 73,32 26,68 965 = 760 224 65 35 70, 60 29,40 963 = 800 224 62 38 67,87 32,16 958 = 842 229 60 40 65,99 34 01 957 = 856 219 58 42 64, 10 35,90 956 885 — dd 45 61,24 38,76 — 955 —_ 224 dò 47 59,82 40,68 973 955 - 224 52 48 58,95 41,65 988 955 _ _ 50 50 56,39 43,61 1000 955 - 214 45 50 51,40 48; 60 1047 965 — 214 40 60 46,29 98,71 1075 955 — 216 35 65 41,05 58,95 1127 955 — 216 30 70 35,66 64,34 1140 955 — 224 25 75 30,12 69,88 1155 965 — — 20 80 24,43 75,57 a 1300° pastoso 0 100 0 100 (1225) | a = - Nasa SO, °/o Ric. 1. RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 10 Secondo il solito aggiungendo Sr S0, a Na, SO, la temperatura di fu- sione di questo s' innalza; ma questa volta in modo più sensibile che nei casì precedenti. Questo innalzamento, crescendo il contenuto in Sr SO,, di- viene sempre meno notevole, sì che la curva si schiaccia quasi al suo punto massimo, 973°. Ma questo massimo in modo non dubbio apparisce alla con- centrazione di circa 70°/, Nas S0, e 30°/ SrS0,. Oltre questo punto la temperatura si abbassa fino al minimo, 955°, l'eutettico, al quale corrispondono le concentrazioni di 55 °/, Nas SO, e 45°/ Sr SO,. Dal minimo la curva sale senza discontinuità, aumentando il contenuto di Sr SO,, fino al punto di fusione di questo. Dunque sulla curva di fusione comparisce un massimo, al quale corri- sponde un solfato doppio del tipo Sr SO, .3Na, SO,, le cui concentrazioni in peso sono 69,89 °/, Nas SO, e 30,11% Sr S0,. Ma noi siamo nel campo dei cristalli misti dove vengono meno tutti gli espedienti che in generale stabiliscono in modo preciso la formazione di un composto. Che questa però probabilmente sia avvenuta non lo deduciamo da diverse considerazioni. I sol- fati di calcio e di magnesio formano con i solfati alcalini composti di questo tipo nelle stesse condizioni sperimentali; perciò è facile che lo formi anche Sr S04; per es. Ca SO, . 3Nas SO, (*), Mg SO, .3Nas SO, la Vanthoffite (*). Si potrebbe obbiettare che sulla curva di trasformazione di Nas SO, non apparisce alcun fenomeno in corrispondenza del massimo. Ma che vi siano casì in cui si è trovato un corrispondente massimo sulla curva di trasfor- mazione non implica che la sua assenza possa costituire una solida ragione per escludere la formazione di un composto quando questo corrisponda ad un tipo possibile sia riscontrato in natura, sia ottenuto artificialmente. Inoltre un corrispondente fenomeno sulla curva di trasformazione potrebbe anche esistere nel caso attuale, ma potrebbe essersi nella impossibilità di consta- tarlo sia perchè forse troppo tenue, sia perchè impedimenti sperimentali inevitabili non lo lasciano manifestare. Quindi si può concludere che quasi certamente si è formato il suddetto composto. Dall'insieme dei punti di discontinuità osservati sulle curve delle sin- gole masse fuse, il diagramma risulta costituito nel modo seguente: a) Campo d'esistenza della fase liquida; d) » d’equilibrio tra Sr SO, solido e fase liquida; c) » d'esistenza delle soluzioni solide €; ) ” d'equilibrio delle soluzioni solide e e @- Na, SO, - Sr S0,; e) » d’esistenza di #- Na.S0,-SrSO,; ) » d’equilibrio tra soluzione solida c e 8- Nas SO, - Sr S0,. SD SS Sistema Sr SO, a K, SO, o I risultati ottenuti sono raccolti nella tabella II e fig. 2. (1) G. Calcagni e G. Mancini, Rend. R. Acc. Lincei, scienze fis. e mat., vol. XIX, serie 5%, pag. 422. (3) A. S. Ginsberg, Zeit. f. anorg. Ch., 67, 122. TERE ( Temperatura K380x°/s| Sr S04°/o | Mol. °/o |Mol.9/o| ‘iniziale. | Tempe- | ai 'abtompe:| di | Tempera. Mo SOR (SESO Le Pmipione | di tras- p MISA, S Razoa eutetticaj 1° DTS IL) 80,-K,S0, formazione 100 0 100 (0) 1066° RR — - 590 97 3 97,16 2,84 1074 — _ — 570 95 5 95,25 4,75 1078 — — _ 555 93 7 93,33 6,67 1074 — —_ _ 5595 90 10 90,46 9,54 1068 _ 642 — 565 85 15 85,66 | 14,34 1060 — 725 _ 565 80 20 80,82 | 19,18 1047 — 825 — 565 75 25 75,97 | 24,03 1035 970 —_ 770 565: 73 DI 74,01 | 25,99 1025 970 — 755 560 70 30 71,09 | 28,91 1013 970 — 770 565 68 9 69,12 | 30,88 1000 970 — — 570 65 35 66,18 | 33,82 990 970 — 775 = 62 38 63,22 | 36,78 973 970 _ _ 565 60 40 61,25 | 38,75 ss 970 — 775 569 98 42 59,27 | 40,73 986 970 — 750 568 55 45 56,29 | 43,71 1030 970 — 775 565 52 48 53,80 | 46,70 1045 975 — 780 970 50 50 51,80 | 48,70 1070 970 — 770 965 45 55 4029885301 1110 965 _ 770 570 40 60 41,26 | 58,74 1145 960 _ 775 565 35 65 36,20 | 63,80 1160 970 — 775 575 30 70 31,12 | 68,88 1180 975 — 780 570 25 75 26,00 | 74,00 1185 -- _ 789 565 20 80 20,85 | 79,15 1193 _ — 780 565 15 85 15,68 | 81,32 pastoso a 13000 _ | 0 100 0 0) (Ca PA gni In questo sistema si riscontra lo stesso fenumeno trovato in quello Ba SO, - K.S0,; cioè nel campo dei cristalli misti ricchi in K,S0, si trova un massimo, che non corrisponde ad un composto, alla stessa concentrazione 95° KaS0, e 5° Sr SO,. Per esso valgono le stesse considerazioni fatte nel lavoro precedente. I dati sperimentali ottenuti in questo sistema sono un po’ più complessi di quelli dei precedenti da me esaminati, e la spiegazione datane credo sia esauriente e sicura. Le due componenti formano cristalli misti con una lacuna che si estende dal 30 °/, fino al 75°/, circa di K,S0,. Da una parte però si son potuti precisare i limiti del campo di esistenza delle soluzioni solide; dall'altra ci è stato impossibile per la decomposizione di Sr SO, che ha impedito l'esame di quei miscugli. L'eutettico si trova a 60°/ K.S0, ed esso non solo è stabilito dal minimo di temperatura, 970°, sulla curva di fusione, ma anche dalla massima durata della fermata in questo punto. Che l'eutettico si arresti da una parte a circa 30 °/ KsS0, risulta molto chia- ramente non solo dal fatto che manca una fermata corrispondente nei due ultimi miscugli possibili, ma anche dalla consìderazione delle durate degli arresti a questa temperatura; la fermata si fa sempre più tenue e sulla curva di raffreddamento del miscuglio con 30°/ Ks S0,, essa è appena sensibile. L'altro estremo F è stabilito sia dalle precedenti considerazioni, sia dalla curva FIHK lungo la quale le soluzioni solide si decompongono. Al di sotto del punto eutettico a partire dall’ 80 °/, circa K,SO, si trovano sulle curve di raffreddamento effetti termici molto notevoli, quasi tutti oscillanti intorno alla temperatura 775°, in base ai quali è stato pos- sibile trovare la linea IJ. Il prodursi di questo fenomeno si spiega ammet- tendo che a questa temperatura si formi il sale doppio Sr SO,.K,S0,. Questa ipotesi è confermata da considerazioni di ordine diverso. Anzitutto questo composto è stato preparato da H. Rose ed M. Barre (loc. cit.) come abbiamo veduto; inoltre appartiene ad un tipo di solfati doppî possibili tra quelli alcalini e alcalino-terrosi, trovati in natura e artificialmente preparati ; per es. la Glauberite Na, SO, . Ca SO,, l'Astracanite Na, SO, . Mg SO, . 4H,0, la Lòweite Na» SO, . Mg SO, . 2,5H0, la Kaliblodite K, SO, . Mg SO, .4H,0, l'Astracanite anidra ottenuta da A. G. Ginsberg (loc. cit.). In secondo luogo conduce a questa ipotesi la considerazione della variazione delle durate degli arresti a questa temperatura, in base alle quali sono state costruite le curve JL e IL, il cui incontro avviene a circa 48 °/ KsS0,; le concentrazioni corrispondenti al sale Sr S0,.K,SO, sono 48,7°/ Ks SO, e 51,3% St S0,; quindi questo miscuglio è quello che deve presentare la massima fermata, poichè dà luogo alla massima quantità possibile del sale doppio. La considerazione delle durate degli arresti ci conduce anche ad un’altra conclusione, che la linea JI si estende dalla curva di decomposizione dei cristalli misti più ricchi in K, SO, fino a Sr SO, puro; quindi il campo di «DER esistenza di cristalli misti più ricchi in Sr SO, non arriva alla temperatura di formazione del suddetto sale doppio. Dall’insieme dei punti di discontinuità osservati sulle curve di raffred- damento il diagramma risulta così costituito : a) Campo d'esistenza della fase liquida omogenea ; 1) ” ” delle soluzioni solide 8; e) ” ” ” ” DIR CA d) » d’equilibrio tra le » parti) @ (GR e) ’ ” ” ” » c e il composto determi- nato K.S0,.SrS0,; f) ” » ” ” » ce 8-K,S0,-SrS0;; 9) » d’esistenza di 8-K,S0,-SrS0,. Concludendo nel sistema SrS0,-Na, S0, si ha la formazione di un composto tipo vanthoffite: Sr SO, .3Na, SO, che si dimostra come un mas- simo sulla curva di fusione nel campo di cristalli misti; nel sistema Sr S0,.K,SO, vi è formazione del composto Sr SO,.K. SO, tipo glauberite che si dimostra quale prodotto di una reazione che si svolge allo stato solido con notevolissimo effetto termico. Chimica. — Analisi termiche di miscele binarie di cloruri di elementi monovalenti (*). Nota IV di C. SANDONNINI e G. ScARPA, presentata dal Socio G. CrAMICIAN (?). Come uno di noi fece rilevare in una Nota precedente (5), i risultati ottenuti colle coppie di cloruri di elementi monovalenti esperimentate, ren- dono interessante esperimentare anche le coppie del cloruro di cesio coi clo- ruri degli elementi già presi in considerazione: e ciò, tanto per osservare la tendenza a dare soluzioni solide, quanto la tendenza a dare combinazioni. Le coppie di questo sale coi cloruri degli altri elementi alcalini erano | già state esperimentate da F. S. Zemezuzny e C. Rambach (‘) nelle loro più volte citate ricerche. Ci parve interessante completarne la serie, esperimentando così il com- portamento del cloruro di cesio coi cloruri di rame (rameoso), argento, e tallio (talloso). Solamente in questi ultimi tempi ci riescì di procurarci la quantità di cloruro di cesio sufficiente per poter esperimentare i sistemi sopra detti. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Padova, diretto dal prof. G. Bruni. (*) Presentata nella seduta del 16 giugno 1912. (8) Questi Rendiconti, 20, II, 503, an. 1911. (4) Zeit fir an. Chem., 65, 403, n. 1910. SL 7 Il cloruro di cesio da noi usato si dimostrò, all'analisi, sufficientemente puro; dalla curva di raffreddamento del sale fuso il suo punto di solidifica- zione risulta a 639°; quando tutta la massa è solida, si nota ancora un punto di arresto a 450°, dovuto senza dubbio a sviluppo di calore di un punto di trasformazione allo stato solido, già avvertito da ZemezuzZny e Rambach. Secondo questi autori, i due punti giacciono rispettivamente a 646° e a 451°. Dei punti di solidificazione e degli altri sali venne detto in Note pre- cedenti. 1. Il sistema CsCl — CuCl. La tendenza a combinarsi dei cloruri alcalini del sottogruppo del po- tassio col cloruro rameoso pare aumentare dal potassio agli omologhi supe- riori; cosicchè, mentre per il cloruro potassico è noto un solo composto prepa- rato da soluzioni acquose dei componenti, e confermato dall'analisi termica, per il cloruro di rubidio ne esistono due studiati da uno di noi, tanto per via umida, quanto coll’analisi termica. È da notarsi che questi composti com- plessi cristallizzano dalle loro soluzioni acquose allo stato anidro. Del cloruro di cesio col cloruro rameoso vennero dal Wells (?) isolati da soluzioni acquose tre composti diversi: due anidri, 'Cs C1-2CuC1; 3 Cs Cl: 2CuCì, e uno idrato 3 Cs CI: CuCl-2H,0. Dal punto di solidificazione del cloruro di cesio la curva di cristalliz- zazione primaria discende sino alla temperatura di trasformazione (450°) a circa 30 mol. °/, di CuCI, ove si nota uu evidente gomito; indi tende sino a circa 320° e a 42 mol. °/, di CuCl, ove sì nota un nuovo gomito. Di poi discende ad un punto eutettico a 236°, per risalire a un punto massimo a circa 274° e a 66,6 mol. °/, di CuCÌ. Da questo la curva ridiscende ad un secondo punto eutettico a 77 mol. di CuCl e a 215° circa, per risalire poi direttamente al punto di solidificazione del cloruro rameoso. Il punto d'arresto dovuto alla trasformazione del cloruro di cesio sì nota nelle curve di raffreddamento delle miscele da 0 a 30 mol. °/ di CuCl; di esso però non si possono dare le durate, che sono sempre assai lievi e non calcolabili esattamente. Le curve di raffreddamento delle miscele da 0 a 42° mol. °/, di CuCl hanno un punto di arresto a 320° circa, che ha la sua durata massima a 40 mol. °/, di CuC1. Lo sviluppo di calore, a cui si deve questo arresto, è certamente dovuto alla formazione di un composto decomponibile per fusione; la sua composizione sarà quindi: 3 Cs C1-2CuC1. Come venne già detto, alla concentrazione di 66,6 mol. */0 di CuCl cor- risponde un massimo nella curva di cristallizzazione primaria; la curva di (*) Zeit. f. an. 5, 306, an. 1894. SEAT) raffreddamento per questa miscela mostra infatti un arresto unico a tempe- ratura costante a 274°. Si rileva così un composto fusibile senza decomposi- zione e al quale spetta la formula Cs C1-2CuCI. TABELLA I. "I Temperature Punto RA di cristal- Secondo It Arresti Dre di lo lizzazione arresto in eutettici w dol Cu CI AAA secondi secondi ; primaria di Cs CI 0.0 6390 _ —_ — _ 450° 5.0 618 320° ? —_ — 452 10.0 595 322 20” — — 449 20.0 541 320 30 _ — — 30.0 428 318 60 2 — — 35.0 372 320 80 _ —_ — 40.0 348 818 120 _ = = 45.0 298 — — 234° 307 _ 50.0 276 — — 236 70 = 55.0 -- -— _ 235 180 —_ 60.0 260 — — 235 40 = 65.0 269 — = ? “i = 66.6 274 — — - — _ 70.0 268 —_ —_ 218 2? = 75.0 248 — — 215 50 = 80.0 268 _ - 216 80 -+ 90.0 350 = —_ 214 60 —_ 100.0 422 _ — — _ — _3 Cs (1.2 CuCI 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 Cs Cl Mol. °/, di CuCI CuCl Cloruro di cesio + Cloruro rameoso. Fic. 1. PESCO Si sono così svelati all'analisi termica i due composti anidri già prepa- rati da Wells per via umida. Come per i sistemi KC1+ Cu C1, RbC14 CuC1 si ha buona concordanza tra i risultati ottenuti per via umida e quelli dell'analisi termica. Il non formarsi ad alta temperatura del terzo composto può forse essere spiegato dal fatto che la sua esistenza è legata alla presenza delle molecole d’acqua di cristallizzazione. 2. Il sistema C$C1—AgCl. Venne già fatto notare come i complessi esistenti tra i cloruri alcalini ed il cloruro di argento in soluzioni acquose, non siano rivelabili coll'analisi termica, nè per il cloruro potassico, nè per il cloruro di rubidio. Mentre per questi due sali non si è riusciti ad isolare alcun composto complesso allo stato cristallino, per il cloruro di cesio e di argento era riuscito al Wells (*) di isolare un composto della formula 2CsCl-Ag Cl, e di studiarne anche le costanti cristallografiche. Era quindi interessante vedere se questo composto, sulla cui formazione da soluzioni acquose e sulla cui composizione non poteva esistere alcun dubbio, era rivelabile anche all’analisi termica. Dal punto di solidificazione del cloruro di cesio la curva di cristalliz- zazione primaria discende fino alla temperatura del punto di trasformazione di CsC1 30 mol. circa di cloruro d'argento; dopo il relativo gomito discende sino a 53 mol. °/, di AgCl e a 810° ove si nota un nuovo gomito. Finalmente, la curva di cristallizzazione primaria discende ad un punto eutettico a 72 mol. °/, di AgCl e a 258°, per salire poi direttamente al punto di solidificazione del eloruro di argento. Per tutte le miscele da 0 a 53 mol. °/ di AgCl si nota un punto di arresto a 310° il quale ha la sua durata massima da 30 a 56 mol. °/. L'arresto eutettico a 258° ha brevissima durata per la miscela a 55 mol. °/ di AgCl, e non compare affatto per la miscela a 50 mol. °/o. L'arresto a 310° è certamente dovuto alla formazione di un composto decomponibile alla fusione. La mancanza dell’arresto eutettico per la miscela a 50 °/ è un buon indizio per concludere che essa corrisponde alla compo- sizione del composto, che verrebbe quindi ad avere la formula Cs C1.Ag CI. (1) Zeit. f. an. Ch. 2, 301, an. 1892. TI TABELLA II. Temperature î Punto oi di cristal- Secondo Da pia Arresto Dura di lo li ; in ) in trasforma- VELENO) arresto ; eutettico d zione AgcCcil primaria secondi secondi dillCsiCì 0.0 639° - _ _ — 450° 10.0 602 305° 507 — = 449 20.0 950 310 70 — — 450 30,0 473 310 100 — = 450 33.3 430 310 150 = = — 40.0 396 310 150 — = = 50.0 320 310 160 — = — 55.0 307 —- — 256° 20” — 60.0 298 —_ —_ 260 60 — 65.0 273 — — 258 100 = 70.0 266 = — 258 200 _- 80.0 372 — — 256 130 = 90.0 412 —_ — 249 80 = 100.0 0 a Da de = = 700 -| 600 600 500 |. SI Cs C1 Mol.°/o Ag Cl Ag CI Cloruro di cesio + Cloruro d'argento. RI. 2. ReNDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 11 SATA La formazione ad alta temperatura di un composto di composizione diversa da quella del composto che si forma da soluzioni acquose degli stessi componenti, può trovare la causa nelle diverse condizioni di temperatura. Basti ricordare che in questi ultimi tempi W. van Dann e A. D. Donk ('), studiando la solubilità dellojoduro di argento nelle soluzioni di joduro potas- sico, trovarono che a 50° si deposita un solo composto AgI-KI,a e 30° si deposita solo un composto AgI-2KI, del quale a 50° non si aveva indizio di formazione. È da notarsi che il Wells (loc. cit.) aveva pure ottenuto un composto AgT-2 KI per deposizione di soluzioni a temperatura ordinaria, cioè certamente inferiore ai 30°. La scomparsa dell’arresto eutettico a 50 mol.°/, di AgCl potrebbe essere causata non dal fatto che questa miscela corrisponda ad un composto, ma dal fatto che l'eventuale composto a 33,3 mol. °/, di Ag Cl fosse capace di sciogliere allo stato solido una data quantità di cloruro d'argento. Dalle curve di raffreddamento ottenute ci crediamo in grado di esclu- dere questa possibilità. Tuttavia, anche in questo caso si può vedere che i cloruri alcalini del gruppo del potassio mostrano, col crescere del loro peso atomico, una maggior tendenza a dare composti coi cloruri capaci di funzionare come cloroanidridi. 8. Il sistema CsC1—TICI. Dai lavori precedenti si poteva dedurre che anche l'omologo superiore del sottogruppo del potassio dovesse formare soluzioni solide in rapporti assai larghi col cloruro talloso. La curva di cristallizzazione primaria discende dal punto di solidifica- zione del cloruro di cesio sino 465° e a 43 mol. °/, circa di cloruro talloso, ove si ha un evidente gomito, per discendere poi a un punto di minimo a 390° e a 75 mol.°/, di TICI, e di qui direttamente risalire al punto di solidifica- zione del cloruro talloso. Il punto di trasformazione del cloruro di cesio si innalza lentamente, per aggiunta di cloruro talloso, fino a 465° e a 13 mol. °/, circa di TI CI. Nel- l'intervallo di concentrazione da 13 a 43 mol.°/ di TI CI, nelle curve di raffreddamento delle miscele, dopo l’inizio di cristallizzazione, si nota a questa temperatura (465°) un rallentamento maggiore; poscia la curva di raffreddamento ripiglia il suo andamento. (1) Chem. Week. 8, 846, 1911 TABELLA III. ___rr_F_x_c —=_=_=_=-=-=>=>=-=->- «o (=== = _ ie“ Temperature seo, | Fine ni di cristal- Secondo Pi Pn di o lizzazione arresto ; Uras su cristallizza- Te C1 primaria mazione i, 0.0 639° — 450° = 5.0 619 si 452 - 10.0 600 = 459 Fi 15.0 572 4660 = va) 20.0 563 466 da = 25.0 549 464 a — 30.0 532 465 bo - 35.0 920 466 = Tri 40.0 901 466 = ua 50.0 450 _ — 390° 60.0 408 — = 390 65.0 400 — = 390 70.0 393 — = 390 75.0 390 sai mi a) 80.0 400 — — 390 91.0 417 _ s 400 100.0 499 - = a CsC1 Mol.°/o TIC TICI Cloruro di Cesio + Cloruro talloso Fic. 3. Me 94 Conviene subito notare come per le miscele da 0 a 50 mol. °/, di TI C1 non si possa cogliere con esattezza la fine di cristallizzazione. Con ogni probabilità questo caso si può ricondurre al tipo V di trasfor- mazione nei cristalli misti, studiato da Roozeboom ('); e ne sarebbe una va- riante non ancora osservata in quanto la curva di cristallizzazione primaria presenta un minimo piatto dalla parte del componente che esiste in una sola forma e fonde a temperatura più bassa. Siccome il punto di arresto a 465° si nota con deboli flessi delle curve di raffreddamento, e siccome non si può cogliere con esattezza la fine di cri- stallizzazione per le miscele da 0 a 50 mol. °/, di TI CI, non si possono esatta- mente stabilire i limiti di miscibilità allo stato solido tra i due cloruri. I relativi tratti di curva sono quindi tratteggiati. Riassumendo : 1) Il cloruro di cesio dà, col cloruro rameoso, due composti: uno, 3 CsC1.CuCI, decomponibile alla fusione; e uno, Cs C1-2CuCl, che fonde indecomposto; 2) col cloruro di argento un composto decomponibile alla fusione, della formola Cs Cl. Ag Cl; 8) col cloruro talloso dà cristalli misti in tutti i rapporti, o almeno in misura assai larga. Chimica. — A/cerche sulla stricnina e brucina (*). Nota di R. Crusa e G. ScAGLIARINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (5). Come hanno trovato Pictet e Bacovescu la stricnina scaldata con acqua a 160°-180° si trasforma in una sostanza isomera: l'isostricnina. Questo nuovo alcaloide differisce profondamente per le sue proprietà fisiche chimiche e fisiologiche dalla stricnina: è molto più solubile di questa nei diversi solventi, riduce il liquore di Fehling ed il nitrato d'argento ammoniacale e per la sua azione fisiologica sta tra la brucina ed il curaro (*). Per ciò che si riferisce alla sua costituzione si può soltanto dire, sempre dalle ricerche di Pichtet e Bacovescu che nell'isostricnina è contenuto lo stesso aggruppamento — CO0—-N= (1) Zeit. f. phys. Ch., 20, pag. 426, 14 (1899), (*) Lavoro eseguito nell'Istituto chimico della R. Università di Bologna. (*) Pervenuta all'Accademia il 25 giugno 1912. (4) Berichte, 38, 2787. della stricnina 00 COOH (Cr0 Hos ON)G I, RESO (Cr0Hs: ui Stricnina Ac. stricnico Isostricnina Ac. isostricnico Bisogna cercare quindi nel resto (CH: ON) una trasformazione che spieghi il diverso contegno dell’isostricnina. Continuando le nostre ricerche sull'azione del bromo sulla strienina e brucina siamo stati portati a studiare anche l’azione del bromo sull'iso- stricnina (?). Nella soluzione dell'isostricnina in acido acetico glaciale si fece arri- vare, raffreddando esternamente con acqua ed agitando continuamente, a piccole porzioni per volta il bromo, sciolto parimenti in acido acetico gla- ciale, e tinchè il precipitato rosso, un perbromuro, che si formava imme- diatamente; non aumentava più. Dopo due ore il precipitato filtrato, lavato con acido acetico glaciale e seccato su potassa fu sciolto nella più piccola quantità di alcool bollente. Per raffreddamento e dopo un certo tempo si separò lentamente una sostanza cristallina formata da prismetti incolori pesanti. All'analisi si ebbero dei numeri che concordano con quelli richiesti dalla formula Cs3 Hog 00 Ns Bri: Cale.: C 40,35 H 4,09 N 4,09 Br 46,70 Trov.: C 40,21, 40,04 H 4,56, 4,63 N 3,97 Br 46,11, 46,26, 46,69 La sostanza è poco solubile nei solventi organici, discretamente solubile a caldo in alcool, insolubile a freddo; solubile in acqua anche a freddo: riscaldata nel tubicino annerisce senza fondere. Questa sostanza differisce dall’isostricnina C,, Hx30,N, per contenere quattro atomi di bromo, ed un CH; in più. Questo C,H, in più è eviden- temente dovuto all'alcool, nel quale si fa bollire il prodotto grezzo della reazione. (*) Dobbiamo far notare che quasi contemporaneamente a noi J. Buraczewski si è occupato dell’azione del cloro e del bromo sulla stricnina brucina ed altri alcaloidi (cin- conina e chinina). Il metodo di clorurazione e bromurazione è completamente differente da quello da noi adoperato: tuttavia i risultati in alcuni punti sono analoghi ai nostri. Essendo stati i risultati di queste ricerche pubblicate nel Bulletin de l’Académie des Sciences de Cracovie (1909, pp. 333, 631; 1910. pp. 154, 355; 19//, pag. 355) ne ab. biamo ignorato l’esistenza finchè abbiamo avuto dall’autore gli estratti relativi. Baio e Dato quindi che nell'isostricnina (e stricnina) è contenuto l'aggruppa- mento — CO —N= che per addizione di una mol. d’acqua si trasforma nell'altro CO COOH XK |M DINI \NH alla sostanza C33 H3 0» N, Br, può essere assegnata la formula C000, H; H Br(Cx, Ho N Ba) f E Sarebbe, in altre parole, il bromidrato dell'etere etilico di un acido COOH Cr Ho N Brg ri che differisce dall'isostricnina per una molecola in più di bromo e per con- tenere un atomo di bromo al posto di un OH. Si potrebbe quindi supporre che nell'azione del bromo sull’isostrienina due atomi di bromo si addizionino ad un doppio legame, analogamente a quanto avviene per la stricnina (!), ed un terzo atomo di bromo sostituisca un idrossile. L’eterificazione del carbossile avviene evidentemente quando si scioglie, come abbiamo detto più avanti, e si fa bollire il prodotto della reazione in alcool. Che si tratti di un etere etilico e non di sostanza con- tenente alcool di cristallizzazione lo dimostra il fatto che la sostanza riscal- data in corrente di idrogeno a 110° per dne ore non cambia di peso. Essendo questa la prima volta che si riesce a far reagire con una rea- zione così blanda il secondo atomo d'ossigeno, benchè le ricerche sull'iso- stricnina sieno alquanto penose dato il tempo necessario a procurarsene una certa quantità, abbiamo cercato di avere altri dati confermanti le supposi- zioni precedenti. A tal fine in una seconda esperienza il perbromuro che si ottiene im- mediatamente per aggiunta di bromo alla soluzlone acetica dell’ isostricnina, fu seccato prima su potassa, e poi scomposto con carbonato sodico; si ottenne in (1) R. Ciusa e G. Scagliarini, Questi Rendiconti, vol. XIX, 1° sem., pag. 555; XX, 2° sem., pag. 201. La supposizione fatta in questa Nota, che nella stricnina e brucina fosse contenuto un doppio legame — CH=0{ ha trovato una conferma nei risultati delle interessantissime ricerche di H. Leuchs, Berichte, 45, 205. Mo questa maniera una sostanza giallognola, insolubile in tutti i solventi, eccettuati il nitrobenzolo e la piridina bollenti. La soluzione piridica per aggiunta di alcool lascia depositare un precipitato cristallino. Ripetuta in questo modo la purificazione, mentre si procedeva alla preparazione della sostanza per l'analisi, il bromoderivato fu sciolto ancora una volta in piridina bollente: immediatamente però già a caldo si formò un precipitato bianco pulveru- lento cristallino: evidentemente un sale di piridina dell'acido _C00H Cao ES NBr. Br, c NH Il precipitato seccato nel vuoto su acido solforico sino a peso costante fu analizzato senza purificazioni ulteriori; all'analisi si ebbero dei numeri che confermarono pienamente il nostro modo di vedere COOH C; Hy N Ceo Hai Bri È \xwH Cale.: C 47,70 H 4,28 N 6,42. Br 36,69 Trov.: C 47,97 H 4,19 N 6,20 Br 86,74 Questo sale di piridina è insolubile in tutti i solventi organici, non cambia di peso scaldato a 120° in corrente di idrogeno, ed elimina piridina scaldata con potassa: nel tubicino annerisce senza fondere. Di questa sostanza ne fu indagata l’azione farmacologica, azione che si è dimostrata non priva d'interesse. Si adoperarono come animali d'esperimento le rane alle quali si iniet- tarono nel sacco dorsale, sia piccolissime che relativamente, grandi, dosi del preparato, sospeso in soluzione fisiologica. In nessun caso si osservarono fe- mnomeni tetanici, neppure iniziali; ma al contrario fenomeni paralitici, e ciò anche usando dosi di gr. 0,00005. Questi fenomeni paralitici si devono almeno in parte ad un'azione spiccatamente curarica, come si può facilmente persuadersene con la stimolazione con corrente indotta dei nervi e dei mu- scoli con arterie principale legata o no. Evidentemente in questa sostanza sì ha un aumento dell'azione curarica dell’'isostrienina: l’azione stricnica propriamente detta è completamente scomparsa (?). Le ricerche sull'isostricnina saranno continuate. (1) Queste ricerche furono eseguito nell’Istitute Farmacologico dell’Università di Camerino, diretto dal prof. Riccardo Luzzatto al quale qui porgiamo i nostri ringrazia- D te} menti. Chimica. — Su alcuni mitriti instabili fissati a mezzo di basi organiche ('). Nota I di Gino SCcAGLIARINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (*). Fischer (*), Hampe (‘) e Lang (*) ottennero il nitrito di magnesio per doppio scambio fra nitrito di bario e solfato di magnesio. Hampe e Lang attribuirono ad esso rispettivamente le formule Mg (NO:);.2H, 0 ed Mg(N0O;),. 3H,0. Matuschek (°) in seguito confermò la formula del Lang. Fritz Vogel ("), riprendendone lo studio, ottenne due composti, uno con tre e l’altro con due molecole di acqua, i di cui risultati analitici stanno ad indicarci che trattasi di prodotti già in parte alterati. Tuttavia il Vogel concluse giustificando tanto la formula di Hampe quanto quella di Lang. Pel nitrito di mangauese la letteratura ci fornisce dati ancora più incerti. Micherlich, lo descrisse come una massa deliquescente ottenuta per evapora- zione delle sue soluzioni nel vuoto. Lang (*), seguendo le indicazioni speri- mentali di Micherlich non potè più riprodurlo, tanto che egli affermò che quando vengano concentrate le soluzioni che lo contengono, esse lasciano costantemente depositare il sesquiossido idrato. Data però tanta incertezza sulla esistenza di questi nitriti, mi parve non privo d'interesse il tentare di ottenerli in una forma più stabile, appro- fittando della proprietà fissatrice che determinate sostanze possiedono. N. S. Kurnakow (°) aveva già messo in evidenza l'azione fissatrice del cloruro platinoso e del cianuro di mercurio sugli idrati ed ammoniacati, i quali, pur esistendo in soluzione, non si possono ottenere allo stato solido se non in combinazione coi suddetti corpi, che secondo l’autore surriferito eser- citerebbero però un'azione isolatrice sugli idrati ed ammoniacati in generale. G. A. Barbieri e F. Calzolari ('°), in seguito, ricorrendo a basi organiche come l’esametilentetrammina e la caffeina, isolarono un gran numero di (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bologna. (2) Pervenuta all'Accademia il 24 giugno 1912. (5) An. Ph. Chem. Pogg. 74, 115, an. 1848. (*) An. Chem. Pharm. Lieb, 125, 841, an. 1863. (7) An. Ph. Chem. Pogg. 1/8, 282, an. 1863. (9) Chemische Industrie 1902, S. 207 ff. (7) Zeit. anorg. Chem. 35, 385, 1903. (8) An. Ph. Chem. Pogg. 2/8, 290, an. 1863. (*?) Zeit. anorg. Chem. 17, 221, 1898. (1°) Rend. R. Acc. Lincei /9, II, 584 (1910); ibid. 20, I, 119 (1911). PARC So) I « nuove forme di idratazione labili » nelle quali, secondo gli autori, le sud- dette basi non sarebbero legate all'atomo metallico, ma si addizionerebbero alle molecole dei sali idrati esistenti in soluzione. In generale tali basi fis- sano una forma di idratazione assai elevata. Usando nel mio caso una di queste ultime sostanze, si poteva prevedere che il possibile complesso che ne sarebbe risultato, avrebbe dovuto avere assai più di tre molecole di acqua per una di nitrito, come nel caso del nitrito di magnesio ottenuto dal Lang. L'esperienza confermò pienamente le previsioni; diffatti, colla esametilentetrammina, che a tale uopo si presta assai bene, potei ottenere stabilissimi e ben cristallizzati i nitriti di magnesio e di maganese contenenti ciascuno, per un atomo di metallo, dieci molecole di acqua. Ad essi spettano le seguenti formule: Mg(NO:):.10H;0+2C,HN, Mn(N0);.10H:0+2C,HN,. Nella stessa maniera ho pure preparato una serie di cristalli misti, con- tenenti in varî rapporti i precedenti nitriti e quelli di cobalto bivalente e di nichel, che a causa della loro estrema solubilità in acqua non possono essere isolati soli. Mentre il nitrito di manganese non può essere ricristallizzato senza par- ziale alterazione, quello di magnesio vi si presta assai bene, tanto che si possono ottenere cristalli ben formati, suscettibili di misure cristallografiche. Il dott. Billows (*) della università di Padova, che li ha misurati, così li descrive: Individui incolori ialini tabulari ‘secondo [001] e [100], della lun- ghezza media di due mm. Classe di simmetria: ©7 (olosimmetrica del sistema triclino). Forme: }010} , {100}, {001}, {110}, t101} 3011}, {021}, So Costanti: a: d:e= 0.8461 :1:0.8460 ar= INVERSA 5/0 a COPIO TAO (1) Queste ricerche cristallografiche vennero eseguite fino dal 1909 dal prof. Billows (E. Billows, Determinazioni cristallografiche di serie di nuovi composti organici, Padova, Società Coop. Tip., 1909, pagg. 8 e 9) su campioni fornitigli dal prof. G. A. Barbieri, ed in base ad analisi preliminari veniva attribuito al composto la formula 2 Mg (NO:), 25 H, 0 +3 Ce His N, che contrastava all’isomorfismo col cloruro di magnesio ed esametilente- trammina. Le analisi ulteriori fatte con metodi diversi (dosamento dell’azoto secondo Dumas, anzichè per idrolisi della esametilentetrammina) diedero risultati concordanti colla formula Mg (NO:): 10 H:0+2C Hi, N, la quale è in perfetto accordo con quella attribuita al cloruro. Restano quindi giustificati i risultati di isomorfismo riscontrati fra questi due corpi dal Billows. RENDICONTI, 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 12 LO) Predomina la forma {010} con facce piane e lucenti. Le altre sono sub- ordinate, ma la maggior parte delle facce sono lucenti. Estinzione su {010} 17° con [001] sull'angolo fra + e + 2. Ba positiva, quasi normale a (010). Apici di iperbole quasi sull'orlo del campo, Piano degli assi ottici perpen- dicolare alla direzione d' estinzione osservata. Birifrangenza forte. L'autore surriferito mette pure in rilievo l’isomorfismo in « senso stretto » esistente fra il suddetto nitrito ed il cloruro di magnesio ed esametiletram- mina, preparato da G. A. Barbieri e F. Calzolari, il quale appartiene alla stessa classe di simmetria del sistema triclino ed ha la formula Mg Cl. 10H,0+2CH,, N,. Mi è sembrato degno di nota questo fatto che ci mette in presenza del primo caso, che si conosca in chimica inorganica, di isomorfismo fra il cloro ed (NO-). L'aggruppamento (NO:) e l'elemento cloro, che normalmente non sono isomorfogeni, diventano tali quando alternativamente vengano a sostituirsi in identici aggruppamenti di assai elevata grandezza molecolare; la perfetta somiglianza dell’edificio molecolare trascinerebbe, per così dire, nell’iso- morfismo anche il Cl e 1’ (NO) ; si avrebbe, in altre parole, un isomorfismo costretto. Questo fatto, già fino dal 1905 era stato previsto dal Bruni che nella « Feste Losungen » così si esprime (!): « La somiglianza della forma cristallina di due corpi e la tendenza a formare soluzione solida ]’uno l'altro, è tanto più grande quanto più piccolo è il gruppo isomorfogeno in propor- zione alla massa totale della molecola; od in altre parole, quanto più è grande quella porzione che resta in comune ai due corpi ». Più recentemente lo stesso autore, con D. Meneghini (*), riprendendo il medesimo concetto, guidati anche dal fatto osservato da W. J. Miiller (8) (1) Ahrens, Sammlung Chem. Vortriàge. Feste Losungen. Band VI, pag. 49. (?) Gazz. Chim. Ital. 40, £, 683 (1910). (8) Zeitschrift fùr Elektro., IX, 978 (1908). ggi che i nitriti ed i nitrati alcalini non sì possono mai separare completamente per cristallizzazione dalle loro soluzioni miste, a mezzo dell'analisi termica mette in rilievo l'isomorfismo assai largo esistente a temperatura elevata fra nitrato e nitrito sodico. Per tal modo il caso di isomorfismo ora citato, unito all'altro da me osservato, viene ad avvalorare la previsione emessa dal Bruni. Nitrito di magnesio ed esametilentetrammina Mg (NO.)..10H:0+2CH2N,. Il miglior metodo per preparare questo nitrito è il seguente: Ad una soluzione concentrata di acetato di magnesio a cui viene aggiunta una soluzione di esametilentetrammina, in rapporto di circa quattro molecole di base organica per un atomo di magnesio, si fa arrivare a gocce un eccesso di una soluzione concentrata a freddo di nitrito sodico. Agitando si formano gran numero di cristalli che vanno a tapezzare le pareti del vaso in cui avviene la reazione. Si lascia depositare per un poco di tempo il precipitato che, filtrato alla pompa e lavato più volte con acqua, viene da questa ricristal- lizzato. Il nitrito, seccato fra carta bibula, fu sottoposto all’ analisi: Calcolato per Mg (NO,), 10H,0+2CsHi2 Ni Trovato Mg 4.16 4.30 4.85 4.14 4.13 NO, 15.99 15.85 15.79 0 25.00 25.35 H 7.64 1.14 N totale 24.30 24.36 24.18 Nitrito di manganese ed esametilentetrammina Mn (NO:)..10H,0+2C,HN.. Nella stessa maniera si prepara il nitrito di manganese; però, essendo questo sale assai più solubile del precedente, occorre lavarlo parecchie volte colla minima quantità di acqua possibile. Inoltre esso è più alterabile del precedente; e mentre il nitrito di magnesio si può conservare indefinitamente inalterato, il nitrito di manganese, dopo circa un paio di mesi, accenna ad ossidarsi, imbrunendo nelle porzioni più esposte al contatto dell’aria. Si pre- senta in bei cristalli di colore bianco a riflessi rosei, che al microscopio si mostrano assai simili a quelli del nitrito di magnesio col quale è isomorfo ; Rig difatti, tanto l’uno quanto l’altro formano cristalli misti coi nitriti di Co' e di Ni”. Le analisi dettero i seguenti valori: Calcolato per Mn (NO,)3 10H,0+2CH,N, Trovato Mn 9.060. 9.80 8.98 8.87 9.01 NO, 15.15 moi! 1347 C 28.72 24.04 H 7.24 7.85 N totale 28.07 23.00 28.10 Cristalli misti fra nitriti di Co" e di Ni" coi nitriti di Mg e di Mn. Nella maniera precedentemente descritta tentai pure di ottenere i nitriti di cobalto e di nichel bivalenti; ma, a cagione della loro estrema solubilità, non vi riuscii. Tuttavia, per isolarli allo stato solido, si può approfittare del fatto che tanto il nitrito di magnesio quanto l’altro di manganese sciolgono gli analoghi composti di nichel e di cobalto; in questa maniera si riesce, in altre parole, ad estrarre dalle soluzioni acquose con nitrito di magnesio o di manganese una parte di questo composto troppo solubile in acqua. Si ottengono così varie soluzioni solide fra questi quattro sali, aventi colorazioni più o meno intense a seconda che predominano i sali colorati di cobalto e di nichel o quelli incolori di magnesio e manganese. Le miscele fra il nitrito di cobalto e quelli di magnesio o di manganese vanno dal rosa pallido al rosa carico, che col tempo, all'aria, volge al giallo, ossidandosi il Co" a Co”; quelle fra nitriti di nichel e di magnesio o di manganese assumono tinte varianti dal bianco con riflessi verdastri, al verde deciso. Che tali composti siano della stessa natura dei precedenti di magnesio e di manganese, lo dimostra il fatto che in tutti i campioni sottoposti all’ana- lisi il rapporto fra azoto totale e carbonio resta costante come in quelli, e che le miscele debolmente colorate contengono percentuali, in azoto totale ed in carbonio, pressochè uguali a quelle dei nitriti di magnesio e di man- ganese puri. Le ricerche sui nitriti instabili saranno continuate. Chimica. — So/fati anidri (1). Nota IV di G. CALCAGNI e D. MAROTTA, presentata dal Socio E. PATERNÒ (°). Allo scopo di rendere più completo lo studio della formazione dei sol- fati doppî anidri tra i solfati alcalini e quelli alcalino-terrosi, e quindi poter trarre conclusioni più ampie, si è pensato di vedere se anche il solfato di litio con quello di bario e di stronzio avesse dato luogo a sali doppî. Queste esperienze esponiamo nel presente lavoro; esse si sono svolte nelle identiche condizioni dei precedenti. Li. S0, cristallizza, secondo Wyrouboff, dalla massa fusa in una modi- ficazione cubica, che si trasforma in una monoclina (pseudo-ottaedrica) abbas- sando la temperatura; quindi non è isomorfo con i solfati di calcio, stronzio e bario, nè con quelli di sodio, potassio, rubidio e cesio, i quali sono tutti rombici bipiramidali. Il punto di fusione del solfato di litio, da noi trovato, è 856°, e quello di trasformazione è 585°; Th. Carnelley (*) ha trovato successivamente 822° e 818° punto di fusione; W. Ramsay e Eumorfopoulos (4) 853°; K. Huttner e G. Tammann (*), punto di fusione 859° e punto di trasformazione 575°. Anche noi abbiamo constatato che la durata dell'arresto nel punto di tras- formazione è circa cinque volte quella che si ha per il punto di fusione. Come pei solfati di sodio e di potassio, nè anche per qnello di litio sì è potuto andare oltre il 25-80 °/, di solfato alcalino, per la decomposizione dei solfati alcalino-terrosi, per i quali però si è dedotta all'incirca la stessa temperatura di fusione per estrapolazione degli ultimi punti. I diagrammi sono molto semplici, poichè non si forma alcun composto, e sono di un tipo già teoricamente discusso. Sistema Sr SO, == Li, SO, I risultati ottenuti sono raccolti nella tabella I e nella fig. 1. (') Lavoro eseguito nel Laboratorio Chimico della Sanità di Roma. (*) Pervenuta all'Accademia il 30 giugno 1912. (3) J. Chem. Soc., 29, 489 (1876). (4) Phil. Mag., 4/, 360 (1896). (5) Zeit. f. anorg. Ch., 43, 215 (1905). odio TABELLA LL. @-=>=-+-«—=aGesee=“=“=“““««<®*’*as«+-+-;È*+-eeeeeeeeeeeeee==--e--====““-«=«-eeeeeee 108 S ‘ Temperatura Lunghezza | Temperatura | Lunghezza ia 50, | SrS0, | Mol. °/o0 | Mol. °/o TREO Temperatura | 1o]la formata di del fermata () (o) i È i trasfi 2 in Leni fa (oi Li» SO, | SrSO, oristallizza- eutettica STI trasforma: Lion zione in mm. 100 0 100 0 856° în — 985° 40 97 3 98,19 1,81 841 —_ = 585 = 95 5) 96,95 3,05 831 131° 5) 985 37 93 7 95,69 4,81 816 736 7 985 — 90 10 93,77 6,23 811 746 — 585 36 85 15 90,45 9,95 791 51 15 582 39 80 20 86.98 13,02 766 746 20 587 34 18 22 85,55 14,45 753 741 22 985 32 75 25 83,37 16,63 = 746 24 587 30 70 30 79,59 20,41 816 746 = 985 28 65 35 75,63 24,87 881 747 22 985 = 60 40 71,49 28,51 925 751 20 989 25 55 45 67,13 32,87 961 746 18 985 — 50 50 62,55 37,45 994 746 17 987 = 45 dò 97,15 42,25 1036 746 = 985 = 40 60 52,69 47,31 1081 751 12 582 16 30 65 47,36 52,64 1116 736 = 582 —_ 30 70 41,73 58,27 1131 731 —_ 582 — 25 75 35,78 64,22 1136 736 = 577 —_ 0 100 0 100 (1225) = = = = BaF0,k | 1300 S 1300 i) n N 1200) 1200 Ax 1/00 1/00 1000 1000 900 [900 (C:70 800% #00 i ; X <= V, 700 ARL]; 700 600] i 1600 3g w i 500 j500 ‘ Ò 70 (o) o, O o, 0 80 CIÒ, Roi Il punto di fusione del solfato di litio si abbassa successivamente ed in modo regolare, col progressivo aumento della concentrazione del solfato di stronzio, fino alla temperatura dell’eutettico 746°. Questo punto corrisponde senza alcun dubbio alle concentrazioni 75 °/, Li, 60, e 25 °/ BaSO,, sia perchè questo miscuglio presenta la massima durata di arresto a questa temperatura, senza altro effetto termico a temperatura più elevata, sia perchè in esso si tagliano i due rami discendenti della curva di fusione. Oltre questa concentrazione la curva sale senz'altra discontinuità: ra- rapidamente, fino al punto di fusione di SrSO, col crescere del contenuto di quest'ultimo. Tutte le singole curve di raffreddamento, tranne il miscuglio eutettico, presentano tre punti di fermata: il primo corrispondente alla cristallizzazione iniziale, il secondo all’eutettico, il terzo alla trasformazione, che si presenta in tutte quasi alla stessa temperatura. Quindi in questo sistema non vi è formazione di alcun composto. La durata delle fermate eutettiche e di trasformazione è funzione lineare della concentrazione così che è stato possibile di tirare linee rette dai massimi ai minimi. In realtà questa regolarità non si è rigorosamente osservata in tutti i miscugli: ma l'anomalia sì spiega, quando si pensi come difficilmente si svolgano nelle masse solide quegli stessi fenomeni che, al contrario, sì manifestano con grande facilità nei liquidi. Sistema BaSO, — Lis SÒ, I risultati sono raccolti nella tabella II e nella fig. 2. TABELLA II. o Temperatura È Li;80, | Ba$0, | Mol.%, | Mol.*/ iiiate | Temperatura fe feat Pong "dello foto in Reso in lo, Lis S0, | BaSO, Rustallizza: eutettica fuioitiche ia i cose in mm. 100 0 100 0 856° — — 585° 40 98 2 99,06 0,94 846 760° _ - = 95 5 97,58 2,42 826 760 6 985 38 90 10 95,05 4,95 801 765 12 985 — 85 15 92,33 7,67 781 760 16 985 — 82 18 90,63 9,37 _ 760 28 982 - 80 20 89,47 10,53 771 155 — 582 33 78 22 88,28 11,72 791 755 22 582 _ 75 25 86.43 13,57 821 770 _ 582 32 70 30 83,21 16,79 861 765 19 585 28 65 35 79,77 20,23 906 760 —_ 584 27 60 40 76.11 23,89 938 760 16 582 25 dÒ 45 72,19 27,81 987 760 16 582 — 50 50 67,99 32,01 1033 765 - 582 21 45 55 63,46 36,54 1071 760 13 977 18 40 60 58,60 41,40 1111 750 12 982 - 35 65 53,95 46,65 1141 795 11 578 — 30 70 47,65 52,35 (1136) 750 — 579 — 25 79 41,45 98,55 (1141) 755 — 577 — 0 100 0 100 (1350) = —_ = i biog SPO 1200] 1200 {100 i1100 1000) 1/000 900 [900 L..80; g00Ì {900 00) eat [A 200 600| È 1600 500Ì 1500 Il diagramma è perfettamente identico a quello della fig. 1; soltanto il punto eutettico è indiscutibilmente alla concentrazione 82°/, Li, S0, e 18°/ Ba SO, e alla temperatura di 760°. Anche in questo sistema la durata delle fermate eutettiche e di tras- formazione non è in tutti i miscugli funzione lineare della concentrazione; ma lo è in buona parte di essi. Quindi concludiamo che Li» S0, non dà luogo ad alcun composto, nè con Ba SO,, nè con SrS0,. Del resto, possiamo affermare che finora non si conosce nessun solfato doppio o triplo, anidro o idrato, in cui entri come componente Li, SO,. Il comportamento di questo composto è ben diverso da quello degli altri metalli dello stesso gruppo. Per poter avere un quadro completo sui campi d'’esistenza di tutti i solfati doppî anidri possibili tra i solfati alcalini e quelli alcalino-terrosi, nel diagramma concentrazione-temperatura, nelle condizioni in cui si svolge l'analisi termica, sarebbe stato necessario descrivere anche ì diagrammi con i solfati di rubidio e di cesio; ma circostanze di diversa natura lo hanno impedito a noi. ri I lavori finora compiuti su questo argomento sono tutti molto recenti. Una prima Nota di uno di noi è apparsa nel 1910 (!) nella quale sì è descritto il diagramma CaS0, — Nas SO,, da cui si è dedotta sicuramente la for- mazione di un composto, CaSO,.3Na,S0,. In seguito è venuto fuori un lavoro di Hans Miller (?) in cui l’autore esamina i diversi diagrammi tra CaSO, e i solfati di Li, Na, K, Rb e Cs; egli arriva alla conclusione che i solfati di potassio, di rubidio e di cesio formano il sale doppio 2 CaSO, . M”,SO,, il solfato di litio nessun composto, e quello di sodio il sale doppio Ca SO, .4Na,S0,. Per questa discordanza di risultati nell'ultimo si- stema. qui facciamo notare soltanto che solfati doppî di questo tipo non esi- stono in natura nè sono stati mai artificialmente preparati, mentre quello del tipo dato da uno di noi si trova in natura e frequentemente si è pre- parato nelle condizioni in cui si svolge l’analisi termica. Inoltre abbiamo dato altre ragioni per sostenere l’esistenza di quest’ultimo; ma qui le omet- tiamo, e per esse rimandiamo al lavoro su citato. Recentemente sono state pubblicate, sempre da uno di noi, due Note in cui sono stati studiati rispettivamente i diagrammi BaS0, — Na» SO, , BaS0, — K.S0,, SrS0, — Na» SO, , SrSO, — Ks SO, (*); in fine vi sono i risultati del presente lavoro. Le conclusioni in essi contenute sono le seguenti: Ba SO, non forma alcun composto con i solfati di Li, Na, K; SrS0, con Li, SO, non forma alcun composto: con Na» S0, ne forma uno di tipo noto (vanthoffite) SrS0,.3 Na» SN,, simile a quello che formano Ca SO, e Mg SO, : con K, S0, forma un composto che si decompone al di sopra di 775°, anch'esso di tipo noto (glauberite), Sr SO, . K,S0,, dato anche dai suddetti solfati di calcio e di magnesio. Dunque i tipi di solfati doppî anidri che si sono ottenuti tra quelli dei metalli alcalino-terrosi e quelli dei metalli alcalini, nelle nostre condizioni sperimentali, sono: M” SO, . 3My SO, , M” SO, . M} SO, , 2M" SO, . M;SO,, cioè proprio esclusivamente quei tipi che si trovano in natura. Dato il limitato numero di solfati doppi che nei sistemi su accennati si sono trovati, non è possibile di stabilire alcuna regolarità, sia rispetto ai metalli alcalini, sia rispetto agli alcalini terrosi. Quello che qui deve notarsi è che questi sali doppî non si formano sol- tanto per deposizione dalle rispettive soluzioni, ma anche per fusione dei miscugli di sali semplici; anzi, per alcuni non è necessario che si raggiunga la fusione, basta che essi siano a contatto ad una temperatura elevata, la quale può essere anche di molto inferiore a quella di fusione. Dal punto di vista geologico, quest’ altra condizione di formazione ha certamente un notevole interesse. (*) Rend. Ace. Lincei, scienze fis. e mat, vol. XIX, serie 53, 422. (*) N. Jahr. f. Min. Geol. und Pal., vol. XXX, pag. 1. (*) Rend. Acc. Lincei, scienze fis. e mat., vol. XXI, serie 52, 1° sem. 1912, pag. 483 e 2° sem. 1912, pag. 71. RenpIconTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 19, MIIORUE Chimica-fisica. — £icerche sui seleniti asimmetrici. Sui pro- dotti di addizione della piperidina cogli acidi selenioso e solfo- roso (*). Nota II di L. MARINO e A. TONINELLI, presentata dal Socio R. NASINI (?). In una precedente Nota uno di noi (*), insieme con V. Squintani ha dimostrato che per azione dell’anidride seleniosa su una soluzione benzolica di piperidina in assenza di ogni traccia di acqua, si ottiene un nuovo com- posto C; Ho NH Se0;, che le esperienze fino allora eseguite facevano rite- nere quale semplice prodotto di addizione. Come in successive Note sarà riferito, esso si presta a molte trasfor- mazioni, che ricollegano ì nuovi prodotti ottenuti a quelli già noti per lo zolfo, onde ci è sembrato opportuno indagare innanzi tutto se non fosse il caso di considerare questa sostanza come un nuovo acido del selenio, Facendo reagire l'anidride solforosa secca sull'ammoniaca gassosa per- fettamente secca, Forchhammer (4) aveva notato la formazione di due com- posti, uno bianco e l'altro giallo, ma H. Rose (*) dimostrò che si origina solo la combinazione NH3.S0., la quale si trasforma nel prodotto bianco di Forchhammer quando non si ha cura di eliminare ogni minima traccia di umidità. In seguito Schumann (°) studiò di nuovo la stessa reazione, e potè preparare oltre alla combinazione di Rose NH3.SO, anche i composti (NH3)» S0:, (NH3)1(S0x):. Michaelis e Storbeck (") studiando l’azione dell'anidride solforosa sulle ammine alifatiche in presenza di etere avevano ottenuto composti del tipo R.NH,S0O,, come Schumann stesso potè confermare. Essi ammisero per i loro prodotti formule di costituzione già precedentemente proposte da H. Schiff (*), il quale dopo le insostenibili considerazioni di Millon (°), ammetteva per la combinazione di Rose la formula HO.SO.NH,, introdu- cendo il nome di acido tionamminico, e ritenendo come tionamato di am- monio il composto (NH) S0,. Michaelis e Storbeck benchè considerino i (') Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Pisa. (*) Presentata nella seduta del 16 giugno 1912. (£) L. Marino e V. Squintani, Rend. Acc. Lincei, XX, ser. 5%, 666 (1911). (4) Forchhammer, Compt. Rend., 4, 395. (5) Rose, Pogg. Ann. 33, 235; 42, 415; 61, 397. (5) Schumann, Z. f. anorg. Chem., 23, 43 (1899). (?) Michaelis e Storbeck, Ann. d. Chem., 274, 192. (8) Schiff, Lieb. Ann., 140, 126; ib., 102, 114. (?) Millon, Ann. Chim. Phys., 69, 89. LR IQ0)I QI prodotti da loro ottenuti come derivati da quest'acido tionamminico, non escludono che per la combinazione (NH;)S0, si possa tener conto di una formula di questo tipo (DE Schumann vorrebbe anzi una for- 2 =ANIÌ mula betainica Si O| H, senza giustificare però in qualche modo una tale struttura, e questo evidentemente, come egli stesso del resto fa rilevare, perchè nessun metodo chimico-fisico è applicabile, dato che lo combinazioni anzidette nell'atto della soluzione in acqua o in altri solventi si scompon- gono in sali di ammonio di diversi acidi. Da esperienze di orientamento eseguite, risultava invece che il nostro composto, analogo a quello per l'anidride solforosa ottenuto da Michaelis ('), sì scioglieva in alcool senza apprezzabile decomposizione, per cui abbiamo istituito sui composti Cs H;j NH SO. e CH, NH Se 0, esperienze compara- tive, sia allo scopo di determinare la loro natura, sia perchè la conoscenza loro potrebbe chiarire la dissociazione di certi elettroliti anomali, il com- portamento dei quali è ancora assai poco noto. Determinate quindi le grandezze molecolari, si ricercò la conducibilità elet- trica e si determinò la concentrazione dei ioni idrogeno nelle loro soluzioni. Determinazione della grandezza molecolare. — Fu impiegato come solvente l'alcool metilico anidro. Le determinazioni furono condotte seguendo il metodo ebullioscopico di Beckmann, ed usando la massima cautela onde evitare l’azione dell'umidità, nel dubbio che l’acqua prodncesse decomposi- zione. L'alcool metilico puro di Kahlbaum si distillava dopo averlo lasciato varî giorni su calce, e poi una seconda volta su ossido di bario, eliminando le prime e le ultime porzioni ed utilizzando soprattutto quelle porzioni che avevano un punto di ebollizione costante (p.e. 66,3). I calcoli furono ese- guiti con la ben nota formula. Data l’igroscopicità delle sostanze impiegate si trovò più conveniente fare una soluzione a titolo noto, usando le ordinarie precauzioni consigliate per le sostanze deliquescenti. I risultati si trovano nella seguente tabella, e sono le medie di quattro determinazioni. TABELLA 19. Grammi Sostanze Quantità pesata MiO Peso molecolare solvente impiegate in gr. RESI calcolato trovato 100 Cs Hio NH Se 0, 12,17 0.83 196,29 135 100 CsHo NHSO, 3,708 0,22 159,15 151,6 100 Se 0a 3,447 0,27 111,2 114,9 (1) Michaelis, Berl. Ber., 28, I, 1015. — 100 — Come si vede il composto di selenio e piperidina è con ogni probabi- lità parzialmente scisso, a differenza del corrispondente composto solforato, il quale presenta un peso molecolare semplice assai vicino al calcolato. Le determinazioni crioscopiche eseguite sulle rispettive soluzioni acquose conducono a valori del peso molecolare che sono circa la metà del teorico. Difatti per Cs H,, NHSe0, (conc.=0,8892 °/,,4= 0,16) si ha p.m.= 105,6 (cale. 196,28); per Cs H., NHSO, (cone. = 0,7372 9% , 4= 0,195) si ha p. m.= 71,83 (cale. 149,10), ciò che proverebbe che i due composti in so- luzione acquosa sono fortemente dissociati. Determinazione della conducibilità specifica delle soluzioni di Cs Hio NH Se0.; e C; Ho NH SO,. — Walden nel suo interessantissimo lavoro sugli elettroliti anomali, fa notare che le basi terziarie, chinolina, piridina, &-pi- colina sono in anidride solforosa liquida buoni elettroliti. Poichè queste basi non possono formare ossidrili, ritiene che la conducibilità elettrica non può ricondursi come nei casi ordinarî alla presenza di questo fattore; ammette- rebbe perciò la formazione di un sale formato dal solvente che funzionerebbe da acido, e dalla debole base terziaria. Questo sale avrebbe una forma non comune, e si scinderebbe in un modo finora non noto. Con chinolina in ani- dride solforosa liquida potrebbe originarsi, ad esempio, secondo Walden (?): (0) Cs H7N 4 SO, = C$H, N s< 111 Vv vi 0 o più in generale R=N= S0;; questo composto potrebbe infine dissociarsi secondo lo schema: R.N:S50, — (RN)" +4 (S0,)”. Data l'analogia dei prodotti considerati abbiamo, per ora, determinato la conducibilità specifica in alcool metilico anidro. Come è noto dalle ricerche di Lincoln (*) la piperidina conduce pochissimo, e pochissimo conducono le so- luzioni metilalcooliche di anidride solforosa e di anidridi seleniose, mentre ì prodotti di addizione considerati conducono molto bene. Il metodo di misura seguìto fu quello di Kohlrausch con correnti alter- nate e telefono. La disposizione è quella data da Ostwald. Come cellula ser- viva una provetta contenente circa 30 cc., la quale poteva chiudersi con tappo su cui erano saldati i due elettrodi accuratamente platinati, distanti fra loro 11 mm. Si aveva cura di introdurre sempre resistenze tali da avere l'estinzione verso la metà del ponte. La capacità dell'apparecchio era de- (!) Walden, Z. f. phys. Chem., 43, 446 (1903). (2) Journ. phys. Chem., 3, 27 (1899) e 3, 465 (1899). — 101 — terminata mediante una soluzione N/50 di cloruro potassico purissimo. La soluzione veniva fatta pesando la sostanza in un tubetto munito di tappo smerigliato, e precedentemente tarato e poi ripesato. I calcoli sono eseguiti con la ben nota formula e i valori sono riportati nella seguente tabella: TABELLA 2A. Determinazione della conducibilità specifica: {° = 25°. (e ——____—__—_—_——————_———_—_—1_@@@—@ Concentrazione Conducibilità SOSTANZA in grammimolecole È per litro specifica Se0, 0,2706 0,00006868 Cs Hio NH Se 0, 0,2517 0,006972 SO, 0,8149 0,0001781 Cs Hi, NH SO; 0.2020 0,006303 Come si vede uumenta la conducibilità specifica notevolmente ciò che fa supporre la formazione di un sale elettroliticamente dissociato. Sulla na- tura dei ioni che si generano non possiamo pronunciarci ancora, giacchè si sta studiando più da vicino questo interessante caso di dissociazione tanto più che sembra che l'alcool partecipi alla reazione. Certo si è che la mag- giore conducibilità è dovuta alla presenza dell'azoto quaternario, e che tanto il selenio che lo zolfo esplicano la loro valenza massima. Determinazione della concentrazione degli ioni idrogeno nelle soluzioni metilalcooliche e acquoso-alcooliche di C:H,,NHSe0, e CH NHSO,. — Stabilito che i composti considerati sono buoni elettroliti abbiamo voluto indagare se essi erano di natura acida. Si presta a questo scopo il metodo di Bredig e Fraenkel (!) della saponificazione dell'etere diazoacetico. Per la preparazione delle soluzioni e per l’esecuzione dell'esperienze ci siamo atte- nuti a quanto consiglia il Fraenkel (*) nel suo lavoro. Il valore della co- stante K è dedotto dall’equazione K = 2 ml dove a è la queen "E concentrazione iniziale dell’estere diazoacetico, misurato dalle quantità di azoto sviluppato alla fine della reazione, x è la quantità trasformata del- l'estere per unità di volume, dopo 4 minuti, misurata parimenti dalla quan- tità di gas sviluppata dopo # minuti. Si esperimentò con soluzioni in alcool metilico anidro, e con miscuglio di alcool e acqua. Per assicurarci che non avveniva nelle condizioni dell'esperienza alcuna decomposizione con forma- zione di acido solforoso e selenioso, furon fatte determinazioni anche con soluzione di Se0, e SO, nelle identiche condizioni. Si ebbero i risultati riportati nelle seguenti tabelle: (1) Bredig e Fraenkel, Z. f. elektr., 11, 525 (1905). (2) Fraenkel, Z. f. phys. Chem., 60, 208 (1907). — 102 — TABELLA 838. Concentrazione dei ioni idrogeno in una soluzione di SeO,: solvente al- coolmetilico anidro: 1° — 25; a= 14,5 ce.; CONCENTRAZIONE | tempo 5 1 a r_ E (grammimolecole | in minuti Foe i 0,4343 £ log a—% sr: 38,5 per litro) 0,2498 60 11.8 0,003434 | 120 9,4 0,003522 ) 9,023,10=5 270 5.9 0,003330 \ 330 4,4 0,003613 TABELLA 48. Concentrazione dei ioni idrogeno in una soluzione di Se0, solvente: alcool e acqua 1:1; ° = 25; a= 21,4; t= 54 minuti. CONCENTRAZIONE tempo | a 1 K (grammimolecole | in minuti Pa Moira CET RR per litro) | 0,1253 8 9,3 0,1041 12 58 | D1055 0,002839 16 3,5 0,1131 \ 20 2,3 0,1115 | TABELLA 5°. Concentrazione dei ioni idrogeno in una soluzione di SO, — solvente alcool-metilico anidro: /° = 25; a= 19,3; 4#= 63 minuti. CONCENTRAZIONE | tempo 1 a i K imolecol i Laerd TAGS liaeeà>@lRe= Ca'= (grammimolecole | jin minuti 0,4343 £ a— x 38,5 per litro) | 23 4 0,06842 0,8149 8 11,6 0,06364 12 8,7 0,06639 | 15 7 0,06760 ) 0,0017388 20 5 0,06753 \ Î — 103 — TABELLA 68. Concentrazione dei ioni idrogeno nelle soluzioni di C5H,9NHSe0, e C;H,,NHSO, i 25°, Concentrazione SOSTANZA Solvente (grammimolecole ano Gas ne per litro) CsHio NH Se Os | alcool metilico anidro 0,1348 40 0,3 Cs Hio NH Se 03 alcool e acqua 1:1 0,1178 45 0,2 CsHio NHSO, alcool metilico anidro 0,2020 50 0,0 CsHi,NHSO, alcool e acqua 1:1 0,1010 45 2 Come si vede, mentre tanto Se 0; che SO, mostrano di reagire con alcool dando l'acido metilselenioso, e metilsolforoso, al contrario i due prodotti di addizione si sciolgono in alcool e in alcool e acqua senza decomposizione. In acqua sola non si ha subito per i due composti alcuna dissociazione. Col tempo intervengono, specie per C5 Hi, NH .SO:, fenomeni di idrolisi e allora aumenta il valore della costante K come risulta dalla TABELLA 78. Concentrazione dei ioni idrogeno nelle soluzioni acquose di C; H,, NHSe0, e Cs Ho NHSO.. Tempo ARI 4 GARNI CONCENTRAZIONE PENSAI a—a = 0,4343% log. ga CH%= 38,5 0,04399 244 14,6 1,751.10-4 4,548.1076 (Cs Ho NHSe0x) 344 144 1,781.1074 4,734.1078 argini 1480 | 11,5 1,908.10—+ 4,956.10— 0,03890 55 12,4 1,094.1078 Qi C17A107 (Cs Hi NHSO3) 202. 957 1,514.1073 3,932.1075 G=I39 302 7,2 1,995.1078 5,182.1075 to= 26° 458 4,5 2,341.1073 6,080.1075 Ù Non può quindi ammettersi un cambiamento di posizione dell’idrogeno immidico per dare un acido analogo all’acido amido-solfinico, giacchè quand'anche l'assenza dei ioni idrogeno si volesse attribuire alla comparte- cipazione di una molecola di alcool, il sale ottenuto, di struttura probabil- mente asimmetrica, starebbe sempre a provare la natura additiva del com- posto considerato. È verosimile che ciò accada anche per l’acido tionamminico 0 amido- solfinico. Proseguiremo lo studio della dissociazione e delle relazioni ricordate in questa Nota. — 104 — Chimica. — Sul perossido di alluminio (‘). Nota di A. TERNI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (°). Il contegno chimico dell'alluminio e dei suoi composti è stato studiato sempre col più grande interesse, sia per le proprietà veramente singolari di questo elemento, sia per la sua grande diffusione in natura: e questo in- teresse ha fatto sì che la letteratura chimica dell'alluminio è una delle più vaste e complete. Ma per ciò che risguarda le nostre conoscenze sugli ossidi, esiste, a parer mio, una lacuna. Infatti, oltre all’ossido limite Al, 03 a cui si possono riferire tutti i composti dell'alluminio, se troviamo nella letteratura di questo elemento alcuni dati sicuri sull'esistenza di un sottossido, descritto per la prima volta da Pionchon (*) e studiato poi da Kohn-Abrest (‘), non troviamo che vaghi accenni alla possibile esistenza di un ossido sopra il limite nei lavori di Cammerer (*) e di Weltzien (9): ma questi autori non sono arrivati ad alcun risultato positivo. L'esistenza però di un tale ossido appare delle più pro- babili, quando si pensi alla grande analogia esistente tra l'alluminio ed il boro, i perossidi del quale sono conosciuti già da lungo tempo. Sono noti, tra gli altri, un perborato sodico (”) corrispondente ad un acido perborico monobasico HBO; (*), e un perborato di bario B. 0; Ba.3H,0 (°). Per queste considerazioni mi è sembrato non del tutto privo di inte- resse cercare se fosse possibile dimostrare l’esistenza di un perossido di allu- minio per completare, sotto questo rispetto, la conoscenza del contegno chi- mico di questo elemento e per rendere più evidente la sua analogia col boro. Alcune ricerche da me eseguite, specialmente attorno all’azione dell'acqua ossigenata sopra una soluzione di alluminato potassico, hanno confermato la mia supposizione. (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica docimastica della R. Scuola d’ap- plicazione di Bologna. (*) Pervenuta all'Accademia il 26 giugno 1912. (8) C. R., 2/7, 328 (1898). (4) B. Soc. Ch., 3/, 232 (1904). (5) Ch. Z., 15, 957 (1891). (9) J. B., 1866, pas. 107. (*) Melikoff e Pissarjeski, Ber. Chem. Gesell., 3/, 678 e 955 (1898); Jaubert, C. R., 139, 796 (1904). (*) Constamm e Bennet, Z. Anorg. Chem., 25, 265 (1900). (°) Étard, C. R., 9/, 931 (1880). Secondo Melikoff e Pissarjeski (loc. cit.), al perbo- rato di bario spetterebbe la formula Ba(B0;);. — 105 — Ho trattato con un eccesso di acqua ossigenata al 30 °/, una soluzione concentrata di alluminato potassico ottenuta sciogliendo l’idrato di allumi- nio, precipitato con ammoniaca e accuratamente lavato, nella minor quan- tità possibile di potassa al 50 °/. Le prime porzioni di acqua ossigenata producono un precipitato bianco, gelatinoso, che si ridiscioglie per semplice agitazione del liquido: continuando ad aggiungere acqua ossigenata, ad un certo punto il precipitato persiste, ed aumenta fino a che il liquido assume l'aspetto di un latte di calce molto denso. La sostanza così ottenuta, filtrata alla pompa, lavata a lungo con acqua, con alcool e con etere fino a completa eliminazione dell’acqua ossigenata, e lasciata asciugare all'aria, si presenta sotto forma di una polvere bianca, amorfa, leggerissima: essa sì comporta come un vero e proprio perossido. È facilmente solubile negli acidi: nell’acido solforico concentrato e caldo si scioglie con svolgimento di ossigeno, mentre nell’acido solforico diluito e freddo si scioglie formando acqua ossigenata. Sposta facilmente l'iodio dal- l’ioduro potassico, dà acido percromico in presenza di acido eromico o di un cromato acidificato, e colora in rosso la seluzione solforica di acido titanico. Col permanganato potassico sì comporta come l’acqua ossigenata decompo- nendolo, e così è possibile determinarne l'ossigeno attivo. I sali manganosi, in ambiente alcalino, vengono ossidati a biossido di manganese, i sali ferrosi passano rapidamente a ferrici, i mercurosi a mercurici. In presenza di acqua rimane inalterata se si aggiunge biossido di manganese in polvere, viene da questo decomposta cataliticamente svolgendo tutto l'ossigeno attivo. Inoltre è facilmente solubile negli alcali senza svolgimento di ossigeno. Ora, data la proprietà del sesquiossido di poter agire sia come ossido basico che come anidride acida, è abbastanza ragionevole supporre che la sostanza descritta abbia anche carattere di peranidride e che nella soluzione alcalina esista un peralluminato. Naturalmente il perossido di alluminio, come si osserva in tutti i casi analoghi, avrà carattere meno acido del sesquiossido, e questo spiega come esso possa separarsi da una soluzione di alluminato potassico: difatti se questa soluzione contiene un forte eccesso di potassa, per aggiunta di acqua ossigenata non si ottiene alcun precipitato, e proba- bilmente tutto il perossido rimane in soluzione sotto forma di peralluminato potassico (1). Per stabilire la composizione della sostanza ottenuta ho, prima di tutto, ricercato il rapporto tra ossigeno attivo e Al,03. Alcune determinazioni, eseguite sopra preparazioni diverse, hanno mostrato l’esistenza di una pro- porzione costante che si avvicina molto a quella di un atomo di ossigeno (1) Dell’esistenza di questo peralluminato potassico non posso dare alcuna prova, perchè ogni mio tentativo per separarlo è riuscito vano: la sua preparazione, come pure quella di altri peralluminati, formerà oggetto di prossime mie ricerche. RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 14 — 106 — attivo per due molecole di Al, 03. Riporto qui sotto alcuni dei risultati ottenuti. sost. O attivo A1, 0; rapporto gr. 0,2124 gr. 0,0088 gr. 0,1060 Lea » 0,2012 » 0,00824 » 0,1005 IE dIE90 » 0,2014 » 0,00808 » 0,0988 TI SULON n 0,2054 » 0,00688 » 0,1066 I:M93 Ne deriva che alla sostanza si dovrebbe attribuire la formula Al, 0,: tenendo conto, però, che essa, come dirò più avanti, rappresenta il prodotto di decomposizione del biossido Al,0,, ho creduto opportuno di assegnarle la costituzione: Al, 0;.A1,0,. Essa contiene, inoltre, una grande quantità di acqua; le analisi eseguite, determinando questa per differenza, mi hanno portato alla composizione: Al» 03. Al» 0,.10H;0 (?): O attivo AIA MIRATO O AREZZO] Trovato Al,0; LI 49,91 5 49,85 9 49,06 | H,0 (per diff.) » 45,95 ; 46,06 ; 46,93 Calcolato per Al,0; .A1,0,.10H;0 :Oattivo:3,99; 41,03 :51,03 ; H20 : 44,97 °/ I risultati, pur avvicinandosi al calcolato, non sono molto esatti, e questo io credo dipenda principalmente da due cause. In primo luogo, è frequente il caso di corpi idrati nei quali la quantità di acqua non è assolutamente costante: e questo fatto viene ad alterare la composizione della sostanza. Anche l’idrato normale di alluminio, A1303.3H,0, secondo Schlumberger (*), non avrebbe mai esattamente questa composizione. Bisogna poi notare che la sostanza, essendo stata ottenuta per precipitazione da un liquido contenente potassa, allo stesso modo di tutti i corpi gelati- nosi, trattiene meccanicamente quantità notevoli di questa, senza che sia possibile eliminarla completamente anche con numerosissimi lavaggi. Infatti, nella sostanza analizzata ho sempre riscontrato la presenza di traccie, tutt'altro che trascurabili, di potassa. Altre ricerche mi hanno poi portato ad ammettere l’esistenza di un altro perossido di alluminio più ricco in ossigeno, del quale la sostanza già descritta, come ho accennato più sopra, non sarebbe che un prodotto di decomposizione dovuta alla grande quantità di acqua impiegata nei lavaggi. (*) Nonostante la costanza del rapporto (ossigeno att.: A1,0;), sorge il dubbio che si possa trattare del biossido A1,0, (vedi più avanti) impuro; spero, con altre ricerche, di poter confermare l’esistenza di questo perossido. (3) B. Soc. Ch., 13, 48 (1895). — 107 — Trattata, al solito, la soluzione di alluminato potassico con acqua ossi- genata, ho filtrato rapidamente il precipitato formatosi e, raccoltolo, l’ho fortemente compresso tra carta assorbente, in modo da eliminare l’acqua madre il più completamente possibile. Della sostanza così preparata non è possibile eseguire un'analisi completa, perchè, non essendo stata lavata, contiene una quantità forte di potassa meccanicamente inclusa (fino al 15 °/, circa): inoltre non è possibile asciugarla completamente, perchè va soggetta ad un rapido processo di decomposizione. Ho dovuto perciò limitarmi a stabilire il rap- porto tra ossigeno attivo e allumina, ed ho trovato costantemente una pro- porzione che si avvicina sensibilmente a quella di un atomo di ossigeno attivo per una molecola di Al,03}, come risulta dalla determinazione riportata, scelta tra le diverse eseguite. gr. 0,2086 di sost. fornirono gr. 0,00864 di O att. e gr. 0,0572 di Als 03; rapporto 1:1,03 Bisogna quindi ammettere che nella ossidazione dell’idrato di alluminio per mezzo dell'acqua ossigenata si formi il biossido Als 0, che in presenza di acqua si decompone poi, poco a poco, per trasformarsi nel perossido più povero di ossigeno, Als 03 . Al» 0, . Il biossido presenta tutte le proprietà caratteristiche di un ossido sopra il limite osservate nella sostanza descritta più sopra. naturalmente ad un grado assai più elevato. Esso, oltre a decomporsi in presenza di acqua, dando Al, 0;.A1,0, e acqua ossigenata, si decompone anche spontaneamente, lasciato a sè per ur certo tempo. Determinando il rapporto tra ossigeno attivo e Al303 anche solo dopo poche ore dalla sua preparazione, si nota che la quantità di ossigeno va diminuendo: dopo 10-15 giorni la sostanza è com- pletamente decomposta, ed il rapporto è divenuto di un atomo di ossigeno attivo per due molecole di Al, 03. Si ha, cioè, la trasformazione completa nel perossido Als 03. AL 0, . Alcuni altri tentativi eseguiti per ottenere tali perossidi per vie diverse, non hanno dato alcun risultato positivo. Facendo agire l’acqua ossigenata sopra l’allumina idrata, non ho potuto riscontrare in questa alcuna traccia di ossidazione: e ciò contrariamente alle esperienze di Cammerer (!), il quale, avendo operato circa nelle stesse condizioni, accenna alla formazione di cri- stalli contenenti piccole quantità di acqua ossigenata. Del resto l’autore stesso non esclude che essa possa essere stata trattenuta meccanicamente. Ho anche tentato di produrre una ossidazione anodica sottoponendo al- l'elettrolisi una soluzione di alluminato potassico: ma nello spazio anodico tenuto separato per mezzo di un vaso di porcellana porosa, non ho mai tro- (O)Mocsfcit — 108 — vato, in varie esperienze eseguite con correnti di intensità diversa, alcuna traccia di perossido. Questo fatto è in perfetta analogia con quello che succede per il boro: Constam e von Bennet (') hanno infatti dimostrato che nella elettrolisi di una soluzione alcalina di borace non si ha mai formazione di perborato. Da quanto ho esposto nel presente lavoro, appare dunque più completa l'analogia tra l'alluminio ed il boro. Al perossido di alluminio Al, 0, corrì- sponde il perossido di boro B,0, dal quale, secondo Etard (?), si possono considerare derivati tutti i perborati. Mentre dell'alluminio è possibile otte- nere il perossido libero, del boro si ottengono sempre i perborati: ciò dimo- stra, come era facilmente prevedibile, che esso ha un carattere acido meno accentuato del perossido di boro. L’analogia, poi, appare anche nel modo di formazione, poichè in ambedue i casi i perossidi (od i loro sali) si otten- gono solo (*) per azione di ossidanti sopra i rispettivi sali alcalini. Sono in corso altre ricerche sopra questo argomento. Chimica agraria. — Azione del fosfato monocalcico nella conservazione dei foraggi verdi (*). Nota di G. SANI, presentata dal Socio G. KORNER. Il contributo più valido allo studio della conservazione dei foraggi in silos venne da noi, fin qui, portato dai proff. Menozzi e Alpe (5); notevoli sono le loro ricerche, molto interessanti i risultamenti. Alla demolizione più o meno profonda delle sostanze organiche costituenti i foraggi e precisamente delle più utili per la nutrizione e di conseguenza naturale le più labili, concorrono in parte azioni fisiologiche inerenti alla continuazione della vita delle piante infossate, ossidazioni interne o intramolecolari, ma nella più larga misura l'attività diretta o indiretta di microorganismi. Dal punto di vista chimico si tratta di processi idrolittici che danno luogo a formazione di alcool e prevalentemente di acidi diversi, il cui predominio è bene manifesto ad onta di una non lieve eterificazione. Limitando l’aria si è potuto moderare l'entità delle perdite; cercando di escluderla, i danni sono stati più profondi assai, perchè hanno preso il (1) loc. cit. (*) loc. cit. (3) Melikoff e Pissarjeski, loc. cit. (4) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica Agraria del R. Istituto Superiore Agrario di Perugia. Presentata nella seduta del 16 giugno 1912. (9) Ricerche eseguite per invito del Ministero. Annali del Laboratorio di Chimica agraria della R. Scuola Superiore di Agricoltura, Milano, 1898 — 109 — sopravvento microorganismi aneroli e le masse di foraggio, volute conservare in tal modo, talora non rappresentavano più in fine che un cumulo di sostanze in dissolvimento tanto avanzato da rasentare la putrefazione. Fatta astrazione dell'importanza saliente che può avere la conservazione dei foraggi in tutti i paesi, nei periodi dell'anno nei quali la loro trasfor- mazione in fieno non può verificarsi per condizioni di clima, essa assume un valore stragrande nel centro e nel sud d'Italia, ove è possibile ottenere una produzione foraggera molto notevole solo in primavera e naturalmente l’ali- mentazione degli animali con foraggio verde dura relativamente poco, con danno manifesto alla nutrizione — ciò sanno bene gli allevatori e meglio i zootecnici. Ma dicono naturalmente tutti — il conservare foraggi in silos rappresenta oltre che una spesa non lieve — un danno certo, che aumenta nei paesi più caldi — per la grande perdita di sostanza secca. La questione mi ha interessato e mi è sembrato utile occuparmene quantunque i mezzi di esperimentare a mia disposizione siano ben lungi da ciò che sarebbe necessario. Come è noto, l'attività di molti microorganismi si arresta per effetto dei materiali da loro stessi elaborati — a convincersene basterebbe l'esempio dei nitrobacteri che non possono vivere in presenza di acido nitrico pure in tenuissime quantità 0,1°/. In genere, medii acidi, da acidi minerali, non sono bene tollerati da molti microorganismi; con questo concetto ho trattato del buon trifoglio con fosfato monocalcico — finemente polverizzato, stratifi- candolo entro un grande silos in lamiera di ferro — altro silos simile ho fatto preparare in modo analogo senza alcun trattamento; in ambedue i casi il caricamento del foraggio venne fatto con tutte le norme prescritte per ottenere silos dolci. Un primo effetto manifesto della presenza di fosfato acido di calcio fu l'attenuamento delle temperature ognora rigorosamente seguito in confronto col foraggio infossato senza alcun trattamento, come si può agevolmente ri- levare dai dati qui sotto riportati: O TEMPERATURE DEL FORAGGIO INFOSSATO. * Caricamenti Data 1 Silos 2 Silos — delle Ore senza con Data osservazioni alcun trattamento P3 08 H* Ca ò giugno ore 14 6 giugno 11 + 33 + 27,5 » 19,15 35,5 29 7 giugno 11 41 35 ” 19 45 40 8 giugno 11 d4 47,5 8 giugno ore 18 1/, 5) 18,30 | + 55 48 9 giugno ore 16/,|] 9 giugno 11 40,5 ” 19,80 47 10 giugno ore 15 10 giugno 9,30 50 10 giugno ore 15 !/s ” 15,30 | + 52 11 giugno 11,30 48.7 32,5 ” 19 51 34 12 giugno 11,30 62 44,25 ” 16,45 56,9 40,20 13 giugno 11,30 62 44,25 ” 16 62,5 45 14 giugno ore 11 14 giugno 10,80 | + 66 47 14 giugno ore 15 ” 14,30 55 + 47,5 14 giugno ore 16 */, ” 16 54 compressione comp. 15 giugno 11,30 30 23,5 ” ION 32 26 16 giugno 11,30 34,2 29 ” 19,30 38 sl 17 giugno 10 41 34,5 comp. » 19 41 36 18 giugno 11 45,5 37,5 ” 19 46,9 38,5 19 giugno 19,30 47,5 40,75 » 11,30 48,5 41,5 20 giugno 19 49 41,75 21 giugno 11,30 50 42 ” 19,30 51 42 22 giugno 11,30 93 42 ” 19 54,5 compressione 42,2 comp. 23. giugno 11,30 94 41 * Le temperature vennero osservate con cura dal signor dott. Umberto Misuri che ringrazio. — 111 — I due silos erano nelle identiche condizioni di ambiente esterno, protetti da un forte strato coibente; la quantità di fosfato aggiunto fu di gr. 300 per quintale di foraggio verde infossato e, come si vede, essa esercitò una marcata influenza nel deprimere la temperatura della massa, il che devesi verisimilmente attribuire alla mancanza di fenomeni fermentativi dovuti a microorganismi, pure continuando la respirazione e le azioni diastasiche intra- molecolari. Che le cose siano così sta ad indicarlo un altro fatto; il compor- tamento diversissimo del materiale infossato una volta estratto dal silos: quello senza alcun trattamento viene invaso prontamente da abbondante flora di muffe la cui azione energica ha come sintomo manifesto una forte eleva- zione di temperatura, — l’altro che ha subìto il trattamento è perfettamente immune da muffe, ha la temperatura dell'ambiente ancora dopo 10 giorni di esposizione all'aria, conserva profumo etereo-alcoolico gradevolissimo — mentre il primo dopo due giorni di esposizione all'aria cominciava già ad assumere odore sgradevole. L'aspetto del foraggio trattato con fosfato acido è quasi di erba fresca; è verde, conserva i fiori del colore pressochè normale ed all'esame microsco- pico, gentilmente eseguito dal sig. dott. Severini (di questo laboratorio bo- tanico), dimostra contenere inalterato in gran copia l'amido, il che ha poi conferma nelle ricerche chimiche; ha molto pigmento verde, solo il contenuto cellulare si presenta un poco coartato. Ma l'odore etereo sta ad indicare che modificazioni sono indubbiamente avvenute nei principii immediati; non si tratta infatti che di limitazioni di perdite: — in undici mesi di conservazione si ebbe una diminuzione com- plessiva di peso del 13,70 °/, pel trifoglio trattato, che raggiunse il 18,68 °/, per quello non trattato, differenza già saliente, che in realtà aumenta poi assai quando dalle ricerche eseguite si accerta che il primo materiale con- tiene il 28,32 °/, di sostanza secca, mentre nel secondo questa discende a 23,99 °/,; nel trifoglio fresco la quantità di sostanza secca era del 27,61 °/,. Porzioni del foraggio da infossarsi vennero affienate ottenendo il 31,58 °/ di fieno, il quale dopo undici mesi di conservazione è diminuito di 1,62 °/, del proprio peso. i Del foraggio infossato con trattamento con fosfato acido di calcio e del fieno ottenuto riferisco qui sotto la composizione chimica: In cento parti. Di foraggio infossato Di fieno (un P? 08 H* Ca) Uni ditatee: atta ie e (071,68 12.65 SOStANZARse cca e N e NO 83O 87.35 Acidità in acido latrico . . . 0,549 — 112 — In cento parti di sostanza secca a 100°. ProtelnaWgreggia ai a MAMA 6:02 16.61 Albuminoidi digeribili. . . . 10.03 12.38 AMMINOICIME R0091 —_ —- Grassolgreggiol 0 i i. AMM 6:08 4.50 Amido! hi sotti cttr irta lia 8:88 11.12 L'estratto del foraggio infossato ottenuto per prolungata ebollizione con acqua e defecato opportunamente non contiene traccie di zuccheri ridut- tori, il che indica che la saccarificazione dell’amido scomparso non rappre- senta che la prima fase di modificazioni assai più profonde. L'aumento del grasso non è che apparente, mentre assai importante è la conservazione quasi integrale degli albuminoidi digeribili, e ciò in armonia con quanto avevo già constatato con esperienze in piccolo alcuni anni fa. Dall'esame dei dati sovraesposti risultano intanto fatti istruttivi; appare cioè, che la composizione del foraggio infossato in confronto a quella del fieno di trifoglio è tale da farlo considerare ancora come un ottimo alimento; con- serva, infatti, inalterata una rilevante quantità di albuminoidi digeribili; non essendo relativamente grande quella dei loro prodotti di scissione, come pure di grassi propriamente detti (sostanze saponificabili, tutti gli acidi liberi, nell'estratto etereo) ed ha ancora un notevole tenore in amido. La pratica dell'infossamento dei foraggi con fosfato acido di calcio può quindi portare a qualche notevole vantaggio, tanto più che il valore nutriente del foraggio conservato come tale è assai inferiore; la perdita di albuminoidi digeribili si spinge al massimo grado, oltre il 75 °/, di quella preesistente, mentre cre- scono in proporzione gli amminoacidi e l’amido scompare per 61,48 °/, del contennto nel foraggio verde; solo il grasso si conserva, considerata la parte saponificabile, detratti gli acidi liberi. Sto facendo prove per vedere se aumentando le dosì di fosfato, si limi- tano ancora più le perdite e paralellamente fino a quando l'aggiunta può essere bene tollerata dagli animali destinati ad alimentarsi di foraggi con- servati in tal modo. A parte, sul materiale ottenuto dal infossamento del trifoglio come tale, ove le metamorfosi sostanziali furono assai più profonde, ho in corso ricerche chiwiche aventi lo scopo di studiare un po' più da vicino i prodotti di decomposizione dei principii immediati del foraggio. i Maio Patologia vegetale. — Styr/ficato patologico dei cordoni endo- cellulari nelle viti affette da arricciamento. Nota di L. PETRI, presentata dal Socio G. CuBoni ('). In una prima Nota (*) sulla presenza di cordoni endocellulari nelle viti affette da arricciamento (roncel, court-noué), ho già accennato all'assenza di queste anomalie citologiche in diverse altre forme di rachitismo, come in quello prodotto dal mal nero, dal marciume parassitario delle radici, dalla fillossera, dal Dactylopius o da acari (Phyllocoptes), e, nelle viti innestate, da un insufficiente affinità d’innesto. D'altra parte le ricerche estese a numerosi casi di arricciamento di va- rietà di vinifera ed americane, coltivate in Italia, in Francia e nella bassa Austria, banno confermato la presenza di cordoni endocellulari nei tessuti secondarî e nell’epidermide degli organi aerei con quella particolare localiz- zazione, a cui ho già accennato nella Nota predetta. Essendo stato attribuito l’arricciamento all'azione dei freddi primaverili o anche a quelli precoci autunnali, (Ravaz, Comes, Peglion), era interes- sante stabilire se nei germogli o nei giovani tralci rachitici, o comunque danneggiati dal freddo, sì trovassero cordoni endocellulari. I resultati principali delle ricerche eseguite in proposito sono stati i seguenti: 1) nelle viti che hanno sofferto il gelo invernale non si formano cordoni endocellulari; 2) nei germogli rachitici sviluppatisi da gemme che furono danneggiate dal freddo tardivo quando erano all’inizio della vegeta- zione, non ho trovato che molto raramente cordoni endocellulari; 3) nei giovani tralci con accorciamento degl'internodi basali o anche di quelli vieini all’apice per freddi che sono avvenuti quando i germogli erano già alquanto sviluppati, ho trovato spesso cordoni endocellulari nel legno degl’internodi basali, mai in quelli apicali direttamente danneggiati dal freddo; 4) nei giovani tralci con foglie presentanti le lesioni caratteristiche delle gelate pri- maverili (perforazione) (*), ho trovato spesso, negl’internodi basali, i cordoni endocellulari nel legno e nel libro, ma senza constatare nessun rapporto fra l'entità dell’alterazione visibile causata dal freddo e la formazione dei (1) Pervenuta all'Accademia il 22 giugno 1912. (2) Questi Rendiconti, vol. XX, serie 52, 2° sem. 1911, pag. 155. (*) Peglion V., Contributo allo studio della « perforazione » della vite e di altre piante legnose. Ferrara, 1908. Dal prof. Peglion ho ricevuto abbondante materiale relativo alla perforazione. Materiale relativo ai danni del freddo sulla vite ho ricevuto dal prof. Ravaz (Montpellier) e dal sig. Giulio Catoni (Trento). A tutti rivolgo i miei ringrazia- menti per il cortese e prezioso interessamento. RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 15 — ll4 — cordoni. In alcuni casi i giovani tralci con cellule cordonate avevano le foglie pochissimo danneggiate e solamente quelle della porzione apicale. Resulta dunque da queste ricerche che la formazione dei cordoni endo- cellulari sembra avvenire, almeno di preferenza, nelle viti che hanno sofferto per freddi tardivi quando già i germogli sono alquanto sviluppati. Nei giovani tralci affètti da arricciamento (nei quali si trovano sempre cordoni endocellulari) è stata infatti constatata la presenza di alterazioni prodotte dall’azione del freddo (Ravaz, Biasco). Io stesso bo notato quasi costantemente la necrosi di cellule e la geli- ficazione di membrane nell'astuccio midollare, nel protofloema e nel paren- chima corticale primario. Anche nell'epidermide la parziale gelificazione e imbrunimento delle pareti sono frequentissimi. Solo apposite esperienze po- tevano stabilire se anche la formazione dei cordoni endocellulari si dovesse attribuire all'inluenza di un abbassamento di temperatura. Queste esperienze furono eseguite in questa primavera adoperando alcune viti coltivate in vaso, non innestate. L'abbassamento di temperatura era otte- nuto ponendo intorno alle piante (parte aerea) un recipiente di zinco a doppia parete, pieno di ghiaccio nell'intercapedine. Le temperature minime oscillarono fra 5° e 2° C. sopra 0, mentre la temperatura esterna massima ha raggiunto in qualche giorno 28-32° C. al sole. La temperatura di 0 0 — 1° C. è stata prodotta eccezionalmente. Gene- ralmente gli abbassamenti di temperatura erano fatti al tramonto del sole. Ogni pianta ha subìto dagli 8 ai 15 raffreddamenti nello spazio di 38 giorni (29 aprile - 5 giugno). I resultati sono stati i seguenti: Nelle viti che erano già ammalate d'arvicciamento sì sono formati nu- merosi cordoni nell'anello legnoso in accrescimento, in confronto al numero di quelli formatisi negli anni precedenti. Numerosi cordoni sono comparsi nelle cellule epidermiche dei germogli; mentre i germogli che si erano svi- luppati prima dell'esperienze, e che furono tolti, ne erano quasi privi. Nelle viti sane che non presentavano nessun cordone endocellulare negli anelli legnosi degli anni precedenti, se ne sono formati per la prima volta negli elementi del legno originatosi sotto l'influenza del freddo. Negl’internodi basali dei giovani tralci si sono pure formati cordoni nel tessuto legnoso; nessuno sull’epidermide, o appena rudimenti in singole cellule. Il caratteristico court-n0vé per freddo non si è verificato. Questi giovani tralci erano robusti come quelli della vite controllo, la quale non ha presentato alcuna formazione di cordoni. Questi resultati corrispondono a quanto si osserva nelle viti che sono all'inizio del deperimento per arricciamento: e cioè la prima formazione di cordoni avviene in tralci che, almeno apparentemente, sono normali e sani. Anche la comparsa dei cordoni epidermici nelle viti che si ammalano natu- — 115 — ralmente è di origine secondaria, cioè si verifica quando il tralcio legnoso, da cui proviene il germoglio, possiede già cellule cordonate. È un effetto dello aumento di sensibilità delle cellule epidermiche ai freddi tardivi quando il cambio del tralcio padre è già stato colpito dall'alterazione. La formazione dei cordoni limitata ai due o tre ultimi internodi basali dei germogli deve essere attribuita al grado di differenziamento in cui si trovano i tessuti del cilindro centrale al momento dell'azione del freddo. Il cambio dei giovanissimi internodi vicini all'apice, come anche i fasci procambiali, non reagiscono con la formazione di cordoni, in questi tessuti, che partecipano in grado maggiore delle proprietà fisiologiche dei meristemi apicali, si verificano altre alterazioni che rientrano fra gli effetti acuti del freddo. Quando un tralcio presenta i cordoni sino agli estremi internodi, si tratta di un fatto che può avvenire solo in una pianta già da tempo amma- lata, nella quale la formazione dei cordoni nei germogli in accrescimento rappresenta una conseguenza della preesistenza dell’alterazione nel cambio del tralcio da cui questi germogli provengono. Questo perpetuarsi dello stimolo di formazione di simili anomalie, indi- pendentemente dall'azione del freddo, in piante già ammalate da alcuni anni, è ben evidente in quei polloni che si sviluppano apparentemente normali nell'estate alla base dei ceppi malati. Questi tralci hanno sempre cellule cordonate nel legno e nel libro. Il /issarse, sul protoplasto delle cellule cambiali, della proprietà di formare cordoni endocellulari, la trasmissibilità di questa sorta di stato patologico da un organo adulto a un altro in via di sviluppo, indicano indirettamente l'interpretazione che si deve dare alla azione del freddo in questo caso particolare. Nella Nota precedente ho già detto come l'origine dei cordoni nelle ini- ziali del cambio sia dovuta alla presenza di particolari corpi d’eserezione inclusi nel citoplasma, di una natura chimica simile a quella delle mem- brane al momento della loro costituzione. Si tratta probabilmente di sostanze pectocellulosiche, con prevalenza delle prime. Questa eccezionale comparsa, nel citoplasma, di sostanze che ordinaria- mente sono adoperate nella formazione delle pareti, rappresenta senza dubbio il prodotto della deviazione di un processo tutt'affatto diverso nella attività normale del protoplasto. La tendenza nelle cellule dei meristemi secondarî, o in quelle ancora giovani che ne derivano, a formare gomme o resine sotto l'influenza di stimoli patologici, è un processo che ha soltanto delle ana- logie con l'anormale formazione, nel citoplasma, di sostanze simili nell’ori- ginarsi dei cordoni. Sorauer (') ha dimostrato anche recentemente che il freddo, come tale, non provoca la formazione di gomma; solo può determinare la geliticazione delle pareti di talune cellule. (1) Untersuchungen iber Grummiftuss und Frostwirkungen bei Kirschbàumen. (Landwirt. Jahrb., 1910, pag. 259). — 116 — Questo ed altri danni del freddo, ben evidenti, che possono essere at- tribuiti a un'azione chimica a cui esso dà origine nelle cellule stesse, si riferiscono a temperature molto basse che sono mortali per il protoplasma; o, per lo meno, simili effetti si trovano sempre accompagnati dalla morte delle cellule. L'abbassamento di temperatura, entro limiti che dovranno essere deter- minati sperimentalmente, quando agisce sul cambio in piena attività, in un tralcio legnoso od erbaceo, ma in cui il cilindro legnoso abbia ormai as- sunto la struttura secondaria, non dà origine a quelle alterazioni, comune- mente note, che si possono considerare come effetti 4cv#, ma a una pertur- bazione dei processi di accrescimento e di divisione delle cellule del cambio. Il fatto che la formazione dei cordoni avviene sempre in vicinanza del nucleo, può indurre a ritenere, con qualche ragione, che appunto in questo la bassa temperatura determini un'alterazione sia quando si trovi allo stato di riposo, sia, più facilmente, durante la divisione ('). L'azione del freddo rap- presenta quindi la causa occasionale di perturbazione, di un processo normale; questa deviazione diventa a sua volta una causa determinante di deviazioni simili nelle cellule che derivano da quella primieramente danneggiata o che fanno parte dello stesso tessuto meristemale. Un fenomeno analogo a quello che si verifica per quelle alterazioni o variazioni ereditarie che seguono a traumatismi (*). Che nella pianta questo stato di estrema sensibilità a questa partico- lare azione del freddo sia determinato da speciali condizioni di vegetazione e da proprietà intrinseche costituzionali, è fuori di dubbio, giacchè altrimenti la formazione di cordoni endocellulari dovrebbe esser comune a tutte le viti indistintamente. Ora, al contrario, alcune varietà (le americane specialmente) con più faci- lità presentano queste anomalie, a differenza di altre molto meno sensibili (al- cune varietà di wzr6/era); e fra le prime in alcuni casi è possibile con- statare come quelle condizioni di terreno e di giacitura, che comunemente favoriscono il verificarsi dei danni ordinarî del freddo, determinino anche una maggiore frequenza della formazione dei cordoni. (1) Sono già note diverse alterazioni della struttura nucleare sotto l'influenza di basse temperature: disorganizzazione delle formazioni cinoplasmatiche, deformazione del nucleo (forma ameboide), nuclei giganti, amitosi, vacuolizzazione del plasma nucleare, accumulo di cromatina in corpi numerosi nucleoliformi. (*) In diversi casi di variazione delle gemme per cause non parassitarie si verifica un fenomeno simile a quello sopraccenuato; il perpetuarsi di una deviazione morfogenica del cono vegetativo anche quando la causa che la determinò ha cessato di agire. Krasser (Jahresber. der Vertreter d. angew. But., 1905) ha già espresso l’opinione che nel caso del Arautern (= arricciamento) si tratti di una particolare malattia del protoplasma di determinate regioni della pianta. — 117 — To devo escludere che si tratti di vere cause patogene, giacchè le viti che sono all'inizio della formazione dei cordoni endocellulari hanno sovente un eccezionale vigore vegetativo. Dall'esame di numerosissime viti colpite d’arricciamento, e da quanto è stato dimostrato dalle esperienze ora riferite, è possibile ricostruire l’anda- mento della formazione dei cordoni in una stessa pianta per un certo numero di anni, dal momento in cui il processo s'iniziò per la prima volta in modo apprezzabile. Cellule cordonate possono esser formate dal cambio degl’internodi basali dei tralci più elevati; oppure, sin dall'inizio, tutto il cambio del fusto può formare cordoni. Questa differente localizzazione dell'alterazione dipende dal momento in cui è avvenuto l'abbassamento di temperatura. Se questo avviene quando già il cambio dei tralci legnosi è entrato in attività, la formazione dei cor- doni è diffusa a quasi tutta la pianta, tolte le radici più profonde e quelle più giovani; se agisce quando ì germogli negl’internodi basali hanno già formato una cerchia chiusa di legno e il cambio dei tralci legnosi è ancora fermo, i cordoni si formano soltanto in corrispondenza degl’'internodi basali dei germogli. Generalmente si trovano i cordoni nei primi clementi legnosi formati in primavera; non di rado anche in quelli della fine del periodo vegetativo. Sono i due periodi dell’anno nei quali si possono verificare abbas- samenti eccezionali di temperatura. La frequenza dei cordoni in uno stesso anello legnoso indica, più che l'intensità, il rapido ripetersi del raffreddamento. Il tralcio o i tralci superiori, che esclusivamente o maggiormente, a ragione della loro precocità di sviluppo, hanno risentito gli effetti del raf- freddamento, nell’anno seguente dànno origine a germogli i quali posseggono una sensibilità maggiore per gli abbassamenti di temperatura, che se si ve- rificano durante la primavera, provocano la formazione di cordoni nell'epi- dermide degl'internodi basali e in maggior numero nel legno e nel libro, dove possono sommarsi a quelli che, anche indipendentemente dal freddo, si formano per la preesistenza dei cordoni nel tralcio padre. I germogli del 3° anno, posseggono cellule cordonate pure negli stessi tessuti, e anche indi- pendentemente dal freddo. In una stessa vite quindi. la maggiore o minore frequenza di cordoni endocellulari dovrebbe dipendere dall'andamento della stagione: e siccome le alterazioni di un anno si dovrebbero sommare a quelle di un altro, tanto più presto dovrebbe esser raggiunto un massimo nella formazione di queste anomalie quante meno interruzioni si verificassero nel succedersi delle sta- gioni a decorso anormale. Le singole cellule cambiali hanno però la pro- prietà di interrompere la formazione dei cordoni, sia col passare allo stato di cellule definitive dopo aver dato origine a una cellula non cordonata che funziona da iniziale, sia col cessare l'elaborazione della sostanza che dà origine ai cordoni. — 118 — Le grosse e più alte radici presentano cordoni nell'anello legnoso che generalmente è stato formato un anno dopo quello del fusto dove per la prima volta si trovano cellule cordonate. I rigetti che eventualmente si svi- luppano durante il giugno e il luglio, presentano le stesse anomalie citolo- giche. Mentre però nei tralci superiori è manifesto ormai un rachitismo (!), in quelli del pedale gl’internodi sono di lunghezza normale. Quando una pianta presenta la formazione dei cordoni da diversi anni, è facile trovare tralci che hanno cellule cordonate del legno e del libro sino quasi nell'ultimo internodio apicale. I cordoni epidermici, che si formano maggiormente sotto l'influenza diretta del freddo, sono limitati agl’internodi inferiori, al massimo sino a metà circa del tralcio. I polloni basali, perchè almeno in apparenza normalmente sviluppati, tolti dalle piante madri dei vivai, servono spesso per far talee. Questo legno porta, fissata nel protoplasto delle cellule cambiali, la proprietà di formare cordoni nei tessuti secondarî e la elevata sensibilità per gli effetti del freddo sul cambio in accrescimento. Uno dei fattori esterni che maggiormente in Sicilia e nell'Italia meri- dionale in generale favorisce il manifestarsi di questa particolare alterazione del cambio, è certamente l'inverno mite che determina il prolungarsi della vegetazione, sia nelle viti nostrali che americane, sino a dicembre e in qualche caso, quasi tutto l'inverno (?). I tessuti in accrescimento, per quanto lento, sono nelle condizioni di subire gli effetti di bruschi abbassamenti di temperatura; cosicchè, per queste viti, i pericoli della primavera sì ri- petono nell'autunno inoltrato, con conseguenze forse anche più gravi (8). D'altra parte la resistenza fisiologica dei tessuti all'azione dei freddi tardivi viene certamente a diminuire in confronto a quella presentata da piante che vivono in regioni a inverno lungo e relativamente rigido (*). (1) Questo rachitismo deriva essenzialmente da una diminuita attività d’accresci- mento del cambio, esagerata spesso dalla bassa temperatura. Gl’innesti legnosi di marze sane su soggetti ammalati dimostrano che la causa deprimente ha un'azione localizzata nella sommità del ceppo, giacchè almeno nel primo anno i germogli della marza sono spesso di un vigore eccezionale e privi di court-noué. (3) Cf. Sannino, F. A., Za vegetazione invernale delle viti a Catania. Questi Rendiconti. Vol. XIX, 1910, pag. 847. (3) Cfr. le idee di Ravaz espresse nel Progrès agricole et viticole, 1909, pag. 73. (4) Schaffuit, Studien uber den Einfluss niederer temperaturen auf die pflanzliche Zelle. (Mitt. ans K. W. Inst. f. Landwirt. in Bromberg, Bd. ITI, 1910). È certamente in relazione a questo fatto che barbatelle americane sane importate in Sicilia dal Nord, e piantate insieme a viti provenienti da piante madri da lungo tempo coltivate in Sicilia, hanno mostrato una più grande resistenza a questi particolari effetti del freddo sulla zona cambiale. Io credo che si dovrebbero impiantare in Sicilia o altrove dei vivai posti in luoghi dove la temperatura invernale scendesse sotto lo 0. È evidente che l'ubicazione dei vivai attuali posti quasi tutti sul litorale offrono le condizioni migliori per il verifi- carsi di questa alterazione del cambio. — 119 — Queste condizioni di vegetazione non costituiscono da sole la causa della enorme diffusione che in Sicilia hanno le viti con anomalie del cambio: il fatto che questo processo acquista quasi i caratteri di una malattia del pro- toplasma che si fissa nelle cellule cambiali, spiega in qual modo, del tutto involontario, si sia fatta una larga moltiplicazione e distribuzione del legno, dirò così, ammalato. Si comprende come una talea che provenga da una pianta a cellule cordonate debba dare germogli e radici provvisti della stessa alte- razione. Ora, proprio parallelamente a questo fatto si presenta lo sviluppo sten- tato degli uni e delle altre. Siccome è dimostrato che i cordoni endocellu- lari si formano nella pianta prima dell’arricciamento, sembrerebbe logico de- durre che l'alterazione del cambio genera il rachitismo. Solo le esperienze dirette a stabilire se la formazione di cordoni endocel- lulari e l'arricciamento rappresentino due effetti di una stessa causa, potranno risolvere la questione (*). Le mie ricerche portano un contributo di nuove cognizioni in appoggio a quelle ipotesi che attribuiscono la causa dell’arric- ciamento ai danni dei freddi tardivi o precoci. Dopo quanto ho esposto sul come deve essere interpretata l’azione del freddo, riesce comprensibile in qual modo sia sòrto l'equivoco intorno a due ordini di effetti di questa stessa causa, dei quali gli uni sono immediatamente palesi e temporanei, gli altri si manifestano solo con le loro conseguenze più lontane e durevoli (?). (1) Il resultato di queste esperienze non potrà aversi che fra due o tre anni, se non m’inganno nelle mie deduzioni. (2) Il rachitismo, quale effetto acuto del freddo tardivo è stato quindi erroneamente eguagliato al rachitismo cronico dell’arricciamento. E. M. OPERE PERVENUTE IN DONO ALI ACCADEMIA presentate nella seduta del 5 maggio 1912. Bere L. S. — Faune de la Russie ct des pays limitrophes fondée principalement sur les collections du Musée zoologique de l’Acad. Imp. des sciences de St. Pé- tersboure. Poissons (Marsipobranchii et Pisces). Vol. I.St.Pétersbourg, 1911.8°. BrancHi V. L. — Faune de la Russie et des pays Ilmitrophes fondée principa- lement sur les collections du Musée zoolegique de l’Acad. Imp. des sciences de St. Pétersbourg. Oiseauz (Aves). Vol. I. Demi-volume premier. St. Pé- tersbourg, 1911. 8°. BucHANAN J. Y. — Im and around the morteratsch Glacier: a study in the natural history of ice. (Repr. from the « Scottish Geographical Magazine », 1912). Glasgow, 1912. 8°. Catalogue photographique du Ciel. Coor- données rectiliones. T. II: zone + 8° A-+ 10°. T. INT: zone +.14° A+ 16. Paris, 1911. 4°. Caucay Au. — Oeuvres complètes. I° ser. Tom. III. Paris, 1911. 4°. Linko A. K. — Faune de la Russie et des pays limitrophes fondée principalement sur les collections du Musée zoologi- que de l’Académie impér. des sciences de St. Pétersbourg. Hydraires (Hy- droidea). Vol. I. St. Pétersbourg, 1911. 9, Lorenzoni G. e Silva G. —- Il supporto bipendolare « Mioni » a recipienti pneumatici. (R. Commiss. geodetica italiana). Padova, 1912. 4°. MeLI R. — Intorno l’origine dei due laghi Albano e Nemorense. (Estr. dal « Boll. della Soc. Geolog. ital. », vol. XXX). Roma, 1912. 8°. SADERRA Masò M. — The earthquake of the agusan valley and the eastern coast of Mindanao, July 12, 1911. (Repr. from the « Bulletin of the Weather Bureau », 1911). s. d. nec 1. SAapERRA Masò M. — Volcanie eruptions in the Philippines in relation to earth- quakes and subterranean noises, to rainfall and atmospheric pressure. (Repr. from the « Bulletin of the Weather Bureau », 1911). s. d. nec I. Scritti medici in omaggio ad Augusto Morri. XXXV anno di insegnamento. Bologna, 1912. 8°. SiLva G. e Lorenzoni G. — Il supporto bipendolare « Mioni » a recipienti pneumatici. (R. Comm. geodet. ital.). Padova, 1912. 4°. TARAMELLI T. — Sulle valli sommerse del Golfo Ligure. (Estr. dalla « Rivista mensile di Sc. nat., Natura ». Vol. III). Pavia, 1912. 8°. Warrer KnocHe. — Observaciones en la Mina Aguila 5,200 m. (Cordillera de Quimza Cruz-Bolivia) del 26 de Abril hasta el 12 de Septiembre de 1909. Santiago de Chile, 1911. 49. Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo 1-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. IFI. (1875-76). Parte 1* TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. IV. V. VI. VII. VIII. Serie 3* — Transunti. Vol. I-VIII. (1876-84). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II. (1, 2). — II-XIX. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e flologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpiconTI Vol. I-VII. (1884-91). MeMoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. 1-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XXI. (1892-1912). 2° Sem. Fase, 1°. ReENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XX (1892-1912). Fasc 1°-2°. Memorir della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-IX Fase. 2°. MkmorIE della Classe di scienze mora.i, storiche e filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta {Italia di L. 20; per gli altri paesi le spese di pasta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : KRMANNO LogscagR & C.0° — Roma Torino e Firenze. itrico HogpLi. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Luglio 1912. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI pervenute all’Accademia durante le ferie del 1912. Voiterra. Vibrazioni elastiche nel. casoifdlellazeredità ii Cie Re e ARR ao) Angeli. Sulla chimica dell'argentoterapia. . . o MERE o) Grassi. Nuova contribuzione alla storia dello A di reni n, fee Ma TARA ESD? Laura. Sopra le vibrazioni normali di un corpo elastico immerso in un fluide (pres. dal Socio Somigliana) . . . . È : è È Mr a) Evans. Sull’equazione integro- differonziale di sino raalico ma d: N SE do, . » Orlando. Sull’equazione alle potenze (pres. dal Corrisp. Di Legge) . . . . . SR) Togliatti. Sulle superficie algebriche, del 5° ordine, irriducibili, con un fascio ellittico di co- niche (pres. dal Socio Segre). . . . sO Cisotti. Sulla deformazione idrostatica di ta iS dal Goito: dono) PRA ” Amoroso. Sopra un’estensione del tcorema di Riesz-Fisher (pres. dal Corrisp. Lanna) ” Salaghi. Deila volgarizzazione ed applicazione della Fisicamatematica in medicina (pres. dal Socio Pincherle) . . . . FAR SILA ROS tO Fossa-Mancini. Rettifica. — (Studio cri sulla 035 del Ropiio) (Rn ‘dal Socio Pia- COME E RIM I Pt) Senepa. Sulle forze iii de an (Drae dal sn i, RAR 0) Eredia. Andamento diurno della temperatura a Tripoli (pres. dal Socio MiMlosevich) . . n Amadori. Solubilità allo stato solido tra solfati e carbonati ad ‘alta temperatura (pres. dal Socio CIME RE AIR FRA A o Calcagni. Solfati amidri free dal Socio un). i dato REESE” Sandonnini e Scarpa. Analisi termiche di miscele binarie di DARE di cenci monova- lenti (pres. dal Socio Ciamician) . . . i aree, A Ciusa e Scagliarini. Ricerche sulla strienina e E i da) SIAE ct, DR) Scagliarini. Su alcuni nitriti instabili fissati a mezzo di basi organiche (pres. 1a. LO » Calcagni e Marotta. Solfati anidri (pres. dal Socio Paternò). . . . . . ” Marino e Toninelli. Ricerche sui seleniti asimmetrici. Sui prodotti di cioe ona pipe- ridina cogli acidi selenioso e solforoso (pres. dal Socio Nasizi) < ./L/ 0/00.» Terni. Sul perossido di alluminio (pres. dal Socio Cramician) . . . . . . SINO I, Sani. Azione del fosfato monocalcico nella conservazione dei foraggi verdi ci dal Socio IONNEANCEREIONAEI, Si LIA, ; Futo Petri. Significato patologico dei co ili di. gii affetto DA RRRISE (pres. dal'Socloz0udboni)t cs: > 0. + SS I A E RSI AN IA) NAPO BUELHTTINO=BIBLIOGRAFICO::.. ‘RN INT NT K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. 104 108 118 120 Abbonamento postale. i } | i Pubblicazione bimensile. Roma 28 luglio 1912. N. 2. A di E I DETILA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CCGIX. TOT? STREET QTA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XMXNI.. - Fascicolo 2° Du SEMESTRE. it Comunicazioni. pervenute all'Accademia durante le ferie del 1912. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d'arrivo). ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUGCI ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Qendiconti della nuova serie formano | una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti: 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re-. golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da ; Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accalemia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un Volpe due volumi formano un'annata. 2, Te Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine È di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, ehe ne assumono la responsabilità, sono, portate a 6 pagine. 8. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. | 4. I Rendiconti non riproducono le diseus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’'Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II I. Le Note che oltrepassino i limiti indi- — cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz'altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mix o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’autore. - d) Colla semplice pro- | posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. 8. Nei primi tre casì, previsti dall'art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. E 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI pervenute all’ Accademia durante le ferie del 1912. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d'arrivo) Fisica. — Sul trasporto di ioni positivi effettuato dai raggi magnetici. Nota del Socio A. Rioni ('). Secondo l'ipotesi da me proposta e sostenuta, i raggi magnetici (o ma- gnetocatodici), cioè i raggi catodici generati sotto l'influenza di un campo magnetico, differiscono dai raggi catodici ordinarî in ciò: che mentre questi ultimi sono costituiti da semplici elettroni in rapido movimento traslatorio, nei primi, per brevi istanti, alcuni di quegli elettroni si uniscono a ioni po- sitivi, e con questi formano delle coppie neutre analoghe a stelle doppie, 0, se si vuole, al sistema formato da un pianeta e dal suo satellite. Qui il satellite è l’elettrone, e la forza reciproca è l'attrazione elettrica anzichè la gravitazione. Il manifestarsi poi di tali sistemi, quando esiste il campo magnetico, dipende da ciò, che questo rende tanto meno instabili le coppie quanto più esse si avvicinano a soddisfare perfettamente la condizione che il senso in cui gira l’elettrone intorno all’ione sia opposto a quello della corrente generatrice del campo, e che in pari tempo è favorita la formazione di tali coppie. Una volta formate, esse sono spinte dalla forza magnetica secondo la direzione nella quale essa decresce, come se fossero molecole dia- magnetiche, e per tal modo trasportate verso luoghi ove vien meno grada- tamente la principale ragione della loro insolita durata, di guisa che, in causa anche delle collisioni, gli elementi di cui sono formate (ione positivo ed elettrone) non tardano a disgiungersi, proseguendo poi liberi per un certo tratto nel loro movimento. (') Pervenuta all'Accademia il 22 luglio 1912. RenDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 16 — 122 — In particolare, gl'ioni positivi finiranno coll’accumularsi fra le molecole in una certa regione del gas; ed è chiaro, che, una volta che si sia constatata sperimentalmente l'esistenza di essi, la teoria proposta potrà dirsi dimostrata vera. Certo è che non si potrà più sostenere, come in generale venne fatto sinora, che la sola modificazione prodotta dal campo sui raggi catodici sia il cambiamento di forma delle traiettorie degli elettroni. Già descrissi esperienze, di cui si rende conto coll’ammettere il tras- porto di ioni positivi per parte dei raggi magnetici; ma in questa Nota ne descrivo altre di analogo significato, per le quali traggo partito del fenomeno delle rotazioni ionomagnetiche (*), che un caso fortunato mi ha fatto recen- temente scoprire. Per esse ho impiegato l'apparecchio, che l’annessa figura rappresenta alla scala di 1:10 (?). L'anodo A ed il catodo C trovansi ad una delle estremità (quella a destra) del tubo da scarica (di cui il corpo principale ha un metro di lun- ghezza e 15 cent. di diametro), il primo entro un ramo laterale, il se condo nella parte estrema e ristretta dal tubo principale. Questa viene poi intro- dotta nel foro di un rocchetto non rappresentato nella figura, che è simile all'altro rocchetto di cui si vede la sommità in R, ma il cui asse coincide con quello dell'intero apparecchio. Un altro ramo laterale G collega questo colle pompe. La principale particolarità di questo tubo da raggi magnetici consiste in ciò, che esso viene chiuso in 0-0 a perfetta tenuta da un coperchio sme- rigliato avente un collo L in cui entra a smeriglio il lunghissimo tubo KK. Un altro tubo FF può scorrere entro il tubo precedente, e serve a portare il cilindretto leggerissimo di carta verniciata, M, sospeso ad un filo di boz- zolo. Siccome non si è voluto dare alla figura una soverchia lunghezza, così i due tubi KK ed FF sono stati rappresentati solo per una parte della loro lunghezza, e perciò nella figura stessa non si scorge che il secondo dei detti tubi si prolunga dalla parte di sinistra in un cilindro di ferro dolce, desti- (*) Mem, della R. Acc. di Bologna, 28 gennaio 1912. (3) È uno dei tubi per raggi magnetici, che costruisce e fornisce il Miller-Uri di Braun schweig. — 123 — nato a renderne possibile lo spostamento nel senso della sua lunghezza, e quindi il trasporto del cilindro M sino a qualunque regione voluta del tubo da scarica. Basta all'uopo spostare a mano un piccolo rocchetto avvolgente il tubo KK, e momentaneamente percorso da una corrente. Poichè il roc- chetto R deve trovarsi sempre sotto M, esso dovrà spostarsi se occorre: ciò che si effettua facilmente, essendo mobile su rotelle. La linea punteggiata della figura serve a dare una idea dell'aspetto pre- sentato usualmente dalla scarica, indipendentemente dalla colonna positiva partente dall’anodo A, la quale qui non interessa. Eccitato il rocchetto, di cui un polo è attiguo al catodo, appare una colonna luminosa, ordinariamente azzurra, che comincia a poca distanza dal catodo (che ha la forma speciale altravolta descritta) e si estende divergendo sino entro la parte larga del- l'apparecchio, per esempio sino ad EE. Qui comincia la colonna luminosa EDBDE generalmente rossa o rosea, la quale sì sdoppia e si deforma quando vi si accosta lateralmente un polo magnetico, in moto tale da indicare che quella luce si deve ad una doppia scarica, da DE verso B e verso C. Secondo l’interpretazione da me data di questo fenomeno (che lo specchio girante mostra essere intermittente come lo è il fascio di raggi magnetici CE), esso si deve allo scaricarsi della nube di ioni positivi abbandonati dai raggi ma- gnetici nella regione DE, negli intervalli durante i quali i raggi magnetici scemano 0 si spengono. Per intendere bene come possa ricorrersi al fenomeno delle rotazioni iono- magnetiche onde tentare di dimostrare per altra via l'esistenza dei suddetti ioni, è indispensabile un breve richiamo intorno a quel fenomeno. La causa di esso risiede nel fatto, che mentre fra un urto e l’altro un elettrone o un ione entro un gas ionizzato ha una traiettoria sensibilmente rettilinea, quando vi è campo magnetico questa diviene generalmente curva, ed anzi una elica se il campo è uniforme. Nel primo caso un corpo immerso nel gas, pur ricevendo urti dagl’ioni e dagli elettroni, non si sposta menomamente; ma quando esiste il campo, gli urti avvengono secondo nuove direzioni e, come facilmente si può mostrare, quelli prodotti dagli elettroni o da ioni negativi tendono ad impri- mere al corpo una una rotazione tonomagnetica negativa, cioè una rota- zione intorno ad un asse parallelo alla direzione del campo e nel senso con- trario a quello della corrente circolare alla quale il campo si può attribuire, mentre gli urti prodotti dagl’ioni positivi tendono a generare una rotazione nel senso della corrente magnetizzante, cioè posztiva. Se dunque il cilindro mobilissimo M si trova nella regione ove si ac- cumulano ioni positivi, sotto l’azione del sottoposto rocchetto R esso assu- merà una rotazione nel senso della corrente che percorre il rocchetto me- desimo. Naturalmente, la rotazione viene limitata dalla torsione del filo di sospensione. Non essendo opportuno il mostrarla col metodo ordinario della riflessione, in causa delle imperfezioni ottiche delle pareti dell’apparecchio, ho — 124 — trovato comodo dirigere sul cilindro, che porta delle righe nere lungo alcune generatrici, un cannocchialetto munito di reticolo oculare (?). In una prima esperienza ho avuto con certezza il risultato previsto, sol- tanto dando alla corrente di scarica una intensità non minore di 1 milliam- père, per ottenere la quale non bastava la mia solita macchina elettrica, e dovetti impiegare una batteria di 2000 piccoli accumulatori. Osservai dunque effettivamente la rotazione positiva, quantunque assai piccola, del cilindro collocato presso EE, mentre ottenni nulla, o una lievis- sima rotazione negativa, mettendolo altrove. Ma per quanto questo risultato confermi le previsioni, il fatto che, sotto l’azione del rocchetto R,la colonna luminosa BE subisce notevoli cam- biamenti di forma, può ingenerare qualche incertezza intorno alla giusta interpretazione del fenomeno. Ho dunque cercato di migliorare l'esperienza, sino a dargli alla fine la forma seguente. Spingendo la rarefazione sino a circa un decimo di millimetro, e au- mentando l'intensità della corrente di scarica sino ad oltre il milliampère, sì riesce ad ottenere un fascio di raggi magnetici vivacissimi, che si estende dal catodo sino quasi al nucleo di ferro del rocchetto R, che insieme col cilindretto M deve essere portato un po più verso destra di quel che mostri la figura, e che, eccitato da una intensa corrente, presenta in alto un polo di nome contrario a quello attiguo al catodo. Tale fascio presenta sensibilmente la forma di un tubo di forza del campo magnetico generato dai due rocchetti. In simili condizioni manca o è debolissima la colonna di luce rossa BE; ma tuttavia deve avvenire (ragionando sempre a norma dell'ipotesi ammessa) che il fascio lasci liberi gl'ioni positivi trascinati dagli elettroni dei raggi catodici. La separazione ha luogo, non più, come prima, perchè le coppie neutre arrivano in una regione ove il campo è debole, ma in seguito al loro urto presso la parete dell'apparecchio. Però è da ritenersi, che per effetto del campo presso Q le coppie vadano ricostituendosi o tardino a rom- persi, per cui gl’ioni positivi dovranno manifestare la loro presenza segnata- mente a sinistra del nucleo del rocchetto. Ora, ciò è appunto quanto mostra l'esperienza. Infatti, è quando il ci- lindro indicatore M trovasi un po’ a sinistra del nucleo che si ottiene molto pronunciata la rotazione ionomagnetica positiva, mentre tale rotazione si mostra di più in più debole quando il cilindro stesso è spostato gradata- mente verso destra. La rotazione ottenuta con questa esperienza è abbastanza marcata, perchè risulti visibile anche senza l’aiuto del cannocchiale. Per esempio, il cilin- dretto fa quasi un giro intero in pochi secondi, prima che la elasticità del filo di sospensione lo arresti. (*) Ho ottenuto i risultati migliori adoperando un cilindro di 3 cent. di diametro e 3 di altezza, quindi alquanto più grande di quello della figura. — 125 — Chimica fisica. — Volatilità dell'acido borico nel vapor di acqua, ed ebullizione delle sue soluzioni sature con fase solida. Nota del Socio R. NasIni e di F. Ageno ('). La volatilità dell'acido borico nel vapor d'acqua fu scoperta insieme colla esistenza dell'acido borico. E fu lo Homberg nel 1702, che, distillando vetriolo deacquificato con borace, ottenne nell'acqua di distillazione quella sostanza — l'acido borico — che per molto tempo fu chiamata sale sedativo del Homberg e che poi dal Hoefer nel 1776 fu ritrovata nelle acque del lagone Cerchiaio di Monterotondo marittimo. Diversi studî sono stati fatti rispetto alla volatilità dell'acido borico nel vapor d'acqua; ma il fenomeno non è ancora, da diversi punti di vista, perfettamente chiaro. Infatti, mentre la volatilità dell'acido borico nel vapore aumenta colla temperatura del vapore stesso, invece la volatilità dei pro- dotti di disidratazione, considerati in sè, va successivamente diminuendo sino a che sì arriva all'anidride borica che, anche a temperatura elevata, ha una piccolissima tensione di vapore: e così può dirsi che resta sempre aperta la quistione in quale stato l'acido borico passa in così grande quantità nel vapor d’acqua. Come verrà mostrato in altre nostre ricerche, la sua volatilità è piccolissima nei solventi in cui esso è insolubile o quasi, d'accordo questo colla sua piccola tensione di vapore. Le recenti esperienze nostre (*) hanno dimostrato che, contrariamente a quello che da alcuni era stato supposto, in soluzioni acquose anche a con- centrazioni elevate, sia a temperature molto basse, sia a temperature molto alte, non esiste che H; BO;, o H BO;, e che la formula dell'acido metaborico è H BO; e non H,B;0, come si era ammesso dal Walden. Se poi in solu- zione esiste H BO, o H3 BO; non vediamo come sul momento possa decidersi. Resterebbe sin qui dimostrato che, distillando soluzioni acquose di acido borico, i soli cambiamenti che si possono invocare sono quelli che corrispondono a trasformazioni di Hz BO; in H BO; o ad altri cambiamenti pei quali però non vi siano nè in soluzione, e neppure nel distillato, composti più complessi, vale a dire contenenti più di i atomo di boro nella molecola. Possono invece ammettersi combinazioni del tipo H BO,. #H30 o H; BO;. #H.0, composti (1) Lavoro eseguito nell’Istituto di Chimica generale dell’ Università di Pisa. — Per- venuto all'Accademia il 30 giugno 1912. (2) R. Nasini e F. Ageno, Solubilità dell'acido ortoborico, suo peso molecolare e sua trasformazione negli altri idrati. Gazz. chim. 41, 1, 19300 — 126 — dei quali non è facile stabilire l’esistenza e che potrebbero anche esistere solo allo stato aeriforme. Le molecole di acqua darebbero in un certo modo la volatilità ad acidi borici contenenti un solo atomo di boro nella molecola. A questo proposito è da ricordarsi un lavoro di F. W. Skirrow (?) il quale si propose direttamente di studiare se distillando soluzioni di acido borico, la composizione del vapore era della stessa natura di quella del liquido sottoposto alla distillazione. Egli stabilì, partendo da soluzioni di diversa concentrazione, il °/, di acido borico nel distillato, e trovò che le concentra- zioni, senza essere proporzionali, variavano però nello stesso senso: riportando sull'asse delle ascisse le concentrazioni delle soluzioni che si distillavano, e su quello delle ordinate le concentrazioni dei distillati, appariva che la con- centrazione nel vapore aumentava più lentamente che non la concentrazione delle soluzioni: e questo lo Skirrow, ammettendo gli equilibri 4H;B0; =" 5H,0 + H,B, 0; 2H,B0; == 2H:0-+H,B;0,, disse parlare in favore della ipotesi che passassero allo stato di vapore le molecole Hz BO;3, giacchè il numero di queste veniva a diminuire con lo au- mentare della concentrazione, mentre invece il numero delle molecole H, B, 0, o H,B,0, veniva ad aumentare. Trovò poi lo Skirrow valori assai discordanti quando si distillavano soluzioni sature in presenza della fase solida; mentre ciò non avrebbe dovuto essere, poichè, disse lo Skirrow, la concentrazione della soluzione essendo quella della saturazione alla temperatura di ebulli- zione, si dovrebbe aver sempre una costante concentrazione nel distillato. Lo Skirrow stabilì anche per una determinata temperatura la tensione di vapore delle soluzioni, e costruì la curva che esprime gli abbassamenti della tensione di vapore in funzione delle concentrazioni delle soluzioni stesse ; costruì inoltre delle curve, diremo così, teoriche, in base cioè alle ipotesi espresse dagli equilibrî sopra accennati. In un caso ìl numero dello molecole dimi- nuisce nel rapporto di 4 ad 1, nell'altro da 2 ad 1: quindi le diminuzioni nelle tensioni di vapore dovrebbero essere minori che non supponendo inalterato il numero delle molecole di Hz BO;, caso pel quale costruì un’altra curva teorica. Poichè la curva esperimentale è più in alto, e quindi corrisponde a tensioni di vapore maggiori di quelle espresse dalla curva che corrisponde ad ammettere le molecole H;BO; inalterate, così lo Skirrow, calcolando i rapporti delle concentrazioni nel liquido primitivo e nel distillato corrispon- dente in relazione alle tre ipotesi, giunse alla conclusione che tutti e due gli equilibrî sussistano. Noi non crediamo veramente che le deduzioni dello Skirrow abbiano un valore decisivo: prima di tutto è dimostrato che in soluzione acquosa non (1) F.W. Skirrow, Veber die Flichtigkeit der Borsiure mit Wasserdàmpfen. Zeitschr f. physikalische Chemie, 37, 84, anno 1901. — 127 — ci sono acidi contenenti più di 1 atomo di boro nella molecola, e quindi il passaggio da acido ortoborico ad acido metaborico non sarebbe accompagnato da cambiamento nel numero delle molecole: inoltre crediamo che gli abbas- samenti della tensione di vapore possano dipendere non solo dal numero delle molecole, ma anche dalla tensione che ha l'acido borico, qualunque sia il modo in cui esso passa nel vapore; quindi naturalmente la tensione di vapore è maggiore di quella calcolata nella ipotesi che esso non ne abbia affatto, come in fondo suppone lo Skirrow. Noi ci siamo occupati della distillazione delle soluzioni acquose di acido borico in diverse condizioni. Abbiamo trovato che, aumentando la concentra- zione delle soluzioni iniziali, aumenta la quantità di acido borico nel distillato. Non abbiamo creduto opportuno di stabilire curve, perchè reputiamo che gli inevitabili errori di osservazione influiscono troppo sui risultati finali: e ciò per diverse ragioni: le soluzioni che distillano sono sempre, in modo assoluto, a basso tenore in acido borico; d'altra parte non si possono prelevare troppo grandi quantità di distillato, altrimenti si cambia di troppo la concentrazione iniziale; inoltre il metodo di analisi, titolazione con soda in presenza di man- nite o di glicerina, per quanto buono, non è di tale esattezza da potersi im- piegare volendo costruire curve rigorose. Nondimeno le nostre osservazioni hanno un valore assai grande anche per molte questioni che si riferiscono ai soffioni boraciferi e alla condensazione e successiva concentrazione delle acque. Le misure segnate con * si debbono al compianto dott. Aldo Bringhenti, che fu assistente in questo Istituto, e di cui tutti ancor deplorano la immatura perdita avvenuta quando con maggiore entusiasmo egli dava alle ricerche e agli studî l’opera sua intelligente e infaticabile. * Distillazione semplice delle soluzioni acquose di acido borico. Titolo in H3 BO; °/o Titolo in HyB0O, della soluzione che distilla del distillato °/oo Satura alla temperat. di ebullizione 0.30 Id. 0.30 Id 0.32 Id. 0.30 24.0 0.16 23.8 0.20 20.5 0.12 18.59 0.15 15.0 0.19 14.5 0.13 3.0 0.14 2.26 0.17 2.0 0.13 * Distillazione in corrente di vapore. 15.0 0.23 10.0 0.27 6.0 0.23 1.1 0.25 — 128 — ‘ Distillazione in corrente di vapore e dei gas naturali dei soffioni. 23.43 0.46 12.8 0.21 10.04 0.16 9.36 0.19 0.85 0.108 3.64 0.10 1.56 0.073 Lig] 0.045 0.46 0.039 * Distillazione in corrente di vapore e di aria. 20.5 0.22 18.4 0.25 13.8 0.23 10.0 0.22 6.2 0.143 4.7 0.12 2.76 0.095 1.08 0.088 Come si vede, la quantità di acido borico che passa nel distillato si aggira intorno a 0.1-0.2 °/ss- Solo per soluzioni molto concentrate si hanno valori più alti, e solo per quelle molto diluite se ne hanno di più bassi: è però da notarsi che le esperienze del dott. A. Bringhenti si proponevano naturalmente uno scopo tecnico. Come media di molte determinazioni noi abbiamo ottenuto: HB 0; /o H3 B03'%/o00 nella soluzione nel distillato 5 0.06 15 0.149 20 0.172 Ci siamo poi occupati delle soluzioni sature, ed abbiamo voluto ripetere le esperienze di Skirrow sulle soluzioni stesse in presenza di fase solida. Abbiamo potuto ottenere soluzioni che distillano a una determinata tempe- ratura fissa che corrisponde al punto di ebullizione della soluzione satura, o, per dir meglio, al primo punto di ebullizione della soluzione satura; e possiamo dire che questo punto di ebullizione è 103°.12 alla pressione di — 129 — 760 mm. Ma per ottenere questo risultato, è necessario prendere tutte le più serupolose precauzioni per impedire il sovrariscaldamento: in tal caso l'ebullizione comincia ad una temperatura costante, sempre la stessa ripe- tendo l’esperienza; ed allora si ha anche una quantità costante di acido borico nel distillato, che corrisponde al 0.39 °/s0, ossia a 0.0113 molecole di H BO; per 100 molecole di acqua, contrariamente a quanto aveva trovato lo Skirrow che non era riuscito ad avere valori fissi. Se però non si prendono precauzioni speciali, allora si hanno valori discordanti sia nella temperatura di ebullizione, sia nelle quantità di acido borico nel distillato, a seconda del come si procede nel riscaldamento. Se si fa in modo che la soluzione con la fase solida si trovi a temperatura mag- giore di quella corrispondente alla temperatura di ebullizione della soluzione satura, allora la temperatura di ebullizione va continuamente crescendo, e continuamente e rapidamente va crescendo la quantità di acido borico nel distillato. Così noi abbiamo ottenuto i seguenti resultati, scaldando in appo- siti bagni il recipiente contenente la soluzione: Temperatura Temperatura H,B0; °/v0 della soluzione del vapore nel distillato 104°-105° = 0.6 105°-106° si 0.75 110°-111° logie 1.06 115°-116° = 2.9 119°-120° 102° 3.43 Sembrerebbe quindi che non si avesse un punto di ebullizione costante delle soluzioni sature con fase solida, ma invece un primo punto di ebullizione al quale si arriva usando molte precauzioni per evitare un maggiore riscaldamento. Iniziatosi poi una volta questo riscaldamento, avverrebbe che una quantità maggiore di acido borico passerebbe in soluzione, giacchè la solubilità aumenta rapidamente coll'aumentare della temperatura, come dimostrano le nostre esperienze; e in corrispondenza a ciò si innalza il punto di ebullizione e aumenta notevolmente la quantità di acido borico che passa nel vapore. Non si può parlare nè di soluzioni soprasature, perchè è presente la fase solida, nè di soluzioni sopra riscaldate, perchè la ebullizione avveniva regolarmente. Il fenomeno ci sembra assai singolare, e non crediamo che in generale lo possano presentare le soluzioni sature in presenza di fase solida, che non sia volatile o trasformabile, per le quali è da ritenersi che sia una temperatura ben determinata e fissa quella del punto di ebullizione della soluzione satura con fase solida ('); nè crediamo che vi sieno esempî di un comportamento (') H. W. Bakhuis Roozebuom, Die heterogenen Gleichgewichte vom Standpunkte der Phasenlehre. II Heft Systeme aus 2wei Componenten, I, pag. 346. RenpicontI. 1912, Vol. XXI. 2° Sem 17 — 130 — consimile (!). È a credersi che questo fatto stia in relazione con cambia- menti che sì producono nella fase solida e come ipotesi più probabile si presenta quella che l'acido ortoborico cominci a trasformarsi in acido meta- torico, e che, sino a quando la trasformazione non è completa, la tempera- tura cresca: secondo questa interpretazione il punto di ebullizione delle so- luzioni sature di acido metatorico dovrebbe trovarsi assai elevato e superiore ad ogni modo alle temperature da noi raggiunte. Anche altre spiegazioni si potrebbero invocare: ma ci asteniamo per ora da parlarne, avendo già iniziato delle esperienze che speriamo ci permetteranno di decidere su questa inte- ressante questione. Abbiamo poi eseguito altre determinazioni sullo svaporamento delle soluzioni sature con fase solida: la soluzione si manteneva a temperatura costante e si distillava in una debole corrente di aria. Ottenemmo i seguenti resultati : Temperatura °/oo di acido borico nell'acqua di condensazione 49° 0 61° 0.14 65° 0.20 Di qui appare che anche per le soluzioni sature di acido borico, solo tra 50° e 60° l'acido comincia a volatilizzarsi col vapore d’acqua. (1) G. Th. Gerlach determinò il punto di ebullizione di molte soluzioni non sature e sature (Veber Siedetemperaturen der Salzlòsungen und Vergleiche der Erhòhung der Siedetemperaturen mit den brigen Eigenschaften der Salzlosingen. Z. f. analyt. Chemie, 26, 413, 1887). Egli operava nel seguente modo: faceva bollire la soluzione sino a che non si formava un velo di sostanza solida, e determinava allora il °/, e la temperatura di ebullizione: notò che a volte la temperatura seguitava ad aumentare un poco, poi l'aumento si arrestava durante la precipitazione: si avrebbe così il punto di ebullizione della soluzione satura. Ora, per le soluzioni di borace il Gerlach trovò i seguenti numeri (loc. cit.): Punto di ebullizione . . ... © 108°. 108.5 LORO 1046 Concentrazione sal RON 75.4 90.8 109 112.8 Nel « Handbuch der anorganischen Chemie » dell’Abegg (II, 1, pag. 310), riportandosi queste determinazioni è detto: « La soluzione che bolle a 103° è satura; le altre sono sopra- sature n. Ma per quanto noi abbiamo esposto, non si può parlare di soluzioni soprasature in presenza di fase solida, nè di soluzioni soprariscaldate. Si potrebbe invece invocare anche in tal caso l'ipotesi di trasformazioni che subisce il borace. È da osservarsi però che la descrizione che delle sue esperienze dà il Gerlach non è molto chiara, e parrebbe quasi che al di sopra di 103° non si avessero delle vere e proprie soluzioni, ma dei magmi cristallini. —.183I — Distillammo poi soluzioni sature di acido borico a pressione ridotta, provocando una vera ebullizione. Si ebbe così: Temperatura H, BO; °/o0 di ebullizione nel distillato 43° 0.09 04° 0.15 65° 0.18 80°-82° 0.35 Le soluzioni sature di borace sottoposte alla distillazione non ci dettero acido borico nel distillato: anche aggiungendo acido borico sino al 5 °/,, non ne riscontrammo quantità apprezzabili: non escludiamo che, innalzando la temperatura, non si possano avere risultati diversi. A questo proposito dob- biamo notare come il Mueller e l’Abegg (') mostrarono che il borace in soluzione si scinde, colla diluizione, in metaborato ed acido borico libero: quest'ultimo essi determinarono basandosi sul suo coefficiente di spartizione fra la soluzione di borace e l'alcool amilico. Osservarono, però, che, coll'au- mentare della concentrazione, sempre maggiori quantità di acido borico ven- gono consumate, per formare poliborati. Questo potrebbe spiegare il fatto che noi non abbiamo ottenuto acido borico distillando le soluzioni sature di borace anche con aggiunta del 5 °/, di acido borico. ConcLusioni. In questo lavoro: 1) noi prendiamo in esame le esperienze dello Skirrow sulla volatilità dell'acido borico nel vapore d'acqua e sullo stato in cuni esso trovasi in soluzione, e dimostriamo come le sue deduzioni possano ricevere altre inter- pretazioni, e che perciò le sue conclusioni non sono provate, ma urtano invece contro altri fatti; 2) determiniamo per soluzioni acquose di diversa concentrazione e in diverse condizioni la volatilità dell'acido borico nel vapor d’acqua; 8) stabiliamo il punto di ebullizione della soluzione satura di acido borico con fase solida, e troviamo che a questa temperatura passa nel vapore una quantità costante di acido borico, contrariamente a quanto aveva trovato lo Skirrow. Mostriamo, poi, che il punto di ebullizione di queste soluzioni va continuamente crescendo come pure continuamente crescendo va il contenuto di acido borico nel distillato: e di questo fatto singolare ed importante proponiamo delle spiegazioni; (!) Borsdure, Amylalkohol und Wasser. Ein Beitrag zur chemischen T'heorie der Lòsungen. Nach der Breslauer Diss. von Paul Mueller fiir die Zeitschrift bearbeitet von R. Abegg, Z. f. physik. Chemie, 57, 513, 1907. — 132 — 4) esaminiamo il comportamento delle soluzioni solide sature di acido borico con fase solida, sia a diverse temperature alla stessa pressione (l'atmosferica), sia facendole bollire a pressione ridotta, e determiniamo la quantità di acido borico che passa nell'acqua di condensazione; 5) troviamo che, facendo bollire soluzioni di borace sature con fase solida, nel vapore non passa acido borico. Presto ritorneremo su questo argomento e su quello della volatilità dell'acido borico in vapori di solventi diversi dall'acqua. Matematica. — Sugl integrali curvilinei del Calcolo delle variazioni. Nota III di LEONIDA TONELLI, presentata dal Socio S. PINCHERLE (°). 1. Nella Nota precedente (?) stabilimmo il seguente teorema: Se 4 tendere della curva C, alla C, la lunghezza della prima tende a quella deila seconda, è n lim | Fx ,y,2Ry) ds= (Re C1a=C Ci 10) Tale proposizione non è che un caso particolare di quest'altra ben più ge- nerale. Indichiamo con G(@,y,2',y') una funzione delle quattro variabili c,Y,2',y'", soggetta alle stesse condizioni della F (vedi Nota I, n. 2) e di più soddisfacente all'altra Gata Gary Gy G(2,y,2',4')= 7° = mil: | an (oppure < 0) per tutti i punti (x,y) del solito campo A e per tutte le coppie di numeri x',y' non nulli insieme. Abbiamo allora il teorema Se le curve C, e C sono rettificabili (*) e la prima tende alla seconda în modo che sia lim | G@,y,2,M)d= | 67.910, Ci=C - Ci è anche lim | F@,y,o,y)ds= f Fle.y,0',9) ds ci=c li È (!) Pervenuta all'Accademia il 12 luglio 1912. (3) Sugli integrali curvilinei del Calcolo delle variazioni, Nota II, questi Rendi- conti, 5 maggio 1912. (8) Intenderemo sempre si tratti di curve continue. — 33 — Se qui facciamo G(x,y,0",y)=|x"*+y", otteniamo in particolare il teorema sopra ricordato. La dimostrazione della nostra proposizione è quella stessa del caso par- ticolare, salvo, naturalmente, i cambiamenti dovuti alle nuove condizioni. Si prenderà come funzione ausiliare la funzione F definita dall'uguaglianza P(a,y,0,y)=F(:y,2 9) +m.G@,y,2',y), dove m è un numero positivo tale che sia File, y,0,9)+m.Gi(e,y,0',9)>O0 per tutti i punti (x y) di A e per tutti quelli (x' y') della circonferenza 2? 4 y'3=1. Questo numero m certamente esiste, data l'ipotesi fatta sulla G e la continuità delle F, e G,. Per ripetere ora tal quale il ragionamento fatto al n. 2 della Nota II, è necessario applicare una proposizione che verrà da noi dimostrata in un lavoro di prossima pubblicazione (Sul caso regolare nel Calcolo delle va- riazioni). La proposizione è la seguente: se la funzione F(x,4,2',y'") è tale che sia F, > 0 per ogni punto (x,y) di A ed ogni coppia di numeri 2 ,y' non nulli insieme, e C, e C sono due curve (continue) rettificabili interne ad A, delle quali la prima tende olla seconda, è f.FE4, 2,9) ds = Mintim [ Pw,9,02,9) ds (DI O Ci=c Ci Applicando questa proposizione alla funzione F, abbiamo (past (Gas = Mintim|) fEas+m Cda: c ce GEN Ci e per essere lim Gds= | 645, c ci=c Ci otteniamo (1) (Fas = Min lim { ros. (0) ci=c ‘Ca Analogamente, se definiamo la funzione F in modo che sia = F(e,y,0',y)=F(0,4,0',4) —M.G(a,y,2',y), dove M rende soddisfatta la disuguaglianza F(1,y,0,4) _ MG(x,y,0,4Y)KL0 (*) Questa proposizione fu da noi già dimostrata nella Memoria (T) n. 27, sotto le ipotesi F>0,F.>0. — 134 — per tutti i punti (7, y) di A e tutti quelli (2, y') di a? +y?=1, ot- teniamo (2) fra = Mass lim | Fds (?). GE Le disuguaglianze (1) e (2) dimostrano il nostro teorema. 2. Dall'enunciato del n. precedente segue subito l’altro: Se per tutti © punti (x,y) di A e per tutte le coppie di numeri x'.y' non nulli insieme, sono soddisfatte le disuguaglianze F,$#0 ’ G*0, e la curva rettificabile C, tende all'altra, pure rettificabile, C, l’ugua- gliansa n n lim five lyds= | 29,2,9) ds Ci= 8A è condizione necessaria e sufficiente affinchè sia lim dn. VASCA 71) )&s= (re, Ad), Ca=C Ci ‘ Si è già notato che la condizione è sufficiente. Per mostrare che è anche necessaria basta applicare il teorema del n. precedente scambiando fra loro le funzioni G e F. 3. In particolare si ha che Se per i soliti valori di x,y,2',y', è sempre F,#+0, condizione necessaria e sufficiente affinchè, al tendere della curva C, alla C. si abbia lim | Fds= {rds (0) è che la lunghezza della C, tenda a quella della C. Questo risultato completa quello del numero due della Nota II. Se la F non soddisfa alla disuguaglianza F, #0, la condizione precedente, pur re- stando sufficiente, non si mantiene necessaria, come si è già detto al n. 3 della Nota sopra citata. 4. Sempre alla stessa Nota facemmo un'applicazione del teorema di quel n. 2 al problema degli isoperimetri del tipo primitivo, nel quale cioè l'integrale che deve mantenere un valore fisso per tutte le curve della va- rietà considerata è quello che esprime la lunghezza di una curva. Il mede- simo teorema è però utile anche nella risoluzione del più generale problema (*) Questa disuguaglianza può ottenersi anche applicando la (1) alla funzione — F. — 135 — degli isoperimetri: fra tutte le curve C, di un dato campo, per le quali si abbia costantemente f.G0,9,2.9) ds=1 Cc (£ numero fisso, indipendente dalle C), trovare quella che rende minimo (o massimo) l'integrale (0) Si determini, invero, il limite inferiore (o superiore) I dei valori che l'integrale della F assume per tutte le curve C considerate, e si scelga una snccessione C, (2 =1,2,...) di tali curve in modo che sia lim | Fds=1. n=% / Cn Se allora è possibile estrarre dalle C, (2 =1,2,..) un'altra succes- sione Cw (2 =1,2,...) avente una curva limite C, in modo che sia lim lungh C, = lungh CH a'=% il teorema, di cui si è parlato, porta che siano verificate le uguaglianze feta 9) de= 1 Cc fE@,9,2,4) ds= lim bisi (6; n'=%0 / Cny e stabilisce così l’esistenza del minimo (0 massimo) domandato. Talvolta, pur essendo possibile dimostrare l’esistenza di una successione C, che tende ad una curva limite C, può riuscire assai difficile provare l'uguaglianza lim lungh C,,= lungh Ch mentre può essere, per certe circostanze speciali, più facile la verifica del- l’altra fosse. (6) In questi casi, se è soddisfatta la disuguaglianza G,=# 0, l'applicazione del (*) Qui alle F e G non si impongono le condizioni F1 #0, Gi 0. — 136 — teorema dato al n. 1, porta che sia f-Fds=lim vasi (0; n'=-0 / Cal e si ha così ancora l’esistenza del minimo (o massimo). o. Inutile dire che anche la proposizione data al n. 6 della Nota II può essere generalizzata analogamente a quanto si è fatto per quella del n. 2. Termineremo piuttosto generalizzando il lemma dimostrato al n. 5 della medesima Nota. Vale il seguente criterio di convergenza uniforme: Se la funzione a variazione limitata (*) f(x) converge, per n= cc, in ogni punto dell'intervallo (a,b) in cui è data, verso una funzione continua f(x), in modo che la sua variazione in tutto (a,b) tenda a quella, pure limitata, di f(x), la convergenza della fn(x) è uniforme (?). Indichiamo con V,(@) la variazione della fanzione /(x) nell'intervallo (a, x); con V(x) quella della f(x). È per ipotesi, lim V.(5)= V(5), ed essendo ni Min lim V,(x)=> V(x) MinlimjV,(0) --V.(2)}>V(0)— Ve) (3), è anche lim V.(a)= V(4). Le funzioni V,,(x) sono tutte non decrescenti in (4,6) e convergono in ogni punto di quest’'intervallo, per n= co alla V(x), fuzione continua perchè tale è la /(x). Il lemma ricordato del n. 5 della Nota Il assicura allora che le V,(2) convergono in tutto (a, 2) uniformemente verso la V(x). Per questa convergenza uniforme e per la continuità della V(x) è pos- sibile, preso un « positivo arbitrario, determinare due numeri % e d tali che, per ogni x >% ed ogni coppia «,,xs soddisfacente alla disugua- glianza |ex, — c2|, [|V(e) — V(ea)|<8. Ed osservando che l'oscillazione di una funzione in un determinato inter- (3) Con variazione di una funzione intendiamo la variazione totale di Jordan. (3) Si noti che alla funzione f(2) non si impone la condizione della continuità. (8) Ciò scende immediatamente da una proposizione dimostrata da H. Lebesgue nelle sue Legons sur l’intégration ecc., pag. 51. — 137 — vallo è sempre minore od uguale alla variazione calcolata nello stesso inter- vallo, si ha anche, per tutti gli x > 6 tutte le coppie x,» dette, (3) \fa(x1) Cas fa(c2) |< € , VAC29) ai f(c2)| % sia (4) ne) — [|< in tutti gli ” + 1 estremi di questa parte. Indicando con 7 un estremo di una parte qualunque e con x un punto arbitrario di tal parte, si deduce dalle (3) e (4), per ogni n>\L ff fa ff f@—-/(2) fa) — f(2)|< 88. Ciò mostra la convergenza uniforme della /,(2). Dalla proposizione ora dimostrata segue il corollario: Se le funzioni f(x) e /(c) sono assolutamente continue e la prima converge în ogni punto di (a,b) verso la seconda in modo che sia b °b lim f |a | de, la convergenza della f, è uniforme. Ed anche: Se la funzione f,(x) converge in ogni punto di (a,b) verso la funzione continua f(x), ed il suo rapporto incrementale rimane sempre maggiore (0 minore) di un numero finilo fisso, indipendente da n, allora la convergenza è uniforme (}). Se le funzioni integrabili ,(x) sono ugualmente limitate in un senso in tutto (a,b), ed è per ogni x di quest'intervallo XL lim Î Pre) dx = | Pr) Ue, dove 9(x) è un'altra funzione integrabile, la convergenza di S'gua) da è uniforme. (!) Per vedere ciò basta considerare le funzioni fa(2) — Ax , f(a) — Ax. dove A è un numero di cui rimane sempre maggiore (o minore) il rapporto incrementale della Vas qualunque sia 7. RenpIconTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 18 Matematica. — Espressione per trascendenti ellittiche della funzione che caratterizza è moti ondosi provocati da periodiche accidentalità del fondo [Estratto da una lettera al prof. T. Levi- Civita]. Nota di H. ViLLaTt, presentata dal Socio T. Levi-CIvitA (1). Vuol Ella permettermi di aggiungere un complemento all’ interessante Nota del sig. Cisotti, Su//e onde superficiali dovute a particolare confor- mazione del fondo, testè apparsa nei Rendiconti della R. Accademia dei Lincei? Con un procedimento ben noto, l’autore riconduce immediatamente la soluzione del problema alla ricerca di una funzione (È) regolare nella co- rona circolare g<|î|<1, reale per |î|= 1, e tale che la sua parte reale prende, per $£= ge, i valori seguenti : 5 se OE 895 VGA EEA Wo IT i se 2r —-s ty. 2. Teorema I. — n integrale regolare della (1) è determinato in modo unico per tutti i valori di t superiori a tr, allorquando si cono- scono i valori che esso assume per t= to. Evidentemente basterà dimostrare che un integrale regolare dell’equa- zione omogenea (A) ue, 1) +/ MU s e 8,2) dé=0 che si annulla per #= 4, è identicamente nullo per tutti i valori di { >b. — 143 — Dalla (4) si deduce, moltiplicando ambo i membri per Ml ga, ed integrando da 0 a 1 rispetto ad 33:(f (2 0 de) +] f TESO deno, ed integrando rispetto a / da £ ad una quantità © > fo, ricordando che che, per ipotesi è u(x , t) = 0, si deduce Lt ) "af (° UEs0) duet) pi a (u(x , 1)) dao4 fa ff = > H(5,x)dEdex=0. Siccome H(È,gt- Sia infatti (x , #) l'integrale regolare della (1) che per #=# assume i valori di #(x): poniamo (5) va, t)=g(a,0) —ua,t), v(x, t) sarà anche essa una funzione finita e continua per tutti i valori — 144 — di x compresi tra 0 e 1 e per tutti i valori di ft > 4; derivabile inoltre dvd, 4) rispetto a 4, colla derivata integrabile parzialmente rispetto ad x nel campo (01), per qualunque valore di ft => £. Sostituendo nella (1), ri- caviamo che v(x,#) può esser posta nella forma (0) ARE E e da questa relazione, in forza di un teorema classico di Hilbert-Schmidt (*), st deduce che v(x , t) può essere sviluppata in una serie convergente, as- solutamente ed uniformemente, procedente per le funzioni eccezionali del nucleo H(£,x). Si può porre quindi: (7) v(x,0)=Y ®,(2) Qa(1) 1 la serie del secondo membro convergendo assolutamente ed uniformemente per tutti i valori di x compresi tra 0 ed 1 e per tutti i valori di {=> £. Dalla (7) si deduce: (8) Qn(4) = [e 0) Dax) da. (1) É il teorema seguente: ogni funzione finita e continua g(a), rappresentabile mediante un integrale definito della forma 1 = f 6(£) H(£ , @) dé 0 è sviluppabile in una serie precedente per le funzioni eccezionali Bi(x), B,(£),. nucleo simmetrico H(È, x), convergente assolutamente ed uniformemente in tutto l’in- tervallo (01): e si ha da) =Y #,(0) fono Bn(6) dé = Y° DO (MIE nel n=1 do Si ni HE, x) Byé) Jar COL v(6) dé n=l 0 A, ,Ag, +. essendo i valori eccezionali del nucleo H(É,x) corrispondenti alle funzioni eccezionali B,(x), B,(2),... Cfr. Schmidt (Entwickelung willkirlicher Functionen nach Systemen vorgeschriebener. Mat. Ann. 1907, $ 9); il teorema si riferisce non solo al caso in cui H(É,), 6(é) sieno funzioni finite e continue senza eccezione: ma facil- mente si estende anche al caso in cui sia una 0() funzione integrabile insieme al suo quadrato nell’intervallo 01, ed FH(É,) verifichi alle ipotesi indicate al n. 1 della pre- sente Nota (loc. cit., $ 11, Schlussbemerkung). — 145 — D'altra perte, se nella (6) moltiplichiamo ambo i membri per ®,(x) da ed integriamo da 0 a 1, raccogliamo, tenuto conto della posizione prece- dente (7) Sil 1 Sh (0 0= | J Le O 2 H(É, x) ®,(x) dé de = (1) deo LL (Aa) on Q(t) — 7 Li di D,(È) dé , = 19905 Q,(4) essendo la derivata di Q,(4). Ricordando la posizione (3) BI) = f SII 0,(€) de, la relazione precedente si può scrivere (9) Qu(6) — An Qu(6) = Bald), e questa, integrata, fornisce: An(t—to) Qu) = Ge = e B,() de, essendo C, una costante. Poniamo nella equazione precedente {= 4, rac- cogliamo, tenuto conto della (8) Ca = Qu(t0) = {ve 9 to) D,.(x) da ’ 0) e quindi, secondo le posizioni (3), (5) ricordando che «(x ,) assume per t= tb i valori di 7(x) e = (io CO gia L'espressione Q,() diventa quindi (10) ESA A +fe"" B,(c) de, sostituendo nella (7) otteniamo: vx,t)= DI ® (x) An n + (fe B,.(©) del ReNDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 19 — 146 — la serie del secondo membro convergendo assolutamente ed uniformemente — come abbiamo già visto — per tutti i valori di x compresi fra 0 ed 1 e per tutti i valori di { >£- Sostituendo successivamente nella (5), ri- caviamo finalmente A) me )=ge Ten 4 (le Be). n=1 Risulta così provato che, se esiste un integrale regolare della (1) che prende per t=t, è valori di h(x), esso è rappresentabile mediante la serie precedente (2). Resta da ricercare sotto quali condizioni tale integrale effettivamente esiste: è ciò che ci proponiamo di sviluppare nella Nota II. Chimica. — Sulla costituzione di alcuni acidi trimetossi- ftalict ('). Nota di G. BARGELLINI e OLIMPIA MOLINA, presentata dal Socio PATERNÒ (°). Ossidando con K MnO0, l'etere metilico della Columbamina (o etere dimetilico della Jateorizina), Feist (*) ottenne coridaldina ed un acido non azotato, insolubile nell'acqua e fusibile a 202°, il quale era probabilmente da considerarsi come un acido trimetossi-ftalico. Poichè i dati analitici ot- tenuti non erano sufficienti per arrivare ad una conclusione sicura sulla sua costituzione, Feist, avendo notato che i residui di questo acido, dopo la de- terminazione dei metossili coll’acido iodidrico, davano alcune reazioni simili a quelle del pirogallolo, suppose dapprima che fosse un acido 3-4-5-trime- tossi-ftalico della formula III e cercò di prepararlo sinteticamente. Un acido pirogallol-dicarbonico era stato ottenuto da Senhofer e Brunner (4) riscaldando a 130° in autoclavi il pirogallolo o l'acido gallico in soluzione acquosa con carbonato ammonico e più tardi da Brunner (°) con rendita migliore riscaldando per 10 ore a 180° in corrente di CO; l'acido gallico con bicarbonato di potassio in presenza di glicerina. Feist lo ripreparò con quest'ultimo processo ed eterificò poi i suoi os- sidrili fenici con diazometano. Ottenne così un acido trimetossi-ftalico al quale (considerando che l'acido triossi-ftalico corrispondente II era stato (1) Lavoro eseguito nell'Istituto Chimico della R. Università di Roma. (?) Pervenuta all'Accademia il 28 giugno 1912. (*) Feist, Arch. der Pharm., 245, 586 (1907); C. B. 1908 (1) 527. (4) Senhofer e Brunner, M., 1, 468 (1880). (5) Brunner, A., 351, 324 (1907); C. B. 1907 (1) 1405. — 147 — ottenuto introducendo un gruppo carbossilico nell’acido gallico I) atttibuì, com'era logico, la formula III OH OH OCH, HO OH HO de OH CHIOVANDN\/OCH, \ ) COOH _/ coon COOH COOH COOH Il . II BI Per questo acido preparato sinteticamente Feist trovò il punto di fu- sione 195°, cioè molto vicino a quello dell'acido ottenuto dall'etere metilico della Columbamina, dal quale però differiva molto per la forma cristallina. Poco tempo fa, Windaus ('), ossidando la Colchicina con K MnO0, in soluzione alcalina, ottenne, insieme ad acido ossalico, un acido della for- mula C,, H;: 0; fusibile a 175-176°, il quale dava facilmente un’anidride fusibile a 143-144° e un'anilide fusibile a 146°. Quest'acido per il. suo comportamento era da considerarsi come un acido trimetossi-o-ftalico. Poichè quest'acido ricavato dalla Colchicina era differente dall’acido 3-4-5-trimetossi-ftalico (III) sintetico di Feist, e poichè non sono teorica- mente possibili che due acidi trimetossi-o-ftalici, Windaus attribuì ad esso per esclusione la formula IV di acido 3-4-6-trimetossi-o-ftalico OCH; OCH, CH,0 n COOH CH,0 Co / | dhe _) COOH Do S CH, OCH, IV V E con questo ragionamento (giusto, quando si accettino per vere la co- stituzione dell'acido di Senhofer e Brunner e la costituzione dell'acido tri- metossi-ftalico sintetico di Feist) si venne alla conclusione che nella Colchi- cina sono contenuti tre gruppi -OCHz in posizione 1-2-4 (formula V). Con un processo che ora descriveremo, noi abbiamo potuto preparare un acido trimetossi-o-ftalico al quale con sicurezza spetta la formula III. Questo acido 3-4-5-trimetossi-o-ttalico da noi ottenuto sinteticamente si fonde a 175°, come l'acido che Windaus ottenne dalla Colchicina e, come questo, dà un’anidride fusibile a 143° e un'anilide fusibile a 146°. La identità dei punti di fusione dei composti da noi preparati e di quelli otte- nuti da Windaus, la identità dei caratteri di solubilità e delle altre pro- (') Windaus, C. B. 1911 (1) 1638. — 143 — prietà descritte da Windaus, ci autorizzano quindi a ritenere che l'acido ot- tenuto per ossidazione della Colchicina è un acido 3-4-5-trimetossi-o-ftalico e che perciò nella Colchicina sono contenuti tre gruppi -OCH; in posizione vicinale (formula VI) COH, OCH, CH, 1. COOH CH,0 Li di cH,o \ COOH CH,0 3 VI Però le proprietà dell'acido da noi preparato erano ben differenti da quelle del così detto acido 3-4-5-trimetossi-ftalico fusibile a 195°, che Feist aveva preparato, come abbiamo detto prima, eterificando con diazometano l'acido pirogallol-dicarbonico di Senhofer e Brunner. Considerando che il metodo di sintesi da noi seguìto per preparare il nostro acido e tutte le sue proprietà chimiche, ci davano la sicurezza che esso fosse veramente un acido 3-4-5-trimetossi-o-ftalico, si doveva pensare allora che l'acido di Feist non avesse la costituzione che era statagli attri- buita. Una Nota recente di Voswinckel e De Weerth (*) ha risolto questo problema di cui noi avevamo intenzione di intraprendere lo studio. Questi Autori, riusciti infruttuosi i loro tentativi per trasformare in anidride l’acido pirogallol-dicarbonico di Senhofer e Brunner, espressero il convincimento che a quest'acido fosse da attribuire non la formula II ammessa finora, ma la formula VII di acido 4-5-6-triossi-isoftalico. L'osservazione di Voswinckel e De Weerth è quindi in perfetto accordo con le nostre esperienze, perchè da essa si deve dedurre che l'acido sinte- tico di Feist, fusibile a 195°, è un acido 4-5-6-trimetossi-isoftalico (VIII) OH 0cH, HO È OH CH,0 i CH, HOOC COOH HOOC ve COOH VII VIII L'acido fusibile a 175° ricavato dalla Colchicina è dunque acido 3-4-5-trimetossi-o-ftalico (IIl) identico a quello preparato da noi sintetica- mente e per l'acido fusibile a 202° ottenuto per ossidazione dell'etere me- tilico della Columbamina, quando sia dimostrato (com'è probabile) che è un acido trimetossi-o-ftalico, resta la formula IV di acido 3-4-6-trimetossi-0- ftalico. (1) Voswinckel e De Weerth, B., 45, 1242 (1912); C. B. 1912 (1) 1899. — 149 — Per ottenere l'acido 3-4-5-trimetossi-o-ftalico, abbiamo eseguito con l'etere metilico dell'acido trimetil-gallico una reazione, studiata la prima volta da Fritsch (?), che è fondata sulla capacità che hanno gli eteri degli ossiacidi aromatici di condensarsi con cloralio in modo che la catena di due atomi di carbonio del cloralio si unisce all’anello benzenico in posizione orto al carbossile. Coll’aiuto di questa reazione, Fritsch (*) per esempio potè eseguire la sintesi della meconina e dell'acido emipinico partendosi dall’acido 2-3-dimetossi-benzoico e recentemente Meldrum (5) potè preparare sintetica- mente l’etere metilico dell'acido f#-coccinico (identico a quello ricavato dal- l'acido carminico) partendosi dall’acido 5-ossi-m-toluico. L'etere metilico dell'acido trimetil-gallico reagisce con cloralio idrato in presenza di acido solforico concentrato, nel modo seguente: OCH, OCH; CH;0 0CH, CH,0 OCH, VALLI 10 E ti + H20 + CH, 0H H FB E"HO:-CH-CC1, AGHECCÌ, 000, — Hi d0—ò deosscsscerossona0rasonesso Si forma così la trimetossi-triclor-metil-ftalide fusibile a 70-71°, le analisi della quale e la determinazione del peso molecolare in benzolo col metodo crioscopico hanno dato resultati concordanti colla formula sopra seritta. In questa triclor-metil-ftalide, i tre atomi di cloro vengono facilmente sostituiti da tre ossidrili per azione degli alcali: cioè il gruppo -C Cl; viene trasformato in -COOH e si forma un acido trimetossi-ftalid-carbonico (IX), fusibile a 142-143°, il quale, riscaldato sopra il suo punto di fusione (a 180-200°) perde CO, e si trasforma nettamente nella #rimetossi-ftalide corrispondente (X), fusibile a 134-135°: OCH, OCH; OCH, CH;0 OCHNMNA CHO) di OCH; CH; 0 OCH, CH-CCI, CH-CO0H S CH, 0-0 co-0 Co—-ò IX X Ossidando infine la ftalide in soluzione alcalina con K Mn0,, si ha l’acido trimetossi-ftalico corrispondente (XI), il quale, per la sua maniera (1) Fritsch., A., 296, 351 (1897); C. B. 1897 (2) 583. (*) Fritsch, A., 301, 360 (1898); C. B. 1898 (2) 712. (®) Meldrum, Soe., 99, 1712 (1911); C. B. 1911 (2) 1859. — 150 — di formazione e per la facilità con cui si trasforma in anidride (XII) è cer- tamente acido 3-4-5-trimetossi-o-ftalico OCH, 3 CH,0 (7 ps 0CH, » Dia D CH, COOH Co--0 9 Tn XI XII Se sì mette in un bagno riscaldato a 160°, si fonde a 174° (come l'acido di Windaus) trasformandosi in anidride. È insolubile nel benzolo: sì scioglie invece nell'acqua. Lasciando svaporare lentamente in un essicca-. tore la sua soluzione acquosa, si deposita in cristalli trasparenti appiattiti, dei quali il prof. A. Rosati, dell'Istituto di Mineralogia della R. Università di Roma, sta facendo lo studio. L'anidride dell’ acido trimetossi-ftalico fu preparata dall’acido per azione del cloruro di acetile. Cristallizzata dall'etere anidro, si fonde a 148°. È sublimabile. La immide (XIII) si ottiene riscaldando il sale di ammonio dell'acido. Fonde a 180°. È sublimabile. La soluzione alcoolica ha fluorescenza verde. L'acido trimetossi-ftalanilico (XIV) si ha aggiungendo anilina alla soluzione dell'anidride nel benzolo caldo. Fonde a 187-188°. L'anilide (XV) preparata riscaldando a ricadere per mezz'ora l'anidride con anilina, si fonde a 146°, come quella descritta da Windaus. È subli- mabile. Non è fluorescente OCH, OCH,; OCH, CH,0 OCH, ©H;0 OCH,; CH,0 OCH, co CO-NH-C,H; co CO— NH COOH CO—N-CH; XIII XIV XV È degno di nota il fatto che tutti i composti da noi ottenuti (come pure l'etere metilico dell'acido trimetilgallico) si sciolgono in Hs SO, cone. dando soluzioni scolorate o di color giallo chiaro. Aggiungendo traccie di HNO; a queste soluzioni, si ha intensa colorazione violacea, che, con quan- tità maggiore di HNO; diventa rossa vinosa. Con un eccesso di HNO; o lasciando stare per breve tempo la soluzione, il colore passa al giallo chiaro. Anche la Colchicina, come è noto, sciolta in H, S0,, dà luogo con H NO; ad una simile serie di trasformazioni di colori. È in corso di stampa nella Gazz. Chim. Ital. una descrizione più ampia della preparazione e delle proprietà dei composti da noi ottenuti, per mezzo dei quali noi possiamo gettare nuova luce sulla costituzione della Colchicina. — 151 — Ghimica. — Su alcuni nitriti instabili fissati a mezzo di basi organiche (*). Nota II di G. ScAGLIARINI, presentata dal Socio G. CrA- MICIAN (°). Quando si tenti di ottenere per doppio scambio il nitrito di rame si ha costantemente un notevole svolgimento di vapori nitrosi e come residuo ossido di rame o secondo Van der Meulen (*) un nitrito basico della for- mula: Cu(NO:)..3Cu(0H).. Se ne conoscono tuttavia dei nitriti doppî; Fok (‘) ne studiò uno fra rame e potassio contenente per ogni molecola di nitrito di rame, tre di ni- trito potassico. Carl Przibylla (3) descrisse una serio di nitriti tripli fra il nitrito di rame ed i corrispondenti sali alcalini ed alcalino-terrosi. Sono noti infine due ammoniacati preparati dal Peligot (5) cui rispet- tivamente spettano le formule 3Cu(NO:),.2NH3.H:0 e Cu(NO.);.2NH;. Il Lang (") trattando il solfato di nichel col nitrito di bario affermò di avere ottenuto il nitrito neutro di nichel, l’esistenza del quale fu in se- guito negata da altri sperimentatori fra cui l’ Hampe (*) che seguendo le indicazioni sperimentali del Lang ottenne un sale basico: Ni(NO:)..NiO. Przibylla (loc. cit.) preparò i nitriti tripli, fra nitrito di nichel e ni- triti alcalini ed alcalino-terrosi, analoghi a quelli ottenuti dallo stesso au- tore col nitrito di rame. Da ultimo Erdmann (°) descrisse un ammoniacato con quattro molecole di ammoniaca per una di nitrito di nichel. Hampe ('°) e Lang ("!) ammisero che il nitrito cobaltoso esistesse in soluzione, però concentrando nel vuoto le sue soluzioni ebbero un nitrito della formula: Co(NO.)3. Co 0. (®) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bologna. (3) Pervenuta all’Accademia il 19 luglio 1912. (3) Berichte, /2 (1897), 758. (4) Zeit. f. Kryst. 17, 177. (5) Zeit. anorg. Ch., 15 (1897), 419. (5), C. R., 53, 209. (7) J. prakt. Chem. 86, 299 (1862). (8) Ann. Ch. Phar. Lieb., /25, 334 (1863). (9) J. prakt. Chem., 97 (1866), 395. (1°) Ann., 125, 348. (11) J. (1862), 99. — 152 — Edmann (loc cit.) preparò un nitrito doppio fra cobalto bivalente e potassio della formula 3Co(NO,)..6KNO,.H:0 colorato in giallo aggiun- gendo ad una soluzione di cloruro cobaltoso un eccesso di nitrito potassico. Stromeyer (*) ne confermò la formula operando fuori del contatto dell'aria. Sadtler (*) a secondo che agiva con una soluzione concentrata o diluita di cloruro cobaltoso su un'altra di nitrito potassico, otteneva due composti uno giallo ed uno verde delle formule: Co(NO»)..KNO,.H,0 e 2Co(NO;):.2KNO;.H0. Si conoscono pure nitriti assai più complessi fra cobalto, potassio e calcio o bario o stronzio, cui Erdmann (loc. cit.) che li preparò attribuisce le seguenti formule: 2KNO;.Ca(N0»):. Co(NO»); ; 2KNO;.Ba(NO:):. Co(NO:):; 2KNO;.Sr(N0.);. Co(NO»):. Sono tutti assai alterabili, e specialmente l'ultimo, le di cui soluzioni al- l'aria diventano rosse e poscia lasciano depositare una sostanza bruna. Date però le scarse notizie che si hanno su questi sali e la loro facile alterabilità, mi parve opportuno riprenderne lo studio. In una Nota precedente sullo stesso argomento descrissi una serie di cristalli misti, ottenuti a mezzo della esametilentetrammina, contenenti in varî rapporti i nitriti di magnesio o di manganese e gli isomorfi sali di cobalto bivalente o di nichel; però per l'estrema solubilità dei nitriti co- baltoso e nicheloso non potei isolarli che allo stato di soluzione solida. Ma se alla esametilentetrammina sì sostituisce la piridina come agente fissatore, essi si possono ottenere abbastanza facilmente ben cristallizzati. Naturalmente a differenza di quello che succede colla esametilentetrammina che, secondo G. A. Barbieri e F. Calzolari (*), addizionandosi alle molecole dei sali idrati esistenti in soluzione andrebbe a far parte della sfera esterna, in questo caso la piridina sostituendo in parte o completamente l'acqua di cristallizzazione si lega direttamente all'atomo metallico. Operando nella stessa maniera ho pure preparato il nitrito neutro di rame e piridina. Ad essi spettano le seguenti formule : Cu(NO:):.2C;H;N ; Ni(NO.)..2C;H;N.2H:0 ; 4Co(NO:).. Co0.10C;H;N. Sono rispettivamente di colore verde scuro quasi nero il primo, verde azzurro il secondo, rosso aranciato il terzo. 1 Senza volere entrare in merito alla loro costituzione, mi limiterò a descriverne la preparazione. (1) Ann. 96, 220. () I. (1870), 345. (3) Questi Rendiconti (1910), vol. XIX, 2° sem,, pag. 584. — 158 — Nitrito di rame e piridina. Cu(NO»)s. 2C;H;N. Il modo migliore per ottenere questo sale è il seguente. Ad una mi- scela in proporzione di tre o quattro molecole di piridina per una di nitrato di rame, sì aggiunge l’acqua sufficiente per avere una soluzione limpida di colore azzurro intenso e poscia cì sì fa gocciolare un eccesso di una soluzione satura a freddo di nitrito sodico, raffreddandolo continuamente durante l’ope- razione. Agitando poi il liquido soprasaturo si depositano minutissimi crì- stalli che in gran parte vanno ad incrostare le pareti del recipiente. Questi vennero raccolti filtrandoli alla pompa e lavandoli parecchie volte con poca piridina ed alcool; furono poscia ricristallizzati sciogliendoli in piridina al- coolica e lasciando lentamente evaporare il solvente. Si poterono così ottenere grossi cristalli lamellari di colore verde cupo quasi nero, molto probabilmente appartenenti al sistema monoclino. I suddetti cristalli però non sì prestano bene a misure cristallografiche giacchè quasi sempre presentano una faccia deformata. Asciugati fra carta e posti sotto campana sino a peso costante, furono sottoposti all'analisi. Calcolato per Cu(NO,),. 2C5HsN ‘T'rovato Cu 20,28 20,05 20,48 20,24 NO; 29,36 29,15 29,20 C 38,27 38,91 H 8,18 3,29 N (totale) 17,90 17,95 17,99 Nitrito di nichel e piridina. Ni(NO»):.2C;H;N.2H,0. Pel nitrito di nichel si procede nello stesso modo usato pel precedente sale di rame, soltanto che in questo caso essendo il nitrato di nichel assai più solubile in piridina del nitrato di rame è opportuno aggiungere la minor quantità di acqua possibile. Si ottengono aggruppamenti mamellonari di mi- erocristalli colorati in verde. Eseminati appena formati al microscopio, ogni individuo si presenta in forma romboedrica. Filtrati e lavati con poca piridina acquosa alla pompa, vennero ricristallizzati sciogliendoli in alcool e piridina e lasciando evapo- RenpicontI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 20 — 154 — rare lentamente il solvente. Spremuti alla pompa ed asciugati fra carta ven- nero analizzati. I risultati sono i seguenti : Calcolato per Ni(NO»),.2C5 Hs N.2H,0 Trovato Ni 17,05 17,00 17,13 16,89 NO, 26,71 26,40 26,38 N (totale) 16,29 16,32 16,40 Questo sale lasciato nel vuoto si altera e così pure dopo molto tempo anche a pressione ordinaria svolgendo vapori nitrosi. Mtrito di cobalto e piridina. 4C0(N03):. CoO.10C;H;N. Anche pel nitrito di cobalto le proporzioni fra il nitrato cobaltoso e la piridina restano le stesse come per la preparazione dei precedenti nitriti, però in causa della tendenza del sale cobaltoso ad ossidarsi, occorre agire in ambiente privo di aria. A tale uopo operai in corrente di idrogeno, usando acqua bollita per disciogliere il nitrito sodico impiegato durante il processo e raffreddando fortemente con ghiaccio durante la reazione. A poco a poco si andarono formando aggruppamenti cristallini di colore rosso aranciato che al microscopio si presentarono come prismetti spesso geminati, i quali, fil- trati alla pompa e lavati con pochissima piridina, vennero asciugati rapida- mente fra carta. Non è opportuno tenerli troppo a lungo esposti all'aria, giacchè dopo un certo tempo cominciano ad alterarsi assumendo una colo- razione gialla; molto probabilmente si incorre in una ossidazione del sale cobaltoso a cobaltico. Il composto è assai solubile in acetone. Calcolato per 4Co(NO;),.Co0.100; Hs N Trovato Co 20,08 20,34 20,07 20,02 NO, 25,07 24,90 24,93 N (totale) 17,18 16,90 17,20 17,86 Si tratta però di un nitrito basico del cobalto bivalente. Lo studio dei nitriti instabili sarà continuato. Patologia. — Sulla fina struttura della Leishmania del Kala- Azar italiano in cultura. Nota del dott. A. VISENTINI, presentata dal Socio B. Grassi ('). Le ricerche sulla fina morfologia della Leishmania nella forma cultu- rale di Zepiomonas, alle quali io sono stato ripetutamente consigliato ed indirizzato dal Grassi e dal Minchin, presentano un certo interesse non solo per la loro novità, ma anche dal punto di vista citologico generale, sopra- tutto per gli interessanti e dibattuti problemi che riguardano la struttura ed il significato dell'apparato motore dei protozoi flagellati. Per queste ricerche ho avuto a mia disposizione tre ceppi di culture: uno da me stesso isolato da un malato di Kala-Azar di Bovalino Calabro e due altri gentilmente inviatimi dal Mesnil (Istituto Pasteur di Parigi e proveniente da Tunisi) e dall’Jemma (Clinica Pediatrica di Palermo). I risultati con essi ottenuti sono sempre stati concordi, così che io mi riferirò indifferentemente all’un ceppo od all’altro. In un'altra Nota io mi occuperò della Biologia del parassita e delle varie forme di Zezshmanîa che s'incontrano nelle culture e che hanno dato luogo a descrizioni e ad interpretazioni varie e non sempre esatte. Le forme culturali, noi vediamo in altri protozoi flagellati, sono per lo più forme aber- ranti ed oltre a ciò è probabile, che molte di quelle delle culture di Zezsh- mania. interpretate come stadî di un ciclo di sviluppo, non siano altro che forme degenerative! Così io ho preso in considerazione soltanto le forme di ZMerpetomonas che sono, si può dire, quasi le uniche che si trovano nei trapianti recenti e bene sviluppati. Il nucleo della Zeishmania è di tipo vescicolare e, specialmente nei preparati fissati umidi e colorati con ematossilina Heidenhain, esso appare costituito da una membrana ben delimitata, che comprende uno spazio chiaro, la così detta zona del succo nucleare, ed al centro un cariosoma a struttura compatta, nel quale talora si può mettere in evidenza un centriolo. Da! cariosoma si staccano qualche volta a raggiera dei fili di linina intersecati da altri ed interrotti da granuli, che lo uniscono alla membrana nucleare ed ai granuli e zolle di cromatina, situati alla faccia interna della membrana e costituenti ì « Cromatincomplexen » di Schaudinn. In generale (1) Pervenuta all’Accademia il 14 luglio 1912. Le presenti ricerche sono state ini- ziate nell’Istituto di Anatomia comparata della R. Università di Roma e continuate nel Zoological Departement of the Lister Institute of Preventive Medicine di Londra. — 156 — però i fili lininici sono molto sottili o mancano affatto e la cromatina della zona del succo è scarsa ed a granuli finissimi. Il così detto blefaroplasto, situato tra il nucleo e l'estremo anteriore del protozoo, possiede anche nella Zeishmaria, come negli alri protozoi flagel- lati ad essa affini, la struttura di un nucleo vero e proprio. Esso si presenta costituito da un corpo fusato od ovale con il maggior diametro in direzione trasversale, compatto, colorato intensamente, il cario- soma, intorno al quale si nota una zona chiara, circolare, corrispondente alla zona del succo nucleare del nucleo principale e delimitata da una finissima membrana senza o quasi granuli cromatinici e fili di linina. Alla periferia della zona chiara ed anteriormente si trova spesso un granulo, il granulo basale, da cui si stacca il rizoplasto. Il flagello della Zeishmania non finisce mai al polo anteriore del pa- rassita, come è stato descritto da osservatori che hanno ottenuto soltanto deficienti colorazioni, ma si continua sempre nel corpo del protozoo in dire- zione posteriore, fino al blefaroplasto. Si ha così costantemente nella Zeishmania la presenza di un rizoplasto, che io ho già descritto in una mia Nota precedente e che già esiste nella forma di Zeishmania degli organi ematopoietici, da me rappresentato nella tavola che accompagna la stessa pubblicazione. Nella maggior parte dei casi il rizoplasto arriva al granulo basale, il quale è spesso unito al cariosoma da una formazione a forma di cono, fina- mente striata, come fosse costituita da finissime fibrille. Altre volte si ha l'impressione che il flagello si origini direttamente dal cariosoma del nucleo blefaroplastico, nel quale allora si troverebbe anche il granulo basale. A_ questo del resto si attribuisce per lo più il significato di centriolo del nucleo motore ed il suo comportamento nel processo di divisione deporrebbe in tale senso. Il processo di divisione della Zesshmania incomincia per lo più dal così detto blefaroplasto con la comparsa di due granuli basali. In seguito si formano anche due rizoplasti riuniti anteriormente da un unico flagello e successivamente compaiono due flagelli di cui quasi sempre uno è normale e l’altro, neoformato, è molto più corto. Il più delle volte però già fin dall'inizio sì osservano due rizoplasti indipendenti, uno munito di flagello ed uno senza. Quest'ultimo dà origine al nuovo flagello. Contemporaneamente o subito dopo avviene anche la divisione del ca- riosoma. Questo si allunga e si strozza nel mezzo e le due metà risultanti si allontanano sempre più dando luogo ad una figura di centrodesmosi. L'esilissimo filo, che unisce Je due metà del nucieo blefaroplastico, si stacca appunto dai due granuli basali risultanti dalla scissione. La divisione del nucleo principale segue un processo perfettamente ana- logo ed avviene in tutti i suoi stadî entro la membrana nucleare. — 157 — La cromatina compatta del cariosoma si spezza in granuli e bastoncelli corti e, distribuita da prima irregolarmente nella zona del succo, va poi or- dinandosi fino a costituire un'unica massa allungata, irregolare, bernocco- luta, disposta trasversalmente all'asse maggiore del protozoo. contenuta sempre nell'interno dalla membrana nucleare. La cromatina in seguito si raccoglie alle estremità in due ammassi, che rimangono collegati da un filo centrodesmotico, il quale riunisce due granuli forse corrispondenti ai centrioli delle cellule figlie. La membrana nucleare persiste sempre durante il processo; essa assume da prima una forma ovale, poi a cifra 8, disposta trasversalmente all'asse maggiore della Zezshmania ed infine costituisce le membrane tondeggianti dei due nuclei figli. Il filamento centrodesmotico si rompe e la divisione è completa. In questo processo non ho mai osservato la formazione di un fuso acro- matinico vero e proprio o di una piastra equatoriale tipica, come ha notato il Rosembusch nei tripanosomi. Le cellule figlie sono esattamente eguali. In alcuni nuclei si possono riscontrare figure analoghe a quelle descritte da Horta e Machado nel 7ryponosoma Chagasi e che sono state interpre- tate da questi autori, io credo erroneamente, come un processo di divisione eteropolare. Si tratta probabilmente di una semplice riduzione di cromatina, che forse si potrebbe avvicinare ai fenomeni che Richard Hertwig chiama di « Kernplasma-Relation ». Altre ricerche, tuttora incomplete, io ho dirette allo studio di altre par- ticolarità strutturali. Il protoplasma della Lezshmanzia in cultura si presenta finissimamente granuloso e contiene spesso granuli più grossi identici a quelli così detti di volutina dei tripanosomi. Non mi è mai riuscito di mettere in evidenza nel protoplasma alcun filamento che riunisse il nucleo con il blefaroplasto, nè un filamento assile vero e proprio; però, dopo fissazione con liquidi osmici, ho riscontrato invece la presenza, nello spazio tra il nucleo ed il blefaroplasto ed a questo vici- nissimo, di un corpicciolo a contorni non ben nettamente delimitati, tondeg- giante, colorato più debolmente del cariosoma ed in preparati fissati con acido osmico e liquido di Schaudinn, ho messo in evidenza un filamento, che, partendo dal polo posteriore del parassita, ne percorre a spira il corpo e finisce presso il blefaroplasto, in qualche caso direttamente nella forma- zìone sopra menzionata, che io credo di identificare con quella descritta dal Novy e dal Sangiorgi nei tripanosomi. Io non ho mancato di ripetere molte volte esami a fresco in soluzione fisiologica oppure in una diluitissima soluzione di acido picrico. — 158 — Si distinguono allora il nucleo principale ed il blefaroplasto come punti oscuri circondati da un alone chiaro, si vede anche il rizoplasto e talora un corpo, più oscuro del protoplasma, non ben definito, senza alone, situato vi- cino al nucleo bleroplastico stesso. L'osservazione a fresco ed a fortissimo ingrandimento è, ben si com- prende, molto faticosa ed è sopratutto difficile rilevare dettagli di struttura in organismi così piccoli! A queste ricerche mi hanno sopra tutto indirizzato gli studî del Grassi e della Foà sulla struttura dei protozoi dei Termitidi, studî che hanno aperto un orizzonte di ricerca intorno all'apparato motore dei protozoi flagellati. lo non so se rizoplasto e blefaroplasto della Zeishmania possono avvi- cinarsi agli organelli descritti dal Grassi e dalla Foà ed indicati dal Janicki con il nome di Parabasallapparat, denominazione però che non è accettabile, perchè fonde insieme cose eterogenee ed è priva di un significato preciso. Forse anche il corpo non ben definito, situato presso il blefaroplasto, può essere interpretato, con molto riserbo, come analogo al corpo parabasale ed il filamento da me descritto nel protoplasma del parassita come filamento assile od una formazione omologa. Un apprezzamento esatto di questi dati morfologici e del loro signifi- cato sarà possibile soltanto estendendo queste ricerche, sistematicamente, ad altre forme più o meno affini, specialmente a quelle meno ridotte dal paras- sitismo ed anche a quelle libere. Ed è da sperare che ripetendo analoghe ricerche sulla fina struttura delle altre specie di Zeishmania, Herpetomonas e Leptomonas si troveranno caratteri distintivi tra specie e specie, tali che permetteranno di distinguerle con sicurezza e meglio di quello che oggi non si possa fare. Biologia. — Movimenti degli ovidotti e conseguente metabolia delle uova negli Acaridi ('). Nota della dott. Anna Foà, presen- tata dal Socio B. Grassi (°). Un lavoro recentissimo di E. Riede (8), dove si parla anche dei movi- menti degli ovarioli negli insetti, mi induce a pubblicare sotto forma pre- liminare un'osservazione da me fatta quest'anno sopra un Acaro il Ahzzo- glyphus echinopus Rob., osservazione per quanto io so non ancora registrata nella letteratura, e che doveva far parte di un mio lavoro più esteso intorno all'Acaro stesso. Intendo parlare precisamente di movimenti più o meno 1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Anatomia Comparata della R. Università di Roma. ?) Pervenuto all'Accademia il 19 luglio 1912. ®) Vergleichende Untersuchung der Sauerstoffversorgung in den Insectenovarien. Zoolog. Jahrb. XXXII Bd, 2 Heft. 1912. D ( ( ( = 190 = spiccatamente ritmici degli ovidotti, che si manifestano in maniera assai evidente per l’effetto che producono sulle uova contenute negli ovidotti stessi. Osservando infatti per trasparenza sotto il microscopio una femmina fecondata si rimane assai sorpresi di vedere che le uova più giovani, ossia quelle che si trovano nel primo tratto dell'ovidotto, fanno dei movimenti tali per cui la loro forma appare continuamente mutevole (metabolia). Di tutti questi movimenti quello che più attira l’attenzione è dato da contrazioni pe- ristaltiche provocate da uno strangolamento trasversale che si produce ora in un punto ora in un altro senza un ordine apprezzabile. Le contrazioni si susseguono senza tregua e possono anche avvenire contemporaneamente in due punti diversi; il restringimento a cui dànno luogo è a volte così mar- cato che l'uovo si direbbe diviso in due o più parti. Insieme a queste con- trazioni se ne notano altre, ma molto meno energiche, in senso longitudinale, che determinano un accorciamento dell'uovo seguìto da un allungamento; a lungo andare si rende manifesto anche il cammino dell'uovo lungo l'ovidotto. Per di più di tratto in tratto, con una contrazione brusca, tutto l'ovidotto sì sposta in vario senso. La continuità dei movimenti è tale che non si riesce a fissare sulla carta, per mezzo della camera lucida, il contorno dell'uovo se non quando per le cattive condizioni in cui si trova l’animale, immerso in un liquido e chiuso tra due vetrini sotto il campo del microscopio, le contrazioni cominciano a rallentarsi per poi cessare del tutto dopo un tempo più o meno lungo, che può essere anche di qualche ora. Si può escludere in modo assoluto che questi movimenti siano artifi- cialmente provocati o dalla compressione del vetrino coprioggetti o dal li- quido (acqua o soluzione fisiologica di cloruro di sodio) adoperato per la preparazione, per il fatto che con una luce molto intensa possono osservarsi anche mettendo semplicemente le femmine sotto il campo del microscopio, in posizione opportuna, su un vetrino portaoggetti, senza nessun liquido e senza vetrino copritore. Le uova in stadio più avanzato di sviluppo, che si trovano nella se- conda parte dell’ovidotto, si presentano sempre immobili, di forma ovalare, regolare. Le uova che nell'animale vivo si vedono in movimento, sì ricono- scono molto facilmente nelle sezioni, sia per il loro contorno irregolare, sia per la loro posizione nel corpo dell’acaro. Si può così stabilire che esse si trovano nel periodo delle divisioni maturative. Sono stati descritti, in altri animali, mutamenti di forma dell'uovo in rapporto coll’emissione dei corpu- scoli polari, ma non è questo il caso di cui mi occupo. Qui l'uovo ha una parte assolutamente passiva e lo si può dimostrare prendendo in osservazione quelle femmine che già hanno deposto un gran numero di uova e non ne producono più che poche, oppure quelle appena fecondate nelle quali le uova in via di sviluppo sono ancora assai scarse. Nelle une e nelle altre restano tratti più o meno lunghi di ovidotto vuoti, i quali si contraggono nella stessa maniera di quelli contenenti le uova. — 160 — La struttura dell'ovidotto rende ragione dei movimenti. Io non ho ancora fatto in proposito uno studio particolareggiato e non posso fornire a questo riguardo che dei dati incompleti. Mi limito a dire che mediante le dilace- razioni è possibile, ma non facile, di isolare i due ovari cogli ovidotti rela- tivi. In ciascun ovidotto sì possono così distinguere due parti: la prima, cioè la più vicina all’ovario, più ristretta: la seconda più dilatata. Sulla lun- ghezza relativa di queste due parti è difficile pronunziarsi per le alterazioni che subiscono durante l'estrazione; mi sembra però che la prima sia alquanto più lunga della seconda. La dilatazione si forma tutto d'un tratto: che essa non sia artificiale si può accertare perchè si osserva anche nell'animale vivo quando, per le ragioni che ho sopra ricordate, l'ovidotto si presenta quasi vuoto. Nell'animale vivo la parte dilatata ha un aspetto un po’ diverso dell'altra, un colore più tendente al giallastro; nei preparati coloriti e nelle sezioni si vede che in essa le cellule epiteliali sono molto più grandi, i nuclei di maggiori dimensioni, il protoplasma si colora più intensamente e con alcune sostanze, p. es. colla safranina, in modo differente, da quello delle cellule epiteliali della parte ristretta. Ritengo che nell’epitelio della parte dilatata avvenga la secrezione della sostanza jalina che circonda le uova, ma di questo ora non mi occupo. Interessante invece è lo studio della tunica muscolare (peritoneale) che avvolge l’ovidotto. Questa in corrispondenza alla prima parte, cioè alla parte più ristretta, lascia molto facilmente scorgere delle fibre muscolari trasversali; esse hanno una disposizione assai regolare, cioè si seguono in direzione quasi parallela, ad intervalli presso a poco eguali; sono striate e non ramificate. Con mag- giore difficoltà se ne vedono altre longitudinali, molto più sottili, anch'esse striate e, almeno nella maggioranza dei casi, non ramificate. Tale disposi- zione regolare è ben netta nella parte mediana della porzione ristretta del- l'ovidotto, non la vedo così distinta nel tratto che segue immediatamente l'ovario, nè in quello che precede immediatamente la dilatazione; non posso però escludere che ciò debba attribuirsi a difetti dei preparati. Certo è che non si riscontra mai in corrispondenza alla porzione dilatata dell’ovidotto, dove invece si vedono fibro-cellule muscolari raggiate, ramificate, imperfetta- mente striate. Di queste fibro-cellule raggiate ne trovo anche intorno all’ovidotto, tanto nella parte sottile che in quella dilatata, ma distaccate, coi raggi strappati in modo che non posso determinare la loro vera posizione. Ritengo che lo strappamento si produca quando l'ovidotto, che nell’animale vivo è ripiegato due volte, si distende nella dilacerazione. Probabilmente le pieghe erano tenute insieme da uno straterello amorfo nel quale erano contenute le fibro- cellule, e forse alle contrazioni di queste si debbono i movimenti bruschi di tutto l’ovidotto. Non posso però precisare ulteriormente questo punto. Per cercare di spiegare la ragione dei movimenti descritti, ricordo che negli Acari di cui mi occupo non esiste l'apparato circolatorio, nè quello — 161 — respiratorio. Da parecchi autori è già stata avanzata l'ipotesi che negli Acari mancanti di un cuore la circolazione del sangue sia mantenuta in qualche modo costante, sebbene lenta e irregolare, dalle contrazioni dei muscoli delle zampe e dei cheliceri, come pure dai movimenti peristaltici del digestorio. I movimenti dell’ovidotto avrebbero per effetto di far circolare più attiva- mente i materiali nutritizi attorno alle uova. Tenendo poi presente che negli Acari senza trachee viene generalmente ammessa una respirazione attraverso la cuticola. e che nel caso da me osservato, gli ovidotti, nel tratto dove il movimento è più energico, sono vicini alla cuticola, separati solo da un sot- tilissimo ipoderma costituito di cellule stellate, lontane l'una dall’altra, si comprende come la circolazione più energica in questa regione possa quivi rendere più attiva anche la respirazione. Il movimento degli ovarioli avrebbe così per conseguenza di facilitare la nutrizione dell'uovo durante il suo sviluppo. Noto infine che gli stessi movimenti ho osservati in un altro Acaro (Histiostoma?) vivente insieme al Ahizoglyphus nel materiale in decompo- sizione, e che forse è esteso anche a molte altre forme dove più difficile è l'osservarlo. Chimica. — Sui prodotti d’addizione dei derivati del trini- trobenzolo con alcune sostanze aromatiche azotate ('). Nota di R. Ciusa e L. VeccHIoTTI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (?). Gli indoli si addizionano molecola a molecola coll’acido picrico per fornire ì corrispondenti picrati che servono così bene a riconoscerli ed a purificarli: non sono stati però studiati prodotti d’addizione con altri tri- nitrobenzolderivati, se si eccettua quello dell’indolo col trinitrobenzolo CsHN . CsH3(N0s)3 (*) e quello del carbazolo col cloruro di picrile. Que- st'ultimo prodotto è formato, come ha trovato Wedeckind (‘), da una mole- cola di carbazolo e due di cloruro di picrile; nel picrato invece i due corpi si uniscono molecola a molecola (5). Se si va a ricercare la ragione della composizione, per dirla così, insolita di questo picrilderivato bisognerà tro- varla nella presenza del secondo gruppo benzolico del carbazolo. Anche per gli indoli si veritica quindi come caso limite la regola di Bruni secondo la quale il numero massimo di molecole di trinitrobenzolderivato che si addi- ziona è uguale al numero dei nuclei benzolici liberi. (!) Lavoro eseguito nell’ Istituto di Chimica generale dell’Università di Bologna. (3) Pervenuta all'Accademia il 18 luglio 1912. (*) Romburgh Recueil d. t. chimiques Pays-Bas, 74, 66. (4) Berichte, 33, 434. (5) Graebe e Glaser, Ann., 163, 843. RenpicontTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 21 — 162 — I composti d'addizione si considerano attualmente come i composti com- plessi della chimica organica (*!): appare subito evidente perciò come sia necessario studiarli e prepararli in grande numero per poter vedere, ove sia possibile, quale sia il luogo chimico d'attacco della molecola, o delle mo- lecole, del trinitrobenzolderivato, non solo ma per ricercare le relazioni che intercedono fra la costituzione del corpo addizionante, il colore del composto d'addizione e il numero di molecole di trinitrobenzolderivato che si addi- zionano. . La questione della colorazione non è certamente le meno interessante : essa è però la meno accessibile alle ricerche. Per ciò che sì riferisce al numero di molecole di trinitrobenzolderivato che si addizionano le nostre ricerche hanno portato ancora una volta una conferma alla regola di Bruni su accennata. Il carbazolo ha fornito composti d’addizione con una molecola di trinitrobenzolo, con due (Wedekind) e una di cloruro di picrile, con una e mezzo, e una di trinitrotoluolo. Il fenilindolo accenna anch'esso a combinarsi con più di una molecola di nitroderivato: addiziona infatti una molecola e mezzo di trinitrotoluolo, mentre addiziona una sola molecola di acido picrico e cloruro di picrile. Degli altri indoli studiati nessuno è capace di addizionare più di una molecola di trinitrobenzolderivato (*). Dal modo di comportarsi del carbazolo sorge il dubbio che anche il fenantrene e antracene possano combinarsi con più di una molecola di nitroderivato: coll’analisi termica si riconosce soltanto l’esistenza di un sol composto (1 mol. + 1 mol.) (*). Non è impossibile, però, che gli altri composti possibili sieno completamente dissociati assai prima del punto di fusione, in modo che con questo mezzo non possa esserne sve- lata l’esistenza. A proposito dei composti d’addizione dei diversi indoli studiati con de- rivati del trinitrobenzolo diversi dall’acido picrico abbiamo potuto osservare che essi si possono assai bene purificare per cristallizzazione dell'alcool; ma non sì riesce da tutti a mettere in libertà l’indolo di partenza, come si fa tanto utilmente dai picrati. Solamente dal trinitrotoluolderivato sì otten- gono gli indoli di partenza scomponendoli con potassa e facendo passare nel miscuglio alcalino una rapida corrente di vapor d’acqua, e perciò questi tri- nitrotoluolderivati si possono vantaggiosamente sostituire ai picrati nelle ri- cerche sugli indoli. (1) A. Werner, B. 42, 4324; H. Ley, Die Beziehungen 2wischen Forln und Konsti- tution, pag. 56, Leipzig (V. S. Hirzel); R. Ciusa, questi Rendiconti, XX, II, 523; R. Ciusa e L. Vecchiotti, questi Rendiconti, XX, II, 377. (2) Vedi parte sperimentale per ciò che si riferisce a composti dell'e e 8 metilin- dolo col cloruro di picrile descritti in una Nota precedente, come contenenti due mo- lecole di cloruro di picrile. (8) Kremann, Monatsh. 26, 143; ved. anche G. Bruni, Chem., 2, 1906, I, 568. — 163 — PARTE SPERIMENTALE. a- Metilindolo-trinitrobenzolo CsHs N. CeH3(N00);. Sì ottiene mescolando le soluzioni alcooliche concentrate bollenti dei componenti; si purifica cristallizzandolo da poco alcool. Anche mettendo a reagire 2 mol. di trinitrobenzol con una di metilchetolo si ottiene la stesso composto. CsHo N. C6H3(N0}):. CaleMC#52:327 H: 3,48; N: 16,28 Trov. » 52,58; dI » 16,24. Aghi rossi fondenti a 152° ('). a- Metilindolo-trinitrotoluolo CsHsN.CsHs.(N0:)3.CH3. Si ottiene come sopra, ed è l’unico prodotto che si possa isolare met- tendo a reagire i due componenti. CsH,N.CsH:(NO»)3.CH3 Cale. C: 53,63; H: 3,91; N: 15,64 Trov. » 58,21; » 4.11; » 15,20. Aghi gialli fondenti a 110°. Scomposto con potassa e distillato in corrente di vapore ridà quantitativamente il metilchetolo addizionato. a-Metilindolo-trinitroanilina. CsHgN .CsHs:(N0,):. NH, Calc. C: 50,13; ELE 3.56; N: 19,49 Trov. » 50,08 50,20; » 3.96 3,69; » 19,85 Aghi rosso-mattone a riflessi metallici poco solubili in alcool e fondenti a 166°. a- Metilindolo-cloruro di picrile. È stato descritto nella Nota precedente come formato da una molecola di indolo con due molecole di cloruro di picrile. Avendone ripetuto nei modi più svariati la preparazione, ci siamo convinti che non è possibile ottenere dai due componenti, come composto chimicamente puro, altro che un mono- picrilderivato (°). CsHsN.C5Ho(NO:)3 CI Cale. C: 47,55; H: 2.90; N: 14,79; Cl: 9,44 Move ATA; n CS Ale A AA: 91 Aghi rossi fondenti a 115°. (1) Questo composto è stato anche descritto da J. J. Sudborough, J. Chem. Soc., 97, 773. () R. Ciusa e C. Agostinelli. — 164 — B- Metilindolo-cloruro di picrile. Anche questo composto è formato da una molecola di indolo con una di cloruro di picrile. Vale per questo composto ciò che è stato detto per il picrilderivato precedente ('): CsHsN.C5He(N0»); CI Calc. Ci: 47,55; H: 2,90 Trov. » 47,65; » 3,24. Aghi rossi fondenti a 120°. a-B- Dimetilindolo-trinitrobenzolo. CroHnN.C6H3(N0)3 Calc. C: 53,63; REI9,1E: Troy. » 53,96; » 3,90; Aghi rossi fondenti a 175°. a-3- Dimetilindolo-trinitrotoluolo. CioHi;N.CeHs(NO:): .CHz = Calce. C: 54,84; H: 4,20; N: 15,05 Trov. » 54,71; 34:26 Wa 155387 Aghetti rossi fondenti a 118°. a-B- Dimetilindolo-cloruro di picrile. CroHnN .CeHs(N0):. CI Cale. C: 48,91; H: 3,81; Cl: 9,03 Trov. » 48,64; So 52E » 9,43. Aghi rosso-scuri fondenti a 140°, Tetraidrocarbazolo-cloruro di picrile. CisHi:N.C6Hs(N0,)3.C1 Cale. C: 51,61; H:3,58; N:13,39; Ol: 8,76 Trovaessoe 583: 83 9550) Aghetti bruno-cioccolatto fondenti a 121°. Carbazolo trinitrobenzolo. Si ottiene al solito modo (?). C,2HgN.CsH3(N0); Calc. C: 56,84; HEssso Trov. » 56,99; » 3,46. Aghi giallo-arancio fondenti a 204°. (!) R. Ciusa e C. Agostinelli. (2) Preparato anche da Sudborough, loc. cit. — 165 — Il composto con due molecole di trinitrobenzolo non si ottiene. Carbazolo 14 trinitrotoluolo. Si ottiene quando si cerca di ottenere il composto con due molecole di trinitrotoluolo, mescolando soluzioni alcooliche concentrate bollenti di carbazolo (1 mol.) e di trinitrotoluolo (2 mol.). 2C,2HoN .3C5H3(N0:);. CH; Cale. C: 53,21 5 H: 3,25 Trov. » 53,18; 53,55; » 3,42; 3,50. Aghi gialli fondenti a 160°. Carbasolo trinitrotoluolo. C,2HoN 0 CsH3(N0:); CH, Cale. C: 57,86 0 H: 3,55 Trov. » 58,06 ; 58,20; » 3,97 ;3,77. Aghi gialli, più scuri del composto precedente, comincia a fondere a 140° e non fonde completamente che verso i 200°. Carbazolo-cloruro di picrile. Il composto con due molecole di cloruro di picrile fu ottenuto da We- deckind (loc. cit.) fonde a 160-165°: quello con una molecola di cloruro di picrile si ottiene mescolando le soluzioni equimolecolari alcooliche od ace- toniche bollenti dei componenti. C,sHoN.CsHs(NO:); CI Calc. C: 52,11; H: 2,65 Trov. » 52,26; » 3,08. Cristalli rosso-scuri che si rammolliscono a 140° e fondono a 155°. Coll’acido picrico non si riesce ad ottenere che il picrato C,$H3N.CsH:(N0:): OH fon- dente a 182° (1). Fenilindolo 14 trinitrotoluolo. 20,HuN o 3CsHs(N0s); CH, Cale. C: 56,18 0 E: 3,59 Trov. » 56,07;56,21; » 3,73;3,78. Aghi gialli fondenti a 97°. (*) Loc. cit. — 166 — Fenilindolo-cloruro di picrile. CH, N.CsHs(N0:); CI Calc. C: 54,48; H: 2,95 Trov. » 54,59; SI CA Aghi rosso-carminio fondenti a 119°. Coll’acido picrico non si riesce ad ottenere altro che il picrato CuH,N.CsH:(N0:)3 OH fondente a 127° (1). (3) B., 29, 165. Pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 18 — Atti dell'Accademia pontificia dei Nuovi Lincei. Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 22 — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. 1II. (1875-76). Parte 1% TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 8* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. VollVaVa VIE AVIEEVILI Serie 3* — TransunTI. Vol. I-VIII (1876-84). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II. (1, 2). — III-XIX. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpiconTI. Vol. I-VII. (1884-91). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XXI. (1892-1912). 2° Sem. Fasc. 2°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XXI. (1892-1912). Fase. 1°-2°. MeMmoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-IX. Fasc. 2°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONII DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia è di L. f@; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LoescHer « C.° — Roma, Torino e Firenze. ULrico Horpui. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Luglio 1912. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI? | pervenute all’ Accademia durante le ferie del 1912. Righi. Sul trasporto di ioni positivi effettuato dai raggi magnetici . . Pag Nasini e Ageno. Volatilità dell’acido borico nel vapor di acqua, ed .ebullizione delle sue soluzioni sature con fase solida. . .., ATER Tonelli. Sugli integrali enrvilinei» del Calcolo dc variazioni i (pia (in Socin Pincherle) » Villat. Espressione per trascendenti ellittiche della funzione che caratterizza i moti ondosi provocati da periodiche accidentalità del fondo (pres. dal Socio Zevi-Civita), . . . » Amoroso. Sopra un'equazione integro-differenziale del tipo parabolico (pres. dal Corrisp. Zau- CVA AIA IERI NA A IA I AIRIS —, > 15° RS Vi a Sc n) Bargellini è Molina. Sulla costituzione di alcuni acidi trimetossiftalici. (pres. dal Socio Paternò). <.<. . . «Moi: MAREA) Scagliarini. Su alcuni nitriti iustabili fissati a mezzo di De AO ua (ai Socio Ciamician). . . È Mib ”» Visentini. Sulla fina Aa: della Jucish ania del eli n in Gatti ida dal SOCIDI ATI I SIRO Abe e FI pipe CANA ” Foà. Movimenti degli ovidotti e consegni metabolia delle uova negli Acaridi (pres. Id.) » Ciusa e Vecchiotti. Sui prodotti d’addiziope dei derivati del trini'robenzolo con alcune so- stanze aromatiche azotate (pres. dal Sogio Ciamician) . -/./././ 0 K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile: (11% GRNBRIFAT ILA 161 Abbonamento postale. Pubblicazione bimensile. Roma 11 agosto 1912. N; 3. cale DI DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CGCCIX. 1912 SPEProE RI QUJSOBENTE A RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume X XI. — Fascicolo B° 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all'Accademia durante le ferie del 1912. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d’arrivo)..- ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1912 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti: 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del. l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 8. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l'autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e Ie Memorie pro- priamente dette, sono senz'altro inserite mei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la fPresidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. 8. Nei primi tre casi, previsti dall'art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. o. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50.se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE: I NOTI DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI pervenute all'Accademia durante le ferie del 1912. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d’arrivo) Geologia. — Zrtorno ad alcune faune cretaciche del Deserto arabico. Nota del Corrispondente Grovanni Di-STEFANO ('). L'ing. Emilio Cortese, in un suo recente viaggio in Egitto, ha attraversato il Deserto arabico da Chena, nella destra del Nilo, a Cosseir sul Mar Rosso, lungo l'antica via carovaniera della Mecca (*). Sebbene quella via non sia nuova per la nostra scienza, pure egli, da quel valente geologo che è, ha avuto modo di fare importanti osservazioni, che permetteranno di rettificare, per le regioni percorse, varie inesattezze della Geological map of Egypt @ t/rooccco (Sheet III°: Jebel Duwi e Sheet IV°: Arabian Desert) del Survey Departement anglo-egiziano, e di raccogliere nello stesso tempo interessanti gruppi di fossili. Il Cortese ha voluto gentilmente affidarmi lo studio di quegli elementi paleontologici e donarli al Museo geologico dell'Università di Palermo, di che lo ringrazio pubblicamente. Le faune raccolte sono speciali del Cretaceo superiore dell'Africa set- tentrionale e, se non sono nuove, acquistano però molto valore, perchè, es- sendo stata la loro posizione stratigrafica accuratamente rilevata dal Cortese, possono in parte condurre a conchiusioni cronologiche un po’ più precise di quelle alle quali perviene M. Blanckenhorn, benemerito illustratore della geologia egiziana. Per questo, mentre l'ing. Cortese pubblica la compiuta descrizione geologica del suo viaggio, accompagnata dalle belle sezioni rile- vate, credo bene di esporre brevemente i risultati cronologici dell'esame delle (') Pervenuta all'Accademia il 7 luglio 192. (3) Cortese E., Traversata del deserto arabico da Chena a Cosseir. Boll. d. Soc. geogr. ital., 1911, fasc. II. RenpicontI. 1912, Vol. XXI. 2° Sem. 22 — 168 — faune cretaciche a me comunicate, giovandomi, naturalmente, delle notizie geologiche che egli mi ha amichevolmente fornito. I fossili da me determi- nati provengono dal Gebel Hagaza, dal Gebel Agula, dal Gebel el Gurn e specialmente dal Gebel Duwi, presso il Mar Rosso, e dal Gebel Nakheil, che ne è una dipendenza. Presso il Gebel Hagaza, E. Fraas (*) raccolse di già per primo un discreto numero di specie del Cretaceo superiore (Strati con « Trigonoarca »). Campaniano. — Alla base del Gebel Duwi, presso Bir el Ingliz, il Cortese ha trovato, in concordanza sull'Areraria della Nubia, uno spesso banco marnoso, bianco, gremito di Ostrea (Alectryonia), delle quali egli ha raccolti molti ed ottimi esemplari. Non spetta a me d'intrattenermi della questione dell'età della Mudiurn Sandstone dell'Egitto, della Nubia e della Siria; basti qui il notare che se essa comprende nella parte inferiore il Paleozoico e forse anche il Trias, in quella superiore, come si trae dalle osservazioni di Schweinfurth, Zittel, O. Fraas, E. Fraas, M. Blanckenhorn, ecc., contiene il Cenomaniano e il Senoniano inferiore (Santoniano), mentre raro o incerto vi risulta il Turoniano. Sulla stessa via percorsa dal Cortese, cioè presso Kasr el Banat, E. Fraas (op. cit.) trovò, nell'Areraria della Nubia, delle Ostrea (0. Boucheroni e O. Bourguignati Coq.), che provano il Santoniano. Le specie raccolte dal Cortese nel banco di marna bianca sono le seguenti : Alectryonia Viilei Cod. sp. ” Renoui Coq. sp. L'A. Villei è specialmente abbondante; essa passa per gradi alla A. Re- novi, che però è assai più scarsa. Il livello speciale con A/. Vi//ez di Egitto è dal Blanckenhorn (*) riferito al Campaniano (Senoniano medio); il prof. E. Hang (Traité de Géologie, II, pag. 1335), che considera come incerta l'esistenza del Campaniano in Egitto, lo riguarda piuttosto come appartenente al Maéstrichtiano inferiore. L’AI. Villei e la Al. Renoui, sebbene passino pure nel Maéstrichtiano, dove sono però molto meno abbondanti, hanno, in Algeria, il loro giacimento prin- cipale nel Campaniano; il banco in cui al Gebel Duwi è straordinario il numero di esemplari dell'A/. Ville: è, secondo il Cortese, distinto e separato dal Maéstrichtiano ben determinato, del quale ora parleremo, da uno spesso fascio di arenarie verdicce, con marne e scisti sericitici scuri. Quel banco, che sta in perfetta connessione sul Santoniano, rappresentato dalla parte (1) Fraas E., Geognostisches Profil vom Nil zum Rothen Meer. Zeitschr. d. d. geol. Gesells., LIT Bd., 1900. (3) Blanckenhorn M., Neues 4. Geologie u. Paltiontologie Aegyptens. Zeitschr. d. d. geol. Gesells., LII Bd., 1900. — 169 — superiore dell’Arenaria della Nubia, è dunque il giacimento speciale del- l’Al. Villei e può riguardarsi come Campaniano, tanto più che i cefalopodi citati in questo livello dal Blanckenhorn indicano, pel modo della loro asso- ciazione, un'età più antica del Maéstrichtiano (Blanckenhorn, op. cit., pp. 41 e 42). MaEstRIcHTIANo. — Sul banco gremito di 47. Villes il Cortese ha osservato un insieme molto spesso di marne e arenarie verdicce, con scisti sericitici, scagliosi e scuri e di superiori marne sabbiose listate di giallo e di bianco, calcari marnosi semi-silicizzati e calcari con nodoli di selce. Il tutto è alternante con fosfati gialli o grigi, teneri e duri, i quali alla parte superiore della formazione sono in prevalenza bianchi. Questo è il gruppo eminentemente fossilifero ; il Cortese mi ha comunicato bei campioni di roccie e abbondanti fossili, di cui quelli ben determinabili appartengono alla parte media e superiore della formazione. Le marne sabbiose giallastre o variegate, e i calcari marnosi, sono ricchi di fossili, assai spesso allo stato di modelli interni, specialmente nei calcari semi-silicizzati. La 7rigonoarca multidentata Newton, la Roudereia aures- sensîs Coq. sp.= R. Drui Mun.-Chalm. e la Protocardia biseriata Conr. sono i fossili più comuni e meglio conservati, specialmente nella parte su- periore del gruppo. L’Alectryonia Villei vi si presenta, ma punto con l'ab- bondanza di individui del banco speciale campaniano. Fra tanto materiale la lista delle specie che ho potuto determinare è la seguente: Alectryonia Villei Coq. sp. Gryphaea vesicularis Lmk. sp. Exogyra Overwegi v. Buch sp. Trigonoarca multidentata Newton (?). Roudereia auressensis Coq. sp.= A. Drui Mun.-Chalm. Cardita libyca Dittel Crassatelta Zitteli Wann. Protocardia biseriata Conr. (*) Cyprina Barroisi Coq. Cytherea Rohlfsi Quaas Ancystrodon libycum Dam. Corax pristodortus Ag. Lamno biariculata Litt. sp. (') Bullen Newton R., On some cretaceous shells from Egypt. Gevlogical Magazine, 4 dec., 5, 1898, pag. 401. (*) La Protocardia biseriata Conrad (Description ofthe fossils of Syria ecc.. in Lynch, Expedition to the Dead Sea, 1852, pag. 216, pl. 6, fivg. 38-40) è molto vicina alla Pro- tocardia hillana Sow. sp.; però ne differisce pel numero minore di rughe concentriche, che sono anche più grossolane e separate da solchi più larghi. Negli esemplari comuni- catimi dal Cortese, questi caratteri distintivi sono molto spiccati. — 170 — Questa è la fauna della facies con lamellibranchi degli Strati con Ex. Overwegi dell'Algeria, della Tunisia, della Tripolitania e dell'Egitto; ma più precisamente è quella degli Strati con Trigonoarca e Roudereia della Valle del Nilo e del Deserto arabico. L'Ex. Overwegi vi è rara e rap- presentata da piccoli individui. La fauna con Zx. Overwegi è stata dallo Zittel (!), seguìto da Wanner (°), Quaas (5) e Blanckenhorn, riferita alla parte inferiore del Da- niano, la quale però per questi autori è sinonimo del Maéstrichtiano, Dumont, e del Dordoniano, Coquand. Il prof. E. Haug (Traité de Géologie, II, pag. 1336) ha ben rilevato che tale attribuzione al Daniano avviene a torto; quegli strati rappresentano il Maéstrichtiano, mentre il Daniano, in Africa come in Europa, vi sta sopra. Dal Krumbeck è stata anche giustamente riferita al Maéstrichtiano la fauna che in Tripolitania (‘), tra Gadamès e il Gebel es Socra. specialmente al Gebel Tar, contiene Omphalocyelus ma- cropora Lmk. sp., Ex. Overwegi v. Buch sp., Al. larva Lmk. sp., R. aures- sensis Coq. sp.= PR. Drvi Mun.-Chalm., Crassatella Zitteli Wann., Lucina dachelensis Wann., ecc. Nella fauna egiziana che sopra abbiamo citato, si trova l'associazione di specie che il Blanckenhorn, specialmente sulla base delle raccolte di E. Fraas, attribuisce a due piani distinti. cioè a quello con Ex. Overwegi e Roud. auressensis (Daniano inferiore, Blanckenhorn) e all’altro immedia- tamente inferiore con Al. Villei, Trigonoarca multidentata e Roudereia sp. (Campaniano, Blanckenhorn; Maéstrichtiano inferiore, Haug); ma il Cortese ha bene osservato che le due faune sono insieme associate nella stessa for- mazione, ed io ho potuto convincermene sull'esame del materiale raccolto. Così, p. es., la Roud. auressensis Coq. sp. = R. Drui Mun.-Chalm., che nell'Africa settentrionale si presenta nelle parti più elevate del Maéstrich- tiano, si trova, nel materiale comunicatomi dal Cortese, insieme con la Trig. multidentata Newton, la Prot. biseriata Conr. e altre specie, attaccata agli stessi pezzi di marna sabbiosa e di calcare marnoso. Le stesse specie, in- sieme con ittiodontoliti, ho trovato pure nei pezzi di fossati induriti, il che prova anche dippiù che i fosfati egiziani appartengono certamente al Cretaceo superiore. Non mi pare dunque che gli Strati con Trigonoarca di Egitto si debbano separare dal Maéstrichtiano; ma nemmeno trovo argomenti per (1) Zittel K., Beitr. 2. Geol. u. Pal. d. libysch. Wiiste ecc. Palaeontographica, 30 Bd., 1 Th., 1883. (2) Wanner J., Die Fauna d. obersten weissen Kreide d. libysch. Wiiste. Ibid., II Abtheil., 3 Lief., 1902. (®) Quaas A., Beitrag 2. Kenntnis d. Fauna d. obersten Kreidebild in d. libysch. Wiiste. Ibid., 4 Lief., 1902. (4) Krumbeck L., Beitrige 2. Geol. u. Pal. von Tripolis. Palaeontographica, 35 Bd., 1906. i — attribuirli alla parte inferiore di questo piano, essendo la fauna con 77z90- noarca fusa con quella a Zx. Overwegi. Se mai, la parte inferiore del Maéstrichtiano potrebbe essere rappresentata dalle marne verdicce e dagli scisti lucenti della base della formazione. Gli strati descritti corrispondono a quelli con Trigonoarca e Roudereia dell'India meridionale, cioè di Ariyaltir ('), nel distretto di Trichinopoli (Madras) e di Pondichéry (*), oltre che a quelli del Beluchistan (*). Questi strati dell'Asia appartengono al Maéstrichtiano; su di essi stanno quelli di Ninyùr, che contengono il Nautilus caratteristico del Daniano europeo. Damiano. — Sopra gli Strati con Trigonoarca e Roudereia il Cortese ha trovato al Gebel Duwi e ai Gebel Nakheil uno spesso insieme di calcari marnosi bianchi, con nodoli di selce, terminato superiormente da un banco con Rudiste e da un altro superiore con 7urrztella. In questo gruppo, sul quale si sovrappongono, secondo il Cortese, calcari scuri con nummuliti, i fossili sono discretamente abbondanti, ma in assai cattivo stato di conservazione, e, per lo più, indeterminabili. Oltre ai generi Cypraea, Turritella ed Alaria, vi predominano specialmente Nucula, Astarte, Chama, Axinus, Corbis, Cardium; ma in tutto questo materiale ho potuto determinare specificamente solo pochi lamellibranchi e nessun gasteropode. Vi ho trovato anche un piccolo echinide appartenente al genere Orthopsis. Le poche specie che si possono citare sono le seguenti: Terebratula carnea Sow. Pecten furafrensis Zitt. Inoceramus sp. aff. I. balticus J. Boehm Spondylus Dutempleanus d'Orb. Gryphaea vesicularis Lmk sp. Lucina dachelensis Wann. Cardita libyca Zitt. Non ho osservato Rudiste fra quei fossili; ma il Cortese assicura che sui luoggi ve ne è in alto uno strato gremito. Il piccolo elenco di specie citato sopra, dimostra l'età cretacica di quel gruppo calcareo-marnoso attribuito tutto all'Eocene inferiore dalla Carta geolo- gica anglo-egiziana. Quei calcari bianchi con selce, superiori al Maéstrichtiano, col quale hanno, naturalmente, qualche relazione paleontologica, e inferiori immediatamente all’Eocene inferiore, che costituisce le sommità tabulari di (1) Kossmat F., Untersuchungen ber die sudindische Kreideformation. Beitràge 2. Geol. u. Pal. Oest.-Ung., IX, 1895; XI, 1898. (*) Kossmat F., The cretaceous deposits of Pondicherri. Rec. geol. Surv. of India, XXX, 1897. (3) Noetling F., Fauna of the upper cretaceous (Maéstrichtien) Beds of the Mari halls. Palaeont. indica, ser. XVI, vol. I, 1897. — 172 — quei monti, non possono rappresentare, per la loro posizione, che il Daniano. Essi corrispondono litologicamente, paleontologicamente e cronologicamente ai Wetsse Kreidekalke del Deserto libico, attribuiti giustamente al Daniano da Zittel, Wanner, Quaas e Blanckenhorn. In riassunto, le osservazioni geologiche del Cortese e l'esame delle faune, da me eseguito, dimostrano che nelle colline lungo il Nilo e nei gruppi mon- tuosi del Gebel Duwi e del Gebel Nakheil, tra quel fiume e Cosseir, sul Mar Rosso, si debbono distinguere, tra l’ Arenarza della Nubia (in quei luoghi appartenente, nella sua parte superiore, al Santoniano) e i calcari eocenici, tre altri piani del Cretaceo superiore, cioè: il Campaniano, il Maéstrichtiano, ricco di fosfati, e il Daniano. Questi risultati sono anche importanti se si pensa che quegli strati sono ancora per la massima parte riferiti all'Eocene inferiore nella Carta geologica anglo-egiziana, sebbene le notizie del Fraas e del Blanckenhorn abbiano in parte contribuito a stabilire la verità. Il Cortese è presentemente ritornato sui luoghi, sicchè avremo presto altri elementi da studio. Matematica. — Sulla trasformata di Tschirnhausen. Nota del dott. L. OrLANDO, presentata dal Corrisp. A. Dr Lecce (*). Siano x,,%s,..,%, le # radici dell'equazione algebrica (1) f(a)=anx + aa! 4 + anrx + an=0 e sia 2) P(E) — 0 un'altra equazione algebrica, di grado n, avente le sue x radici &,,52,...,én legate alle x,.%2,..., x, dalla relazione generica (3) Èy = g(x,)) = bo aT + ba VET ARI Ly + Omo La (2) è una trasformata di Tschirnhausen della (1), ed il polinomio gr si chiama polinomio trasformatore. Un modo di ottenere F(£) è stato esposto in una mia precedente Nota sull'equazione alle potenze, nei Rendiconti di questa illustre Accademia. Si scrive l'equazione in y (4) 9(y)=È, e se ne chiamano 71.%2,-: Um le m radici; poi si scrive il polinomio risultante (5) F(8) = ((Y1) [(42) -- /(Ym); ed in tale modo si perviene alla trasformata di Tschirnhausen. (1) Pervenuta all'Accademia il 22 luglio 1912. — 173 — Noi vogliamo qui estendere ed approfondire ì concetti che ivi ci ser- virono, e. mostrare come il calcolo simbolico delle matrici, introdotto da Cayley, e poi adoperato nel modo più semplice e più efficace da Giorgi ('), conduca a stabilire, fra teorie in apparenza diverse, impensati collegamenti. Intanto chiameremo 1 la seguente matrice quadrata IO NO Ofelia. 20 (0) OE YAN OO Essa corrisponde alla sostituzione identica. x Per somma delle due matrici ||a;;|] e ||2;;]] intenderemo la matrice [|a + di;]|. ottenuta col sommare gli elementi omologhi. Il prodotto del «numero 4, anche irrazionale, anche complesso, per una matrice si definirà mediante la relazione ||&;||=||#4;]|, la quale trasporta il fattore % sopra ogni elemento della matrice, Così, per esempio, la matrice quadrata RON o. i \0 2 | | fi | | ded 8 | sì potrà indicare con 4-1, o anche soltanto con %. Come prodotto di una matrice per un’altra simile intenderemo il risul- tato dell'ordinaria composizione, eseguita linee per colonne. In base a ciò, se M è una matrice, noi possiamo senz’altro intendere quale matrice sia determinata dal polinomio simbolico g(M)= &,M" + bi M"1 4. Amr MH4- dn. È noto da Cayley che ogni matrice quadrata Ma Cha o Seo © ro Gr, d22 . è. dn NOnx Qn2 è è» è Inn (*) Io debbo all’amichevole frequenza col prof. Giorgi le nozioni fondamentali, in parte note e in parte non ancora note, su questo calcolo simbolico, del quale egli ha, con Incida visione, già da gran tempo affermata l’importanza. Non è forse lontano il giorno nel quale si potrà, con agevole nomenclatura e con chiara successione di facili concetti, riunire in un breve e sostanziale capitolo della matematica le profonde ricerche del Pin- cherle ed i geniali risultati che l’algebra del trascendente deve in questi ultimi tempi al Volterra. E mi si permetta di togliere alla navigazione aerea un termine di paragone, esprimendo l'augurio che la matematica moderna possa ben presto navigare sul cavo, collegando la forza ascensionale delle più elette meditazioni coll’ubertoso terreno della pratica; come avveniva nel sereno tempo d’Archimede, filosofo, ingegnere ed artista. — 174 — verifica, in tale senso simbolico, l'equazione caratteristica an TM @ e» An (7) D(M) 20 (VCRÌ Ugg — M Ra . Uan Bed Ani Ana o. °° Ann —M Ciò non è nuovo, come dico, e si ritrova anche subito, osservando che, se i numeri 7; ,7%2,-..,#n sono le radici dell'equazione (7), allora la sosti- tuzione corrispondente alla matrice M— mm, ha un moltiplicatore nullo; quella corrispondente alla matrice (M — 2,)(m — m») ne ha due;.....; quella corrispondente alla matrice (M—m,)(M— m:)..(M—wm,) ne ha x, dunque porta tutti i punti nell'origine, dunque si riduce identicamente a zero: ciò valga per un semplice richiamo. Varie conseguenze notevoli si possono dedurre dalle cose finora esposte. Intanto io dico che, se poniamo, al posto della (1), Ol TL Mr ARSA NU; (8) = da do DX... dan AI Uni Uno si RSI arr allora la matrice g(M) — è ha per equazione caratteristica la trasformata di Tschimbausen F(£#)=0 relativa al polinomio trasformatore 4g. Ciò si dimostra abbastanza facilmente, facendo ricorso alla nozione di assi invarianti, già invocata nel mio prece- dente lavoro (*). Il numero xy, radice di /(x)= 0, è il coefficiente di. dila- tazione lungo un asse invariante; ponendoci su tale asse, noi possiamo tra- durre la relazione /(xy) = 0 nella relazione simbolica (9) M_a,=0; infatti la trasformazione corrispondente ad M è, per i punti di quell'asse invariante, una pura e semplice moltiplicazione. La (9) si può anche seri- vere, sempre in senso simbolico, (10) M=x,. (1) Si potrebbe farne a meno, ma desiderio di brevità mi consiglia questo richiamo, ed anche l'opportunità di affermare con un facile esempio alcuni concetti dei quali mi riserbo di fare, in applicazioni alquanto più difficili, sistematico uso. — 175 — Ma allora vediamo che vale la relazione simbolica (11) 9g(M)= g(x.), dunque l'equazione caratteristica della matrice 9(M) — È ha per radice il numero (xy). La conservazione degli assi invarianti da (10) a (11) è nota ed evidente. L'equazione caratteristica della matrice g(M) — È ha per radice yg(x,); ma x, è generica, dunque tale equazione ca- ratteristica, che è evidentemente di grado 7, coincide proprio con F(£)= 0. Per esempio, poniamo f(a)=|8 —@ — 6 1 7 —_ d—- 2 1 5) — 3 dx L'equazione /(x)=0 ha le tre radici 1,2,3. Volendo la trasformata di Tschirnhausen avente le radici &,,&:, &3 legate alle x,,x2,%3 della rela- zione generica E= 22} + x, +3, dovremo formarci il polinomio simbolico dr 2M? -+M+3, cioè 218 —6 1fPE+]|8 —6 1[|+/[3 0 0|=]|[61 —48 11|; 7 —5 1 7 —5 1 Os. (So 595 —42 11 8 —3 3 3 —3 3 ENO) 27 —27 24 e poi scrivere l'equazione F(&)=|61—& — 48 1 |=0. 55 —_—42— E 11 27 — 27 24 — È Essa deve avere le tre radici 6, 13,24; il che è ben facile verificare. Notiamo che l'equazione (8) è un'equazione algebrica generale; è facile, infatti, vedere che il determinante = seni ad — dg (05% O . ° an JL — x (0) sed: 0 0 1 — x Ce Oa | 0 0 0 —® vale cl aa d + anre + an. ReNDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 23 — 176 — Ma ciò rappresenta ancora ben poco rispetto alla generalità dei risul- tati che possono ottenersi dall'esposto ordine di considerazioni. Intanto scriviamo l'equazione simbolica (7) come segue: (12) M° + AM* +-+ A4,--M+A,=0. Essa potrà anche scriversi (13) M"=— AM! —..— A, MT_-A,. Ciò permette di esprimere in modo agevole, mediante M,M?,...,M", le successive potenze di M. Se ora noi, per esempio, poniamo al posto del polinomio g(M), che ci ha servito nella trasformazione precedente, la serie so ian o che simbolicamente esprimeremo con e”, allora il nostro procedimento e l’accorto impiego della (13) ci condurranno ad un'equazione avente per ra- dici i numeri e%1, e, ..., e». La deduzione di ciò è analoga alla deduzione della (11), ma occorre un passaggio al limite, sul quale per ora non ci vo- gliamo fermare. Partiamo, per esempio, da f(@)=|l1—a 2 — 1 —l_-x Le due radici di /(x)=0 sono # e —z; l'equazione simbolica alla quale dobbiamo assoggettare la relativa matrice M è M°?4+1=0, dunque otteniamo M?= —1,M°3——M,M*=1,,...; e allora la serie (14) diventa M 1 M 1 M 09) ue 1 a E pe cioè cos1 + M sin 1. Giungeremo così all'equazione F(#)=|cos1+sin1—£ 2 sin 1 =0, — sinl cost —sinl1— £ evidentemente verificata da e= cos 1 4% sin1, ceme da e=cos1—zsin1. — 177 — Ciò che evita, o, quanto meno, semplifica la questione della convergenza dell'algoritmo (14) è la possibilità di giungere, mediante la (18), ad un algoritmo contenente potenze di M di grado limitato. ve, ed in generale per le potenze negative, si può adope- rare analogo artifizio. Possiamo, infatti, dalla (12) dedurre Anche per 1 1 o ARR ARI e trp in. Tuttavia possiamo osservare che per la convergenza, specialmente se anche /(x) si assoggetta ad analoga estensione (il che conduce ai determi- nanti d'ordine infinito), si apre qui la porta a parecchie questioni di rigore. Su queste ritornerò metodicamente, a miglior tempo, in un lavoro di mag- gior mole. Matematica. — Sopra l’integrabilita dell’equazioni differen- ziali della meccanica. Nota I dell’ing. dott. GrusEPPE ARMELLINI, presentata dal Socio T. Levi-Civira (*). 1. In questa Nota io mì propongo lo scopo precipuo di estendere due importanti teoremi sull’integrabilità dell'equazioni differenziali del moto di un punto, sottomesso all’azione di una forza centrale; dovuti il primo a Ja- cobi (*), il secondo al Mestschersky (*) mostrando che essi non sono altro che due casiì particolari di un unico teorema assai più generale, che passo ora ad enunciare e dimostrare. A tale scopo immaginiamo di avere un punto P, che per semplicità supporremo di massa unitaria, mobile sotto l’azione di una forza F, la cui linea passi sempre per un centro fisso 0; poichè, come è noto, l'orbita di P giace in un piano « passante per 0, scegliendo quest’ultimo punto come polo, potremo sempre riferirla ad un sistema di coordinate polari 7 e 9. Ciò posto, io dico che ha luogo il seguente: Teorema. « L'equazioni differenziali del moto del punto P, sono sempre « integrabili con sole quadrature, tutte le volte che la forza F ha la forma, (I : — R= CASE. dove « è una funzione della sola 3, f è un tempo e a r°(at 4 bd) « e d sono costanti arbitrarie ». (1) Pervenuta all’Accademia il 29 luglio 1912. (?) De motu puncti singularis, Crelle, Journal fur die reine und angewandte Ma- thematik, Band 24; vedi anche Jacobi's Gesammelte Werke, Band IV. (*) Astr. Nachr., Band 159. — 178 — Questo unico teorema, come si vedrà, racchiude in sè, quali casi par- ticolari i due risultati del Jacobi e del Mestschersky; considerandone l’im- postanza, io ne darò due dimostrazioni: la prima mostrando l'integrabilità dell'equazioni di Lagrange a cui perverremo; l’altra facendo uso del fecon- dissimo metodo di trasformazioni, introdotto in analisi e in meccanica prin- cipalmente dall'Appell nella sua classica Memoria: De l’homographie en mécanique (*). 2. Prendiamo sul piano « un sistema di coordinate rettangolari xy e uno di coordinate polari 74, con l'origine comune in 0; e in modo che l'asse # coincida con l’asse polare da cui vengono contate le anomalie 4. Indicando al solito con X e Y le componenti della forza F sugli assi x e y; e con T la semiforza viva di P, avremo: ruzla) +) 9(9) = = DA (1) X Ago) cos d xi=7TC08 P(3) dad pi y=r send. Scegliendo quindi, come parametri Lagrangiani 91 € 92, le coordinate polari 7 e 4, l’equazioni fondamentali del moto di Lagrange: d IT DI Cd dY È e SL —1,2 di dadi di di ant di (e 70) (2) divengono, indicando al solito con apici le derivate rispetto al tempo: d°r A) È \ ari i (an) a d BOIA a | di (7 3) = 0. La seconda delle (3) ci dà subito: y% AE | ACL (4) Io in= j 3 dr 1 AVATI ptere 224 (9 Pan 9" \ di 2 9 da Î d? u/ Taro CANA iS: A Ra 07,2 AGE rr GIRO VE “ 2 V gn (') V. American Journal of Matematics, vol. XII; vedi anche: Comptes Rendus, tomo CVIII. — Ia sostituzioni che trasformano la prima delle (3) nella: 3 92 1 QUALI rod (9) 6 >= RTESI!IE Va La fa dygr 29% i (at + 6) Ve equazione differenziale del terzo ordine in +, contenente tutte le derivate, la funzione e la variabile indipendente /. Dico che il suo integrale può ottenersi con sole quadrature. Poniamo a tale scopo: D di ___p(9) (9 di (at +6) dove u(4) è una funzione della sola + che si tratta di determinare. Differenziando la (7) abbiamo con facili riduzioni : CEVA UE I) | Oli gg sagi 4 (grip E da (dei. di (at + b)° dd? È (at +4 db) 6au(d) du d (9) E o 0 ap ciò che trasforma la (6) in Il d°u 1 (93) 10 neo o sd 2V/u(9) 99° 4VCu(9)} s (19) Ve che può essere anche scritta sotto la forma più semplice: g(9) TGA Siamo così giunti ad un'equazione lineare, con secondo membro, nella fun- (01) È - [Va(9) 9)]+y0(9) zione Vu(3) (5) la cui soluzione è data dall'espressione: (12) Vu(3)= A cosd + Bsen++ K(9), dove A e B sono costanti arbitrarie, e K(9) può ottenersi, come è noto dalla teoria delle equazioni differenziali lineari, con sole quadrature. Ciò posto dalla (7) si ha separando le variabili e integrando: 1 d9 co at+ 6 call (9) — 180 — e quindi risolvendo rispetto a 3, dopo eseguite le quadrature: (14) I=Y(1) espressione che sostituita nella (4) ci dà: (15) HEI girino n i Wa La (14) e la (15) risolvono il sistema differenziale (3) e in esse compari- scono, come appunto doveva avvenire, quattro costanti arbitrarie; la costante delle aree c, la costante c, introdotta dalla funzione w(#), e le due costanti A e B che entrano nella u(9). Siamo quindi giunti ad integrare l’equazioni di Lagrange relative al problema studiato, con sole operazioni di quadratura c..d° di Ed ora, prima di passare alla seconda dimostrazione del teorema, che, come ho già detto, io fondo sul metodo delle trasformazioni omografiche in meccanica, mi sia permesso di riassumere in poche linee, i risultati a cui perviene il fondatore di questo metodo, l’Appell, nella Memoria citata. I) Tutte le volte che si sa trovare il moto di un punto Q di coor- dinate 4, x2... £3n in un Szw (0 il moto di un sistema di # punti nello spazio ordinario) sotto l’azione di una forza F. dipendente solamente dalla posizione del mobile Q, se ne deduce per mezzo della trasformazione omo- grafica : (16) Wie di LI + din X2 + " Gion Tan + Uign+1 È CX + AoXa + X3n Can | A3n+1 (G=1,2;.®) sostituendo contemporaneamente il tempo #, con un nuovo tempo T definito dall’equazione: (17) dt di di (21% + A3n Lan + &3n+1)° ; il moto di un nuovo punto X, X; ... X3, sollecitato da una forza F, dipen- dente solamente dalla posizione del mobile. La traiettoria del secondo punto è la trasformata omografica di quella del primo; la retta secondo la quale è diretta la forza F, è, nell'istante T, la trasformata omografica della retta secondo cui è diretta la forza F nel- l'istante £. II) Questa trasformazione è la sola per la quale la forza F, non dipende dalla velocità, qualunque sia la legge della forza F in funzione della posizione del mobile Q. — 181 — Ciò posto l’equazioni differenziali del moto del punto P sul piano @, riferito agli assi rettangolari xy con l'origine O, sono: da LY(dI) dEi ia dt rat +6) Co, CUPI). MO de rs(at + bd) sistema di cui dobbiamo dimostrare l’integrabilità. A tale scopo eseguiamo la trasformazione, analoga per molti rispetti a quella d'Appell: (19) X= ene do SR BE-4) 20/000 at+b -° Ure” } ceto) da cui ricaviamo con brevi calcoli e riduzioni: LA dX dx La (20) il spia ra dY degl olo 1 der eee e i e D'altro lato chiamando con 6 e R l'anomalia e il raggio vettore del punto P, di coordinate XY, immagine di P abbiamo: (22) (9) = 9(aretg 8) = g (arciez)=9(0), @) ray =la+ 0 £+ =, e quindi, operando sulle (18) le sostituzioni (20), (21), (22), (23), otte- niamo l’equazioni differenziali del moto del punto immagine P, sotto la forma : o \ rta 9(0)=0 | F+ps0= 0. Ma le (24) sono integrabili (!); avremo dunque: \ X= @,(T,C,, C2, 03,0%) (ew: (PVC, 00, ; 008 ct \ = (440) V| abi) CIRCS 108,0 |, | y— (+0) ®:| 7750 la 0]. (*) V. Appell, Zraité de Mec. Rat., I, pag. 386 (Troisième édition). (25) e quindi — 182 — dove Ci, C2,C3,C, sono costanti arbitrarie. Le (26) sono gli integrali del sistema (18), che in tal modo possiamo conoscere con sole operazioni di quadratura @ Gb db Cast PARTICOLARI. — Esaminiamo ora due casi particolari di grande importanza del teorema dimostrato : Caso I: a=0. Includendo la costante è nella funzione g(4), vediamo che l'equazioni differenziali del moto di un punto sottoposto a forza centrale sono integra- P(9) bili, tutte le volte che la forza F ha la forma F= questo pre- cisamente il risultato del Jacobi, che si enuncia affermando la risolubilità del problema del moto centrale, quando F è un'espressione omogenea di grado — 2 nelle coordinate 2y (Jacobi, loc. cit.). Caso II. g(9)= costante. 9 C 3 La forza F è allora data dall'espressione F = FL 0) dove c è una costante; l’equazioni sono ancora integrabili. È questo il risultato del Mestschersky (Mestschersky, loc. cit.). Riepilogando: i due teoremi, dovuti al Jacobi e al Mestschersky sopra l’integrabilità delle equazioni della meccanica, benchè a prima vista diffe- rentissimi, non sono altro che casi particolari dell'unico teorema da me ora dato, il quale li comprende e li racchiude ambedue, ed ha un’esten- stone assai piu generale. Chimica-fisica. — Sulla tendenza a combinarsi fra alogenuri e fosfati dello stesso metallo. - I. Cloruri e fosfati alcalini (°). Nota di MARIO AMADORI, presentata dal Socio G. CiAMICIAN (?). Il diverso comportamento dei cloruri e dei floruri alcalini verso i sol; | fati, e l'interesse che può presentare jper molti composti che si trovano in natura, m'hanno indotto a studiare termicamente il comportamento dei cloruri e dei fluoruri verso i fosfati dello stesso metallo. Infatti le coppie cloruro potassico - solfato potassico, studiata da Janecke(*), e cloruro sodico -solfato sodico, studiata da Jinecke e da Wolters (4), non (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Padova, diretto dal prof. G. Bruni. (*) Pervenuta all’Accademia il 22 luglio 1912. (*) Zeit. f. phys. Ch., 64, 343 (1908). (4) N. Jahrb. f. Min. u. Geol. B. B., 30, 57 (1910). — 183 — dànno alcun composto. Al contrario, Karandéeff (*) trovò che il fluoruro e il solfato potassico dànno un composto molecola a molecola, e un composto cor- rispondente fu trovato da Wolters tra il fluoruro e il solfato sodico. Questa diversa capacità a dare composti con i solfati, riscontrata nei cloruri e nei floruri alcalini, segna un rilevante distacco tra le proprietà dei derivati del cloro e del fluoro. In questo lavoro ho voluto studiare come esso si mantiene rispetto ad altri sali, e precisamente verso i fosfati. Questi sali assumono un’ importanza speciale, come ho accennato, oltre che dal punto di vista chimico, anche da quello mineralogico. In questa Nota sono riferite le esperienze tra il cloruro potassico e i fosfati di potassio: e precisameute il meta-, il piro- e l’orto-fosfato, Nella letteratura chimica non sono descritti composti tra cloruri e fo- sfati, nè allo stato anidro, nè allo stato idrato. Le esperienze furono eseguite sui sali di potassio, perchè questi, a differenza dei sodici, dànno tutti, soli- dificando, masse cristalline. Le esperienze vennero condotte fondendo le miscele saline in crogiuolo di platino, in forno a resistenza di filo di nichel; le temperature vennero lette con la pila termo-elettrica platino-platino-rodio. I sali adoperati avevano i seguenti punti di fusione e di trasformazione : KCI fusione a 774° trasformazione a _ KPO3 ’ 798° ” 450° K,P:0, ” 1090° ” 278° K,PO, » 13409 » n Parravano e Calcagni (*) diedero il punto di fusione del metafosfato a 823°; van Klooster (*) a 810°. Il punto di fusione trovato da me è al- quanto inferiore a quello dei suddetti autori: in tre prodotti diversi esso variava da 794 a 798°, In accordo con il punto di fusione dato da Parravano e Calcagni (10929) è il punto di fusione del pirofosfato. Il punto di trasformazione di questi due sali non era stato dato dai detti autori. Il punto di fusione dell’ortofosfato non era noto; esso venne fuso in forno Heraeus a resistenza di platino: il sno punto di fusione però non ri- sulta molto netto, anche le per difficoltà di condizioni d'esperienza a tempera- (1) Zentr. f. Min. u. Geol., 1909, 728. (?) Zeit. f. an. Ch., 65, 1 (1910). () Zeit. f. an. Ch., 69, 122 (1911). RenpIcontI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 24 — 84 — ture sì elevate, ed ha un valore approssimativo. Questo sale, fino a 200°, non mostra termicamente alcun punto di trasformazione. ID), CONS, I punti di fusione del cloruro e del metafosfato giacciono a temperature assai prossime (774° e 798°) e vengono abbassati per aggiunta dell’altro sale. L'abbassamento del punto di fusione del metafosfato è però assai più forte che non quello del cloruro, cosicchè la curva di cristallizzazione è costituita di due rami che s'incontrano in un punto eutettico (620°), a circa 80 °/ mol. KPO,. TABELLA l?. Arresto eutettico °/o molecolare °/o in peso e” i KP03g KP03 cristallizzazione | Temperatura i 0 0 7740 — — 10 14,96 754 — _ 20 28,36 740 608 80 30 40,50 735 614 60 40 91,36 720 612 90 50 61.30 708 618 90 60 70,38 678 615 110 65 74,63 670 617 110 70 78,75 656 620 140 75 82,61 ? 620 140 80 86,27 — 620 160 85 89,98 662 618 80 90 93,44 698 615 30 95 96,78 T44 — = 100 100,00 798 — = 800 |. x ua TO \ A 10 | \ Med f \ o 600 |- gua — 2A] ILLE 0 10 20 30 40 50 60 70 oi mol. KPO, Fic. 1: KCI — KPO, 85: Le miscele da 20 a 90 °/, mol. KPO,, nella solidificazione, mostrano un arresto eutettico intorno a 620°. Questo arresto non si osserva nelle miscele contenenti 10 e 95 °/, mol. KPO;; probabilmente, i due sali, in queste con- centrazioni, sono solubili allo stato solido, a quella temperatura. Il punto di trasformazione del metafosfato (450°) venne osservato a questa temperatura anche nelle miscele fino a 80 °/, mol. di eloruro; inoltre le miscele 35, 50, 70 °/ mol. seguite nel raffreddamento fino a 200° non mostrarono alcuna variazione termica provante la formazione di composti in seno alla massa solida. Le esperienze eseguite mostrano che tra cloruro e metafosfato non sì formano composti, e tra questi sali esiste solo una tendenza a dare soluzioni solide: verosimilmente questa solubilità è nulla a 450°, perchè il punto di trasformazione del metafosfato nelle miscele non differisce da quello del sale puro. 2). KCl = K, PS 0, La curva di cristallizzazione primaria è costituita di due rami che si incontrano alla concentrazione eutettica di circa 15 °/, mol. K,P,0,, alla temperatura di 735°. Tutte le varie miscele sperimentate mostrano, a questa temperatura, l'arresto eutettico. Si deve però notare che nelle miscele ricche in pirofosfato, alle tem- perature cui si deve giungere per ottenere la fusione, parte del cloruro vo- latilizza, e le miscele quindi risultano più ricche in pirofosfato; ciò, peraltro, non influisce sull'andamento generale del sistema. TABELLA 22. Imizio Arresto eutettico °/o molecolare 9/5 in peso Î Fica Ss Si K,P, 0: K,P,07 |cristallizzazione | Temperatura | Dot, 0 0 774° = — 5) 18,92 758 724° 30 10 33,00 746 728 40 15 43,88 = 735 70 20 52,56 ? 73 120 25 59,64 814 734 130 30 65,50 884 735 160 40 7472 894 735 160 50 81,58 950 735 180 60 86,98 982 735 200 70 91,18 1005 735 110 85 96,16 1050 733 40 100 100,00 1090 = —_ Il punto di trasformazione del pirofosfato (278°) si mantiene a questa temperatura e fu notato anche nelle miscele a 80 °/, mol. di cloruro; per — 186 — le miscele a 30, 50, 70 °/, mol., la curva di raffreddamento venne determi- nata fino a 200°; anche in questo sistema non si notò alcuna variazione ter- mica, all'infuori delle accennate. 1100 | =, 1100 ZI Al cali | 1000 |- ps :| 1000 ig 900 |. EA | 900 32 | A | VA 800 75: | 800 700 |- een 700 %/o mol. Ki Pa 0, Fre. 2: KCI — K,P,0, 3). KC1 — K; PO, La distanza fra ì due punti di fusione dei due sali, e sopra tutto la volatilità del cloruro potassico, non ha permesso di fare lo studio completo per questa coppia di sali. Le miscele da 0 a 50 °/ mol. K3 PO, vennero studiate fondendole al solito in crogiuolo di platino. La curva di cristallizzazione primaria scende dapprima fino a 15 °/, mol. K3 PO,, cui corrisponde una temperatura minima di cristallizzazione di 720°; poi risale e a 50 °/% mol. l’inizio di cristal- lizzazione, è 970°. Queste miscele mostrano un arresto eutettico a circa 720°. Nel riscaldamento, però, una parte di cloruro volatilizza, così che le mi- scele, anche per questa coppia, sono, alla solidificazione, più ricche in fosfato che non quelle da cui si era partiti: queste differenze non influiscono sul risultato finale. Per le miscele contenenti più del 50 °/, mol. non fu possibile di raggiun- gere la fusione, a causa delle temperature elevate cui questa avviene e delle forti perdite in cloruro che si hanno scaldando la massa in crogiuolo aperto. D'altra parte, non fu possibile di fondere le miscele in provetta di porcellana, in cui le perdite di cloruro sarebbero state molto minori, perchè il fosfato reagisce in parte con la porcellana, come risultò anche dalle temperature troppo basse osservate in qualche esperienza eseguita. — 187 — Si cercò di rimediare a queste difficoltà portando le miscele al 60, 70,85 °/5 mol. Kz PO, a 1000°-1050°, e immergendo la pila termoelettrica nella massa pastosa. Anche queste miscele mostrarono il solo arresto alla temperatura eutettica. TABELLA 8A. °/o molecolare °/o in peso aldo samresto sutettico KgT04 Kg P04 cristallizzazione | Temperatura Da 0 0 774° — — 5) 13,03 730 720° 30 10 24,02 735 720 110 15 33,43 de: 720 220 20 41,60 ? 718 210 25 48,70 795 716 180 30 54,97 830 716 160 40 65,50 888 712 120 50 74,00 970 714 110 60 81,03 ? 709 80 70 86,95 ? 710 70 85 94,16 ? 710 30 100 100,00 1340 — = 1300 A 1300 1200 Pd 1200 1100. |- A 1100 4 Ì 1000 Vai -| 1000 °/, mol. K,. PO, Bir. 8h KCI —'‘K, PO, = 169, Come è già stato detto, l’ortofosfato non mostra alcun punto di trasfor- mazione visibile. Anche per questa coppia di sali, per le miscele a 30, 50, 70.°/ mol. non vennero osservate ulteriori variazioni termiche fino a 200°. Dal complesso di esperienze che fu possibile eseguire risulta chie anche il cloruro e il fosfato non sono miscibili allo stato solido, nè formano composti. Le esperienze riferite nella presente Nota mostrano che il cloruro po- tassico non forma composti con il metafosfato, il pirofosfato, e l’ortofosfato. In una prossima Nota verranno esposte le esperienze tra il fluoruro po- tassico e i fosfati corrispondenti. Chimica. — / coefficienti di temperatura delle trasformazioni fototropiche ('). Nota di M. Papoa e G. TABELLINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (°). Una delle costanti che meglio caratterizzano le reazioni chimiche è il coefficiente di temperatura della velocità di reazione, cioè l'incremento che in questa si osserva aumentando la temperatura di dieci gradi, a parità delle altre condizioni. Tale incremento è in generale notevole, talchè si 0s- serva che un simile spostamento di temperatura raddoppia o triplica la ve- locità di reazione in tutti quei casi in cui il fenomeno avviene nell’oscurità. Per contro le reazioni fotochimiche si distinguono dalle altre per la poca sensibilità agli aumenti di temperatura, come si può rilevare dai seguenti esempî (5): Reazioni Autori i Coefficiente di temperatura 20; >30, Wieipert. eee 07 Ac. ossalico + Fe Cl; IU MAO e 02 Stirolo —> Metastirolo ” a alati Ac. ossalico + Hg Cl, E deriiValenta MS Rol Antracene — diantracene Luther e Weigert . . . 1,21 Benzolo 4 Cl, SSPRlato ro GO 05 H, + Cl Bevan e n 2HI 4- 0 PiotnikWwk ee ico) Chinina + Cr 03 Golderg" L. . 0 RRoOE SO, +0->S0, Coehn e Becker . . . . 1,20 ; mere Re eo Golan Diese Schellens tf ne reee00 MED EE TZ (!) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bologna. (*) Pervenuta all'Accademia il 22 luglio 1912. (*) Benrath, Lehrbuch der Photochemie, 1912. — 189 — Abbiamo pensato che la determinazione, anche approssimativa, dei coeffi- cienti di temperatura nelle trasformazioni fototropiche, avrebbe potuto dare qualche utile indicazione sulla vera natura del fenomeno, pel quale è ancora da vedere se si tratti di una trasformazione chimica o d'una modificazione fisica. Ammettendo a priori che di un corpo fototropo esistano due sole mo- dificazioni A e B (') di cui la prima viene trasformata dalla luce di breve lunghezza d'onda nella seconda, e la seconda ritorna a dare la prima per azione di raggi di grande lunghezza d’onda, oppure spontaneamente se con- servata all’oscuro e sotto l’azione del calore, si poteva pensare di misurare la velocità delle due trasformazioni. Senonchè per conoscerla occorrerebbe sapere in quali rapporti si trovano A e B in una data condizione d' illumi- nazione e di temperatura, cosa che non è possibile, per ora almeno. Piut- tosto è possibile determinare il rapporto di due velocità solo che si ammetta che ad ogni colorazione assunta dal corpo fototropo corrisponda un rapporto fisso, per quanto ignoto, delle due forme; infatti se de è la quantità tras- formata nel tempo d/ in una reazione A —=B avremo che la velocità di reazione è Se mettiamo la sostanza fototropa in una condizione di temperatura diversa, per la trasformazione dx occorrerà questa volta un tempo di d2,, e allora la velocità sarà e facendo il rapporto membro a membro avremo il rapporto delle due velocità dt Ù BRR — rn Prima di dare i risultati di queste determinazioni facciamo rilevare che anche osservazioni grossolane dimostrano che la velocità di scoloramento di una sostanza fototropa diminuisce man mano che la sostanza si sco- lora, ciò che indica che le trasformazioni fototropiche seguono la legge di massa, sono dunque reazioni omogenee; questo equivale a dire che le due forme A e B si trovano allo stato di soluzioni solide, come del resto altre esperienze avevano fatto pensare (?). (!) Stobbe, Liebigs Ann., 359. (*) M. Padoa, questi Rendiconti, 1909, I, 694. — 190 — Per determinare i coefficienti termici occorreva osservare, non già tutto il tempo impiegato per il coloramento totale o lo scoloramento totale, ma il tempo occorrente alla sostanza fototropa per passare da un certo grado di colorazione, ad uno vicino. Era dunque necessario fissare due tinte cam- pione, che noi abbiamo ottenuto per l’o-tolilosazone del piperile, il primo dei corpi fototropi da noi scelti per queste esperienze, spalmando su carta delle miscele di eritrosina e di giallo di acridina. Una delle tinte rappre- sentava la colorazione massima raggiungibile alla luce, e l’altra una colo- vazione d’ intensità un po’ minore. L'o-tolilosazone del piperile è sensibilissimo alla luce; da un colore giallo-chiaro passa ad un rosso mattone intenso, e all'oscuro retrocede rapi- damente. Abbiamo voluto vedere subito l'influenza di un abbassamento di temperatura. In una miscela di acido carbonico ed etere a — 90° l’osazone preventivamente colorato al sole conserva il suo colore per lungo tempo, sì da rendere malagevoli delle misure. Abbiamo perciò osservati i tempi di passaggio fra le due tinte, a temperature più elevate, facendo uso come bagni refrigeranti di acqua e ghiaccio, ghiaccio e sale, ghiaccio e cloruro di calcio; le striscie di carta colle tinte campione erano chiuse in tubetti di vetro immersi nel bagno; la sostanza fototropra, pure in un tubetto ac- costo agli altri. Per evitare errori dovuti a riscaldamento, la luce veniva fatta cadere sulla sostanza attraverso le miscele refrigeranti, ma tenendo i tubetti adererenti alle pareti per evitare assorbimenti di luce. Giunta la co- lorazione al massimo, si portava il tutto in un ambiente debolmente illu- minato per osservare i tempi di scoloramento. Ecco i risultati: Temperature Tempi H(9P Mo SS 0° O SLM — 10° 3' -8'- 9 Il coefficiente di temperatura risulta così all'incirca uguale a due. Estra- polando si avrebbe che a — 100° la retrocessione dovrebbe durare circa 70 ore pel solo intervallo fra le due colorazioni da noi scelte, ciò che è con- fermato dalle esperienze già citate. Per osservare i tempi di coloramento abbiamo seguìto lo stesso sistema ; per avere dati paragonabili occorreva naturalmente la stessa luce, quindi, illuminando la sostanza al sole, avevamo cura di esaurire ogni serie di espe- rienze in un breve intervallo di tempo. Abbiamo eseguito le seguenti misure tenendo conto del tempo totale occorrente a colorare fino al massimo la sostanza : Temperature Tempi 10° 40" - 40" - 40" - 36" 0° 267 20! - 261 — 10° 28” - 26" - 30” — 20° 80" - 28” - 32” — 191 — Il tempo d’illuminazione dapprima diminuisce, essendo a 10° ancora sensi- bile l’azione del calore, poi accenna ad aumentare, ma di pochissimo. Co- sicchè il coefficiente termico sarebbe poco superiore all'unità. Abbiamo pensato poi che si poteva raggiungere maggiore esattezza par- tendo dalla sostanza scolorata e colorandola soltanto fino a un dato punto, fissato da una tinta campione. Tlluminando contemporaneamente due tubetti, uno a 0° e l’altro a — 10° non si potevano apprezzare differenze nella velocità di coloramento: ma con- servando un tubetto a — 10° e portando l'altro a — 90° si notava una certa diversità, come dimostrano le cifre seguenti (1): Temperature Tempi — 10° 30" - 42" - 42!" - 43" — 90° 45 - 770" - 62" - 73" facendo la media si vede che la velocità di coloramento a —10° è circa 1,6 volte maggiore che a — 90°. Se « è il coefficiente termico sarà allora, poichè l'intervallo è di 80°, vsi_aliogenzi1.00% Abbiamo cercato una conferma di questi fatti col fare le medesime osservazioni sopra un’altra sostanza, e questa volta abbiamo scelto una di quelle che impiegano maggior tempo a trasformarsi, sia in un senso che nell'altro. La sostanza era il fenilidrazone della benzaldeide. Questo com- posto si colora anche in rosso mattone, ma v impiega un tempo assai più lungo e così pure a scolorarsi, a temperatura ordinaria, impiega dei giorni interi. Per comodità abbiamo preparato varî tubetti colla stessa sostanza e due tinte campione ottenute con l'orange & della B. A. und Soda Fabrik e l’eri- trosina. Lo scoloramento si osservò a temperature molto più elevate che nel caso precedente: Temperature Tempi 110° 36” 100° 62” 90° 105” 80° 180” Qui il coefficiente termico è pure ben costante e un po’ inferiore che nel- l’altro caso; esso raggiunge in media il valore di 1,7. (*) Si noti che i primi due tempi sono minori degli altri perchè in quel momento la luce era più intensa. RenpIcoNTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 925 — 192 — Facendo dei confronti con una tinta campione piuttosto chiara, abbiamo determinato i seguenti tempi di coloramento: Temperature Tempi 10° di IUS 7,30" a 0° A — 10° Tv Paragonando due tubetti illuminati contemporaneamente a 10° a 0° otteniamo i tempi: 6',10” e 6’,15". Come si vede, a queste temperature in cui lo scoloramento non è che lentissimo, non si osserva alcuna varia- zione nella velocità di coloramento, almeno per un intervallo di 20°. Illu- minando due tubetti, uno a temperatura ambiente e l'altro a — 90° si osserva invece che il secondo si colora più lentamente, come accadeva per l’osazone. Queste esperienze andranno ripetute e precisate meglio; tuttavia si vede fin d'ora che il coefficiente termico del processo di scoloramento assume va- lori paragonabili a quelli delle reazioni che avvengono all’oscuro, e che nel fenomeno della colorazione la temperatura influisce di pochissimo, come ac- cade in tutti gli altri processi fotochimici. Ciò dimostrerebbe dunque che le trasformazioni fototropiche hanno i caratteri di vere reazioni chimiche. Chimica. — elazioni fra la fototropia e la costituzione (*). Nota di M. PapoA e L. SANTI, presentata dal Socio G. CrAMICIAN (°). In due Note precedenti (*) abbiamo esposto i risultati di alcune nostre ricerche sugli osazoni, nei riguardi della fototropia; da queste e da altre osservazioni fatte da uno di noi con F. Bovini (4), si rileva che le regole già stabilite per la costituzione degli idrazoni in relazione alla fototropia, non possono applicarsi agli osazoni. Infatti, mentre le idrazine col nucleo aromatico sostituito in posizione oro non dànno mai idrazoni fototropi, si vede che gli osazoni, da esse derivanti, sono spesso e fortemente fototropi. Convinti che anche per gli osazoni non dovessero mancare relazioni fra la fototropia e la costituzione, abbiamo creduto di poterle ricercare considerando (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bologna. (2) Pervenuta all'Accademia il 22 luglio 1912. (3) M. Padoa e L. Santi, questi Rendiconti, 1910, II, 302; 1911, I, 675. (4) M. Padoa e F. Bovini, questi Rendiconti, 1911, II, 712. — 1939 — l'analogia fra osazoni e fulgidi che si può osservare dalle seguenti formule: i goa Bi>0= 0.00 2 = R R | 7° :>N.N=C.R Re >c— 0.00 4 Nei fulgidi, secondo le osservazioni di H. Stobbe (1), s1 può avere foto- tropia soltanto quando, dei 4 radicali, uno o due siano atomi di idrogeno. Negli osazoni, i derivati corrispondenti ai difenilfulgidi sarebbero appunto quelli in cui da Biltz (*) e da noi venne osservata la fototropia; cioè quelli derivanti da idrazine mono-sostituite (fenil-tolil-naftil-xilil-idrazine). I corpi che corrisponderebbero a fulgidi completamente sostituiti (tetrafenilfulgidi) sono gli osazoni ottenuti da idrazine bisostituite, come la metilfenilidrazina e la difenilidrazina. Per questa ragione abbiamo cercato di preparare alcune di queste sostanze, e ne abbiamo ricavato la conferma delle nostre suppo- sizioni, avendo potuto constatare che nessuno dei metilfenilosazoni e dei difenilosazoni, da noi ottenuti, presenta le proprietà dei corpi fototropi. Vogliamo ancora far notare che anche pei semplici idrazoni sembra possa applicarsi un analogo criterio per prevedere la fototropia; infatti, mentre sì sono rinvenuti idrazoni fototropi fra quelli del tipo E>N.N=CH.R;, fra gli idrazoni RN.N=0H.Rs non fu potuta sinora rintracciare alcuna sostanza fototropa. I corpi del primo tipo non sono sempre fototropi; per esserlo, occorre che il radicale aromatico R, come si è già accennato, non sia sostituito in posizione orto. Riserbandoci di proseguire le nostre esperienze per cercar di ottenere altre sostanze di cui il comportamento confermi e completi questo modo di vedere, descriviamo intanto quegli osazoni che a tal fine potemmo sinora preparare. Le esperienze vennero eseguite dal laureando sig. Nino Magri. METILFENILOSAZONI. Si ottengono facendo reagire, in vario modo, la n.metilfenilidrazina, che sì trova in commercio, coi varî dichetoni. (1) H. Stobbe, L. Ann., 359, L (3) Biltz, L. Ann., 305, 180, 1899. 194 — 1. Metilfenilosazone del benzile : H $ Rei .N = C CséH; CH3 | cHNN=0.CHs 02O. Venne già ottenuto da Kohlrausch (*), ma lo abbiamo ripreparato per osser- varne il comportamento alla luce. Lo ottenemmo facendo bollire per mezza ora a ricadere una soluzione di gr. 1 benzile e gr. 1,3 di metilfenilidra- zina in acido acetico glaciale. Versando poi in acqua, si ottiene un prodotto che cristallizza dall'alcool in aghetti giallo-chiari. Fonde a 183° (Kohlrausch 179-180°). 2. Metilfenilosazone dell'anisile : CH : CHN:N = C.C;H,0CH; CEN N=C.C,H,0CH; L'abbiamo ottenuto facendo bollire per sei ore una soluzione di gr. 0,5 di anisile, gr. 0,7 di metilfenilidrazina in 30 cc. di alcool, in presenza di clo- ruro di zinco. Il prodotto della reazione si versa in acqua, si filtra, si lava abbondantemente con acqua e si cristallizza da una miscela d'alcool e ben- zolo. Il composto puro fonde a 151-152° e si presenta in aghetti splendenti, di color giallo-carico. Analisi: Calcolato Trovato N TESTI 11,56 3. Metilfenilosazone del piperile : CR > N — C.C5H:(CH:0,) o .N=C.0;H;(CH0,) L'abbiamo preparato come il precedente; cristallizza da benzolo ed alcool, in minutissimi aghetti gialli. Fonde a 91-92°. Analisi: Calcolato i Trovato N 11,07 III (1) Kohlrausch, L. Ann., 253, 16. — 195 — DIFENILOSAZONI. La difenilidrazina che ci ha servito in queste esperienze venne preparata dalla difenilamina attraverso il nitroso-derivato, ridotto poi con zinco ed acido acetico (!). 1. Difenilosazone del benzile : GEN.N ERO 1 6115 a i SA INC sca Venne preparato facendo bollire a ricadere per un’ora e mezza una soluzione di benzile e di difenilidrazina in acido acetico glaciale, avendo cura di usare pure un eccesso della idrazina. Come prodotti secondarî si formano l’acetil- derivato di questa ed il monoidrazone. Questo si separa dall’osazone bol- lendo con alcool il prodotto della reazione; per concentrazione della soluzione alcoolica ottenuta, precipita; ricristallizzato dall'alcool, si presenta in cristalli splendenti giallo-carico. Fonde a 108° (?). Trattando il residuo con acido acetico glaciale, si elimina l’acetilderi- vato e resta l’osazone che, cristallizzato da acido acetico, si ottiene abba- stanza puro. Si può anche cristallizzare il prodotto greggio della reazione da alcool e benzolo: si ottiene allora un osazone più puro (p. f. 203°), in aghetti risplendenti gialli. Analisi: Calcolato Trovato N 10,33 10,53 2. Difenilosazone dell’anisile: or NE 0% CH, OCHÉ CH cH7N . N = C . Ce, . O0CH, Si ottiene da una miscela di gr. 0,5 di anisile e gr. 1,2 di difenilidrazina in 15 cc. d'alcool in presenza di acido acetico glaciale, facendo bollire per un'ora. Anche in questo caso una parte dell'idrazina si acetila; l’osazone sì può separare con ripetute cristallizzazioni dall’alcool, ma è assai più (1) E. Fischer, L. Ann., 290, 174. (2) Overton, Ber. XXVI, 34. — 196 — vantaggioso adoperare la gasolina. L'osazone si ottiene in aghi gialli che fondono a 135-136°. Analisi: Calcolato Trovato N 9,30 9,10 Per la maggior parte delle sostanze descritte incontrammo notevoli diffi- coltà nella preparazione, e dovemmo tentare varî metodi prima di ottenere risultati soddisfacenti. Abbiamo anche tentato, senza riuscirvi, di preparare il difenilosazone del piperile. Come già si è accennato, in conformità alle nostre previsioni, nessuno dei composti descritti è fototropo. Chimica. — Sulla tendenza degli alogenuri alcalini a com- binarsi cogli alogenuri d’argento (*). Nota I di CARLO SANDON- NINI, presentata dal Socio G. CramicIAN (?). La maggior solubilità degli alogenuri di argento nelle soluzioni. concen- trate di alogenuri alcalini viene spiegata ammettendo la formazione di com- plessi tra il sale di argento e i sali alcalini. Di questi composti, per i cloruri venne isolato allo stato solido solamente il composto col cloruro di cesio da Wells (5). In Note precedenti (‘) venne dimostrato come nei sistemi dei cloruri alcalini col cloruro d'argento appunto solamente nel sistema clo- ruro di cesio, cloruro d'argento sia rivelabile all'analisi termica la formazione di un composto, e come nei sistemi di cloruri di potassio e di rubidio col cloruro d'argento sia da escludere che dalle miscele fuse si depositino com- posti, e finalmente come anzi da miscele fuse dei cloruri di litio e di sodio col cloruro di argento si depositino cristalli misti in ogni rapporto o in misura assai larga. Ora siccome è noto che la tendenza a dare combinazioni complesse per gli alogenuri degli stessi elementi aumenta dal cloruro all’ioduro, non mi parve privo di interesse vedere se anche coll’analisi termica si rivela questa regolarità. Vennero quindi esperimentate le miscele di bromuri di potassio e rubidio col bromuro di argento, e le miscele di ioduri di potassio e ru- bidio col ioduro d'argento: le miscele col bromuro e col ioduro di cesio non vennero esperimentate e per il costo del materiale, e perchè già per il clo- ruro è rivelabile un composto. (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Pa- dova diretto dal prof. G. Bruni. (?) Pervenuta all'Accademia il 22 luglio 1912. (3) Zeit. f. an. Ch., 2, 307, 1894. (4) Questi Rendiconti, 20, 1°, 758; 20, 2°, 588. — 197 — Il sistema KBr-AgBr. Il punto di solidificazione del bromuro potassico adoperato giaceva a 742° in buon accordo con quello già trovato da Amadori e Pampanini (!) 740°; quello del bromuro d’argento a 419°: secondo Monkemeyer (*) questo punto giace a 422°. TABELLA lA. Molecole °/o sp empernture Temperature Durate di Ag Br cristallizzazione dl ERUOHID RE a primaria eutettico 0 742° Gi vii 10 682 290° af 30 TO 290 100 nio 490 | 291 160 50 370 291 200 00 Di, 290 150 Lo 330 291 100 Se 355 290 80 S0ne8 390 | 290 50 100 419 | Ss "è 700 600 500 400 300 KBr Mol. °/0 Ag Br Ag Br Bromuro potassico — Bromuro d’argento. RIGA (*) Questi Rendiconti, 20, 2, 572, 1911. (2) N. Jah. f. M. G. P. 22, Bb., 1, 1906. — 198 — I due componenti sono solubili solamente allo stato liquido. Le due curve di deposizione primaria sì tagliano in un punto eutettico a 290° e a circa 51 mol. °/, di Ag Br (tabella 12, fig. 1®). Come chiaramente si vede dal diagramma e dalla tabella prima si deve escludere tanto la presenza di composti che di cristalli misti. Il sistema RbBr-AgBr. A quanto mi consta non venne mai preparato alcun composto fra i due sali, nemmeno per via umida. TABELLA 23. Molecole AR SRO Durate Temperature; Durate °/o Ton i JA in di arresto in Ag Br primaria secondi eutettico secondi 0.0 670° —_ —_ _ = 10.0 645 260° — _ — 20.0 573 266 40” 225° —_ 27.8 540 265 40 226 60” 33.3 510 265 70 237 80 36.7 493 270 70 228 100 46.8 578 280 60 228 120 06.9 258 — — 228 140 70.0 238 — — 228 200 80.0 315 — _ 228 100 90.0 380 _ — 226 70 100.0 419 — — PS — 500 400 300 200 (1) 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 Rb Br Mol.°/ AgBr Ag Br Bromuro di rubidio 4 Bromuro d'argento. Fia. 2. — 199 — Il punto di solidificazione del bromuro di rubidio risultò a 670°, se- condo Carnelley questo punto giace a 683° © 3. Dal punto di solidifi- cazione di RbBr, la curva di cristallizzazione primaria discende sino a 265° e circa a 55 mol. °/, di Ag Br, ove si nota un evidente gomito, poi scende sino a 228° e a 68 mol.°/ Ag Br in un punto eutettico per risalire poi direttamente al punto di solidificazione del bromuro d'argento. Per le mi- scele da 0 a 56 mol.°/ di Ag Br sì ha un arresto a 265°, che ha la sua massima durata a 33,4;36,7 ; 46,4 mol. °/, Ag Br; l'arresto eutettico appare ancora per la miscela a 20 mol. °/, di Ag Br (tabella 2°, fig. 2°). L'arresto a 265° si deve ad un composto decomponibile colla fusione, ma per la durata pressochè identica degli arresti per le miscele vicine alla sua composizione e per la presenza dell’eutettico per miscele molto ricche in bromuro di rubidio, fatto dovuto forse al noto caso anomale di Tammann, non si può esattamente stabilire la composizione di detto composto. Pare tuttavia lecito supporre che questo composto abbia una composizione com- presa da 30 e 40 mol. °/ di Ag Br e quindi assai probabilmente la sua formola deve essere o 2 Rb Br, Ag Br o 3 Rb Br. 2 Ag Br. Il sistema KI-Agl. La solubilità dell'ioduro d’argento nelle soluzioni di ioduro di potassio è stata oggetto di molti studî di Boullay ('), Hellwig (*) e recentemente di W. van Dam e A. D. Donk (*), dai quali risultò che in soluzione i due sali si combinano per dare composti complessi isolabili allo stato solido; la composizione dei quali pare dipendere dalla temperatura a cui si opera. Così recondo W van Dam e A. D. Donk a 30° si forma solamente un com- posto 2 Kl-Agl e a 50° un altro KI-Agl e questo solamente. Il punto di solidificazione dell’ioduro di potassio usato giaceva a 680°, quello dell’ioduro d’argento a 546° ed il suo punto di trasformazione a 142°. Secondo Monkemeyer questi due punti giacciono rispettivamente a 552° e a 143°. I due rami di deposizione primaria si tagliano a 62 mol. °/ di AgI e a 243°; per le miscele da 0 a questa concentrazione in Ag I la miscela eutettica cristallizza senza sopraraffreddamenti a temperatura costante. Da 63 a 100 mol°/, di Agl la miscela eutettica cristallizza con forti sopra- raffreddamenti e ha il suo punto d'arresto a 254°. Le durate di questi ar- resti vanno aumentando da 0 a 33 mol. KI. L'innalzarsi della temperatura in questa parte del diagramma è verosimilmente dovuta al fatto che questo punto di arresto più che a un arresto eutettico vero e proprio è dovuto alla formazione di un composto decomponibile alla fusione la cui temperatura (*) Ann. Chim. Phys., 34, 377. (*) Zeit. f. an. Chem., 25, 180, 1900. (5) Chem. Weekblad. 8, 864, 1911. RenpIconTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 26 — ao TABELLA 8. a Remi oninto | Secondi Dazio Temperature Duse Tito O) ARTO ona in d’arresto in zione AgI primaria secondi eutettico secondi di AgI 0.0 680° —_ La _ = _ 10.0 650 212° — — — — 20.0 602 243 50” = _ = 30.0 510 245 80 = = = 40.0 462 D4A. 100 — = = 50.0 380 246 110 — = - 60.0 260 242 180 = == = 65.0 280 = = 2540 120” 134° 66.6 300 _ — 256 100 138 70.0 840 -— — 254 90 141 80.0 390 —_ — 255 80 140 90.0 462 — — 256 30 144 100.0 546 — =>, — — 142 700 | N X - 9, 600 1 600 o\ 500 |- -| 500 lo) v ae 400 ua : prese ti] | du KI Mol.°/o AgI AgI Joduro potassico + Joduro d’argento | Fic. 3. di formazione è molto vicina a quella dell'arresto eutettico, dimodochè non | fu possibile realizzare il tratto di deposizione primaria che spetterebbe ad esso composto (tabella 32, fig. 3*). Si vede chiaramente dalla figura 3* che questo verrebbe così ad avere una composizione diversa da quelli trovati iniziata — 201 — per via umida. Il punto di trasformazione di AgI sì nota con sicurezza solamente sino alla miscella a 66,6 mol. °/, di Agl. Il sistema Rbl-AglI. Anche in questo caso si ha formazione di un composto decomponibile alla fusione. Il gomito che gli spetta nella curva di cristallizzazione pri- maria giace a 54 mol. °/, di AgI e a 280°, che è quindi la sua tempera- tura di formazione. TABELLA 44. Molecole IRERIPENEIAINO 4 Durate Durate Trasforma- Ò di cristal- Primo Ù Secondo ; È lo lizzazione ta n Zione Agi primaria arresto secondi | Juesto secondi di Agl | 0.0 638° — cs — — —_ 9.0 600 265° - _ — _ 18.4 998 275 40” — — — 26.4 505 282 80 185° 607 — 33.8 466 280 90 184 80 — 37.6 AST| 282 80 192 100 ? 47.4 355 284 50 194 150 ? SUO | 260 —. — 196 180 1390 67.8 | 242 — — 196 220 140 78.8 256 - — — 197 120 141 89.0 410 -- — 195 80 140 100.0 | 516 | = — — — 1492 SN 600 | x | Se | N 500 |- 3 _| 500 I | a 400 300 200 100 (V) RbI Mol°/, AgI AgI Joduro di rubidio 4 Joduro d'argento Fia. 4. — 202 —- La miscela eutettica giace a 75 mol. °/, Agl e a 196°; e benchè di questa si abbia indizio di formazione alla miscela a 26.5 mol. di Ag]; dalle durate d'arresto a 280° si può dedurre che il composto che si forma abbia la composizione 2Rbl-Agl. Della stessa composizione venne isolato un composto dal Wells (loc. cit.). Il punto di trasformazione di Agl si nota con sicurezza sino a miscele a 57 mol. °/, di Agl. Così come da Abegg venne dedotto, vien dimostrato anche coll’analisi termica, che la tondenza degli alogenuri di argento a dare complessi au- menta dal cloruro all'ioduro, e coll’aumentare dell'elettropositività dei me- talli che in questi complessi possono poi funzionare come joni semplici. Mentre per i sali potassici si rivela solamente un composto e non chiara- mente tra gl'ioduri, per i sali di rubidio si rivela già pei bromuri e per quelli di cesio già pei cloruri. Chimica. — Bromo- e eloro-qguapacoli ('). Nota di TEMISTOCLE Jona, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (?). In continuazione allo studio dei guajacoli monoalogenati (*), riferirò brevemente sulla preparazione del 5-bromo e del 3-cloroguajacolo. Partendo dal 5-nitroguajacolo (nel quale la posizione del nitrogruppo nella molecola è determinata con sicurezza) (*), sono passato per riduzione all’amina indi, per diazotazione e successiva bromurazione, al 5-bromoguajacolo C:H:(0H) (0CHs) (NO:) 1:2:5 —> C;H:(0H) (0CHs) (NH,) 1:2:5 > —> CH;(0H)(0CH;)Br1:2:5 del quale ho preparato alcuni derivati. Per giungere al 3-cloroguajacolo, non ho creduto conveniente seguire un procedimento analogo partendo dal 3 nitroguajacolo, in considerazione del rendimento molto scarso che si ha quando si prepara questo nitrocomposto se- condo le indicazioni di Komppa (‘) di Kauffmann e Frank (*). Ho però rag- giunto lo scopo partendo dalla 3-nitrovaniglina I di Pschorr e Sumuleanu (6) (1) Lavoro eseguito nell’Istituto di Chimica farmaceutica della R. Università di Pavia. () Pervenuta all'Accademia il 24 luglio 1912. (3) Sui cloroguajacoli, Gazz. chim. it., XLI, parte I, e Bollettino Soc. Med. chir., Pavia, 1910. (4) Chemisches Zentralblatt, 1898, II, 1169. (5) Berichte d. deut. chem. Ges., 1905, 39, pag. 2725. (5) Berichte d. deut. chem. Ges., 1899, 32, pag. 3405. — 203 — e praticando la serie di trasformazioni indicate dal seguente schema: OH OH OH OH Z o OCH, OCH, io GLi 2 0 (GI PASO NASO: No NH» NI COH COOH i I II III IV Dall'acido nitrovaniglinico II, per trattamento con Sn e HCl a caldo, si ottiene il 3-aminoguajacolo III senza passare per l'acido aminovaniglinico. La facile riduzione del nitrogruppo con la simultanea eliminazione dei car- bossile, sta in accordo ad analoga osservazione fatta da Vaubel (*) sugli acidi benzoici 2,6 o 2,4 bisostituiti con gruppi negativi. Non ho ottenuti invece risultati soddisfacenti tentando di eliminare il carbossile dall’acido nitrovaniglinico per avere il 3-nitroguajacolo, nè distillando con calce nè trattando in tubo chiuso con anilina (?) o con acido solforico dil. (*). Nel caso particolare del trattamento dell'acido 3-nitrovaniglinico con H;SO, dil., operando a 130-140° non ho ottenuto il 3-nitroguajacolo, bensì la 3-nitropi- rocatechina. Che la posizione dell'alogeno nel nuovo cloroguajacolo sia real- mente in orto rispetto al metossile, risulta dai passaggi fatti partendo dalla 3-nitrovaniglina per la quale è ben sicura la posizione del nitrogruppo nella molecola. Infatti (‘), nitrando l’acetilvaniglina (1) si ottiene una mononitro- acetilvaniglina (Il o III) che ha —NO; in orto rispetto a — COH, perchè dà la reazione dell’indaco 0C,H;0 0C0,H30 0C3H30 ATI 4 OCH OCHg | —| | LA /N : NAZIO: 4 COH COH COH TI I III Che ad essa spetti la formula II e non la III risulta dai seguenti fatti. Metilando la nitrovaniglia IV ottenutane per saponificazione, e poi ossidando il — COH a — C00H, si perviene all’ac. nitroveratrico V di Tiemann e (*) Journ. fiir prakt. Chem., 1896, 53, pag. 550. (?) Bull. de la Société Chim. de France, 1896, XV, 76. (*) Gazzetta chim. it., 1888, pag. 144. (4) Berichte d. deut. Chem. Ges., 32 (1899), pag. 3407. 204 = Matsmoto (*) che, per riduzione, dà un acido aminoveratrico VI identico all'acido 3-4-dimetossiantranilico di Kiùhn (?) OH OCH, OCH,y OCH, VocH, OCH, \ocn, Nea | de X N a x 738 AL & NO, NANO A COH COH COOH COOH IV V VI La costituzione di quest'ultimo acido è sicura, poichè si deduce dalla forma- zione di esso dalla emipinimide VII, nonchè dalla sua trasformazione in acido veratrico VIII ed in acido emipinico IX VII cd E x CH,0 N00 \coox ì Ni (e 4 CHs0\ 700 CH;0\ / NH, SI GONE UCH, ÙCH, | | VII CH;0 COOH LÀ OCH; IX PARTE SPERIMENTALE. 5-bromoguajacolo C:H:(0H) (0CH;) Br1:2:5. Si prepara una soluzione di solfato di 5-aminoguajacolo, sia salificando con H:S0, la base ottenuta come altrove ho descritto (*), sia riducendo il o-nitroguajacolo di Cousin (4) con Fe e H.S0, a caldo. In quest'ultimo caso si elimina il ferro con piccolo eccesso di KOH, e si aggiunge alcool per tenere in soluzione la base; dopo filtrazione si acidifica con H,S0, e si scaccia l'alcool. Buoni risultati si ottengongono pure riducendo il 5-nitroguajacolo con Sn e HCI, e aggiungendo alla soluzione del cloridrato di aminoguajacolo che si ottiene, quantità di KOH sufficiente per salificare tutto il Cl; estratta la base, sì aciditica con H.SO,. Si diazota con Na NO, il solfato d'aminoguajacolo; poscia si versa il sale di diazonio a goccia a goccia e agitando su una soluzione bollente di (1) Berichte d. deut. Chem. Ges., //, pag. 135. (*?) Berichte d. deut. Chem. Ges., 28, pag. 810. (3) Gazzetta chim. it., XLI, parte I. (4) Journ. Pharm. et Chimie, 1899, 9, 276. = Ao sale rameoso preparata con 125 gr. di Cu SO, -5H.0, 360 gr. di KBr, 800 gr. d’acqua, 110 gr. di H,S0, conc., 200 gr. di rame in fili, e portata ad essere quasi incolora bollendola a lungo in pallone con refrigerante a ricadere. Si procede in seguito come ho già descritto a proposito della pre- parazione del 5-cloroguajacolo ('). Il 5-bromoguajacolo si presenta sotto forma di cristallini bianchi che fondono a 62-65°. Con FeCl; dànno colorazione verde bluastra poco intensa. Poco solubile in acqua, molto in alcool. gr. 0,2200 di sost. diedero gr. 0,2016 di Ag Br (metodo Carius), gr. 0,2501 di sost. fornirono gr. 0,3777 di CO, e gr. 0,0828 di H;0. Bromo °/, calcolato per C,H,0,Br 39,40 trovato 39,00 Carbonio » ” L) ” 41,37 ” 41,18 Idrogeno » ” ” ” 3,44 ” 3,67 5-bromo-1-bensoil-guajacolo C:H3(0C0C;H;) (0CH:) Br 1:2:5. Si prepara come il 5-cloro-1-benzoil-guajacolo (*). Cristallizza dall’al- cool acquoso in aghi bianchi fondenti a 73-75°. gr. 0,2380 di sost. diedero gr. 0,1455 di Ag Br (metodo Carius) i Calcolato per C,4 H,, 03 Br: Br°/ 26,06 Trovato 26,00 5-bromo-1-acetilguajacolo C3H3(00H30) (0CH;) Br 1:2:5. Si prepara col metodo già descritto a proposito del 5-cloro-1-acetilgua- Jacolo. Foglioline bianche dalla ligroina. F = 63-65°. gr. 0,2121 di sost. diedero gr. 0,1610 di Ag Br (metodo Carius). Calcolato per Cs Ho 03 Br: Br°/, 32,65 Trovato 32,30. 5-bromo-1-etilguajacolo C$H3(0C,H;) (0CH3) Cr 1:2:5. Si prepara analogamente al 5-cloro-1-etilguajacolo. Aghi bianchi soffici, dall'alcool acquoso. F = 58-60°,5. gr. 0,1950 di sost. diedero gr. 0,1580 di Ag Br (metodo Carius). Calcolato per Cs Hi; 0, Br: Br°/ 34,63 Trovato 34,46. 5-bromoveratrolo C:Hs(0CH3) (0CH3) Br 1:2:5. Si ottiene analogamente al 5-bromo-1-etilguajacolo, usando joduro di metile e KOH. Liquido paglierino, più pesante dell’acqua, che a — 16° (1) Gazzetta chim. it., XLI, parte I. (®) Gazzetta chim. it., XLI, parte I. — 206 — non solidifica. Solubile in alcool e in etere, quasi insolubile in acqua. Alla pressione di 550 bolle a 239-242°. gr. 0,1480 di sost. diedero gr. 0,1269 di Ag Br (metodo Carius). Calcolato per Cz Ho 0; Br: Br°/ 36,86 Trovato 36,48. 5-bromo-1-etilcarbonato di guajacolo CxH:(0C00C0,H;) (0CH:) Br 1:2:5. A gr. 3,14 di 5-bromoguajacolo sciolto in poco alcool, si aggiunge gr. 1 di KOH in soluzione alcoolica e poscia, a goccia a goccia agitando, gr. 0,90 di ester etilclorocarbonico. Si riscalda un po’ a bagno maria e si filtra. Al filtrato si aggiunge H:0 e un po di KOH per salificare il bromoguajacolo che non ha reagito. Si estrae con etere e poscia si scaccia l'etere. Il residuo, cristallizzato dall'alcool acquoso, è in aghi lunghi, soffici, bianchi, sericei. F = 46-49°. gr. 0,1110 di sost. diedero gr. 0,0753 di Ag Br (metodo Carius). Calcolato per C5H3(0C00C;H;) (0CH;) Br: Br° 29,09 Trovato 28,82 Acido (v)-o-nitrovaniglinico CHz(0H)(0CH3)(N0.)(COOH)1:2:3:4. Si prepara ossidando la (v)-o-nitrovaniglina di Pschorr e Sumuleanu. Pochi ossidanti però servono allo scopo, giacchè il gruppo aldeidico passa con grande difficoltà a carbossile. Si arriva a discreti risultati operando come segue: A gr. 4 di nitrovaniglina si aggiungono 20 cm? di soluzione scirop- posa di KOH e si sbatte a lungo. La massa si fa grigia bluastra e dopo un riposo di 16 ore diventa nera. Si riprende con Hs0, si acidifica con 15,S0, e si estrae con etere. Distillato l'etere, resta un residno bruno che si bolle con acqua e nero animale; poi si riestrae con etere. L'acido che così si ottiene è ancora leggermente impuro; per averlo purissimo occorre acetilarlo e poi saponificare. gr. 0,2000 di sost. diedero cm? 11,9 di azoto a #° = 20° e H= 7600", Calcolato per C:H:(0H)(0CH:) (NO.) COOH N °/, 6,57 Trovato 6,80. Per tutte le sue proprietà, si mostra identico all'acido (v)-o-nitrovani- glinico, ottenuto per altra via da Tiemann e Matsmoto (?). Contemporaneamente ad esso, si formano parecchi altri prodotti dei quali non ho ancora potuto occuparmi. Portando per 5 ore a 135-140° in tubo chiuso gr. 3 di acido nitrova- niglinico e 45 cm? di H.S0, al 33°/,, distillando con vapor d'acqua, ed estraendo il distillato con etere, si ottiene una sostanza gialla identica alla 3-nitropirocatechina. Per mancanza di sostanza non ho potuto ripetere l'espe- rienza in condizioni diverse onde tentare d'ottenere invece il 3-nitroguajacolo. (1) Berichte d. deut. chem. Ges., 1876, pag. 943. — AS Acido acetilvaniglinico CsH3(0C,H30) (0CH:) (COOH) 1:2:4. Tiemann e Nagai lo preparano (*) bollendo per circa 6 ore, l'acido va- niglinico con eccesso d'anidride acetica. Molto più rapidamente, ottenendo un prodotto più puro con rendimento più elevato, si può invece procedere col seguente metodo: A gr. 10 di acido vaniglinico sciolto in acqua conte- nente gr. 7 di KOH, sì aggiungono gr. 6,5 di anidride acetica sciolta in etere. Si sbatte per circa mezz'ora. Si acidifica con H,S$0, e si estrae con etere che poi si distilla. Cristallizza dall'alcool acquoso. F = 145-146°. Per nitrazione dà l'acido nitroacetilvaniglinico che fonde a 181-182° (?). 3-aminoguajacolo C$Hz3(0H)(0CH;) (NH.) 1:2:3. Si gettano 10 gr. di acido nitrovaniglinico in circa 350 em? di alcool, e, riscaldando a b. m. si aggiunge un eccesso di Sn e a poco a poco HCl conc. Dopo circa 5 ore, si getta il tutto in acqua, si distagna con H.S, e si concentra. Dosato il cloro jonico, si aggiunge a freddo quantità calcolata di KOH. Si estrae con etere e si distilla l'etere. Resta un residuo gialliccio che, purificato dalla benzina di petrolio (p. e. 70-80°) si presenta in aghi paglierini fondenti a 97-100°. Disponendo solo di poca sostanza, non ho potuto procedere a una completa ulteriore purificazione. Però le analisi del prodotto fondente a 97-100° e del suo acetilderivato, dicono che si tratta non di acido aminovaniglinico, ma di aminoguajacolo. gr. 0,2210 di sost. diedero gr. 0,1380 di H.0 e gr. 0,4960 di CO». gr. 0,2240 di sost. diedero cm* 18,9 di N a {=20 e H= 7580, Calcolato per G3H,(0H)(O0CH,)(NH,) Trovato Idrogeno °/, 6,54 6,93 Carbonio » 60,44 61,20 Azoto ’ 10,07 9,63 Il suo derivato monoacetilico (3-acetil-3-aminoguajacolo) si ottiene, come ò già detto pel 4-acetil-4-aminoguajacolo (luogo citato). Cristalli bianchi dal benzolo F = 120-122°. gr. 0,2111 di sost. diedero cm? 14,5 di Na f#= 20° e H= 760°. Calcolato per Cs, Hi, NO; N°/ 7,73 Trovato 7,85. 3-cloroguajacolo C:H3(0H)(0CH3) C11:2:3. Si diazota con Na NO, il 3-aminoguajacolo; poscia si clorura secondo Sandmeyer e si procede, come ho già descritto, pel 5-cloroguajacolo (loc. cit.). (*) Berichte d. deut. chem. Ges., 8, pag. 1142 (*) Berichte d. deut. chem. Ges., 1876, pag, 943. RENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 27 — 208 — Foglioline candide che fondono a 31°,5-33°. Quasi insolubile in H0, solu- bile in alcool e in etere. In soluzione acquosa alcoolica dà con Fe Clz colo- ‘ razione verdastra. gr. 0,2588 di sost. diedero di Ag Cl (metodo Carius) gr. 0,3318. Calcolato per CsH:(0H)(0CH3:) Cl: C1°/ 22,39 Trovato 22.14 3-cloro-1-benzoilguajacolo C:H3(0C0C;H;) (0CH;) C11:2:3. Si prepara come il 5-cloro-1-benzoilguajacolo. Aghi bianchi dall'alcool acquoso. F = 369,5-38°. gr. 0,2804 di sost. diedero di Ag Cl gr. 0,1510 (metodo Carius). Calcolato per C,4 Hi 03 Cl: 01° 13,47 Trovato 13,30. 3-cloro-1-acetilguajacolo C5Hz3(0C,H30) (0CH;) Cl 1:2:3. Si prepara analogamente al 5-cloro-1-acetilguajacolo. Ottenuto l'estratto etereo che contiene in soluzione il prodotto, lo si secca con Nas SO, anidro, indi sì scaccia l'etere e si distilla frazionatamente. L'analisi della porzione bollente a 179-181° (corr.) alla pressione di 55M di mercurio, diede il seguente risultato: gr. 0,2991 di sost. fornirono di Ag Cl gr. 0,2120 (metodo Carius). Calcolato per CsH:(0C,H:0) (OCH:) Cl: C1°/ 17,70 Trovato 17,41 Liquido ineoloro, insolubile in acqua, solubile in alcool e in etere. 3-cloro-1-etilguajacolo CsH:(0C:H;) (0CH3) CI 1:2:3. Si prepara come il 5-cloro-1-etilguajacolo. Trattato l’estratto etereo come or ora ho detto, si sottopone a distillazione frazionata. Punto d’'ebol- lizione a 55% di mercurio 162-165° (corr.). gr. 0,3616 di sost. diedero di Ag Cl gr. 0,2746 (metodo Carius). Calcolato per Cs Hi; 0, Cl: C1°/ 18,93 Trovato 18,80. Liquido incoloro, insolubile in acqua, solubile in etere. — 209 — Vulcanologia — Sulla cenere vulcanica dell’eruzione etnea del 1911 (*). Nota di G. PONTE, presentata dal Socio G. STRUEVER (°). La violenta eruzione dell’ Etna scoppiata la mattina del 10 settembre 1911 ebbe di singolare un notevole decentramento dei fenomeni eruttivi: mentre la lava, accompagnata da fenomeni stromboliani e vulcaniani, veniva fuori dai crateri formatisi sul versante nordico del vulcano lungo una fen- ditura di circa 8 km., dal cratere centrale si svolgeva una enorme e densa massa di vapori e di cenere che si mantenne quasi costante per tutto il periodo dell’eruzione. Il gagliardo vento di ponente, che spirava in quei giorni, riversava sui fianchi del vulcano la immensa nube cinerea, la quale con pulsante ritmi- cità sì svolgeva in magnifiche volute dal cratere, tenendo per 15 giorni l'aria fosca e la lussureggiante vegetazione del versante sud-orientale del- l'Etna sotto una pioggia greve e continua di cenere vulcanica. Durante tutto il periodo eruttivo, la maggior quantità di cenere cadde nella direzione di Aci Reale, a sud-est dell’ Etna. Avendo il vento impedito che il Pino vuleanico si sollevasse a smisu- rata altezza. come nelle altre eruzioni, non si potè avere una naturale e regolare vagliatura della cenere, che cadeva più o meno carica di granuli pesanti, a seconda della violenza del vento. Il feldspato, l’augite, l'olivina, la magnetite e la sostanza vetrosa sono i soli elementi mineralogici che si riscontrano nella cenere di questa eru- zione (5). (*) Lavoro eseguito nell’Istituto di Mineralogia e Vulcanologia dell’ Università di Catania. (2) Pervenuta all'Accademia il 16 luglio 1912. (8) Nel Centralblatt f. Min. Geol. (Jahrg. 1911, pag. 691) è comparsa una Nota di E. Dittler: Notiz sum Aetnaaschenfall am 10 Sept. 1911. ove VA. dice d'aver trovato nella cenere dell’ultima eruzione la leucite, minerale mai riscontrato nelle lave dell'Etna. L’illustre Geheimrath prof. dott. Ferdinand Zirkel ha voluto gentilmente far notare al Dittler l'errore in cui è caduto; ma lA. nella sua Nota di rettifica (Berichtigung cu meiner Notiz ber den Aetnaaschenfall 1911. Centralblatt f. Min. Geol., pag. 783) sostiene che l’analisi microchimica gli conferma la presenza del potassio. Il fatto che lA. nella sua prima Nota dice d’aver riscontrato nella stessa cenere anche la biotite, fa supporre che il sig. Milch]stàdter, nella spedizione fatta all'Istituto di Mineralogia di Vienna, abbia inviato cenere del Vesuvio la quale, durante l'eruzione del 1906, arrivò anche in Sicilia: per non dire della grande quantità che di essa ne venne portata sui tetti dei vagoni ferroviarî provenienti da Napoli. — See Il feldspato si presenta in frammenti irregolari ed angolosi, ricchi di inclusioni di magnetite e di sostanza vetrosa; quest'ultima intorbida spesso quasi completamente il cristallo e presenta delle bollicine gassose come quelle osservate dal Vogelsang (*) nelle ceneri di Santorino e dal Cossa (?) in quelle dell'Etna. Penck (*) spiega la formazione di tali bollicine ammettendo che la sostanza vetrosa, allorchè venne rinchiusa nel cristallo, già contenesse dei gas disciolti che, per il rapido raffreddamento avvenuto durante la dejezione, non ebbero tempo di riunirsi in unica bolla. Il fatto che i feldspati ricchi di tali inclusioni vetrose con bollicine presentano notevoli linee di frattura, fa inoltre ritenere che il vetro sia stato incluso nel cristallo nel periodo in- tratellurico di cristallizzazione sotto una considerevole pressione, la quale impedì ai gas disciolti di svolgersi; ma appena il cristallo fu proiettato fuori del magma, prevalse la tensione interna, che determinò la rottura del cristallo e lo svolgimento dei gas in numerose bollicine. Questa ulteriore spiegazione viene confermata dal fatto, anche constatato dal Cossa, che non sì riscontrano bollicine nel vetro delle lave compatte consolidate sotto forte pressione. L'acido cloridrico intacca quasi completamente il feldspato, e questo è il solo mezzo diagnostico che permetta di riferire i frammenti di feldspato, raramente limpidi, alla serie basica dei plagioclasi. L'augite è in granuli con contorni scheggiati o arrotondati, spesso cir- condati da una pellicola vetrosa come quella che fu riscontrata da Zirkel nell’olivina di altra cenere dell'Etna (4); il pleocroismo vi è appena apprez- zabile, anche nei granuli grossi che si presentano color verde bottiglia; ra- ramente vi si osservano inclusioni vetrose, mentre la magnetite spesso in piccoli ottaedri vi sì riscontra più frequentemente. L'olivina in limpidi granuli ed in scheggie con frattura concoide di color verde giallastro assai pallido, è il più grosso e meno abbondante mi- nerale della cenere del 1911. Lasaulx (5) ha fatto osservare che, essendovi lave dell' Etna senza olivina, lo stesso può accadere per le ceneri. Però bisogna esser cauti in tale affer- mazione, poichè, essendo l’olivina un elemento di prima generazione e perciò abbastanza sviluppato rispetto agli altri minerali della cenere, non può essere trasportato dall'aria a grandi distanze, per ragione di gravità. Così è spie- (1) H. Vogelsang, Philosophie der Geologie u. Mikr. Gesteinsstudien. Bonn, 1867, pag. 177. (®) A. Cossa, Sur la cendre e la lave de la recente éruption de l'Etna. Comptes Rend. de l’Ac. d. Sc. Paris, V, 88, pag. 1358. (£) A. Penck, Studien tiber lockere vulcanische Auswurflinge. Zeit. d. Deut. geol. Gesell., Bd. XXX, 1878, pag. 126. (4) F. Zirkel, N. Jahrb. f. Min, u. Geol., 1872. pag. 16. (9) Sartorius y. Waltershausen u. Lasaulx, Der Aetna, 1880, Vol. II, pag. 465. Toe gabile come sia successo a Giimbel (*) di trovare esente d’olivina la cenere del 1879 caduta a Reggio Calabria, 60 km. distante dall’ Etna, mentre questo minerale si riscontrava nella cenere caduta durante la stessa eruzione a Lin- guaglossa a 16 km. dal cratere centrale. La magnetite, per lo più inglobata nella sostanza vetrosa, forma grumi opachi, che, essendo magnetici, possono, dietro triturazione, facilmente separarsi dagli altri anche con la punta di un ago. Filamenti vetrosi dell’ Etna. Da un saggio analitico fatto, il minerale risulta ricco di Ti 0.; deve quigdi ritenersi una magnetite titanifera. La sostanza vetrosa è il minerale prevalente della cenere in esame; si riscontra in frammenti scheggiati ed in forme filamentose o spugnose di color verde tendente al bruno, raramente colorata in rosso dagli ossidi idrati di ferro. Fra le inclusioni vi si osservano numerose bolle gassose ed abbondanti (1) Gimbel, Vulkanische Asche des Aetna, V, 1879. = Jahrb. f. Min. u. Geol., 1880, Bd. I, pag. 852. 2120 granuli di magnetite, che spesso oscurano tutto il materiale. Interessanti sono alcune lamelle romboidali di feldspato nell’inizio di cristallizzazione, raramente geminate, le quali hanno sviluppata soltanto la faccia M (010), spesso tanto sottile che tra i nicols incrociati resta inattiva come il vetro che la racchiude. Le lamelle geminate presentano non più di tre individui sovrapposti l'uno sull'altro in ordine decrescente di grandezza sulla faccia M che ne è il piano di geminazione. Simili forme furono osservate da Kreutz (1) nelle lave vesuviane del 1868, e furon ritenute per sanidino; anche Mohl (?) le riscontrò nella tachilite di Schiffenberg presso Giessen. Dalle misurazioni dell’angolo di estinzione fatte con il metodo di Max Schuster (*) sulla faccia M (010), si sono avuti valori mai uguali, oscillanti nei limiti — 26° e — 35°, che fanno riferire i detti feldspati alla serie basica compresa tra la labradorite e l’anortite. I grossi frammenti della sostanza vetrosa si presentano molto bollosi, ed una determinazione esatta del loro peso specifico è impossibile. Caratte- ristici sono i filamenti vetrosi per le loro forme bizzarre simili molto ai noti capelli di Pélé emessi dal Kilauea e già altre volte riscontrate nelle ceneri dell'Etna (‘) e del Vesuvio (*). Questi vetri filamentosi presentano pur essi lamelle di plagioclasi, come quelle osservate dal Cohen (°) e dal Kruken- berg (?) nei capelli di Pélé delle Hawai. Intorno alla grossezza dei granuli della cenere vi è da dire: chè, in quella caduta all’ Osservatorio Etneo, ve ne sono da mm. 0,008 a mm. 0,5 di diametro; in quella caduta a Catania i granuli più piccoli misurano mm. 0,004, i più grossi mm. 0,15. Non si è fatto un rapporto quantitativo dei singoli minerali già descritti, perchè la cenere caduta non è mai nelle stesse proporzioni di quella che viene dejettata dal vulcano, come fece osservare per il primo il Vogelsang (5) il quale potè accertare una naturale separazione meccanica degli elementi più pesanti per azione del vento nelle sabbie vulcaniche di Santorino. Per poter fare con esattezza un calcolo della quantità dei varî elementi di cui la cenere è costituita, allo scopo di stabilire dei confronti con la lava emessa (1) F. Kreutz, Sitzungsber. d. K. K. Akad. d. Wiss. in Wien, II Abth., 1869, Januar Heft. (?) Mohl, Gesteine der Sababurg. Cassel, 1871, pag. 30. (3) H. Rosenbusch, Mikr. Phys. d. Min. u. Gest., Bd. I, 2° Heft, pp. 345-350. (4) G. Ponte, fuse hawajana dell'attività dell'Etna. Rend. Acc. d. Lincei, vol. XX, ser. 5%, 11 febbraio 1911. (5) A. Scacchi, Sulla origine della cenere vulcanica. Rend. Acc. di Sc. Fis. e Mat. Napoli, anno XI, 1872, pag. 190. (6) Cohen, N. Jahrb. f. Min. u. Geol. 1876, pag. 747. (?) C. Fr. W. Krukenberg, Mikrographie der Glasbasalte v. Hawaii. Tibingen, 1877. (8) H. Vogelsang, Philosophie d. Geologie u. Mikr. Gesteinsstudien. Bonn, 1867, pae. 176. Soi durante la stessa eruzione, occorrerebbe che il materiale da studiare fosse rac- colto con apparecchi speciali e nell'atto in cui viene lanciato fuori del cratere. Non vi è dubbio, come fece osservare Cordier nel 1815, che l'esame micro- scopico fa riscontrare nella cenere vulcanica gli stessi caratteri mineralogici riscontrabili nella lava consolidata della stessa eruzione; però nella cenere si trova lo sviluppo incompleto di certi elementi e l'abbondanza della so- stanza vetrosa sempre ricca di bollicine gassose. Questo fatto sì collega con l'origine della cenere che ha luogo nell’inizio della fase extratellurica della cristaliizzazione del magma, cioè quando questo, per azione dei vapori esa- lanti, entra superficialmente in effervescenza. Difatti è lo scoppio delle nu- merose bollicine gassose che forma la cenere e la sabbia vulcanica, come Menard de la Groye e Moricana fecero per i primi osservare, e Scacchi (!), Zirkel (?) e Penck (3) provarono e sostennero dopo. Zirkel notò ancora che gli elementi della cenere si distinguono da quelli della lava consolidata: 1) per la grande abbondanza d'inclusioni vetrose nei cristalli e nei fram- menti di cristallo; 2) per la straordinaria predominanza di sostanza vetrosa rispetto agli altri elementi; 3) per le numerose cavità e per i pori gene- rati dai gas tanto nella sostanza vetrosa quanto nei cristalli; 4) in fine per i caratteristici fiocchetti, grumi e mucchietti di microliti, specialmente di augite e di magnetite. La cenere dell'eruzione etnea del 1911 mostra tutte le singolarità no- tate dal Zirkel, e non vi è dubbio che essa sia un prodotto della polveriz- zazione di un magma fluido, come è dimostrato dall'aspetto della sostanza vetrosa. Leopoldo Pilla (4) ritenne che i cristallini che si osservano nella cenere insieme con la sostanza vetrosa, si formassero durante il rapido raffred- damento delle piccole scorie lanciate dal vulcano. Scacchi (*) sostenne che i cristallini fossero già formati nell'atto della polverizzazione del magma e provenissero dalla rifusione di antiche lave in contatto con i nuovi mate- riali infuocati. Heim (°) infine dimostrò che i cristalli isolati ed i fram- menti di cristallo lanciati durante le eruzioni polverose fossero elementi segregati dallo stesso magma. Le eruzioni dell’ Etna del 1646 e del 1669 diedero abbondante emissione di cristalli isolati e completi di augite; le eruzioni che si son poi succedute fino ad oggi, non hanno dato che dejezioni di frammenti di cristalli e di sostanza vetrosa. (1) loc. cit., pag. 188. (2) F. Zirkel, Zehrbuch d. Petrographie, Bd. III, 1894, pag. 700. (3) loc. cit., pag. 125. (*) L. Pilla, Sur quelques minéraua recueillis au Vesuve et à la Roccamonfina. Compt. rend. Acc. d. Sc. Paris, 4 Aout, 1845, pag. 325. (5) loc. cit.. pag. 190. (9) H. Hein, Der Vesuv in April 1872. Zeitschr. d. Deut. geol. Ges., Bd. XXV, pag. 47. — 214 — Penck (') ha pensato che lo sminuzzamento degli elementi cristallini, già formati nel periodo intratellurico di cristallizzazione, possa avvenire per il rapido ed ineguale raffreddamento che essi subiscono nell'aria quando ven- gono lanciati. Difatti è provato che il rapido ed ineguale raffreddamento determina tensioni molecolari tali che possono fare rompere il cristallo; ma da questo fenomeno non si deve scompagnare quello della tensione eser- citata dai gas disciolti nella sostanza vetrosa inclusa, tanto più che se ne ha una conferma nel fatto che gli elementi più ricchi di sostanza vetrosa, come il feldspato, sono i più frantumati. Giimbel (*?) sostenne che la cenere dell’ Etna del 1879 si fosse formata per trituramento, sotto l’azione delle esplosioni gassose, della lava già con- solidata. Certamente non tutte le dejezioni frammentarie son dovute alla polverizzazione del magma fuso per azione dei gas da esso esalanti; possono anche derivare dal franamento e dal trituramento di antichi materiali del- l'imbuto craterico, come avvenne al Vesuvio durante l'eruzione del 1906 (*), e possono esser prodotte dalla esplosione dell'acqua in contatto coù le lave roventi, come è avvenuto sull'Etna ogni qual volta una colata ha investito il terreno umido o qualche deposito d'acqua (4), e come osservò Dutton nella lava del Mauna loa che, venuta in contatto con l’acqua del mare, formò tre monti di cenere (°). Avendo il vento, durante quest’ ultima eruzione dell’ Etna, sparpagliato irregolarmente per ogni dove la cenere, per potere avere con una certa ap- prossimazione la sua vera composizione chimica si son mescolati bene insieme ed in eguali proporzioni i varî campioni raccolti all’ Osservatorio Etneo (1 km. distante dal cratere centrale), a Ragalna (13 km. dal cr. c.), a Giarre (16 km. dal cr. c.), ad Aci Reale (21 km. dal cr. c.) ed a Catania (25 km. dal&“crWc5)! La cenere a 110° perde 0.082 p. c. d'acqua, con traccie di HCl. Nel- l'acqua lascia disciogliere: 2,40 p. ce. di solfato di calcio 0,34 p. c. di cloruro sodico con traccie di silice, di magnesia, d'allumina, di cloruro di potassio, di clo- ruro ferrico, di cloruro ammonico. () loc. cit., pag. 125. (*) Giimbel, Vulkanische Asche des Aetna, v. 1879. Jahrb. f. Min. u. Geol., 1880, Bd. I, pag. 852. ; (?) G. De Lorenzo, L’eruzione del' Vesuvio, aprile 1906. Nuova Antologia, fasc. aprile 1906. (4) C. Gemmellaro, Za vulcanologia dell’ Etna, part. II°. Atti Acc. Gioenia d. Ca- tania, 1860, ser. II, vol. XV, pag. 79, $ 87. (5) E. C. Dutton, Hawaiian Volcanoes. Am. Rep. of the U. St. geolog. Surv. 1882-83, pag. 181. — 215 — L'analisi globale (*) della cenere lavata e seccata a 110° dà: Sion gole dienità, Dorso IL Ioia bite Ti 0, . . . 5 . ° . . ° 1,988 » AI: 0. dl sno Orti ci SATIRO 19,817 » Fe, 0, . ° . ° . . . . ° 5,459 » PolOMi 0. Iprti ei i sioiono aa Miro OA AE 0 RIO CAO e e ORG ta Mg oo cv pe OO E AM co. NERO e A) 4 Dt HO e e. 0a P. 0, ° . ° . . 5 è . . 0,151 n St, CI Li, Cu, CV, Cr, Sr.=/0/009 » Confrontando quest'analisi con quella della cenere della eruzione del 1879, fatta da Schwager (*), si trova una certa coincidenza nella percentuale della silice, dell'allumina e dell'ossido di magnesio, mentre che per il TiO;, Fe, 03, FeO, Ca0, K,0 ed Na;0 si hanno differenze così forti che non possono attribuirsi ad una variazione nella composizione del magma: tanto più che le analisi delle lave del 1883, 1886, 1892, 1908 e 1910 mo- strano che il magma dell’ Etna non ha subìto, dal 1879 ad oggi, una notevole differenziazione chimica (*). Il Lasaulx poi non dice dove ed in quali condizioni fu raccolta la cenere del 1879 analizzata da Schwager, quando il Vogelsang (4) aveva già sin dal 1867 fatto rilevare che la cenere subisce nell’aria una naturale separazione meccanica, che ne fa variare da luogo a luogo la composizione mineralogica. Finchè non si tenterà di raccogliere con apparecchi adatti la cenere nell'atto in cui viene lanciata dal cratere, non si potrà stabilire alcun con- fronto esatto nè tra le ceneri emesse da un vulcano nei diversi periodi erut- tivi, nè tra la lava sgorgata nell'istessa eruzione. I sali solubili riscontrati nella cenere variano nei diversi campioni rac- colti: così la cenere caduta all’ Osservatorio Etneo contiene 0,97 p. c. di Caso, e 0,32 p.c. di NaCl; quella caduta a Catania 3,21 p.c. di CaSO, e 0,44 p.c. di NaCl, e quella raccolta a Ragalna 2,99 p.c. di CaSO, e 0,30 p.c. di NaCl. Non si sa se queste variazioni siano determinate dal- (') Analisi eseguita seguendo i metodi indicati da W. F. Hillebrand nella sua edizione tedesca: Analyse d. Silikat, u. Karbonatgesteine. Leipzig, 1910. (*) Sartorius v. Waltershausen u. Lasaulx, Der Aetna, Bd. II, pag. 464. (3) G. Ponte, Stud? sulla eruzione etnea del 1910. Atti Acc. d. Lincei, ser. 58, vol. IX. (#) loc. cit., pag. 176. RENDIGONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 28 — Qaee l'ineguale sparpagliamento della cenere nell'aria, o debbano invece attribuirsi ad oscillazioni nella quantità di vapori esalanti dal magma. Occorrerebbe fare una serie di ricerche sui materiali detritici raccolti sistematicamente e vicino all'orlo del cratere durante un dato periodo eruttivo. Cento grammi di cenere lavata con cloroformio purissimo (e questo eva- porato nel vuoto), han permesso di estrarre mmgr. 0,8 di una sostauza di color bruno chiaro che ha tutte le proprietà degli idrocarburi: è insolubile nell'acqua; macchia la carta come un grasso; brucia con fiamma luminosa e caliginosa; riscaldata in tubo chiuso, carbonizza ; nell’ H, SO, diventa nera e poi decolora con l'aggiunta di NHO;. Questa sostanza ha quindi gli stessi caratteri degli idrocarburi riscontrati in altri vulcani ('). Le dejezioni frammentarie — o materiali elasmatici, come Schneider (*) ha voluto chiamarli con termine più proprio — sono i più instabili prodotti dei vulcani; essi, sparpagliati dal vento e trascinati dalle acque, si mesco- lano con altre sostanze, perdendo rapidamente i loro più importanti caratteri originarî. Per queste ragioni si hanno limitate ricerche sui materiali cla- smatici dei vulcani: ricerche che, se fossero più estese, potrebbero portare alla conoscenza di nuovi ed importanti fenomeni. Gli Istituti che si occupano di ricerche vulcanologiche dovrebbero inte- ressarsi di raccogliere sistematicamente tutti i materiali dejettati dai vulcani, anche installando, là dove occorresse, apparecchi collettori automatici. Patologia vegetale. — Wa malattia batterica della « Mat- thola annua L.» (Bacterium Matthiolae n. sp.) (°). Nota del Socio G. Briosi e di L. PavaRINO (*). Col nome di Violacciocca volgarmente si designano due differenti specie di crucifere; il Cheiranthus Cheiri L., che è la comune violacciocca, e la Matthiola annua L., comunemente detta Quarantina. Dì quest’ultima, alcune varietà hanno notevole importanza commerciale, perchè coltivate su vasta scala, specie in parecchie zone della Liguria, dove coprono talvolta campi interi e forniscono abbondanti e splendidi fiori inver- nali, oggetto di rilevante esportazione e cespite di lucro non indifferente per quelle regioni. (') A. Brun, Recherches sur l'exhalaison volcanique. Paris, 1911, pag. 131. (3) K. Schneider, Die vulkanischen Erscheinungen d. Erde, 1911, pag. 46. (#) Il lavoro, corredato di tavole, verrà pubblicato in esteso negli Atti dell’Istituto Botanico di Pavia, ove le ricerche furono eseguite. (4) Pervenuta all'Accademia il 19 luglio 1912. — 217 — Nella Matthiola Quarantina, si è da alcuni anni manifestata una grave malattia, la quale si diffonde con rapido decorso, ed arreca danni tali che in talune località si dovette sospenderne la coltivazione. I sintomi della malattia cominciano ad apparire sulle foglie, ove si formano macchie di un verde pallido, a contorno indefinito, che dapprima si avvertono a mala pena e solo per trasparenza, grazie al contrasto fra il loro colore verde sbiadito ed il verde intenso del rimanente mesofillo della foglia, più ricco di clorofilla. In seguito compaiono piccole macchie brune a contorno irregolare e più o meno puntiformi, disseminate sul lembo fogliare. Spesso le foglie, specie le giovani, vengono più o meno deformate; non raggiungono le dimensioni normali ed il margine loro si fa revoluto verso la pagina superiore. Le infiorescenze sì arrestano nello sviluppo e diventano rachitiche, onde i fiori perdono il loro valore commerciale. Le ricerche vennero fatte su piante raccolte direttamente da noi, in diverse riprese, su quel di Loano, ove da qualche anno la malattia si è manifestata e fortemente diffusa. CARATTERI ANATOMO-PATOLOGICI. — La malattia non è limitata alle foglie, ma si estende a tutti gli organi della pianta; fiori, rami, fusto e radici. Sezionando i rami giovani, si trova che l'infezione invade da prima i vasi del legno che mostransi gialli od imbruniti e più o meno alterati. Attorno ai vasi infetti, la pianta forma zone di tessuto sugheroso che li avvolge e circonda, per impedire l’espandersi del male in senso trasver- sale e limitarne la diffusione nei tessuti. Più tardi il male può invadere tutto il legno, sino al midollo che, in taluni casi, si presenta fortemente COrTOSO. Nel fusto, l'infezione si manifesta prima nel legno primario, dal quale sì estende all'interno, verso il midollo, ed all’esterno verso il legno secon- dario, come facilmente rilevasi dall’ingiallire ed imbrunire delle pareti dei vasi e delle fibre e dalle sostanze aggrumate gialle, brune o nerastre che riempiono i lumi delle cellule dei tessuti malati. Nelle radici, l'infezione comincia generalmente nei fasci legnosi del cilindro centrale, indi si propaga al legno secondario; e gli elementi attac- cati (vasi, fibre, ecc.) si colorano al solito in giallo od in bruno, riempien- dosi contemporaneamente di sostanze grumose nerastre. Nelle foglie l'infezione si manifesta con le macchie pallide sopra de- scritte che sono dovute alla disorganizzazione dei cloroplasti per opera di microrganismi che numerosi veggonsi nelle cellule. Col progredire della ma- lattia, il plasma delle cellule si contrae e si raggruma provocando il rag- grinzamento delle pareti cellulari; quindi il tessuto si ammortizza ed ap- paiono nel mesofillo le macchie brune e depresse che già notammo sul lembo fogliare a malattia avanzata. — 218 — L'esame microscopico mostra nelle cellule dei tessuti malati numerosi « microrganismi mobili, isolati o riuniti in colonie, e non rivela alcuna traccia di micelio. Noi abbiamo coltivati detti microrganismi in diversi mezzi nutritivi procedendo nel modo seguente. Presi pezzetti di foglie, rami, fusto e radici malate, li abbiamo accu- ratamente lavati con acqua e sapone, poscia li abbiamo disinfettati con una soluzione al millesimo di sublimato corrosivo; indi li mettemmo in acqua distillata sterile e da ultimo li passammo in alcool ed etere. I pezzetti patologici così trattati, furono messi nei tubi contenenti i diversi terreni nutritivi da noi preparati, e da tutti gli organi infetti così trattati e seminati nei differenti mezzi nutritivi, noi ottenemmo sempre lo sviluppo di uno speciale microrganismo che presenta i seguenti caratteri morfologici e culturali. ASPETTO MICROSCOPICO E COLORABILITÀ. — Questo microrganismo ha la forma di piccoli bastoncini — lunghi 2-4 wu, larghi 0,4-0,6 — ad estre- mità leggermente arrotondate. Esso si colora bene con tutti i colori di ani- lina anche a freddo, ma specialmente col violetto di genziana e resiste completamente al Gram. Nel liquido delle colture in brodo si osservano vivaci movimenti vibra- torî e rotatorî di microrganismi che appaiono sotto forma di bastoncini o di sferucce a seconda della posizione in cui si presentano all’osservatore. COMPORTAMENTO RIGUARDO ALL’ossiGENoO. — In ambienti anaerobici il microrganismo non si sviluppa affatto o solo con grande lentezza, il che indica che è prevalentemente aerobio. COMPORTAMENTO RIGUARDO ALLA TEMPERATURA ED AI TERRENI NU- TRITIVI. — Si sviluppa bene a temperatura ambiente (15°C circa) e più rapidamente in stufa nei diversi terreni nutritivi, ma specialmente in am- biente neutro. COLTURE IN GELATINA. — In 24 ore, a temperatura ambiente, si forma per infissione una coppa di fiwidificazione iniziale che progredisce rapida- mente in forma cilindrica sino a che tutta la gelatina rimane fusa. Sulla superficie della coltura si forma di poi una pellicola abbastanza spessa che si distacca con l'agitazione, lasciando depositare in fondo alla zona di fusione un precipitato mucilagginoso biancastro, ed il liquido assume una bella co- lorazione verde-chiara nella parte superiore della provetta. COLTURE IN AGAR. — Per striscio su agar glicerinato, dopo 48 ore di stufa, si sviluppa una patina di color biancastro poco estesa e poco rile- vata e priva di lucentezza. Per infisstone lo sviluppo è ancora più scarso tanto che, dopo 48 ore di stufa, si osserva un fittone appena visibile che ben presto si arresta nel suo sviluppo. — 219 — In agar semplice la coltura si sviluppa assai meglio. Per strésezo, in 24 ore, si forma una patina lucente, succosa, piuttosto rilevata, con margine lobato, di colore biancastro e con tendenza ad occupare tutta la superficie libera del tubo. Per 7nfissione sì ha un fittone che discende sino in fondo alla provetta, mentre alla superficie si allarga in forma di disco patinoso biancastro nel cui centro appare col tempo una macchia tondeggiante gialla. CoLtuRE IN BRODO. — Nel brodo alcalino si ha scarsità di sviluppo, con leggero intorbidamento e formazione di un deposito poco abbondante; nella parte superiore del tubo il liquido assume un color verde-pallido. Nel brodo semplice lo sviluppo è più rapido e rigoglioso; in 48 ore di stufa tutta la coltura diventa omogeneamente torbida e lascia depositare un abbondante sedimento bianco-sporco che col tempo diventa giallognolo. Alla superficie e lungo le pareti della provetta si forma una pellicola che si distacca facilmente, mentre il liquido assume una colorazione verde chiara. CoLTURA SU PATATA. — A temperatura di stufa si sviluppa, in 48 ore, una patina grigio-biancastra, succosa, assai rilevata con tendenza ad espan- dersi. Invecchiando, le colture assumono un aspetto granuloso ed un color giallognolo tendente al bruno. ATTIVITÀ CHIMICHE. — Dalle provette si sviluppano gas puzzolenti, ma non acido solfidrico, ciò che si ebbe a verificare esponendo sulle colture una cartina all’acetato di piombo, previamente esposta ai vapori di ammo- niaca. RIPRODUZIONE ARTIFICIALE DELLA MALATTIA. — Per assicurarsi che la malattia era dovuta veramente all'azione patogenica del microrganismo da noi isolato, abbiamo infettato alcune piante rigogliose di Matthiola spruz- zandole con brodo molto diluito di coltura pura. In capo a pochi giorni si ottenne la riproduzione del male sulle parti aeree delle piante spruzzate con gli stessi caratteri esterni e le stesse alte- razioni anatomiche (nelle foglie e nei rami giovani) che noi abbiamo de- scritti nelle piante ammalatesi naturalmente. L'infezione si è rapidamente diffusa sulle foglie e sui rami estenden- dosi alle infiorescenze che fece completamente seccare. Le piante hanno potuto gettare ancora qualche ramo fiorifero, ma dal portamento stentato e con pochi fiori. Fu tentata anche l'infezione per le radici, bagnando con soluzioni di colture pure il terreno di alcuni vasi nei quali eranvi piante sane, ma non si ebbe in capo a due mesi, nessun sintomo di deperimento. Per l'infezione delle radici forse bisognava procedere a qualche preven- tiva lesione, ciò che noi non abbiamo fatto per mancanza di materiale adatto. — 220 — Si è potuto stabilire che la via più comune dell'infezione è quella degli stomi, ciò che si rende palese con la colorazione giallognola che dagli stomi medesimi si propaga alle cellule circostanti, nelle quali si osserva la solita disorganizzazione dei cloroplasti e del protoplasma. Cogli organi infettati artificialmente, furono ripetute le colture nei di- versi mezzi nutritivi per l’ identificazione dei caratteri morfologici e colturali del microrganismo da noi precedentemente isolato e descritto. Questo microrganismo deve ritenersi come una specie nuova e la deno- miniamo Bacterium Matthiolae n. sp. ELEZIONI DI SOCI Colle norme stabilite dallo Statuto e dal Regolamento si procedette alle elezioni di Soci e Corrispondenti dell'Accademia. Le elezioni diedero i risultati seguenti per la Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali: Furono eletti Soci nazionali: Nella Categoria II, per la Fisica: MARCONI GUGLIELMO; per la Crz- stallografia è Mineralogia: VioLa CARLO. Furono eletti Corrispondenti : Nella Categoria I, per la Matematica: Loria Gino; per la Mecca- nica: MarcoLongGo RoBERTO; per l' Astronomia: CeRULLI VINCENZO. Nella Categoria II, per la Chimica: GuagEScHI IciLio. Fu inoltre eletto Socio straniero: Nella Categoria I, per la Geografia matematica e fisica: MuRRAY JOHN. L'esito delle votazioni venne proclamato dal Presidente con Circolare dell'11 luglio 1912; le elezioni dei Soci nazionali e del Socio stranierio fu- rono sottoposte all'approvazione di S. M. il Re. K. M. Pubblicazioni delia k. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell'Accademia pontificia dei Nuovi Lincei. Tomo I-XXIII Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2° — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1% TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol MEV Va AVISANIIS:VIIE Serie 3* — TRransUNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II. (1, 2). — III-XIX. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpiIcoNTI. Vol. I-VII. (1884-91). MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e. naturali. Vol. I-VII. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RenDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XXI. (1892-1912). 2° Sem. Fasc. 3°. RenpIcONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XXI. (1892-1912). Fasc. 1°-2°. MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-IX. Fasc. 3°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCRI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia è di L. £®; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai: Ermanno LoescHer & C.° — Roma, Torino e Firenze. Urrico Hoepli. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Agosto 1912. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI pervenute all'Accademia durante le ferie del 1912. Di-.Stefano. Intorno ad alcune faune cretaciche del Deserto arabico . . . . . . . Pag. Orlando. Sulla trasformata di Tschirnhausen (pres. dal Corrisp. Di Legge) . . . . . » Armellini. Sopra l’integrabilità dell’equazioni differenziali della meccanica (pres. dal Socio MTA) IEEE - : - SR) Amadori. Sulla tendenza a N TR fl da e fosfati dello a I — I. Clo- ruri e fosfati alcalini (pres. dal Socio Ciamiciam) . . . SO AL) Padoa e Tabellini. I coefficienti di temperatura delle SARTO ani E Loria i Id.) » Id. e Santi. Relazioni fra la fototropia e la costituzione (pres. /d.) . . . . SEMERIANE) Sandonnini. Sulla tendenza degli alogenuri alcalini a combinarsi cogli ssi d’argento (presa) een E IATA a et pie e en Jona. Bruno- e SES SA (n Id). 1 li (ERE 7 VAZIES E n Ponte. Sulla cenere vulcanica dell’eruzione etnea del‘ 1911 Gue dal Soria! Struver) . . » Briosi e Pavarino. Una malattia batterica della « Matthiola annua L.» (Bacterium Mat- thlol'afesn:ssp.) rs. «RO O ELEZIONI DI SOCI Risultato delle elezioni nella Classe di scienze fisiche, matematiche ec naturali. Nomina dei signori: Marconi Guglielmo, Viola Carlo a Soci nazionali; Loria Gino, Marcolongo Roberto, Cerulli Vincenzo, Guareschi Icilio a Corrispondenti; Murray John a Socio straniero sari a baaiata + a: RO AN I ERRATA-CORRIGE A pag. 121 linea 9 dal basso invece di opposto lego. eguale. 167 172 177 182 188 19 196 202 209 216 220 E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. Pubblicazione bimensile. Roma 25 agosto 1912. N; 4. SEDI Sl Je REALE ACCADEMIA DEI LINCHI ANNO CCCIX. 1912 SER. QUINTE. A: RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XXI. — Fascicolo 4° 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all'Accademia durante le ferie del 1942. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d’arrivo). ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1512 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serze quinta delle. pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti: 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del: l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l'autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz'altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la “Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - 4) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’art. 26 dello Statuto. - è) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell'Accademia. 3. Nsi primi tre casì, previsti dall'art. pre. cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELI.A REALI ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI pervenute all'Accademia durante le ferie del 1912. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d'arrivo) AN Chimica fisica. — Sulla tensione superficiale delle soluzioni proteiche (*). Nota del Corrisp. FiL. BorTAzzI (?). Io ho avuto già occasione di criticare l'opinione di J. Traube (3), se- condo cui l’albumina non è capace di abbassare in modo degno di nota la tensione superficiale dell’acqua. Ciò non ostante, Rona e Michaelis (4), igno- rando quello che io ho pubblicato, non solo in lingua italiana (5) ma anche in tedesco (°), a questo riguardo, prendono l'affermazione di Traube come verità indiscussa, e su essa fondano alcune loro ricerche, che non è qui il caso di esaminare. Alla tensione superficiale delle soluzioni proteiche Robertson consacra, nel suo recente libro ("), poche righe, e non cita le mie ricerche. Notizie (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Fisiologia di Napoli. (*) Pervenuta all'Accademia il 30 luglio 1912. (3) J. Traube, Die osmotische Kraft. Pfliùger's Arch. f. Physiol., Bd. 123, pag. 419, 1908. A pag. 432, in nota, il Traube scrive: « Wihrend Emulsionen... sowie das Eiweiss die Oberflichenspannung des Wassers fast gar nicht erniedrigen, erniedrigen Peptone und Albumosen dieselbe sehr stark... ». (4) P. Rona und L. Michaelis, Beitràge zur allg. Erweisschemie, IV, Bioch. Zeit., Bd, 41, pag. 165, 1912. (5) Fil. Bottazzi, Ricerche sopra soluzioni di° colloidi organici, Arch. di Fisiol, vol. VII, pag. 579, 1909. (5) Fil. Bottazzi, in 0. Neuderg?s: Der Harn ecc., pag. 1715, Berlin, 1911. Vedasi anche: Aolloidchem. Beihefte, Bd. III, pag. 165, 173 segg., 1912. (*) T. Brailsford Robertson, Die physikalische Chemie der Proteine, Dresden, 1912, pag. 306. RenpIGONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 29 — n un poco più estese si trovano nell'opera di Wo. Ostwald (?), in quella di Freundlich (*?) e nel mio capitolo Oberfldchenspannung (pp. 1714 e seg.), in Der Harn di C. Neuberg (loc. cit.), dove io giungo alla conclusione: « dass die Proteine im Zustand vollkommener Lòsung die Oberflichenspan- nung des Wassers erniedrigen und dass die Erniedrigung in gewisser Weise ihrer Konzentration proportional ist ». Dalle ricerche che finora hanno fatto gli autori che si trovano citati più comunemente nei libri sopra ricordati, risulta evidentemente che essi non si sono preoccupati di due cose importantissime: 1°) se le sostanze pro- teiche da loro usate erano pure; 2°) se esse erano in grado di dare una « soluzione », o se invece nei liquidi esaminati si trovavano allo stato di sospensione. Infatti, da una parte si sa che minime quantità di grassi o di altri corpi egualmente attivi bastano a produrre un forte abbassamento della tensione superficiale, e dall’altra è chiaro che le sostanze allo stato di so- spensione anche microgranulare non modificano in modo degno di nota la tensione superficiale dell'acqua. Quindi, tutte le ricerche fatte sul siero di sangue o altri liquidi dell'organismo, e quelle fatte sopra sospensioni o s0- luzioni di caseina, che è sempre inquinata da grassi, sopra così dette « s0- luzioni » che però in realtà non sono che « sospensioni » di proteine ecc., più o meno inquinate da sostanze capaci di elevare o abbassare da sè sole la tensione superficiale dell’acqua; tutte queste ed altre somiglianti ricerche, dico, non hanno alcun valore per risolvere il problema che qui si discute. Alcune delle presenti ricerche sono state fatte con caseina, per dimo- strare appunto che questa proteina non è da scegliersi in esperimenti di tensione superficiale; le altre, invece, sono state fatte con sieroalbumina e sieroglobulina purissime, servendomi del metodo stalagmometrico di Traube per svelare le variazioni di tensione superficiale: metodo che è comodissimo ed esattissimo, potendo bastare anche il solo numero delle gocce, senza de- terminare il peso specifico, quando si tratta di scoprire differenze notevoli di tensione superficiale in soluzioni relativamente molto diluite. Lo stalag- mometro era immerso in un termostato ad acqua regolato alla temperatura di 28°C. l1. — ESPERIMENTI CON LA CASEINA. a) La sospensione 2°/ di caseina Merck in acqua calda, mantenuta per più ore in agitazione, presenta un aspetto lattiginoso ed è abbastanza stabile. Viene riscaldata più volte a 70-80°, per evitare la putrefazione e per renderla più stabile. (1) Wo. Ostwald, Grundr. d. Kolloidich., 2 Aufl. Dresden, 1911, pp. 225-226. (*) H. Freundlich, Capillarchemie, Leipzig, 1909. — 223 — Stalagmometro Traube, in termostato a 28°C: Acquagbidisti ata eee, e RM 00CCe N. DO Sospensione di caseina M.. . . . eu TEMO P RNA: La stessa sospensione, Vinit con soluziooi normale di Na OH fino a completa chiarificazione . . DUO TO Altra sospensione di caseina M. 2°/,, dello stesso aspetto lattiginoso : gocce n. 72-73; 10 cm? di essa + 2,1 cm? sol. 0,1% NaOH (quasi com- pleta chiarificazione), gocce n. 74. 6) La sospensione 2°/ di caseina Kahlbaum (preparata secondo Hammarsten) in acqua bollente, è opaca, ma non lattiginosa. Si aggiunge soluz. norm. di Na OH fino a completa chiarificazione, e poi altro alcali in eccesso. Quindi si aggiungono al liquido, a intervalli di qualche giorno, quantità eguali di caseina in polvere, e si agita fortemente in un agitatore automatico. La caseina aggiunta, via via, sempre si scioglie, mentre il liquido diventa sempre più viscoso, e la sua reazione, prima fortemente alcalina alle carte, va man mano diminuendo, finchè da ultimo diventa acida. La quantità di caseina che si può in questo modo sciogliere nello stesso volume originale di acqua è incredibilmente grande. Si fanno le seguenti determi- nazioni successive dal numero di gocce, usando sempre lo stesso stalagmo- metro, a 28°: Atcquanidistillata iREtResn TSI 0. i MPS COCCEC. DO Prima soluzione di caseina K. Me VO ” 10) Dopo l'aggiunta di altra caseina. . . . .. . ” 75 Dopo altra aggiunta di caseina . . . ) 77 Dopo la terza aggiunta di caseina (il liquid è sfimioito viscoso: ogni goccia impiega 35” a staccarsi) . ” 79 La stessa soluzione, dopo l’aggiunta di 2 cm* H,0 a 10 cm? di soluzione . . ” 76 La stessa soluzione, dopo (igionta di 2 cm oa. OSANO OE e e i) 73-74 SOlUZIBONIE7ANa (OE RE 00 O » 84-55 c) Caseina Kahlbaum (preparata secondo Hammarsten) lavata per molti giorni prima con etere etilico, poi con etere petrolico, indi disseccata. Lo stesso stalagmometro Traube, alla temp. 28°C: Acqua distillata. . . . MRI goccelnioo Sospensione della detta caseina K. circa 1 gr. in 50 cm di acqua distillata; liquido torbido . . . . . ” 60 — 224 — La stessa sospensione + 6 gocce di soluz. 7 Na0H; la caseina si scioglie tutta, eccetto i granuli più grossi gocce 66 La stessa soluzione di caseina + circa gr. 1,5 della ca- Selna secca; dopo ;chessimeNsciolta e N eee ” 75 d) Soluzione molto concentrata di caseina Kahlbaum in soluzione di Na0H, limpida, molto viscosa, di reazione pressochè neutra, che allo sta- lagmometro di Traube dà, a 28°C, 79 gocce. Si mettono in 11 bicchierini 10 cm? di detta soluzione, e quindi si aggiungono in ciascun bicchierino acqua e soluz. 0,17 Na OH nelle seguenti proporzioni; di ciascun miscuglio sì determina il numero delle gocce: Cm? soluz. caseina . . 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 Colt ia ele el 10 Cmodsoluz: (0.1 NaOH | 10 |ROR MSA ZA 60 I Le 5 MARE O Gocce n° . . . . . |805/,1801/,80*/3|80:/,|791/,; 70| 78| 77 [76:/,\76'/,| 76 Da questi esperimenti risulta che: 1). La « caseina » Merk abbassa la tensione superficiale dell’acqua già allo stato di sospensione, cioè prima di aggiungervi l’alcali per scio- gliere la proteina. Ciò dimostra che contiene impurità, cioè grassi del latte. La « caseina » Merck è più impura di quella Kahlbaum. Ma anche questa, non ostante un'estrazione prolungata con etere, abbassa di 5 gocce la ten- sione superficiale dell’acqua quando si trova allo stato di sospensione, il che può dipendere da tracce di sostanze grasse, o di sostanze proteiche so- lubili, in essa rimaste. 2). L'aggiunta di Na OH, per cui la sospensione di caseina si tras- forma in soluzione, produce sempre un grande abbassamento della tensione superficiale (numero massimo di gocce: circa 81, cioè 26 gocce più dell’acqua distillata), anche quando l'esperimento è fatto con caseina Kahlbaum estratta con etere. L’abbassamento aumenta con l'aumentare della concentrazione della soluzione di caseina. 2. — ESPERIMENTI CON SIERALBUMINA. a) Sospensione in acqua distillata di sieralbumina mista (!) di siero di sangue di bue e di siero di sangue di cane, dializzati per più mesi (*) Come fu ottenuta questa sieralbumina dirò in un’altra Nota; provvisoriamente la chiamo « sieralbumina mista ». ‘— 225 — (circa 7 mesi); è un liquido torbido; stalagmometro di Traube; temp. 28° C: Acqua distillata. . . . . .- . gocce 50 Sospensione di sieralbumina ine di 3 i aste) ; ” 60 1/, 10 cm? di questa sosp. + 1cm sol. 0,1x Na0H . ” 64 1/5 b) Altra sospensione della stessa « sieralbumina mista » di bue e di cane; lo stesso stalagmometro, alla temperatura di 14° C: AGquafdisuiliatame ene e n... . dei gocce, 04.1/3 10 cm? della sospensione. . . . «ISO. ” 64 La stessa sospens. + 10 gocce Ana 0,1 Na 0H (il liquido si chiarifica in parte) . . . . . ” 65 1/3 La stessa soluzione + 2 gocce soluz. x Na OH (il liquido si chiarifica perfettamente). . . . . pe c) Soluzione mediocremente concentrata di sieral- bumina di bue (siero di sangue di bue dializ- zato per più mesi e poi concentrato nel vuoto) ” 64 1/3 d) La « sieralbumina mista » di bue e di cane viene lavata più volte successivamente con acqua distillata. Dopo ogni lavatura, si lascia depositare la sieralbumina che non si scioglie; e quando il liquido sopra- stante è divenuto limpidissimo, come acqua, se ne decanta una porzione, e si determina il numero di gocce che dà allo stalagmometro Traube : Acqua distillata . . . 6 . Memgocce) 154:1/> Primo liquido di lavatura della SieralbuminA ” 62 !/,-63 Secondo » ” 7 "6 2/00=16205 Terzo ” ’ 7 62 ,-621/, Quarto ” ” ’ a) 61!/,- 62 Il liquido di lavatura, sebbene abbia l'aspetto dell’acqua pura, trattato con alcool e altri reattivi, dimostra di contenere notevole quantità di pro- teina sciolta. La « sieralbumina mista » non è, dunque, insolubile, ma poco solubile in acqua. La piccola quantità che se ne scioglie è già sufficiente a deter- minare un notevole abbassamento della tensione superficiale dell’acqua. A giudicare dal numero di gocce prossochè eguale che dà ciascun liquido di lavatura, si può affermare che la quantità di « sieralbumina mista » che si è sciolta ciascuna volta è stata approssimativamente eguale. L'abbassa- mento della tensione superficiale che presenta la sospensione è, dunque, do- vuto alla parte sciolta della sieralbumina. La soluzione ordinaria di sieralbumina, che è poi il siero di sangue dializzato per breve tempo e liberato dal precipitato che si forma durante — 226 — la dialisi, non è nemmeno, secondo il mio modo di vedere, il liquido ideale per ricerche di questo genere, perchè, come si sa, il siero dializzato per breve tempo presenta sempre una certa tinta giallastra, tanto più intensa quanto maggiore è la concentrazione della sieralbumina e quanto più breve è stata la dialisi: tinta che dipende verosimilmente dal lipocromo del siero che durante le precipitazioni (anche quelle fatte con sali) rimane sempre legato alla frazione sieralbumina. Ora questa sostanza colorante potrebbe essere non inattiva sulla tensione superficiale Il siero di sangue dializzato per parecchio tempo, invece, è incoloro. Questo siero è una soluzione ottima di sieralbumina per ricerche di tensione superficiale. Comunque sia, con la sieralbumina si. raggiunge un aumento di non più di 10 gocce rispetto all’acqua, il che dipende dal fatto che io non potei fare (a causa della scarsezza della « sieralbumina mista » precipitata) solu- zioni molto concentrate di proteina in presenza di alcali. Tuttavia, essendo la sieroalbumina perfettamente sciolta, come dimostra l'esame ultramicro- scopico del liquido (che sì presenta otticamente affatto omogeneo), non può dubitarsi che l'abbassamento osservato della tensione superficiale dell’acqua sia dovuto alla proteina. 8. — ESPERIMENTI CON SIEROGLOBULINA. Globulina di siero di sangue di bue dializzato per molti mesi. Raccolta dai dializzatori, fu lavata sul filtro con acqua distillata abbondantemente; indi disseccata in una corrente d'aria calda, polverizzata, estratta con etere, conservata in essiccatore su cloruro di calcio. È una polvere fine, bianco- grigiastra. Si fanno con questa globulina i seguenti esperimenti: a) Sospensione di globulina, finemente polverizzata, in acqua distil- lata. La sospensione è poco stabile. Stalagmometro di Traube; temp. 28°C: Acquagdistillata?t*<". cesso gocce 55 Sospensione di globulina in acqua distillata . . . ” 56 1/2 Soluzione della stessa globolina in soluz. n di Na OH (reaz. fortemente alcalina) . . ..... . ’ 66 1/, Si filtra la sospensione di globulina; al filtrato si aggiungono 5 gocce di soluz. x Na OH (reaz. for- bementebalcatina): Pre RO ” 55 1/s L'esperimento dimostra che la globulina non abbandona all'acqua so- stanze che per sè stesse o per l’aggiunta di Na OH abbassino la tensione superficiale; mentre l'aggiunta di Na OH alla sospensione, determinando la — 227 — soluzione della proteina pura, produce un notevole abbassamento della ten- sione superficiale. 5) Sospensione di globulina, finemente polverizzata, in acqua distil- lata. Si mette nell'acqua una quantità grande di globulina per poterne de- terminare gradatamente la soluzione (nel termostato, a 28°C) mediante più aggiunte successive di soluz. 2 Na OH. Acqua distillata . . . . RE NICOccertiDo, Sospensione di globulina in acqua, logo aver losciato che ne sedimentasse l’eccesso . . . SIChe ” 56 !/, La stessa sospensione, dopo aver aggiunto 5 gocce di soluz. x Na OH (si lascia 24 ore nel termostato, agitando spesso); dopo sedimentazione dell’eccesso di globulina (rigonfiata ma non sciolta) . . . ” 63 !/s La stessa, dopo aggiunta di dieci gocce soluz. x Na OH (24 ore in termostato, agitando); più ui De sì è sciolta, ma non tutta . . . 5 î ” ES La stessa, dopo aggiunta di altre dieci gocce Sa n Na 0H; la soluzione ha un colore giallo-bruno; rimane ancora un poco di globulina non sciolta ” 75 !/a Questo esperimento dimostra il progressivo diminuire della tensione superficiale coll’aumentare della concentrazione della globulina sciolta. c) La soluzione alcalina di globulina, piuttosto concentrata, dell’espe- rimento precedente, filtrata; è limpidissima, molto viscosa. Si prendono due porzioni di 20 cm? l'una, si mettono in due bicchierini, e all'una si aggiunge a gocce acqua distillata, mentre all'altra si aggiunge anche a gocce soluz. n HCl. —. 228 —- A 15) 20 cm? soluz. globulina + HC1% 20 cm? soluz. globulina + Hs0 Gocce See (Dt Gocce Gocce SEd HCln stalagmometro Osservazioni H20 allo Osservazioni aggiunte (30° C) aggiunte stalagmometro 1 75 !/a- 74 3/4 | Limpida 1 OR 1 1 75 1/4 - 75 | Meno limpida 1 Tod STIA 1 75 1/1- 75 ” 1 ” 1 75 1/2 75 t/a DI 1 D) 1 75 '/4-75'/s| Un poco torbida 1 » 1 75 1/4-75 t/a Più torbida Il D) 1 15 1/4 -75 1/4 | O) 1 161/154 108 Moio ” 1 » 1 75 1/2-75?/s ” 1 ” il TO -75 Sempre più torbida 1 ” 1 o ao ” | ” 1 75 !/4- 75 ” 1 75 !/a- 75 1 |753/.-75 ” 1 » 1 743/,-75 D) Il D) 1 74 3/a- 74 Molto torbida 1 ”» 1 74, -731/4 Precipitato 1 75-75 1 78 3/4- 73/5 ” 1 Tm -975/4 Peso specifico: 1,0153 Peso specifico: 1,0106 Come si vede, la diluizione con acqua della soluzione alcalina di glo- bulina non ne modifica affatto la tensione superficiale, a causa dell’eccessiva concentrazione della soluzione. L'aggiunta di acido cloridrico provoca una pic- cola variazione della tensione superficiale, probabilmente per la stessa causa. d) Per mettere in rilievo, meglio che non sia stato fatto nelle espe- rienze precedenti, l'influenza della concentrazione della proteina sulla ten- sione superficiale della soluzione, si prendono 4 soluzioni variamente concen- trate di Na OH, e in ciascuna di esse si aggiungono quantità note crescenti di globulina, determinandone la perfetta soluzione e poi contando ogni volta il numero delle gocce allo stalagmometro. I risultati sono raccolti nella seguente tabella I e graficamente rap- presentati nella fig. 1, dove le quattro curve corrispondono alle quattro so- luzioni di Na OH. Da essì risulta evidentemente che /a tensione superficiale della solu- zione diminuisce coll’aumentare della concentrazione della proteina sciolta in ciascuna delle 4 soluzioni di Na OH. — 229 — VAIL pr cnnn—m—___————&rrm< so sari Lo _ »i 0,704 78%/; da i 1A di Sha nb 0.845 744): = a se = Di = 1,055 75%); 55 n ni PI De = 1,210 755/, SR — ta se Di ua 1,410 76%), ns pe Sa 23 Se fi 1,690 77%), 2 de ca Da. ReNDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 30 65 È Numero delle gocce allo stalagmometro l'raube > Op 09 og Mesi © Vip= ora TIRI EEN DIO Grammi di sieroglobulina sciolti in 100 cme. di soluzione > EIGARIE È noto che in presenza di acidi o di alcali le proteine formano com- binazioni saline le quali sono in certo grado dissociabili, con formazione di ioni colloidali, e che il grado di dissociazione, e quindi il rapporto fra il numero delle molecole saline non dissociate e il numero degli ioni, può variare sotto l'influenza di varii agenti e di varie condizioni. Ora, le pro- prietà chimico-fisiche delle soluzioni proteiche pure, p. es. la viscosità, va- riano col variare del grado di dissociazione del sale di proteina. Si verifica qualche cosa di analogo, per quanto riguarda la tensione superficiale; cioè, varia essa, e in che senso, col variare della dissociazione delle combinazioni saline delle sostanze proteiche ? Dalle ricerche che ho fatte finora, a questo proposito, insieme col mio assistente dott. E. D'Agostino, e che saranno pubblicate in una Nota suc- cessiva, risulta evidentemente che esiste una differenza profonda, circa il potere di deprimere la tensione superficiale dell’acqua, fra la proteina pura o i sali non dissociati di essa, da una parte, e i prodotti di dissociazione di questi; così che noi potremo dare una risposta precisa al problema dianzi enunciato. Cogo Fisica matematica. — Formule del Green e metodi del Betti nella teoria del moto lento dei liquidi viscosi. Nota I di UMBERTO CRUDELI, presentata dal Corrisp. A. Di LEGGE ('). Nella teoria del moto lento dei fluidi viscosi incomprensibili contem- pliamo due rami di ricerche, intendendo poste nel primo ramo tutte quelle ricerche che riguardano la costruzzone di moti, e nel secondo ramo le ri- manenti ricerche. T MOTI NON STAZIONARII. I. Un pregevole contributo ad entrambi i rami di ricerche è stato por- tato dal sig. C. W. Oseen con diversi suoi lavori, in particolare con le sue «< formules de Green généralisées qui se présentent dans l’hydrodinamique et sur quelques unes de leurs appilcations » (*). Formule che vengono sta- bilite (inspirandosi appunto al procedimento del Green) col sussidio di un sistema di soluzioni singolari del sistema di equazioni da DIDO 21. «or N + uA°u ELA dp — le Av di dI une dw' p' i NS =— + +buA2%w “o at DUAN Id = ia = =) dÌ ui dI DE d6 che dicesi sistema aggiunto rispetto al sistema delle equazioni del moto lento du dp ee 1A°u Sy dÌ url dv d7 —=YT_-_- 14°*v e manie DET ta dU dv dw =bt_at+<=0 dE UÈ dI DE dÙ (') Pervenuta all'Accademia il 6 agosto 1912. (*) Acta mathematica, 1911, pag. 205 — 232 — Io qui, seguendo altri criterî, mi propongo di mostrare come, qualora st voglia restare nel secondo ramo di ricerche, qualora, cioè, non si miri anche a costruire contemporaneamente delle soluzioni del sistema (1), ma si voglia soltanto operare sopra soluzioni del sistema (1), si può stabilire direttamente un sistema di formule valevole per il moto continuo lento dei fluidi viscosi, omogenei ed incompressibili, dei quali si consideri una porzione interna. Un sistema di formule, cioè, il quale sussista necessariamente per ogni sistema di soluzioni delle (1) (intendendo, ben inteso, che quest'ultimo sia della natura che verrà indicata quì appresso). Nei primi membri delle formule in discorso figureranno rispettivamente w,v,w,yp nell'interno della porzione di fluido considerata (la p a meno di una funzione del tempo, sol- tanto del tempo, come sarà qui appresso naturale) e nei secondi membri, oltre alle costanti assegnate 0 e u e, sotto segni di integrali, alle compo- nenti delle assegnate forze di massa ed a funzioni ben note della teoria del potenziale o della teoria della propagazione del calore, figureranno sol- tanto, sotto segni di integrali, nel senso che risulterà in seguito manifesto, le seguenti quantità (quantità che, ricordiamolo incidentalmente, non potreb- bero, per esuberanza di condizioni, assegnarsi ad arbitrio) cioè le %,v,w sul contorno della porzione di fluido considerata, durante tutto il decorso del du dv dw dn’ di di il medesimo decorso del tempo, e, trattandosi di moti non stazionarî, le u,v,w nell'istante iniziale #4, in tutta la porzione di fluido considerata. Noi intenderemo implicitamente che le v,v,, soddisfino alle restrizioni poste dal sig. Oseen. 2. Indicheremo con (t) lo spazio (per ipotesi limitato) occupato dalla porzione di fluido considerata, al tempo #, e con S(t) il contorno della porzione di fluido medesima (ben inteso di natura tale da rendere lecite le nostre operazioni). Per brevità, scriveremo © ed S. E intenderemo che durante tutto il decorso del tempo, che si suppone di considerare, la natura del contorno S sia tale da rendere lecite le nostre operazioni. Inoltre, con w, indicheremo, sul contorno, la componente normale della velocità del fluido. Sarà, quindi, tempo, le (derivate normali) sul contorno stesso, durante tutto Un = U COS nx + v cos ny + w cos ne. Ciò premesso, vogliamo, anzitutto, mostrare come la formula, che tro- vasi fra quelle del sig. Oseen (valevole per ogni punto i/erzo dello spazio w) (1) i (E DI =) RA @ Ln (td % (05 — pcosna + cut) +3) + -( dS e d$ dn dn +ef ZE )+- {tek Nwosart) 7, (*) Loc. cit., pag. 223. — 233 — può ottenersi, nel nostro caso, direttamente, per altra via, senza ricorrere al sistema aggiunto considerato dal sig. Oseen. A tale scopo, incomincio con l’osservare che, avendosi, ze/l’interno, in virtù della formula ordinaria del Green, 1 . d- inu= | un B_- — (Ida (1 feudo 6 r dn Va P e le due analoghe relative a v e w e che essendo DAI, dp i St 1 2 REY” dÉ preda dv SS 2 Q > > + u 4°v 0 SI — ye De + ujd°%w dove DA n de= —@ de” E dn dÒ° risulta, nell'interno (), ‘ d (È 1 du 5) 4 5) b] è] 3 I a pro (3) muuae,y,8,t)=w Ki dS_ wu LO S+ X 1 du 19p +SEdo-e [7340 “este a 77 SE n fL a+ X IL PL d SÉ (nossa do — IC eee dA +(È w Q % ger): a dS , pedi e le due analoghe, che indicheremo rispettivamente con (4) e (5). Ora, si ponga di > |M > Rd dai ade al di to di E° da cui (') Quando diremo nell’interno, intenderemo sempre nell’interno della porzione di fluido considerata. — 2394 — Inoltre venga indicata con o una porzione (fissa) di spazio, limitata da una superficie sferica s di raggio #, la quale sia, durante un certo int vallo di tempo ©, 7», interna alla massa fluida considerata ed abbia il centro (Git= nel punto (x ,y,<) che riguardiamo ora come un punto /isso dello spazio. Con w' indicheremo, durante l'intervallo 7, 72, lo spazio che si ottiene gliendo 0 da . Avremo, durante il suddetto intervallo 7, 7, del tempo, to- si E dw i 1 DA 5 pale» I - (O) ==0C 1m _. h old La dU Sicchè, durante l'intervallo stesso, scrivendosi (per definizione) (°) 2 u nf e, sarà DÈ s(e E ET IT dU dv dw . Ovvero, tenendo presente che —- =0, avremo Dos DE n 21) or DA i N (- d( (iran fan prg (E vige do . do. Fisica. — Su rivelatori di onde elettromagnetiche fondati sull’emissione elettronica dei fili incandescenti. Nota di QuIirINO MAJORANA, presentata dal Socio P. BLASERNA (). Una certa categoria di rivelatori di onde elettromagnetiche utilizza fe- nomeni per cui perturbazioni od onde elettriche provocano passaggio di elet- tricità in guisa dissimmetrica, rispetto al segno delle cariche elettriche istan- tanee generate. Così, sotto l’azione delle onde, si finisce per raccogliere corrente continua, per la quale riesce più facile il costruire sensibilissimi indicatori. In questa categoria, oltre ad altri ben conosciuti, sono compresi i rivelatori che utilizzano il passaggio unilaterale di elettricità provocato dai filamenti incandescenti, e cioè la valvola di Fleming e l'audion di De Forest. Scopo di questa Nota è di studiare particolarmente questi ultimi rive- latori per poter, in una successiva, indicarne un nuovo tipo che, pur essendo fondato sull’utilizzazione del medesimo fenomeno, è caratterizzato da indipen- denza dell'effetto delle cariche elettriche (generate da perturbazioni o da onde elettriche) dal segno delle cariche stesse. Questo nuovo rivelatore pre- senta inoltre, in certi casi, sensibilità di funzionamento notevolmente supe- riore a quella dei rivelatori sin qui conosciuti. Accennerò anzitutto breve- mente alla storia dei fenomeni che hanno condotto alla realizzazione di questi tipi di rivelatori. Che l’aria divenga conduttrice dell'elettricità in vicinanza dei corpi caldi. era cosa conosciuta anticamente, e si deve a Becquerel lo aver dimo- strato che, già al rosso, essa disperde le cariche dovute anche solo ad una piccolissima frazione di volt. Più tardi, Guthrie cominciò, per il primo, a far vedere che il fenomeno dipende anche dal segno delle cariche. Si deve poi ad Elster ed a Geitel (1882-1889) uno studio sistematico che ha gettato molta luce sul fenomeno in parola. Da quello studio risulta che un filo di platino caldo lascia sfuggire delle cariche elettriche che, a pressione ordi- naria, sono positive e a più bassa negative. Vi è dunque una certa pressione di inversione, che dipende, oltre che dalla natura e dalla temperatura del filo, dalla natura del gas ambiente e dallo stato di occlusione di gas da parte del filo stesso. Si può altresì parlare di Zemperatura di inversione, giacchè, a pressione costante e a temperatura crescente, il filamento emette cariche che passano gradatamente dal segno positivo al negativo. Il cosiddetto fezomerzo Edison non è che un caso particolare, quantunque abbastanza complesso, del fenomeno generale di cui ora è cenno. Esso con- (1) Pervenuta all'Accademia il 15 agosto 1912. — eo siste, come è noto, nel passaggio di una corrente continua attraverso il gas rarefatto contenuto in una lampada ad incandescenza, fornita, oltre che del fila- mento, di una lamina metallica fredda; questa è connessa esternamente col ramo positivo del filamento, e la corrente va, nel gas rarefatto, dalla lamina al filamento. In conseguenza della indicata disposizione, il ramo negativo del filamento presenta, rispetto alla lamina, una carica negativa che, disper- dendosi in parte, a causa della emissione di elettroni, dà luogo alla corrente suddetta. J. J. Thomson, nel suo trattato sulla Conduetion of electricity trough gases, espone molte considerazioni, di carattere sia sperimentale che teorico, sull'argomento, e da esse risulta che, nel caso di dispersione di cariche negative da parte di un filamento riscaldato in un gas rarefatto, si tratta effettivamente di una emissione di particelle, del tutto simile a quella co- stituente i raggi catodici; infatti, il rapporto fra la carica e la massa di queste particelle od elettroni, è lo stesso di quello che si trova per i detti raggi. Il passaggio di elettricità attraverso un gas rarefatto, determinato dalla presenza di un filamento caldo, non è caratterizzato soltanto dalla unilate- ralità del fenomeno (scarica di particelle negative); esso si scosta inoltre dalla semplice legge lineare. Una f. e. m. gradualmente crescente, dà occasione, in principio, al passaggio di elettricità negativa, da un filamento ad una lamina racchiusa nello stesso globo a gas rarefatto, in modo più rapidamente crescente di quanto vorrebbe la legge di Ohm. La corrente, così generata, diventa quasi stazionaria, per valori più elevati della f. e. m., a meno che, come fa notare J. J. Thomson, il valore di questa non sia capace, per proprio conto, di provocare la ionizzazione del gas. Vi ha dunque una certa zr/en- sità di saturazione, al di là della quale non è possibile, comunque accre- scendo la f. e. m. agente, aumentare la corrente di elettroni negativi, par- tente dal filamento caldo. Dalla rapida esposizione fatta, si rileva quanto sia complesso il feno- meno della emissione di elettroni da parte dei filamenti caldi. Moltissimi elementi contribuiscono alla svariata sua manifestazione, tanto che è talvolta difficile il prevedere, anche solo qualitativamente, i fatti che debbono avvenire. In ogni modo, il limitare lo studio della questione al caso dei gas rarefatti, (e meglio ancora, estremamente rarefatti), facilita di molto lo studio stesso. Per tale ragione, e perchè nel caso dell'emissione elettronica nel vuoto, i fenomeni sono più cospicui, dovendo da questi trarre pratiche applicazioni, come quelle fatte in alcuni tipi di rivelatori radiotelegrafici, è opportuno servirsi soltanto di disposizioni che utilizzino l'emissione di elettroni in un gas rarefatto. Le prime ricerche fatte in questo senso sono quelle di J. A. Fleming. Inserendo in un circuito, forzato ad oscillare elettricamente con una frequenza — 290 — anche elevata, un globo contenente un filamento incandescente ed una lamina, si dà origine al passaggio di elettricità negativa dal filamento alla lamina, tutte le volte che quello è caricato negativamente e questa positivamente, e non nel caso contrario: per cui un galvanometro od un telefono indicano il passaggio di corrente continua. Si realizza, così, ciò che Fleming chiama val- vola elettrica, giacchè dei due moti di elettricità, formanti l'oscillazione elettrica, soltanto uno è efficiente. L'aggiunta di una f. e. m. costante nel circuito, rinforza il fenomeno, se essa è tale che il passaggio di elettricità, attraverso il gas rarefatto, avvenga in vicinanza di un brusco cambiamento di curvatura delia sua curva caratteristica. Il De Forest, dopo Fleming, ha cercato anche lui di utilizzare lo stesso fenomeno della emissione di elettroni negativi, da parte di filamenti caldi, realizzando talune disposizioni (chiamate @v4z0n), che sono talvolta simili, almeno nella loro teoria, a quella di Fleming. Ma la forma ed il funziona- mento dell'ultimo audz0n costruito da De Forest, si scostano assai da quelli della valvola di Fleming. Ebbi già occasione in una Nota precedente (') di esprimere qualche idea sulla teoria del dispositivo di De Forest, giacchè l'autore non ne dà alcuna; ora voglio accennare a talune esperienze che con- fermano il mio precedente modo di vedere. L'audion, nei suoi ultimi perfezionamenti, è costituito da un'ampolla di vetro ad aria rarefatta, contenente tre corpi conduttori F, G, L; F è un filamento metallico, che si rende incandescente a mezzo di una corrente continua a basso voltaggio (3 o 4 volt); G è una griglia o rete metallica a maglie piuttosto larghe; L, una lamina metallica. Connettendo F con L esternamente ed attraverso una f. e. m. di circa 30 volt, in guisa che F sia negativo, elettroni sfuggono da F e vanno a raggiungere L dopo aver tra- versato la griglia G. Ciò avviene regolarmente (e lo si può constatare me- diante un galvanometro), sinchè F e G hanno lo stesso potenziale: se, per contro, F e G sono connessi con un circuito che oscilli persistentemente, la deviazione del galvanometro diminuisce. Tale dispositivo può quindi venire utilizzato come rivelatore, giacchè quella diminuzione o il corrispondente colpo o rumore in un telefono, inserito invece del galvanometro, è l’indizio dell'arrivo delle onde elettromagnetiche: la sparizione di queste è indicata dal ritorno, al primitivo valore, della deviazione del galvanometro, o da un secondo colpo al telefono. È appena il caso di rilevare che, servendosi del solo telefono, la disposizione serve anche per treni isolati di oscillazioni co- munque smorzate. Per rendermi esatto conto del funzionamento dell’audzon, ho costruito, come ora dirò, differenti curve caratteristiche del passaggio attraverso tale apparecchio dell'elettricità trasportata dagli elettroni. L’audion, da me pre- (') Rendiconti R. Accademia dei Lincei, 3 gennaio 1909. RenDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 81 — 238 — parato per tali esperienze, ha un filamento di tantalio lungo 18 mm., ripiegato a ferro di cavallo e traversato da una corrente di 0,5 ampère, sotto una tensione di 3,8 volt; con ciò il filamento è portato quasi al bianco. La griglia è costituita da fili di platino paralleli, dello spessore di 0,3 mm., distanti 2 mm. l'uno dall'altro; la lamina è quadrata, di 2 cm. di lato. I piani del filamento, della griglia e della lamina, sono paralleli, ed il primo dista dal secondo, ed il secondo dal terzo, circa 4mm. La griglia G è tenuta in con- nessione con uno degli estremi del filamento; per esempio, col positivo. Con ciò, il suo potenziale non è identico a quello di tutti i punti del filamento stesso, giacchè, come si è detto, il potenziale di questo varia da 0 a 8,8 volt. I risultati, che ora indicherò, si riferiscono alla connessione fatta con l'estremo positivo; quantitativamente, essi sarebbero stati alquanto diversi se si fosse fatta la connessione col polo negativo: ma ciò non avrebbe cambiato le con- 10 20 30 40 50 volt clusioni generali a cui voglio arrivare. La lamina L è connessa, attraverso un galvanometro sensibile ed una f. e. m. regolabile da 0 a 50 volt, con lo stesso estremo positivo del filamento F. La f. e. m. elettrizza negativamente il filamento e positivamente la lamina, e dà quindi luogo al passaggio di corrente indicata dal galvanometro, in conseguenza della emissione di elet- troni negativi da parte di F. Variando opportunamente la f. e. m. suddetta. comincio col costruire la curva della figura, quando la griglia è allo stato neutro. Essa è riferita a due assi su cui sono riportati i valori della f. e. m. impiegata e le deviazioni del galvanometro. Da tale curva si rileva che la corrente di saturazione è di circa 2 miliampères, con una f. e. m. minima di circa 30 volt. Altre due curve costruisco poi, quando la griglia è portata ad un potenziale prima negativo, rispetto al ramo positivo del filamento, e successivamente positivo. Il valore di questo potenziale è, in ogni caso, di _10 volt. Si vede che la curva regativa è più depressa della curva zeutra, e che la positiva lo è ancora più. Tali depressioni sono conseguenza della reazione elettrodinamica fra la griglia e gli elettroni partenti dal filamento. Se la — 239 — griglia è elettrizzata positivamente, gli elettroni sono in parte attratti da essa e arrivano in minor numero sulla lamina; se negativamente essi trovano ancora impedimento a giungere sulla lamina, perchè respinti in parte dalla griglia. In ogni caso la intensità di corrente, circolante nel galvanometro, resta diminuita. Anche per queste due curve le intensità di saturazione, benchè più piccole, corrispondono ad una f. e. m. minima di circa 80 volt, valore che è un po’ più elevato di quello trovato da Fleming per la sua valvola. Ciò può trovare spiegazione, oltre che nella considerazione degli altri elementi sperimentali, nella presenza della griglia fra il filamento e la lamina, griglia che manca del tutto nella valvola. Esaminando le curve della figura, si rileva che se, p. es., si mantiene una differenza di potenziale costante di 30 volts fra F ed L (F negativo), si ha un'intensità di ma. 1,7 per il caso della griglia neutra, di ma. 1,3 per la griglia negativa e di ma. 0,6 per la griglia positiva. Intercalando ora, fra F e G, una f. e. m. alternante con un valore massimo di 10 volt, trovo un'intensità di ma. 1,2. Tale valore rappresenta una specie di media, dipendente sia dai valori istantanei della f. e. m. sinusoidale, sia ancora dalle azioni disimmetriche delle cariche positive e negative. La elettrizzazione della griglia, per rapporto al filamento, produce dunque in ogni caso una diminuzione della intensità di corrente raccolta fra il fila- mento e la lamina: e ciò è vero anche quando tale elettrizzazione provenga da un'azione elettromagnetica alternata ad altissima frequenza, come nel caso radiotelegrafico. Le considerazioni fatte, ed i risultati sperimentali riportati, rendono dongque perfettamente ragione del funzionamento dell’audion come ricevitore radiotelegrafico. Non mi pare che sì possa parlare di vera selezione delle onde negative dalle positive, come vorrebbe il Fleming e come, nella valvola di questi, realmente avviene. Nell'audz0n, entrambe le cariche (positiva e negativa) generate dalle onde, agiscono nel senso di deprimere la curva ca- ratteristica della corrente di elettroni cadenti sulla lamina positiva, mentre, nella valvola, solo le mezze onde, che provocano elettrizzazione negativa del filamento, hanno efficienza. Tale interpretazione del funzionamento dell’audion porta inoltre alla conclusione che l’energia necessaria alla formazione dei segnali nel galvo- nometro e nel telefono non sia, per lo meno esclusivamente, una trasforma- zione di quella delle onde radiotelegrafiche. Piuttosto è da ritenere che quei segnali si formino in gran parte a spese dell'energia fornita direttamente dalla batteria locale. Questo fatto è particolarmente interessante, giacchè può darsi che l'energia presa dalla batteria possa, in certi casi, essere superiore a quella ricevuta dall’antenna ricevente. In tale direzione, dunque, è assai utile di spingere ulteriori ricerche, potendosi così arrivare alla costruzione di rivelatori, di sensibilità superiore a quelli sinora conosciuti. — 240 — Chimica. — So/fati anidri (*). Nota V di G. CALcAGNI e D. MAROTTA, presentata dal Socio E. PATERNÒ (°). Già da molto tempo è noto che il solfato di piombo forma con i solfati di potassio e ammonio ì sali doppî: Ks SO,.Pb SO, e (NH): SO,. Pb SO, .. Il sale d'ammonio fu preparato per la prima volta da F. Wohler e Litton (5) precipitando una soluzione di acetato di piombo con acido solfo- rico in eccesso e neutralizzando con ammoniaca fino a che si otteneva una soluzione limpida per riscaldamento. Gli stessi autori ne stabilirono anche alcune proprietà e la composizione: si decompone con l'acqua; riscaldato direttamente sulla fiamma, si sublima (NH), SO,, restando il solfato di piombo. In seguito A. Ditte (4) l’ottenne sciogliendo Pb SO, in soluzione di NH; o di NH,Cl; M. Barre (*) infine ne studiò il campo di esistenza e la sua stabilità in presenza di (NH,), SO, tra le temperature di 0° e 100°. Il sale di potassio K, SO, - Pb SO, fu ottenuto per la prima volta da M. Becquerel (°) e poi da A. Ditte (loc. cit.) bollendo Pb SO, o trattando separatamente con Pb SO, le soluzioni di K Cl e KC103. Anche di questo sale M. Barre (loc. cit.) studiò il campo di esistenza e la stabilità tra 0° e 1000. È da notarsi che A. Ditte e successivamente M. Barre, ciascuno nelle proprie condizioni sperimentali, non sono riusciti ad ottenere con Na; SO, nè un corrispondente solfato doppio, nè un altro di tipo diverso. Noi abbiamo voluto vedere come si comportassero reciprocamente, sala condizioni in cui si svolge l’analisi termica, i solfati alcalini di Li, Na e K con Pb SO,. Il solfato di piombo, come è noto, si trova in natura cristallizzato (anglesite) in cristalli rombici isomorfo con lo spato pesante, con la cele- stina, con l'aragonite e con Nas SO, e K.SO,, ma non con Li, SO,; però si può anche trovare cristallizzato nel sistema monoclino (sardinian). Il punto di fusione del solfato di piombo fu trovato da W. Ramsay ed Eumorfopoulos (*) a 937°. R. Schenck e W. Rassback (8), nella descri- !) Lavoro eseguito nel Laboratorio Chimico della Sanità di Iva. (1) (®) Pervenuta all'Accademia il 10 agosto 1912. (3) Ann. der Ch., 43, 126 (1842). (4) Ann. Chim. et Phys. (5), /4, 190 (1878). (5) Compt. Rend. d. l’Acad. des sciences. /49, 292. (5) Compt. Rend. d. l’Acad. des sciences, 63, 1 (1866). (?) Ber. d. ch. Gesel., 4/, 2919, 1908. (5) Phil. Mag. 4/, 360. 8 — Q4l — zione del sistema Pb SO, - PbO dicono di non aver osservato fusione di Pb SO, fino a circa 1000°, ma soltanto un rammollimento della massa (sintern) a 950° con un punto di fermata, il quale non subiva abbassamenti per aggiunta di PbO, anzi si manifestava più netto fino al 40°/, di ossido. Quindi il punto di fusione dato da Ramsay ed Eumorfopoulos deve essere stato scambiato con quest’ultimo, e la differenza di tempetatura si deve probabilmente ad una parziale decomposizione della massa. Secondo Schenck e Rassbach, il punto di fusione di Pb SO, dovrebbe stare invece al di sopra di 1100°; essi hanno notato inoltre un punto di trasformazione enantrotro- pica a 850°, che hanno ritrovato anche nelle masse fuse più ricche in piombo. Bousingault d'altra parte (*) dice che Pb SO, al rosso-scuro perde tutto l’S03. Noi invece crediamo di poter sicuramente affermare che il punto di fusione di Pb SO, sitro va a 1000-1010° pel fatto che nei tre diagrammi qui descritti, per estrapolazione di due o più punti, appartenenti a miscugli, che per il loro basso punto di fusione non avevano sicuramente subìto alcuna altera- zione nella composizione, si è condotti a questa temperatura. Inoltre abbiamo descritto curve di riscaldamento e di raffreddamento del Pb SO, puro, e ab- biamo osservato un effetto termico notevolissimo, sia riscaldando sia raffred- dando a circa 850°, corrispondente alla trasformazione su accennata allo stato solido, a 950° circa un rammollimento (sintern) della massa, che as- sumeva un vero stato ceroso; infine a 1000-1010° una fusione con immediata e rapida decomposizione. Sulle curve descritte, certamente, non si potera os- servare a 1000-1010° una fermata corrispondente alla fusione anzidetta per la decomposizione immediata e poi perchè la pinza era nell'interno della massa, mentre sono gli strati esterni quelli che subiscono primi gli effetti del calore; quindi non vi era il tempo sufficiente per la manifestazione del fenomeno. Il punto di fermata a 950° non l'abbiamo sempre ritrovato nei mi- scugli, perchè oltrepassavamo questa temperatura solo in quelli per i quali era indispensabile per la determinazione del primo punto di separazione di sostanza solida; negli altri, e tra questi vi sono specialmente i più ricchi in PbSO,, abbiamo cercato di raggiungere solo la temperatura alla quale si otteneva una massa liquida omogenea e trasparente, appunto per evitare un'eventuale decomposizione. Al contrario, in tutti e tre i sistemi ci è stato facile di ritrovare nelle singole masse il punto di trasformazione a 850° fino ad una discreta concentrazione di solfato alcalino. La misura della temperatura si faceva con una pinza Pt/Pt+ R4 e con un comune pirometro Siemens e Halske; la lettura si faceva ogni 30”. In queste condizioni, non avendo potuto adoperare il pirometro registratore (') Ann. der Chim. phys. (4), 12, 426, 1867. BON, come nei precedenti lavori, non ci è stato facile di stabilire gli effetti termici corrispondenti alla decomposizione delle soluzioni solide: anzi, per qualche miscuglio che l'avrebbe dovuto presentare nelle vicinanze della trasforma- zione del solfato alcalino, ci è stato impossibile. Nella fusione dei miscugli, per essere sicuri che non si verificasse de- composizione di Pb SO,, si ricorse all'espediente di fondere prima. il solfato alcalino e di aggiungervi poi il solfato di piombo agitando continuamente; se così facendo non si otteneva subito un liquido limpido, si riscaldava ac- curatameate e lentamente. Solo a questo modo è stato possibile l'esame di quei miscugli il cui punto di fusione è al di sopra di 1000°, ed è stato possibile di arrivare fino alla concentrazione 20°/, di solfato alcalino. Sistema Li, SO, - Pb SO,. I risultati sono raccolti nella tabella I e nel diagramma fig. 1, TABELLA I. Sis È (99) (79) 59 TOMI (5 Du 100 0 95 5 90 10 85 15 20 20 TE 25 70 30 65 35 60 40 58 42 DÒ 45 58 47 50 50 45 50 40 60 35 65 30 70 25 75 20 80 0 100 Pos dale 58 gi > 3 È csi ee die = = 3° G 100 O| El 98,12] 1,88| 841 638° 96,12 | 3,88| 816 | 638 93,98 | 6,02| 786 | 638 91,67 | 8,33 | 759) 638 89,20 | 10,80 | 729 | 638 86,26 | 13,74 | 706 638 83,64 | 16,36 | 676 | 638 80,50 | 19,50 | 656 | 638 79,17 | 20,83 | 649 | = 638 77,05 | 22.95 | 646 | 638 75,64 | 24,34] — 638 78,85 || 26/650MAl6590 638 68,75 | 31,25 | 696 | 643 64,78 | 352200072600 (638 59,72 | 40,28| 766 | 638 54,12 | 45.88 | 799 | 648? 47,85 | 52.15) 1826 | 688 40,77 | 59,28 | 841 638 0 | 100 (1005) | — Îz5 | SEg2 | 235 |Saza 5535 | ESSA | 8558 (S55k 58° |FSa |Psas |a — 5859] 18 | 2 585 | 17 | — 3 585 | 15 | — 4 585 | — | 841° 5 585 14 = 7 585 | 12 | 861 _ 555 | — | 836 - 585 | — | 856 LI Sep MAIONAN 26) 12 585 | — | 856 13 585 o 4 575 9 | 856 - 585 | — | 841 8 580| — | — 7 585 = 856 6 585 | — | 836 Si 585 | — | 836 5 585 ble - 585 4 | — _ — | 856 Il solfato di litio si comporta con il solfato di piombo come con quelli alcalino-terrosi; esso non forma nessun composto. Il suo punto di fusione si abbassa successivamente in modo molto regolare per aggiunta del Pb SO, fino al punto eutettico corrispondente alle concentrazioni 53 °/, Li, SO, è 47%, Pb SO, e alla temperatura di 638°. Da questo punto la temperatura asini. 1249 — di fusione dei miscugli successivi si innalza regolarmente fino alla tempe- ratura di fusione di Pb SO,. La curva di fusione quindi risulta dei due rami AB e BC quasi rettilinei. Il punto eutettico comparisce quasi certa- mente alla stessa temperatura, e si ritrova in tutti i miscugli possibili; lo stesso avviene pel notevolissimo effetto termico nel punto di trasformazione di Li, SO,, la cui fermata si fa continuamente più breve da Lis SO, puro a PbSO,. Il punto di trasformazione del solfato di piombo comparisce quasi sempre alla temperatura di curva 856° e quasi in tutti i miscugli. Il diagramma quindi risulta delle seguenti parti: a) Campo d'esistenza della fase liquida omogenea; d) » d’equilibrio tra Pb SO, primario e la fase liquida; c) ’ ’ n Li. SO, ’ ’ ” d) » d’esistenza della fase solida; e) “> ” di 8-Li, SO,- Pb SO... — 244 — Sistema Nas SO,- Pb SO,. I risultati sono raccolti nella tabella 1I e nel diagramma fig. 2. TABELLA II. Q ° E S 8.) = sd | ss ss oi ont 2 AES SS is CLES: GEE, OE eis dd SS o 5° (Ole a = Ses |Sss [fa |a 100 (0) 100 0 887° — _ 235° - 97 3 98.57 1,47 892 — — 225 — 95 5 97,59 2,4] 895 — 9250 225 — 93 t7 96,59 3,41 900 = 365 9925 90 10 95,05 4,95 905 —: 435 225 = 87 13 93,45 6,55 907 = _ 225 - 85 15 92,36 7,64 905 — 505 225 — 80 20 89,50 10,50) 900 —- 565 225 — 75 25 È 86,47 13,58 897 — 620 225 — 70 30 83,26 16,74 890 — 675 225 851° 65 35 79,83 20,17 878 TSO _ 225 — 60 40 76.17 23,88 870 730 = 995 856 58 42 74,64 25,36 862 730 _ 2925 -- 52 48 69,78 30,22 845 — — 2925 — 50 50 68,06 31,94 840 750 = 2925 846 48 52 66,29 38,71 825 750 _ 225 _ 45 55 63,02 36,98 805 735 — 295 851 40 60 58,69 41,31 778 735 — 225 846 37 63 55,59 44,41 755 = -- 225 846 35 65 53,483 46 57 = 735 —_ 225 846 32 68 50,08 49,99 TEST 735 — 225 851 3 70 47,73 52,27 770 735 —_ 225 — 25 75 41,54 58,46 810 TOS —_ 225 846 20 80 34,76 65,24 845 735 _ 225 846 0 100 = 100 (1000) = => — 856 Questo diagramma ha una certa somiglianza con quello Nas S0, - Ba SO,. Vi è formazione di cristalli misti fino alla concentrazione 65 °/ Nas SO, oltre questo punto si presenta alla temperatura di 735° un eutettico che va fino al Pb SO, puro; questo si è dedotto dalla considerazione delle du- rate delle fermate. La composizione dell’eutettico è 35 °/, Na» SO, e 65 °/ Pb SO,. Da questo punto parte il ramo rettilineo AB della curva di fusione che taglia l'asse delle temperature a 1000°; quindi questo sarebbe il punto di fusione di Pb SO,; nel precedente diagramma abbiamo trovato 1005°. Nel campo dei cristalli misti ritroviamo qua un’altra volta un massimo non corrispondente a composto alle concentrazioni in peso 87°/, Na, S0, e 13° Pb S0,;; esso avrebbe la composizione in molecole 14 Nas SO,. Pb SO, , tipo che non si è mai riscontrato. Per esso valgono ie considera- zioni esposte nella Nota II (1). (*) Rendic. Accad. Lincei, Classe scienze fis. e mat., vol. XXI, 438. cl l — 28 PLSO, {000 900 509 800 700 ! #00 600 7 600 500 {1/00 400 300 Mei Questo è stato uno dei sistemi più noiosi, non solo per le tenuità degli effetti termici sia nei punti di trasformazione dei due solfati, sia nei punti di decomposizione delle soluzioni solide, ma anche perchè molto difficilmente sì ottenevano curve regolari. Lo stesso diagramma ha descritto Le Chatelier ('): ma esso differisce notevolmente dal nostro perchè presenta una piccola convessità simile ad un massimo appena sensibile. alla concentrazione di circa 50 °/, equivalenti di solfato di piombo, che secondo l’autore corrisponderebbe al composto Na. SO,.Pb S0,. Questo terzo ramo della curva di fusione noi non abbiamo punto riscontrato nel nostro caso. Ciò che si deve notare nel diagramma di Le Chatelier è che la temperatura di fusione di Pb SO, è circa 1030°; essa non è indicata in nessuna tabella, ma si è dedotta dal disegno. Manca, come al solito, una descrizione dettagliata del sistema. (') Ann. des Mines, serie 92, tomo 7/, 209, 1897. RenpIconNTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 32 — 240 — Il nostro diagramma quindi risulterebbe così costituito: a) Campo d'’esistenza della fase liquida omogenea; 1) » d’equilibrio tra Pb SO, primario e fase liquida ; c) » d’esistenza delle soluzioni solide c; d) ” d'equilibrio tra ” » e e a-Na,S0,- Pb SO, solido; e) » d'’esistenza tra #-Na, SO,- Pb SO,; TÒ) ’ d’equilibrio tra soluzioni solide e e #-Na, SO, . Pb SO,. Patologia vegetale — Due nuove malattie della Sophora Japonica Sn. (*). Nota preliminare di M. TurconI e L. MAFFEI, presentata dal Socio G. BrIosI (°). Sopra piante di Sophora japonica nell'Orto botanico di Pavia si svi- lupparono durante l'estate e l'autunno 1911 due micromiceti parassiti che determinarono due ben distinte malattie che pei loro caratteri chiameremo vaiolatura delle foglie l'una, e seccume bianco dei rami L'altra. VAIOLATURA DELLE FOGLIE. — Questa malattia si manifesta colla com- parsa di macchie rotondeggianti o circolari, piccole all'inizio, che presto si ingrandiscono raggiungendo sino un centimetro di diametro. Sulla pagina fogliare superiore tali macchie presentano un'areola cen- trale di color nocciola scuro circoscritta da una larga zona di color più chiaro, talora quasi biauchiccia. Nella pagina inferiore invece esse sono ne- rastre, colore dovuto ai numerosissimi organi di fruttificazione del fungo i quali compaiono assai presto ricoprendo tutta la macchia su cui sono spesso disposti come fitte striature nere e più o meno concentriche. All'esame microscopico questi organi fruttiferi risultano costituiti da ife conidiofore fuoruscenti generalmente dagli stomi, isolate o riunite a due o tre insieme. Sono erette, bruno-olivacee, con parecchi setti trasversali in corrispondenza dei quali si formano restringimenti o strozzature in guisa che i conidiofori appaiono nodulosi, articolati, talvolta quasi torulosi. Misu- rano 40-80 w di lunghezza per 8-12 di larghezza e portano all'apice i conidii. Questi, a completo sviluppo, sono ovali od ovato-globosi, larga mente arrotondati o quasi appianati alle estremità così da assumere talora una forma pressochè cubica, e presentano numerose segmentazioni in varî sensi. (1) Questo lavoro fu eseguito nell’Istituto botanico di Pavia e verrà pubblicato in esteso, corredato di tavola litografata, negli Atti dell'Istituto medesimo. (*) Pervenuta all'Accademia il 20 luglio 1912. — 247 — Sono bruno-olivacei come i conidiofori o di poco più scuri, e misurano 30-40 di lunghezza e 20-30 w di larghezza. I conidii si staccano facilmente dalle ife conidiofore e cadendo sulle foglie sane vi germinano producendo le areole patologiche caratteristiche. In corrispondenza delle macchie il tessuto fogliare è invaso da un micelio settato, ialino e che assume il color bruno solo nei conidiofori. Pei suoi caratteri morfologici questo micromicete va ascritto al genere Macrosporium, ed è ben distinto da tutte le altre specie del genere, onde costituisce una nuova specie della quale ecco la diagnosi. MacRosPORIUM SoPHORAE n. sp. — Maculis rotundatis vel circula- ribus, 4-10 mm. diam., avellaneis vel avellaneo-pallidis, centro obscuriore; conidiophoris hypophyllis, copiosissimis, gregariis ac saepius in lineis subconcentricis dispositis, rectis, simplicibus, pluriseptatis, ad septa con- strictis, nodulosis, quandoque subtorulosis, solitarits aut binis rarius ternis e stomatibus egredientibus, 40-80 = 8-12 u, olivaceo-brunneis; co- nidiis acrogenis, concoloribus vel obscurioribus, pluriseptato-muriformibus, ovatis, vel ovato-globosis, subsarcinaeformibus, non aut rariter medio constrictis 30-40 = 20-30 u, levibus. Hab. In foliis vivis Sophorae japonicae in Horto Botanico Ticinensi. Delle numerose specie di Macrosporium finora descritte, quella che più si avvicina al nostro Macrosporium Sophorae è il M. Sarcinaeforme Cavr. parassita del Trifoglio, scoperto e descritto dal Cavara sino dal 1890 (?). Questa. specie è però ben distinta dalla nostra, oltre che per la forma ed il colore delle macchie, anche per la forma e le dimensioni dei conidio- fori e dei conidii. SECCUME BIANCO DEI RAMI. — Il parassita causa di questa alterazione provoca sui rami dapprima la comparsa di areole livide elittiche, allungate secondo l’asse del ramo, depresse, in corrispondenza delle quali l'epidermide diviene presto biancastra e sì solleva e screpola per opera di numerosi tu- moretti erompenti, di consistenza carnoso-ceracea, di color rosso-carnicino pallido, talvolta tondeggianti, per lo più di forma elittica più o meno allun- gata od anche lineari. Spesso sono confluenti e formano delle strie longitu- dinali lunghe persino qualche centimetro. Le areole si estendono talora sino a raggiungere una lunghezza di 5 a 15 centimetri ed una larghezza di 10 millimetri. Spesso finiscono per circondare il ramo del quale invadono por- zioni più o meno estese, ed i rami infetti presentano allora dei tratti im- biancati e cosparsi da numerosi tumoretti rosei, intercalati da altri immuni () Cavara F., Macrosporium sarcinaeforme Cavr. nuovo parassita dei Trifogli (La difesa dei parassiti 1890, r 4, 8 pp.); vedi anche Briosi e Cavara, / funghi parassiti delle piante coltivate od utili ecc., fase. V, n. 116. — 248 — e verdi. Tale colorazione si mantiene, benchè più sbiadita, anche dopo la morte e l’essicamento del ramo. Nei rami giovani l’areola d'infezione si estende talvolta alla maggior parte del ramo, o lo occupa tutto facendolo imbiancare e seccare. In sezione, all'esame microscopico, le verruchette rosee si presentano costituite da tubercoletti stromatici di ife fittamente intrecciate, alla super- ficte esterna dei quali si origina l'imenio formato di basidii o conidiofori ramificati, con ramificazioni disposte per lo più in verticilli e portanti ai loro apici dei conidii fusiformi, appuntiti ad ambo le estremità, curvi, jalini, presentanti generalmente tre a cinque setti e talora anche sino a sei. Misurano 40-60 w di lunghezza su 4-6 w di larghezza. La forma ora descritta che pei suoi caratteri va riferita al genere Fusarium, rappresenta lo stadio conidico, estivo del fungo e si comporta da vero parassita invadendo col proprio micelio tanto il tessuto corticale quanto il legno interno. La forma perfetta ascofora invece si sviluppò nel tardi autunno e nell'inverno sui rami morti, e giunse a maturanza solo nella primavera successiva. Sui rami secchi infatti durante l'inverno, numerosi sporodochi perdono a poco a poco il loro color roseo assumendo una tinta bruna che va facen- dosi sempre più cupa e finiscono per acquistare un color nero-cianotico. Ciò perchè agli sporodochi della forma conidica (/usar:um) vanno man mano sostituendosi gli acervuli stromatici della forma ascofora per successive modificazioni dello stroma stesso dello sporodochio. Tale processo si può se- guire assai bene sui rami morti sui quali è facile trovare degli acervuli stro- matici ascofori in diversi stadî di sviluppo entro gli sporodochi della forma conidica. A completo sviluppo gli acervuli stromatici della forma ascofora risul- tano costituiti da un ipostroma bluastro verso la periferia esterna del quale sì trovano i periteci più o meno emergenti dallo stroma stesso. Questi sono ovati od ovato-globosi e misurano 200-250 w di diametro. Alla base della cavità del peritecio si differenzia il tessuto imeniale dal quale sorgono gli aschi cilindracei o leggermente clavati, con breve pe- dicello, lunghi 80-100 w, larghi 18-20 w, contenenti ciascuno otto spore disposte in due serie entro l’asco. Le spore sono ialine, obovate od ovali- elittiche, arrotondate alle estremità, con tre setti e misurano 16-20 = 6-8 w. In base ai caratteri morfologici testè enumerati noi ascriviamo questo fungo al genere Gibderella fra le Hypocreaceae, e siccome si differenzia dalle altre, ne facciamo una nuova specie che denominiamo Gidbbderella Briosiana. GIBBERELLA BRriosIaNA. n. sp. — Perithectis rariter binis aut paucis, plerumque compluribus, botryose aggregatis atque in acervulos erumpentes verruciformes congestis, ovatis vel ovato-globostis, 200-250 n diam., parietis contextu celluloso parenchymatico, atro-cyaneo, hypostromate pseudoparen- — 249 — chymatico, coerulascente; ascis cylindraceis vel cylindraceo-subelavatis, breve pedicellatis, 80-100 = 18-20 w octosporis; sporis distichis, obovatis vel elipsoideis, triseptatis, ad sepla haud vel leniter constrietis, 16-20 = 6-3 u hyalinis. — Adest status conidiophorus formam Fusarii sistens: spo- rodochiis mox erumpentibus, pulvinatis, rotundatis vel elipticis aut subli- nearibus, quandoque in lincas longitudinales, 1-2 cm. longas confuentibus, pallide carneis; conidiophoris verticiilatim ramosts ; conidiis acrogenis, fusoideis, curvatis, utrinque acutatis, plerumque 3-5 rarius 6 seplatlis 40-60 = 4-6 w, hyalinis. Hab. In ramulis Sophorae japonicae in Horto Botanico Ticinensi. Le spore germinano emettendo da una o da due cellule un budellino micelico ialino, sottile che crescendo man mano si segmenta e si ramifica. Prima di germinare le spore talora acquistano dimensioni maggiori, mentre aumenta anche di uno o di due il numero dei setti in corrispondenza dei quali il restringimento si fa più pronunciato. Petrografia. — 4% inclusi nella lava etnea di Rocca S. Paolo presso Paternò (°). Nota del dott. S. Di FRANCO, presentata dal Socio G. STRUEVER. M'intratterrò nel presente studio di alcuni inclusi da me riscontrati in una corrente di lava in contrada Rocca S. Paolo presso Paternò che si allon- tanano dal tipo degli inclusi già studiati e frequenti nelle lave dell'Etna, generalmente di natura quarzosa (*). Gli inelusi di Rocca S. Paolo si presentano in grossi frammenti da rag- giungere sino a 14 centimetri di diametro e sono costituiti principalmente di calcare compatto o di argilla trasformata in termantite o di arenaria. Quelli calcari, talora anche marnosi, presentano tutte le gradazioni pos- sibili di struttura dalla compatta alla friabile, e sono sempre più o meno profondamente metamortizzati dall'azione del magma lavico. Questi inclusi sono frammenti di rocce strappate dalla lava durante il passaggio attraverso i terreni che formano la base dell’ Etna. Quali fossero i terreni fondamentali di tale regione prima che sorgesse l'Etna, non è facile dire con esattezza; soltanto un po' di luce lo dà l'esame degli inclusi che si riscontrano nelle lave. (*) Lavoro eseguito nell'Istituto di Mineralogia e Vulcanologia della R. Università di Catania. Presentata nella seduta del 19 maggio 1912. (?) Nelle lave dell'Etna sono noti i frequenti inclusi di lave di epoche più antiche, ma una speciale di lava vetrosa, molto simile alle lave di Vulcano, ha attirato la mia attenzione e formerà oggetto d’una prossima Nota. — 250 — In questa regione si dovevano ripetere a larghe linee le formazioni geo- logiche delle regioni ora circostanti, e nel litorale preetneo dovevano domi- nare pure i sedimenti delle grandi valli circostanti, tuttora non coperte dalle lave. Così a Maletto, Bronte, Adernò e Paternò, posti in un versante, fino ai monti di Castiglione, di Linguaglossa e di Calatabiano. posti nel versante opposto, doveva certamente continuare quel grande ammasso di arenaria e di argille scagliose mioceniche ed eoceniche dei vicini monti delle Caronie, e che a poca distanza di quelle località si trovano tutt'oggi allo scoperto. A Maletto (?) stesso poi un piccolo lembo di arenaria miocenica, ci rap- presenta un frammento della preesistente base dell’ Etna, ancora non rico- perto dalle lave, che domani queste potrebbero nascondere, ed allora la sua esistenza verrebbe attestata dagli inclusi portati su dalle lave stesse. In modo simile, in altri punti, sotto il terreno vulcanico, spuntano dei lembi di argilla post-pliocenica: è ovvio dunque dedurre che gli inclusi ar- gillosi debbano la loro origine da quella formazione. Nel caso nostro della Rocca S. Paolo di Paternò, le lave includono rocce calcaree appartenenti alla formazione miocenica, tanto sviluppata nel Siracusano: infatti le salse qui dominanti portano all'esterno nei loro fanghi di argilla turchina oltre al salgemma anche frammenti di rocce appartenenti appunto al miocene. Inclusi di calcare. — Questi inclusi sono generalmente a struttura compatta (Tav. I, tig. 1), o friabile con dei passaggi secondo il grado di metamorfismo. Gli inclusi più piccoli talvolta sono intimamente connessi col magma lavico e dal prodotto della ricristallizzazione è risultata una roccia differente del tipo di quella inglobante e che simula elementi intratellurici d'una roccia vulcanica normale. Altre volte gl'inclusi sono stati assorbiti dal magma lasciando delle cavità tappezzate principalmente da cristallini di augite come è stato no- tato(°) per gli inclusi del basalte dell'Isola dei Ciclopi. In alcuni campioni, oggetto del presente studio, si trovano contempora- neamente inclusi di calcare poco alterato accanto ad altri assai metamorfiz- zati o anche intieramente riassorbiti; ciò deriva dal fatto che questi inclusi se strappati a grande profondità furono sottoposti ad altissima temperatura e pressione perciò notevolmente trasformati, se invece furono strappati a poca profondità si presentano abbastanza conservati. (1) Il più alto affioramento miocenico dell'Etna è quello presso Maletto (1140 m.). (*) Di Franco S., Gli inclusi nel basalte dell’ Isola dei Ciclopi. Atti dell'Acc. Gioenia in Catania, serie 4%, vol. XIX. — 251 — Talvolta il magma che già in profondità aveva inglobato e metamorfiz- zato i primi inclusi, ne strappò presso la superficie degli altri, che ci si presentano quasi intatti. Gli inclusi di calcare compatto (Tav. I, fig. 1) presentano dimensioni abbastanza notevoli; sono di colore rosso-carnicino, per la grande abbondanza di granuli giallo-arancio sparsi su fondo bianco. Le modificazioni subìte dal calcare inglobato sono poco intense e spesso limitate al contatto immediato dell’incluso colla roccia vulcanica. Al microscopio la massa dell’incluso si risolve in un aggregato di gra- nuli di calcite di forma e dimensioni assai varie, compenetrati e strettamente saldati tra di loro. Numerosi e sottilissimi canali attraversano i granuli calcari della massa; essi sono dovuti allo sprigionamento di gas dall’incluso e dalla roccia lavica, durante e dopo l'eruzione. Nella massa degli inclusi (Tav. I, figg. 2 e 3) si trovano sparsi grossi granuli trasparenti a contorno irregolare. circondati da una zona oscura e dei nuclei opachi formati dal cumulo di numerosissimi granuletti. I grossi granuli trasparenti si riferiscono a quarzo; non sempre però sono formati da un unico individuo come si rivelano tra i nicols incrociati, presentando diverse parti a contorni netti e ad estinzione diversa o capric- ciosamente ondulata. A forte ingrandimento si osservano inclusi nel quarzo abbondanti micro- liti di colore verde-chiaro vivacissimo riferibili a smaragdite ed altre rosa- pallide a forte rifrangenza di £. Ciò fatto, costruiamo le espressioni ) verifica alla (11), ed è inoltre (in forza della / t=to suo quadrato, nell'intervallo (01). Poniamo y(x, 4) = 12) Ap J MA) | I '8() H(E 0) ®,(2) dé de AO) (13) B,.()= )) ®,(x) de = i Me ®,(x) dx, dI u (14) Que 4 (OB) de =; A questo punto occorre applicare i risultati ottenuti nelle nostre due Note precedenti, (A) e (B), e precisamente il risultato contenuto nel teorema della Nota (B). Ciò è lecito perchè le funzioni ®,(x), ®:(x),.. , e le costanti A, ,À»,... che figurano nelle espressioni (12), (13), (14), sono rispettivamente le funzioni eccezionali ed i valori eccezionali di un nucleo H(È,), che gode delle proprietà presupposte al n. 4 della stessa Nota (B), e analogamente per le funzioni y(x,t),0(4). Possiamo così affermare che esiste una funzione v(x , £), finita e continua per 0=ax <1,t,=t, derivabile rispetto a #, colla de- rivata >; integrabile parzialmente rispetto a x, insieme al suo qua- drato, in senso di Lebesque, nell'intervallo (01), qualunque sia t = to, e per la quale si ha: 15) fpe,gta=f (0 fo) 02) de =) Sl Ps) de = 9510) TOI 9000 , — 259 — la serie ù 2_ (Qu) convergendo uniformemente rispetto at, per t = to (*). Essendo così stabilita l’esistenza della funzione (x ,), poniamo (16) u(e ,0t)=g9(e,t) — va ,1). Dico che u(x , t) è l'integrale regolare della (1) che per t=t, assume t valori di h(x). Osserviamo perciò anzitutto che, in forza della definizione (16), «(2,%) è una funzione finita e continua per 0O , deri- du(x, tt) vabile rispetto a £ colla derivata wi, integrabile parzialmente rispetto a x, insieme al suo quadrato, in senso di Lebesgue, nell'intervallo (01), qualunque sia { > #,. Se quindi riusciamo a provare che esso è un integrale della (1), potremo senz'altro affermare che è un integrale regolare. Passiamo a dimostrare che «(x , #) è effettivamente un integrale della (1). Perciò osserviamo che dalla (14), derivando rispetto a #, si ottiene imme- diatamente : @0=7 0 x Ji Ao i pel Boo Zi i dg(x, 4) RL: Sostituiamo per y(z, 4) l'espressione mi; Gu Q,(1), Qr(4) le espres- sìoni (15), avremo: l =} ; 0 ‘ odia 6.000 Consideriamo l’espressione: ve (o { IG vega ={pWe,otd-2f f 6,9) o Sa aan H(8, 2) dé da +S(S en n) LI H(8 12) dé) de Dalla prima delle (15) raccogliamo: Sf a S (Qt. (1) In sostanza, la funzione v(2,t), di cui viene indirettamente provata l’esistenza, (0.0) altro non è che la funzione rappresentata dalla serie ) (2) Qn(t), e che figura alla n=1 formula (7) della Nota (0). — 260 — D'altra parte, applicando un noto teorema di Hilbert e tenendo presenti le (17), si ha: [fo] 16,0) ded 2/0 dI dI S Ten 1(dg(E,t) dméE.t =>-:/ o(x 1) Py(a) de ( ( i DE oe oe = > (Q(9)*; e finalmente, per il teorema di Hilbert-Schmidt = Qi, 2) H(£,x) dé i dae = | di d (Qu) =0, ovvero ca ‘Fa = IL ;v(e, pori eo) H(£,%) | dai= 0 Osserviamo che, secondo quanto è stato detto, v(x, 4) è una funzione continua per0=sx=<1, qualunque sia t=> 4. D'altra parte e di td) è una funzione integrabile parzialmente rispetto a £, insieme al suo qua- drato in senso di Lebesgue, nell'intervallo (01), qualunque sia {=> &: onde, per le ipotesi contenute al n. 1 della Nota (A), relativamente al nucleo H(£,x), si ha che anche i Ti) Dn f (eo SUS U) HE, 2) de è una funzione continua per O0=z <= 1. Segue allora, dalla equazione pre- cedente, (18) 00 Abe HE, 2) de, da cui, tenendo presente che (x , ), secondo la (16), è uguale alla differenza g(e,t) — v(x, 0), si raccoglie immediatamente che (x ,/) è un integrale della (1). — 261 — Resta da provare che, per t= #, si ha u(a, to) =" Ax). Perciò osser- viamo che dalla (18) si deduce, tenute presenti le (15): (19) s(2,6)=Y ®y(2) | 08,1) 0,(5) = S 0,2) Q(h). n= D'altra parte, siccome per ipotesi la funzione g(e. 6) — l(4) è rappresen- tabile mediante l’ integrabile definito 6(£) H(È, x) dé, così si avrà an- «0 cora, tenute presente le (12) e (14), (20) gle, 6) — ha) = x ®,.(x) JO [9(£, to) — KEY] D,(5) di = n=l a DI ®,.(x) Qu(40) I due sviluppi (19) e (20) coincidono; si ha quindi (21) vato) 9,60) — LE da cui segue, senz'altro, u(x , t0) = HM). 6. Nei teoremi I, II (della Nota (C), e nel teorema III (della presente Nota) sono contenuti tutti i risultati, enunciati al n. 1 della Nota (C). Resta dunque stabilito che la condizione necessaria e sufficiente perchè esista un integrale regolare della equazione (1) ue 0+f O HE, de=g(0,4) che per {= 4 assuma i valori di una funzione data finita e continua 4(x), è che sia risolubile l'equazione integrale di prima specie 1 [EHE 2) di = (2,0) — Ma), 0 la funzione incognita @(€) dovendo essere integrabile insieme al suo qua- drato. in senso di Lebesgue nell'intervallo 01 (teorema III). Tale integrale è unico (teorema I). Esso può essere rappresentato mediante la serie (a) = YO) fre" + fi e) Àn =} [g(e, lo) — Ma)] D,(4) da o (NIRO B)= , I Ei(2) de, — 262 — convergente assolutamente ed uniformemente rispetto alle variabili x, qua- lunque sia x nel campo 01, qualunque sia {= o (*). 7. Osservazione I. — Non vogliamo mancar di osservare come l’equa- zione (1) — secondo il concetto classico di Volterra — può esser conside- rata come limite di un sistema di infinite equazioni differenziali con infinite incognite. Supponiamo diviso l'intervallo 0,1 in parti uguali 0a, ,@,@, dux ,t) me” 9(c ,t) assumono per = a;: e detti a, i valori che H(£,) assume per E=@;,x = x, l'equazione proposta (1) può considerarsi come il limite del sistema differenziale 2) u;(0) +5 ASA t) .-,@n1; detti w;(4), (4) , 9i(6), i valori che le funzioni (a , ), NIMEZIEAZE Il metodo che abbiamo applicato per l'integrazione dell'equazione trascen- dente (1) non differisce in sostanza dal metodo classico di D'Alembert per l'integrazione del sistema (22). 8. Osservazione II. — Lo studio fatto per l'equazione (1) può esten- dersi — senza che si incontrino difficoltà — al caso in cui, invece di una sola variabile 4, si considerino più variabili 4, y,. Esso quindi sì estende direttamente alla equazione 8) ue, yio9+ f POLE! HE 162,9, = g(2,4,4,1), S essendo nello spazio delle variabili 2, y.z un campo fisso a tre dimen- sioni (che non varia col variare di {). Se, come vogliamo supporre, la funzione g(x,7,,?) ammette tutte le derivate fino a un certo ordine x rispetto alle variabili 4,y,4, e tali derivate sono, come 9(2,7,z;t), finite e continue in tutto lo spazio S e per tutti i valori di {=> #5 se inoltre H(&,7,%)x,y,4) è una funzione tale, che, 0(€,n,€) essendo una funzione iutegrabile in senso di Lebesgue, insieme al suo quadrato, entro S, le derivate parziali, fino a un certo or- dine 7 DE si ((‘E. 0 EE,1:00,4,98 470) LOL 000 A+utv=n, (1) La convergenza di questa serie risulta indirettamente in forza dei teoremi II e Ill: direttamente è stabilita, al lemma II della Nota (B). — 263 — esistano tutte, e sieno finite e continue in tutto lo spazio S e per tutti i valori di t>f: allora dalla (23) risulta che ogni integrale regolare della (1) ammette anche esso tutte le derivate parziali dei primi x ordini rispetto alle variabili 7 ,y,, e tali derivate sono finite e contiuue in tutto lo spazio S e per tutti 1 valori di {= #. ERRATA CORRIGE. Al numero 1 della Nota (C) invece che « diremo che (2, t) è un integrale regolare du(e , t) della (1), ecc ..... la derivata essendo una funzione integrabile parzialmente ri- spetto ad 2, nell’intervallo 01, in senso di Lebesgue qualunque sia { > to » occorre leg- dux , t) (e gere « diremo ecc......., la derivata essendo una funzione integrabile parzial- mente rispetto ad 4, nell’intervallo 01, insieme al suo quadrato, in senso di Lebesgne, qualunque sia tf = ty ». Meccanica. — Sul moto di una massa liquida che conserva la forma ellissoidale. Nota di Tommaso BoaGro, presentata dal Socio T. Levi-Civira ('). Il problema della determinazione dei casi possibili di movimento di una massa fluida incompressibile, le cui particelle sì attraggono colla legge di Newton, nell'ipotesi che la sua superficie, soggetta a pressione costante, conservi la forma di un ellissoide (i cui assi variano durante il movimento) è stato posto da Dirichlet (a. 1860), il quale ha anche trovato e studiato certi casi semplici di movimento. In seguito il problema è stato oggetto di ricerche da parte di Riemann e di varî altri (Dedekind, Brioschi, Betti, Padova, Greenhill, Basset, Tedone), i quali (Riemann sovra tutto) vi hanno apportato notevoli contributi. Recentemente, il problema è stato ripreso dallo Stekloff (°), il quale, con metodo diverso, ottiene altre equazioni differenziali del problema, che gli permettono di compiere una più profonda analisi della questione, e di determinare così varî nuovi casi di movimento. Il procedimento adoperato dallo Stekloff per stabilire le sue equazioni e tre loro integrali (scalari), è molto complesso; vi si ricorre ai soliti assi fissi e mobili, alla trasformazione delle equazioni idrodinamiche di Eulero (1) Pervenuta all'Accademia il 13 agosto 1912. (*) W. Stekloff, Problème du mouvement d'une masse fluide incompressible, ecc., Annales scientifiques de l’Ecole Normale Supérieure de Paris, 8 série, tom. 25 e 26, anni 1908, 1909. — Dod — rispetto agli assi mobili, ecc. Ciò obbliga a calcoli assai lunghi, che, per lo più, non sono riportati dall'autore. In questa Nota, con procedimento del tutto diverso, e quanto mai sem- plice, stabilisco, in forma intrinseca, le equazioni del problema, e ne deduco, con calcoli brevissimi, alcuni integrali (equivalenti a sette integrali scalari), dei quali determino anche il significato meccanico. Adopero i metodi moderni del calcolo vettoriale omografico (*), il quale si presenta, nel modo più naturale e spontaneo, come il più adatto allo studio della nostra questione, visto che entrano in gioco delle trasformazioni lineari. La trattazione è perciò liberata da ogni sorta di assi e coordinate, non in- tervenendo se non elementi meccanici strettamente inerenti al problema con- siderato. L'ellissoide stesso, viene individuato, non già per mezzo della sua equa- zione, ma mediante la sua omografia indicatrice, e in tal modo è introdotto senz'altro nei calcoli. Le formule risultano, in conseguenza, di una semplicità pressochè insu- perabile (?): e ì calcoli per ottenerle sono così brevi e immediati, che ho potuto esporli per intero in questo breve scritto, in cui sono ritrovati tutti i risultati dati dallo Stekloff nel cap. I della sua Memoria, con qualche risultato nuovo. È appunto in grazia a tale semplicità, che mi è stato facile trovare nuovi integrali, oltre quelli dati dallo Stekloff; in particolare, mentre egli dimostra. con lunghi calcoli, che un certo vettore ha lunghezza costante, io ho potuto invece stabilire che il vettore stesso sì mantiene invariato du- rante tutto il moto (il che dà due integrali in più). Nè c è da meravigliarsi che uno scienziato come lo Stekloff non abbia trovato il risultato, più completo, ora accennato: data l'enorma complicazione delle equazioni cartesiane, non si vedeva proprio la possibilità di poter ot- tenere di più. In un'Appendice espongo poi il calcolo di due integrali, che si presen- tano spesso, in problemi relativi all’ellissoide. 1. Consideriamo una massa di liquido perfetto incompressibile, e indi- chiamo con p l'intensità della pressione in un punto qualunque P di questa ‘massa, la cui densità, per semplicità, supporremo eguale ad 1. Supposto poi che le forze agenti sul liquido, riferite all'unità di massa, (1) Cfr. Burali-Forti e Marcolongo, Omografie vettoriali con applicazioni, ecc, Torino, G. B. Petrini, 1909. Nel seguito, questo libro verrà citato con (0. ».). Da poco venne alla luce, col titolo: 7'ransformations linéaires, l'edizione francese (interamente rifatta e aumentata) di quest'opera. (Casa editrice: Mattei e C. Pavia). (2) Da esse si possono, volendo, ricavare immediatamente le equazioni cartesiane dello Stekloff. AS derivino da un potenziale U, le equazioni indefinite del movimento del li- quido possono scriversi sotto la forma ('): (1) P'—= grad (U—p), (2) i diver 07 ove P', P” indicano rispettivamente le derivate prima e seconda di P ri- spetto al tempo ‘. La (2) altro non è che la condizione di incompressibilità della massa liquida. A queste equazioni indefinite bisogna poi ancora aggiungere una condi- zione ai limiti. Sia /(P,)==0 l'equazione della superficie 2 che limita la massa liquida. In ogni punto P di detta superficie, la derivata totale di / rispetto a / sarà nulla: quindi dad IO di di ab di 0, (CUE2)E od ancora (0. v., pag. 50, [3})): (3) elia dB 0), - (SUE f' essendo la derivata parziale di / rispetto a 4. Il problema si riduce alla determinazione della velocità P' e della pres- sione p (che sono funzioni delle variabili indipendenti P e ?), per mezzo delle (1), (2), (3). 2. Supponiamo che la velocità P' sia funzione lineare (ed omogenea) del vettore P— 0, ove O è un punto fisso. Assumiamo cioè : (4) EP — e(P_0), ove @ è un’'omografia vettoriale, funzione solo di # (e non di P). È facile il vedere che. in tale ipotesi, le linee vorticose sono, in ogni istante, relte parallele fra loro. Infatti. l'equazione differenziale delle linee vorticose è: rots PPAdP = 0. Ora, ricordando anche la (4), si ha: dP' —*2 IP Va, (a) rote P=2V dunque: Ve\dP = 0; perciò, integrando: VaA(P— P,)=0, essendo Py un punto fisso (posizione iniziale di P). c. d. d. Sostituendo poi la (4) nella (1), si ha: e(P— 0) + eP'=grad(U—p); ovvero, per la (4) stessa, (5) (a' + e?) (P— 0) =- grad(U — p). (1) Cfr. ad esempio Burali-Forti e Marcolongo, Eléments de calcul vectoriel ecc., pp. :40-141, Paris, A. Hermann, 1910; oppure: Marcolongo, 7'heoretische Mechanik, Bd. II, S. 310, 312, Leipzig, G. B. Teubner, 1912. RenDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 85 — 266 — Eliminiamo p da quest'equazione; si ha da essa: ed 4oa= dgradli pì ; e poichè il 2° membro è una dilatazione (0. v., pag. 54, [15]), ne segue la proprietà: (6) V(a' + a’)=0. La (6) potrebbe pure dedursi subito dalla nota equazione idrodinamica di Helmbholtz (). Dopo ciò, dalla (5), ricordando una nota formula (0. v., pag. 52, [9]) si deduce l'integrale seguente: (7) U—-p=35(P_0)X(a' +a°)(P_—0)+4, ove — è una funzione arbitraria di £. Sostituendo poi la (4) nella (2), si ottiene (0. »., pag. 57, [10]): (8) La = 0 0 Sostituendo del pari nella (3), risulta: (9) f'+grad fx a(P—0)=0, (SUN2S): Ad ogni omografia @, funzione di #. che soddisfa alle (6), (8), (9), corri- sponde un movimento possibile del liquido limitato dalla superficie Z. La. pressione idrodinamica, in ogni punto del liquido, è poi data dalla (7). 3. Supponiamo, ora, che la superficie X sia un ellissoide, avente per centro il punto fisso 0; potremo perciò porre: (10) f(P,t)=(P—0)Xo(P—0)—1=0. ove o è una dilatazione, funzione di , i cui 3 invarianti debbono necessa- riamente esser positivi (0. v., pp. 9, 11, 12). Sostituendo nella (9), si ha (0. »., pag. 52. [9)): (P— 0)Xo(P— 0)+2e(P—0)Xe(PT_0)=0, (su 2), od ancora: (P— 0) X(0'+ 20a)(P — 0) =0, (su 2), la quale, dovendo essere soddisfatta qualunque sia la direzione del vettore P_— 0, esprime (0. v., pag. 13, [2]) che l'omografia 0' + 20@ deve essere assiale, cioè: o' + 2D(ca)=0, che può ancora scriversi: (11) o +oa+Ka.o=0. (1) Cfr. la mia Nota: Dimostrazione assoluta deile equazioni classiche dell’ITdrodi- namica, eq. (12). Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. XLV, 1910. = — 267 — Operando a sinistra e a destra con 0-1, si deduce (0. v., pag. 43, in nota): (11) — (07!) + «0-1 +0 Ka=0. 4. Supponiamo, infine, che le particelle liquide della massa considerata sì attraggano scambievolmente colla legge di Newton. Allora U non è altro che il valore, in punti interni, della funzione potenziale della massa omogenea racchiusa dall'ellissoide > definito dalla (10), il quale valore può esprimersi colla formula: USASPRSTOYEI = 0) ove A e / sono rispettivamente un numero ed una dilatazione (funzioni solo di 0), aventi per espressione: an o, o VIz(1+ s0) Ò VI(1+ 59) Dalla (7) si deduce allora, per la pressione p: (O) p=A—hT—i(P—_0)X(a + a+ 28)(P—0); ne segue che, in ogni istante, le superficie p == cost sono le quadriche omo- tetiche indicatrici della dilatazione @' + a? 4- 2}. Ciò posto, supponiamo che la superficie X, limitante la massa liquida, sia libera; allora su essa dovrà esercitarsi una pressione sempre costante, e perciò al sistema di quadriche omotetiche, ora accennato, deve apparte- nere pure l'ellissoide (10); dunque dovremo avere: (12) o' |a +28 =—2%0o , AT—NhN+k=cost, ove 4% è una funzione arbitrària di £. Se giciamo i,j,k tre vettori unitarî paralleli alle direzioni principali della dilatazione o (0. v., pag. 11), 0, ciò che è lo stesso, agli assi dell’el- lissoide X — e quindi funzioni di £ — e si applicano le (11), (12) ai vettori i,j,k, si ottengono senz'altro le 15 equazioni (40), (44), (41), (42), (43) della Memoria dello Stekloff, mentre la sua equazione (39) non è altro che la nostra (8). 5. Stabiliamo ora alcuni integrali delle (11), (12). In primo luogo sussiste l'integrale delle forze vive, perchè esiste il potenziale delle forze; esso si scrive, indicando con S lo spazio racchiuso dall’ellissoide X, J P? d$ — {0 48= cost; S . L'ultimo membro, in virtù del teorema della divergenza, vale I div [(oa)(P — 0)]d$, S od ancora (0. v., pag. 57, [10]]): { Lea) dS, cioè S-I(0-a); e ciò «/ S dimostra la (I). Dalla (I), specializzando opportunamente l’omografia @, si ottengono subito i momenti d'inerzia dell’ellissoide S, rispetto ai suoi piani diame- trali principali. Per dimostrare la (Il), poniamo, nella (I), aA@ al posto di @ (a essendo un vettore costante qualunque), e avremo: IL (P—0)Xa/a(PT— 0)dS=S-I(a/\ao-!)/5, S cioè (0. v., pag. 19, [12)): — ax f (P—_ 0)\a(P— 0) dS=—S-aX 2V(ao-)/5, S la quale, per l’arbitrarietà di a, dimostra la (II). — 271 — Fisica matematica. — Zormule del Green e metodi del Betti nella teoria del moto lento dei liquidi viscosi. Nota II di UMBERTO CRUDELI, presentata dal Corrisp. A. Di LEGGE ('). Abbiamo veduto nella Nota I che U 7) 19du »(£) °u , 0(%) (5)bis 12 de ( —Lde= (“22484 fa dI dt Occorre adesso prendere in considerazione l'ultimo integrale del secondo membro. A tal fine premetto un lemma, indicando con E(È ,7,6,%) una funzione, sulla quale intenderemo lecite le operazioni che seguono. Durante l'intervallo di dot T) T> avremo dE i DIRE 24 La = ST5S] do= ${Edo= | | Edo (*) Ma (indicando con s il contorno di 0) si ha ci a do — f Bunds=d | Bdo— Ruyds. on Quindi ES de do +3. ( Bdo — | tuyds=® ( Edo. toto 3; Ca 10 di do' = 3 co uni). Kun ds . Da cui Quest'ultima formula non contiene più elementi relativi all’interno dello spazio fisso o e può interpretarsi come una formula relativa allo spazio ', ben inteso sotto certe restrizioni per la E nel campo ' stesso, sulle quali non è il caso di discutere e che, nell’applicazione che ne faremo noi, risul- tano implicitamente soddisfatte. Avremo, dunque, durante l'intervallo di tempo 7,7: (intervallo indi- pendente dal raggio % della sfera) Do TONI DC fe 3 da = do + f ft as. DIR (*) Pervenuta all'Accademia il 6 agosto 1912. d v hanno lo stesso significato. dC (2) Evidentemente, sa) e dt ]w — 272 — e quindi Ae DI (Duna (puafrea e Ovvero U (4) d (Cw JA J di dhe SPIA — do' + ngi Ds UA Talchè, indicando con 7 un istante generico dell'intervallo 7, #,, avremo, tenendo presente che il punto (x,y ,4) viene riguardato come fisso, Saf | Cr AC aa RR SCI Ma Tia (a (1 go=0. Ai=0 Ta o dI Dunque o(4) : - d P =} | MZ See de=i[ de Da cui «(Bs DEN, a Li 1 Ji do nl Si do 0). Talchè, ritornando alla formula (5p;s), avremo 1 du U Un Jide to: ds+3 f£ dei Analogamente avremmo E do f Ea ds+3 | 2 do, 193w W Un fit do= | 2484 ì Sicchè, sostituendo rispettivamente nelle (8), (4), (5) (ved. Nota I), quindi (4) La dimostrazione per istabilire questa formula è stata necessaria, per il com- pleto rigore, a motivo della singolarità della = — 273 — derivando la (3) rispetto ad «, la (4) rispetto ad y e la (5) rispetto a 2, e poi sommando, dopo avere osservato che 1 | Pdo=— sape > VARIGIONO) e che, richiamando l’ incompressibilità, d usi IC cos nc + v cos ny + w cos ne) T avremo appunto la formula (2). Ora, osservando che > cos ny + Ù cos #5 | dS = 2() Zi da dS avremo che la (2) può anche scriversi È dove nella G, oltre naturalmente a 0 e w e, sotto segni di integrali, alle x forze di massa ed a funzioni ben note della teoria del potenziale, figure- (6) 47rp — dS=G, ranno soltanto, sotto segni di integrali, le «,v,w sul contorno ele di dn ° dv dw OT . Ciò premesso, osservando che, col tendere del punto (x, y,<) ad un punto del contorno, l'integrale che figura nel [Deo membro della (6) tende verso il IN 1 Nazi (7) lim {pal ds=27 ar po === di dn dn Renpiconti. 19!2, Vol. XXI, 2° Sem. 36 — 274 — (dove l'indice S sta ad indicare che siamo sul contorno S) avremo s() © 2a pi f pl ds aa. Ciò viene a dirci che, nel nostro caso, e per él nostro scopo, la ps può considerarsi come soluzione di una equazione integrale di tipo ben noto. E poichè (in virtù di quanto ci dice la teoria di detta equazione integrale) (*) l'equazione a(1) Ts Dit: (8) 2a®.— fo a5=0 ammette l'unica soluzione data da una funzione arbitraria del solo tempo, ne risulta che noi potremo intendere che la (7) ci porga la ps sotto la forma che noi volevamo. Ora, sostituendo nella (2) al posto di ps la espressione in discorso, avremo, nell'interno dello spazio w, la p sotto la forma voluta (a meno di una funzione del solo tempo). Forma, però, che non appartiene più a quella del Green e che, essendo Gs = lim G, chiarisce il significato dell'espressione « sotto segni d’integrali » contenuta nella seconda pagina della Nota I, segni di integrali fra cui, come si vede, resultano compresi anche quelli situati appresso il suddetto segno di limite (?). Fisici. — Su di un nuovo tipo di rivelatore di onde elet- tromagnetiche fondato sull’emissione elettronica dei fili incande- scenti. Nota di Quirino MAJORANA, presentata dal Socio P. BLa- SERNA (°). In una Nota riportata nel precedente Rendiconto di questa Accademia, ho esposto considerazioni ed esperienze, dalle quali facilmente si deduce quale possa essere la teoria dei due rivelatori, fondati sull'emissione elet- tronica dei filamenti incandescenti, e chiamati, rispettivamente, valvola ed audion. In questa Nota voglio dire di un terzo tipo di rivelatore che, essendo fondato sull'utilizzazione dello stesso fenomeno fisico, è stato da me rea- (') Vedasi Lauricella, Nuovo Cimento, serie V, tomo XIII (1907), pag. 244. Inoltre (vedasi pure Lauricella, loc. cit., pag. 246) indicando con H la soluzione dell’equazione coniugata della (8), sarà necessariamente fo. dSs=0. Ss (*) Cfr. Rend. CI. se. fis. mat. e nat. Vol. XXI, fasc. IV, 2° sem. (*) Pervenuta all'Accademia il 15 agosto 1912. — 275 — lizzato. Questo nuovo tipo, dalle prove eseguite effettivamente, appare di sen- sibilità maggiore di quella dello stesso av4dion, che finora doveva ritenersi il rivelatore radiotelegrafico più sensibile. Esso può denominarsi deviatore elettronico, ed è basato sul concetto di provocare spostamenti o deviazioni delle correnti elettroniche provenienti da un filamento incandescente e ca- denti su di una lamina fredda, mediante elettrizzazioni sia positive sia ne- gative, provocate dall'arrivo di onde elettromagnetiche. A tali spostamenti corrispondono affievolimenti di una corrente locale, che danno luogo a la for- mazione dei segnali, p. es., in un telefono. Perchè la disposizione che ora descriverò riesca di squisita sensibilità, gli spostamenti da essa provocati sono normali alla direzione dell’emissione elettronica. Ecco ora in che cosa essa consiste : È ink CoA )G Ai ia JR (O 6 Un'ampolla di vetro, di circa 3 cm. di diametro (vedi figura), ed in cui è stato fatto il vuoto più spinto possibile, contiene quattro organi conduttori: F è un filamento, preferibilmente metallico, che può essere riscaldato, me- diante la corrente di una batteria A, attraverso i reofori a, d; p, e pr sono due pettini metallici, contenuti nello stesso piano, in cui i fili si alternano senza toccarsi; i pettini comunicano rispettivamente con i reofori e, 4; L è una lamina metallica comunicante col reoforo e. I piani del filamento, dei pettini e della lamina, sono paralleli e distanti l'uno dall'altro pochi mil- limetri. Una batteria B, di circa 30 volt, elettrizza negativamente il fila- mento e positivamente la lamina L; nel suo circuito son compresi un galva- nometro G ed un telefono D. In queste condizioni, se il filamento è portato quasi al bianco, circola una corrente continua, la quale può essere, dipen- dentemente dalla forma e dalle dimensioni dell'apparecchio, di circa mezzo miliampère. Gli elettroni negativi, che dal filamento vanno alla lamina e — 276 — ai quali è doyuta tale corrente, traversano gli spazii intercedenti fra i pettini Pi Pz, e, in parte, sono da questi trattenuti. La forma, la distanza dal fila- mento e dalla lamina e le dimensioni dei pettini sono state studiate in guisa che la diminuzione della corrente elettronica, accusata dal galvanometro, per la presenza dei pettini stessi, sia circa del 10 °/,. Perchè ciò avvenga, oc- corre inoltre che i potenziali dei pettini sieno identici, e cbe essi non dif- feriscano notevolmente dal potenziale medio del filo incandescente F. Se però sì crea una differenza di potenziale, anche leggera. fra p, e p», la intensità di corrente che si osserva al galvanometro resta immediatamente diminuita. Ciò proviene dal fatto che una parte degli elettroni negativi, venendo respinta dal pettine negativo e attratta verso il positivo, viene a battere su questo, piuttosto che sulla lamina L. La disposizione ‘è tanto sensibile che basta qualche diecina di volt per annullare, quasi completamente, la corrente ac- cusata, in condizioni di riposo, dal galvanometro. A variazioni così intense di corrente, corrispondono rumori intensi al telefono. Se ora, invece di cariche statiche sui pettini, si tratta di cariche alternate, l’arrivo degli elettroni negativi sulla lamina segue le alternazioni delle cariche stesse. Il galvanometro, per l'inerzia del suo equipaggio, finisce con l'accusare una deviazione media inferiore a quella massima di riposo; ed il telefono, dentro i limiti della sua funzionabilità, ripete un suono, se la frequenza delle alternazioni è di carattere acustico; tace se si tratta di rapidissime oscilla- zioni elettriche persistenti e costanti; 0, infine, accusa con rumori o suoni le eventuali brusche variazioni o le modulazioni delle oscillazioni stesse. Per cui la descritta disposizione può, assai utilmente, essere adoperata in radio- telesratia od in radiotelefonia. All'uopo, basta collegare i reofori c e d con due punti di un circuito ricevente, fra cui esista differenza di potenziale oscil- lante: p. es. con le armature di un condensatore facente parte di tale circuito. Il deviatore, essendo sensibile alle differenze di potenziale e non alle correnti oscillanti, deve essere applicato là dove tali differenze sono più no- tevoli. È dunque opportuno di costruire un circuito oscillante finale, risuonante con l'antenna accordata con le onde arrivanti, che abbia grande auto-induzione e piccola capacità. Questo circuito è connesso direttamente con il deviatore; praticamente può anche sopprimersi la capacità, bastando, ai fini della risuo- nanza, la capacità dei pettini e quella propria della bobina oscillante, la quale ultima, in questo caso, viene a possedere autoinduzione, relativamente, molto grande. Per quauto concerne la sicurezza di funzionamento, posso dire che il deviatore ha dato ottimi risultati. Solo è da avvertire che non devesi spingere eccessivamente l'incandescenza del filo: ciò, se da un canto dà luogo ad aumento notevole della sensibilità dell'apparecchio, dall'altro, oltre ad accor- ciare la durata dell'apparecchio stesso, rende necessarie continue variazioni «nella f. e. m. della batteria locale B, al fine di ottenere il massimo effetto — 270 — di ricezione. Tali variazioni provengono da due cause: da un lato, dal cam- biamento dello stato di rarefazione dell’ampolla, dipendente da emissione e talvolta da assorbimento di gas da parte del filamento incandescente; dall'altro, cosa che è più grave, da un deposito di ossidi metallici, provenienti dalla volatilizzazione del filamento. Questo deposito va a formarsi lentamente sulla lamina L e, a lungo andare, ne rende isolante la superficie. Ciò ho potuto constatare saggiando lamine tolte da deviatori posti fuori uso; questi, mentre prima lavoravano bene già con 20-25 volts, dovevano poi essere ci- mentati con più di 100 volt per dar luogo ad un sufficiente passaggio di elettricità negativa dal filamento alla lamina. Sotto questo viguario è prefe- ribile di adoperare filamenti di carbone, piuttosto che di tantalio, metallo che, di solito, io uso. Il carbone dà luogo, se mai, a depositi, che sono sempre con- duttori, ma ha l'inconveniente di esigere energia maggiore, di fronte ai tila- menti metallici, per ivradiare la stessa quantità di elettricità negativa. Da quanto ho esposto e tenendo presente quanto ‘dissi nella Nota pre- cedente, risulta che, mentre la valvola agisce solo sotto la azione delle mezze onde negative, l'audzon è sensibile ad entrambe le mezze onde, ma, con preferenza, alle negative; ed il deviatore sente egualmente le mezze onde dei due segni. Quanto ai risultati pratici ottenuti posso accennare ai seguenti: Un de- viatore raccoglie i segnali ricevuti dall'antenna alta 24 metri, dell'Istituto Superiore dei Telegrafi in Roma. Esso è capace di accusare con grande inten- sità quelli delle stazioni della R. Marina Italiana più prossime, e, bene, quelli di quasi tutte le altre e delle navi nei mari circondanti la nostra pe- nisola. La stazione di Vittoria, in Sicilia (distanza km. 580), quando lavora in buone condizioni, dà al deviatore segnali che si possono percepire anche se il telefono è staccato per circa 5 cm. dall’orecchio. Come si è detto in principio, il deviatore può funzionare con cariche alternate di qualsiasi frequenza. Esso dunque, oltre a poter essere adoperato come ricevitore radiotelegrafico, può effettivamente funzionare come 7r/pe- titore telefonico. Basta all'uopo servirsi di una bobina di induzione, il cui secoudario abbia un numero di spire elevato, e riunire gli estremi di tale se- condario con i due pettini del deviatore. Le differenze di potenziale oscil- lanti con le frequenze acustiche ed indotte dal primario della bobina, creano delle cariche che danno luogo a pulsazioni della corrente traversante il cir- cuito della batteria B, sufficienti a riprodurre nettamente i suoni o le parole trasmesse, nel telefono D. Per poter chiamare il devzazore elettronico anche relay telefonico, occorrerebbe che la energia raccolta dal telefono D fosse superiore a quella immessa nella bobina di ioduzione telefonica. Ciò, per vero, non sembra avvenire nel caso di apparecchi costruiti da me con forma e dimensioni appropriate ai bisogni radiotelegrafici; mi riservo, quindi, di esporre in seguito altre considerazioni ed esperienze sull'argomento. — 278 — Chimica-fisica. — Sul calore di formazione dell’acido sele- nidrico. Nota di Lurei RoLia ('), presentata dal Corrispondente A. GaRBASSO (°). 1. Il comportamento singolare dell'acido selenidrico nella dissociazione (*) rende necessaria una determinazione sicura del calore di formazione di questo composto, tanto più che i dati esistenti sono grandemente discordanti. È noto infatti che, secondo le determinazioni di Hantefeuille (4) l’idro- geno si combina col selenio per dare idrogeno seleniato gassoso, con assor- bimento di 11100 calorie. Questo numero è stato corretto da Fabre (°), il quale determinò il ca- lore di formazione di H»Se per tre vie differenti, e cioè studiando calorime- tricamente l’azione su questo gas del cloruro ferrico, dell'acqua ossigenata e del biossido di selenio. Col primo metodo trovò — 19000 calorie col secondo » ” — 31000 ” e coll'ultimo » ’ — 20400 ” Tutti questi numeri si riferiscono al selenio amorfo. L'incertezza di questi risultati sta soprattutto nella difficoltà di trovare un metodo per cui si possano eliminare le enormi cause d'errore che pro- vengono dalla facile decomponibilità dell'idrogeno seleniato. 2. La reazione dell'iodio sull'acido selenidrico (che già Hautefewille (5) aveva studiato da un punto di vista puramente qualitativo), la quale avviene, almeno in certe condizioni, senza reazioni secondarie, permette di ricavare dei valori precisi. Già Hautefeuille aveva osservato che, scaldando in tubo chiuso una mi- scela di selenio e di acido iodidrico si forma dell’acido selenidrico: abbassando la temperatura, la reazione inversa si produce (7). Ciò significa che la rea- zione reversibile (1) 2HI + Se 2 HsSe+ I, (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica Generale della R. Università di Genova. (*) Pervenuta all'Accademia il 9 agosto 1912. (3) Pélabon, Thèses de la Faculté de Bordeaux (1898); Duhem, Méc. Chim, II, 847; Van’t Hoff, Vorles (1901) I, 208. (4) C. R. 68, 1554 (1868). (5) Ann. de Chimie et de Phys. (6), /0, 485 (1887). (5) Comptes Rendus, loc. cit. (7) Cfr. Moissan, Traité de Chimie minérale, I, 467. — 279 — procede endotermicamente da sinistra a destra, in modo che un abbassamento di temperatura favorisce la formazione dell'idrogeno seleniato. In realtà la determinazione dell'equilibrio che si raggiunge colla (1) presenta delle no- tevoli difficoltà sperimentali. Prima di tutto, per non far nascere dei dubbî sull'attendibilità dei risultati, bisogna essere in grado di escludere, nel modo più assoluto, una qualunque reazione tra selenio e iodio, giacchè la loro posizione nel sistema periodico porterebbe ragionevolmente a ritenere che siano relativamente stabili e facilmente ottenibili gli soduri de selenzo. Schneider (!) aveva infatti creduto che sì potessero ottenere due com- posti definiti Ses I, e Sel, fondendo (o semplicemente mescolando intima- mente in un mortajo) delle miscele di selenio e iodio nelle proporzioni cal- colate. Il primo fonderebbe a 68-70°, e l’altro a 75-80. Senonchè Pellini e Pedrina (?) hanno dimostrato, mediante i metodi dell'analisi termica, che « il selenio e l’iodio non formano alcun composto fra loro e nemmeno dànno luogo a cristalli misti sia pure in rapporto assai limitato. L'eutettico fonde a 58° e corrisponde quasi esattamente al creduto composto Ses I. ». D'altronde si può escludere con certezza qualunque rea- zione tra selenio e iodio finchè non sì raggiunga una temperatura di circa 50°, L'acido selenidrico poi si decompone non solo in presenza dell’aria per azione dell’ossigeno, ma anche sotto l’azione della luce, sebbene che, stando alle osservazioni di Forcraud e Forzes-Diacon (*), « questa eserciti un'in- fluenza meno energica di quanto possa far supporre la formazione forlemente endotermica (dati di Fabre) del composto ». Per essere sicuri di raggiungere l’equilibrio (1) è dunque necessario operare sempre in atmosfera di idrogeno e impedire che il gas selenidrico rimanga a riempire per un lungo tempo l'apparecchio. ll metodo è, in so- stanza, quello che fu già seguìto per la determinazione delle tensioni di vapore (4) e in altri casi consimili (?). In un tubo, mantenuto a temperatura costante, dal quale è scacciata l'aria sostituendola con idrogeno puro, è contenuta una miscela di iodio e selenio attraverso la quale passa una corrente di idrogeno seleniato secco e puro. Ha luogo la (1) e si ha dunque una miscela gassosa composta di H, Se, HI , I, H; (essendo la tensione del vapore di selenio praticamente nulla alla temperatura dell'esperienza) in equilibrio coll’iodio e col selenio solidi. La composizione della miscela gassosa si può stabilire, facendo dap- prima condensare tutto il vapore di iodio in un serpentino mantenuto a tem- peratura così bassa che l’iodio abbia una tensione praticamente nulla, e poi (1) Pogg. Ann. 129, 627 (1866). (2) Gazz. Chim. it. (1909) I, 28; II, 436. (#) Ann. de Chimie et de Phys. (7), 26, 247. (4) Barker, Dissertation, Berlin, 1903. (5) Pollitzer, Dissertation, Berlin, 1909. — 280 — facendo assorbire dalla potassa l'acido iodidrico e selenidrico. Questi si do- sano coi metodi dell'analisi quantitativa: l'idrogeno si può preparare e mi- surare per via elettrochimica. Se con un manometro si misura l'eccesso di pressione della miscela gassosa su quella atmosferica, si hanno tutti i dati per il calcolo dell'equilibrio. Infatti, ammessa la (1), la costante di equi- librio K è data da MEI ©) Le [HsSe] indicando colle parentesi quadre le concernirazioni. Introducendo nel calcolo le pressioni parziali p,,ps dell' HI e dell’ H; Se rispettivamente, 12 (3) Tr a La pressione p che si legge nel manometro inserito nell’apparecchio sommata con quella barometrica P rappresenta la somma delle pressioni parziali dell'acido iodidrico, selenidrico, del vapore di iodio e dell'idrogeno: dunque se 7,: 72:73 è il rapporto fra il numero di molecole grammo di HI, H.Se, H», essendo la tensione p4 dell'iodio, per una temperatura, una co- stante nota ('), avremo TTM, Ls mtb no + 3° TTHa Le nd no 4 #3 dove #7 =p + P—p,. Allora la (8) si scrive (ren)? ss c (21 + no 4 #3) na ; In una Nota successiva verranno esposte le particolarità sperimentali per la determinazione delle quantità che figurano nel primo membro della (4). La seguente tabella riproduce i valori di K trovati: {}) Naumann. Diss. Berlin, 1907. — 281 — TABELLA. TL IReali0= 273,1 2,5636 | 273,1 2,55340 273,1 315656 (e o0o 273,1 9.5560 | 290.0 1,7197 | 290,0 1,7186 290,0 1,7223) Media 1,7194 290.0 1.7178 290,0 1,7191) 300,0 1,3703 I ao 1.3734| Media 1,8724 300,0 1,8741 300,0 a Questi numeri sono scelti fra quelli che maggiormente concordarono nelle numerose esperienze eseguite (circa 60). Si vede che le medie delle differenze tra i valori singoli trovati e i valori medî di K per le tre tem- perature considerate sono sempre assai piccole. Con questi dati si può calcolare, con buona approssimazione, la tonalità termica della reazione H, Se + I» solito = 2HI + Se solido — 9, integrando l'isocora del Van't Hoff: d In K GIONA q=- RT! nell'ipotesi che g sia costante fra due temperature T,= 300 e T, = 290, alle quali K ha il valore rispettivamente K, e K,. Si ha TT, K, T,—T, °K, q= — 4,571 ossia q= — 3953,65 calorie. Questo numero è stato calcolato coi valori medî di K, e K, dati dalla tabella. RenDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 87 — 282 — Se sì pone 2HI=H,+1I,+2X6036 calorie (?) sì ottiene immediatamente H+ Seso.= H, Se — 16025,6 calorie. Questo dato si riferisce al selenzo amorfo che si separa nella reazione studiata. Valendosi della misura di Petersen (?) si può calcolare il calore di formazione dell'acido selenidrico gassoso partendo dalle altre modificazioni allotropiche del selenio. Si ha Hs + Segr = Ha Se — 16025 + 1050 cal. = — 17075 cal. Hs 4 Se, = Ha Se — 16025 + 1450 cal. = — 17455 cal. Ses rappresenta il selenio monoclino, solubile in solfuro di carbonio e Se, il selenio cristallino che si ottiene per riscaldamento prolungato a 180° del selenio fuso. Secondo le misure di Fabre, si aveva, come valore medio H, 4 Se, = HsSe — 25400 cal. e cioè un valore notevolmente più grande di quello ricavato da misure più esatte. 3. È assai interessante un confronto fra il valore ottenuto e quello che si calcola dalle esperienze di Pélabon (*) su la dissociazione dell'idrogeno seleniato. A temperature superiori a 325°, le costanti M,N,P dell'espressione (5) MK= 2 NluT+P considerata come formula empirica, e dove K! rappresenta la costante di equilibrio della reazione HSSeHC + Selig D si possono calcolare coi dati sperimentali. Considerando il caso ideale di un selenio che sia liquido anche alla temperatura ordinaria e che abbia un ca- (1) Pollitzer, loc. cit. (2) Zeit. f. phys. Ch. 8, 612 (1891). (8) Loc. cit., pag. 68. — 283 — lore specifico indipendente dalla temperatura, il calore di formazione di H, Se gassoso (ammesso che si comporti come un gas perfetto) sarebbe dato dal- l’espressione (6) Q= R(M— NT) ossia per T= 290, Q=— 17467,6 ("). La concordanza tra il valore ideale così calcolato e quello trovato è notevole, per quanto non perfetta; è da osservarsi intanto che il valore spe- rimentale esatto è notevolmente più basso del teorico, come è ben preve- dibile. La determinazione della costante di dissociazione dell'acido selenidrico potrebbe essere fatta, in via indiretta, anche alla temperatura alla quale fu determinata la K della (1), se non si fosse nel campo dei falsi equilibrî. (ED? [8,] _ [D? [H:][H; Se] — [HsSe] Basterebbe considerare che K = La curva che rappresenta la variazione di K* colla temperatura mostra a 575° un massimo ben netto. Questo punto si calcola con buona approssi- mazione uguagliando a zero la derivata prima delle (5), e lo stesso risultato sì ottiene del resto ponendo uguale a zero il secondo membro della (6). Ma così non si riesce evidentemente ad avere un'idea del significato fisico delle grandezze che determinano il punto di massimo, dato il carattere della (5) e il modo col quale essa si ricava dalle formole di Gibbs. Solo introducendo il principio di Nernst è possibile determinare mediante i dati termici il punto nel quale il segno del calore di formazione dell'acido sele- nidrico s' inverte. Una tale verifica, la quale costituisce d'altra parte una prova della nuova legge di termodinamica, sarà oggetto di una prossima Nota. (£) M=13170.3, N=15,53 (cfr. Duhem, loc. cit., pag. 359). — 284 — Chimica. — Solfati anidri. Seguito della V Nota di G. CaL- cagnI e G. MAROTTA, presentata dal Socio E. PATERNO. Sistema K. SO, - Pb SO,. I risultati ottenuti sono raccolti nella tabella III e nel diagramma fig. 3. Questo diagramma ha una grande somiglianza con quello K, SO, - Ba SO, ; ne ditferisce solo per la mancanza del massimo nel campo dei cristalli misti. TaBELLA III. Sàlogsl=a=a| aa | 5858] 58 | 533A | 4432 Eéo0 |5£25 DL Ae ES599 Nani ASTS Ade | ASS RESSE i 5 2 5 iS el o Au Hic 5 5 ES SD SCE BSss Esa ni Au = = STO HI HB G GE IS) ps) 100 0 100 0 1066° | = = — 590° | — 95 bj 97,06 2,94 1063 -- —_ 565° 550 - 90 10 93,99 6,01 1058 — — - 590 — 85 15 90,78 9,22 1046 — — 560 550) _ 80 20 87,43 LIZIST 1028 _ _ 580 990 —- 75 25 83,91 16,09 1013 — — 600 590 _ 70 30 80,21 19,79 1003. | — 610° 670 560 — 65 35 76,34 23,66 981 | = 615 760 540 _ 60 40 72,28 27,72 956! 791° 615 — 590 —_ 55 45 67,94 32,06 921 | 789 615 — 540 — 50 50 63,47 36,58 876 796 620 _ 550 866° 45 d9 58,68 42,32 836 796 620 — _ ei 40 60 58,67 46,33 —_ 796 615 — 550 856 36,52 63,48 50,00 50,00 834 796 620 —_ 560 = 85 65 48,94 51,66 856 796 620 —_ 550 856 30 70 42,68 97,32 906 = 615 — 550 = 25 75 36,62 63,38 933 801 620 — 540 856 20 80 30,29 69,71 949 —_ 625 _ 550 840 0 100 0 100 (1010) — — — -- 856 Anche in questo caso noi troviamo formazione di cristalli misti con una lacuna che si estende tra 22°/ e 63°/ circa di K, S0,. Questi limiti sì sono potuti stabilire in modo preciso, non solo, perchè oltre di essi non si è osservata più nelle singole curve di raffreddamento la fermata alla temperatura di 796°, ma anche considerando le durate delle singole fermate. L'eutettico apparisce in un modo evidentissimo alle concentrazioni di 40 °/ K,S0, e 60°/ PbSO,. Il campo dei cristalli misti più ricchi in Ky SO, sì è potuto molto bene delimitare, poichè è stato possibile di costruire la curva EFHK lungo la quale le soluzioni solide si decompongono. Questo, però non si è potuto fare pel campo di cristalli misti più ricchi in Pb SO, per la decomposizione di questo. — 285 — Al di sotto della temperatura eutettica, sulle curve di raffreddamento che vanno dal 73 °/, circa di K, SO, fino al Pb SO, puro, si trova un effetto termico alla temperatura di circa 620°, il quale ha condotto alla costruzione della curva FG. Come nel caso del solfato di Sr, noi spieghiamo questo effetto termico con la formazione di un composto che al di sopra della tem- peratura, alla quale si manifesta, si decompone. L'espediente che ci conduce a stabilire quale composto si forma in questa reazione che si svolge allo stato solido, è la considerazione delle durate delle fermate dei singoli mi- scugli. Nel nostro caso il miscuglio che presenta la massima durata è quello corrispondente alle concentrazioni in peso 36,52 °/, K: 50, e 63,48°/, Pb SO,, da cui si deduce il composto Pb SO,.K,S0,. Abbiamo già veduto nella Nota III (') come questo tipo di solfato doppio fosse frequente in quelli che i solfati dei metalli alcalini formano con quelli degli alcalino-terrosi. Inoltre in principio del presente lavoro noi abbiamo esposto come e da chi questo sale fosse stato preparato e, in seguito, più profondamente studiato. Quindi per tutte queste ragioni concludiamo per la non dubbia formazione del sud- detto sale nelle condizioni sperimentali nostre. (*) Rend., Acc. Lincei, CI. se. fis. e mat., vol. XXI, ser. 5*, 2° sem., pag. 71. doge — Dalla considerazione delle durate delle fermate risulta inoltre che il campo di cristalli misti più ricchi in Pb SO, non sì estende fino a questa curva. Il punto di fusione del solfato di piombo in questo diagramma è a 1010°. Dall'insieme delle discontinuità delle curve di raffreddamento, il dia- gramma risulta così costituito : a) Campo d'esistenza della fase liquida omogenea; d) ” ” delle soluzioni solide 6; c) ” ” ” ” ” CR d) » d'equilibrio tra le soluzioni solide 4 e €; e) ’ ” 7 7 » © e il composto deter- minato K; SO, . Pb S0,; f) : ” ” ” » ec e 8-K, S0,-PbS0,; 9) » d’esistenza di 8-K, SO,- Pb SO,. Concludendo: il solfato di litio non forma nessun composto, come al solito, con Pb SO,; il solfato di sodio neanche forma alcun composto, la quale conclusione, unita con quella a cui erano arrivati A. Ditte e M. Barre ed esposta in principio di questo lavoro, fa dedurre che in nessuna condi- zione sperimentale finora tentata si è potuio ottenere un solfato doppio di sodio e piombo; il solfato di potassio forma un solo composto, Pb SO,. K,S0,, quello stesso che si è ottenuto da soluzioni di sali di potassio con Pb SO,. Chimica vegetale. — Sulla azione di aleune sostanze aro- matiche nella cianogenesi delle piantel'). Nota di C. RAVENNA e G. BosinELLI, presentata dal Socio G. CrAMICIAN (°). In una Nota pubblicata l’anno scorso da uno di noi (*), veniva messa in evidenza una certa analogia esistente fra le variazioni determinate da cause diverse, nel contenuto in alcalcaloidi ed in acido cianidrico delle piante. Ed infatti è stato osservato che il glucosio, come fa aumentare l'acido cianì- drico nel Pangium edule (4), nel Phaseolus lunatus () e nel Sorghum vul- (1) Lavoro eseguito nel laboratorio di chimica agraria della R. Università di Bologna. (*) Pervenuta all'Accademia il 10 agosto 1912. (3) C. Ravenna e V. Babini, Contributo allo studio sulla formazione degli alcaloida nel tabacco. Questi Rendiconti, XX, 2, 393 (1911). (4) M. Treub, Annales du Jardin botanique de Buitenzorg, XIII, 1 (1896). (5) M. Treub, Annales du Jardin botanique de Buitenzorg, IV, serie 2, pag. 86 (1904). — 287 — gare (*), fa pure aumentare la nicotina nel tabacco (*) e che le lesioni trau- matiche, che determinano aumenti in acido prussico nel sorgo (*), sono pure causa di aumenti nella quantità di nicotina contenuta nelle piante di tabacco (4). Le esperienze che desecriviamo nella presente Nota. ebbero lo scopo di ricercare altre eventuali analogie, e precisamente di studiare il contenuto di alcune sostanze aromatiche nelle piante cianogenetiche, giacchè è stato os- servato recentemente che l' inoculazione di tali corpi al tabacco produce una notevole diminuzione nella percentuale di nicotina (*). La pianta prescelta per la ricerca che ora esponiamo fu il Sorghum vulgare, sul quale si sperimentarono l'acido benzoico, l'acido salicilico, l'acido ftalico, la pirocatechina, la resorcina, l'idrochinone ed il pirogallolo. Tutte queste sostanze erano somministrate alle piante, introducendole, solide, in un'apertura praticata nel fusto, che poi veniva richiusa e paraffinata. Acido benzoico. — Questo corpo fu adoperato allo stato di benzoato sodico che fu inoculato in tre piante nei giorni 5, 13 e 18 luglio, nella quan- tità totale di gr. 5. Le piante, che non diedero segno alcuno di sofferenza, si raccolsero il 22 luglio. Esse vennero finemente triturate, e la poltiglia fu posta a macerare per 24 ore con acqua, poi distillata in corrente di vapore su latte di magnesia fino ad esaurimento dell'acido cianidrico. Nel liquido rac- colto si faceva quindi la titolazione con nitrato d'argento decinormale, impie- gando come indicatore il cromato di potassio. Le operazioni si eseguirono separatamente sulle tre piante, e diedero i risultati che appariscono nel se- guente prospetto : o vd 5.5 | Peso della Ag NO; È E ianta si HCN se E 10 l gr. 435 c.c. 20,2 |0,1253 p. mille 2 » 439 n 25,0 |0,1537 » 3 » 229 » 4,0 | 0,1651 D) (1) C. Ravenna e A. Peli, Gazzetta chimica italiana, XXXVII, 2, 586 (1907). (2) G. Ciamician e C. Ravenna, Sul contegno di alcune sostanze organiche nei ve- getali, IV Memoria. Memorie della R. Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna, serie VI, tomo VIII, pag. 47 (1910-11). Vedasi anche: questi Rendiconti, XX, 1, 614 (1911). (8) C. Ravenna e M. Zamorani, Ze stazioni sperimentali agrarie italiane, XLII, 397 (1909). (4) G. Ciamician e C. Ravenna, loc. cit. (5) G. Ciamician e C. Ravenna, Sul contegno di alcune sostanze organiche nei vegetali, V Memoria. Memorie della R. Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna, serie VI, tomo IX, pag. 71 (1911-12). — 288 — Acido salicilico. — Si prescelsero tre piante, nelle quali venne inocu- lato l'acido salicilico allo stato del corrispondente sale sodico nella quan- tità totale di gr. 1,42, il giorno 5 luglio. Poichè Ie piante. per l'azione della sostanza introdotta, dimostravano evidentissimi segni di sofferenza, non sì fecero ad esse subire altre inoculazioni, e vennero raccolte il 14 luglio per l'analisi. Il loro peso complessivo era di gr. 409. Poste a macerare tutte insieme per 24 ore, e distillate col vapore, si ottenne un liquido che richiese c. e. 28,9 di nitrato d'argento decinormale, pari ad un contenuto in acido cianidrico del 0,1908 per mille parti di piante. In vista del forte potere tossico della sostanza adoperata, l'esperienza venne ripetuta sopra altre tre piante, inoculandovi complessivamente un grammo di sostanza in due volte, cioè nei giorni 13 e 20 luglio. Furono raccolte il 24 luglio in buono stato; soltanto presentavano lungo le foglie, lievi striature gialle. La determinazione dell'acido cianidrico, eseguita col metodo sopra descritto, separatamente per ciascuna pianta, diede i risultati esposti nel seguente quadro: 5 E Peso della AgNO; E da di | SIONI i or 1 gr. 354 c.c. 322 | 0,2456 p. mille 2 » 281 » 27,5 | 0,2641 ” 3 » 270 » 26,6 | 0,2660 » Acido ftalico. — Si eseguirono queste prove sopra tre piante alle quali venne inoculato l'acido ftalico allo stato di ftalato potassico nei giorni 5, 13 e 18 luglio nella quantità totale di gr. 2,86. Le piante furono raccolte il 22 luglio e analizzate separatamente, ottenendosi i risultati che figurano nel seguente specchietto: £ 2 Ag NO, 2:5 | Peso della SN î Pa. 53 pianta 45 10 1 gr. 133 c.c. 4,2 |0,08583 p. mille 2 » 831 »n 16,4 | 0,1388. » 3 » 345 » 10,8 | 0,0845 » Pirocatechina. — In causa della notevole azione tossica spiegata da questa sostanza per il sorgo, se ne fece una sola inoculazione il giorno 6 luglio, in tre individui, nella quantità totale di gr. 0,64. Il 15 luglio si raccolsero le piante, che pesavano complessivamente gr. 315. Vennero mace- oso, rate tutte insieme, ed il distillato richiese c. e. 29,1 di nitrato d'argento decinormale, corrispondenti a 0,2494 di acido cianidrico per mille parti di piante. ( Resorcina. — In misura superiore alla pirocatechina spiegò il suo po- tere tossico la resorcina che, in una prima esperienza, venne inoculata in tre piante, una volta soltanto, cioè il 6 luglio, nella quantità totale di gr. 1,75. Le piante, del peso complessivo di gr. 152, diedero un distillato che richiese c. c. 12,2 di nitrato d'argento decinormale, corrispondenti a 0,2167 di acido cianidrico per mille. L'esperienza venne ripetuta somministrando dosi minori della sostanza allo scopo di evitare il deperimento dei soggetti. Furono infatti inoculati complessivamente or. 0,90 di resorcina nei giorni 13 e 20 luglio, in altre tre piante. Queste si conservarono in buono stato, e solo al momento della rac- colta, avvenuta il 24 luglio, presentavano sulle foglie, leggerissime strie giallognole. l.a determinazione di acido cianidrico, eseguita separatamente sopra le tre piante, diede i seguenti risultati: 2 © Ao N I SE P.so della SERo nio SE vianta DI | HCN 3 > pila È 10 1 gr. 289 c.c. 22,0 | 0,2055 p. mille i 2 DI » 26,5 | 0,1928 D) 3 » 281 n 18,5 | 0,2160 È) Idrochinone. — A differenza degli altri due difenoli, l’idrochinone venne sopportato assai bene dal sorgo. Si inocularono complessivamente 4 grammi di sostanza in tre piante, néi giorni 5, 13 e 18 luglio. La raccolta si effettuò il 22 luglio, e l’analisi diede i risultati esposti nel seguente specchietto: o ® NC 5.5 | Peso della SERI Ss gii I HON SO pianta 10 aio] 5 1 gr. 259 c.c. 18,0 | 0,1876 p. mille 2 DATA » 18.2 | 0,0961 » 3 » 357 » 12,4 | 0,0938» Pirogallolo. — Anche con questa sostanza, che si dimostrò alquanto tossica, venne fatta una sola inoculazione in tre piante, nella quantità totale di gr. 0,68, il giorno 6 luglio. Le piante, raccolte il 15 luglio, pesavano ReNDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 38 DA) complessivamente gr. 333 e diedero un distillato che richiese c.c. 22,8 di nitrato d'argento, corrispondenti a 0,1849 di acido cianidrico per mille di piante. Piante testimoni. — Per avere dei termini di confronto, abbiamo pre- scelto, all’inizio delle inoculazioni, alcune piante pressochè uguali, in dimen- sioni, a quelle inoculate. A detti testimoni venne praticata, nel giorno stesso in cuì sì eseguiva il primo trattamento nelle piante inoculate, un'apertura simile a quella che serviva, nelle altre piante. per l'introduzione della so- stanza da sperimentare; la parte staccata si rimetteva poi, senz'altro, in posto, e si chiudevano con paraffina le commessure. Tutto ciò allo scopo di poter confrontare l’effetto prodotto dal trattamento colle diverse sostanze aromatiche, indipendentemente dalle variazioni causate dalla lesione. L'esame delle piante testimoni, che vennero prelevate contemporanea- mente alle piante inoculate, diede i risultati esposti nel quadro che segue: = = Data Data Peso Ag NO; EP della della della N HCN is lesione raccolta pianta 10 1 5 luglio 14 luglio gr. 250 CHCAAZORI 0,3143 p. mille 2 DINO 14» n 262 » 29,6 | 0,3050 » 3 6» lo 09 n 139 » 14.6 | 0,2836 » 4 6» o io » 170 DEI: 012. 827/00002 5) li» 24» » 272 » 26.7 0,2650 » 6 a 9 24.» » 385 ni 3 91908 0:21,93 000 Come risulta dalle date della lesione e della raccolta, le piante nn. 1 e 2 del precedente specchietto erano state prescelte come testimoni della prima esperienza con acido salicilico; quelle contrassegnate coi numeri 3 e 4, come testimoni delle piante inoculate con pirocatechina, pirogallolo e resor- cina (18 prova); quelle numeri 5 e 6 sono da confrontarsi colle piante trat- tate con acido salicilico (2 prova) e con resorcina (2* prova). Le piante inoculate con benzoato sodico, ftalato potassico e idrochinone, sono invece senza termini di confronto. Ciò, perchè altre piante, che a tale scopo avevamo lesionate il 5 luglio (data della prima inoculazione) all'epoca della raccolta (22 luglio) erano già in fioritura, mentre non lo erano ancora le piante ino- culate. E poichè l’acido prussico nel sorgo decresce assai rapidamente dal- l'epoca della fioritura alla maturazione, non abbiamo ritenuto rigoroso il confronto. Considerando però le percentuali, non molto differenti tra di loro, nelle piante del precedente specchietto. crediamo più esatto di paragonare le piante che ricevettero i tre suddetti trattamenti, coi testimoni esaminati. Riassunto e deduzioni. I risultati delle esperienze ora descritte sono riuniti nel seguente quadro in cui appariscono le medie dei valori indicati nelle singole prove : — 291 — Telo CRETE @ = GI 866“ 6 = fi n TE ICONE, 16860 «IGT =" => «9 FSI «“ Pa — MI UO sol, 96080 GREGAL zi = CRA 96 G = CE UO SIIT 67810 CASE @ Fi CORINTO) Lot e 890 « “RT 0 [E SOIT] 86610 «66 « 8I G sl GG 666 € 6 007 € I MOTORI 87060 Ge => “ 08 CSI L6G € e 060 « SERIA ROTTE TOTO SORTI L91680 GRES a a CO, Io « € GITeR (a pi e TRO * BUIDIOSOM 1101490) GSi = “i & 9 GOL « E 590 « St i ud ,eo01lgi GLOTO «66 6 8I (5 SI GG OLE “ 6 986 « E Ve TI 98560 Gr # « 06 8 Il 0g € 6 00:TE O O TTESAOIONI 8061°0 CASTRO # = CT 9gI. « 8 GI « ©‘ O9EIIOITES OPIOY 0871°0 omSnI gg MSI 8I otj5u] gI Or[Su] SG 896 15 ) 00°e "13 * ** © * 09I0ZUIQ OpIoy 00/a diodi on V}]ODORI. | QUOIZE[MIOUI #E|QU012E|nOOUL RI 5; ezuerd ozuerd VZU,SOS [[9p BT9p [PP ©IIOP E 1ed Ip [IPP VLV'INIONI VZNVISOG NOH eIeq eq eq geq orpaur osag | OIQUNN gyiquent) = DI — Dall'esame del precedente quadro risulta che il contenuto, in acido cia- nidrico, delle piante che hanno ricevuto il trattamento colle sostanze aroma- tiche, è sempre inferiore. a quello delle piante testimoni. Le percentuali più basse si ebbero poi nelle piante inoculate con acido benzoico, acido ftalico ed idrochinone, sostanze queste che si poterono somministrare in quantità notevolmente più elevata. Però, come già si disse, le piante di comparazione prescelte per dette esperienze non poterono essere utilizzate, perchè nel giorno del prelevamento erano in fioritura. Osservando, peraltro, l'andamento del conte- nuto in acido cianidrico negli altri testimoni esaminati, possiamo ritenere che anche nei casi in questione si siano verificate forti diminuzioni. Per quale meccanismo il sorgo contenga minor quantità di acido cianidrico, come il tabacco minor quantità di alcaloidi, quando queste piante vengano trattate con sostanze aromatiche, sarebbe ora malagevole o prematuro voler indagare. Chimica vegetale. — Su! comportamento delle piante coi sali di litto ('). Nota II di C. Ravenna e A. MaugiNnI (°), presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Nella Nota precedente sopra questo argomento (*) furono descritte alcune esperienze eseguite sulle piante di tabacco, di patata, di fagiuolo e di avena, che si facevano vegetare in presenza di solfato di litio. La coltura del ta- bacco si fece in soluzione acquosa contenente il 2 per mille di solfato di litio: non ostante la dose elevata, le piante poterono compiere normalmente il ciclo vegetativo, e l'esame delle ceneri dimostrò che una quantità notevole di litio era stata assorbita. Le patate furono coltivate in sabbia, dopo che i tuberi erano stati inoculati con dosi decrescenti di solfato di litio partendo da un massimo di un grammo per ogni tubero: queste piante sì svilupparono rigogliosamente con anticipo di alcuni giorni, sulle testimoni, nella germoglia- zione. I fagiuoli e l'avena vennero essi pure seminati in sabbia silicea e inna- fiati una volta per settimana con soluzione nutritiva contenente-1.5 per mille di solfato di litio: il trattamento non portò alcun danno nella germinazione dei semi, ma lo sviluppo, che da principio era regolare, sì arrestò in seguito, di modo che le piante di fagiuolo si seccarono 32 giorni dopo la semina e quelle di avena dopo due mesi. Evidentemente, le continue somministrazioni avevano determinato, nel substrato, delle concentrazioni troppo elevate. Risultava tut- (1) Lavoro eseguito nel laboratorio di chimica agraria della R. Università di Bologna. (2) Pervenuta all'Accademia il 16 agosto 1912. (*) C. Ravenna e M Zamorani, questi Rendiconti, XVIII, 2, 626, (1909). — 295 — tavia che il litio, almeno per certe piante, non è elemento così tossico come in generale sì riteneva. Le esperienze che descriviamo nella presente Nota, e che hanno lo scopo di studiare ulteriormente l’azione del litio sulle piante superiori, vennero divise in due parti: la prima per sperimentare la tossicità dell'elemento in parola sopra altre specie di piante; la seconda per ricercare se esso potesse parzialmente sostituire il potassio nella nutrizione. PRIMA PARTE. Le piante prescelte per queste prove furono le seguenti: soja (S07a hi- spida), senapa (Sinapis alba) veccia ( Vieta sativa), canapa (Cannabis sativa), pomodoro (Solanum lycopersicum), girasole ( Zelianthus annuus), lino ( Lenum usitatissimum), granturco (Zea mais). La semina di tutte queste piaute fu eseguita contemporaneamente il 13 aprile 1911 in vasetti contenenti sabbia quarzosa pura, e per ciascuna si eseguirono tre serie di esperienze: la prima, innaffiando una volta per settimana con una soluzione nutritizia testimone ; la seconda, usanio la stessa soluzione, a cui era stato aggiunto il 2 per mille di solfato di litio; le piante della terza serie ricevettero pure settimanal- mente una soluzione nella quale il litio sostituiva completamente il potassio. La somministrazione delle rispettive soluzioni sì iniziò quando le piante si trovavano in un periodo germinativo avanzato. Esperienze sulla soja. — Le piantine nacquero il 21 aprile; il 5 maggio vennero diradate, lasciando due piante per vaso, di uguale sviluppo. L'acere- scim>uto procedette bene in tutti i vasi durante il maggio e il giugno; ai primi di luglio le piante fiorirono contemporaneamente, senza che si scor- goessoco differenze fra le testimoni e quelle della seconda serie; quelle della terza serie diedero a quest'epoca segni evidenti di deperimento, finchè, alla fine di luglio, si dissec:arono. Qualche giorno dopo, però, anche le piante della prima e seconda serie deperirono repentinamente e finirono per morire. La soja fu, quindi, assai sensibile anche alla presenza di quantità piuttosto elevate di sostanze nutritive, in forma di sali solubili. Esperienze sulla senapa. — Le piantine spuntarono il 22 aprile, e ne furono lasciate quattro per vaso. Esse si dimostrarono alquanto sensibili al solfato di litio, poichè diedero, fino dalle prime somministrazioni, segni evi- denti di sofferenza. Tuttavia riuscirono a fio:ire, quelle della seconda, in precedenza su quelle della terza serie, ma entrambe con ritardo rispetto ai testimoni. Ai primi di luglio una invasione di afidi obbligò ad una raccolta prematura, che avvenne il 15 luglio. Le piante vennero pesate, poi seccate in stufa di Gay-Lussac e pesate di nuovo. Nel seguente specchietto sono esposti i risultati ottenuti : — 294 — Peso Peso Peso secco Serie Ameno allo stato allo stato FE cento di piante È CLONI È verde secco della prima serie ne 4 gr. 11,0 | gr. 1,89 100 22 4 » 5,0 » 0,76 40,2 bla 4 n 2,8 » 0,47 24,9 Hisperienze sulla veccta. — Le piantine nacquero il 21 aprile, e non dimostrarono di soffrire in seguito all'inaffiamento colla soluzione di litio. La vegetazione e la fioritura fa normale in tutte le piante, meno che in quelle della terza serie che, per la mancanza di potassio, fiorirono scarsa- mente e non riuscirono a maturare i baccelli. La raccolta si effettuò il 16 agosto, e le operazioni, eseguite come nel caso precedente, diedero i seguenti risultati : Peso Peso Peso secco Ue Numero è ; per cento Serie a allo stato allo stalo delle piante P verde secco della prima serie Ì E 6 | gr. 61,3 | gr. 10.40 100 DE PIRO Mb 9560 92,9 OA » 38.9) » 6,90 66,3 | Esperienze sulla canapa. — Le piante nacquero il 22 aprile, e le te- stimoni ebbero presto, cioè nella prima quindicina di giugno, un notevole sopravvento che si andò sempre accettuando. Vennero raccolte il 5 agosto, e diedero i risultati esposti nel seguente specchietto: Peso Peso Peso secco Serie me allo stato allo stato Ne Sent, cigiplante verde secco della prima serie 1a 5 gr. 91,4 | gr. 5,01 100 2a o) » 16,9 VEMONTIT 55,9 3° 5) » 8,8 » 1,40 27,9 Esperienze sul pomodoro. — Questa pianta, fra le sperimentate, si dimostrò maggiormente sensibile al sale di litio. Le piantine nacquero il 22 aprile, e fino ai primi di giugno non si manifestarono sofferenze notevoli ; soltanto quelle della seconda e della terza serie erano più piccole. A questa epoca, però, le foglie cominciarono a ingiallire e sì potè seguire con nettezza pe ——— eee e“ — e ee e e ZZZ Ze Ze Tao VIT — 295 — il progredire del deperimento ad ogni nuova somministrazione di solfato di litio, finchè,ai primi di luglio, le piante si mostrarono completamente secche. Le testimoni invece si conservarono discretamente, sebbene anch'esse mostras- sero qualche sofferenza, forse per l'eccesso di sali solubili. Esperienze sul girasole. — Le piantine, nate il 25 aprile, tollerarono abbastanza bene il solfato di litio, sebbene quelle della seconda e terza serie rimanessero più piccole delle testimoni. Furono raccolte il 10 agosto, e risultò: Peso Peso Peso secco Serie Numero allo stato allo stato FEO Soto cappiante verde secco della prima serie le 2 gr. 49,3 | gr 7,9! 100 2a 2 » 835,1 » 6,02 76,1 da 2 n 34,0 » 5,91 74,7 Esperienze sul lino. — Fino alla metà di giugno, le piantine, che erano spuntate il 20 aprile, non dimostrarono differenze; in seguito, quelle della prima serie superarono in accrescimento le alire. Tuttavia, tra il 25 e il 80 giugno la fioritura era completa e normale in tutte le piante e s’iniziò subito la formazione delle capsule. Però l'esame dei semi delle piante che avevano ricevuto il solfato di litio, dimostrò che essi, a differenza di quelli della prima serie erano quasi vuoti e costituiti in gran parte dal perisperma. La raccolta fu eseguita il 10 agosto, e si ottennero i seguenti pesi: Peso Peso Peso secco DA Numero na per cento Serie Te allo stato allo stato GEIo pito D verde secco della prima serie | 12 6 gr. 29,7 | gr. 8,01 100 ga 6 ” 21,8 | » 2,85 81,2 3a 6 | » 18,1 » 2,78 77,8 Esperienze sul granturco. — Le piantine nacquero il 21 aprile, e du- rante tutta la vegetazione non si riscontrarono differenze tra le piante testi- moni e quelle della seconda serie, mentre quelle della terza, già alla fine di giugno, erano di dimensioni minori. Nei primi giorni di luglio compar- vero le infiorescenze maschili quasi contemporaneamente in tutte le piante; e due di queste, rispettivamente della prima e della seconda serie, riusci- rono a maturare una pannocchia, sebbene di dimensioni assai ridotte. La raccolta si effettuò il 10 agosto, e risultò, anche dalle determinazioni qui sotto esposte, la grande resistenza di questa pianta al solfato di litio. - 2g Peso Peso Peso secco Serie Busi allo stato | allo stato Gher Fiato verde secco della prima serie e 2 gr. 68,4 | gr. 11,01 100 da 2 » 67,8 | v 1131 102,7 sa 2 55.1 » 9,06 82.3 SECONDA PARTE. Come già si disse, le esperienze che descriviamo in questa parte della presente Nota, avevano lo scopo di ricercare se il litio avesse qualche fun- zione nella nutrizione delle piante, ed in particolar modo se esso potesse parzialmente sostituire il potassio. Per questa ricerca avevamo ideato un piano che non potè venir effettuato altro che in piccola parte. Pubblichiamo ora ugualmente le prove preliminari eseguite, riservandoci di tornare sull’ar- gomento l'anno venturo. La pianta prescelta per questa esperienza fu il tabacco (var. Kentucky); il metodo seguìto, quello della coltura in soluzione acquosa. Le soluzioni adoperate contenevano, oltre agli altri elementi indispensabili alla vita delle piante, le seguenti quantità, per litro, di potassio e di litio (calcolate come metallo): Soluzione 1 Soluzione 2 Soluzione 3 Soluzione 4 Soluzione 5 Te gr02e0)i ea0elg ICge 06 dea 0.057 = Li » 0,051 Nr vado Io 0093 Li» 0,204 Li gr. 0,255 Come testimoni si adoperarono soluzioni simili alle precedenti, ma senza litio; cioè: Soluzione 6 Soluzione 7 Soluzione 8 Soluzione 9 Soluzione 10 Ign 0230 Kr 017 Io 0 o] = Le prove con litio vennero tutte eseguite in doppio esemplare, e le con- trassegnamo, secondo il numero della soluzione impiegata, coi numeri dall’ 1 al 5 e dall’1 dis al 5 dis; le prove testimoni furono coltivate in un solo esemplare, e portano i numeri, come le relative soluzioni, dal 6 al 10. Le piantine usate provenivano da un comune semenzaio, ed avevano, al momento del trapianto, che fu eseguito il 7 giugno, tre foglioline. Al tra- pianto seguì una crisi; ma dopo lò5 giorni, coll'emissione di nuove radici, le piante cominciarono a riacquistare la turgescenza dei tessuti, tanto che ai = Seo primi di luglio si presentavano tutte rigogliose. Poco dopo, però, non ostante le maggiori cure, la pianta del vaso numero 7, per un’ infezione alle radici, deperì rapidamente e finì per morire. Ugual sorte toccò, a breve distanza di tempo, alle piante numeri 1, 2, 3, 6 e 8. Cosicchè, delle 15 piante impie- gate, soltanto 9 arrivarono alla fine della prova, e cioè i numeri: 1 bis, 2 bis, 3 bis, 4, 4 bis, 5, 5 bis, 9 e 10. Esse furono raccolte al principio dell'inverno, e nessuna portava gli organi fiorali; vennero pesate allo stato fresco, seccate in stufa di Gay-Lussac, e pesate di nuovo. Esponiamo nel seguente prospetto i risultati ottenuti : Contras- Soluzione impiegata segno Peso Peso RE Litio Potassio allo stato verde allo stato secco 1 dis | gr. 0.051 p. litro | gr. 0,250 p. litro gr. 7,80 gr. 0,84 2 bis | » 0,102» » 0,172 » » 12,35 » 1,61 3 dis Oo. LOU ” 7,62 » 0.73 4 0,204» » 0,057.» 5 882 DIM ) 4 bis 0,204» n 0,057. » 5 884 02 \ 1,06 5 0,255.» = ® 825 » 1,07 ) 5 dis 0,255.» = 6 744 » 0,97 ) 1,02 9 ss PO ” 4,54 » 0,56 10 = _ » 4,08 » 0,54 Poichè dei testimoni erano simaste in vita soltanto le piante contras- segnate coi numeri 9 e 10, il confronto sarà possibile soltanto per le piante numeri 4, 4 dis e 5, 5 dis. Risulta, dall'esame del quadro precedente, che il rapporto fra il peso secco delle piante numero 9 e il peso secco medio delle piante numeri 4 e 4 dzs, che ne sono i relativi termini di confronto, è di 100 :189, e che, analogamente il rapporto tra le piante numero 10 ed i ter- mini di confronto 5 e 5 dis è, per i relativi pesi in sostanza secca, pure di 100:189. Risultati simili si hanno dal confronto dei pesi delle piante allo stato verde. Le piante trattate con litio hanno quindi un peso quasi doppio dei corrispondenti testimoni. CONCLUSIONI. Dalle esperienze descritte in questa Nota, risulta: 1.° La resistenza al solfato di litio cresce, nelle piante sperimentate, nell'ordine seguente: pomodoro, senapa, canapa, girasole, lino, veccia, mais. 2.° All'infuori di qualche specie (pomodoro), per tutte le’ altre la azione spiegata dal solfato di litio, sebbene dannosa. date le concentrazioni elevate, non è tanto tossica come risulterebbe dalle vecchie esperienze. In- Renpiconmi. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 39 — 298 — fatti, quasi tutte le piante, non ostante il minor peso allo stato verde e secco, hanno potuto vegetare normalmente, fiorire, e, in certi casi, anche maturare i semi. 3.° Le piante di tabacco, nelle quali la somministrazione di potassio era ridotta a piccolissime quantità (gr. 0,057 per litro), e quelle alle quali non ne fu somministrato affatto all'infuori di quello accumulato durante la vegetazione nei semenzai, sembra che dalla presenza del sale di litio abbiano potuto ricavare tal vantagzio da raddoppiare quasi il peso verde e secco. Crediamo, quindi, che l'azione del litio nelle piante superiori meriti di essere ulteriormente studiata. Paleontologia. — L’E/ephkas antiquus Fale. nella filo- genesi delle forme elefantine fossili. Nota del Dott. Pietro ZuF- FARDI, presentata dal Socio 0. F. PARONA ('). È noto che nella complessa questione intorno alla sistematica e alla filogenesi delle forme elefantine fossili, le maggiori controversie riguardano la posizione da attribuirsi nella serie all’ #. antiguus Falce. Alcuni caratteri, quali la strettezza della corona e l'espansione mediana delle lamine, consi- derati come distintivi di questa specie dal Falconer, indussero a separare l'A. antiquus dalla linea £. meridionalis Nestii, E. primigenius Blum., formandone una discendenza collaterale. A prescindere infatti dal Falconer stesso, il quale considerava le specie come fisse e indipendenti, e non credeva l E. primigenius Blum. derivato nè dall’ £. antiquus, nè dall’ £. meridio- nalis (*), il Pohlig, che si occupò ampiamente della quistione, concludeva appunto per l'indipendenza dell'. antiquus dalla serie £. mered., E. primig. Dalla distruzione poi delle numerosissime specie elefantine, precedentemente istituite da vari autori in base a caratteri speciali erroneamente ritenuti distintivi e costanti, egli ricavava la sua nuova specie, l’ £. trogontherti, che doveva legare l’ ZA. primigenius all'E. meridionalis, mentre VE. antiquus, da lui assegnato al « gruppo Africano » insieme con l'/. africanus, E. pri- seus, E. Falconeri, E. melitae, non aveva avuto discendenza (5). Più tardi però il Pohlig si vide costretto a scindere la sua specie e a separare le forme più meridionalipete dalle primigenipete, rispettivamente (1) Pervenuta all'Accademia il 7 agosto 1912. (2) H. Falconer, On the species of Mastodon und Elephant.... Quart. Journ. Geol. Soc., 1857. (£) H. Pohlig, Dentition und Kraniologie des E. ant. Fale. mit. Bertraegen ueber E. primig. Blum., und E. merid. Nesti, in Nova acta d. Ksl. Leop. Carol. Deutsch. Akad. d. Naturforscher, Band LIII, pag. 257, an. 1886. ogg, — chiamandole £. meridionalis-trogontherii ed E. primigenius-trogonthert, mentre all’ 7. un/iguus assegnava un precursore, l’ #. Nesezi, che lo legasse al ceppo comune dell'#. merzdionalis (*). Il Weithofer quantunque ritenesse sinonimi l’ Z. antiquus e VE. tro- gontherii, ammetteva pure che l’Z. primigenius non fosse derivato diretta- mente dall'#. ar/iguus, e negava la presenza di forme di passaggio tra questo ultimo e l'A. meridionatis (£). Per tacere di altri, il Portis (*) e il Gaudry (4) quasi contemporanea- mente si uniformavano alle idee del Pohlig stabilendo una discendenza co- stituita da due rami paralleli, quello dell’#. premigenzus, e quello dello E.antiquus, derivati da un capostipite unico: l'A. meridionalis typus, 0 pri- mitivo. Il Gaudry però ammetteva una forma di passaggio comune ai due rami, rappresentata dall’ A. antiquus razza intermedius. Anche ultimamente la signora Paulow persisteva nel ritenere che dallo E. merid. partissero due rami paralleli: l'uno rappresentato dall’ /. antiquus ed #7. namadicus, l'altro dalla nuova specie 4. Wustit e dall’. primi- genius (?). Altri aucora staccano poi completamente l'£. antiquus dall'#. meridio- nalis. collegandolo invece all'£. africanus Blum. per mezzo dell’. priscus Fale., non Goldf. (°). Non mancò tuttavia chi ritenne invece l' 4. antiguus dovesse entrare nella serio 4. meridionalis- E. primigenius. Così il Gunn (7) considerava lE. primigenius unito all’ E. antiguus per una indubbia serie di passaggi. Più recentemente poi lo stesso Portis osservava che « il concetto del Pohlig di un Z/ephas trogontherii, il quale segua direttamente, dall’. meridionalis all’. primigenius e poi magari all'#. indicus, il cammino, marciando per un tratto di esso parallelamente all'#. aniguus, lascia quest ultima specie isolata, senza ascendenti e senza discendenti, ed urta contro la verità dei fatti e la copiosità della rappresentanza in avanzi di essa. per notevole po- (1) H. Pohlig, Op. cit. Bd. LVII, pag. 300, 1891. (*) A. Wcithofer, / proboscidiani fossili del Valdarno in Toscana. Men. R. Com. Geol. Ital., vol IV, parte 22, pag. 111, Firenze, 1893. (3) A. Portis, Contribuzioni alla storia fisica del Bacino di Roma e studii...., vol. I, pig. 9, nota 1, T'orino-Roma, 1893, vol. II, pp. 25£ e 299; Torino 1896. — Id., Ano- malie riscontrate sull’atlante di un elefante fossile dei dintorni di Roma. Estr. Rivista Italiana di Paleont, vol. II, pp. 326-332, an. 1896. (4) A. Guudry, £'Elephant de Durfort. Bull. Soc. d’ Et. Sc. Nat. d. Nîmes, 1894. (9) M. Paulow, Zes élephants fossiles de la Russiz. Nouv. Mém. Soc. Imp. Nut. de Moscou, tom. XVII, pag. 53, an. 1910. (6) V. Simonelli, Mammiferi quaternarii dell’ Isola di Candia. Mem. seconda. Estr. R. Ace. Sc. Ist. Bologna, tom. V, ser. VI, 1907-1908. (7) J. Gunn, Does Eleph. primigenius occur in the Norfolk Forest-Bed ?, Geol. Mag. dee. II, vol. X, 1883. i So tenza di terreno, per vasta area sua di distribuzione » (?) Egli perciò metteva lE. antiquus nella linea £. merid.- E. primig., coi quali veniva legato da forme di passaggio rappresentate dall’ £. (rogontherii usato come dezomi- nastone-ponte. In questo stato di cose, poichè la questione si basa specialmente sul- l'esame dei caratteri dentali, essendo più rari i rinvenimenti e più incerte le determinazioni specifiche di altre parti dello scheletro, mi è parso non inutile di rendere tosto di pubblica ragione le conclusioni che in proposito ho potuto ricavare dallo studio della bella raccolta dì denti elefantini del Pie- monte, conservata nel Museo Geologico di Torino. Colgo intanto l’ occasione per porgere al prof. Parona i più vivi ringraziamenti, per avermi egli affidato questo studio e per tutti gli aiuti di cui mi fu largo. Dall'esame dei numerosi esemplari e dai confronti con la copiosa biblio- grafia messa a mia disposizione, mi son potuto persuadere che nella raccolta esistono rappresentanti delle tre specie principali: £. meridionalis Nesti, E. antiquus Fale., premigenius Blum. Essi, nei caratteri principali. e molte volte anche negli accessorii, si mostrano in stretta relazione fra loro, tanto da fav presumere appartengano a una stessa serie evolutiva. Così l'indice dentale e la larghezza della corona vanno gradatamente decrescendo dall’ Z. meridionalis all’ E. primigenius, attraverso lE. antiquus: mentre il numero delle lamine, la lunghezza e l'altezza della corona crescono con la stessa progressione. Tra i caratteri accessorii ho osservato che la tortuosità delle lamine è variabilissima, come del resto tutti gli altri caratteri, e non può ritenersi distintiva di alcuna specie. Anche l'espansione mediana delle lamine offre una indiscutibile affinità, specialmente tra le forme spettanti all'£. an- tiquus e all'E. primigentus. Quell’altro carattere della presenza, nelle figure incomplete di abrasione delle lamine, di un elemento mediano anulare tra due laterali laminari nell'E. meridionalis e nell’ E. primigenius, mentre nell'#. antiquus 1° ele- mento mediano è laminare e gli anulari laterali — carattere cui il Pohlig attribuiva tanta importanza — si mostra affatto incostante. Infatti i molari di Testona e di La Loggia (°) ritenuti da tutti, senza discussione, come sicu- ramente spettanti all’. primigenius, hanno figure laminari tra due anulari, dimostrandosi quindi, anche per questogfatto, molto simili a quelli dell'£. an- tiquus. L'incostanza di questo carattere risulta poi evidente anche negli studî di altri autori. Ricordo fra i tanti esempî. le figure laminari tra anulari di molti denti di £. primigenius studiati dalla Paulow (8), provenienti dalla sta- (1) A. Portis, Di un dente anomalo di Elefante fossile. e della presenza dell’ E. primig. in Italia. Boll. Soc. Geol. Ital., vol. XXI, fasc. 3°, pp. 104-105, an. 1902. (3) A. Portis, Vi alcuni avanzi elefantini fossili scoperti presso Torino. Boll. Soc. Geol. It., vol. XVII, fasc. 1° e 2°, pp. 19-20, au 1898. @) M. Paulow, Op. cit. PI. II, figg. 29-31, 33-36, 38, 39, 41, 42. — 301 — zione preistoria di Kirilowskaya, da Kalouga e da Vologda, e di quelli, pure della stessa specie, figurati da Lortet et Chantre (1) e da E. Lartet (?). Tra le forme che non possono rigorosamente riferirsi a nessuna delle tre specie precedenti, è notevole un gruppo di molari assai larghi, segnati nella raccolta come pertinenti all'#. antiguus. Infatti di questa specie hanno tutti i caratteri, differendone solo per la larghezza che è uguale o superiore a cm. 10. Per questo solo carattere essi potrebbero essere riferiti all’£. 4r0- gontherii Pohlig. Anche classificati però con questo nome, essi non si disco- stano dall'£. antiguus, cui tanto sono vicini per gli altri caratteri e per le figure di abrasione incomplete proprie di quest'ultima forma, portandoci tutto al più a considerare l'Z. trogontherii e VE. antiguus quali membri di una stessa serie. Ma poichè il Pohlig stesso afferma che la sua nuova specie ha in co- mune con l' 4. antiquus i caratteri principali, come l'indice dentale e la formula numerica, differendone solo per la larghezza e per le figure incom- plete di abrasione. data anche la fallacia di quest'ultimo carattere, come ho cercato dimostrare, pare più logico di considerare l’ £. (rogontherzi non già come specie distinta ma come varietà, a corona più larga, dell #. an- tiquus. Essa verrebbe così, come aveva già dichiarato il Pohlig, a corrispon- dere alla var. A di . antiquus, istituita dal Leith-Adams (*). Né si può a questo proposito affacciare il dubbio sollevato dal Weithofer (4) che obbiettava al Leith-Adams di avere annoverato in tale sua varietà solo molari superiori i quali anche in condizioni normali, son notoriamente più larghi degli inferiori. Nel caso nostro, infatti, alcuni di questi molari a co- rona larga sono mandibolari. Quando anche poi non si volesse dare alla larghezza l'importanza di carattere distintivo di varietà e dovesse essere considerata come una semplice diversità individuale, dipendente forse dal sesso, poichè si trovano infatti molari a corona larga e più stretta anche nelle altre specie elefantine, sa- rebbe sempre però ugualmente confermata, anzi avvalorata, l’ unione del- lE. antiquus all’ E. meridionalis e all E. primigenius. Ammessa dunque la discendenza unica di queste tre specie, è logico il pensare che si possano rinvenire le forme di passaggio tra l'una e l’altra con caratteri rispettivamente intermedii. Ed esse esistono veramente, ma sino (1) Lortet et Chantre, Atude paléontolog. dans le Bassin du Rhone: Période qua- ternaire. Arch. d. Muséum d’Histoire Nut. de Lyon, tom. I, pl XVI, figg. 3-6: pl. XVII, fico. 1-4, an. 1876. (?) E. Lartet, Sur la dentition des proboscid. foss. el sur la distribut. géograf. et stratigr. d. leurs débris en Europe. Bull. Soc. Géol. Frane, tom. 16, 1859, pag. 469, pl. XV, fig. 12. (*) A. Leith-Adams, J/onograph. of the britisch fossil elephants. Mem. of the pa- lueontolog. Soc., vol. XXXI, pag. 31, an. 1877. (4) A. Wcithofer, op, cit., pag. 111. Y — 302 — ad ora vennero attribuite all’ #. /rogontherii che rappresentava la specie rifugio, cui si assegnavano tutte le forme aberranti che non si potevano ri- ferire a qualcuna delle tre specie principali. Poichè l’ #. trogontherii non può esistere come specie, mi pare si possa dividere tutto il materiale, ad esso attribuito, in tre parti: forme meridio- nalìipete, forme centrali, forme primigenipete. Le forme più vicine all’. me- ridionalis, ossia lE. meridionalis-trogontherii, avendo i caratteri principali dell. antiguus, da cui differiscono solo per qualche carattere accessorio e per la larghezza, più prossima all'E. merzdionalis, sì possono considerare come costituenti una varietà antecedente dell’£. az/iguus, la quale propongo di chiamare var. intermedius Gaudry. La riesumazione di questo nome si rende neces saria nel fatto che. ammessa la presenza di forme di passaggio dall’#. meri dionalis all’ E. primigenius, la loro denominazione deve essere quella usata a questo proposito per la prima volta. E mi pare, come ho accennato già. che spetti appunto al Gaudry la priorità in questo caso. È probabilmente equivalente di questa forma la nuova specie, l’ 4. Wustzi, fondata dalla Paulow. Infatti, essa ha lo stesso numero di lamine dell'#. antiquus, da cui differisce « per le grandi dimensioni dei denti e la grande larghezza della corona la quale supera quella dell’. antiquus e talvolta quella dell’. ro gontherii » (*). Anche dalla descrizione dei singoli molari tale nuova specie si rivela intermedia tra l' #. meridionalis e lE. antiquus. Invece il gruppo di forme trogonteriane equidistanti dall'/. meridionalis e dall’ £. primigenius può farsi rientrare senz'altro nell’. antiguus typus. In questo senso ponno aver ragione il Weithofer già ricordato e il Lydekker {?), che ritengono sinonimi l'. trogontherit e lE. antiquus, mentre certamente tale sinonimia non poteva essere giustificata quando nella specie ritenuta autonoma si comprendevano le estreme forme meridionalipete e primigenipete. La porzione poi che comprende le forme più prossime all’. primeigenzus, corrispondenti all’. primigenius-trogontherii, per le stesse ragioni prece- denti, mi pare si debba considerare come una varietà pure antecedente del- lE. primigenius, in quanto ha i caratteri fondamentali di questa specie, da cui differisce lievemente per non avere un così basso indice dentale, e sì può chiamare Var. (rogontherii Pohlig. Questo nome va infatti riservato a questa varietà. perchè il Pohlig (*) considerava le prime forme, su cui basava la nuova determinazione, come immediatamente precedenti l'/. primigenzus, a cui più corrispondevano i caratteri dati come specifici. Così, anche di questa varietà non mancano rappresentanti alla nostra raccolta, e sono certo più nu- merosi che non i veri rappresentanti dell'#. primigenius-typus col caratte- (1) M. Paulow, op. cit., pagg. 4, 55. (*) A. Lydekker, Catalogue of fossil mammalia in the British Huseum. Part. IV, London 1886. (3) H. Pohlig, op. cit., Bd. LIII, pag. 191. ten — 303 — ristico minimo indice dentale e massima densità laminare. Per tal modo può spiegarsi il dissidio che divide gli studiosi italiani sulla diffusione di questa forma in Italia. Hanno infatti ragione tanto quelli che affermano abbastanza copioso l'/. primigenius come specie complessiva, quanto gli altri i quali ne vogliono limitatissimo lo sviluppo come specie tipica. Sicchè, ricapitolando. lo studio della raccolta torinese mi porta a con- siderare l'#. antiguus Falc. come membro mediano della serie iniziatasi con l'A. meridionalis è facente capo all’ 4. primigenius, serie che con le forme intermedie può essere così rappresentata: #. meridionalis Nesti — E. an- taquus Falc. var. intermedius Gandry — S. antiquus typus Falc. — E. pri- migenius Blum. var. trogontherii Pohlig — E. primigenius typus Blum. Le forme di questa serie si succedettero nel tempo e nello spazio mo- dificando i caratteri dentali in relazione col mutarsi delle condizioni d'am- biente e specialmente della alimentazione. Tali condizioni portavano una suc- cessiva moltiplicazione delle lamine dentali, che si trovano col minor numero nell’. meridionalis e toccano il massimo nell’. primigentus. determinando quindi nei denti un allungamento sempre più grande. Il quale, se fosse stato conservato il primitivo indice dentale, sarebbe stato troppo esagerato e avrebbe potuto influire notevolmente sulle condizioni statiche generali dello scheletro. Per eliminare in parte questo eccesso, le lamine dovevano raffittirsi sempre più, tendendo a diminuire l'indice dentale, il quale perciò era il primo ca- rattere che si risentisse delle variazioni d'ambiente. Per questo le varietà intermedie hanno già l'indice dentale della specie che deve essere raggiunta, la quale, con le altre modificazioni intervenute successivamente a quella prima, rappresenta la forma più perfettamente rispondente alle condizioni d'ambiente in un dato momento. Così si può dunque col Portis (*) considerare | 7. meridionalis Nesti come specie naturale, mentre le altre forme #ypus rappresentano specie tran- sitorie definite: e le varietà intermedie sono forme indefinite, puramente transitorie. Un'altra ragione, dirò così, topografica, che avvalora le considerazioni suesposte circa la posizione filogenetica dell’ #7. artiguus, sta nel fatto che tale specie sì rinviene sempre abbondante nei luoghi dove son pure copiosi i resti dell'#. meridionalis e talvolta anche dell’#. primigenius, mentre ivi man- cano o sono dubbie e molto rare le reliquie di quelle altre forme da cui si vorrebbe derivato secondo altri studiosi. Tra le località piemontesi ricordo quella notissima di S. Paolo d'Asti dove si trovano resti di Z. meridionalis, di . antiquus e della rispettiva forma intermedia. A proposito poi di associazione di specie elefantine diverse in uno stesso luogo, non mi sembra che ad esse si debba negare, come invece comunemente si (*) A. Portis, Di un dente anomalo ecc., op. cit., pag. 111. — 304 — afferma, un certo valore cronologico. Il fatto di trovare assieme resti di 4. me- ridionalis, di E. antiquus e magari di Z. primigenius, può spiegarsi: 0 col rimaneggiamento del terreno che li ricetta, o più probabilmente con la soverchia comprensione data al nome della località. Recenti ricerche hanno dimostrato anche da noi, come dai terreni pliocenici fluvio-lacustri o Vi//a- franchiano tipico, si passi, per sfumature insensibili, al terreno sovrastante . del Quaternario antico. detto da alcuni ancora Vi/lafranchiano, da altri Preglaciale, e più comunemente Ceppo. La successione si verifica talvolta nello spazio di non molti metri. In questo caso si capisce quanto torni dan- noso il chiamare, come si fa comunemente, col nome di una stessa località, fossili trovati anche a qualche distanza l'uno dall'altro. È lecito anzi pensare che. qualora si abbia una maggior cura nell'accertare il punto preciso del rinvenimento, anche le specie elefantine potranno, insieme con quelle degli altri mammiferi coevi, fornire un criterio cronologico sempre più apprez- zabile. Pevrogralia. — Studi petrografici sulle isole dell’ Egeo. I. /eocce di Kalymnos e di Kos (*). Nota di FEDERICO MILLOSE- vICH, presentata dal Socio STRUEVER (°). Andesite micaceo-anfibolico-pirossenica di Kalymnos. Questa roccia si trova secondo le indicazioni del Major in relazione con altra di tipo pomiceo, che descriverò in appresso. Presenta una massa fondamentale bigio-scura quasi nera di apparenza omogenea, semivitrea, poco lucente con numerosissimi e grandi interclusi feldspatici e minori di elementi colorati, di cui l’anfibolo e la mica sono riconoscibili ad occhio nudo. Al microscopio, in una massa fondamentale vetrosa si notano interclusi di feldspato calcico-sodico, di anfibolo, di mica, di pirosseno trimetrico e mo- noclino, cristalletti ed aghi di apatite, granuli di magnetite e numerosissime microliti feldspatiche. Il /eldspato calcico-sodico è il più abbondante fra gli elementi di prima consolidazione e si trova in cristalli che superano spesso i 5 mm. nella dire- (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Mineralogia del R. Istituto di Studî Snpe- riori di Firenze. Il materiale per questo lavoro, raccolto dal Forsyth Major nel 1887, mi fu gentil- mente fornito dall’illustre collega prof. De Stefani, cui mi è grato porgere i più vivi ringraziamenti. (*) Pervenuta all'Accademia il 10 agosto 1912. — 305 — zione di allungamento, geminati sempre secondo la legge dell’albite e talora anche secondo le due leggi albite e Carlsbad. In lamine di sfaldatura secondo (010) l'angolo fatto dalla sfaldatura (001) con la direzione di estinzione negativa si aggira in media sui 12°. I valori massimi degli angoli di estinzione simmetrica nella zona normale a (010) sono di 18°-20°. Per ciò che riguarda la rifrazione si ha rispetto ad (indice di rifrazione del balsamo = 1,53) a'>n y>a e rispetto ad indici di determinate essenze: A :550 VA (1.550 Caratteri tutti che fanno ritenere il feldspato calcico-sodico per una andesina normale. Fra gli elementi colorati si notano: Anfibolo (orneblenda) di color verde-giallastro in sezione sottile, verde- cupo macroscopicamente, sia in cristalli prismatici di dimensioni piuttosto grandi, sia nelle caratteristiche sezione esagone con reticolato di sfaldature a losanga. Il suo pleocroismo è il seguente: a verde giallastro b=c verde L'angolo di estinzione ce è di circa 12°. Gli interclusi anfibolici più grandi hanno un caratteristico orlo opaci- tico. La mica (biotite) in lamine di dimensioni talora assai grandi ha il comune pleocroismo giallo per le vibrazioni normali alle tracce della sfal- datura basale e bruno scuro per quelle parallele. Il pirosseno monoclino è in interclusi più piccoli, ma è anch'esso ab- bastanza frequente: ha color verde chiarissimo in sezione sottile. Si notano individui prismatici piuttosto allungati secondo l’asse 3 con estinzioni mas- sime ce di 45° circa. Non manca peraltro il pirosseno trimetrico in cristalli prismatici con pleocroismo c verdino-grigio b=a verdino-roseo Si osserva talora una associazione di piccoli individui di pirosseno tri- metrico tutti isorientati, i quali sembra che si siano sostituiti ad un grosso individuo preesistente, forse di pirosseno monoclino. ReNDICONTI 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 40 Lee Presente sempre, ma non troppo abbondante è la magnetzte in cristalli piccoli e in granuli con i soliti caratteri. L'apatite in aghi o anche in cristalletti prismatici è relativamente ab- bondante. La massa fondamentale è un vetro, che appare in sezione sottile di un color giallo-bruno chiaro ed è pieno zeppo di microliti, che in gene- rale appartengono ad un fel/dspato di miscela oligoclasica. Si riscontrano anche delle microliti che possono considerarsi come /eldspato alcalino. Per le dimensioni si passa da vere e proprie microliti a piccoli cristalletti tozzi prismatici, e per l’addensarsi o meno di esse in seno alla massa vitrea fon- damentale sì osserva una certa variabilità di struttura. L'analisi chimica mi ha dato i seguenti risultati : Si 0? 62.00 THIO2 0,59 AI? 03 759 Fe? 03 2,33 Fe 0 2,51 Mn0 Di Mg 0 2,39 Ca 0 5,95 Na? 0 3,44 KE10, 2,63 Ph? 0° ib; perd. p. arr. 1,02 100,39 Formula di Loewinsson-Lessing: RO:R?03:Si0*=1,5:1:5,5 R°0:RO=1:2,40 Na?0:K°?0=1:0,50 CASPIO B=45 Formula di Osann: S= 68,20 A=5,47 C=5,80 F=9,23 N=6,65 K= 1,08 a= 5,3 e=5,7 f= 9,0 Vedremo in seguito i rapporti di analogia fra questa ed altre rocce di altre isole dell’ Egeo e delle regioni adiacenti. Pomice dacitica di Kalymnos. Macroscopicamente si presenta come una pomice sericea porosa di color grigio-biancastro con grossi cristalli o associazioni di cristalli di quarzo, con piccoli interclusi feldspatici e lamine di mica bruna lucente. — 307 — Al microscopio in una massa vitrea si notano interclusi dei seguenti minerali: quarzo, feldspato calcico-sodico, felaspato alcalino, mica (biotite), ma- gnetite, apatite, zircone, tutti in quantità molto subordinata a quella della massa fondamentale predominante. Il quarzo ha l'abito porfirico, ma più che in cristalli isolati si presenta in associazioni di più cristalli o di frammenti di cristallo ricementati della massa fondamentale. È limpidissimo, ma corroso e cariato. Il feldspato calcico-sodico va dall'oligoclasio basico all’andesina acida : massimi di estinzione simmetrica da 5° a 12°, indici di rifrazione di >W YA 1en49i<@ef=550 1,543 A c rosso bruno 6 rossastro a verde giallastro Il contorno dei cristalli è spesso arrotondato e come rifuso, ed è deli- mitato spesso da una zona opacitica. Pirosseno rappresentato qui dal solo pirossezo trimetrico in cristalli più piccoli e più rari, di abito prismatico, con pleocroismo poco rilevante nei colori dal verdino-grigio al verdino-roseo. Magnetite ed apatite come nella roccia di Kalymnos, ma quest'ultima in quantità minore. La massa fondamentale è vitrea con un principio di devitrificazione in causa di alterazione, ed è sparsa irregolarmente di un pigmento rossiccio. Contiene microliti di un feldspato calcico-sodico (oligoclasio-andesina). ing L'analisi chimica mi ha dato i seguenti risultati: Si 0° 67,27 INLOE 0,40 Al? 0? 16,31 Fe? 03 3,13 Fe 0 1,15 Mn0 tr. Mg0 0,84 Ca 0 3,48 Na? 0 3,61 K?0 2,91 Ph? 0? tr. perd. p. arr. 1,16 100,26 Formola di Loewinsson-Lessing : ROERO ASI 060 ER Z0E RO — TE IUBeNa 0 KO = 1:(0;53 a = 3,08 B= 33 Formola di Osann: S= 74,41 A=5,88 C=4,68 F=4,44 N=6,53 K=151 a="1,9 c= 6,2 f= 5,9 Seguendo le vedute dei moderni petrografi ho chiamato dacite la roccia di Kos per il suo forte quantitativo di silice, pur non avendo osservato la presenza di interclusi di quarzo fra i suoi elementi. La presenza di rocce eruttive nella parte orientale dell’isola di Kos fu osservata dal Neumayr(') che affidò lo studio del materiale raccolto al Doelter (*) il quale descrive. rocce un po’ dissimili dalla mia e che chiama trachiti, con sanidino poco plagioclasio, augite, scarsa orneblenda, poco quarzo e base vetrosa abbondante e con 64, 65 °/, di Si 0°. X * x La roccia andesitica di Kalymnos e quella dacitica di Kos hanno in- dubbiamente, malgrado le differenze nel quantitativo di silice, molti punti di contatto fra di loro, sia dal lato mineralogico e strutturale, che chimico. Esse hanno inoltre somiglianze ed affinità strette con altre rocce della va- stissima regione dell’ Egeo, dove il vulcanismo ebbe tante manifestazioni dal terziario in poi. Rocce dacitiche o andesitiche acide, con tutti e tre o con due dei principali costituenti ferro-magnesiaci, con quantitativo di silice ele- vato, con media quantità di calce, magnesia e ossidi di ferro e con alcali in quantità non troppo elevata, tanto da non potersi considerare come vere trachiandesiti, sono un prodotto frequente delle eruzioni in questa regione e sono spesso descritte nella scarsa letteratura, che noi possediamo in proposito. (1) Neumayr M. Veber den geologischen Ban der Insel Kos... Denk. d. Wiener Akad. 1880, XL. (*) Verhandlungen d. geol. Reichsanstalt, Wien, 1875, 233. — DÒ) De Launay (') nel suo interessante studio sulla geologia delle isole di Mitilene, di Lemno e di Taso descrive andesiti micaceo-anfiboliche-augitiche di Mitilene e di Lemno e daciti con o senza fenocristalli di quarzo di quest'ultima isola. Washington (*?) ha trovato una dacite biotitica senza quarzo nei dintorni di Pergamo ed andesiti biotitico-augitiche di composizione chimica analoga a quelle di Kalymnos nei dintorni di Smirne. D'altra parte è noto che le prime eruzioni sottomarine di Santorino fu- rono più acide di quelle recenti, e furono costituite appunto da andesiti e daciti orneblendiche. Deprat (*) ha trovato rocce dacitiche e andesitiche con orneblenda, bio- tite, augite e iperstene nell'isola di Eubea e, secondo Ehrenburg (4) esistono andesiti pirosseniche con o senza anfibolo nell'isola di Milos. Infine lo stesso Washington (*) nel suo studio sulle rocce di Egina e Metana descrive andesiti e daciti che contengono variamente associati i prin- cipali elementi colorati. Il seguente quadro serve appunto a dimostrare le relazioni litologiche e chimiche che corrono fra le mie rocce e talune consimili descritte dai succitati autori: I 2 5 22 8 a Z.2el&z2 cea al 35 è va asta 6a 0 3a E E È Es È E Si 0? 62,00 61,00 61,93 63,00 69,17 64,06 64,83 67,27 Ti02 0,59 —_ — -- —_ 0,18 0,08 0,40 ARTO3TE 17,53 20,80 18,47 17,70 ISO 15,25 17,60 16,31 Fe? 03. 2,39 4,37 1,93 SUO 2,84 DIO, 4,95 3.13 Fe 0 2,51 — 2,23 — 1,31 4,30 1,82 1,15 Mg 0 2,39 2,56 2,66 1,75 VIT 1,30 1,61 0,84 Ca 0 0,95 4,50 4,31 2,78 4,17 3,95 5,26 3,48 Na? 0 . 8,44 3,27 2,92 DIS 3,08 4,37 2,52 9,61 Kaos: 2,63 2,15 3,92 3,60 4,19 2,78 1,53 2,91 perde ve 1,02 2,30 2,28 4.70 VOI 1,70 020 1,16 100,39 | 100,95 | 100,65 99,78 | 100,59 | 100,59 | 100,40 | 100,26 (1) De Launay L. Za géologie des iles de Mételin, Lemnos et T'hasos. Annales des mines, 1898, II. (8) Washington H. S., On igneus Raks from Smyrna and Pergamon. Amer. Journal of Science, /53, 1897, 41-50. (3) Deprat J., Htude géologique et pétrographique de l’Ile d’Eubée. Bésengon, 1904. (4) Ehrenburg, K. Die Inselgrappe von Milos. Inaugural Diss. Leipzig, 1889. (5) Journ. Geol. III, 1895. E. M. Pubblicazioni della R. Accademia dei Lincci. Serie 18 — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei. Tomo I-XXIII Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2° — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). n Vol. 1II. (1875-76) Parte 1% TRANSUNTI. 2* MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturale. 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. IV. V. VI. VII. VII. Serie 3* — TransuntI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II. (1, 2). — III-XIX. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIINR Serie 4* — RenpIconTI. Vol. I-VII. (1884-91). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRrIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5 — ReNDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XXI. (1892-1912). 2° Sem. Fasc. 5°. ReNDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XXI. (1892-1912). Fasc. 1°-2°. MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-IX. Fasc. 4°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONII DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCRI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon= denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia è di L. £®; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti «editori-librai : Ermanno LoescHER & (.° — fioma, Torino e Firenze. Utrico HoepLi. — Milano, Pisa e Napoli. RENIDICONTI — Settembre 1912. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI pervenute all'Accademia durante le ferie del 1912. Amoroso. Sopra un'equazione n di tipo parabolico (pres. dal Corrisp. Zaw- CONDENSA no: Boggio. Sul moto di una massa liquida e conserva la SI dna EA ho Sociv Levi-Civita) . . . È SIRO SE ” Crudeli. Formule del Gi e sustogl ui Betti DE Korta del moto Di Dia liquidi. viscosi (pres. dal Corrisp. Di Zegge)i. +. . SA dp 0) Majorana. Su di un nuovo tipo di rivelatore di Dido Metro fondato salle elettronica dei fili incandescenti (pres. dal Socio Blaserna). . .. .. Mida Rolla. Sul calore di formazione dell'acido selenidrico (pres. dal Sa Garbo). EVO Calcagni e Marotta. Solfati anidri (pres. dal Socio Paternò). . . . 1 ” Ravenna e Bosinelli. Sulla azione di alcune sostanze aromatiche nella cianogenesi ion 0 (pres. dal Socio Ciamician) . . MIR E et) Id. e Maugini. Sul comportamento delle pote coi 1) di litio GL 1d) I a Zuffardi. L'Elephas antiquus Falc. nella po” delle forme elefantine fossili (pres. dal Socio Parona) . . nt SR ERO O PAROISSE Millosevich. Studî polrosrafn ‘ae iui dell'Egeo. I. Rocce di Kalymnos e di Kos (pres. dal'“Socio "Sfruvenieii i OE, CREO e 25/7 263 271 274 278 284 286 292 298 304 E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. Pubblicazione bimensile. Roma 22 settembre 1912. N. 6. A REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CGCCIX. 1912 SR Bi QUUIEN:T A RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XXI. — Fascicolo 6° 2° SEMESTRE. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d’arrivo). È Comunicazioni pervenute all'Accademia durante le ferie del 4942. PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1912 ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discns- sioni yerbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz'altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - 4) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’art. 26 dello Statuto. - 5) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. 8. Nei primi tre casi, previsti dell'art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI pervenute all'Accademia durante le ferie del 1912. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d'arrivo) Fisica. — Sw raggi magnetici in diversi gas. Nota del Socio Augusto RigHI ('). Presento in questo scritto qualche osservazione sopra una Nota testè pubblicata (*), colla quale i signori More e Rieman di Cincinnati rendono conto di alcune loro esperienze concernenti i raggi magnetici. Com'è noto, le ricerche mie furono fatte sempre con tubi contenenti aria rarefatta, e i due fisici citati, ripetendole, hanno dovuto confermare di tutto punto i miei risultati, fra i quali quello, da me per primo segnalato, dello sparire dei raggi magnetici quando il campo. magnetico diviene troppo intenso (*). Essi hanno ottenuto invece qualche volta risultati differenti, intro- ducendo nei tubi da scarica altri gas al posto dell’aria; e da ciò prendono argomento, se non per combattere, almeno per gettare l'ombra del dubbio sulla teoria da me proposta a spiegazione deì fenomeni presentati dai raggi magnetici. Le mie lunghe ricerche sperimentali su questo argomento mi condus- sero: 1° a ritenere assolutamente insufficiente l’ordinaria spiegazione, secondo la quale l’azione del campo si ridurrebbe al cambiamento di forma delle traiettorie percorse dagli elettroni; 2° a supporre che, insieme a tale cam- biamento il campo magnetico faccia sì, che ad alcuni degli elettroni si uni- scano ioni positivi, in maniera da dar origine a sistemi neutri analoghi al (1) Pervenuta all'Accademia 1’ 11 settembre 1912. (*) Phil. Mag. n. 140, pag. 307. (3) Loc. cit., pag. 312, linea 8 e seg. RENDICONTI, 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 41 — 312 — sistema costituito da un pianeta e dal suo satellite. Questa ipotesi si giu- stifica, fra altro, riflettendo, che la grande instabilità di tali sistemi (la cui distruzione è evidentemente più facile che la ionizzazione d’un atomo) è resa minore dal campo magnetico per quelli fra essi, nei quali l’ elettrone si muove in un determinato senso, e che inoltre tali sistemi, resi meno instabili dal campo, debbono di preferenza generarsi sotto l'azione di questo. Orbene, tale ipotesi fu da me presentata sempre come assai attendibile e degna d'essere presa in considerazione, ma non dissimulai la necessità e la speranza di una elaborazione futura, che la renderà capace di spiegare anche certi fenomeni di dettaglio rimasti oscuri. E poichè i signori More e Rieman, dopo avere riassunto la mia teoria, dicono che essa è semplice e plaustbile, e tale che rende conto della maggior parte dei fenomeni (*), posso limitarmi qui a poche considerazioni su alcuni altri punti della loro pubblicazione. È specialmente la mia esperienza, con la quale si dimostra la formazione di una colonna luminosa nettamente distinta dai raggi magnetici e posta sul prolungamento di questi (alla quale gli autori dànno il nome di colonna luminosa ?ndotta, denominazione che adotterò io pure per amore di bre- vità), è, dico, quella esperienza, che i due citati fisici hanno ripetuto dap- prima e poi variata. Secondo la mia teoria quella colonna di luce sarebbe dovuta allo scari- carsì periodico della nube di ioni positivi abbandonati dai raggi magnetici là dove, per essere troppo ridotta l'intensità del campo, le coppie ione- elettrone cessano di esistere. Ho chiamato anodo virtuale la regione del gas in cui si accumulano quei ioni. Quanto alla periodicità accennata, essa di- pende dal fatto da me accertato, che il campo magnetico rende nettamente pulsante o intermittente la scarica e quindi il fenomeno dei raggi magnetici. E poichè l’esistenza dell’anodo virtuale non si è potuta spiegare altrimenti, così la detta esperienza costituisce una conferma della mia teoria. A mio avviso, il non avere i detti autori osservata la colonna indotta, allorchè hanno sostituito nei miei tubi all'aria certi altri gas, non costituisce affatto una obbiezione contro la mia spiegazione, ma indica soltanto la neces- sità di completare l'ipotesi fondamentale, od almeno di trovare la ragione per cui in certi gas non si verifichi in modo sensibile la formazione del così detto anodo virtuale. Poichè anche nell’aria i raggi magnetici si producono solo in certe con- dizioni dell'esperienza, e in particolare, per un dato apparecchio, soltanto entro certi limiti della pressione del gas, della intensità del campo, e della intensità della corrente di scarica, prima di asserire che in alcuni gas l’anodo virtuale manca, gli autori hanno dovuto variare entro larghi limiti i detti (1) Loc. cit., pag. 311, linee 31 e seg. iti — 313 — elementi; ma disgraziatamente non dànno valori numerici, sì che non può dirsi eliminato il dubbio, che la mancanza di quel fenomeno si debba solo al non essersi combinate a dovere le condizioni richieste alla sua produzione. Ammetto però di buon grado il fatto asserito, il quale risulta altamente interessante per la circostanza che, secondo gli autori, si comportano come l'aria i miscugli dell'azoto con uno dei tre gas: ossigeno, idrogeno ed ani- dride carbonica, mentre la colonna indotta manca col gas illuminante natu- rale da essi sperimentato per primo, come pure coi suddetti gas puri. Questa singolarità dell'azoto potrebbe essere ravvicinata ad un’altra presentata dallo stesso gas. Esso infatti è quasi il solo (l’ossido di carbonio mostra in modo meno marcato lo stesso comportamento) con cui si produca il fenomeno, da me descritto e studiato, delle scariche globulari. A proposito sempre della presenza o meno dell’anodo virtuale debbo rile- vare altresì, che i due autori hanno dato ad uno dei fatti da essi osservati, che coincide con uno già da me descritto, sfuggito a quanto pare alla loro attenzione, un non giusto significato. Con certi gas essi osservarono bensì la colonna indotta, ma di breve lunghezza, e constatarono inoltre, che essa veniva incurvata sempre nello stesso senso, indicante che essa era dovuta ad una corrente positiva diretta dall’estremità dei raggi magnetici verso il fondo lontano del tubo da scarica, qualanque fosse la regione di essa a cui si acco- stava il polo magnetico laterale. Essi rettamente ne deducono, che in tal caso non esiste anodo virtuale con corrente positiva diretta nei due sensi (*); ma il modo nel quale è esposta tale conclusione può far credere, che l’anodo non esista affatto, e che essa venga presentata ancora come un’obbiezione contro la mia ipotesi. Invece, in quel caso semplicemente accade, che l'anodo virtuale si forma all'estremità dei raggi magnetici, come mostrai accadere, e come deve accadere anche coll’aria, allorchè l'intensità del campo magne- tico è relativamente debole. Non deve poì sorprendere se pel momento non si è in grado di spie- gare esaurientemente il fatto, che in certi gas soltanto si produca la colonna indotta, giacchè, anche all’infuori delle modificazioni prodotte dal campo, il meccanismo delle scariche ci è ancora imperfettamente noto. Si arriverà cer- tamente a tale spiegazione allorchè si saranno accumulati nuovi risultati sperimentali. Ma v'è una ricerca che si sarebbe dovuto iniziare subito, prima ancora cioè di avanzare dubbî o obbiezioni, quella d'indagare se la marcata inter- mittenza prodotta nella scarica dal campo magnetico quando il tubo contiene l'aria, la quale intermittenza è strettamente connessa alla formazione del- l’anodo virtuale ed alla produzione della colonna indotta, si verifichi o no con quei gas, in cui la detta colonna non fu dagli autori osservata. Evidente- (1) Loc. cit., pag. 814, linee 21 e seg. — 314 — mente, se per una ragione qualunque nota o incognita quella periodicità non esistesse, la mancanza della colonna indotta ne sarebbe la naturale con- seguenza. Mancando ancora questa informazione, appare troppo recisa l’asserzione che è defficile vedere perchè l'esistenza dell’anodo virtuale dipenda dal gas (*); al pari dell’altra espressa dagli autori nei termini seguenti: che %/ gas adoperato nel tubo abbia una tale influenza sulla natura dei raggi magnetici è assai difficile spiegare coll’ipotesi del Righi (?). Ma è tutt'altro che difficile comprendere, in base alle seguenti consi- derazioni, che la natura del gas, e per conseguenza la natura degl’'ioni po- sitivi esistenti in esso, deve invece avere una notevole influenza sulla for- mazione dei sistemi neutri ione-elettrone e sul loro comportamento. Affinchè un elettrone possa essere catturato da un ione positivo e for- mare con esso uno di quei sistemi occorre, che la velocità relativa dell'elet- trone (o la sua velocità assoluta, se per semplicità si considera l’ione come immobile) abbia un valore minore d'un certo limite. Infatti, perchè le forze agenti sull'elettrone si riducano sensibilmente alla sola forza elettrostatica, è necessario, che nel suo moto orbitale intorno all’ione l'elettrone rimanga da questo ad una distanza abbastanza grande. Se tale condizione non fosse soddisfatta, sul moto dell'elettrone influirebbero in modo notevole anche le forze elettromagnetiche dovute agli elettroni in moto facenti parte della strut- tura dell’ione, e poi potrebbe facilmente accadere, che l'elettrone satellite entrasse a far parte di detta struttura, e cioè venisse a ricostituirsi l'atomo neutro. Per esempio, assumendo 10-* come ordine di grandezza delle dimen- sioni lineari di un ione, sarà conveniente ammettere, come almeno eguale a 107° il raggio medio dell'orbita dell'elettrone. Con questo dato, e coi valori ammessi per la carica e per la massa dell'elettrone si trova (*), che la ve- locità di esso non deve superare 222 chilometri al secondo (*). D'altra parte la detta velocità, non deve essere neppure trovpo piccola, se no l’elettrone assume un'orbita così ampia attorno all'ione, che l’ insta- bilità del sistema diviene eccessiva, per l'estrema facilità con cui l’elettrone può essere allontanato e separato dall’ione. Un tale grado di stabilità delle coppie ione-elettrone, che corsenta la manifestazione dei fenomeni che ad (°) Loc. cit., pag. 315, linea 33 e seg. (*) Loc. cit., pag. 313, linea 36 e seg. (*) Mem. della R. Acc. di Bologna, serie VI, t. VII. p. 7 (1909-10). (4) Se ne deduce, che a formare i raggi magnetici debbono soprattutto contribuire i raggi catodici più lenti, o piuttosto quegli elettroni dotati di velocità relativamente piccole, i quali, qualora il campo non esistesse, non manifesterebbero forse in modo per- cettibile le proprietà di veri raggi catodici, questi essendo costituiti da elettroni assai più veloci. — 315 — esse si suppongono dovuti, richiede dunque che l'orbita dell'elettrone abbia un raggio nè troppo piccolo nè troppo grande, e quindi che la velocità del satellite abbia un valore compreso entro certi limiti. Ora è chiaro, che a seconda delle condizioni in cui avviene la scarica, il valore medio della velocità degli elettroni sarà diverso, e diverso quindi il numero di quelli, la cui velocità è compresa entro i limiti suddetti, i quali evidentemente dipendono dalla natura dell'ione e in particolare dalle dimensioni sue. Perciò la probabilità di formazione dei sistemi planetari ione-elettrone e la loro stabilità e durata, nonchè l'influenza su di questi spiegata da un campo magnetico, potranno variare assai al mutare del gas. Se, per esempio, in un caso estremo accade che, in grazia del valore della velocità della maggior parte degli elettroni, nei sistemi ione-elettrone la distanza fra i due elementi non è abbastanza grande rispetto alla grandezza degl'ioni, detti sistemi nella maggioranza loro cesseranno d’esistere non per separazione, ma per formazione d’'atomi neutri. In tal caso evidentemente mancheranno o saranno scarsi di numero gl’'ioni positivi abbandonati per via dai raggi magnetici, e più non sì formerà in modo sensibile l'anodo virtuale. In conclusione, il risultato negativo di qualcuna delle esperienze dei due fisici citati non giustifica la supposizione, che la mia ipotesi sia per sua natura inetta a darne in un avvenire forse prossimo una soddisfacente e com- pleta spiegazione. Aggiungo poi, che l'influenza della natura dal gas sui raggi magnetici, da essi messa in evidenza, e che coll’usuale spiegazione di quei fenomeni non si potrebbe affatto comprendere, basterebbe da sola a dimostrare l'insufficienza della spiegazione stessa, e a ribadire così l'oppor- tunità della teoria da me sostenuta. Matematica. — Sopra una proprietà caratteristica delle fun- zioni armoniche. Nota di G. ViraLi ('), presentata dal Corrispondente O. TEDONE. IE 1. Il prof. E. E. Levi, in una Nota avente lo stesso titolo di questa (?), ha dimostrato che una funzione delle due variabili reali x,y è armonica in un campo U, se è limitata, integrabile linearmente su ogni circonfe- renza e superficialmente in C, e se la media dei suoi valori, sopra qualsiasi circonferenza che cada completamente in C, è uguale al valore che essa assume nel centro della circonferenza medesima. (') Pervenuta all'Accademia il 3 settembre 1912. (?) Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, vol. XVIII, serie 52, 1° sem, fasc. Ho 1909, pagg. 10 e sg. — 316 — Più tardi il prof. L. Tonelli, in una Nota dello stesso titolo (1), ha ri- conosciuto che l’armonicità di una funzione consegue anche da condizioni meno restrittive di quelle imposte dal prof. E. E. Levi, e precisamente ha dimostrato che una /unzione delle due variabili reali x,y è armonica in un campo C, se è integrabile superficialmente in C, e se la media dei suoi valori sopra ogni circonferenza che cada completamente in C, e su cui sta linearmente integrabile, è uguale al valore che essa assume nel centro della circonferenza medesima. Io mi propongo di restringere ancora tali condizioni, e precisamente di dimostrare che se una funzione u(e ,y) delle due variabili reali x,y è integrabile superficialmente in C, ed ha sopra ciascuna coppia di circon- ferenze concentriche, cadenti completamente in C e su cui sia linearmente integrabile, la stessa media di valori, la funzione v(a ,y), che in ogni punto di C ussume per valore la media dei valori della u(a ,y), su qua- lunque circonferenza avente centro in quel punto — e su cui la u(a , y) sia linearmente integrabile —, è una funzione armonica, e non può differire da u(x ,y) se non in un gruppo di punti di misura nulla. Siccome poi dalle condizioni imposte in questo teorema alla «(x , y) risulta (per le stesse consì- derazioni svolte dal prof. E. E. Levi in principio del n. 1 della Nota citata) che la «(4 ,y), sulle aree di ciascuna coppia di cerchi concentrici e cadenti completamente in C, ha la stessa media di valori, basterà evidentemente dimostrare che se una funzione u(e ,y) delle due variabili reali x,y è integrabile superficialmente in ©, ed ha sulle aree di ciascuna coppia di cerchi concentrici e cadenti completamente in C la stessa media di valori, la funzione v(x ,y), che in ogni punto di C assume per valore la media dei valori di u(x , y) sull'area di qualunque cerchio avente centro in quel punto e cadente completamente in C, è una punzione armonica, e da u(x,Y) non può differire se non in un gruppo di punti di misura nulla. 2. Supponiamo che «(x ,y) sia una funzione delle due variabili reali x,y, integrabile superficialmente in C, ed avente, sulle aree di ciascuna coppia di cerchi concentrici e cadenti completamente in C, la stessa media di valori, e che v(x , y) sia la funzione che in ogni punto di C assume per valore la media dei valori di «(x , y) sull'area di qualunque cerchio avente centro in quel punto e cadente completamente in C. Avremo: 1 v(@,9)= {fa 4) de dy' nr? C(@007819)5 (') Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, vol. XVIII, serie 5*, 1° sem., fasc. 11, 1909, pagg. 577 e sg. — 917 — dove G(x,y;7) indica un cerchio di centro in x,y, cadente completamente in C, ed 7 il suo raggio; ed avremo anche: ON) c'e C(A0eTE Ora considerando, secondo i concetti introdotti dal sig. Lebesgue in una Nota recente (*) l'integrale di «(x ,y) come funzione di insieme (?), e ricordando che una tale funzione ammette derivata (*) in tutto il campo escluso al più un gruppo di punti di misura nulla e che tale derivata coincide con u(x,y) fuorchè in un gruppo di punti di misura nulla (4) risulta subito che v(xc,y) non può differire da «(x ,y) che in un gruppo di punti di mi- sura nulla, poichè v(x,y) coincide colla derivata là ove questa esiste (5). 3. Dai risultati precedenti consegue che v(£ 34) v',y')da' dy' , Sr, e da questa relazione, ripetendo le considerazioni svolte dal prof. E. E. Levi al n. 1 della Nota citata, colle semplici osservazioni del prof. Tonelli, con- segue subito che la v(x,y) è armonica. Così è dimostrato quanto si voleva. IDE 1. Il prof. V. Volterra (5) ha dimostrato che una funzione u(x , y) con- tinua delle due variabili reali x,y è armonica in un campo C in cui valga il teorema di esistenza delle funzioni armoniche, se u(x , y) assume în ogni punto un valore uguale alla media dei valori che essa assume sopra una sola circonferenza con centro in quel punto, purchè, considerando tale circonferenza come corrispondente a quel punto, ogni punto di C ri- sulti connesso al contorno ("). (1) Sur l’integration des fonctions discontinues. Annales de l’ecole Normale Sup. Paris, 1910, tom. 27, serie 32, pagg. 361 e sg. (2) v. Lebesgue, loc. cit., pagg. 380 e sg. (*) v. Lebesgue, loc. cit., pagg. 387, 395. (4) v. Lebesgue, loc. cit., pagg. 487-488. (5) Per questo basta osservare che una famiglia di cerchi è una famiglia di campi regolari secondo Lebesgue. (5) v. Volterra, Alcune osservazioni sopra proprietà atte a individuare una fun- zione. Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, vol. XVIII, serie 5%, 1° sem., fasc. 6, 1909, pagg. 263 e sg. (*) v. Volterra, loc. cit., n. 4. — 18 — Io mi propongo di dimostrare che quest'ultima condizione è superflua: e, per dare maggior portata alle mie considerazioni, comincierò col dimostrare il teorema I della Nota citata del Volterra, sostituendo alla connessione al contorno una condizione meno restrittiva. 2. Semi-connessione. Premessi tutti i concetti espressi nei nn. 1, 2,3, 4 della Nota del Volterra, e indicata con (A) la minima distanza di un punto A dai punti del contorno di C, io dirò che < punti interni di C sono semi- connessi al contorno se per ogni punto A interno di C è possibile trovare un sèguito di punti connessi (') AQUNGAVI AP. di cui faccia parte un punto A per cui sia d(AM)< dA). 3. Io passo a dimostrare che una funzione u(e ,y) finita e continua in C è determinata quando 1°) in un punto A interno al campo si conosce 1 M(A) P[w , M(A)] > u(A) 2°) si conoscono i valori di U al contorno di C. 3°) tutti i punti interni a C sono semi-connessi al contorno (*). Per dimostrare questo teorema basta dimostrare che se x è nulla al contorno e se per tutti i punti interni sì ha: ma P[u, M(a)]—(A)=0 u è nulla interamente in C. Ora se v non fosse nullo internamente a C, dovrebbe aver un massimo 0 un minimo diverso da zero. Supponiamo che tale sia p. es. il massimo e indichiamolo con G. Sia K il gruppo dei punti di C in cui è u=G e 4 il limite inferiore delle minime distanze dei punti di K dal contorno di C. Se fosse 4= 0 sarebbe facile vedere, per la continuità di «, che G=0 e ciò contro l'ipotesi. Supponiamo dunque Z > 0. Poichè K è un gruppo eviden- temente chiuso esiste un punto A di K per cui d(A)= 4. Ma per ipotesi esiste una successione AGATA A"... (1) v. Volterra, loc. cit., n. 4. (2) Ved. il teorema I n. 5 della Nota del Volterra. — 319 — di cui fa parte un punto A per cui è SI QUEZE e poichè evidentemente in tutti i punti AVAVA"..... enu—= G.(); anche in A sarebbe u= G, ed A sarebbe un punto di K, mentre d(AV) 2. Consegue che non può essere 4+0, ed infine che il teorema è vero. 4. Dal precedente teorema generale consegue subito quanto io mi sono proposto in principio del n. 1 di questo capitolo, ossia che una funzione u(x ,y) continua delle due variabili reali x,y è armonica in un campo C in cui valga il teorema di esistenza delle funzioni armoniche, se u(x , y) assume în ogni punto un valore uguale alla media dei valori che essa assume sopra una sola circonferenza con centro in quel punto. Ed invero, la circonferenza aggregata ad un punto qualsiasi A interno a C ha certamente qualche punto A' per cui dA) < dA). 5. Il prof. Tonelli al n. 2 della Nota citata, si propone di dimostrare che una funzione u(x ,y) continua delle due variabili reali x,y è armo- nica nel campo C în cui valga il teorema di esistenza delle funzioni armoniche, se u(x , y) assume in ogni punto di un gruppo J di punti dap- pertutto denso in C, un valore uguale alla media dei valori che essa assume sopra una sola circonferenza con centro nel punto, purchè in ciascun punto di C non appartenente ad J il limite inferiore dei raggi delle cir- conferenze relative ai punti di J, sia maggiore di sero, ed i punti di J stano connessi al contorno. La dimostrazione che ne dava il Tonelli non era finora completa, perchè si limitava a dimostrare che per ogni punto A di C esiste un cerchio con centro in A sulla cui circonferenza la media dei valori di x è uguale al valore che x assume in A, mentre che, per dedurre dai risultati del Volterra la conclusione voluta, sarebbe stato necessario provare anche la connessione col contorno di ciascun punto di C, e non so se questo sarebbe stato pos- sibile. Però in seguito ai risultati qui da me ottenuti noi possiamo affermare che il teorema di Tonelli è vero, e che anzi esso è vero anche se si toglie l'ipotesi che ogni punto di J sia connesso al contorno. NOTA. — Nel lavoro di Lebesgue (*) che ho avuto occasione di citare, e i cui risultati sono stati di così grande efficacia nello studio che ho fatto nel cap. 1, e che nella sua prima parte è una geniale estenzione di alcuni (1) v. Volterra, loc. cit., dimostrazione del teorema I n. 5. (£) v. Lebesgue, loc. cit., pag. 362. Nota (2). RENDICONTI, 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 42 — 320 — miei risultati (*), l’autore dice che io ho commesso una inavvertenza rite- nendo che il teorema del cap. I della mia Nota, nel caso delle due varia- bili, valga per rettangoli qualunque, il che sarebbe falso. È vero che effettivamente il mio teorema non ha questa generalità, ma io stesso l’ho avvertito nella Nota facendo seguire all’enunciato queste pre- cise parole: Questo teorema ha il suo analogo negli spazi a due 0 più dimensioni, nel piano p. es. si potrebbe sostituire la considerazione dei segmenti con quellla dei quadrati aventi i lati paralleli agli assi coordinati (*). Meccanica. — Sul problema Alfa della dinamica. Nota del- l’ing. GrovannI GiorGI, presentata dal Corrisp. A. Di Lkgca (°). 1. — Rendo qui brevemente noti, per la prima volta, pubblicamente, i risultati di un'investigazione, sulla quale ho già tenuto una comunicazione verbale preliminare al Congresso della Società italiana di Fisica, del 1906, in Roma, e indi nuovamente altre comunicazioni, seguite da discussioni, alle sedute della Sezione di Roma della stessa Società, nell’anno 1910, e che successivamente ho estesi e completati. La ricerca mi aveva già preoc- cupato da lungo tempo, ed ero in possesso dei risultati fondamentali fin dal 1903, epoca in cui li feci conoscere a varî cultori della materia in Italia. Devo però una giustificazione al mio ritardo nel pubblicare. Si tratta dei fondamenti della meccanica, e di un argomento che ha fatto oggetto di secolari discussioni, e ha dato luogo alle manifestazioni di opinioni le più svariate da parte dei fisici matematici, dai tempi di Newton ai giorni nostri. Sarebbe stato temerità portare il contributo di un nuovo lavoro, se questo avesse dovuto rappresentare una nuova opinione, anzichè una risposta fondata su ragioni positive. Ho quindi ritenuto necessario uno studio sufficientemente lungo e diligente su tutti gli argomenti che potevano essere addotti, da varî punti di vista, in favore o contro le deduzioni che svolgevo; studio che ha richiesto il provocare ripetute critiche e discussioni. Mi sia qui permesso di esprimere i più vivi sentimenti di riconoscenza a tutti coloro che coi loro consigli e incoraggiamenti, e con le loro critiche, mi sono stati del più valido e autorevole aiuto in questa revisione; particolarmente il prof. Volterra, il prof. Levi-Civita che con lungo interessamento ha esaminato punto per punto la questione, il compianto prof. Vailati, il prof. Marcolongo, il prof. Castel- (*) Sui gruppi di punti e sulle funzioni di variabili reali. Atti della R. Ac. delle Scienze di Torino, vol. XLIII, 1907-08. (*) Vitali, loc., cit., pag. 4. (3) Pervenuta all'Accademia il 20 agosto 1912. — 321 — nuovo, il prof. Maggi, il dott. Crudeli, e molti altri che limiti di spazio mi vietano di ricordare singolarmente. Questa Nota è preliminare e riassuntiva delle conclusioni. La ricerca in forma completa, con lo sviluppo delle dimostrazioni, sì troverà esposta in una Memoria nei Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo, che ora è in corso di stampa. 2. — Anzitutto espongo i termini della questione, che è quella del rife- rimento assoluto nelle leggi fondamentali della dinamica. Sono note le diffi- coltà originate dal fatto che le diverse espressioni conosciute della legge di inerzia, — 0, più in generale, le varie equazioni che, nella forma classica, o in quella di Hertz, o in quella di Mach e Maggi, o in qualunque altra equivalente, esprimono i postulati sperimentali dinamici, — non valgono indifferentemente per assi dotati di moto qualunque; ma presuppongono la scelta di sistemi di riferimento particolari (assi assoluti di Newton, sistemi Alfa di C. Neumann, triedri privilegiati di Duhem, etc.), che è permesso soltanto alterare passando a nuovi assi in traslazione uniforme rispetto ai primi. Si è cercato fisicamente in molte guise (da Newton, da Eulero, da Clarke, da Neumann, da Budde, da Volkmann, da Thomson e Tait, da Hertz, da Mach, etc.) di spiegare l'esistenza di questi assi Alfa, di individuarli, di trovare il corpo fisico da cui provengono e che dovrebbe regolare il moto di tutti i corpi conosciuti: sia esso l'etere, o lo spazio dotato di struttura fisica, o l'insieme delle stelle fisse, o l'universo dei corpi materiali. Altre volte (p. es. da Maxwell, da Streintz, da Enriques) si è ammessa questa nozione solo parzialmente: cioè per le rotazioni, non per le traslazioni. Più frequentemente (e così p. es. da Duhem, Muirhead, J. Thomson, Lange, Ha- damard, Love, de Tilly, Vailati, etc.) la questione è stata provvisoriamente risoluta ammettendo il riferimento Alfa sotto forma astratta, senza materia- lizzarlo, cioè affermando che in infinite guise, con sistemi inerziali, come girostati, o sistemi di proiettili di Lange, etc., si possono ritrovare sistemi Do dii tutte soluzioni ipotetiche, perchè nessuno ha dimostrato mai l'impossibilità di ricavare i fatti dinamici da equazioni che siano invarianti rispetto a- un moto arbitrario degli assi. Nè ad evitare la questione vale l’accettare col Kirchhoff le equazioni newtoniane siccome « definizioni » delle X,Y,Z; perchè allora la meccanica si sviluppa solo astrattamente, e la questione del riferimento risorge quando, passando a determinate applicazioni (di mec- canica terrestre), si deve affrontare la postulazione fisica, omessa inizialmente. Certo è che la postulazione dei triedri privilegiati semplifica tutto e permette di ricavare tutti i fatti sperimentali conosciuti; ma la reciproca non è dimostrata, e non sembra fisicamente verisimile. E ciò è tanto vero, di assi, rispetto a cui le equazioni X = # ete., valgono. Ma sono state — 322 — che esiste qualche meccanica, come quella di Reech e Andrade, in cui, par- tendo dalla postulazione contraria, si ricavano, almeno in un campo limitato di applicazione, gli stessi risultati. 3. — La questione può essere risoluta solo in un modo: cercare di tradurre in equazioni di moto relativo tutti i fatti dinamici fondamentali conosciuti (il che deve essere possibile, perchè sono tutti fatti ricavati da esperienze di moto relativo); indi verificare se queste equazioni hanno, o no, forma inva- riante rispetto a un moto arbitrario degli assi. Trattiamola anzitutto pel caso ipotetico di un mondo a una dimensione. Siano ivi da principio due soli corpi, di masse m,,m:, soggetti a una /orza mutua fi. Nella meccanica newtoniana, presupponendo l'esistenza di una origine assoluta, scriveremmo le due accelerazioni sotto la forma Th = fe/m, ) Je ES — fre/ma . Per differenza se ne ricava (1) ja=fa( + o), Mi Ma dove j,. esprime l'accelerazione relativa dei due corpi. Ora questa equazione mette in rapporto le uniche quantità direttamente osservabili, e non con- tiene più traccia di termini dipendenti dalla scelta e dal moto di un'origine. Dunque, per quel caso particolare, essa risponde al quesito Alfa in modo negativo. Le conclusioni sembrano però differire quando, sempre in quel mondo a una dimensione, si suppone l'intervento di campi di forza, provenienti da corpi eventualmente sconosciuti, o da forze non tutte mutue, o non tutte date a priori. Ma allora si presenta il problema di misurare la « forza to- tale » che sollecita un corpo. Analizzando questo problema, sì trova la riso- luzione della difficoltà. Infatti, facilmente si riconosce che la « forza totale » non è quantità fisicamente determinata in modo unico, senza intervento di convenzioni sul riferimento; per misurarla è necessario ricorrere almeno in parte al metodo di Kirchhoff, dicendo che un corpo #w è sollecitato, per de- finizione, da una forza nulla allorquando la sua accelerazione è nulla ri- spetto a un riferimento convenzionale scelto, ovvero da una forza mj allor- quando tale accelerazione si osserva uguale a j; e constatando (qui interviene il fatto fisico) che se si aggiunge al corpo una forza addizionale dinamome- tricamente misurata da d/, la variazione di 72) coincide con d/. Allora l'unico fatto dinamico da esprimere è quello relativo a questa ultima constatazione; cioè (2) d.mj = df — 323 — e questa unica legge dinamica soddisfa ancora alla condizione dell'invarianza rispetto al moto dell'origine. La sua forma suggerisce di scrivere ancora la (1) in questa guisa: (3) =. per renderla valevole nel caso in cui i corpi m,,:, oltre ad essere solle- citati dalla /,3, siano immersi in un campo di forza qualunque. E in molte guise si possono trasformare queste equazioni, prendendo come tipici certi, piuttosto che certi altri casi particolari. E si possono scrivere sotto forma finita, o come equazioni a derivate parziali; nella prima forma dicono che « in assenza di altre forze, l'accelerazione dovuta a una certa / ha un certo « valore »: nella seconda, dicono che, « in presenza di altre forze, la parte « di accelerazione dovuta a una / ha ancora quel certo valore »; per cui il significato è lo stesso. 4. — Per un’investigazione analoga nello spazio a tre dimensioni, i metodi sono due: mi limito ad accennarli, e a mostrare i risultati. Entrambi riposano su questa indagine statica preliminare. Per mezzo di un filo elastico teso, si può avere un campione di forza, che si suppone conservabile e riproducibile a volontà; un qualunque gruppo di » fili identici al campione e paralleli dà una forza #, a cui per direzione si attribuisce quella comune dei fili; e si generalizza facilmente al caso di x reale qua- lunque. Quando si constati che un sistema di forze applicate simultaneamente a un punto materiale, o remosse da esso, non alterano il suo moto, qualunque questo moto sia, si dice che quelle forze sono in equilibrio. Segue la co- struzione, la taratura e l’uso di un dinamometro. Per mezzo di esso si può misurare non già la forza totale F (vettore) che sollecita un corpo immerso in un campo, ma bensì ogni forza parziale o addizionale dF, dovuta a una qualsiasi azione fisica che sia applicabile e removibile a volontà. La forza totale resta conseguentemente determinata a meno della scelta dello zero, che dipende dal moto di un riferimento arbitrario, e introduce sei funzioni arbitrarie del tempo, comuni a tutti i corpi. Ciò premesso, il primo metodo è questo: considerare due corpi rigidi estesi, con masse e momenti d'inerzia conosciuti; considerare uno sforzo mutuo elicoidale (forza + coppia) agente fra i due: nell'ipotesi restrittiva che non vi siano altri corpi e forze al mondo, scrivere un sistema di sei equazioni finite. corrispondenti alle (1), e che daranno sei componenti del moto relativo dei due corpi; nell'ipotesi, invece, di un campo qualunque di forze sovrapposto all’azione mutua, scrivere un sistema di sei equazioni a derivate parziali, corsispondenti alle (3), e che daranno quella parte delle — 324 — sei componenti suddette, che è dovuta all’azione mutua. Con ragionamenti analoghi a quelli fatti per una dimensione, si accerta che queste equazioni esprimono tutto quello che vi è da dire sui fatti dinamici. E anche senza scriverle di fatto, si comprende & pri0r% che per la loro struttura risultano indipendenti dai riferimenti. Quindi anche per le tre dimensioni si ricava, al quesito Alfa, una risposta negativa. L'altro metodo è questo. Assumere un corpo arbitrario (rigido esteso) di riferimento, e fissarvi un triedro 0xyz. Considerare un punto materiale di massa m. Questo è soggetto a forze, che la meccanica classica descrive- rebbe così: — «) un campo F, preesistente, che non sappiamo misurare altro che osservando le accelerazioni; — ) il campo delle forze F, di Coriolis, dovute al cosiddetto moto assoluto del riferimento; — ce) le forze arbitrariamente applicabili, 9F, e che si possono misurare col dinamometro. Peo PI 6 dA è la forza relativa; cioè, pel teorema di Coriolis, si ha l'equazione (vetto- riale) Dicendo j il vettore che ha per componenti sl avrà che wJ Ora, il campo F, e il campo F. sono fisicamente indistinguibili fra loro, e si fondono in un campo solo, F;, che il Levi-Civita chiama il campo delle « forze inevitabili »; questo campo è misurabile solo osservando l'ac- celerazione relativa jo che esso induce in assenza del dF; quindi, in luogo di Fr = F, + F., conviene scrivere mjo per mettere in evidenza il solo dato effettivamente desunto dall'osservazione. E allora, in luogo dell'equazione in forma newtoniana (4), che non ha senso determinato, perchè soggetta alla scelta del riferimento, si ha la seguente: mi —Jo)=="0F, ovvero (5) md} #06 Questa equazione corrisponde interamente alla (2). e per gli stessi ra- gionamenti può accettarsi come traduzione completa dei fatti dinamici. A differenza della (2), contiene l'elemento j, che dipende dal moto arbitrario del sistema di riferimento. Ma siccome questo sistema è stato supposto qua- lunque, dobbiamo concludere che (a differenza di j) la variazione dj è in- variante, perchè è invariante il secondo membro (ricavato da misure che non dipendono da riferimenti); cioè è invariante l'equazione; quindi anche essa non conduce a triedri privilegiati. In forma cartesiana, si può scrivere, p. es. ja (6) dX di ete., - Mm — 325 — e assumere queste equazioni come postulati fondamentali in luogo di quelli classici per ricavare la meccanica tutta indipendente da questioni di moto assoluto. 5. — La ricostruzione di questa meccanica si ottiene come segue. È dato il riferimento arbitrario 0xyz; è dato il punto materiale di massa m; si pro- cede a un'esplorazione preliminare del campo con un dinamometro (attaccato a un terzo corpo che non sia vincolato coi primi due), e si determina lo sforzo dinamometrico F' che conviene applicare al punto 72 per rendere nulla la sua accelerazione x,y", 2". Assumendo lo stato così realizzato di acce- lerazione nulla siccome stato nullo delle forze, la forza nello stato normale s'intenderà misurata da F. Allora, se j è l'accelerazione in questo stato, i valori j, F, così definiti, rappresentano variazioni dj , OF, fatte a partire da uno stato in cui J)j=0=F, per definizione. E quindi, in virtù del postu- lato (5), si ha (7) j=nF. Cioè, in funzione della F dinamometricamente misurata, sì ha la j re- lativa al riferimento arbitario prescelto. L'equazione è identica a quella di Galileo-Newton, e quindi la meccanica che si costruisce a partire da essa è identica a quella classica, con identico contenuto, ma valevole pel riferi- mento 0xyz in moto arbitrario qualunque. La presunzione arbitraria, ammessa nella dinamica classica, dipende dall'uso sottinteso di qualche appoggio a corpi assunti come fermi, fatto tacitamente nelle misure ordinarie di forza; per cui poi si ritrovano, come privilegiati, nelle leggi dinamiche, quei riferimenti arbitrarii che per deter- minare le forze si sono introdotti. 6. -— Dunque una risposta al quesito Alfa si può dare, ed è negativa. Questa conclusione vale limitatamente all'ambito della meccanica newto- niana ordinaria, e cioè: — «) escludendo dinamica elettronica, e termini complementari di Lorentz-Einstein per corpi in moto con velocità grandis- sime; — ) escludendo previe cognizioni fisiche sui campi di forza effetti- vamente esistenti, e sulla loro proprietà conservative: cognizioni che valgono a distinguere le forze centrifughe-composte di Coriolis; — c) escludendo applicazione specifica a gravitazione o ad altri campi di forza singoli. Tutti questi fenomeni dànno bensì luogo ad assi Alfa loro proprî: ma siffatti assi possono risultare diversi da punto a punto e da fenomeno a fenomeno, e non hanno che vedere con gli ipotetici assi Alfa che dovevano intervenire nelle leggi dinamiche e risultare universali. — 320 — Meccanica. — Sulle deformazioni elastiche delle condotte d'acquacon tubi di grande diametro. Nota di GustAVO COLONNETTI, presentata dal Corrisp. O. TEDONE ('). In una mia precedente Nota, pubblicata sotto questo medesimo titolo negli Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino (adunanza del 12 maggio 1912), ho cercato di analizzare le deformazioni elastiche che si ve- rificano in un tubo di condotta forzata durante ogni operazione di riempi- mento o di vuotamento della condotta, determinando per via grafica la legge con cui varia, al variare dell'altezza di carico disponibile, una data dimen- sione lineare della sezione retta generica del tubo, e più precisamente il suo diametro verticale. Mi propongo qui di trattare sotto un altro punto di vista il medesimo problema, applicando il classico metodo del Betti allo studio delle corri- spondenti variazioni dell’area della stessa sezione e conseguentemente del volume del tronco di condotta che si considera (*). Le considerazioni che sto per esporre possono essere con vantaggio messe in relazione con alcune recenti ricerche del prof. Guidi (*), ricerche alla cui notevole importanza tecnica ho già avuto occasione di accennare nella citata mia Nota. Supposto il tubo cilindrico a generatrici orizzontali, limiterò il problema a due sole dimensioni prendendo in considerazione la linea chiusa o traccia della superficie interna del tubo sul piano del disegno (fig. 1) supposto nor- male alla direzione delle generatrici; sia 7 l'area semplicemente connessa che ha quella linea per contorno. Indicherò genericamente con p la forza (riferita all'unità di lunghezza) distribuita su c da considerarsi come una pressione normale rivolta dall'in- terno verso l'esterno; con s lo spostamento subìto dal punto generico P di o in una qualsiasi deformazione elastica del sistema, spostamento che, conformemente alle consuete ipotesi fondamentali della teoria dell’elasticità, (1) Pervenuta all'Accademia il 30 agosto 1912. (*) Lo stesso principio venne recentissimamente utilizzato dal prof. Cisotti nello studio di un problema che con questo presenta notevole affinità. Cfr. la Nota: Sulla de- formazione idrostatica degli scafi, comparsa nel 1° fasc. (2° sem. 1912) di questi stessi Rendiconti. (®» Guidi, Sulla stabilità delle condotte d’acqua con tubi di grande diametro, Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino, adunanze del 28 aprile e del 16 giugno 1912. — 327 — si suppone qui piccolissimo a fronte delle dimensioni del sistema; accenti eguali serviranno a mettere in evidenza la dipendenza di un dato sistema di spostamenti da un sistema dato di forze. Supposte nulle o trascurabili le forze di massa, nonchè le pressioni agenti sulla superficie esterna del tubo, il teorema di Betti (') ci permette di scrivere la relazione generale (I) f[ pxsdo— [px sudo. Fio. 1. Assumeremo per sistema delle pressioni p" quello che è effettivamente realizzato dal carico idrostatico quando il livello di pelo libero mm trovasi ad una data quota generica % (che supporremo sempre positiva) al di sopra della sommità del contorno dato 0. Detta < l'altezza di carico disponibile in tale ipotesi in un punto qual- siasi P di o, la pressione unitaria in esso punto applicata (ove si ritenga la densità dell'acqua eguale all’ unità) dovrà intendersi rappresentata dal vettore pp=_—zn, essendo n un vettore unità diretto secondo la normale in P al contorno o e rivolto verso l’ interno. (!) Betti, Teoria dell’elasticità, Nuovo Cimento, ser. 22, tom. VII ed VIII, 1872; cfr. anche Cesàro, Introduzione alla teoria matematica della elasticità, Torino, 1894; ovvero ancora: Burali-Forti e Marcolongo Omografie vettoriali, Torino, 1909. ReENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 43 — 3238 — Assumeremo invece il sistema delle pressioni p' a rappresentare una distribuzione di pressione uniforme e di intensità eguale all'unità, cioè porremo p=_—_ n. La (I) diviene immediatamente (IT) — fsrxado=— f(x n) do. Ma il primo membro di questa caratteristica relazione altro non rappre- senta se non l'incremento di area subìto dalla sezione retta considerata, nella deformazione elastica effettivamente prodotta dal dato carico idrostatico; il secondo membro ci fornisce pertanto la misura di questo incremento sotto forma del momento statico, rispetto alla orizzontale del pelo libero, del contorno bagnato della sezione, quando lungo di esso si immagini distribuita una massa fittizia la cui intensità in ogni punto come P sia misurata dal valore della componente normale dello spostamento s' corrispondente. Non insisterò sulla possibilità, dopo ciò che ho detto evidente, di de- durre dalla conoscenza della deformata della sezione (o più precisamente del suo contorno o) relativa alla ideale sollecitazione uniforme p=—n la rappresentazione grafica della legge secondo cui varia l’area della sezione retta del tubo al variare dell'altezza del pelo liquido libero, anche perchè la cosa rientra completamente come caso particolare in ciò che a questo proposito ho scritto nella citata mia Nota. Osserverò piuttosto che, dal punto di vista analitico, il secondo membro della (II) può essere utilmente trasformato coll’aiuto del ‘noto lemma di Gauss I Dal teorema della divergenza, supposto s' prolungato nell'interno di # con legge qualunque, si ha infatti —_ fe X n)z do = faiv (65) da. e] CT La (II) si trasforma così nella (III) Ja ndo = faiv (28°) dî relazione la quale sì presta ad una discussione semplice ed esauriente del ‘caso, praticamente il più interessante, in cui la sezione è circolare con pareti il cui spessore costante e sia sufficientemente piceolo a fronte del raggio r. — 329 — Supporrò, come ho fatto del resto già nella Nota precedente, che il tubo sia semplicemente appoggiato su di un suolo piano orizzontale ed in- compressibile (fig. 2). Sotto l'azione della ipotetica pressione uniforme , 1855 la data circonferenza di raggio 7 si trasforma in un'altra circonferenza di raggio rd+9=r(1+g). essendo E il modulo di elasticità normale del materiale omogeneo di cui la parete si ritiene costituita. Se pertanto si denota con O la traccia della generatrice d'appoggio, e con P' la posizione effettivamente assunta, dopo la deformazione testè de- scritta, da un punto generico P di o, si ha, in conseguenza delle premesse ipotesi di vincolo (') | s=P _P=se(PT—_0) (1) Si prescinda infatti per un momento dai vincoli imposti, e si immagini che la deformazione si verifichi in modo da lasciar immobile il centro C del cerchio dato (fig. 3). Allora ogni punto come P subisce un semplice spostamento radiale di grandezza costante PP.=8r, epperò anche O deve spostarsi secondo la medesima legge; Ma questo sposta- od Noi supporremo che S’, così definito soltanto su 0, venga prolungato nell'interno di 7 in modo che, P essendo comunque scelto in 7, sia ancora S'= e(P— 0) Per altra parte, se y indica la distanza, presa col debito segno, del punto generico P dalla orizzontale condotta pel centro C di o, si ha = lapA=9 epperò div(es)=e(2h+r— 39), onde, sostituendo nella (III), = [iam ndo—2e(1+5) far— 36 f ydr . /G 2 CT T Ma l’ultimo integrale è evidentemente nullo: si ottiene perciò _ fs'xndo=2(1+5) (ar=2 (+3), mento di O è incompatibile coi vincoli a cui in realtà il sistema è soggetto. Per otte- nere adunque il cerchio deformato nella sua vera posizione bisognerà far subire al luogo dei punti P, una traslazione P, P'=0,0=er atta a riportare la traccia della genera trice d’appoggio nella sua primitiva posizione. La somiglianza dei due triangoli OCP, PP, P' basta a render ragione della espressione che si trattava di dimostrare. — 3591 — ovvero anche, sostituendo ad « il suo valore noto, (IV) —_ (s'xnde=2 1 n4 i) ar. IG He 2 Da questa espressione, atta al caicolo numerico immediato, si rileva agevolmente che la variazione dell’area della data sezione è direttamente proporzionale all'altezza DEE della orizzontale 772 del pelo liquido libero sopra un punto fisso H della : î % . sezione stessa situato all'altezza 3 al disopra del centro C. Detto — [s° X ndo Meglio: ‘OR 0= = far il coefficiente di dilatazione superficiale dell’area data, risulta ovviamente, dalle formole che precedono, (V) 0=2e (+3). (4 | Il valore che, a detto coefficiente, si viene ad attribuire sostituendo, come si usa far nella pratica, al sistema delle pressioni interne distribuite con legge idrostatica una pressione uniforme equivalente, cioè di intensità ovunque pari alla media delle intensità effettive, è evidentemente (1) 0=28(h +7). La differenza 0 —b= sr indipendente da /, epperò costante al variare dell’altezza di carico disponi- bile, può in un certo senso assumersi come la misura di quel caratteristico (') Una simile distribuzione uniforme di pressioni trasformerà infatti il dato cerchio di raggio r in un altro cerchio di raggio r[1+eh+")]. Si passa ovviamente dall’una all'altra figura mediante una dilatazione piana uniforme, il cui cocfficiente di dilatazione lineare è e(h+4r). Tenuta presente la supposta piccolezza delle deformazioni elastiche, è noto come si possa dimostrare che il coefficiente di dilatazione superficiale deve risultare precisamente eguale al doppio del precedente. — 332 — fenomeno di ovalizzazione del tubo, la cui importanza è stata così opportu- namente messa in luce dai lavori del prof. Guidi. In virtù di questo fenomeno la dilatazione superficiale della data se- zione, appena la condotta è piena ma non ancora sotto carico (cioè per h= 0), è eguale alla metà soltanto della dilatazione superficiale a cui da- rebbe luogo la equivalente ripartizione uniforme delle pressioni. L'entità relativa dell'errore a cui conduce la sostituzione della effettiva distribuzione idrostatica delle pressioni con una equivalente distribuzione uniforme, decresce però indefinitamente al crescere indefinito di 4. La (V) viene così a precisare il senso in cui va intesa l’attitudine delle pressioni stesse dell'acqua a contrastare, quando la condotta è a pieno carico, il sopra accennato fenomeno di ovalizzazione dei tubi. Fisica matematica. — Formule del Green e metodi del Betti nella teoria del moto lento dei liquidi viscosi. Nota III di Um- BERTO CRUDELI, presentata dal Corrisp. A. Dr LEGGE (°). III. Si consideri l'equazione du 4, CORIO) T 41 D£ Da suna dove (in virtù di quanto abbiamo trovato nelle Note precedenti) potremo intendere posto il secondo membro sotto la forma (lo indicheremo allora con L) che desideravamo. E sì ponga Mot È 4u(l—t) l'e = (EST 0 U- o? Adesso le &,,6 rappresentano le coordinate di un punto generico della porzione di fluido considerata all'istante 7; le x,y, rappresentano le coordinate di un punto ir/erzo della porzione stessa, all'istante £. La F, come è ben noto nella teoria della propagazione del calore, è una soluzione dell'equazione dY A? = 0 5 ea + d°y= Sicchè, per fl = < do = Rie dor | d(uF) ni sa Lg si 3, a ri pr ni INI -if Li Fdo: “ uu, FdS,. Quindi dE du È et ZI uPdo: +0 |. tin FdS, = af (è (è DCP si d8 + | BPdar. Da cui, integrando fra fi e t —«, dove « >0, avremo te 0) ef, (Pre dne=e f, (UP) done (de (eun PdS + Jsr t-e > so 3 nf de [. (7 nor F nl dS: +f da RE : 0 Osservo che i (uF)rie dw: = | (UF)rtie de; + VBE Wie - Wi Ora, poichè (x, y,) è un punto ?rterno dello spazio @,, si ha limg.= 0. E=0 Inoltre, come insegnano i metodi del Betti ('), lim | (uF)x_-:do,= (2y/7k ) IU), e=0 Wi dove XK = Lf Q Quindi dalla (9) si trae la formula, alla quale volevo pervenire: cioè, qualora u,v,w ,p siano soluzioni, della natura supposta, delle equazioni indefinite del moto lento dei fluidi viscosi, omogenei, incompressibili, si hanno necessariamente, oltre al resultato ottenuto relativamente alla pres- sione, le seguenti formule: ita EE e. (4F)r=% done f de |. uUn FASzT + St, gl da fo es ri) I+f. de | LPdo, (1) Memorie di matematica e fisica della Società italiana delle Scienze, serie III, tomo I, parte II (1868), pag. 182. — 334 — e le due analoghe, che non scriviamo, trattandosi semplicemente di scam- biare, in quella testè scritta, u con v ed L con M per ottenere la seconda, ed v con w ed L con N per ottenere la terza. È manifesto il significato di M e di N. Formule, però, che non hanno la forma generalizzata del Green. MoTI STAZIONARII. IV. Nel caso di moti stazionarî, ponendo nella (3) (ved. Nota I) e A d 7 nelle due analoghe rispettivamente CA 3 du 00 de 0, sì dedur- dI dI di rebbe — con procedimento analogo a quello da me tenuto precedentemente (Note I e II), liberato dalle considerazioni ausiliarie — sape sy, = (_ÎX a +-{do+ E quindi, mediante considerazioni analoghe a quelle che ho già fatte rela- tivamente alla pressione nel caso non stazionario, si potrà intendere (a meno di una costante) posta la p sotto la forma desiderata. Inoltre, avendosi ora __ DI Mal | dt adtu=0 la formula ordinaria del Green basterà ovviamente per completare i nostri resultati nel caso dei moti stazionarî. 96) — 3359 — Fisica. — 4 sforzi interni nei corpi ferromagnetici posti nel campo magnetico. Nota preliminare di F. ProLa e L. TIERI ('), presentata dal Socio P. BLASERNA (°). INTRODUZIONE. 1. Clerk Maxwell (8), dando veste matematica ai concetti di Faraday, mostrò che è possibile di concepire le azioni reciproche delle correnti elet- triche — ed in particolare le forze agenti su di un elemento magnetizzato posto in un campo magnetico — come dipendenti da uno stato particolare di tensione del mezzo ambiente. Se l’induzione B è nella stessa direzione del campo magnetico H, questo SERE - 1 stato del mezzo si riduce, secondo Maxwell, ad una pressione 8 H? uguale in tutti i sensi — pressione 24drostatica, come vien detta, — combinata con 3 È ) Il î una lenstone diretta secondo le linee di forza, ed uguale ad in! Ossia, TT preso l'asse delle x nella direzione delle linee di forza: TC a re 1 (1) VE 1 2 POT Quando non vi è magnetizzazione B= H e ne risulta una tensione Il uguale ad sn secondo le linee di forza, ed una pressione pure uguale ad — H' nelle direzioni perpendicolari a questa. L'esistenza di queste pressioni e tensioni è stata qualitativamente ac- certata coll’esperimento, ma non altrettanto può dirsi quantitativamente nei mezzi ferromagnetici; e la cosa può giustificarsi quando si pensi che nella trattazione del Maxwell è stata trascurata la reazione che sulla induzione (!) Al Piola è dovuta la parte generale ed il metodo di ricerca, al Tieri la parte sperimentale. (?) Pervenuta all'Accademia il 30 agosto 1912. (3) Maxwell, Zraité d’électricité et de magnetisme, Paris, 1887, vol. II, $ 642 ReNDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 44 — 336 — viene a prodursi per le deformazioni che i mezzi subiscono per effetto ap- punto delle pressioni e tensioni stesse. Altri, dopo Maxwell, tentarono di colmare la lacuna e, per es., l’Helm- holtz mise in conto la variazione di densità che il mezzo subisce, ed il Kirchhoff (*), oltre a questa, anche il mutamento di lunghezza nel senso delle linee di forza. Secondo quest'ultimo, la pressione idrostatica P e la tensione T sono rispettivamente date da: \ PES pH pH 87 ©) ii = SII 47 dove £' e %" sono due coefficienti dipendenti dalle variazioni che la suscet- tività l dei singoli elementi del corpo subisce per il mutamento negli ele- menti stessi rispettivamente del volume e della lunghezza parallela alle linee di forza magnetica. Qualora campo ed induzione, e quindi campo ed in- tensità I di magnetizzazione, siano ugualmente diretti, e si indichino rispetti- i a 00 ; GIN 5 vamente con o e con 4 le dilatazioni — cubica, e mi lineare, si ha: 0) (3) I-Hix—ok#—-2W}. 2. Oltre alle teorie dell’ Helmholtz e del Kirchhoff altre ne furono pro- poste sulla magnetostrizione, pur senza potersi dire con sicurezza quali fra esse dovessero essere scartate. Il sussistere di più teorie, le cui conseguenze sono in disaccordo fra loro, è imputabile al fatto che le azioni da esse prevedute non sono diret- tamente accessibili alla esperienza. Non essendo direttamente accessibili alla esperienza le forze teoricamente prevedute, si deve ricorrere alla osserva- zione di fenomeni che alla lor volta sono considerati come dipendenti da quelle. Ma la dipendenza ordinariamente non è univoca, e di qui ne viene incertezza nello stabilire la corrispondenza fra le condizioni magnetiche e questi fenomeni osservabili. Il Cantone, per es. (*), partendo dalle equazioni del Kirchhoff ed intro- ducendo le costanti elastiche del corpo, calcolò come un ellissoide di rivolu- zione allungato, e disposto coll’asse di rotazione parallelo al campo, avrebbe dovuto variare la sua lunghezza ed il suo volume allo stabilirsi di deter- minate condizioni magnetiche. Le dilatazioni lineare e cubica erano misurabili, come il momento ma- gnetico ed il campo, per cui potevano ricavarsi i valori dei coefficienti ' (!*) Wiss. Abh. Nachtrag., 1891, pag. 91. (®) Memorie Lincei, 1889, vol. 69, pag. 487; Rend. Lincei, 1890, vol. 6°, pag. 252. 997. e 4" del Kirchhoff. Questi, introdotti nella (3), venivano a dare, per la va- riazione della suscettività, valori plausibili, almeno pel ferro. Ciò, come lo stesso A. rilevava, non costituiva criterio sicuro per convalidare la teoria; nè la cosa doveva meravigliare, ad onta di tutta l’abilità dello sperimen- tatore. Infatti, da un lato, nelle condizioni magnetiche, l’induzione presenta isteresi rispetto al campo, e, dall'altro, nelle condizioni elastiche, le dimen- sioni presentano isteresi rispetto alla forza e quindi quella tale corrispondenza non è sempre determinata. C'è in più da considerare che, come posteriori (') ricerche hanno dimostrato, le costanti elastiche — delle quali occorre far uso per collegare le variazioni magnetiche a quelle delle dimensioni, e che sì determinano coll’applicazione, al corpo, di sforzi meccanici — sono, nei corpi ferromagnetici, funzioni del campo, ed anche dipendono dall’ordine nel quale si susseguono, nel corpo stesso, maguetizzazione e sforzo. Considerazioni analoghe valgono per le ricerche di Nagaoka ed Honda (?). 8. Un'altra via è stata seguìta per arrivare a grandezze accessibili alla esperienza, considerando che, come la magnetizzazione influisce sulle dimen- sioni e sulle costanti elastiche di un corpo ferromagnetico, alla sua volta uno sforzo applicato al corpo stesso ne altera la magnetizzazione. Il legame di questi fenomeni reciproci è stato da prima trovato da J. J. Thompson (*) e, dopo di lui, altre teorie sono venute svolgendosi su tale indirizzo. Basterà citare quelle di Heydelweiller (4) di Gans (5) e di Kolacék (5), fondate sopra considerazioni termodinamiche, e quella di Can- tone (") che ha per base la legge, che porta il suo nome, sulla costanza della energia spesa per produrre una determinata magnetizzazione. Tutte queste teorie arrivano a stabilire relazioni fra la variazione, al mutare del campo, nella lunghezza, nella torsione, e nel modulo di ela- sticità, e quella, al variar della tensione o della coppia torcente, nella ma- gnetizzazione. Il controllo sperimentale — fatto sopra campioni di ferro, di nikel, di acciaio al tungsteno e di acciaio al nikel di differente titolo, da Honda e Terada (8) — permette di dire che, in prima approssimazione, è ve- rificato quanto hanno di comune le varie teorie. Va notato che, per la tor- sione e la trazione, ciò che hanno di comune è precisamente quanto si ricava (*) Honda e "l'erada, Phil. Mag., 1907, 13°, pag. 36; 14°, pag. 65. (?) Phil. Mag., 1893, ser. V, vol. 46, pag. 261. (*) Application of Dynamics to Physics and Chemistry, Chap. IV. (*) Ann. der Phys, XI, pag. 602, 1903. (©) 0 » XIII. pag. 634, 1904. (0) 3 » XIII, pag. 1, 1904. (*) Rend. Ist. Lombardo 379, (1904), pp. 435, 474, 535, 267. (*) Phil Mag., 1907, 14°, pag. 65. — 398 — dalla ipotesi del Cantone, senza alcuna restrizione (1) rispetto alla suscetti- vità, contrariamente a quanto asseriscono i due fisici giapponesi. Ma dall'esame delle laboriose misure e, più che tutto, dalla conside- razione che nelle ricerche sui fenomeni reciproci magnetoelastici si sotto- intende sempre legittima la equazione : 6 3 \ ARONA les) cioè applicabile la inversione nelle derivazioni rispetto al campo magnetico H ed allo sforzo meccanico S o, in altre parole, la nessuna influenza, sullo stato finale del corpo, dell'ordine nel quale questi stimoli vengono applicati — e ciò (°) è stato dimostrato non vero in generale —, si resta molto per- plessi se anche questa via possa condurre a risultati soddisfacenti. In ogni modo, per quanto essa possa darci preziose indicazioni sulla dipendenza tra loro dei fenomeni magneto-elastici nei corpi ferromagnetici, nulla ci dice nemmeno essa direttamente sulle forze attive nell'interno dei corpi stessi. METODO DINAMICO PER LO STUDIO DEGLI SFORZI INTERNI NEI CORPI FERRO- MAGNETICI POSTI NEL CAMPO MAGNETICO. 4. Come siamo andati esponendo, le difficoltà che si presentano nella misura delle forze interne attive in un corpo ferromagnetico magnetizzato, e posto in un campo magnetico, derivano dal fatto che non abbiamo il modo di paragonarle direttamente con forze esterne a noi note, ma siamo costretti a fare il confronto mediante la osservazione di fenomeni che con- sideriamo come conseguenza di quelle e di queste: come, per es., colla 0s- servazione delle deformazioni che il corpo subisce. Abbiamo notato la diffi- coltà di stabilire una corrispondenza univoca fra gli elementi osservati, e (1) Infatti, per es. per la trazione, dalla equazione del Cantone si ricava subito: i faa-z| as - fran]. dP_Jo dp O) dove e è la dilatazione per unità di lunghezza, e p la tensione per unità di sezione del filo. Notando che nella ipotesi si suppone di arrivare, con qualunque tensione p, sempre alla stessa magnetizzazione finale I, collo stesso campo Hi, viene: DAG: I.)=0. Deri- vando allora rispetto ad H, ed invertendo le derivazioni al secondo membro, come fanno 1 fisici giapponesi, viene, in valore assoluto, che è appunto la parte comune alle varie teorie sui fenomeni magueto-elastici reciproci. () Honda e Terada, Phil. Mag., 1907, 13°, pag. 36. — 339 — ciò sia pel fatto che l’induzione magnetica presenta isteresi rispetto al campo e la deformazione del corpo rispetto alla forza deformatrice, sia per l'influenza che l'ordine di successione, nel quale le azioni magnetiche e mec- caniche sono applicate, esercita sul risultato. Le difficoltà sarebbero tolte se: 1°) il campo variasse ciclicamente in modo da avere, per ogni va- love di esso, determinata la storia anteriore del corpo, e quindi un ben definito valore della induzione; 2°) la forza esterna fosse applicata pure ciclicamente in modo da avere, per ogni valore di essa, un ben definito valore della deformazione; 3°) infine campo e forza esterna agissero contemporaneamente in modo da togliere le incertezze derivanti dall'ordine loro di successione ed in modo da compensarsi nei loro effetti e, in particolare, da annullare le deforma- zioni che tenderebbero a produrre separatamente, in senso opposto. e che colla loro reazione altererebbero gli elementi in gioco. Si dovrebbe così tor- nare alle azioni pure di Maxwell. Senza descrivere qui un primo metodo impiegato, e che aveva per base il confronto fra i cicli statici elastico e magneto-elastico, esponiamo un me- todo dinamico che ci sembra raggiungere in modo più efficace le condizioni sopra indicate. Diciamo subito che il risultato al quale arrivammo col se- condo metodo l'avevamo già avuto, per quanto con minore sicurezza, col primo, e che anzi il risultato stesso delle prime ricerche ha servito ad indi- rizzare le disposizioni sperimentali che qui sono descritte. Le condizioni sopra indicate sarebbero raggiunte, se: 1°) il campo fosse ottenuto mediante una corrente elettrica alternata, di frequenza ed ampiezza costanti; 2°) la forza esterna fosse prodotta pure mediante una corrente elet- trica alternata; 3°) le due correnti, producenti rispettivamente campo e forza esterna, agissero contemporaneamente, e la legge secondo la quale varia la seconda potesse essere mutata in modo da compensare gli effetti della prima. Il mutamento nella legge di variazione della corrente può esser fatto mediante quantità variabile di ferro abbracciato dal circuito della corrente stessa: come ciò possa farsi sistematicamente, faremo vedere nel lavoro definitivo. Ottenuto il compenso ed analizzata, coi mezzi noti e largamente im- piegati in elettrotecnica, la corrente producente la forza, sarebbe facile, dalle condizioni geometriche degli apparecchi, risalire alla legge di variazione della forza, e quindi mettere in relazione questa col campo e con la magnetizza- zione. — 340 — Qualora non si riuscisse a ottenere il compenso perfetto, non per questo il metodo cesserebbe di prestare utili servigî, in quanto che sarebbe sempre un metodo differenziale di ricerca, e di questo presenterebbe tutti i vantaggi. 5. Il sopra indicato metodo diretto, per la determinazione delle forze interne nei corpi ferromagnetici, abbiamo voluto applicarlo allo studio della tensione che si genera nel nikel parallelamente alle linee di forza del campo magnetico nel quale è posto, riservandoci in seguito di studiare la pressione idrostatica e di estendere le ricerche ad altri corpi ferromagnetici. Abbiamo considerato da prima la tensione come quella che dà effetti più cospicui, ed abbiamo iniziato il nostro studio col nikel perchè esso, fra i corpi ferro- magnetici, si comporta nel modo più semplice rispetto alla magnetizza- zione, in quanto che esso sempre si accorcia al crescer del campo magnetico nel quale è posto, mentre il ferro da prima si allunga, raggiunge un mas- simo (punto del Villari) e poi si accorcia, e in modo opposto si comporta il cobalto. Ma un'altra ragione ci ha spinti, ed è stata che il nikel ci è sembrato pre- sentare interesse maggiore degli altri corpi in quanto pare che anche gli altri vengano a comportarsi come esso, purchè siano convenientemente trattati: il Bidwell (*) infatti ha dimostrato che il ferro, accuratamente ricotto sempre si accorcia al crescer del campo magnetico, come se il punto del Villari, con la ricottura, venisse a corrispondere allo zero dei campi. Analogamente, nel cobalto, il punto del Villari si allontana dall'origine, tendendo pure questo metallo a sempre restringersi col crescer del campo. Anche l'aumento del carico (°) ha sul ferro lo stesso effetto. 6. Il nikel sottoposto ad esame era un filo ricotto, del diametro di mm. 0,7 e lungo cm. 81, mantenuto verticale entro un tubo di vetro interno ad un secondo tubo pure di vetro. Fra i due tubi, nell’ intercapedine, si man- teneva una corrente d'acqua allo scopo di sottrarre il nikel alle influenze termiche esterne. Agli estremi del filo erano saldate due asticine di ottone, delle quali l'una era fissata superiormente, e l'altra, collegata ad uno dei bracci di una delicata leva di ottone munita di specchietto, sì prolungava in una sospen- sione di alluminio. Nelle prime esperienze, al posto della leva metallica avevamo applicato la disposizione a filo di bozzolo del Righi, della quale uno di noi (*) si era già servito utilmente. Ma ci siamo accorti che, da un lato, tale disposizione non veniva a seguire abbastanza bene le oscillazioni che volevamo produrre, e, dall'altro, mancava la ragione del preoccuparci del piccolo attrito che poteva presentare una leggiera asticina girevole fra due (1) Proc. R. Soc. Lond., vol. LV, pag. 228; vol. LXXIV, pag. 60. (£) Grimaldi e Accolla, Atti Acc. Gioenia di Catania, ser. 5%, vo]. II, Mem. XIV; Honda e Terada, Phil. Mag., 1907, vol. 13°, pag. 36. (8) Tieri, Rend. Lincei, 1908, vol. XVII, 2° sem., pag. 204. — 341 — punte d'ago, come era la nostra leva, quando, pur essendo molto piccoli gli spostamenti, le forze colle quali avevamo a che fare erano relativamente rilevanti. 7. Il campo magnetico era prodotto mediante un'elica lunga em. 86 e del diametro medio di cm. 1,4, formata di filo di rame del diametro di mm. 0,2. Le spire erano avvolte uniformemente in 6 strati, e di esse se ne avevano 211 per centimetro. Il filo di nikel si trovava lungo l’asse dell'elica ed occupava una regione dove il campo prodotto da una corrente elettrica circolante nell’elica poteva ritenersi costante. L’elica aveva i suoi capi col- legati, a traverso resistenze ed auto, alla rete cittadina di corrente alternata. La trazione esterna veniva applicata per mezzo dell'azione reciproca di due rocchetti percorsi da corrente elettrica. A tale scopo la sospensione di alluminio, nella quale si prolungava, come s'è detto, l'asticina di ottone fis- sata all'estremo inferiore del filo di nikel, portava un largo rocchetto col- l’asse verticale. Di fronte a questo, e con lo stesso asse, sì trovava un se- condo rocchetto ed ambidue erano costituiti da filo di rame del diametro di mm. 0,8, avevano il raggio medio di cm. 20 e la sezione quadrata: però, il fisso avea 200 spire, ed il sospeso soltanto 100. La distanza fra le basi affacciate era di cm. 1,8, tanto grande cioè da poter essere considerata co- stante durante la variazione di lunghezza, di pochi millesimi di mm., che l’intiero sistema nikel e alluminio veniva a subire sotto l’azione della tra- zione o del campo. I due rocchetti erano collegati in serie fra loro, per cui la loro attrazione era in ogni istante proporzionale al quadrato della corrente attiva nell'istante stesso, ed erano congiunti, traverso resistenze ed auto, agli stessi punti della rete cittadina di corrente alternata ai quali era collegata l’elica magnetizzante. 8. Agendo la sola attrazione dei rocchetti, — supposta di forma sinu- soidale la corrente e proporzionale alla trazione l'allungamento, — è facile vedere che sì avrà nel sistema un allungamento costante e, intorno ad esso, un allungamento sinusoidale di frequenza doppia di quella della corrente e sfasato su questa. Infatti, tenendo conto che nel nostro apparecchio la massa in movi- mento è, quasi esclusivamente. raccolta nel rocchetto appeso all'estremo infe- riore della sospensione e che pure lo smorzamento al moto è dovuto pre- ponderantemente alla resistenza che esso rocchetto incontra a muoversi nell'aria; considerando ancora che la reazione del sostegno superiore del filo è, in ogni istante, uguale alla forza risultante all'estremo inferiore della so- spensione e proporzionale, per la ipotesi fatta, all'allungamento totale del sistema; la equazione differenziale alla quale dovrà soddisfare l'allungamento stesso, cioè lo spostamento x dell'estremo inferiore, sarà: (4) MET LAZ Bo—P, sen'o/=4Fs(1— c082 04) — 342 — In questa equazione si è indicato: con F, il valore massimo della forza traente applicata all'estremo inferiore della sospensione, e che è proporzionale al quadrato del valore mas- simo della corrente e dipende dalle condizioni geometriche proprie e reciproche dei due rocchetti; con M la massa del rocchetto mobile; con A il coefficiente di smorzamento ; con B il coefficiente di allungamento dell’ intiero sistema per modo Wi 3 8 che, se questo fosse un cilindro omogeneo, si avrebbe: B=HE7, con E = modulo di elasticità, s = sezione ed / = lunghezza. L'integrale generale della (4) è: (5) x = CC, e%' 4 Cg e%! + da _ da cos (2 w£ + gp), dove i primi due termini sì annullano dopo un tempo sufficientemente lungo, poichè C, e C, sono costanti arbitrarie mentre @, ed «, sono essenzialmente negative, essendo soluzioni della equazione My? + Ay+B=0 a coefficienti tutti di ugual segno. Resta dunque, quando siano spente le oscillazioni proprie del sistema, F F (6) = pot +9), come s'era detto, con (7) K°= (40° M — B) + 40°A?, 204 (8) 9 eM_B° come è facile verificare. 9. Qualora resti invariata la lunghezza del tilo di nikel, cioè immobile l'estremo inferiore di questo e quindi quello superiore della sospensione, la B, che indicheremo con B', si riferirà alla sola sospensione di alluminio; e la forza esterna alla quale sarà soggetto l'estremo inferiore stesso del nikel, sarà: ‘_ pr _ip B' n Ù (9) Vir Bei 0 Cal) avendo indicato con K' e g' ciò che diventano K e sostituendo in essi B' a B. — 343 — Ricordiamo che la trazione cui è soggetto il rocchetto, cioè l'estremo inferiore della sospensione, è: (10) F=1Fj1— co820/}, per notare come essa, in generale, si trasmetta modificata in ampiezza e fase al nikel. Ma, nelle condizioni nelle quali si trovava la nostra sospen- sione, poteva ritenersi g'< 107°, e però la parte sinusoidale della forza applicata all'estremità inferiore della sospensione si trasmetteva alla estre- mità inferiore del filo in esame non sensibilmente alterata nella fase. Chimica. — ZBasicità degli acidi contenenti ossidrili aleoo- lici (*). Nota II di G. CaLcAGNI, presentata dal Socio E. Pa- TERNÒ (°). In un primo lavoro (3) io ho già esposto lo scopo a cui tendevo in quest'ordine di esperienze; in esso riportai le curve di conducibilità durante la neutralizzazione di acidi ossidrilati con ammoniaca. Nel presente invece riporto le stesse curve durante la neutralizzazione con idrato di berillio. In un altro lavoro sul lattato di berillio (‘), dimostrai con determinazioni di conducibilità elettrica e di punto di congelamento durante la neutralizzazione, che l'acido lattico si comporta come un acido bibasico, poichè il berilio con esso forma due sali in cui il rapporto fra base e acido è rispettivamente 1:2 e 1:1. In questa stessa occasione esposi inoltre le diverse opinioni dei diversi sperimentatori sulla costituzione dei sali di berillio, e conclusi per l'acido lattico conformemente all'opinione di Parsons (5) che l’ossido di be- rillio oltre i sali normali su accennati non ne forma altri e si scioglie nella soluzione dei suoi sali modificando probabilmente il solvente. Era evidente quindi che io estendessi le ricerche anche agli altri acidi, anzitutto per determinare la loro basicità rispetto al Be(OH), e poi per stabilire anche quale complessità avessero i sali che sono capaci di formare. Gli acidi che ho adoperati sono: l’acido glicolico, ossiisobutitrico, malico, tartarico e ci- trico; volevo adoperare anche gli acidi @- e f-ossibutirrico, ma non l'ho potuto per la limitata solubilità dei loro sali; nè potevo farne soluzioni troppo diluite, perchè allora non si sarebbe sciolto Be(OH), nella quantità (!) Lavoro eseguito nel Laboratorio chimico della Sanità pubblica di Roma. (*) Pervenuta all'Accademia il 26 agosto 1912. (°) Rend. Acc. Lincei, Scienze fis. e mat., vol. XX, serie 5%, 2° sem., 261. (QU ” ”» D) ”» ” n XI D) ” 229. (5) Journ. phys. chem. 27, 659. ReENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. (015 — 344 — necessaria oltre il punto di neutralizzazione. Con l’acido ossiisobutirrico sono arrivato appena ad oltrepassare di poco la concentrazione corrispondente a 1:1, ma il fenomeno è quasi ugualmente evidente come per gli altri acidi. Intanto credo opportuno ricordare quali fossero i sali di berillio finora noti dei suddetti acidi e quale spiegazione si fosse data della costituzione di alcuni di essi, la quale stesse in una certa relazione con lo scopo del presente lavoro. B. Glassmann ('), come abbiamo accennato in altro luogo, oltre alcuni sali del tipo Be, Acs0, ha ottenuti anche con ossiacidi sali del tipo Be, Acs0, a cui attribuisce la stessa costituzione, che per es. per l’acido glicolico è la seguente : CH,0H—C<0>Be o< .H,0 CH.0H—U<0>Be Così per il lattato, etilglicolato, fenilglicolato ecc., i quali sono interpetrati dall'autore come sali di due molecole di ortoacido condensate. Per le ra- gioni esposte a sostegno di questa opinione si confronti la sua Nota. Per l'acido glicolico quindi non si conoscerebbe altro sale, neanche il normale; nessun sale invece, per quanto io sappia, si è preparato dell'acido ossisobu- tirrico. A. Rosenheim e Paul Woge (*) in uno studio sulla valenza del berillio prepararono molti sali di questo metallo e tra essi anche i tartrati misti fa- cendo agire l’idrato di berillio sopra i tartrati acidi all'ebollizione. Però già erano noti un tartrato neutro di berillio Be C, H, 0, + 3H:0, preparato da At- terberg (5), e un tartrato di berillio e potassio di Toczinski (4). I sali ottenuti da Rosenheim dimostrano alcune reazioni anormali: con KC1 non precipita il cremore di tartaro; con CaCl, non precipita il tartrato di calcio; con Ag NO; si ha subito un precipitato fioccoso e voluminoso; ecc. Questo anor- male comportamento condusse gli autori a ritenere che, oltre all’ idrogeno carbossilico, venivano sostituiti dai metalli anche gli idrogeni ossidrilici. Questa stessa ipotesi invero era già stata fatta per sali complessi di altri metalli dell’acido tartarico; per esempio, secondo Schiff (*), dal tartaro eme- (1) Ber. d. d. ch. Gesel., 4/, 33. (*) Z. f. anorg. Ch., /5, 283 (1897). (*) Bull. Soc. Ch., 27, 162 (1874). (4) Breve estratto su Z. Ch., 1871, 277. (5) Lieb. Ann., 7/8, 189. — 345 — tico, per riscaldamento a 190°, si origina il seguente sale: COOK CHO Sb | c007 Quindi i suddetti autori dettero ai loro sali la formola: COOR COOR R00C | | CHO CHO OHC | )Be oppure secondo Kahlenberg | Be Be CHO CHO \0H | C00 Be 0H C00 Be——0— Be 00C Essi in considerazione della costituzione di questi sali, cercarono di prepa- rare altri composti del berillio con i tartrati alcalini, per ottenere anzitutto corpi analoghi ai complessi di rame e di piombo. I tipi possibili, data la costituzione, potevano essere: I II COOR ROOC COOR ROOC | | CHO OHC CHOH HOHC | Be Be | | CHO OHC CHOH HOHC | | | CO0 Be 000 CO00—Be—0—Be 00C R,0.30Be0.2C,Hy0; R.0.2Be0.2C, HO; COOR ROOC CHOH HOHC CHOH HOHC C00—Be 006 R,0.Be0.2C,Hy05 Ma ottennero solamente il sale di potassio K,0.2Be0.2C,H,0;+2H:;0, completamente corrispondente al sale di rame che si suppone nella soluzione di Fehling e al sale di piombo dell’acido tartarico (?). In seguito A. Rosenheim ed Herrmann Itzig (?) prepararono altri sali complessi degli acidi tartarico e malico per studiare il loro potere di de- (1) Z. f. phys. Ch., 17, 577. (£) B. d. d. ch. Gesel., 32, 3434, 1899. — 3846 — viazione specifico; e ne determinarono anche la costituzione. I sali dell'acido tartarico si riferiscono ai due suddetti tipi, cioè: Rs0 .4Be0.2C,H,0; + xaq Diberilliotartrato R:0 . 2Be0.2C,H,0; + xaq Monoberilliotartrato. Del primo tipo ottennero i sali di potassio, sodio e ammonio, i quali, dalle misure di deviazione ottica molecolare e da quelle di conducibilità molecolare, risultarono sali neutri dell’anione complesso Be, Cs H, 0,3 (secondo la formola doppia di Kahlenberg), il quale è straordinariamente stabile e non subisce alcuna idrolitica separazione. Identici sali ottennero del secondo tipo, che anche dalle misure di con- ducibilità e deviazione ottica molecolari risultarono sali neutri dell'anione complesso stabile Bes Cz Hz 013. Inoltre essi prepararono anche, saturando all'ebollizione con Be(0H), una soluzione di acido tartarico e raccogliendo la massa vetrosa ottenuta, il sale della composizione Bez C4 Ha 0, + 7H0, che secondo essi è probabil- mente da ritenersi come sale di berillio del diberilliotartrato. I sali ottenuti con l'acido malico sono perfettamente corrispondenti ai tipi dei tartrati: prepararono sali neutri dell’anione complesso stabile Be, CsHs0;s della costituzione : CO00.R R.00C | | CH, H,C | CHO—Be—-0—BeT—0HC | COO—Be—-0—Be—00C con i metalli alcalini e anche con i metalli bivalenti; e i sali di K,Na e NH, del monoberilliomalato. Infine dell’acido citrico finora pare sia noto solo un sale preparato da S. Tanatar ed E. Kurowski (*), della formola Rs Be; 03, in cui R= radicale acido. I risultati sperimentali da me ottenuti sono raccolti nelle seguenti ta- nelle e rispettivi diagrammi. Le soluzioni furono preparate secondo le norme tenute nel precedente lavoro. Di ciascuna veniva misurata la conducibilità per cinque diluizioni successive alla temperatura di 25°. La concentrazione degli acidi non era sempre la stessa: quella degli acidi con più carbossili era un po’ più forte; in ogni modo nelle tabelle v= 1 si riferisce alla soluzione di partenza. () Journ. Russ. Phys.-Ch Gesel. 40, 787. — 347 — Nelle rappresentazioni grafiche si sono scelte come ascisse le concentra- zioni in molecole di Be0O per una molecola di acido e come ordinate, le conducibilità specifiche moltiplicate per 1000. Una questione noiosa ed importante, che in simili esperienze si presenta, è quella dell'acqua pura. L'ottenere l'acqua del grado di purezza oppor- tuna è molto difficile e spesso è necessario ridistillarla parecchie volte con notevole perdita di tempo dell'operatore. Io sono riuscito allo scopo semplifi- cando molto la questione e riducendo al minimo la perdita di tempo. L'appa- recchio da me adoperato era costituito di una pila di rame della capacità di circa sei litri; nella sua parte superiore si innestava un tubo di vetro di Jena poco solubile, recante due bolle grosse nella parte verticale; detto tubo al- l'altezza di 30 cm. circa, si ripiegava ad angolo ottuso e si collegava diret- tamente con un serpentino di stagno puro immerso in un refrigerante. Il diametro del tubo di vetro era tale che vi potesse entrare giusto il tubo di stagno. Questo apparecchio di dimensioni così limitate io tenevo sul mio banco da lavoro e quindi potevo sorvegliare il suo funzionamento mentre mi occupavo d'altro. Distillavo anzitutto su KMnO0, la comune acqua distillata di laboratorio e raccoglievo la parte media in recipiente di vetro di Jena pel quale era passata una corrente d'aria priva di CO,. L'acqua raccolta da due distilla- zioni successive, la ridistillavo nello stesso apparecchio ben lavato su barite; così raccoglievo da due a tre litri di acqua la cui conducibilità oscillava intorno al valore 1,7 X 1079. Il riscaldamento della pila si faceva con un comune fornello a gas con fiamme piccolissime sì che l'ebollizione era molto lenta e regolare e prima che incominciasse la distillazione l’acqua doveva lungamente bollire. Questo modo io ho trovato il più conveniente, poichè avevo a mia disposizione sempre una discreta quantità di acqua ottima per le ordinarie misure, la quale potevo ottenere con piccolissimo fastidio. L'idrato di berillio adoperato era stato precipitato e lavato a freddo partendo dal carbonato; quest'operazione richiese lungo tempo; l’idrato pre- cipitato e lavato a caldo non si scioglieva nella concentrazione voluta spe- cialmente negli acidi monocarbossilici. — 348 — TABELLA I. Conducibilità specifiche - Acido glicolico + Be(0H)». 22 | Mol. di Beo ES per 1 mol. v=2 v=4 v=8 v= 16 Z5 di acido 1 0 1,582 1,063 0,7368 0,9112 0,3462 2 0,04993 1,214 0,8578 0,5930 0,4163 0,2930 3 0,1234 1,700 1,065 0,6461 0,4084 0,2669 4 0,2303 2,364 1,444 0,8529 0,5000 0,2923 5 0,2855 2,605 1,614 0,9594 0,5605 0,3181 6 0,3752 2,815 1,772 1,063 0,6181 0,3502 7 0,5616 3,072 1,932 1,167 ? ? 8 0,6291 3,103 1,938 1,184 0,7089 0,3982 9 0,7339 3,060 1,948 1,188 0,6984 0,4003 10 0,9290 2,966 1,853 1,150 0,6911 0,3953 11 1,177 2,353 1,546 0,9665 0,5849 0,3452 12 1,284 2,116 1,394 0,8810 0,5412 0,3216 3,0 2 (CS DS SE tu (Si — Conducibilità specifiche. SS S > i CIO Molecole di BeO per 1 di acido. Fic. 1. — 349 — TABELLA II. Conducibilità specifiche - Acido osstisobutirrico + Be(0H)s. 28 Mol. di Be0 Ce ri 1 0 1,222 0,8529 0,5932 0,4101 0,2836 2 0,08301 119 0,7193 0,4692 0,3127 0,2149 O) 0.1556 1,450 0,9237 0,5615 0,3456 0,2150 4 0,2398 1,772 1,148 0,6891 0,4123 0,2423 5 0,3022 2,000 1,264 0,7601 0,4536 0,2650 6 0,3450 2,019 1,292 0,7684 0,4528 0,2608 7 0,4332 QI 1,401 0,8529 0,5092 0,2954 8 0,6537 2,338 1,520 0,9351 0,5536 0.3221 9 0,8865 2,330 1,506 059376 0,5682 0,3339 10 1,015 2,250 1,473 0,9264 0,5622 0,3306 151 20| _ (>) > £ DI Conducibilità specifiche. Molecole di BeO per 1 di acido. Fia. 2. 0 Chimica. — Su gleerofosfati di sodio del commercio (*). Nota del dott. V. PAOLINI, presentata dal Corrisp. A. PERATONER (°). In una Nota pubblicata l’anno scorso (*), essendomi occupato dello studio del glicerofosfato sodico Poulenc, venni alla conclusione che questo prodotto deve essere costituito in modo predominante dal sale dell’acido f-glicero- fosforico: difatti potei ottere da esso con buonissimo rendimento un glice- fosfato di brucina identico a quello descritto da F. Tutin ed A. C. 0. Hann (‘), e che, avuto riguardo alla sintesi fatta da questi autori, deve con- siderarsi come f-glicerofosfato. Io potei anche ricavare dal sale Poulene un acido glicerofosforico libero, il quale, se anche non costituisca il puro acido B-glicerofosforico, deve almeno contenere questo in modo prevalente, avendone io difatti ricavato pure il #-glicerofosfato di brucina. Poichè il sale Poulenc, come feci già rilevare, è ottenuto con un proce- dimento sintetico alquanto diverso da quello classico di Pelouze, offriva interesse lo studio di altri glicerofosfati del commercio, giacchè in questi, a seconda del processo con cui sono preparati, si sarebbe petuto trovare predominante o il #-glicerofosfato come nel sale Poulene, oppure l'a. À questo fine ho esaminato i prodotti di quattro diverse fabbriche (e precisamente: C. Erba, Milano; Givaudan, 'Lavisotte e C., Lyon; Burrougs Wellcome e C., London; E. Merck Darmstadt), i quali, del resto, nell’aspetto fisico si rasso- migliano notevolmente. i Avendo anzitutto determinato l’acqua di cristallizzazione di questi pro- dotti, i quali, al pari di quello di Poulenc, non sono affatto igroscopici, ma piuttosto efflorescenti, per tutti trovai valori coincidenti che conducono, come per il sale Poulenc, alla formula Na?(CxH0:) PO, + 5!/, H30 (31,41°/ di acqua) Prodotto Erba gr. 1,0680 di sost. perde 0,3352 di H,0 =31,28 °/ ” Givaudan » 1,0048 ” 0,3110 È 30,95 ” Wellcome » 1,2632 ” 0,3916 ” 81,00 ” Merck n 1,2764 ” 0,4020 ” 31,49 (1) Lavoro eseguito nell’Istituto chimico-farmaceutico della R. Università di Roma. (*) Pervenuta all'Accademia il 8 agosto 1912 (3) Rendiconti della R. Accad. dei Lincei, vol. XX, ser. 5%, 1° sem., fase. 11°. (4) Journ. chem. Soc., 89-1749 (1906). — 351 — Anche questi predotti trattati, con acetato di calcio, forniscono, come il sale Poulenc, un glicerofosfato di calcio che è poco solubile (1,50 °/,) e che, per questo suo carattere diverge dal glicerofosfato di calcio del commercio, ottenuto, come è noto, col vecchio procedimento di Pelouze. Questo contegno dei varî glicerofosfati del commercio indicava adunque che anch'essi devono essere costituiti in gran parte dal sale simmetrico (f), dalle ricerche di J. Tutin ed A. Hann (') essendo noto che l’a-glicerofosfato di calcio è notevolmente più solubile che non l’isomero #8. Ed infatti ho trovato confermata tale supposizione analizzando i sali di brucina che si ottengono decomponendo con solfato di brucina i rispettivi glicerofosfati di bario. Questi sali di brucina, di provenienza diversa, contengono tutti la stessa quantità di acqua di cristallizzazione del f-glicerofosfato di brucina (11°/2H,0 = 17,73 °/) e lo stesso potere rotatorio in soluzione alcoolica ([e]° = — 29,8') ed in soluzione acquosa ([@e], = — 29,5'). Glicerofosfato di brucina. Acqua di cristallizzazione a) Dal sale di Erba sostanza gr. 0,5078:H,0= gr. 0,0904= 17,80°/ db) ” Givaudan ” 0,5066 ” 0,0896 17,68 c) ” Wellcome ” 0,5180 ” ORO9 2 RANA 747 d) ” Merck ” 0,5028 ” 0,0888 17,66 Potere rotatorio -— —_—T| T11__rme->-___ _ _m in acqua in alcool a) Erba [o].p= — 29,43’ [ohb= — 29,74 b) Givaudan [a], = — 29,38" [a]h= — 29,84 c) Wellcome [a]h= — 29,81’ [al5= — 29,80 d) Merk [a].o= — 29,42". [a]p = — 29,82" e però i glicerofosfati di sodio del commercio da me analizzati devono rite- nersi, per la loro composizione, affatto corrispondenti al prodotto della Casa Poulenc. Del resto è notevole che glicerofosfati di brucina con gli stessi carat- teri si ottengono anche, con ottimo rendimento, direttamente dai sali sodici del commercio, mescolando quantità stechiometriche di solfato di brucina e di glicerofosfato sodico in soluzione acquosa concentrata e calda. Glicerofosfato di brucina. a) Dal sale di Erba sostanza 0,4998 H.0 0,0883 17,66 °/ db) ” Givaudan ” 0,5106 O 0 917584 C) ” Wellcome ” 0,5110 ” 0,0926 17,84 d) ” Merck ” 0,5156 n 0:0928. 17,99 (1) Loc. cit., pag. 1752. RenpicontTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 46 — SD — Anche il punto di fusione di questi glicerofosfati di brucina ottenuti in modo diretto dai prodotti del commercio, coincide con quello indicato da F. Tutin ed A. Hann, cioè 157-158, e si riferisce naturalmente ai prodotti disseccati a 100°, giacchè i sali contenenti ancora acqua di cristallizzazione fondono invece, come io ho trovato, nella loro acqua, a 122°. Recentemente Carré (') ha asserito di avere ottenuto dal glicerofosfato sodico Poulenc (per doppia decomposizione del corrispondente sale di bario col solfato di brucina) un glicerofosfato di brucina che contiene solo 4 mo- lecole di H,0 e che fonde anidro a 181°, mentre in nessun caso egli avrebbe potuto ottenere « il sale a 7 molecole di H,0 di Paolini »; evidentemente l'autore è incorso in un equivoco, avendo io ottenuto dal sale Poulenc (*) un sale che non contiene 7H,0, bensì 11?/, H.0, che per questo suo carat- tere, per il suo punto di fusione, e per il suo potere rotatorio, è identico al p-glicerofosfato di brucina di F. Tutin ed A. Hann. Chimica. — Su/la marcasite di Castelnuovo di Porto. Nota di G. SirovicH, presentata dal Socio E. PATERNÒ (°). Per l'importanza che i minerali solforati di ferro hanno, sia dal punto di vista chimico sia da quello geologico, ne sono state molto studiate, e con sufficiente successo, l'origine e le condizioni di formazione. Con ricerche di laboratorio si è cercato di stabilire i limiti di tempera- tura entro cui essi si depositano, la composizione delle soluzioni da cui si separano, e gli agenti che ne provocano la precipitazione. Oggi perciò si è concordi nel ritenere che, pur potendo qualche volta la pirite cristallizzare direttamente da magme di minerali, tuttavia essa nel maggior numero di casì, e la marcasite sempre, si depongono da soluzioni acquose. Nelle formazioni superficiali sì era supposto che questi due solfuri de- rivassero dalla riduzione di FeSO, per opera di sostanze organiche; ma esperienze eseguite in laboratorio non hanno confermato questa ipotesi, ed hanno invece indotto nella persuasione che sia l’azione diretta dell’ idrogeno solforato sui sali di ferro a provocarne la formazione. Sintesi della pirite e del pirrotino erano state fatte da tempo da Wohler, Rammelsberg e numerosi altri; però queste erano sintesi eseguite con metodi che non davano nessuna luce sulla formazione naturale di questi solfuri. Recentemente, invece, Allen, Crenshaw e Johnston (4) li hanno preparati ar- (!) Bulletin de la Société chimique, 4° serie, t. XI-XII, n. 4. () Rendiconti della R. Accad. dei Lincei, vol. XX, serie 5°, fasc. 11°. (8) Pervenuta all'Accademia il 7 settembre 1912. (4) Zeit. anorg. ch., 76. 201 (1912). — 353 — tificialmente per vie che è da supporsì in molti casi siano anche le naturali, perchè essi hanno stabilito che il prodotto dell’azione dello zolfo e dell’idro- geno solforato sopra sali di ferro può in grandissima parte essere marcasite, e tanto più quanto più acido libero è contenuto nella soluzione: mentre che la pirite può essere il prodotto principale quando la soluzione è neutra o solo debolmente acida. Essi hanno pure trovato che, a freddo, il prodotto della reazione è marcasite, mentre al di sopra di 450° la marcasite non si forma. In accordo con i fatti accertati sperimentalmente dai detti autori ame- ricani stanno alcune osservazioni da me fatte sopra un deposito di marcasite che si trova nelle vicinanze di Castelnuovo di Porto, e che credo perciò in- teressante di far note. Nelle pendici meridionali dei Vulcani Sabatini, presso Castelnuovo di Porto, i terreni sono costituiti quasi esclusivamente da formazioni tufacee. Venendo verso Roma, oltrepassato il bivio della strada che conduce a Riano, sulla destra della via provinciale, vi è un fosso che a valle prende il nome di Torraccio. : La vallata formata da questo fosso è caratteristica per la sua corrosione, che dà alla regione un aspetto che ricorda la formazione a terrazze; e in essa si incontra un giacimento di marcasite. Questa ha dato all'analisi i seguenti risultati: Bei. .. . CSMEIOZO SEC. . | 0025 cia VI SIOE... MOZZI 100,01 L'analisi è stata eseguita seguendo le prescrizioni date recentemente da Allen e Johnston (*) per il dosaggio del ferro e dello zolfo nei solfuri di ferro, e cioè il minerale è stato ossidato, secondo Carius, in tubo chiuso per impedire ogni perdita di zolfo, e il ferro è stato separato con due precipi- tazioni con carbonato di sodio per evitare i sali di ammonio i quali causano sempre perdite nello zolfo. L'arsenico è stato dosato, secondo Fresenius, disgregando il minerale con miscela di carbonato e nitro, e precipitandolo e pesandolo come solfuro. Questa marcasite si presenta con una struttura mammellonare, e in qualche punto addirittura stalattitica: le stalattiti raggiungono persino la lunghezza di 15 cm. (') Zeit. anorg. Ch., 69, 102 (1911). — 3954 — La struttura di una sezione di una di queste stalattiti è riprodotta nella figura. Ha frattura lucentissima, splendore metallico, argenteo, donde deriva il nome di «cava dell'argento » con cui viene indicata quella località. Vicino a questo deposito di marcasite sono parecchie sorgentelle di acque ferruginose e, un poco più a valle, numerose polle di idrogeno solforato; queste sorgenti ferruginose e queste polle di idrogeno solforato, assieme con la forma mammellonare e stalattitica che la marcasite presenta, indicano chiaramente che essa si è originata per via umida per azione di H,S sopra i sali di ferro a temperatura ordinaria. E che così effettivamente sia, lo prova anche il fatto che la formazione di queste stalattiti in quella località è continua, potendo continuamente osservarsene la produzione di nuove, in maniera che si può dire, essere in questa località possibile di assistere alla sintesi della marcasite nelle condizioni appunto in cui è riuscito ai tre autori americani di riprodurla sperimental- mente in laboratorio, per azione cioè dell’ H.S sopra i sali di ferro a tem- peratura ordinaria. Il crescere della temperatura invece favorisce la deposizione della pirite, come lo prova il fatto che pirite è stata osservata nelle sorgenti di Karlsbad che hanno una temperatura di 55°, e che i vapori caldi delle fumarole di Islanda, come ha trovato Bunsen, trasformano a poco a poco in pirite il silicato di ferro del basalto (1). 1 (1) Allen, Crenshaw e Johnston, loc. cit. — 355 — Chimica vegetale. — Sua presenza dell’acido cianidrico li- bero nelle piante (4). Nota III di C. RaveNNA e G. BOSINELLI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (?). La ricerca dell'acido cianidrico libero nelle piante fu oggetto di due precedenti Note (*) nelle quali venne descritto, e sperimentato sopra diverse specie, un metodo che ci portò alla conclusione che l’acido prussico si trova nei vegetali, probabilmente soltanto in combinazione glucosidica. Per l’esecu- zione del metodo, le piante in esperimento vengono immerse per un minuto una per volta, in una soluzione diluitissima di potassa caustica bollente, ponendo cura che, all'atto dell’immersione, l'ebollizione del liquido nvn si arresti. Dopo raffreddamento, si acidifica con acido tartarico la soluzione, si distilla in corrente di vapore, raccogliendo il distillato con latte di magnesia e sul liquido ottenuto si eseguiscono gli opportuni saggi per la ricerca del- l'acido cianidrico. Nelle esperienze precedenti, che furono eseguite sul lauroceraso, il pesco, il sorgo, il lino e il nespolo, la reazione del d/ex di Prussia fu sempre ne- gativa; mentre riuscì positiva, in varie prove, quella colla cartina picro- sodata. Sebbene quindi risultasse che in molti casi l'acido prussico si trova presente soltanto allo stato di glucoside, rimaneva tuttavia da stabilire se le traccie, svelate alcune volte colla cartina picro-sodata, fossero dovute a dosì piccolissime di acido cianidrico libero preesistente, oppure ad acido cia- nidrico liberatosi durante le manipolazioni. Inoltre era necessario sperimen- tare qualche altra pianta cianogenetica per vedere se le conclusioni a cui eravamo giunti per le piante già studiate si dovessero generalizzare. Tali quesiti sono l'oggetto della presente Nota. Le esperienze furono, questa volta, eseguite sul lauroceso, sul Phaseolus lunatus, e sulle mandorle in germinazione (var. dolce e amara). Esperienze sul lauroceraso. — Allo scopo di ricercare se la piccolis- sima quantità di acido cianidrico libero, svelata nel lauroceraso colle cartine picro-sodate fosse preesistente nelle foglie, abbiamo modificato il nostro me- todo, sostituendo, alla soluzione alcalina bollente a 100°, una soluzione, pure lievemente alcalina, a punto di ebullizione intorno ai 110°, e ciò per distrug- (3) Lavoro eseguito nel laboratorio di chimica agraria della R. Università di Bologna. (®) Pervenuta all'Accademia il 7 agosto 1912. (*) C. Ravenna e M. Tonegutti: questi Rendiconti, XIX, 2, 19 (1910); C. Ravenna e V. Babini. ibid.. XXI, 1, 540 (1912). — 356 — gere l'enzima con maggiore rapidità. L'innalzamento del punto di ebullizione si ottenne mediante l'aggiunta di un sale, e cioè, rispettivamente, cloruro di calcio (44°/,), nitrato di sodio (98 °/,) e acetato di sodio (75 °/,). Per con- fronto si eseguirono anche le esperienze colla soluzione bollente a 100°. Si fecero parecchie prove con foglie giovani e con foglie vecchie, avendo cura di recidere il picciòlo dentro alla soluzione. Il distillato si divideva in due porzioni uguali, delle quali una serviva per il dosamento dell'acido cianidrico col nitrato d’argento decinormale, l'altra per le reazioni qualitative. I risultati ottenuti sono riuniti nello specchio seguente: È i: a Reazione Reazione Ag NOs î Stato î Peso 33 Si Sale adoperato del dlex della cartina per metà HCN colo LOBO 8 S| di Prussia | picro-sodata __del è distillato “giovani |gr. 25 | 100°| negativa negativa | c.c. 0,05| 0,0011 p. cento vecchie | » 25| 100 | n |debolissima| » 0,30] 0,0065 » giovani | » 25| 110) Cloruro dia) ” negativa _ = vecchie | » 25| 110) ” negativa È — giovani | » 25| 100 ” debole » 0,20] 0,0043 » vecchie | » 25 | 100 ” negativa » 0,05] 0,0011 ” giovani » 25| 110 ) Nitrato ion ” | debole » 0,10] 0,0022 D) vecchie | » 25| 110) ” | negativa » 0,05] 0,0011 ” giovani | » 25| 100 ” i positiva » 0,30] 0,0065 ” vecchie | » 25| 100 ” debole » 0,20] 0,0043 ” giovani | » 25| 110) __. . : ” \debolissima| » 0,15| 0,0032 ” ; » Nitrato di sodio | S vecchie | » 25| 110 \ ” negativa » 0,10] 0,0022 ” giovani | » 50| 100 D) | debolissima| » 0,40| 0,0043 ” vecchie | » 50 100 ” debolissima] » 0,20| 0,0021 ” giovani | » 50| 110) * RS ” ‘debolissima| » 0,80| 0,0032 » a ia ( Acetato di sodio ; vecchie | » 50| 110 ” negativa » 0,20] 0,0021 ” giovani | » 25| 100 ” | positiva » 0,25| 0,0054 ” vecchie | » 25| 100, ” i debole » 0,15| 0,0032 ” giovani | » 25| 110 | fp ” | debole » 0,15] 0,0032 » vecchie | » 25| 110 {/Acetato di sodio | —» 1debolissimal » 0,15| 0,001» Esperienze sul « Phaseolus lunatus ». — I semi di Phaseolus lunatus ci furono gentilmente forniti dal Museo commerciale di Trieste, al quale ci è grato di esprimere la nostra riconoscenza. Questa pianta presentava un par- ticolare interesse alla presente ricerca perchè su di essa principalmente, oltre che sul Pangium edule, si basano le magistrali esperienze di Treub sulla funzione fisiologica dell'acido cianidrico ('). (*, Annales du Jardin botanique di Buitenzorg, 2* serie, vol. IV, pag. 86 (1904). — 357 — Le piante da noi adoperate misuravano dai 30 ai 40 cm. di altezza, e contenevano, in media, il 0,1210 per cento di acido cianidrico totale. Ab- biamo proceduto sulle foglie come per il lauroceraso, operando a la tempe- ratura di 100° e di 110°. Nel seguente specchietto esponiamo i risultati ottenuti: 9 Peso È > S | ‘ Reazione Reazione Ag N03 DI ET delle He s Sale impiegato del bleu della cartina per metà HCN | È Cia è ; sO E del za | foglie E o | di Prussia picro-sodata distillato i gr. 50 | 100°) negativa negativa |c. c. 0,20| 0,0022 p. cento TONO \ Nitrato di sodio » debolissima| » 0,15| 0,0016 ” 3 | » 50 | 100 ” negativa | » 0,15| 0,0016 » | » 50 | 110 | Acetato di sodio ” negativa » 0,15| 0,0016 ” ; | » 50 | 100) » |debolissima| » 0,20| 0,0022 » f » 50 | 110 | Acetato di sodio ” negativa » 0,10| 0,0011 ” Ì Ì Esperienze sulle mandorle dolci e amare. — Le prove sulle mandorle p p si eseguirono sperimentando le piantine germinanti nelle quali, col vecchio metodo di ricerca, era stato ritrovato acido cianidrico libero. Le pian- tine da noi adoperate misuravano da 5 a 15 centimetri di lunghezza, e veni- vano introdotte intere nella soluzione bollente a 100° o a 110°. I risultati ottenuti sono quelli esposti nel seguente specchietto . 992 Temperatura Reazione Reazione AgNO3 Di se Varietà Peso della Sale imp:egato del d/eu della cartina per metà HCN Z5 soluzi di Prussia icro-sodata del SO n L distillato ( dolce |gr. 15 100° a ; E negativa | negativa | c.c. 0,15| 0,0054 p. cento 1 » Nitrato di sodio (Collo | pi5 oi ” ”» » 0,10| 0,0036 » Ù Ì amara » 12 100 ) È È Li ” » » 0,15) 0,0067 D) 2 » Nitrato di sodio amara it 2 MINE OL ONIINI N , ” » 0,05| 0,0022 ” | I Conclusioni. — 1) Nel prospetto delle esperienze sul lauroceraso sì osserva che nelle prove eseguite alla temperatura di 110°, la reazione della cartina picro-sodata è costantemente meno accentuata che non in quelle a 100°: e un risultato analogo si ottiene nelle relative determinazioni quantitative. L'acido cianidrico trovato è dunque tanto minore, quanto maggiore è la velocità colla quale l'enzima agente sul glucoside viene distrutto. Inoltre apparisce che i distillati delle foglie giovani dànno, lievemente ma costantemente, reazioni più accentuate che non quelli delle foglie vecchie. Questo fatto, che a prima vista sembrerebbe indicare la reale presenza di acido cianidrico libero nelle parti 998 — giovani delle piante dove il metabolismo si compie con intensità maggiore, può anche interpretarsi in altro modo e cioè come una più rapida azione dell'enzima che, nelle foglie giovani, è certamente più attivo. Se il metodo potesse quindi ulteriormente perfezionarsi, non sarebbe improbabile che tutte le prove riuscissero negative. Ad una tale esattezza però non sarà facile giungere, quando si pensi che la reazione della cartina picro-sodata è netta- mente sensibile per concentrazioni di acido prussico dell'1 per un milione. 2) Dalle esperienze sul Phaseolus lunatus risultò che, sopra sei prove, quattro non diedero nessuna reazione dell'acido cianidrico; e le altre due, rispettivamente una a 100° e una a 110°, colorarono assai debolmente la cartina picro-sodata. Probabilmente si tratta anche qui di una parziale, ma limitatissima scissione del glucoside. 3) Le esperienze eseguite sulle mandorle dolci e sulle mandorle amare hanno dimostrato che nelle piantine germinanti non si trova acido cianidrico libero svelabile colle reazioni qualitative. Cristallografia. — Studio cristallografico dell'acido 3-4-5 trimetossi-o-ftalico (‘). Nota di ARISTIDE RosatI, presentata dal Socio G. STRUEVER (?). Il prof. G. Bargellini (*), dell'Istituto Chimico della R. Università di Roma, studiando la costituzione di alcuni acidi trimetossi-ftalici, ottenne per ossidazione della r7metossi-ftalide con KMn0, in soluzione alcalina l'acido 3-4-5-trimetossi-o-ftalico della formula OCH, CH30 OCH; COOH COOH che fonde a 174° perdendo acqua e trasformandosi nell’anidride. Egli la- sciando svaporare lentamente in un essiccatore la sua soluzione acquosa ebbe alcuni cristalli trasparenti appiattiti, che cortesemente mi affidò per lo studio cristallografico, di cui io riferisco nella presente Nota. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Mineralogia della R. Università di Roma. (*) Pervenuta all'Accademia il 21 agosto 1912. (*) G. Bargellini e Olimpia Molina, Sulla costituzione di alcuni acidi trimetossi- ftalici. Rend. R. Acc. Lincei, vol. XXI, 2° sem., Roma 1912. — 359 — Sistema ériclino, classe pinacotdale: a:b:c=0,3728:1:0,2994 a= 77° 4 8=111°32' y= 184° 40" Forme osservate: 3100, {010} , }001}, {110} i {111} x che si riuniscono in un'unica combinazione. I cristalli sono piccoli, trasparenti, incolori, tabulari secondo }010}. Al goniometro le facce essendo incurvate e rigate danno generalmente cattivi riflessi, e ciò spiega le notevoli differenze tra esperienza e calcolo. La forma 3111{ ha facce ristrettissime e si trova solo in pochi cristalli. Angoli osservati Spigoli Angoli misurati N. Limiti Medie calcolati (100). (001) 3 72° 10" — 72°30' | 72°23’ È (100) . (010) 5 | 46 87 — 46 58 | 46 48 * (100) . (110) 5) 51 5 — 51 22 ol 16 i (010). (001) Mi 8655 — 87 15 A MSzO * (I11). (110) SAR IMGdII — ‘64 SUORA * (010) . (T10) 5 | 8210 — 8246 | 8230 | 81°56 (110). (001) 1 - 68 15 | 69 10 (111). (001) 1 — 4727 | 46 46 (T11) . (010) 1 = 81 30 | 80 50 Sulla faccia (010), che a luce convergente produce una figura d’ inter- ferenza biassica alquanto distinta, a luce bianca parallela una direzione di estinzione fa circa 30° con l’asse 2 nell'angolo f ottuso. RENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 47 — 360 — Aeronautica — Sulla resistenza dell’aria nelle superficie piane inclinate. Nota del capitano dott. L. Mina, presentata dal Corrispondente A. Dr LeGGe ('). La valutazione della resistenza che prova una superficie piana, la quale si muova nell'aria con una determinata inclinazione sulla direzione di mo- vimento, è stata oggetto di ben note numerose esperienze, le quali, se non sono riuscite a determinare, come era idea dei primi sperimentatori, una formola definitiva che desse il valore di questa resistenza per ogni an- golo d'inclinazione della superficie, sono tuttavia riuscite a determinare re- centemente l'andamento del fenomeno ed a stabilire dati sicuri per cono- scere, in funzione dell'angolo predetto, il valore della resistenza. Così pure può dirsi del centro di pressione che, come è noto, varia col variare dell’ inclinazione della superficie, spostandosi dal centro di figura verso il battente, di mano in mano che la superficie si sposta e si inclina pie- gandosi verso la propria direzione di movimento. Non è ben chiaro quale sia la vera legge matematica che lega il va- lore della resistenza coll'angolo d'inclinazione della superficie, e le formole che si posseggono, quali quelle del Duchemin, del Renard, del Soreau, ecc. non sono che empiriche e tendono solo a rappresentare il fenomeno con una certa approssimazione. Gli studî più recenti hanno infatti dimostrato che la resistenza espressa in funzione dell'angolo d' inclinazione ha una discontinuità verso i 30° d’inclinazione (irregolarità che non viene in alcun modo pale- sata dalle formole). Lo stesso dicasi delle formole che dànno la posizione del centro di pressione, che per quanto assai meno disparate tra di loro, sono esse pure empiriche e non rappresentano nella sua interezza il fenomeno dello spostamento del centro di pressione. La relazione che io voglio segnalare dipende verosimilmente dal fatto che nello studio del fenomeno è molto più opportuno il sostituire alla con- siderazione delle forze, quella dei momenti delle forze rispetto al battente. Se della resistenza R;, corrispondente all'angolo d'inclinazione 7 della superficie, si considera il momento rispetto al battente, e lo si indica con M; (per cui My, viene ad indicare il momento nel caso in cui la super- ficie si presenta normalmente alla direzione del movimento), la variazione di questo momento della resistenza col cambiare dell'angolo di inclinazione è, molto verosimilmente, rappresentata dalla formola IMEnior. vo: (1) Mo = Gmg: (') Pervenuta all'Accademia il 12 settembre 1912. — 361 — La formola ha grande analogia con la vecchia formola di Eulero, dove, in- vece dei momenti delle resistenze R, compariscono direttamente le resistenze i Roo — sino: formola che, per quanto riconosciuta migliore di quella di Newton, dalla pratica è stata dichiarata imperfetta. La differenza tra le due formole sta nel fatto che nella prima, al posto della resistenza, comparisce il prodotto di essa resistenza per il suo braccio d'azione rispetto al battente. Se si indica con è; il braccio della resistenza R; rispetto al battente, la formola: M; Nero. === = 90 diventa: 190 CN (2) a sind, dove % indica la semialtezza della superficie messa in movimento. Con questo modo di scrivere la formola proposta è messo in evidenza l'intimo legame che deve sussistere tra le formole che esprimono la resi- stenza dell’aria e quelle che dànno lo spostamento del centro di pressione. Vediamo infatti di mettere in evidenza questa relazione su qualche formola nota e partiamo da quelle che dànno il centro di pressione. Fin dal 1804 il nostro Avanzini, in un'opera intitolata Nuove ricerche dirette a rettificare le teorie della resistenza dei fluidi e le sue applica- zioni, presentava una formola colla quale poteva valutarsì con sufficiente precisione lo spostamento del centro di pressione dal centro di figura di una superficie, in moto nell'aria od in un fiuido qualunque, quando questa su- perficie veniva inclinata di un angolo % rispetto alla direzione del movimento. Se, per semplicità, si considera un rettangolo, e si indica con 24 il lato normale al battente (diretto cioè secondo le linee di massima pendenza del- l'elemento rettangolare) il centro di pressione C si sposta lungo la linea di massima pendenza, che passa per il centro O del rettangolo, di una quan- tità y;, che è sensibilmente rappresentata dalla formola Ii — 9,8(1—sinî). Ora, nel caso della inclinazione 7 la distanza del centro di pressione C dal battente è data da BO-CO=4%— yi: per cui la formola pu = sin My TR dà, per le resistenze, i R(A—- yi) 3 =$ (3) pan) sin 2; R: e sostituendo ad y; il valore dato dall’Avanzini, yi= 2h[0,3(1— sin è)], si ha la formola Ri; sin 7 sin 2 Rsì 1—2[0,8(1—sinz)] 0,4-+0,6sing che differisce per molto poco dalla formola delle resistenze del Joessel Ri El: sin 7 Rso 0,89 + 0,61 sin? Viceversa, dalla formola data dal Joessel per le resistenze si ottiene con facilità quella che egli stesso ha dato per gli spostamenti del centro di pressione. Infatti, dalla formola R; fo. sin 7 Rso 0,89 + 0,61 sint’ poichè la formola (3) dà Ri L sin 7 t_-c CL) Calcagni. Basicità degli acidi dontenclti CCR alcoolici o di re Patel) Mei) Paolini. Sui glicerofosfati di sodio del commercio (pres. dal Corrisp. Peratoner) +. . . » Sirovich. Sulla marcasite di Castelnuovo di Porto (pres. dal Socio Paternò). . . . . » Ravenna e Bosinelli. Sulla presenza dell’acido cianidrico libero nelle piante (pres. dal Socio Ciamician). . . 5 a RE Rosati. Studio Si (ononi 34 6) tosto. ftalico Gi dal Siaù Strîver) ” Mina. Sulla resistenza dell’aria nelle superficie piane inclinate (pres. dal Corrisp. Di Legge) » E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. 311 315 320 326 332 335 343 390 352 355 358 360. Abbonamento postale. sit dit i capa Pubblicazione bimensile. Roma 13 ottobre 1912. SVTUI DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCRI ANNO GCCIX. 1912 SERE. QUINTE CA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XXI. — Fascicolo 7° 2” SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all'Accademia durante le ferie del 41942. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d'arrivo). ROMA | | TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI | PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1512 Ar SONO ò | NOV 3 | | hj Ai Latina ] Musei ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE I Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : I 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 8. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti sratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un namero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le disens- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia sei Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. ‘ I. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz'altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una, proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall'art. pre. cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i mamoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. nei SE RIENDICONTI DELLE SEDUTE ni DELIA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI pervenute all'Accademia durante le ferie del A912. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d’arrivo) Chimica fisica. — Sulla tensione superficiale delle soluzioni e sospenstoni di saponi (‘). Nota del Corrispondente F. BoTTAZZI (°). Io mi sono già occupato altra volta (*) dell’argomento. Ma allora le ricerche non furono fatte sopra soluzioni di saponi puri, bensì sopra soluzioni di sapone (bianco di Marsiglia) del commercio, alquanto purificato mediante precipitazione con cloruro sodico e ridissoluzione ripetute. vale a dire sopra mescolanze di varii saponi. Questa volta, invece, ho sperimentato su prepa- rati della casa Kahlbaum (oleato, stearato ecc. di sodio e di potassio), serven- domi del metodo stalagmometrico di Traube (due stalagmometri: A) che dava per l'acqua 54-55 gocce; B) che dava gocce 38 !/»-39). Dirò subito che gli stearati e palmitati di sodio e di potassio debbono essere scartati, perchè insolubili. Tutti gli esperimenti, quindi, sono stati fatti su soluzioni di oleato di sodio o di potassio. Io ho voluto, ciò non ostante, utilizzare l’insolubilità degli stearati, al fine di vedere se essi siano capaci, allo stato di fine sospensione nell'acqua, di modificarne la tensione superficiale. (') Lavoro eseguito nell'Istituto di Fisiologia di Napoli. (*) Pervenuta all'Accademia il 6 agosto 1912. (3) F. Bottazzi e C. Victorow, Rend. della R. Accad. dei Lincei (5), vol. XIX (1), pag. 659, an. 1910. RexpIcoxTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 48 — 3060 — 1. Si pesta in un mortaio di agata con poca acqua dello stearato potassico o sodico, e quindi si butta la pasta in acqua. Agitando il liquido in cui è sospeso il sapone, e scaldando, si ottiene una sospensione di cristalli setacei di stearato potassico e una so- spensione granulare di stearato sodico. Si fanno determinazioni Salem MSviChe; con lo stalagmometro B) di Traube, alla temp. di 16 !/,°C Acqua distillata . . . . AO SA ve gocce 38 1/,-39 Sospensione di stearato sodico, iuta per molto tempo in termostatonato 90 EieN Mn: : o Or » 381/,-39 Sospensione di stearato petassico, iuta per tolto tempo ANIA Kegtortementega ita ta i ST E SI Dunque, gli stearati non abbassano minimamente la tensione superfi- ciale, ancorchè essi formino una pellicola visibile alla superficie dell’acqua în cui sono sospesi. L'aggiunta di qualche goccia di soluz. » Na OH allo stearato sodico, di soluz. nr KOH allo stearato potassico non modifica in modo degno di nota (rispett.: 39 e 40 gocce) il resultato. 2. 23 febbraio 1912. — Si preparano due soluzioni acquose di oleato potassico 2 °/o, e sodico 6 °/,; esse sono torbide e' un po’ giallette; dànno reazione alcalina alle carte di tornasole, neutra alla fenolftaleina; per aggiunta di Na OH si chiarificano perfettamente. La soluzione 6°/, di oleato sodico, aggiungendovi soluzione normale di Na OH in quantità crescente, prima si chiarifica, poi a ogni aggiunta lascia riconoscere la forma- zione di un precipitato, che però agitando si ridiscioglie; indi gelifica, così solidamente che si può rovesciare la provetta senza che ne caschi il sapone; il gel è trasparentissimo. L'aggiunta in grande eccesso di soluzione concentrata (più che normale) di Na OH fa sì che il gel si frange, si forma un abbondante precipitato di sapone, da cui si separa un liquido più o meno torbido. Le due soluzioni, di oleato potassico 2°/, e sodico 6/0, si mettono a dializare in budelli di « viscose» (Leune). Il giorno 27 febbraio (senza aver cambiato il liquido esterno nell'intervallo) si trova il volume della soluzione nei dializzatori approssimativamente raddoppiato, più quello della soluzione di oleato sodico, perchè più concentrata. Le due soluzioni sono molto torbide, ma dànno forte reazione alcalina. 7 marzo 1912. — Si conta il numero di gocce che dànno le soluzioni dallo sta- lagmometro B): ACQuardisvillata fra ero . «+ + +. gocce 38-39 Soluzione di oleato potassico e %) alp fo a oggi torbida lattiginosa . . . . Sin 00 (media) Soluzione di oleato sodico (6 °/o) ion i ea sioni ao e] 01 12 marzo 1912. — La diluzione con acqua, come anche l'aggiunta a gocce di so- luzione 0,1 x HC1 alle due soluzioni di sapone, non ne modifica, entro certi limiti, la tensione superficiale, evidentemente perchè sono soluzioni molto concentrate. — 367 — 8. Con i liquidi che dializzano s'incominciano a fare le seguenti ricerche stalagmo- metriche. 25 marzo 1912. — Soluzione-sospensione di oleato sodico. Allo stalagmometro dà 75-75 1/, gocce. È molto torbida e contiene molto sapone sospeso. A 15 cm? si aggiunge, a gocce progressivamente, soluzione 0,05 x Na OH. Gocce aggiunte Gocce ; Osservazioni di soluz. 0,052 Na 0H | allo stalagmometro (1) 1 77:/,- 77'/,| Liquido molto torbido, lattiginoso. 1 o MIE 1 794/- 793/e 1 81 - 81!/| Meno torbido. 1 88° - 89 1 95/,- 96 Opalescente 1 103. -103!/,| Quasi limpido. 1 106 -1061/, 1 106 Limpido. OSE 100080 Wimpido. 1a: . 1041/, - 104 1 108 1/, - 108 1 103 JE lloo=== == 1 101 1/5 1 101 S’intorbida di nuovo. 1 100 !/, Torbido. 1 100 1 100 (20) 1 100 1/, 1 100 1 100 1/, 1 100 1 101 Ancora più torbido. 1 100 1/, Con la progressiva aggiunta di Na OH la parziale sospensione si trasforma in perfetta soluzione, mentre il numero di gocce aumenta da 75 a 106, cioè diminuisce grandemente la tensione superficiale. L’ulteriore aggiunta di NaOH finisce per intor- bidare di nuovo il liquido, mentre il numero delle gocce torna a diminuire solo fino a 100. — 368 — Nella seguente figura (fig. 1) è graficamente rappresentato il variare della tensione superficiale sotto l'influenza della successiva aggiunta della solu- zione 0,05 2 di Na OH. ISR2ZIS = NONE "=_= 7 5; torbido: ai (2) ’ de ni DS_e Fa delle gocce, @llo slalagmomelro 100 25 marzo 1912. — Soluzione 2°/ di oleato potassico, che dializza. Il liquido allo stalagmometro B) dà gocce 83 !/, - 84. A 15 cm? di detta soluzione-sospensione si aggiunge a gocce soluzione 0,02 x Na OH. Gocce aggiunte Gocce Gocce aggiunte Gocce di soluz. 0,02 x allo stalagmometro di soluz. 0,02 # allo stalagmometro (1) 1 s4 - 84(*) I 100 -1001/, I 84. (840) 1 Oi QI 1 841/,- 85 1 108-104 1 852/,- 86 1 104 1/, - 105 1 86. - 861 1 106-107 1 87, cisgei 1 107 1 871/,- 87% 1 107-108 1 co © 89 1 109-110 1 89 1 io (10) 1 90 - 91 (30) l 113 1 o 1920) 1 A 1 92), ] 116 1 98-94 1 lg MZ IL 941/,- 95 l 118. -119 1 95. |-:9505/ 1 120 1 96 - 965 1 121 1 96 - 96/4 1 122 1 97 (9700 1 123 1 98. - 981/ 1 124 (20) 1 99 -100 (40) 1 124 (*) La sospensione contiene senza dubbio una quantità notevole di sapone precipitato. Perciò la tensione superficiale cresce sempre e non si riesce a raggiungere il valore m as- simo, nè a chiarificare il liquido, che alla fine dell'esperimento è solo meno torbido che al principio. — 369 — Siccome la soluzione di Na OH aggiunta è meno concentrata, e d’altro canto il liquido contiene molto acido grasso sospeso, non si raggiunge la chiarificazione totale del liquido, nè il massimo numero di gocce (che aumenta da 83!/, a 124). 4. Nei seguenti esperimenti, si fa agire la NaOH sulla soluzione-sospensione di oleato potassico, e la K OH. sulla soluzione-sospensione di oleato sodico. 25 marzo 1912. — Soluzione-sospensione di oleato sodico, che dializza. La stessa dell'esperimento precedente. Gocce allo stalagmometro: 75-75!/,. A 15 cm? si aggiunge, a gocce, soluzione 0,05 2» KOH. Gocce aggiunte Gocce Osservazioni di soluz. 0,05n KOH allo stalagmometro 1 (1) 1 76 1 76 1 77 Il liquido diventa un po’meno torbido. I 82 1 92 Il 100 Il liquido è certamente più limpido della solu- ] 97 zione originale. 1 95 1 93 (10) 1 92 1 92 1 92 1 91 1 91 Si aggiunge 1 goccia di soluz. n KOH: il liquido torna più torbido. 92 29 marzo 1912. — Soluzione 2°/, di oleato potassico, che dializza. Si aggiunge a 13 cm? di soluzione-sospensione di sapone, della soluzione 0,02 2 di Na OH a gocce, pro- gressivamente, e si determina il numero delle gocce allo stalagmometro (che dà gocce 38-39, per l’acqua). (Vedi fis. 2, curva B). — 571 — lo ——14___r_r_r_r_rt==—1t—t_____TT————_—_——€—o_—_ azz Ml Gocce aggiunte Gocce 6 Osservazioni di soluz. 0,05 Na OH | allo stalagmometro (1) 1 | 80 3/,-S1 Hi liquido è torbido, e tale si mantiene per tutto 1 801/,-814, il tempo che si continua ad aggiungere alcali, 1 SIMS 1 82 -821/ I 321/, - 1 84 ] 85 1 EOS 1 SI SI 1 BUE Il 88 1 881/, 1 00. sd04, (14) 1 90%]s- 90%], (15) 1 89 -87 1 85 -84 1 82 -811/, 1 82-81), (19) 1 e SL Gocce A questo punto s’incomincia ‘ad aggiungere al SOMME. 020 | liquido soluzione 0,022 HC1, a gocce. (1) 1 82 1/, - 83 1 83 1/4- 84 1 841/,-85 1 85 1/4 - 86 1 86 1/,-861/, 1 86 ©/. - 87 1 87 3/,1-882/, Ù. 89 -891/5 1 90 -908/, (10) 1 911/,-911/, 1 SIRIA 1 CO 208% 1 95 (14) 1 96 5. Nei seguenti esperimenti, dopo aver fatto agire l’alcali sulla soluzione-sospensione di sapone, e avere raggiunto il momento in cui la tensione superficiale, dopo essere no- tevolmente diminuita, è tornata ad aumentare, fino a raggiungere un certo valore supe- 2379, — riore al minimo trovato, si fa agire sullo stesso liquido soluzione di H CI di concentra- zione identica a quella della Na OH. 25 marzo 1912. — Soluzione-sospensione di oleato-sodico, che dializza. (Vedi fig. 3). Dà allo stalagmometro gocce 75 !/4-75!/,. A 15 cm? si aggiunge soluzione 0,05 x Na OH, a gocce. Gocce aggiunte Gocce È a Osservazioni di soluz. 0,007 Na OH | allo stalagmometro (1) Il 17 Liquido torbido, lattiginoso. I 78 1 81 Un po’ meno lattiginoso. 1 95 Opalescente, senza granuli visibili 1 100 Quasi limpido. 1 99 IÌ 96 1 94 Un po' meno limpido. Il 93 Torbido. (10) 1 93 Il 93 (12) 1 95 Torbido. Gocce aggiunte di soluz. 0,052 HCI Ora si aggiunge, a gocce, soluz. 0,05 n HCI. (1) 1 94 l 96 l 99 S'intorbida fortemente 1 96 1 UO) l 86 1 84 Precipitato granuloso. (8) 1 83 9 S DI) DES È È RO, È SS vi N S i c>) n buy S iN di h S S — 373 — 2 maggio 1912. — Soluzione-sospensione di oleato sodico che dializza. Gocce allo stalagmometro A): 77. A 15 cm? si aggiunge soluzione 0,05% Na OH, a gocce. di soluz. 0,05 Na OH (1) (10) di soluz. 0,05% HCl (1) Gocce aggiunte pda arr WWW Gocce aggiunte Hu HHWWHWHWHH Gocce allo stalagmometro Osservazioni Liquido torbido. Un po' meno torbido. Molto meno torbido. Ora si aggiunge soluz. 0,05 x HCI1. 2 maggio 1912. — Soluzione-sospensione di oleato sodico, che dializza. Gocce alle stalagmometro B: 77. A 15 cm? si aggiunge soluzione 0,05 n KOH. roc, _—T—_———F—_r——__————r—---mo‘oÙu sede. o—"# _—rr—r_r r——_—_—#mrcucc@sria@@-rI- a II] di soluz. 0,057 KOH Gocce aggiunte Gocce allo stalagmometro Osservazioni (1) 1 i 1 1 1 1 1 sl 1 (10) 1 1 di soluz. 0,057 HCl (1) (6) Gocce aggiunte HpHuHWHHHH STI 79 2/.- 80 SOMIOI 83 2/,- 84 873/-881/, 84 -831/, 82 1/, -81 Sl 0% 801/a 81 80 82 -821/ 83 83. -881/ 88. -831/, 821/, 82?/,-821/, Liquido molto torbido. Un po’ meno torbido. Più limpido, ma non perfettamente. Ora si aggiunge, a gocce, sol. 0,057 HCI. Il liquido ridiventa un po’ più torbido. Molto torbido. RENDICONTI, 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 49 — 374 — 9 maggio 1912. — La stessa soluzione-sospensione di oleato sodico, ma contenente maggior quantità di precipitato, in confronto colle precedenti. Gocce allo stalasmometro B): 76-77. A 15 em$ si aggiunge soluzione 0,05 2 Na 0H, a gocce. (Vedi fig. 2, curva A). Gocce aggiunte Gocce di soluz. 0,05# N20H | allo stalagmometro Osrovazioni (1) 1 77 - 77/,| Liquido torbido. 1 773/s- 78 1 78!/,- 79 1 790 (7000) 1 79 1 79 1 79‘/, 1 80 1 AMSC, (10) 1 82 - 821/, 1 821/,- 83 1 84 - 845/, 1 85 - 86 1 90 1 921/,- 98 1 94 - 94/5 1 95 - 96 1 98 1 99) 12 (9913/7 (20) l 100 - 101 1 101 Il liquido è assai meno torbido. i 99 - 98 1 Ol © 06 1 95 - 94 Il 94 - 93 1 92 - 90 (27) 1 90 1 90 di "n da HCl Si aggiunge soluz. 0,05 x HCI. (1) 1 90 1/2- 90 1 93 - 94 1 941), 1 95 1 96 - 97 1 98. - 99 1 100 -101 1 100 - 99 1 99 - 98 (10) 1 OTIUEMOG 1 96/0095 (12) 1 94 - 93 Formazione di precipitato. 6. Azione della soluzione concentrata (normale) di Na OH sopra soluzione concen- trata (6°/,) di oleato sodico. Ho fatto ricerche non solo di tensione superficiale, ma anche di viscosità (propr., di tempo di deflusso per il viscosimetro di Ostwald). 18 maggio 1912. — Soluzione di oleato sodico Kahlbaum circa 6°/, un po’ tor- bida. Se ne prendono 15 em?, e vi si aggiunge a goece soluzione x Na 0H; dopo ogni — 975 — aggiunta si conta il numero di gocce che cascano dallo stalagmometro A) (che dà gocce 55 per l’acqua distillata), alla temp. dell’ambiente (circa 15° C). 15 em* sol. 6°/ oleato sodico (un poco torbida) . gocce 120 la stessa soluz. + gocce 1 sol. a Na OH. . , . po MO D) +» 1» ” STO D) 118/, ” +» 1» D' ARS - » 118 sol. meno torbida » + » 1» ” GEMGIIBIDE © 5) 117 !/s sol. limpida ” +» 1» ” DOMIR DIRITTO D) » + » Ti 9 mae: |. AG DEM L:113; D) ” SV LI) n... n 108 meno limpida » + D) To ” ei» » 103 ” E O rose. — » 101 ” + ” 1IU0Co,) ” DR © ” 101 D) +» 5» b) ENTI 0 D) 101 ” + » So ” CORRA b) 101 È) + ” 5» ” ”» 102 » +» on D) PMI ” 103 liq. viscoso » + ” 5» » GoMMRIIO, —_ ” 105 ” ” +» 5 » DISBRS » 106 sempre più viscoso, 6 SERE O. SAT (077 finchè l’esper. deve essere interrotto % TIRATI ZIA TRAI DE 199 per la eccessiva » Lp 8 9 Vila. - (ME » 110 lunghezzadeltem- © Se 50 Se E NS LO pon difdeflusso: » + n 5 » . . è . » 113 » + D) 5» ” ”» 115 Qui apparisce un fatto nuovo. Coll’aggiunta progressiva di Na OH, la tensione su- perficiale prima aumenta, mentre il liquido si chiarifica; raggiunge un massimo (101 gocce, rispetto a 120 gocce della soluzione originale); quindi diminuisce, mentre il liquido, ri- manendo sempre perfettamente limpido, diventa sempre più viscoso, tanto che a un certo punto diventa praticamente impossibile contare il numero delle gocce, sì lento è il deflusso. 19 maggio 1912. — Si ripete l'esperimento precedente. 15 cm? oleato sodico circa 6°/; temp. ambiente. Numero di gocce che dà la soluz. originale= 120. Aggiunta soluz. n Na OH da gocce 1 a 14, il numero delle gocce che dà lo stalagmometro diminuisce da 120 a 99!/s3, regolarmente; mentre il liquido, che dopo l'aggiunta successiva di 4 gocce di sol. 2 Na OH era divenuto limpidissimo, tornò a intorbidarsi. Per l’aggiunta di oltre 12 gocce di sol. di Na OH, il numero di gocce del liquido rimase sempre = 99!/s. Aggiunte altre 12 gocce di soluz. ax Na OH, il liquido diventa viscoso e dà 103 gocce. Aggiunte altre 12 gocce di sol. a Na OH, il liquido diventa sempre più viscoso e dà ora 108 gocce allo stalagmometro. Si giunge a ottenere un numero di gocce eguale a 116, cioè quasi eguale a quello iniziale, dopo l'aggiunta di altre 386 gocce di soluzione nNa0H. Ma il liquido era divenuto tanto viscoso, che bisognò interrompere l’esperimento. Per seguire la variazione della viscosità, fo il seguente esperimento. 22 maggio 1912. — Soluzione 6°/, di oleato sodico; 7,5 cm* di questa soluzione sono introdotti in un viscosimetro Ostwald, immerso in termostato regolato alla temp. 30°C. Si fanno determinazioni successive di tempo di deflusso dopo l’aggiunta di soluz. nNa0H a gocce; ogni goccia ha il volume di circa !/so cm8. — 376 — Gocce di sol. 2 Na OH aggiunte tempo di deflusso 0 1! 34 sa) N YI VERA. VESTI? 0/52” 3/3” - 0752” 3/5” VO 02 4 0°517 8/5” - 0151733 051” - 0/50” 4/37 050” 2/;!” - 0749" 4/37 0°49" 4/;” - 0450” 07507 3/3 - 0750” 1/;% 050” 3/3” - 0507 3/5 01507 #50 - 0/50 4/5 0526 IO Ot OT 0/60” 2/7 IV 4” I g2al? MA? 11251 1/50 2ALe (1) Progressiva chiarificazione del liquido. (10) Il liquido è sempre limpido. (25) © do VD 029 030 0 0 DH au ua Wa KW _ Yu (40) Si riporta il volume del liquido nel viscosimetro a quello originale di 7,5 cm8. 0 9 8g" (5) 0, 23919)" 5 2557 2/3" 5 ZALSA 5 Y Ogni volta che si aggiunge la soluz. acne cd o di Na OH si forma nel liquido un LAO 4 (00) 5\ precipitato, che, agitando, si ridi- Se d scioglie. 8125! 3/57 5 45! LI 10 15/591 8/7 (100) 10 31732” 10 36/55” (120) 10 18137” A questo punto l’esperimento dovette essere interrotto, perchè il liquido, sempre limpido, era divenuto tanto viscoso che non fluiva più per il capillare del viscosimetro. La soluzione abbastanza concentrata (6°/0) di oleato sodico puro, dunque, per l'aggiunta di notevole quantità di soluzione normale di Na OH, a un certo punto gelifica. L'ulteriore aggiunta della stessa soluzione di Na OH, o di una più concentrata, determina in fine disgregazione del gel e precipitazione del sapone in forma di grumi bianchi. Per tutto il tempo che la soluzione concentrata alcalina di sapone è limpida, all’ultra- microscopio si dimostra otticamente omogenea. Coll’apparecchio da me usato, che è quello di Siedentopf e Zsigmondy della Casa Zeiss, adoperando una lampada di 30 ampère e un ingrandimento di 390 diametri, non si scorgono granuli splendenti nella soluzione col- loidale di oleato sodico; solo si vede appena un cono debolissimamente e uniformemente illuminato. Basta diluire la soluzione con acqua, o aggiungervi qualche goecia di acido, per vedere il campo subito illuminarsi e poi divenire punteggiato di stelle splendenti animate da vivacissimo moto browniano. — 3977 — 7. Vediamo, ora, come si possono interpretare i fenomeni osservati. Le soluzioni di oleato di sodio e di potassio (rispett. 6 °/, e 2°/) sono un poco torbide sia alla temperatura dell'ambiente, come a 37°C; lasciate a riposo, si forma alla superficie uno strato di materia torbida, mentre il liquido sottostante è assai più chiaro della soluzione rimescolata. Ciò vuol dire che nel liquido una parte dell'oleato sodico è idroliticamente dissociato; e lo strato più torbido superficiale probabilmente è un'emulsione di acido oleico nella soluzione di oleato. Basta aggiungere un po di NaOH, perchè la soluzione si chiarifichi completamente. Se invece si dializza la soluzione, essa s'intorbida sempre più, vi ap- parisce un precipitato al fondo dei dializzatori, e uno strato torbido alla superficie. Col prolungarsi della dialisi per mesi, tutto o quasi tutto l'acido grasso finisce per precipitare. Le soluzioni diluite di sapone non si chiarificano mai completamente, per quanto alcali vi si aggiunga. L'aumento della concentrazione del sapone e l'aggiunta di una certa quantità di alcali alle soluzioni sono ì mezzi più efficaci per deprimere la dissociazione idrolitica del sapone. Per tale dissociazione: COONa + H:0 => C00H + Na0H si formano acido oleico, il quale, essendo insolubile, precipita e intorbida il liquido, e Na OH, la quale, essendo una base forte, si dissocia elettro- liticamente assai più dell'acido, che è debolissimo; da ciò dipende la rea- zione alcalina delle soluzioni di sapone. Le ricerche sulle soluzioni dializzate di sapone hanno dimostrato che la tensione superficiale di queste aumenta proporzionalmente alla dissocia- zione idrolitica del sapone, e diminuisce col diminuire della dissociazione. In altre parole, sono essenzialmente le molecole indossociate di oleato che ab- bassano la tensione superficiale dell'acqua, mentre i prodotti di dissociazione di esse sono assai meno attivi o del tutto inattivi. Il chiarificarsi della soluzione per l'aggiunta di Na OH al liquido dia- lizzato dimostra appunto il diminuire della dissociazione idrolitica; ora, parallelamente al chiarificarsi del liquido si abbassa la tensione superficiale. Ma, raggiunto il minimo di tensione superficiale, questa torna ad au- mentare per l'ulteriore aggiunta di Na OH. Perchè? L' intorbidarsi del liquido dimostra che nella soluzione avvengono fenomeni di aggregazione che pre- ludiano talora alla parziale precipitazione del sapone. Può darsi quindi che — 378 — il lieve aumento della tensione superficiale dipenda dalla lieve diminuzione della concentrazione del sapone. Vediamo, ora, d'interpretare le variazioni di tensione superficiale che abbiamo osservato sotto l'influenza della progressiva aggiunta alla soluzione dializzata di sapone, prima di NaOH e poi di HCl alla stessa concen- trazione. Se, ottenuto l'aumento della tensione superficiale per l'aggiunta di Na0H in eccesso, si fa agire una soluzione di H Cl di concentrazione iden- tica a quella della NaOH, sì osserva che la tensione superficiale prima diminuisce e poi di nuovo aumenta. La diminuzione è evidentemente dovuta alla neutralizzazione dell'eccesso di alcali, per cui la tensione superficiale torna al suo valore minimo o gli si avvicina molto (le differenze sono dovute alla presenza del NaCl che si forma). Il successivo aumento è dovuto alla parziale precipitazione dell'acido grasso, vale a dire al diminuire della con- centrazione delle molecole indissociate di sapone; infatti, il liquido s' intor- bida e da ultimo vi si forma un cospicuo precipitato. L'esperimento del 18 maggio 1912 dimostrò che l'aggiunta di soluzione normale di Na OH alla soluzione originale 6°/, di oleato sodico produce prima aumento della tensione superficiale, e poi, mentre il liquido diventa sempre più viscoso, diminuzione di essa (aumento del numero di gocce allo stalagmometro). L'aumento della tensione superficiale è dovuto a un fenomeno di aggregazione delle molecole di sapone, che ha per effetto una diminu- zione della concentrazione della soluzione; infatti, il liquido incomincia a intorbidarsi già prima che sia raggiunto il massimo di tensione superficiale. Il successivo aumento del numero delle gocce non è l'espressione di una diminuzione effettiva della tensione superficiale, ma è dovuto al progressivo aumento della viscosità del liquido, per cui esso fluisce dall'apertura capil- lare dello stalagmometro con estrema lentezza. La velocità di formazione e quindi di distacco della goccia influisce infatti considerevolmente sul numero di gocce che si formano, dato uno stesso volume del liquido di cui si de- termina la tensione superficiale. Negli esperimenti finora fatti, uno dei prodotti di dissociazione idroli- tica della sostanza era insolubile (acido oleico). Altri esperimenti è neces- sario fare sopra composti, i cui prodotti di dissociazione idrolitica siano tutti solubili in acqua, sebbene in diverso grado elettroliticamente disso- ciabili. — 379 — Chimica. — Sulla presenza di notevoli quantità di acido borico nelle acque minerali di Salsomaggiore (!). Nota del Socio R. Nasini e di C. PORLEZZA (°). La presenza dell'acido borico nelle acque minerali di Salsomaggiore, che era sfuggita ai precedenti analizzatori. fu accertata da uno di noi insieme col dott. Anderlini quando nel 1898 fu fatta la nuova analisi completa di quelle acque per incarico della Società G. Dalla Rosa, G. Corazza e C. (8). Ma per varie ragioni, che qui è inutile indagare, ne fu trovata una quan- tità assai msnore di quella effettivamente contenuta. In parte ciò si deve anche al fatto che i metodi rapidi, semplici e sicuri quali adesso li posse- diamo, non erano ancora entrati nell'uso comune dell’analisi. Non è a cre- dersi a un cambiamento nella composizione delle acque, giacchè noi ci siamo assicurati varie volte che in riguardo al residuo fisso e agli altri compo- nenti, compreso lo jodio, la composizione loro si è mantenuta costante, onde si dovrebbe ritenere che non fosse variata che la proporzione dell'acido bo- rico, il che, per quanto non impossibile, non è veramente probabile. Noi fummo messi sulla strada per riconoscere le notevoli, diciamo pure grandi, quantità di acido borico contenute nelle acque di Salsomaggiore, nel- l'occasione che facemmo l’anno decorso una nuova analisi dell'acqua madre e di altri prodotti delle RR. Saline. Le quantità veramente cospicue di acido borico riscontrate in questi diversi prodotti non potevano spiegarsi che am- mettendo nell'acqua naturale, da cui essi derivano, proporzioni di acido borico molto maggiori di quelle che corrispondevano all'analisi sopra rammentata. Ripetemmo allora la determinazione dell'acido borico con tutti i metodi più sicuri; e, dopo avere stabilito che il metodo volumetrico, del quale abitual- mente poi ci siamo serviti, nelle nostre condizioni ci dava risultati perfet- tamente esatti, potemmo stabilire che la proporzione di acido borico nelle diverse acque si aggira intorno a gr. 2,5 per litro: proporzione, come è fa- cile vedere, veramente notevole e che corrisponde presso a poco a quella delle acque dei lagoni o de) sottosuolo ehe nella industria boracica toscana si im- mettono nei bacini di svaporamento. Le nostre determinazioni ri riferiscono alle acque di proprietà demaniale di cui è concessionaria la Società G. Dalla (*) Lavoro eseguito nelll’Istituto di Chimica generale dell’ Università di Pisa. (3) Pervenuta all’ Accademia il 9 ottobre 1912. (3) R. Nasini e F. Anderlini, Relazione sull'analisi chimiea delle acque minerali di Salsomaggiore. Gazzetta chimica italiana, tomo XXX, parte 12, pag. 305. Anno 1900. — 380 — Rosa, G. Corazza e C. Come media di molte determinazioni riportiamo i seguenti numeri: Acqua del Pozzo delle Saline . . . gr. 2,63 di ac. borico per litro ’ ” ” Dalla Rosalie a ” ” > ” ” N°600 216050 ’ ” Come si vede, le differenze sono assai piccole e tali che si può ammettere che rientrino negli errori di osservazione. Oltre che l'acqua naturale, esami- nammo altri prodotti, alcuni dei quali si mostrarono ricchissimi in acido borico che in essì sì accumula nei processi di fabbricazione: così nell’acqua madre fu trovato sino a gr. 16 per litro e nei sali jodobromici posti in com- mercio sino a gr. 13 per chilogrammo di acido borico. Come già dicemmo, il metodo di cui ci siamo attualmente serviti è quello volumetrico. Le acque naturali non contengono altro che il ferro tra le sostanze che possano nuocere alla titolazione, e questo si eliminava fa- cilmente, poichè a contatto dell’aria si ossida e precipita in fiocchi brunastri ed in tempo relativamente breve. Le titolazioni vennero sempre eseguite dopo precipitazione e filtrazione del ferro. Ma, per maggiore scrupolo, ne eseguimmo anche dopo trattamento con idrato sodico, facendo bollire per scacciare quella piccola quantità di ammoniaca che è presente nelle acque di Salsomaggiore: i risultati furono sempre concordanti. Per i prodotti più concentrati e più ricchi in sali di calcio e di magnesio, o si diluiva convenientemente la so- luzione per non avere poi da temere errori nella titolazione, oppure si ese- guiva la precipitazione con idrato o carbonato sodico (!). Per effettuare la titolazione si neutralizzava prima l'alcalinità rispetto al metilarancio con acido cloridrico, poi sì scacciava all’ebullizione l'anidride carbonica e si ti- tolava l'acido borico con idrato sodico - privo di anidride carbonica aggiun- gendo glicerina e adoperando come indicatore la fenolftaleina. Non vi ha nessun dubbio che le acque di Salsomaggiore sono le più ricche in acido borico tra quelle conosciute. Tra le acque che sin qui si ci- tavano come le più concentrate in acido borico, erano alcune ungheresi, ma la proporzione di acido in esse contenuto sì aggira appena intorno a gr. 0,25-0,30 per litro: così pure ricchissime in acido borico si consideravano le acque di Tarasso che ne contengono però solo gr. 0,2417 per litro. Non esitiamo quindi ad affermare che, per quanto sappiamo; salvo alcune acque che si conside- (1) Si ritiene che la presenza di sali di calcio e di magnesio, come Mg CI, c Ca Cl, disturbi la titolazione dell'acido borico colla soda in presenza di mannite e fenolftaleina. Per quanto in una recentissima Nota di W. Biltz ed E. Marcus (Zeitschrift fir anorga- nische Chemie, 77, pag. 131) si affermi che tale determinazione non è affatto influenzata, pure noi abbiamo evitato in ogni esperienza di trovarci in presenza di grandi quantità dei duc sali. — 981 — rano addirittura quali sorgenti atte alla utilizzazione dell'acido borico, e che non hanno usi terapeutici, come quelle di alcuni lagoni naturali della regione boracica toscana, e di alcuni laghi vulcanici, le acque di Salsomaggiore hanno una posizione eccezionale tra quelle congeneri anche per l’elevatissima quantità di acido borico che contengono. Come abbiamo detto, l'acido borico si trova, e spesso anzi si accumula, nei diversi prodotti che si ricavano dalle acque di Salsomaggiore. Così era già noto che il sale di cucina, del resto bianchissimo e di ottima qualità, che si ottiene nelle saline di Salsomaggiore, è molto ricco in acido borico, cosicchè lo si preferisce nell'industria delle carni conservate, della salumeria nell’ Emilia. Ne vennero anzi delle controversie, giacchè nei prodotti fabbri- cati si riscontrò l'acido borico, il cui uso sarebbe proibito per ragioni di igiene, e che si credette aggiunto, mentre derivava semplicemente dal sale da cucina adoperato e che proveniva appunto dalle Saline di Salsomaggiore. Recentemente il Villavecchia e il Barboni (') in un loro studio hanno real- mente accertato che fra tutti i sali da cucina italiani quello di Salsomag- giore contiene quantità talora assai grandi di acido borico: per un cam- pione trovarono perfino gr. 3,25 per chilogrammo e numeri dello stesso ordine trovammo anche noi: le quantità del resto sono assai oscillanti e ciò sta in relazione col processo di svaporamento dell'acqua naturale. Si presenta la questione se l’acido borico nell'acqua di Salsomaggiore sia allo stato libero o allo stato di combinazione. Sembrerebbe non esservi dubbio che, per la quasi totalità, esso deve trovarsi allo stato libero. L'acqua naturale ha, è vero, reazione alcalina al metilarancio, ma l’alcalinità non è espressa che da 2 centimetri cubi di acido cloridrico > per litro. Inoltre riferendoci all'analisi del 1898, che crediamo corrisponda sempre perfetta- mente alla composizione dell’acqua, noi troviamo una corrispondenza quasi perfetta, una quasi perfetta equivalenza tra le basi e gli acidi, cosicchè non è nemmeno a ritenersi probabile l’esistenza nell'acqua tale e quale di borati acidi, sia pure con grande eccesso di acido borico; diciamo nell'acqua tale e quale perchè non si potrebbe escludere che, svaporandola, non si avesse la deposizione di borati alcalini e terrosi complessi. Volendo esprimere la composizione dell'acqua di Salsomaggiore tenendo conto dell'analisi del 1898 e delle quantità di acido borico ora da noi trovate, ed ammettendo che una piccola parte si trovi allo stato di combinazione (borato ammonico acido), giungeremmo ai numeri riportati nella seguente tabella: (*) V. Villavecchia e I. Barboni, Sulla composizione dei prodotti di salumeria ita- liani e sulla eventuale presenza in essi di acido borico. Annali del Laboratorio chimico centrale delle Gabelle, vol. VI (1912), pag. 63. RENDICONTI, 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 50 Sostanze disciolte in un litro d'acqua di Salsomaggiore espresse in sali. Cloruro di sodio NUCA to 399003 ’ » litio Cleo 0, 00460) ’ » ammonio INERICIRO O 0. MOZZA ” » calcio CIC. MSA È » stronzio SY CRE RR VIE ” » magnesio iRORIEREereel 5-50058 ’ » ferroso RelClit, .. ...., a MO r08Y80) ’ » alluminio MEC 00, MM OSSA ’ > iManganosoMBgMniC]> . . (0. SR :00 9677 Bromuro di magnesio@ieMo7br, 0 00374 Joduro di magnesio Mo MAM (00632 Borato d’ammonio acido (NH,),0.6B.0; . . . 0.23605 Bicarbonato ferroso He((E[C 0) e 010221] Solfato di stronzio SHSO e 000931 Silice SIOE Re 0023071 178.42836 . Acido borico libero ORE ee DIN798 Anidride carbonica libera CO... .. . ....0.00887 180.66516 La presenza di quantità così grandi di acido borico nell'acqua di Salso- maggiore riteniamo che abbia una notevole importanza da diversi punti di vista: 1°. Poichè si tratta di un'acqua la cui azione terapeutica è ormai universalmente riconosciuta e ben specificata, sarà certamente utile di sta- bilire se e quale parte dei benefici effetti che produce sia da ascriversi alla forte concentrazione dell'acido borico; e ciò va inteso tanto per l’acqua naturale, quanto per l’acqua madre, che ne è così straordinariamente ricca, e per gli altri prodotti. D'altra parte la scoperta di questa eccezionale quantità di acido borico può suggerire nuove applicazioni dell’acqua stessa. Resta intanto provato — ciò che si asseriva da tutti — che essa deve avere un’azione profondamente antisettica. 2°. Nelle acque di Salsomaggiore si ha acido borico ed insieme am- moniaca e petrolio, precisamente come si ha nelle acque di condensazione dei soffioni boraciferi della Toscana: si ha inoltre l'associazione con il clo- ruro di sodio dei prodotti più solubili, come sarebbero i bromuri e gli joduri e i sali di calcio, magnesio e litio mentre mancano i sali di potassio. Tutto' 290€ — 383 — questo crediamo sia di molto interesse per la mineralogia e la geologia e saremmo ben lieti se questo nostro studio ne provocasse altri in questi due rami di scienza. Noi per parte nostra speriamo di poter iniziare delle ricerche di indole chimica fisica, nell’indirizzo stesso che dette il van’'t Hoff ai suoi celebri studî sulle deposizioni marine in relazione coi sali di Stassfurt. 3°. La grande quantità di acido borico che si ha nelle acque di Salsomaggiore e nei prodotti che ne derivano, dato il loro largo e molteplice uso, è una nuova conferma dell'innocuità di questo acido; come ne è con- ferma l’uso larghissimo che si è sempre fatto del sale da cucina in tutta la regione parmense ed emiliana e l'ottima salute di cui godono in Toscana coloro che lavorano nell'industria boracica, i quali vivono sempre in una atmosfera ricca in acido borico e usano per bevanda acque che, più o meno, contengono in soluzione l'acido stesso in quantità più che dosabili. Matematica. — Intorno ad una nuova classe di superficie. Nota del Socio Luror BIANCHI ('). 1. Ho dato un primo saggio dei miei studî recenti sulla feorza delle trasformazioni in geometria infinitesimale in una Nota pubblicata lo scorso maggio in questi Rendiconti (?). La continuazione di questi studî mi ha condotto a riconoscere un principio generale che, applicato ai singoli enti geometrici di una classe, per la quale valga una teoria delle trasformazioni, fa nascere nuovi enti più complessi mediante una successione continua di trasformazioni infinitesime. Questo principio offre le più strette analogie con quello che Lie ha posto a fondamento della sua teoria dei gruppi continui, ove questi gruppi vengono appunto generati con una successione continua di trasformazioni infinitesimali. Ed appare già dalle prime applicazioni che il principio stesso è fecondo di nuovi risultati anche nel campo della geometria infinitesimale. Riserbandomi di sviluppare in un'ampia Memoria di prossima pubbli- cazione alcune nuove ricerche in questo indirizzo, mi propongo di dare no- tizia nella presente Nota di una nuova classe di superficie a cui si perviene applicando il principio generale accennato alle curve di Bertrand. 2. Ricordiamo innanzi tutto, per maggior chiarezza del seguito, le pro- prietà fondamentali di siffatte curve. Una curva di Bertrand è caratterizzata analiticamente da una rela- zione lineare a coefficienti costanti A B 1 —La=l 1) nh (*) Pervenuta all'Accademia il 1 ottobre 1912. (*) Sopra certi sistemi di superficie pseudosferiche collegati ai sistemi di Wein- garten, Rendiconti, vol. XXI della serie 5°, fasc. 10°). — 384 — fra le due curvature che scriveremo sotto la forma superiore, esclu- TR ti co dendo soltanto il caso delle eliche cilindriche. Geometricamente poi la proprietà caratteristica di una curva di Bertrand consiste nell'avere a co- mune le normali principali con una seconda tale curva, che si dice la cornzu- gata della prima. Tutte le curve di Bertrand per le quali le costanti A,B nella (1) rimangono le stesse si diranno appartenere ad una medesima famiglia; in particolare se A=0 abbiamo la famiglia delle curve a torsione costante, se B=0 quella delle curve a flessione costante. Ad ogni famiglia (1) di curve di Bertrand, escluso il caso A=0 delle curve a torsione costante, il noto teorema di Laguerre associa l’'iperboloide rotondo ad una falda di semi-assi A ,B; poichè tutte queste curve dànno le infinite forme che as- sume il circolo di gola dell’iperboloide quando questa quadrica si deforma come superficie flessibile ed inestendibile, mantenendo rettilinee le genera- trici di un sistema. Inversamente se pei punti di una curva di Bertrand della famiglia (1) si conducono le rette parallele alle binormali nei punti corrispondenti della curva coniugata, la rigata che si ottiene è applicabile sull’iperboloide rotondo di semi-assi A , B(Bioche). Per questa ragione diremo brevemente l’iperboloide rotondo di semi-assi (A, B) associato alla famiglia (1) di curve di Bertrand. Si osservi in particolare che nel caso B=0 delle curve a flessione costante sì mantengono ancora queste proprietà, colla particolarità che la rigata ottenuta colla costruzione superiore di Bioche diventa la sviluppabile delle tangenti alla curva e l’iperboloide associato si riduce alla sviluppa- bile delle tangenti al calcolo di gola. Nel caso escluso A=0, delle curve a torsione costante, ogni curva coincide colla propria coniugata e la rigata della costruzione di Bioche di- venta quella delle binormali alla curva. In tal caso l'iperboloide associato è da sostituirsi coll’elicoide rigata d'area minima, sulla quale tutte le dette rigate sono applicabili. i 3. La nuova classe di superficie, collegate alle curve di Bertrand, ed alle quali daremo il nome di superficte ® sarà definita nel modo seguente: Chtamiamo superficie D ogni superficie che contenga un doppio st stema di curve di Bertrand, appartenenti a due famiglie A B Ads iB' de LE e tali che le due curve di Bertrand incrociantesi in un punto qualunque — 3859 — della snperficie abbiano ivi a comune il piano osculatore delle rispettive curve coniugate. Alle curve di Bertrand dei due sistemi daremo poi il nome di curve generatrici. Ora è notevole in primo luogo che per l’esistenza di siffatte superficie è condizione necessaria che le costanti (A, B) , (A", B') delle due famiglie siano legate dalla relazione A? + B°= A? + B, Questa, ricorrendo alla nozione di iperboloidi associati, si può esprimere così: Per ogni superficie ® gli iperboloidi associati ai due sistemi di curve di Bertrand generatrici sono necessariamente omofocali. Sostituendo alle superficie ® una superficie simile, potremo supporre che sia A°+B°?=A?+B®=1, cosicchè le relazioni lineari vincolanti le curvature potranno seriversi COS Gi = (2) ve RT, COS Tg sen 09 2 _ (8) n DET, essendo 0,,0, due costanti, diverse fra loro, e giacenti nell’ intervallo. (-5 5 +5) . Per porre in evidenza le due costanti da cui dipendono le due famiglie di curve, indicheremo la superficie stessa col simbolo ®,,s, - La condizione trovata come necessaria è pur sufficiente, come viene precisato dal seguente teorema di unicità e di esistenza: Date ad arbitrio due curve di Bertrand C,,C» delle rispettive famiglie (a), (8), che si incrocino in un punto dello spazio, avendo ivi a comune il piano osculatore delle coniugate, esiste una ed una sola superficie ®g,,c,; che contiene C,, Cs come curve generatrici. Risulta di qui che le superficie D;,,5, formano un'infinità dipendente da due funzioni arbitrarie, di una variabile ciascuna, una inerente alla prima curva C,, l’altra alla seconda C;. 4. Osserviamo due casi particolari notevoli di superficie ®. a) I due sistemi di curve generatrici della ® siano a torsione costante, per la qual cosa dovremo supporre p. es. 0, = Lo = indi 9 Siccome ogni curva a torsione costante coincide colla propria coniugata, la definizione stessa di superficie @ porta che le curve a torsione costante dei due sistemi hanno per piano osculatore il piano tangente della super- ficie, cioè ne sono le asintotiche. Dunque: Ze superficie Dx x sono le su- 1 Dio perficie pseudosferiche (di raggio = 1). 5) Suppongasi che uno dei due sistemi di curve generatrici sia a flessione costante (0, = 0). Se C, è una di tali curve e C, una generatrice dell'altro sistema, la tangente a C, coincide colla direzione della binormale della curva Cs coniugata di C.. Per ciò la normale principale di C> (co- mune a Cs) è anche normale alla curva C;, e coincide dunque colla normale alla superficie, sicchè le curve Cs sono tutte geodetiche della superficie. Di più, in questo caso, è costante = o, l'angolo sotto cui si tagliano le curve generatrici dei due sistemi: Sulle superficte Dos le curve generatrici del primo sistema sono a flessione costante (= 1) e traiettorie isogonali sotto l'angolo 0 delle curve di Bertrand del secondo sistema, le quali di più sono geodetiche della superficie. Se ulteriormente o = a le curve del secondo sistema sono (geodetiche) a torsione costante e si hanno le particolari superficie incontrate la prima volta nella mia Memoria: Sui sistemi di Weingarten, Annali di matema- tica, ser. 2*, tomo XIII (1885) e studiate poi dal Fibbi nella sua tesi di abilitazione ('). 5. Per ogni punto di una superficie ®;,,c, conduciamo il raggio normale al piano osculatore comune delle due curve coniugate alle due curve gene- ratrici che vi passano. Si forma così una congruenza rettilinea, che si dirà la congruenza associata alla superficie D. La proposizione di Bioche, già ricordata al n. 2, fa riconoscere imme- diatamente una notevole proprietà di queste congruenze: Ze rigate che si formano associando i raggi lungo le curve generatrici del primo, o del secondo sistema, sono tutte applicabili sull’iperboloide rotondo associato a quella famiglia di curve di Bertrand. Naturalmente se uno dei due sistemi di generatrici è di curve a tor- sione costante, dobbiamo sostituire all’iperboloide l'elicoide rigata ad area minima. La proprietà osservata nelle attuali congruenze rettilinee, di scindersi in due serie di rigate applicabili sopra iperboloidi omofocali, si riscontra anche nella teoria generale delle deformate rigate delle quadriche ed appar- tiene alle congruenze generate dalle rette di un sistema di una quadrica, che venga trascinata da una quadrica omofocale nel rotolamento di questa (!) Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa (1888). — 387 — sopra una qualunque rigata applicabile (Zeziori, vol. II, $ 4, teorema B)). In questo caso però si ha l'ulteriore particolarità che le rigate di un sistema sono tutte congruenti colla quadrica omofocale stessa. Allorquando la quadrica si supponga l’iperboloide rotondo, la corrispon- dente superficie ®,,c è la superficie descritta dal circolo di gola dell’ iper- boloide omofocale nel rotolamento. Le curve di Bertrand di un sistema si riducono allora ai circoli stessi e quelle del secondo sistema sono le trasfor- mate, per una medesima trasformazione, della curva di Bertrand luogo dei centri dei circoli. 6. Ritornando al caso delle generali superticie ®,,c,, riconosciamo che le congruenze rettilinee associate hanno a comune la seguente proprietà me- trica : Sopra ogni raggio della congruenza associata ad una superficie Vi, la differenza fra il quadrato della distanza dei punti limiti ed il qua- drato della distanza dei fuochi è costante ed eguale a (sen o, + sen 03)? In particolare la congruenza sarà zormale solo quando questa differenza è nulla, cioè: Condizione necessaria e sufficiente perchè la congruenza associata ad una superficie Ds,,c, Sta normale è che le costanti 0,,0: siano eguali e di segno contrario Oo, —0=0. In questo caso le due famiglie (@), (8) di curve di Bertrand sono opposte; gli iperboloidi omofocali associati coincidono, però collo scambio dei due sistemi di generatrici. Questo caso molto notevole di superficie Dy, o, a congruenze associate normali, trovasi considerato la prima volta nella Memoria del sig. Chieffi: Sulle deformate dell’iperboloide rotondo ad una falda, Giornale di Napoli, vol. XII, ser. 2* (1905). Ivi pure è dimostrato un interessante teorema che, colle nostre denominazioni, si enuncia: Nella congruenza associata ad una superficie Ds,-5 una delle falde focali è applicabile sull’iperboloide rotondo di semi-assi A= cos 0, B= seno. : mo. ; : 20 Se si suppone 0 = 3 ha il caso particolare delle superficie pseudo- sferiche, ove la congruenza associata diventa quella delle normali ed ambedue le falde focali sono applicabili sul catenoide (o sull’elicoide rigata d'area minima). 7. Descritte le proprietà geometriche fondamentali delle superficie Di,,6°, Vogliamo ora dare le formole da cui dipendono. Lasciando da parte il caso ben noto delle superficie pseudosferiche, do- vremo distinguere secondo che uno dei sistemi di curve generatrici è di curve a torsione costante, ovvero nessuno. — 388 — Cominciamo dal primo caso ed assumiamo a linee coordinate (v,v) sulla superficie le generatrici, supponendo che le v = cost siano quelle a torsione costante = 1, e le u= cost curve di Bertrand della famiglia Do È ra] a) TETI Allora abbiamo: Ze superficie Dx _ della classe attuale corrispondono bi- 2° (e) univocamente alle coppie (H,g) di funzioni di u,v che soddisfano al sistema di equazioni a derivate parziali H 1 | da cos g. E I) i dU cos O | dp 14 seno (30 cr) = 608 pil dU dVU COS o dV cos O Nota una coppia (H, ) di soluzioni delle (I), la superficie Dr , cor- 2° rispondente è determinata, a meno di movimenti nello spazio, dalle equa- zioni seguenti in cui (@, é,) hanno il solito significato della teoria delle curve, come coseni di direzione del triedro principale relativo alle v= cost: È) Tese (elsnyg—2)e, dU cos o dU Ò —- (sn W)aa, du cos 0 QU dA a ds dU (2) ( da l+seno, ) —= eee iin-©—xi .À), dv H( cos 0 Tag 09 dE 1+ sen o BUSI LT .À S n( o a + sen g la di ri dV inoltre le derivate delle coordinate x,y, dei punti della superficie sono date dalle formole Ei, SA + sp.E — = — H(T— seno seng.a + sen o cos gp. coso À E ) dU pone dV | 9 5 ) e analoghe per y,<. 2 GRoa Si osservi che, soddisfatte le (I), le (2) dànno un sistema ortogonale completamente integrabile, e le condizioni d’integrabilità delle (2*) sono anch'esse identicamente soddisfatte. 8. Prendiamo ora il caso generale, in cui nessuno dei due sistemi di generatrici è di curve a torsione costante. Assumiamo ancora a linee coor- dinate le curve generatrici, cangiando solo per simmetria la notazione delle variabili u,v in 1, vs. In questo caso abbiamo: Le superficie generali ®g,,6, corrispondono biunivocamente alle terne (9, %,, ws) di funzioni di u,, us, che soddisfano alle equazioni simultanee alle derivate parziali : d”0, __C080, COS 0, cos(w, — w,) + seno, seno — 1 230 dUz sen 0, — Sen 09 QU? Il) d0, __ COSO) COS C, C0S(@0, — 0) + seno, seno, — 1 230 dUI sen 0, — Sen 0) di d°0 cos G) cos 3 sen(w, — ws) 39 30 And sen 0, — sen 0, dui dUs Nota una tale terna (0 ,@,,s), la corrispondente superficie Dg,,0, È individuata, a meno di movimenti nello spazio come segue. Ad ogni punto della superficie si associa un triedro trirettangolo col vertice nel punto, e coi coseni di direzione dei tre spigoli (OCEANI) ’ (Xo, Ya, Za) ’ (DEZ), il terzo spigolo avendo la direzione comune delle binormali alle coniugate delle due curve generatrici pel punto. Sussistono allora le formole QX I) —— = — (— sen o, X;, + cos 0, cos w;, X NA dU ( 1 + i) 1 3) ’ QX, 20 = — seno, X c08 Cs COS ws X 7 1 X: + 008 93 cos w, X3), dX 09 2 == — (seno, X, + cos o; sen 0, X3), (3) dUI dUI; dX PI) = sen 03 X cos 0, sen w, X QUI al en n a 3) È DX 20 = — coso, — (cos w, X sen 0; X> = i 3g (008 X + ), | IX 20 = — (0$ 0) — (cos w, X sen w, X = 2 Sy, (008 02 X: + sen 2 Xi), colle analoghe per Y,Z. Per le derivate delle coordinate dei punti della superficie abbiamo poi: RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 51 39 dA dI \ = coso, — (— seno, sen @, X, + sen 0, cos w, X3 — cos 0) X3) U (3*) da BIL | — — 6080, (— sen 0, sen, X, + sen 0» cos wr X, — cos 02 X3) dU QUI ed analoghe per y,%. Le condizioni d'integrabilità per le (3), (3*) sono identicamente sod- disfatte, a causa delle (Il). 9. Per tutte le superficie D;,,5, si può costruire una Leorza delle tras- formazioni del tutto analoga a quella delle trasformazioni di Backlund per le superficie pseudosferiche Dx _r - 2 2 Restringendoci per brevità al caso delle superficie generali Dc,,o, (quando nessuno dei due sistemi di curve generatrici è a torsione costante), ecco come si ottengono le corrispondenti trasformazioni Bg. Indichi o una costante compresa nell’interno dell'intervallo fra Salo) Oa E inoltre diversa tanto da 0, quanto da 0. Il sistema simultaneo 26" coso cos 0) cos(0' — @,) + seno seno, — 1 30 dUI sen 0 — sen 0; DO Ca i | 268 coso cos 0, cos(0' — w.) + seno seno, — 1 230 dU? sen o — sen 0, Way per la funzione incognita 60’ di w,,w, è completamente integrabile, a causa delle (IT), e possiede quindi una soluzione 0' contenente una costante ar- bitraria. Scelta ad arbitrio una soluzione 0' delle (4°), le formole (5) x = x + coso (cos 0' X, + sen 0'X3), ecc. dànno una seconda superficie ®,,o, della medesima classe, che diciamo trasformata della ®;,,c, per la Bs. Manifestamente esistono co! di tali trasformate per una medesima Bs. Quanto poi alle funzioni «è; che, associate alla 0‘, dànno la terna (0', ©, 0) corrispondente alla superficie trasformata, si calcolano dalle semplici formole to t 0—- w; 2 t 0 — w) “RR TOR Zia 2 6 di (ASD A 9—_w, 2 Do OM. Cio; 2 sen — 391 — 10. Anche per le trasformazioni Bs delle superficie ®;,,c, vale il teo- rema di permutabilità : Se da una superficie ®g,,.6, si passa 0 due contigue Do,,cr è Va,o, per trasformazioni Bar, Bor a costanti 0', 0" differenti, esiste una quarta superficie Dc, legata rispettivamente alle Di, , Do,,0, da trasforma- sioni Bsr, Be colle costanti invertite. Indicando con 0', 60" le funzioni @ relative alle D',@", quella 0" per la quarta superficie D" si calcola dalla solita formola valevole per le su- perficie pseudosferiche 5 0" — 68 E Me (7) n et. li Le conseguenze di questo teorema di permutabilità sono naturalmente le stesse come in tutti gli altri casi analoghi; in particolare ne risulta: Basta integrare la prima equazione di Riccati corrispondente alle equa- zioni di trasformazione (4), per un valore arbitrario di 0, e la applica- zione indefinitamente ripetuta delle trasformazioni alle nuove superficie sî eseguirà dopo ciò con soli calcoli algebrici e di derivazione. Si osservi poi che: nella quaderna (®,D', DD", D") del teorema di permutabilità quattro punti corrispondenti M,M',M",M" formano i vertici del solito quadrilatero sghembo deformabile, conservandosi invariabili le lunghezze dei lati e le ampiezze degli angoli diedri. 11. Nel dare le formole per la trasformazione Bs della superficie Di,,ca noi abbiamo escluso il caso che la costante o prenda uno dei valori 0,,0;, perchè allora uno dei due denominatori nelle formole (4) di trasformazione si annulla. Ma anche in questì casi limiti o = 0,, 0 = G,, esistono trasforma- zioni corrispondenti B,,,Bs, ed hanno anzi speciale interesse. Queste sono per altro da riguardarsi come trasformazioni singolari, in quanto che le co! trasformate del caso generale vengono, per ciascuna di esse, a coincidere in una sola superficie, che sì ottiene 7n termini finiti colla semplice costru- zione seguente: i Di tutte le curve di Bertrand dell’uno 0 dell’altro sistema sopra la Doc, Sî prendano le curve coniugate. Il luogo di queste coniugate è un’al- tra superficie della medesima classe, sulla quale le curve di Bertrand generatrici corrispondono a quelle della primitiva. Le nuove superficie sono appunto le due derivate di ®;,,s, per le trasformazioni singolari 19 9a — 392 — Diremo anche queste due nuove superficie ®',@" le complementari della primitiva ®, prese rispetto al corrispondente sistema di curve gene- ratrici. Queste superficie complementari sono date dalle formole x = + coso,(cos w, X, + sen w X»), «'=x+ cos o:(cos 0, X, + sen wr Xo), che corrispondono alle generali (5), ove si faccia o = 0;,0'=%;(f=1,2). Il teorema di permutabilità seguita a sussistere anche nel caso attuale delle trasformazioni singolari ed ha qui questo particolare significato che: le due superficie D', D' avendo a comune la complementare ®, prese per ®D' rispetto al primo per D' rispetto al secondo sistema di curve genera- trici, hanno ancora a comune l'altra complementare D" prese per D' rispetto al secondo, per D' rispetto al primo sistema di generatrici. Dobbiamo ancora avvertire che tutte le proprietà della trasformazione generale Bs continuano a sussistere anche nei casì (qui omessi per brevità) che uno o tutti due i sistemi di curve generatrici sopra ®g,,c. Sia a tor- sione costante. Soltanto le due trasformazioni singolari si riducono ad una sola nel primo caso, e spariscono affatto nell'ultimo che appartiene alle su- perficie pseudosferiche. 12. La nuova classe di enti geometrici introdotta colle superticie ®;,,c» ammette, come si è visto, una feorza delle trasformazioni. Si può quindi nuovamente applicare il principio, accennato al n. 1, a questi enti come elementari, e considerare gli enti più complessi che ne derivano per una successione continua di tali trasformazioni infinitesimali. Nel caso attuale, applicando una volta il detto, processo alle superficie D,,c,, gli enti nuovi che si ottengono sono: sistemi tripli (non ortogonali) di superficie Da,,ca che si tagliano mutuamente lungo le loro curve di Bertrand. Un tale sistema triplo, che si indicherà con D,,09,08, consta in effetto di: tre congruenze di curve di Bertrand appartenenti a tre diverse famiglie : COSO, , Seno, COS 0) sen 0) “Mimi gi 1 7 (7 #73 JÌ 9, (41) 01 Ti ( 2) 0: + Da COS 04 sen G3 a = =} ( 3) 03 se TI tali che da ogni punto dello spazio escono tre curve di Bertrand delle famiglie (a.), (42), (43) ed hanno ivi a comune il piano osculatore delle tre rispettive coniugate. — 3935 — Affatto analogamente come per le singole superficie ®;,,5. (n. 8) ab- biamo qui il teorema di unicità e di resistenza: Date ad arbitrio tre curve di Bertrand C,,0,,C3 delle tre rispet tive famiglie (a.), (42), (43) che escono da un punto O dello spazio, avendo ivi a comune il piano osculatore delle coniugate, esiste uno ed un solo sistema triplo Ps,,cz,0, Che contiene C,, Cs, Cz come curve generatrici. I sistemi tripli ®,,09,0 alla loro volta ammettono le trasformazioni Bs e si può quindi procedere ad una nuova applicazione del principio generale, partendo dai sistemi ®,,03,o;3 Come enti elementari, e così via di seguito. Ora è ben notevole che le formole relative a questi sistemi generali, ottenuti col ripetere un numero qualunque di volte l'applicazione del prin- cipio generale, si scrivono con somma facilità e conducono a sistemi di equa- zioni a derivate parziali (sistemi (III) del numero seguente) altrettanto no- tevoli per le loro proprietà analitiche quanto per le geometriche di cuì sono l’espressione. 15. Denotiamo con Ue Uno n variabili indipendenti e con OSSO... On n costanti, tutte diverse fra loro e comprese ciascuna nell'interno dell’ in- tervallo ( x s + a, . Siano poi 2 2 0, 01,02, n, %-+ 1 funzioni incognite delle v, assoggettate a soddisfare al seguente si- stema di equazioni simultanee alle derivate parziali: ds COS G; COS Gy COS(@; — 0) + sen o; seno, — 1 30 UK sen 0; — Sen 07 DURI (CID: d°0 __ 6050; €08 07 Sen (w; — ox) 230 0 dU; VU sen 0; — sen GX QUi IU @G-4=1,2,3,..2), dove gli indici 7, % diversi fra loro, assumono ciascono tutti i valori IERRERECIORO. (') Come si vede, nel sistema (III) sono espresse, in funzione delle w e delle deri- vate prime di 6, tutte le derivate prime di ciascuna ; esclusa ogni volta quella rispetto alle u; col medesimo indice, e inoltre tutte le derivate seconde miste di 0. — 394 — In grazia del suo modo speciale di formazione, questo sistema (III) è un sistema chiuso, cioè quelle condizioni di integrabilità che dalle (III) possono formarsi: Al d°0 ) d d°0 ) Qui \ QU dUk Kd 21 dUi dUI î dove é,%,l sono indici diversi, si trovano identicamente verificate per le (ITI) stesse. Ne segue che : / sistema (III) ammette una soluzione generale (0,0, ws, n) dipendente da n funzioni arbitrarie, di una variabile cia- scuna, a prescindere da cangiamenti di parametri u,, uz, ... Un (*). 14. Veniamo ora alla interpretazione geometrica di questi risultati. Scelta una qualunque soluzione (0, 0, , 0, .. 0,) delle (III), si consi- deri il seguente sistema simultaneo di equazioni differenziali per tre funzioni incognite x, ’ Xi ’ LE dell'etiiiuanietizat X PI) = =. (— seno; X3 + cos 0; cos w; X3) , QU; OUi È d (o) ? (8) di = >» (sen 0; X, + cos 0; sen w; X3) (SZ) bi i dI PI:) = — c08s09; — (cos w; X sen %w; Xs). di r dui ( U 1 + v 2) Questo, a causa delle (III), è un sistema ortogonale completamente integra- bile. Ne resta quindi determinato, a meno di movimenti, un triedro triret- tangolo mobile ad # parametri %i, ws, -.. Un XA Zi 6 Vip Za XE Va Ls i coseni di direzione scritti in ciascuna verticale essendo soluzioni delle (8). Ma se prendiamo allora le tre espressioni (1) È evidente che, cangiando comunque i parametri %:,%3,... n, il sistema (III) conserva sempre la medesima forma. Denso — 909 de= Y cos 0; HE (— sen 0; sen w; X, + sen 0; cos w; Xs — coso; X3) du, i=I i in f 0 (O) = 3 (— seno; sen w; Y, + seno; cos w; Y, — coso; Y;) du; t==1/ i =" I) I de = > coso; > (— seno; sen w; Z, + seno; cos w; Z> — cos 0; Z3) dui, \ i=1 i vediamo che, in grazia delle (III), (8), sono differenziali esatti. Se interpretiamo i tre integrali (MO) EA 0000% 9 7 VCASCABE: 0). GERA) come coordinate ortogonali di un punto P mobile nello spazio, le (10) ci dànno appunto i sistemi generali Po, 02, s0007 9 accennati sopra, e di cui ora andiamo a descrivere le proprietà geometriche. Partiamo da 7 valori fissi Wi US, dati alle x variabili, ai quali corrisponderà per le (10) un determinato punto Po =" (%0, Yo, #0) dello spazio, indi lasciando ad # — 1 delle varia- bili questi valori fissi rendiamo variabile le 2°, sia v;. Il punto P=(x,7,%) descrive allora una curva di Bertrand della famiglia (4) uscente dal punto P, ed avente Xz, Ys, 43 per coseni di direzione della binormale alla contugata. Se diamo poi all'indice 7 i suoi # valori 1,2,3,... n avremo, uscenti da P,, x curve di Bertrand delle rispettive » famiglie (4;) (6‘=1,2,... n) ed aventi ivi a comune il piano osculatore delle coniugate. Ed infine facendo variare i valori iniziali (4) le 7 rispettive curve di Bertrand descriveranno altrettanti sistemi, ciascuno 00”, appartenenti a quelle x famiglie. È manifesto che per 2=2 ritorniamo così alle superficie ®,,.;,, per n=3 ai sistemi tripli P,,5,,03, CCC Infine il teorema d’esistenza delle soluzioni del sistema (III) si precisa geometricamente così: Date ad arbitrio n curve di Bertrand delle rispettive famiglie (a) i=1,2,..n, uscenti da un medesimo punto dello spazio, ed aventi ivi — 396 — a comune il piano osculatore delle coniugate, esiste uno ed un solo sistema Doi,02,...0n Che le contiene come curve generatrici (cfr. nn. 4 e 12). 15. Come nel caso x=2 delle superficie D,,c», così anche nel caso di 2 qualunque i sistemi ®,,c2,..c, ammettono trasformazioni Bs, che dipendono da formole perfettamente analoghe. Supposto dapprima o diverso da 0,,0,,..0,, si ha: Le equazioni simultanee 30" coso cos o; cos(0' — @;) + seno seno, — 1 30 dUi seno — sen 0; QU; (@G=1,2,...n) (11) per la funzione incognita 0, soddisfacendo 0,0,,0z,..èn alle (III), formano un sistema completamente integrabile. Una qualunque 0' delle sue co! soluzioni, introdotta nelle formole (12) x'=x + cos o (cos 0' X, 4 sen 0" X.), ed analoghe per y' ,', dà un nuovo sistema Di, 03,...cn, trasformato dal primitivo per la Bs. Per questo nuovo sistema si calcolano altresì i valori @i,;,... 0), da associarsi a 6", come nuove funzioni w;, dalle formole (cfr. (6) n. 10) 0— wi 60 — %w; (13) gilt i wi I casi limiti in cui o assume uno dei valori o; danno luogo alle % trasformazioni singolari Bs. b) Bo. o) 000 Ba, ) ciascuna con un unico sistema trasformato, che si calcola (in termini finiti) dalle formole (14) x;= £ + cos 0;(cos w; X, + sen w; X>).. Geometricamente questi n sistemi (14) derivati per le trasformazioni singo- lari, che diciamo anche i complementari del primitivo, si ottengono assu- mendo le coniugate delle curve di Bertrand della 1” famiglia in ®,,02,...0n5 È importante osservare che se di ciascuno di questi complementari si prendono nuovamente i complementari e così via, non si ottiene già un nu- mero infinito di sistemi ®,,02,...0n, COMO a prima vista potrebbe sembrare, ma si arriva ad ur cielo chiuso di 2" tali sistemi, in cui ciascuno ha î suoi n complementari nel cielo stesso. — 397 — Se si considerano, sopra i 2” sistemi, 2” punti corrispondenti, questi sono i vertici di una configurazione (2”),., di Mobius ('), ed i piani della configurazione sono quelli osculatori delle curve coniugate, che appartengono agli n sistemi complementari contigui. Ogni vertice dista poi dagli 2 cir- costanti delle n» lunghezze fisse COS 0), C0S 03, ... COS 9, e la configurazione stessa è un sistema articolato di MObius. In fine osserverò che, pure prescindendo dalle proprietà geometriche ora descritte, e solo avendo riguardo alle proprietà analitiche del sistema (I1I) di equazioni a derivate parziali, appare notevole il modo come da una soluzione nota (4,0, ,0:,... 0,) si perviene, colle formole (11), (13) delle trasformazioni Bs, ad infinite nuove (0',@j,%;,... 07). Applicando il teorema di permutabilità, si possono poi trovare quante si vogliono nuove soluzioni senza alcun calcolo d'integrazione. Biologia — Sulla teoria della determinazione dei sessi. Nota del Socio C. EmERY (°). Studii recenti sulla spermatogenesi hanno fatto conoscere che sì formano, in molti animali, spermii di due qualità, e che questi hanno molto probabili, se non certe, relazioni con la determinazione dei sessi (*). Dunque gli spermii sono ordinariamente di due sorta: quelli provvisti dell’eterocromosoma 0 cromosoma sessuale, e quelli che ne sono privi. Derivano dalla divisione ineguale del nucleo diploide di uno spermatocito in due nuclei aploidi di spermatidii. Ma in alcuni insetti, lo spermatocito si divide in due spermatidii con eguale numero di cromosomi, è vero, e di cui gli autocromosomi sono omologhi, ma l’'eterocromosoma non è equivalente. Se l'eterocromosoma del- l'uovo si designa col simbolo #, con i simboli @ ed y si designeranno gli eterocromosomi degli spermii (l’eterocromosoma x essendo reputato identico a l'eterocromosoma dell'uovo), e lo spermio fornito di cromosoma « sarà determinante del sesso femminile dell'uovo fecondato. i (4) Vedi La mia Memoria: Sulle configurazioni mobili di Mòbius nelle trasforma zioni asintotiche delle curve e delle superficie, Rendiconti del Circolo matematico di Palermo, tomo XXV (1908). (2) Pervenuta all'Accademia il 17 settembre 1912. (3) Le pagine seguenti sono in parte il frutto della lettura di un lavoro riassuntivo del prof. Richard Hertwig (UVeder den derzeitigen Stand des Serualitàtsproblems nebst eigenen Untersuchungen: Biolog. Centralbl., vol. 32, nn. 1, 2,3, 1912). Rimando il lettore a questo scritto, per la bibliografia. RENDICONTI. 1912, Vol. XXI. 2° Sen. 52 — 398 — Ora il cromosoma y, che per lo più è ritenuto determinante del sesso maschile, imbroglia molto la questione; tento di sbrogliarla, facendo l’ ipotesi che questo cromosoma y, il quale, per quanto mi è noto, è stato trovato soltanto negl’ Insetti (ma si potrebbe trovare in qualunque altro animale, che ciò non nuocerebbe alla mia ipotesi), sia connesso con i caratteri esterni accessorii, o, come si esprime R. Hertwig, « concordanti », del sesso maschile, e non della maschilità. Negl' Insetti, questi caratteri sono molto più impor- tanti che non negli altri animali. Infatti la castrazione, che in generale nei Vertebrati porta con sè la mancanza di sviluppo dei caratteri sessuali, e alle volte la comparsa dei caratteri del sesso opposto, negl' Insetti non ha risul. tati appariscenti. Bruchi castrati molto prima della metamorfosi, hanno svi- luppato nella farfalla le sembianze perfette del sesso cui apparteneva il bruco castrato. Del pari è verosimile che i determinanti dei caratteri concordanti del sesso femminile siano talvolta congiunti col cromosoma ('). Se si prescinde dal cromosoma y, la formola dei cromosomi del maschio diviene equivalente alla formola della femmina, diminuita del cromosoma x; scrivo A pel complesso degli autocromosomi : per l'uovo fecondato femmina: (AH#- 2) (A+ @) ” ” maschio: (A-+ x) (A+ 0). Così le due sorta di spermii, quelli di carattere femminile (A + «) e quelli di carattere maschile (A + 0), sarebbero, nelle condizioni normali, i fattori della determinazione dei sessi. Ho detto nelle condizioni normali: quindi dirò quali si possono: supporre le condizioni eccezionali, nelle quali non si ha quell'esito. i I fautori del mendelismo, nella determinazione dei sessi, dicono che il maschio è eterozigote, la femmina omozigote; che il carattere maschile è dominante sul carattere femminile. Si noti che la femmina è contraddi- stinta da un determinante positivo: il maschio dalla debolezza di quel determinante, il quale è assente nello spermio di carattere maschile. Il prof. Achille Russo (*) ha dimostrato che, con l'iniezione di lecitina nelle coniglie, un carattere recessivo può diventar dominante, cangiate le condizioni di nutrizione dell'uovo. In fatti, negl’incrociamenti, il carattere del manto bianco è recessivo ; il manto nero, invece, è dominante. Accoppiata una coniglia bianca con un maschio nervo, il colore dei piccoli sarà nero o bigio; dopo un primo parto, effettuatosi nelle condizioni normali, il Russo (!) Esistono negl’Insetti molte varietà, in cui i maschi hanno le apparenze esteriori delle femmine e viceversa, almeno nei Coleotteri, che conosco bene, come antico collet- tore di quell'ordine: citerò molte specie di Doreadion e di Dytiscus. (3) Veggasi, tra le altre pubblicazioni dell’autore, Sommario delle lezioni di zoologia generale, Catania, tip. La Siciliana, 1912, pp. 65 e seg. e pag. 194 SA — 394 — ah sottoposto la coniglia bianca alle iniezioni di lecitina, e poi l'ha accoppiata col medesimo maschio: i piccoli sono stati bianchi o sereziati di bigio. Così il carattere del manto bianco è divenuto, da recessivo, dominante, sotto l'influenza della lecitina che migliora la nutrizione delle uova e, a parer mio, è lecito supporre, dei loro nuclei e dei cromosomi che ne fanno parte essenziale; così pure il carattere femminile (rappresentato o no dal cromosoma x), sotto l'azione della lecitina si è fatto dominante ed ha in parte resistito all'influenza degli spermii di carattere maschile. Viceversa le uova di coniglia anaboliche, le quali, secondo il Russo, sono destinate a divenire embrioni maschi, verosimilmente offrono il determinante femminile in condizione di attività debole, e insufficiente a determinare in femmina l'embrione, forse anche sotto l’azione di spermii di carattere femminile. Le uova premature e sopramature di rana, che sono state oggetto di accuratissime esperienze di R. Hertwig, hanno dato prevalentemente o esclu- sivamente maschi. Sono manifestamente uova in condizioni scadenti di nu- trizione, i cui nuclei non sono capaci di far prevalere il determinante fem- minile, anche se fecondate con spermii di carattere femminile. In questo, hanno somma analogia con le uova di coniglia anaboliche del Russo. Se riguardiamo la femmina partenogenetica, generatrice di femmine, come la più alta espressione della femminilità, cioè come un individuo che pro- duce cellule germinali capaci da sè sole di svilupparsi in una forma simile ad essa, abbiamo a vedere, nel corso delle generazioni successive di una specie partenogenetica, diversi gradi discendenti di femminilità. dipendenti, almeno in parte, dalle condizioni di nutrizione; poi la bilancia trabocca. e ritornano a generarsi maschi. Parrebbe quindi che la maschilità sia soltanto la negazione della fem- minilità; invero ripugna alla mente che un carattere negativo, il quale, in altri termini, non abbia nessun determinante favorevole, sia dominante sopra un carattere positivo. Supponiamo dunque che esista realmente il determinante della maschilità, che rappresenteremo col simbolo £. È necessario che questo determinante sia sempre pronto ad entrare in funzione quando è insufficiente l'influenza direttrice del determinante fem- minile, ossia x; quindi presumo che non debba cercarsi tra gli eterocromo- somi, ma sia un elemento costantemente presente nelle uova e negli spermii. Secondo la mia ipotesi, e adottando il linguaggio mendeliano, il maschio sarebbe del pari eterozigote e la femmina omozigote; si avrebbe la formola normale: per l’uovo fecondato femmina: (AÉ + x) (A#+ x) Ù 7 maschio: (AÉ + x) (AÉE+-0). Ma x. il determinante femmile, potrebbe essere ora dominante, ora — 400 — recessivo, secondo i casi, essendo quel determinante esaltato o depresso; quindi sì potrebbe avere: per l'uovo fecondato femmina: (AE + X) (AÉ +0) ’ ” maschio: (AE +) (A+ 2), ponendo X pel determinante femminile esaltato (vale a dire, dominante); «x pel determinante femminile depresso (vale a dire, più del solito recessivo). Potrebbe supporsi che in altri organismi i determinanti sessuali avessero tutt'altra distribuzione nelle uova e negli spermii. Così è in fatti p. es. nei Pteropodi, dove vi è un eterocromosoma, soltanto in una metà degli spermii (l’altra metà degenera) e non nelle uova. Siccome i Pteropodi sono erma- froditi, non v'è determinazione di sesso (*); la formola dell'uovo fecondato sarebbe allora: (AE40) (AE+- 2). Prevedo che mi si potrà obbiettare che, secondo la mia ipotesi, il de- terminante maschile non sarebbe antitetico col determinante femminile. Ma è presumibile che la condizione primitiva dei Metazoi sia stato l'ermafrodi- tismo; questo è il mio convincimento. 1 Ctenofori e i Platodi, i quali sono lo stipite primitivo degli animali bilaterali, sono ermafroditi. Ora. nell'erma- froditismo, non vi è antagonismo tra maschio e femmina; quindi i determi- nanti maschili e femminili non sono antitetici. Matematica. — Estensione di alcuni precedenti risultati. Nota del dott. Lurci Amoroso, presentata dal Corrispondente GIu- SEPPE LAURICELLA (°). In nostre precedenti Note abbiamo studiato l'equazione integrodifferen- ziale a) ve) + f SEO E(&6)lds= 9h) con nucleo simmetrico H(£,). Ci proponiamo in questa Nota di accennare come la teoria ivi sviluppata possa estendersi al caso in cui il nucleo H(£,) non sia simmetrico, ed al caso in cui, invece di un'unica equazione, si abbia da considerare un sistema di equazioni. (1) E dubbio se i Gasteropodi eutineuri siano ermafroditi primitivi, o se non siano invece discesi da antenati a sessi separati. (2) Pervenuta all'Accademia il.19 settembre 1912. — 401 — A) ESTENSIONE AL CASO DI UN NUCLEO NON SIMMETRICO. Sia H(&,) una funzione reale delle variabili reali È, x definita nel quadrato 0 <= =1,0=x=1, che soddisfi alle seguenti proprietà: I. Se (5) è una funzione integrabile, insieme col suo quadrato, nell’in- tervallo 01, in senso di Lebesgue, | ge) (ET IG H(x , È) di ; finita e continua nel campo 0 te, to essendo una costante assegnata. Detto allora, secondo la definizione già data, che una funzione u(x,t) è un integrale regolare della (1), se è finita e continua rispetto ad ambedue le variabili x, t perO0 ®,.(£)} An eAn(t-to) He I B,() ent 1) di i n=1 <Îo = | 19,0) IO 3 nic (serie convergente assolutamente e conformemente rispetto alle variabili Boi DIO IZI A 6 ilo) < B) ESTENSIONE AL CASO DI UN SISTEMA DI 7 EQUAZIONI IN 7% VARIABILI. Sia dato sullo spazio infinito a x dimensioni, rappresentato dalle va- riabili 2,,...%,, un campo continuo e finito S ad x dimensioni; e diciamo indifferentemente È, , ... £,, Ovvero x, mi Xn, le coordinate di un punto ge- nerico interno ad S, che eventualmente può coincidere con un punto del contorno di S. Sieno (3) Hate, Ln) INSI— DIS ZERI m? funzioni reali di una coppia di.punti entro S, le quali soddisfino alle seguenti proprietà : I. Se g(£,.... £,) è una funzione integrabile, insieme col suo quadrato, in senso di Lebesgue, nel campo S, le funzioni f g(È, que o) H,s(É1 eee Sal Loco 4a) giov US0 fol d) 000 3a) H,;(&1 DISCO Gal È geco En) dé, NICOO dEn POI 000140 — 403 — costituiscano, entro S, funzioni finite e continue; inoltre Î A 5 MIO de, risultino pure entro funzioni continue di una coppia di punti in S, non tutte identicamente nulle. HI. iSe À, sula Dn 9,060 P, (41 gue Cn) 5 D,3(£, gus dn) RE o0b Drn(C1 ge La) do (i peo) A CA Se RR (2) costituiscono la serie completa dei valori eccezionali e delle funzioni biorto- gonali del sistema dei nuclei (3), in modo che si abbia P,(21,.. Cn) + + À, Si S PD. (È 9 000 En) H,(é n), 000 Eni VIBO Cn) dé, 9.900 dé, =" 0 , n= Dsi(21,... n) + I font) CARRO) ON n= EIZO, le costanti Ax, Àz,..- An Steno, tranne al più un numero finito di esse, negative. Sieno poi gs(x1... €n|), s="1,2,..m, funzioni reali delle variabili reali x,,...2n,t, definite nel campo S, per t=> £ (6 essendo un numero d Cia ; ; >; finite e continue, senza eccezione dato), finite e continue colle derivate entro S, per {=> ty. Consideriamo allora il sistema (4) Dx 000 AAA ap e (du eno Si sla 2 | E H,s(È DICCI En Le Xn) di, prese dEn === gi DIO ®n|t) r=1 SE Ig 2g 0000 — 404 — Si dirà che m funzioni dC 9000) din costituiscono un sistema di integrali regolari di esso, se verificano la (4); ed inoltre sono funzioni finite e continue entro S per #t=> £,, con le deri- dU vate c quadrati, entro S, in senso di Lebesgue, qualunque sia {= ty. Si ha, allora (e la dimostrazione si riduce in sostanza al caso di una unica equazione con lo stesso metodo con cui un sistema di equazioni di Fredholm si riduce ad unica equazione di Fredholm), che Za condizione necessaria e sufficiente, perchè esista un sistema di integrali regolari del sistema (4), che per t=t, sî riducano ad m funzioni assegnate dei punti di S integrabili parzialmente rispetto a ,,...xn, insieme coi loro I n) SIM (finite e continue), è che sia risolubile il sistema integrale di prima specie eee pale SUA) SNA le 0,(£1,... En) essendo integrabili entro S, insieme coi loro quadrati, in senso di Lebesque. Tale sistema di integrali è unico, ed è rappresentato da serie pro- cedenti per le funzioni Wn(a) convergenti assolutamente e conformemente rispetto alle x,,...&n,t, entro tutto S, per t=> bo. Matematica. — Sulla totalità det numeri primi inferiori ad un limite assegnato. Nota di G. ANDREOLI, presentata dal Socio T. Levi-CiviTA (*). 1. I diversi indirizzi seguiti per la ricerca della totalità dei numeri primi, si trovano ampiamente trattati e discussi nella monografia del To- relli (*) e nel manuale del Landau (*). Essi si possono classificare secondo quattro idee fondamentali: 13) Enumerazione, eseguita materialmente col « Crivello d’ Erato- stene ». (*) Pervenuta all'Accademia il 10 settembre 1912. (2) Sulla totalità dei numeri primi fino ad un limite assegnato. Napoli (1901). (3) Handbuch der Lehre von der Verteilung der Primzahlen. — 405 — 28) L'uso d'un metodo — quasi di ricorrenza — che permetta, co- nosciuti certi elementi, di calcolare tale totalità. Ad esempio le formole di Legendre, di Meissel ecc. 8?) Porre in relazione i numeri primi con certe singolarità. In par- ticolare si potranno assegnare « equazioni caratteristiche » cui soddisfano, fra i numeri reali (od i numeri interi), solo i primi. Ed a questo si ricon- nettono molti lavori: quello del prof. Levi-Civita, ad esempio (Acc. Lincei, vol. IV, 1° sem., fasc. VII, ser. 52. pag. 303). 48) Costruire una funzione continua che per valori interi della va- riabile sia legata alla totalità dei numeri primi inferiori a quei valori, da semplici relazione: ad esempio, che Ja sua parte intera sia tale totalità; oppure che il valore della funzione differisca da essa per quantità il cui rapporto alla funzione tende a zero. A questa idea si riconnettono ì lavori sulla distribuzione assintotica Gi cui ci occupò già genialmente il Cesàro, ed a cui è in massima parte dedicata l’opera poderosa del Landau. Esporremo in un'altra Nota una for- mola di questo tipo. In questa Nota daremo tre espressioni della totalità, basate sull'uso della serie di Lambert o del teorema di Wilson. La terza permette anche di dare le somme delle potenze «-sìme dei numeri primi. Inoltre in questa terza formola si evitano del tutto le quantità complesse che le prime due formole rendono di sola apparenza. 2. Consideriamo la funzione: (1) ca n} + sen ne = D(x). Questa funzione, per reale, si annulla solo se x sìa un primo. Infatti, per x reale si ha che primo e secondo termine del primo membro sono essen- zialmente positivi, epperò il minimo valore che ®(z) può assumere è lo zero. Denque si dovrà avere \ senza = 0 Î sen Seti = 0. La prima di queste due eguaglianze ci dice che 4 deve essere intero. Allora T(x) diventa (€ — 1)! E perchè sia soddisfatta anche la seconda, per il notissimo teorema di Wilson deve essere 4 primo. Dunque i soli punti zero reali della ® sono i numeri primi. D'altra parte, la funzione ® potrebbe avere singolarità solo nei punti in cui l'uno e l’altro, o ambedue i termini che la compongono, l'avessero. Ora il secondo termine ha per sola singolarità (essenziale) l’ infinito; il primo, considerato come funzione di OE => — lati 5) RenpicontTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 53 406 — li presenta solo per 2 = co. Mia diventa infinito oppure ha una singola- rità essenziale solo per 10 =) ai Dunque possiamo asserire che nessun punto del semiasse reale positivo è di singolarità per la ®. Epperò, l'integrale esteso ad un contorno che giri, distandone per una quantità suftlcientemente piccola, intorno al segmento dell'asse reale compreso fra 1 ed n, ci darà la totalità dei numeri primi inferiori ad ». Tale contorno lo diremo « taglio ». Lo stesso si poteva ripetere per la funzione via) = sen E Lee )F(1)+1(27, la quale presenta come punti-zero reale gl'inversi dei numeri primi, e come punto di singolarità essenziale, nel segmento (s,1), il punto 0. In tal caso l'integrazione va estesa al taglio le) 3. Passiamo a dare la 3 espressione, che si potrebbe forse usare per averne formole assintotiche. È chiaro che la funzione sen 70% per x intero diverso da zero, è nulla; per % tendente a zero, tende ad 1. D'altra parte, se 0(n) è il numero dei divisori di 7, e: - x a ; 2x3 ET pae cti_o “nl è la serie di Lambert, si ha: (n) (E *) —0()} IC X=0 Ora, 0(2) = 2, secondochè 7 non sia o sia primo. Dunque l' intero A) ( e 2). — 407 — è eguale o maggiore di zero secondo che 7 sia o no primo. Dunque avremo che MI (e sn (4-2 = = A(2,%), EEE per x tendente a zero, tende ad 10 0, secondo che % sia primo oppur no. Epperò possiamo asserire che la funzione m AOSTA, 1 per « tendente a zero, tende a dare la totalità dei primi minori di #; ovvero, per x sufficientemente piccolo, la sua parte intera rappresenta tale numero. Lo stesso si poteva ripetere se si poneva A(c, n= A(2), ove 4, è la somma dei primi # termini di A4(x). Infine si vede che la funzione 1 m SGD 1) = Di, A(x,n). 2a per x tendente a zero, tende a dare la somma delle potenze «-sime dei primi inferiori ad 7 Fisica-matematica. — / corp: di attrazione nulla. Nota di UMBERTO CRUDELI, presentata dal Socio PIZZETTI ('). La ricerca dei corpi di attrazione (newtoniana) nulla (privi di distribu- zioni di densità superficiali) di cui è ben conosciuta l’importanza, fu ab- bordata, per la prima volta, in modo sistematico, dal prof. Pizzetti (*). Egli, a pag. 240 della sua citata Memoria degli Annali, dopo avere notato che la ricerca dei corpi di attrazione nulla, relativi ad uno spazio ©, può ridursi alla ricerca di tutte quelle funzioni f che, entro © e sul contorno, godono di certe condizioni di regolarità e sul contorno, inoltre, godono delle pro- DEE df rietà f/=0 e —=0, osserva: È / dm sti « Poniamo, in particolare, che la superficie S che limita lo spazio 7, occupato dal corpo, sia un ellissoide di equazione x? yè 3? 3° vraianiii (1) Pervenuta all'Accademia il 19 agosto 1912. (*) Rend. R. Accad. dei Lincei, XVIII, 1° sem., fasc. 5°; Annali di Matematica, XVII, serie III, pag. 225. — 408 — Si ponga oi 2 3% I-Ftpua 2.4.) ed f(® ye) =k®.g(£,4 3), dove g(x,y,z) sia una funzione che sulla superficie e nell'interno dell’el- lissoide goda di certe condizioni di regolarità. Allora la densità del corpo nel punto (2,y,z) sarà d d h=d4°%f=2(D* — KA) g— dti, 2 + ki, essendo Sri 1 l TÌ Dato 0 a Ta Noi, qui, inspirandoci a tale considerazione, intenderemo [condizioni che verranno indicate con (@)] che s(x,y,<)=0 (equazione che, in par- ticolare, potrà essere quella di un ellissoide) definisca il contorno S dello spazio 7, e che s(z,y,z) sia una funzione, monodroma, limitata nel campo © (campo, per ipotesi, tutto situato al finito), la quale sia diversa da zero in ogni punto interno di 7, e nel campo stesso ammetta le derivate prime e seconde limitate. Inoltre porremo identicamente (1) u(®,Y,8)s(x,y,3)=f(0,4,8), dove u(z,Y,4) sia [condizioni che indicheremo con (8)] una funzione, monodroma e tale che la f(x ,y,z) soddisfi alle seguenti condizioni: I) di avere il 4°/ limitato ed integrabile in 7; II) di far resultare valide, tenendo presente la (1), le formule fo4/= f/409 di ed 2 (iL u=o, (P ce dove, nella prima, 9g rappresenti una funzione limitata e continua in 7, e, nella seconda, ra Va =2E+ = y+ (= 5), intendendo che (x,,%:,:) sia un qualsiasi punto esterno ad S; III) di far resultare applicabile al -/°f la nota formula del Poisson 2 — 4n4?°f(x,y,2)= 4° (Leno UT 7a Teti i — 409 — nella quale r=Va—+(y—nP+(e—5?, dove (x,y. 2) rappresenta un qualsiasi punto interno ad S. Ciò premesso, 4°f= 4°(us?) rappresenta la più generale densità @ limitata ed integrabile, per la quale, inoltre, valga la formula del Poisson e sia nulla la corrisponderte azione esterna del corpo limitato dalla su- perficie considerata. Che 4?/ corrisponda ad una distribuzione di densità, per la quale la azione esterna del corpo resulta nulla, sì vede immediatamente, ricorrendo alla nota formula del Green, relativa ad un punto esterno qualsiasi, la quale, tenendo presenti le condizioni (8), porge Ai li SAU da = 0 SIT in ogni punto esterno. E che una qualsiasi densità o, limitata ed integrabile, per la quale, inoltre, valga la formula dei Poisson e sia nulla la corrispondente azione esterna del corpo, possa mettersì sotto la forma suddetta, resulta da quanto segue: Si ponga, nell'interno del campo t, identicamente, (2) = —4nu, dove Per cui, intanto, nell'interno stesso, (3) V=— 4nusò. Col tendere del punto interno verso il contorno, V tende, per ipotesi, allo zero; quindi anche — 47rus® tenderà verso lo zero. Sicchè, assumendo come valori di « nell'interno i valori dati dalla (2), e come valori della w sul contorno dei valori finiti qualsiasi, ed assumendo nulle la u e la s al- lesterno di 7, la (3) varrà in tutto lo spazio. Dunque — 4nus° = (-odel DSS) E quindi (4) o=4°(us°). La (1) ci mostra pure quel che vi è di arbitrario nella questione. E, poichè il ragionamento fatto per dimostrare la generalità della (4) non di- — 410 — pende dalla scelta della s [purchè soddisfacente alle condizioni (@)], noi potremo intendere fissata una certa s — purchè, naturalmente, soddisfacente alle condizioni (@) — e quindi intendere che l’arbitrarietà nella questione sia portata tutta dalla u(x ,y,2), la quale è soltanto legata dalle condi- zioni (8) (*). Ora, indicando con 0, la densità di ra distribuzione corrispondente ad un'assegnata azione esterna non nulla, avremo che + 4°(s°) rappresenterà, con le restrizioni poste, la più generale densità di una di- stribuzione corrispondente all’assegnata azione esterna. Come si vede, per assegnare tale densità occorre conoscere una particolare distribuzione corri- spondente all'azione esterna considerata. Recentemente, il prof. Lauricella (?) ha mostrato, per altra via, ma sotto restrizioni diverse dalle nostre, il grado di indeterminazione della den- sità del corpo e la forma più generale della funzione potenziale. Il metodo del prof. Lauricella richiede, però, l’esistenza del 4*o (nel quale, appunto, com'egli ha stabilito, consiste allora l’arbitrarietà della 0), mentre n07 now abbiamo escluso densità non derivabili. Col metodo del prof. Lauricella, volendo assegnare la più generale fun- zione potenziale, corrispondente ad una data azione esterna, occorre conoscere (anzichè una particolare distribuzione) la funzione Gs del Green. Successivamente, il prof. Lauricella ha mostrato quale contributo totale può dare, sulla determinazione della densità nell'interno dei pianeti, la co- noscenza dell’azione esterna del pianeta e del suo moto rigido intorno al baricentro (*). Rispetto a tale ulteriore problema, noi, appoggiandoci ai resultati precedenti, possiamo stabilire quanto segue: Anzitutto, avendo dimostrato il prof. Pizzetti che corpi di massa non nulla corrispondenti ad una medesima azione esterna, hanno lo stesso centro di massa e gli stessi assi principali centrali d'inerzia, noi potremo, nella nostra ricerca, assumere tali assi come assi di riferimento. Come osserva il prof. Lauricella, essendo note, in virtù di un altro teorema del prof. Piz- zetti, le differenze fra i momenti principali d'inerzia del pianeta, qualora sia nota la sua azione esterna, e supponendosi ora, inoltre, noto il movimento rigido del pianeta stesso attorno al suo baricentro, resulteranno determinati, facendo uso delle equazioni di Eulero, i suddetti momenti d’inerzia A,B,0, (1) La posizione f= us? permette di assegnare effettivamente una «stesa classe di funzioni f soddisfacenti alle condizioni volute. (°) Rend. R. Accad. dei Lincei, 1° sem. 1911, pag. 100. (3) Rend. R. Accad. dei Lincei, 1° sem. 1912, pag. 26. — 4ll — escludendo il caso in cui tutti i minori del 2° ordine del determinante dei coefficienti di A,B,C, nelle equazioni di Eulero, siano nulli; in cui, cioè, la velocità angolare sia di grandezza costante ed il suo asse di orientazione fissa. Dei suddetti momenti d’inerzia, basterà tener conto, per il nostro scopo, di uno soltanto (per es., di A), giacchè gli altri due potranno ottenersi mediante le suddette differenze. Sicchè, intendendo conosciuta la densità @, di una particolare distribuzione corrispondente alla suddetta azione esterna, avremo A = (er dr — {e E? dv + fest s°) da. Ovvero, ponendo A foi È de =w VT e tenendo presenti le condizioni (8), avremo I) = (ev H)do= lu S°A*(£2) del 2 {1 SL T CT T Dunque, ponendo 4 = vo [x nm 2 t=>p) [C) (5) = |lus?dr. La (5) rientra in un tipo di equazioni, trattato nel caso generale, dal prof. Lauricella ('). La soluzione generale della (5) è (6) u=v+ I \a- fora), 7A dove la v rappresenta, per noi, una funzione soggetta alle stesse restrizioni imposte alla «, e, del resto, arbitraria. Quindi, la più generale espressione della densità (limitata ed integrabile, per la quale, inoltre, sia valido il teorema del Poisson) corrispondente alla data azione esterna e al dato moto rigido del pianeta intorno al suo baricentro, st otterrà sostituendo l’espressione (6) nella o\ 4 4°(us®). E si ottiene, così, ee 4 200) +TEL (2— fostart. si dr È (*) Rend. R. Accad. dei Lincei, 1° sem. 1912, pag. 18. — 412 — Meccanica. — Su problemi della elasticità ereditaria. Nota dell’ing. GrovannNI GIoRdI, presentata dal Corrisp. A. Di LEGGE ('). 1. Notizie preliminari. — 1 recenti lavori del prof. Volterra (?) hanno messo in tale evidenza lo studio dei problemi di elasticità ereditaria, che, prendendo a trattare di questo argomento, credo non dovermi trattenere su considerazioni di carattere generale. Fenomeni di elasticità residua erano stati considerati col nome di MNachwirkung per opera del Boltzmann (dal 1874 in poi), indi dal Wiechert; e gli autori francesi li hanno indicati col nome di #ra/nage. Si è veduto che tutti i corpi presentano di questi feno- meni, e che per uno studio completo della meccanica dei corpi elastici non è possibile prescinderne; ma soltanto la difficoltà matematica aveva impe- dito di tenerne conto: il loro intervento trasforma le equazioni differenziali della elasticità in equazioni integro-differenziali, dove i dati arbitrarî sono funzioni del tempo, che influiscono pel complesso di tutti i valori passati, da epoche remote in poi. Il metodo generale di risoluzione di tali equazioni è stato dato solamente dal prof. Volterra, il quale nelle sue classiche Me- morie ha fondato la teoria matematica completa dei fenomeni elastici ere- ditarî; e in particolare, dopo aver dato le equazioni generali per l'equilibrio e aver mostrato come si trasformano, ha risoluto i problemi relativi alla sfera, e ultimamente ha trattato il difficile problema delle vibrazioni ere- ditarie di una corda e di una sbarra rigida; quest’ultimo, suggerito dal Webster. Riprendendo per altra via lo studio di questi problemi, mi propongo in questa Nota, e in qualche altra successiva, di additare un metodo di trattazione che conduce a risultati in forma assai differente. Esso metodo si fonda sul calcolo degli operatori simbolici della forma (4) n ho esposto le regole in altri miei lavori (*). Applicandolo, e tenendo debito conto che nei sistemi fisici usnalmente considerati è verificata sempre la condizione d'invariabilità delle leggi ereditarie, mostrerò come si ottengono le soluzioni sotto forma particolarmente semplice, cioè mediante termini che (1) Pervenuta all'Accademia il 16 settembre 1912. (?) Vedi particolarmente: Sulle equazioni integro-differenziali dell’elasticità, Ren- diconti Lincei, 7 novembre 1909; e successive Note sullo stesso argomento; indi le Con- ferenze di Parigi del 1912. (3) Sul metodo simbolico ecc., Atti dell'Ass. Elettr. ital., vol. VIII (1904), pp. 65-143; Sul calcolo delle soluzioni funzionali ecc., ibid., vol. IX (1905), pp. 651-699; e nei ri- chiumi ulteriori mi riferirò a questo secondo lavoro. — 413 — contengono, al più, solamente tre quadrature, invece che per mezzo di serie infinite di integrali di ordine illimitatamente crescente. Questo fatto può riuscire di qualche interesse anche analiticamente, perchè sembra additare come l'ipotesi della invariabilità, conducendo a un gruppo di operatori fun- zionali commutabili con la derivazione, riduca la natura matematica del problema, in modo da renderlo risolubile con operazioni, per così dire, di un grado di trascendenza meno elevato. Inoltre esso permette alcune gene- ralizzazioni; p. es., togliere l'ipotesi che la funzione coefticiente della ere- dità sia finita e limitata e che si annulli del tutto al di là di un'epoca finita. Tale ipotesi restrittiva, che sì introduce ordinariamente per ridurre gli integrali improprî a integrali proprî approssimativamente equivalenti, appare, almeno in parte, contraria all'esperienza; l’abbandonarla permette di discutere su basi precise il grado di incertezza che essa altrimenti ingenera nei risultati. La presente Nota sarà dedicata all'esposizione del metodo e all'enun- ciazione della regola generale per la risoluzione dei problemi di equilibrio. Nelle successive discuterò l'andamento dei calcoli più in particolare, mo- strando come il problema si connetta a quello delle trasformazioni di Laplace e a quello dei prolungamenti analitici delle serie di Taylor; e proseguirò con l'applicazione ai problemi dinamici, includendo come casi particolari anche quelli non ereditari; darò poi alcune formole per la calcolazione nu- merìca effettiva dei risultati; e mostrerò infine i rapporti e le differenze col problema più generale della eredità non invariabile. 2. Legge della elasticità ereditaria. — Nel caso di elasticità ordinaria, non ereditaria, la relazione tra forza F ed elongazione v è data, nei limiti della legge di Hooke (!), da (1) CMS ovvero F=%%, con h°, ovvero £?, coefficiente positivo. E le equazioni generali di equilibrio di corpi estesi nello spazio, isotropi o no, contengono sommatorie di termini della forma (1), dove le F sono componenti della sollecitazione (stress), le sono componenti della deformazione (s/raî). Queste leggi valgono per de- formazioni permanenti, dovute a forze che abbiano agito da lungo tempo; oppure per deformazioni iniziali (ma con altri valori di %,%). Altrimenti sono soltanto approssimate. perchè all'effetto iniziale si sovrappone un effetto residuo o ereditario. funzione del tempo. Volendo tener conto di questo ef- (!) La validità precisa della legge di Hooke, almeno per certi corpi e per deforma- zioni piccole, è stata stabilita di recente con esperienze ottiche molto accurate. fondate sopra ì calcoli del Volterra, ed eseguite dal prof. O. M. Corbino, il quale ne ha reso conto nella sua Nota: Ze tensioni create in un corpo elastico ecc., Rendiconti Lincei, 1909, tom. 18, pp. 437-444 RENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem, 54 — dl4d — fetto, e supponendo anch'esso lineare (legge di Hooke generalizzata dal Vol- terra), si deve a secondo membro delle (1) aggiungere un termine integrale che esprima l'insieme degli effetti residui lasciati dalle forze, o rispettiva- mente dalle deformazioni che il corpo ha avuto nei tempì 7 passati, da t= —oo fino all'epoca presente 7=/. La legge (1) è sostituita allora dalla seguente: (2A) u(t) = h° F(t) + i H(t,v)F(c) dr Br: (1&=1) (2B) F()=#?°u(t) -f K(£,g)u) dr, dove i nuclei H, K sono funzioni positive, e coniugate nel senso che la risoluzione della (2A) conduce alla (2B), e reciprocamente. Nei calcoli, si può far uso tanto dell'una quanto dell’altra di queste due equazioni equi- valenti. Per passare da equazioni non ereditarie a equazioni ereditarie, si deve, a ogni coefficiente 4? che moltiplichi una forza, sostituire l'operazione funzionale rappresentata dal secondo membro della (2A), ovvero, a ogni coefficiente 4? che moltiplichi una deformazione, sostituire l’analoga opera- zione che sta a secondo membro della (2B). Le proprietà ereditarie del corpo elastico sono espresse dalle funzioni H,K. Se il corpo si suppone di proprietà comunque variabili in funzione del tempo, le H,K possono contenere la # in modo qualunque. Ma nella generalità dei casi pratici immaginabili dal fisico, si ha a che fare con corpi che mantengono inalterata la loro costituzione e le loro proprietà specifiche attraverso il tempo, almeno durante il corso delle esperienze. Allora è sod- disfatta la condizione addizionale a cui ho fatto allusione sotto il nome di « invariabilità delle leggi ereditarie » ('). Sperimentando su un diapason, ammettere questa legge significa soltanto ammettere che il metallo non si ossidi, o non perda la tempera, o non si vada raffreddando rapidamente mentre vibra. Questo esempio, e la riflessione che l'ipotesi dell’ invariabilità semplifica grandemente i calcoli, ci inducono a ritenerla verificata fino da principio. In tal caso, le funzioni H(£, 7) e K(c,%) vengono a contenere le va- riabili #,v solamente per differenza. Posto allora 0=/— 7, e quindi H(t,t)= (0), e K(t,x)=%y(6), le leggi ereditarie si esprimono in questo modo caratteristico: u(t)= KAZE) Î (0) F(£ — 0) d6 (8) ». F() = 4° ui) — f y(0)u((— 0) do, 10 (1) La quale fa sì che gli operatori funzionali divengono del tipo che io ho chia- mato normali [Note citate a pag. 412 (3)]; tipo del cielo chiuso, secondo il Volterra. — 415 — e il significato fisico di queste formo!e, come pure quello dei coefficienti (0), w(0), è senza difficoltà, evidente. 3. Forma effettiva delle funzioni coetticienti. — Per determinare sperimentalmente la forma di g(0), si applichi una forza F;(t) della forma che altra volta ho indicato con 1(/), e cioè che sia nulla per valori nega- tivi di , e uguale a uno per valori positivi di #. La relativa elongazione uo(t) è allora uguale a uo =1 + f 9(0) d0 (per ‘> 0). Questa vo(/), osservata sperimentalmente, ha la forma rappre- sentata nel primo diagramma della fig. 1; cioè comincia con una ordinata Fic. 1. iniziale positiva 4°, e cresce poi per tendere asintoticamente a un valor limite 43 > Ah. Derivando, si ricava la funzione $@; ed è rappresentata dal secondo diagramma della stessa figura: è una funzione positiva che dall’ori- gine in poi decresce estinguendosi asintoticamente, e con legge tale che il suo integrale Ji g(0) d6 è convergente, e uguale alla differenza 5 — h°. 0 Le esperienze lasciano incerto se la tangente iniziale della w,(t) sia verti- cale od obliqua, e quindi se la ordinata iniziale della g(/) sia finita o infi- nita ('). A prima giunta, questo sembra un elemento d'incertezza grave, ma, se l’esperienza non decide, è segno che l'elemento incerto non porta molta conseguenza; e, analiticamente, il fatto che deve comparire nei calcoli sotto il segno integrale e come coefficiente di funzione finita, lascia presu- mere che la sostituzione di una limitata a una inizialmente illimitata ma ad integrale convergente, non modifichi molto i risultati. È lo stesso (1) Alcune esperienze di Kohlrausch e di altri, sui filamenti di vetro e di argento, darebbero curve (t) di andamento prima crescente e poi decrescente, anzichè monotòne; e quindi ordinata iniziale finita. Ma sono esperienze affètte da molta incertezza. Ad ogni modo condurrò i calcoli in maniera indipendente dall'ipotesi della decrescenza monotòna. — 416 — ordine d'idee pel quale, frequentemente gli integrali (2A) e (2B) si scri- vono come presi tra limiti finiti, trascurando l'eredità dei tempi remoti. Ad ogni modo, col metodo del quale intendo fare uso, la sostituzione della vera con una € artificialmente limitata e che si annulli fuori di un inter- vallo finito, non porterebbe semplificazione importante nei calcoli; quindi lascio alle ipotesi tutta la possibile generalità suggerita dall'esperienza. Fin qui, sulla g(6). E in quanto all'andamento del nucleo coniugato y(6), per determinarlo sì può immaginare di esperimentare anche qui con una elongazione della forma 1(t). determinare la corrispondente reazione ela- stica F,(4), indi derivando e cambiando segno, ricavare la w(4). Ne risul- tano le curve della fig. 2; salvo che l’esperienza è meno agevole di quella Li ne reciproca, e quindi piuttosto concettuale che reale; in ogni caso col calcolo (e nelle Note successive indicherò un metodo facile a questo scopo) si può dalla conoscenza della ricavare quella della w, come nucleo coniugato. Si rileva facilmente che i caratteri generali della w sono del tutto analoghi a quelli già indicati per la 4; i coefficienti f, #, sono sostituiti da 4 = 7, e da kh ="); e vi è la stessa incertezza sul valore finito o infinito del- l'ordinata iniziale. 4. Trasformazione mediante il calcolo degli operatori. — Le operazioni che figurano a secondo membro delle (3) sono commutabili con la derivazione N Quindi (*) si possono applicare i teoremi che val- gono pel calcolo simbolico degli operatori funzionali (A), trattando A come se fosse un moltiplicatore. A tale scopo si deve porre (?): F(t — 0)=e " F(6) (1) Nota citata, Sul calcolo ete., parte generale. (£) Nota citata Sul calcolo ete., $ 2, art. 5. ove la formola è resa indipendente . Me ONGOnA S GA Be da ipotesi di analiticità dell’operando, purchè però la enon venga sostituita col suo sviluppo in serie, applicato termine a termine. — 417 — qualunque sia la funzione F, analitica o non analitica. E le (3) assumono la forma simbolica 6A u(t) = RF() + f " p(0) e i Rlg.do (4) Mr F()=#°4() -—J (6) e °° (1) de. Ma qui, in virtù del principio citato, è lecito di portar fuori le funzioni F(t) , u(t) dal segno integrale, pur di posporle ('). Quindi, raccogliendo i termini, si può serivere u(t) =} h° + ®(A){ FO) (5) Fd) ={4° — P(A){ 2(2) dove si è posto (6) e questi simboli ®(A), P(A), espressi sotto forma di funzioni analitiche (*) dall’operatore A, hanno significato di operatori funzionali che agiscono sulle F(:), (4) rispettivamente. 5. Uso delle formule e valutazione dei risultati. — Dalla com- parazione delle formole (5) con le (1), e dal fatto che i binomi simbo- lici a secondo membro delle (5) sono assoggettabili alle regole dell'algebra ordinaria, segue il teorema: Za risoluzione di qualunque problema di equi- librio elastico ereditario (nelle ipotesi premesse di linearità e invariabilità) st ottiene risolvendo il corrispondente problema statico non ereditario, e sostituendo nelle formole risolventi, ai singoli coefficienti di cedevolezza h° i corrispondenti binomi simbolici }h® + ®(A)}, ovvero ai reciproci coeff- cienti di rigidità k® i corrispondenti binomi } kH* — ®(A)}, e « valutando » i risultati con le regole del calcolo operativo che si applicano agli {(A) (1) « pur di posporle » perchè si conviene sempre che l’operando venga scritto dopo l'operatore. (®) Dico « funzioni analitiche » perchè se anche A anzichè un simbolo di opera- zione rappresentasse una variabile complessa, gli integrali (6) sarebbero convergenti per ogni A che avesse positiva la parte reale, e definirebbero una funzione di A, olomorfa in un semipiano, e che si può immaginare completata col suo prolungamento analitico; lo spirito del metodo sta nel poter sostituire all’integrale ogni qualunque espressione che definisca la stessa funzione analitica, perchè solamente dai punti singolari di questa dipendono le proprietà dell’operatore che da essa è simboleggiato. — 418 — în generale. Mediante questo enunciato, ogni problema statico ereditario è ridotto a un problema non ereditario, senza necessità di ricerche speciali caso per caso. Le regole di valutazione, nel caso concreto, si riassumono in quanto segue. Premettiamo che nel caso non ereditario, le incognite, in ogni riso- luzione del problema, sì ottengono espresse linearmente per mezzo di ter- mini della forma p; Fi, ovvero gi w;, dove F;,w; sono forze e spostamenti arbitrariamente dati, e ì fattori p;, 9; contengono gli 4*,%?. Si passa al problema ereditario col sostituire nelle espressioni di p;, gi agli 4°, &? i binomi simbolici che contengono A. Si ottengono allora termini pi(A) Fi(4), qi(A) vi(t), cioè in generale termini della forma (A) F(f). Per interpretare questi termini vale la formola (7) f(A) F(4) =f G(6) F(f— 6) d6, dove Il +io0 © (3) G(0) ==. fc) e°° 46 e questi sviluppi sono di regola convergenti; o sono divergenti sommabili e si traducono in convergenti coì metodi che ho indicato altra volta: p. es., ponendo f(A)= A" (A), e applicando le formole (7) (8) all'operatore fo(A), e trattando A” come una derivazione di ordine n da effettuare sul risultato. Mediante queste formole, i singoli termini dei risultati vengono espressi (per quanto interessa /) per mezzo di tre quadrature al più (!); e inoltre si ottiene il risultato diretto, senza scrivere le equazioni integrali o integro- differenziali. Ognuno di questi termini sostituisce una di quelle serie di in- tegrali di ordine illimitatamente crescente, alle quali si è invece condotti coi metodi classici di risoluzione. (') Una quadratura è quella che figura nella espressione ® o di # date dalle for- mole (6); le altre due sono quelle delle formole (7) e (8). Nelle Note successive mostrerò poi come si possano realizzare le semplificazioni ulteriori, fino a ricavare le formole atte ai calcoli aritmetici. — 419 — ‘© Matematica. — Su/l'integrale di Dirichlet. Nota della dotto- ressa ANGELA MARIA MOLINARI, presentata dal Corrispondente AL- Fronso Di LeaGE ('). 1. Le condizioni alle quali deve soddisfare una funzione di variabile reale w(x), per essere rappresentabile in serie od in integrale di Fourier, vengono precisate in quasi tutti i trattati di analisi o di fisica matema- tica (*), sotto la forma tipica di Dirichlet, od in modo poco diverso. Esse si distinguono in condizioni al finito, comuni per la serie e per l'integrale, ed in condizioni all'infinito, speciali per l'integrale. Le condizioni all'infinito furono accuratamente analizzate dal Pring- sheim (5), il quale trovò che la formulazione fino allora universalmente ac- cettata non era interamente esatta. Nuuve condizioni rigorose furono date poi, dal prof. L. Orlando (‘) e dalla sig." G. Graziani (?). Non è inutile, credo, portare qualche analoga discussione anche sulle condizioni al finito, sulla loro dimostrazione e sulla possibile loro estensione. Come è noto, esse dipendono tutte (°) dalla validità della così detta formula integrale di Dirichlet, cioè dalla seguente: l) ix (A) lim f SELE (e) de = YO) (b>0) x=% ». _@ O TEZ 8) Dun S e | a,b fissi | Infatti, presupposta in ogni caso l’'integrabilità assoluta della w(x), si con- stata facilmente che, quando la formula (A) è verificata, essa può trasfor- (1) Pervenuta all'Accademia il 12 settembre 1912. (3) Mi riferirò, in particolare, al classico trattato di Riemann e Weber, Die partiellen Differential-Gleichungen der mathematischen Physik, V ediz., vol. I (Braunschweig, 1910). (3) A. Pringsheim, Veber das Fourier*sche Integraltheorem, Jahresbericht der deut- schen Mathematikervereinigung, vol. XVI (1907), pp. 2-16. (4) L. Orlando. Suila formula integrale di Fourier, Rendiconti Lincei, ser. 5°. vol. XVII (1908), pp. 367-371; Nuove osservazioni sulla formula integrale di Fourier, ibid., vol. XVIII (1909), pp. 343-348. (6) G. Graziani, Sulla formula integrale di Fourier, Rendiconti Lincei, ser. 5%, vol. XVIII (1909), pp. 169-172; Funzioni rappresentabili con la formula integrale di Fourier, ibid., pp. 596-601. (5) Cfr. Riemann-Weber, op. cit., vol. I, $$ 18-19 e 29-34 (ovvero $$ 17-18 e 27-32 della IV ediz.), od anche EF. Picard, Zraité d’analyse, vol. I (1901), cap. IX, pp. 235-258. — 42) — marsì, senza ulteriori condizioni (salvo, ove sia il caso, quelle all'infinito), in una opportuna serie od in un integrale di Fourier, che rappresenti w(+ 0); e reciprocamente. Ne segue, se si prende per origine un punto x, qualunque, che le condizioni necessarie e sufficienti al finito, perchè gli sviluppi di Fourier siano validi in quel punto e rappresentino il valore vae=0) +2, +0) 2 quando esso esiste, si riducono alla validità della formula di Dirichlet a destra e a sinistra di detto punto. Si tratta dunque di precisare le condizioni di validità della formula (A). La dimostrazione classica procede per gradi: si passa da una funzione y(x) limitata e monotona, ad una funzione illimitata, ma integrabile, ge- neralizzando poi, il risultato al caso in cui la funzione sia monotona a tratti ed integrabile. Per condurre questa dimostrazione vi sono due metodi: a) quello ori- ginale di Dirichlet (*), che consiste nel suddividere l'integrale in tanti inte- grali, corrispondenti rispettivamente ai tratti dove sen 4x è positiva e a quelli dove è negativa; 2) quello di Ossian Bonnet, Du Bois Reymond, e CO. Neumann, che si fonda sull’applicazione del secondo teorema della media. Il secondo metodo è forse il più elementare: una forma tipica di di- mostrazione, fatta con questo metodo, è appunto esposta nel Riemann-Weber. A prima vista però, non apparisce evidente il rigore di tutti i passaggi ivi effettuati. essendo necessario un continuo richiamo ai lemmi preliminari o ad altri equivalenti, per accertare la legittimità di tutte le inversioni di passaggi al limite che intervengono nei calcoli. Si può anche osservare che ad un certo punto (*?) vi è una condizione sovrabbondante; si asserisce in- fatti, che la funzione y(z) nell'intorno a sinistra di un punto di infinito conserva segno costante; ora di questa condizione (che nel caso particolare è soddisfatta) non si fa uso nella dimostrazione, ed essa rimane, restrizione non necessaria, 0 limitare le successive generalizzazioni. Conviene quindi cer- care di rivedere tutto il processo deduttivo, e rimuovere queste difficoltà Mi permetto qui di esporre una dimostrazione, non diversa nella sostanza, ma ridotta a forma che mi sembra molto semplice ed esente dalle dette obiezioni, e che si presta quindi alla generalizzazione che ne farò in seguito. Come premessa, in luogo dei lemmi (1), (I), (II) del Riemann-Weber (S 16 della V ediz., ovvero $ 15 della IV ediz.) mi valgo solamente della formula ° sen 6 TT 0o= — n) i no dg=3, (') Questo è il metodo seguìto dal Picard, loc. cit., e dal Goursat, Cours d’analyse mathématique, tomo I (1902), cap. IX, 196, pp. 464-472. (°) Riemann-Weber, loc. cit, $ 17, pag. 40 (ovvero $ 16, pag. 35 della IV ediz.). — 421 — che suppongo nota dal calcolo, e da questa formula, senza lemmi intermedî ricavo ogni ulteriore conseguenza. 2. Sia w(x) una funzione limitata e monotona, nell'intervallo (0, 5); queste condizioni portano con sè, come è noto, la numerabilità dei punti di discontinuità e quindi l’integrabilità riemanniana, e l’esistenza del valor limite w(+- 0). Scriviamo: VI (0) f sente 1a) da Î » sen Àx NOIE i: = i RI 0 X ed applichiamo, ai due termini del secondo membro, il secondo teorema della media; avremo: b À sen 7 (Sie ue) de= (+0) f ELE de (1-9 ( ire(i4o) fesa dove È sarà un opportuno valore intermedio fra 0 e I 1. e similmente, À Se poniamo, nella formula precedente, Zx = 0, e raggruppiamo conve- nientemente gli integrali, otterremo: b sen Zx a sen @ SEE vde=v+0 f 10+ +e (/i-0)- ve ](.° né, Loi sen 0 > W+y0—0) (5 sen 6 | Col tendere di 4 all’ oo, il primo termine del secondo membro tende verso È un opportuno valore compreso fra ] i 1 ed. Paz 0). Nel secondo termine, l’espressione fra parentesi quadra tende a ReENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 55 zero, e l'integrale che la moltiplica, comunque & possa variare fra 0 e Vv, 1 sen 0 essendo un integrale della forma J d0, resta compreso fra limiti p finiti [altrimenti l'integrale (1) non sarebbe convergente]. Gli altri due X sen 6 > sen @ NERO STOROA, SE) 6 dé e SR 4, sono integrali singolari [criterio di Cauchy applicato alla convergenza della (1)] e quindi tendono a zero. Si ricava dunque la formula: integrali, b (A) Tia Î sen Àa IT st wr” yW(x) dai 9 Y(4 0). In quanto alla (B), si può ottenerla, sia come conseguenza della for- mula (A), sia direttamente con un processo analogo a quello seguito per dimostrare l'annullarsi dei precedenti integrali. Anzi, di qui si vede che la (B) resta ancora valida se, invece di un limite inferiore 4 fisso, poniamo un limite variabile in funzione di 4, purchè, col tendere di questo limite a zero, il prodotto 44 tenda all'oo insieme con 4. 3. Le generalizzazioni che si fanno nelle trattazioni classiche, sono quelle che seguono: a) w(x) invece di essere limitata, divenga infinita al limite supe- riore d, purchè ivi il suo integrale resti convergente; 5) w(x) nell'intervallo (0,5) abbia un numero finito di punti di infinito, purchè fra un punto di infinito e l’altro sia monotona e resti con- vergente; c) W(x) sia tale che l'intervallo (0, è) si possa dividere in un nu- mero finito di intervalli, in ciascuno dei quali essa soddisfi alle condizioni precedenti (che, è bene osservare, portano di conseguenza l'integrabilità assoluta su tutto l'intervallo). Queste condizioni hanno l'inconveniente di non essere chiuse, nel senso che, per combinazione lineare di funzioni che soddisfino alle condizioni c), si ottenga una funzione che vi soddisfi. È facile, infatti, ottenere, per sem- plice somma di due funzioni che soddisfino a c), una funzione con un nu- mero infinito di massimi e minimi, e che pure verifica la formula di Dirich- let, perchè le operazioni di limiti e di integrali sono distributive. Per quanto sia difficile dare condizioni necessarie, si può proporre il problema di ottenere condizioni che, pur essendo soltanto sufficienti, siano almeno chiuse, nel senso sopra indicato. Una risoluzione di questo problema si ottiene considerando la classe delle funzioni a variazione limitata (con- dizione di Jordan); una qualunque di queste funzioni, può sempre decom- porsi in due altre monotone e limitate, e quindi verifica le formule (A) — 423 — e (B); per combinazione lineare di funzioni a variazione limitata, si otten- gono ancora funzioni a variazione limitata, dunque la condizione di Jordan ha il vantaggio di essere chiusa. Ma, mentre da un certo punto di vista è più generale di quelle di Dirichlet, da un altro punto è meno generale, perchè esclude le funzioni illimitate. 4. Senza entrare nella discussione di condizioni che hanno carattere meno elementare, come quelle di Lipschitz, di Dini, di Lebesgue, etc., mi propongo di far seguire, alla dimostrazione che ho dato per le funzioni li- mitate e monotone, una generalizzazione che conduce immediatamente a un esteso gruppo di funzioni. Questo gruppo comprende, come caso particolare, le funzioni di Dirichlet, e quelle di Jordan, ed ha la proprietà di essere chiuso rispetto a qualunque operazione di somma, sottrazione o combina- zione lineare. Pongo le seguenti condizioni: I. w(x) sia assolutamente integrabile (*) nell'intervallo (0, 6); II. (x) sia a variazione limitata in un intervallo finito (0, @), ciò che porta come conseguenza l’esistenza di w(+ 0); III. ogni altro punto di (0,d) sia interno a qualche intervallo, non nullo, entro il quale la funzione sia pure a variazione limitata; faccia però eccezione un insieme di punti (necessariamente chiuso) che chiameremo irregolari, e questo insieme abbia misura nulla nel senso di Jordan. Una funzione siffatta si potrà chiamare 4 variazione limitata in gene- rale; resta inteso che nei punti irregolari la funzione può avere qualunque tipo di discontinuità, purchè sia assolutamente integrabile. Voglio dimostrare che la funzione y(x), così definita, verifica l’inte- grale di Dirichlet. Per provarlo osserviamo che, in virtù delle ipotesi fatte e di teoremi noti, dato s piccolo a piacere, è sempre possibile racchiudere quei punti irregolari, in un insieme 0, composto di un numero finito di segmenti, la cui somma sia < « e la cui minima distanza dal punto x=0 sia finita. Dicendo allora X l'insieme residuo, questo risulta composto di un numero finito di intervalli finiti, nei quali la funzione w è a variazione limitata. a Indichiamo ora con I un integrale preso fra 0 e è, e nel quale, invece (494 di w, figuri una funzione eguale a w nei punti di X e nulla nei punti di 0, cioè una funzione che è ancora a variazione limitata nonostante i salti arti- (1) Per la validità della dimostrazione basterebbe che questa integrabilità fosse nel senso di Lebesgue, ma le condizioni successive sono tali che portano di conseguenza la . misura nulla (nel senso di Lebesgue) dell'insieme dei punti di discontinuità, e quindi l’integrabilità riemanniana. — 424 — ficiali introdotti, che sono finiti ed in numero finito. Similmente indichiamo con Î un integrale consimile esteso all'insieme complementare 0. Vo Potremo allora scrivere: (@) lim fon SIN r) de = lim feenE ua) )de + X=% X=0%0 È + lim (Ferla y() dr. \=% «/6 Il primo limite a secondo membro è =" w(-+ 0), perchè per esso vale la condizione di Jordan e perchè il punto x =0 appartiene all’insieme È. Quanto al secondo termine, poichè vale la relazione en 4a sen 47 % [Lle y(7) da |a,| étant convergente, les constantes @ et d étant 0 et 27. Pour 4= i 200 peut prendre gi(a)= cos 2x gpe(a) = 084. On a w.(a)=a cosa = P(£) wr(4) —i)h A est réduit è zéro. 5. Nous allons signaler, sans demonstrations, des cas importants où A n'est certainement pas nul. Il est facile de montrer que, si A= 0, on peut former une fonction /(x) qui est une combinaison linéaire des fonctions i(x) et qui possède les pro- priétés suivantes : Ji K(x5) h(s) ds 0 fE09 h(s) ds =08 — 423 — K;(xy) étant la fonction K;(27) = fk(en) K(uy) du. Si donc on est sur qu'il n'eriste aucune fonction /(z) possédant cette pro- priété, on peut affirmer que A n'est pas nul. C'est ce qui arrive quand K(xy) est symétrique, lorsque K(xy) est fermé, ou encore lorsque K(xy) est la somme d'un nombre fini, ou d'une série régulierement convergente en x et en y de parties de noyau relatives à un pòle du noyau résolvant. 6. Supposons A nul. Nous transformerons alors les fonctions g;(4) par le noyau K.(z4) = {ks K(uy) du. On obtient les fonctions: hi(e)= 4° {29 gpi(s) ds=anWt + dig pour i = 9, et hj(x)=0 pour j > q. Puisque A est nul, les fonctions #(x) non nulles ne sont pas linéairement independantes. On peut alors, par une transformation convenable sur les g;(@), augmenter le nombre des fonctions /(x) nulles. Si le nouveau déterminant analogue à A est alors encore nul, on rem- placera K.(29) par K,(zy); et ainsi de suite. Il y a donc un noyau itéré de K(xy) pour lequel les formules (6) sont vraies quand on remplace K(xy) par ce noyau itéré. 7. Placons-nous dans le cas où les formules (6) sont applicables. On voit que @;(7), ga+:(£)... sont des solutions d’équations sans second membre, de noyau K(xy). Donc, si toutes les fonctions w ne sont pas nulles, il y a au moins une des solutions fondamentales de N(xy) correspondant à la constante 4, qui est aussi solution fondamentale de K(xy). Les autres fonetions — :(4), 4a(x) par eremple — sont des fonctions SUE ) « principales » de K(xy) correspondant à la constante caractéristique 3 de K(cy) (*). Ò Ò À A . , 7 On sait que si 3 est un pòle simple du noyau résolvant de K(x7), 1 les fonetions principales :(x)... ga(x) ne sauraient exister. Si le noyau ré- (1) Goursat, Annales de la Facnlté de Toulouse, 1908. — 429 — solvant du noyau K(xy) n'a que des pòles simples, les formules (6) prennent nécessairement la forme \ Yi(2)=s1 id), We) = sr 92)... Wa) = sq Pa(2) ) daa(£)= 0... (0) =0. Ces formules seront toujours valables lorsque K(xy) est symétrique. Si N(xy) et K(xy) sont symetriques, il est facile de voir que l'on peut s'arranger pour que (7) VA i MN zero (sii Surte)gito de=| 1° SEE sans modifier les formules (7). 8. Soient K(xy) et 4(xy) deux noyaux symétriques permutables. Posons N(xy) = (Kw) q(5y) ds . Soit g(@)... p(x)... un système de solutions fondamentales de K(xy). On designera par 4, la constante caractéristique à laquelle correspond %,(4). D'après le théorème de Hilbert-Schmidt {K(es) g(sy)ds= > an(4)- Pu), cette série étant résulierement convergente en x. D'après ce qui précède on a pu choisir le @,(x) de manière è avoir: ou bien H [ETTI A. Uu, etant une constante caractéristique de g(27), ou bier Ser g9=0. an) = f f pu(2) K(xs) g(50) ds da dn(4) = Se) ‘ {Kl) (x) dx ds ds n On a donc: ou bien Il An(4) —= n Un @n(4) ; RENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 56 — 430 — ou bien an) 0 On arrive à la formule N(29) = [ke g(sy) ds = SI Pn(C) Prl4) Àn Un Cette série ne contenant pas nécéssairement toutes les fonctions g,(x), certains termes peuvent ètre remplacés par zéro. Cette série régulierment convergente en x, l'est aussi en y par symétrie. Il résulte de ce calcul, que la fonction N(xy), produit de deux fonctions symétriques permutables, n'est pas quelconque: son « déterminant » D(4), de M" Fredholm, est de genre zéro. On peut aussi dire que l'ensemble de ses solutions fondamentales coéincide avec les solutions fondamentales communes à K(xg) et g(27). 10. Cherchons à former la fonction 9(2y), connaissant N(xy) et K(x7). Le problème n’'admet pas toujours des solutions. Les deux fonctions permutables syraétriques N(xy) et K(zy) doivent verifier les conditions sui- vantes: Il existe un système de solutions fondamentales de N(xy) qui sont aussi solutions fondamentales de K(xg). Si g,(x) est l’une de ces solutions nous désignerons par 4, n, n les constantes caractéristiques quì lui correspondent pour les fonctions K(27), g(2y), N(xy). La série a doit converger. Yn Comme on aura Un=3 converge. n il faut aussi que ) —_- n, Nous allons montrer que ces conditions sont suffisantes: Si g(x7) existe elle a pour solutions fondamentales les fonctions ,(x) correspondant aux constantes &,. Un théorème de M" Lauricella (*) montre qu'il existe une série de la forme: Rey) — Y Q(09). avec uniformément convergente en x et y, sauf pour un ensemble de valeurs de x et de y de mesure superficielle nulle. De plus, cette fonction a pour con- (1) Lauricella, Atti Lincei, 18 juin 1911. — 481 — stantes caractéristiques les nombres wu, et pour fonctions fondamentales les @,(). Cette série est évidemment permutable avec K(xy) et N(xy) car chaque terme possède cette propriété. Son produit symbolique avec K(xy) admet comme solutions fondamentales les g,(x) et ces fonctions seulement, avec comme constantes y, = Àn Un. Ce produit symbolique, d'après un théorème de M" Lauricella est donc égalà N(ey). R(xy) est donc une solution. Ce n'est pas la seule en général. On obtient toutes les solutions en ajoutant à R(y) un noyau quelconque or- thogonal è K(7). Fisica. — GU sforza interni nei corpi ferromagnetici posti nel.campo magnetico. Nota II preliminare di F. ProLa e L. TIERI('), presentata dal Socio P. BLASERNA (°). 10. Due rocchettini, disposti ad angolo retto fra loro e normali al fascio | catodico di un tubo di Braun, traversati dalle due correnti Ni MO Ned: = (0h producenti rispettivamente il campo e la forza esterna, davano il modo di apprezzare la forma F (2 , 0) = 0 di una delle correnti rispetto all'altra. Allorchè i due circuiti non abbracciavano ferro, la curva risultante F = 0 era, in generale, una elisse che diveniva un segmento rettilineo uguagliando le due costanti di tempo Hi Se nel campo abbracciato da uno dei circuiti si introduceva ferro, la curva veniva a modificarsi, assumendo la nota forma dipendente dall’ isteresi. 11. Un fascio luminoso, proveniente da un forellino illuminato da una lampada ad arco, riflesso dallo specchietto concavo applicato alla leva, veniva raccolto, dopo aver traversato una lente convergente, sopra uno specchio rotante. Senza campo e senza forza si vedeva nello specchio rotante una striscia luminosa rettilinea. Mandando la corrente nella sola elica magnetizzante, cioè facendo agire la sola lesione prodotta dal campo, si osservava una curva periodica spo- stata in tal senso da indicare un accorciamento costante del filo, unito alla periodica variazione di lunghezza. (1) Al Piola è dovuta la parte generale ed il metodo di ricerca, al Tieri la parte sperimentale. (®) Pervenuta all'Accademia il 30 agosto 1912. — 432 — Facendo invece che i soli rocchetti fossero in circuito, ossia che agisse la sola trazione esterna, si osservava una curva analoga alla precedente ma spostata in senso opposto, indicante cioè un allungamento permanente sovrap- posto alla variazione periodica di lunghezza, come s'era preveduto. Chiudendo infine le due derivazioni si otteneva l’effetto risultante delle due azioni distinte e, regolando le cose, si riusciva facilmente ad avere il compenso delle variazioni periodiche, senza però ottenere contemporaneamente quello delle permanenti: ossia si riusciva ad osservare nello specchio la striscia luminosa rettilinea, come quando non agiva nè campo, nè trazione, ma spo- stata parallelamente nel senso nel quale lo era col solo campo, però di un intervallo molto minore. Mettendo al posto dello specchio rotante un cilindro, mantenuto in rota- zione da un sistema di orologeria, e ricoperto da una pellicola sensibile, si potevano fotografare le curve. Queste, delle quali la figura ci mostra una serie, vengono ad esprimerci la lunghezza del filo in funzione del tempo quando agisce rispettivamente il solo campo magnetico (curva I), o la sola trazione estranea (curva II), o campo e trazione (curva III), compensandosi gli effetti periodici loro. Esse sono state eseguite mentre il campo variava fra = 31 gauss eSla forza esterna massima equivaleva alla aggiunta di un carico di 65 gr. pari a 16,5 megadine per cm.° del filo di nikel. OSSERVAZIONI. a) Quando si era raggiunto il compenso, la figura disegnata sullo schermo del tubo di Braun appariva senza area. È da notare che l’area poteva essere distintamente osservata — come abbiamo provato con misure dirette — per una differenza di fase inferiore a 2°, esistente fra due correnti sinu- soidali circolanti dei 2 rocchetti del tubo di Braun. — 433 — 5) Il compenso allo specchio e la sparizione dell’area nel tubo di Braun si ottenevano regolando resistenza ed auto dei due circuiti ed intro- ducendo qualche filo di ferro in quello che produceva il campo. Questa presenza di ferro veniva ad alterare la forma di una delle cor- renti — ed il tubo di Braun ce ne avvertiva —; ma le alterazioni di forma erano così piccole da far ritenere che il ferro agisse solo in quanto modi- ficava la costante di tempo nel circuito nel quale era posto. Della qual cosa ci convinceva specialmente il fatto che il ferro era introdotto nel circuito del campo (mentre, caso mai, avrebbe dovuto alterarsi la forma della cor- rente producente la trazione), e che la costante di tempo del primo circuito era — calcolata senza ferro — notevolmente inferiore a quella del secondo. In ogni modo, in future esperienze vedremo se ci sarà possibile di bandire com- pletamente il ferro; e, se non ci sarà possibile, analizzeremo la curva della corrente da esso modificata. c) La curva risultante non è rigorosamente una retta. Gli scarti, però, dalla forma retttilinea, sono piccolissimi rispetto alla ampiezza delle 2 curve componenti. Tali scarti possono anche essere imputabili alle vibrazioni del- l'intiero apparecchio che — va notato — era tutto fissato ad un sopporto di legno. d) La forma della curva II (e notiamo che nel circuito corrispon- dente non vi era ferro) non è quella che avevamo preveduta nella equa- zione (6): infatti, mentre avrebbe dovuto essere una sinusoide, qui facilmente troviamo che coesiste in essa anche un'armonica, e precisamente la 33. Ma ricordiamoci che una delle ipotesi fatte per porre la (4), dalla quale abbiamo ricavato la (6), era che le variazioni nella lunghezza fossero proporzionali alla forza che le produceva. Ora appunto questa ipotesi non è vera, poichè noi siamo nelle condizioni nelle quali, ron solo manca la proporzionalità, ma è sensibile anche la isteresi elastica: è ciò che introduce l’armonica. e) Le due curve componenti hanno inoltre forma differente fra loro. Alla fondamentale è sovrapposta (anche nella I, come abbiamo visto nella II) la 3% armonia, ma in differente fase: ciò sta ad indicare la legge differente colla quale varia la lunghezza del filo quando la forza è applicata ad un estremo, o quando essa è distribuita in tutta la lunghezza del filo per azione del campo magnetico. La differenza nella legge di variazione era prevedibile, poichè erano note le differenti forme che presentano i cicli magnetoelastico ed elastico, pur essendo ambedue simmetrici rispetto all'asse delle lunghezze e presentando ambedue area. Tali cicli, oltre ad essere stati determinati per punti, coi soliti procedimenti statici, furono da noi riprodotti con moto con- tinuo, facendo riflettere il fascio luminoso, uscente dallo specchio della leva, dallo specchietto di un ordinario galvanometro D'Arsonval il cui telaio veniva percorso da una terza derivazione presa sulla stessa rete che alimentava campo e forza: nel lavoro definitivo riprodurremo le fotografie di questi cicli. — 434 — f) Si presenta l'osservazione come mai modificazioni di lunghezza, producentisi con leggi tanto diverse, possano compensarsi: ma è chiaro che, poichè le differenze sono nelle variazioni di lunghezza del filo, non è più il caso di parlare di esse quando il filo rimane di lunghezza costante. g) Sarebbe molto interessante vedere come la magnetizzazione ciclica del nikel, prodotta dai cicli alternati, venga modificata allorchè la trazione esterna venga a compensare la parte periodica della tensione interna. Ci pro- poniamo di disporre in seguito le cose per raggiungere anche questo fine. DETERMINAZIONE DELLA TENSIONE INTERNA. 12. Abbiamo trovato (coll’osservazione contemporanea al tubo di Braun ed allo specchio rotante) che il filo di nikel conserva inalterata la sua lun- ghezza, salvo un accorciamento costante, quando ]a corrente che produce il campo ha la stessa forma e la stessa fase di quella mediante la quale è applicata la trazione esterna. Questo risultato sperimentale è giustificato, se si ammette che /a fex- stone generata nel nikel dal campo magnetico, parallelamente alle linee di forza, sia data da: (11) —H°, dove H è il campo magnetico, ed a un coefficiente numerico costante. Infatti, ammessa la (11), poichè nel nostro caso è H=Hs;sen wt, avremo che la forza interna, tendente ad accorciare il filo di sezione s, sarà F,=sa Hî seno = 4 saHij 1 — cos 2 vt} e l’azione risultante, quando sarà applicata la forza esterna data dalla (9) ed in opposizione alla precedente, sarà: r B (12) F, —F!=4(sa Hg — Fs) — 4 (sa Hi pFo) cos 20 = K' =p—-qc08208, avendo trascurato g', come nel nostro caso ($ 9) era legittimo fare. Se DI 2g = sa Hî K 1° =0, da cuì _B Fo (13) aEFGHi' la parte periodica sarà costantemente nulla, come è nei nostri esperimenti. — 435 — Questo annullamento non porterà necessariamente con sè anche quello della parte costante, la quale darà luogo ad una diminuizione: Ba (14) p=s(aBimh)=1(2-1)F del carico applicato al filo, diminuzione che, alla sua volta, porterà l’'accor- ciamento costante appunto osservato ($ li) quando si aveva il compenso delle modificazioni periodiche. : La (13) ci permetterà di determinare il valore del coefficiente nume- rico 4, poichè conosciamo, od abbiamo il modo di calcolare, i varî suoi fat- B! K' c per la (7), trascurando lo smorzamento A. si riduce al valore assoluto di ROROd e l'incertezza proviene da B' per la forma non molto semplice della sospensione di alluminio. Ma da un calcolo approssimato relativo all’ap- parecchio, prendendo per modulo di elasticità dell'alluminio 72.10!°, abbiamo Bo db. B'—=14.40?M, da cui K 713 0 valore assoluto, e, per questo valore di B', variazioni in più od in meno anche del 20°/ in questo elemento r non producono diminuzioni od aumenti di g7 39 non rispettivamente infe- tori. L'unica incertezza che abbiamo è nella determinazione di he, rlori al 1,3°/ ed al 2°/, per cui sul valore di a non verranno molto a influire. F In tal modo, ricordando ($ 11) che nm 16,5.10° dine per cm?, e che F,= 81 9gauss, otteniamo: a= 18 600. Dalla (14) la diminuzione costante di carico risulta: p= 2450 dine, mentre la parte costante della forza dovuta alla tensione interna è di: Z sa Hj = 384300 dine e quella corrispondente alla trazione esterna è di: 5 — 31850 dine. È notevole il rilevante valore della tensione interna generata dal campo magnetico nel nikel, come mette in evidenza la (11) nella quale si introduca — 436 — il valore di 4 qui trovato. La entità delle forze che, come si accennava al $ 6, si trovano in gioco in questo fenomeno fa pensare a possibili appli- cazioni nelle quali questa interessi e non importi la piccolezza degli spo- stamenti. CONFRONTO DEL RISULTATO SPERIMENTALE CON QUELLO TEORICO. 13. Il risultato ottenuto, cioè che /a tensione longitudinale nel nikel è proporzionale al quadrato del campo magnetico nel quale questo corpo è posto, non coincide con quanto poteva prevedersi dalle concezioni del Maxwell, e che nelle condizioni dei nostri esperimenti pur si avrebbe atteso di ritro- vare. Infatti, per il Maxwell, la tensione longitudinale, trascurando la com- ponente dovuta alla pressione idrostatica (cioè, nelle equazioni (1), # H in confronto di B) avrebbe dovuto essere proporzionale al prodotto del campo per la induzione e questo ci avrebbe portati molto lontani da quanto le esperienze ci dicono. Poichè, ammesso come prima approssimazione, come ordinariamente è fatto in elettrotecnica, che la induzione possa esprimersi come funzione sì- nusoidale del tempo, ma sfasata sul campo, cioè che se il campo è: H=H;sen ot, l’induzione sia: B= © sen(wf— a), la tensione verrebbe proporzionale a: T=H,% sen wf sen(wf — @) =+4 Ho, }cosa — cos(2 01 + a). ossia a: T-m+nsen(01+5): 0 ò . . a e quindi la corrente che produce il campo dovrebbe essere sfasata di 9 SU quella che produce la trazione esterna. ° no +. ; 7 Ora, per farci un'idea della grandezza di -, senza aver bisogno di co- noscere le unità nelle quali sono espressi >, ed Ho (e per DB, effettivamente non le conosciamo) potremo notare che, data la forma ammessa per l’indu- zione, la energia dissipata in un ciclo è espressa da È glo , sen a (15) Da — 437 — e che, d’altra parte, la legge di Hopkinson, corretta mediante il fattore 1, ricavato da noi direttamente dal confronto coll'area abbracciata dal ciclo magnetico, dà: 1 (16) E= 7 Ho, dove con H, si è indicato il campo coercitivo. Dal confronto delle (15) e (16) risulta subito: sena = Do H; st H, e, nel nostro caso pel quale si ha H,= 31 gauss ed H, = 8 gauss, deter- minato quest'ultimo sui cicli statici, è quindi : sena = 0,302, e però: a= 170,40. Lo sfasamento adunque, fra la corrente che dà il campo e quella che dà la forza esterna. dovrebbe essere dell'ordine di 9°, mentre col tubo di Braun abbiamo trovato che, di fatto, era inferiore a 2°. 14. Trovato che la tensione longitudinale non è, nelle nostre esperienze, quale è preveduta dalla teoria del Maxwell, esaminiamo se l'accordo sussista colla teoria di Kirchhoff. Dalle (2), tenendo conto nella tensione longitudinale anche della com- ponente dovuta alla pressione idrostatica, abbiamo: pi So e ci iL T=T-P=H9-;@&_#)H°= Ora, dai valori di %' e £#” calcolati da Nagaoka ed Honda ('), servendosi delle formule ricavate dalla teoria del Kirchhoff, risulta che, per campi inferiori a 40 gauss, (4” — £')H supera sempre 300.000, così che il 1° ter- mine è sempre trascurabile rispetto al 2° e sì può quindi ritenere la ten- sione proporzionale al quadrato del campo. Senonchè la proporzionalità non è che apparente, se poniamo per £"— %' i valori trovati dai fisici sopra citati, poichè tale differenza risulta funzione del campo avendosi per: H= 5 10 20 30 40 rispettivamente k"— k'= 61330 47170 32510 23850 19780. (1) Phil. Mag. 1898, S. V, vol. 46°, pag. 261. RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 57 — 438 — Ma le condizioni delle nostre esperienze sono troppo differenti da quelle di Nagaoka ed Honda — poichè, mentre essi lasciano liberamente dilatare il filo, noi lo costringiamo a mantenere invariata la sua lunghezza — per potere accettare senz'altro i loro coefficienti. È perfettamente ovvio anzi rite- nere che, poichè nelle nostre condizioni la lunghezza del filo non varia, non varii nemmeno il valore di 4" — Z' che da essa principalmente dipende. Il risultato adunque delle nostre esperienze preliminari, fatte coll’ in- tento di ricercar quale fosse la tensione longitudinale generata nel nikel dal campo magnetico, e che ci porta a concludere che questa tensione è pro- porzionale al quadrato del campo, può ritenersi rientrare nella teoria del Kirchhoff. Chimica. — Soluzioni solide fra alogenuri di uno stesso elemento (‘). Nota I di G. B. BeRNARDIS, presentata dal Corrisp. ACGRIURIA( Allo scopo di contribuire allo studio delle relazioni d'’affinità esistenti fra gli alogenuri di uno stesso elemento, studio a cui hanno già contribuito, fra le altre, le esperienze di Monkemeyer (1) (N. Jahrb. f. Mineral.-Beilageband 22, 1-47, 1906) sugli alogenuri d'argento, di piombo, rame e tellurio;, di Reinders (2) (Zeitschrift f. physik. Chemie, 32, 1900, pag. 494) sul bromuro e ioduro di mercurio ; di W. Plato (3) (Z. f. physik Ch., 58, 350-372) su quelli di alcuni metalli alcalini e alcalino-terrosi; di Padoa e Tribaldi (questi Ren- diconti, /2, II, 158-66) fra cloruro e ioduro mercurico; di Ruff e Plato (Berichte der Deutsche Chem. Gesell., 36, 2357) pure suì composti alcalini ed alcalino-terrosi, e di Sandonnini (questi Rendiconti, 20, 1°, 172) sugli ‘ alogenuri di piombo, ho creduto interessante istituire una serie di ricerche sul comportamento che manifestano fra loro gli alogenuri del bismuto, an- timonio, arsenico e fosforo, nel separarsi dalle loro miscele binarie fuse. Impiegai a tale scopo il metodo dell'analisi termica che in questo ge- nere di ricerche dà buoni risultati. Le sostanze vennero da me preparate in laboratorio, partendo dagli ele- menti puri forniti dalla ditta A. Kahlbaum di Berlino. Anzitutto, furono spe- rimentati i sistemi binari: Sb Cl;-Sb Br;; Sb Brs-SbI,; ed Sb Cl;-Sb I, di cui tratto nella presente Nota. Il tricloruro d'antimonio fu preparato secondo il metodo di Hensgen (Rec. trav. chim. Pays Bas, /0, 301; C. B. 1891, 1°, 859) facendo passare una corrente di cloro puro e secco sopra dell'antimonio in pezzi, e distil- (') Lavoro eseguito nell’Istituto di Chimica farmaceutica e tossicologica della R. Università di Napoli. (*) Pervenuta all'Accademia il 23 agosto 1912. — 439 — lando il miscuglio di Sb Cl; ed SbCI; così ottenuto con dell’antimonio in polvere. Il tricloruro purificato per ripetuta distillazione in corrente di CO, sì presenta in massa cristallina incolora igroscopica fondente a 72°, punto di fusione concordante a quello trovato da Capitaine (J. prakt. Chem. 28, 1839, 449; J. Pharm. 25, 1839, 516) e un po’ inferiore a quello dato da Kopp, 73°,2 (Ann., 95, 1855, 348). Jl tribromuro di antimonio fu ottenuto aggiungendo alla soluzione di una quantità calcolata di bromo in solfuro di carbonio, a piccole porzioni e raffreddando dell’antimonio finemente polverizzato, in piccolo eccesso fino a scomparsa della colorazione rossa. Evaporata la soluzione, il tribromuro venne purificato in correnti di CO, (Cooke, Proc. Am. Acad., 13, 52 e 85; J. B., 1877, 284; Ber., 13, 1880, 951). Il punto di fusione coincide con quello trovato da Cooke, cioè 93°, Mac Ivor (Chem. N. 29, 179) e Kopp (Ann., 95, 1855, 352) lo trovarono corrispondente a 90°. Il trijoduro d’antimonio venne preparato analogamente al tribromuro ag- giungendo ad una soluzione di iodio in solfuro di carbonio, mantenuta a leg- gera ebollizione, dell’antimonio polverizzato fino a scomparsa della colora- . zione violetta, e cristallizzando dal solfuro di carbonio il trijoduro formatosi (Nickels, J. Pharm. [3] 4/7, 147). Il suo punto di fusione è a 165°, Cooke ‘e Mac Ivor lo dànno rispettivamente a 167° e 164°,4; Quercigh lo trovò pure a 165° (Rendic. Accad. Lincei XXI, 1°, 791). Quantità complessive di circa 8 gr. di miscela vennero posti accurata- mente a fusione completa in comuni provette di vetro, poste in bagno di sabbia, in modo che questa formasse tutto all’intorno uuo strato di cm. 0,5 di spessore. Durante il raffreddamento furono fatte di 10 in 10 secondi le letture delle temperature, misurate con un termometro a mercurio esattamente controllato e diviso in mezzi gradi. Sistema Sb Cl3 — Sb Br;. Le miscele appartenenti a questo sistema presentano tutte un intervallo di cristallizzazione non molto ampio. Le temperature di cristallizzazione ini- ziale variano col variare delle concentrazioni da quelle dei componenti puri a quella di 54°. Tutte subiscono delle soprafusioni considerevoli che rag- giungono ì 20°, la semina di cristallini serve ottimamente ad evitare il fenomeno. Le masse solidificate si presentano cristalline, d'aspetto omogeneo, in- colore, deliquescenti ed alterabili all'aria. La tabella I riassume i dati che sì riferiscono a questo sistema e la fig. 1 ne rappresenta il diagramma tem- peratura-concentrazione. Come si vede, il cloruro ed il bromuro di antimonio formano una serie ininterrotta di cristalli misti, con un minimo alla concentrazione di circa — 440 — 30° di Sb Cl. Non può nascere il dubbio che per concentrazioni corrispon- denti alla parte centrale del diagramma, si possa avere una lacuna nella miscibilità, poichè in tal caso si dovrebbe avere, alla fine della cristallizza- zione, un arresto di temperatura (che specialmente per tali concentrazioni dovrebbe essere ben netto) in corrispondenza della formazione dell'equilibrio invariante. Il diagramma di stato corrisponde quindi al tipo III di Roozeboom. La minima temperatura a cui possono coesistere la fase solida e la fase liquida è di 54°. Sistema Sh Br — Sb Ig . Analogo a quello presentato dal sistema precedente, è il comportamento del sistema formato dall’ Sb Bra coll’ SbI,. Anche qui si ha formazione di cristalli misti in tutti i rapporti, come si vede dai dati riportati nella ta- bella II e rappresentati graficamente nel diagramma della fig. 2. L'intervallo di cristallizzazione è anche in questo caso breve. il minimo della curva si ha alla concentrazione dell’ 85 °/, circa di Sh Brz ed alla tem- peratura di 84°. Le soprafusioni sono in questo caso meno frequenti, e fa- cilmente ovviabili; l'aspetto delle masse solidificate è cristallino, il colore rosso, che aumenta d'intensità col crescere del tenore in trijoduro contenu- tovi. Le masse solide lasciate all'aria si alterano. Sistema Sb Cl, — SbI;. Alcune delle miscele appartenenti a questo sistema e precisamente quelle comprese fra le concentrazioni 100 e 50 °/, di SbC]; presentano, durante il raffreddamento, dapprima un rallentamento nella velocità con cui questo si effettua, poi un arresto eutectico, quelle comprese fra il 50 e il 100 di Sb Iz presentano solo un rallentamento in corrispondenza all’inizio della cri- stallizzazione. I dati ottenuti sono riportati nella tabella III e rappresentati come il solito nella fig. 3 e dimostrano che l' SbI, e l' Sb Cl; formano cristalli misti con lacuna. Come si vede anche dall'esame delle durate eutettiche, da mi- scele aventi concentrazioni comprese tra 55 °/, e 100 di Sbl, si separano soluzioni solide di Sb Cl; ed SbIz, nell'intervallo compreso tra 55 e 18 °/ di SbI; cristallizzano dapprima soluzioni solide di Sb Clz ir SbIz, le quali coll'abbassarsi della temperatura s' impoveriscono gradatamente di Sb Cl],, dimodochè alla temperatura eutectica ne sono affatto prive, e s' inizia la cristallizzazione dell’ Sb Cl; puro, contemporaneamente a quella dell’ Sb 13 rimasto nella fase liquida. Da miscele comprese fra 82 e 100 di Sb Cl]; si ha la cristallizzazione iniziale di questo componente fino alla temperatura — 44l — eutettica, ove ha luogo anche quella dell’ SbIz. La temperatura eutettica è di 41°,5 e la concentrazione eutettica di circa 82°/ di SbCl;. Le masse solidificate presentano un aspetto omogeneo di colore rosso che aumenta di intensità coll'aumentare della concentrazione dell’ SbIz e sono alterabili all'aria, specialmente se umida. A temperature inferiori, fino a 0°, non si potè osservare nella zona dei cristalli misti alcun effetto termico che desse indizio di trasformazione e smistamento allo stato solido. In questo caso, conformemente alla regola di Tammann, si ha la forma- zione dei cristalli misti dalla parte del componente il cui punto di fusione è più elevato. Dalla parte del tricloruro non si formano cristalli misti in proporzioni tali da esser messi in evidenza termicamente. CONCLUSIONI. 1°. Il bromuro d'antimonio forma cristalli misti in tutti i rapporti tanto coll’ioduro quanto col cloruro, entrambe le curve di solidificazione ap- partengono al tipo III di Roozeboom. 2°. Il cloruro d'antimonio forma coll’ioduro cristalli misti in propor- zioni limitate dalla parte dell’ioduro, fino alla concentrazione di circa 45 °/o di Sb Cz. 3°. Per l'antimonio si osserva che analogamente al caso presentato dagli alogenuri d’argento, di tallio e di rame studiati da Mònkemeyer, col- l'aumentare della differenza fra il peso atomico degli alogeni che li costi- tuiscono, diminuisce l'affinità omopolave fra i derivati. Difatti tanto il bro- muro d’argento che quelli di tallio e di rame formano cristalli misti in tutti l rapporti coi rispettivi cloruri e ioduri, mentre questi ultimi formano coi cloruri corrispondenti soluzioni solide solo in proporzioni limitate. — 442 — TABELLA I. Sistema Sb Cl, - Sb Br. ————t—-=-=-=->-;»-»€©£:|-AAae“’’e’. --l&SE-&&'-A'—&GnA&'rfa& '—G—ee“* Concentrazioni molecolari £ Principio Fine Intervallo È della della di Z Sb Cl, Sb Br cristallizzazione | cristallizzazione | cristallizzazione 1 100 = 73° = — 2 90 10 63.5 64° 4.5° 3 80 20 64.5 08.5 6.0 4 70 30) 62 06.5 5.5 5 60 40 59.5 50.0 4.0 6 50 50 57 55) 2.0 7 40 60 56 dò 1.0 8 30 70 5Ò 54 1.0 9 20 80 63 58 5.0 10 10 90 75 67 8.0 11 0 100 93 = = Sb Cl, °/o Molecolari Sb Brs Fre. 1. — Sistema Sb Cl; - Sb Br;. — 443 — TABELLA II. Sistema Sb Br; - Sb I;.. ="E73567T--YT7,rr rey" o —-euo Concentrazioni motecolari 9 Principio Fine Intervallo È della della di Da: Sb Br, Sb Ti cristallizzazione | cristallizzazione | cristallizzazione 1 100 0 93° — _ 2 95 0) 89.5 86° 3.50 3 90 10 86 83 3.0 4 85 15 84.5 82 2.5 5 80 20 88 84 4.0 6 70 30 96 87 9.0 7 60 40 105.5 96 6.5 8 50 50 118 105 13.0 9 40 60 127.5 118 9.5 10 30 70 187 130 7.0 11 20 80 148 143 5.0 12 10 90 156.5 154 2.5 13 0 100 165 — _ 60 70 80 90 100 Bri °/o Molecolari Sb Is, Fig. 2. — Sistema Sb Br,-Sbl,. Numero O 0 ID UR 0 Hu DH Oo Concentrazioni molecolari TapeLLa III. — Sistema Sb Cl; - Sbl;. Sb CI, 100 95 90 80 70 60 50 40 80 20 — 444 — EIUIPIO Temperatura della Sb], cristallizzazione Eutectica 0 78° ks O) 59.5 41.50 10 50 41 20 42.5 41 30 12 41.5 40 78 41.5 90 89.5 40.5 60 103 »: 70 116.5 RI 80 129 Te: 90 145 LE 100 165 ES °/ Molecolari Fia. 3. — Sistema Sb Cl; - SbI,. Durata Eutectica 120 110 — 445 — Chimica. — Bastertà degli acidi contenenti ossidrili alcoolici (seguito) (*). Nota II di G. CALCAGNI, presentata dal Socio EMANUELE PATERNÒ (°). TaBEeLLA III. — Conducibilità specifiche - Acido malico + Be(OH)s. = = I | 28 Mol. di Be0 EE per 1 mol. Ol OE v=I4 v=8 v= 16 Za di acido | 1 0 2,276 1,602 1.103 0,7595 0,5060 2 0,06777 1729 1,209 0,8539 0,6026 0,4185 3 0,1754 1,838 1,200 0.7909 0,5106 0,3528 4 0,2305 1,859 1,213 07929 0,5181 0,3371 5 0,2993 1,907 1,243 0,8025 0,5168 0,3331 6 0,5175 1,993 1,276 0,8025 0,5038 0,3149 7 0,6887 2,118 1,925 0.8205 0,5044 0,3076 8 0,8052 2,156 1,315 0,8090 0,4897 0,2965 9 0,9634 2,196 1,345 0.8057 0,4777 0,2871 10 1,184 2,924 1,396 0,8187 0,4747 0,2751 11 1,273 DIZATANA e STON 0,8089 0,4668 0,2715 12 1,567 2,252 1.299 0.7275 0.4069 0,2285 13 1,631 2,178 1,248. | 0,6969 0,3920 0,2196 14 1,845 | 1839 1,021 0.5596 0,3062 0,1651 225 \ ‘O 200) : : Bi 135; i : ©) 0) n © O 150) : î (>) D) Ù I ' " : A 135 1 ò D = ì È E 1008 : E i i 3 : È (©) a Ò 0.50) } n 025 0935 050 035 100 175. 190 175 Molecole di BeO per 1 di acido. la) Fic. 3. (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio chimico della Sanità pubblica di Roma. (3) Pervenuta all'Accademia il 26 agosto 1912. Renpiconti. 1932. Vol. XXI, 2° Sem 58 — 446 — TaseLLA IV. — Conducibilità specifiche - Acido tartarico + Be(0H).. £É | Mol ai Beo | per 1 mol. o=1 | v=2 gli 0=8 v= 16 PA di acido 1 0 5,929 8,686 2,539 1,717 1,154 2 0,09254 3,860 2,706 1,907 1,946 0,9378 3 0,1570 3,809 2,594 18/143 1,229 0,8419 4 0,2684 4,102 2,706 1,767 1,162 0.7452 5) 0,3392 4,254 2,800 1,817 1,175 0,7511 6 0,4192 4,389 2,878 1,854 1,182 0,7442 7 0,5318 4,463 2,942 1,884 1,194 0,7497 8 0,5856 4,389 2,936 1,877 1,194 0,7456 9 0,6663 4,288 2,860 1,839 1,182 0,7407 10 0,8240 4,052 2,691 1,737 1,116 0,7002 11 1,068 3,681 2,486 1,569 1,009 0,6273 19 TolZO 3,485 2,904 1,483 0,9493 0,5913 13 1,493 2,929 1,922 1,223. 0,7877 0,4963 14 1,624 2,747 1,760 1,130 0,7188 0,4538 15 1.748 2,529 1,597 1,010 0,6380 0,4059 16 1,978 2,204 1,384 0,8534 0,5337 0,3371 17 2,098 2,055 1,281 0,7856 0,4836 0,3050 18 2,164 2,014 1,295 0,7527 0,4668 0,2935 19 2,929 1,884 1,152 0,6878 0,4111 0,2597 Conducibilità specifiche. 045 050 05 (100 1858 150, L25200 225 Fic. 4. — Molecole di BeO per 1 di acido. dig, TaBeLLA V. — Conducibilità specifiche - Acido citrico + Be(OH).. SÈ | mol. di Beo EE per 1 mol. v=1 O=9 v=4 o=8 v= 16 25 di acido 1 (0) 3,711 2,618 1,802 1,218 0,8197 2 0,05254 2,918 2,122 1,512 1,056 0,7206 3 0,1248 2,647 1,857 1,304 0,9085 0,6229 4 0,1919 2,650 1,853 1,258 0,8658 0,5806 b) 0,2590 2,658 1,830 1,228 0,8235 0,5447 6 0,3198 2,680 1,815 1,214 0,7985 0,5267 7 0,4833 2,727 1,788 1,176 0,7564 0,4864 8 0,5820 2,713 1,802 117 0,7538 0,4801 9 0,7974 2,824 1,830 1,166 0,7368 0,4620 10 0,9223 2,871 1,838 1,162 0,7173 0,4394 11 1,040 2,884 1,820 1,116 0,6881 0,4214 12 1,250 2,929 1,798 1,090 0,6577 0,3904 13 1,498 2,883 DI 1,056 0.6176 0,3591 14 1,678 2,811 1,679 0,9649 0,5504 0,3192 15 1,887 2.622 1,536 0,8712 0,4958 0.2768 16 1,929 2,945 1,382 0,7952 0,4381 0,2530 17; 2,068 2,139 1,263 0,7337 0,4180 0,2378 18 2,176 2,067 1,250 0,7116 0,4093 0,2291 19 2,277 2,006 1,201 0,6974 0,3944 0,2206 3,35] 351 328 3,00 275 D J x ' Ù . 250 ; i DO | Ù t Ù S i SMS, : Ù i (®) ù d Ù 2 3 } . È 200 : 1 0 ò £ i i E 135 : i È = 150 ' D ’ S) O Ù o ©) ; A ' 9 125 ; ) 1,00 i 075 ; i 050 i : 038 ! | 0,35 050 035 100 (25 150 {RS 200 215 e Fie. 5. — Molecole di BeQ per 1 di acido. — 445 — Dalle tabelle e dai diagrammi risulta quanto segue: Per gli acidi monocarbossilici la curva di conducibilità passa prima per un minimo, poi cresce piuttosto rapidamente col contenuto in Be0; ma alle concentrazioni di una molecola di acido e mezza di base, la curva fa un gomito, dopo il quale la conducibilità si mantiene quasi costante fino alla concentrazione di una molecola ‘di Be0O per una di acido. Da questo punto in modo evidentissimo su tutte le curve la conducibilità si ab- bassa rapidamente col crescere del contenuto in Be0; quindi sulla curva a quella concentrazione comparisce un altro gomito molto netto. Questo fe- nomeno è perfettamente identico a quello già osservato per l'acido lattico, nel quale noi escludemmo che l'abbassamento della conducibilità si dovesse ad un aumento di attrito o alla diminuita mobilità degli ioni dovuta alla loro natura complessa, poichè il punto di gomito dovrebbe spostarsi con la diluizione. Perciò si deve concludere che il Be0O che passa in soluzione dopo la concentrazione corrispondente alla formazione di un sale RBe, sì com- bini con questo per dare luogo ad un altro sale il quale è meno dissociato e il cui rapporto tra acido e base è 1:1. La curva di conducibilità dell’acido malico è quasi identica a quella degli acidi monocarbossilici. In essa notiamo anzitutto un primo gomito ap- pena sensibile alle concentrazioni di una molecola di acido e mezza di base, un secondo molto netto alle concentrazioni di una molecola di acido e una di base, ed infine un terzo anche nettissimo alle concentrazioni di una mo- lecola di acido e una e mezza di base. Dopo questo punto la conducibilità cade rapidamente aumentando il contenuto in Be0. Quindi abbiamo la for- mazione di un sale primario COOH . CH,. CH. 0H.C00_ »Be ; COOH . CH; . CH. OH. C007 di uno secondario 00C.CH.,.CHOH.C00, |A, | e di uno terziario il cui rapporto tra acido e base abbiamo detto essere 1:1,5. L'unità delle ordinate di questo diagramma e degli altri due successivi è diversa da quella dei precedenti, poichè la dissociazione di questi salì è più limitata. La curva dell'acido tartarico è un po diversa dalle altre; abbiamo dopo il solito minimo un aumento di conducibilità alquanto notevole, fino alla concentrazione di mezza molecola di base. Da questo punto, a mano a mano che si forma il sale secondario, la conducibilità si abbassa poichè la disso- ciazione di esso è evidentemente più piccola del precedente; e ciò fino alla concentrazione di una molecola di acido per una molecola di base. Qui si nota un secondo gomito meno marcato ma evidente, oltre il quale per ag- — 449 — giunta di BeO la conducibilità si abbassa ancora di più in modo continuo 1 mol. di acido ù 2 mol. di base mento di Be0 fa diminuire la conducibilità in modo molto meno notevole, sì che in esso si ottiene un ultimo gomito che dimostra la formazione di un sale. Lo stesso fenomeno si osserva sulla curva dell'acido citrico, in cui i rami successivi discendenti sono più inclinati verso l’asse delle ascisse; ogni g0- mito corrisponde ad un sale e se ne ha uno dopo la saturazione del primo carbossile, un secondo dopo la saturazione del secondo, un terzo dopo la saturazione del terzo, ed infine un quarto nel punto in cui il rapporto è 1 mol. di acido 2 mol. di base Anche in questo caso il successivo aumento di BeO cagiona diminuzioni della conducibilità minori che nel penultimo ramo. Dunque gli acidi glicolico, lattico ed ossisobutirrico formano due specie di sali i cui rapporti tra acido e base sono rispettivamente 1:’/ e 1:1; perciò sì comportano come acidi bibasici; l'acido malico forma tre sali nei rapporti 1:1/2,1:1 e 1:1'/3; quindi di un acido tribasico. L'acido tartarico forma tre sali i cui rapporti sono 1:!/2,1:1 e 1:2; quindi è un acido tetrabasico ; l'acido citrico ne forma quattro. nei rapporti 1:3/,1:1,1:1'/ e 1:2; perciò anch'esso è un acido tetrabasico. Allora si può generalizzare senza timore di errare: Gli ossidrili alcoolici contenuti negli acidi organici della serie grassa si comportano come gli ossidrili carbossilici, cioè sono ca- paci di salificarsi conferendo agli acidi un grado di basicità che è uguale alla somma dei gruppi carbossilici e alcoolici. A sostegno di questa conclusione posso ricordare che F. Bullnheimer (') riuscì ad isolare composti di metalli alcalini e rame della glicerina in forma ben cristallizzata; e in seguito F. Bullnheimer e C. Seitz (?) riferirono su tartrati di rame e metalli alcalini in cui il metallo sostituisce l'idrogeno degli ossidrili alcoolici. Simile ipotesi fece anche L. Kahlenberg sui tartrati di rame e di piombo con i metalli alcalini (*). Dalle su esposte esperienze risulta inoltre che i suddetti acidi formano con la base Be(OH), solamente sali normali, e che i pretesi complessi già accennati non sì formano affatto: quindi l’ossido di berillio passa in soluzione, come è stato dimostrato in altri casi, modificando solo la natura del solvente, il che produce l'abbassamento di conducibilità verificatosi. Stabilito ciò, non sarebbe privo di interesse poter vedere se in generale gli alcooli siano capaci di dissociarsi in soluzione acquosa e in qual modo; questo infatti è ciò che tenterò in seguito. tino al punto in cuì il rapporto è . Da questo punto l’au- (') B. d. d. Ch. Ges. 3/, 1453. (©) 15% db 06 Go Ges 93, DAT (©) ZA 15 Pay On 7907, — 450 — Chimica. — Azione degli alcoolati sodici sopra gli eteri car- bopirrolici (1). Nota II di U. CoLaciccHi e 0. BERTONI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (?). Facendo seguito alle ricerche istituite sul comportamento degli alcoolati sodici con gli acetilderivati del pirrolo (*) e gli eteri pirrolcarbonici (4), trat- tiamo, in questa Nota, dei risultati ottenuti facendo agire l’etilato sodico sul- l'etere 2-4-dimetil-3-acetil-5-carbopirrolico CH3.C—C.COCH; NH e sul 2-4-dimetil-3-acetilpirrolo CH3.C-—TC.COCH; 110, .CH3 NH Come avevamo già detto in una comunicazione precedente, noi intendiamo di fare uno studio sopra questo argomento, allo intento di scoprire quali siano le condizioni migliori che permettano l'introduzione di un radicale in un atomo di carbonio, piuttosto che nell'altro del nucleo pirrolico. Le diverse resistenze che presentano i gruppi acetilici in confronto di quelli carbossietilici ad essere spostati, come hanno posto in chiaro le nostre ricerche col trimetilacetilpirrolo e l'etere di Korschun, CHz3.C—C.COCH,; CH3.C—TC.C000-H; CH;C \/0 . CH3z CHsCT 70 .CH3 ; NH NH doveva segnare la via più semplice che ci avrebbe condotti allo scopo; per questo, noi abbiamo rivolto la nostra attenzione sui corpi contenenti ambedue questi gruppi nella loro molecola. (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Parma, diretto da G. Plancher. (3) Pervenuta all'Accademia il 12 settembre 1912. (?) Rend. Ace. Lincei, vol. XXI, ser. 5%, 1° sem., pag. 489 (1912). ( 5) ” DI « ”» » ” ”» » 653 ” — 451 — Se non che le esperienze che descriveremo ci hanno dimostrato che la capacità di reazione degli aggruppamenti CH3CO— e —C00C:H; è influen- zata dalla rispettiva posizione che occupano nella molecola, tanto che le differenze altra volta riscontrate diventano pressochè insignificanti nell’etere dimetilacetilcarbopirrolico poichè da questo abbiamo ottenuto quasi esclusi- vamente il prodotto tetrasostituito, il 2-4-dimetil-3-5-dietilpirrolo CH;. "o C.C.Hs CH; dl Jo CH;. N Noi abbiamo operato come nelle nostre precedenti ricerche, prolungando il riscaldamento a 22° per 14-16 ore, e ciò per metterci in condizioni di esperienza i cui risultati fossero confrontabili con quelli già ottenuti. Con- tinueremo queste esperienze variando la temperatura e la durata del riscal- damento; intanto, per orientarci, abbiamo eseguito una prova scaldando per 10-12 ore, a 150-170°, il 2-4-dimeti]-3-acetilpirrolo con etilato sodico. Anche in questo caso abbiamo potuto separare, per mezzo del picrato, il prodotto tetrasostituito; gli altri prodotti formatisi, che non dànno picrati, non ci fu possibile identificarli. Noi stiamo occupandoci attualmente di trovare una reazione che ci permetta di poter trasformare in derivati solidi facilmente trattabili quei pirroli che non dànno picrati e che, per questo, non è facile di caratterizzare. Di questo ci occuperemo in una prossima comunicazione. PARTE SPERIMENTALE. Azione deil’etilato sodico sull'etere 2-4-dimetil-3-acetil-5-carbopirrotico. Grammi 20 di etere vennero distribuiti in tanti tubi e addizionati di etilato sodico al 10 °/, in modo che ad ogni grammo di derivato pirrolico corrispondesse circa un grammo di sodio; e furono riscaldati per 14-16 ore a 220°. Il prodotto della reazione venne diluito con acqua; e l'olio separa- tosi, quasi incoloro, venne estratto tre volte con etere. La soluzione eterea dopo essere stata lavata con acqua, venne dibattuta alcune volte in imbuto a rubinetto con una soluzione satura di cloruro di calcio per allontanare il più possibile l'alcool, e infine seccata con solfato magnesiaco calcinato. Distillato l'etere a bagno-maria, rimase un liquido abbastanza denso, pochissimo co- lorato e rifrangente fortemente la luce, che andava imbrunendo rapidamente all’aria. Dava la reazione col fuscello d'abete e quella di Ehrlich colla dimetilamminoparabenzaldeide. Abbiamo cercato di separare i vari prodotti contenuti nel miscuglio, distillando frazionatamente a pressione diminuita, in corrente di idrogeno; ma, operando a 23 mm. il termometro non ha mai — 452 — segnato un punto d'arresto. Il liquido comincia a passare a 100° e le ultime goccie distillano verso 250°. Noi abbiamo raccolto dapprima 2 porzioni: da 100-150° e 150-250°. La prima costituisce quasi totalmente il prodotto della reazione, l'altra consta di poche goccie di un olio denso che anche per forte raffreddamento non solidifica. ) La parte bollente a 100-150° fu di nuovo distillata e di essa si rac- colsero tre porzioni che passarono a 100-110°. 110-120°, e 120-150°, a 23 mm. La maggior parte del liquido è nella prima di queste; tutte e tre sono leggermente colorate in giallo citrino; raffreddate fortemente diventano dense, ma non tendono a solidificare. Abbiamo rinunciato a frazionare ul- teriormente queste singole porzioni per evitare una inutile perdita di mate- riale; ma abbiamo cercato di separare i prodotti in esse contenuti trattandole separatamente con acido picrico e copulando con acido diazobenzolsolfonico (!) la parte che non dava picrato. Frazione 100-110°. L'olio bollente a 100-110° a 23 mm., circa vn grammo, venne diluito con poco etere e addizionato di un grammo di acido picrico finamente pol- verizzato. L'acido picrico si sciolse prontamente, e poco dopo si separò un olio scuro, denso, che non fu possibile far cristallizzare. Evidentemente si tratta di un picrato oleoso. Si diluì allora con altro etere, e la soluzione venne dibattuta in imbuto a rubinetto con la quantità necessaria di soda al 10°/, per decomporre il picrato. La soluzione eterea ben lavata con acqua venne agitata parecchie volte con una soluzione di acido diazobenzolsolfonico all'1°/ che rimase forte- mente colorata in rossastro. Dopo qualche ora si separarono da questa fiocchetti bluastri, che si sciolgono bene in soda al 5°/ e riprecipitano per acidificazione con acido cloridrico diluito; la quantità di tale sostanza era così piccola, che non potemmo sottoporla ad un esame accurato. Il filtrato della sostanza precedente, acidificato con acido cloridrico di- lnito, dopo lungo riposo lasciò depositare dei fiocchi bruni che si sciolgono in soda con una bella colorazione giallo-arancio che passa al rosso per ag- giunta di acido cloridrico, mentre riprecipita la sostanza colorante fioccosa, bruno-rossastra. Anche di questa, la esigua quantità non cì permise uno studio ulteriore. Frazione 110-120°. Questa parte (gr. 6.2) venne sciolta in 10 ce. di etere e addizionata di 8 gr. di acido picrico in polvere. L'acido picrico si scioglie immediatamente, e quasi subito comincia a separarsi un bel picrato giallo-cristallino in mi- nutissimi prismetti. Dopo agitazione e raffreddamento con ghiaccio, il liquido (1) H. Fischer und Bartholomius, Zeitschr. fiir Physiol. chem., 77, pag. 187. -- 458 — si rapprende tutto in una massa cristallina che viene filtrata alla pompa e lavata con poco etere ben freddo. Ottenemmo circa 12 gr. di prodotto greggio, fondente a 85° circa. Cristallizzato dall'alcool assoluto, si porta a fondere a 89°; è un bel- lissimo prodotto colorato in giallo intenso. Sottoposto all'analisi, previa essiccazione su anidride fosforica, ha dato numeri che corrispondono a quelli richiesti dalla formula C,6 Hs0.N403, come compete al picrato di un dimetildietilpirrolo. Calcolato per Ci6Hz0N407 Trovato C4(CHs),.(CsH;) NH.CsHs(N0:),.0H C°/ 90,99 50,59 H » 5,27 5,51 N» 14,74 14,70 Il punto di fusione di questo picrato corrisponde a quello del picrato del 2-4-dimetil-3-5-dietilpirrolo, già descritto da H. Fischer (1) CH,.C___C.C,H; ca NH Le acque madri, scomposte con liscivia di soda e trattate nel solito modo con acido p-diazobenzolsolfonico e acido cloridrico, hanno fornito una piccola quantità di sostanza colorante che presenta i medesimi caratteri di quella ottenuta dalla frazione precedente. Frazione 120-150°. Anche da questa porzione (gr. 1,5) ottenemmo circa 2 gr. di picrato greggio, che, cristallizzato dall’alcool assoluto, fuse a 88-89°, mostrandosi identico a quello descritto precedentemente. Sottoposto all’analisi ha mostrato infatti di avere la stessa composizione: Calcolato per CisHsoN407 Trovato €% 50,53 90,55 H » 5,27 5,48 N» 14,74 14,88 Dalle acque madri si ottenne anche in questo caso una piccola quan- tità di sostanza colorante solubile in soda, con colorazione rosso-arancio che passa al violetto per acidificazione con acido cloridrico. (!) H. Fischer und Bartholomaus, Zeitschr. fiùr Physiol. chem., 77, 187 (1912). RENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 59 — 454 — Noi abbiamo potuto ottenere il dimetildietilpirrolo puro scomponendo S gr. di picrato fondente a 89°. È un bell'olio quasi incoloro, che bolle a 112-114° a 22 mm.; ha un odore gradevole che ricorda quello del timolo. Non dà la reazione di Ebrlich e neppure quella del fuscello. Il picrato ot- tenuto dal pirrolo puro fonde a 92°. Azione dell'etilato sodico sul 2-4-dimetil-3-acetilpirrolo. Grammi 2 del pirrolo vennero scaldati in tubo chiuso con 25 cc. di etilato al 10 °/,, per 12 ore, a 150-170°. Il prodotto della reazione fu diluito con acqua, e lo strato oleoso, venne estratto con etere. Il residuo, dopo l’eli- mina zione dell'etere, venne distillato in corrente di vapor d’acqua. Passò una piccola quantità di un olio incoloro che, estratto con etere seccato con solfato di magnesia calcinato, e distillato, passò fra 120-160° a 60 mm. Venne diluito con poco etere e addizionato di 0,5 gr. di acido picrico. Per raffred- damento si separò un picrato giallo fondente a 83-85°, che purificato dall’al- cool assoluto, si portò a fondere a 88°. Una determinazione di azoto ha dato un risultato che concorda abba- stanza con quello richiesto dal picrato del dimetildietilpirrolo. Calcolato per CieHzo N40 Trovato N°, 14,74 15,22 La parte che non distillava al vapor d'acqua, si presentava come un ‘olio denso scuro, che, convenientemente separato, seccato e distillato, passò, verso 300°, a pressione ordinaria, in atmosfera in azoto secco, come un liquido spesso, giallo, che si resinifica con la massima facilità. Non è improbabile che in queste reazioni si formino anche prodotti sostituiti all'azoto. Nella preparazione del fillopirrolo noi abbiamo potuto infatti separare sotto forma di picrato un prodotto che contiene una percen- tuale di azoto che si avvicina molto a quella richiesta per un trimetildietil- pirrolo; però diamo con tutta riserva queste notizie, in attesa di precisare meglio i fatti appena avremo a nostra disposizione il materiale opportuno. Come conclusione, dalle esperienze descritte risulta: 1°) che è possibile l'introduzione di gruppi alchilici nel nucleo del pirrolo, anche per riscaldamento meno prolungato e ad una temperatura inferiore a quella a cui fu operato nelle ricerche precedenti; 2°) che per riscaldamento dell'etere dimetilacetilcarbopirrolico con etilato sodico per 16 ore a 220° si forma, contrariamente a quanto era da attendersi, il prodotto tetrasostituito in grande prevalenza, insieme con pic- cole quantità di pirroli trialchilati, come hanno dimostrato la reazione di Ehrlich colla dimetilamminobenzaldeide e quella di H. Fischer coll’acido p-diazobenzolsolfonico. Seguiteremo lo studio di queste reazioni. Chimica. — Combinazioni dell'uranio con Vl idrazina ('). Nota di RoBERTO SALVADORI, presentata dal Socio R. NasInI (?). Uranato di idrazina. — Nella comunicazione fatta nei Rend. della Soc. Chim. Ital. del febbraio u. s. a proposito del perclorato di uranile, avevo accennato al singolare comportamento, a freddo e a caldo, dell’idrato di idrazina sul nitrato di uranile, riserbandomi di riferire più estesamente sui diversi precipitati che si ottengono. Tali precipitati si debbono considerare come degli uranati di idrazina: sennonchè a freddo si ottiene un composto giallo, di composizione costante, corrispondente alla formula (NsH;),0.5U0:8H:0, analogo agli uranati alcalini, stabile fino a 100°, alla quale temperatura si decompone perdendo quasi completamente l'azoto. A caldo, invece, il composto giallo diventa quasi subito giallo-verde, e, per prolungata ebollizione, detinitivamente verde-oliva. Se si raccolgono i prodotti della ebollizione, si trova che insieme col vapore d’acqua passa una certa quantità di azoto. Lo sviluppo dell'azoto è assai lento e sembra arre- starsi quando il rapporto fra l'idrazina e l'’uranio, nel precipitato verde, sia INSESUE—#2E7 Cosicchè il precipitato che si ottiene dal nitrato di uranio e idrato di idrazina, a caldo, non ha una composizione costante se non dopo prolungata ebollizione. Il precipitato si scioglie completamente nell'acido ossalico: il che vuol dire che la riduzione non arriva all’ossido uranoso, ma si arresta al UO,. La reazione perciò consiste in una scissione parziale dell’uranato, in una anidrificazione dell'acido uranico e nella riduzione di questo a biossido di uranio : 2U03H:0 + N.H,=2U0,- 4H:04+ N.. Difatti, il rapporto fra l'uranio, l'azoto e l'acqua, nel composto ottenuto a freddo, è: UESNER7EHSO = 5.: 4:86 nel composto ottenuto a caldo è: UGNEIHSO—.7°: 4408 (!) Presentata all’Accademia il 12 settembre 1912. (€) Lavoro eseguito nel R. Istituto tecnico Galilei di Firenze. — 456 — Il composto giallo ottenuto a freddo, contiene il 3.20 °/, di azoto, e la perdita di peso a 100° è del 17.98 °/,; mentre il composto ottenuto a caldo contiene il 2.48 °/ di azoto, e la sua perdita a 100° è del 6.54°/ sola- mente. La riduzione, quindi, dell'uranato di idrazina, sembra tendere verso un limite che sarebbe segnato dalla mescolanza di uranato con UO; nelle pro- porzioni volute dalla espressione (N3H;)) 0 5U0; 6H,0.U0,.. Il precipitato giallo che si ottiene a freddo, è voluminoso e gelatinuso, si lascia difficilmente lavare, mentre quello ottenuto per ebollizione si raccoglie quasi subito al fondo e si può lavare con discreta facilità. Ho per) osser- vato che non appena, per i ripetuti lavaggi, sparisce la reazione alcalina dell’eccesso di idrazina, il precipitato tende a passare attraverso il filtro, mentre, finchè l’idrato di idrazina è presente, anche in piccolissime quantità, tale tendenza non si manifesta. L'idrato di idrazina avrebbe perciò un’azione analoga a quella del cloruro ammonico; con questo vantaggio: che in una determinazione quanti- tativa dell'uranio, la calcinazione, in presenza di cloruro ammonico, è causa di perdite per la facilità con cui volatilizza il cloruro di uranio, mentre tale inconveniente non si verifica con l'idrato di idrazina. DATI ANALITICI. Precipitazione a freddo. — Tre grammi di nitrato di uranio purissimo furono sciolti in circa 100 ce. di acqua e addizionati di una soluzione al 50 °/, di idrato di idrazina fino a reazione notevolmente alcalina. Il precipitato giallo si lasciò riposare per circa dodici ore in un bic- chiere a calice, decantando in seguito il liquido alcalino soprastante. I suc- cessivi lavaggi, con acqua, furono ripetuti di 12 in 12 ore, decantando sempre il liquido, finchè la reazione alcalina non era più avvertibile. Il pre- cipitato fu da ultimo raccolto entro un crogiuolo Gook e, dopo averlo steso su di un vetro d'orologio, fu tenuto sul cloruro di calcio fino a peso costante. Si ottenne così una polvere gialla finissima, apparentemente amorfa, che, all'analisi, diede i seguenti risultati: I. Gr. 0.1706 di sostanza diedero gr. 0.1406 di U3 0}; » 0.5646 ’ ” cc. 14.50 di azoto a 0° e 760mm. II. » 0.2806 ” ” 65 ” ” ” Al I l'azoto fu determinato col motodo di Dumas, e al II col metodo di Rimini. Trovato Calcolato per (NsH;):0 .5 UO, .8Hs0 Ì JI U- TO00 — 69.20 N 3.21 3.18 3.24 — 457 — In altre due determinazioni di uranio si trovò: una volta 69.45; un’altra 69.60. A 100° la perdita di peso è del 17.98 °/,; ora, se sì calcola Ja perdita di peso dovuta al composto (N:H;):0 .5 UO; .8H:0, non solo per le otto molecole di acqua, ma anche per l'azoto e le cinque molecole d'acqua dovute alla decomposizione dell’idvazina, si ottiene: ($H,0 + 4N+5H,0)=/ (8.35 + 3.24+ 5.22) = 16.81 °/ di perdita, valore che si accorda sufficientemente col trovato. Precipitazione a caldo. — Tre grammi di nitrato di uranio purissimo furono sciolti in circa 100 ce. di acqua, addizionati con idrato di idrazina fino a reazione nettamente alcalina e fatti bollire per circa 20 minuti. Il precipitato verde così ottenuto, dopo ripetuti lavaggi, con acqua calda e poi con acqua fredda, fu raccolto su di un filtro e lasciato sul cloruro di calcio. Gr. 0.1481 di sostanza diedero gr. 0.1515 di U30z: » 0.1701 ” ” cc. 3.61 di azoto a 0° e 760 mm. Trovato Calcolato per (NsH;)s0 .5 UO; .6H30.2UOg U 75.10 74.90 N 2.66 DUI Che durante l'ebollizione si sviluppi azoto, fu verificato mediante l'ap- parecchio di Schlòsing, scacciando l’aria col vapore d’acqua prima di intro- durre nel palloncino il precipitato chiuso nell'imbuto soprastante. Rosso d'uranio idrazinico.— I) Kohl]schitter, nel suo interessante lavoro sulla natura del rosso di uranio (*), aveva dimostrato che la preparazione e l’esistenza di un tale composto erano legate alla reazione dell'acido solfidrico sull'acido uranico, poichè questo viene ridotto dall’acido solfidrico in un am- biente alcalino. neutro o leggermente acido (per es. in soluzione acetica), ma non viene menomamente alterato se l'acido uranico è in presenza di un acido forte. : Ora, se invece di acido uranico sì prende un uranato in presenza di un eccesso di solfato o di nitrato di uranile, una corrente di acido solfidrico determina la formazione di un composto 5 UO; .2R0 ... HS; che si po- trebbe considerare come la sostanza madre del rosso di uranio, poichè tale sostanza ha una forte tendenza di addizionare, quantunque in forma labile, un altro residuo alcalino R, e trasformarsi perciò nel vero e proprio rosso d'uranio 5 UO; .2R:0 . RHS,, dove R può essere indifferentemente ammo- niaca, un metallo alcalino, un metallo alcalino-terroso. (1) Ann. 3/4, pag. 811, 1901. — 458 — Fra ì metalli pesanti fu tentato, dal Koh]lschitter, di ottenere, per doppia trasformazione, il composto con l'argento, senza però ottenerne il derivato, poichè si precipita argento metallico, si mette in libertà zolfo, acido sol- fidrico, ecc. in altri termini, si ha la decomposizione di tutta la molecola. Per la qual cosa, l'esistenza del rosso d’uranio, non solo è legata alla impedita azione riducente dell'acido solfidrico sull’ UO; per effetto dell’am- biente acido, ma anche dipende dalla natura della base R. Nel caso dell’uranato di idrazina, da me più sopra descritto, osserviamo che esso è costituito da 5 UO; .2(N:H;)0...; e per essere trasformato nel rosso d'uranio, altro non dovrebbe subire se non l’azione dell'acido solfidrico in un ambiente acido. Perciò si poteva prevedere l'esistenza del rosso d'uranio di idrazina, semprechè l’azione riducente di questa, unita a quella dell'acido solfidrico, non fosse di ostacolo. Del resto, la stabilità e il comportamento del solfuro di idrazina confortavano al tentativo (1). Ho constatato anch'io che se si fa reagire l'acido solfidrico sull'uranatò di idrazina in presenza di un eccesso di questa, si ottiene direttamente un precipitato nero che non diventa in nessun modo rosso come fa il composto ammonico. Ma se l’uranato di idrazina è in presenza di un eccesso di nitrato o di solfato di uranile, con l'acido solfidrico si ottiene un precipitato giallo- arancio, il quale, dopo l'eliminazione dell'eccesso di idrogeno solforato con una corrente di ossigeno, dà, con l'idrato di idrazina aggiunto fino a rea- zione alcalina, il rosso d'uranio idrazinico di colore rosso-vermiglio. Si può allora scaldare a bagno maria, senza che avvenga decomposizione alcuna; e il sale così ottenuto, levigato ripetutamente con solfuro di carbenio per togliere l'eccesso di zolfo, lavato poi con alcool, etere e acqua, si può sec- care a 100°. La decomposizione avviene poco dopo i 100°, cor sviluppo di acido solfidrico, azoto e formazione di ossido di uranio. Lasciato esposto all'aria, il rosso d'uranio idrazinico, che ha la compo- sizione 5 UO; . 2(N.H;):0 . N:H;.HS,.4H:0 — perde lentamente, ma con maggior facilità che non il corrispondente sale ammonico — la molecola instabile di idrazina, assorbendo due molecole di acqua, e si trasforma nel composto fondamentale del rosso uranico 5 UO; . 2(N.H;)O. H,S,.6H0, il quale può addizionare con grande facilità una molecola di ammoniaca colorandosi in rosso sangue. Del resto, il rosso d'uranio idrazinico si può ottenerlo assai facilmente dal rosso d'uranio ammonico, trattando questo con idrato di idrazina, eva- porandone l'eccesso e l'ammoniaca a bagnomaria. Lo sviluppo di ammoniaca incomincia già a freddo, e la sostituzione dell'idrazina all'ammoniaca è completa. (1) F. Ephraim u. H. Pietrewski, B. D. Ch. Ges., 392, 1911. — 459 — DATI ANALITICI. Gr. 5 di nitrato di uranile furono sciolti in 100 cc. di acqua, e si aggiunse idrato di idrazina fino ad aver reazione decisamente alcalina; sì aci- dificò in seguito leggermente con acido nitrico, e si sottopose il precipitato giallo in sospensione all’azione dell’acido solfidrico in corrente piuttosto energica. Il precipitato, da giallo, passò al rosso arancio (in qualche caso si ebbe una colorazione cioccolatta in principio, che spariva insistendo nell'azione dell’acido solfidrico). Mantenendo sempre la temperatura ordinaria si scacciò tutto l'acido solfidrieo con una corrente di ossigeno. Una parte di questo precipitato fu raccolto entro un crogiuolo di a/undum, assai conveniente per i successivi lavaggi con solfuro di carbonio, e una parte si trasformò in rosso d'uranio idrazinico per aggiunta di un eccesso di idrato di idrazina. Durante l'aggiunta di questa, si scaldò leggermente a bagnomaria e si agitò continuamente il liquido. In qualche caso col riscal- damento si osservò una parziale riduzione e la precipitazione di un composto violetto, assai analogo a quello che si ottiene esponendo al sole l’acetato di uranio. Probabilmente, in questi casi, non tutto l’acido solfidrico era stato scacciato. Il precipitato rosso arancio, che sembra essere la forma più stabile, corrisponde ‘alla composizione 5 UO; . 2(N.H;)O . H.S».6H:0. Trovato Calcolato I II U 67.70 67.40 67.20 N 6.71 6.24 6.31 S 3.47 3.64 3.61 Il composto rosso-vermiglio, seccato a 100°, corrisponde a 5U03.2(N:H;):0. HS:N,H; .4H,0. Trovato Calcolato I II III U 67.50 — — 67.50 N 8.46 8.16 7.63 7.94 S 3.592 . — — 3.62 In I e II l'azoto fu determinato col metodo del Dumas e in III col metodo del Rimini. Dal rosso d'urario idrazinico sono passato con molta facilità ad altri derivati dei metalli pesanti, di cui non ho fatto però l’analisi. Così, trat- tando il composto idrazinico con solfato di magnesio, oppure di cobalto, di nichel, di manganese, di zinco o di cadmio, sì ottengono i corrispondenti derivati che sono tutti colorati più o meno in rosso cupo. — 460 — Coi solfati di alluminio e di uranile, a causa della loro acidità, si ha la stessa reazione di un acido forte, vale a dire si sviluppa acido solfidrico e sì separa alquanto zolfo. Col solfato di rame sì ottiene la riduzione del sale ramico con abbon- dante sviluppo di azoto puro, essendo la soluzione acida. Col cloruro mercurico, anche per ebollizione, non si sviluppa azoto; in presenza di potassa si ha la reazione del Rimini. Geologia. — Sulle correlazioni del pampeano con i fenomeni quaternarit della glaciazione. Nota di G. RovERETO, presentata dal Corrispondente A. IsseL('). Sinora quelli che hanno sostenuto che il pampeano corrisponde al qua- ternario dell'emisfero settentrionale, lo hanno fatto con sì poveri ed erronei argomenti, che all'illustre Fiorentino Ameghino fu facile ribatterli e confu- tarli, per cui egli sempre più si persuase che il pampeano fosse pliocenico, e su ciò edificò tutte quelle sue ammirabili, ma forse poco fondate teorie, sull'origine della specie umana. Io sono venuto alla conclusione che il pam- peano — ossia la serie dei terreni, prevalentemente /oesszez, che vanno dal fuel- chense al lujanense, come l’Ameghino perfettamente distinse e raggruppò — è quaternario, seguendo una via affatto nuova, ossia cercando di stabilire i rapporti presentati dai terreni della Pampa con gli effetti delle pulsazioni climatiche quaternarie, con le morene, con l'alluvionamento fluvio-glaciale, con il terrazzamento. Denomino pichileufense, dalla valle del Pichileutà (alto Limay), dove primieramente l'ho osservato, il complesso delle più antiche morene che stanno ai piedi delle Ande, sul margine dell’altipiano patagonico; da esse si parte la grande coltre dei rodados patagonicos, i quali, come già ho detto in altra Nota, vengono così a risultare fluvio-glaciali; ad essi spetta il nome di telwelchense, che in tal modo è per la prima volta precisato. Sia le morene del pichileufense, sia l’alluvionamento tehuelchense rappresentano il prodotto di due espansioni glaciali, che sino ad ora non ho potuto distin- guere se non per tratti limitatissimi. Nella zona pedemontana delle Ande, lungo la Pampa, mancano le mo- rene extra- montuose e manca pure un continuo altipiano, perchè le correnti conseguenti dapprima, e quindi le subseguenti e le obsequenti, lo hanno profondamente suddiviso; però nelle isolate mesefas si può osservare che esiste costantemente un livello ciottoloso alla base del pampeano, e fra questo e l’araucano: tale livello, pure considerato tehuelchense, indica la estensione verso il nord dello stesso periodo umido infraglaciale, osservato in Patagonia. Per di più, nei dintorni di Cordova, ai piedi orientali della Sierra omonima, si ha un potente cono di deiezione, che può immaginarsi (!) Pervenuta all'Accademia il 24 settembre 1912. — 461 — prodotto da un corso antico del Rio Primero; ebbene su questo cono posa tutta la serie del pampeano, e persino si osserva un sottile strato di /oess che divide l'accumulamento alluvionale in due parti, prodotto dal periodo secco che deve essere interceduto fra il pichileufense superiore e il pichi- leufense inferiore. Ho osservato nella valle del Rio Negro, e so che esiste anche in Pa- tagonia, un sistema di alte terrazze, coperte, come l'altipiano, da una coltre alluvionale, alla quale pure si è dato il nome di teuelchense, ma che evi- dentemente rappresenta il prodotto di un terzo periodo infraglaciale, e che è collegato a morene di aspetto antico, cementate: queste morene esistono, per esempio, a Bariloche; e denomino perciò darz/ochense il periodo di espansione glaciale che le ha prodotte. Sarà pure da distinguersi in seguito una sotto- fase del barilochense. D’ordinario, morene recenti, di aspetto fresco, coprono o sono situate in vicinanza delle morene cementate, e corrispondono ad una ultima espan- sione glaciale, che dalla bella morena sitnata sulle sponde del lago Nahuél Huapì, dove ha origine il Limay, denomino nahuelhuapiense: ad essa sono collegate delle basse terrazze parimente coperte da alluvioni della fase finale postglaciale. Orbene, tutto ciò si può perfettamente coordinare con la serie dei ter- reni della Pampa. È logico supporre che durante ciascuna espansione glaciale non siano avvenuti nella Pampa dei depositi eolici, e che quindi siasi verificato un hiatus: che, succeduto il ritiro e la manifestazione delle correnti diluviali. siansi prodotte, più o meno estesamente, delle alluvioni; che, sopravvenuto il periodo secco, siasi depositato il /oess: ora appunto si osserva che cia- scuno dei tre gruppi /oesszc? della Pampa, cui spettano i nomi di ensena- dense, di bonaerense e di lujanense, ha in sè, nei pressi dei rilievi mon- tuosi, un livello di alluvioni. ed è dovunque separato da un hiatus già ri- conosciuto da Ameghino. Si avrebbero così tre periodi aridi contro quattro espansioni glaciali; mancandone ancora uno per completare la corrispondenza, questo ci è dato dalle arene di aspetto desertico del fuelchense, le quali sono sempre alla base della serie pampeana, e che solo a Cordova sem- brano sostituite dal livello di /oess intercalato fra le alluvioni del tehuel- chense. Dopo ciò è facile distribuire ciascun Azafus e ciascun livello allu- vionale e /oessico nei quattro cicli climatici del quaternario: il puelchense succede al pichileufense inferiore, l’ensenadense al pichileufense superiore, il bonaerense al barilochense, il lujanense al nahuelhuapiense. Tutto ciò ha perfetta corrispondenza con quanto si è osservato nella America settentrionale e in Europa: il pichileufense con le sue grandi espansioni e i suoi grandi alluvionamenti corrisponde, per la sua parte infe- riore, al Jerseyan drift e all'’Aftonian, e per la superiore al Xansan drift RenpIcoNTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 60 — 462 — e al Yarmouth, il barilochense al ZMlinoian drift e al Sangomon, il na- huelhuapiense al Wisconsin drift e alle ultime alluvioni fluvio-glaciali di quella regione. Il bonaerense viene a risultare contemporaneo della regione /oessica della parte centrale degli Stati Uniti, il lujonense è rappresentato dal /oess inframorenico; non si conosce nell'America settentriooale un /oess contem- poraneo all’ensenadense, come del resto non si ha ivi un /oess corrispon- dente all’araucano, ossia al pliocene argentino, che è essenzialmente /oesszco. Le corrispondenze del glaciale d'Europa con quello degli Stati Uniti sono note; solo si può ricordare che anche qui manca il /oess del primo ciclo, siha però il /oess inframorenico del secondo, quindi il paesaggio /oes- sico del nord-ovest del terzo, e infine sì conosce un /oess inframorenico dell'ultimo ciclo. Quapro CRONOLOGICO DEL QUATERNARIO ARGENTINO. Cicli Patagonia e Regione Facies Pampa Vestigia umane climatici Andina Morene | Pichileufense inf. | Miatus postchapal- malense. Trad 1° cielo < Alluvioni] Tehuelchense inf. | Tehuelchense inf. = bien (imprecisato) Arene desertiche del Puelchense. Da / Morene | Pichileufense sup. | Hiatus postpuel- chense. pa È Alluvioni] Tehuelchense sup. | Tehuelchense sup. È 2° cielo o Preensenadense. | Diprothomo (!) Pla- (8) tensis. o n Loess (imprecisato) Ensenadense. | mae ci) Morene | Barilochense. Hiatus postensena- Fomo EI RL A ] stria de iet 0) { È Alluvioni] Alluvioni delle alte| "5°. spaccata e CS Die + | 3° ciclo terrazze. Alluvioni interloes- tra scheggiata. s siche. l) Loess (imprecisato) Bonaerense. / Morene | Nahuelhuspuense. | Hiatus postbonae- 3 49 DALE A Alluvioni] Alluv. delle basse rene SE: o pietra 4° cielo terrazze. Alluvioni interloes- SESSO siche. H. caputinclinatus. H. Loess (imprecisato) Lujanense. sinemento (2). H. sapiens; razza di Avejero, di Lagoa Santa ecc.; industria della pietraritoccata. (1) Forse non è genere distinto. (2) Le tre specie di 0/0 non sono sufficientemente definite. (3) Questi due primi cicli, per quanto si riferisce ai fenomeni di glaciazione e di alluvionamento, sul ter- reno non sono ancora stati distinti fra loro. (4) Offre una trasgressione marina osservabile a La Plata e altrove. dio, — Chimica. — Azione dell’iodio sull’acido selenidrico. Nota di Lurcir RoLLAa e AncELO REPETTO ('), presentata dal Corrispondente A. GaRBasso (°). In una Nota precedente si fece vedere come, utilizzando la costante di equilibrio della reazione H.Se-+I,=2HI+Se, si possa calcolare con molta precisione il calore di formazione dell’acido selenidrico. È necessario ora descrivere le particolarità sperimentali del me- todo seguìto. Il dispositivo è rappresentato schematicamente nella figura. Dalle esperienze di De Forcrand e Fonzes Diacon (*) si può conclu- dere che il metodo migliore per preparare l'acido selenidrico sia quello fondato sulla decomponibilità del seleniuro di alluminio per l’azione del- l’acqua. E infatti il seleniuro di alluminio si ottiene facilmente, mescolando quantità calcolate di selenio e di alluminio in polvere e iniziando la rea- zione con un nastrino di magnesio incandescente. Si ottiene, con grande sviluppo di calore, un prodotto fuso di frattura vetrosa, durissimo, il quale, già per azione dell'umidità dell’aria, sviluppa idrogeno seleniato. | rn O | |a ALIUIN ta A è il recipiente che serve per lo sviluppo dell’acido selenidrico. È una bottiglia, a tappo smerigliato, munita di un imbuto a rubinetto ripieno di acqua. In fondo alla bottiglia sì trova il seleniuro di alluminio ridotto in pezzetti, il quale sviluppa uniformemente il gas selenidrico quando sia re- golato opportunamente l'efflusso dell'acqua. L'idrogeno seleniato, quando non (1) Lavoro eseguito nell’Istituto di chimica generale dell’Università di Genova. (£) Pervenuta all'Accademia il 9 settembre 1912. (*) Ann. d. Phys. et de Chimie, (7), 26, 247 (1902). — 464 — ci sia eccesso di acqua nella bottiglia, si ha secco; nondimeno è bene di farlo passare sul cloruro di calcio prima di farlo gorgogliare in un liquido inerte: per esempio, nell'olio di paraffina. La bottiglia B, unita al tubo di efflusso mediante un rubinetto a tre vie (a), non ha altro scopo che quello d’impedire l'azione deleteria e vene- fica del gas. Prima di cominciare l’esperienza, si scaccia l'aria dal reci- piente 4, dal tubo a U e dalla bottiglia di lavaggio, per spostamento col- l'acido selenidrico, girando convenientemente il rubinetto a tre vie, in modo che dapprima l'aria, poi il gas, debba passare attraverso la soluzione di potassa contenuta in 2. Quando poi l'esperienza è finita, si aspira colla pompa tutto il gas contenuto in B e in 4 facendo tornare tutto allo stato iniziale senza che una traccia d'idrogeno seleniato possa spandersi nell’ambiente e produrre effetti dannosi sugli organi respiratorii. Nel voltametro V si produce l'idrogeno mediante elettrolisi di una soluzione di potassa purissima al 30 °/, fra elettrodi di nichel: il gas che si sviluppa, che potrebbe contenere un po’ di ossigeno, passa attraverso un tubo contenente una certa quantità di amianto palladiato, il quale viene scaldato elettricamente a una temperatura non inferiore ai 300°. L'idrogeno, così purificato, gorgoglia in una soluzione di potassa o di acetato di piombo contenuta in una specie di valvola che serve per impedire che l'acido selenidrico possa in alcun modo arrivare fino al voltametro. I due gas, già secchi, si mescolano in una bottiglia Y e poi passano attraverso a un tubo a U ripieno per metà di cloruro di calcio e per l’altra metà di anidride fosforica, e raggiungono così il tubo D in cui avviene la reazione. Questo tubo è del diametro di circa 15 millimetri ed è carico di una miscela intima secca, di circa cinque parti di jodio per una di selenio, nella quale s' introduce qualche sostanza inerte (pezzetti di vetro o amianto lavato e calcinato alla forgia) a fine di impedire un eventuale otturamento. Iodio e selenio vanno purificati con grande cura: il primo con ripetute sublimazioni e l’altro per via chimica. A tal uopo, nell'acido nitrico si scio- glieva alquanto del selenio (proveniente dalla fabbrica Merck), trasformandolo in anidride seleniosa: si tirava a secco e si sublimava il residuo. Gli aghi bianchi di Se0,, che si ottenevano, venivano sciolti in acqua e si aggiungeva un po di acqua di barite finchè il precipitato, che sùbito si formava, non si fosse ridisciolto. La soluzione, filtrata, si sottoponeva a una corrente di anidride solforosa, e il selenio che precipitava sì raccoglieva e si lavava @ lungo con acqua distillata; indi si disseccava sull’anidride fosforica. In tal modo si ha il selenio amorfo, chimicamente puro. Il tubo D è mantenuto a temperatura costante con un termostato munito di agitatore e termoregolatore a toluolo. La temperatura, misurata con un termometro a mercurio, tarato, non ha avuto mai una oscillazione — 465 — superiore al decimo di grado. Dapprima si eseguì la reazione a 16°,9 e a 269,9: indi a zero gradi. Il tubo D, in quest'ultimo caso, veniva immerso in un grande vaso di Dewar ripieno di ghiaccio fondente. La miscela gassosa che usciva dal tubo D, costituita da vapore di iodio, acido selenidrico, acido iodidrico e idrogeno, passava attraverso a un ser- pentino immerso in un vaso di Dewar nel quale si trovava una miscela di acido carbonico e alcool a una temperatura non superiore ai 30°, a fine di condensare #70 l’iodio. Il serpentino è costituito da un tubo di vetro, lungo 4-5 metri, ripiegato molte volte a guisa di reticolato. Dopo un rubinetto a tre vie (8) venivano gli apparecchi di assorbimento, costituiti da doppie bolle ripiene di potassa al 50 °/, seguìte da altre bolle che servivano come spie e da un tubo a cloruro di calcio. Infine, dopo un altro tubo a cloruro di calcio, era inserita una colonna d'acqua come regolatore di pressione. Dopo varii tentativi, si adottò per le bolle la forma indicata dalla figura, per es- sere sicuri che la scarsa solubilità dello ioduro di potassio potesse produrre un aumento sulla pressione della miscela gassosa. La quale è stata fissata una volta per tutte, e misurata con un manometro a paraffina (4 = 0,80) inserito tra il tubo 2 e il serpentino in 6,5 millimetri di mercurio. Sì re- golava così l'altezza della colonna d'acqua posta, di là dal voltametro V, in modo, che il livello della potassa nelle due branche di questo fosse eguale e costante. Prima dell'esperienza, si teneva chiuso il rubinetto a tre vie @ e aperto quello 8, in modo che l'idrogeno, che si sviluppava dal voltametro, dovesse essere spinto nella soluzione di potassa contenuta nella bottiglia di lavag- gio Z, nella quale la pressione era mantenuta costante per mezzo di una colonna d'acqua. In tal modo, dopo alcune ore, l'apparecchio era riempito d' idrogeno, mentre che, producendosi l'acido selenidrico, la bottiglia 4, il tubo a U, la bottiglia di gorgogliamento e ia bottiglia B si riempivano di questo gas. Poi, per alcune ore, dopo aver stabilito la comunicazione tra la bottiglia A e l'apparecchio (col girare il rubinetto @), sempre essendo escluse le bolle di assorbimento, sì faceva avvenire la reazione finchè non fosse raggiunto total- mente l'equilibrio: e che cioè la composizione della miscela gassosa, che veniva spinta in Z, da 2 in poi fosse costante. E ciò è indipendente dalla velo- cità di efflusso, la quale però non deve mai superare un certo limite. Allora sì girava il rubinetto 8, escludendo Z e inserendo le bolle e il tubo a cloruro di calcio pesato. Nello stesso istante, con un commutatore, sì inseriva un voltametro a rame nel circuito che serviva alla produzione dell'idrogeno, a lo scopo di pote: calcolare, colla legge di Faraday, la quantità di questo gas che nell'apparecchio entrava dall'inizio alla fine dell'esperienza. Per controllo, fu inserito in serie un amperometro [Hartmann e Braun] tarato e munito di una scala che permette di apprezzare ì cinquantesimi di Anmapère (da 0,2 fino a 2). — 466 — Si teneva esatto conto della durata dell'esperienza, e si regolavano con un reostato le piccole escillazioni dell'intensità dovute alle variazioni della tensione della corrente stradale (110 volts). I due dati furono sempre coin- cidenti: solo una volta il valore ottenuto pesando il rame separato sul vol- tametro è stato un po’ inferiore a quello calcolato sulle indicazioni dell'am- perometro. L'intensità della corrente non superò mai i 0,5 ampères. A esperienza finita, si girava il rubinetto #, si interrompeva la produzione dei gas, e me- diante una pompa si aspirava aria attraverso gli apparecchi di assor- bimento, facendola entrare per una piccola apertura di #8 dopo averla puri- ficata per mezzo di una colonna a potassa posta in luogo della bottiglia £. Si staccavano e si ripesavano le bolle e il tubo a cloruro di calcio, e sì aveva così la somma dei pesi dell'acido jodidrico e selenidrico. Intanto, attraverso l'apertura y, che durante l’esperienza rimaneva chiusa per mezzo di una colonna di mercurio, si aspirava l’aria in tutto l'apparecchio, che era riportato così nelle condizioni iniziali. La quistione è ora ridotta al dosaggio dell'acido jodidrico e selenidrico. La miscela di joduro e seleniuro di potassio era portata a volume, e a una frazione di questo si aggiungeva un eccesso di soluzione N/,, di AgNOg, e si acidificava con HNO;, prima diluito, poi concentrato. Il seleniuro di argento che era precipitato insieme con lo joduro, si scioglie di mano in mano, e, con un eccesso di acido nitrico concentrato, innalzando la temperatura fino all’ebollizione, passa tutto a seleniato di argento (!). Il precipitato che sì raccoglie sul fondo del vaso è costituito di AgI, e, quanto al liquido, si può applicare il metodo di Wohlard. Per differenza, si calcola il peso dell'acido selenidrico. Il metodo ha bisogno di una correzione, e cioè bisogna tener conto della quantità di alogeni (cloro) che la potassa, per quanto purificata, contiene sempre. Nel caso nostro, un grammo dì soluzione a parti eguali di potassa con- sumava ce. 0,038 di soluzione normale decima di Ag NO;. Essendo adunque necessario di tener conto esatto della quantità di KOH adoperata in ciascuna esperienza, otto sono le pesate sufficienti per determi- nare tutte le quantità che definiscono la costante di equilibrio. In alcuni saggi furono dosati, per controllo, l’acido jodidrico e l'acido se- lenidrico separatamente, per pesata. I numeri ottenuti concordano assai bene con quelli avuti col metodo volumetrico. Quanto all'acido jodidrico, si pesò allo stato di joduro di argento dopo aver scaldato all’ebollizione con acido nitrico: si ebbero, in due esperienze, i seguenti dati: (1) Moissan, Zraité de chimie minérale, V, 560. ir — HI num. d’ordine dell'esperienza per pesata IN—1290 8 gr. 11,0752 Ti—290 ll » 17,1243 calcolato per differenza col metodo volumetrico gr. 11,0749 » 17,1255 I seleniuri di potassio si decompongono, per l’azione dell'ossigeno del- l'aria, con grande facilità, liberando il selenio amorfo (?). L'aumento di temperatura favorisce questo processo, in modo che esso avviene rapidamente e completamente. Una porzione misurata della soluzione di seleniuro e joduro di potassio si metteva in capsula, a bagno maria, per circa tre ore; poi, dopo raffred- damento, si pesava il selenio separato. Ecco i risultati di tre misure confrontati con quelli ottenuti col metodo volumetrico : H. Se num. «l’ordine calcolato per differenza dell’esperienza per pesata col metodo volumetrico = 00 TI gr. 0,3589 gr. 0,3598 T = 5300 14 » 0,1633 » 0,1649 IEZZO 26 » 0,2251 » 0,2265 Si vede che i numeri della seconda colonna sono sempre più piccoli che quelli della terza. Questo sta a indicare che l'operazione non può essere fatta così rapidamente che un po’ di selenio non si separi prima che venga misurata la soluzione da analizzare. Del resto, uno dei metodi migliori per dosare il selenio è certamente quello di ridurre il sale in soluzione mediante l’idrato o il solfato di idra- zina (*). A una porzione misurata del liquido da analizzare si aggiungeva tanto acido solforico diluito da renderla leggermente acida, e poi un eccesso di soluzione concentrata di solfato d’idrazina. Scaldando a bagno maria, si liberava tosto il selenio amorfo, che veniva pesato. La seguente tabella riproduce i risultati di due determinazioni: H. Se num. d'ordine dell’esperienza per pesata 2341: 26 gr. 0,2258 T= 273,1 27 ’ calcolato per differenza col metodo volumetrico gr. 0,2245 0,1359 » 0,1368 (1) Moissan, loc. cit. pag. 469. (?) Gutbier u. Grunewald, Journ. f. prakt. Ch. 85, 325 (1912). — 46S — Si può concludere che il metodo volumetrico permette di raggiungere lo scopo, e che l'errore che sì commette nella valutazione dei pesi dell'acido selenidrico e jodidrico è inferiore all'uno per cento. Dopo ciò, non rimane che riassumere i risultati delle esperienze nella seguente TABELLA (') Temperatura Na Na ng I lg K 300,0 0,05392 0,00201 0,03514 762,9 4,15685 300,0 0,06672 0,00285 0,01704 157,1 4,13779 300,0 0,09792 0,00396 0,05005 758,3 4,13801 300,0 0,05579 0,00193 0,02928 759,6 4,15726 290,0 0,05569 0,0016838 0,02424 760,2 4,29545 290,0 0,08662 0,00278 0,03157 700,2 4,23517 290,0 0,06386 0,00153, 0,05279 764,0 4,23628 290,0 0,13170 0,00363 0,07473 763,0 4,23485 290,0 0,08331 0,00219 0,05454 159,7 4,23533 273,1 0,11395 0,00275 0,01323 759,8 4,40884 273,1 0,09174 0,00181 0,0288387 764,3 4,40711 273,1 0,10270 0,00246 0,0220 761,0 4,40919 273,1 0,03290 0,00135 0,06675 758,1 4,40756 I valori dell'ultima colonna, che si mantengono, per ciascuna tempe- ratura, praticamente costanti, furono già utilizzati nella Nota precedente, già citata, per la determinazione del calore di formazione dell'acido sele- nidrico. (1) 21, %,, 3 rappresentano il numero di mol. gr. di HI, H,S ,H.;IJ=P—p—p,, dove P sta ad indicare la pressione barometrica, p= 6,5 mm Hg, e p4= tensione di va- (In)? pore dell I.; RS) 0a ci me — 469 — Chimica. — Contributo allo studio chimico dei pirosseni della provincia di Roma ('). Nota di N. PARRAVANO, presentata dal Socio PATERNÒ (°). I pirosseni appartengono ai minerali più frequenti nei terreni vulcanici della provincia di Roma: essi si rinvengono, infatti, non soltanto come co- stituenti essenziali delle leucititi e delle leucotefriti, che hanno larga impor- tanza geologica in questa provincia, ma anche notevolmente diffusi nei tufi, nei peperini e nei blocchi rigettati. Abbondantemente si rinvengono inoltre nelle sabbie dei varî torrentelli e fiumiciattoli che scendono giù dai monti Albani, compe pure dai vulcani Sabatini, Cimini, e dagli Ernici. I pirosseni più comuni nella provincia di Roma presentano colore varia- bile dal verde al nero, ed appartengono in gran prevalenza all’augite. Tra le varietà verdi, alcune devono, invece, riferirsi all'egerinaugite ; altre, che per le loro proprietà ottiche sembrerebbero intermedie tra questo minerale e l’egirina, mentre possiedono una composizione ben diversa, furono dal Viola distinte col nome di fedorowite (*). Specialmente nei blocchi rigettati non mancano poi pirosseni di tipo diopsidico, ed in quelli dei vulcani Cimini l’Artini ha trovato un pirosseno che ha dubitativamente riferito alla sche/- ferite. Malgrado la loro diffusione, i pirosseni della provincia di Roma sono stati, finora, poco studiati dal punto di vista chimico. L'augite nera dei monti Albani fu analizzata da Klaproth (‘) e, più recentemente, dallo Zam- bonini (*). Al Piccini (5) si deve un’analisi dell’augite nera dei tufi di Ponte Buttero, sulla via Laurentina, e il Kraus (") ha analizzato la fedorowite del Viola. Finalmente, lo Zambonini (5) ha fatto conoscere la composizione chi- mica dell’augite nera dei tuti di Canale Monterano. I risultati ottenuti dagli autori ricordati sono riuniti nella tabella che segue. (4) Lavoro eseguito nell’Istituto chimico della R. Università di Roma. (2) Pervenuta all'Accademia il 1° ottobre 1912. (8) Neues Jahrb. f. Min, Geol. ecc., 7, 121, (1399). (4) Hintze-Handbuch der Mineralogie, II, 1040 (1897). (5) Zeit. f. Krystall. 33, 39 (1900). (8) Atti R. Acc. Lincei [3] Trans. 4, 224 (1880). (*) Zeit. f. Krystall. 23, 36 (1900). (*) Zeit. f. Krystall. 40, 57 (1905). RENDICONTI, 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 61 Augite nera dei vulcani laziali Augite nera | Fedorowite Monterano Klaproth Zambonini Piccini Zambonini Kraus SUO eee 48,00 48,86 50,31 50,88 52,35 IO se _ 0,37 —_ 1,02 — AO 00 5,00 5,23 4,87 5,86 2,38 Mago 63 12,00 1,71 1,59 1,21 2,24 OR — 10,02 3,76 4,67 1,94 Min Oeste 1,00 0,23 — traccie = Calo 24,00 24,34 24,64 22,96 24,63 Migo ooo 8,75 8,35 13,16 13,78 14,40 Na ORC —_ _ = 0,50 2,54 HO — = = 0,34 va Perdita per calcinazione — = 0,35 = = 98,75 CELTI 98,68 100,72 100,48 Allo scopo di portare un contributo allo studio chimico dei pirosseni della provincia di Roma, ho analizzato l’augite verde dei dintorni di Castel- nuovo di Porto (regione dei vulcani Sabatini), ed un cristallo della varietà nera, così frequente nelle sabbie del fosso del Tavolato, dove questi cristalli vengono trasportati dalle acque che scendono dai monti Albani. Per l'analisi mi son servito dei metodi consigliati dall’ Hillebrand (?). Per il dosaggio del ferro ferroso ho seguito il metodo di Pratt modificato da Hillebrand, cioè ho fatto bollire la polvere del minerale con acido solforico e fluoridrico in crogiuolo di platino adoperando anidride carbonica solo allo inizio dell’attacco. Dittrich e Leonhard (?) hanno fatto recentemente osservare che il punto finale della titolazione del ferro ferroso con permanganato spesso non si col- pisce bene, e di questo attribuiscono la causa al titanio presente sotto forma di Ti,0z3. Sebbene le quantità di titanio da me riscontrate nei due pirosseni siano nei limiti nei quali, secondo i detti autori, esse non provocano incon- venienti nella titolazione del ferro ferroso. pure ho voluto confermare i miei risultati titolando, come essi consigliano, in presenza di acido silicico e sol- fato potassico. I risultati sono stati perfettamente concordanti con quelli avuti secondo Pratt. (1) Analyse der Silicat- und Carbonatgesteine. Deutsch von Wilke-Déorfurt, Engel- mann. Leipzig, 1910. (2) Zeit. Anorg. Ch., 74, 21 (1912). — 471 — Riporto qui i risultati delle analisi I si riferisce al pirosseno verde di Castelnuovo di Porto; II al cristallo di augite nera del fosso del Tavolato. I II Si O; 53,81 44,53 TiO, 0,44 0,69 Al, 03 10,82 10,29 Fe. 03 2,13 2,95 Fe 0 1,27 9,14 Mn0 —_ 0,04 Ca 0 22,46 25,22 Mg0 7,94 5,78 Na: 0 0,86 —_ H.0 (sotto 110°) 0,07 _ H,0 (sopra 110°) 0,34 0,02 99,78 99,77 Le due augiti analizzate differiscono fortemente nella composizione non soltanto fra loro, ma anche rispetto alle varietà che erano state già analiz- zate, come risulta dal confronto delle mie analisi con quelle riportate nella tabella precedente. Ciò non può recare meraviglia, perchè è noto che i pi- rosseni più comuni non posseggono una composizione chimica costante, ma che, al contrario, essi rappresentano soluzioni solide di varii silicati. Si comprende, così, facilmente, come anche in uno stesso giacimento possano aversi forti oscillazioni nella composizione chimica. Ricordo a questo proposito che le ricerche eseguite di recente con indi- rizzo moderno per spiegare la natura dei minerali, e la ragion della loro comparsa o meno nelle diverse formazioni, hanno pienamente confermato che di regola essi non sono singoli composti semplici, ma cristalli misti com- plicati che contengono diversi composti in soluzione solida. Così Day e Allen (!) hanno trovato che, corrispondentemente alle vedute di Tschermak, tra al- bite e anortite esiste isomorfismo completo, e Allen e White (?) hanno sta- bilito che il diopside (Ca, Mg)(Si0). può sciogliere allo stato solido sia CaSi 0; che MgSi0;, e viceversa. (1) Zeit. Phys. Ch. 54, 1 (1905). (£) Am. J. Sc. Silliman [4] 271 (1909). Vedi pure il riassunto di R. Marc sui la- vori pubblicati dal Geophysikal Laboratory of the Carnegie Institution in Washington in Zeit. f. Elektr., 18, 2 (1912). Microbiologia. — Di un fermento lattico filante (') (Bacillus caset filans). Nota del prof. CosranTINO GORINI, presentata dal Socio BrIosI (?). Più mi addentro nella conoscenza dei fermenti o batteri lattici e più mi convinco che essi diversificano fra loro maggiormente per le proprietà fisiologiche che per le morfologiche. Grave errore è il credere. come alcuni fanno, che le prime siano in certo qual modo connesse colle seconde; così, ad es., si legge qua e là che i fermenti lattici di forma coccica amano tem- perature diverse, producono gradi differenti di acidità, ecc. dei fermenti lat- tici di forma bacillare; ciò è del tutto inesatto, perocchè io ho incontrato cocchi lattici più filotermi e più acidificanti dei bacilli lattici e viceversa. È dunque necessario, per la identificazione di un fermento lattico, non ac- contentarsi di indicarne la forma, presumendo che nelle funzioni esso si com- porti al pari dei fermenti lattici morfologicamente simili; sibbene occorre studiarlo anche nelle sue attività fisiochimiche. Vero è che, mentre per rispetto alla forma le nostre cognizioni si pos- sono ritenere al completo quando si siano classificati i fermenti lattici in due o tutt'al più in tre gruppi (cocchi, bastoncini corti e bastoncini lunghi), per rispetto alla loro azione sul latte siamo appena all'inizio del loro dif- ferenziamento. Io ho già dato da tempo un primo saggio di tale studio, dimostrando come di detti fermenti se ne possano fare due gruppi fisiologici: un primo gruppo costituito da batteri che spiegano solamente azione acidificante sul latte, onde sono da considerarsi fermenti semplici del lattosio; un secondo gruppo formato da batteri da me rivelati (*), i quali, oltre al potere aci- dificante, possiedono anche un potere proteolitico, per cui sono da conside- rarsi fermenti misti del lattosio e della caseina. È questa una differenzia- zione affatto indipendente dalla forma, imperocchè tanto di fermenti sem- plicemente acidificanti, quanto di fermenti acido-proteolitici se ne trovano così fra i cocchi lattici come fra i bacilli lattici. (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Batteriologia della R. Scuola Sup. di Agri- coltura di Milano. (*) Pervenuta all'Accademia il 19 settembre 1912. (3) Atti dei Laboratorii di Sanità Pubblica al Ministero Interni, Roma, 1892; Rivista d’Igiene è Sanità pubblica, 1893, pag. 549; Giornale della R. Società Italiana d’igiene, 1894, n. 4; Rend. R. Istit. Lomb. di Scienze e Lettere, 1901, 1904, 1903; Atti della So- cietà Medico-Biologica Milanese, 1910, fase. 1. — 4753 — Più tardi feci conoscere che di fermenti lattico proteolitici se ne dànno due tipi: uno che rivela e un altro che non rivela il suo potere proteolitico anche nelle culture in gelatina ('). Oggi reco un nuovo contributo alla questione richiamando l’attenzione sopra un tipo di fermento lattico, che ho isolato dal formaggio di Grana e che ha la proprietà di rendere filante il latte. La capacità di conferire al latte una consistenza vischiosa, mucilaginosa, filamentosa è stata osservata da varî autori (*) presso i fermenti lattici, ma non mai come loro proprietà costante ed essenziale. Infatti essa è stata con- siderata ora come un fenomeno di degenerazione e attenuazione dei fermenti stessi; ora come un fenomeno che si manifesta solamente nelle culture in latte crudo e non in quelle in latte sterilizzato; ora come un fenomeno oc- casionale destinato a scomparire nelle culture successive; ora come un feno- meno legato alla simbiosi dei fermenti lattici con altri microbi (blastomi- ceti). Niente di tutto ciò invece io ho avvertito nel batterio in parola; sono dieci anni che lo tengo nella mia collezione mediante trapianti settimanali e quindicinali, e posso asserire che il potere filante si è mantenuto sempre, dal giorno della sua estrazione dal formaggio a tutto dì, anche in coltura pura e in latte sterzlizcato (in autoclave a 120° C. per 20 minuti) e senza presentare nessuno indizio di degenerazione morfologica nè di attenuazione fisiologica. Di più, nel potere filante di questo batterio ho riscontrato un altro carattere particolare importante, ed è: che la filamentosità del latte dura solamente fino ai primordi della coagulazione, e va scemando e scom- parendo col progredire di questa e della contemporanea acidificazione del latte. In altri termini: in questo batterio la proprietà filante, pure essendo costante, non è permanente ma transitoria; si manifesta cioè soltanto nei primi periodi del suo sviluppo. Non m’indugio qui a discutere se e fin dove il mancato accertamento da parte di altri Autori di questa transitorietà della filamentosità del latte in una medesima cultura possa spiegare quel- l’incostanza o quella scomparsa, l'una e l’altra farse apparenti, che sono state notate nella capacità filante dei fermenti lattici da loro studiati. Ecco ora i principali caratteri morfologici e fisiologici del batterio in discorso. Le sue condizioni ottimali di sviluppo si trovano nelle culture in latte a 42-45° C.; al di sotto di 30° C. si sviluppa lentamente. Bacilli a estremità arrotondate, della larghezza media di micromillimetri 0.8 e della lunghezza media di micromillimetri 7-9, spesso diplobacilli; talora lunghi filamenti. (4) Rend. R. Acc. Lincei, XIX, 2° sem. 1910, pag. 150. (*) Leichmann, Landw, Versuchst., XLIII, pag. 375; Weigmann, Centralbl. f. Bakt. 22 Abt., Bd. V, pag. 825; Hohl und Steinegger, Landw. Iahrb. d. Schweiz, 1908; Burri, Centralbl. f. Bakt. 2% Abt., Bd. XII, 1904, pagg. 192 e 371; Landw. Iahrb. d. Schweiz, anno 1909. — 474 — Si tingono coi comuni colori di anilina e anche col metodo Gram; presentano spesso endo-granulazioni; sono immobili, non sporigeni, anaerobi facoltativi. Per l'isolamento di questo bacillo servono bene le culture disseminate in alti strati di agar lattosato al due per cento, tenute a 40-42° C.; vi si svi- luppa in 24-48 ore, preferibilmente nelle zone inferiori del terreno culturale, intorbidandolo e formando colonie giallognole, rotendeggianti, del diametro di 2-3 mm.; alcune colonie sono a margini lisci, somigliando a dischetti o a piccole lenti, altre sono a contorni irregolari, somigliando a fiocchetti o bioccoli; queste seconde sono le colonie più caratteristiche, sebbene siano comuni anche ad altre specie di fermenti lattici, segnatamente di forma ha- cillare. La filamentosità delle colonie può aiutare grandemente nella loro ricerca; devo però avvertire che non in tutte le colonie essa è manifesta. Degno soprattutto di nota è il comportamento del bacillo nelle culture in latte. A 42-45° C., dopo sei a sette ore incomincia a filare leggermente; dopo nove a dieci ore coagula, raggiungendo un’acidità pari a 18-22 gradi Soxhlet (18-22 centimetri cubici di soda caustica quartinormale per 50 cen- timetri cubici di cultura di latte). Sulle prime il coagulo è molliccio e filante; in seguito diventa sodo e perde la vischiosità; nessun sviluppo di gas. Osservo che la potenza fermentativa di questo batterio sul latte è tale da assegnargli una posizione privilegiata fra i comuni fermenti lattici, i quali impiegano, com'è noto, da 15 a 24 ore per coagulare il latte nelle condi- zioni ottimali; noto ancora che così energica attività non permette certa- mente di considerare la proprietà filante di questo batterio quale un indizio di attenuazione fisiologica, come vorrebbero alcuni autori per rispetto ad altri fermenti lattici. In base a tutte le considerazioni sovraesposte, io stimo che questo fer- mento lattico, per i suoi caratteri peculiari (alta virulenza associata alla proprietà filante transitoria ma costante sul latte) meriti di essere fisiologica- mente differenziato dai suoi similari; e, tenuto conto della sua sede, credo opportuno designarlo col nome di BaczWus casei filans. Mi riserbo di trattare in altra occasione i rapporti che questo fermento lattico ha colla pratica casearia. E. M. Pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1% — Atti dell'Accademia pontificia dei Nuovi Lincei. Tomo I-XXIII Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2° — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. 1II. (1875-76). Parte 18 TRANSUNTI. 22 MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 9* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. IV. V. VI. VII. VIII. Serie 3* — TransUNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II (1, 2). — II-XIX. 3 MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4° — RenpiIcONTI. Vol. I-VII. (1884-91). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol I-X. Serie 5* — ReNDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XXI. (1892-1912). 2° Sem. Fasc. 7°. RenpIconTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XXI. (1892-1912). Fasc. 1°-4°. MEemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-IX. Fasc. 6°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCRI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispone denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l'Italia è di L. £%; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni sì ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno Loescaer & (C.° — Roma, Torino e Firenze. ULrIco Horpi. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Ottobre 1912. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali MEMORIE E NOW DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI pervenute all'Accademia durante le ferie del 1912. Bottazzi. Sulla tensione superficiale delle soluzioni e sospensioni di saponi . . . . Pag. Nasini e Porlezza. Sulla presenza di notevoli quantità di acido borico nelle acque minerali di Salsomaggiore. . . . È RAP i Lo Bianchi. Intorno ad una nuova celate di e sia E EEE OOO) RIOOEROREE SERTSANI Emery. Sulla teoria della determinazione dei sessi . . . © ARIA Amoroso. Estensione di alcuni precedenti risultati (pres. dal Cona sio «Mi Ren Andreoli. Sulla totalità dei numeri primi inferiori ad un limite assegnato (pres. dal Socio Levi-Civita) . . . SL UN 1 lap gi nic SRI e LEI NITTI Crudeli. I corpi di serio id (pres. dal Socio Piga) E SRD NT e «Cei Giorgi. Sui problemi della elasticità ereditaria (pres. dal “TER Di Leggo. SIE eric Molinari. Sull’integrale di Dirichlet (pres. Id.) . . . . 4 PIL o Soula. Sur la permutabilité de 2iòme espece (pres. dal Socio Volertai Six SONE) Piola e Tieri. Gli sforzi interni nei corpi i posti nel campo imagnshieo (pres. dalliSocio Na lasenza). 0. } SVOLTA ” Bernardis. Soluzioni solide fra alogenuri di uno sa lenti n es. i GUEngSI Piutti). ” Calcagni. Basicità degli acidi contenenti ossidrili alcoolici (pres. dal Socio Paternò) . . » Colacicchi e Bertoni. Azione degli alcoolati sodici sopra gli eteri carbopirrolici (pres. dal Socio Ciamician). . . A i, TZ e ai i ele Salvadori. Combinazioni dani con Dia (ide dal o, NOSINI) TIA SNO n Rovereto. Sulle correlazioni del pampeano con i fenomeni quaternarii della glaciazione (pres. daliCorrispi0/sse)) (0 en STAR Rolla e Repetto. Azione dell’iodio e i idrico Gu dal Cimiano Ganianto) nd i) Parravano. Contributo allo studio chimico dei pirosseni della provincia di Roma (pres. dal Socio Paternò) . . . È 3 RASTA) Gorini. Di un fermento lattico filante (Bacilios casei È Alanis) (ee doi Socio Bai RO: ERRATA-CORRIGE A pag. 380 penultima linea del testo invece di Z'arasso legg. Zarasp » 382 linea 7 invece di Sv.Cl, lesg. Sr Cl. 365 379 383 397 400 404 407 412 419 425 431 438 445 450 455 460 463 469 472 K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. rana ELLA CRINSIZIENDO Pubblicazione bimensile. Roma 27 ottobre 1912. N. 8. SL dal REALE ACCADEMIA DEI LINCHI NNINO CE@eGIEc 1912 sg EavEg TB; G), UN iL... A RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XXI. — Eascicolo 8° 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all’ Accademia durante le ferie del 1942. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d’arrivo). CORNA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1912 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine d' stampa, Le Note di estranei presentato da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 8. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti oratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che sì fanno nel seno dell'Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz'altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - 2) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all'autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell'Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall'art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50.se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI pervenute all'Accademia durante le ferie del 1942. (Ogni Memoria o Nota porta a pie’ di pagina la data d'arrivo) Chimica-fisica. — icerche sulla radioattività delle acque sorgive del Monte Amiata, ed esperienze sulla dispersione atmo- sferica della regione. Nota II (') del Socio R. NasINI e di C. PoRr- LEZZA. In un lavoro precedente (?) abbiamo avuto l'occasione di far rilevare la forte radioattività di numerose sorgenti appartenenti alla regione del Monte Amiata, radioattività tanto più notevole in quanto si tratta di comuni acque sorgive; dicevamo di più, che trattandosi di acque purissime, poste in una plaga montuosa e boschiva la quale a ragione viene scelta da molti come stazione climatica, le acque stesse meritavano di essere ancor meglio cono- sciute, oggi che, almeno all'estero, vengono costruiti emanatorî per la cura a mezzo dell'emanazione di radio, e che a molte acque minerali viene data, forse non a torto, tanto maggiore importanza quanto più esse sono radio- attive. A circa un anno di distanza, poichè le ricerche esposte in questa Nota sono state fatte nella seconda metà del settembre 1912, abbiamo quindi voluto riprendere le esperienze allora fatte, per vedere se i valori in quel (1) Pervenuta all'Accademia il 12 ottobre 1912. (*?) Rendiconti Acc. Lincei, vo]. XXI, 1° sem., pag. 316 (1912). RENDICONTI, 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 62 — 4760 — tempo riscontrati per la radioattività si erano mantenuti dello stesso ordine di grandezza; le ricerche quest'anno si presentavano interessanti, non solo perchè le misure venivano ripetute a così grande distanza di tempo, ma anche per il fatto delle condizioni meteorologiche speciali in cui si è trovato quest'anno il Monte Amiata. Infatti, poca o punta neve è caduta sul monte e le piogge sono state scarsissime, coefficienti questi che, data la straordi- naria siccità derivatane, potevano fare supporre un'influenza più o meno grande sulla portata, e, quindi, forse, anche sulla radioattività delle sorgenti stesse. Ci siamo perciò proposti di esaminare nuovamente, dal punto di vista della radioattività, alcune delle acque esaminate l'anno scorso, e in ispecie quelle per la quali si erano ottenuti valori più alti, o che, per la loro copia, erano da ritenersi più importanti. In connessione poi a tali esperienze, abbiamo anche voluto ripetere alcune delle misure di dispersione atmosferica, e farne delle nuove. Gli apparecchi impiegati furono gli stessi usati per le ricerche riportate nel lavoro citato: cioè l'apparecchio di Henrich leggermente modificato per quanto risguarda la misura della radioattività delle acque, e il contaioni di Ebert per ciò che concerne le misure di dispersione atmosferica. La tabella I riporta i risultati delle misure attuali da noi eseguite sulla radioattività delle acque; anche qui, accanto alla denominazione della sorgente, abbiamo segnato la località, la temperatura (temperatura media esterna, circa 15°), la dispersione, corretta secondo la formula di Henrich, in volt-ora-litro, l’attività in unità Mache e la quantità d’emanazione, espressa in mm’, contenuta in un litro d’acqua. Questo in base alla costante degli apparecchi usati, e cioè ricordando che la capacità elettrostatica dell’elettroscopio usato è di 14.5 cm. e che 1 volt-ora di dispersione corrisponde, nel nostro apparecchio, a 0.0373 X 10-19 mm d’emanazione. Per quanto risguarda i calcoli, rimandiamo a quel nostro precedente lavoro; così dicasi per le indicazioni relative alle sorgenti esa- minate. In questa tabella riportiamo pure, per maggiore chiarezza e comodità di confronto, i valori corrispondenti, ottenuti nelle esperienze del settem- bre 1911. TavoLa I. — ARadtoattività delle acque. e eeeeeee-==--=-=-=-«=-----=-=-----«*&#«-e-=““«“«““««“«“«““«“«“«“ a Dispersione Attività Quantità z cda di emanazione DENOMINAZIONE DELLA SORGENTE LOCALITÀ 5 [conlaformula| | in SOO E | di Henrich | nità Mache d’acqua E |Volt-ora-litro mms | | 1. Prima polla della sorgente del p | | Crognolo. .| Casteldelpiano | 10.5 | 308.8 4.146 (11,52 x 10-10 2. Acquadella polla suddetta, presa alla fonte di piazza Garibaldi e portata a casa in brocca Id. ME 96.5 Oo LZ ESSO 8. Peschiera . Santa Fiora |1l1 318.6 4.278. |11,88 XK 10710 4. Fonte di Castello . Id. 11.5] 451.0 6.055 |16,82 Xx 10710 5. Famelico Bagnore |12.5| 653.0 8.76 [24,86 X 10710 VALORI OTTENUTI NEL SETTEMBRE 1911. Nella esperienza 1. Casteldelpiano 10. 5| 188.0 2.524 | 7.01X107!0 Id. do Id. 12.5 97.6 0.505. | 1.40 x 10-10 Id. DI Santa Fiora |11.5| 313.5 4.209 |11.69X 10-10 Td. 4. Id. 11.5] 585.0 7.183 |19.95 X 10710 Id. 5 Bagnore 12.5] 683.0 9.170. [25.43 X 15710 TavoLa II. — Misure di dispersione atmosferica. Dispersione SUSrO TION CIFAVOTNIRUIUPA in Volt-minuto . Sul terrazzino della casa del prof. Nasini (Casteldelpiano) 2. Sul muricciuolo costeggiante il laghetto, formato dalla sor- gente del fiume Fiora (Santa Fiora) nel DILIntO E vicino alla sor gente (Se) vinciale da . Dentro al casotto dell'Acqua Forte (Bagnore) . Sopra all'acqua Forte (Bagnore), accanto alla strada pro- VALORI TROVATI NEL SETTEMBRE 1911. Nell’esperienza 1. Id. 2. 0.315 0.55 0.271 0.50 0.30 0.732 di ioni positivi per cm3 1158 1949 997 1838 1103 2691 — 478 — Da questa tabella risulta come i valori ottenuti nelle due serie di espe- rienze non siano molto diversi, se si eccettua l’esperienza 1, nella quale si è osservata una forte oscillazione. La tabella II contiene i risultati delle nuove misure di dispersione ese- guite col contaioni di Ebert. Rammentiamo che l’elettroscopio dell'apparecchio aveva la capacità elettrostatica di cm. 18.75, che la quantità d'aria aspirata ammontava a 50 litri al minuto primo, e che la misura fu prolungata anche qui per 10'; l'elettroscopio venne sempre caricato negativamente. Ci è sem- brato altresì utile di riportare in questa tabella i valori trovati nelle esperienze corrispondenti, fatte l’anno scorso. Non esistono, tra le misure fatte l'anno passato, quelle corrispondenti alle esperienze 3 e 4, essendo queste state fatte solamente quest'anno in relazione con altre ricerche le quali troveranno posto in un lavoro di pros- sima pubblicazione. Vogliamo però fin d'ora mettere in rilievo come la dispersione osservata nel casotto dell'acqua forte (esper. 4) sia molto maggiore di quella riscontrata nell'aria circostante (esper. 3) e sia superata solamente da quella osservata alla Peschiera di Santa Fiora (Esp. 2) dove, come abbiamo osservato a suo tempo, si è in circostanze eccezionali per la enorme massa d'acqua radioattiva che si trova in vicinanza del punto in cui fu fatta l’os- servazione. L'acqua Forte è invece completamente inattiva, essendo di natura affatto differente da quella della generalità delle acque del Monte Amiata; la forte depressione osservata è quindi maggiormente degna di nota, e cer- cheremo di darne la spiegazione nel lavoro cui sopra abbiamo accennato. Concludendo, dalle nuove ricerche fatte scaturiscono principalmente i seguenti risultati : 1°) viene confermata la forte radioattività di molte acque del Monte Amiata da noi accertata precedentemente; 2°) le nuove ricerche stabiliscono che tale proprietà si mantiene quasi inalterata anche ripetendo le osservazioni dopo lungo tempo, e che neppure le più variate condizioni metereologiche ne alterano considerevolmente l'ordine di grandezza. 3°) anche per quanto risguarda la dispersione atmosferica non sì 0s- servano notevoli divergenze. Tutto quanto è stato esposto in questa breve Nota, dimostra ancora una volta come le acque del Monte Amiata, già celebrate per la loro eccezionale purezza e freschezza, possano venire annoverate, in vista della forte radio- attività da noi riscontrata, tra le acque d'Italia maggiormente degne di spe- ciale considerazione. Attualmente, stiamo studiando le relazioni tra questa loro radioattività e quella delle roccie da cui scaturiscono. MT — Geologia. — Calimno. Cenni geologici. Nota del Socio CARLO De STEFANI (). Le notizie geologiche sulle Sporadi meridionali sono oltremodo scarse. Il compianto ammiraglio Spratt, circa la metà del secolo scorso aveva fatto quasi le prime importanti osservazioni su parecchie di quelle isole come su altre del Mediterraneo orientale. Fanno eccezione: Cos, studiata dal Gorceix, dal Tournouér, dal Neumayr; Casos e Rodi, studiate dal Bukowski, e Rodi, pei terreni terziarî recenti, bene illustrata anche da paleontologi francesi ed austriaci, e anche dal nostro Manzoni. Con materiali raccolti dal dott. Carlo Forsyth Major, della Società Reale di Londra. durante ì suoi ripetuti viaggi nell'Egeo per studî botanici, zoologici e paleontologici, io illustrai le isole di Carpathos (?) e di Samos (*); il Vinassa publicò le radiolarie del diaspro, probabilmente eocenico, di Carpathos; il Nelli illustrò una serie di fossili miocenici di Casos, ed il Chelussi descrisse una interessante roccia a glaucofane di Samos. A Samos il Major fece una abbondante raccolta di mammiferi fossili del Miocene, di straordinaria importanza. A Calimno il Major fu nel giugno e nel luglio 1886, e nell'aprile e maggio del 1887. Coi materiali del Major dò alcune indicazioni sull’isola di Calimno fino ad ora completamente sconosciuta dal punto di vista geologico e nella recente Carta geologica internazionale dell'Europa (4) indicata come interamente costituita da calcari della Creta. Questa indicazione si fonda sopra notizie date dal Neumayr (?), il quale vide l'isola da lontano, e cui essa apparve costituita da rocce calcaree bianche, indicate come cretacee, quali realmente sono, nella sua Carta geologica della adiacente isola di Kos. Secondo la Carta dell’Ammiragliato inglese, — rilevata sommariamente, salvo le coste, dal comandante T. Graves nel 1837 (5), e riprodotta con qualche (4) Pervenuta all'Accademia il 17 settembre 1912. (2) C. De Stefani, L'iWle de Xarpathos. Lausanne, Bridel 1895. (®) C. De Stefani, Apercu giologique de Vile de Samos, Lousanne, Bridel 1892. (*) Carte géologique internationale de l'Europe. Berlin, Reimer. (Feu:lle 40 E VI). (5) M. Neumayr, Veber die geologischen Bau der Insel Kos (Denkschr. d. mat. nat. Classe d. K. Ak. d. Wiss., Bd. XI, Wien 1879), pp. 215 e 282. (°) Zero and Kalimno, 1837 (Hydrographic Office of the Admiralty. Chart 1666); halimno to Rhodes (from Admiralty Surveys, 1837-1864. London, 1896). — 480 — aggiunta e rettificazione di nomi, ma in minore scala, dal Kiepert (!), — l'isola, nel suo allineamento generale, è costituita da una lunga catena diretta da nord-ovest a sud-est. parallelamente alla quale un’altra assai più breve catena corre ad est, ed altre due. più grandi, ma sempre minori di quella principale, stanno ad ovest, intercalate da due larghi piani. Probabilmente il più antico terreno dell’isola appartiene alla Creta, e secondo pare risultare dalle ripetute indicazioni date nella descrizione botanica del Major (*), costituisce tutti i monti principali come il Neumayr aveva previsto. Il Major ne ha raccolti molti esemplari alla cima e sulle pendici del monte S. Elia o Hagios Ilias, che non trovo nelle Carte topografiche, ma che, come di solito. nelle isole greche risponde alla montagna più alta, cioè al monte del Venerdì Santo (679 m.) o Hagia Paraskevi (Kiepert), im- pro priamente Parasiva della Carta inglese. Egli lo notò pure nel M. Kirapsili o Karapsili delle Carte. nel M. Galadhiani o Argano, nel Farangou Vuno, nelle rupi della costa sud-ovest, attorno alla baia Arginondha o Arginontas, presso Pothaea o Photis, o Pothia. È un calcare compatto, leggermente ceroide, biancastro o grigio-chiaro, con macchie più scure, appartenenti a sezioni di fossili calcarei formanti una cosa sola con la roccia, perciò non atti ad essere isolati ed in parte almeno già alquanto rotti e frantumati prima di essere com- presi nella roccia stessa. Rappresentano sezioni di Rudiste, di Merzreae, e di altri Gasteropodi, probabilmente grosse Aczteonellae. La roccia perciò appar- tiene realmente alla Creta e non alla sua parte più antica. Essa è quasi iden- tica ai calcari di scogliera cevoidi, chiari. giallastri, oscuri, quasi sempre pieni di minutissimi frammenti di Radioliti e Ippuriti, i quali con tanta uniformità si estendono nella parte occidentale della Penisola Balcanica, nelle isole Tonie ed in molta parte dell'Appennino centrale. Questi appartengono alla Creta media e superiore, ed io li distinsi come facies balcanica (*). Forse la locale compattezza del calcare di Calimno e la minor frantumazione dei fossili attestano una profondità di mare alquanto maggiore ed una rispondente maggiore distanza dall'orlo di scogliere eventualmeute emerse o maggior- mente esposte all'azione sommovitrice delle onde. Questo calcare è talora breccioso e spugnoso, colorato in rosso ed accom- pagnato da quantità di ossidi di ferro, forse in origine filoni di pirite che sollecitamente si è alterata. In alcuni punti, dei quali il Major non dà esatta determinazione, — ma probabilmente a Photis o Pothia dove egli si trovava nel maggio 1887, data della raccolta, — il calcare è traversato da filoni (1) R. Kiepert, Aorte von Kleinasien, Foglio DI Budrùm. Dietrich Reimer, Berlin, 1904. (?) C. F. Major, Aalymnos: étude botanique (Bulletin de l'’Herbier Boissier, vol. IV, n. 1, Genève, 1896). (3) C. De Stefani, / terreni terziari della provincia di Roma (Rend. Accad. Lincei, CI. sc. fis. mat., 15 gineno 1902). — 481 — di quarzo, probabilmente in origine accompagnanti del solfuro di ferro, ed oggi idrossidi di ferro e manganite. Forse da consimili filoni derivano le ghiaie quarzose più grosse di un'oliva, che si trovano frequenti nel conglo- merato o panchina quaternaria intorno a Vathy, principale città dell'isola (*). Da alcuni esemplari portati si giudica che il calcare sia in molti punti coperto da terra rossa. Miocene medio. Un calcare assai compatto proviene da un luogo non bene precisato, probabilmente da uno dei tratti pianeggianti che partiscono l'isola, o forse da quel luogo che nella descrizione botanica è indicato dal Major come regione schistosa incolta del M. Vigla a sud-ovest dell'isola. È marnoso, rossastro-chiaro, a strati distinti con frequenti vene ed arborescenze di ossido di manganese. Vi ho osservato Pectea Malvinae Dubois e P. macrotis Sow.= Gentoni Fontannes = multiscabrellus Sacco; perciò ritengo appartenga al Miocene medio. Per la sua compattezza e pel colore somiglia ai calcari verosimilmente di origine salmastra, con Crithiopsis carpathicus De St. di Kouloura a Carpathos e forse di Casos. Esaminando le sezioni microscopiche non ne ho veduto affatto distinte di foraminifere. Direi che non sia certo un calcare di origine sottomarina profonda; frammenti incompleti di organismi si vedono qua e là, fra i quali alcuni forse di ostracodi, i più di molluschi: ma da questi non si potrebbe inferire che si tratti di organismi prettamente marini, o salmastri o d’acqua dolce, sebbene la presenza dei Peczen attesti che il deposito era certamente marino, e probabilmente littorale. Andesite micaceo-anfibolica. Pomice. Il Major ha raccolto pure, senza dare indicazione precisa, una roccia andesitica simile a tante altre dell'Arcipelago greco e turco e del littorale (') Di terreni eocenici non sono tracce fra le rocce portate dal Major. Fra i mate- riali da lui raccolti nell’Arcipelago e da lui lasciati al Gabinetto di Geologia del R. Istituto superiore di Firenze, dopo che io già avevo pubblicato le notizie geologiche su Samos, è un calcare bianchiccio raccolto a Kokkari sulla costa settentrionale il 29 giugno 1887, che io non avevo indicato, appartenente all’Eocene medio. È un calcare nummulitico con Assilina spira De Roissy, A. subspira De la Harpe, Nummulites Gizehensis Ehrenb. var. Lyelli D’Arch., N. T'chihatchefi D'Arch., N. subfornasinii Prever, Pecten vicino all’arcuatus Brocchi, ed altra specie di Pecten. A Samos è dunque pure dell’Eocene, come a Rodi ed altrove nell’Arcipelago. Litologicamente è il solito calcare di tutto il Bacino Mediterraneo ad oriente del Mare Tirreno. Paleontologicamente quel calcare ha gli stessi fossili notati nella Siria dal Blankenhorn, nell’Egitto da Zittel e De la Harpe, nella Cirenaica da Gregory. SIVE Asiatico adiacente. La studierà accuratamente il prof. Millosevich. È una roccia piuttosto compatta. grigio-scura, con inclusi appariscenti di mediocri dimensioni. Fra questi sono abbondanti un feldspato polisintetico. talora a struttura zonare, che ai suoi angoli di estinzione sembra essere un plagio- clasio della serie più acida fino all'oligoclasio, ed una orneblenda verde, per lo più in cristalli allungati, di dimensioni maggiori del feldspato, talora frammentizî ma ordinariamente completi. Qua e là compaiono laminette di biotite. Più rari sono cristalletti di iperstene e probabilmente di augite. e granuli o frammenti di cristalli di olivina riconoscibili anche al forte rilievo. Sotto il microscopio appaiono qua e là abbondanti cristalletti di magnetite, specialmente alla periferia dei componenti colorati ferriferi. La massa fon- damentale, abbordantissima è grigio-scura, vetrosa, con microliti dei minerali anzidetti. Trattasi evidentemente di una Andesite micaceo-anfibolica. Tale roccia è simile a quella raccolta dal Major nel quarto nord-est di Cos, però diversa da quella roccia vulcanica del quarto sud-ovest di Cos, probabilmente derivante da Nisiro, raccolta dal Neumayr e indicata dal Doelter come Riolite assai acida. Simili Andesiti micaceo-anfiboliche trovansi a Aegina e Metana, raccolte da Reiss e Stilbel e determinate da von Fritsch poi più tardi dal Washington, a Milos (Ehrenburg e De Launay), a Santorino con varie altre rocce, a Metelino con altre rocce più acide e più basiche (De Launay), a Chio (Teller), nella Troade. In correlazione con questa Andesite è una roccia profondamente alterata, raccolta dal Major nel maggio nel littorale attorno alla città di Vathy sotto la pamchina quaternaria della quale si dirà or ora. È allappante, assai bianca, con fessure ricoperte da macchie giallastre o rossicce aventi apparenza di sottili concrezioni che probabilmente erano in origine solfati di ferro, poi trasformati in tenue velo limonitico. Si scioglie solo in piccola parte nell’acido solforico. Contiene granelli sparsi di quarzo e feldspato. i cui cristalli compaiono il più spesso sotto forma di residui scheletrici pro- fondamente alterati, con tracce ancora di lamine, o parte di lamine. meno alterate, poichè sembra che la struttura polisintetica abbia offerto, nei suoi componenti. base diversa all'alterazione. I componenti colorati, anfibolo, pirosseni, mica, sono tutti completamente decomposti e ridotti, probabilmente insieme con la magnetite scomparsa, a macchie gialle, appena conservanti talora tracce della forma cristallina primitiva. Così pure profondamente alterata è la abbondante massa fondamentale, in origine e tuttora in parte vetrosa, diventata nebulosa e lattiginosa, tras- formata in microscopiche laminette pleocroiche di caolino, e parzialmente forse anche in silice ed in alunite. Si tratta dunque della Dacite o Andesite alterata da azioni solfatariche. Della stessa località di questa, ma di natura diversa, assai più acida, è una Pomice bianchissima, raccolta în grossi esemplari. Somiglia a quella — 483 — del vulcano di monte Pelato di Lipari. Nella medesima, più che nell’Andesite, abbonda relativamente la biotite, e frequenti vi sono un plagioclasio vetroso, candido, e grani, pur bianchi, di quarzo. Rara vi è la magnetite e raro l’anfi- bolo. Evidentemente la roccia donde provenne questa pomice è, diversamente dall'Andesite, una Dacite acida, più somigliante a quella del Miocene di Myti- lini a Samos e di Lemno (De Launay), e forse di Samotracia (R. Hoernes). È difficile determinare l’età della eruzione di queste rocce. Solo si può dire in modo sicuro che sono più antiche della panchina quaternaria recen- tissima. A Samos le Trachiti fanno parte dei ben noti conglomerati fossiliferi di Mytilini, ed eruttarono nel Miocene medio e superiore. Così in altre isole si hanno Andesiti anche recentissime ed attuali, come nel gruppo di Santorino nell’Arcipelago greco, ed a Nisyros in quello turco. È probabile che le rocce di Calimno abbiano fatto eruzione nel Postpliocene. Evidente- mente, nell’Arcipelago greco e turco e nel littorale adiacente, come in Sar- degna e come in Sicilia, le eruzioni, più acide colà, più basiche nella seconda isola, prevalentemente di media acidità nell’Arcipelago, hanno cominciato nel Miocene medio ed hanno seguitato nell'attualità, senza diminuire d’in- tensità fino ad oggi, sebbene forse con leggère e temporanee soste nel Plio- cene. Sono probabilmente in rapporto coi contemporanei sollevamenti delle dette regioni. Panchina quaternaria. Sul littorale attorno alla città e sopra i materiali vulcanici trovasi una Panchina simile a quella che circonda tutti i littorali. più o meno calcarei, del Mediterraneo. È formata da scarse ghiaiette ovali irregolari di selci rosse, bigie, nere, e di quarzo biancastro, alcune delle quali raggiungono il diametro di 15 mm., cementate da residui calcarei di origine organica. Simili ghiaie sono di origine marina, ed è probabile che derivino in parte dai filoni nei calcari cretacei; ma in gran parte derivano da qualche roccia più antica, che spunta lungo le coste dell’isola, oppure da luoghi vicini. A primo aspetto credevo di poterle avvicinare ai calcari miocenici descritti sopra. ed a quelli di Casos; ma i fossili seguenti, tutti appartenenti a specie viventi, mì inducono a ritenere questa Panchina molto recente, anche più dei terrenì del Postpliocene inferiore o Pliocene superiore di Rodi e di Cos: Operculina ammonoides Gron., comune. Ostrea edulis L. Corbula gibba Olivi. Cytherea multilamella Tck. Gouldia minima Mtg. Cardium exiguum Gmelin. Tellina compressa Brocchi. Trochus striatus L. Cerithiolum scabrum Olivi. RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 63 — 4184 — Probabilmente questa Panchina occupa estesi tratti periferici, e forse parte dei piani che intersecano l'isola. Essa è indizio di un recente moto di sollevamento dell'isola stessa, la quale, probabilmente, in età geologica recente, era suddivisa in due o tre isole minori. Allineamento tettonico dell’isola. La forma frastagliata delle coste ed il semplice esame delle carte geo- grafiche sulle quali solo, primieramente, potevano fondarsi i geologi, fecero ritenere che le terre dell'Egeo, per rotture e per sprofondamento, si trovassero isolate in un mare di origine recente. Alcuni, osservando l'andamento geo- grafico complessivo di talune isole ritengono che facciano parte di un alli- neamento orogenetico diretto presso a poco secondo i paralleli, da est ad ovest, nella supposta continuazione delle catene littorali dell'Asia minore. Come già dissi a proposito di Samos, le notizie che si hanno sulia distribuzione geologica delle rocce non rafforzano questo modo di vedere. Sembra piuttosto si tratti di sollevamenti a cupola, che taluni dicono a brachianticlinale, Upham a domo, i geologi toscani ad ellissoide, e propria- mente di ellissoidi allungate secondo i meridiani, da nord a sud, cioè in senso normale a quanto altri ritenne. Sarebbe lo stesso modo di sollevamento che si manifesta in regioni di emersione non antica, sebbene eventualmente costituite pure da antiche rocce, modo simile a quello della regione littorale toscana, e dell'Arcipelago toscano adiacente, delle isole Jonie, e di parte almeno della Morea, e forse dell'Asia minore; ed il sollevamento avrebbe pure direzione tuttora prevalentemente parallela a quella delle regioni mediterranee precedenti. come pure di tutto l'Apennino e della Balcania, per lo meno nei versanti Adriatico e Jonio secondo le osservazioni da me fatte. L'allineamento geografico di Calimno non contraddice a questa idea. Tale modo di solleva- mento già di per sè non si accorda col concetto di un paesaggio antico rotto e sprofondato, ma con quello di una regione piuttosto recente, nella quale le forze orogenetiche non sono state così intense da dar luogo a formazione di catene montuose massiccie e distinte. Origine del Mare Egeo. La presenza degli strati marini recenti, ma specialmente di quelli del Miocene, si connette con varie importanti questioni relative al Mare Egeo ed alle sue comunicazioni col Mar Nero e col Bacino del Danubio a traverso i Dardanelli ed il Bosforo, delle cui origini tanto fu discusso. Fino a poco tempo addietro non erano conosciuti terreni marini dei piani così detti Mediterranei (Langhiano o Burdigaliano, Elveziano, Tortoniano) del Miocene medio nella periferia dell'Egeo, oppurre alle poche indicazioni — 485 — date precedentemente non si prestava fede. Erano noti soltanto depositi di acque anormali a salsedine variabile Sarmatiane, cioè della più alta parte del Miocene medio, in molti punti dell'Egeo settentrionale, nella Calcidica, a Gallipoli, nell'Asia minore a ponente della Troade a Hissarlik, poi a Tenedo e Samotracia, coperti da strati d’acqua leggermente salmastra (Pontici) o prettamente dolce (Levantini), di età terziarie posteriori, estesi questi anche nell’Egeo meridionale. Perciò il Neumayr ed il Suess avevano fondato l'ipotesi, accettata poi da tutti, che l’Arcipelago nel Miocene facesse parte del Con- tinente unendo la Balcania all'Asia minore: che l’Egeo avesse cominciato a formarsi per isprofondamento alla fine del Miocene, cioè durante il Sarma- tiano, nella sua parte settentrionale entrata allora in comunicazione col Ponto e col Bacino del Danubio, e ne’ tempi successivi anche nella parte meri- dionale racchiudente dapprima ampî bacini lacustri, entrata poi nel Postplio- cene in comunicazione col Mediterraneo. Da tempo lo Tchihatcheff aveva indicato strati marini, secondo ogni apparenza Miocenici (Elveziani), a Eski Stambul rimpetto a Tenedo. Di recente l'Elveziano marino fu notato a Casos (Bukowski e Nelli), poi a Carpathos (De Stefani), poco fa a Erekli nel golfo di Xeros nella parte settentrionale dell'Egeo (English), ed ora a Calimno. Molti autori accennano in varie isole dell'Egeo terreni terziarî di età incerta, che ritengono d'acqua dolce per secondare l'ipotesi generale, ma senza discernervi fossili di una o di altra natura. Probabilmente una parte di quelli e di altri terreni appartiene al Miocene medio marino, così come è avvenuto nell'Appennino in Italia, dove soltanto ora, dopo 30 anni, si va riconoscendo esatta l'estensione grandissima da me stabilita degli strati ma- rini del Miocene medio, prima disconosciuti. Del resto, il semplice paragone tra le faune del Miocene medio del Bacino del Danubio e quelle del Mediterraneo, tra le quali vi hanno poco maggiori differenze di quelle che passano oggi fra il Tirreno e l'Adriatico, dovrebbe senz'altro persuadere che una comunicazione diretta e più ampia di oggi seguitava ad esistere durante il Miocene medio fra il Bacino Danu- biano e il Mediterraneo, a traverso l’'Egeo. Parimente nel Pliocene sì citano soltanto gli strati d'acqua dolce (Le- vantini) di Rodi e di Cos (Neumayr), di Smirne, di Samotracia, cui ne sono ravvicinati altri senza fossili ben distinti (Pholegandros, Paros, Naxos, Aegina, Metelino) o con strati lignitiferi (Sciro, Chelidromia, Tenedo) per semplici analogie; ma strati marini non vengono indicati. Però da fossili che il Major ha portato da Cos e che io stesso ho esaminati, e dal modo col quale il Neumayr interpreta artificiosamente i rapporti fra gli strati Levantini ed altri strati marini che egli ritiene sovrapposti, devesi dedurre, come già dissi altrove ('), che in Cos esistano strati marini del Pliocene alternanti con (') De Stefani C., Les terrains tertiaires supérieurs du bassin de la Méditerranée, Liège, Vaillant, 1893. — 4860 — quelli d'acqua dolce o salmastra, e quasi certamente ne esistono altrove. Sono ben noti gli strati marini del Pliocene superiore o Postpliocene inferiore (Mariani o Calabriani) di Gallipoli (Andrussow), di Rodi, di Cos, e probabilmente dei gruppi di Milos e di Santorino. Terreni marini recenti, attestanti un attuale sollevamento, come quelli di Calimno, ne sono indicati un po’ per tutto, a Carpato, nell'isolotto di Yali presso Cos (Neumayr), Milos (Ehrenburg), Anavolusa, Miconos (Virlet), Samotracia (R. Hoernes), Lemno (De Launay), Gallipoli e altrove, prescin- dendo dai varî strati dell'Eubea e della terraferma greca ('). Per tutte queste ragioni, e per quelle accennate nel paragrafo precedente, io da lungo tempo ho sostenuto che conviene correggere l'opinione dominante, e ritenere che il Mare Egeo esiste da gran tempo, a traverso tutti i terreni terziarî: che esso fu sempre, più o meno, occupato da isole talora più ristrette, talora più estese di quelle odierne, e conteneuti più o meno ampî bacini pa- lustri o salmastrìi, ridotte poi e distrutte in parte dalla corrosione marina; e che oggi, e probabilmente da tempo, esso tende a restringersi per prevalente sollevamento della regione. Ne viene di conseguenza che il Bosforo e i Dar- danelli debbono ritenersi di origine antica. Suppose il von Hof, come gli antichi poeti greci, che gli Stretti si fossero originati per frattura; e M. Neumayr li attribuiva a frattura avvenuta durante il Postpliocene. Gli altri autori successivi ritennero che essi rispondessero ad una antica valle di erosione, deducendolo dalle terrazze laterali che, insieme coi depositi marini quaternarî osservati da Calvert, Neumayr, English, sono fra le poche circo- stanze geologiche dei tempi terziarî finora conosciute. Cvijé, Sokolow ed altri ritengono che la valle portasse le acque dal Mar Nero all'Egeo; il compianto R. Hoernes ritenne che queste avessero andamento contrario, poichè, secondo lui, l'evaporazione avrebbe in quei tempi abbassato il livello del Mar Nero; così pure all'Andrussow non pare possibile che un mare sal- mastro. come egli ritiene fosse il Mar Nero, versasse in un Bacino d'acqua dolce come l'Egeo. Ma poiche si è visto che quivi doveva esser mare, dobbiamo escludere l'ipotesi di Hoernes e di Andrussow, e ritenere che Dardanelli e Bosforo, di origine probabilmente tettonica, sieno stati nei tempi terziarî più ampî e più profondi che attualmente non siano, come attesterebbero i terrazzi marini osservati, e che portassero, come oggi, verso il Mediterraneo; sebbene a traverso i cicli geologici dal Miocene in poi la natura delle acque del Ponto e dei Bacini comunicanti abbia potuto cambiare più volte secondo le variazioni dei climi. (1) Il dott. Martelli li ha trovati ora anche a Nysiros. — 487 — Fisiologia. — Ancora sulla sfera visiva del mantello 2 cerebrale dei cani ('). Nota critica di L. Luotani (?). La soluzione adeguata del problema della sfera visiva corticale coin- volge molte fondamentali questioni che interessano la fisiologia complessiva del cervello anteriore: se i centri cortie ili siano tra loro de'imitati da con- fini netti, oppure si embrichino reciprocamente come i dermiato »: alla peri- feria; se in ciascun centro 0 sfera sensoriale si possa distinguere un'area focale e una sona marginale come si osserva alla periferia nella retina; se sia ammissibile la dottrina della projezione ai centri corticali delle localiz- zazioni periferiche; infine, se il mantello cerebrale sic la sede di tutte le attività psichiche, comprese le sensazioni elementari, oppure soltanto delle più complesse ed elevate, le percezioni, la memoria, le rappresentazioni e le loro assoczazioni. Quantunque la localizzazione e le modalità funzionali della sfera visiva corticale, specialmente dei cani, sia stato in passato e sia tuttora l'argomento più battuto in ordine aila fisiologia del mantello cerebrale, non si può pur- troppo dire che siamo pervenuti a una soddisfacente soluzione del complesso problema. Non rifarò la storia delle molteplici ricerche su questo argomento (*); solo dirò che spetta ad H. Munk il merito di averle promosse colle sue dot- trine della cecità psichica, dell'emianopsia bilaterale omonima, della cecità corticale, e della projezione retinica sulla corteccia dei lobi occipi- tali dei cani. Ma le successive ricerche di controllo delle affermazioni del Munk— specialmente quelle del Goltz, del Hitzig, del Luciani, del Loeb, dell’ Exner e Paneth — dimostrarono che nei cani han luogo evidenti disordini visivi, non solo dopo l'estirpazione del lobo occipitale, ma anche dopo la decorticazione di un qualsiasi altro segmento, piuttosto esteso, della corteccia, compresa quella della regione più distante dalla sfera visiva di Munk, vale a dire dei lodi frontali. Le mie ormai antiche ricerche dimostrarono inoltre, che i disturbi visivi che immediatamente conseguono alle decorticazioni estese nell'àmbito dei lobi frontali e temporali sono transitorie, mentre quelli che si presentano dopo le demolizioni dei lobi occipitali e parietali sono durevoli. Ciò dimostra il carat- fere schematico della dottrina del Munk, in quanto questi limitò la sfera vi- siva dei cani nell'àmbito dei lobi occipitali. Concordemente con la dottrina (1) Dall’Istituto fisiologico della R. Università di Roma, il 16 luglio 1912. (?) Pervenuta all'Accademia il 16 settembre 1912. (*) Ved. Hisiologio dell'uomo di L. Luciani, 3° edizione, vol. III, pagg. 702 e seg. — 488 — del Munk, le mie vecchie ricerche dimostrarono che l’ estirpazione in massa di un lobo occipitale produce immediatamente emianopsia bilaterale omo- nimo. più estesa nell'occhio del lato opposto a quello operato. Ma contra- riamente alla dottrina di Munk. dai miei esperimenti risultarono in maniera manifesta i seguenti fatti: a) Si ottengono effetti emiopici non solo dopo l'ablazione di un lobo ccrpitale, ma anche dietro estesa decorticazione, sia nell'àmbito di un lobo parietale. sia nell'àmbito di un /odo temporale; il che dimostra che il centro visivo dal lobo occipitale s' irradia anche nella corteccia dei lobi limitrofi. b) Le estirpazioni parziali bilaterali (esterne o interne. anteriori o posteriori) nell'àmbito dei lobi occipitali. non producono mai fenomeni ben chiari di cecità parziale. ma sempre disturbi visivi più o meno accentuati e diffusi ai diversi segmenti delle due retine. Questo risultato è in aperta opposizione con la dottrina della projezione retinica sulla corteccia. c) Tanto gli effetti emiopici consecutivi alle estirpazioni estese uni- laterali delle regioni occipitale, parietale, temporale della corteccia, quanto i disturbi visivi diffusi a tutti © campi retinici, che si osservano dietro estirpazioni bilaterali circoscritte di dette regioni, non sono fenomeni per- manenti. L'emianopsia sì riduce gradualmente ad emzambliopia; la cecità diffusa ad ambliopia diffusa; intine i fenomeni ambliopici sì convertono gradualmente in fenomeni di semplice cecità psichica più o meno accen- tuata e completa, per cui l'animale vede, ma non riconosce colla vista gli oggetti che vede. Ciò è in diretta opposizione colla dottrina della cecità cor- ticale assoluta e permanente, già ammessa dal Munk. Questo complesso di fatti, da me pubblicati fin dal 1885, furono nel 1903 essenzialmente confermati dal giapponese Shinkichi Imamura (*) in una serie d' interessanti ricerche eseguite a Vienna presso il laboratorio di Exner. Egli ammise che il iobo occipitale debba essere in più intimo rapporto con la funzione visiva che non le altre parti del mantello cerebrale. Le ricerche ana- tomiche del Monakow e del Probst dimostrarono che la corteccia occipitale sta in connessione diretta coi centri visivi subcorticali (corpo genicolato esterno, pulvinar, eminenze quadrigemine anteriori). Col metodo del Marchi, Imamura poté seguire le degenerazioni discendenti dalla corteccia occipitale distrutta ai detti ganglî subcorticali. mentre le degenerazioni mancarono dietro demolizioni dei lobi frontali. Contrariamente alle affermazioni del Munk, e d'accordo con quelle del Loeb, Hitzig, Luciani, in seguito all'estirpazione di qualsiasi segmento del lobo occipitale, Imamura osservò sempre emianopsia e emiambliopia del campo visivo opposto all’emisfero leso, di carattere transitorio, e precisa- mente della durata oscillante fra 8 e 20 giorni. (*) Pfiiger's Archiv., Bd. 100, J. 1903. — 489 — Imamura confermò le osservazioni del Luciani, del Loeb, del Hitzig, se- condo le quali, dopo attenuati i disturbi visivi in seguito all'estirpazione di una zona corticale, questi riappajono peggiorati e diffusi nei due occhi per effetto di una seconda estirpazione simmetrica nell'altro emisfero. Infine Imamura, in un'ultima serie di ricerche, accoppiò alle solite estirpazioni corticali il taglio del corpo calloso. Dopo aver confermato la osservazione del Lo Monaco che detto taglio nei cani integri non produce alcun effetto rilevabile, vide che se a questa operazione si fa seguire l'estirpazione unilaterale di un segmento qualunque della supertice convessa del cervello, i noti disturbi visivi che ne conseguono non mostrano alcuna tendenza a dileguarsi neanche dopo due mesi. Vide inoltre che se si taglia il corpo calloso dei cani nei quali erano già compensati gli effetti consecutivi delle estirpazioni corticali, ìî disturbi visivi si ripresentano, per non più dileguarsi. Questi fatti dimostrano l’importanza del corpo calloso, in quanto contiene le vie nervose attraverso le quali ha luogo la compensazione delle emiam- bliopie che conseguono alle ablazioni unilaterali. Questo complesso dì risultati sperimentali osservati nei cani, erano in evidente contradizione con quelli ottenuti sperimentalmente sulle scimmie, e specialmente con le osservazioni anatomiche e cliniche sull'uomo, fatte da Hun, Henschen, Flechsig, Niessl, che conducevano a circoscrivere la sfera visiva alla superfice mediale e inferiore del lobo occipitale, e precisamente alla cosiddetta regione calcarina, nella quale — secondo le estese ricerche istologiche del Brodmann — la corteccia assume una tettonica affatto carat- teristica (cona striata di Brodmann). Movendo da questi dati, A. Tschermak (!) iniziò una nuova serie di indagini, per rimuovere o almeno attenuare la notata differenza, mettendo in rilievo l'importanza speciale, anche nel cane, della regione omologa alla calcarina. Stimolando la superfice mediale-posteriore del cervello del cane, e spe- cialmente la corteccia circostante al su/cus recurrens superior (che nel cane sembra omologo alla scissura calcarina delle scimmie e dell’uomo), lo Tscher- mak ottenne movimenti coordinati degli occhi; escidendo la corteccia di detta area, ottenne emianopsia e perdita dei riflessi oculari del lato opposto. Vide che questi effetti si attenuano, ma non scompajono deltutto, nemmeno dopo lungo tempo. Vide infine che dall’area distrutta s’ inizia un processo di degenera- zione discendente fino ai ganglî ottici subcorticali. Dunque, anche nel cane (concluse lo Tschermak) la sfera visiva trovasi localizzata alla superfice mediale degli emisferi, precisamente alla regione omologa alla calcarina. La convessità parieto-occipitale può invece nel cane rappresentare la zona associativa, in armonia con la dottrina del Flechsig. (*) Zentralbl. fiìr physiol., Bd. 19, J. 1905. — 490 — Fr. Kurzveil ('), continuando le indagini sotto la guida dello Tschermak, ne confermò i risultati, ammettendo che l'alterazione della vista e dei riflessi oculari (specialmente accentuati nella metà esterna del campo visivo del- l'occhio del lato opposto a quello in cui fu distrutta la regione calcarina dei cani) persiste quasi immutata per oltre un anno. Anch’egli, col metodo del Marchi, nei cervelli dei cani operati poté osservare una degenerazione discen- dente verso la parte antero-mediale del pulvinar. Infine, avendo estirpato un occhio ad un cagnolino neonato, trovò, a sviluppo completo, un’ jpoplasza della regione calcarina del lato opposto. Il Panizza, molti anni prima, aveva de- scritto lo stesso fatto dell’zpoplasia, ma non localizzata alla regione calea- rina, anzi diffusa a tutto il lobo occipitale controlaterale. Le ricerche di M. Minkowski sullo stesso argomento, pubblicate nel 1911 (?), sono la continuazione e il complemento di quelle di Tschermak e di Kurzveil. Prendendo le mosse dalla localizzazione ed estensione dell’area striata assegnata dal Campbell alla superfice superiore, mediale e interna del lobo occipitale del cane, egli ha preteso dimostrare che la demolizione di quest'area di un lato determina l’amaurosi o cecità permanente dei tre quarti temporali del campo visivo del lato opposto, mentre il campo visivo omolaterale presenta amaurosi transitoria in un breve tratto nasale. Ne concluse che la sfera visiva coincide nel cane perfettamente con l’area striata, e che la massima parte (più dei tre quarti) di ciascuna retina ha i centri sensoriali dell’area striata del lobo occipitale del lato opposto, mentre la pic. cola parte che ne rimane ha i suoi centri nell'area striata di ambo i lati, prevalentemente però del lato omonimo. L'ablazione bilaterale delle aree stria/e, secondo il Minkowski, produce cecità completa e permanente. In cani così operati scompajono per sempre (egli afferma) non solo le percezioni, ma anche i semplici riflessi oculari alla stimolazione luminosa, fatta eccezione del riflesso pupillare. I gangli ottici subcorticali non sarebbero quindi da soli, secondo questo sperimentatore, in grado di provvedere neanche ai riflessi visivi più semplici. Omettiamo di riferire le altre ardite affermazioni del Minkowski, e fer- miamoci a considerare quest’ ultimo fatto, da lui con tanta precisione descritto e con piena asseveranza affermato. Esso discorda talmente coi risultati delle mie precedenti, già antiche ricerche, che ho subito pensato di farne eseguire il controllo sperimentale da tre distinti studenti che frequentano il mio labo- ratorio. Questi esperimenti di controllo saranno continuati nell'anno venturo, per esser condotti a compimento; ma ciò che finora ci è risultato dalla estirpazione della cosi detta area slriata (secondo le ricerche istologiche di Campbell), estirpazione eseguita bilateralmente in tre giovani cani, è in cosi (*) Pfliùger's Arch., Bd. 129, J. 1909. (2) Pfliger's Arch., Bd. 141, J. 1911. — 491 — aperta contradizione con quanto afferma il Minkowski, che credo di poterne fare la base critica di tutta la sua dottrina sulla sfera visiva dei cani. Nei primi giorni dopo l'operazione, i tre cani privati dell’area striata di Campbell nei due lati, non solo non ci sono apparsi ciechi, ma nemmeno ambliopici. Essi erano capaci, camminando, di evitare qualsiasi urto o con- tatto colle pareti dell'ambiente, coi piedi delle sedie o altri mobili che vi si trovavano. Non abbattevano mai i birilli (alti cm. 35) che abbiamo in buon numero impiantati nel pavimento della stanza, ora irregolarmente, ora allineati in forma di palizzata, e poco distanti fra loro, in guisa che i cani operati dovessero facilmente urtarli ed abbatterli nel passare tra l'uno e l'altro birillo, se fossero stati affètti da un grado anche lieve di ambliopia. Era sorprendente con quanta franchezza essi ripetutamente attraversavano la palizzata senza mai urtare in alcun birillo. Una cosi manifesta e assoluta opposizione tra le affermazioni del Minko- wski e le nostre osservazioni, non era preveduta né immaginabile! Per render- cene conto. furono senz’ altro sacrificati i tre cani, al fine di accertarci, con la necroscopia che tutta l'area striata fosse stata bilateralmente distrutta. E veramente abbiam potuto constatare che in ciascuno dei tre animali l'estir- pazione corticale non aveva raggiunto in tutti i punti i limiti assegnati da Campbell all'area striata, mentre in altri li aveva varcati. Rimaneva intatto un piccolo segmento più anteriore e profondo nella faccia inferiore dell’area che poggia sul tentorio; mentre nella faccia superiore e mediale della me- desima, la decorticazione si estendeva alquanto più innanzi verso il lobo parietale. Ma queste imperfezioni dei limiti della demolizione sono affatto insuffi- cienti a spiegare la notata contradizione dei risultati, tanto più se si con- sidera che — secondo Minkowski — esisterebbe una projezione costante degli elementi retinici sulla corteccia visiva: la regione anteriore dell'area striata corrisponderebbe al segmento superiore della còppa retinica, mentre la regione posteriore di quella corrisponderebbe al segmento inferiore di questa. Siccome il segmento dell'area striata rimasto intatto non rappresentava che circa la ventesima parte dell'area complessiva, è facile il comprendere che, se fosse attendibile la dottrina del Minkowski, si sarebbe dovuta avere una cecità assoluta e permanente estesa ai !*/», dei segmenti delle due retine, il che avrebbe dovuto facilmente rivelarsi coi nostri esami rigorosi e molte volte ripetuti. È evidente che, nelle sue ricerche, il Minkowski si è lasciato guidare da un duplice concetto schematico: a) che la sfera visiva sia circoscritta e nettamente localizzata all'area striata; 8) che tutte le funzioni visive ab- biano il loro centro nel mantello cerebrale. Certamente non si può non accordare valore fisiologico alla differente Struttura istologica o cifotettonica che presentano le diverse aree del man- RenpIcontI. 1912, Vol. XXI, 2° Sen. 64 — 492 — tello cerebrale, lungamente studiate dal Brodmann; ma non è dimostrato che l'area striata rappresenti tutta intera la sfera visiva, piuttosto che l’area focale di essa, e forse si può dubitare che quella dei cani sia note- volmente più estesa della zona delimitata da Campbell, forse anzi diffusa ad estese regioni del mantello cerebrale. Questo dubbio sarebbe confermato da alcune osservazioni istologiche preliminari, fatte dal mio giovine amico Cerletti, fondandosi sull'esame digente dei preparati microscopici eseguiti nel mio laboratorio dai miei studenti con tutti gli accorgimenti tecnici. Fino a prova contraria noi dobbiamo ritenere che non esiste nei cani un’area deli- mitabile della corteccia che abbia una tettonica simile a quella della 7egione calcarina del cervello umano. Che poi tutte le funzioni visive (compresi i riflessi visivi) non siano localizzate alla corteccia, e che una parte di esse, le più elementari, spet- tino ai ganglî subcorticali, non può essere contestato, per una serie di fatti di data antica e recente. Io non posso dimenticare i risultati delle mie antiche ricerche, le quali mi dimostrarono (tanto nei cani quanto nei macachi) che la cecità consecutiva all'estirpazione in massa bilaterale del lobo occipitale è femporanea; che in pochi giorni si riduce ad ambliopia progressivamente evanescente, fino allo stabilirsi dei fenomeni puri di cecità psichica, per cui gli animali veggono, ma non mostrano di riconoscere con la vista gli oggetti che veggono. Tutto ciò fu di nuovo confermato dal mio collega ed amico Lo Monaco un pajo di mesi or sono. Egli ha veduto che, dopo estirpati i due lobi occipitali in massa, la cecità nei cani non è assoluta nè permanente, e che tale diventa solo dopo un'operazione successiva di demolizione bilaterate dei falami ottici. Dei precedenti studî eseguiti da Lo Monaco nel mio laboratorio, sulla fisiologia dei talami ottici, raccolti in una monografia pubblicata dall’Acca- demia dei Lincei (1910), mi limito a ricordare il fatto importante da lui rilevato in un cane, nel quale riesci, col suo metodo speciale di vivisezione. a demolire bilateralmente il pulvinar, senza offesa apprezzabile del mantello cerebrale; il che produsse l'atrofia dei tubercoli quadrigemini e dei corpi genicolati esterni. Questo animale presentò una forma di cecztà 2ncompleta, più grave della cosi detta cecità psichica che sì stabilisce definitivamente dopo l’ablazione delle sfere visive corticali, e meno perfetta della cecctà assoluta che si ottiene dopo l’enucleazione dei due bulbi oculari. Ciò dimostra che non tutte le fibre nervose, che dai ganglî visivi subcorticali si recano alla sfera visiva dei lobi occipitali, attraversano i pulvinar. Come è possibile di metter d'accordo questo complesso di fatti colle atfer- mazioni del Minkowski? Che i cani di Berlino, sui quali egli sperimentò nell’ Istituto Psichiatrico di Ziehen, abbiano una struttura cerebrale radi- calmente differente da quella dei cani di Roma?!... — 495 — Io spero che questa Nota critica possa servire a bene orientare sui fatti finora acquisiti, in ordine alla sfera visiva corticale dei cani, gli allievi del mio e di altri laboratorî fisiologici, che intendono di proseguire le indagini su questo interessante argomento, per risolvere adeguatamente i difficili pro- blemi che vi sono coinvolti. Chimica-fisica — Proprietà chimiche e chimico-fisiche del succo di muscoli striati e lisci (*). Nota del Corrisp. F. BorTazzi (?). Le presenti ricerche sono state eseguite, da me e dal mio Assistente dottor G. Quagliariello, su muscoli striati di toro, di cane, di Scy/lium stellare e di Dentex vulgaris, e su muscoli lisci (m. retracetor penis) di toro. Nei cani fu fatta la lavatura del sistema vasale con soluzione 0,9 °/, NaCl, raffreddata o no. prima di asportare i muscoli. In quasi tutti i casi, i muscoli furono conservati in recipienti asciutti e raffreddati, nettati dal grasso e dal tessuto connettivo, spezzettati, tritati, pestati lungamente con sabbia di quarzo e polvere di diatomee, spremuti al torchio idraulico di Buchner a pressioni che raggiunsero per lo più il mas- simo di 350 atm. (indicate dal manometro). In qualche esperimento, l'animale (.Scy/lium) fu reso ineccitabile me- diante graduale raffreddamento del corpo fino a circa —2°C., prima di pro- cedere alla asportazione delle masse muscolari. I succhi ottenuti furono raccolti in recipienti asciutti, centrifugati in una potente centrifuga (4000 giri al minuto) per un'ora, e conservati in ghiacciaia. I succhi di muscoli striati di mammiferi furono sempre intensa- mente colorati in rosso, non ostante la lavatura dei vasi sanguigni, e più torbidi; quelli di Selacii e di Teleostei, più pallidi; i succhi di muscoli lisci furono sempre un poco opalescenti e assai poco colorati in rosso. L'esame microscopico dei succhi (fatto con obiettivi apocromatici a im- mersione omogenea) non rivelò, a ingrandimenti di 1500 diametri, traccia di elementi morfologici o di granuli: il liquido apparve sempre perfettamente omogeneo. L'esame ultramicroscopico, invece, rivelò sempre nei succhi la presenza di innumerevoli granuli splendenti minutissimi, oltre a granuli più grossolani. Questi ultimi sono granuli di grasso o di glicogeno o di detriti nucleari ecc. ; il loro numero è scarsissimo e variabile secondo i muscoli dai quali pro- (!) Lavoro eseguito nell’Istituto di Fisiologia di Napoli. Il lavoro sarà pubblicato per esteso in Archives internationales de Physiologie. I resultati principali di queste ricerche furono da me comunicati, il giorno 11 settembre, alla sezione di Fisiologia del- 1°82° meeting della « British Association for the advancement of science », in Dundee. (8) Pervenuta all'Accademia il 19 settembre 1912. — 494 — viene il succo. Importa occuparsi solo degli altri. che non furono prima os- servati da alcuno. Nel succo originale, la concentrazione dei granuli è talmente grande, che il campo ultramicroscopico si presenta, per lo più, quasi uniformemente illuminato, e i singoli granuli non si distinguono, ma solo qualche volta si intravedono. Diluito il succo con liquido di Ringer, i granuli si liberano, e appariscono come corpicciuoli brillanti, dotati di vivace movimento browniano, su fondo omogeneo oscuro. Si esclude che siano granuli di precipitazione di una proteina sciolta nel succo, perchè: 1°) essi sono insolubili in alcali deboli. La precipitazione della pro- teina non potrebbe essere causata che dall’acido lattico (e altre sostanze acide) che si forma nei muscoli; ma, in tal caso, dovrebbe essere reversibile, cioè gli alcali dovrebbero far scomparire i granuli. I granuli sono insolubili anche in acidi di concentrazione moderata, i quali anzi li agglutinano; essi aumentano inoltre il numero di granuli nel succo, perchè precipitano la mio- proteina sciolta. Nessun reagente sperimentato scioglie e fa sparire i granuli; 2°) essi sì trovano in numero presso che eguale in succhi espressi da muscoli raffreddati tino a divenire ineccitabili. La loro concentrazione è maggiore nei succhi di muscoli striati che non in quelli di muscoli lisci. Il succo muscolare, dunque, è una sospensione di granuli ultramiero- scopici in liquido che, oltre ai sali minerali e le note sostanze estrattive, contiene certamente una proteina allo stato di vera soluzione colloidale. In- fatti, il succo, liberato dai granuli, si presenta otticamente omogeneo all'ultra- microscopio; ma l'aggiunta di un acido, o il riscaldamento oltre i 55°, vi provoca la comparsa di granuli ultramicroscopici, che sono granuli di pre- cipitazione della proteina sciolta. Questa proteina sciolta possiamo chiamarla mioproteina; la proteina di cui sono costituiti i granuli possiamo chiamarla miosina. L'esistenza di altre proteine non è provata. I granuli ultramicroscopici sono verosimilmente prodotto di disgregazione del materiale delle miofibrille, liscie o striate; sono quindi preesistenti nel succo, in ogni succo. La loro preesistenza, anzi l'inev.tabilità della loro presenza, s intende, pensando che i due materiali — il fibrillare e il sarco- plasmico — formano, nelle fibre muscolari normali, due fasi distinte, le quali debbono necessariamente rimanere tali nel succo. Trovandosi la fase fibril- lare nel succo suddivisa in granuli, è verosimile che questi siano elementi costitutivi delle miofibrille, conforme alle vedute di M. Heidenhain. Il materiale granulare tende a precipitare spontaneamente; ma l’agglu- tinazione e precipitazione spontanee dei granuli sono processi assai lenti, a causa della piccolezza dei granuli e della grande viscosità del liquido di sospensione. — 495 — La diluizione (con acqua, con soluzioni neutre o debolmente alcaline o acide ecc.), la dialisi, il riscaldamento a temperature relativamente basse (fino a 30°C. circa), accelerano la precipitazione dei granuli, la quale, quando avviene spontaneamente (cioè senza l'influenza acceleratrice di alcun agente fisico o chimico), simula la coagulazione spontanea ammessa dagli autori; la quale in realtà non esiste, nè nel senso di coagulazione enzimatica, nè in quello di coagulazione termica. Fenomeni simili a quelli descritti da Kiihne, di coagulazione quasi istantanea del succo muscolare raffreddato quando è esposto alla temperatura dell'ambiente, non abbiamo mai osservato. La precipitazione del materiale granulare è grandemente accelerata dalle temperature fra 38° e 54° C. Si forma in breve tempo una massa compatta di precipitato, dalla quale poi si separa un liquido giallo-rossastro limpidis- simo. Questo fenomeno, comunemente interpretato dagli Autori come coagu- lazione termica di una proteina sciolta nel succo o estratto muscolare, è invece, essenzialmente, anch'esso una agglutinazione e precipitazione in massa degl’innumerevoli granuli che sono sospesi nel succo. Quando la concentra- zione di essi è molto grande, il liquido coagula apparentemente in massa. Similmente, il precipitato abbondante che si forma nelle prime 24-48 ore di dialisi del succo è costituito, essenzialmente, non da una proteina già sciolta, ma dal materiale granulare. Talora il succo nel dializzatore si trasforma in un coagulo compatto, simile a un coagulo di sangue. La coagulazione termica della mioproteina sciolta si svolge come un processo continuo, che non può dirsi totalmente compiuto nemmeno verso gli 80° C. Non potendosi escludere che esso s’'inizii già verso i 50° C., si deve ammettere la possibilità che il precipitato del materiale granulare, che sì ottiene riscaldando tino a 54°-55° C., contenga anche una porzione di mioproteina. Questa proteina muscolare precipita totalmente durante una dialisi in- tensa e prolungata per più mesi, contrariamente a quanto è ammesso dagli autori (von Firth ecc.). Siccome anche questo processo di precipitazione per dialisi è continuo, non sì può escludere che s'inizii già nelle prime 24-48 ore, e che quindi il primo precipitato (granulare) contenga una piccola por- zione di mioproteina. Nel liquido lungamente dializzato rimane sempre una traccia di pro- teina, che probabilmente è sieralbumina, la quale non può essere mai esclusa del tutto, nemmeno mediante lunga lavatura dei vasi sanguigni. I pigmenti muscolari (emoglobina, mioematine di Mac Munn) in parte sono trascinati dai granuli durante la loro precipitazione, e in parte preci- pitano, nella dialisi intensa e prolungata, insieme con la mioproteina; di guisa che, da ultimo, il liquido può divenire incoloro. I granuli e la mio- proteina dializzati presentano, esposti all’azione di un campo elettrico, sempre migrazione anodica: sono, dunque, elettronegativi. — 496 — Dei succhi muscolari è stato determinato: il rendimento in succo della spremitura, il residuo secco, il contenuto in proteine totali e in ceneri, il peso specifico, l’abbassamento del punto di congelamento, la conduttività elettrica, la viscosità, la tensione superficiale, la reazione attuale col metodo elettrometrico delle pile di concentrazione. I valori ottenuti in queste de- terminazioni si trovano raccolti nelle seguenti tabelle I, II, III e IV: TapeLLa I. — Rendimento in succo della spremitura. Succhi Peso Pressione Peso MUSCOLI dr dei muscoli raggiunta al torchio Coiroo Rendimento Numero in kg. in atm. in gr. M. striati di ScyMlium. | VII 1,067 | circa 350 666 62 °/a M. striati di tori . . VIII 0,938 ” 350 592 | 63 M. striati di Dentea . IX 0,894 ” 50 217 24 Mis cIA die tori Ure V 1,184 D) 350 580 50 M. striati di cane . . | XI 0,829 |» 350 389 40 MESCOLA XII 1,190 | da 50 a 350 562 | 47 — 497 — 82‘L OST c8‘8 1848 8991 * (puro Ip news *w) - TX « Sa i 88% > # In SS EREDI nn = 98° =" - ORO TIRI vat 08‘ 08°T Fo'8 98°06 79‘6 (uni zfiog rprgertas*w) - TIA 81° g8I OTIT 0668 OT'9I (Waquag tp mergs wa) - XI « 86 c8°0 c9°g L9°86 SL Re GOTI @ Cp9T 68L°1 0894 980°16 7168 * (0103 Ip t9erIgs “Wt) - [I 000n8 2 13@119S I]00snKt (g "i = 19% 666 10°9 (o = = 068 09°66 079 (COSUFREGI = — 8 9.6 vel (0 QuoIzeI] 90° 081 18% L9‘86 eL°9 oqsIur« Ge a liine @ FELT L8T qLG 9176 718% logi “ AE 7681 8FIT I°g 808°66 361°9 dodi « CSA NE LT 081 18° LSL6 E79 toni “ 6 Ad age I6T 81 898 PI86 98°9 "© (ox0Q tp tosti] “W) - TIT 009ns :1OSI] IT00snKW (7 ‘13 UL °/o(119000 + oto7o1d) — 09995 ONpIsoy ‘19 nl °/, enboy °/o 090998 OMpIso” ‘19 Ur 18 Ul °/o LIOU89 °/o IT90) 0ULO7O1T TU VTOOSAN THODNIS ‘2UD]OOSNUL PINS VIP 110U99 9 1)070) GurIpoId ‘09008 ONPIsIT — “TI VITHAVI], — 498 — ITMRIOA ISSEIS IpIO® 1p oIopo tAEpueurip 0909ns [i ‘ossaadde ouI0IS |] 0°ce 00°0L = _ 9T0°1 LEO°T SE ((T)) « ‘vmiuosds e odop 9210 917, 9‘01 0689 va 3 # 88041 680°I “ outo Ip 4 IX ‘IUpposy ) 0S‘'9 l'8L ILÉI OGIO‘0 Foro | FOT VX QUOZC4Y “ ea ozpour w227)f9g 24) tp I]joosnut Ip _IYoong ; da - \ ; 3 (co 6%L IL | orioo | esa | reo | wma « X ‘O}GppoIgti OBUITUE, [Op I]oosnu Ip 09908 ZI Go‘oL PASMA 03100 961°1 6701 ° 2aqueq Ip « XI SISI O I NA SOLO IE 61‘8L SLI LOTO'0 898°0 | L301 | ‘osp ipo « IILA *IRepposgi UO I]oosnUL Ip _0990g ETI = 621 L+10%0 ccp 43041 uminfiog wp ness N | ILA «066 “ “ o L39L 96% al 018°0 e20°1 (0 @ Ue S = 19441 89°£ = 31840 | SGOl (CN “je gG oso è oguuraads 0000g = 48‘69 86‘ = gI8°0 930°1 (0 QUOIZVI] ‘U}e gGg è ouy ommpruo1ds Ip OJgsIuIr 099Ng Co FEEL 874% = #08°0 74001 OgsIUI “ “ IIX È È 819 9L'9L 70°E PFIO‘0 IEZACO Ig0°1 Ran “ È IA si E FRL STEEL SUF cs LCYACO 860°T DE @ ( A si « s = = =“ 0908°0 VEO°1 anta G se AI ‘09894J @]BULIVU 009Ng —_ - — = 3" 9301 Ai RICE O LOSE IRE | T00I (47% (7) —-00I ) OIQUNN (019) (3 Ò (081 3) 03 UV] 0909us ]r ogunuraids ny — ; 089 ® (098 9) | vormgoro |-oduoo 1p | 004199ds È INOIZVAUASSO SUO | 90 i 3 oqund op Henb 1ep i VYISOOSTA LIA 0s9d KUOOUS quorzeay | -y4rodns | | sl nodo ojuoui ITOOSAN QUOISUA ], IHIBuOO -USseqqy ‘LUD]oosnw, L1jdans top 2Y9187/-001u1Y9 VIA4d04T — “III VIINAVI, ago © TapeLLA IV. — Reazione chimica dei succhi muscolari freschi e variazioni di essa nel tempo. Aumento SUCCHI MUSCOLARI AsPETTO DEI succHI |[H°].107|percentuale di [H] I. (Succo V: m. lisci, retrattori del pene di toro): Campione fresco . . . opalescente 7,44 Lo stesso, lasciato 6 ore alli comi peratura ambiente . . . ” 7,64 2,6 Lo stesso, lasciato 24 ore alla 0 peratura ambiente . . . si vede un po’ di precipitato | 42,5 471 Altro campione rimasto 48 ore in ghiacciala . . più torbido 11,4 58 II. (Succo VI: m. lisci, retrattori del pene di toro): Campione fresco . . . opalescente 6,18 Lo stesso, dopo essere misto 8 ore | a temperatura ambiente . . . ” 6,98 12 Lo stesso, dopo essere rimasto 24 ore a temperatura ambiente . . . molto torbibo 6,52 5,5 III. (Succo VII: m. striati di Scyl- lium) : Campione fresco . . . È opalescente 16161! Lo stesso, lasciato 12 ore a tempe ratura ambiente . . . A » ZA: 10 IV. (Succo VIII: m. striati di SI Campione fresco . . . DALiù opalescente 31,4 Lo stesso, lasciato 7 ore a tempera tura Ambiente e span è un poco più torbido 34,4 9,5 V. (Succo IX: m. striati di Dub Campione fresco . . . . 6 molto opalescente 12,9 Lo stesso, lasciato 7 ore a tempera tura ambiente GEMGIP ENTE molto torbido 12,8 1,6 VI. (Succo X: m. striati di SI Campione fresco . . . . | molto concentrato etorbido | 5,65 Lo stesso lasciato 9 ore FR tuta a Me ite I RR OE ” 5,98 5,8 Succo ottenuto a PESO mag- go (le do : meno torbido 6,56 VII. (Succo XI: m. striati di de Campione fresco . . . . opalescente 10,6 Lo stesso, dopo 15 ore a tempera tura ambiente . . . . molto torbido 35,0 220 VIII. (Succo XII: m. lisci, retrattori di pene di toro): CETIDIONO MRESCO 0 olo 60 opalescente 1763 RenDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 65 SÙ) Il rendimento in succo variò dal 40 al 63 °/,, per pressioni che non superarono mai le 350 atmosfere. Il residuo secco è minore per i muscoli lisci (circa 6 °/,), maggiore per i muscoli striati (7-12 °/5). Il contenuto in sostanze proteiche totali è relativamente basso (3-4 °/,), inferiore a quello del siero del sangue (per i mammiferi). Il contenuto in ceneri è alto, e alto è anche il contenuto in sostanze organiche non proteiche. In generale, il residuo secco e il contenuto in proteine totali sono inversa- mente proporzionali alla pressione con cuì il succo fu ottenato. Siccome il peso specitico si avvicina molto a quello del siero del sangue (nei mammiferi), non ostante il minor contenuto in proteine, si deve ammet- tere che ad elevarlo contribuiscono i sali minerali e le sostanze estrattive (oltre ai grassi e lipoidi, il glicogeno ecc.). La pressione osmotica è sempre notevolmente superiore a quella del sangue. ] La reazione è sempre acida: lo è meno nei succhi dei muscoli lisci e in quelli di muscoli striati molto raffreddati prima dell'asportazione dal corpo; lo è più nei muscoli striati dei mammiferi. Alcuni valori molto alti della con- centrazione degl’idrogenioni sono verosimilmente dovuti a fermentazione (bat- terica) acida dei succhi (dello zucchero, dei grassi). Generalmente la reazione acida aumenta col tempo; ma essendo per lo più piccolo l'aumento, bisogna am- mettere, d'accordo con Fletcher, che il massimo di produzione delle sostanze acide ha luogo in brevissimo tempo nei muscoli dopo la separazione dal corpo. Verosimilmente, l'alta pressione osmotica dei succhi muscolari è dovuta, almeno in parte, alle stesse sostanze che ne determinano l’acidità. I valori della conduttività elettrica (relativamente bassa) e della visco- sità (relativamente alta) sono in accordo con la costituzione corpuscolata dei succhi. Ma l’altissima viscosità dei succhi di muscoli lisci forse non può spiegarsi, se non ammettendo in essi la presenza di qualche sostanza pro- teica, derivante non dalle cellule muscolari, ma dal connettivo interstiziale. La tensione superficiale dei succhi è generalmente maggiore di quella del siero del sangue. Questi risultati sono, per varii rispetti, in completa opposizione di fronte a quelli, accettati universalmente, delle ricerche finora fatte, da Kiihne a von Fikth. L'interpretazione nuova dei fenomeni della così detta « coagulazione spontanea », della prima « coagulazione termica » ecc., fu imposta dalla scoperta, fatta mediante l'osservazione ultramicroscopica, della costituzione granulare dei succhi muscolari. I tentativi fatti per mettere in evidenza una colorazione elettiva degli aggregati granulari, simile a quella delle miofibrille, e la doppia rifrangenza di essi, dettero risultati negativi; il che, del resto, era da prevedersi, date le dimensioni dei granuli e degli aggregati granulari. — 501 — Matematica. — Integrazione delle equazioni del moto lento di un fluido viscoso. Nota del dott. Lulci AMoROso, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA ('). 1. Sia dato nello spazio ordinario un campo $S a tre dimensioni, limi- tato da una superficie chiusa o, per la quale supporremo che esista in ogni punto (esclusi al più un numero finito di punti) un piano tangente unico e ben determinato. variabile con continuità al variare con continuità delle coordinate del punto di contatto. Diciamo indifferentemente x,7,4, ovvero È ,mn,é le coordinate di un punto interno ad S, che eventualmente può coincidere con un punto del contorno. Diciamo ® l'insieme delle funzioni reali delle variabili x,y,3,t continue e limitate entro S, per t => to (bo e8- dU . E : . sendo un numero dato), colle derivate Yi integrabili parzialmente rispetto a ,Y.,8 in senso di Lebesgue, insieme ai loro quadrati nel campo S, qualunque sia t > lo; £, l'insieme (contenuto in 2) delle funzioni delle variabili x ,y,z,t, continue e limitate entro S (0 compreso), colle derivate parziali dei primi due ordini rispetto ad x .y,3 e del primo ordine ri- spetto a t, finite e continue in ogni punto mell’interno di S, per t=> bh. ProBLEMA. — Determinare quattro funzioni ,,%:,v3,p del- l'insieme £;, che verificano al sistema: | dui dU, dU3 —0L dx ui dY ui de du — A°u TORNI TL Dust Ben dI RE PE sii) è VE TO Mda (1) (nei punti di S, per t> do), u(c,4,46,0)=h(x,y,2), perj=1,2,8 (nei punti di S, per t=%), (GRU) ie (CZ) iper (ji hles2883 (nei punti di o, per t=%), le 7;,«; essendo per j=1,2,3 funzioni rispettivamente dei punti di S e di c, per le quali supporremo soddisfatte le condizioni se- guenti: (1) Pervenuta all'Accademia il 8 ottobre 1912. (2) — Sa — I. Le /; sieno funzioni reali di x,y, colle derivate prime, seconde e terze rispetto a x ,y,z continue e limitate entro S (0 compreso). II. Le «@;(4,y,4,) sieno funzioni dei punti di 0, continue e limitate per {=> 4, colle derivate dei primi tre ordini rispetto a : continue e limitate, sopra c, per {=> fo. III. Sieno soddisfatte le condizioni : dA (£,Y,2) dho(1,Y,8) | disle,y.8) — x msn nie e Ù nei punti di S: dY da + i 0 pera e= To 0 N) — (CVA) ESM 0= | (ex(&,7,6,0) cos né + as(È, n,6,t)cosnn + az(£, n, é,t) cos né) do = (È feto mid cos né + @2(£,m,6.0) cos ny 4 es(i,m.î) c08 nt o ESSERE op dx dy da |, _d dk #,7,$ essendo le coordinate di un punto generico di 0, x essendo la normale (esterna) a o nel punto È,7,î. 2. Se quattro funzioni u,,u2, uz, p di L,, soddisfanno alle (1) di- remo che costituiscono una soluzione di (1) appartenente a ,. Le condi- | zioni poste individuano univocamente le w), > , 3 e la 7 a meno di una ines- senziale costante additiva: onde possiamo fin da ora affermare che, se una soluzione di (1) appartenente ad , esiste, essa è certamente unica (a meno per la p di una inessenziale costante additiva). Dimostreremo : | 1) Che perchè una soluzione di (1) appartenente a £, esista, è necessario che sieno soddisfatte le condizioni (2). | 2) Che se le condizioni (2) sono verificate, esiste effettiva- mente una soluzione di (1) appartenente ad £,. 3. Supporremo risoluto il corrispondente problema del tipo ellittico, e cioè il problema di determinare quattro funzioni V;(x,y,2) , Vs(2,438), Vs(c 4,3) , II(c,y,5) di £,, che verificano entro S al sistema Di SL I + DE — X ‘ dY dé 4 A Ss ri i IO nei punti di S, ( ) A°V,= 5 A°V,= - 5 AN == - dA dY dI Vi=#;, perg=1,2,3, nei punti di a, — 503 — le X., #; essendo funzioni date rispettivamente dei punti di S e dei punti di o, finite e continue, compatibilmente con la condizione 4 (x 8= (81,2, cosus + 8.€,7,0) cos + 83€ 7,0) c08120) do, €,n,6 essendo. come precedentemente, le coordinate di un punto di 0,7% essendo la normale esterna a o nel punto È, n,%. Tale problema si riconduce, come è ben noto, alla integrazione delle ordinarie equazioni dell'equilibrio elastico nel caso di un mezzo omogeneo ed isotropo ('). Se le X,; sono funzioni oltre che di 4,y,z anche di #, derivabili rispetto a #, con le derivate prime rispetto a 7 continue e limitate entro S e per t=> tt, la soluzione precedente di (3) è costituita ancora da fun- sioni di 2,. Se le X, 8; ammettono anche le derivate seconde [e terze] rispetto a ?, e queste sono continue e limitate entro S, per #= £ anche le IV DI'ARRATTOZIA ; i; ela — | —? | sono funzioni di ®,. dI di dI i dI 4. Poniamo r=/(a—è)} +(g—n+(— 5}; supposto &,7,% coordinate di un punto fisso interno ad S, costruiamo le funzioni: T\; , Ti:, Ti3,Y1 di £, (indipendenti da #) che verficano al sistema: DAT dI II3 = da DI dY sli da Ù ì RAEARS È P 3 , nei punti di S, (5) Pre ree LOR da yY da Il x o: Di iu; Te=0 fe =D nei punti di 0, e analogamente le funzioni I°, T2g, 723,7» di 2; (indipendenti da }), che verificano al sistema IIa dI 23 BY AR een i Po , nei punti di $, (5) 4AT,,= , d° ee Ah he dI dY dé Dione 0, nei punti di o, (1) Cfr. Boggio, Sul moto stazionario lento di un liquido viscoso, Rend. Accad. Lincei, I, 1910, pag. 75 e segg. Nel caso di un contorno sferico si possono applicare con successo 1 metodi dell’Almansi, come ha mostrato recentemente nella sua tesi di laurea (Roma, 1912) G. Della Bitta. — 504 — e finalmente le funzioni 131,133, 733,73 di , (indipendenti da 7), che verificano al sistema dI dT3: dT33 da pi dY t de aa x E ‘, nei punti di S, 3 È) d (5) AT = ’ dite, , d°I33= > \ His (0) 0301005 = i nei punti di o Sia ’ 3: ’ 33 4rtr ’ p e Poniamo entro S: RATA MM: ty iii cn (6) Gri(È 9, 610,4,4) = gg VIE tl0,938); i=1,2,8 Gi; (È DUNE GTI Yo eee ay x) UCCHE CEI aa le Gij sono per il sistema (3) le funzioni analoghe a quelle di Green. 5. Sia %,,%»,%,p una soluzione di (1) appartenente ad £,. Formiamo le espressioni (7) v;(£,Y9,6,0)=w(0,4,8,9)+ QUI : L i x +S fi En 2,9, dead j=1,2,8. = In forza delle (7), le v;, j=1,2,58 sono anch'esse funzioni di ®, (2); e poichè le G;; si annullano al contorno 0, ne viene che u, e vi, Us € da, uz e vz assumono, sopra 0, gli stessi valori. Si ha inoltre dalla espressione precedente, prendendo il 4° da ambo i membri, tenuto conto delle (6); ] 3 (È 9 Yo ,É sto; = dt MW 4 Y [AE pren (e,y, ded, ovvero per le (1), (5): 420, PLS fm IMRGRT)® (58 MRC) dé dn di di dA etc...., o anche VIT ; dIT dIT A*v, —— = Ù Av, == - IR do (1) Ciò perchè le G;; sono (efr. formule (6)) regolari (cioè continue e limitate, colle derivate parziali dei primi due ordini continue e limitate) per ogni coppia di punti del- l'interno di S, tranne che per î=); £=% , y=7, s=6C, nel qual caso divengono ATENIO 1 infinite come DO — 505 — ove si è posto: (8) a(X,Y,8,t)=p(2,4,2,69)+ 5 wi(È, GI +D EE Em, toy 39) dE dn de. i=1 D'altra parte dalle (7) si ha ancora: Fi ++ sta È du; (IG: PIC a) N MEDA .l 12 13 da ( Ù su D20/0 s dI dy T; dI; OL i; Ò SA + DIEAI ehe (formule (5): da cui in forza delle (6) e delle dY de dI -- co 2. da dUz ade NI (a Tr | dla me e)ag_ LO NIE REA do) IRE Ra SER e: 3; (Se) De 1 d (ucosné 4 u2cosm + us cos na 2 || AS Sa EN o, 4n di. r ed in forza della prima delle (1) dI | dV2 | dÙ3 d (u cos né + wu c0s an + vs cos né one siano ig _—__-/—» 1) dI dY VETRI 4rtr Concludiamo quindi: Se 1,%2,%3,p costituiscono una soluzione di (1) appartenente ad Q,, le funzioni vi ,v2, vs ,7r, individuate dalle (7), (8) costituiscono una soluzione di u, cos nÈ + us cos un + us cos nÈ d du S ml MIN) UU IE 47tr dIT d dIT doi = doi, done > (9) SASA Sy “TIRO nei punti di S, = DO? 4) = nei punti di 0, | pure appartenente ad 2. — 506 — % 6. Deduciamo immediatamente che /e condizioni (2) sono necessarie | per l'esistenza di una soluzione del sistema (1) appartenente ad ®,. | dUI dU, dU3 È Do Il = >, = =0 e le u; =; debbono essere verifi- | cate rispettivamente nei punti di S,0 qualunque sia t>&. Per #=%, al limite, data la continuità, esse danno luogo alle prime due orizzontali | delle (2). Infatti la dUI dU? dU3 I Dallas = segue pol ancora: | Spar dy Te gue p | fl cos nÉ + ws cos an) + uz cos né) do = 0, t= bh (Ode i | | ovvero: | (10) fl cos né + a» cos ny + a cos né) do =0, VENE 0 Finalmente dalla prima delle (9) si ha: fo cos 2È + v» cos 27 + v3 cos né) do + +2 (us ferri coni Pas eosde je Ss (o) 4rrr è) ovvero, tenuto conto che v; e w; coincidono al contorno o con le a;: fl cos nÉ + @, cos nn + «3 cos né) do + (o) + È fas forces aid creo ai pesos gang, $ (o 47tr e quindi, tenuto conto della precedente (10), si deduce la (11) dfasfo i E S o 4rtr 7. Possiamo invertire il teorema del n. 5 e dimostrare che viceversa Se v,,02,;v3,7 sono funzioni di £,, che verificano a (9), e le u,, U» ,3,p sono pure funzioni di £,, legate alle precedenti dalle (7), (8) e tali inoltre che per #= £ si abbia (12) u;(e3y,8,6)=h(2,4 2) Sa 49, allora le %,,%:,%3,p costituiscono una soluzione di (1), apparte- nente ad 2,. — 1907 — Si ha infatti dalle (7) che nei punti di o è x; = @;. Inoltre ripetendo i calcoli precedenti dU ei (UMIDI Av = du — — N (RE las DI: FT OSARE etc., ed in forza delle (8), (9) DS 3 = TA (OP : di dA =110/s O MA dX etc. D'altra parte sempre dalle (7) si deduce di dV9 _ dUI dUg dU3 Ati ia dy ud 1 d dUI dU2 25) dS 2A dE Li dm n PI) d (Cu cosnì + us cos nn + 3 cos né di TA 4rtr e per la prima delle (9), e poichè al contorno 0 è = «;, tenuto conto delle (10), si ottiene : a dUy La l QUI | dUs ui dS | xa pa ' 4 ai a "dine Ma per {=%, sì ha dUi | dU ata) TTD Do De e Sag poni, da = Si deduce, in forza di un nostro teorema precedente (!), che è identicameate QUI pu dU do dU3 a — ED, ò +9 =0 g=%, 8. Per dimostrare che le condizioni (2) sono sufficienti per l'esistenza di una soluzione di (1), appartenente ad £,, occorre quindi: 1) Dimostrare che esiste la soluzione di (9) appartenente a ®,. Ciò è dimostrato secondo quanto è stato esposto al n. 3 (*) (1) È il teorema I (di unicità) della Nota, Sopra un'equazione integro-differenziale del tipo parabolico, Nota I, Rend. Lincei, settembre 1912, pag. 142 e seg. (*?) Esiste certamente tale soluzione, perchè è soddisfatta la condizione (4) [vedi formula (11)]: e d’altra parte le @; ammettono per ipotesi (cfr. n. 1) le derivate prime rispetto a 0. Anzi poichè in forza delle ipotesi contenute allo stesso n. 1, le @; ammet- tono le derivate prime, seconde e terze rispetto a {, finite e continue, entro S, per { = to, dv; DE div; 0370 così segue (cfr. n. 3) che anche le DEDE? DE ot RenDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 66 sono funzioni di £,. — 508 — 2) Mostrare che esistono tre funzioni u, uz, uz di 2,, che verifi- cano al sistema (7) ed assumono per t=t, i valori di h,, hs, hz. Il sistema (7) rientra in quelli studiati nelle nostre Note precedenti (!): tuttavia le soluzioni, ivi considerate, sono in generale funzioni di £, non di 2,. I resultati, ivi contenuti, non sono quindi immediatamente applica- bili. ma occorrono alcune considerazioni complementari. Meccanica. —. Sulla stabilità deî moti stazionari di sistemi con n gradi di libertà. Nota della Sig." CLELIA SILVESTRI, pre- sentata dal Socio T. Levi-CivitA (è). In varie Note pubblicate alcuni anni or sono in questi stessi Rendi- conti (5), il prof. Levi-Civita ha fatto uno studio sistematico dei moti sta- zionarii dei sistemi olonomi, con particolare applicazione al caso della Kowalevsky. Delle varie categorie di moti così messi in luce, Egli ha inda- gata la stabilità. Ma le sue conclusioni (che pur ispirano fiducia per la espressiva semplicità) non possono ritenersi esaurienti per il modo con cui sono state dedotte. Il Levi-Civita ha infatti sistematicamente applicata la regola di Dirichlet-Liapounofi, mentre (cfr. n. 1 della presente Nota), quando si passa dal caso dell'equilibrio a quello dei moti stazionarî, cessa, in ge- .nerale, la validità di tale regola. Stando così le cose appariva necessario riprendere ez-novo la discussione applicando il metodo generale delle piccole oscillazioni con quelle speciali semplificazioni che la natura della questione poteva offrire. A ciò mi sono accinta, per consiglio dello stesso prof. Levi- Civita, giungendo a riconoscere che, le conclusioni di stabilità da lui asse- gnate, sono effettivamente esatte, fatta soltanto eccezione per un tipo di rotazioni che Egli qualifica instabili in ogni caso, mentre si riscontra che sono stabili ogni qualvolta sia verificata una certa diseguaglianza geometrica- mente interpretabile in modo semplice. 1. Richiami preliminari. — Condizione sufficiente di stabilità. — Sia dato un sistema canonico dp; ss 2dH dqi pad 2dH È | (1) Ue da è (RR) (‘) Sopra un'equazione integro-differenziale ete., Nota I (citata); Nota II, Rendi- conti Accad. Lincei, settembre 1912; Astensione di alcuni precedenti risultati, Rendi- conti Accad. Lincei, ottobre 1912. Indicheremo queste tre Note rispettivamente colle lettere C, D, E; e la Nota presente colla lettera F. () Pervenuta all'Accademia il 15 settembre 1912. (9) V. Levi-Civita, Sulla determinazione di soluzioni particolari di un sistema canonico quando se ne conosce qualche integrale 0 relazione invariante; Sui moti sta- zionari dei sistemi olonomi: Sui moti stazionari di un corpo rigido nel caso della Kowalevsky. Rend. Accad. Lincei, vol. X, 1901, vol. XIV, 1905. — Sa di funzione caratteristica H(p,g) indipendente da # (e regolare per quei valori degli argomenti p e q che interessa prendere in considerazione). Sia > una sua soluzione particolare (equilibrio o moto stazionario nell’abituale interpretazione meccanica) corrispondente ai valori costanti dei parametri p e q. Senza ledere le generalità, è sempre lecito supporre nulli tali para- metri, di guisa che la X è definita da (2) a_i: — 08 (C==1aeBoasnnQ)o Lo sviluppo della H nell'intorno di p;=g;=0 mancherà di termini di primo grado in p,g [per l'ipotesi che le (2) costituiscono una soluzione delle (1)] e sarà quindi del tipo (3) ER: designando H, una costante, H,(p,g) una forma quadratica dei 2 argo- menti p,%9 (a coefficienti costanti) ed i termini annessi essendo di grado superiore al secondo. Riferiamoci al caso generale in cui la forma H» sia irriducibile, e immaginiamola scissa in tre addendi, ponendo —U(g)=H(0,9), (5) H.=T(p) — U) + B(p. 9) con che B(p,g) risulta bilineare nelle due serie di variabili p e q. Il sistema (1) ammette, notoriamente, l'integrale (delle forze vive nella interpretazione meccanica) H=- cost. Da questo fatto segue, con ovvia generalizzazione del ragionamento usato da Dirichlet ('), che la soluzione x è stabile allorchè H, è una forma de- finita. Ove manchi il termine bilineare B sussiste pure la reciproca, come risulta dalle più recenti ricerche del Liapounoff (*). Ma se B non è identi- camente nullo, la discriminante della stabilità non è più, in generale, offerta dalla semplice ispezione della forma H.; questa può benissimo essere inde- finita senza che la X sia necessariamente instabile. (4) Nella classica dimostrazione del teorema, già enunciato da Lagrange, che l’equi- librio di un sistema olonomo soggetto a forze conservative è stabile in ogni configura- zione in cui il potenziale ha un massimo [Cfr. per es. Appell, raité de mécanique rationelle, tomo I, pp. 324-326; tomo II, pp. 329-332 (8% edizione)]. (*) Journal de mathématiques pures et appliquées, serie V, tom. 3°, 1897; e Pro- blème général de la stabilité du mouvement, Ann. de la Fac. des Sciences de Toulone, serie IT, tom. 9°, 1907. — 510 — 2. Illustrazione girostatica. — Un esempio tipico è dovuto a Lord Kelvin ('). Presentato sotto la forma canonica, esso corrisponde alla funzione caratteristica H=5{(p+0y)?+(1—2){—4 (012° + 029°), (01.02,% costanti positive). Sì tratta del moto di un punto materiale (di massa 1) soggetto a forze conservative di potenziale U = 3(0,4° +4 0:y°), in cui si include la forza centrifuga e riferito ad assi 00y uniformemente ruotanti (con velocità an- golare è). Per essere positivi i coefficienti 0, e 0», la forza ha, manifesta- mente, carattere repulsivo. La soluzione particolare Z(a=y=p=g9g=0) rappresenta lo stato di equilibrio nell’origine delle coordinate. Se gli assì fossero fissi (e mancasse in conformità il termine bilineare @(py — gx) che per © > 0 figura nella H) il carattere repulsivo della forza (minimo del po- tenziale U in 0) renderebbe l'equilibrio essenzialmente instabile. Lord Kelvin ha fatto vedere che la rotazione, purchè abbastanza rapida (© abbastanza grande), basta ad assicurare la stabilità: eppure H non è definita, come apparisce dal fatto che essa assume ad un tempo valori positivi e valori negativi (4 >0 per x=y=0; H<0 per p=— 0y,q= 2). 3. Il metodo delle piccole oscillazioni. — Condizione sufficiente di instabilità. — Tuttociò richiamato, veniamo al caso generale in cui può figurare in Hs anche il termine bilineare B(p,g). Il carattere definito di H; è sempre sufficiente, ma non più tassativamente necessario per la sta- bilità. L'indagine completa della questione costituisce una difficile ricerca che attende ancora esauriente risposta (?). Si possiede tuttavia un risultato fondamentale di Liapounoff (*), ed è il seguente: Condizione sufficiente di instabilità è quella offerta dal metodo delle piccole oscillazioni. Nel caso nostro le piccole oscillazioni sono definite dal sistema lineare Ce DEL O )). (0) di e di dPi che proviene da (1) riducendo H alla sua parte quadratica H,. L'equazione determinante di grado 2% contiene [per la canonicità del sistema (6)] solo potenze pari dell’incognita 4 e può quindi essere scritta (7) 4(2)=0, (1) Zreatise on natural phylosophy, pag. 396, n. 345*. (®) Veggasi in proposito, oltre alle già citate opere del Liapounoff, la Memoria del Levi-Civita, Sopra alcuni criteri di instabilità, Annali di matematica, serie III, tomo 5°, 1901, pp. 321-308. (8) Loc. cit. — Dil — essendo 4 di grado n in 4° (a coefficienti che dipendono in modo ben noto dalla forma H2) (?). Basta che non tuite le radici della (7) siano reali e negative, perchè la X presenti carattere di instabilità nel passato o nel futuro. 4. Caso di n= 1. — Per il caso semplice di un sol grado di libertà (a=1) si ottiene facilmente, una condizione wecessaria e sufficiente di stabilità, combinando le due condizioni di cui ai nn. 2 e 3. Si è precisamente condotti alla conclusione espressiva che seguita a valere la regola di Di- richlet-Liapounoff come quando manca il termine bitineare. Dimostrazione. — Per n= 1 l'espressione più generale di H, è x }ap° + 2bpy + eq}, (a,b, costanti). Il sistema (6) si riduce quindi a et p+- co), di == da __. di uv Ap + b4 fig e l'equazione determinante a bH 4 e ; tie ; gesti a A+ D=0 avendo posto D == 5® — 4e, che è manifestamente il discriminante di H,. Ciò premesso osserviamo : 1° che, per D>0, la forma H; è definita, talchè, in base al n. 1, c'è stabilità; 2° che, per DZKO, la equazione determinante ha le radici reali, talchè, in base al n. 3, c'è instabilità. Collegando questi due risultati (e tenendo conto che il caso D=0 non può presentarsi per forme irriducibili) si è senz'altro condotti alla con- elusione che si ha stabilità od instabilità, secondo che la forma H, è o no definita. Sussiste pertanto la regola di Dirichlet-Liapounofî, Doe 5. Applicazioni al caso della Kowalevsky.— I moti stazionarî di un corpo rigido nel caso della Kowalevsky si possono distinguere in tre cate- gorie (?): (1) Liaponnoff, loc. cit. Più dettagliati sviluppi [riferiti tuttavia ad equazioni la grangiane, anzichè alle equivalenti hamiltoniane del tipo (6)] si trovano nell’opera del Routh. Cfr. la traduzione tedesca, Die Uynamik der Systeme starrer Kòrper [Leipzig, l'eubner, 1898], B II, Kap III. (*) V. Levi-Civita, Sui moti stazionarii, ecc., Rend. Ace. Lincei, vol. X. lol a) moti stazionarî che provengono dal solo integrale delle aree; 5) moti stazionarî che provengono dal solo integrale della Kowalevsky; c) moti stazionarî che provengono dagli integrali delle aree e della Kowalevsky presi insieme. Il sistema canonico ridotto, da cui può farsi dipendere la determinazione del moto, ha due gradi di libertà sia nel caso 4) che nel caso è); un grado soltanto nel caso c). A quest'ultimo è pertanto legittimamente applicabile (n. precedente) la regola di Dirichlet-Liaponnoff, su cui si era appoggiato il Levi-Civita per la discriminazione della stabilità. Così rimane intanto provato che per questa categoria di movimenti sussistano tal quali le con- clusioni dell'Autore. Per i moti 4) e 5), non è più lecito riportarsi senz'altro alla regola, come ha fatto il Levi-Civita: ma conviene esaminare la questione più da vicino. Ciò mi propongo di fare, in una prossima Nota, dove, in parte sfrut- tando il risultato di Liaponnoff, richiamato al n. 3, in parte valendomi di una proposizione, recentemente dimostrata dal Levi-Civita ('), la quale per- mette una facile ed elegante discriminazione della stabilità, per una cate- goria Semplice, ma pur notevole di sistemi differenziali, perverrò alla defi- nitiva conclusione che, per tutti i tipi, uno eccettuato. di moti stazionarî di un solido nel caso della Kowalevsky, sono validi i criterî di stabilità dallo stesso Levi-Civita enunciati. Chimica. — Sopra alcuni acil-derivati delle ammino-piridine « e 8 (*). Nota dei dottori F. CAaRLo PaLazzo e G. MaRrOGNA (*), presentata dal Corrisp. A. PERATONER. In una precedente Nota (4) uno di noi, insieme con Tamburini, ha mo- strato che l’a-ammino-piridina si lascia acilare dagli eteri acetacetico e benzoil-acetico, e fornisce dei prodotti (I) i quali possono venire trasformati, per sottrazione d'acqua, in composti bicielici (II) contenenti un anello a-piridonico saldato in @'‘8" a un nucleo piridico, derivati, cioè, della 1.8.naftiridina (III): HO.C.R C.R HAN NCH ZX/NGg PAXNAN Oo mg e] 10 La] bp VA7° Nat ANY N NH N NH N N (*) In una Nota tutt'ora in corso di stampa negli « Annaes scientificos do Academia Polytechnica do Porto ». (3) Lavoro eseguito nel R. Istituto chimico-farmaceutico dell'Università di Roma. (3) Pervenuta all'Accademia 1°8 ottobre 1912. (4) Questi Rendiconti. 20, I, 37 (1910). — 513 — cosicchè, mentre la reazione la quale dovrebbe, in teoria, condurre diretta- mente al nucleo fondamentale della 1.8.naftiridina — la reazione di Skraup — non si verifica sull’ a-ammino-piridina ('), — con le reazioni studiate da Palazzo e Tamburini si rende possibile giungere al nucleo anzidetto, bat- tendosi una via simile a quella per cui L. Knorr (?), attraverso analoghi prodotti dell’anilina, giunse difatti a derivati chinolonici, e, in definitiva, alla chinolina stessa. Purtroppo, il fatto che l’a-ammino-piridina, per sè stessa già poco ac- cessibile, fornisce i suddetti derivati naftiridonici solo con rendimento molto scarso non ci ha permesso di eseguire la serie di trasformazioni che do- vrebbe condurre alla 1.8.naftiridina, e per ciò, nella speranza di rendimenti migliori, siamo stati indotti a provare sotto lo stesso punto di vista la #-am- mino-piridina, benchè da questa non sì potessero aspettare che derivati di una naftiridina isomera 1.5, oppure 1.7 (*). Da alcune osservazioni di H. Meyer (4), relative alla basicità delle tre ammino-piridine ed al loro contegno rispetto all’acido nitroso, dovrebbe infatti dedursi, che fra esse sol- tanto la $-ammino-piridina sia veramente assimilabile alle ammine aroma- tiche, e per ciò non era ingiustificato supporre, che le reazioni suddette di Palazzo e Tamburini procedessero nel caso della #-ammino-piridina altret- tanto favorevolmente che nel caso dell’anilina e delle altre ammine aromatiche. L'esperienza da noi fatta con la #-ammino-piridina ha confermato questa previsione per ciò che riguarda la sintesi degli N-acil-derivati, la quale sì compie difatti con rendimento molto maggiore che nel caso dell’ @-ammino- piridina; non così, per quanto concerne il contegno degli acil-derivati nel trattamento con acido solforico, nel quale trattamento, del pari come per i derivati dell'ammino-piridina @, si producono, oltre alla disidratazione, pa- recchie reazioni collaterali (rottura della catena laterale. formazione di solfo- acidi, etc.), cosicchè il rendimento in derivati naftiridonici è sempre scarso. Per questo motivo non siamo per ora in grado di descrivere esattamente questi derivati (che conosciamo solo allo stato impuro), ma crediamo ciò non di meno che anch'essi potranno aversi con buon rendimento. semplicemente sostituendosi all’acido solforico altri disidratanti, come ad es. l’acido meta-fo- sforico, anche impiegato da Knorr per la disidratazione di varie anilidi nei corrispondenti chinoloni. Del resto, dopo quanto abbiamo sopra accennato sul carattere pretta- mente aromatico della #-ammino-piridina, non è nemmeno da escludersi, che da questa base si possa giungere in modo dérezto sia ad una nafti- (1) Cfr. Markwald, Annalen, 279, 17 (1894). (*) Berichte, /7, 540 (1884); Annalen 236, 69; 245, 357 (1886-88). (3) Secondo che l'atomo d’idrogeno del nucleo piridico che si elimina, con l’ossidrile della catena laterale ossi-crotonica sia quello in @ o quello in y. (4) Monatshefte, 26, 1303 (1905). — 514 — ridina (1.5, o 1.7), applicando la reazione di Skraup (già infruttuosa- mente tentata da Markwald sull'a- e sulla y-ammino-piridina), sia ad una dimetil-naftiridina, tentando la condensazione con l'acetil-acetone, la quale, nel caso dell’anilina, conduce infatti, nel modo più liscio, all'a-y-di- metil-chinolina (*). Allo studio di queste e di altre simili reazioni poteva finora essere in qualche modo di ostacolo la difficoltà di procurarsi quantità notevoli di #-ammino-piridina, ed infatti noi stessi, sul principio del nostro lavoro, abbiamo ritenuto più opportuno esordire dallo studio delle due rea- zioni cennate, con gli eteri acil-acetici, nelle quali poteva essere messa a profitto la tecnica già sperimentata da uno di noi nelle svariate prove fatte con l'a-ammino-piridina; ma, ora che si è riusciti a nitrare (in #) la piri- dina (*), e che, per ciò, la f$-ammino-piridina diventerà probabilmente una sostanza quasi altrettanto accessibile dell’anilina, non c'è dubbio che alle sintesi di naftiridine da noi proposte si potrà dare in pratica la più larga estensione. Speriamo per ciò di poter fare ben presto nuove comunicazioni su tale soggetto. Nei riguardi dell’a-ammino-piridina, noi abbiamo poi studiato una reazione, nella quale ancora una volta si manifesta l'analogia di contegno con l’anilina, e che, appunto in base a considerazioni di analogia, offre interesse dal punto di vista della sintesi di nuovi prodotti biciclici. Secondo le nostre esperienze, l’a-ammino-piridina reagisce con l'@-bromo- acetofenone nel senso dello schema: 2. C-H,N.NH,+Br0Hy.00.0;H,=[C;H,N.NH;] HBr+ ZARE I OTAne go NANZ N NH e la reazione non solamente da questo lato, bensì anche per la facilità con cui si compie (sviluppo di calore), e per l'ottimo rendimento in derivato fe- nacilico, è del tutto analoga a quella scoperta da un pezzo per l’anilina. Ora è noto, che la fenacil-anilide si converte molto facilmente (per eli- minazione di acqua) in derivato del benzo-pirrolo, in femil-indolo (3), 6 ciò fa esatto riscontro a quanto fu trovato alcuni anni più tardi da Knorr per la benzoilacetil-anilina; difatti, nella disidratazione di questo omologo della fenacil-anilide — il quale contiene nella catena laterale un gruppo carbo- (*) Cfr. Combes, Bulletin, 49, 89 (1888). (2) Berichte, 45, 428 (1912). (®) Berichte, 14, 171; /5, 2464, 2480 (1881-82). — 515 — nilico in più — viene a formarsi sul nucleo benzolico un anello eterociclico (piridonico), che, rispetto al nucleo pirrolico, contiene un gruppo CO di più: ZH. 00.C;H; GC Got |: | È 2 È / 4 H VAI N SG NH NH OC CsH; C C6H; NE\eH,.n/\Nek Major) | 40 CO x CO Ù XA NH Ma, d’altra parte, un contegno analogo a questo della benzoilacetil- anilide fu trovato da Palazzo e Tamburini nel derivato N-benzoilacetilico dell’a-ammino-piridina, e per ciò, alla stregua delle analogie segnalate, si può prevedere che anche la N-fenacil-a-ammino-piridina si lasci disidratare in modo analogo alla fenacil-anilide, per fornire il derivato fenilico di un pi- rido-pirrolo: Ci proponiamo dunque di fare tale esperienza appena avremo una sufficiente quantità di ammina; e se anche in tal caso si troverà sussi- stere l'analogia con le ammine aromatiche, anche questo genere di sintesi potrà essere notevolmente esteso, sia impiegandosi altri derivati dell'ammina piridica, p. es. la desil-a-ammino-piridina, il prodotto di reazione dell’an- mina « con l'acido 8-bromo-levulinico, etc., sia applicandosi le medesime reazioni alle altre ammino-piridine isomere. ESPERIENZE. 1. Preparazione della B-ammino-piridina. — Questa ammina fu otte- nuta la prima volta da Pollak (*), applicando la reazione di Hofmann alla ammide dell’acido nicotico, la quale si ottiene facilmente dall’etere etilico di quest'acido per azione di ammoniaca. Nondimeno, poichè l’acido nicotico deve ottenersi per via pirogenica dall’acido chinolinico (*), e quest’ultimo va, (1) Monatshefte, /6, 55 (1895). (*) L’ossidazione di £-piridin-derivati con permanganato potassico sarebbe un pro- cesso ancora più lungo e incomodo. RenpIcONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 67 — Se a sua volta, preparato per ossidazione dell’indaco di alizarina con acido ni- trico ('), così, in complesso, la preparazione della #-ammino-piridina per questa via costituisce un processo alquanto lungo. Noi abbiamo per ciò preferito ottenerla, secondo Gabriel e Colman (?), per distillazione secca (su ossido di calcio) dell'acido $-ammino-piridin-y- carbonico; quest'acido infatti si ottiene abbastanza facilmente applicando la reazione di Hofmann all'immide cincomeronica, la quale si prepara, com'è noto, per semplice distillazione secca del cincomeronato d'ammonio. In questo secondo modo di giungere alla $-ammino-piridina è tuttavia incomoda la pre- parazione dell’acido cincomeronico dalla chinina, richiedendosi infatti per tale ossidazione una bollitura molto prolungata con acido nitrico (cinque giorni per cinquanta grammi di alcaloide) (8). Il rendimento in $-ammino-piridina da noi avuto attraverso i passaggi suindicati è stato in media di grammi 1,6 di prodotto grezzo da grammi 100 di chinina. Dal prodotto grezzo, sempre inquinato da acqua, ammoniaca, e da una parte catramosa, e sempre di colore giallo-brunastro, abbiamo avuto poi l'ammina sufficientemente pura per il nostro scopo distillandolo e racco- gliendo le porzioni bollenti fra 240° e 260° (4). 2. Reazione con l'etere acetacetico. — Per questa reazione abbiamo adottato senz'altro il modo di operare descritto da Palazzo e Tamburini per la reazione con l’a-ammino-piridina, e l'abbiamo trovato tanto adatto, che, pur lavorando con una quantità anche minore di base, ci è stato possibile sin dal primo saggio isolare l’acil-derivato, malgrado che il liquido di reazione, per il suo aspetto viscoso, non invitasse alla ricerca. Abbiamo scaldato per un'ora e mezza, in tubo chiuso, a 115-120°, gr. 1.5 di ammina con gr. 2,1 (1 mol.) di etere acetacetico, ed abbiamo indi solidificato il liquido lascian- dolo per qualche tempo sopra un miscuglio di ghiaccio e sale. La massa densa così formata, di colore giallo-ambra scuro, e dall'aspetto viscoso di vernice, veniva poi distesa su lastra d'argilla, e lasciata così in essiccatore finchè non venisse assorbita la massima parte dell'olio commisto al prodotto solido di reazione. Dopo 2-3 cristallizzazioni dal benzolo, il prodotto fonde nettamente a 134-135°, pure rammollendosi pochi gradi prima. Il rendi- mento medio è stato di gr. 0,96 di prodotto grezzo da gr. 1,5 di ammina (19 °/, del teorico). Gr. 0,1762 di sostanza diedero cme. 25,0 di N a 21° e a 754 mm. Trovato Calcolato per (C;H,N)NH.C0.CH=C(0H).CHy N°% 16,01 15,78 (*) Annalen, 276, 33 (1893); 288, 254 (1895). (3) Berichte, 20, II, 1328 (1897). (3) Cfr. Weidel e Schmidt, Berichte, /2, 1146 (1879). (4) La &-ammino-piridina pura bolle a 251°. — 517 — Questo derivato acetacetilico della $-ammino-piridina mostra, come il prodotto isomero ottenuto dall'a-ammino-piridina, un contegno amfotero: scarsamente solubile in acqua fredda, vi sì scioglie tosto per aggiunta, in- differentemente, di un acido minerale o di un alcali. E come derivato dell'etere ossi-crotonico dà poi, analogamente (in soluzione acquoso-alcoolica), un pre- cipitato verdastro con acetato ramico lievemente ammoniacale, e un'intensa colorazione rosso-violetta con cloruro ferrico. 3. Reazione con l'etere benzoil-acetico. — Questa reazione procede in modo ancora più favorevole della precedente, ottenendosene l’acil-derivato con rendimento migliore (48 °/, del teorico) ed in stato più facilmente de- purabile. Gr. 1,4 di #-ammino-piridina furono scaldati per un'ora e mezza, in tubo chiuso, con la quantità equivalente di etere benzoil-acetico, ed il liquido di reazione venne poscia mantenuto qualche tempo su ghiaccio e sale. Si formò così una massa compatta, untuosa, di colore giallo-arancio, la quale, ancora fredda, venne distesa in strato sottile sopra lastra d'argilla. Dopo conveniente riposo, la massima parte dell'olio aderente venne assorbita, e si ottenne per ciò un prodotto quasi bianco, che, dopo 2 cristallizzazioni (la prima dal benzolo, la seconda da un miscuglio di benzolo ed etere petrolico), fondeva nettamente a 100-101° (rammollendosi pochi gradi prima, a 96°), e dava all'analisi i numeri richiesti dalla teoria. Gr. 0,1753 di sostanza diedero cme. 18,2 di N a 21° e a 758 mm. Trovato Calcolato per (CH .jN) NH.CO.CH:C(0H).C,H; N°% 178 11,66 La benzoilacetil-8-ammino-piridina, per i caratteri di solubilità e per il suo contegno amfotero, è del tutto simile al derivato acetacetilico; a somi- glianza di questo e del corrispondente derivato dell’a- ammino-piridina, for- nisce con acetato ramico un sale verdastro insolubile, e con cloruro ferrico un sale solubile di colore rosso-violetto molto intenso. 4. Fenacil-a-ammino-piridina. — L'a-ammino-piridina fu da noi pre- parata con lo stesso metodo di Philips (*), dall’acido chinolinico, già seguito da Palazzo e Tamburini; epperò dobbiamo anche ora esprimere vivi ringra- ziamenti alla spettabile Fabbrica badense di anilina e soda, che, per gentile intercessione del sig. prof. Peratoner, ci fornì gratuitamente alquanto « Ali- zarin-indig-blau » di qualità propriamente non commerciale, e specialmente adatta, per lo scarso contenuto di sostanze minerali. alla preparazione del- l'acido chinolinico. La reazione dell’a-ammino-piridina col bromuro di fenacile è molto energica, quasi violenta, quando si esegua in assenza di solventi, aggiungendo cioè il bromo-chetone solido all’ammina surfusa; e per ciò abbiamo creduto (*) Annalen, 288, 253 (1895); vedi anche Palazzo e Tamburini, 1. c. — 518 — conveniente operare in presenza di alcool, mettendoci nelle condizioni de- scritte da Bischler (*) per la preparazione della fenacil-anilide. Gr. 2 di am- mina furono sciolti in 8 cme. di alcool assoluto, e la soluzione venne aggiunta di gr. 2,1 di bromuro di fenacile ($ mol.). il quale si sciolse con raffred- damento. Dopo 10 minuti circa, la temperatura del liquido si elevò in modo notevole, ma, ciononostante, per raffreddamento, non si separò alcun prodotto. Dopo riposo di 2 ore, la soluzione venne lasciata evaporare all'aria, ed il residuo solido, di colore verdognolo, e che odorava appena di bromo-aceto- fenone, fu ripreso con 25 cme. di un miscuglio a parti uguali di alcool e acqua. Passò così in soluzione tutto il bromidrato di e-ammino-piridina, e rimase indietro una sostanza bianca, la quale, dopo lavaggio alla pompa con poca acqua ed essiccamento sopra acido solforico, fondeva bene a 154°. Ren- dimento, gr. 1,15=51 °/, del teorico (*). Cristallizzando tale prodotto una semplice volta da miscuglio di ben- zolo (1 p.) e benzina del petrolio (3 p.), lo ottenemmo in magnifici aghi bianchi, setacei, nettamente fusibili a 135°. Gr. 0,2082 di sostanza diedero cme. 25 di N a 21° e a 754 mm. l'rovato Calcolato per (C;HiN)NH.CH,.C0.C Hz; NES 15,55 13,20 Chimica. — Azzone degli alcoolati sodici sopra gli eteri carbopirrolici (*). Nota III di U. CoLaciccHI e 0. BERTONI, pre- sentata dal Socio G. CIAMICIAN (*). Nella nostra recente Nota sullo stesso argomento (*), ci siamo occupati della formazione del 2-4-dimetil-3-5-dietilpirrolo partendo dall’etere 2-4- dimetil-3-acetil-5-carbopirrolico e dal corrispondente acetilderivato. Allo scopo di generalizzare queste reazioni e di fare uno studio sui dimetildietilpirroli isomeri, abbiamo ora voluto ottenere il 2-5-dimetil-3-4-dietilpirrolo. Così attual- mente sono noti tre, [I], [II], [IIT], dei quattro possibili c-dimetildietil- pirroli, essendo il 1II (1) Berichte, 25, 2860 (1892). (2) Questo computo è riferito solamente a metà dell’ammina impiegata, giacchè una parte dell'’ammina rimane infatti allo stato di bromidrato, e può ricuperarsi. (®) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Parma, diretto da G. Plancher. (4) Pervenuta all'Accademia il 12 settembre 1912. (5) Questi Rendiconti, pag. 450. CIO . | DAL) C,H, d be CH,0\ 0. CH; A / NH NH I II CH;. TI CEL CH, I OE CH; .C\ /0.0-H; CHRC® CVO:H NH NH III IV già stato ottenuto da Piloty (*) dal bis-dietilazimetilene con cloruro di zinco. Si capisce subito quale importanza abbia lo studio dei prodotti suddetti per risolvere la questione dell’emopirrolo e del fonopirrolo che avrebbero, secondo Piloty (*), la costituzione seguente: on CH; CHs.C—TC. CsH; Hol /c.cH, CH3.C\ {CH NH NH Emopirrolo Fonopirrolo Se non che, dei diversi dimetildietilpirroli fin ora conosciuti, nessuno si è mostrato identico a questi, e ciò farebbe credere che ad essi spettasse invero un'altra costituzione. H. Fischer e Bartholomius (*), facendo agire l’etilato sodico sull’emopirrolo, hanno separato per mezzo del picrato un di- metildietilpirrolo; questo picrato fonde a 102°-103°, e perciò non è identico a quello del prodotto I che da essi prima, e in seguito da noi, è stato descritto e che fonde a 92°. Il dimetildietilpirrolo di Piloty non dando picrato, per il prodotto di Fischer non rimarrebbe che da scegliere fra le fermule II e IV, per la quale ultima essi propendono. Il dimetildietilpirrolo che noi descriveremo in questa Nota e che abbiamo ottenuto dall'etere 2-5-dimetil-3-4-pirro]di- carbonico, dà un picrato ben cristallizzato dall’alcool C.H; 00C.C-_—C.C00 C,.H; C-H;.C—TC.0;H; CH,. dk CH, T7*.KCHS d È CH, NH Na (1) Piloty, Ber. 43, pag. 497. {#) Piloty, Ann. !377, pag. 314, (1910). Durante la correzione le cose sono alquanto cambiate; vedi Piloty, Ann. 292, 220-21. (3) H. Fischer und Bartholomàus, Ber. 45, pag. 468, (1912). — 520 — (DE | che fonde a 102°-103° come quello di H. Fischer. Noi non vogliamo con questo concludere per la identità dei due prodotti: chè ciò non si accorde- rebbe col fatto che l'emopirrolo con metilato sodico dà il fillopirrolo (*), e con la miscela cromica o l'acido nitroso (?) fornisce l’ imidemetiletilmaleica; solo facciamo notare tale coincidenza. Pei fatti che noi conosciamo finora, per l’emopirrolo e il fonopirrolo rimarebbero ancora come molto probabili le due formule CH;. TI . CeH; CH;. N CHx.C CH CHs. € 70.0:H; NH NH Emobpirrolo Fonopirrolo H. Fischer (*) avrebbe infatti constatato che il prodotto che fornisce il fonopirrolo con l'acido diazobenzolsolfonico ha i caratteri di un f-azocolore. Noi stiamo ora preparando dall'isonitrosometiletilchetone ed etere pro- pionilacetico, l'etere 4-5-dimetil-2-etil-3-carbopirrolico CH;. in .COO C-H; CHs. O 0.0:H; NH dal quale otterremo il 4-5-dimetil-2-etilpirrolo e il 2-3-dietil-4-5-dimetil- pirrolo CH3.CTCH CH3.C—_C.C,H; nin o CHs. 0 pi NH NH così saremo in grado di risolvere questa tanto dibattuta questione. Dalle ricerche che noi abbiamo finora compiuto sui diversi derivati del pirrolo, e da quelle di Willstàtter sui prodotti di scissione della clorofilla, di Fischer, di Piloty, di Knorr, è risultato chiaramente come i pirroli c-tetra- alchilici e i trialchilici aventi un posto -@- libero possano venire facilmente caratterizzati per mezzo dei picrati, stifnati, cloropicrati, mentre riesce diffi- cile la identiticazione dei prodotti trialchilati aventi un posto -8- libero, pel fatto che non dànno se non difficilmente derivati solidi. H. Fischer e Bartho- (*) H. Fischer und Bartholomkus, Ber. 45, pag. 470, (1912). (3) Piloty, Ann. 366, pag. 254; e Ber. 42, pag. 4699, (1909). (3) Loe. cit — 521 — lomàus (*) hanno recentemente differenziati gli isomeric-trialchilici per il modo come virano cogli acidi gli azocolori che essi formano coll’acido diazoben- zolsofonico. Come avevamo già detto noi cìi siamo proposti di trovare una reazione che permetta di trasformare in composti solidi facilmente trattabili quei pirroli che non dànno picrati; per questo abbiamo rivolto la nostra atten- zione alla reazione di Grignard impiegata da B. Oddo (*), la quale permette l'introduzione di un radicale acido in uno dei posti a- del nucleo pirrolico facendo agire un acicloruro sull’iodiomagnesio pirrolo. Dalle ricerche di questo autore non risulta però che tale reazione sia stata applicata a quei derivati aventi ambedue i posti @- sostituiti. Ciò era appunto quello che a noi interessava e per questo abbiamo voluto vedere se in tali casì era possi- bile l'introduzione di un radicale acido in uno dei posti -#-. A tale scopo abbiamo fatto agire sul 2-5-5-trimetilpirrolo, l’ioduro di magnesio metile ed il cloruro di benzoile ed abbiamo ottenuto il corrispondente benzoilderivato col residuo COC, H; in 8. Che veramente tale residuo si sia fissato in quella posizione lo abbiamo dimostrato preparando per sintesi col metodo di Knorr il 2-3-5-trimetil-4-benzoilpirrolo, dall’ isonitrosometil-etilchetone e ben- zollacetone CH,.CO H.C.COGC;H; CH. 0 C.CO CH; | | CH, .CH -- 00. CH; = 2H,0 CH, . S IC . CH; \NH, NH I due prodotti hanno infatti dimostrato di essere identici. PARTE SPERIMENTALE. Azione dell’etilato sodico sull'etere 2-5-dimetil-3-4-pirroldicarbonico. Grammi 10 di etere vennero suddivisi in cinque tubi e riscaldati ognuno con 25 cc. di etilato sodico al 10 per cento per 14 ore a 220°-230°. Il pro- dotto della reazione fu diluito con acqua e l'olio separatosi, venne estratto con etere. La soluzione eterea dopo lavata con acqua e seccata con solfato ma- gnesiaco calcinato fu concentrata fino a piccolo volume. Il residuo bruniccio di odore aromatico, che dava evidente la reazione di Erlich e quella del fuscello d'abete venne distillato a pressione ridotta in atmosfera di azoto secco. La maggior parte del prodotto passa tra 130°-165° a 110° mm. circa sotto forma di un olio scorrevole appena colorato in gialliccio, di odore can- forico. Una piccola parte di un liquido denso scuro passa fino a 250° circa. La porzione distillata fra 130° e 165° (gr. 2,5) venne diluita con etere e addi- () Loc. cit. (*) Gazz. chim. ital. 1910-1911. — 522 — zionata di 2,5 grammi di acido picrico. Per aggiuta dell'acido il liquido si raggruma rapidamente in una massa semicristallina. Risollevando moderata- mente con aggiunta di poco etere ed agitando, i cristallini del picrato sì liberano completamente dalla sostanza attaccaticcia in cui erano impigliati e possono così venire facilmente separati per filtrazione alla pompa. Il pro- dotto per tal modo ottenuto venne cristallizzato dall'alcool assoluto. Si ottiene in bei prismetti gialli, lucenti, duri che non si alterano se mantenuti in ambiente secco. Fonde a 102°-103°. All’analisi ha mostrato di avere la composizione Cs Hso N, 0; come compete al picrato di un dimetildietilpirrolo. Calcolato per Cie Hso N4 07 Trovato C%% 50,53 50,22 Ela 5,27 5,65 N» 14,74 24,94 Anche dalla porzione che bolle a temperatura più elevata potemmo otte- nere una piccola quantità di picrato fondente a 102°. Azione dello ioduro di metilmagnesio e del cloruro di benzoile sul 2-3-5-trimetilpirrolo. Sullo ioduro di metilmagnesio preparato facendo reagire gr. 0,9 di ma- gnesio con gr. 0,5 diioduro di metile sciolto in 15 ce. di etere anidro, il tutto contenuto in un palloncino perfettamente secco e sormontato da un attivo refrigerante ascendente, furono fatti cadere gr. 3,5 di trimetilpirrolo sciolti in 10 cc. di etere anidro. Ogni goccia di pirrolo cadendo nella solu- zione del sale magnesiaco produce uno svolgimento di bollicine gassose (me- tano) e per impedire che la reazione si faccia troppo violenta conviene raffreddare con un getto d’acqua il pallone. Dopo che tutto il pirrolo è stato aggiunto e non si ha più accenno di reazione, a temperatura ordinaria si scalda a bagno maria per un'ora, sì lascia quindi in riposo per qualche tempo e infine sì aggiungono goccia a goccia, raffreddando, grammi 5 di cloruro di benzoile diluito di un egual volume di etere. Il cloruro acido venendo a contatto del composto iodiomagnesiaco del pirrolo produce come un intorbi- damento e si separa una specie di precipitato oleoso denso bruno che sì de- posita in fondo al recipiente. La reazione si fa man mano più debole: e quando tutto l’acido cloruro è stato aggiunto sì scalda per una mezz'ora a bagno maria. Dopo raffreddamento sì tratta con acqua ghiacciata e acido cloridrico diluitissimo e si estrae ripetutamente con etere. La soluzione eterea colorata in rossastro viene lavata con una soluzione di bicarbonato sodico e poi seccata con carbonato secco. Per eliminazione dell'etere rimane — 523 — un residuo oleoso di odore di acetofenone formatosi in una reazione secon- daria, il quale, per raffreddamento con ghiaccio sì rapprende in una massa semi- solida. Aggiungendo poco etere e raffreddando si separano dei minuti cristal- lini che filtrati alla pompa e lavati con etere sono appena colorati in giallo e fondono a 160°-165°. Il prodotto così ottenuto, purificato cristallizzandolo prima dall'alcool diluito e poi dall’etere solforico, si presenta in forma di minutissimi aghetti leggermente rosei che fondono a 172°-173°. All’analisi ha mostrato di avere la composizione di un trimetilbenzoilpirrolo. Calcolato per Ci4 His NO Trovato CY 78,87 79,12 H » 7,04 7,37 N» 6,57 6,43 Come la maggior parte dei pirroli c-tetrasostituiti, non dà la reazione di Erlich e quella del fuscello. Sintesi del 2-4-5-trimetil-3-benzoilpirrolo col metodo di Knorr. Grammi 3,2 di isonitrosometiletilchetone e gr. 5 di benzoilacetone sciolti in 50 gr. di acido acetico al 90 °/, vengono ridotti con 12 grammi di polvere di zinco. Lo zinco si aggiunge a piccole porzioni e raffreddando e in fine si completa la reazione scaldando mezz'ora a bagno maria. Sepa- rato lo zinco per decantazione, la soluzione acetica viene diluita con acqua e il pirrolo separatosi in fiocchetti giallastri, viene filtrato e lavato con acqua. Cristallizzato prima dall'alcool diluito e poi dall’etere solforico fonde a 172°- 173°. È identico al prodotto ottenuto precedentemente come lo dimostra il punto di fusione del miscuglio, che non subisce alcuna depressione. All’analisi ha dato numeri richiesti per la formula C,, H,3 NO Calcolato per C,4 His NO Trovato CY 78,87 78,66 H » 7.04 7,92 N» 6,57 6.69 Resta così dimostrato che è possibile. mediante la reazione suddetta, l'introduzione di un radicale acido anche in un posto -8- del nucleo pirrolico, quando siano occupati quelli in -@-, e noi ci riserviamo di applicare questo metodo per la separazione dei prodotti che si formano nelle reazioni che stiamo studiando. RenpicONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 68 Chimica. — Analisi termica di miscele binarie di cloruri di elementi bivalenti (*). Nota III di CARLO SANDONNINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (°). In questa Nota espongo i risultati ottenuti esperimentando le miscele, che finora non erano mai state studiate, del cloruro di zinco coi cloruri degli elementi bivalenti presi in considerazione nelle Note precedenti (*): e cioè le miscele coi cloruri di stronzio, di bario, di mercurio e di manga- noso. Queste, unitamente a quelle già studiate da G. Hermann (‘) e da O. Menge (°), vengono a completare il quadro delle miscele possibili tra questo sale e gli altri cloruri. Il sistema cloruro di zinco - cloruro di stronzio. Secondo G. Herrmann, il cloruro di zinco fonde a 261°,5 in accordo con Braun (*); secondo Menge, fonde a 271-274°. Il cloruro di zinco da me usato era di Kahlbaum, fuso in cilindri, e conteneva piccole quantità di ossicloruro, di cui non venne tenuto conto nelle percentuali delle miscele, che venivano preparate introducendo un pez- zetto di cloruro di zinco — corrispondente, presso a poco, alla quantità vo- luta — il più rapidamente possibile nella provetta che serviva poi alla fu- sione, tarata e chiusa con un buon tappo. Ripesando la provetta, si aveva il peso del cloruro di zinco, al quale si aggiungeva la quantità dell’altra componente necessaria per avere la miscela desiderata. Venne tenuto conto della perdita in peso del cloruro di zinco, dovuta a perdita d’acqua per fu- sione del sale, calcolata in media 1°/. Il cloruro di zinco bolle relativamente basso, verso i 700°: ma per aggiunta di altri sali, la sua tensione di vapore viene talmente abbassata, che, anche per miscele molto ricche in ZnCl., si può raggiungere una tem- peratura molto più alta, senza che la massa entri in ebollizione. Il punto di solidificazione del sale da me usato giaceva in media a 275°. Le miscele venivano portate a fusione in atmosfera di azoto. (!) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Padova, diretto dal prof. G. Bruni. (8) Pervenuta all'Accademia il 17 agosto 1912. (8) Questi Rendiconti, 20. (*) Zeit. f. an. Ch. 77, 257, 1911. (e ” AZIO IU, (5) Pogg. Ann. 154, 190. — 525 — Dal punto di solidificazione del cloruro di stronzio la curva di cristal- lizzazione primaria discende circa a 46 mol. °/, di cloruro di stronzio, ove si nota un evidentissimo gomito a 476°; indi discende, prima assai lenta- mente, poi rapidamente, al punto di solidificazione del cloruro di zinco, pra- 800 700 1 600 500 500 400 i 400 300 300 200 200 ORARIO 20/3 ONION 50 i Teo! zolfo Mio N T00 Zn CI, Mol. °/ SrCl, Sr Cl, Fig. 1. — Cloruro di zinco e cloruro di stronzio. ticamente, a 100 mol°/, di ZnCl.. Tutte le miscele da 46 a 100 mol°/ di SrCL hanno nella loro curva di raffreddamento un punto d'arresto a 476°, che ha la sua massima durata circa a 50 mol °/. Si noti che per la miscela da 46 a 53.8 mol°/ Sr Cl, non si nota l’inizio di cristallizzazione, e che il punto di gomito venne individuato per estrapolazione grafica della curva di deposizione primaria delle miscele più ricche in cloruro di stronzio. Per le miscele da 0 a 47 mol°/ di SrCl, si nota, oltre all’inizio di cristallizzazione, un punto di carattere eutettico, la cui temperatura è di — 526 — poco inferiore al punto di solidificazione del cloruro di zinco stesso. Coll'au- mentare delle percentuali in SrCl;, questo punto si abbassa, e, più che un arresto, diviene un rellentamento. Nel diagramma 1 e nella tabella 1 non sono date le durate di questi punti, che non essendo molto regolari, non avrebbero alcun significato. TaBELLA 12. Molecole |Temperature Durate O di cristal- Primo Secondo an lo li A secondi Li LALIMORO arresto arresto del Sr Cla primaria 2° arresto 0.0 27150 _ — = 9.9 510 270° = è 10.0 350 270 = pl 18.7 422 250 = fam 26.6 450 235 = = 537.9 470 220 ci Dr 44.6 473 ? = Ta 47.0 n 2 476° ca 51.6 ? ni 477 190” 95.8 ? — 476 150 58.4 580 S 477 100 62.2 620 2 476 80 641 650 _ 477 60 81.1 752 — 74 40 100.0 860 — — = Con tutta sicurezza si può tuttavia dire che i due sali sì combinano, che il composto a cui dànno luogo si decompone alla fusione, e che a questo, verosimilmente, spetta la formula SrCl,.ZnCl,. Venne già osservato da O. Menge, che il cloruro di zinco, se rifuso parecchie volte, dà luogo a fortissimi sopraraffreddamenti; ora io ho osser- servato che questo avviene non solo per il cloruro di zinco puro, ma anche per le miscele ricche di esso, quando vengano portate ad una temperatura di molto superiore a quella di fusione. Al contrario, riscaldando le varie miscele fuori del bagno di sabbia ed interrompendo il riscaldamento non appena avvenuta la fusione completa, la miscela cristallizza molto più regolarmente. Se invece si prolunga il ri- scaldamento, la massa, per raffreddamento, diviene sempre più vischiosa, dimodochè è impossibile l'agitazione, sino a che indurisce in una massa vetrosa trasparente, che solamente a temperatura assai bassa diviene cristal- lina ed opaca. La miscela eutettica scompare in vicinanza della presunta composizione del composto: ma non si hanno dati sufficienti per stabilire se questo sia dovuto al formarsi di soluzioni solide tra il cloruro di zinco ed il composto stesso, oppure agli inconvenienti sopra esposti. — 527 — Il sistema cloruro di zinco - cloruro di barto. 11 diagramma di solidificazione (fig. 2) risulta completamente analogo a quello precedente. Nel corso delle esperienze si notarono le stesse irrego- larità di congelamento; anche in questo caso il composto che si forma ha la composizione Ba Cl..Zn (Ola 800 700 | | 700 600! 600 500 | 500 400 | 400 300 300 200 200 Oui. DD 0000 EGNA ED Ed 500 Zn Cla Mol. °/, Ba Cla Ba Cl, Fie. 2. — Cloruro di zinco e cloruro di bario. La temperatura di formazione di quest'ultimo è leggermente più bassa di quella del composto Sr Cl,.Zn Cl., 470°. Lo scomparire dell'arresto eu- tettico in vicinanza del composto dalla parte del cloruro di zinco è ancor più accentuato che non nel caso precedente. Nella tabella 22 sono riuniti i dati termici relativi a questo sistema: 928, — TABELLA 22. __— ‘_rT——__—_—_—_—_rr_—_rPrr_rr______Ém Molecole | Temperature Durate Trasforma- 0), di cristal- Primo Secondo in secondi zione UO lizzazione DLESSTO aresto del di Ba Cla primaria 1° arresto Ba Cla | 0.0 275° Le bo. i n 37 356 27920 na ul, — 11.4 392 240 DI E 18.0 415 242 di e — 95.5 462 240 Li — Pa 39.0 468 ? = Si DE 49.1 470 ? = - dI 50.8 470 — 470° 12.040) —_ 53.4 535 _ 470 80 | _ 58.0 645 — 470 80 —- 65.7 710 — 470 70 — 80.7 830 — 471 60 — 91.8 904 — 470 40 —_ 93.0 918 — 470 80 — 96.2 936 — 470 — 923” 100.0 960 — — — 923 Conviene notare, benchè un confronto non sia possibile, per le ragioni più volte accennate, come per via umida fosse già stato preparato un sale doppio Ba Cl. .Zn Cl: + 4H:0 (); mentre, a quanto mi consta, non era noto alcun composto del cloruro di stronzio col cloruro di zinco. Il sistema cloruro di zinco - cloruro mercurico. Si può dire che i due sali sono incompletamente solubili anche allo stato liquido. Costruendo la curva di raffreddamento delle varie miscele, si trova un arresto alla stessa temperatura 275-276°, che sono appunto i punti di soli- dificazione dei due sali. Osservando la provetta ove avviene la fusione, quando tutta la massa è fusa, si possono chiaramente vedere due strati liquidi: uno inferiore, di cloruro mercurico, ed uno superiore di cloruro di zinco; quando poi tutta la massa è solidificata, si possono meccanicamente separare le due masse sovrapposte. Da saggi analitici si potè accertare che in esse sono con- tenute, rispettivamente, tracce di cloruro di zinco e tracce di cloruro mercurico. Le miscele poterono essere riscaldate ben poco al disopra del loro punto di fusione, data la grande vicinanza di questo col punto di ebollizione del cloruro mercurico, la tensione di vapore del quale non viene abbassata per aggiunte di cloruro di zinco pel fatto che questo vi è quasi insolubile anche allo stato fuso. (1) Warner, J. B., 1873, pag. 665. — 529 — Il sistema eloruro di zinco - cloruro manganoso. La curva di deposizione primaria discende dal punto di solidificazione del cloruro manganoso a quello del cloruro di zinco, praticamente, a 100 mol°/ di cloruro di zinco. La temperatura dell'arresto eutettico coincide con quella di solidificazione di Zn Cl,, ma però decresce coll’aumentare della 700 | 600 500 | 500 400 400 300 | 300 200 200 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 Zn Cla Mol. °/ Mn CI, Mn Cl. Fra. 3. — Cloruro di zinco e cloruro manganoso. TABELLA 82. |_—_————_____—_——_—_—_r—_rr—_———_____nmsgscgcerxzcPD]--==_____ Molecole 0 1 pempersture IeInrerature Dako di Mn Cl, cristallizzazione cristallizzazione inisecondi primaria eutettica 0.0 275° — — 5.4 295 275° 120” 12.0 350 276 90 22.7 390 276 80 30.5 452 267 70 92.8 496 265 60 57.9 930 250 60 70.5 566 230 _ 80.5 290 240 —_ 90.2 610 230 = 100.0 650 = ca — 530 — percentuale di cloruro manganoso. Pare tuttavia lecito il concludere che i due sali non dànno soluzioni solide, o le dànno in rapporti limitatissimi. Riassumendo: 1) il cloruro di zinco dà, coi cloruri di stronzio e di bario, due com- posti decomponibili alla fusione Sr Cl, .Zn CL, e Ba CI, . Zn Cl;; 2) col cloruro mercurico, due strati liquidi ; 8) col cloruro manganoso un semplice eutettico. Chimica. — Sulla stereo-isomeria della tricloro-acetaldos- sima (!). Nota del dott. F. CARLo PALAZZO, presentata dal Corri- spondente A. PERATONER (°). In connessione con alcune mie ricerche sopra una serie di sostanze azotate ad un atomo di carbonio che, dissociandosi, forniscono acido fulmi- nico (*), fui indotto alcuni anni or sono a studiarne qualcuna appartenente invece alla serie dell’etazo, dalla cui dissociazione, analogamente come dai derivati suddetti del metano, si sarebbe potuto pure aspettare acido fulmi- nico. E da questo punto di vista esaminai anzitutto l'acido ossal-monoidros- sammico, da me (in collaborazione con Oliveri-Mandalà) per la prima volta isolato e descritto allo stato di purezza (‘). Il tentativo rimase infruttuoso, epperò rivolsi allora l’attenzione alla tricloro-acetaldossima. Per questo prodotto, ottenuto da Victor Meyer sin dal 1891 (*), si sarebbe potuto infatti prevedere, per analogia col contegno del cloralio, una dissociazione secondo il seguente schema: CIC CL; C CE NO Sto = voi, H dissociazione, la quale appariva ancora più probabile in considerazione di un fatto già osservato dallo stesso Meyer, e da lui non interamente chiarito : il contegno della cloral-ossima rapporto agli alcali. In questa reazione — la quale è talvolta così violenta da assumere il carattere di vera e propria esplosione — non si forma, è vero, cloroformio, () Lavoro eseguito nell'Istituto chimico-farmaceutico della R. Università di Roma. (2) Pervenuta all’Accademia il 19 ottobre 1912. (3) Questi Rendiconti, 16, I. 545 (1907); Atti del Congresso dei Naturalisti e Me- dici tedeschi tenuto in Colonia nel 1908, pag. 95; Gazzetta, 39, II, 249 (1909). (*) Atti del VII Congresso internazionale di Chimica applicata. Sezione IVA, 1, pag. 247 (1909). (5) Annalen, 264, 118. Lo RO ea come esigerebbe il superiore schema (o se ne forma solo traccia), ed il cloro viene eliminato in modo assai più semplice, sotto forma, cioè, di cloruro alcalino; tuttavia, mentre dall’ossima si ottiene la quantità teoretica di acido cloridrico (3 mol.), i due restanti prodotti di scissione riscontrati dal Meyer, cioè, l'anidride carbonica e l'acido prussico, corrispondono per la loro quan- tità solamente al 50 °/, circa del carbonio e, rispettivamente, dell’azoto. Per una metà del carbonio e dell'azoto della cloral-ossima rimaneva dunque oscura la sorte nella scissione con gli alcali, tanto più che la ricerca del- l'acido cianico era riuscita al Meyer del tutto negativa. Io stesso, insieme con Fazio ('), interessandomi a questo notevole defiezt di carbonio e di azoto, volli ricercare l'acido cianico con la squisita reazione di E. A. Schneider all'acetato di cobalto, ed ebbi a convincermi che nella scissione in parola non si formano nemmeno tracce di acido cianico. Epperò questo fatto induceva a supporre che il prodotto della composizione HONO, sospettato dal Meyer, potesse essere, invece che l'acido isocianico, o il formo- nitril-ossido, secondo uno schema già reso verosimile da Palazzo e Fazio, 0 addirittura l'acido fulminico, secondo lo schema sopra riferito. Poichè, da uno studio preliminare della reazione con gli alcali, avevo potuto facilmente dedurre che non una sola ma parecchie reazioni hanno luogo simultaneamente, o si seguono a breve distanza, così poteva ammet- tersi la formazione di quantità notevole di acido fulminico, non ostante che la quantità di cloroformio, che dovrebbe formarsi secondo I), fosse molto piccola, e quasi insignificante. In verità, avendo sperimentato col dott. Egidi l’azione dell’acqua, la quale, pur decorrendo con minore rapidità, corrisponde nei suoi risultati abbastanza da vicino a quella degli alcali, potei isolare, benchè con rendimento scarso, un sale ramico il cui contenuto di metallo era molto vicino al calcolato per (CNO).Cu; epperò sarebbe parsa confermata la primitiva supposizione. Un attento esame di quel sale dimostrò, invece, che esso ha tutt'altra natura, e ci spiegò d’un tratto il contegno della cloral-ossima ri- spetto agli alcali, a prima giunta enigmatico. L'azione degli alcali consiste fondamentalmente nell’idrolisi del gruppo — CCI; in —CO00H, e per conseguenza nella trasformazione della cloral- ossima in acido ossimmido-acetico : CCL; — CH=NOH —> C00H —CH=NOH. Tuttavia, mentre la composizione del sale di rame isolato da me e Egidi (tanto nella reazione con l’acqua, quanto in quella con gli alcali) corrisponde effettivamente a quella di un ossimmido-acetato ramico, il prodotto acido che sì ricava dal detto sale non è identico all'acido ossimmido-acetico finora noto. (*) Atti del VII Congresso internazionale di Chimica applicata. Sezione IVA, 1, pag. 244 (1909). ReNDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sun. 69 — 532 — A questo riguardo devesi però osservare che l'acido ossimmido-acetico è anche ossima, cosicchè possono prevedersi per esso due stereo-isomeri: H —C — COOH H—C— C00H I) I Il) Il NT-0H HO —N Acido anti-aldossim-sin-carbonico Acido stin-aldossim-art?-carbonico Di essi, finora, se ne conosce uno solo, che deve considerarsi costituito secondo la formula I); tale configurazione sterica, benchè non determinata in modo diretto, risulta difatti in modo sicuro dal valore della costante di conducibilità elettrica (*). I tentativi di Cramer (?), diretti alla scoperta dell'acido stereo-isomero (formula Il), rimasero infruttuosi. Ora, come sarà più minutamente indicato in una prossima Nota, il prodotto acido da me e Egidi ottenuto per trattamento del sale ramico con acido solforico e succes- sive estrazioni con etere, pur non essendo identico all'acido ossimmido-acetico finora noto, ne presenta molti caratteri. ed è senza dubbio da considerarsi come una miscela dei due acidi stereo-isomeri. Epperò, mentre la scissione della cloral-ossima perde l’importanza da me attribuitavi in principio, come probabile sorgente di acido fulminico, offre d'altronde una notevole importanza per la stereo-isomeria di quella ossima. Il risultato avuto dal Meyer nella scissione alcalina della sua cloral- ossima devesi infatti interpretare in questo senso: che, cioè, /a eloral-ossima sciropposa non é una sostanza unica, ma costituisce invece un miscuglio delle due forme stereo-isomere teoricamente prevedibili. Stabilito che la prima alterazione subìta dalla cloral-ossima, a contatto con gli alcali, consiste nella fotale idrolisi del gruppo —CCl;, come lo mostra l'eliminazione quantitativa di acido cloridrico (3 mol.), è chiaro che dalla reazione con l’acqua debba comunque ricavarsi un prodotto dalla com- posizione di acido ossimmido-acetico, laddove, nella scissione con gli alcali, è invece da supporsi che una delle due forme di detto acido venga profon- damente decomposta. Per la modificazione II) dell'acido ossimmido-acetico, la quale costituisce una s7-aldossima, è infatti da prevedersi, come per molte sin-aldossime, una facile disidratazione, da parte degli alcali, nel nitrile corrispondente: e poichè il nitrile, in questo caso particolare, è l'acido ciano- carbonico, instabile, così è anche chiaro che un acido ossimmido-acetico della configurazione II) può venire dagli alcali completamente demolito in acqua, anidride carbonica, e acido prussico : H_—C—T— COOH C— COOH | - | —> HCON+0C0,, HO — N N (1) Zeitschrift f. phys. Ch., /0, 6 (1892). (*) Berichte, 25, 715 (1892). — 539 — vale a dire, nei prodotti che Meyer ebbe effettivamente a riscontrare. Questi due prodotti non possono d'altronde riscontrarsi nella quantità teoricamente prevista, se la cloral-ossima di partenza non è la pura forma s22, ma costi- tuisce un miscuglio di due stereo-isomeri; in tal caso, uno degli acidi ossim- mido-acetici che provengono dall’idrolisi di essa è l’acido a74-aldossim-stn- carbonico, notoriamente stabile rispetto agli alcali (!): e perciò nelle deter- minazioni quantitative del Meyer, messe in raffronto con i risultati avuti da me e Egidi, non si ha solo un indizio della coesistenza di due forme isomere, ma senz'altro una misura delle quantità relative in cui la cloral-ossima sci- ropposa contiene i due isomeri. A questa conclusione si può del resto pervenire, con altrettanta sicu- rezza, anche discutendo alcune osservazioni fatte già dal Meyer relativa- mente al punto di fusione della cloral-ossima, ed alle quali quel valentis- simo sperimentatore non diede tuttavia la giusta importanza. Rispetto alla sua cloral-ossima, il Meyer si esprime testualmente in questi termini: « Il « prodotto di reazione si separa come olio incoloro, il quale, per ripetuto «lavaggio con acqua, diviene abbastanza puro da fornire all'analisi risultati « esatti. Completamente pura si ottiene poi l'ossima lasciando solidificare « l'olio in acqua ghiacciata, e spremendo la sostanza congelata fra carta di « filtro. A cagione della grande tendenza a surfondersi, la sostanza sì lascia « difficilmente cristallizzare, giacchè, per evaporazione del solvente, si separa « per lo più allo stato sciropposo; tuttavia, la sua tendenza a cristallizzare «è grandissima. Solidificando, lo sciroppo si converte per lo più in grandi « prismi duri. La cloral-ossima si scioglie none in alcool ed in etere, «non in acqua, e fonde a 39-40° ». Come subito mostrerò, già queste proprietà fisiche della cloral-ossima di Meyer fanno di essa un composto interessante dal punto di vista della stereo-isomeria. A questo proposito va anzitutto rilevato che Hantzsch, avendo studiato l'azione dell’idrossilammina sul cioralio nell’ intento di ricavare delle cloral-ossime stereoisomere (*), fu indotto a considerare la cloral-ossima di V. Meyer come «l'unico stereo-isomero capace di esistere =. Egli afferma che « per lo meno tutti i tentativi di trasposizione condussero sempre ad una sola e medesima ossima », e che è dunque « per lo meno molto improbabile che la tricloro-acetaldossima esista in due stereo-isomeri ». Ma questa ve- duta dello Hantzsch perde evidentemente ogni valore, quando si abbia ri- guardo ai risultati ottenuti due anni dopo da Dunstan e Dymond con l'acetaldossima e la propion-aldossima (*). Difatti, ponendo in rapporto la proprietà della cloral-ossima di esistere, a temperatura ordinaria, in due modificazioni egualmente pure, una solida e una liquida, con le osservazioni (1) Cfr. Cramer, loc. cit.; Hantzsch e Wild, Annalen, 289, 295 (1896). (3) Berichte, 25, 701 (1892). (3) Journ. Chem. Soc., 65, 206 (1894). — 534 — di Dunstan e Dymond sulle altre aldossime alifatiche, si mostra subito fra queste e la cloral-ossima tanta analogia da fare immaginare anche per le due modificazioni di questa ultima una relazione di stereoisomeria. L'acetaldossima e la propion-aldossima erano state dapprima descritte come sostanze liquide, e solo nel 1894 Dunstan e Dymond riuscirono a se- pararne delle modificazioni con punto di fusione più alto, vale a dire, solide a temperatura ordinaria. La difficoltà di ottenere tali modificazioni — la quale è specialmente notevole per la propion-aldossima — non risiede solo nel fatto che il loro punto di fusione è relativamente basso, bensì ancora, e forse in modo principale, nella loro facile trasformabilità nelle modificazioni stereoisomere liquide. Se, dunque, anche per la cloral-ossima solida si fosse potuto determinare un punto di fusione più alto di quello indicato da Meyer, sarebbe sùbito apparsa ancora più stretta l'analogia della cloral-ossima con le ossime dell'acetaldeide e della propionaldeide. Ora, rispetto al punto di fusione della cloral-ossima già Meyer ebbe ad esprimere il parere che esso fosse in realtà più alto di quello, 39-40°, da lui trovato, trattandosi di una sostanza che non poteva propriamente venir cristallizzata ('). Tale sospetto io ho potuto ulteriormente avvalorare con la considerazione che segue. Per azione dell'idrossilammina sul bromalio, io preparai infatti una bromal-ossima, la quale si lascia benissimo cristallizzare dall’etere, e fonde allora, nettamente, a 115°. Con la conoscenza esatta di questo punto di fusione, viene limitato un certo intervallo di temperatura nel quale deve indubbiamente giacere il punto di fusione di una corrispondente cloral-ossima. Considerando invero, che l’acetaldossima solida a temperatura ordinaria fonde a 46°,5, e che la sostituzione di 3 atomi di bromo nel metile porta il punto di fusione a 115°, è ovvio prevedere, per una cloral-ossima di costituzione analoga, un punto di fusione intermedio fra 469,5, e 115°; a un dipresso come, nella serie stessa dell’etano, l'acido tricloro-acetico mostra un punto di fusione (80°) pressochè equidistante da quello dell'acido acetico (17°) e da quello dell’acido tribromo-acetico (135°). Di fronte a simile previsione non potrebbe non giudicarsi assolutamente anormale il contegno della cloral-ossima di Meyer, fusibile già a 39-40°; vero è, che un prodotto non cristallizzato da solventi, ma ottenuto solo per congelamento parziale del prodotto liquido, non può essere esente di questo liquido; ma poichè l’ossima liquida, all'analisi, dà i numeri richiesti dalla teoria, il liquido in questione dovrebbe intendersi costituito dallo stesso prodotto semplicemente soprafuso, e allora non si comprenderebbe in qual modo una piccola quantità di esso, ancora aderente ai cristalli (dato pure che si possa ammettere l’esistenza di un tale liquido a contatto col solido), (1) «Da der Kérper nicht eigentlich umkrystallisirt werden konnte, ist es méglich, dass der wahre Schmelzpunkt noch etwas hoher liegt», lvc. cit., pag. 120. o) ” Da (DL riesca ad alterare il loro punto di fusione. Difatti, io ed Egidi trovammo un punto di fusione tanto più elevato (fino a un massimo di 56°), quanto meno impregnata di liquido dovevamo ritenere l’ossima solida. Questa dipen- denza, posta fuori ogni dubbio, del punto di fusione dell'ossima solida dalla presenza di quantità più o meno piccola del prodotto liquido, non si può invero interpretare altrimenti che considerando tale liquido non come la stessa ossima soprafusa, bensì come un prodotto diverso, e naturalmente come un isomero, dal momento che l'analisi del liquido conduce del pari alla formola di cloral-ossima. Del resto, è ancora da notarsi un particolare, pure osservato da me e Egidi, il quale esclude che la cloral-ossima sciropposa sia la modificazione solida semplicemente allo stato di surfusione. Noi abbiamo distillato frazio- natamente la cloral-ossima sciropposa, ed in tale operazione (che, alla pres- sione di 20-30 millimetri, si effettua senza che l’ossima si decomponga) abbiamo constatato che le prime porzioni rimangono liquide, mentre le ultime, non appena raccolte, solidificano in grossi cristalli. Ora, se proprio le por- zioni che bollono a temperatura più alta solidificano tosto, spontaneamente, è certo da escludersi che lo stato liquido delle frazioni passate a tempera- ture più basse sia dipendente da soprafusione della sostanza solida. Concludendo: la cloral-ossima sciropposa del Meyer non è una sostanza unica, ma un miscuglio di due stereo-isomeri; e la sua decomposizione con gli alcali va interpretata secondo il seguente schema: H_-0— CO; H—-C— C00H | ZIA Î SRO HCN" 00; HO—-N HO —N H_-C— CCI, H —C— C00H | > | > sale alcalino stabile NT-0H NT—- 0H — 5830 — Fisiologia. — Ricerche di elettrofisiologia sui tessuti di so- stegno (*). Nota I del dott. TuLLIio GAvDA (°), presentata dal Socio IRE IMOLA Il capitolo della fisiologia che riguarda l'elettricità animale va ogni giorno estendendosi maggiormente, così che i fenomeni elettromotori non si possono più considerare come appartenenti solo al sistema nervoso o mu- scolare, ma si devono attribuire a tutte le cellule viventi. Così furono de- scritti fenomeni elettromotori anche negli epiteli, nelle ghiandole, nella re- tina e perfino nelle piante. I tessuti di sostegno invece non furono ancora oggetto di studio a questo riguardo, almeno per quanto mi consta. Mi proposi perciò di eseguire alcune ricerche in proposito e più precisamente di indagare anzitutto se esiste per i tendini, le cartilagini e le ossa una corrente di riposo e quindi se si ma- nifestano fenomeni elettrici in questi tessuti, quando essi vengano sottoposti a quelle stesse azioni meccaniche alle quali soggiaciono durante il normale funzionamento dell'organismo. Sperimentai essenzialmente sulla trazione e sulla compressione, perchè queste sono le azioni meccaniche più semplici alle quali si possono ridurre almeno in parte tutte le altre; così la flessione si può considerare come una trazione nel lato che diventa convesso ed una compressione in quello che diventa concavo; la torsione come una trazione secondo un'elica. Come oggetto di studio scelsi il tendine d'Achille, le cartilagini costali, le coste, il femore e le ossa piatte del cranio di coniglio. L'animale era ucciso per dissanguamento: il tessuto da esaminare veniva subito isolato dall'organismo, liberato dai muscoli e dalle aponeurosi, immerso in liquido di Ringer-Locke a temperatura ambiente e tenutovi fino al momento del- l'esperimento. Per esercitare la trazione il tessuto in esame veniva legato nel mezzo e fissato solidamente su di un piano orizzontale di vetro o di ebonite. Ad una delle due estremità del tessuto veniva poi legato uno spago che passava sopra una carrucola e sosteneva un piattello di bilancia. Per mezzo della legatura mediana il tessuto era adunque diviso in due parti, delle quali una rimaneva in riposo, l’altra poteva essere assoggettata a trazione di vario grado caricando il piattello di bilancia con diverso peso. Su queste due parti (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Fisiologia della R. Università di T'orino. (*) Pervenuta all'Accademia il 2 ottobre 1912. — 537 — si applicavano due elettrodi impolarizzabili che si collegavano col galva- nometro. La compressione veniva esercitata su di un tratto assai limitato di tes- suto, seguendo un metodo simile a quello adoperato da Ducceschi (') per lo studio dell'influenza della compressione sulla conduzione dei nervi. Il tes- suto era posto sopra un piano orizzontale di sostanza isolante, fra due fori praticati nel piano stesso ad una distanza l’uno dall'altro uguale al diametro del tessuto; esso veniva quindi abbracciato da un'ansa di spago i cui due capi passavano attraverso i fori e sostenevano un piattello di bilancia. Cari- cando questo con pesi si poteva esercitare nel punto del tessuto sottoposto all’ansa una compressione di vario grado. Glì elettrodi impolarizzabili poi erano applicati uno in corrispondenza del punto compresso del tessuto, l’altro su di un altro punto che rimaneva in riposo. La flessione e la torsione erano sperimentate senza essere graduate, cioè solo qualitativamente. Il tessuto era fissato nel mezzo come per la tra- zione, una delle due parti del tessuto veniva afferrata con un oggetto iso- lante e così sottoposta a flessione o torsione. Anche qui un elettrode era applicato sulla porzione di tessuto in riposo, l’altro su quella assoggettata all'azione meccanica in vicinanza al punto fissato. Gli elettrodi impolarizzabili, secondo Oker-Blom, erano riempiti con soluzione di calomelano e cloruro sodico al 0,92 °/, fra questa soluzione ed il tessuto era interposta una soluzione di solo cloruro sodico al 0,92 °/s. La resistenza di ogni elettrode era di circa 1700 ohm. L'intensità della corrente era misurata per mezzo di un galvanometro di Thomson, costrutto dalla casa Elliott di Londra, con una resistenza in- terna di 7042 ohm. Il galvanometro era appeso ad una sospensione di Julius. Stando la scala alla distanza di due metri, una deviazione di 1 cm. corri- spondeva a 2.17 X 10-8 ampère. Per la misurazione della forza elettromotrice venne seguito il metodo di compensazione di Pogsendorf-Ostwald adoperando una pila normale a cadmio ed il galvanometro. La misurazione della resistenza infine era eseguita col metodo del ponte di Wheatstone e del telefono. Esaminiamo ora separatamente i risultati ottenuti dagli esperimenti sui tendini, sulle cartilagini e sulle ossa. Per quanto riguarda i tendini, se si applica uno degli elettrodi, colle- gati col galvanometro, sulla superficie di sezione e l’altro sulla superficie esterna naturale del tendine non sì ottiene alcuna corrente paragonabile a quella di demarcazione dei muscoli e dei nervi. (4) V. Ducceschi, Ueder die Wirkung engbegrenater Nervencompression. I Mitth. Pfliger's Arch., 83, 40, 1900. 098 -- Una corrente invece si produce costantemente ogni qual volta si sotto- pone il tendine ad una trazione col procedimento descritto dianzi. La porzione del tendine che viene tesa diventa negativa rispetto a quella che rimane in riposo, quindi nel tendine la corrente è diretta dalla prima porzione verso la seconda. La corrente dura per tutto il tempo in cui si esercita la trazione, va tuttavia diminuendo benchè lentamente, scompare col cessare della tra- zione. L'intensità della corrente varia direttamente col grado della trazione. Sembra che non abbia influenza sull’'intensità della corrente l’esercitare la trazione gradatamente o tutto ad un tratto. Il primo metodo anzi è prefe- ribile e fu quello da me adottato. perchè l’ago del galvanometro dopo di avere raggiunto la massima deviazione, corrispondentemente alla massima trazione, si ferma senza oscillazioni e così si può fare subito la lettura esattamente, dato il fatto che l'intensità della corrente diminuisce più ra- pidamente in principio della trazione che non in seguito. Naturalmente eser- citando questa trazione, per quanto graduale, non si deve impiegare più di 8 o 4 secondi per raggiungere il massimo. È indifferente che l’elettrode della porzione non tesa sia applicato sulla superficie naturale o su quella di sezione. Non si ottiene corrente se si applicano tutti e due gli elettrodi sulla porzione che subisce la trazione o tutti e due su quella che rimane in riposo. Si ottiene invece una corrente debolissima se si applica un elet- trode su di una soluzione di continuo praticata sulla superficie della porzione soggetta a trazione e l’altro su un altro punto di questa porzione più lon- tano dalla porzione non tesa. Poichè quando si esercita la trazione la por- zione di tendine che la subisce allungandosi scorre sotto l’elettrode, può sorgere il dubbio che la corrente sia dovuta a questo scorrimento. Ora ciò non è poichè non si produce corrente se, essendo il tendine in riposo o teso, sì spostano gli elettrodi lungo di esso. Riporto nella tabella I i risultati ottenuti in alcuni esperimenti sul tendine d'Achille. In questi esperimenti le singole trazioni duravano solo il tempo necessario per eseguire la lettura della scala, quindi il tendine veniva subito riportato nella posizione di riposo. Come risulta dalla tabella, in generale i valori ottenuti con pesi ten- sori decrescenti sono minori di quelli ottenuti con pesi tensori crescenti, i primi però presentano variazioni più regolari. La forza elettromotrice è molto piccola e non misurabile col metodo della compensazione di Poggendorf Ostwald: per compensare la corrente del tendine inserita nel circuito della pila normale in equilibrio con un accumulatore, basta spostare il contatto scorrevole del reocordo solo di frazioni di millimetro. Ma, poichè si conosce l'intensità della corrente, si può calcolare la forza elettromotrice indiretta- mente dalla resistenza totale del circuito. Ora, come si può osservare nella tabella, per effetto della trazione tale resistenza presenta solo piccole varia- — 5399 — zioni e non in una direzione costante, si deve conchiudere perciò che la forza elettromotrice della corrente varia parallelamente all’ intensità. TABELLA I. Tn Esperimento VI Esperimento VII Esperimento XI Esperimento XIV tensore ‘Deviazione |Resistenza|Deviazione [Resistenza Deviazione [Resistenza | Deviazione | Resistenza 8. mm. ohm mm ohm mm ohm mm ohn 0 0 12970 0 1000 0 11460 0 12460 500 8 _ TÎ — 2 — 2 _ 1000 20 — 15 _ 5 = 15 = 1500 26 — 20 — 7 —_ 20 Si 2000 35 - 25 — 12 — 25 — 2500 40 = 29 = 18 _ 27 = 3000 dd 12900 33 13980 30 11460 82 12570 2500 39 — 24 —_ 23 E 24 DE: 2000 27 — 17 _ 16 —_ 17; = 1500 17 —_ 10 — 10 = 10 = 1000 10 ul 6 su 5 fi È ma 500 3 —_ 3 — 1 — 3 _ Per il prolungarsi della trazione o in seguito a replicate trazioni l’in- tensità della corrente diminuisce, dapprima più rapidamente, poi sempre più lentamente avvicinandosi asintoticamente allo zero. Se ora si lascia per qualche tempo il tendine in riposo, si osserva un restauro almeno parziale dei feno- meni elettromotori. Ecco due esempî di questo comportamento dell'intensità della corrente. EspERIMENTO XVIII. Il tendine d'Achille è sottoposto a trazione continua con un peso ten- sore di 3000 grammi, la deviazione in millimetri dell'ago del galvanometro viene letta ad intervalli di 10”: 25-20-17-15-13-12-11-10-9-9-8-8-7-7-7-6-6-6-6-5-5-5-5-5. Si sospende la trazione. Dopo 1 ora la trazione con 8000 g. dà una deviazione di 10 mm. EspERIMENTO XXI. Il tendine d'Achille è sottoposto a trazione continua con un peso tensore di 1000 g., la deviazione in mm. dell’ago del galvanometro viene letta ad intervalli di 10”: RENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 70 1940 — 5-4-4-4-4-4-3-83-8-8-3-9-9-9-3-3. Il peso tensore è portato a 2000 g.: 16-12-11-10-9-9-8-8-8-8-7-7-7-7-7-6-6-6-6-5-5-5. Il peso tensore è portato a 8000 g.: 15-13-12-11-10-9-8-3-8-7-7-7-7-6-6-6-5-5.. Si sospende la trazione. Dopo 15’ la trazione con 8000 g. dà una de- viazione di 15 mm. Sui tendini non vennero sperimentate altre azioni meccaniche oltre la trazione, perchè questa è l'unica che abbia importanza dal lato fisiologico. Se passiamo ad esaminare i risultati ottenuti dagli esperimenti sulle cartilagine costali, osserviamo che, per quanto riguarda la trazione, essì sono perfettamente analoghi a quelli ottenuti per i tendini. Nella tabella II sono raccolti i risultati ottenuti con trazioni di vario grado. TaBELLA II. Esperimento XXII Esperimento XXIII Esperimento XXIV Peso Esperimento XXV tensore |Deviazione |Resistenza | Deviazione [Resistenza |Deviazione |Resistenza|Deviazione | Resistenza B mm ohm mm ohm mm ohm mm ohm 0 (0) 13580 (0) 12290 0 12920 (0) 12540 500 J - _ 6 — 4 — 1000 2 —_ 5 — 12 = 5) = 1500 4 — 17 _ 20 — 8 — 2000 10 = 80 — 81 _ 16 — 2500 14 — 46 12290 47 12920 24 12540 3000 20 13580 = — — — _ = 2500 15 _ _ = = == — — 2000 11 n 27 — 35 — 17 mi 1500 TI — 15 — 25 — 11 = 1000 4 — 6 — 16 —_ 7 = 500 2 — 2 — 10 _ 8) = L'esperimento XXVI dimostra la diminuzione dell'intensità della cor- rente per una trazione prolungata ed un restauro parziale dopo il riposo. EspERIMENTO XXVI. La cartilagine costale è sottoposta a trazione continua con un peso ten- sore di 2000 g., la deviazione in mm. dell'ago del galvanometro viene letta ad intervalli di 10": 37-30-25-21-20-19-18-17-16-15-15-15-15-14-13-12-12-12-11-11. — 541 — Si sospende la trazione. Dopo 30' la trazione con 2000 g. dà una de- viazione di 24 mm. In quanto alla compressione i risultati sono ancora identici a quelli ottenuti colla trazione. Anche qui il punto compresso diventa negativo rispetto ai punti in riposo. A differenza della trazione però in seguito a replicate compressioni sì può avere un aumento dell'intensità della corrente. Infatti, come si può osservare nella tabella III, in cui si trovano i risultati di alcuni esperimenti sulla compressione, i valori ottenuti con pesi compressori decre- scenti sono in generale maggiori di quelli ottenuti con pesi compressori cre- scenti e nell'esperimento XXVIII, in cui si eseguirono successivamente due serie di compressioni, i valori ottenuti nella seconda serie sono sensibilmente maggiori di quelli corrispondenti nella prima. TABELLA III. Peso Esperimento XXVII Esperimento XXVIII Esperimento XXX compres- sore Deviazione [Resistenza [Deviazione | Resistenza |Deviazione |Resistenza |Deviazione | Resistenza ge. mm ohm mm ohm mm ohm mm ohm (0) | 0 13290 0 13410 0 13410 0 11940 500 7 - 7 — ll — 16 — 1000 | 15 2 13 z o — 27 di 1500 | 21 — 19 — 27 — 41 _ 2000 26 _ 27 — 35 — ol —_ 2500 34 _ 32 — 41 _ 61 - 3000 46 13290 40 13410 90 13410 70 11940 2500 40 == 35 = 45 — 64 — 2000 36 = 32 — 40 — 53 —_ 1500 29 Da 27 —_ 32 = 42 = 1000 17 2 20 — 23 DO 38 DE 500 12 De 13 Pe 14 — 18 — L'esperimento XXXI dimostra la diminuzione dell’ intensità della cor- rente per una compressione prolungata ed un aumento dopo un breve riposo. EspeRIMENTO XXXI. La cartilagine costale è sottoposta a compressione continua con un peso compressore di 3000 g., la deviazione in mm. dell'ago del galvanometro viene letta ad intervalli di 10": 60-55-50-45-41-37-34-31-28-25-23-21-20-19-18-17-16-15-14-13-12-11- 11-11-11-11-10. — 542 — Si sospende la compressione. Dopo 10' la compressione con 3000 g. dà una deviazione di 68 mm. Come è da aspettarsi anche nella flessione e nella torsione della carti- lagine la porzione che subisce l'azione meccanica diventa negativa rispetto a quella che rimane in riposo. Infine per quanto riguarda le ossa, se si applica un elettrode sulla su- perficie naturale del femore e l'altro sulla superficie di sezione, sia questa fatta in corrispondenza della diafisi o dell’epifisi, si trova che la superficie di sezione è positiva rispetto a quella naturale. La deviazione dell'ago del galvanometro può essere di 50 mm. per una resistenza totale del circuito di 14540 ohm. Si ha adunque qui una corrente paragonabile a quella di demarcazione dei muscoli e dai nervi; solamente la direzione della prima è inversa a quella della seconda. Correnti analoghe non si possono ottenere nè dalle coste, nè dalle ossa piatte del cranio. Così non si ottengono correnti applicando un elettrode sulla superficie esterna delle ossa piatte del cranio e l'altro sulla superficie interna. Di fronte alle azioni meccaniche il femore non presenta correnti, così neppure le coste per la trazione. Solo con una compressione di almeno 8000 g. o colla flessione si possono ottenere dalle coste correnti debolissime, ma non costanti, la direzione di queste correnti è uguale a quella osservata per le cartilagini costali. Come si possono spiegare tutti i fenomeni che abbiamo osservato per i tessuti di sostegno ? Cercherò di dare una risposta a questa domanda in una prossima Nota. E. M. Pubblicazioni della R. Accademia dei Lincci. Serie 1* — Atti dell'Accademia pontificia dei Nuovi Lincei. Tomo I-XXIII Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVE. Serie 2° — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. MII. (1875-76). Parte 1% TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 88 MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Moll iVe VeVvIe VILSVIIE Serie 3* — TransuntI. Vol. I-VIII (1876-84). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II. (1, 2). — HI-XIX. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIIIL Serie 4* — RenpIcoNTI. Vol. I-VII. (1884-91). MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. Memorie della Classe di sciense morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XXI. (1892-1912). 2° Sem. Fasc. 8°. ReNDIcONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XXI. (1892-1912). Fasc. 5° 6°. MeMmoRIE della Classe di sciense fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-IX. Fasc. 6°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONII DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia è di L. 88; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno Lorscner & (C€.° — Roma, Torino e Firenze. Utrico Hoepri. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Ottobre 1912. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTA"TNE DA SOGI pervenute all'Accademia durante le ferie del 1912. Nasini e Porlezza. Ricerche sulla radioattività delle acque sorgive del Monte Amiata, ed esperienze sulla dispersione atmosferica della regione. . . .... +... Pag. De Stefani. Calimno. Cenni geologici . . |. É deo SVESTSRA VO, A) SO VOTANO NONO) Luciani. Ancora sulla sfera visiva del zo toeia dei Canti eno Bottazzi. Proprietà chimiche e chimico-fisiche del succo di muscoli striati e lisci... . » Amoroso. Integrazione delle equazioni del moto lento di un fluido viscoso (pres. dal Corrisp. LAUnICOLA RENANIA 3 : È RR) Silvestri. Sulla stabilità dei moti stand di Sion con Giadi di libertà Misc ‘Gi Socio VADA BAI RIO fan rale fio JO Palazzo e Marogna. Sopra n oli dali folle. ammino- pride a ep (E. dal Corrisp. Perdionre n s a AM sa a Colacicchi e Bertoni. Azione degli 2lelgiar dali sopra gli ieri Ai (pres. dal Socio Ciamician). . . CPTRRO ; ” Sandonnini. Analisi termica di miscolii binarie di i di iemetii o e Hr Palazzo. Sulla stereo-isomeria della trieloro-acetaldossima (pres. dal Corrisp. Peratoner) . » Gayda. Ricerche di elettrofisiologia sui tessuti di sostegno (pres. dal Socio Xod) . . . » KE. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. 475 479 487 493 50L 508 512 518 524 530 586 Abbonamento postale. Pubblicazione bimensile. Roma 3 novembre 1912. N 9 = PIA RETE ea n EMI LEPINI Sl a DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCHI ANNO CCCIX. 1912 sergio QQ MUNE DA. RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. . Seduta del 3 novembre 1912. Volume XXI. — Fascicolo D° 2° SEMESTRE. Creenian Instji, pp SS “lo DEC 16 1912 © Hationa] MuserÈ ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1912, | | | | | | | PENTECOSTE TIA ICON ITER RIZZI NEC ZIONI IIS TIE ZENO LENOIR IAS E INS INI INI ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine d' stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti oratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.I Rendiconti non riproducono le discus- sioni. verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Néta, per iscritto. II I. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz'altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - @) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all'autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell'Accademia. 8. Nei primi tre casi, previsti dall’art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50.se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. T_T T-X Seduta del 3 novembre 1912. P. BLASERNA Presidente. MEMORIE KE NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Biologia. — uovo contributo alla conoscenza delle fillosse- rine. Nota (I) del Socio B. Grassi. Nella monografia delle fillosserine, pubblicata di recente da me e dai miei scolari per incarico del Ministero d'Agricoltura, qua e là vi è accenno a questioni, sulle quali o non mi sono pronunciato, od ho lasciato àdito a dubbii. Intorno a qualcuna di queste posso portare ora maggiori schiarimenti. xo3 Uno dei punti che restarono incerti riguarda il destino delle figlie delle ibernanti nel ciclo di sviluppo della Phylloxcera quercus sul leccio. Nel corrente anno abbiamo potuto disporre di un numero di ibernanti maggiore che non in passato; e ciò per il fatto che l'inverno non è stato punto rigido, e quindi esse non morivano per il freddo come negli anni precedenti; mentre l’anno scorso, per tenerne in vita alcune poche fino alla primavera, dovevamo ritirare 1 leccini tutte le sere dalla terrazza dentro il laboratorio. quest'anno, senza alcuna cura, ne trovammo vive un numero considerevole al principio della nuova stagione. Si noti che è facile distinguere le ibernanti (che, come sì sa, sono prime larve) dalle prime larve nate dall'uovo d'inverno: quelle sono di color lavo; queste hanno color citrino tendente al flavo, ossia sono più chiare; oltre a ciò, zampe e antenne nelle ibernanti sono press'a poco del colore del RexpIconTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. cl — db44i — dorso, e perciò non si scorgono facilmente, mentre invece nelle prime larve nate dall'uovo d'inverno sono di colore oscuro e si rilevano con grande fa- cilità. Tuttavia nella determinazione delle ibernanti non ci siamo attenuti soltanto a questi caratteri, ma abbiamo seguìto una per una molte prime larve durante il loro passaggio allo, stato di ibernamento e durante l’ iber- namento, come pure abbiano assistito al loro risveglio ed al loro successivo sviluppo. Tacendo di parecchie che andarono perdute, diremo che quelle che arrivarono a maturare (oltre cinquanta) anche quest'anno diventarono tutte virginipare attere, le quali alla loro volta diedero vita ad altre virginipare attere e ad un piccolissimo numero di alate. Anche quest'anno le virginipare attere, che avevano ibernato allo stadio di prima larva, si distinguevano da quelle derivate dall'uovo d'inverno {fondatrici), perchè queste ultime depone- vano un molto maggiore numero di uova, dalle quali derivavano poche madri virginipare attere e moltissime alate; anche quest'anno le alate figlie delle ibernanti, come quelle figlie delle fondatrici, sono state tutte esclusivamente virginipare. Resta così confermata l'osservazione da noi fatta l’anno scorso, che, cioè le alate figlie delle ibernanti sono virginipare, e viene definitivamente tolta di mezzo la supposizione della Bonfigli. che esse possano essere sessupare. Abbiamo anzi trovato la spiegazione dell’equivoco in cui essa è caduta, nel fatto che le generazioni derivate dalle ibernanti precedono di una quelle delle fondatrici. Verso la fine di maggio avevamo di già le nipoti delle ibernanti, che erano in piccolissima parte madri attere e nella gran maggioranza alate sessupare (III generazione). Queste coesistevano colle alate virginipare figlie delle fondatrici (II generazione). Il 28 maggio 1912 trovammo le prime uova di sessuali deposte dalle nipoti delle ibernanti. È molto signi- ficante la circostanza che la Bonfigli trovò quelle uova di sessuali che giu- dicò deposte dalle alate figlie delle ibernanti solo due giorni prima di noî (20 maggio 1908); evidentemente essa scambiò per figlie le nipoti delle ibernanti. Lo Gli allevamenti della Phy/lowera quercus sù piccoli lecci in vaso, non infetti, trasportando da una pianta all'altra la madre subito dopo che ha depositato un certo numero di uova, vennero continuati anchéè “nino l'in- verno e la primavera, e continuano ‘tutt ora. i i La conclusione che abbiamo riportato nella sopra ricordata monografia, viene sempre più corroborata da questi nuovi esperimenti, nei quali le fillossere sì facevano sviluppare sopra foglie giovanissime. La prole di una virginipata attera è costituita da altrè virginipare attere, da alate masculipare e da alate femminipare. Queste tre sorta di individui si susseguono regolarmente gli uni agli altri nell'ordine con cui li abbiamo enumerati. Può succedere che man- chino le alate: ma non mai le femminipare compaiono senza essere precedute i — 545 — dalle masculipare. Il numero delle attere che precedono le alate è soggetto a grandissime ‘oscillazioni; ai dati riportati nella Monografia ne aggiungiamo alcuni altri, raccolti cogli allevamenti invernali in serra. Tl 29 dicembre 1911 fn portata una neonata su foglie giovanissime; diventò virginipara attera e fece 10 uova che diedero luogo ad altrettante virginipare attere. L°8 febbraio 1912 essa fu trasportata su foglie giovanis- sime di un altro leccino; fece altre 32 uova, dalle quali si ottennero 26 vir- ginipare attere e 6 alate masculipare. Il 15 dicembre 1911 si è iniziato un altro esperimento simile, e si ottennero prima 8 virginipare attere, poi 4 alate masculipare, poi 14 alate femminipare, in mezzo alle quali ultime se ne trovò un'altra masculipara. Un altro esperimento, iniziato pure il 15 dicembre 1911, diede 31 uova, da cui si svilupparono 19 attere e 12 ninfe: queste diedero prima 6 alate masculipare e poi 5 femminipare (una andò dispersa). Il 22 dicembre 1911 si è iniziato un esperimento simile, e si ottennero 38 virginipare attere e nessuna alata. Similmente il 10 gennaio 1912 fu portata una neonata su foglie gio- vanissime di leccio; divenne virginipara attera e fece 6 uova che tutte diedero virginipare attere. Trasportata il 20 febbraio 1912 sopra foglie gio- vanissime di altro leccio, depositò altre 105 uova, d'onde si ottennero succes- sivamente 80 virginipare attere, 11 alate masculipare e, infine, 14 alate femminipare. Gli sperimenti furono continuati fino a questi ultimi giorni, e hanno sempre dato risultati conformi ai precedenti. Gli stessi risultati si ebbero anche lasciando sviluppare sul medesimo germoglio tutta la prole di una stessa madre. Sta dunque la regola che le alate masculipare susseguono le attere vir- ginipare e precedono le alate femminipare. A queste possono seguire ancora virginipare attere, quando la madre fa un numero grande di uova (da 70 in Su). L'unica differenza che si è riscontrata nel succedersi delle stagioni ri- guarda le proporzioni fra le attere e le alate. Durante la primavera e il principio dell'estate, si otteneva costantemente una grande quantità di virginipare attere (100 e più) e un piccolissimo nu- mero di alate (per es., dopo 105 virginipare attere, 5 masculipare). Talvolta le alate mancavano del tutto, non ostante che la prole fosse numerosa: così, per esempio, in un caso si ebbero 88 uova, dalle quali derivarono altrettante madri virpinipare attere. Invece, alla fine di agosto, durante il mese di set- tembre e in una parte dell'ottobre, la prole di ogni singola madre attera virginipara è risultata sempre composta di attere virginipare, di alate ma- sculipare e di alate femminipare. Il numero complessivo delle alate è stato, in ogni caso, superiore al doppio di quello delle attere. E si ottennero perfino — 546 — 90 alate da 101 uova depositate da una sola verginipara attera. Il rapporto tra il numero delle alate masculipare e quello delle femminipare sì è di- mostrato variabile. Da wn'altra serie di esperimenti ci risulta inoltre che dalle prime larve della Phylloxera quercus possiamo, invece di alate sessupare ottenere at- tere virginipare, col costringerle all’estivamento, facendole, cioè, passare su foglie vecchie e lasciandovele per qualche settimana, per farle poi prose- guire nello sviluppo, trasportandole su foglie giovani. Non siamo invece riu- sciti — parliamo della Ph. quercus — ad ottenere alate invece di attere; ma non escludiamo ancora del tutto la possibilità di questo cambiamento. Abbiamo acquistato invece la persuasione che non sia possibile di ottenere che le mascu- lipare diventino femminipare, o viceversa. Se si sviluppano alate, le prime sono masculipare e le seconde femminipare, a meno che coll’artificio anzidetto siasi provocata la trasformazione di quelle che sarebbero diventate mascu- lipare, in attere virginipare: il che non implica alcun cambiamento di sesso. * x x Anche quest'anno la Parthenophylloxera ilicis si comportò come l'anno scorso, in guisa da giustificare il nostro concetto che, in certo modo, il suo periodo estivo corrisponda a quello invernale di altre fillossere; in altri ter- mini, le generazioni di questa specie nell’estate subiscono un grande rallen- tamento. to Abbiamo ripreso in esame quelle cellule granulose della sottofamiglia « Fillosserine» che erano state omologate con certezza da Krassilstschik e incertamente da Dreyfus allo pseudovitello degli afidi; e ci siamo persuasi che anch'esse contengono i simbionti, che in questi Emitteri hanno fatto conoscere Pierantoni, Sulc e Buchner. Questi simbionti, per la loro piccolezza e per la refrattarietà alla colo- razione, non sono così appariscenti come negli altri Emitteri. Riesce forse particolarmente interessante la presenza dei sembionti anche nella fillossera, per chi affronta l'arduo problema della loro funzione. A questo proposito ricordo che la tillossera non ha apertura anale; che le cellule del- l'intestino medio appaiono, almeno in certe specie, infarcite di grasso; e che le cellule a simbionti nelle ninfe, invece di sempre più ingrandire, come accade nelle virginipare attere radicicole o gallecole (parliamo della fillossera della vite), impiccoliscono e finiscono per scomparire in gran parte, press’ a poco simultaneamente alla scomparsa degli ovarioli posteriori. Ci proponiamo di precisare ulteriormente questo punto. * * x Sotto l'aspetto pratico era importante di ripetere le esperienze dimo- stranti che le disinfezioni coll'acqua calda non bastano per uccidere le uova — 547 — d’inverno, e che le uova d’inverno sotterrate vanno perdute. Ho perciò pre- gato l’amico A. Ruggeri, direttore del vigneto sperimentale di Spadafora (Messina), di ripetere gli esperimenti in proposito; egli ha gentilmente ac- colto la mia preghiera, e sono perciò lieto di potere qui cedere la parola a questo benemerito creatore d’importantissimi nuovi ibridi di viti americane, da tutti stimato per la scrupolosità nell’esperimentare e competente anche in argomento di disinfezione di viti. DI (1 03 4 4 « Per le esperienze intorno alla distruzione dell’ uovo d'inverno disinfet- tando le viti con acqua ad alta temperatura, o interrandole in modo che tutto il legno vecchio resti sotto il livello del suolo, scelsi nel passato inverno 8 viti dell'età di sei anni, fra gli ibridi di viti americane del vigneto sperimentale di Spadafora, che avevano portato nell'estate prece- dente molte galle. Le feci estirpare, prima naturalmente del risveglio della vegetazione, con molta cura. per conservare interamente la corteccia con le numerose uova d'inverno, e con sufficienti radici per assicurarne lo at- tecchimento. « Tre di tali viti vennero disinfettate immergendole per 5 minuti nel- l'acqua a una temperatura poco superiore a 55° al momento dell’ immer- sione, e non inferiore a 54° all'uscita; e sulle altre non si fece alcuna disinfezione. « Si scelse il terreno pel ripiantamento a molta distanza dal vigneto sperimentale, per evitare qualunque eventuale invasione di gallecole pro- nienti da quelle viti, e gli 8 ceppi vennero divisi in tre gruppi, anch'essi posti a una sufficiente distanza l’uno dall'altro. Uno di tali gruppi com- prendeva le tre viti disinfettate; il secondo altre tre viti che furono ri- piantate in modo da interrare tutto il legno vecchio sino all’ inserzione dei tralci di un anno, a circa 25 centimetri sotto la superficie del suolo; due viti infine, come testimoni, vennero ripiantate coi sistemi ordinarî, lasciando cioè scoperti i ceppi. « Le prime galle comparvero sulle viti disinfettate con acqua calda, il 10 aprile. e sui testimoni, essendosi vestiti molto più tardi di foglie, sol- tanto il 21 aprile. « Feci togliere le galle, mano mano che si manifestavano, perchè mi sembrò dovesse interessare di prendere nota di quelle formate dalla prima generazione. « Le tre viti interrate mantennero sempre completamente incolumi le abbondanti foglie, e sulle altre le ultime galle furono osservate e tolte il 10 maggio. « Sulle 3 viti disinfettate con acqua calda, in tutto se ne manifesta- rono 26; e sulle 2 viti testimoni, 16 ». I commenti guasterebbero. — 54383 — Era nostra intenzione di continuare le ricerche sulla diffusione della fillossera per mezzo del vento; ma, purtroppo, quest'anno non abbiamo potuto fare se non pochissime esperienze. Si è tuttavia avuto occasione di trovare tre neonate sopra una carta oleata tenuta verticalmente a venti centimetri dal suolo, in una giornata ventosa (5 agosto), in una vigna di Altamura (Puglia); il che conferma sempre più che veramente spetta ai venti una parte non piccola nell’estendersi del terribile afidide. Zoologia. — Intorno ad un'anquilla argentina vissuta forza tamente in una vasca. Nota del Socio B. GRASSI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Geodesia. — Delermimazioni di gravità relativa in. l'unisia ea Malta nel 1908. Nota del Corrisp. A. VENTURI ('). I risultati delle campagne gravimetriche siciliane, avendo messa in rilievo, lungo la costa meridionale dell'Isola e specialmente nell’estremo Sud-Ovest, una sensibile deficenza di gravità, fecero pensare a qualche cosa di singo- lare che si verificasse nella distribuzione delle masse sottoposte, essendo noto, che lungo le coste marine, la gravità suol’essere in eccesso spesso cospicuo, come avviene lungo le coste Nord e Nord-Est dell'Isola, e sulle coste pu- gliesi —, per limitarci alla regioue che andiamo studiando —. Alcuni geo- logi, privatamente discutendo tal fatto, opinarono potesse gettar qualche luce sulla dibattuta questione dell’antichissima continuità della Sicilia con Tunisi: ma prima di azzardare qualsiasi ipotesi, era prudenza di fare qualche inve- stigazione sulla sponda opposta del canale, cioè sulle coste tunisine, per vedere se anche là sì rinnovasse il fenomeno di questa deficienza di gravità riscon- trata sulle rive del mare afro-siculo da Mazzara a Licata. Mi permisi portare tal criterio in seno alla Commissione geodetica ita- liana, nella sua adunanza del 1909: le mie proposte furono dall’ill.mo sig. Presidente e dai Colleghi tutti approvate; cosicchè mi fu dato mezzo di fare alcune determinazioni in punti che avessi creduto i più adatti allo scopo. Mi parve anche utile e interessante fare una stazione a Malta; sia perchè con essa venivano ad essere esplorate gravimetricamente tutte le pic- cole isole che fanno corona alla Sicilia; sia perchè, essendo sin là protratta la rete geodetica Europea, col riattacco di Malta alla rete italiana, sarebbe stato pregio dell'opera di avere là, in quel punto estremo, del quale vorrebbe farsi un punto di Laplace, anche il valore della gravità. I punti tunisini, con ciò, si ridussero a tre, che dovevano essere tutti costieri. Per distribuirli nel modo più equabile, scelsi Tunisi, Biserta e Nabeul, costituenti (!) Pervenuta all'Accademia il 20 settembre 1912. — 549 — un gruppo avanzato verso Mazzara e la punta Sud-Ovest della Sicilia. I me- todi tenuti, e gli istromenti adoperati in questa campagna, di cui mì accingo a riferire, furono, anche per ragione di omogeneità di procedimenti, gli stessi che vennero usati nelle determinazioni siciliane e che possono essere rilevati, consultando le pubblicazioni anteriori su questo soggetto comparse in questi stessi Rendiconti, e negli Atti dell'Accademia delle Scienze in Palermo (*). Solo diremo che il tempo veniva osservato ognuna delle tre sere, e sempre con due determinazioni distinte e usando sempre le stesse stelle. Gli anda- menti orarî venivano. quindi, determinati in doppio modo, ciascuno dedotto da ciascuna operazione stellare. Così pure, la stabilità della mensola veniva provata con sforzi ritmici applicati col dinamometro, addirittura al piatto di posa del pèndolo e non ne risultarono movimenti apprezzabili. Le sedi delle stazioni furono: per Tunisi, una sala terrena dell'asilo infantile italiano G. Garibaldi: a Biserta, un'aula della scuola italiana Um- berto I; a Nabeul, una cantina dell’Yotel de France. a Malta infine, una stanza del Consolato italiano a Valletta. In tutto questo viaggio all’estero non ebbi la menoma difficoltà; anzi il mio personale ed io fummo fatti segno a tutte le agevolazioni, a tutte le cortesie. È doveroso quindi ch'io ringrazi il comm.'Bollati del Ministero degli Esteri, che impartì ai Consoli nostri le più favorevoli istruzioni circa la presente campagna; il Vice-Presidente della Società geografica italiana, astronomo Millosevich e il Segr. gen. della stessa, comandante Roncagli, che mi fornirono di apprezzatissime commen- datizie; S. E. Alapetite, residente francese, che accoltomi con grande cor- tesia, volle favorirmi un lascia-passare per tutte le autorità francesi della Reg- genza; i Consoli e Vice-Consoli d'Italia, comm. Bottesini, avv. Eles, conte Fabbri, che facilitarono grandemente il mio còmpito e ci onorarono di una fraterna e signorile ospitalità; il direttore Cadini della Scuola di Biserta, che si mise a nostra disposizione, e fu prezioso aiuto in tutte le operazioni eseguite in quella importante città. E per ciò che si riferisce a Malta, debbo pure vive grazie al Capo Gabinetto di S. E. il Duca di Connaught, gover- natore dell'Isola e al nostro Vice-Console, avv. Mazzone, che mi diedero modo di installarmi opportunamente: all'avv. Mazzone poi esterno speciali ringraziamenti, per le cortesie personali innumerevoli, di cui volle colmarmi. Come nelle altre campagne, l'assistente di questo Istituto, prof. Minèo, oltre che a coadiuvarmi nelle osservazioni, collaborò anche nei calcoli di ri- duzione e di compensazione di esse: del che rendo pubblica e grata testi- monianza. Toe ì Per ciascuna stazione, nei quadri che seguono, sì trovano registrati gli clementi che ne fissano la posizione geografica, le longitudini essendo con- (4) Ved. Atti della R. Accademia di Palermo, vol. IV, serie III, 1901. Ved. Rendi- conti dei Lincei; anno 1905, vol. XIV; anno 1907, vol. XVI; anno 1909, vol. XVIII. — 890) tate da Monte Mario. Seguono i dati relativi all'andamento orario del pen- dolo Hawelk, secondo le due indipendenti determinazioni. Infine, si trovano i dati di osservazione delle misure gravimetriche propriamente dette: durata di una coincidenza, nella colonna intestata con c; temperatura, intestata con {; pressione atmosferica ridotta a 0°, intestata con d: durata dell’oscillazione di ciascuno dei pendoli 116, 117, 118, 119, corretta per la temperatura, per la densità dell’aria, per l'andamento dell'orologio, e per l’amplitudine della oscillazione stessa. Tale colonna è intestata con s. Al piede di ciascuna tavola vi sone le durate medie di oscillazione di ciascun pendolo, che deb- bono, poi, compensarsi col solito metodo assoluto, già adottato in Italia da me e da altri ('). Le osservazioni eseguite nella stazione fondamentale di Palermo, questa volta furono tre; una, prima del viaggio, e le altre due dopo. La ragione di questa sovrabbondanza di osservazioni si dovette, più che ad altro, ad uno scrupolo; poichè nella determinazione di settembre l'atmosfera talora caliginosa impedì che nelle determinazioni di tempo, si prendessero sempre le stesse stelle, e si operasse nelle medesime condizioni: cosicchè credetti opportuno ripetere l’intera operazione in ottobre. Essa ebbe luogo in un locale più alto di 10 metri rispetto al solito, che allora era adibito ad altri usi: ma il nuovo locale era solidissimo e sicuro. Si vede facilmente che per ridurre la durata delle oscillazioni osservate nel locale nuovo a quello ordinariamente adibito, basta dalle prime sottrarre 0,0000008. I risultati furono, come avanti sarà dimostrato, che la media delle determinazioni autunuali delle quattro oscillazioni (settembre-ottobre) differiscano da quelle delle oscillazioni estive (agosto) rispettivamente di TA +3, 205) +2 unità della settima decimale del secondo siderale. Si ha dunque, una con- cordanza soddisfacentissima. (4) Venturi. Sulla compensazione dei risultati nelle misure di gravità relativa. Pisa, Nuovo Cimento, 1900. TERZO A — dol — 1. Stazione alla Martorana (Palermo: prima del viaggio). Latitudine =38°.06".55”2 Longitudine=—1°.54'.82” (da M.Mario, Roma). Altitudine della stazione = 20".17 (da livellazione geometrica) Densità del suolo —— 9) [2 e. FE d.0. Stati di Hawelk ed andamenti orari, 1908. DETERMINAZIONE A DETERMINAZIONE B ] Data Data siderale Stato assoluto | And. or. siderale Stato assoluto And. or. Agosto ALE Agost h m 8 13,827 + 14.05.15,20 9 13,827 + 14.05.14,60 5 — 0.074 — 0,055 14,819 13,43 14,819 — — 0.054 15,817 12,14 15,817 11,99 Andamento orario medio — 0.064 Andamento orario medio 1 — 0,055 Osservazioni gravimetriche Data |Pendl | t 6 s Dale il c t 6 | s civile civile Agosto 3 da Ai Agosto 5 2 I 14,886 | 116 | 39,0752 |25,28| 759,60] 0,5062954] 15,382 | 116 | 39,0562 |25,56| 759,80| 0,5062971 422 | 117 | 35,2675 (25,63). — 70033 413 | 117 | 55,2638 |25,77| — 70034 452 | 118 | 34,2763 125,81) — 72123 443 | 118 | 34,2873 |25,96| — 72102 483 | 119 | 34,4038 125,89 759,60 71852 472 | 119| 34,40:0 |26,11| 759,30 71849 634 | 119 | 34,4048 |25,90| 759,40 71853 637 | 119 | 34,4035 [26,18] 758,30 71840 663 | 118! 34,2695 |26,16] — 72132 666 | 118 | 34,2675/26,49| — 72118 692 | 117 | 35,2515|26,25| — 70035 695 | 117 | 35,2478 [26,61] — 70037 725 | 116 | 39,0462 |26,26| 759.80 62953 727116) 39,0408 [26,65] 757,60 62943 RIEPILOGO. 116 117 118 119 s Ss 0,5062955 0,5070035 0,5072119 0,5071848 RENDICONTI ©912, Vol. XXI2° Sem. 72 — 992 2. Stazione a Tunisi. Latitudine = 36°.47'.44."0. Longitudine = — 2°.17.08" (da M. Mario). Altitudine... . =5" (dalla carta topografica francese). Densità del suolo = 2.2. Stati di Hawelk ed andamenti orari, 1908. DETERMINAZIONE A DETERMINAZIONE B Data Data siderale Stato assoluto And. or. siderale Stato assoluto | And. or. Agosto AN Agosto hi fia 20,845 + 18.40.37,10 s 20,845 + 18.40.37,20 s + 0,395 + 0,394 21,827 46,40 21,827 46,50 + 0,438 + 0,412 22,826 56,78 22,826 56,40 Andamento orario medio | 40,414 Andamento orario medio | -+- 0,403 Osservazioni gravimetriche. Data |Pend. e t d | s Data Pend. c É db | s civile civile Agosto ; È MES Agosto 5 3 RAR RS 20,336 | 116 | 39,2187 |26,30| 764,10] 0,5063297] 22,870 | 116 | 39,2243 |26,66| 764,80| 0,5063811 367 | 117 | 35,3868 [26,42] — 70383) —402| 117|35,3965 [26,68| — 70398 396 | 118 | 34,3955 [26,52] — 72487 481 | 118 |34,4060]|26,73) — 72481 424 | 119 | 84,5218 126,68| 762,40 72192 460| 119 |34,5373 [26,81] 764,70 72188 621 | 119 | 34,5262 |26,90| 763,40 72171 624 | 119 | 34,5390 [26,98) 763,00 72181 651 | 118 | 34,3890 (27,02| — 72464| 653| 118|34,4071|27,14| — 72458 680 | 117 | 35,3820 (27,11) — 70359] 683 | 117 |35,3915 |27,24| — 70372 709 | 116 | 39,2127 |27,12| 763,20 632671 712 116|39,2196]|27,25| 764,60 63294 RIEPILOGO. 116 117 118 119 s Ss S 0,5063292 0,5070378 | 0,5072472 0,5072183 | © (SY {9} 8. Stazione a Biserta. Latitudine = 37°.16".23”. Longitudine — — 2°.84'.45” (da M. Mario). Altitudine . .. .=5".0 (dalle carte topogratiche francesi). Densità del suolo = 2.3. Stati di Hawelk ed andamenti orari, 1912. DETERMINAZIONE B DETERMINAZIONE A Data Data siderale Stato assoluto And. or. siderale | Stato assoluto | And. or. Agosto REI E ET T gon Agosto h m s 24,821 +13. Lo ‘02, ‘08 24,866 + 10.14.01,40 s + 0,244 + 0,251 259,818 07,87 25,884 07,58 + 0,206 + 0,204 26,857 13.00 26,887 12,44 Andamento orario medio | -+ 0,228 Andamento orario medio | + 0,230 Osservazioni gravimetriche. Ra) ? nd c t | 6 s Gs Pend.| € | t | 6 | 8 Agosto | % Agosto È ; CA 25,368 | 116 | 39/1463 [26/38] 76450 0,5063189] 26,367 | 116 | 39/1632 |25%56| 763.60| 0,5063196 401/117 |35,3315 [26,89] — 70261) 399 |117|35,8440 [25,59] — 70282 430 | 118 |34,3470|26,15| — 72369 428 |118|34,3603/25,59| — 72371 459 | 119|34,4695 [26,18] 764,80 72108) 456/119134,4842|25,48| 764,50) 72104 634 | 119 | 34,4766 |25,96| 764,20] 72108) 627|119|34,4967|25,56! 763,60| 72070 662 | 118 | 34,3490 [25,85] — 72379) 658|118|34,3577|25,78| — 72363 690 | 117|35,3396 [25,80] — 70281 687|117|35,3517|25,75) — 70258 720 |116 | 39,1547 2578 763,30 63199) 716|116|39,1672|25.83|763,60| 63177 RIEPILOGO. 116 117 TUE 119 0,5063190 | 05070270 | 05072370 | 05072097 4. Stazione a Nabeul. Latitudine = 36°.27'.27”. Longitudine = 1°.43’.00" (da M. Mario). Altitudine. ...="7".0 (dalle carte topografiche francesi). Densità del suolo = 2,5. Stati di Haweik ed andamenti orari, 1908. DETERMINAZIONE A DETERMINAZIONE B Data Data siderale Stato assoluto | And. or. | siderale | Stato assoluto | And. or. Agosto Agosto O 8. h m 8 28,850 + 8.22.55,85 s 28,850 + 8.22.55,50 s + 0232 +-0,281 29,860 23.01,45 29,860 23.01,23 + 0,276 + 0.256 30,847 23.08,12 30,847 23.017,42 Andamento orario medio | + 0,256 Andamento orario medio | + 0,248 Osservazioni gravimetriche. RE. sal Ve b | 5 s ! Ro pai c b d 5) civile | civile Agosto | | È | Agosto 1 È s lavo m s o mm 29,377|116|39,0492 250) 765,80] 0,5063454 30,373 | 116 | 39,0512 [24,80] 763,20] 0,5063452 407 | 117 | 35,2453 25,10| = 70540 404 | 117 | 35,2485|24,90| — 70543 435 | 118 | 34,2618 25,03] — | 72640 435 | 118] 34,2700]|25,02| — 72623 474|119 34,8895 25,12 765,90 72355| 4631119 34,3972 [25,08] 763,00 72348 638|119|34,3890 24,99) 764,20 72363| 629|119| 34,3954|{25,11| 761,90 72344 666 | 118 34,2550 25,28! — 726431 661118) 34,2683/25,35| — 72610 695|117|35,2432|25.32) — | 70540) 690|117| 35,2453 [25,45] — 70526 727|116}39,0400 125,32 763,90 73445 719|116| 39,0520 [25,48] 761,50 63417 RIEPILOGO. 116 MD... 118 119 s Ss s s 0,5063442 0,5070536 0,5072629 0.5072353 00 a 5. Stazione a Valletta. Latitudine = 350.53/.45"”. Longitudine = 2°.03'.57 (da M. Mario). Altitudine. ...= 62.40 (da apposita livellazione barometrica). Densità del suolo = 2,5. Stati di Hawelk ed andamenti orari, 1908. DETERMINAZIONE A DETERMINAZIONE B Data i e O ZE I SII SOR Data fi IR A A RAI siderale Stato assoluto | And. ur. siderale Stato assoluto | And. or. Settembre Settembre hm 8s huimtis 4.867 + 15.59.03,59 3 4,867 + 15.19.03,46 s + 0,320 + 0,321 5,874 11,30 5,874 123: + 0,297 + 0,293 6,875 18,45 6,875 18,27 Andamente orario medio + 0,308 Andamento orario medio + 0,307 Osservazioni gravimetriche. at ion NUNC t b | s ali eondl e t 5 | s civile civile Settem. Settem. | Ss o mm s s o mm s 5,3891116 | 39,1088 NA 759,90] 0,5063410] 6,408 | 116} 39,1020 |25,28] 757,60| 0,5063424 424 | 117 | 35,2898 [25,40| — 70514 442 |117| 35,2982/25,40] — 70497 454 | 118 | 84,3073 [25,46] — 72599 471 |118| 34,3122/25,44] — 72589 483 | 119 | 34,4335 |25,51| 759,50 72322) 499|119| 34,4363|25,50] 757,60 72318 665 | 119 | 34,4370 |25,38| 758,40 72322] 663|119] 34,4400 |25,36] 757,60 12512 696 | 118 | 34,3050 |25,61| — 72597 695|118] 34,3096 [25,45] — 72596 725 |117|35,2922|25,61) — 70500) 729|117| 35,2910|25,47| — 70509 755 | 116 | 39,1057 [25,62] 757,70 63401 760|116| 39,0980 [25,531 757,60 13418 RIEPILOGO. 116 MIU 118 119 D Ss s s 0,5063413 0,5070505 0,5072595 0,5072318 — 596 — 6. Stazione alla Martorana (dopo il viaggio). Stati di Hawelk ed andamenti orari, 1908. D DETERMINAZIONE A DETERMINAZIONE B ata Data siderale Stato assoluto | And. or. s1derale Stato assoluto | And. or. Settembre N Settembre î 18,931 + 8.07.41,94 a 18,831 + 8.07.42 01 9 + 0,265 + 0,272 19,919 48,24 19,919 48,48 + 0,266 + 0,240 20,908 94,57 20,908 54,15 Andamento orario medio | + 0,265 Andamento orario medio | + 0,256 Osservazioni gravimetriche. Data Pend. @ | A 7) | s MES Pend c lA dò | s civile ! civile Settem. D I î Be toni È o LL 19,381 | 116 | 39.4242 |23,30| 764,30] 0,5062923]| 20,380 | 116 | 39,4262 [22,19] 765,70] 0.5062948 412 | 117 |35,5538|23,99| — 70010 413 | 117 | 35,5558 [22,47] — 70030 441 | 118 | 34,5530 |23,44| — 72103 443 | 118 | 34,5602 [22,65] — 72112 470 | 119 | 34,6766 [23,55] 764,60 71832| = 473119| 34,6778|22 96] 765,30 71839 634 | 119 | 34,6808 |23,43| 764,60 71838] 632|119| 34,6790 [22,95] 764,60 71836 662 | 118 | 34,5498 [23,52] — 72096 661]|118| 34,5443|23,15| — 72115 693 | 117 | 35,5427 |23,44| — 70029 690 |117| 35,5442|23,22) — 70014 72% | 116 i 39,4183 |23,41| 765,20 62927 719] 116] 39,4066 |23,23] 764,70 62934 RIEPILOGO. 116 tig | 119 s | s s 0,5062933 | 0,5070021 | 0,5072107 | 0,5071835 In ottobre si fece una seconda determinazione alla Martorana, sembrando manifestarsi, nelle differenze agosto-settembre, tuttochè piccolissime, qualche cosa di sistematico. La detta determinazione si dovette fare in una sala su- periore del Gabinetto di geodesia, alta 10 metri sul locale delle altre de- terminazioni. Per ridurre le oscillazioni all'antico locale, bastò applicare a tutte le loro durate la correzione —8 unità della 7* decimale (1), e i ri- sultati sono quelli della tabella seguente. 1) Dalla g:9/::s/? : s? si ricava agevolmente, ritenendo s" = 1 sensibilmente : Ò Ù ts 2 , L r in: — 557 — 6-4. Nuova stazione alla Martorana (dopo il viaggio). Stati di Hawelk ed andamenti orari, 1908. DETERMINAZIONE A DETERMINAZIONE B Data RAI E SZ SIE Data siderale Stato assoluto | And. or. o siderale | Stato assoluto | And. or. Ottobre n Ottobre pinta 8,948 + 10.29.32,67 s 8,940 + 10 29.31,88 6 + 0,034 + 0,017 9,946 33,49 9,948 32,28 + 0,021 + 0,020 10,947 34,00 10,941 52,77 + 0,012 + 0,029 11,957 94,29 11,943 93,48 Andamento orario medio | 4- 0,023 Andamento orario medio | + 0,022 Osservazioni gravimetriche. Lo Pend. c | É d 8 | ann Pend. e È 7) $ Ottobre ! P A SEZIONE Ottobre - ; CA RETI 9,639 | 116 | 39,2413 |21,09| 766,00| 0,5062972] 11,632 | 116 | 39,2537 [20,70] 765,10| 0,5062972 671|117]|35,4162 [21,14] — 70039 665 | 117 | 35,4102/20,89| — 70062 702 | 118 | 34,4258 [21,18] — 72125 697 | 118 | 34,4247/20,98| — 72148 732 | 119 | 34,5523 |21,22] 766,00 71850 728 | 119] 34,5446 (21,13) 766,40 71872 10,633 | 119 | 34,5602 |20,65| 765,60 71864|12.631|119| 34,5495 (20,91 Suo 71875 663 | 118 | 34,4218 {20,86] — 72151| 662|118| 34,4192(21,13] — | 72144 692|117|35,4173 [20,93] — 70051 691|117| 35,4086 [21,23] — 70075 722] 116|39,2572 [20,94] 765,50 62956 7221116 | 39,2385 |21,30] 767,20 62967 RIEPILOGO. Miu sug 118 119 Ss 0,5062967 | 0,5070056 | 05072142 | 0,5071865 RIEPILOGO TOTALE SETTEMBRE-OTTOBRE. 116 Jola 118 119 0,5062950 | 0,5070038 | 05072125 | 0,5071850 Queste ultime differiscono di quasi nulla dalle durate dell’agosto. — 998 — Compensazione delle durate di oscillazione. I risultati ottenuti delle durate di oscillazione e precedentemente ri- portati, subirono la solita compensazione a base di condizioni rigorose (!) che venne applicata anche nelle altre campagne gravimetriche. Rimandando, pel metodo, alla Memoria citata (!), mi limito a riportare qui gli elementi del calcolo relativo. Residui di osservazione. î | Wi | Ù | Wi Ù Wi | Ù I Wi | | 1 200] 4 —2. e Ra] 2 RE O | 8 5 | n -8 3 1) 6 7 9 “Pa o —@ che sono, come tutti gli elementi che seguono, espressi in unità della set- tima decimale del secondo siderale. La tavola che segue, fornisce le ausi- liarie w0,,s; le colonne si riferiscono ai primi indici, le linee ai secondi. Valori delle w,,s- 3 | 4 2210) 1 DI + 5,3 1 LR 1 EER LIO EZIO +25 E LA Si, +0,5 DI DI ba (6) Da queste si dedussero i valori delle v, V, che qui sì riportano: Valori delle V,v. Vi Vi 1 Vi | Vi Vi | Vi 1 Vi Vi | 1 GSi (Seta MIN NZ | Lee A eee, 80 80 275 18857 sE IS i to MEO sil Sg Sea Me i Msn 07 3210010) RSA (*) Venturi, Sulla compensazione dei risultati nelle misure di gravità relativa. Nuovo Cimento, serie IV, 1900. Correzioni delle durate di oscillazione. Pend. Palermo Tunisi Biserta Nabeul Valietta 116 — 2,98 — 3,59 — 1,.ll + 5,43 + 2,25 117 — 1,78 — 0,39 + 6,63 — 1.81 — 2,55 118 + 10,21 — 3,67 — 1,05 — 4,45 — 1,94 119 — 6,15 + 7,65 — ey LORD + 2,04 Infine da queste, cogli elementi degli specchietti precedenti, si ebbero le Durate più probabili. Pend. Palermo Tunisi Biserta Nabeul | Valletta == >="**+*+*« e =“, 116 0,5062947 0,5063289 0,5063189 | 0,5063447 0,5063415 Tele, 70036 70378 70276 70535 70502 118 72136 72468 72369 72625 72593 119 71846 72191 720983 72358 | 72320 Come controllo di tutto il calcolo, si determinarono le ww per mezzo di «questi ultimi valori: esse w debbono ridursi sensibilmente a zero. Si ebbe Infatti: Valori di w dopo la compensazione. î | Wi | 1 | Wi | D | Wi | i | Wi 1 | O ASA 7 0 | 10 | Lo 2 SES 0 8 i) 0 8 | Gi GG 0 gi RO | 20, il che mostra che il calcolo è proceduto esattamente, non tenendo conto del- l’incertezza di una sola unità della settima decimale. Con la formula (22) della detta Memoria, fu calcolato l’error medio unitario «, che compete a queste determinazioni, della durata delle oscilla- zioni di ciascun pendolo; si trovò: e = 050000005.5 e per l'errore medio E, a temersi sopra ciascuna oscillazione compensata, giusta pag. 14 di detta Memoria: E = 05,0000003.4 «certamente piccolissimo e soddisfacente. Renviconti. 1912. Vol. XXI, 2° Sem. 73 = Gan Deduzione del valore della gravità nelle varie stazioni. Il valore della gravità a Palermo, è quello dedotto dai confronti com Vienna e con Padova, come risulta da altra pubblicazione ('), cioè: g= 980,086.6 = 0,004 Da questo dedurremo i valori della gravità nelle altre stazioni, con la solita formula : Ss si Gr=9 b) in cui i simboli hanno il consueto significato. Prendendo le s dalla penul- tima tabella precedente, per uno stesso pendolo (qualunque, del resto, poichè è stata eseguita la compensazione) si hanno i seguenti valori della gravità nelle quattro stazioni esplorate: cm RUnIsit.i 9900955 Biserta ©. Ias, — 993 Nabeul ©. ee 898 Valletta. ee gi 905 L'error medio su questi valori, giusta la citata Memoria, è: Mg = 0,001.9 Servendosi, poi, defle altitudini riportate, delle carte topografiche dei luoghi - visitati, si calcolarono e le gravità ridotte al mare, indicate nello specchietto. che segue, con go, e i valori di esse, liberate dall'azione delle masse sopra- stanti all’ellissoide di riferimento: i quaii valori si indicarono con g”. Infine si calcolarono le gravità teoriche con la formula di Helmert del 1901 (che si dissero yo) allo scopo di determinare le cercate anomalie. Si ebbe, così, il quadro riassuntivo seguente : Valori della gravità. STAZIONE | g | Yo | a | Vo Anomalia UDIRE 979,955 979,953 979,955 979,899 + 50 Biserta Seas 993 995 994 941 + 58 Na bear 893 895 895 8701. 4-27 Valletta terne 905 924 918 822] 4-96 (!) Venturi, Riassunto dei lavori di collegamento ecc. Questi Rendiconti, vol. XV,. fasc. 11, anno 1906. — 561 — Questi numeri mettono in evidenza il fatto notevole che fa riscontro all’altro osservato sulle prospicienti coste Sud-Ovest e Sud della Sicilia, cioò (a non parlare di Valletta, che appartiene ad una piccola isola) che le ano- malie di gravità sono relativamente piccole, in ragione della posizione costiera delle tre stazioni tunisine esplorate: cosicchè chi voglia avanzare un'ipotesi sulla connessione che potrebbe esservi tra i fatti gravimetrici osservati sulla sponda siciliana del canale afro-sicnlo, e la questione dell'innalzamento del fondo di questo, troverebbe buona conferma dai superiori risultati ottenuti sulla sponda tunisina del canale medesimo. Chimica-fisica. — Sulla tensione superficiale delle soluzioni proteiche (*). Nota II (*) del Corrisp. FiLiPPo BorTAZZI e del dott. E. p'Acostino. 1. — Per le nostre esperienze ci siamo serviti di uno stalagmometro di Traube, i cui valori per l’acqua distillata abbiamo scrupolosamente determinati, anche per mettere in evidenza, in certo modo, gli errori inerenti alle nostre osservazioni. I valori trovati per l’acqua a varie temperature sono i seguenti: Temperatura = £ Numero delle gocce =7 16,25° 53,90 17,30 58 59 18,00 53,60 21,45 53,80 23,30 54,00 23,80 54,05 25,25 54,30 Numero delle gocce Temperatura (') Lavoro eseguito nell'Istituto di Fisiologia di Napoli. (*) La Nota I è pubblicata in questi Rendiconti, vol. XXI, 2° sem., pag. 221, 1912. — 562 — I risultati di queste misure, tradotti nella curva sottostante, ci hanno persuasi che- gli errori di osservazione sono assai piccoli (*/o di goccia al massimo). La temperatura, alla quale sono state generalmente eseguite le nostre misure, ha. variato dai 23° ai 259,5; per tale intervallo di temperatura si ha, per l’acqua, un aumento di circa */s di goccia. Per molte misure, non è stato necessario curarsi di tale sorgente di errore, ma per alcune altre (ad es., per i dati delle tabelle III e IV) si è tenuto conto dell’influenza della temperatura, facendo le opportune correzioni, e propriamente correg- gendo i valori ottenuti per la temperatura media di 24° C. Le nostre esperienze si dividono in due serie: nella prima serie, abbiamo studiato. il variare del numero delle gocce della soluzione di sieralbumina, ossia del valore 2, mantenendo costante la concentrazione dell’albumina, e variando le concentrazioni di HC1 o di NaOH aggiunta; nella seconda serie, abbiamo mantenuto costanti le concentrazioni dell’albumina e del cloruro sodico, variando solamente le concentrazioni dell’HC1 o. della Na OH. ) La tecnica da noi seguìta è stata, ad esempio per la seconda serie, la seguente: Si è preparata una soluzione di determinata concentrazione di albumina e di NaCl; tale soluzione è stata divisa in due porzioni: alla prima porzione (porzione a) è stato aggiunto. un dato volume di HCl oppure di Na0H; alla seconda porzione (porzione 4) è stato ag- giunto un volume eguale di acqua distillata. Le due soluzioni risultanti sono state alla loro volta suddivise in due porzioni eguali, di circa 10 cme. ognuna. Si avevano in tal modo quattro soluzioni, che chiameremo a, ed as quelle derivate dalla porzione a, e è; e ds quelle derivate dalla porzione 4. Ciò fatto, si determinava il numero delle gocce della soluzione 41, e poi si ripetevano le misure dopo avere aggiunto, dapprima goccia a goccia e poi in quantità maggiori (fino a 10 cme.), la soluzione 41. Per tale operazione serviva una pipetta da 1 cmec., divisa in ventesimi di cme., trasformata in buretta mediante l’ag- giunta di un tubo di gomma munito di una pinza. Ciò fatfo, si determinava il numero delle gocce della soluzione 42, e si ripetevano le misure, aggiungendo ncllo stesso modo precedente la soluzione 4g. I valori delle tabelle I e II sono stati ottenuti con sieralbumina di bue, sottoposta a dialisi dal :9 all’11 marzo 1912 in acqua corrente, e dall’11 marzo all’8 luglio in acqua distillata, spesso ricambiata, tenuta sotto uno strato di toluolo. I valori delle tabelle III e IV sono stati ottenuti con sieroalbumina di bue identica. alla precedente, e trattata nello stesso modo, ma in altro dializzatore. Alla tabella I corrispondono le figure 1 e 1%:s; la fig. 1%is non è che un ingran- dimento della zona centrale della fig. 1. Alle tabelle II, III e IV corrispondono rispettivamente le figure II, III e IV. 2. Riassumiamo i risultati delle principali nostre esperienze. TABELLA I (figg. 1 e 1dds). Numero delle gocce di soluzioni di sieroalbumina di concentrazione dopo l'aggiunta di HCl o Na0H. costante Concentrazione costante siero- albumina: Millimol HC1l aggiunte ad 1 litro soluzione Millimol HCl aggiunte per 1 gr. sieroalbumina 2 =) un) 2 (» =) 2,29 0,31 95,8 142 164,0 243] 237,0 35,2 Numero delle gocce = 7 6,74 °/oo Millimol Na0H aggiunte ad 1 litro soluzione Millimol NaOH aggiunte per 1 gr. sieroalbumina Numero delle gocce = 7 1 litro di soluzione Millimol HC1 aggiunte ad albumina: 3,41 °/s0 Millimol HCl aggiunte per 1 gr. sieroalbuminà n Numero delle gocce Millimol NaOH aggiunte ad 1 litro di soluzione Millimol Na0H aggiunte per 1 gr. sieroalbumina Concentrazione costante siero- Numero delle gocce = 7 Concentrazione costante siero- Millimol HC1 aggiunte ad 1 litro soluzione albumina: Millimol HCl aggiunte per 1 gr. sieroalbumina Numero delle gocce = 7 1,705 °/oo0 1 litro soluzione 1 gr. sieroalbumina Millimol Na0H aggiunte ad Millimol NaOH aggiunte per Numero delle gocce = 57,8 | 59,1 58,9 | 58,0) 57,4 | 303,0 45,0 98,9 59,1 98,9 58,9 61,6| © 64,3 66,0 67,5 68,4 0,00 0,17 0,43 0,68 0,97 1,42 2,17 3,13 5,65 7,75 14,2 24,3 35,2 45,0 9,29 18,7 52,8 141,0 290,0 0,00 0,40 0,52 1,03 1,53 2,04| 2,54 3,05 9,48 15,5 41,4 85,0 (Ai QD DI 57,6 79,6] 2 150,9 229 0 298,0 0,00 0,53 56,7 94,2 0,00 0,58 166,0 239,0 304,0 0,00 0,00] 0,00 1,16] 0,68 3,18| 1,87] € 490] 2,87) è 166,0] 97,4 259,0}140,0 304,0|178,0 55,6 »: aeqna distillata a 23° gocce 53,97). Numero delle gocce (stalagmometro T Numero delle gocce Millimol HC\ aggiunte per gr. sieroatbumina. —Millimol Na0H aggiunte per gr. sieroalbumina. Millimol HCl agginnte a 1 gr. album. Millimol Na0H aggiunte a 1 gr. album. Fia. 10is. Numero delle gocce (stalagmometro Traube: acqua a 23° C., gocce 53,97). (Per tutte le soluzioni, la concentrazione costante della sieroalbumina è stata di gr. 1,25 °/o0 — bb TABELLA II (fig. 2). Influenza del cloruro sodico in mediocre concentrazione. ). Millimol HC1 aggiunte ad 1 litro di soluzione 80 Senza NaCl ll || SSE 58 | gs 5 | 58 =] (ai a 56,9 0,00 57,6 1,00 97,4 2,64 95,9 5,21 99,0 15,7 99,9 30,6 59,8 53,9 57,1 88,8 59,7 |133,0 61,6 63,6 65,4 60 Numero delle gocce = Concentraz. costante NaCl :75,8 Millimol HC1 aggiunte ad 1 litro di soluzione millimol per litro S i | Ss za | ES sio Sl 3 | #5 58,0 0,00 60,1 0,83 61,5 1,98 63, 6 2,96 65,1 394 65,5 Dj 5,86 65,0 11,4 64,8 29,6 64,S OTS 64,4 ||133,0 64,3 64,3 64,4 65,0 67,0 -Solmarana EE, EBIRRBRSSseRROn SAR Ea SESSERE EEE SE ANNI EE aan SEEEREBERE DR 40 30 Millimol HC1 aggiunte a 1 litro soluzione. EI Za 7) Numero delle gocce TOT Ut I 00 SS Dda 56,9 57,2 mauau ISIONE to do (©p) o (56) 65,6 Concentraz. costante NaCl: 22,7 Millimol HCI aggiunte ad 1 litro di soluzione n 3 02 UO 00 DD ii millimol per litro ls SS SIE E |UEgE Z © Sie E SU 57,4 | 0,00 58,4 | 0,33 59,0 || 0,99 59,4 | 1,48 CON N23 60,6 | 3,72 61:93 |\_ 5:57 61,5 | 9,27 61,4 | 14,8 61,1 | 26,6 60,5 | 44,4 59,9 | 66,6 59,9 59,8 59,8 60,1 61,0 62,4 63,3 = ES i Ea Ia HE CENE ISS olo n Millimol Na0H agg. ARI, ES Re | BEN n Numero delle gocce - BEE PRE a 11. soluz. — GO — TABELLA III (fig. 3). Influenza del cloruro sodico în piccola concentrazione. (Tutte le soluzioni contengono gr. 1,25 °/oo di sieroalbumina; i dati sono corretti alla temperatura 24° C.). SEZIONI GI] Concentraz. costante NaCl: PL pie 1,25 millimol per litro Millimol HCl aggiunte a 1 litro di soluzione Millimol HCl aggiunte a 1 litro di soluzione Numero delle gocce =7 Numero delle gocce =» 0,00 55,17 0,00 95,56 0,25 57,58 0,41 57,89 0,41 97,44 1,07 96,44 0,50 57,36 1,80 54,80 0,88 95,78 2,45 94,50 1,64 94,60 3,09 54,50 2,13 54,20 4,34 94,50 2,41 54,20 6,78 54,70 3,25 54,20 10,7 59,39 5,11 94,30 18,6 96,98 7,41 54,50 26,6 57,11 14,8 55,44 26,6 96,89 Numero delle gocce uo n («i 14 13 13) ll 10 9 ) 7 6 5 4 3 Millimol di HC1 aggiunte a 1 litro di soluzione (albumina costante, circa 1,25 per mille). Pres, Di — 567 — TaBeLLA IV (fig. 4). Infiuenza del NaCl in piccola concentrazione. (Tutte le soluzioni contengono gr. 1,25 di sieroalbumina per litro; i dati sono corretti alla temperatura 24,0° C.). 2 Concentraz. costante NaCl: Senza NaCl 4 millimol per litro Millimol AS TOA) o, De Numero ad 1 eo AR colino dolo pIeeaZA adl litro Qi elezione SELO {989927 0,000 55,40 0,000 95,70 0,075 55,60 0,087 56,30 0,162 56,67 0,174 97,05 0,248 56,89 0,296 97,59 0,333 97,22 0,394 58,14 0,430 50,89 0,490 98,26 0,728 55,30 0,596 57,92 1,19 54,60 2,03 95,50 1,74 54,10 2,27 95,40 2,27 54,10 2,68 95,50 4,17 54,30 3,26 55,5( 7,14 54,50 4,17 55,30 12,5 54,90 25,0 | 97,48 Numero delle gocce Millimol HCI aggiunte a 1 lit» soluzione albumina costante, circa 1 per mille. Ri Gaz RenpIcONTI. 1912, Vul. XXI, 2° Sem. 74 e — 560S — 3. Considerazioni generali, e conclusioni. — Dalla tabella I su ripor- tata, ed ancora meglio dalle due figure (figg. 1 e 1475) che ad essa corrispondono, si desume un andamento assai caratteristico della variazione del numero delle gocce di una soluzione di sieralbumina, in seguito all'aggiunta di HCl e di NaOH. Fermandoci all'esame della fig. 1bis, che è un ingrandimento della zona centrale della fig. 1, faremo notare come all’ascissa zero corri- sponde il valore x della soluzione di albumina originaria, e come a destra e sinistra di tale ascissa sono stati disposti rispettivamente i valori x ottenuti per le aggiunte di base e per le aggiunte di acido. Ogni curva presenta un massimo mediano (A, «, «) e due minimi laterali (28, 2, 8 nella zona acida, e C, c, y nella zona alcalina) del valore x, in modo che sì possono in ogni curva considerare quattro porzioni, che designeremo brevemente nel modo seguente: considerando solamente la curva superiore, chiameremo la prima porzione, a sinistra di B, porzione B; la seconda, porzione BA; la terza, porzione AE; e la quarta, a destra di C, porzione C; per le altre curve si adotterà una nomenclatura analoga. L'unica maniera di spiegare logicamente queste curve ci sembra quella di ammettere che 7 valore n dipenda esclusivamente dalle molecole indis- sociate di proteina, più propriamente dalle molecole di proteina indisso- ciata e dalle molecole indissociate dei sali della proteina, nel senso che ad un aumento di n (cioè ad una diminuzione della tensione superficiale della soluzione) corrisponda un aumento della concentrazione delle mole- cole suddette. I massimi A, a e @ corrisponderebbero alla sieralbumina non salificata ; i minimi 5, è e #, alla massima dissociazione del cloruro di albumina; i minimi €, c e y, alla massima dissociazione dell'albuminato sodico; le por- zioni B. 5 e p rappresenterebbero la graduale diminuzione della dissociazione del cloruro d'albumina causata dall’aggiunta progressiva dell’ione Cl’, che sarebbe un ione in comune; e del pari le porzioni 0, c e y raffigurerebbero la diminuzione della dissociazione dell’albuminato sodico causata dall'ag- giunta progressiva dell’ione in comune Na. La soluzione di albumina dializzata, che ci è servita alle ricerche, deve essere ritenuta come impura per alcali, onde è stata necessaria una certa aggiunta di HCl per riportarla allo stato di albumina non salificata, nel quale stato essa viene di conseguenza a trovarsi accompagnata da una certa quantità di cloruro del metallo che si trovava nella soluzione proteica orì- ginale. Per portare l’albumina dallo stato di minima dissociazione, cioè dai punti A, 4 e a, allo stato di massima dissociazione del cloruro rispettivo, cioè al punti 8, 2, e f, sono state necessarie le seguenti aggiunte di HCl (come si desume dalla fig. 1d%s). — 569 — Concentrazione albumina Millimol HCI per 1 gr. di albumina 1 soluzione. . . ONAARO SE 0.9 24 ” SUE È 341» 1,4 32 ” IAC 1,705 » IIAZ Per portarla invece allo stato di massima dissociazione dell'albuminato, cioè dai punti A. a e « ai punti €, c e y, sono state necessarie le aggiunte seguenti di NaOH (come si desume dalla fig. 1 ds): Concentrazione albumina Millimol NaOH per 1 gr. di albumina He cIiZIONE sto o ONTARIO Il 2% ” La 3.41 > 1,15 Sla ” o Ga 1,705 » 1,9 Bisogna, dunque, aggiungere nelle soluzioni più diluite una maggiore quantità di acido o di base per portare il sale d'albumina allo stato di massima dissociazione. La spiegazione di questo fenomeno è ovvia, se ci riportiamo alle proprietà caratteristiche di quei sali. di cui il componente acido o basico sia costituito da un elettrolito assai debole: ad esempio, alle proprietà del cianuro potassico. Siccome l’acido cianidrico è un elettrolito e assai debole, le soluzioni di cianuro potassico puro sono notevolmente alca- line, poichè una certa quantità ai detto sale si scinde formando soda libera e acido cianidrico indissociato; e con l’anmentare della diluizione. aumenta il grado di scissione idrolitica. Infatti, Shields (1) ha trovato sperimentalmente: KCN concentrazione mol. 0,947 grado di idrolisi 0,31 " 0,235 ” 0,72 ’ i 0.095 7 ol? ” 0,024 ” 2,34 I gradi d'idrolisi nel nostro caso devono essere assai più notevoli dei precedenti, poichè le nostre concentrazioni sono assai piccole (probabilmente, meno di una millimol di albumina per litro) (?). (!) Zeitschr. f. physik. Ch., Bd. XII, pag. 167 (1893). (*) Calcolando la idrolisi dei sali di albumina in base alle ricerche recenti di d’Agostino e Quagliariello (Nernst-Festschrift, pag. 27 [1912]), per le tre concentrazioni dei nostri esperimenti, si trovano i valori seguenti: Albuminato sodico: concentraz. 6,74 gr. alb. °/oo grado d’idrolisi 6,9 °/o ” ” 3,41 ” ” 9,6» » » 1,705 ”» D) 132000» Cloruro di albumina: concentraz. 6,74 ” ” 1,81 » » ” i 3,4 IL » » 2 ,58 ” ” ” 1,705 ” » 3,56 » — 570 — Si comprende, inoltre, che per deprimere l’ idrolisi del cianuro potassico e portarlo in tal modo allo stato di massima dissociazione, è necessario ag- giungere un notevole eccesso di potassa; allo stato di massima dissociazione del cianuro potassico non si ha dunque una corrispondenza stechiometrica fra la quantità dell'acido cianidrico e la quantità di KOH che si è dovuta ag- giungere; ma tale ultima quantità è di molto superiore a quella molecolar- mente corrispondente. Nel nostro caso, le quantità sia di NaOH sia di HCl da aggiungere, sì aggirano attorno ad una millimol per 1 gr. di albumina, ossia di una mol per 1000 gr. di albumina; in conseguenza di ciò. 77 peso molecolare dell’albumina deve essere di alquanto superiore a 1000. Tale resultato è perfettamente in accordo con quanto si conosce fin'oggi su tale grandezza. In conclusione, la interpretazione da noi data del fenomeno viene in- nanzi tutto giustificata da questi tre fatti importanti, che si trovano perfet- tamente in accordo con i principî della chimica generale: 1°) le quantità di acido o di base da aggiungere all'albumina, per portarla allo stato massimo di dissociazione, anmentano coll’aumentare della diluizione; 2° le quantità predette di acido sono dello stesso ordine di grandezza delle quantità di alcali; 3° bisogna presupporre che l'albumina abbia un peso molecolare mag- giore di 1000. Per ispiegare le altre proprietà delle nostre curve, d2so0gna ammettere che il cloruro di albumina sia, a parità di concentrazione, assai meno dissociato dell'albuminato sodico; in altre parole, il cloruro di albumina sa- rebbe un vero e proprio elettrolito debole, mentre l’albuminato sodico sarebbe un elettrolito mediocremente forte. Infatti, col crescere della concentrazione, i minimi #, è e B vanno man mano sollevandosi assai più dei minimi y, c e C; e mentre nelle soluzioni più diluite tali minimi si trovano a un livello di poco differente, nella soluzione più concentrata il dislivello fra i due minimi (8 e C) è assai notevole; nelle soluzioni più diluite, dunque, i gradi di dissociazione dei due sali non sono molto differenti fra loro, mentre nelle soluzioni più concentrate la differenza fra i gradi di dissociazione è assai notevole. Anche ciò è in accordo perfetto con i principii della chimica-fisica. Bisogna anche notare che tutte le particolarità secondarie delle curve si spiegano ammettendo l’ipotesi suaccennata. Infatti, la scarsa dissociazione del cloruro influisce su tutta la porzione di curva che si trova nella zona acida, sollevandola in tutte le sue parti: il sollevamento è scarso a partire dal punto A, ma va man mano accentuandosi verso il punto B, col crescere della concentrazione del cloruro d'albumina; perciò le porzioni di curva della zona acida sono meno concave delle porzioni di curva della zona alcalina; — 571 — e mentre le porzioni AC, ac, ay sono l'una all'altra assai vicine, le por- zioni 48, ab, «8 si allontanano notevolmente l'una dall'altra. I fatti precedenti sono assai più evidenti nelle ricerche fatte a concen- trazione costante di albumina e di cloruro sodico (cfr. le tabelle II, III e IV, e le figure corrispondenti 2, 3 e 4). Il cloruro sodico, avendo ioni in comune con ambedue i sali dell’albumina, ne diminuisce la dissociazione; ma mentre tale influenza è assai notevole sul cloruro di albumina, lo è poco sull’albu- minato sodico; quindi le porzioni di curva della zona acida sono assai sol- levate, e la loro concavità va diminuendo progressivamente col crescere della concentrazione del cloruro sodico. Anche qui la massima influenza sì esercita sul cloruro completamente dissociato (punti 8), ed è minore sui punti 4, ossia sugli apici delle curve. Vi sono infine due fatti importanti, di assai malagevole interpretazione: 1°) Come si rileva dalle figg. 2, 3 e 4, ma in particolar modo dalla fig. 2, le aggiunte di NaCl deprimono fortemente anche la dissociazione dell’albumina non sa- lificata (*) (gli apici delle curve si spostano in alto, cioè i valori 7 aumentano, ossia la tensione superficiale diminuisce). Ma in questo caso non si può parlare di ioni in comune, onde la diminuzione della dissociazione dell’albumina deve attribuirsi ad altre ragioni. La causa più probabile, noi riteniamo sia la cosiddetta formazione dei prodotti laterali in- dissociati, che si spiegherebbe col meccanismo seguente: aggiungendo NaCI, noi aggiun- giamo sodioioni e cloroioni; i sodioioni si combinano con gli albuminanioni della albu- mina pura e formano albuminato sodico indissociato, e dall’altro lato i cloroioni si combinano con gli albumincationi e formano cloruro di albumina indissociato; ma la seconda com- binazione è di importanza assai maggiore che la prima, data la scarsa dissociazione del cloruro di albumina. (1) La dissociazione dell’albumina non salificata deve considerarsi come abbastanza notevole, se si ammette che i valori Ka e Ky trovati da d’Agostino e Quagliariello (loc. cit.) siano sufficientemente esatti. Ciò resulta dal seguente calcolo: La frazione 9 di molecola di una data sostanza anfotera, che rimane indissociata (il così detto « Dissociationsrest » di Michaelis), può essere ricavata per mezzo della seguente formola: e e Kg -—— tt) (n) (Cfr. Michaelis, Bioch. Zeit., Bd. XXXIII, pag. 184 [1911]. Secondo i dati di d’Agostino e Quagliariello, alle soluzioni di albumina pura cor- rispondono i valori: Ka= 0,091 [H°] = 0,0,27 Ky = 0,014 FOHAI=-005378 Avremo dunque: 1 O= = 0,93; 0,091. 0,014 ‘go 0,0727 on 0,0537 ossia, l’albumina pura in soluzione acquosa si trova allo stato di molecole non dissociate nella proporzione del 93 °/0, mentre il resto, cioè circa il 7 °/o, è dissociato in ioni po- sitivi e negativi. — 5972 — 2°) Come si rileva in particolar modo dalla fig. 2, ma anche, sebbene in grado minore, dalle figg. 3 e 4, gli apici delle curve, corrispondenti ai punti che prima abbiamo chiamati A, per l'aggiunta «di NaCl si spostano verso la sinistra della figura, e lo spo- stamento è tanto maggiore, quanto maggiore è la quantità di cloruro sodico aggiunto. Tale spostamento può avere la seguente spiegazione : l'apice della curva normale (cfr. fig. 2), della curva cioè che rappresenta i valori ottenuti senza cloruro sodico, non è aguzzo, ma presenta una specie di plateau (*); questo sta a significare che esiste una certa zona at- torno al punto A, nella quale si verifica una certa costanza del contenuto ionico totale; ma mentre nel punto A esistono quantità di albumincationi e di albuminanioni poco diffe- renti fra loro, a sinistra di tale punto aumenta fortemente la quantità degli albuminca- tioni a spese degli albuminanioni, pur rimanendo la loro somma quasi costante; a destra del punto A si ha il fatto contrario, ossia l’albuminanione aumenta fortemente a spese dell’albumincatione. Per quello che si è detto innanzi, il cloruro sodico agisce special- mente sull’albumincatione, provocando la formazione di cloruro di albumina indissociato. Per tali ragioni l’apice della curva si sposta verso la sinistra, con l'aumentare delle con centrazioni del cloruro sodico. Anche gli spostamenti degli apici della fig. 1%is si spiegano in modo analogo: infatti all’ascissa zero corrisponde un’albumina inquinata di alcali; ed al punto A, per la neu- tralizzazione di tale alcali, si ha albumina non salificata e cloruro alcalino; il quale è tanto più concentrato, quanto più concentrata è la soluzione di albumina: dunque con l'aumentare della concentrazione dell’albumina, l'apice della curva si sposta man mano verso la sinistra. Matematica. — Sulle operazioni lineari, e sulla teoria delle equazioni integrali. Nota del Socio S. PINCHERLE. In una Nota pubblicata nei Rendiconti di questa Accademia nel giugno del corrente anno (?), l'ing. G. Giorgi mette giustamente in rilievo i van- taggi che si hanno nella teoria delle equazioni (direi, piuttosto, delle o pe- razioni) integrali lineari ed integro-differenziali, specie nell’importante e geniale capitolo che in questa teoria è dovuto alle fondamentali ricerche del Volterra, quando se ne riattacchi lo studio ai principî cui dà luogo il calcolo delle operazioni lineari in astratto. Convengo tanto più volentieri in questo pen- siero, in quanto che è appunto al medesimo concetto che si inspirano alcuni recenti miei lavori (*). Se, con ragione, dai moderni creatori della teoria delle equazioni integrali si è considerato prevalentemente il lato, che si potrebbe dire aritmetico, della teoria stessa, come quello che viene maggiormente invo- cato dalle applicazioni, pure anche il lato geometrico o di struttura del nuovo (*) Una figura assai simile si otterrebbe, costruendo la cosiddetta Dissociationsrest- kurve di Michaelis, prendendo a base di tale costruzione i valori ricavati da d’Agostino e Quagliariello (cfr. loc. cit.). (2) Sulla teoria delle equazioni integrali e delle loro generalizzate. Rend. Accad. Lincei, tom. XXI, 5, 16 giugno. 1912. (*) Ved. Memorie dell’Accad. di Bologna, serie VI, tom. III (1906) e tom. VIII (1911). — 573 — calcolo, quello cioè che si trova in dipendenza più immediata col calcolo generale delle operazioni, ha la sua importanza; esso permette di porre fra loro in relazione questioni apparentemente diverse, di sceverare procedimenti e dimostrazioni da complicazioni non di rado parassitarie e dovute alla forma speciale delle espressioni analitiche adoperate, infine di ricorrere più imme- diatamente ai sussidî che forniscono l'analogia e l'intuizione. Gli accennati principî generali della teoria delle operazioni lineari dànno luogo, come giustamente osserva il Giorgi, ad un'algebra la cui algoritmìa è affine all'ordinaria, differendone priucipalmente per la mancanza della pro- prietà commutativa della moltiplicazione. Non è però questa sola che sta- bilisce il divario. Anche conservandosi questa proprietà — come nella bella teoria, già ricordata, dovuta al Volterra —. se viene accentuata l'analogia con l’algebra ordinaria ('), pure le differenze si devono al mancare del principio di annullamento del prodotto, e nella teoria generale astratta delle opera- zioni lineari commutabili (*) è appunto di precipua importanza |’ interpre- tazione dell'annullarsi di un prodotto di tali operazioni. Nell’ordine dei miei citati lavori e della comunicazione dell'ing. Giorgi, sì presenta una questione interessante: tino a quale grado, cioè, sia possibile di sviluppare in forma astratta la teoria degli operatori, e a quale punto si presenti la necessità di particolareggiarne la natura, introducendo per essi opportune espressioni analitiche, ad esempio in forma di integrali definiti. Nella presente Nota mi propongo di portare un lieve contributo a tale que- stione, e, nel tempo stesso, per dare un esempio del grado di chiarezza e di perspicuità che l'uso del calcolo degli operatori porta in varie parti della teoria delle equazioni funzionali lineari, di accennare a quest'uso nel capitolo della teoria di queste equazioni che tratta della risolvente, quale è consi- derata dal Goursat nella nota sua Memoria (*), riprodotta, nelle sue parti sostanziali, nel recente trattato del Lacesco (4). 1. Sia dato uno spazio lineare S; sia A un'operazione lineare univoca, non degenere. operante in questo spazio e producente, come risultato, enti dello spazio medesimo. Per fissare le idee, gli enti di S siano funzioni di una variabile. Per l'operazione A, ammetteremo che VA" abbia, per un aggregato di elementi di S limitato nel suo insieme, un massimo limite finito. Sotto a questa condizione, la serie > "A" è, rispetto al parametro #, (") Ved. le Note pubblicate dal Volterra in questi Rendiconti, nel 1910 e 1911; in particolare la Comunicazione del 20 febbraio 1910. Ved. anche i miei «Appunti di calcolo funzionale, Mem. Accad. Bologna, serie VI, tom. VITI, $ III. (*) Pincherle e Amaldi, Ze operazioni distributive, Bologna, Zanichelli (1910), cap. III, pp. 36-49. (3) Recherches sur les intégrales linéaires. Annales de la Faculté des Sciences de Toulouse, série II, tom. I, pag. 5 (1908). (*) Introduction à la théorie des équations intégrales. Paris, Hermann (1912). — 574 — un elemento di funzione analitica; essa, nel suo campo di monodromia otte- nuto dalla serie stessa mediante continuazione analitica ed un opportuno sistema di tagli, dà, per gli elementi di S, un'operazione lineare R= Ru che si dirà risolvente di A. Nel cerchio di convergenza della serie dapprima, poi, per il principio di conservazione delle proprietà analitiche, in tutto il suo campo di monodromia, sì verifica immediatamente che la R soddisfa alla relazione (1) R_RAR=A e all'altra (2) Ri -—R=(4—4) Bk; questa ultima, che sì potrebbe anche prendere come definizione della risol- vente, è quella stabilita dall’Hilbert (') per la risolvente, sotto forma d’in- tegrale definito, della classica equazione di Fredholm. 2. Supponiamo che la R, come funzione di /X, ammetta un polo di primo ordine; vale allora la decomposizione 7 B (3) Ss dove B e P sono simboli di operazioni lineari: B indipendente da %, P fun- zione analitica di ) regolare per f=c. Sostituendo in (1) e passando al limite, viene BT_-ceAB=0:; questa relazione esprime che « qualunque sia l'elemento g di S su cui si «opera, B(g) appartiene ad uno spazio H, i cui elementi sono invarianti « (autofunzioni) per l'operazione A, ed il numero c è il numero invariante « (autonumero) corrispondente ». Sostituendo la (3) in (2), viene, con semplice riduzione, (4) BSR Ip PSPRE=SNE A questo punto sì introduce naturalmente il concetto di operazioni or- togonali: due operazioni lineari M, N sono tali quando sia MN=NM=0; sono semi-ortogonali quando sia soddisfatta una sola di queste relazioni. Le due operazioni B e P che si presentano nella decomposizione (8) sono ortogonali. Esse sono senza radici comuni, perchè, ove @ fosse radice (1) Grundzùge einer allg. Theorie der lin. Integralgleichungen (Erste Mitteilung). Gott. Nachr., 1904, pag. 71. Cfr. Lalesco, op. cit., pag. 43. — 575 — di B e P, questa radice verrebbe ammessa anche dalla R; ma A è supposto non degenere, cioè senza radici: quindi, per la (4), deve essere tale anche R. Da ciò, per un teorema generale sulle operazioni permutabili senza radici comuni ('), segue che ogni elemento g di S può decomporsi nella forma g=f+7, dove $# è radice di B, e 77 radice di P. Ma, con ragionamenti dei più ovvii, si ha la seguente catena di osservazioni: ogni B(g) è un 7, elemento invariante di A relativo a c; ogni radice di P è un elemento 7; ogni elemento 77 è della forma B(g); la decomposizione di g in 8# 4-77 è unica; ogni elemento n è radice di P; onde le radici 7 di P sono tutti e soli gli elementi invarianti di A relativi a c. Si ha dunque che « lo spazio S è decomponibile univocamente «in due spazî S, ed H;; il primo è lo spazio radice di B, il secondo lo « spazio degli elementi invarianti relativi a c ed è generato dall'applicazione « di B sullo spazio S ». 3. Ammettiamo ora che lo spazio H, sia ad mm dimensioni, e sia UD ’ 2 gp 900 Mm una sua base. Essendo 4 un elemento qualunque di S, sarà (5) B(9) = cim + c0M2 + Cm Mm - Per essere n; risultato dell'applicazione di B ad un elemento di S, è per essere B® = B, viene B(7;) = n; . I termini c;n; della (5) possono riguardarsi come il risultato di una operazione lineare C; applicata a g; la costante ec; è risultato dell'opera- zione — C;. Per la loro definizione, le operazioni C; soddisfano alle relazioni (i (6) 0 = so C;Cj=0; la B è decomposta nella somma B= C+ C+ Cm di operazioni aventi le proprietà (6). E: 1 RA i Ma poichè la n è un'operazione lineare che trasforma un elemento Di (i funzionale in una costante, essa è rappresentabile, sotto condizioni larghis- sime, nella forma 5 l i (7) _ C(g)= | wi(y)9(Y) dy , Ni va (1) Pincherle e Amaldi, op. cit., pag. 37. lenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 75 odo come ha dimostrato il Fréchet () sulle truccie dell'Hadamard. Ne viene per B l'espressione b ®) B=| K@,9) 9) con (O) K(2,y)=S yi ne). Dalle proprietà (6) consegue molto facilmente la biortogonalità delle funzioni w ed 7; è notevole come si sia così ricaduti, partendo da considera- zioni di indole astratta, sulle espressioni integrali usuali e sulle proprietà che loro appartengono. Si tralascia la ovvia generalizzazione ad un numero ar- bitrario di poli di R di ordine qualunque. 4. Dando alle operazioni la forma integrale, il concetto di operazioni ortogonali si traduce in quello, indicato dal Goursat, di nuclei ortogonali. Su questi, si hanno alcuni teoremi dati appunto dal Goursat (?) e riportati dal Lalesco nella citata opera (*); ora, questi teoremi si estendono, per via astratta, ad operazioni lineari in genere in modo così semplice ed affrancato da sviluppi di calcolo, che, nonostante il loro carattere elementare, mi pare valga la pena di accennarne la dimostrazione. Il primo di questi teoremi consiste in ciò: se A e B sono operazioni fra loro semiortogonali, cioè soddisfanno ad una delle due relazioni AB =0 o BA=0, i numeri invarianti di A 4-B sono tutti e soli quelli di A e di B. a) Sia e numero invariante di A + B; avrà di conseguenza soluzione l'equazione g—-c(A+B)g=0; se è BA=0, si applichi la B; viene Bg — c Big =0, onde segue, o Bp=0, ma allora è p—cAg=0 e c numero invariante di A, oppure (1 — cB)Bg =0, e allora c è numero invariante di B. b) Inversamente, sia c numero invariante di A: p_cAig=0. Se è BA=0, viene (1-c(A-+B))Ag=0, (1) Sur les opérations linéaires, Transactions of the Americ. Math. Society, tom. 5 (1904), pag. -96. (2) Compt. rend. de l’Acad. des Sciences, Paris, tom. 145, pp. 667, 752 (1907). (3) pp. 41-43. ogg — onde c è numero invariante di A -4+B; se è AB=0, allora, o c è numero invariante di B, ha soluzione la w_—-cBw=0 e si torna al caso precedente: oppure c non è numero invariante di B, e allora ha soluzione la y_cBy=p=cA(g)=cA(y_—Bw), onde w--cBly)—cA(y) +e ABWY)=0, e, per la AB=0, yw_-c(BH4A)y=0, e c è numero invariante di A+ B. Il secondo teorema di Goursat equivale a ciò: se A, B sono operazioni ortogonali ed R,S sono le rispettive risolventi, R + S è la risolvente di A+ B. Ciò risulta senz'altro dal fatto che da AB=0, BA=0, segue (A + B)" a AUT Br s onde | Ihr (A4 BB) — Sh An-4 YI Br_RH4S. 5. Ricordiamo che con operazione aggiunta di un'operazione lineare A s intende una operazione A tale che. essendo (@,/) un'operazione separa- tamente lineare in @ e £ ed avente le proprietà del prodotto, sia, per ogni coppia a, f, Da questa definizione risulta che l'aggiunta di AB è BA. Ne segue, per quanto risguarda l’'ortogonalità, che se A e B sono ortogonali, lo sono pure le loro aggiunte; e se A e B hanno la semi-ortogonalità espressa da AB=0,A e B possiedono quella espressa da BA=0. Chimica. — Sulla esistenza di acque naturali oponizzate e probabili teorie del fenomeno. L'Acqua Porte delle Bagnare nel Monte Amiata. Nota del Socio R. Nasini e di C. PoRLEZZA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. — 578 — Geologia. — A/foramento di Titonico con Diceras Lucî presso Parenzo in Istria. Nota del Socio C. F. PARONA. Nell'esame di una collezione di fossili dei dintorni di Parenzo, fatta e gentilmente a me inviata dal sig. prof. Matteo Calegari del R. Istituto Tecnico di Milano, la mia attenzione si fermò specialmente sui fossili rac- colti alla Punta di Fontane nell'isolotto di Riso, e scogli vicini, a sud di Parenzo. Sono Diceras e corollarî in un calcare tenero, bianco, in prevalenza oolitico: i primi, una decina di esemplari a valve riunite o separate, nel maggior numero corrispondono perfettamente per la forma esterna e per i caratteri della cerniera al Diceras (Heterodiceras) Luci Defr. (var. com- munis e var. ovalis Boehm (')), ed i corollarî determinabili sono riferibili, a giudizio del dott. P. L. Prever, alle /sastraea Thurmanni Etall. e Isastr. variabilis Bt.(*). L'aspetto della roccia è affatto simile a quello del calcare oolitico a Diceras di Saint-Mihiel (Meuse), come mi risulta dal confronto con campioni di questa provenienza esistenti nel Museo di Torino. Con lo studio al microscopio delle sezioni sottili del calcare oolitico ho riconosciuto dei frustoli di alghe sifonee, che probabilmente appartengono alla 7etraplo- porella Remesi Steinm. (*), fossile, come il Diceras e le isastreo, del cal- care di Stramberg. Riscontrai inoltre una faunula a foraminiferi poco ricca di forme. A questo riguardo ricordo che i foraminiferi dell'orizzonte di Stram- berg furono studiati dal Perner e dal Chapmann (*): orbene la faunula istriana corrisponde meglio a quella descritta dal Perner, non avendo io ri- scontrato nelle poche sezioni esaminate le forme di Ammodiseus e di /nvo- lutina, che sono caratteristiche della fauna illustrata dal Chapmann. Sonvi Cristellaria, Bulimina, Lituola. Haplophragrmium e, abbastanza frequenti, diverse forme di textularidi. Segnatamente il Diceras Luci e le isastree non lasciano dubbio sulla interpretazione di questo giacimento dell’isoletta di Riso come calcare co- ralligeno sincronizzabile col Titonico coralligeno di Stramberg. L'interesse del rinvenimento sta nel fatto che finora sul litorale istriano era sconosciuto il Giurassico superiore. Taramelli, Stache, De Stefani, Schu- (1) G. Boehm, Die Bivalv. d. Stramberger Schicht. (Pal. Mitth. a. d. Mus. d. K. Bayer. Staat., II Bd.) Cassel. 1883. (2) M. M. Ogilvie, Die Aorallen di Stramb. Sch. (Ibid.), Stuttgart, 1896-97. (*) G. Steinmann, Tetraploporella Remebi, eine neue Dasycladacea aus d. Tithon von Stramberg, Beitr. z. Pal. u. Geol. Oesterr.-Ung. u. d. Orients, Bd. XV, 1903. (4) J. Perner, Ved. d. Foraminif. aus d. Tithon von Stramberg, Ac. d. Sc., Prague, V. Bull. Int. 1898; F. Chapman, On some Foraminif. of Tithonian Age fr. the Stham- derg, ecc. The Journ. of the Linn. Soc. (Zoology), vol. 28, London, 1900. — 579 — bert (*) nei loro lavori riassuntivi sulla geologia della penisola d'Istria non accennano alla presenza dal Neogiurassico; così non risulta che delle potenti masse mesozoiche, assai estese a sud di Fiume, nella Croazia. Bosnia, Her- zegovina e Montenegro, facciano parte dei calcari coralligeni a D/ceras, per quanto non sia improbabile che effettivamente vi si trovino, in rapporto coi calcari bianchi con ellipsactinie della Herzegovina e del Lago di Scutari, così come si conoscono sul versante appenninico, nell’Abruzzo, dove a Calascio ed altrove affiorano calcari ad ellipsactinie con fauna titonica a coralli e mol- luschi, fra i quali un Diceras riferibile al D. Zucé (?). Ho ricordato la descrizione del Margraviato d'Istria del Taramelli, ma devo ancora ricordare che nella monogratia dello stesso autore sul Lias nelle provincie venete (*) è espressa l'opportunità che siano meglio conosciuti e stu- diati alcuni banchi a nerinee da lui osservati presso la foce del fiume Quieto, a nord di Parenzo (punta Cervera) ed altri banchi contenenti dei piccoli Di- ceras nella dolomia creduta cretacea tra Dignano e Valle. Sarebbe infatti anche interessante di verificare la probabile corrispondenza di questi calcari con quelli pure a Diceras e a Nerinee della massa giurassica fra Gorizia e Istria, probabili equivalenti del livello di Stramberg (4). Il Marinelli (3), trat- tando della serie giurese-cretacea con facies a camacee del Veneto orien- tale e dell'Istria e Dalmazia, accenna alla osservazione del Taramelli, no- tando che nel Litorale non furono riscontrate formazioni giuresì a /aeczes corallina, aggiungendo giustamente che ciò del resto non eselude la loro esistenza, essendo in genere i calcari a camacee attribuiti alla Creta per il loro aspetto litologico, senza una minuta disamina dei fossili. È dunque opportuna questa mia notizia a dimostrazione dell’esistenza nel litorale istriano del Neogiurassico, colla /aezes del ca!care coralligeno titonico, riconosciuta per merito delle ricerche del prof. M. Calegari, al quale sono lieto di poter rinnovare i ringraziamenti per il dono fatto al Museo Geologico di Torino. (5) T. Taramelli, Descr. geogn. del Margraviato d' Istria, Milano (Vallardi) 1878; E. Stache, Die Ziburn. Stufe, ecc. Abhandl. d. k. k. geol. Reichs., Bd. XIII, 1889; C. De Stefani, Géotect. des deux versants de l’Adriatique, Annal. Soc. Géol. de Belgique, t. 33, Mém., 1908; R. Schubert, Geol. Muhrer durch die Nordliche Adria, Berlin (Gebriides Borntraeger), 1912. (*) C. F. Parona, Nuovi dati paleont. sui terr. mesoz. dell’ Abruzzo, Boll. R. Com. Geol., 1908; P. L. Prever, Coralli giurassici del Gran Sasso d’ Italia. Atti R. Acc. Sc. Torino, vol. XLIV, 1909. (*) T. Taramelli, Monogr. strat. e poleont. del Lias nelle prov. venete. Append. al Tomo V, ser. V, Atti R. Istit. Veneto, 1880. (4) E. Stache, op. cit. (5) O. Marinelli, Descriz, geol. dei dint. di Tarcento in Friuli. Pubbl. del R. Ist. Sup., Firenze, 1902. — 580 — Matematica. — Ancora della integrazione delle equazioni del moto lento di un fluido viscoso. Nota del dott. LurGr Amoroso, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA ('). 9. Sieno %,,%»,%3, quattro funzioni di 2, che verificano al sistema (1). Poniamo : dux ,Y 44 CAI $=1,2,30 Dalle (1) deduciamo che dU3 dI dU dU7 Ati ue gi sono entro S, per f=> £,, le derivate di una stessa funzione p armonica nelle variabili € ,y.z. Per t=%,, possiamo quindi scrivere DZ: rp, ZA out da dY x(c,y,) essendo una funzione armonica. Al contorno o si ha, posto mente all’ultima delle (1) DAR (4°h, — ki) cos na + (4°ho — ka) cos ny + (43h3 — k3) cos ne = dn da, dA, ) = A? __ rs S / A? 9 ( hi | > )_)co na n ho ( Y O cos nY + +(en-(37) UViea ) COS NE. Concludiamo quindi: Se %,,%»,%3.p costituiscono una soluzione del si- dA dUI dU3 stema (1). appartenente ad ,, allora assumono, per dd de Ge=iyo 0 VOMOPIS 9 d 2 d dI (13 lr = dm — SÈ i kn dh — Si | li=dh— St, (1) Pervenuta all'Accademia il 12 ottobre 1912. — bel — x essendo la funzione armonica, la cui derivata normale prende al con- torno 0 î valori di Dea Za) ) ( 572 20) A (I e cos ue +-( 4°h> iS E cos 29 + a (dt _ ( De; ) ) cos n8 (!). di /iew Consegue allora immediatamente: Se v,,02,03,7, sono funzioni di ®, legate alle u,u2,uz dalle (7), allora vi, v,,v3 assumono per t==t i valori: (14) Dia yi) = ey) + gi a + | 46, UO è) Gi (Campagne) ae di dl, le k; essendo definite dalle (13). 10. Ciò posto, riprendiamo le funzioni di £,: v,,v2,03 che veri- ficano al sistema (9); e dimostriamo che, se esistono tre funzioni di 2: w,,0:,63 che verificano al sistema (È. m.6.t > (15) Wi(x 3459) + I fas ) GIO dé dy dé = 00; (€, yo) dI ed assumono per {= i valori di %,,%»,%: definiti dalle (13), al- (1) Si ha dA°h, dA°hs d4°hs PB da dY de e onde ii eh) cos né + (4°h,) cos nn + (4h) cos n do=0; (ol questa equazione unitamente alla fr cos né + a» cos ny + a, cos né) do= 0, S0 valida per ipotesi per ft = to (vedi n. 1), fornisce immediatamente: Fiere) Jen (ent), Jen + (ch, —_ i) cos né do=0. ee /t=t0 — 582 — lora esistono pure tre funzioni di 2,: »,,%:,v3, che verificano al sistema dU; ( GT (7) u;(d,Y,8,0 + fe i = eten lle ga a ec =, ed assumono per =, valori di %,,%., #3. Precisamente le ; si ottengono dalle w; mediante le formule È (16) Us (CY ,8, 0) MIR) E o, (o lo Infatti nell'ipotesi stabilita si ha da (15): t eg) da + ta +3 | (oj(E 15,0 E.) 64,7, €72,99) ded di VCI da cui, posto mente alle (16): ue. Y,8,0)— (x 4%) SA d i SE AG) S +S SII 46,70) = (4400) e finalmente. tenuto conto delle (14), si deduce: > CawlEn, 0) U(®Y 8,1) + die= t=le G.;(f,n,6|0,y,3) dédndé = ZIE Le u; definite dalle (16) verificano quindi alle (7), ed assumono per t= to î valori di h;. Resta a dimostrare che le w; soro funzioni di £,: infatti, poichè le w; sono, per ipotesi, funzioni di @, le w; (efr. le (16)) sono funzioni derivabili rispetto a #, colle derivate al, continue e limitate senza eccezione entro S, c per {=> tv: inoltre dalle (7). ricordando che le G;; sono funzioni analoghe dUj a quelle di Green, e che le sono, come abbiamo visto or ora, continue e limitate entro S, risulta immediatamente che le %; ammettono le derivate parziali dei primi due ordini rispetto a %.y,s e queste sono continue e limitate entro S per {> £, ete =. e 11. Tenendo presente quanto è stato detto al n. 8 risulta quindi che, perchè il problema enunciato al n. 1 sia completamente risoluto. basterà che si dimostri che esistono tre funzioni di L: wi, wr, wsz che verificano al sistema (15) ed assumono per t=t, î valori di ki, kx, k3z. Perciò mostreremo: 1) Che al sistema (15) sono applicabili i risultati contenuti nella nostra citata Nota E (Estensione di alcuni precedenti risultati). 2) Che è soddisfatta la condizione, ivi stabilita, necessaria e suff- ciente per l’esistenza della indicata soluzione. 12. Cominciamo col dimostrare che è! sistema (15) rientra in quelli studiati nella nostra Nota E, ora ricordata. Do; yi) dI pag. 507) funzioni di £,, e quindi continue e limitate entro S, per {=> £, de- dv; dI° Infatti le per j=1.2,83 sono (cfr. la nota (2) al n. 8., rivabili rispetto a #, colle derivate continue e limitate nello stesso campo. Inoltre le [Guy sE n.0 GE te uranio, costituiscono entro S funzioni continue e limitate di una coppia di punti in S, non tutte identicamente nulle. Se (5,7,6) è wna funzione inte- grabile, insieme al suo quadrato, in senso di Lebesgue, nel campo S, le RAITRE IRIS RICETTA costituiscono funzioni di x,y, continue e limitate entro S. Infine sia 4, una radice (semplice o multipla) del determinante di Fredholm, relativo al sistema dei nuclei G;;(È,7,6|z,y,s): esisteranno allora tre funzioni Win(0,4, 2), Wen(d,Y 5), Wsn(£ -y. 2). che verificano al sistema: 3 (17) Win(% ' Y ù 8) “n Àn x — (=le fun n) GE. €12,90) dé dp db =0 S GEM 38o Dico che è A-<0. Infatti, dalla (17), prendendo il 4? da ambo i membri, posto mente alle solite (5), (6). Si deduce de de 18 d? n À a=" , A° n do m = = 9 (18) Y, ra Wi Wo 3 dON A°Wsn spo A3Wsn = => RexpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 76 ove si è posto: CIS Ual peg) da de =. D'altra parte dalle 17) si ha pure: Wan dWan ei È IG ; Ù ) = val sr: Tia da Ò in == (a do dY Tr dé ZI ( dI ul dY i d8 d fia, — An Win 5 + Won Y + W3n DE ISE I . St 2} i Dì ER) sur ln DE tene îI)) Wan > S ovvero (poichè le w,, sono nulle al contorno): dWin dWan dW3n 7 dWin dWen Zio dé da dé Try i 4nr Segue che o 4, è una radice del determinante di Fredholm relativo al 4rtr 47tr ovvero si ha nucleo —— ed in tal caso è negativo (poichè aa è un nucleo definito ), dWin dan BUS RESINA (19) 5 da tod pr =0è Moltiplicando le tre (18) rispettivamente per Win, Wan. Wan, applicando il teorema di Gauss, tenuto conto: della (19) e del fatto che le w, si an- nullano al contorno, si raccoglie: DIE (Ra (i) ato da cui, poichè le w; non sono tutte identicamente nulle, segue 4, < 0. Alle (15) possiamo quindi effettivamente applicare i risultati contenuti nella nostra Nota E. 13. Za condizione necessaria e sufficiente perchè esistano tre funzioni di ®, che verifichino al sistema (15), ed inoltre assumano per t= to © valori di ki kx, ks è (cfr. Nota E) che sia risolubile il sistema integrale di prima specte, 3 (20) S ( c:€,7.0) GE. C|2,4,) de DI CREMUREZIERO, i ; cd, — ki(a,y,8) j=1,2,8, DI = — 089 — le G;(8,n,6) essendo funzioni integrabili, insieme ai loro quadrati, în senso di Lebesque, nel campo S. | Questa condizione è soddisfatta. Dico infatti che le funzioni 0,03, o;, che si ottengono risolvendo il sistema di Fredholm 30 op &.n Ge tp = 21 ( ) i (3 id — 4h) Da \\ DIS = . \- verificano anche al sistema (20), (77 essendo insieme a v1, 0», v3 la soluzione del sistema (9), appartenente ad 2,). Proviamo anzitutto che il sistema (21) ammette soluzioni. Perciò si osservi che, detta u;, j==1,2,3 una soluzione del sistema omogeneo 3 o d ì (22) wi =D | tti 5, dS È o fut ca dS , ES gli i dS, i=1/S ZIO Co (poichè y1,y»,73 Sono armoniche in x,y.) tt, ts, uz sono le derivate di una stessa funzione armonica w, precisamente do è» d° dw 29 (23) u,= , bo = , Mg = uo > fui vi dS , 7/89 TO DdG dY da ii segue dui QUI dUz 24 == CÈ dx Dn dY ci dE È Posto allora Si (25) vi | ui Gi; AS =1 bo; onde si ha (cfr. formule 7): O DLE dA 060 ( :( Y )) =( i( Y 8 ) 2a Ki(& a 2), dI t=to dl tt onde è pure al contorno «= 0, e quindi in tutto S: e, = 0. Analogamente è eg= 83 =0 e ciò mostra che le 0; verificano al sistema (20). 14. Esistono quindi tre funzioni di Q: w,i,ws,wsz che verificano al sistema (15) ed assumono per t=t, è valori di k,,kx,kz: esse st cal- colano mediante il procedimento indicato nella nostra Nota B. Ciò prova che le condizioni (2) sono effettivamente necessarie e sufficienti per l’esistenza di una soluzione di (1) appartenente a £,. Per costruire tale soluzione si costruisce dapprima la soluzione vi, v2,03 di (9) appartenente ad Q,: si risolve quindi il sistema (15): le UU, 3 definite dalle (16) sono allora funzioni di 2, che verificano alle (7): unitamente alla p, definita dalla (8), rappresentano la soluzione di (1), appartenente ad ®,. Errata-corrige della Nota precedente: « Integrazione ete. » (Fase. 8, 27 ottobre 1912). Pag. 501 rigo 17 invece che /inite e continue > » leggi continue e limitate. — 587 — Meccanica. — Sopra le equazioni del moto generale e per- turbato di un filo inestendibile. Nota di MartTEO BorTAsso, pre- sentata dal Socio T. Levi-CIviTA (°). In una recente Memoria, il sig. E. Terradas (*), partendo dalle equa- zioni stabilite dal Floquet (*) per il moto di un filo (inestendibile). ha ottenuto le equazioni a cui debbono soddisfare gli elementi del filo e del suo moto, quando questo risulta perturbato, riguardando la perturbazione come infi- nitesima del 1° ordine. In particolare, son dedotte le equazioni date dal Léauté (‘) per le oscillazioni di una fune telodinamica, e possono ricavarsi quelle del Poisson, del Routh e del Maggi (5) per oscillazioni d'un filo in equilibrio. Le equazioni parecchio complesse, ottenute dal Terradas per la intricata via cartesiana, vanno modificate, perchè due certi angoli (d’ Eulero), conside- rati dal detto A. come infinitesimi, sono invece finiti. Mostrerò qui, nei nn. 1, 2,3, come si possano semplicemente ottenere sotto forma assoluta col calcolo vettoriale (°), oltre alle equazioni del Floquet, anche quelle (corrette) del Terradas. Quale esempio dei più notevoli casi particolari, considerati nel n. 4, si trova nel n. 5 l'equazione (a derivate parziali) da sostituirsi a quella inesatta data dal Terradas per le oscilla- zioni trasversali d'una fune di trasmissione. Per le oscillazioni longitudinali di tale fune si è espresso nel n. 6 lo spostamento del punto, e nel n°. 7 son state dedotte molto rapidamente le equazioni del Léauté. EQUAZIONI ASSOLUTE DEL MOTO DI UN FILO INESTENDIBILE. 1. Consideriamo il punto P(s,) funzione delle variabili numeriche indipendenti s,f, essendo £ il tempo; ed ogni linea f = cost rappresenti (1) Pervenuta all'Accademia il 15 ottobre 1912. (*) Del moviment pertorbat d’una corda, Arxius de l’ Inst. de Ciencies (Barcelona, a. 1911), pp. 71-96. (3) Sur le mouvement d’un fil dans l'espace, C. R. de l’Ac. des Sciences, tom. 115 (Paris, 1892, 2° sem), pp. 499-502. (*) Théorie générale des transmissions par cables métalliques (Paris, 1882). (°) E. J. Routh, Advanced part of a Treatise on the Dynamics, ete. (London, 1892); G. A Maggi, Sul moto di un filo ecc., Giornale di Battaglini, tom. XIX (1881). (5) Limitandosi anzi ai principii di tale calcolo; così le equazioni cinematiche son dedotte semplicemente dalle formule di Frenet, analogamente a quanto è fatto nella mia Nota: Alcune applicazioni delle formule di Frenet, Atti R. Acc. delle Scienze di Torino, vol. XLVII, 1911. loss, la posizione assunta al tempo # dal nostro filo. Potremo supporre che s sia l'arco della curva #= cost per qualsiasi valore del tempo 7, trattandosi di filo inestendibile. Per la stessa curva = cost, nel suo punto generico P, indichiamo con t,n,b la terna unitaria-ortogonale-destrogira di vettori diretti rispet- tivamente secondo la tangente, la normale principale, la binormale; con ri=@° la curvutura, e con —p; la torsione. Questi elementi sono legati fra loro dalle formole di Frenet (*): ot an db ds (1) i 01 LE =pb_ rt , sii E Se £(s,) indica un vettore tale che £(s ,/) di rappresenti la rotazione (istantanea infinitesima), che porta la terna t, n, b relativa al punto P(s,%) a coincidere con l’analoga terna t*,n*,b* relativa al punto P(8,04- 42), sì avrà (°): n db — — Q/ ; D — 9Q \ o — 9 pi (2) 3; \ta i An xy AD Da queste derivando rispetto ad s, per le (1), sì ha: DA Ted siii N 0 ii da cui segue subito: dA ha: PIA dPi È 0 bat sla È Indicando ancora, nel punto P(s,) del filo, con v(s, 4) = = la velo- pui ddl di E dt i cità assoluta, per essere — = — (È = A ) ia dalle (2) si ha: ds ds \ dd DIS (4) DI I dS RIS Questa e la (3) rappresentano, sotto forma assoluta, le sed condizioni cine- matiche date dal Floquet (loc. cit.) per il moto di un filo. Le tre equa- (*) Vedi, per es., C. Burali-Forti et R. Marcolongo, Elements de calcul vectoriel ‘+ avec de nombreuses applications, ete. (Paris. Hermann, 1910), 2e partie, ch. I, n. 2. (*) Cfr. C. Burali-Forti et R. Marcolongo, loc. cit., 22 partie, ch. II, n. 3; od anche: R. Marcolongo, Z'hReoretische Mechanik, Erster Band (Leipzig, l'eubner, 1911), Fiunftes Kap., pag 111. | Ii — 589 — sioni dinamiche dello stesso A. equivalgono alla semplice (ed ovvia, per il principio di D'Alembert) equazione assoluta (?): di sa (5) essendo, sempre nel punto P(s,) del filo, f(s,) la forza applicata (esterna) relativa all'unità di massa, T(s,#) l'intensità della tensione, e D la densità (lineare), la quale ultima si supporrà costante. Nelle complementari condizioni geometriche (1), (2), eliminando n, st ha: R dt my S = 7 A ° dt db (6) ds = r;bAt , = Pb \t 9 { le quali con le (3), (4), (5) daranno tante equazioni, a derivate parziali, quante occorrono e bastano per determinare (con le debite condizioni ini- nali e di ao) LATIANO 2. Dal detto sistema si hanno (in particolare) le equazioni per il moto piano del filo, quando, indicando la grandezza della velocità istantanea di dI Ri d0 : rotazione con 7 = xy (è quindi 7, = sì ponga: (e 9 (7) pi=0, b=cost , dA tali equazioni, dovute al Résal, ridotte a torma assoluta, sono, con la (5): dt on Deli. d de Ir d°0 (9) <= Aids == =SRUIOS DIETA | STARE ds dl dS Si ha invece il caso del moto stazionario di scorrimento del filo lungo una curva fissa, studiato dai sigg. Appell e Léauté, ponendo: (9) va=ovt, con v funzione della sola %; se inoltre “yuesto moto stazionario è piano, con le (8) sì avrà: dala o DOMMITOT I VEC ce) dea e pa)t+: (8 - ai .Si hanno infine le equazioni d’equilibrio del filo, ponendo v=Q=0. (3) Per riconoscere l'equivalenza della (5) con le equazioni dinamiche del Floquet si osserverà che, siccome t,n,b dipendono da £, il vettore le cui componenti sopra tale terna sono le derivate rispetto a delle corrispondenti componenti di un dato vettore Ì F 3 V(t), per le (2) è esuale a FT +VAL (cfr. per esempio, Routh, loc. cit., P. II, Ch. I, (04 nn. da 5). è — 590 — MoTOo PERTURBATO DEL FILO. 3. Supponiamo ora che nell'istante generico #, per una perturbazione del moto, ognuna delle grandezze variabili dei nn. 1, 2, relativa al nostro filo, subisca una variazione che designeremo premettendo il simbolo d alla grandezza considerata, e che riguarderemo come infinitesima del 1° ordine. È chiaro che per le grandezze così perturbate Q+d2,v4+ov, f+df , T4+0T, +02, +91, t4ot,n4on,b-+0db, potranno scriversi delle equazioni affatto simili alle (1),...,(5); e in forza di queste stesse equazioni, limitando l'approssimazione al 1° ordine, fra gli elementi d£2 ,..., db della perturbazione, sussisteranno le seguenti equazioni : | dt dt | ud dr.,n+7,0n, da Q/\dt-t/\09, ) don i don (11) | n Op, bT_ d7..t+pòb—r,dt, dv = 2/\dn-n/09, 20b =— dp.n_-p0N, sh _ = 2/\dh — b/\d9, ds Ù | Ste np Sp pa, (12) < sr gnit_tn09, Sa alga na SI t4( (dt + Tar) n + Pon |. Giova osservare che, potendosi considerare d come un simbolo di diffe- renziazione, le (11) e (12) si possono senz'altro ottenere differenziando con d 10 (1) cog(O Le (12) corrispondono alle nove equazioni generali del sig. Terradas (loc. cit., pp. 76-77); le quali ultime però vanno tutte modificate, come si è detto, perchè degli angoli di Eulero 0, g',w', là considerati e relativi alle due terne n,b,t e n+on,b4- db, t+dt, i due ultimi non sono infinitesimi, ma è tale solo la differenza dei loro moduli ('). (1) Nelle stesse formule si riscontra (nella 1% e nella 72) qualche dimenticanza, facile conseguenza della complicazione del metodo seguìto per dedurle. — 591 — CASI PARTICOLARI. 4. Quando il moto primitivo (non perturbato) è piano. basta introdurre le condizioni (7) nelle (11) e (12), oltrechè nelle (1),..., (5). Nell'ipotesi che sî conservi piano anche il moto perturbato, devesi tener conto, con le (8), delle condizioni : (77) dp, =0 , db=0 , de=07.b; ed allora, poichè n=bAt , în=b/dt, le (12) diventano: ddr _ ddr ddt _ ddv MO — 1 30(Tt) Vena aao di ds (13) b) le cui due ultime equivalgono alle (3), (4) del Terradas (loc. cit., pag. 78). Dalle espressioni di 7 ed r,, applicando d, si ha: 200 700. (14) dr = DE re — o essendo inoltre dt=n X dt.n , àn= — nXdt.t, dalla 1® delle (11), dalla 22 delle (13), per le (8) e (14), sì ricava: d(nXot) _ 306 d(m X dt) _ 300 dg SO di na da cui seguirà: (15) dt=d0.n , don=—d0.t. Se il molo primitivo è stazionario, di scorrimento del filo luugo una linea fissa, occorre introdurre le condizioni (9) nelle (1),...,(5) ea (11), (12); sì dovrà in più tener conto, nelle stesse equazioni, delle (7), quando tal moto stazionario è piano: si hanno così sotto forma assoluta le (5), (6), (7) (debitamente corrette) del Terradas (loc. cit.. pp. 79-80). Quando si supponga slazzonario e piano il moto primitivo e che si conservi piano il moto perturbato, dovranno inoltre tenersi presenti le (7’); e con le (8), (10), (14), (15), sì avrà: (16) a DIL ) d$ dI dv dd i a D — ri D90)t+3 (n Volendo limitarsi alla considerazione delle perturbazioni di un filo in equilibrio, basterà fare v= = 0; se il filo giacesse inizialmente in un piano, si dovrebbe tener conto delle (7), e, per oscillazioni piane dello stesso filo, basterà porre v= = 0 nelle (16). Renpiconti. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. Ul — 592 — ALCUNE APPLICAZIONI. 6. Consideriamo una /ume di trasmissione del moto fra due puleggie (e sensibilmente orizzontale), la quale sia soggetta (nel tratto libero consi- derato) alla sola forza esterna di gravità; è il caso, per es., delle funi me- talliche, che nei moderni impianti telodinamici s'impiegano per trasmettere dei lavori considerevoli anche a non lievi distanze. Si supporranno costanti il raggio di curvatura 0 = rr! (relativamente grande), la grandezza v della velocità del moto stazionario (piano) non per- turbato e quindi anche 7 [ved. le (10)]; inoltre, per brevità di scrittura, poniamo D= 1, cioè sostituiamo T a T/D. È pure f= — gn, essendo 9g l'intensità dell’accelerazione dovuta alla gravità, poichè si riguarda la saetta come molto piccola, e df = 0 per l’as- senza di forze esterne perturbatrici. Dalle (10) si ha poi: DOO! (17) > = as a gi rid — 02) - Si vogliano studiare le perturbazioni trasversali uscenti dal piano ver- ticale della fune e dovute a difetti di centramento; dalle due ultime delle (12) e dalle prime due delle (11), moltiplicando scalarmente per b (che è costante), si ha: d(bXov) — A MEET 16) \ IS di | RAR Ipo PS dd da cui, per la 2* delle (17): TOSO vdt)] da; db X (dv — vdt)] E boni dS Derivando rispetto a #, dalla (4) delle (11), la 1 delle (18) e delle (12), tenendo presenti le (7), le ipotesi di 7,7,="9°, v costanti, sì ha: >°(b X dv) IX IV) d*(bX ov) _ (19) ag dee pn ___., D°(bX dt) » (DX dt) mi di sat Ba equazione che va sostituita alla 2* di pag. 83 del Terradas (loc. cit.), dalla quale differisce, perchè contiene il 2° membro che, per la sua deduzione inesatta, il Terradas indica come nullo. — 593 — dT ds le (10)], con df=0,v=cost, D=1 nelle (16), si hanno le equazioni per le perturbazioni longitudinali (0 piane) della fune del n. 5 sufficien- temente tesa: 6. Supposto infizitesimi tanto 7, (e perciò 7) quanto f Xt= [ vedi dd 00 dv dIT 200 (o e. > - ue Derivando, per le (8), si ottengono le equazioni: d° d6 Vi d*dT n =) == Go) di ds? "05 le quali. risolte, dànno: d0=F(s+VT)+F.(s—-T% , IT=sfi(M+/(. ove T—= 09 — v® e le F, , F., f1, fa sono funzioni arbitrarie a determinarsi con le condizioni iniziali ed ai limiti; la /;(?) sì riterrà, per comodità, come derivata di una funzione /1(4). Dalle (23) si ricaverà allora: dv=f()t+VT[F:($+ VT) —F:(s—-yTo]n, MENTON d ; e poichè Si IO = AVI n dP=dt=d0.n, come espressione dello sposta- lc c mento del punto generico della fune sì avrà: (22) dP =( MAO a) t+( {06 8) n, da sostituirsi alle espressioni di pag. 90 del Terradas per lo studio fatto, da questo A., delle vibrazioni del filo (in varie ipotesi) mediante la solu- zione esponenziale della 1 delle (21), dopo aver in questa posto s=0 — v/.. 7. Le perturbazioni longitudinali, dovute, per le funi di trasmissione, ad irregolarità del lavoro motore e resistente, sono praticamente le più im- portanti negli impianti telodinamici. Per il caso generale di tali pertur- bazioni basta porre df=0,v= cost, D=1 nelle (16) per ottenere le equazioni che comprendono le (12), (16) del Terradas. Introducendo l’ascissa curvilinea o =s + v/ del punto mobile della fune a partire dall'origine degli archi s, ed indicando allora con fs la fun- zione di o, 7, che s'ottiene sostituendo o — v/ al posto di s in una funzione (GE 650) Sme ea) Pidfa . dodo fe de de ds do di DI dl d0 DI DIS — 594 — Le (16) assumeranno quindi, nel caso in esame, la forma: dÌvV dot dt 200 olo, ) = 3. | e=== lc —> dé 30 Va —, (Po DIE dv IT esi 24 == = ie n i (24) 3 3 Gul 7) d0 +e ++ | ove per brevità, si è continuato ad indicare con dV,..., le (0V)c,.. Da queste equazioni si deducono molto rapidamente le equazioni del Léauté (loc. cit.) che il Terradas ricava dalle sue nelle pp. 76-78 (loc. cit.). Dette perciò a=t XdP , 8=nXdP le componenti tangenziale e normale dello spostamento dP, per le (8), (15), (23) e per essere = dP= d0.n, si hanno subito le prime due equazioni del Léauté: dE —, MSI) Le, DER gta 30 =rnXdPH4tX2it= 7,8, 9 Ri Pr, ogsia: de ZIA ; RE. gna do Q do Analogamente, poichè per le (24), (8) e (10) risulta essere: do ds BUS D) to È ta, EB n) =) n =0, MW ds di 2 (9P); dB) — p 3 (9P), = dv— vdt dalle (8), (15), (24) stesse, riguardando sempre «,f,... funzioni di 0,4, seguirà: d d dg 5 =nXdv— v00, dia Idv HF dv 200 =tX 5 =" — v 7 BLA Ù dl Do dI di e per la 2 delle (24) si hanno senz'altro le altre due equazioni del Léauté: REG OL o T DEL do Q se 3 QU dI DO, SERA PA RNC È tal een 0 i = + 9 - > d0 . d0, RO — Matematica. — Sopra le vibrazioni armoniche smorzate di un corpo elastico immerso in un fluido. Nota di E. LAURA, pre- sentata dal Socio C. SOMIGLIANA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Matematica. — Derivate successive di una funzione di più variabili. Nota di Guipo FUBINI, presentata dal Socio E. D’Ovipio (). Per rapidità di locuzione, noi diremo che una funzione gode in gere- rale di una certa proprietà per dire che essa ne gode in ogni punto, eseluso al più un aggregato di punti di misura nulla. Analogamente, quando diremo che un certo ente (punto, è generico, intenderemo che gli enti esclusi formino un aggregato di misura nulla. Queste locuzioni abbreviano molti enunciati e dimostrazioni. Il teorema, che dimostreremo e che senz'altro si estende a funzioni di m>2 variabili, è il seguente: Stia f(x ,y) una funzione delle x,y; esistano per un qualche valore DI def DI DITA di n le ant ay 3g gn PT MZ 1) If dY n (e quindi anche le La sia integrabile insieme al suo quadrato (*) e su una retta Di dI 7 dy relativo a un qualsiasi segmento, tutto interno al campo considerato, sia uguale alla differenza dei valori qe SIE dyT negli estremi del segmento. È Dei Una proprietà analoga valga per i i Allora la funzione f(x ,y) possiede in punti generici tutte le deri- vate parziali di ordine m=n, soddisfacenti al teorema dell'invertibi- lità dell'ordine delle derivazioni, integrabili insieme al loro quadrato. i h+k E per esempio |EgZ4 LE d la ag x su una retta generica y= cost (h>0; (*) Pervenuta all'Accademia il 20 ottobre 1912. (3) Da ciò segue già (cfr. la Nota dell’A.: Sugli integrali multipli, in questi Ren- diconti 1907) che tali derivate sono linearmente integrabili su una retta generica 2 = cost oppure y = cost. > Baù Yp+E1 h+k= n) vale la differenza dei valori di dgr agi nei punti (2,4) CL): Le derivate di ordine n—2 sono în ogni punto finite e continue; le derivate di ordine n—1 sono funzioni delle x finite e continue su una retta y= cost generica, funzioni della y finite e continue su una x= cost generica. Le ipotesi fatte sulle derivate di ordine x sono già soddisfatte nel caso generalissimo in cui tali derivate sono limitate. Sia Q un quadrato interno al campo da noi studiato e limitato da rette generiche, che, senza diminuire la generalità, possiamo supporre essere le rette 7 =0.x=7,y=0,y=%z. Tra le funzioni g(x,y), tali che sul contorno di Q la g e le STIPSI ol CIMA per m <= —2 assumano gli stessi valori della / e derivate, che altrettanto avvenga în generale per m=n—1, che le derivate di ordine m = % soddisfino entro @ alle stesse proprietà presupposte per le derivate analoghe della f(x ,y), scegliamone una che entro @ possegga (') tutte le derivate parziali (di ordine anche maggiore di 7) finite e continue. Noi sostituiremo (?), com' è lecito, allo studio della /(x , y) quello della v(x,y9)=/(c,4) — g(2,9), che soddisfa alle condizioni imposte dall’ipotesi del nostro teorema alla dv dv deg? dot per 4 =n—2, ed è tale che queste derivate si annullano nei punti gene- rici del contorno di Q per #A=% — 1. Imporremo alla v(x,y) le condi- zioni v(—x,y)=— (2,9), a, —y= —- 0,4), (a +27,y)= =v(2,y), v(,y+ 22 =v%(x,y) che ne definiranno il prolungamento in tutto il piano. Potremo porre nel senso di Hurwitz entro il quadrato R definito dalle 0e= RARO y = 7 f(& ,y), che di più si annulla sul contorno di Q insieme alle (1) v(&,Y) > D dpa SON pa sen py ; P Yn 2 n 2 (') Basta scegliere p. es. quella g(2,y) per cui SI 3) HS] da dy ha il minimo valore (cfr. la Memoria dell'A. nei Rend. del Circolo Matem. di Palermo, tomo 23). Si potrebbero anche usare i metodi dati da E. Levi a pag. 79 e seg. della Mem.: / problemi dei valori al contorno ecc.» Mem. dei XL (1909). Così si potrebbe anzi ottenere che sul contorno di Q la v(2,y) fosse nulla insieme alle derivate di ordine men. (*) Se n= 2, si potrebbe più semplicemente porre Ya ,y) =f(@,4)+f(0,0)—f(0,y) — f(2.0), e quindi ni (1, 7). SES oe, y)=ulc,y) —Lyle,m Tula. y) + — 597 — dove la serie al 2° membro è convergente in media, e definisce la v(2,4), eccettuato un aggregato di punti di misura nulla ed è integrabile (') ter- (1) Essendo v(2,y) integrabile, per un teorema di Fatou è 1 o 2) ve, y) de dy = Za?pa. La dimostrazione degli enunciati del testo (teorema di Fischer-Riesz) si compie sempli- cemente con un metodo da me già dato nella citata Memoria di Palermo. Poichè Za?pq (co) (e) x . Ù . . . . . converge, sarà lim SEO a°pa = 0. L’apice indica qui che nella sommatoria almeno uno n=%0 p=n q=n degli indici p,g9 appartiene all'intervallo corrispondente (x , 00). Posta questa sommatoria 1 uguale a 0, potremo trovare degli interi crescenti on, ,@n,;. tali che Y 23. converga. > ci È 4 Sàra / n;+1 UD } (a) (L ) dpq sen pa sen qYy — Da Apa Sen più sengyt da dy =T°0n,, Tal p,9=1 PA cosicchè il gruppo Gn, di punti, ove la differenza tra | } supera in valore assoluto la 1 L UT ha misura minore di 9x,. E l’aggregato Tn, = Gn, + Gap ,i t Ganga + ha mi- L RIE L sura inferiore a Rx = Ci, + Oa si an Poichè T,, contiene Tn,,,, qualunque sia 4, e poichè lim Ra =0, l’aggregato I" comune a tutti gli aggregati I, ha misura nulla; e in un punto non appartenente a T è, « partire da un valore della i abbastanza grande Miti n; 1h (8) DI Apa SEU PI Sen QY — x Apg SEN PX Sen gqY iS 0}, : P,IF1 p,g=1 Se noi dunque nella serie del testo aggruppiamo i termini in guisa che n;+1 US x Upg Sen par sen QY — DI Apq Sen pa sen QY P.dF71 P,I71 sia il termine generale della nuova serie ottenuta, questa, per l’ultima disuguaglianza, convergerà assolutamente in un punto generico, cioè non appartenente a T. Per (*) e per la nota disuguaglianza di Schwarz la serie degli integrali dei valori assoluti dei termini di tale serie converge; e quindi la serie è integrabile termine a termine. Anzi la serie ottenuta integrando la (1), che noi sappiamo così convergere quando i termini sono ag- — 598 — mine a termine. Così pure sì potrà porre: DEO da” | cos pa ( sen pa, > I bpa Sen 9Y dove con la notazione qui adottata intendo che si deve scrivere cos pa 0 gruppati in modo conveniente, è senz'altro convergente nel senso più comune di tale parola. Infatti, se n > , m'>m, il resto di tale serie n Ni w dpq Sen pa sen qy da dy | < / /R pen gem m' a Si VS(aa Ùi dx dy e DI Apa Sen px sen v | da dy < CR n! m' = VS Fans S Sa da dy-n 3 x Apa n m tende a zero per n=00,m= 0%. La v°(2,y), essendo integrabile in R, è integrabile p. es. su una retta y= cost generica; sulla quale varrà analogamente la (e0) e(2,y) > apsenpa, “I ove } TANT on=7 v(2,y)senpa da, î_)-r cosicchè ed è perciò integrabile rispetto alla y. Sarà così: Col >» Bpa Sen QY; q e quindi £,Y) z > (De log Sen d) sen pl. : q E poi: 1 I 0a = (2, y) sen pa sen qy da dy = ni sengydy |vx,y)sen pe de = o l = 1 (sen qY bpq Sen 11) e + g(y) + x = (D bpq Sen 1) TI p ron AA \ (2 pari). nel Osservando che per ipotesi pg Sen vw) 7) We (20° Tal pl Così continuando, si troverà: d 1 SD (D bay sen 99) pa cosa da Re: Tp p e quindi: v= [Rgde= =D (S 0 80 09) pi senz VA) I coefficienti 2,9 sono dunque uguali a = p"apg; così i coefficienti dello n v » + dl » . >] 2 saranno = q"@pg. Convergeranno dunque le serie > (P"Up9) sviluppo di ay” e D(9"apa)?; è, poichè (p*g"”)P = p® 4g?" per men,0 (4p9 p"g"7%)?, ossia le > (p'a'ap9)? M+k=n;h.k=0,1,2,..) P,4 CS) (0.0) RenpIconTI. 1912, Vol. XXI. 2° Sem. — 600 — To dico che quindi convergono assolutamente ed uniformemente le serie D_ pPg" Pap {sempe sn 1g p ‘ è TIM ( cos pa l cos qy WANS29E dove è scritto indifferentemente il sen px o cos pa, il sen gy 0 cos gy. Infatti Dn, | sen px (Sen qy )= (>| 1 49 | cos qu (cos qy — N PligrrE1 q. ; fo q <= Dia 23) cos par | cos 9Y \ p q / \ sen gy/\ ° I ne NNO peg q = PD P Tgr COS YY q - 1 «i DE, > Da =; x PIE | : o P p qll tg e la serie > (p’+!9%+!4,9)? dell'ultimo membro converge, perchè #1 + 1+ Pg +m_-h+1=Mm+2=% peripotesi. Le nostre serie definiscono dunque funzioni continue, le quali saranno pertanto le derivate della v di ordine m=n—2. Resta così provata una parte del nostro teorema. Per comple- tare la dimostrazione consideriamo le serie per m < x (sen px (sen gy . ( cospa (cos qy ” = S prvrgmot=rg (4-cospz (+ cos gy "i P1|—senpx | — sen gy, Mia niym_-h-2 w= DE paio dove nella seconda è scritto cos pa, se nella prima è scritto sen pa, ecc. La prima serie come ora si è dimostrato, definisce una funzione tinita e continua; la seconda una funzione £ integrabile insieme a £*, perchè con- verge la serie dei quadrati dei coefficienti (perchè 14-14 m_—Ah—-1= =mzn). Sarà: GY i x eos Da (CY O J il tda dy = Do dI da ( COS PL I dy ( COS /Y 208 (— senpa. \ — sen 9y ( sen pe | sen gy DI = v gh+lgm=h+1g,- 4 A o |cospa L | cuao I L, PIA — 601 — Poichè anche le serie che si deducono dalla «(x ,y) ponendo 1 in | sen px di ( sen gy è cos pa ( cos Qy duce immediatamente: luogo di o di entrambe sono convergenti, se ne de- i) idedy=w(e,y) +X+Y, 0 dove X è funzione della sola @, Y della sola y. Tanto basta per affermare du : 3 che in generale = = 03 dal che si deduce immediatamente che le da dY serie dedotte dalla > 4,, sen px sen yy derivando non più di x volte rispetto alla x, od alla y rappresentano effettivamente le corrispondenti derivate parziali di v(2, y). c. d. d. Riassumendo le derivate di ordine 7 = 7 sono date dalle /(x ,7), ove si pouga m=7 ed esistono generalmente; le derivate di ordine 2 — 1 se ne ottengono integrando, e sono finite e continue su una retta generica; le derivate di ordine m < n —2 sono dappertutto finite e continue. Meccanica. — Swi moti stazionarii nel caso della Kowalevsky. Nota della sig.na CLELIA SILVESTRI, presentata dal Socio T. LevI- Civira (*). In una Nota recente (*) ho rilevato che, per completare le ricerche del Levi-Civita sui moti stazionarii nel caso della Kowalevsky, rimanevano da precisare le condizioni di stabilità per due tipi, chiamati @) e d), costituiti ciascuno da co? soluzioni particolari, e provenienti. rispettivamente, dal solo integrale delle aree e dal solo integrale della Kowalevsky (rimanendo esau- rita la classe più ampia che sfrutta entrambi gli integrali ad un tempo). In questa prima Nota, dovrò (per ragioni di spazio) limitarmi allo studio del tipo «). Col permesso dell’Accademia esporrò, in una Nota successiva, quanto si attiene al caso 8). 1. Moti provenienti dall’integrale delle aree. — La funzione caratte- ristica del sistema canonico che definisce il moto di un solido nel caso della Kowalevsky può scriversi sotto la forma: 2 cos 3 È 1 ISIN costs Lr * sen?4 I) ni sen?4 1 DI Pep +51} — sen 9 cos 1) Pervenuta all'Accademia il 21 ottobre 1912. (Î) (*) Cfr. precedente fascicolo di questi stessi Rendiconti. — 602 — dove d,/,, designano (colla notazione di Kirchhoff) gli angoli di Eulero; Pz; Pf. Pe, le relative variabili coniugate ('). L'integrale delle aree, in queste variabili canoniche, assume notoria- mente la forma ACE (c costante). I moti stazionarii provenienti da tale integrale si ottengono (secondo la regola di Routh-Levi-Civita) esprimendo che in siffatta accezione, è nullo il differenziale ÎH. Ciò esige che sia: TT d1) p3=0 , pr=-0 ; 9- ,f=0; ovvero s=0 Re, © Az) Ps = » Pre È) mio li o infine 5) ps=0,pr=p ; 9=d fr essendo +, e p° definiti, rispettivamente, da cè send L MERGSS I 0 S (14 sen* 4)? 15 ©) D;(1+4 sen) + c cost =0. In tutti e tre i casi si tratta, come facilmente si riconosce, e come, del resto, è ben noto, di rotazioni uniformi del solido attorno alla verticale. Nel corpo stesso l’asse di rotazione coincide coll’asse baricentrico nei casi 4) ed a»); e per conseguenza il centro di gravità rimane fisso. Nel caso 43) l’asse suddetto può trovarsi diretto, entro il solido, secondo un qualsiasi diametro di quel piano meridiano dell’ellissoide d'inerzia che contiene il baricentro. i 2. Rotazione a baricentro fisso. — Il centro di gravità H giace sulla verticale che passa per il punto fisso 0, al disotto di questo nel caso @;), al disopra nel caso 4»). Se ci si lasciasse guidare dal criterio puramente statico di stabilità si sarebbe indotti a ritenere stabile il caso 4,) ed instabile il caso 4») ed è ciò che ha trovato il Levi-Civita applicando materialmente la regola di Dirichlet-Liapounoft. Ma le limitazioni ad essa imposte (?) ne assicurano la (') Per maggior semplicità ho posto eguale ad 1 la costante di omogeneità che il Levi-Civita designa con s*, ciò che può sempre farsi (senza scapito delle generalità) ha- stando all’uopo imaginare scelta l’unità di tempo in modo opportuno. (3) Cfr. la mia Nota, loc. cit. — 603 — validità, in tal caso, solo per quanto concerne il eriterio di stabilità. Ri- mane, quindi, fuori di discussione la circostanza, già rilevata dal Levi-Civita che il caso a) è stabile; mentre conviene ricorrere alle piccole oscillazioni per riconoscere il comportamento del caso ds). Ponendo: elimini co ; RES 8 e limitando l’espressione di H ai termini di second’ordine, rispetto ai quattro argomenti pz, p;,9,f, si ha: 1 2 2 6 )X2 DL* * Hs= lp +29; + (0° —2) °° — 2/4 2c8*pr}. Le equazioni che detiniscono il moto [nell'intorno della particolare soluzione a»)] sono in conformità: Ceo Li); RA a CT ee — d* 1 Pili TICO DIDO da 200 di e 9° La relativa equazione determinante è: 1 JÌ : À nio g (6-2) 0 0 À 0 — 1 4(4)= = +2D'4A+-D=0, 2 0 — 4 0 al i 2 Il ; 0 Tal — A dove D=i(2-6), Dede). X chiaro che D e D' non possono essere entrambe positive, perchè le due diseguaglianze, CIO MONICA non possono coesistere. Ne consegue che le radici 4° della equazione deter- minante non sono tutte e due negative e quindi si ha instabilità. — 604 — Si giunge così precisamente alla conclusione indicata dal prof. Levi- Civita, conforme al criterio statico. Non era tuttavia evidente, 4 priori, che si dovesse ritrovarlo, potendosi eventualmente pensare che si presentasse un fenomeno analogo a quello ben noto della trottola in cui, pur giacendo, il baricentro sopra il punto di appoggio, si ha stabilità con una rotazione ab- bastanza forte. 3. Rotazioni a baricentro mobile. — Introducendo una variabile au- siliaria nei (14 sen®%) pr+ e cos d sen 4 J/1+ sen?9 la H. fattavi pg=c, può essere scritta: c* sell 2 2 I e LA < ; H= (+5 (1 ar —25en9 008 /). Posto ancora Dip pî. li ie si sviluppi H nell'intorno dei valori nulli di pz, pf 4*,/*. Con calcoli semplici si trova subito, in base alle (1). (2), l 1 (3) H,= 4 |P e i 0a Io ft, dove (4) 2 cos'v,(1 — 3 sendo) v = send, 1+sen°d ed «*, il quale non è altro che la parte di primo ordine della precedente espressione di «, è dato da: apî + bI*, 10 (*) __VI+ sen? 4 \ppy=pp,9=% sen%, essendo 0=(35) ou 2+ cos? 4 Bo. dI /pr=pr° ,9=80 V/sen 9,(1+ sen? do) Le equazioni che definiscono le piccole oscillazioni sono (in base all'espres- sione (3) di H, e ricordando che #* sta a designare ap} 4 04%): dpz 1 dpi 1 ALII — Ss SI 9, f* O di go 9 0° > Seno/i00 CISU ITA CIRO FE de — 605 — 1 * Ora nel sistema (5) dapprima sostituisco alla di la de* 1 ag a +30 Da eppoi derivo ulteriormente le equazioni in #* ed «*, con che vengono eli- minati gli altri due argomenti pz ed /*, ottenendo così l'equivalente sistema di second'ordine: verticale La relativa equazione determinante [notoriamente identica a quella spettante al sistema canonico (5)] è: +); W {8 + e send =0. Per » negativo, non tutte le radici possono essere puramente imaginarie: c'è quindi instabilità. Viceversa, è facile di accertare che per v > 0 le con- dizioni di stabilità sono effettivamente soddisfatte. Dalla (4) apparisce che v è positivo o negativo secondo che sen? 3° è => oppure di Tale è pertanto la discriminante della stabilità. Per l’interpretazione geometrico-cinematica conviene ricordare: 1°) che + rappresenta l'angolo fra la verticale e l’asse di simmetria (od asse polare) 0z dell'ellissoide d'inerzia del corpo; — 606 — 2°) che i semiassi polare ed equatoriale, di tale ellissoide, stanno 1 " ; Sas fra loro come ‘So talchè la diagonale del rettangolo costituito sopra di : : 1 essi forma col semiasse 05 un angolo x avente per seno o) 3°) che nella rotazione in questione la verticale è diretta, rispetto al corpo. secondo un diametro del piano meridiano baricentrale 20G, gia- cendo il baricentro G al disopra di 0 (1). Da tuttociò si raccoglie che la condizione di stabilità sen? %, @@#@-@@@_@@g@P@Ér@»@@@@@@&@@@@——@@u@cTtò@ccos-eet l’urea, gli ureidi e altri derivati ammidici, il cianuro mercurico, mentre altre sostanze, come gli alcooli, eteri, solfuri, seleniuri, cianuri organici, pre- sentano una addizionabilità più limitata e son perciò di meno interesse per uno studio preliminare. Poichè i sali wranilici ordinarî dànno colle ammine un precipitato di pirouranato, insolubile nell'eccesso di reagente (!), si può tentare di ottenerne composti di addizione solo colle basi debolissime come la urea e tiourea, o i corpi neutri come il HgCy3; invece gli uranilosali complessi, dove l'uranio fa parte dell'anione, possono essere cimentati anche con qualche ammina delle meno energiche. I criterî che han servito di norma sono stati i seguenti: Se il sale uranilico e la sostanza organica son capaci di dare per mescolanza un com- posto, e questo è meno solubile dei componenti, ne è ovvia la preparazione e il riconoscimento. Ma se tale separazione non ha luogo neppure dalle so- luzioni sature, può ancora darsi che il composto esista, limitatamente allo stato di soluzione, perchè, secondo la legge di massa, deve sussistere in essa un determinato rapporto fra la concentrazione del composto e il prodotto delle concentrazioni dei componenti, eventualmente innalzate a opportune potenze: può darsi quindi che anche quando queste ultime hanno raggiunto, colla saturazione, il loro valore massimo, la soluzione non sia ancora satura rispetto al composto. In questa eventualità (poco probabile nel caso dei sali uranilici più solubili, e indizio in ogni caso di poca stabilità del composto) un altro criterio può trarsi dall'aumento anormale della solubilità dei com- ponenti, ed esso riesce particolarmente comodo ad applicare nel caso di un componente poco solubile. Sotto un'appareuza un poco diversa, si ha lo stesso fatto nell'ostacolo che la presenza della sostanza organica oppone alla for- mazione dei precipitati caratteristici pei sali usuali del metallo. Altro cri- terio può aversi, ove le condizioni sperimentali lo permettano, dalla ripar- tizione del sale metallico fra l’acqua e un altro solvente non miscibile: se questa, in presenza della sostanza organica, è spostata a favore della fase acquosa, se ne può dedurre che la più gran parte del sale sì trova impe- gnato in un nuovo composto. Qualora tutti questi saggi dian risultati sfa- vorevoli, non si può ancora escludere totalmente che possa esistere un com- posto fra sale e sostanza organica, poichè, trattandosi di soluzioni concentrate, i criterî sono di solo ordine qualitativo: si può però concludere che, anche se esiste, la sua stabilità è piccolissima, e ciò è già molto dal punto di vista della sistematica. (1) La letteratura può vedersi nell’ultima edizione dell’anorganische Chemie di Gmelin- Kruut: citiamo solo, fra i lavori recentissimi, le osservazioni di Simssen sull’etilendiam- mina (Chem. Centr., 1911, II, 640) e di Salvadori sull’idrazina (Rend. soc. chim. ital., IZ 0) — a Seguendo questi criterî, sì è constatata una addizionabilità praticamente nulla nei seguenii casi (di cui daremo i dettagli nella Gazzetta chimica): cianuro mercurico, urea, tiourea di fronte al nitrato uranilico; urea, esame- tilendiammina di fronte all'ossalato uranilico; esametilendiammina, anilina, piridina di fronte al pirofosfato, malonato, succinato complessi di uranile e sodio Sembra adunque che, sia come catione sia come anione, l'uranile non abbia tendenza ad addizionare 1 composti azotati; ma a schiarir meglio la cosa abbiamo voluto studiare i sali uranilici di qualche amminoacido, dove sì viene necessariamente a introdurre nella molecola il gruppo amminico. facilitandone così di assai l'addizione, per poco che il sale metallico ne sia suscettibile. E realmente, il più dei loro sali sono sali anomali, assai più stabili di quel che corrisponde alla forza dell'acido e della base che li co- stituiscono, e che non dànno, o male, le reazioni tipiche del catione, appunto per la loro natura di complessi interni, come risulta dagli studii del Ley e, fra gli italiani, del Bruni (!). Abbiamo così tentato preparare i sali degli acidi amminoacetico, aspartico, amminobenzoico, solfanilico. Seguendo il procedimento usuale per gli amminoacidi, si provò dapprima a digerire con una soluzione concentrata di glicocolla l’'idrato uranilico o anche il pirouranato potassico avuto per via umida; ma rimasero inattaccati. Tentando la doppia decomposizione fra solfato di uranile e amminoacetato di bario, l'uranio precipitò completamente come sale basico. Sembra dunque non vi sia tendenza a formare un sale internamente complesso, e che la glicocolla agisca solo per il suo carbossile, che sì sa essere debolissimo. L'aspartato si ebbe per doppia decomposizione, versando una soluzione di nitrato uranilico in una di aspartato monosodico. Si ha un precipitato fioccoso, ma ben tiltrabile, di color giallo verdastro, un po solubile in acqua, insolubile nell’aspartato alcalino, che ha dato all'analisi questi numeri: Trovato °/, UO; = 48,0; N = 4,90. Calcolato per UO:(C.H3N0,): + 3H.0, UO, °/, = 48,68; N°, = 4.75. È dunque un composto definito. ma deve la sua origine solo alla maggiore energia dell'acido aspartico, e non sembra affatto uu complesso interno: infatti nell'acqua bollente si scioglie con una certa facilità, ma soggiace alla idrolisi, perehè si ridepone per raffreddamento con un aspetto diverso (polvere fina, che si stacca male dalle pareti) e la sua composizione è intermedia fra quella iniziale e quella di un sale UO, - C,LH;NO, pel quale si calcola UO3 °%/% = 71,37; N°%= 3,48: mentre si (è'trovato UO, = 60:56 RNA 4450 Nel caso dell'acido amminobenzoico la soluzione di questo, neutralizzata con soda alla fenolftaleina, dà col nitrato uranilico un precipitato giallo verdastro, insolubile nell'eccesso di sale alcalino, che, ottenuto a freddo, è tioccoso e male filtrabile, mentre a caldo si depone come sabbia cristal- (1) Bruni, Gazz. chim. ital., 1904, pag. 519, dove si trova la bibliografia precedente. — del lina. All'analisi ha dato: H,0%=11,1 (a 1009); UO; = 47,5; N= 4,88. Per UO:(C:H50:N):-+4H30 si calcola H30 = 11,7; UO3= 46,6; N= 4,55. Evidentemente il prodotto era un po' sfiorito. Il solfanilato sodico non dà, a freddo, precipitato con nitrato uranilico ; ma se si concentra la soluzione sub. m., sì depone gradualmente una polvere sab- biosa, giallo arancio, la cui composizione corrisponde a UO; . C;H,03NS+ H0, per cui si calcola UO03 °/j,=58,09; N°/= 2,84, mentre sì è trovato UO; °/,=" 57,8; N°/,= 8,16. La maniera di formazione accenna più ad un sale basico che non ad un complesso: se infatti se ne varia la preparazione, digerendo con acido solfanilico l’idrato uranilico, questo, senza sciogliersi, assume un colore più vivo, e il nuovo prodotto si avvicina per la sua com- posizione al sale normale UO -C2H0No$00; per cui si calcola UO; °/,= 46,66; mentre si è trovato: UO 0/,== 49,1; N°/= 4,03; 4,18. Poichè tutti questi sali di amminoacidi non presentano nulla di ano- malo per quanto concerne la loro stabilità e i loro caratteri, ne risulta con- fermata anche da questa parte la poca tendenza dell'uranile a dar complessi sul tipo del cobalto, nichel, cromo, ecc. Non è dunque in questa direzione che occorre cercare le analogie per ì persali scoperti da uno di noi. Notiamo pure che i risultati sopra riportati sono stati confermati da misure sugli spettri di assorbimento dei varii sali; ma su ciò ci riserviamo di riferire in seguito. Si è voluto estendere questi studii ai sali uranosi, che presentano cogli uranilici parecchie analogie (poca energia delle basì con facile idrolisi dei sali, tendenza a dare anioni complessi, ece.). Data la debole natura basica dell'UO,, era superfluo dì cimentare quei suoi sali che, come il cloruro, sì decompongono già coll'acqua, e si sono comin- ciate le indagini col solfato, sale dotato di stabilità rilevante, che risulta confermata anche dal presente lavoro. Esso sì è preparato per riduzione al sole del solfato uranilico con alcool (') per averlo allo stato solido, riuscendo facile soprattutto la preparazione del tetraidrato U(SO,)x+,4H:0, mentre dove ne occorreva una soluzione sì è preferito, come più sbrigativa, la riduzione elettrolitica. Questa soluzione dà con piridina ed esametilentetrammina un precipitato immediato di idrato nero, insolubile in eccesso di reattivo: ana- logamente si comporta l’anilina. Invece, operando in assenza di acqua, e cioè macinando in mortaio il sale solido sotto anilina e pividina, esso rimane inalterato. Non diverso risultato ha dato un sale tipicamente complesso. l’acido diuranossalico, avuto trattando la soluzione di solfato uranoso con soluzione concentrata e calda di acido ossalico: precipitò così lo stesso composto (1) Giolitti, Gazz. chim. ital., 1905, 4. 151-161. ReNDICONTI, 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 81 — 624 — 2U(C0:0,):, H:0:0,+8:H:0, già ottenuto dal Kohlschitter col cloruro. Sì trovò infatti UO ®/, 51,6, equivalenti di riducente al permanganato 1.29, mentre si calcola 50,52 e 1,307 rispettivamente. Questo prodotto, una pol- vere verde grigia, quasi insolubile in acqua, macinato in mortaio sotto ani- lina o piridina non cambia molto di aspetto, ma ai saggi analitici mostra avere assorbito quantità notevole di base, che per altro si è limitata a sa- lificarne l'idrogeno acido, senza ulteriore addizione. Si trovò infatti pel sale di piridina: 90, %= 49,9; 00=22,5: H %= 1,24; N%,=25807 mentre per 2U(C:04). . C.0,Py» si calcola: UO, = 50,23; C= 22,28; H=1,11; N=2.60 e pel sale di anilina: U0,%,= 51,0; C©=24%4; H_.1,%%; N=2,95 mentre per 2 U(C+0,)30,0,Ans si calcola: UO, =50,79; C= 24,79; HI==MS50E6NE=263. Da questi primi saggi, appare dunque che i sali uranosi si accostano: agli uranilici anche nella poca tendenza a dare complessi amminici. Non son molti gli altri sali su cui si potrebbero controllare ed estendere questi primi risultati, perchè la chimica dell'uranio tetravalente, è per ora, assai poco sviluppata, e per ciò si è creduto conveniente prepararne qualcuno nuovo, includendovi particolarmente i sali degli amminoacidi. Aspartato uranoso. — Si è preparato questo sale esponendo alla luce solare una soluzione idroalcoolica di cloruro uranoso e cloridrato di acido aspartico; ci interessava infatti di avere una soluzione omogenea, mentre l'acido. aspartico e l'aspartato uranilico sono poco solubili. Al sole di giugno si ebbe fin dall'inizio intorbidamento con deposizione di una polvere fina, verde biancastra. che aderisce un po' alle pareti, e che fu raccolta, lavata con alcool al 50°/, poi seccata fra carta. Le analisi hanno dato risultati diversi secondo i preparati, ma in complesso sembrano accennare a un miscuglio di aspar- tato basico UO(C,HgNO,), e di clururo basico UOCI,. Su questo composto continuano gli studi. Amminoacetato uranoso. — Per analogia col caso precedente si tentò prepararlo da una soluzione idroalcoolica di solfato uranilico e glicocolla in eccesso. Al sole si ebbe pure intorbidamento immediato con colorazione verde- bruno e separazione di un deposito semifluido, dello stesso colore. Questo deposito separato per decantazione dal liquido e ripreso con poca acqua, si solidificò in polvere verde grigia, e si dimostrò solfato uranoso, U(S04): +4H:0, che è già stato altre volte osservato sotto forma anormale (Giolitti). Si adoperò allora una soluzione di cloruro uranoso, e si osservò lo stesso imbrunimento della soluzione, ma sul fondo della bevuta si deposero piccoli cristallini di color bruno, in quantità scarsa, che non aumentò neppure per insolazione prolungata; all'analisi si ottenne UO, °/,= 77,0; N°/= 4,84. Per UO, C.Hs;NO, si calcola: UO, = 78,3; N = 4,04. I risultati ottenuti si potrebbero solo interpretare come di un complesso. interno, ma noi li diamo con molta riserva, perchè non van d'accordo colla. ice — 625 — poca stabilità di questo composto, che non cì è riuscito riottenere ripetendo la preparazione: speriamo di essere più fortunati in seguito. Succinato uranoso. — Lo si ebbe trattando una soluzione acida di solfato uranoso, ottenuta per elettrolisi. con un notevole eccesso di succinato sodico, che determinò un precipitato verde chiaro, la cui analisi diede: UO: °/,=66,8;.C°/,=12;0; H°/,= 2,15. Per UO.C,H,0j+42H;0 si calcola UO. = 66,53; C=11,80; H= 1,97. Come si vede, si tratta di un sale basico, nonostante l'eccesso di acido libero, e sebbene il succinico sia un acido discretamente forte. È per questa ragione che abbiamo attribuito la formula di un sale basico anche all'aspartato, non parendo verosimile la salificazione del secondo carbossile dell'acido aspartico, che è notoriamente debolissimo. Malonato uranoso. — Mescolando solfato uranoso con eccesso di ma- lonato sodico, la soluzione resta limpida: concentrata su b. m. in corrente di CO; depone una polvere verde cupa di solfato basico (Trovato UO.°/,= 70,6; SO3 °/,= 20,9. Calcolato per UO .S0,+2H.0:U0,=69,85; SO, =20,70). Esponendo al sole una soluzione idroalcoolica di solfato uranilico acida per solforico libero con eccesso di malonato sodico, si ha ugualmente separazione di solfato basico, non ostante che qui l’uranile esistesse già in forma di complesso malonico: evidentemente la stabilità del solfato rende inutile ogni tentativo di preparare il malonato in presenza di solfatojoni, onde in un terzo saggio si operò con soluzione idroalcoolica di cloruro uranilico e ma- lonato sodico. Al sole si ebbe inverdimento immediato e poi separazione di una polvere verde, granulosa, che all'analisi diede UO, °/,= 58,7; C°/,= 7,52; IO 32M UORCHEOES6HEONsIt calcola: = 58,2 7C= 7,75; H— 55006 In un altro saggio, diretto alla preparazione di un malonato complesso, sì ridusse elettroliticamente una soluzione di uranilomalonato sodico, cun eccesso di acido malonico, su catodo di platino: l'anodo dello stesso metallo pescava in una soluzione acida di malonato sodico, separata da un diatramma poroso in porcellana. All'uso di questo si dovette però rinunciare, poichè quasi subito se ne ostruivano i pori. per formazione di un deposito verda- stro, mentre sì manifestava una fortissima cataforesi. Evidentemente si tratta di un fenomeno analogo a quello osservato dal Coehn per le soluzioni cobal- tiche, dove il diaframma viene ostruito da un prodotto elettrolitico di ossi- dazione e di idrolisi (C0z03) ('). In minor grado, osservammo lo stesso caso nella riduzione elettrolitica degli uranilossalati, mentre è quasi nullo nel caso del solfato, e ciò sta in rela- zione colla energia crescente dell’anione. Sostituendo al diaframma poroso un tubetto di pergamena, si eliminò questa perturbazione, e si ottenne così (!) Z. Elch., IV, 503. nello spazio catodico un liquido verde intenso che fu concentrato per ebol- lizione a pressione ridotta, e che infine su acido solforico depose piccoli cristalli verde cupo, dicroici in rosso, che all'analisi diedero: UO0,°/, = 43,4; C°/,=16,9; H°/,=1,85. Per U(C3H30,)3 Na.+2H;0 si calcola: UO,= 43,17; C=17,24; H=1,60. In questo caso dunque si è avuto la formazione di un sale complesso, analogo agli uranossalati già conosciuti. Ci proponiamo di fare simili prove anche per il succinato. Ftalato uranoso. — Questo sale fu preparato. come il succinato, da solfato uranoso e ftalato potassico: precipitò una polvere chiara, che diede all'analisi: U0O,°/ == 56,9; C%%= 20,85; H°/,= 2,50. Per UO. C:H,0, +3H;0 si calcola: UO, = 57,37; C= 20,31; H= 2,12. Anche qui, dunque, si è avuto un sale basico. Tricloroacetato uranoso. — Lo si ebbe esponendo al sole una solu- zione idroalcoolica di tricloroacetato uranilico (da solfato uranilico e triclo- roacetato di bario). Si separarono quasi subito aghetti verde grigio, che contenevano acido tricloroacetico, e all'analisi diedero UO,°/,= 45,1. ‘Per U0(C,C130:) + 3H:0 si calcola: UO,°/,= 42,71. Siamo attualmente occupati nel completare questi studî e preparare altri sali organici del biossido di uranio, onde preghiamo che questo argomento ci sia riservato per un po' di tempo. Chimica-fisica. — Ancora su una formula per l'indice di rifrazione dei miscugli binarti. Nota di ARRIGO MAZZUCCHELLI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Chimica. — Vr caso speciale di racemia ('). Nota di M. PADOA e G. RoronDI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. È noto che le miscele di antipodi ottici possono dar luogo alla forma- zione di corpi racemici o di cristalli misti o di conglomerati. La distinzione fra i varî casi è possibile, come insegnò sopratutto Roozeboom (*), applicando la teoria degli equilibrî eterogenei, e massime coll’esame delle curve di con- gelamento. È necessario poi rilevare che il comportamento scambievole degli antipodi ottici varia a seconda delle temperature, essendo possibile soltanto (') Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica Generale della R. Università di Bologna. (*) Zeitserhift fiir Physikalische Chemie, XXVIII, 494. — 627 — in un dato intervallo l’esistenza di una delle dette tre forme di miscele inattive. Nelle sue considerazioni teoriche il Roozeboom non tenne conto però dei casi di polimorfismo con modificazioni labili; e poichè oggigiorno si può dire, grazie agli studî di Tammann, che quasi per tutti i corpi è possibile il verificarsi di tali condizioni, così abbiamo creduto interessante dimostrare con un esempio pratico quale influenza possono esercitare e quali complicazioni produrre nella caratterizzazione delle miscele inattive. Uno di noi (*) ebbe occasione di notare che la bromocanfora può cri- stallizzare in due forme, di cui una labile con un punto di fusione difficil- mente osservabile a 45°, ed una stabile che fonde a 75°. Naturalmente, tanto la d-bromocanfora come la l-bromocanfora si comportano, da questo punto di vista, allo stesso modo (?). Se si determinano i punti di congelamento, labili e stabili, di varie mi- scele di d- e l-bromocanfora (*), si osserva che ad una determinata concen- trazione avviene una inversione di termini, nel senso che la forma stabile diventa labile, e viceversa. Indicando con I la forma della d-bromocanfora pura che fonde a 75°, e con II la forma che fonde a 45°, si hanno i dati seguenti per le miscele dal 100 °/, al 50 °/ (era inutile di proseguire più oltre, essendo tutte le curve, in simili casì, simmetriche) : Bromocanfora Punto di fusione Punto di fusione Punto OG If II. di trasformazione 100 75° 45° — 90 70 46 — 80 66 48 — 70 DID 47,5 _ 60 51 49.5 —_ 55 labile 50 48° 50 labile 50,5 44 (4) M. Padoa, questi Rendiconti, 1904, I, 723; 1904, II, 31. (°) Si noti che, bromurando la canfora, il bromo va a sostituire un idrogeno del CH, vicino al CO, e dà origine così ad un atomo di carbonio asimmetrico. Se tale trasforma- zione accadesse in una molecola inattiva, si otterrebbe certamente un racemo; ma si po- trebbe anche pensare che, ad esempio, dalla d-canfora si ottenesse un racemo parziale. cioè una miscela di due bromocanfore isomere in conseguenza del nuovo atomo di car- bonio asimmetrico a cui si dà origine colla bromurazione, miscela che sarebbe pur sempre attiva a causa dell’attività preesistente. In tal caso le due bromocanfore sarebbero due racemi parziali; ed il sistema di cui intendiamo esporre le particolarità, sarebbe quater nario, anzichè binario. Senovchè vi sono già dei fatti che fanno pensare che nel nostro caso si debba verificare una specie di sintesi asimmetrica, e che quindi il sistema asim- metrico preesistente determini l’orientazione dei grnppi legati al nuovo atomo asimme- trico formato, così le nostre due bromocanfore sarebbero semplicemente due veri antipodi ottici. Citeremo, a conforto del nostro modo di vedere, il fatto che l'aggiunta fatta per sintesi di un atomo di carbonio nella molecola del mannosio, dà origine ad un nuovo atomo asimmetrico dello stesso segno dei preesistenti (E. Fischer). (*) La l-bromocanfora venne preparata bromurando la l-canfora gentilmente invia- taci dalla Uasa Schimmel di Miltitz. — 623 — Le due ultime cifre dell'ultima colonna indicano i punti di trasforma- zione delle due modificazioni cristalline allo stato solido. Se si rappresen- tano in un diagramma le curve di congelamento e di trasformazione deri- vanti dalle osservazioni su riportate. si ottiene uno schema del tipo rappre- sentato dalla figura (*). Le II sono le curve di congelamento delle forme I, la ITII è la curva continua di congelamento delle forme II; la TJT è la curva di trasformazione. Il significato di questo diagramma è ambiguo; infatti, se sì considerano i soli tratti stabili delle curve di congelamento (I II I), sembra che si possa concludere per la formazione di un composto racemico. Ma se sì pon, mente alla intera curva II II, si può credere che si abbiano soltanto cristalli. misti in tutti i rapporti tra le forme labili; per le forme stabili le eurve di congelamento e di trasformazione non permettevano di giudicare dell’esistenza, o meno, di cristalli misti, senza l'ausilio di ulteriori esperienze; per chiarire questi fatti, abbiamo creduto conveniente di ricercare la compo- sizione delle fasi solide che si separano lungo le varie curve di congelamento. Questo si può fare notoriamente separando una certa quantità di cristalli da una miscela fusa, a mezzo dell’apparecchio di van Bijlert,. e calcolando la quantità dell'acqua madre dalla quantità di un terzo corpo facilmente dosa- bile, introdotto come impurità nota nelle miscele. Come terzo corpo abbiamo scelto l'iodio, dopo aver verificato che esso non dà soluzioni solide con la bromocanfora. Le seguenti esperienze crioscopiche lo dimostrano: (4) Per maggiore chiarezza, anzichè rappresentare esattamente il diagramma risul- tante dai dati precedenti, abbiamo esagerato le dimensioni di alcuni tratti di curva. 399 — Naftalina in d-bromocanfora. Concentrazione Abbassamento Costante (K) I 19,02 119,2 2,089 11:93 118,9 3,079 2,78 118,5 Iodio in d-bromocanfora. Peso molecolare 0,807 09,425 249 1,987 0, 985 253 3,076 est 0059 (I, = 254) I pesi molecolari dell’ iodio risultano, come si vede, normali, e però non ha luogo formazione di soluzioni solide. Ciò posto, abbiamo eseguito le due determinazioni seguenti, che risguardano punti delle curve II. I Miscela iniziale gr. 3,0000 (15 °/, di 1-bromocanfora) TOI io e SoOZIONIS Cristalli separati » 0,7701 ’ » : loro contenuto in iodio gr. 0,0005 Acqua madre . . . : «en (0,0200 Potere rotatorio dei di tdi sie) — 1320 ” ” della bomocanfora pura (@)p= 133°. Tanto il contenuto minimo di iodio quanto il potere rotatorio, stanno a dimostrare che si separa il solvente puro (d-bromocanfora). DE Miscela iniziale gr. 8,5918 (30 °/, di l-bromocanfora) TO dio 0109/70) Cristalli separati » 0,6470 a) » : loro contenuto in iodio gr. 0,0048 Acqua madre . . . 1 MM 042107; Potere rotatorio dei ato ai o (pe 7 7 Calcolato;(3))! .... le) 800 L'esperienza dimostra che realmente si separa solvente puro; la non perfetta coincidenza fra il potere rotatorio calcolato e quello trovato, dipende (!) Dalla quantità d’acqua madre, ammettendo che si separi solvente puro. — 630 — dal fatto che una certa quantità di iodio volatilizza durante l'operazione, e quindi la cifra trovata per l’acqua madre è un po troppo bassa, e però un po troppo alto il valore del potere rotatorio che da essa si calcola. Ritenendo sufficienti queste due determinazioni per giudicare che lungo le curve I I si separano i solventi puri, passammo ad esaminare il tratto stabile della curva [I II; ad un punto di essa si riferisce la determinazione seguente: XU Miscela iniziale gr. 9,0000 (1-bromocanfora 44,8 °/) Todio,.. ii i eB0i0926 Cristalli separati » 3,3827 7 » : loro contenuto in iodio gr. 0,0142 Acqua, madre eee e e 9825 Potere rotatorio dei cristalli separati . (@),=13° Composizione dei cristalli separati (dal potere) rotatonio) IRMSAT NE 44,87 Composizione dei cristalli, dedotta l'acqua madre i Me 44,98 @ Dunque da una miscela della concentrazione 44,80 °/, sì separano dei cristalli al 44,98 °/, cioè quasi della stessa composizione del liquido. Ne segue che la curva coniugata alla II II le è quasi aderente; secondo richiede la teoria, la curva di trasformazione T J T' incontrerà tale curva coniugata nei punti multipli T, T', in cui essa cessa di essere stabile, per divenire labile. Dal complesso di quanto abbiamo esposto si può ora comprendere come si comporti col raffreddamento una miscela fusa. Per le miscele che con- tengono più del 58 °/, circa di d-bromocanfora, e per quelle che contengono più del 58 °/, circa di l-bromocanfora, si ha un primo punto di congela- mento, con separazione di solvente puro. Continuando a raffreddare, sì arri- verà alle dette composizioni-limite, oltre le quali compare la forma II. A questo punto, tutta la massa solidifica e sì separerà solvente puro lungo la curva TJ T, finchè si arriverà al conglomerato inattivo J, che possiede il punto di trasformazione più basso. Al di sotto delle curve II e TJT", sono dunque stabili soltanto conglomerati delle due bromocanfore. I punti di congelamento II si possono osservare, ma sono labili. Le miscele fuse che contengono meno del 58 °/ di d-bromocanfora e meno del 58 °/ di l-bromocanfora cristallizzano nella forma Il; continuando il raffreddamento, si trasformano in conglomerati. Le forme II hanno dunque un piccolo campo di stabilità limitato dalle curve ITIIl e T JT". — 631 — Per ciò che risguarda la diagnosi della racemia, si può ammettere che esista il composto racemico, a temperature comprese fra 44° e 50°,5; al di sotto, esso si scinderà in conglomerati inattivi: è noto il caso studiato da vant' t Hoff('), del racemato sodico ammonico che è stabile cristallizzato con acqua sopra 27°, e si trasforma, al di sotto di questa temperatura, in un con- glomerato inattivo anidro. Il caso di miscele binarie che si trasformino ana- logamente, quantunque previsto dalla teoria, non venne finora, per quanto sappiamo, realizzato sperimentalmente. i Si noti che nel nostro caso il composto racemico dovrebbe poi dare soluzioni solide, in tutti i rapporti, per quanto in gran parte instabili, coi componenti attivi. Anche tale possibilità non è bene accertata; venne sol- tanto ammessa in un caso da Adriani (°); tuttavia il comportamento delle leghe metalliche nelle quali più volte fu riscontrata la formazione di cri- stalli misti fra un composto ed i componenti, rende assai verosimile questa ipotesi. Chimica. — Su//a composizione chimica della haiiynite dei Colli Albani (*). Nota di N. PARRAvANO, presentata dal Socio E. PATERNÒ (‘). La haiynite dei Colli Albani fu riconosciuta come un minerale distinto dagli altri allora noti dal Gismondi (*), il quale propose, come è noto, di chiamarla lazialite, dalla regione nella quale è abbastanza diffusa. La haiy- nite si trova, infatti, nei Colli Albani specialmente nei blocchi rigettati, insieme a silicati di varia natura, come risulta dalle minute ed estese osser- vazioni del prof. Strùver, che ha descritto anche con gran cura i cristalli assai interessanti di questo minerale (°). La haiynite dei Colli Albani non è stata più analizzata dopo che Whitney (") e vom Rath (8), rispettivamente nel 1847 e nel 1866, fecero conoscere i risultati delle loro indagini chimiche. Negli ultimi anni si sono trovati non di rado, nel peperino del parco Chigi, presso Ariccia, dei blocchi rigettati nei quali la haîynite si presenta in bei cristalli, assai puri, di colore variabile da incolore od alquanto bianchiccio, della varietà che fu (!) Zeitschrift fr physikalische Chemie, I, 173-174; XVII, 49. (*) Ibidem, XXXIII, 468. (*) Lavoro eseguito nell’ Istituto chim'co della R. Università di Roma. (*) Pervenuta all'Accademia il 29 ottobre 1912. (5) Hintze, Handb. der Miner., II, 81 (1897). (5) Groth's Zeit. /, 287 (1877). (*) Pogg. Ann. 70, 431 (1847). {3} Zeit. d. geol. Ges. /8, 547 (1866). RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 82 — 632 — chiamata derselina e che il vom Rath dimostrò identica alla hatynite, a quello verde-bluastro. L'analisi di questi cristalli appariva iuteressante, perchè poteva servire a portare un contributo alla soluzione di una delle questioni che si dibattono intorno alla composizione chimica della haiynite in generale. Da che Rose ne stabilì l'omeomorfismo con la sodalite, la formola della haiynite ha subìto le stesse modificazioni della formola della sodalite. Essa perciò fu dapprima interpetrata come un composto di un silicato con un solfato (prevalentemente di sodio nella noseanite, e di calcio nella haùiynite), con che le venne attribuita la composizione { m(CaSO, +2Ca Al Si 03) (_n(Na SO, + 2 Na; Al» Sis 0; | accettata a lungo dalla maggior parte dei trattati. In seguito fu ammesso che nella sodalite il cloro non sì trovi come NaCl, ma sia legato ad Al a costituire un radicale bivalente (A1C1)= ('), e conseguentemente fu supposto che nella haiiynite l'acido solforico esista sotto forma di radicale monovalente (SO, Na) — legato ad Al a costituire il gruppo bivalente (Al-SO, Na)=. E questa è l'ipotesi accettata ancora oggi. Però, mentre Clarke attribuisce alla haiynite la formola [Si 0,]4 Als [A1.SO, Na] (Ca, Nas) Naz, Brògger e Bickstrom (*) le assegnano l’altra [Si 0, } Alb [AI 0 SO, Na] Na, 6 questione questa che può essere risoluta analiticamente. La varietà di haiynite del parco Chigi da me analizzata è quella di colore verde-bluastro. I risultati dell'analisi sono riportati qui sotto in I. I II III Si 0» . 92,18 32,11 34,18 Al: 0; 27,11 27,21 28,96 Ca 0 10,26 9.96 7,95 Na, 0 16,34 16,51 17,57 K,0 0,08 == = SO; 14,10 14,21 11,34 CI 0,31 — —_ 100,38 100,00 100,90 O da togliere per Cl 0,07 100,31 (') Haushofer, Die Aonstitution der natirlichen Silicate (1874), pag. 43; Safarik, Abhandl. d. K. bohm, Gesell. d. Wissen. (1874), 8; Clarke, Americ. Journ. of Sc. 3, 262 (1886). (2) Groth's Zeit., /8, 225 (1890). — 639 — In II sono riportati i valori calcolati secondo la formola di Brògger e Bîickstrom, e in III quelli calcolati secondo la formola di Clarke. I miei risultati analitici concordano mirabilmente con i valori richiesti dalla for- mola di Brògger e Bickstròm, che sembrerebbe, così, doversi senz'altro ac- cettare. Alla haiynite spetterebbe perciò una formola simile a quella del granato (!): Granato Haiynite Noseanite CASi SÌ >Si AV, 20 3 107 alÉ0/ Al 07 E, SOR NOT DON C ee (ONE OST a<07Si Na0; S .0-AlSi Na0;S.0- ev SA 707 P_0d ATO NEO. AICO NI VSS Sa 207 Na-_075! Na-075 (OY Na—-07 Na-0 ed essa rappresenterebbe il termine di passaggio dal granato, in cui non vi è che calcio, alla noseanite in cui non vi è che sodio. Però non va dimenticato che altre analisi di haiiynite hanno dato per SO3 valori notevolmente inferiori a quelli calcolati in base alla formola di Brògger e Bickstròm, sicchè appare sempre possibile che la haùynite non sia, come vorrebbero i due mineralisti scandinavi, un solfato-silicato con composizione fissa, ma, al contrario, una soluzione solida del silicato (Ca, Nas) Al» Si, O e di un solfato-silicato. A questo proposito è opportuno ricordare che gli studî recenti hanno dimostrato che la sodalite, di cui ho sopra accennato l'affinità con la hatiynite, è appunto una soluzione solida di un clorosilicato e del composto Na Al Si 0, (o Na»; Al» Si, 0g). Nella sodalite, infatti, il rapporto del cloro al silicio non può, certo, considerarsi costante, tanto che il Morozewiez (*) ha proposto di distinguere due sodaliti, una @ e l’altra #, rispondenti alle due formole 3 Nas Al» Sis 03.2Na CI, e 2 Na; Al; Si, 03. Na CI. Brogger e Bàackstròm ritennero. è vero, che il minor contenuto in cloro di alcune sodaliti potesse spiegarsi ammettendo che i minerali analizzati fossero stati impuri od alte- rati; ma questa supposizione non può ulteriormente ammettersi, dopo che il prof. Zambonini (*) ha fatto conoscere una sodalite del Monte Somma, lim- pida e trasparente, la quale contiene soltanto 1,82 °/ di CI. (1) Queste formole sono state proposte da Bròsger e Bickstròm (loc. cit.). (*) Bull. Acad. Science. de Cracovie (1907), pag. 1002. (*) Mineralogia Vesuviana, pag. 212. Chimica. — Analisi termica di miscele binarie di cloruri di elementi bivalenti (*). Nota IV di CARLO SANDONNINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (?). Per avere il quadro completo delle miscele esperimentabili coll’analisi termica tra i cloruri di Ca, Sr, Ba, Mg, Zn, Cd, Hg, Sn, Pb, Mn, ne restavano ancora tre non ancora studiate nè da me nè da G. Hermann (*) e da O. Menge (*), e precisamente le tre del cloruro di magnesio coi cloruri di stronzio, bario e manganoso. Il sistema cloruro di magnesio - cloruro di stronzio. Il cloruro di magnesio anidro può fondere inalterato, ed il suo punto di solidificazione, secondo Menge (loc. cit.), giace a 711°; tuttavia, essendo assai difficile l’ottenere del cloruro di magnesio perfettamente anidro e privo di ossicloruro, il punto di solidificazione dato deve attribuirsi, come fece osservare lo stesso Menge, ad un cloruro di magnesio contenente almeno 0,66 °/, di ossido di magnesio. Il cloruro di magnesio da me usato proveniva dalla ditta Kahlbaum. Sottoposto all’analisi, esso diede i seguenti risultati: Trovato Calcolato Mg TL i MR 2 47147, 25.57 Cla 09092 14.43 100.00 Da questi dati si può calcolare che il cloruro di magnesio conteneva 93.71 °/, di cloruro di magnesio, e 1.11°/ di ossido; 11 resto, naturalmente, e cioè 5.18 °/,, doveva attribuirsi ad acqua. Analizzati alcuni campioni dopo la fusione, si potè vedere come la quantità di ossido rimanesse pressochè invariata. Un tale cloruro di magnesio, sottoposto a riscaldamento, fonde in un liquido lattiginoso : fatto, questo, certamente dovuto alla scarsa solubilità del- l'ossido di magnesio nel cloruro in queste condizioni. In tutti i sistemi nei quali il cloruro di magnesio è uno dei componenti, le percentuali di Mg Cl, vennero corrette in base ai dati analitici; le miscele venivano preparate con lo stesso procedimento col quale venivano preparate le miscele contenenti cloruro di zinco. Il punto di fusione del cloruro di magnesio adoperato risultò a 712°; per crescenti aggiunte di cloruro di stronzio, la curva di deposizione primaria (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Padova, diretto dal prof. G. Bruni. (*) Pervenuta all'Accademia il 17 agosto 1912. (*) Zeit. fùr an. Ch., 7/, 257, 1911. (© BIDId7 21625 19106 — 635 — si abbassa sino a 575° a 50 mol. °/ circa di SrCl,, indi si innalza diret- tamente al punto di solidificazione di quest'ultimo sale. Dalle durate eutet- tiche delle miscele più ricche rispettivamente in cloruro di magnesio e in cloruro di stronzio, pare potersi escludere la formazione di soluzioni solide, mentrechè il cloruro di calcio, secondo le esperienze del Menge, scioglie allo stato solido una certa quantità di cloruro di magnesio (tabella I, fig. 1). TABELLA I. Molecole |"Temperature | Temperatnre Durate 0 di cristallizz.|di cristallizz. in di SrCly primaria eutettica secondi 0.0 712° — — 6.5 700 532° — 13.6 675 58 20” 28.7 660 596 50 34,2 585 535 90 42.1 —_ 595 110 49.4 eut. 595 140 59.8 680 536 100 73.8 770 599 60 85.2 825 535 30 100.0 860 _ — 800 700 600 500 I Ul L L L LI L L 4 | 0) 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 Mg Cl Mol. °/o Sr CI, Sr CI, Fi. 1. — Cloruro di magnesio e cloruro di stronzio. — 636 — Le durate eutettiche per tutti questi sistemi si riferiscono a 10 grammi di miscela. Il sistema cloruro di magnesio - cloruro di bario. Il sistema è analogo a quello del cloruro manganoso col cloruro di bario, già da me studiato ('). Le due curve di deposizione primaria si tagliano in un punto eutettico a 36 mol. °/, di Ba Cl, e a 556° circa. Per le miscele più ricche in BaCl., p. e. quella a 54.8 mol. °/,, si nota un arresto a 590° oltre a quello a 556°, e, per quella a 63 mol. °/, solamente l’arresto a tem- peratura superiore; per miscele ancor più ricche in cloruro di bario, questo arresto si abbassa di nuovo, fino a raggiungere la temperatura eutettica (tabella II, fig. 2). TABELLA II. Molecole |Temperature I Durate, °/o di cristallizz. 1° arresto 20 arresto | in secondi, AIURZICIS primaria del 2° arresto 0.0 128 — — — 9.60 | 700 _ 555° = ESSI 690 = 560 307 Liga: 672 —_ 556 — 24.4 | 642 — 555 70 RA 15 Sil 60 100 32.4 576 Bo 180 420 610 — 560 100 54.8 750 590° 560 — 63.7 810 SCOMODE 2 81.4 895 i e a 90.3 908 556 _ — 100.0 960 È Ste L’interpretazione esatta del sistema riesce difficile anche in causa dei forti sopraraffreddamenti coi quali avviene l'arresto superiore; ma, assai pro- babilmente, si ha la formazione di un composto decomponibile alla fusione, del quale, come per il sistema Ba Cl,- MnCl, non si hanno dati sufficienti per stabilirne la composizione. (*) Questi Rendiconti, XXI, 1° sem., 1912, pag. 208. — 657 — | | 1000 900 800 700 600 500 Ms CI, Mol. °4 BaCl, Ba Cl, Fie. 2. — Cloruro di magnesio e cloruro di bario. Il sistema cloruro di magnesio - cloruro di manganese. I due componenti sono completamente solubili tanto allo stato liquido quanto allo stato solido. Tutte le miscele cristallizzano in un intervallo assai ristretto, a tem- perature intermedie a quelle dei componenti (tabella III). TABELLA III. Molecole Inizio °/o AE, di Mn Cla cristallizzazione 0.0 TAO 16.3 708 24.7 699 31.2 688 43.4 680 55.0 672 647 667 85.9 656 88.4 652 95.0 652 100.0 650 — 638 — ES) I (©) 700 950 650 650 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 Mg Cl, Mol. °/o Mn Cla Mn Cl, Fia. 3. — Cloruro di magnesio e cloruro manganoso. Nel diagramma III è dato solamente l’inizio di cristallizzazione. CONCLUSIONI. Con questi sistemi e con quelli esperimentati, da G. Hermann e da O. Menge, e già più volte citati, il quadro delle miscele binarie esperimenta- bili tra i cloruri di Ca, Sr, Ba, Mg, Zn, Cd, Hg, Sn, Pb, Mn" viene ad essere completato. Per meglio osservare i risultati ottenuti, nella tavola se- guente sono raccolti tutti i sistemi esperimentati: per questi servono sempre le indicazioni date da Bruni (') e già da me usate altra volta. Sono segnati con asterisco ì sistemi che non vennero esperimentati da me. Come venne già osservato in una Nota precedente. la tendenza a com- binarsi è assai scarsa: delle 37 coppie esperimentate, solamente quattro dànno origine a composti; e cioè: Sr Cl» - Zn Cl, , Ba Cl, - Zn Cl, , MgCl;- BaCl,, Mn Cl. - BaCl,. Di questi. a quanto mi consta era stato preparato solamente un composto tra il cloruro di zinco ed il cloruro di bario. Passando ora a considerare i rapporti di isomorfismo, nel gruppo degli alcalino-terrosi si vede come questi diano soluzioni solide coi loro omologhi immediati soluzioni solide che si scindono a bassa temperatura pel sistema Ca Cl, — SrCl,, ed un semplice eutettico tra i due estremi della serie. (!) Feste Lòsungen und Isomorphismus. — 639 — x TR - v 7 XxX Caci, | 7 a A, o X x | 6 È = | Sd Sr Cl, XX V SrCla-ZnCla V WS | V Ba Cl, | composto? |BaCly-ZnCl, V 4 composto ? Zn CI, V == V V | V joduri Hg Cl, bromuri CACl, | X—X V Vi XT—-X SnCl, | X—X V MnCl, Notevole è il fatto che il comportamento dei sistemi formati dai cloruri di magnesio, zinco e cadmio, sia perfettamente analogo a quello delle leghe metalliche tra gli stessi elementi: il cloruro di magnesio e il cloruro di cadmio sono miscibili in ogni rapporto allo stato solido, mentre il cloruro di zinco è completamente — o quasi — insolubile in questi cloruri. È pure no- tevole il fatto che mentre il joduro di cadmio e il joduro di mercurio sono com- pletamente miscibili allo stato solido, il cloruro di zinco e il cloruro mer- curico dànno, fatto abbastanza raro tra sali, due strati liquidi. RenpIcONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 8 I — 640 — Come vedemmo, i cloruri di stagno e piombo dànno cristalli misti tra. loro in ogni rapporto; osservando il loro comportamento cogli altri cloruri del secondo gruppo, all'infuori della completa miscibilità allo stato solido del cloruro di piombo coi cloruri di stronzio e bario, nessun altro fatto è degno di nota. Interessante sarebbe il potere esperimentare le coppie del cloruro stannoso coi cloruri di stronzio e bario, le quali dovrebbero seguire il comportamento di quelle del cloruro di piombo. In quanto poi al comportamento del cloruro manganoso con tutti i clo- ruri citati, si rivela subito una grande analogia di comportamento del clo- ruro manganoso stesso col cloruro di cadmio: entrambi dànno soluzioni solide col cloruro di calcio (le soluzioni solide del cloruro manganoso si scindono a bassa temperatura): allo stesso modo si comportano col cloruro di magnesio, mentrechè entrambi dànno semplici eutettici col cloruro di zinco; tuttavia, mentre il cloruro di cadmio dà, col cloruro di bario, un semplice eutettico, il cloruro di magnesio e il cloruro manganoso collo stesso sale dànno molto verosimilmente un composto. Chimica. — Su &lcuni nitriti instabili fissati a mezzo di basi organiche. Nota III di G. ScagLiARINI ('), presentata dal Socio G. CIAMICIAN (°). De Koninck (*) ha accertato la formazione di nitrito mercurico trat- tando nitrato mercuroso con una quantità insufficiente di un nitrito alcalino; contemporaneamente si ebbe separazione di mercurio metallico. Ray (4) lo preparò evaporando nel vuoto su acido solforico la soluzione ottenuta per trattamento del cloruro mercurico con nitrito d'argento. Il nitrito di mercurio in aghi gialli chiari è oltremodo deliquescente ed instabile. Lo stesso autore (?) poi studiò una serie di nitriti mercurici basici che si ottengono per succes- siva idrolisi con acqua del nitrito mercuroso. Il nitrito mercurico si conosce ancora sotto forma di complessi con nitriti alcalini in forma assai stabile: Lang (°) ne descrisse uno della formula K.Hg(NO:), che fu ristudiato da Rosenheim ed Oppenheim (?) i quali gli attribuirono la formula seguente: 1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chim. gen. della R. Università di Bologna. ?) Pervenuta all'Accademia il 29 ottobre 1912. *) Chem. Zeit. /9, 750 (1895). 4) Proc. Chem. Soc., 20, 57 (1904). 5), J. Chem. Soc. (2), 74 337 (1897). 5) Jour. Procckt. Chem., 86, 295 (1862). ) ( ( ( ( ( (?) Zeit. fiir Anorg. Chem., 28, 171 (1901) Mod — K,Hg(NO:); He 0. Gli stessi autori (loc. cit.) descrissero pure altri complessi del nitrito mercurico coi sali corrispondenti di potassio e di sodio: K Hg (NO:)z e Na, Hg (N03); . Del nitrito di cadmio si hanno dati molto meno sicuri: Hampe ('), Lang (loc. cit.) e Fritz Vogel (?) che lo studiarono affermarono che esso è tanto solubile che si conosce solo in soluzione. Se si concentrano però le soluzioni che lo contengono, gli autori surriferiti affermarono che sì ottiene un nitrito basico della formula: Ca (NO), CdO. Assai meglio dei due precedenti sali è conosciuto il nitrito di zinco, il quale dal Matuschek (*) fu ottenuto per doppio scambio fra solfato di zinco e nitrito sodico, e che contiene una molecola di acqua di 'cristallizzazione. Concentrandone le soluzioni si ottiene però un sale basico della formula: Zn (NO). Zn 0 (*). Io ho ripreso lo studio di questi sali tentando di fissarli con basi orga- niche, nel caso speciale con esametilentetrammina, come già avevo fatto per altri nitriti, per una doppia ragione: sia perchè essendo in ispecial modo i nitriti di mercurio e di cadmio, poco o affatto noti mi sembrò interessante averli in una forma stabile, sia perchè risapendosi che in ispecie il mercurio ed il cadmio ed in certo qual modo anche lo zinco dànno sali anidri 0 poco idratati, se era vera la supposizione emessa da Barbieri e Calzolari (*), che cioè la esametilentetrammina fissa dei sali idrati già preesistenti in soluzione, dovevano formare con questa base organica dei complessi conte- nenti o nessuna o al massimo poche molecole di acqua. Il fatto previsto s'è verificato e viene a confermare la supposizione degli autori surriferiti. Diffatti, mentre il magnesio ed il manganese, i cui sali dànno notoriamente idrati molto ricchi di acqua, formano i relativi nitriti contenenti dieci mo- lecole di acqua per ogni molecola di nitrito; al contrario il mercurio dà un nitrito neutro, in cui ad ogni atomo di metallo corrispondono quattro mole- cole d'acqua ed il cadmio e lo zinco i sali analoghi con due molecole di acqua per una di metallo. Le loro formule brute sono rispettivamente: 2Hg(N0;):.8H,0.8C,N,H;:;Cd(N0:):.2H,0.C,N,Hy:: Zn(NO;),.2H:0.C;N His. (1) Ann. Pharm., 125, 845 (1862). (®) Zeit. Anorg., 85, 402 (1903). (5) Centr. Blatt., I 1266 (1902); II, 85 (1902). (*) Hampe. Lib. Ann. /25, 844 (1868). Fritz Vogel, Zeit Anorg, 85, 400 (1903). T'erreil. Bul. Soe. Chim. [3], 7, 553 (1892). (9) Rend. Acc. Lincei, /9, II sem., pag. 586 (1910). — 642 — Il modo di prepararli è il seguente: NITRITO DI MERCURIO ED ESAMETILENTETRAMMINA. 2Hg(N0O»):.8H:0.3C;NHi:. Si prepara nella maniera identica che servì a preparare i sali analoghi di magnesio e manganese. Ad una soluzione concentrata di acetato mercu- rico se ne aggiungono prima una pure concentrata di esametilentetrammina nel rapporto di circa quattro molecole di base organica per un atomo di metallo, e poscia a goccie un'altra satura a freddo di nitrito sodico. Agi- tando sì formano improvvisamente cristalli prismatici risplendenti che, spre- muti alla pompa, previo lavaggio con acqua e poco alcool, si presentano di color bianco a riflessi verdognoli. Non sì possono ricvistallizzare senza par- ziale alterazione; asciugati fra carta bibula furono analizzati: Calcolato per I'rovato 2Hg(N0O,):.8H20.3C N4Hia Hg 34,84 54,95 34,89 34,99 39,10 NO, 16,02 16,10 15,92 15,90 N (totale) 19,51 19,80 19,59 19,27 Per conservarlo inalterato a lungo conviene difenderlo dalla luce con carta nera, altrimenti dopo circa un mese comincia ad alterarsi. Data poi l'alterabilità del sale al contatto dell’ossido di rame per avere risultati attendibili per l'azoto totale conviene bruciare la sostanza colla navicella. NITRITO DI ZINCO ED ESAMETILENTETRAMMINA. Zn (N02): 2 H. 0. Ce N, HIBS 6 ]l metodo per ottenere questo sale è un po' differente da quello seguìto per i precedenti nitriti. Anzichè dall’acetato in questo caso si parte ‘dal solfato. Si trattano quantità equimolecolari di solfato di zinco e di nitrito di bario in soluzioni concentratissime; avvenuto il doppio scambio sì filtra la soluzione dal solfato di bario formatosi. Il liquido filtrato che contiene disciolto il nitrito di zinco viene trattato con una soluzione satura di esame- tilentetrammina nella solita proporzione di quattro molecole di base organica per un atomo di metallo. Raffreddando si depositano cristalli prismatici che vennero filtrati alla pompa e lavati con poca acqua stante la loro grande solubilità. Seccati fra carta bibula e sottoposti all'analisi diedero le seguenti per- centuali : — 643 — Calcolato per Trovato Zn (NO2):.2H,0.Cs N4Hie Zn 19,36 19,44 19,55 19,66 NO, 27,59 27,88 27,90 N (totale) 24,94 24,95 25,11 Questo sale che si conserva benissimo per lungo tempo senza alterarsi non può venire ricristallizzato stante la sua grande solubilità. NITRITO DI CADMIO ED ESAMETILENTETRAMMINA. CA(N0:),.2H,0.C NH: Si prepara come il precedente di zinco. Conviene notare però che essendo anche più solubile del precedente è opportuno operare con soluzioni al mas- simo di concentrazione, o meglio aggiungere la esametilentetrammina in so- stanza nella soluzione del nitrito di”cadmio e, sciolta che essa sia, raffreddare fortemente con acqua ghiacciata. Comincia allora a separarsi il nitrito in cristalli prismatici incolori simili, osservati al microscopio, ai precedenti di zinco. Calcolato per Trovato CA(N0»):.2H,0.CsN4 Ho Cd 29,21 29,33 29,26 29,40 NO, 24,18 24,08 24,26 N (totale) 21,89 22.07 22,99 22,22 Questo sale sì può conservare lunghissimo tempo senza che subisca al- terazione. Chimica. — Analisi del granato del fosso del Tavolato. Nota di G. Srrovicu, presentata dal Socio E. PATERNÒ ('). Nei dintorni di Roma granati diversamente colorati sono contenuti nei blocchi rigettati dai vulcani, ad est del lago di Bracciano nella regione fra Anguillara ed il lago di Martignano, come pure al monte S. Angelo vicino a Baccano e presso Cesano. I blocchi vulcanici che contengono granati sono o aggregati di sanidino, oppure masse verdi porose di pirosseno, oppure anche masse di wollasto- nite (*). Melanite si trova nel peperino dei monti Albani. (1) Pervenuta all'Accademia il 26 ottobre 1912. (2) Striver, Accad. Lincei, 1885, /, 173. — 644 — Avendo raccolto dei bei cristalli di granato nel fosso del Tavolato, ho creduto interessante di analizzarli. I risultati dell’analisi sono riportati più sotto: I e II si riferiscono a due cristalli diversi, entrambi molto puri. I II Si.0,1 7) 37,88 i O 0 0,96 AI, 05°, 05 5,46 Fe, 05, ARS ZIC1O 21,13 He O REERAFMNRNNO OI 2001 Ca 001 ARM 5 31,02 Mg 0° 0.06 0,84 NFRIOMIG > 00 039 0,29 ISPRONNNO 0; 5. 000 0,08 99,41 99.83 Le analisi antiche di Klaproth (!), Vauquelin (?) e Karsten (*) avevano trascurato il titanio. Questo però più tardi fu trovato da Damour (‘) e da Knop (°). Io lho dosato colorimetricamente col metodo di Weller. La composizione dei granati, come è noto, si può esprimere con la formula 1I III R3 Rs [Si 0,]z dove II III R'—'Ca. Mo SEMI RAME A questa formula corrispondono abbastanza bene i cristalli da me ana- lizzati. Infatti calcolando dai dati analitici sopra riportati le quantità cor- rispondenti di ossigeno si ‘ha: IL II Si 030, SRO 10 20,10 Ti:05, cono 0,38 AI; 03 MMG 2.56 Fo, 0: N 013 6,35 MONS... 040 0,48 Ca 0. e 008 8,84 NAZONIO . + . 083 0,33 (1) Beitraege, 5, 170. (®) Journ. Phys., 8, 97. (*) Archiv. Min., 4, 388. (4) L'Institut, 24, 441. (5) Groth’s Zeit. 7, 73. 3 e cioè per I II RO 9.00) 9,65 RA A e :80 8,81 ROS RE 991 20,48 Come si vede, in tutti e due i casi il rapporto fra l'ossigeno di RO, R, 0; e RO; è molto vicino al rapporto 1:1:2 richiesto dalla formula sopra citata. Cristallografia. — Studio eristallografico sul sale sodico del- l iso-ossi-tetrazolo (*). Nota di ARISTIDE RosatI, presentata dal Socio G. STRUEVER (°). Il prof. F. Carlo Palazzo (*) studiando la reazione del fulminato sodico con l’azo-immide ottenne due prodotti isomeri della formula CH,0ON,, di cui uno è da considerarsi come N.ossi-tetrazolo, l’altro anche come ossi-te- trazolo, che secondo ogni probabilità possiede la struttura N___CH o NH Il sale sodico di quest'ultimo ha la composizione CHON, Na + 3H.0 (col metallo all’azoto), e si deposita in bellissimi cristalli da una soluzione acquosa alcalina, che contiene in pari tempo N Na. È molto solubile in acqua; non è però deliquescente, nè igroscopico; è poco solubile nell’alcool diluito, insolubile nell’alcool assoluto e in tutti gli altri solventi organici. A 120-130° perde completamente l’acqua di cristallizzazione; a 240° il prodotto anidro detona fortemente. I cristalli furono ottenuti in due diverse forme dallo stesso prof. Pa- lazzo, che cortesemente li mise a mia disposizione per il presente studio. Forma A. Sono cristalli depositati dal liquido di reazione, non molto concentrato, dopo riposo di tre o quattro giorni fino a una settimana. Si presentano tabulari, trasparenti, di colore giallo-paglia pallido e delle dimensioni medie di 1 cm. di altezza, $ cm. di larghezza e 1 mm. di spessore. (1) Lavoro eseguito nell’Istituto di Mineralogia della R. Università di Roma. (2) Pervenuta all'Accademia il 29 ottobre 1912. (?) Questi Rendiconti, 29, I, 218 (1910); cfr. anche Palazzo e Marogna, Giornale di Scienze naturali ed economiche di Palermo, 1912. — 646 — Sistema érzclino, classe pinacoidale : a:b:c=1,2494:1:0,8521 casio 00M 06) (= IMZO di! y= 79°834'%. Forme osservate: 3100} , {010} , {001} , }101} , {111} x che si riuniscono in un'unica combinazione. Come risulta dal disegno i cristalli sono appiattiti secondo {010}. Al goniometro le facce dànno buoni riflessi. La forma }II1} ha facce ristret- tissime ed è talora mancante; più sviluppata è la forma }101{; predomi- nanti le forme {100} , {010} , {001|. Spigoli Angoli osservati Angoli misurati | Limiti | Medie calcolati eee” — —; ——- (100) : (010) (i | SEO — 20 | Ea ; (100) : (001) 5 66 5 — 66 26 66 161 o (001) : (010) 6 50.10 — 50.52. | 50.28 È (II1):(100) 579 8-90. o (II1): (010) RT 7-90 40 $ (001) : (101) 7 O — 0 eri ZO: (010): (101) 4 |a t52052 1522701 15208 (100) : (101) SG 20 eta) Lele ese (II1):(001) ell o = ge IIS — 647 — Sulla faccia (010), che a luce convergente lascia vedere l'uscita di un asse ottico, a luce bianca parallela si osserva che una direzione di estinzione coincide esattamente con quella dell'asse <. Forma B. Questi cristalli si ottengono, allorquando date le surriferite condizioni di reazione, il liquido risulta notevolmente più concentrato che nel caso precedente, e si separano anche assai più rapidamente, cioè nello spazio di poche ore. Sono tabulari, trasparenti, incolori, della dimensione media di 4 mm. di altezza, 2 mm. di larghezza e + mm. di spessore. Sistema érielino, classe pinacotdale : a:b:c= 0,6798:1:1,0834 ai Mii 59) B=124°32"4 y=121°48". Forme osservate: 3100}, 3010} , j}001} , {111} che si riuniscono in un'unica combinazione. Anche qui, come si vede nel disegno, i cristalli sono appiattiti secondo 3010}. Al goniometro si hanno buoni riflessi. Nello sviluppo del cristallo predominano le forme }100} , {010}; sono subordinate le altre due 3}001}, SE ReNDICONTI, 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 84 — 648 — Angoli osservati Spigoli Angoli mais N. Limiti Medie calcolati (100): (010) 12 712° 34 — 73° 01 72°46%1 n (100): (001) 3 67 29 — 67 47| 67 39 * (001): (010) 8 PIVIZ AQ MS 16 Si (I11):(100) 4 46 17 — 46 53 | 46 88 * (I11):(010) 7 80 22 — 80 51 80 37 le (I11):(001) 4 89 58 — 90 22] 90 6 89° 52” Sulla faccia (010), che a luce convergente produce una figura d’interferenza biassica alquanto confusa, a luce bianca parallela una direzione di estin- zione fa circa 5° con l’asse 2 nell'angolo #8 acuto. Zoologia. — /vsultato di esperimenti fatti sopra alcune an- quille argentine vissute forzatamente in acqua dolce. Nota del prof. F. Mazza, presentata dal Socio B. GRASSI. Questa Nota sarà pubblicata neì prossimo fascicolo. Meccanica celeste. — Prime conseguenze d’una recente teoria della gravitazione. Nota di G. PAVANINI, presentata dal Socio T. LeviI-CIVITA (1). i 1. In una recente ricerca il sig. Abraham (*) propone una nuova teoria della gravitazione suggerita dal principio di relatività. Egli giunge ad una relazione fra il potenziale gravitazionale e la velocità della luce che s’accorda, in prima approssimazione, con l’analoga relazione ricavata dal sig. Ein- stein (*). Per ciò che concerne il problema dei due corpi, già si trovano nel la- voro dell'Abraham le equazioni rigorose, che sono differenziali di secondo ordine, ma hanno, come ben si sa, carattere funzionale, dipendendo da stati di moto anteriore a quello cui si riferiscono le accelerazioni dei due corpi. (*) Pervenuta all'Accademia il 9 ottobre 1912. (*) Sulla teoria della gravitazione, Rendiconti della R. Accad. dei Lincei, vol. XX. 2° sem. 1911; e vol. XXI, 1° sem. 1912. (3) Cfr. Annalen der Physik. 35, 1911. — 649 — Nella presente Nota mi propongo di dedurre delle equazioni approssi- mate fino al secondo ordine (rispetto al rapporto fra la velocità dei corpi e quella di propagazione della luce), le quali sieno esenti da complicazioni funzionali, e mettano bene in evidenza quanto c’è di diverso dal caso limite ordinario di una propagazione istantanea. Avrò l'onore di comunicare all'Accademia in una prossima Nota le con- seguenze salienti cui sì perviene trattando il problema (dopo averlo così semplificato) col metodo classico della teoria delle perturbazioni. 2. Espressione del potenziale. — Due corpi che designeremo, come le loro masse, con 7, ed 2, occupino in un generico istante / (tempo asso- luto, secondo l'accezione ordinaria) le posizioni Po(Éo, 0 , 60) è P(É, 7,6) Gli assi di riferimento si suppongono fissi (sempre nel senso attribuito in meccanica a tale appellativo). Rappresenti 7 la distanza PP,, sia cioè ilo) ta (MN) AES le posizioni dei due corpi riferendosi ad un medesimo istante /. Poniamo ancora {= ct, dove c va provvisoriamente (*) trattata come una costante. Se è detinito il moto di n, e di m si potranno risguardare sia È0,70, o quanto &, 7,7 come funzioni di /. Ciò premesso, consideriamo dapprima l’azione esercitata da 7, su mm. Fissiamo all'uopo un istante generico 4 e la corrispondente posizione P di m. Si può coordinargli l’ istante di emissione £ (0 ciò che è lo stesso, il così detto cammino latente 1 = ci) da 7, mediante la nota equazione di Doppler. Più precisamente, posto = (0) = WAI = 0 PA=(E- + Mm +, si ha, per definire Ù (1) (-I1=4. Adotteremo d'ora in avanti il simbolo > per indicare una derivazione di fronte a cui le quantità &,, 0,6, Si trattino come costanti, tenendo in- vece conto della eventuale dipendenza da / di £,7,6. Analogo significato avrà È° scambiato soltanto l'ufficio «lelle due terne 8 ]o6 ; È0 N03 50- dl (*) È questo il criterio già seguito nell’Abraham, nello stabilire le equazioni rigo- rose, in base al principio di relatività. Mi vi attengo io pure per trovare direttamente le equazioni approssimate. Evidentemente potrei ricavare queste stesse equazioni da quelle di Abraham, semplificandole a posteriori, ma la deduzione riesce più spedita ed elegante sfruttando fin dall'origine le convenute approssimazioni. 2g Ciò convenuto, dalla equazione (1) si ottiene facilmente col metodo di Lagrange (°) fm mo __fmm, DO fm me DT “ar “pain (1455 r dl dove i termini omessi sono trascurabili quando ci si limiti al secondo or- dine rispetto al rapporto della velocità del mobile a quella della luce (*). Posto per brevità dI @) vl grin di il potenziale dell'azione gravitazionale esercitantesi su 7, va identificato a U+wv. Analogamente, ove si ponga DI II SIRIA ( ) ÙU, r i) Wo DI dI? È, si ha, per il corpo #m,, il potenziale US RL 3. Equazioni del moto. — Designiamo con 7, e t due parametri (di cui daremo tra un momento la definizione precisa), che chiameremo tempt propri (*) rispettivamente di 1, e di m. Rappresentiamo con punti e con apici sovrapposti alle lettere derivazioni rispetto a 7 e ©. (!) Cfr. G. Herglotz, Géttinger Nachrichten. 1904. È di @) Si noti infatti che in “ No Mo 9 " IU, — di 2) dIWo = (1 ) ot 5 | 0 ( + so — 85) DSi (GT DI + DE 5. Forma esplicita delle equazioni del moto. — Per ottenere in forma esplicita queste equazioni consideriamo la prima delle (11) e la prima delle (11°). Evidentemente il calcolo procederebbe in modo del tutto analogo per le altre equazioni. Indichiamo con v,v0 ; 4, 4 le velocità e le accelera- (*) Si può osservare facilmente anche qui che i termini moltiplicati pel fattore 7 C°o sono comparabili col quadrato della velocità dei corpi. — 654 — zioni di m ed mo, e CON dr, Vor ; dr, dor le componenti di queste quantità secondo la retta m,7. Dalle equazioni che ci proponiamo di considerare, tenuto presente il significato dei diversi simboli che vi intervengono, facil- mente si ottiene: -—1(5+È vw or). Mi 0,5. cè n io 3 +3%)+ ea a SHIA, e e on — È ce). In queste alle quantità €", 97,0"; €40,60 che sono moltiplicate per = sì possono sostituire i loro valori in prima approssimazione (quando D ì cioè sì ritengano addirittura trascurabili le velocità dei corpi di fronte a co). Allora le equazioni del moto dei due corpi m ed m, assumono la forma: IR È È SA e 1 fmof5—=S50(__ fto | 0% 20) una PUT ( 7 106 o N +8 + E 800]. "= — fm, oe ) 1 fmo\M = Mo 2fmo VAIO ) 12 0 1, RS 2 si (5) Wo 2 (0 P ( ante ugo +afor+ @/— 10) cor Sl 1 (mo (6% 2fito do da p? Pi ( gp (rr dI 30) + TE i È — 655 — e sr=fm=% ps (a rio 2 vi 3, TA ( r iii Lit SG Dei, nl — fm Ui n UO : 1fm(n— 2fm DESIO do) vuli siat0) tav — (7 — mer, = fmi e alii!” so) + + €-M0|. Così abbiamo ottenuto le equazioni che ci siamo proposti di ricavare. Esse differiscano dalle ordinarie equazioni corrispondente al caso di una pro- pagazione istantanea per termini di secondo grado rispetto il valore inverso del quadrato della velocità della luce. I termini addizionali dipendono dai diversi elementi del moto (eccettuata l'accelerazione). Fisiologia. — Avcerche sugli effetti dell’alimentazione mai- dica. Azione del succo enterico di cane su zeina, gliadina, zeosti e gliadosi (*). Nota 4* di S. BAGLIONI, presentata dal Socio L. LuCcIANI. Lo scopo delle presenti ricerche (eseguite dal dott. G. Amantea in col- laborazione col dott. L. Manini) è stato quello di stabilire: 1) se la zeina e la gliadina fossero attaccate e in quale misura dal succo enterico; 2) se i prodotti della digestione peptica e triptica della zeina e della gliadina (zeosi e gliadosi) fossero ulteriormente digeriti da questo succo. Servì succo intestinale, fornito da uno stesso cane, operato di ansa alla Vella. che si stimolava o meccanicamente (vi si facevano circolare delle palline di vetro o di altro materiale inerte). o chimicamente (introducendovi (*) Lavoro eseguito nell'Istituto fisiologico della R. Università di Roma. lienpiconti, 1912 Vol. XXI, 2°Sem. 85 — 656 — 15-20 em?. di NaCl all'8°/o). Il succo, prima di essere adoperato, si agi- tava con una bacchettina di vetro ben pulita, per renderlo omogeneo. cosa però molto difficile a ottenere. La zeina e la gliadina adoperate sono state quelle stesse preparate anche per le esperienze riferite nelle Note precedenti; così pure gli zeosi e i gliadosi furono quelli ottenuti nelle esperienze eseguite per studiare la digestione gastrica e pancreatica delle due sostanze (1). Nelle presenti ricerche, mentre da un lato si seguiva, per pesata, la digestione della zeina e della gliadina, dall'altro si dosava la quantità di aminoacidi prodottasi. Colla bilancia si stabiliva quanta parte della sostanza messa a digerire fosse rimasta indigerita (pesando il residuo non filtrabile della quantità adoperata), e quanta fosse la parte digerita (valutandola dal residuo secco della parte filtrabile del miscuglio). Gli aminoacidi si dosavano col noto metodo del Sorensen della titolazione al formolo. La titolazione si è sempre fatta colla Na OH 2/10 usando la fenolftaleina come indicatore; la quantità di aminoacidi nelle esperienze, che riferiamo, è espressa dal numero di cm? di Na OH x/10 adoperati per neutralizzare l'acidità sviluppata dal- l'aggiunta del formolo. Per controllo si eseguirono parallelamente esperienze senza il succo intestinale, con sola acqua distillata o soluzioni debolmente alcaline. Per rispondere al secondo quesito, abbiamo studiato, col metodo di S0- rensen, lo sviluppo successivo di aminoacidi, per l’azione di una determinata quantità di succo intestinale su una data quantità di zeosi e di giiadosi com- parativamente, in soluzione all'1°/. Le soluzioni sì rendevano leggermente alcaline con aggiunta di soda. Abbiamo studiato anche il decorso di digestioni comparative di zeina e di gliadina, di zecosi e di gliadosi, seguendo il comportamento della rea- zione del biurete, eseguita giornalmente su una parte aliquota costante del miscuglio. Però questo metodo ci fornì dati incerti e meno soddisfacenti. Per ciò che riguarda le titolazioni col metodo del Sérensen, si deve tener conto del fatto, che, con la Na OH #/10 e fenolftaleina, riescono debolmente positive anche se eseguite sulla sola zeina, o sulla sola gliadina o sul solo succo intestinale. La media dei valori ottenuti in varie determinazioni è in ogni modo la seguente: Per gr. 0,50 di zena 0,3-0,4 cm* di Na OH #/10 n = 0,50 di glzadina 0-7-0,38 » ” » lem? di succo intest. 0,2-0,5 > ” (3) Cfr. Nota 18, Rend. R. Accad. Lincei, vol. XVII, 1908, C09 617; Nota 8, vol XIX, 1910, 512-517; Nota 32, vol. XX, 1911, 36-39. — 657 — Per impedire la putrefazione dei mestrui si aggiunse toluolo. La dige- stione avveniva in un termostato regolato a 38° C. Le provette usate per la digestione erano chiuse con ovatta. T. EsPERIENZA 1. — Si preparano sei provette con succo intestinale ottenuto con stimoli meccanici: Provetta a, 4cm8 di succo + 4 em? di H,0 + 1 gr. di zena; ” b, Id. + 1gr. di gliadina; ” c, 4cm8 di succo + 4em? di H:0; ” a’, 2 em? di succo + 2 cm? di H,0 + !/, gr. di zeima; » bd’, Id. + !/o gr. di gliadina; ” e’, 2cm8 di succo + 2 cm? di H30. Dopo cinque giorni la titolazione del contenuto delle provette a’, 0” e e’ dà il risul- tato seguente: a', 1,7 cm? di Na OH n/10 Do SD DI Ch 1,1 » ” Si filtra il contenuto delle altre tre provette, lavando accuratamente con acqua distil- lata. ‘llre gocce del filtrato dànno debolissima reazione del biurete pressochè eguale nei tre casi (coloraz. rosso-violetta). Si svaporano i filtrati a bagnomaria, dopo neutralizza- zione con HC1; quindi i residui ottenuti, come i filtri colla parte non digerita, si seccano e si pesano: Residuo non digerito a = gr. 0,983 Residuo filtrato a = gr. 0,063 D) » » 1} » 0,868 » » b » 0,225 ” ” ” cn 0.040 ” D) Cale» 0,054 EspeRIENZA 2. — Si adopera succo ottinuto stimolando con svluzione fisiologica, Si preparano sei provette: a, 6em® di succo + 1 gr. di zerma; b, Id. + 1gr. di gliadina; c, 6cm8 di succo; a', 83em* di succo + !/, gr. di zezma; Vv, 1d. 4 !/agr. di gliadina; c', em? di succo. Dopo sei giorni la titoli zione degli aminoacidi dà: a, 1,8 cm? di Na OH 2/10; ù' 8 » » Ch LOST n » Si filtra il contenuto delle provette 4,4 e c; tre gocce del filtrato dànno debolissima reazione del biurete (coloraz. rosso-violetta quasi ugualmente intensa per @ e c, un po più intensa per bd). Residuo non digerito a = gr. 0,968 Residuo filtrato a = gr. 0,143 bi ” D) b= » 0,857 ” ”» b= » 0,268 ” ” ” c=@n 0020 ” ” ci» 0110 IR EspeRIENZA 3. — Succo ottenuto stimolando con soluzione fisiologica; si preparano sei provette (a,0,c,@' d',c') come per l’esperienza precedente. Dopo cinque giorni si titola col metodo del Sorensen il contenuto delle provette Fo a 9 a', 1,5 cm di Na OH 7/10 yi, » » 6, 0,8 » » Si filtra il contenuto di a, d e c; tre gocce dànno debole reazione del biurete (colora- zione rosso-violetta, alquanto più marcata per la gliadina, uguale negli altri due casi). Residuo non filtrato 4= gr. 0,975 Residuo filtrato a = gr. 0,115 ”» È) ” ò » 0,871 ” ” O) 9 0,245 ”» D) D) CAIO? 0,018 » ” CARO 0,080 EspERIENZA 4. — Si mettono in termostato quattro provette preparate come segue: a, 1 gr. di zeina + 10cm° H,0 Do gliadina + n ” a',}/agr. di zeina + 5em° H,0 O gliadina + D) ” Dopo sei giorni la titolazione di a’ e 2’ dà: a', 0,4 cm di Na OH 2/10 DER ONT ” Si filtra il contenuto di 4 e 8; il filtrato (tre gocce) dà reazione del biurete (colorazione violetta, alquanto più debole per la zeina). Residui e filtrati si sottopongono ai trat- tamenti soliti. Residuo non disciolto a = gr. 0,990 Residuo filtrato a= gr. 0,015 E) ” ” b= » 0,903 » DI = AA0095 EsPeRIENZA 5. — Si preparano quattro provette come nell'esperienza precedente, ma sostituendo all’acqua distillata 6 cm? (provette a e d), rispettivamente 3 cm? (pro- vette a’ e V) di Na OH 2/10. Dopo sei giorni la titolazione dà: a, 0,3 cm3 di Na OH x/10 b, 0 » ” Si filtra il contenuto delle provette a e è; tre gocce del filtrato dànno debolmente la reazione del biurete (colorazione rosso-violetta, più intensa per la gliadina). Residui e filtrati si trattano come al solito. Residuo non filtrato « = gr. 0.901 Residuo filtrato a = gr. 0,124 ” » ” bo» 0,717 È) » DD 0,320 EspERIENZA 6. — Si preparano due provette: a — 1 gr. di zeina + 10 em* H,0 +4 5 gocce di carbonato sodico al 29/o b — 1 gr. di gliadina, id. — 0659 — Dopo cinque giorni si filtra; i filtrati (tre gocce) dànno debole reazione del biurete (colorazione violetto-rossastra, un po’ più marcata per la gliadina). Residuì e filtrati si trattano come al solito. Residuo non filtrato a= gr. 0.970 Residuo filtrato a = gr. 0,042 ” n» ” db 0.905 È) ” in (05120 JI EspeRIENZA 7. — Si preparano due serie di otto provette ciascuna: la prima (serie a) con zeosi; la seconda (serie 4) con gliadosi provenienti da digestione peptica. Ciascuna serie risulta di un lotto di quattro provette (provette a, rispett. 4) preparate con succo enterico, e di un altro lotto di quattro altre (provette a’ rispett. 8°) in cui al succo enterico è sostituita acqua distillata. Esempio: Provetta a (rispett. b) 1cm* di succo + 10 em? di soluzione di zeosi (risp. di gliadosi) all’1°/o. Provetta a' (risp b') 1 cm? di acqua distillata 4- 10 cm? di soluzione di zeosi (risp. di gliadosi). Il risultato della titolazione, eseguita a varii intervalli, è: Dopo 6 ore di termostato: a, 3,8 cm* di Na OH 2/10 DE, 0,5 ” bi) db, 34 » ”» DAROT6 » n 2 ” a, ò em di Na OH x/10 DO 0,6 bb) ” b, 4,6 » ” dv, 0,6 » » » 48 » ” a, 5 cem di Na 0H 7/10 GE OST »” DIRO, ” ” (o OO ”» Det. » a, 5 em di Na OH x/10 d, 0,7 » » e ” O » EspERIENZA 8. — Si prepara esattamente un'esperienza simile alla precedente. Il risultato di quattro titolazioni successive è: Dopo 1 ora di termostato: 4, 2,4 cm? di Na OH 7/10 Gi, IRR E) DIERDI DA n ” DEA È) ni 6» ” a,4 cem? di Na 0H x/10 GRID È) DoS ” D) O A » » 24 » ” a, 4,8 cm3 di Na OH x/10 CERTA ”» RNA: ”» » SAL ” — 660 — Dopo 48 ore di termostato: a, 5.6 cm® di Na OH r/10 do ” dol ” DO IT ” ” EspeRIENZA 9. — Si preparano due provette come quelle a delle esperienze prece- denti, due come quelle 2, due come le 6, e due come le 8’. Risultato: Dopo 72 ore di termostato: a, 4,5 cm? di Na OH 2/10 Gi 2 b) ” b , 3,6 » DI DEA ” » 144 » ” a, 5 cem? di Na 0H n/10 a, 2 ”» ” b, 88» ” (95 1,3 » n Alla fine delle tre esperienze precedenti mai abbiamo trovato assente la reazione del biurete pei peptoni (colorazione rosa’. EsperIENZA 10. — Con zeosi e gliadosi ottenuti dalla digestiune triptica, si pre- para un’esperienza simile alle esperienze precedenti. Risultato: Dopo 3 ore di termostato: a, 5,2 cm? di Na OH 7/10 GI 9 ” b, 4,8 » ” d', 3 ”» D) VM DA ” a, 5,5 em di Na 0H n/10 a',35 » ” db, 5,3» ” DB 9 ” DI So ” a, 5,5 cm* di Na OH #/10 CASSONI » NR » 9 ” Esperienza 11. — Si prepara un'esperienza simile all’esp. 9. Risultato delle tito- lazioni : Dopo. 72 ore di tirmostato: 0, 5,5 cm* di Na OH #/10 do dI D) b, 6 ” ” db, 3,2» ” » 144 » ” a, 5.8 em? di Na OH n/10 u, 5,5» ”» bh, 6 ” ” Y, D » » 1. Il succo enterico di cane ha una debole azione digerente sulla gliadina, e una ancor più debole azione digerente sulla ceina ; 2. Esso ha però pressochè una uguale azione digerente sugli seosì e gliadosi di origine peptica e triptica. I risultati di ricerche sulla digestione intestinale secondaria (flora bat- terica), sugli stessi composti proteici, saranno oggetto di una ulteriore Nota. — ol = Fisiologia. — Aicerche di elettrofisiologia sui tessuti. di sostegno (‘). Nota II del dott. TULLIO GAYDA, presentata dal Socio Poi): In una Nota precedente (*) ho dimostrato che se si sottopongono i ten- dini, le cartilagini costali e le coste ad azioni meccaniche, come trazione, compressione, flessione, torsione, sì producono correnti elettriche che, nel tes- suto in esame, sono dirette dalla porzione che subisce l’azione meccanica a quella che rimane in riposo. Inoltre se sì seziona un femore sì può mettere in evidenza una corrente diretta, nel tessuto, dalla superficie naturale a quella di sezione dell'osso. Ora come si possono spiegare tutti questi fenomeni ? Anzitutto è necessario ricercare se essi sono di natura fisiologica o pura- mente fisica. Se a distanza di giorni sì misura la corrente alla trazione ed alla com- pressione di tendini e di cartilagini costali conservati in camera umida, si osserva che l'intensità della corrente va diminuendo, ma non scompare nep- pure dopo parecchi giorni, come risulta dalla tabella I. TaBELLA LI. Esperimento XXXVII Esperimento XXXVIII Esperimento XXXIX : l'endine d'Achille Tendine d’Achille | Cartilagine costale Data Peso tensore g. 3000 Peso tensore g. 3000 |Peso compressore g. 3000 10182: sce Nepi] A ci =—cs Deviazione | Resistenza | Deviazione | Resistenza Deviazione | Resistenza mm ohm mm | ohm mm ohm 12. VII 30 12440 39 12690 35 13250 4. VIT 15 11530 — = 17 11760 16. VII 15 11570 — — 20 11700 19. VII — — 30 12040 i — 22. VII - — 9 11320 — Nell'esperimento XXXVIII la corrente alla trazione del tendine dimi- nuisce più lentamente che non nell’esperimento XXXVII, in cui il tendine è stato sottoposto più frequentemente alla trazione e quindi ha perduto molto della sua elasticità. Nell'esperimento XXXIX non si è potuto eseguire de- (1) Lavoru eseguito nel Laboratorio di Fisiologia della R. Università di Torino. (2) Pervenuta all’Accademia il 2 ottobre 1912. (*) ll. Gayda, Ricerche di elettrofisiologia sui tessuti di sostegno. Nota I. Rend. della R_Accad. dei Lincci — 662 — terminazioni più a lungo, perchè la cartilagine si era macerata e si spez- zava molto facilmente. Tutti questi risultati però non escludono ancora in una maniera deci- siva che le correnti in questione siano fenomeni vitali poichè, come è noto, 1 tessuti di sostegno conservano molto a lungo la loro vitalità, ma è pur vero che in questi esperimenti, stante la stagione calda (metà di luglio), si stabilirono molto per tempo nei tessuti in esame i fenomeni putrefattivi. La diminuzione della resistenza elettrica che in essi si riscontra è dovuta forse alla liberazione di elettroliti per la disintegrazione e scissione di com- plessi esistenti nei protoplasmi, in cui il metallo si trova allo stato non dissociato. Anche Galeotti (*) trovò che nella morte spontanea dei tessuti, dopo il distacco dall'animale vivente, la conducibilità elettrica prima va di- minuendo fino a raggiungere un minimo, ma poi, collo stabilirsi della putre- fazione, aumenta considerevolmente in seguito a processi di disintegrazione che mettono in libertà ioni di varia natura e che distruggono molti dia- frammi che si oppongono al movimento di essi. Ma fatti molto importanti si mettono in evidenza colla bollitura o col disseccamento e successiva imbibizione. La bollitura del tendine per 5' in liquido di Ringer-Locke fa scompa- rire completamente la corrente alla trazione. Il tendine però cambia com- pletamente d'aspetto, si accorcia e si ispessisce diventando trasparente: si ha insomma un inizio di trasformazione in colla. La resistenza del tendine diminuisce considerevolmente; per esempio da 2020 ohm a 650. Per la cartilagine invece la bollitura prolungata anche per un'ora non riesce a far scomparire la corrente alla compressione, benchè ne abbassi la intensità. Nell'esperimento XLVII, per esempio, una cartilagine costale, che alla compressione con 3000 g. faceva deviare l'ago del galvanometro di 20 mm., dopo la bollitura per un’ ora in liquido di Ringer-Locke, alla stessa compressione, produsse una deviazione di 15 mm. rimanendo inalterata la re- sistenza totale del circuito di 12840 ohm. Ma è da notare che la cartilagine dopo la bollitura per un'ora non presenta differenze sensibili nell'aspetto. Per quanto riguarda il disseccamento, esso produce costantemente la scomparsa di ogni corrente sia nel tendine che nella cartilagine, naturalmente perchè in questi tessuti vengono a mancare gli ioni; infatti anche la resiì- stenza aumenta di molto. Ora se sì immergono questi tessuti in liquido di Ringer-Locke e vi si tengono fino a che abbiano riacquistata per imbibi- zione l'acqua perduta, ricompare la corrente alla trazione o alla compressione e la resistenza riacquista il valore primitivo, come si può osservare nella tabella II. (1) G. Galeotti. Ricerche sulla conducibilità elettrica der tessuti animali. Lo Speri- ment.ile, 55, 759, 1901; Neue Untersuchungen dber die elekirische Leitfàhigkeit und den osmotischen Druck der thierischen Gewele. Zeitschr. f. Biol., 4°. 65, 1904. Sg — TABELLA II. Esperimanto XLIII Esperimento XLIV EA CRE Tendine d’Achille Cartilagine costale Data Condizione Peso tensore g. 3000 Peso compressore g. 3000 LOLA del tessuto Deviazione tesistenza | Deviazione | Resistenza mm ohm mm ohm 16: Vil normale 42 12040 2008 12860 19. VII disseccato (0) 16090 0 139900 20. VII imbibito 95 11370 22 12850 Tutti questi fatti autorizzano ad ammettere che le correnti che si pro- ducono nei tessuti di sostegno in seguito ad azioni meccaniche sono di na- tura puramente fisica, perchè si osservano anche dopo la morte. Solo una profonda alterazione della costituzione del tessuto quale sì verifica nella pu- trefazione o nella bollitura del tendine possono far diminuire e rispettiva- mente scomparire tali correnti. La corrente che si osserva in seguito alla sezione di un femore invece è probabilmente d'origine vitale. Subito dopo eseguita la sezione, la corrente è diretta, nel tessuto, dalla superficie naturale a quella di sezione dell’osso; in seguito scompare e talvolta si inverte. Questa corrente si comporta quindi come quella che si produce in conseguenza di tagli eseguiti nella pelle e a Spiegazione di essa possono servire le stesse ipotesi che Herlitzka (!) emise per le correnti della pelle. Tali correnti, secondo Herlitzka, sono determinate da una differenza di potenziale fra l'interno delle cellule normali e la loro superficie esterna; in questo caso la superficie di sezione (cioè l'interno delle cellule) è positiva. Solo quando la vivalità delle cellule viene ad essere alte- rata si produce una corrente di alterazione nel senso di Hermann e la super- ficie di sezione diventa negativa. Nel caso dell'osso quindi la superficie di sezione è positiva rispetto a quella naturale, perchè la prima è costituita in massima parte dall'interno degli elementi cellulari del midollo osseo messo allo scoperto dalla sezione, mentre la seconda comunica per mezzo della parete ossea con la superficie esterna di detti elementi cellulari. Una corrente di riposo, simile a quella che si riscontra per il femore, non sì verifica per i tendini e le cartilagini; la ragione va ricercata pro- babilmente nel fatto che questi due ultimi tessuti sono molto meno ricchi di elementi cellulari che non il midollo osseo, e quindi se l’elettrode appli- cato sulla superficie di sezione viene a contatto coll'interno di una cellula, (') A. Herlitzka, Ein Beitrag zur Phisiologie der Regeneration. Elektrophysio- logische Untersuchungen. Arch. f. Entwicklungsmech. d. Organ., 30, II, Festschr. f. Prof. Roux, 126, 1910. RenpicontiI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 86 — 664 — sì troverà anche a contatto con l'abbondante sostanza intercellulare che cir- conda immediatamente la cellula e comunicherà per mezzo di questa sostanza anche con la superficie esterna della cellula. Si presenta ora la questione se i fenomeni osservati per i tessuti di sostegno in seguito ad azioni meccaniche abbiano luogo anche per altri tes- suti, per esempio per il tessuto muscolare. Già du Bois-Reymond (') osservò che il distendimento del muscolo in riposo produce una diminuzione della corrente di demarcazione, mentre la compressione nel senso della lunghezza produce frequentemente un aumento. D'Arsonval (*) invece, legando due muscoli fra di loro con un filo di seta in modo che un muscolo contraendosi stirasse l'altro e congiungendo ognuno dei muscoli con un galvanometro nel modo solito, trovò che se uno dei muscoli era stimolato presentava la variazione negativa usuale, mentre l'altro disteso dalla contrazione del primo presentava una variazione positiva. Allo stesso risultato giunse Parsons (*). Egli fissò nel mezzo un sartorio di rana e sottopose una metà del muscolo alla trazione lasciando l'altra in riposo: la prima diventava in ogni caso positiva rispetto alla seconda. Lo stesso ottenne collo sciatico morto di cane. Burch e Hill (4) ritengono però che il fenomeno osservato da d’Arsonval sia dovuto a imperfetto isolamento della corrente indotta eccitatrice, poichè non sì ottiene più con un buon isolamento. Schenck (*) confermò completamente i risultati ottenuti da du Bois- Reymond, sperimentando sul gastrocnemio e sul sartorio di rana e applicando un elettrode nel mezzo del muscolo e l’altro su una sezione termica eseguita ad una estremità coll’immersione per alcuni minuti nell'acqua a 45°-50°. Ma in un lavoro seguente Schenck(5) riporta alcuni esperimenti di Horsch, nei quali un sartorio di rana, perfettamente intatto, era fissato nel mezzo ed una metà era stirata con un peso di 24 g, mentre l’altra rimaneva in riposo; in queste condizioni lo stiramento non produceva alcun fenomeno elettromotore. ()) E. du Bois-Reymond, Untersuchungen dber thierische Elektricitàt, 2 (1), 129, Berlin, 1849. (2) A. D’Arsonval, Recherches d’électro-physiologie. Relations entre la tension super- ficielle et certains phénomènes électriques d'origine animale. Arch. de Physiologie, 1, 460, 1889. (*) J. H. Parsons, A physical eaplanation of muscle and nerve currents. Proceed. of the Physiol. Soc., 1892. Journal of Physiol., 13, V, 1892. (4) G. J. Burch and L. E. Hill, On d’Arsonval’s physical theory of the negative variation. Journ. of Physiol.. 16, 319, 1894. (5) F. Schenck, Veder den Einfluss der Spannung auf die « negative Schwankung » des Muskelstroms. Pflùger's Arch., 638, 331, 1896. (6) F. Schenck, Aleinere Notizen zur allgemeinen Muskelphysiologie. Piliger’s Arch., 79, 3152, 1900. — 665 — Gli esperimenti che io eseguii sul muscolo semitendinoso di coniglio, adoperando lo stesso dispositivo che per la trazione del tendine ed applicando un elettrode sulla porzione di muscolo che veniva tesa e l’altro su quella non tesa, sulla superficie di sezione o in immediata vicinanza, confermarono benchè non costantemente, i risultati ottenuti da du Bois-Reymond: la tra- zione produceva una diminuzione della corrente di demarcazione. Ecco, per esempio, i risultati ottenuti nell'esperimento XLV: in questo esperimento passava per il galvanometro solo 1000/8042 della corrente muscolare, perchè, essendo la corrente di demarcazione molto forte, si dovette inserire nel shunt del circuito una resistenza di 1000 ohm. EspeRIMENTO XLV. Peso tensore g (0) Deviazione mm. 165 7 ’ » 500 ’ salto) Ù ” » 1000 7 i lo2 ’ , » 1500 > n 147 ’ ’ » 2000 > n 145 7 , » 2500 7 » 138 ’ ’ » 3000 7 » 154 ” ’ » 2500 ” ai Ia) 7 - » 2000 7 du Sal ” ” » 1500 ” » 146 - , » 1000 7 » 148 7 ” » 500 ” » 155 > " > 0 ” » 162 Ora si può pensare che la diminuzione che sì osserva nella corrente di demarcazione del muscolo per effetto della trazione sia dovuta ad una cor- rente inversa a quella di demarcazione e analoga perciò alla corrente che abbiamo visto prodursi nei tessuti di sostegno in seguito ad azioni mecca- niche. Se si fa bollire il muscolo per 5’ in liquido di Ringer-Locke, esso non presenta più corrente di demarcazione, come non presenta corrente di sorta se è sottoposto alla trazione. Lo stesso accade se si fa disseccare il muscolo, ma a differenza dei tessuti di sostegno, non si riottiene alcuna cor- rente se dopo il disseccamento si fa riacquistare al muscolo l’acqua perduta tenendolo immerso in liquido di Ringer-Locke. Quindi non è dimostrato che la diminuzione della corrente di demarcazione del muscolo nella trazione avvenga per il prodursi di una nuova corrente inversa alla prima e parago- nabile a quella che sì osserva nei tessuti di sostegno. — 666 — In seguito ad azioni meccaniche furono osservati da Waller(!) e da Bose (°) fenomeni elettromotori anche nelle piante; come nei miei esperi- menti, il tratto che subiva la trazione o la compressione diventava negativo rispetto a quello che rimaneva in riposo. Bose (*) anzi ottenne fenomeni elettromotori analoghi anche dai corpi inorganici. Impartendo vibrazioni torsionali o longitudinali a fili metallici, il tratto eccitato diventava positivo per certi metalli, negativo per altri. Come per i tessuti animali e vegetali anche per i metalli si osservava il prodursi della fatica che deprimeva i fenomeni elettromotori, così pure li deprimevano o li abolivano alcune sostanze, mentre altre li eccitavano. In base a questi e a molti altri fenomeni, Bose fu condotto ad ammettere una continuità, per quanto riguarda la reazione allo stimolo, fra gli organismi viventi e la materia inorganica. I miei esperimenti hanno dimostrato che i fenomeni elettromotori che sì producono nei tessuti di sostegno in seguito ad azioni meccaniche sono di natura puramente fisica, ma non è detto ancora che per questo possano condurre a quella generalizzazione a cui è giunto Bose. Esperimenti collaterali da me eseguiti non sono neppure riusciti a for- nire un criterio per spiegare il meccanismo di questi fenomeni elettromotori. Pensando che questi fenomeni potessero dipendere da differenze di tem- peratura indotte dalle azioni meccaniche nel tessuto in esame, cioè da un riscaldamento in corrispondenza del punto eccitato, riempii con soluzione fisiologica le due branche di un tubo ad U che erano separate l'una dal- l’altra da una membrana dializzatrice, per mezzo di elettrodi impolarizza- bili misi in comunicazione col galvanometro il liquido delle due branche del tubo e riscaldai il liquido in una di queste. In queste condizioni osservai lo stabilirsi di una differenza di potenziale. La porzione di liquido riscal- data diventava positiva rispetto a quella fredda; per ottenere una deviazione dell'ago del galvanometro uguale a 1 cm., era necessaria una differenza di 40° fra le temperature delle due porzioni di liquido. La direzione della corrente era adunque inversa a quella che era da aspettarsi secondo quanto si è detto sopra, e la quantità di calore per ottenere una differenza di po- tenziale sensibile troppo grande. Altri esperimenti, eseguiti sottoponendo a trazione e a compressione un fascio di fili di cotone imbevuti di soluzione fisiologica, non misero in evi- denza la produzione di alcuna corrente. (1) A. D. Waller, Electrical response of vegetable protoplasm to mechanical exci- tation. Proceed. of the Physiol. Soc., 1901. Journ. of Physiol., 27, XXV, 1901; Researches in vegetable electricity. Compt. rend. du V Congrès international de Physiol., Turin, 1901. Arch. ital. de Biol., 36, 25, 1901. (*) J. C. Bose, Comparative electro-physiotogy, 25, London, 1907. OO select no — 667 — D'altra parte non si può neppure pensare che i fenomeni elettromotori in questione dipendano da variazione di tensione superficiale in seguito a deformazione meccanica, come suppose d'Arsonval (*) per spiegare i feno- meni elettrici che accompagnano la contrazione muscolare. Se si immagina che gli elettroliti dei tessuti siano racchiusi in spazî capillari nei quali presentino una data tensione superficiale, è naturale che, quando questi spazî vengano deformati in seguito a trazione o a compressione esercitata sul tes- suto, quegli elettroliti subiranno un aumento di superficie e quindi presen- teranno anche un aumento di tensione superficiale. Ora questo aumento di tensione superficiale è accompagnato da una corrispondente variazione della carica elettrica (reversibilità dell’ elettrometro capillare di Lippmann) e perciò quegli elettroliti diventeranno positivi rispetto ad altri che non ab- biano subìto variazioni di tensione superficiale. Anche qui adunque la dire- zione della corrente sarebbe inversa. a quella riscontrata nei miei esperi- menti sui tessuti di sostegno. Mancano adunque i dati che valgano ad indicarci quali processi diano origine ai fenomeni elettromotori osservati; di ciò si deve imputare sopra tutto la complessa costituzione dei tessuti animali. Fisiologia. — Sulla sostituibilità dell’urea nelle soluzioni artificiali pel cuore isolato dei selaci (°). Nota di R. BOMPIANI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Colle presenti ricerche (eseguite per consiglio del prof. S. Baglioni) mi proposi di studiare l’azione esercitata da alcuni derivati dell’urea e da altre sostanze di determinata natura chimica, sul cuore isolato dei selaci. Il punto di partenza fu di vedere se esistono composti chimici capaci di sostituire l’urea nelle soluzioni artificiali per il cuore dei selaci. L’im- portanza dell'urea come sostanza che favorisce alcuni processi fisiologici (funzione cardiaca e dei centri nervosi), è stata da alcuni ascritta ad una azione specifica di questo composto, da altri ad una sua proprietà fisico- chimica che avrebbe in comune con altre sostanze (solubilità nei lipoidi). I dati di fatto, su cui si son fondati questi ultimi autori, furono otte- nuti sul sistema nervoso isolato di rana; nessuno ha però tentato (almeno con una ricerca sistematica) di vedere se altri composti diversi dall’urea, ma che hanno con essa la detta proprietà fisico-chimica in comune, sono capaci di sostituirla nella soluzione fisiologica pei selaci. Mi è sembrato opportuno di colmare questa lacuna. (1) A. d'Arsonval, loc. cit. (°) Ricerche eseguite nella sezione di fisiologia della Stazione zoologica di Napoli. — 668 — Per le mie ricerche mi son servito di esemplari di Torpedo Ocellata e di Scyllium (catulus e canicula). Questi animali, appena tolti dalle vasche dell'acquario, erano uccisi mediante taglio del bulbo e distruzione del mi- dollo spinale. Subito dopo, messo allo scoperto il cuore, si praticava la le- gatura e quindi la recisione delle vene atriali; fatto un piccolo taglio nella parete del cono arterioso, s' introduceva in esso una cannula di vetro fino all’interno del ventricolo, superando le valvole. Legato strettamente il cuore alla cannula, e separatolo completamente dai suoi rapporti anatomici, lo riempivo di una piccola quantità di liquido di Filhner ed assicuratomi del suo normale funzionamento lo ponevo in una camera umida. Questa era costituita da un cilindro di vetro (alto cm. 12 e del diam. di 7 cm. circa) chiuso superiormente da un tappo di sughero, cui veniva sospesa la cannula, ed inferiormente da un secondo sughero forato nel centro, in modo da lasciar liberamente scorrere il filo di connessione tra la leva scrivente ed il ventricolo. La camera resa umida da un sottile strato della soluzione adoperata giacente sul fondo, riceveva una leggera corrente di O, proveniente da una bottiglia di lavaggio che conteneva la soluzione di Fihner. Al momento opportuno, quando si voleva sperimentare l’effetto della nuova soluzione, mediante una pipetta capillare veniva svuotato e quindi riempito il cuore del nuovo liquido, badando che esso durante la fase sistolica rag- giungesse, all’interno della cannula, lo stesso livello di prima. In qualche caso mi son servito del metodo della perfusione, adope- rando una cannula di vetro a doppia via, costituita da un tubo a T posto in senso orizzontale --, la cui branca laterale rappresentava la via di efflusso, e quella verticale, cui veniva legato il cuore. conteneva un secondo tubo a calibro più piccolo, che pescava all'interno del ventricolo: questa era la via di afflusso; durante la diastole il cuore riceveva per questa via una certa quantità di liquido, di cui si vuotava per la via laterale durante la sistole: si aveva così un ricambio completo del liquido a contatto del miocardio. La leva era una leva isotonica semplice, collegata da un lato, mediante un sottile filo, con la punta del ventricolo, dall'altro con la striscia affumi- cata di un chimografo di Straub. Per ciò che riguarda le soluzioni, ha servito come prototipo, con cui confrontare gli effetti delle soluzioni sperimentate, quella del Fiihner che contiene: Cala 0,2 NaH C03 = 0,2 K CI = 0,1 Negli — =200 Urea =. 25,0 H.0 = 1000,0 n — 669 — Questa soluzione non differisce essenzialmente da quella del Baglioni che per la presenza del K CI, il quale, secondo l’autore, ha importanza nel- l’impedire la comparsa dei fenomeni di aritmia. Per le altre soluzioni da me sperimentate, mi son servito di liquido di Fihner in cui all’urea sostituivo in quantità isomolecolare la sostanza voluta. Per lo più di dette soluzioni ho anche determinato il punto crioscopico con l'apparecchio del Burian-Drucke. La concentrazione delle soluzioni usate è espressa da un 4 oscillante per lo più tra 2°,05 e 29,30, valori compresi tra quello indicato dal Bottazzi per il sangue in toto dei selaci (corrispondente ad una soluzione 3,5 °/, di NaCl in H.0) e quello alquanto minore della soluzione di Baglioni. Le sostanze adoperate erano chimicamente pure, fornite da Kahlbaum. Ho determinato la reazione dei liquidi usati servendomi di varî indi- catori, e riscontrando come le soluzioni neutre permettano a lungo la soprav- vivenza del cuore dai selaci, le fortemente alcaline o acide siano dannose, e finalmente l’optimum sia dato da una soluzione la cui alcalinità (riscon- trabile col nitrofenolo) è Sea cm.ì di Na 0H E 10 10 Ho tenuto conto della temperatura, che rappresenta una delle condizioni essenziali per la sopravvivenza del cuore dei selaci. I risultati ottenuti furono dedotti dalla durata di sopravvivenza e dalle modificazioni dei cardiogrammi (tono, frequenza e ritmo), che le sostanze studiate producevano in confronto alla soluzione di Fihner. I risultati sono riassunti nelle due tabelle seguenti, in cui la durata della sopravvivenza è indicata in minuti primi, le variazioni positive del tono sono indicate con +, quelle negative con —; le variazioni positive della frequenza con + seguito dalla cifra del numero delle pulsazioni aumentate in un minuto. Le varia- zioni di tono e di frequenza indicate sì riferiscono al tempo, che seguiva immediatamente all’inizio dell’azione. 670 — - — G1-8 ‘98 08° oleui Ip enboy GIGLI IIIA LL XIXX “ 0 Îla OGI GGI « 03° | vorm eos Ip suorzafos | GI6T XI 9ZINAXX 078 c‘9g | yezzira;nou | “godi oorurStItASE ‘9 y GIGI IIIA L ITAXX == 48 ‘93 (i)g0di oorurSvatdse ‘ov GI6I IIIA L TAXX 02) tyood L6 « ‘godi gULSBIBASY ZIGLIIIA — AXX 0 ap 086 0% «____| 06% “ GIGI XI 86 AIXX 0 dp (iza 13 | prog *550] | ‘godi ©[[0000I]5) 3I6I IIA 08 IIIXX “ == |=ess Gal 86 = °°/00G1°0 ouE}eIA gI6I IIA 76 IIXX 0 = 008 ce | eproe "5301 | 08% 9U0399 7 FG NGI Md. IDO “ 0 sla SI 86 “ °/089°1 “ GI6L IIA 86 XX “ 0 sala = 03 “« 01° “ “ Au dg = SID UIWIZLIY 0 Je 8 19 GR NOS « “ GI6L IIIA S IIIAX 0 P 019 03 |euneo]e ‘359]| 01° 00/0 1648€ CULIS9I]!) GI6I XI 26 IINX rorportod rddnao) 0 3 SE co |tyezzigeIgmou | 06°0 “ I6I XI 8I IAX 0 + + + Sg Vara VUI[BO]® ‘Q40J OLE OTUOUIUIE,p oRUUEIET GLOL XI GLI ANAX “ 0 = S Pad « 86°1 “ Flag Sal Gio AD 09T[OgSEIp 0 —= g 36 | prote ‘mou | g6°1 VUBSSO]TV GI TO 0) RATTO “ 01+ T OL od « BUOI SOL A IIX ULU LIV 0 08 (TA 0JRIUIT Biol d9l a IX 0 = 06 03 “ 818 VUIPrUtnI) GIGLI XI 08 X 0 = Gg 8 “ 08° « ol Sao XI torponied idduw9| (4) 109518 0 = Gg 83 |uo|e +55] 0x9 UOIMOL], ... di re- lazione, sono espressi dal simbolo composto ea. Una relazione per gli w si dirà normale, Rel Normu, quando è r2/les- siva, simmetrica e transitiva (come eguale a, simile a, parallela a, ecc.): [2] ueCls.9. Rel Normu= Relunaszta,ysu.Ixgy:geay.=.orxr=0y)}. Essendo « una Rel Norm «, indicheremo con R(v, a), classe di Russel, la classe i cui elementi sono le classi ax variando x in 4, e con P(w, @) la classe formata da tutte le classi sim/ ad R(u,@), cioè da tutte le classi v che possono porsi in corrispondenza univoca e reciproca con la classe R(u.@): [3] ueCls. «e Rel Normu.9. Ru, a)=}t(aax)| xe}, [4] wsCìs. as Rel Normu.9.®(4,a)= Clsnvagf]vF Ru, @)} rep. Se, ad es., v è la classe retta e a è la relazione parallela a, allora R(u,@a) è la classe stella di rette parallele; una delle D(u, @) è la classe direzione 0 punto all'infinito. 2. Sia D© un complesso (classe) di mozioni logico-scientifiche, cioè enti 0 relazioni 0 funzioni logiche, enti 0 relazioni 0 funzioni geometriche, analitiche, ecc. La classe O© può essere formata da futte le nozioni che (1) Faccio uso dei simboli del HMormulario di G. Peano. Per la definizione di fun- zione cfr. Proprié'és formales, pag. 142 (nota a piè di pagina). pag ) pas — 679 — noi effettivamente possediamo, o da alcune che a noi piace scegliere, tra quelle note, per formare un certo campo logico-scientifico. Una classe v si dirà « definibile nominalmente nel campo DE », quando è possibile di porre v= « espressione avente significato e formata soltanto con le nozioni DE ». Se, ad es., nel campo DW son compresi punto e distanza, allora superficie sferica è definibile nominalmente in ©, perchè « superficie sferica » = classe v di punti tali che: esiste un punto A e una distanza 7 tali che qualsiasi punto di v dista di 7 da A ». Nulla impedisce che nel campo O noi intendiamo comprese tutte le classi, e i loro elementi, che sono definibili nominalmente nel campo DV, poichè tali enti appartengono virtualmente al campo e vengono ad appar- tenervi mazerialmente appena sono definiti nominalmente. E si noti che tali definizioni nominali non sono necessarie, ma soltanto utili per abbre- viare il linguaggio. In virtù di tale convenzione, ed osservando che So è classe, risulta che « classe definibile nominalmente nel campo © » vale semplicemente «“ classe di DE 3; [5] « classe definibile nominalmente nel campo DO » — Cls ‘DC. 3. Chiameremo « elemento semplice in DE » ogni elemento di DV che non è una classe formata con gli DV: [6] « elemento semplice in Do » = Do- Us ‘No. Ad es.: nello spazzo di punti, ogni punto è elemento semplice, mentre le rette 0 piani sono elementi non semplici; nello spazio di rette 0 di piani, ogni retta o ogni piano è elemento semplice, mentre i punti e i piani (classi di rette) o i punti e le rette (classi di piani) sono elementi non semplici. Analogamente chiameremo « classe semplice in © » ogni classe de- finibile nominalmente in O, i cui elementi sono semplici in DV: [7] « classe semplice in Dl » = Cls ‘(No - Cls ‘Do). Una classe definibile nominalmente come classe semplice in un campo So, può non esser definibile nominalmente come classe semplice in un altro campo. Ad es., Ja classe giacitura non si sa definire come classe sem- plice nel campo OY formato dalle nozioni geometriche contenute nei libri di Euclide, ma può esser definita nominalmente come classe semplice nel campo che si ottiene unendo ad o la classe direzione. 4. Tenuto conto che nello svolgimento progressivo di una scienza il campo iniziale D© va continuamente aumentando, possiamo stabilire il se- guente principio logico, o postulato logico, che dà ìl modo di accrescere il — 680 — campo O e di definire effettivamente, e rzspetto al campo DE, le ordi- narie classi considerate al principio di questa Nota. Se, essendo u una classe e @« una Rel Normu, non esiste una D(u,@) che sia classe semplice in Dt, allora esiste una sola D(u,@) che è sem- plice in un campo DE' più ampio di De (?): [8] ue Cls. ae Rel Normu.-H} (4, @)n Cls ‘(MN - Cls ‘90. d. Num[®(v,@)nvsH | Campongos [Do IN. ve Cls‘(MN'- Cls‘NI)]}]= 1. Nell'ipotesi ora fatta, l’unica ®(u, «) della quale affermiamo l’esistenza, non è definibile nominalmente nel campo 9%, e, come tale, può esser chia- mata « classe astratta, rispetto ad o, determinata da v e @ »; brevemente, Ahs(M0,u, a): [9] Hp[8].9. Abs(9%0.,u, = 1 [P(u , a) (MNZEZCI }Campo ©) DIOE 9140) Do. ve Cls (Vo Cls ‘DO )] i] i Sia, ad es., 9% il campo delle nozioni logico-geometriche contenute nei libri di Euclide. Se « è la classe resta e @ la relazione parallela a, allora l'ipotesi della [8] è verificata e Abs(O%,%,@) è l’ordinaria classe direzione. Sia u la classe coppia di punti e « la relazione tale che per A,5B, punti arbitrarii, a(A4, 8) è la classe formata dalle coppie (XY, Y) tali che « punto medio tra A e Y » = « punto medio tra B e X »; allora l'ipotesi della [8] è verificata, e Abs(©0,v,@) è l’ordinaria classe vettore. 5. Valga l'ipotesi della |8]. Una relazione tra gli elementi (semplici in Dt) della nuova classe Abs(M0,%, a) e la classe R(u, @) vien stabilita da una corrispondenza univoca e reciproca / tra le due classi, corrispondenza effettivamente esistente perchè Abs(Mo,%,@) è una delle P(v, @). Giova peraltro notare che delle / ne esistono infinite. Se x è un v allora /(@«) è un determinato elemento di Ahs(9,4,0) che, per essere @ relazione normale per gli , coincide con /(@y), qualunque sia l'elemento y di @z. Indicheremo con /.,,a l'operatore (univoco ma non più reciproco) tra gli u e gli Abs(Q0,%, @); tale che, per x elemento ar- bitrario di v, si abbia sempre fua® = f(2%); [10] Hp[8]./#}Abs(©%0,v, e) FR(u, a)}rep.d. fua= [Abs (9%, u,e)Fungs}reu.dy. px —Hi)a]h (£) Analogo ai postulati esistenziali dei quali si fa uso in geometria per passare dalla geometria della retta a quella del pia7%0, da quella del piano a quella dello spazio (ecc. per spazî a più di tre dimensioni). — 681 — L'operatore /,,a stabilisce una delle intinite relazioni tra gli « e gli Abs(M0,%,a); e per x,y elementi arbitrari di v gode della proprietà seguente : [11] fuaX = fuay.=-yYEar. Per il primo degli esempî considerati alla fine del n. 4, /n,a è l’ope- ratore direzione di o punto all'infinito di; la [11] esprime che due rette hanno egual direzione solamente quando sono parallele. Per il secondo esempio, fu,a(A.B) equivale alla notazione, di Hamilton e di Grassmann, B— A, e quindi indica il « vettore da 4a 8 »; la [11] esprime che B—A=Y—X solamente quando A-+ Y= 8 +- XY, cioè solamente quando i segmenti A Y, BX hanno a comune il punto medio. 6. Da quanto abbiamo esposto risulta chiaramente come si possano definire per astrazione le classi astratte rispetto al campo De. Fissato il campo Mo, data la classe « e la relazione normale @ per gli %, consta- tata l'inesistenza di classi ®(v, @) semplici in O, allora si può affermare, in virtù del postulato [8], l’esistenza e l'univocità di una nuova classe Abs(9%,%, a) in un campo No che, dl minimo, risulta formato dalla somma logica di O con la classe Abs(OE, 4, @). Dopo ciò, è possibile collegare gli R(x,@) con gli Abs(O©@,%. a) mediante un operatore f uni- voco e reciproco; da questo si ricava l'operatore /,e, univoco ma non reci- proco, che collega gli v con gli Abs(OW, v, a). Che ciascuno di tali colle- gamenti non possa farsi in un sol modo è evidente; altrimenti, Abs(D6 , 4, @) sarebbe definibile nominalmente come classe semplice in DE. Tra questa conclusione e il collegamento ordinario tra gli u e gli Abs(O0,%,@) vi è una apparente contraddizione. Ad es.: nel comune lin- guaggio geometrico si ammette implicitamente. anzi instintivamente, che « punto all'intinito della retta x » sia un ente X unzvocamente determinato dalla retta x. Ora a ciò siamo condotti da una imperfetta analisi della que- stione. Invero: sia 8 un operatore ur/voco e reciproco che trasforma punti all'infinito in punti all'infinito; le ordinarie proprietà del parallelismo non subiscono la benchè minima alterazione se #_X, e non il supposto ente XY, si considera come punto all'infinito di x. 7. Forme rudimentali di definizione per astrazione sono usate: da Ku- clide per la definizione di rapporto; dai tisici per la massa, tempera- tura, ecc.; da G. Cantor per la definizione di numero cardinale e numero ordinale ecc. (!). Nel /ormulario Matematico di G. Peano, si procede, in sostanza, così: si considera, da prima, una /x,a, della quale peraltro non si dà defi- (1) Secondo G. Cantor, la nostra classe Abs(O0,%,@) vien definita come « quella ilea generale che per mezzo della nostra attiva facoltà di pensare si deduce da w e da @ ». — 682 — nizione formale; la relazione [11] tra la /,x, e la @ si stabilisce per defi- nizione; si ammette implicitamente che la [11] basti per definire la / e la classe Abs(O©, wu, a). Che per tal via non si possa raggiungere lo scopo resta evidente pensando alla pluralità delle / (pluralità inevitabile) e alla pluralità delle ®(v,@) (pluralità che si evita introducendo il campo Do e le classi semplici in tal campo). Il principio logico da me inserito nelle Motes degli Z/éments de calcul vectoriel, non è logicamente preciso, ma si rende esatto %n/roducendo il campo Do, l'ipotesi della [8] (elementi so/tintesi nelle ordinarie defini- zioni e che era necessario analizzare, come ho fatto, per poterne far uso esplicito); e inoltre: sostituendo a « il existe alors une classe unique v et une fonction unique / » la frase « il existe alors une classe unique v, simple par rapport au domaine O, et une fonction / ». L’inesattezza logica delle forme comuni di definizione per astrazione, è indiscutibile; esse devono dunque essere abbandonate e credo che possano esser convenientemente sostituite (sia nel campo scientifico, sia in quello didattico) dalla forma indicata in questa Nota Alcuni ritengono, col Russell, che le R(u,@) debbano, in ogni caso. essere sostituite alle ordinarie intuitive ed instintive classi semplici, che, esattamente, sono le classi Abs(Mo.v,@) da me individuate. Ora ciò non è ammissibile. Non praticamente, perchè alle R(u,@) manca l’ usuale ca- rattere di classe semplice, e gli enti definiti successivamente con le R di- vengono ben presto così complessi da risultare immaneggiabili. Non logica- mente, sia perchè quando esistano classi semplici v appartenenti a P(u, a). non pare possibile stabilire un criterio generale di scelta tra le v e R(u, a), sia perchè una stessa classe può essere rappresentata da classi R(v,«) in modi diversi. Ecco un esempio di questo ultimo caso: La classe numero intero è data quale R(v,@) da una classe i cui elementi sono classi for- mate da classi finite, tutte simili tra loro (classe di classi di classi!) (*); la classe razionale è data quale R(u,@) da una classe di coppie di numeri interi (e, quindi, da una classe di coppie di classi di classi!!); ma per le esigenze del calcolo formale algebrico l’intero 4 deve potersi identificare al razionale 4/1, e quindi una « classe di classi di classi » viene ad essere identificata ad una « classe di coppie di classi di classi »; il che è assurdo. (®) Per il numero uno si ha, ad es., IG tV contrariamente alle più comuni idee che si annettono al numero uno. — 683 — Meccanica. — Sugli operatori funzionali ereditarit. Nota dell'ing. Grovanni GrordI, presentata dal Corrisp. A. Di LEGGE. Questa Nota fa seguito alla precedente Sui problemi della elasticità ereditaria ('): e ha per oggetto la discussione dei simboli A= f (0) 20246 (1) $ DA)= f (0) 0240 che è necessaria come preliminare alle ulteriori Note che ho promesso di dedicare allo stesso argomento. I detti simboli sono operatori funzionali, espressi sotto forma di funzioni analitiche dell'operatore differenziale A = di Le loro proprietà, secondo la teoria applicata (*), dinendono dalla forma che avrebbero le funzioni ®(A), (A), qualora A, anzichè un simbolo di deri- vazione, rappresentasse una variabile complessa. Occorre dunque effettuare per sommi capi la discussione di questa forma analitica. In tutto il corso della presente Nota pongo dunque A= é 4- 7. Tengo presente che (0), w(60) sono funzioni date sperimentalmente, e hanno l’an- damento rappresentato dalle fig. 1 e 2 della Nota precedente; cioè partono da una ordinata iniziale finita o infinita per 9=+0, e asintoticamente tendono a zero per 9=+- co, il tutto con legge tale che il loro integrale preso fra ì limiti 0,00 converge sempre assolutamente. Considero le (1) come formole che, mediante le due funzioni conosciute di variabile reale g(8), (0), definiscono (almeno in un certo campo) due funzioni di variabile complessa @(A), 0 vale solamente pel ramo principale così definito. Questa constatazione — e, in termini più generali, quella della amaliticità delle B(A), Y(A) — è necessaria conseguenza del fatto che le g,w sono integrabili fra 0 e + co, e che si annullano per valori negativi del loro argomento: cioè che gli integrali (1) non hanno contributo di elementi dati da valori negativi di 0. Fisicamente, si risolve dunque in una condizione di successione, la quale esprime che, in ogni caso, l’effetto ereditario non può mai precedere la causa che lo pro- duce; ed è condizione certamente verificata in ogni fenomeno, qualunque siano le parti- colarità ulteriori della legge ereditaria che l’esperienza può di volta in volta rivelare. Gli altri rami diversi da quello principale, non soddisfano in generale alla condizione di successione: quindi non hanno interesse per lo studio dei fenomeni ereditarî; soltanto l’insieme della funzione con tutti i suoi rami può intervenire in ricerche sulle vibrazioni dei sistemi liberi. — 635 — Precisata così la defizione delle funzioni e del loro campo di esistenza, la discussione ulteriore dei loro caratteri dipende da questa relazione : che le proprietà al finito delle ® , W, dipendono da quelle all'infinito delle p,w, e reciprocamente (!). In particolare, l’ascissa della linea di frontiera del campo di convergenza di cuì sopra, cioè l'ascissa del punto singolare più vicino all'asse reale, si deduce dal comportamento asintotico della rispettiva (6) o w(0). Così, se g(0) per 6=-+co si comporta come C 2-49 (+ eventuali termini a decre- scenza maggiormente rapida), dove C sia una costante, o una funzione a comportamento asintotico algebrico (cioè che non cresca o non decresca più di una potenza positiva o negativa di 0), allora la detta ascissa, per la fun- zione D(A), è uguale a — A; se g(0) ha comportamento asintotico più ra- pidamente decrescente di qualunque funzione esponenziale, p. es. se sì an- nulla all’ co come de l'ascissa in questione è = — 00, cioè la D(A) risulta una trascendente intera. Previsioni più generali, valevoli in casi meno semplici, sì possono ottenere applicando, sia un noto teorema di Landau, sia altre formole asintotiche deducibili con procedimento analogo a quello di Cauchy-Hadamard che dà il raggio di convergenza di una serie di potenze. Quando in pratica (come si fa comunemente) si trascurano le azioni ereditarie da un'epoca remota in poi, le ®(A), (A) risultano di necessità trascendenti intere. E se si ammette che l'esperienza non possa mai deci- dere sull'esattezza di questa supposizione, o che con lo scegliere sufficiente- mente remota l'epoca in questione sia conseguibile qualunque approssima- zione prefissa, si deve anche ritenere che la sostituzione delle ®(A), P(A) con opportune trascendenti intere è sempre permessa, senza conseguenza accertabile sui risultati. Questa osservazione elimina la necessità della ricerca, altrimenti assai complicata, di tutti i punti singolari al finito delle fun- zioni D, Pd. Ma qualora, per opportunità di certi calcoli, o per altre par- ticolari ricerche, convenga trattare le funzioni medesime come non prive di punti singolari al finito, si deve tener presente che l’esperienza, pur lasciando incerta l'esistenza e la natura di questi punti, impone alcune limitazioni alla loro distribuzione e alla loro «intensità ». Anzitutto sappiamo che non pos- sono invadere il semipiano delle È positive; quelli eventuali sull'asse imma- ginario non possono essere poli, perchè ivi la funzione deve restare finita; quelli del semipiano negativo hanno « coefficienti d’intensità » che dipendono dalle loro ascisse. Per precisare con un esempio: se @(A) contiene un ter- C Do > mine = o" (C costante, m reale positivo qualunque, o reale negativo sas qualunque), deve (0) contenere corrispondentemente la funzione generatrice m=-1 i ; SE ; (o) di questo termine, e quindi contenere un termine C rm) 0 m e°° > e la decre- (1) Cfr. L. Pisati, op. cit., pag. 279. — 686 — scenza dei valori di g(0), osservata esperimentalmente, può fornire di volta in volta per C un limite inferiore, dipendente dal valore assoluto attribuito all'ascissa negativa o. Veniamo ora allo studio delle proprietà per A = 00; queste hanno maggiore importanza, perchè si connettono con le proprietà al finito della funzione coefficiente. In particolare, è il comportamento nelle direzioni = 7 00 quello che interessa considerare. Se la (0), ovvero w(0), si suppone finita anche nell’ordinata iniziale (cioè per 09 =-+0), la rispettiva ®(A), ovvero (A), si annulla di primo ordine nelle direzioni = 700; più precisamente, se tale ordinata iniziale di g(9) ha un valore C, la ®(A) per A=="ic0, si comporta come una funzione C/A. Se invece la funzione coefficiente si suppone dotata di ordinata iniziale infinita, ma si tiene conto che è funzione integrabile e non «impulsiva», si deduce che la rispettiva ®, PD, per A="tcc, si annulla ancora, ma di ordine che non raggiunge il primo: p.es., se g(0) inizialmente si comporta come C 6-?, il comportamento asin- totico di ®(A) per A= 700 è dato da CVA; e così di seguito (!). Siccome nella Nota precedente, a proposito delle figg. 1 e 2, ho fatto rilevare la poca diversa conseguenza pratica del supporre finita o infinita l’ordinata iniziale delle funzioni coefficienti, resta anche di poca importanza il decidere precisamente sull'ordine di annullamento asintotico di ®,W# per A=Z%, e basta avere accertato il fatto dell’annullamento. Di tutti gli altri dati relativi al comportamento delle ®,W, i più importanti sono i valori assunti sull'asse immaginario. Il significato fisico di questi valori è evidente dalla struttura delle (1). P. es., (0) è l'inte- grale di g(0), ed è quindi uguale a quella costante che abbiamo indicato con hè — #°, e che si è trovata nel primo diagramma della fig. 1 della Nota precedente. Similmente, (0) = %° — %j. Più in generale, P(iw) è una co- stante che si ritrova nella espressione del movimento periodico dovuto a un azione periodica eiwt; e similmente per &W(i0). Nelle formole risolutive dei problemi, ricordiamo, le ®(A),(A) intervengono entro espressioni che vanno integrate lungo l’asse immaginario, 0, se si vuole, lungo una qualunque parallela all'asse immaginario, contenuta nel semipiano di convergenza. Per conseguenza, per i calcoli basta conoscere la successione dei valori assunti lungo una linea siffatta. E in pratica, tenuto conto della convergenza degli integrali, e dell'annullamento asintotico delle ®, © (le quali poi devono essere integrate dopo moltiplicate per funzioni oscillanti), basta conoscere un numero limitato di valori, su punti convenientemente scelti fino a una sufficiente (1) Cfr. i $$ citati della Memoria Sul calcolo ecc., e inoltre il $ 9. La denomina- zione di funzione impulsiva è qui usata nel significato di cui ho fatto uso ivi, a partire dal $ 1, art. 4, significato che risale a lord Rayleigh e più specialmente a Heaviside. Significherebbe funzione che diventa infinitamente grande su un intervallo infinitamente piccolo, con legge tale che il suo integrale su quell’intervallo sia una quantità finita. — 687 — distanza dall'asse reale. Questi valori (complessi) si possono calcolare facil- mente per integrazione grafica o numerica, eseguita sulle curve (0), (0), rispettivamente da sole, e moltiplicate per funzioni cosw0, senw@, con valori di © convenientemente seelti; oppure, più in generale, partendo da curve g(9) e, w(6) e7°9 se i risultati si vogliono ottenere relativi a punti di una parallela all'asse immaginario, condotta a distanza +. Con la scelta opportuna di @, e di pochi valori di ©, si possono ottenere dati sufficienti per la calcolazione numerica, con una approssimazione prefissa. Un'ultima osservazione. La relazione che fa dipendere ® da g, ovvero P da w, e similmente anche la relazione reciproca (la quale è di forma analoga, perchè la trasformazione di Laplace gode di proprietà involutoria), è riconducibile a quella che mette in rapporto (mediante l’integrale di Cauchy) una funzione analitica generica F() con la forma del coefficiente A, del suo sviluppo di Taylor, considerato come funzione dell'indice n. Con la so- stituzione e A=2, l'elemento degli integrali (1) diviene una potenza di &, e gli integrali stessi sì presentano come una generalizzazione delle serie di Taylor; la sostituzione trasforma il semipiano di convergenza, in un cerchio di convergenza, di cui un caso limite è appunto il cerchio di Cauchy- Hadamard. Di qui un legame fra due teorie apparentemente molto discoste: la predeterminazione della forma di una funzione analitica, del suo prolun- gamento, e delle sue singolarità, quando è dato il coefficiente generale del suo sviluppo tayloriano in funzione dell’indice; e lo studio matematico delle proprietà ereditarie dei corpi. Questo ravvicinamento lascia prevedere che l'un problema debba gettar luce sull'altro; e in particolare, che quelle so- luzioni dei problemi ereditarî che sono state date dal Volterra in forma diversa da quella qui esposta, possano venire reciprocamente utilizzate per studiare in forma nuova il difficilissimo quesito dei prolungamenti analitici delle funzioni di variabile complessa. Ma questo interessante argomento ci condur:'ebbe ora troppo fuori del nostro cammino. Concludendo: Le funzioni ®(A), (A) risultano analitiche, olomorfe nel semipiano £> 0, finite su tutto l’asse immaginario, e tendono a zero nelle direzioni A= = 700. Possono venire sostituite con trascendenti intere, pur realizzando nei calcoli un’approssimazione comunque elevata; e l’espe- rienza non può mai rilevare una deviazione da questo comportamento. Pei calcoli, basta conoscere i valori assunti su un certo numero di punti del- l'asse immaginario, o di una parallela all'asse immaginario; e questi valori sì scelgono e si calcolano con metodi grafici o aritmetici, nel modo indicato. Nelle Note successive, vedremo come queste proprietà si utilizzano per ricavare le risolventi effettive delle equazioni di fisica ereditaria. — 688 — Matematica. — Sulle funzioni permutabili di seconda specie. Nota III di L. SINIGALLIA, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA. Mineralogia. — menite delle cave di pietra ollare al Sasso di Chiesa (Val Malenco). Nota di I. MAGISTRETTI, presentata dal Corrisp. E. ARTINI. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Chimica-fisica. — Sulla tendenza a combinarsi fra alogenuri e fosfati dello stesso metallo - II. Fluoruri e fosfati alcalini (). Nota di MaRrIO AmADORI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (?). Riferisco in questa Nota le esperienze eseguite tra il fluoruro e i fosfati di potassio (5). Tra fluoruro e ortofosfato, per i sali di sodio, vennero ottenuti a bassa temperatura alcuni composti; in questi composti però i due sali sono legati a un numero rilevante di molecole d'acqua di cristallizzazione. Quindi, anche prescindendo dalla temperatura, lo stato dei due sali ad alta temperatura si allontana assai dallo stato in cui essi trovano a bassa temperatura per il terzo componente che interviene; e ne è impossibile il confronto. Anche per questi sali le esperienze vennero condotte sui sali potassici, per le ragioni già esposte, e vennero compiute nel modo seguìto nelle pre- cedenti. Il punto di solidificazione del fluoruro potassico fu trovato a 855°; dei punti di solidificazione dei fosfati venne detto nella Nota precedente. I. KFI — KPO,. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale dell’Università di Padova, di- retto dal prof. G. Bruni. (£) Pervenuta all'Accademia il 25 agosto 1912 (3) Vedi Nota precedente, questi Rendiconti, vol, XXI, 2° sem., pag. 182 (1912). — 689 — Il punto di fusione del fluoruro viene abbassato per aggiunta del meta- fosfato. La curva di cristallizzazione primaria scende da 855° alla tempe- ratura eutettica di 742° corrispondente alla concentrazione di circa 20 °/ mol. KPO;. Tutte le miscele da 0 a 20°/ KPO; mostrano un arresto eutettico a questa temperatura. Da 20 a 50°/ la temperatura di cristallizzazione primaria aumenta da 742° a 880°. Le miscele da 20 a 33,3 °/, dànno, a 742°, lo stesso arresto eutettico che le precedenti; esso avviene a temperature alquanto più basse per le miscele lontane dalla concentrazione eutettica. Le miscele da 33,3 a 50°/ mostrano un arresto a 793°, la cui durata massima sembra si trovi a 33,3 °/,: per questa miscela la temperatura di cristallizzazione primaria, 796°, è così prossima alla temperatura dell’arresto che non è possibile di sta- bilirne la durata. A 798°, tra la fase solida — costituita, come vedremo di un composto in rapporti equimolecolari — e la fase liquida si forma un composto 2K FI.KPO:. A 50°/ mol., a 880°, nella curva di cristal- lizzazione primaria si ha un massimo; esso corrisponde ad un composto K Fl. KPO;. Da 882° la curva di cristallizzazione primaria scende a 604°, a 82°/ KPO;, e poi risale al punto di solidificazione del metafosfato, 798°. Tutte le miscele da 50 a 100 °/ K PO; hanno l’arresto eutettico intorno a 600°. Le miscele da 0 a 45 °%/ K PO;, a 540°, hanno un leggero arresto di temperatura, la cui durata massima è fra 30 e 40°/; questo arresto corri- sponde verosimilmente a una trasformazione del composto 2K Fl.K PO,. Il punto di trasformazione del metafosfato 450° si mantiene nelle mi- scele a questa temperatura ed è visibile fino a 60°/ KFI. 09 OST = = | => = = = 862 00°00T | 00% 0S 0SF = = * E 08 qge 86L 96°L6 F6 0S 087 = Si = = 08 88 GOL 0686 6 0S 087 = > = = OL 969 PL9 GL'86 88 07 0St = “= = = OSì 709 = 0036 98 OF 0SF = = - = OFI #09 c09 £0‘68 08 08 0St = = = Ta 001 009 cL9 0668 SL 08 0SF “ = = = OL 769 pel L6°68 OL 08 087 S # Si = 09 88 GOL T0‘6L 99 08 OST = = = = 08 069 GI8 86‘SL 09 03 0St SE * = = 03 98G 618 834 (e 06 OSF =; = 08 06. = = 088 G6‘99 | 09 03 0St 06 868 0S GOL = = cL8 CV G9 Sy 401 00 ov OvS 08 GOL = = 978 19°49 OF = = 0S 0vS 1001 0862 = = 038 08°8S 96 = - 09 OPS è è 08 8IL S6L 96°0S c'e == = 09 689 = = OL csi 06. GS'97 08 = “# 0S OVS — — 001 SL FLL GGOF SG =“ = (0) (i 4 =" = 09L GPL & 8986 06 = = OP (11/45 = = 09T GPL ò 0108 GLI = = 0g 86 = =“ 001 OVL OLL 6196 SI = = 03 OPS = # 09 OFL 862 IWS8I OI = = 100 (YASS = = 0 oL8L 088 VO°6 g = = == = = = = = 0668 (0) 0 Ea ranquioduo], FRI mriciuion ra runquiodue], | EIA cinqrioduo J 6uO120Zz1[tI8119 “0d I °0d SA "OdM “OdM ‘ IMG “Od M ' AMG | da nun osod ut ®/o | esttoseso °/ Ip QUO1!7BWKOJSVI]T, Ip QUOIZEWLIOJSVI], IP QuUOIZVULIO] | ‘e VITHHVI, °/o mol. KPO,. Fire. 1: KFl1 — KPO,. Come ho esposto precedentemente e come risulta dalla tabella e dalla figura, la miscela al 50°/,, corrispondente al composto a massimo, mostra nel raffreddamento un debole arresto a 790° e un secondo a 450°: questo secondo arresto si estende fino alle miscele con 40 °/, K PO;. La prima tem- peratura è quella di formazione del composto 2K Fl. KPO;; la seconda è quella di trasformazione del K PO;: questo sembrerebbe essere in contrad- dizione con la natura di un composto stabile al punto di fusione, come il KFI.KPO.. Sembra quindi che anche questo composto a 790° tenda a passare nell'altro 2K Fl. K PO; liberando K PO;, il quale subisce in seguito la trasformazione a 450°; anche il K Fl.K PO; che si deposita per primo dalle miscele a 40-50 °/, KPO;, e probabilmente anche un po’ oltre il 50 °/,, subirebbe simile scomposizione, e a 450° si avrebbe in tal modo la trasfor- ‘ mazione del K PO; resosi libero. II. KFI —- K,P:0,. La curva di cristallizzazione primaria per questo sistema è costituita di due rami che scendono dai punti di solidificazione dei sali puri e s'in- contrano a una temperatura minima di solidificazione di 730° a circa 20°/ Renpiconti. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 90 — 692 — mol. K,P:0,. Tutte le miscele mostrano l’arresto eutettico a questa tem- peratura. TABELLA 2?. Arresto eutettico o 0/; Inizio lo molecolare lo in peso di K,P,0, R,P507 cristallizzazione | Temperatura i 0 0 855° — _ 5) 23,00 823 728° 100” 10 38,70 804 727 180 15 47,68 759 730 240 20 58,70 = 730 940 30 70,88 798 728 260 40 77.94 849 726 200 50 85,04 921 727 150 60 88,83 960 724 120 70 92,52 997 720 90 85 97,10 1050 715 50 100 100,00 1088 — = 1100 |- ), 1100 1000 1000 900° |" 900 N 800 17 800 PENZEN Jo mol. K, P30;. Fi. 2: KF1— K,P:0:. Il punto di trasformazione del pirofosfato, 278°, si mantiene a questa temperatura anche nelle miscele, e si può osservare anche nelle miscele a 10°, mol. K,P,0,. Le curve di raffreddamento delle miscele a 30,50,70°/, mol. vennero determinate complete fino a 250°. Nessuna variazione termica, oltre le ac- cennate, fu notata, indicante la formazione di composti o altri fenomeni in seno alla massa solida. — 693 — TII. KFI1—K;PO,. Il punto di solidificazione del fluoruro viene abbassato per aggiunta dell'ortofosfato. La curva di cristallizzazione primaria dal punto di fusione del fluoruro, 855°, scende a 766° a circa 20°/ mol. K3 PO, ; da questa tem- peratura sale alla temperatura di solidificazione dell’ortofo sfato, 1840°. Le miscele da 0 a 60°/ mol. Ks PO, vennero tutte fuse in crogiuolo di platino in forno a resistenza di filo di nichel; le miscele più ricche in ortofosfato richiedevano per la fusione una temperatura superiore a quella che si può raggiungere con il forno a nichel; per le miscele a 70-80 °/, mol. K, PO, essa venne ottenuta con un forno Heraeus a resistenza di pla- tino: per le miscele di contenuto superiore a 80 °/ non fu stimato oppor- tuno di raggiungere la fusione stante le forti perdite di fluoruro : nella massa pastosa venne immersa la pila termoelettrica per seguire il raffreddamento da 1200° in giù. Anche per le miscele al 60, 70, 80 °/,, parte del fluoruro volatilizza, ma in quantità non troppo considerevole. TABELLA 8°. Arresto eutettico | Arresto eutettico °/o molecolare °/o in peso IA i K, PO, HG, PO, cristallizzazione | Temperatura Durata Temperatura Durata per 15 gr. per 15 gr. (0) 0 855° —_ _ _ _ 5 16,10 838 766° 507 = — 10 28,86 815 766 80 - = 15 39,18 804 767 140 7000 LO 20 47,72 ? 766 240 700 20 25 54,90 808 766 180 700 30 80 61,02 844 764 140 700 30 40 70,88 950 759 100 700 40 50 18,50 1030 TASSI 80 700 40 60 84,56 1090 754 70 700 50 70 89,58 1144 757 40 700 50 80 93,59 1198 756 30 700 50 90 97,05 ? 754 10 700 20 100 100,00 1340 —_ —_ — = Tutte le miscele mostrano un arresto eutettico alla temperatura minima di cristallizzazione primaria. - — 694 — 1300 |- 1300 1200 |- x -| 1200 + 1100 A -| 1100 1000 -| 1000 900 | | 900 bee — = pae O O VIGILE Fic. 3: KF1 — K;PO,. Nella massa completamente solida, a 700°, si osserva un ulteriore svi- luppo di calore; questa variazione termica è visibile nelle miscele da 15 a 90°/ K; PO;; la sua durata massima è da 60 a 80°/. A questo feno- meno termico, che non si osserva per i singoli sali, potrebbe corrispondere la formazione di un composto; ma la costante temperatura osservata ci fa piuttosto pensare a una trasformazione di un composto formatosi a tempe- rature superiori. Questo composto, decomponibile prima della fusione, avrebbe una composizione corrispondente al tratto di curva di cristallizzazione primaria che non si potè determinare esattamente. La posizione dei singoli punti osservati è infatti compatibile colla esistenza di un gomito fra 60 e 80 °/ mol. K3 PO,, nella qual zona cade anche la massima durata dell’arresto am 40007 Date le cattive condizioni di esperienza in forno a platino dove il raf- freddamento è assai irregolare, non fu possibile osservare alcun arresto di temperatura corrispondente alla formazione del composto decomponibile e determinarne quindi la formola. Le esperienze che saranno descritte nella Nota successiva fanno apparire verosimile che esso corrisponda al rapporto KF1.3K; PO,, ossia a quello che pei metalli bivalenti si trova nelle apatiti. — 695 — L'arresto eutettico si prolunga oltre la concentrazione del composto verso il fosfato, mentre dovrebbe arrestarsi alla concentrazione del composto: è da notare però che delle miscele per le quali fu osservato, quella al 90 °/ non venne completamente fusa, e che d'altra parte questo fatto trova facile spiegazione nell'essere incompleta la reazione tra il fosfato solido e la mi- scela fusa ricca in fluoruro per formare il composto, di modo che nel fuso rimane un eccesso di fluoruro il quale poi si deposita eutetticamente con il composto alla temperatura eutettica. Riassumendo i risultati ottenuti, si osserva tra fluoruro e metafosfato la formazione di due composti, 2K FI. K PO, e KFIl. KPO;: tra fluoruro e ortofosfato la formazione d'un composto di comnosizione non ben nota, mentre tra fluoruro e pirofosfato l’analisi termica non rivela la formazione di alcun composto. Confrontando questi risultati con quelli avuti nello studio fra cloruri e fosfati, si ritrova per i fluoruri ana maggiore tendenza a combinarsi con i fosfati, già osservata per i solfati. Tra cloruri e fosfati non si ha forma- zione di aleun composto, mentre tra fluoruri e fosfati una coppia di sali dà un composto, e un'altra coppia dà due composti. Chimica. — Gl equilibri nel sistema: cloruro di bario, nitrato di sodio, nitrato di bario, cloruro di sodio e acqua. Nota di A. Coppaporo presentata dal Socio R. NASINI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Chimica. — ricerche sulle combinazioni sub-alogenate di alcuni elementi. I. Sul cosiddetto sottotoduro di bismuto. Nota di L. MARINO e R. BecaRELLI, presentata dal Socio R. NASINI. Le nostre conoscenze sulle combinazioni sub-alogenate sono ancora molto limitate, sebbene più volte si sia discusso sulla loro esistenza, volendo alcuni, con la presenza di esse spiegare le colorazioni che si nroducono nei clo- ruri alcalini e alcalino-terrosi per il riscaldamento con il rispettivo metallo, giusta quanto ha osservato Rose (') e come Giesel (?) potè confermare per azione dei vapori metallici sugli stessi sali. Per Giesel — e con lui concordano Lorenz (8) e Siedentopf (4) — la colorazione sarebbe dovuta alla presenza del metallo; ma, con Rose e (') Pogg. Ann., 120 (1863), 1. .(*) Berl. Berichte, 30 (1897), 156. (*) Elekurol. geschmolzenen Salze. Halle 1905, II, S. 56. (*) Phys. Zeitsch., 6 (1905), 855; Z. f. Elektrol., 12 (1906), 635. — 696 — Bunsen ('), anche Wiedemann, Schmidt (*), L. Wohler e Kasarnowski (8) ritengono invece, e più giustamente, che la colorazione debba esser prodotta della presenza del sale sub-alogenato. L'interessantissimo lavoro di Lothar Wéohler e G. Rodewald (‘) confermò l'esistenza del sottofinoruro di argento, sospettato da Guntz (*) e recente- mente messo in dubbio da Vanino e Sachs (°) quale prodotto di costante composizione chimica; e dimostrò che è possibile di isolare il sottocloruro, il sottojoduro e il sottofluoruro di calcio. Che il cloruro calcico potesse, eseguendosi l’elettrolisi in date condizioni, dar luogo alla formazione di un sottocloruro, già lo avevano ammesso Borchers e Stockem (°), senza però precisare le condizioni stesse. In favore dell’esistenza di un sottocloruro di bario parla il lavoro di Haber e Tolloezko (*), dal quale risulterebbe che si può originare al catodo, durante l’elettrolisi del cloruro, come composto intermedio, la combinazione Ba Cl. Un sottocloruro di alluminio, di bario, descrivono rispettivamente Hampe (°) e Guntz ('!°); e all'ammissione di composti analoghi per i sali d'argento arriva Luther (1!) dalle misure di potenziale. L'esistenza di un sottocloruro di litio, ammessa prima da Guntz (!*), non fu in seguito da lui confermata, avendo egli trovato che per la formazione del sottocloruro è necessaria la presenza dell'idrogeno: il che può condurre ad un miscuglio di idruro e cloruro, invece che alla formazione della combina- zione da prima ammessa. Per molti altri elementi, l'esistenza di combinazioni sub-alogenate è ancora controversa e ci è sembrato quindi non inutile l’iniziare una serie di ricerche in questo campo: ricerche che potranno chiarire quali sono i composti da radiarsi dalla letteratura e, per quelli la cui esistenza è pos- sibile, determinare le condizioni della loro formazione e le loro caratteristiche proprietà. Per qualche tempo quindi ci riserbiamo questo campo di lavoro. Quanto al metodo d'indagine seguìto, esso varia in ciascun caso, a se- conda dell'elemento preso a studiare e a seconda dell'alogeno che entra nella (') Pogg. Ann., 113 (1861), 345. (*) Wied. Ann., 64 (1898), 78. (*) Z. f. anorg. Chem., 47 (1905), 353. (4) Z. f. anorg. Chem., 61 (1909), 56. (®) Compt. rend., 110 (1890), 1337. #) Zeitschrif. analyt. Chem. 50 (1911) 623. 7) Z f. Elektr., 8 (1902), 75%. ) Bull. Soc. Chim., [3], 29 (1903), 490. ) Z. f. phys. chem., 80 (1899), 630. ( (?) (8) (*) Chem. Zeitung, 13 (1889), I, 162. ( 0 ( 1 (1°) Compt. rend., 117 (1903), 732. — 697 — combinazione; e però si dirà di esso, a mano a mano che se ne presenterà l'occasione. In questa prima Nota abbiamo cercato di definire la questione, se esista o no il sottoioduro di bismuto, la cui formazione è tutt'ora rimasta indecisa. In una Nota successiva diremo qual'è il resultato ottenuto per il sottocloruro e per i suoi dubbî sali doppì. È noto, secondo le ricerche di Weber ('), che il BiJz fuso assorbe fa- cilmente bismuto, senza mutare nel raffreddamento, la sua struttura. Se si tratta il fuso con acido cloridrico, rimane il bismuto come polvere nera. Se il bismuto che sì impiega è in eccesso, per raffreddamento si separa una parte, e nella massa solidificata sì forma un regolo il quale contiene 52.0-55.8 °/, di Bi, mentre, per Bil, si calcola 45,05 °/, . Mies Ik Guthmann e Herz (?) ammettono, invece, che, fondendo due molecole di Bil; con una di Bi, si formi il sottoioduro. Essi hanno esaminato il composto risultante da quella fusione, e hanno trovato che esso non è facilmente attacca- bile dagli acidi diluiti, contrariamente al sottocloruro e al sottobromuro che è cristallino. Ha lucentezza metallica ed ha un peso specifico di 6,5, mentre il peso specifico calcolato di un equivalente miscuglio di ioduro (peso specif. 5,65) e bismuto ascenderebbe a 6,06. Data questa differenza, i due AA. sono convinti che si tratti di una vera e propria combinazione chimica e non di un miscuglio, e lo confermano ancora dalla esatta determinazione del punto di fusione. Per decidere la questione, ci è sembrato che si presti in questo caso la conoscenza del diagramma di stato per il sistema Bi—I dedotto dalle curve di raffreddamento e di riscaldamento nel modo ormai noto. La fusione dei miscugli di bismuto e iodio era fatta entro tubi di vetro della forma data in fig. 1. La capacità dei tubi era di circa 5 ce.; lo spes- sore delle pareti, 2 mm. Per il foro centrale passava una coppia termoelettrica Ag— Ni. Per quello laterale si introduceva la sostanza. Condizione indispensabile per evitare la rottura del tubo durante la cristallizzazione del bismuto si è quella di fare un poco conica l’estremità inferiore. (1) Pogg. Ann., 107 (1859). 601. (*) Zeitschr. f. an. chemie, 56, 422. — 693 — in ciascuna determinazione il tubo si asciugava perfettamente, e poi si introducevano le sostanze ben secche e polverizzate (lo iodio risublimato di recente). Si faceva allora il vuoto e si scaldava verso 50-60° per alcuni minuti in modo da togliere le traccie di acqua ancora esistenti, e poi si chiudeva alla lampada. Se così non si opera, le piccole quantità di acqua provocano la rottura del dispositivo e la formazione di ossiioduro. La quantità di iodio che si perde durante l’azione della pompa, è trascurabile. Il raffreddamento deve essere lentissimo. A questo scopo, il recipiente di vetro era introdotto nel foro praticato in un blocco di ghisa in modo da lasciare soltanto uno strato di aria di 1-2 mm.; e il tutto ponevasi in un crogiuolo di terra refrattaria, forato al fondo. Questo crogiuolo si introduceva a sua volta in un fornellino di terra refrattaria, e si scaldava con un grosso zeclu alla temperatura desiderata. dopo avere, ben s'intende, coperto l'estremità dell'apparecchio in modo che tutto il tubo rimanesse alla temperatura misurata. Raggiunta la temperatura, si chiudeva anche il foro inferiore. La massa della miscela impiegata era di 50 gr. I resultati sono raccolti nella tabella I, e il diagramma ottenuto è quello riportato nella fig. 2. TABELLA I. Quantità Inizio Temperatura REINA. | Atomi °/o di 10 arresto di 20 arresto in gr. cristallizza- | entettico trasforma- eutettico Bi I | Bi | I zione zione 100 — |100.00 = 285 = = = 95 5) 92.05 7.95 339 — 294 > 284 99 10 84.59 | 15.41 337 337 294 284 80 20 70.93 | 29.07 340 340 294 282 70 30 58.67 | 4133 340 340 293 280 66 34 54.22 | 45.78 342 342 294 280 62 38 49.88 | 50.12 338 338 294 282 d085| 41.5| 46.22| 53.78 344 344 295 284 bb) 45 42.71) 57.29 344 344 294 283 50 50 37.89] 62.11 352 344 294 2883 45 dò 33.29| 66.71 3874 844 296 284 43 57 82.09 | 67.91 379 342 294 284 40 60 28.91] 7109 394 340 296 284 95.8 64.6 | 21.92| 75.08 412 — = = 30 70 20.72 | 79.28 404 IINi7/ = = 20 80 13.23 | 86.77 — 117 = = 10 90 6.34 | 93 66 292 117 —_ = — 699 — Si vede chiaramente che l’unico composto ben definito che si può ori- ginare per fusione di miscele di Bi e I, è il Bilz, e che nessun accenno a Fase ligurda -—-e-----e-—--- s-->--®-— i 180 $ (0. 15 20 25 30 35 3840 4345 50 555] 60 6463 fo 80 90 100 Fic. 2. formazione di Bil, si ha quando si raggiunge la concentrazione richiesta per quest'ultimo composto. RenpIcONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 91 — 700 — Le piccole quantità di Bil; che si formano quando l’iodio è presente nei varî miscugli in quantità inferiorie al 1,5 °/,, abbassano di un poco il punto di fusione del bismuto, e lungo il tratto AB si separa del bismuto puro. Per quantità di iodio alquanto superiori, fino al 5°/,, durante il raffrdeda- mento delle soluzioni si depone lungo il tratto BC alquanto triioduro di bismuto, mentre in B cristallizza il miscuglio eutettico Bi—Bil,. Per concentrazioni di iodio comprese fra 5 e 43°/,, si ha una fase omogenea per una tempe- ratura sufficientemente elevata; ma coll’abbassarsi di essa, sì formano due strati liquidi: uno inferiore, più denso, formato da Bi contenente disciolto del Bil;; e l’altro superiore, più leggero, formato da Bilz, che tiene sciolto del bismuto. Continuando il raffreddamento, le concentrazioni dei due strati in equi- librio si modificano gradualmente in modo che, per 340°, lo strato superiore comincia a depositare cristalli di Bil,. Essendo ora quattro il numero delle fasi in equilibrio (bismuto liquido, Bilz liquido, BiIz solido e vapore) il sistema è invariante, e la temperatura si mantiene costante fino a com- pleta solidificazione dello strato liquido superiore. A questa temperatura le concentrazioni dei due strati sono perfettamente determinate: come si deduce dall'orizzontale CD compresa fra le concentra- zioni del 5°/, e 43°/,. Lo strato superiore contiene il 66,5 °/ di Bilz, e quello inferiore il 7,73 °/,: per cui nel 1° caso rimangono 33,5 parti di bismuto non combinate, mentre nel 2° ne rimangono 92.27. Solidificato lo strato superiore, la temperatura si abbasserà di nuovo, e lungo il tratto CB cristallizza Bil; . Da miscugli la cui concentrazione in iodio va dal 43°/ al 64,63 °/ ad una temperatura sufficientemente elevata, durante il raffreddamento si deporranno cristalli di Bilz fino a che non si raggiunge la temperatura di 340°. Per questa temperatura la concentrazione del Biz sarà divenuta eguale a 66,5 °/,. Continuerà la cistallizzazione: ma la massa fusa, che fino ad ora era omogenea, si dividerà nei due strati, con 66,5 °/, e, rispettivamente, 7,73 °/, e la temperatura si manterrà costante fino a completa cristallizzazione dello strato superiore. Dopo, la temperatura scenderà di nuovo, per arrestarsi ancora a 284° per la solidificazione di Bi — Bil,. Per la temperatura di 294° e per concentrazioni dal 2 al 64,5 di iodio, come risulta dall'orizzonte xy, è nettamente visibile e caratteristico un effetto termico che scompare quando Bi e I sono nel rapporto richiesto per dare soltanto Bil3. Questo starebbe ad indicare che è prodotto da una trasfor- mazione del Bi: forse una modificazione cristallina. Lungo il tratto ERS del diagramma, fino alla temperatura eutettica di 117° cristallizzerà del Bil,. Non si può determinare l’eutettico massimo, poichè, per la pressione che — 01 — originano i vapori di iodio, si ha costantemente la rottura del tubo; ma l'andamento della curva è nettamente visibile. Si può dunque sicuramente concludere che nella fusione dei miscugli di Bi e I non sì formano altri composti all'infuori del Bilz: e quindi, così operando, non è ammissibile la formazione di un sottoioduro, come farebbero sperare le ricerche di Weber. Chimica-fisica. — Ancora su una formula per l'indice di rifrazione dei miscugli binarti. Nota di ARRIGO MAZZUCCHELLI, presentata dal Socio E. PATERNO. Circa un anno fa, il sig. F. Schwers pubblicava in questi Rendiconti (?) una Nota colla quale, rispondendo ad alcune obiezioni da me fattegli (*), a proposito di un suo studio su l'argomento sopracitato, portava nuovi argo- menti a favore della sua tesi e criticava alcuni dei miei ragionamenti. A queste ultime critiche sarebbe stato facile il rispondere subito; ma poichè nel contesto della sua Nota egli rimandava ai risultati di altri suoi studî in corso. ho creduto conveniente di attendere la loro pubblicazione. Questa è av- venuta or non è molto nel Bulletin de l’'Academie royale de Belgique, ed ora mi propongo di esporre le ragioni per cui credo dover mantenere le opinioni dapprima espresse, e di rispondere alle critiche rivoltemi. E cominciamo da queste. Sul principio della sua replica, a pag. 510, loc. cit. (presuppongo, naturalmente, nel lettore la conoscenza di tutte le Note precedenti, del sig. Schwers e mie), il mio egregio contradittore dice: « l’autore crede che io abbia impiegato una formula differente da quella indicata per calcolare la contrazione dell'indice per ì miscugli di acqua e alcool » (*). Veramente, si tratta di qualcosa più che un semplice credere, poichè è un fatto che nelle tre tabelle a pag. 643 (rifrazione dei miscuglì idroal- coolici per la riga del litio), pag. 644 (idem per quella del sodio), pag. 645 (idem per quella del tallio) gli indici teorici di tutte le percentuali mul- tiple di 10 (e cioè 90, 80, ecc.) concordano dentro una unità dell’ultima cifra decimale con quelli che si calcolano dalla formula I da me citata (che nei tre casi assume la forma numerica di N = 1,353126 + 0,0002992p, N = 1,33345 + 0,0002987p, N = 1,33531 + 0,0002985p rispettivamente, ove p è la percentuale di alcool) (4); invece, per le percentuali intermedie (*) Rend. Accad. Lincei, 20, 1911, 2° sem., pp. 510-518. (*) Rend. Accad. Lincei, 20, 1911, 1° sem., pp. 752-758. (*) Le due formule di cui si tratta, sono: I Ns(pi+p.)= Nip + Nap: ii Do MTA IN, INA Na (4) L’indice teorico del miscuglio al 20°/, rispetto alla riga del Li è stampato 1,33784: secondo la I, si calcola 1,33724; secondo la II si calcola 1,33714 — 702 — multiple del solo 5, e pel 46 gli indici concordano colla II, che è la for- mula proposta da Schwers. Veramente, nella annotazione a cui il sig. Schwers allude, io non ho fatto menzione di questo ultimo fatto, che mi era sfug- gito; e ciò perchè, avendo constatato la sconcordanza per le percentuali 50, sottoposi le altre a una rapida verifica, consistente nel sommare insieme gli indici corrispondenti alle percentuali che dànno per somma 100 (e cioè 90+ 10, 8804-20, ecc.): se essi indici sono calcolati secondo la I, la loro somma è uguale alla somma degli indici dei componenti puri, e tale verifica, pel modo con cui sono costituite le tabelle, può farsi solo per le percentuali multiple di 10, non per le intermedie. Ma, siamo giusti: chi poteva andare a pensare che in tre tabelle, riportate per esteso come mo- dello, si fosse commessa la curiosa svista di calcolare con sistematica alter- nanza una formula giusta e una errata? Nè mi era sfuggita la rettifica cui allude il sig. Schwers; ma essa dice letteralmente (sopprimo, per brevità, le parole non essenziali): « ..... quelques erreurs de calcul se sont glissées dans la première partie de mon travail. ... Pour le système H30 + C:Hs0 les moyennes des constantes de réfraction devront étre modifiées comme suit Toutes les autres données numeriques ... subsistent telles quelles ». Ciò fa pensare a qualche sbaglio numerico, come ne capita a tutti, e più precisamente nel calcolo dei quozienti A, o delle loro medie, poichè queste erano le sole di cui sì dessero i valori corretti; e siccome a me con- stava che gli indici da me verificati erano invece ar:fmeticamente esatti (e solo di essi mi importava !), non me ne curai altrimenti. Questo non sa- rebbe avvenuto se il sig. Schwers, dopo di avere riportato così a disteso le tabelle, avesse anche spiegato un po più chiaramente la natura dell'errore. Del resto, anche prendendo atto di questa indiretta dichiarazione del signor Schwers, che cioè l'errore consiste proprio nell'uso di una formula per un'altra, e che i valori numerici in sè sono esatti, è da notare che questo non sposta affatto la questione per quanto concerne la sostituzione, da me proposta e seguìta nella Nota in questione, dell'una formula all'altra: anzi costituisce il più desiderabile degli argomenti «4 hominem in suo favore. Io ho soste- nuto infatti che, dal punto di vista numerico, l'una vale l'altra : ed ecco che lo stesso ideatore della II ha avute intercalati fra loro i risultati della I e della II, nò si è accorto della loro eterogeneità, anzi ha riportato la geminata serie come un esempio! Nè ciò è da attribuirsi a poco acume del mio egregio contradittore, ma dipende proprio da quella pratica equivalenza delle due formule cui ho accennato. Se infatti, servendoci delle tabelle pei miscugli idroalcoolici, fra le percentuali 95 e 40, facciamo da una parte la media delle A calcolate in base alla I, dall'altra quella delle A in base alla II, ed esprimiamo la concordanza delle singole A (che, secondo Schwers, dovrebbero essere tutte uguali fra loro), facendo la somma 24 delle differenze — 703 — fra i valori singoli e i valori medî senza aver riguardo al segno, abbiamo i seguenti risultati: al Formula I Formula II Riga del Li NCSTAZESNZAZIONNO8 A— 3,983; XA = 0,106 Riga del Na AT_SA0ESAI1 33 A = 3,363; ZA = 0,066 Riga del T] ATRUS AILI1 AT— 3:309; DAî= 0}062 Come si vede, le medie sono pressochè uguali, e le oscillazioni dei va- lori singoli, pur essendo un poco maggiori per le A secondo la I, sono pur sempre assai piccole in misura assoluta, e nel caso del Li la oscillazione può dirsi identica per ambedue. Ciò giustifica chi voglia sostituire, nella discussione dei risultati numerici, luna formula all'altra. Sorvolando poi sulla osservazione (per lo meno superflua) che « le due formule si equivalgono nei risultati se n, = n: >, passo a discutere una mia « espressione curiosa » che il sig. Schwers enuncia così (pag. 512, loc. cit.) : « l'autore dice che il volume di una mescolanza può essere diverso da quello della somma dei componenti senza che vi sia bisogno di supporre qualsiasi influenza chimica o /îséca che le due sostanze esercitino fra loro ». Il passo cui si allude è letteralmente questo (pag. 754 della mia Nota): « Sembra dunque verosimile che analoghe variazioni dell'indice debbano pure aversi quando il volume, entro cui la sostanza è ripartita, varia, anzichè per cause meccaniche o termiche, per mescolanza con una seconda sostanza, e ciò indi- pendentemente da qualsiasi influenza chimica o fisica che le due sostanze esercitino poi fra loro ». Come si vede, è una frase ben diversa da quella che mi viene attribuita. e non vi sì parla affatto di paragonare il volume del miscuglio con la somma dei volumi dei componenti. In seguito l’autore, a proposito della formula di Schrauf (che ormai se- guiterò a chiamare così, ma che sarebbe storicamente più esatto chiamare di Biot-Landolt, o di Gladstone-Landolt), non sa capire come io abbia potuto compararla con quella sua formula con cui si ricava A. Ecco: mia tesi era, ed è, il dimostrare che i risultati a cui è arrivato il sig. Schwers relativa- mente ai valori di A si potevano in generale prevedere da ciò che già si sa sulle relazioni intercorrenti fra indice e densità di un miscuglio e quelli dei componenti; necessariamente dunque bisognava mettere di fronte la formula sua con quella di Schrauf, la quale, come lo stesso sig. Schwers riconosce, simili relazioni rappresenta, in complesso, abbastanza bene. Nè è ben chiaro quale vantaggio egli tragga dal dire che la formula con cui si potrebbe corirontare è, se mai, quella di Pulfrich. Infatti, rettificando più oltre un altro errore dello Schwers, avrò occasione di mostrare che la formula di Pulfrich non è che la formula di Schrauf generalizzata: onde tutte le difti- coltà di principio che dovrebbero valere contro l'uso della formula di S., sussistono per l’uso della formula di P.. La confusione che il sig. Schwers — 704 — deplora su questo argomento non mi pare dunque che si trovi precisamente dalla parte mia. Altre critiche (in fondo a pag. 512, e a pag. 5183) riposano sull’ ine- satta comprensione di una mia frase. Io ho detto: « fra l’altro, nel caso limite in cui la seconda sostanza abbia peso nullo e volume diverso da zero (in cui cioè si consideri la variazione di volume di una sostanza unica), essa ricade nella formula di Gladstone ecc. », e mi pareva di essere abbastanza chiaro per chiunque abbia pratica del modo di tradurre in modeste ‘formule matematiche i fatti fisici: in particolare, parlando di « caso limite », inten- devo dire che bisognava andare matematicamente al limite colle condizioni da me accennate. A schiarir la cosa ulteriormente, consiglierò ora al signor Schwers di sostituire a p. una grandezza «, piccolissima di fronte a p;, nella sua formula per l' % teorico e nella consueta per la densità teorica; porre quivi ds = 7 (è la definizione matematica della densità 0, piuttosto, peso specifico), eseguire gli sviluppi opportuni e poi eliminare tutte le grandezze che hanno per fattore e. Così troverà che 7 è rimasto lo stesso, mentre d è variato, conformemente a quanto dicevo io, che, cioè, « nel caso in cui si consideri la variazione di volume di una sostanza unica ..... , la formula di Schwers porterebbe a concludere che in questo caso l'indice di rifrazione non deve essere variato =. In quanto alla difficoltà che il sig. Schwers si rap- presenta, « come una sostanza unica potrebbe cambiare di indice o di densità allorchè non si cambia niente alle condizioni di pressione e temperatura », è ardua, ne convengo: ma, come si vede, essa non risulta affatto dalla mia frase, dove nulla accenna a una costanza della temperatura e della pres- sione; anzi, avendo io detto, poche righe sopra, esplicitamente, che la formula di Gladstone esprime. più o meno esattamente, la variazione dell'indice quando il volume varia « (per l'influenza della pressione o della temperatura)», e richiamandomi qui alla formula di Gladstone, mi pareva abbastanza chiaro che tale influenza era qui implicita. A quanto pare, invece, non ho messo abbastanza grosso il punto sull'i: mia colpa. E, sempre su questo argomento, il dire, come fa il sig. Schwers, che anche « l'espressione di Pulfrich, se v3=" 0 diviene 7, = #, », è cosa che nessuno penserà a contestare, ma che non corrisponde affatto alla mia frase dove si parla chiaramente di « vo- lume diverso da zero »: qualora si faccia v, finito e 72, -= 1 (come è nel vuoto, in cui la sostanza unica si espande), il mio egregio contradittore con- staterà che anche la formula di Pulfrich ricade in quella di Gladstone (per variazioni di volume dovute o alla pressione, o alla temperatura, o ad ambedue, si intende). Su quanto il sig. Schwers dice là dove si occupa del caso della com- pressione di un liquido (fine di pag. 513 e 514, loc. cit.), bisogna che mi intrattenga un po a lungo. L'autore mi rimprovera di avere sostituito la = 705 =® formula : n a quella II Lira pre v n d n o ad una che ne derivi sostituendo i volumi alle densità. A questo, repli- cherò che, scrivendo quella formula, io non ho fatto che uniformarmi seru- polosamente alle sue parole (*), e che con essa formula concordano tutti i numeri delle 8 sostanze di cui (loc. cit.) sono riportati per esteso i calcoli (sebbene a un esame più attento possa parer dubbio se l'intenzione dello autore non fosse invece di esprimere la contrazione dell’indice in °/, dello indice « compresso »; ma col numero di decimali usato dal sig. Schwers non si può risolvere obiettivamente la questione). Che poi la formula esatta sia invece la II, è affermazione, che di buon grado posso concedergli, ma che non mì riguarda: essa servirà solo a provare che anche qui al mio egregio contradittore è capitata la disgrazia di usare una formula diversa da quella che avrebbe voluto, e, più ancora, di non avere riconosciuto l'errore nemmeno dopo la mia Nota, che pure avrebbe dovuto porlo sull’avviso. La sostituzione, da lui rimproveratami, del volume alla densità, non è dunque mia, ma del sig. Schwers, probabilmente in seguito al fatto che i numeri di Réntgen e Zehnder che egli aveva a sua disposisione non dànno l'influenza della pressione sulla densità, ma, sì bene, sul volume. Egli ha così sottratto, senza altro, l'un valore dall'altro, senza passare, come avrebbe dovuto, alle densità corrispondenti. E questo suo errore lumeggia una questione che egli solleva a pro- posito di una mia osservazione incidentale sull'uso dell'espressione « con- trarre »: egli dice; « non posso permettermi di dire che l'indice si contrae quando aumenta? ». Certamente, se così gli piace, seguendo l'esempio (del resto, non molto felice) del Pulfrich; io anzi aggiungerò che è corrente in matematica l'uso di una voce sola, sia per gli aumenti, che per le diminu- zioni di una variabile; ma occorre allora dare alle seconde un segno opposto al primi (oppure segno uguale e nome diverso), mentre egli attribuisce ugual nome e ugual segno agli aumenti dell'indice e alle diminuzioni del volume, e segno positivo alle A che, calcolate a quel modo, dovrebbero essere nega- tive: in tutto questo entra, evidentemente, la sua confusione del volume colla densità, la quale varia, realmente, nello stesso senso dell’indice. Nella mia Nota non avevo troppo insistito su quella che giudicai una svista; ma poichè il sig. Schwers dice che « il caso è più serio », diventa necessario di preci- sare 1 fatti. (‘) Journ. de chim. phys., IX, 84. «IV =1a grandeur de la contraction de volume SIE exprimée en °/, du volume primitif .....; IX=la contraction de l'indice de ré- fraction ..... exprimée en °/, de l’indice primitif ». — 706 — La stessa insufficiente analisi del valore e della portata delle formule porta il sig. Schwers a una curiosa inconseguenza subito dopo. Egli dice infatti, che nella formula che dà la variazione dell'indice di rifrazione colla pressione. invece di 1 atmosfera, si poteva scrivere 1000: mentre poi in nota soggiunge che non si sa l’effetto di una elevata pressione sull’indice di ri- frazione; ma allora come può esser lecito di usare una formula in un campo, dove si ignora se è ancor valida? La spiegazione della contraddizione è, che, sia le variazioni dell'indice, che quelle della densità, sono rappresentate da Rontgen e Zehnder come funzioni lineari della pressione, e perciò il valore di questa. sì elimina dal loro rapporto (e quindi, nonchè 1000 atm., si po- trebbe scrivere 10000 con lo stesso risultato rumerzeo): ma un significato. fisico sicuro quelle formule hanno solo per pressioni poco diverse da quelle per le quali fu sperimentato, e perciò, dal punto di vista fisico (che è poi quello che conta), 1000 atmosfere z0r può scriversi. Del resto, provi pure il sig. Schwers a calcolare la mia formula per 1000 atmosfere invece che per 10, e vedrà che si arriva a un risultato pressochè uguale, per la sem- plice ragione che la compressibilita dei liquidi è assai piccola, e quindi, anche sotto forti pressioni v, è ben poco diverso da v,. E ad ogni modo, questa stessa arbitrarietà nel valore della pressione, affermata dal sig. Schwers, serve a dimostrare la infondatezza dell'altra sua obiezione. non potersi cal- colare il quoziente A nel caso di compressioni straordinariamente basse (e io del resto ho detto solo « pressioni poco elevate »). Si sa bene che se la variazione di pressione è nulla, sono nulle pure le variazioni di N e D; ma sì sa pure che conduce a risultati ben differenti il porre addirittura in una formula, come fa il sig. Schwers, uguali a zero due variabili, o il farle con- vergere contemporaneamente verso zero. I principî del calcolo infinitesimale son lì apposta per insegnarci a risolvere la indeterminatezza delle espres- MIAO sioni 3: Anche qui, analogamente al caso precedente (ved. pag. 704), invece di porre zero la variazione di pressione, bisognava porla uguale ad e. Più oltre (pag. 515 della Nota Schwers) l'autore dice: « Non capisco come si possa fav derivare semplicemente la formula Lol = SOT da quella di Schrauf: le graadezze p, e p> non possono eliminarsi ». La richiesta è troppo giusta perchè io non mi affretti a soddisfarla (!). Ecco: La D, è detinita dalla prima formula alla pag. 753, riga 12 della mia Nota; N, dalla (5) a pag. 757 loc. cit.. Ora, sottraendo dalla (5), da ambedue le parti, (n + b\, riunendo i fattori comuni, sostituendo nel termine 41 2 (*) Per la precisione, è da notare che 1’ N e il D che nella Nota Schwers hanno l'indice v, nella mia hanno, e devono avere, l’indice 0. — 707 — a sinistra questa espressione con D+ ed eliminando (N, — 1) io | 0 Di + (N°—-1) È fra la formula così ottenuta e quella di Schrauf, si ottiene 2 Na Neal : N_1_D ‘otti ti pena ee ip? che, sottratta da ambedue le parti dalla unità, fornisce }a formula incriminata. I passaggi matematici sono, come si vede, abbastanza modesti; ma il risultato è interessante, pel nostro scopo, perchè, avendo dichiarato il sig. Schwers che « la formula attribuita a Schrauf è insomma quella di Pulfrich nella quale @ è supposto uguale alla unità », veniamo così a porre fuori di contestazione la affinità, da me sopra accen- nata (pag. 703), delle due formule. Si vede, così, che la « confusione » che il mio egregio contradittore ri- scontra da parte mia tra la formula di Schrauf e quella di Pulfrich, è una sua impressione subiettiva, dovuta al non aver egli avuto presente la stretta relazione che io ho ora mostrato esistere fra esse. Non saprei però accordarmi coll’autore quando questi dice che, col porre a =1, «la relazione di Pul- frich è, così, generalizzata »; proprio alla rovescia: la formula da me enun- ciata si ottiene da quella generale di Pulfrich specializzando in modo par- ticolarissimo il valore di «. Su altre obiezioni di carattere secondario non mi soffermerò, solo no- tando che io non ho detto che la mia (4) sia « simmetrica » (pag. 516 della Nota Schwers) — espressione che ha, in analisi, un valore ben definito, che qui manca, — ma solo « ha un'apparenza simmetrica », frase generica suggerita dal fatto che ai numeratori delle due frazioni abbiamo due indici teorici che numericamente poco differiscono tra loro, e al denominatore l'indice speri- mentale, tal quale, o diminuito di una unità, a seconda che è tal quale, o diminuito di una unità l'indice che sta al numeratore; e concluderò questa mia prima parte col dire che, mentre non ho mai negato, anzi ho sin dal principio esplicitamente posto in rilievo il valore di fatto dei risultati del sig. Schwers, non mi pare che le considerazioni tinali della replica di lui siano tali da indurci a classificarli diversamente da allora. Egli ricorda in- fatti (pag. 518, loc. cit.) che essi sono « l'espressione di fatti di osserva- ZIONCASrEeSe all'infuorì di qualunque teoria », e perciò appunto io direi che essi hanno a tutt'oggi il valore di semplici regolarità empiriche, e sian pure interessanti e degne di nota (visto che la natura delle formule empiriche consiste precisamente nell’assenza di presupposti teorici nel loro impianto), finchè non sia intervenuta una teoria a interpretarle e vivificarle: ciò che auguro possa succedere al sig. Schwers. Confutate così le obiezioni mossemi, resterebbero da esaminare le ulte- riori ragioni addotte dal sig. Schwers a favore della sua formula. Ma, per mancanza di spazio, siffatto esame debbo rimettere a una prossima Nota. ReNDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 92 — 708 — Chimica. — Sulla grandezza molecolare dei metalli nelle fasi solide (*). Nota di M. PapoA e F. Bovini, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. La conoscenza della grandezza molecolare dei corpi allo stato solido ha una grande importanza per le deduzioni che possono farsi sulle loro proprietà fisiche e serve di base alla teoria cinetica dei solidi. Ma non è facile di dare una dimostrazione rigorosa del valore di tale grandezza; per le soluzioni solide, ha insegnato Vant Hoff(?) che la dimostrazione può essere data in base alla teoria delle soluzioni diluite. Pei solidi in genere, assai recente- mente Tammann (*) propose di tener conto dei diagrammi di stato; osser- vando che i cristalli derivanti da liquidi non polimerizzati appartengono sempre ad un sol gruppo cristallino, mentre quelli derivanti da liquidi asso- ciati sono, non sempre ma spesso, appartenenti a due gruppi, egli ritiene che si possa affermare che le molecole allo stato solido conservano il medesimo grado di complessità che allo stato liquido, ed allo stato gassoso, per ciò che risguarda i liquidi non polimerizzati. Comunque, sembra difficile pratica- mente applicare questi criterî a una quantità di corpi che sarebbe somma- mente interessante di esaminare. Più facile assai è, come ognuno sa, la determinazione del peso moleco- lare allo stato di soluzione, e in particolare, per ciò che riguarda gli elementi, sono note le numerose esperienze di Heycock e Neville (*) i quali, col me- todo crioscopico, dimostrarono la monoatomicità di quasi tutti i metalli in soluzioni liquide. Per ciò che concerne i metalloidi, i dati sono meno nume- rosi; molto interessante sarebbe il conoscere la grandezza molecolare del car- bonio in soluzione, e si tentò (*), dai diagrammi ferro-carbonio, in base alla costante crioscopica del ferro, di dedurre il peso molecolare del carbonio disciolto; il risultato sarebbe che il carbonio si troverebbe sciolto in mole- cole monoatomiche, tanto nelle soluzioni liquide, quanto in quelle solide: ma questa conclusione è ben lungi dall'essere accettata da tutti (9). (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica Generale della R. Università di Bologna. (*) Zeitschrift fiur physikalische Chemie V, 322. (3) Berichte 1911, 3628. (*) Centratblatt 1889 I 666, II £042; 1890 I 894; 1891 I /29; ecc. (5) Roozeboom, ÉEisen und Stahl vom standpunkte der Phasenlehre, Zeitschritt fi physikalische Chemie XXXIV, 479.I calcoli sono di Roberts Austen, Stansfield e Jiptner. (9) Vedi, ad esempio, Wm. C. Mc C. Lewis, Zeitschrift fiir Elektrochemie (1912) 158. — 709 — Veramente, questa deduzione potrebbe essere avvalorata, secondo il nostro avviso, dal contegno di un elemento analogo: il silicio. Fra le numerose serie di ricerche sulle leghe metalliche, fatte dagli allievi di Tammann, si trova un lavoro di Rudolfi (*) sulle leghe rame-silicio. Questo autore viene alla conclusione che, a temperature vicine al punto di fusione del rame e con miscele povere di silicio, questo si scioglie sem- plicemente nel rame; composti silicio-rame non si formano che a tempe- rature più basse, in miscele più ricche di silicio. Dal diagramma tracciato dall'autore rileviamo i seguenti dati riguardanti i punti di congelamento: Concentraz. del silicio Punto di congelamento °/, di lega 0,000 1083° 398 1071° 1,96 1050° 2,93 1051° 3,91 1009° D'altra parte, dal diagramma rame-bismuto (*) si hanno i dati seguenti: Concentrazione Punto di congelam. Abbassamento K 0,000 1085° 0,0 = 2,145 1074° 9I0L 874,5 RR Me; 0,02 T? Dal calore di fusione del rame (*), applicando la nota formula K= wW si calcola pel rame la costante d’abbassamento K = 855 che concorda ab- bastanza bene colla precedente. Tenendo conto di quest’ultimo valore pel silicio sciolto nel rame, si calcolano i pesi molecolari seguenti: Concentrazioni Abbassamenti P. mol. Coefficiente P. mol. corrette di ripartizione@ corretti (*) 0,999 12° 70,4 0,55 DI 1,999 28° 61,05 0,50 30,5 3,018 02° 49,7 0,52 26,1 4,070 740 2n,00i (Mio 24,5 La media è 28,4, e il peso atomico del silicio è 28,3; dunque il silicio sarebbe sciolto allo stato monoatomico. Lo stesso diagramma starebbe anche (!) Zeitschrift fir anorganische Chemie, 53, 2/8. (®) K. Jeriomin, Zeitschrift fin anorganische Chemie, 55, 4/2. (*) J. W. Richards, Landolt, Physikalisch-chemische Tabellen, 470. (*) La correzione, formandosi in questo caso soluzioni solide, si fa in base alla for- mula M:= M (1— a) dove « è il coefficiente di ripartizione del silicio fra la fase solida e la liquida, calcolato con la maggiore approssimazione possibile in base al diagramma citato. — 710 — a dimostrare (per la forma della curva coniugata) che questa monoatomicità si mantiene anche nelle soluzioni solide di silicio nel rame. Ognuno comprende che, una volta assodata rigorosamente tale grandezza molecolare, sarebbe possibile istituire un confronto fra le proprietà fisiche del silicio monoatomico e di quello polimerizzato, forse con notevole vantaggio per la risoluzione di varie questioni. Una delle questioni più importanti che doveva risolvere la teoria cine- tica dei solidi, era la deduzione della legge di Dulong e Petit, e soprattutto la spiegazione delle note deviazioni cui essa va soggetta. Vi fu chi attribuì queste deviazioni al diverso valore del volume atomico e del peso atomico, ed alla varia complessità di aggregazione ('). Ed infatti non poteva a meno di colpire l'osservazione che gli elementi che maggiormente deviano dalla regola sono quelli di minor volume atomico e quelli che, per avere maggior tendenza alla polimerizzazione, dànno più facilmente modificazioni allotropiche. Recentemente il teorema di Nernst ha messo in luce la convergenza dei valori dei calori specifici alle basse temperature; e le misure di calore spe- cifico eseguite da Nernst e collaboratori hanno dimostrato che i suoi valori tendono ad annullarsi tutti a temperature bassissime. Lindemann (*) ha dato, per calcolare il calore specifico dei metalli, una formula nella quale entra la temperatura assoluta di fusione del corpo: quanto più essa è alta, tanto minore risulta il calore specifico. Ma, con tutto questo, non si può dire che venga messa in disparte la questione della complessità molecolare; chè, anche entrando nell'ordine di idee di chi ragiona sulla base dell'ipotesi dei quanti, il grado di polimerizzazione avrà sempre una influenza decisiva sul grado di libertà nella vibrazione molecolare e sulla temperatura di fusione. Nelle esperienze di cui esporremo i risultati, ci siamo occupati della determinazione della grandezza molecolare dei metalli in soluzione solida. A tal uopo bastava dimostrare risorosamente la costanza di un rapporto di concentrazioni nelle fasi liquida e solida. Quando da una soluzione diluita di concentrazione (, si separa una soluzione solida di concentrazione C,, ed AI il rapporto —° si mantiene costante, allora si può ritenere accertato che il Ci corpo sciolto allo stato solido ha la stessa grandezza molecolare che allo stato liquido. Per trovare il valore della concentrazione nella fase solida, è necessario di conoscere la composizione dei cristalli separati all'inizio del con- gelamento, e, come indice della quantità d'acqua madre, è necessaria la pre- senza di una terza sostanza. che qui non poteva essere che un metallo. Non (*) F. Richarz, Zeitschrift fir anorganische Chemie 58, 236: 59, /46; A. Wigand, Naturwissenschaftliche Rundschau 1907, 30L. (*) Physikalische Zeitschrift 11, 609 (1910). — 711 — sono numerosi i casi di leghe ternarie che si prestino a questa ricerca; in- fatti occorre avere due metalli che diano soluzioni solide fra loro, ed un terzo che non ne dia con nessuno dei due, nè che si combini con essi, almeno nell'intervallo di temperature in cui vien fatta la ricerca. Tuttavia, l'esten- sione presa oggi dallo studio delle leghe permette di accertare che, ad esempio, le leghe di stagno-cadmio-bismuto (*); e cadmio-mercurio-bismuto (*) sono appropriate all'uso nostro. Finora abbiamo sperimentato appunto con leghe di stagno, cadmio e bismuto: i primi due metalli dànno un eutectico e soluzioni solide limitatamente, che si trasformano, poco al disopra di 100°, in un composto Sn, Cd; stagno e bismuto, come pure cadmio e bismuto, dànno semplicemente degli eutectici, senza formazione di soluzioni solide. Nelle leghe ternarie non si hanno altre complicazioni, almeno alle temperature di solidificazione delle leghe da noi esaminate, che fondono intorno ai 200°. Per separare i cristalli, abbiamo pensato dapprima di far fondere la massa metallica in una piccola stufa elettrica, facendola poi raffreddare len- tamente; speravamo così di avere nelle parti esterne i cristalli esenti d'acqua madre. Ma le analisi fatte ci dimostrarono che non si potevano in questo modo ottenere separazioni soddisfacenti. Senza sperarne molto, abbiamo poi tentato la separazione col solito metodo di van Bijlert, ma il risultato fu assai buono. Dai 180 ai 150 grammi di lega venivano fusi in una capsula di por- cellana e rapidamente introdotti nell'apparecchio che serve alla separazione dei cristalli. Per evitare una ossidazione eccessiva, facevamo passare attra- verso il tappo una corrente di anidride carbonica. L'apparecchio era immerso in un bagno di paraffina, che era sufficiente, non dovendosi oltrepassare i 250°-260°. Una volta iniziata la cristallizzazione, lasciavamo scendere il liquido nella parte inferiore dell'apparecchio ed i cristalli rimanevano con l'aspetto di una massa spugnosa. Una volta acquistata la pratica, si otten- gono separazioni nette e quindi cristalli con poca acqua madre, come lo dimostra l’ultima delle nostre esperienze, da noi citata per seconda, seguendo l'ordine crescente delle concentrazioni. L'analisi delle leghe veniva eseguita nel modo seguente: gr. 1,5 circa di lega venivano trattati con acido nitrico, poi con ammoniaca e solfuro ammonico. Lo stagno passava in soluzione e si dosava come ossido dopo averlo precipitato come solfuro con un acido diluito, dalla decima parte della solu- zione. I solfuri di cadmio e bismuto venivano trasformati in nitrati; il bismuto fatto precipitare con acqua, come nitrato basico, e pesato come os- sido; il cadmio trasformato in solfato, trattando con acido solforico la solu- zione residuale preventivamente concentrata. Si analizzarono tanto i cristalli (!) Stoffel, Zeitschrift fir anorganische Chemie 53, 127. (*) Pannain, Leghe metalliche I, 114. 279 = quanto l'acqua madre, per poter fare un calcolo degli errori d’analisi; infatti, conoscendo la composizione della lega di partenza, si può vedere così l'errore d'analisi complessivo per ciascuno dei componenti, e fare le correzioni relative. Ciò posto. ecco i risultati delle tre esperienze da noi fatte: IE Lega iniziale Cristalli Acqua madre Trovato Corretto Trovato Corretto Sn 90,27 91,21 91,28 90,03 90,03 Cd 4,79 4,76 4,83 4,73 4,77 Bi 4,94 4,05 3,90 5,29 5,20 Percento di acqua madre nei cristalli = 75. Concentrazione del cadmio rispetto allo stagno nel liquido: C,= 5,306. ” ” ” ” ” ” nei cristalli: Cs = 5,233. G; —=- == 9£ DE 0, 0,986 UG -Lega iniziale Cristalli Acqua madre ‘l'rovato Corretto Trovato Corretto Sn 88 91,05 91,05 87,11 SUO Cd 8 8,20 8,17 7,90 7,87 Biatz 0,80 0,78 0,05 5,02 Percento di acqua madre nei cristalli = 15,53. Concentrazione del Cd rispetto allo Sn nel liquido: C,= 9,091. » nei coristalli: C,= 8,962. ” ” ”» ” » Le = 0,985 D) III. Lega iniziale Cristalli Acqua madre trovato corretto trovato corretto Sn 85 87,10 37,00 83,70 83,66 Cd 10 10,08 10.00 9,95 9,86 Bi 5 3,45 3,00 6,95 6,48 Percento di acqua madre nei cristalli = 46,30. Concentrazione del Cd rispetto allo Sn nel liquido: C,= 11,763. > nei cristalli C— 10192598 » tl » kl Cs [aior) pi: 207 Da queste cifre si rileva che da soluzioni liquide di cadmio nello stagno si separano soluzioni solide di concentrazione molto vicina; il coefticiente di — 713 — ripartizione è sensibilmente costante, e però è dimostrato che in soluzione solida nello stagno il cadmio ha la stessa grandezza molecolare che nelle soluzioni liquide, e quindi è monoatomico. Come avviene di solito, i cristalli separati si impoveriscono maggiormente di cadmio per le concentrazioni più forti, ciò che è dimostrato dalla diminuzione del coefficiente li ripartizione coll’aumentare della concentrazione. Notiamo ancora, che le nostre esperienze vengono a confermare i dati di Stoffel su questa lega ternaria, ed in genere, i risultati dell'analisi termica. | Nella parte sperimentale di questo lavoro siamo stati validamente coadiuvati dal laureando sig. Carlo Marani. Chimica. — Sulla tautomeria dell'acido fulminico ('). Nota del dott. F. CarRLo PALAZZO, presentata dal Corrisp. A. PERATONER. Nel 1899, Ley e Kissel (?), studiando il fulminato mercurico dal lato della conduttività elettrica, stabilirono con una serie di misure, che esso non è elettrolito; in accordo con ciò la soluzione acquosa: reagisce neutra, e non dà le reazioni dell’ione mercurico. Di conseguenza, per un acido HCNO, il quale, corrispondendo nella sua struttura al fulminato mercurico, deve essere un acido estremamente debole, era da pensarsi, che l'idrogeno, invece di essere unito all'ossigeno, costituisse un gruppo immidico, o un gruppo metenilico. Ley e Kissel, difatti, furono indotti ad ammettere « dass die Knallsiure C:N.0H, analog anderen Oximen, tautomer im Sinne der Formeln: 1) C--NH resp... HC==N , oder II) HC-N—=0 NOA NA reagiren kann, und das Quecksilbersalz von diesen Formelu abzuleiten ist ». Nondimeno, tale supposizione è rimasta isolata, nè si è mai pensato a rav- vicinare l'acido fulminico ai pseudo-acidi, ciò che poteva anche essere una conseguenza delle vedute di Ley e Kissel. Più recentemente, io stesso, studiando alcuni interessanti composti di addizione dell'acido fulminico (#), venivo per questa via ad un convincimento simile a quello di Ley e Kissel; e, messe in rapporto le mie vedute con quelle dei suddetti Autori, e con le conoscenze intorno ai pseudo-acidi, scor- gevo una ragionevole dimostrazione per la tautomeria dell'acido. fulminico; ciononostante, mi sono astenuto finora di esporle, desiderando di appoggiare quell'insieme di considerazioni con qualche fatto sperimentale veramente notevole. (*) Lavoro eseguito nell'Istituto chimico-farmaceutico della R. Università di Roma. (?) Berichte, 32, 1357. (8) Cfr. specialmente Gazzetta, 39, II, 249 (1909). — 714 — Questo nuovo appoggio io credo ora di poterlo trovare nella reazione del fulminato sodico con l'acido azotidrico (!), nella quale è fuori dubbio che l’acido fulminico interviene tanto con la struttura di carbil-ossima, quanto ancora con quella, desmotropa, di formo-nìtril-ossido normale H.C=N=0. Epperò, prima di chiarire questo punto, mi propongo di esporre in suc- cinto le considerazioni teoriche di cui ho fatto testè cenno. 1. — Tautomeria dell'acido fulminico in soluzione acquosa, Se, mettendosi dal punto di vista di Nef (?), si ammette che gli acidi minerali agiscano sul fulminato di sodio senza liberarne acido fulminico, e cioè, per semplice addizione all'atomo di carbonio bivalente: H.X + C:NO.Na = {> C0=NO.Na, si deve non pertanto convenire, che, nelle condizioni in cui si formano la cloro- formossima di Nef e le varie formossime sostituite da me ottenute, l'eccesso di acido impiegato reagisce sul composto di addizione, mettendo in libertà la corrispondente formossima. Ora, nella soluzione acquosa di tali ossime si stabilisce sempre, secondo mie precedenti esperienze, l'equilibrio: I) Y>0=NOH > HX+-acido fulminico, sicchè, in pratica, la soluzione di fulminato aggiunta di eccesso di acido contiene sempre acido fulminico. Si può dunque porre il quesito, se l’acido fulminico libero possegga o no la medesima struttura del sale sodico, tenendo sempre presenti i possibili equilibrii ai quali l'acido fulminico va incontro per la sua natura di composto non saturo (*). Intanto, considerando i fenomeni di dissociazione da un punto di vista il più generale possibile, non appare lecito supporre, che essi abbiano luogo sempre in un solo senso; sembra invece doversi ammettere, che abbiano luogo simultaneamente delle dissocia- zioni in vario senso, e che perciò non sì abbia solo una sostanza (non satura) in equilibrio con un’altra (satura), ma invece un'intera serie di sostanze, non sature e sature, tutte in equilibrio fra loro. Questo modo di vedere, applicabile in tesi generale ad ogni composto non saturo, sì può, nel caso dell'acido fulminico, avvalorare ancora con il (!) Cfr. Palazzo e Marogna, Giornale di Scienze naturali ed economiche di Palermo (novembre 1912). (*) Annalen, 280, 314 (1894). (*?) Parlando di composti non saturi e di composti saturi, intenderò sempre riferirmi, in questa Nota, rispettivamente a composti con carbonio bivalente, e con carbonio tetra- valente. — 715 — seguente dato di fatto. Dalla reazione del fulminato sodico con l'acido nitroso, io ottenni l’acido metil-nitrolico, o nitro-formossima ('): wo > C=N0H; da questo prodotto, derivato della carbil-ossima, sì può eliminare acido ni- troso; tuttavia, il composto HCNO da esso rigenerato non è sempre il me- desimo. Nella decomposizione in soluzione acida, si forma acido fulminico (?), nell'azione degli alcali si forma invece un composto isomero, il formo-nitril- ossido di Wieland (*). Si può dunque realizzare, attraverso l’acido metil- nitrolico, la trasformazione della carbil-ossima in un isomero: COENOHO NO. > C=NOH —> HO=N 2 (Palazzo) (Wieland) No E siccome nella dissociazione di composti saturi i reattivi agiscono in sostanza da catalizzatori, così, già nella pura soluzione acquosa dell'acido metil-nitrolico e delle altre formossime sostituite sono da ‘prevedersi delle dissociazioni in vario senso, il che equivale a considerare per l'acido fulmi- nico un equilibrio fra parecchie forme desmotrope, p. es. nel senso dello schema: Ti >C=NOH (-H%) ORO, == ENO een ATO No/ (*) Questi Rendiconti, /6, I, 545 (1909). (*) Berichte, 40, 418 (1907). (3) Berichte, 42, 803 (1909). (*) L'esistenza di un composto di tale struttura è stata alcuni anni fa sospettata da Grigorowitsch (Zentralblatt, 1906, I, 743), e da Wieland (Berichte, 40, 418, 1667-1907), ma indipendentemente da ogni considerazione sugli stati di equilibrio sopra discussi. Il primo di questi Autori è d’avviso, che le formule di Ley e Kissel rispondono, meglio di quella di Nef, alle proprietà dei fulminati, ma inclina più specialmente per la formula con carbonio tetravalente H.C= N, a fianco della quale, appunto, pone l’altra di formo- NI nitril-ossido normale. Wieland, invece, riferendosi alle esperienze di Ley e Kissel, osserva, che la formula H.C= N è da escludersi per l’acido fulminico, poichè essa compete al formonitril-ossido da lui ottenuto nella scissione alcalina dell’acido metil-nitrolico (cfr. a pag. 40 della monografia Die Anallsàure, pubblicata nel vol. XIV della Sammlung chemischer u. chem. Techn. Vortràge), e, d’altro canto, considera il formonitril-ossido normale come corpo eminentemente labile. ReNDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 93 — 716 — e tale equilibrio dev'essere preso in considerazione anche se in pratica non sia possibile rioonoscere le singole forme, per il fatto che una prevale molto fortemente sulle altre, o perchè, nelle poche reazioni (per lo più di addizione) da noì applicate, esse non siano differenziabili l'una dall’altra. 2. — L'acido fulminico come pseudo-acido. Come ho accennato in principio, le osservazioni di Ley e Kissel sul fulminato mercurico sarebbero state già sufficienti a caratterizzare l’acido fulminico come pseudo-acido. Certo, le scarse conoscenze sull’acido fulminico libero non potevano (come non possono neanche oggi) permettere di stabilire fra l'acido libero ed il sale sodico un confronto, analogo, p. es., a quello fra il nitrometano ed il corrispondente «ci-sale; ma la sola diversità di contegno fra fulminato sodico e fulminato mercurico, sotto l'aspetto della dissociazione elettrolitica, avrebbe potuto benissimo condurre ad accettare la tautomeria supposta da Ley e Kissel, e ad interpretarla come quella particolare sorta di isomeria (« isomeria di jonizzazione =) che appunto si riscontra nei pseudo- acidi. Ora, applicando all’acido fulminico le conoscenze che si sono acquistate sui pseudo-acidi, si può trarre a suo riguardo un'ulteriore conclusione di no- tevole interesse. Com'è noto, nel trattamento degli «cz-sali con acidi minerali, si formano nel primo istante i corrispondenti acidi, i quali si convertono poscia nelle forme isomere « pseudo-acidi =. La velocità con cui avviene tale trasformazione può assumere nei diversi casi valori molto diversi; può essere, cioè, tanto considerevole da non consentire l'isolamento dell'acido vero, o tanto piccola da permettere di estrarre quest'acido appena inquinato da tracce dell’isomero; ma tali differenze, se sono molto notevoli da un punto di vista pratico, non hanno alcun valore sotto l'aspetto teorico, avendosi in ciascun caso degli equilibrii fra le due forme isomere, i quali si vanno continua- mente spostando, con velocità più o meno grande, a favore del pseudo- acido. Per conseguenza, è ovvio immaginare nel caso della carbil-ossima dei fatti analoghi. Invero, anche lasciando ingiudicata la questione, se nel trat- tamento del fulminato sodico con un idracido questo agisca solamente addi- zionandosi, come pretende Nef, e non, come sembra invece più verosimile, decomponendo in pari tempo il sale nel senso di scacciare la carbil-ossima, in ogni caso, quest'ultima si libera dal suo prodotto di addizione, nel senso dello schema I) (pag. 714), e, per quello che si è detto sulla struttura dei fulminati (dissociati elettroliticamente — sale sodico —, o indissociati — sale mercurico), deve allora ritenersi che essa, appena generata, cominci a tras- formarsi nel corrispondente pseudo-acido. Naturalmente, sulla struttura di questo è solo l’esperienza che può dare indicazioni precise; difatti, la teoria — 717 — lascia prevedere parecchie forme. Così, dalla struttura di carbil-ossima, o di isonitroso-composto, possono dedursi, rispettivamente, la struttura di iso-ossima e quella di nitroso-metilene, ambedue già indicate da Ley e Kissel, e da ciascuna di queste, ulteriormente, una struttura di formonitril-ossido: e RINO ge nr i GO NI HO—N=0 NA | I HO = N HC=N=0 SA Tuttavia, fra queste 4 forme, le due a sinistra sì presentano già meno probabili delle altre: l’una (iso-ossima) non chiarirebbe in modo semplice i rapporti dell'acido fulminico con le diverse formaldossime sostituite; e l'altra rappresenta il formo-nitril-ossido di Wieland, che finora non si è mai ottenuto direttamente dai fulminati, ma per altra via. Delle altre due forme, quella di nitroso-metilene, anch'essa indicata da Ley e Kissel, potrebbe forse avvalorarsi oggi col fatto, ben dimostrato da numerosi lavori di J. Schmidt (*), che nella scrie alifatica esistono, e possono venire isolati, dei veri e proprî nitroso-composti, con gruppo nitroso legato a un atomo di carbonio secondario. Ma tali composti sono capaci di esistere solo a temperature molto basse, trasformandosi a temperatura ordinaria, rapidamente, in isonitroso-composti : SAONOS È 0=N0H, e del resto conviene anche osservare, che questo notevole carattere d’insta- bilità potrebbe essere, nel nitroso-metilene, ancora più accentuato dalla pre- senza di un atomo di carbonio bivalente. Per ciò, mentre il rapporto del nitroso-metilene alla carbil-ossima può veramente considerarsi della stessa natura di quelli che corrono fra pseudo-acidi e acidi, sì deve d'altronde ri- tenere molto probabile, che il carattere di labilità, comune a tutti i nitroso- composti alifatici, si manifesti in questo singolo caso con la isomerizzazione in composto saturo, cioè, in formonitril-ossido normale. 3. — La forma tautomera H.C=N=0. Mentre, per i motivi addotti nel paragrafo primo, si deve ammettere nella soluzione acquosa di acido fulminico un equilibrio fra molteplici forme (') Berichte, 3d, 36, 37, 42 (1902-1909). — 718 — desmotrope, non sature e sature, le considerazioni ora svolte farebbero sup- porre a questo riguardo, che, fra le varie forme di pseudo-acido, prevalga quella di formonitril-ossido normale, cosicchè, praticamente, l'equilibrio sa- rebbe da rappresentarsi con lo schema: I), {C=N.080 > —Hic=N=00 Nel miglior accordo con tale conseguenza stà il risultato della reazione fra acido azotidrico e fulminato di sodio, dalla quale io ho isolato due ossi- tetrazoli. Invero, poichè questi isomeri non sono reciprocamente trasformabili, cosi, per la loro sintesi sono da supporsi processi diversi. Mentre l’ossi- tetrazolo dal p.f. 145°, con la sua struttura di N.ossi-composto, rispecchia la genesi dalla carbil-ossima: N C=NOH H.c=-==N.0H H.C—— N.0H I in e sa i lasterg N=N.H N=N=N N_N=N l'’isomero fusibile a 156°, per il semplice fatto di contenere invece un gruppo immidico, mostra che si è prodotto in modo sostanzialmente diverso. Sotto questo riguardo, la sintesi dell’zso-ossi-tetrazolo rammenta quelle di parecchi composti triazolici e tetrazolici (') nelle quali è ormai da ritenere che l'acido azotidrico si unisca sin da principio non per un solo atomo di azoto, come nel caso di sostanze con carbonio bivalente, ma simultaneamente per due, nel senso, cioè, degli schemi (?): N CH N CH I = | N_NX © #AMicH N_NX CH N GIO N sx I api | | N=NH N N_NH—N epperò, dal modo stesso di addizionarsi dell'acido azotidrico viene a risultare per l'acido ps.fulminico una struttura analoga a quella dei composti aceti- lenici e cianici, la struttura, cioè, sopra indicata, di formonitril-ossido nor- (1) Cfr. Dimroth. Berichte, 43, 2219 (1910); Oliveri-Mandalà, Gazzetta, 4/, I, 59; IT, 430 (1911). (2) In questi schemi mi sembra molto opportuno rappresentare l’acido azotidrico con la formula Angeli-Thiele. Cfr. Angeli, R. A. L., /6, IT, 790 (1907), 20, I, 625 (1911); l'hiele, Berichte, 44, 2522, 3336 (1911). (SX Heo CEE (9) X= Br, .CN,.CO0C.H;. — 719 — male. Data questa struttura, la sintesi dell'/so-ossi-tetrazolo procede dunque secondo lo schema: N CH N—==(G I di mi di | N=NH N:0 N-NH_-N:0 Riguardo ai rapporti quantitativi nei quali la carbil-ossima e il formo- nitril-ossido normale partecipano al superiore equilibrio Il), le mie esperienze non permettono una conclusione sicura; difatti, il solo dato dei rendimenti, che cioè l’/so-ossi-tetrazolo prevale sempre sull’ N.ossi-composto, potrebbe essere fallace, dovendosi evidentemente tener conto della velocità con cui ciascuna delle due forme reagisce con l'azo-immide. Ma, riguardo ai rapporti nei quali si formano i due ossi-tetrazoli, si può fare invece la previsione che essi variino al variare delle condizioni di temperatura in cui ha luogo la reazione, giacchè per il suddetto equilibrio C-=NOH 2 H.C=N=0 è naturalmente da prevedersi una stretta dipendenza dalla temperatura. Delle esperienze istituite a questo fine mì hanno in realtà mostrato che così è; mantenendosi infatti a temperatura molto bassa (— 5°), la sintesi del- l'N.ossi-tetrazolo retrocede in modo sensibile, tanto da potersene ricavare solo quantità trascurabili, mentre si avvantaggia notevolmente quella del- l’isomero. Le superiori vedute circa la tautomeria dell'acido fulminico vengono dunque avvalorate anche sotto questo rispetto. Chimica. — Sali doppi del cloruro talloso col cloruro ferrico e col cloruro di bismuto ('). Nota di G. ScARPA, presentata dal Socio G. CIAMICIAN (°). Le combinazioni dei cloruri alcalini coi cloruri di bismuto e di ferro, vennero già studiate per via umida da J. Remsen (*) per i sistemi col clo- ruro di bismuto, e da Walden (*) prima, e da Hinrichsen e Sachsel (4) poscia, per quelli col cloruro di ferro. Dal Remsen vennero esperimentati i sistemi: Na CI - Bi C];, K C1- Bi Cl;, CsC1 - BiCl, , RbC1- BiClz, e da Walden i sistemi: NaCl-FeCl,, KCl-FeCl, , RbCl-FeCl; , CsC1-FeCl;. Lo studio del comportamento (1) Lavoro eseguito nel laboratorio di Chimica generale della R. Università di Padova, diretto dal prof. G. Bruni. (*) Pervenuta all'Accademia il 17 agosto 1912. (*) Am. Chem. Journ., /4 (1892), 164. (OZ eRanoro ACNN0331E (°) Z. f. physik. Ch., 50, 81-99, 1904. — 720 — per via umida di questi ultimi sistemi, meno il sistema CsCl-FeC],, venne più tardi ripreso da Hinrichsen e Sachsel, i risultati dei quali concordano quasi del tutto con quelli di Walden. Si giunse così a concludere che la tendenza dei cloruri dei metalli alca- lini a dare composti coi cloruri di ferro e di bismuto va gradatamente au- mentando dal sodio, al potassio, al rubidio e al cesio. Sarebbe interessante di vedere se questo modo di comportamento sì mantenga anche ad alta temperatura: e cioè esperimentare questi sistemi con l'analisi termica. Ma i sistemi già citati non si prestano, sia per la troppa differenza dei punti di fusione, sia perchè, ad alta temperatura, i cloruri di ferro e di bismuto sono molto volatili. Siccome il cloruro talloso fonde a temperatura relativamente bassa, data la sua grande analogia coi cloruri dei metalli alcalini, mi parve interessante di studiare il suo comportamento mediante l’analisi termica coi cloruri di ferro e di bismuto. Questi due sistemi: T1C1-Fe Cl] , TI C1-Bi Cl]; vennero già esperimentati ver via umida: il primo da Wohler e Ahrens (?), il secondo da Ephraim e Barteczko (?). Dei sali adoperati, i cloruri di ferro e di bismuto provenivano dalla ditta Kahlbaum. Il cloruro talloso venne da me preparato in laboratorio partendo dal tallio metallico, sciogliendolo dapprima in acido nitrico diluito e poi precipitandolo con acido cloridrico facendovi passare attraverso una forte cor- rente di SO, per ridurre tutto il tallio a sale talloso. Il cloruro talloso così ottenuto, sottoposto a fusione, sì mostrò assai puro. La fusione delle miscele venne fatta in provette di vetro di Jena e in atmosfera di azoto. Per la misura delle temperature venne usato il solito apparecchio: un termoelemento Pt - Pt Rh, e un galvanometro Siemens-Halske. Come punti fissi per la correzione degli apparecchi furono usate le tem- perature seguenti: punti di ebullizione dell'acqua, dell’anilina (123°); punto di fusione dello zinco (421°), dell'antimonio (630°). Il sistema TIC)-FeCl,. Il punto di solidificazione del cloruro talloso risultò a 429°. Questo punto s'avvicina molto a quello dato da Méonkemeyer (*) a 426° ed è in ottimo accordo con quello dato da Sandonnini (4) (429°). Per la grande facilità che presenta il cloruro ferrico puro di sublimare appena sopra il proprio punto di fusione, non fu possibile determinare, dalla curva di raffreddamento, il suo punto di solidificazione. 1 ) Lieb. Ann., /44, (1867), 250. 2) Zeit. f. anorg. Ch., 62, 1909. 3) K. Monkemeyer, N. Jahr. f. Min. G. u. P. XXII, Beil. Band. 1907, 1. ) Rend. Acc. Lincei, XX, 458 (1911). 4 ( ( ( ( 2 — Questo punto venne perciò determinato dalla curva di riscaldamento e risultò a 302° in buon accordo con quello dato da Friedel e Crafts (*) (301°). Degli altri sperimentatori: Herrmann (?) dà questo punto a 298°, Car- nelley e Carleton-Williams (*) a 306-307°. Venne prima fatto un saggio sulla purezza del cloruro ferrico dosando in esso il ferro ed il cloro, che furono trovati corrispondenti al teorico. A cagione della grande facilità che questo sale ha di sublimare, sì ha, anche per le miscele più ricche in TC], una separazione dalla miscela fusa di FeCl3, che in parte sublima fuori della provetta e in parte sì deposita eristallino sulle pareti di essa. Questa perdita, che è piuttosto piccola per le miscele ricche in TI CI, diviene sempre più forte col crescere della con- centrazione di Fe Cl3. per cui le miscele, dopo la fusione, hanno composizione del tutto diversa da quella iniziale. Non volendo quindi incorrere in gravi errori, credetti opportuno di dosare per le varie miscele il ferro in campioni prelevati dalla massa solidificata restante, per risalire poi da questo alla quantità di FeCl, contenuto in esse all'atto della solidificazione. Per poter procedere al dosamento del ferro, si dovette naturalmente ri- correre alla separazione di esso dal cloruro talloso. Perciò una parte della miscela, pesata in pesa-tiltro chiuso, causa la grande igroscopicità del cloruro ferrico, veniva finamente polverizzata, trattata con acido cloridrico concentrato e quindi posta per tre o quattro ore sopra un bagno-maria. La soluzione venne separata da TICl per filtrazione, e il residuo lavato con acqua acidulata con acido cloridrico sino ad eliminazione completa dei sali di ferro. Le soluzioni di FeCl, venivano portate a dato volume e, secondo la quantità di ciascuna miscela pesata e la ricchezza di FeCl;, veniva presa di esse soluzioni una parte conveniente in modo da operare sempre presso a poco sulla stessa quantità di FeCl,. Il ferro veniva dosato sotto forma di Fe, 0;. Nella tabella I sono riuniti i dati termici ottenuti. (®) Compt. rend., 107, 301, 1888. (?) Zeit. f. anorg. Chemie, 71, 266, (1911) (8) Journ. chem. soc., 37, 125. = 22 — TABELLA I. Molecole Iemppra ture Temperature Durate Temperature Durate Ò di cristal- | A È Jo TA ZIoNe i del 1° arresto in del 2° arresto in di FeCls primaria eutettico secondi eutettico secondi 0.0 429 — — —_ = 10.0 385 266 30 = = 19.0 9855 266 60 = = 22.0 325 267 120 — — 26.0 - 262 160 = — 29.0 276 261 70 — = 33.0 290 —_ = = = 35.0 252 — — 221 40 37.0 233 — —_ 217 50 45.0 260 — — 218 40 52.0 280 — — 220 30 59.0 290 — di 221 30 62.0 299 — — 218 20 100.0 302 —_ — = = 500 ] 200 400 300 TICI Mol. °/o Fe Cls Fe Cl, Fic. 1. — Cloruro talloso + cloruro ferrico. — 723 — Come si vede dai risultati, non sì poterono ottenere miscele più ricche di 62 mol. °/, di FeCl;. Il diagramma di solidificazione di questo sistema, quale risulta dalle curve di raffreddamento, è rappresentato dalla figura 1. La curva di cristallizzazione primaria discende dal punto di solidifica- zione del cloruro talloso sino ad un punto eutettico alla temperatura di 266° circa e 26 mol. °/, di FeCl;, per risalire ad un massimo a 33 mol. °/, circa di FeCl; e a 290°. Per miscele più ricche di FeCl; la curva di cristallizzazione primaria risale rapidamente, tanto che per la miscela a 62 mol. °/, sì arriva ad avere il primo arresto a 299°, quasi coincidente quindi col punto di fusione del cloruro di ferro puro. Questo fatto potrebbe far supporre, che, se si potes- sero ottenere miscele fuse assai più ricche in FeCl, la curva facilmente finirebbe per assumere un nuovo massimo, il quale poi porterebbe all'esi- stenza di un composto più ricco in FeCl; che non quello già noto. Ma siccome la curva di raffreddamento della miscela a 62 mol. °/ di FeCl; presenta ancora arresto eutettico, potrebbe darsi il caso che la curva di deposizione primaria risalisse lentissimamente al punto di solidificazione di FeCl ('). Non si hanno tuttavià dati sufficienti per chiarire completa- mente la questione. La miscela a 33.3 mol. °/, di Fe Cl, corrisponde ad un massimo e viene a corrispondere ad un composto stabile alla fusione: 2T1C1.FeCl,. La curva di raffreddamento di questa miscela non presenta infatti alcun arresto di carattere eutettico. Un composto tra TI Cl e Fe Cl; venne trovato anche per via umida da Wohler e Ahrens (loc. cit.), ma di composizione diversa da quella da me trovata: 3 T1C1-FeCl;. La diversa composizione di questi composti può venire spiegata dalla diversità delle temperature alle quali venne operato. 2 sistema TI CI - Bi Ch. Il punto di fusione del cloruro di bismuto, secondo Herrmann (loc. cit.), giace a 224°. Dalle mie esperienze risultò a 229° in buona concordanza quindi con quello dato da Muir (°) (225-230°). Nella tabella II sono riportati i dati ottenuti per questo sistema, il cui diagramma di solidificazione è rappresentato dalla fig. 2. La curva di cristallizzazione primaria discende dal punto di fusione del cloruro talloso sino ad un eutettico alla temperatura di 360° e a 12.5 mol. °/o di BiCl;, per risalire poi ad un massimo alla temperatura di 413° e alla (*) Vedi sistema Bi Cl, - Fe Cl3. Herrmann, loc. cit. (£) Chem. N. 32 277, 1878. RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 94 — 724 — TaBELLA II. Molecole °/o di BiCls 0.0 5.0 10.0 12.5 15.0 1785: 20.0 25.0 30.0 35.0 37.5 40.0 45.0 50.0 55.0 60.0 65.0 67.5 70.0 75.0 80.0 85.0 90.0 95.0 100.0 Temperature di cristallizzazione primaria 429 410 382 370 382 396 418 404 380 370 342 293 262 196 176 155 162-165 168-155 178-160 187-167 204-184 217-195 224 500 200 |- TICI Temperature n del Durate ‘emperature 1° e 2° arresto |. s del in secondi eutettico 3° arresto 360 30 BS 360 70 > 360 100 ns 861 70 290 360 50 Da 360 30 s sn = ? Ta = 331 tr = 326 Fai = 330 Fi = 300 123 30 @ 150 50 25), 150 100 Re 150 150 3% 150 180 = 150 20 SE 9 È 13 AMS Zi | 2a dI] VEARIS I ES e i Al (N N Dv È KR ] xl N | Sa i Si | 30 40 50 60 70 80 Mol °/ Bi Cl, Temperature del 4° arresto 500 100 Bi Cls Fic. 2. — Cloruro talloso + cloruro di bismuto. Durate I in secondi — 725 — concentrazione di 75 mol. °/, di TI CI. Da questo massimo la curva scende regolarmente sino alla temperatura di 330° e a 40 mol. circa di Bi C1° circa, dove si nota un leggero gomito. Un gomito anche più evidente si nota a 52 mol. °/, di BiCl, e a 225° circa, da cui la curva discende sino ad un punto eutettico alla temperatura di 150° circa e a 67 mol. °/, di BiCh,, per risalire infine direttamente al punto di solidificazione di quest'ultimo sale. Le curve di raffreddamento delle miscele da 0 a 25 mol. °/ di BiCl presentano, oltre l'arresto di cristallizzazione primaria, un arresto a 360°, il quale si annulla completamente per la miscela a 25 mol. °/, in corri- spondenza del massimo. Questo punto di massimo è dovuto quindi certamente ad un composto che viene ad avere la formula: 3 TI C1.BiC],. Le miscele da 25 a 40 mol. °/ di BiCl], presentano un debole arresto a 330° circa, dovuto assai verosimilmente alla formazione di un composto decomponibile per fusione e al quale probabilmente spetta la formola: 2T1C1-BiC];. Anche per tutte le miscele da 35 a 50 mol. °/, di BiC]3 si nota nelle curve di raffreddamento un punto di arresto a 224° che ha il suo massimo di durata a 40 mol. °/ di BiClz. Viene quindi accertata l’esistenza di un nuovo composto: 3 TI C1- 2 Bi Cl3, decomponibile alla fusione, la cui tempera- tura di formazione è a 226° circa. Le curve di solidificazione delle miscele da 70 a 100 mol. °/, di BiCl, presentano tutte chiaramente l'intervallo tipico di deposizione di cristalli misti: il primo arresto corrisponde al principio, il secondo alla fine di cri- stallizzazione. Più difficile riesce lo stabilire dove non esista più l’eutettico dalla parte del composto 3 TI Cl. 2 Bi C];, in causa dei forti sopraraffreddamenti a cui vanno soggette le miscele. Molto probabilmente, il cloruro di bismuto scioglie in forti quantità allo stato solido il composto 3 T1C1:2Bi Cl; e. a sua volta, questo scioglie una data quantità di BiCl,. L'esistenza del sale doppio 3 T1C1.BiCl; era già nota, essendo stato preparato, unitamente ad un altro sale 6 TT Cl. Bi Cl; , di cui nel diagramma che mi risulta non si ha traccia di esistenza, da Ephraim e Barteczko (loc. cit.); non era nota però l’esistenza dei sali: 2T1C1.-BiCl} e 3 TICI. 2 Bi Ch. Concludendo: Il cloruro talloso dà: col cloruro di ferro, un sale doppio: 2T1Cl-FeCl,, e forse un altro: 2T1C1-3 FeClz; col cloruro di bismuto dà tre sali doppî di cui due hanno le formule: 3 T1C1-BiCl3, e 3T1C1-2BiCl;; il terzo è probabilmente 2 TI CI. Bi Cl, . Inoltre si ha formazione di cristalli misti entro rapporti limitati dalla parte del cloruro di bismuto. — 726 — Chimica — Ossidazione anodica dell'’ammoniaca in ambiente acido in presenza dei sali d’argento (£). Nota di G. SCAGLIARINI e A. CASALI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Marshal (®) aveva notato che l'ossidazione dell'’ammoniaca coi persolfati avviene in modo tumultuoso soltanto, quando siano presenti sali d'argento. Facendo agire un persolfato sopra un sale di ammonio in presenza di un sale di argento, lo stesso autore riconobbe che non si liberava la quantità calcolata di ossigeno, ma parte dell'ossigeno attivo andava ad ossidare ad acido nitrico l'ammoniaca combinata. In assenza di sali d'argento, tale ossi- dazione è appena avvertibile. Però Marshal non fece determinazioni quantita- tive; soltanto asserì che con soluzioni più concentrate sia rispetto al persol- fato, sia rispetto al sale d'argento si sarebbero forse potute ottenere quantità rilevanti di acido nitrico, specialmente a temperatura elevata. Lo studio del fenomeno fu ripreso da R. Kempf (*) il quale, ossidando il solfato ammonico con persolfato in soluzione diluita di acido solforico, trovò che in presenza di un sale d’argento, e con eccesso di persolfato, si può avere l'ossidazione quasi completa dell'ammoniaca ad azoto e in pic- cola parte, ad acido nitrico. L'energica azione ossidante fu dall'autore attri- buita solo al perossido d’argento, non all’acido persolforico od agli altri agenti che da esso prendono origine (come ozono, acido di Caro, ed acqua ossige- nata), perchè, in assenza di un sale d’argento, l'ammoniaca combinata non viene dal persolfato in soluzione acida ossidata ad acido nitrico. Non molto tempo prima degli autori surriferiti, W. Traube e Biltz (4) osservarono che l’'ammoniaca può venir ossidata coll’ossigeno anodico ad acido nitroso e nitrico, qualora l’elettrolita contenga disciolto un sale ramico. Data però la grandissima somiglianza di comportamento del rame e dell'argento, spiegata dalla loro posizione nel sistema periodico, pensammo di riunire le condizioni di esperienza, realizzate da Traube e Biltz, colle altre di Marshal e Kempf; e precisamente vedere se si poteva ossidare ano- dicamente ad acido nitrico una soluzione acida di solfato ammonico, al rame sostituendo l'argento come catalizzatore. Tanto più che a questo nostro modo di vedere stava in appoggio il fatto che l'ossigeno dei persolfati quasi sempre agisce analogamente all'ossigeno che si svolge nell'elettrolisi. (1) Lavoro eseguito nelll’ Istituto di Chimica generale della R. Università di Bologna. (8) Chem. N. 83, 76; Proc. Roy. Soc., 23, 163. (5) Berichte, 38, 3792. (4) Berichte, III (1904), pag. 3180. — 27 — Difatti, come avevamo previsto, il risultato sperimentale fu positivo, giacchè, anche tenuto conto della piccolissima quantità di acido nitrico for- matosi nella ossidazione per la presenza dell’acido solforico (*), la reazione dell'acido nitrico nel liquido anodico riuscì sensibilissima, tanto che ci parve non privo di interesse lo studiare il fenomeno dal lato quantitativo; il ricer- care cioè l'influenza che ha nel processo la temperatura, la concentrazione dell'ammoniaca sottoposta all'ossidazione, la concentrazione del catalizzatore, ed infine l'influenza del tempo, tentando di afferrare, se era possibile, le con dizioni in cuì si verifica il massimo di rendimento. Come recipiente per l’elettrolisi ci servimmo di una cellula porosa del diametro di 47 mm., alta 125 mm. e di circa 3 mm. di spessore, e di un bicchiere di vetro del diametro di 94 mm. ed alto 165 mm. L'interno del vaso da pile servì come spazio anodico; in esso era contenuta la soluzione di solfato ammonico e di solfato d'argento che funzionava da catalizzatore, nel bicchiere di vetro una soluzione di acido solforico al dieci per cento circa, nella quale era immersa la cellula. Gli elettrodi erano di platino; l'anodo, di forma cilindrica, della superficie complessiva di cm? 45, ed il ca- todo che pescava nella soluzione di acido solforico al dieci per cento, era in forma di lastra, della superficie complessiva di cm? 54. Osservammo che nel processo non si forma affatto acido nitroso. Il modo di procedere per le determinazioni quantitative era il seguente: sì prelevavano dal liquido anodico determinate quantità di soluzione trascu- rando un po arbitrariamente il liquido esterno che conteneva appena traccie di acido nitrico migrato per conduzione. Scacciavamo completamente con barite tutta l’ammoniaca, si faceva passare nel liquido una corrente «lì ani- dride carbonica per eliminare l'eccesso di barite e si concentrava il liquido filtrato, sia per scomporre il bicarbonato che sì fosse eventualmente formato, sia per ottenere una minore quantità di liquido su cui operare. Su questo liquido contenente l'acido nitrico allo stato di nitrato di bario, si procedeva o col metodo Schulze-Tiemann 0, meglio, precipitando il bario legato all'acido nitrico come solfato. Naturalmente, in questo ultimo caso sì dovette tener conto della piccola solubilità del carbonato di bario facendo le debite correzioni. Nelle seguenti tavole sono riportati i risultati delle nostre esperienze, con le relative deduzioni. INFLUENZA DELLA TEMPERATURA. Liquido anodico. Soluzione solfato ammonico dieci per cento satura di solfato di argento a 15°. (1) I dati riportati nelle tabelle che seguono, furono corretti sottraendo ad essi la quantità di acido nitrico che si forma durante il processo ossidativo per la presenza del- l'acido solforico. — 728 — Liquido catodico. Soluzione di acido solforico al nove o dieci per cento. Intensità di corrente: A24. — Caduta di potenziale: Volts 15. Durata dell'esperienza: Ore 3. Acido nitrico Quantità Tempera- in grammi di acido nitrico COME arco 0° 0,00648 0,1296 10 0,01812 0,2624 45 0,01458 0,2916 57 0,04870 0,9740 12 0.13574 2,7148 90 0,15766 8,1532 INFLUENZA DELLA CONCENTRAZIONE DEL SOLFATO AMMONICO. Liquido anodico: Soluzioni di solfato ammonico alle varie concentra- zioni sature di solfato d'argento a 15°. Liquido catodico: Come precedente. — Intensità di corrente: come precedente. — Caduta di potenziale: Come precedente. Durata dell’esperienza: Come precedente. Temperatura: 90°. — Acido nitrico Quantità Concentra- in grammi di acido nitrico zioni contenuto in 50 ce. formatosi per 100 gr. di elettrolita di solfato ammonico 10%/o 0,15766 3,1532 30/0 | 0,15982 1,0655 50% | 0,16284 0,6514 INFLUENZA DEL TEMPO. Liquido anodico: Come nella prima tabella. Liquido catodico: Come precedente. Intensità di corrente: Come precedente. — Caduta di potenziale: Come precedente. — 729 — 5 o ata Ro : A 72° di temperatura A 15° di temperatura —_—_—_—___—1_—_—_—"——————1——11—' ; Big Quantità o SEA ità RIO di acido*nitrico Acido nitrico di SO Ore contenuto in 50 cc. fo da Re Ore contento in 50 ce inigrammi " h rmatosi per r. o a ò f si 6 di elettrolita di solfato ST di elettrolita SESTA OC 3 0,13574 2,7148 3 0,01312 0,2624 O) 0,15852 3,1704 6 0,02009 0,4018 7 0,16996 3,3992 9 0,02305 0,4610 Sono state fatte, queste due esperienze, una a 15° e l’altra a 72°, per varie ragioni, e principalmente a temperatura bassa, perchè, data la piccola concentrazione del catalizzatore, era permesso di condurre l'esperienza per oltre nove ore senza che il liquido s impoverisse completamente di esso, mentre che questo inconveniente succedeva dopo poco più di sette ore, man- tenendo la temperatura a 72°. Per ragioni di comodità di esperienza, data la lunga durata di essa, si è tenuto i 72° come optimum, anzichè i 90°. Dai risultati riportati in queste tavole, si può concludere quanto segue: 1°) che la temperatura ha influenza positiva nel processo, tanto che a 90°, circa in tre ore, su 100 gr. di solfato ammonieo si ottengono quasi 3,5 gr. di acido nitrico; 2°) che la concentrazione del solfato ammonico esercita al contrario un'azione negativa, tanto da sussistere una proporzionalità fra l'aumento della concentrazione di esso e la diminuzione della quantità di acido nitrico che si forma; 3°) che non esiste perfetta proporzionalità fra durata dell’esperienza e rendimento in acido nitrico, il che dipende, molto probabilmente, dall’im- poverirsi della soluzione anodica di catalizzatore per migrazione di esso al catodo. Il catalizzatore, per altro, sembrerebbe esercitare, oltre che un'azione di presenza, anche una azione di quantità. Ciò ci proponiamo di dimostrare in un prossimo lavoro. i — Toe Zoologia. — fisultato di esperimenti fatti sopra alcune an- quille argentine (Hilatrotas) vissute forcatamente in acqua dolce. Nota del dott. F. Mazza, presentata dal Socio B. Grassi. Nel Congresso dei Naturalisi italiani promosso dalla Società italiana di Scienze Naturali tenuto in Milano nel 1906, io presentai una Nota corre- data da tavole ('). In ultimo della citata Nota — dopo aver premesso che nel grandissimo numero di anguille argentine delle dimensioni comprese fra 250 mill. e 390 da me esaminate, tutte quante, nessuna eccettuata, pre- sentavano l'organo lobulare, ritenuto sempre dagli autori come organo ses- suale maschile — ho accennato ad un esperimento da me fatto sopra alcune anguille argentine (#/atrotas dei Cagliaritani) di una lunghezza inferiore a 380 mill., allevate per lo spazio di 5 anni in una vasca del giardino an- nesso all'Istituto Zoologico della R. Università, fatta costruire dal prof. Mon- ticelli. Allora dissi che delle due anguille ancora rimaste, nessuna presentava più l’organo lobulare, ma il nastrino ovarico quantunque ancora poco svilup- pato, e ne diedi la figura (fig. 5, tav. 18) degli oociti (?). Sorpreso assai da un simile fatto, volli ripetere l’esperienza già eseguita su più vasta scala e con anguille argentine di altre località non sarde, e da allora ne tenni vive parecchie in vasche di varie località, e quindi in acque dolci diverse, segnatamente in una vasca dell'Istituto Tecnico di Roma per averle più direttamente sotto sorveglianza. Ora mi accadde che sacrificatane una il 30 luglio di quest'anno, la trovai provvista degli organi lobulari sviluppatissimi come apparisce dalla fig. 1, ma con oociti abbondantissimi. L’anguilla argentina, di cui è parola, fu acquistata al mercato di Roma nel dicembre del 1909, quando non misurava che 370 mill. di lunghezza, e nello spazio di tre anni, ne raggiunse 540, dei quali 300 dall'apice del muso all'apertura anale ed il resto alla porzione postanale (*). (1) Sul grado di sviluppo delle cellule germinali in quelle Anquille distinte a Cagliari col nome di « Filatrotas» Atti del Congresso dei Naturalisti italiani. Milano 1907. (3) Le anguille argentine della lunghezza di 250-400 e spessissimo fino di 430 mill. di moltissime località da me esaminate per lunghissimo spazio di tempo, dal 1894 fino ad oggi, tutte presentarono l’organo lobulare, ma in quelle comprese fra 400-420, gene- ralmente l'organo lobulare presentava i lobi fusi gli uni con gli altri non solo nella por- zione prossimale, ma anche nella distale in modo da apparire come un nastro con tante pieghettature trasversali. (3) Il diametro antero posteriore dell'apertura orbitale è di millim. 950, il trasver- sale 750. La distanza fra i due occhi è di 14 millim. La distanza fra il margine anter. — 1 — Fic, 1. RenpIconTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. CS (20) OC — 752 — La vasca del giardino in cuì trovavasi quest'anguilla insieme ad un'altra di pari lunghezza, che non fu più rinvenuta, era piuttosto grande; nel centro della vasca eranvi masse di calcare concrezionato, fra cui l’anguilla poteva facilmente nascondersi e stare al riparo della luce, conferve in quantità e pesci dorati della Cina (Carassius auratus Nils.) di cui l’anguilla argen- tina si pasceva abbondantemente, tanto che quando fu uccisa ne trovai uno nello stomaco non ancora digerito della lunghezza di S0 millimetri. I caratteri somatici esterni di detta anguilla nello spazio di tre anni variarono, e se prima presentava, come dissi, ì caratteri sessuali secondarii quali sono stati descritti dal Syrski(*), dal Robin (?), dal Ryder(?) e da altri, ora presentava invece un muso appiattito, un po' rincagnato, labbra vo- luminose e sporgenti, la posizione degli occhi più dorsale che nelle altre anguille. Il colore della pelle e delle pinne pettorali era meno intenso avvi- cinandosi per tal modo alle anguille gialle quelle non ancora in quell’ abito che fu descritto come nuziale (*). Apertane la cavità peritoneale per osser- vare lo stadio di sviluppo degli organi genitali, con mia grande sorpresa vidi che invece degli organi nastriformi, come la lunghezza dell'animale mi avrebbe a tutta prima fatto supporre, presentava invece gli organi lobulari di gran lunga più sviluppati di quelli delle anguille argentine di varie altre loca- lità, anche di quelle marine (?), e giudicando dalla figura perfino di quelli descritti e fotografati dallo Schmidt in una tipica anguilla argentina di 340 millim. catturata in mare a Praestò Fijord dal prof. Feddersen (5). dell'occhio e la base dei tubi nasali è di 10 mill. Distanza fra i due tubi nasali mill. 7. Larghezza massima del labbro super. 650 mill., largh. del labbro infer. 651. Distanza del labbro superiore e l’estremo punto del muso mill. 4. Distanza fra la punta del muso e l'origine della pinna dorsale 160 millim. Circonferenza massima a livello delle pinne pet- torali millim. 122. (1) Syrski, Veber die Reproductionsorgane der Aale. Sitzungsberichte d. Kais. Akad. d. Wissenschaften, LXIX Bd., 1 Abth. 4 H., 1874. (@) Robin Ch., Zhe male Fels compared with the Females. Annales and Magazine of Nat. Hist., vol. VIII, serie V, 1881. (@®) Ryder J., Note on the Male Organs ofthe Eel. Bull. of the Un. St. Fish. Comm. vol. V, 1885. (4) Secondo me i caratteri sessuali secondarî hanno poco valore, perchè se si fa il confronto fra due anguille argentine, per es. di 42-43 centimetri di lunghezza con una di 46-48, si trovano eguali caratteri esterni secondarî, mentre sezionate quelle di 42-43 cm. presentano l’organo lobulare, le altre invece il caratteristico nastro ovarico. (5) L'apertura oculare dell'anguilla argentina dello Schmidt è più ampia di quella dell'anguilla argentina di cui è parola se si considera la diversa lunghezza degli animali, essendo l’anguilla dello Schmidt lunga 340 millim. la mia 540 mill. (6) L'abito nuziale apparisce assai più per tempo negli individui coll’organo lobulare, che negli altri provvisti di ovarii sviluppati. — 733 — I lobi più sviluppati dell'organo lobulare della mia anguilla presenta- vano una lunghezza di mill. 18 ed alcuni anche più, una larghezza di 12, ma uno spessore massimo di appena due millimetri scarsi, Ne ho contato 25 dal lato destro e 24 dal sinistro (tig. 2). Chiunque avesse visto lobi così grandi avrebbe sospettato di avere sotto gli occhi un tipico maschio d’anguilla maturato — caso nuovo — in acqua dolce. Fic. 2. — Grandezza naturale del lobo. Sennonchè esaminati i lobi accuratamente con una lente a forte ingran- dimento vidi che la superficie dell'organo non era così liscia e pianeggiante come quella degli organi del Syrski, e nemmeno lasciava scorgere quei rilievi formati da creste quasi parallele di cumuli d’ uova, come di solito si osserva nelle comuni femmine di Anguille argentine di 500-600 mill. ed anche nelle Anguille gialle delle dimensioni di 430 mill. che ancora non hanno rivestito l'abito ritenuto come nuziale, ma invece mostrava delle sporgenze irregolari che in qualche parte apparivano come degli isolotti (fig. 3). La parte anteriore dei Fic. 3. lobi era invece'pianeggiante. E maggiormente crebbe la mia sorpresa, quando dilacerato un pezzo dell'organo vi trovai moltissimi e distintissimi oociti (fig. 4). Le sezioni microtomiche da me eseguite, e quelle fatte più tardi ese- guire dal prof. Grassi, in seguito a mia preghiera, nel suo laboratorio, con- fermarono pienamente che invece di un organo lobulare ripieno di spermi maturi, come sarebbe stato da prevedersi stando al suo grande sviluppo, e si trattava invece di un vero ovario con oociti evidentissimi, misuranti w. 108,8. — 734 — Il caso tipico e finora unico da me descritto dà la certezza a chiunque che la forma lobulare dell'organo non sempre, come vorrebbero gli Autori, basti a decidere che sì tratti di un testicolo, ma occorre senza dubbio fare sempre la ricerca citologica. Ed io ho in corso molte altre esperienze, che Fia. 4. dànno a divedere come dalla forma lobulare dell'organo si passa per gradi a quella nastriforme, e come ad anguille argentine a cui io avevo previa- mente esportati degli organi lobulari, lasciate vivere per anni, dopo presen- tarono l'organo nastriforme; ma su tale argomento tornerò sopra, quando avrò fatto meglio controllare le mie ricerche ('). (') Forse non sarebbe del tutto inutile esaminare qualche lobo dell’orsano del Syrski dell'anguilla catturata dal Feddersen descritta dallo Schmidt, poichè giudicando dalla fotografia sembrerebbe assai esile, quasi come quelli dell'anguilla da me descritta, mentre sarebbe presumibile che presentassero uno spessore maggiore come per es. avviene nei maschi della congromuraena balearica. i I — 735 — Sento per ultimo il dovere di ringraziare il prof. Grassi che coll’avermi fatto osservare alcuni suoi preparati dell’organo del Syrski di anguille argen- tine del mare messinese, mi diede una soddisfacente spiegazione del fatto tipico da me citato e degli altri casi pure da me messi in evidenza. Patologia vegetale. — £cerche sulla malattia del castagno detta dell’inchiostro. Nota di L. PETRI, presentata dal Socio G. CUBONI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. CORRISPONDENZA In occasione del Genetliaco di S. M. il Re, il PRESIDENTE inviava a S. M. gli augurî dell’Accademia col telegramma seguente : S. Eccellenza nob. MartIOLI PasquaLini Ministro Casa Reale — Napoli. Domani nel giorno auspicato che diede all’amato RE i natali, S. M., imitando illustre antenato, può fieramente riporre nel fodero la spada vittoriosa. La Reale Accademia Lincei invia, in una agli auguri devoti, felicitazioni per la pace gloriosa che accresce potenza e autorità all Italia. Presidente Lincei BLASERNA. A questo telegramma S. M. faceva rispondere nel seguente modo: Presidente R. Accademia Lincei — Roma. Gli auguri da Vossignoria espressi in nome di codesta Accademia sono giunti molto graditi al nostro Sovrano che ringrazia vivamente. Ministro MATTIOLI. E. M. Pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1° — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei. Tomo I-XXIII Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2° — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. MII. (1875-76) Parte 1% TRANSUNTI. 2* MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 33 MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. IV. V. VI. VII. VIII. Serie 3* — Transunti. Vol. I-VIII. (1876-84). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1,2). — II. (1, 2), — III-XIX. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 48 — RenpiconTI. Vol. I-VII. (1884-91). MremoRIE della Classe di» scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. 1-XXI. (1892-1912). 2° Sem. Fasc. 9°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XXI. (1892-1912). Fasc. 5°-6°. MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-IX. Fasc. 6°. MeMmoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCFI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia è di L. 10; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LoescHer & C.° — Roma, Torino e Firenze. Utrico Hoepri. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Novembre 1912. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali Seduta del 17 novembre 1912. MEMORIE KR NOTH DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Grassi. Ricerche sulle anguille argentine allevate forzatamente in vasche d’acqua dolce Pag. Amoroso. Sopra l’esistenza di alcuni sistemi equinormali-ortogonali (pres. dal Corrisp. RADIO Aa : Po ; » Burali-Forti. Gli enti astratti definiti come Sn i: st un campo di nozioni ai ini Corrisp. Marcolongo) +... . RIPETI Giorgi. Sugli operatori funzionali ereditati Dis Go (ta DI Moi RESA n Sinigallia. Sulle funzioni permutabili di seconda specie (pres. Cal Corrisp. Lauricella) O) E) Magistretti. Tlmenite delle cave di pietra ollare al Sasso di Chiesa (Val Malenco) (pres. dal > Corrispi/ir/z) IO) ee I 3 ” Amadori. Sulla tendenza a combinarsi fo vi e ) fosfati RIA Nt URI, I. Five e fosfati alcalini (pres. dal Socio OCiamician). . . i ” Coppadoro. Gli equilibri nel sistema: cloruro di bario, Cid di Sio Ron di ario fit ruro di sodio e acqua (pres. dal Socio Masini) (9)... 0.0.0. Sto Marino e Becarelli. Ricerche sulle combinazioni sub-alogenate di sicu cena: I. Sul cosiddetto sottoioduro di bismuto (pres. Id.) . . /./. °°. stadi - n Mazzucchelli. Ancora su una formula per l'indice di rifrazione dei siisougli i (ia dal Socio Paternò) . . . . 3 Pal) Padoa e Bovini. Sulla grandezza molooatit dei fi "nb "fasi Eh SS dal Socio Ciamician). . . 4 TRE a eo) Palazzo. Sulla A dell'acido fulmimico i dal Cali Phrttonen BAG ” Scarpa. Sali doppi del cloruro talloso col eloruro ferrico e col cloruro di bismuto (O ‘dal Socio Ciamician). . . TÀ: Sr er 7 RR E) Scagliarini e Casali. O iuzione anodii Bi fimimoniaca in ROSE to in presenza dei sali ‘d'argento! (pres: 2/0.) *. 0 Sn : "I VOLTRI Mazza. Risultato di esperimenti fatti sopra cià St roi Guai vissute forzatamente in acqua dolce (pres. dal Socio Grassi). . . 5 SE) Petri. Ricerche sulla malattia del castagno detta dell’in I (a) dal Socio Cu- DO n eee DB OR ET CORRISPONDENZA Blaserna (Presidente). Comunica il telesramma inviato a S. M. il Re in occasione del suo Genetliaco, e quello di ringraziamento fatto trasmettere da S. M. all'Accademia . . » {% Questa Nota sarà pubblicata in uno dei prossimi fascicoli. K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. kb) Abbonamento postale. Pubblicazione bimensile. Roma 1° dicembre 1912. N. 11. UTI REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CCCIX. 1912 See ei QUO IE TEA- RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del A° dicembre 1912. Volume XXI. — Fascicolo 11° 2° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1912 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE I. Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due | Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 90 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia sei Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz'altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - 4) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell'Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall'art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50.se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. RENDICONTI DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. AANANANNNN Seduta del 1° dicembre 1912. P. BLASERNA Presidente. MEMORIE KR NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Fisica. — Nuove esperienze di rotazione ionomagnetica. Nota del Socio Augusto RIGHI. In una mia recente Memoria (*) ho descritto taluni movimenti di rota- zione, che assume un corpo posto in un gas rarefatto ionizzato, quando si fa agire un campo magnetico diretto secondo l’asse, intorno al quale il corpo può girare. Queste rotazioni — che, per le condizioni necessarie affinchè si producano, ho chiamato soromagnetiche — hanno luogo in virtù della circostanza che, mentre quando non v'è forza magnetica gl'ioni si muovono fra un urto e l’altro secondo traiettorie rettilinee, tali traiettorie divengono generalmente curvilinee per azione del campo. E allora succede, che le direzioni degli urti prodotti dagl'ioni sul corpo mobile ruotano tutte di un certo angolo in uno stesso senso, onde il corpo stesso assume il moto rotatorio. Questo fenomeno, generalmente, è appr discernibile, a meno che non sì ricorra a potenti scariche a scintilla » . onizzare fortemente il gas. La ragione sta in ciò, che, mentre gl’iorî ...itivi tendono a far girare il corpo in un certo senso (e precisamente :.. .enso che dovrebbe avere una corrente elettrica circondante l'apparecchio per generare il campo effettivamente esi- (') Mem. della R. Acc. di Bologna, 1911-12. RenpIcONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 96 — 738 — stente), gl’ ioni negativi e gli elettroni liberi tendono a produrre una rotazione in senso opposto. Per tal modo, ciò che si constata non è se non la differenza fra due fenomeni inversi, di entità poco diversa: differenza dovuta, nei varii casi, a speciali circostanze accessorie. Evidentemente, si otterrebbero rotazioni molto più marcate anche in un gas mediocremente ionizzato, se fosse possibile di eliminare gl’ ioni di un dato segno. Ma si deve pervenire al medesimo risultato dando al corpo mobile una carica elettrica. Infatti, nel caso in cui a questo si dia, per esempio, una carica posi- tiva, gl'ioni positivi si muoveranno, in prevalenza, allontanandosi dal corpo, mentre soltanto quelli negativi e gli elettroni liberi andranno a colpirlo. Il cambiamento di forma delle loro traiettorie prodotto da un campo ma- gnetico produrrà allora la rotazione, che più non sarà in parte compensata da urti di ioni positivi. Tentata l’esperienza, essa riescì subito in perfetto accordo colle previ- sioni. E poichè per ottenere l’effetto basta la ionizzazione dovuta al fatto, che il corpo mobile fa da elettrodo ed il gas è traversato dalla corrente, così si può dire che in queste nuove esperienze si constata la rotazione ionomagnetica degli elettrodi. Il fenomeno può assumere diverse forme; ma in questa Nota mi limiterò a descrivere una sola esperienza. Entro un pallone di vetro, in cui l’aria è stata rarefatta sino a qualche decimo o a qualche centesimo di millimetro, funzionano come elettrodi un filo verticale A fissato nel fondo e in gran parte circondato da un cannello di vetro, ed un anello orizzontale di filo metallico BB. Ma si può conside- rare che, in luogo di A, funzioni da elettrodo il leggerissimo cilindretto di lastra d'alluminio CC, sospeso ad un filo D, e che si può abbassare a piacere col giuoco del giunto smerigliato E. Tale cilindro infatti tocca quasi il filo A colla faccia interna della sua base superiore. Come sorgente di elettricità si può far uso d'una macchina ad influenza, oppure d'un rocchetto, o anche di una batteria di piccoli accumulatori. In ogni caso, non appena si eccita un grande rocchetto posto al disotto dell’ap- parecchio, ed avente il suo asse nel prolungamento del filo di sospensione, il cilindro si mette a girare. Il senso della rotazione si inverte, sia che si invertano i segni delle cariche fornite ai due elettrodi, sia che s'inverta la direzione del campo magnetico. Per dare una idea dell’ entità degli effetti osservati dirò, che adoperando la macchina ad influenza, colla quale la corrente attraversante l’aria rare- fatta ha una intensità di circa */10 di milliampère, ho visto il cilindretto far molti giri prima che la torsione del filo di sospensione lo arresti, quando questo filo era un semplice filo di bozzolo. Durante la rotazione il ci- lindro acquista una velocità angolare tale, da fargli impiegare poco più di — 739 — un secondo a far un giro completo. Come si vede, il fenomeno è, per lo meno, tanto cospicuo quanto quello che si osservava nelle esperienze anteriori con grandissima ionizzazione. Ma, naturalmente. basta aumentare l'intensità della corrente, per esempio impiegando gli accumulatori, perchè la rotazione divenga anche più rapida. Volendo effettuare delle misure è opportuno il disporre l’esperienza in modo, che la torsione del filo di sospensione limiti la rotazione ad una piccola deviazione angolare, che poi si misura col metodo della riflessione. Basterà perciò sostituire al filo di bozzolo una opportuna sospensione bifilare, oppure un filo metallico grosso un cinquantesimo di millimetro, o anche di più. In quest'ultimo caso, l'elettrodo A può essere soppresso, potendosi fare pervenire l'elettricità al cilindretto per via del filo di sospensione. All'esposizione di altre esperienze, e dei risultati cui hanno condotto, sarà dedicata una futura pubblicazione. — 740 — Chimica. — Sull’esistenza di acque naturali oconiczate e probabili teorie del fenomeno. L'acqua forte delle Bagnore nel Monte Amiata. Nota del Socio R. Nasini e di C. PoRLEZZA. Sull'esistenza di acque naturali, minerali o no, contenenti ozono quale componente normale, non abbiamo trovato nessun cenno nella letteratura chimica. Vero è che il prof. S. Zinno assicura di aver trovato ozono, e in quantità rilevante nell'acqua di Fiuggi (2.4 cm.* per litro d'acqua); ma le ricerche intraprese da uno di noì insieme con M. G. Levi (*) non ne svela- rono traccia. Coll’acqua di Fiuggi il Cerasoli, farmacista a Frascati, trovò che si aveva azzurrimento delle cartine all'ioduro potassico e salda d'amido se venivano messe nell'acqua: lo Zinno fece la determinazione col metodo dell'anidride arseniosa e asserì di averne trovata la quantità sopra detta. Non si può escludere che l’acqua di Fiuggi possa presentare in quelle con- dizioni la reazione all'ioduro potassico, anche tenuto conto del fatto, osservato pure da uno di noi insieme con M. G. Levi, che ricca in ozono è tutta l'aria della valletta in cui si trova la fonte celebrata; ma certo una tale quantità di ozono avrebbe sopra tutto dovuto manifestarsi all'odore in modo tale da essere quasi poco sopportabile, e odore mai è stato osservato nel- l’acqua di Fiuggi. Nell’etichetta delle bottiglie di un'altra acqua — dell'acqua Precilia — figura pure l'ozono come componente della parte gassosa: ma, rispetto a questa analisi, altro non sappiamo se non che è stata eseguita in Roma dai sigg. Aureli, Tracchia e Nardacci nel Laboratorio della Farmacia dell'Ospedale di S. Spirito in Sassia; in essa figura un contenuto di 2.10 cm? d'ozono per litro d'acqua. E, certo, anche per questa sarebbe da dire che forte do- vrebbe essere il suo odore alla sorgente. Crediamo in genere che le reazioni che avrebbero svelato l'ozono e che avrebbero servito a determinarlo, si debbano ascrivere ad un'altra causa, e riteniamo quindi che acque ozoniz- zate, in via, diremo così, normale e permanente, non fossero state ancora trovate: e perciò tanto più interessante riesce la scoperta da noi fatta, anche in relazione colle possibili o probabili ipotesi sulla formazione dell'ozono stesso. Già durante le ricerche di radioattività e dispersione, eseguite nel 1911 al monte Amiata e a suo tempo pubblicate (*), avevamo avuto occasione di accertare che alcune delle acque da noi esaminate possedevano uno speciale (1) R. Nasini e M G. Levi, Gazz. Chim. It., vol. 38, parte I, pag. 190 (1908). (?) Rend. Acc. Lincei, vol. XXT, 1° sem., pag. 316 (1912). —: 7008 odore ricordante quello che si ha nella ossidazione del fosforo, odore che faceva pensare alla presenza di ozono nelle acque stesse. La prima osservazione fu da noi fatta sull'acqua dei Bagnòli di Arcidosso, poi sull’acqua delle Bagnore o Acqua Forte, e infine su altre tre sorgenti che scaturiscono a poca distanza da quest ultima. L'acqua dei Bagnòli, analizzata da uno di noi insieme con R. Sal- vadori (*), è un'acqua a piccolissimo residuo fisso, gr. 0,16 per litro: non diversifica molto dalle acque sorgive del monte Amiata, salvo, in loro con- fronto, per essere leggermente termale e per contenere una quantità un po maggiore di ferro, per quanto sempre esigua, e un po più di acido car- bonico insieme con sali di calcio. Essa è di proprietà del sig. Guglielmo Barbini, il quale facilitò in tutti 1 modi le nostre ricerche. Questa acqua era conosciuta per il suo potere imbiancante sulle fibre tessili, e si adopera con ottimi effetti per usi terapeutici. L'acqua delle Bàgnore. posta a poca distanza dal villaggio di questo nome, è chiamata anche, come si è detto, acqua Forte, e scaturisce nella valle degli Ontani, interposta tra le due strade provinciali che da Arcidosso con- ducono: l'una a Roccalbegna e Scansano, l'altra a Santa Fiora. Tale sorgente è allacciata in una modesta casetta, e ricoperta da un bottino in muratura interno a questa; l'acqua esce per mezzo di un piccolo tubo fissato al bottino stesso corrispondentemente al pelo dell'acqua: da questo al fondo del bottino corrono attualmente 80 cm. circa, essendo il tondo del bottino stesso ricoperto da un deposito abbondante di idrato di ferro. La tem- peratura dell’acqua, all’ uscita, è di 21°.5 C. L'acqua Forte delle Bagnore fu, in tempi diversi, analizzata ripetuta- mente, e precisamente dal prof. Giorgio Santi di Pisa, dal prof. Giuseppe Giuli di Siena e, in tempi più recenti, dal dott. Stefano Becchini (°). Queste analisi, che del resto rimontano a molti e molti anni fa, non soltanto sono fra loro assai discordanti, ma ci siamo potuti convincere che esse riprodu- cono solo con larghissima approssimazione la vera costituzione dell'acqua minerale in discorso; nel seguito quindi riporteremo soltanto, quando do- vremo riferirci alla composizione dell'acqua, le determinazioni che noi abbiamo fatte appositamente quest'anno, determinazioni isolate eseguite esclusiva- mente in connessione all'ozono e alle ricerche ad esso relative. L'acqua suddetta, prima posseduta dalla nobile famiglia Giovannini di Arcidosso, è attualmente di proprietà del sig. Gennaro Banchini, al quale sentiamo il dovere di porgere i nostri più vivi ringraziamenti per averci cor- tesemente lasciato la più ampia libertà di eseguire le ricerche alla sorgente (') R. Nasini e R. Salvadori. Relazione sull’analisi dell'acqua dei Bagnòli. Gazzetta chimica italiana, 29 (1899), part. II, pag. 161. (*) Vedere l’opuscolo Dell'acqua acidula-ferruginosa-alcalina delle Bagnore nella Valle degli Ontani ecc. Firenze, Tip. Galletti e Cocci, 1899. — 742 — e per avere posto a nostra disposizione il personale addetto alla sorgente stessa. Le prime ricerche furono eseguite, come abbiamo detto, nel 1911, quando era concessionario dell’acqua il sig. Romeo Innocenti, al quale pure porgiamo vivissime grazie per le gentilezze usateci e le facilitazioni accor- dateci. L'acqua Forte è usata a scopo terapeutico da gran tempo, e le persone che ne fanno la cura ammontano a parecchie centinaia ogni anno; assai ricca. in anidride carbonica, contiene in prevalenza bicarbonato di calcio, di ma- gnesio e piccole quantità di ferro. Quanto alle altre tre sorgenti cui abbiamo accennato in principio, da- remo nel seguito su di esse alcuni brevi cenni. Saggi sommarî fatti nel 1911 mediante cartine ozonoscopiche ci avevano già mostrato che era probabile si trovasse ozono nelle acque citate; e poichè il fatto era oltremodo interessante, abbiamo voluto approfondire le ricerche con nuove e più accurate indagini. Le esperienze fatte quest'anno riguardano principalmente l'acqua delle Bagnore, giacchè questa mostra in grado anche più elevato di quella dei Bagnoli l'odore di fosforo; le ricerche stesse sì riferiscono a determinazioni qualitative e quantitative fatte sul posto, sia sui gas che gorgogliano attra- verso l’acqua suddetta, sia sull'acqua stessa per quanto riguarda i gas di- sciolti; abbiamo completato le esperienze con misure di dispersione fatte col contaioni di Ebert e con ricerche complementari fatte in laboratorio. In quanto segue vengono esposti i risultati da noi ottenuti. Ricerca qualitativa dell'ozono. — Per svelare la presenza dell’ ozono si usufruì delle più note reazioni di questo corpo, e in particolare si im- piegarono: 1) Cartine imbevute di soluzione di ioduro di potassio contenente un po di salda d'amido (1°/, di ioduro di potassio). 2) Cartine di tornasole rosse preparate secondo Houzeau, cioè imbevute per metà della loro lunghezza con soluzione di ioduro di potassio all'1°/. 8) Cartine alla tintura di guaiaco, ottenute imbevendole di soluzione alcoolica di gualaco al 5 °/o- 4) Cartine al cloruro d’oro preparate imbevendole di soluzione di clo- ruro d'oro priva di acidi liberi. 5) Cartine al cloruro manganoso ottenute immergendole in soluzione concentrata di cloruro manganoso. 6) Cartine alla tetrametilbase, preparate mediante soluzione acetica di tetrametilbase secondo le indicazioni di Arnold ('). Questo autore ha in- fatti mostrato che tale reattivo in soluzione acetica è molto più sensibile che non in soluzione alcoolica, e che può îimpiegarsi con vantaggio in soluzione (') Berl. Ber. 35 (1902), pag. 1329. — 743 — acetica tutte le volte che si possa escludere 4 priori la presenza di cloro o di bromo. 7) Lamina d'argento. Le carte ozonoscopiche, così preparate, furono poste: 4) nell'ambiente; 5) su bacinelle contenenti l’acqua; c) nel bottino in cui è posta la sorgente. In tutti e tre i casi si ebbero, dopo un tempo più o meno lungo, reazioni evi- dentissime per tutte le cartine, se si eccettuino quelle al cloruro manganoso, che non sempre manifestarono l'imbrunimento; esse però sono, come è noto, di gran lunga meno sensibili delle altre. Anche la lamina d’argento, scal- data e sottoposta all’azione del gas, mostrava un leggero imbrunimento; a questo riguardo facciamo notare che cartine all’ acetato di piombo esposte accanto alla lamina, diedero risultato assolutamente negativo per l'idrogeno solforato. Se ne conclude che piccole quantità d'ozono sono contenute sia nell’aria della casetta in cui sgorga l’acqua, sia nel gas che si sviluppa dall'acqua stessa. Ricerche quantitative sull’ozono: a) Determinazione dell'ozono contenuto nel gas. Tale determinazione venne eseguita sul gas che gorgoglia attraverso l'acqua: a tale scopo, una grossa campana munita superiormente di tubo d’ettlusso venne capo- volta sull'acqua e posta nella zona in cui più forte era lo sviluppo gassoso. Il tubo di efflusso della campana era poi connesso con uua boccia di lavaggio potassa (per trattenere l’anidride carbonica che costituisce una grandissima parte del gas e per ottenere quindi del gas abbastanza concentrato in ozono), la quale a sua volta comunicava con un palloncino in cui veniva raccolto il gas residuo per spostamento d’acqua. In tal modo si raccolsero circa cm.* 600 di gas che nel palloncino stesso vennero trattati con una soluzione di ioduro di potassio circa doppio-normale; dopo agitazione, sì lasciò in ri- poso per una mezz'ora e, passato questo tempo, sì titolò l'iodio separato, previa acidificazione con acido solforico diluito, con iposolfito cen Si trovò così che nei 600 cm.* di residuo impiegati, erano contenuti 0.0001275 gr. di ozono, e che quindi un litro di tale residuo conteneva 0.0002125 gr., pari a 0.1 cm. di ozono (1). A proposito di questo residuo (cioè del gas privato dell'anidride carbo- nica), facciamo notare che noi ne abbiamo raccolto una certa quantità in un (*) Facciamo osservare che tale numero è certamente un po’ inferiore al vero, giacchè, essendo tali ricerche state fatte sul posto, abbiamo dovuto usare congiunzioni di gomma, pur prendendo tutte le precauzioni. Quanto al passaggio del gas attraverso la soluzione di idrato potassico, non crediamo che ciò potesse influire in grado notevole: tuttavia su questo punto ci proponiamo di eseguire ricerche fra breve. — 044 — recipiente dal quale poi il gas poteva venir fatto effluire, ed abbiamo potuto constatare che esso mostra nettamente quell’odore speciale di cocomero che presenta l'ozono quando ha una certa concentrazione. 65) Determinazione dell'ozono disciolto nell'acqua. Una prima determinazione si fece trattando 250 cm. di acqua minerale con ioduro di potassio in soluzione alcalina e, dopo acidificazione, titolando con iposolfito l’iodio messo in libertà, Si trovò che in un litro d’acqua a 21°.5 sono di- sciolti 0.210 cm. d'ozono (*). Un'altra determinazione sì fece impiegando l'anidride arseniosa. A un litro d’acqua minerale si aggiunsero 20 cm.8 di anidride arseniosa, e lo stesso si fece con un litro di acqua distillata. Messi i liquidi in due boccie a tappo smerigliato, si fece, dopo un certo tempo, la titolazione impiegando 500 cm.? delle due acque e soluzione È di iodio. Dalla quantità d’'anidride arse- niosa trovata in meno nella titolazione dell’acqua minerale, sì ricavò che in un litro d'acqua sono disciolti 0.135 cm.3 d'ozono. Un'altra titolazione fu fatta aggiungendo acqua ossigenata all’ acqua minerale; questo, anche allo scopo di svelare un'eventuale azione catalitica dell’acqua sulla scomposizione dell’acqua ossigenata. Si impiegarono due so- luzioni: l’una di permanganato e l’altra di acqua ossigenata, circa corrispon- denti e a titolo conosciuto. Quindi in due vasi cilindrici a tappo smerigliato furono posti: nel 1°, cm.* 250 di acqua distillata; nel 2°, 250 cm.? di acqua delle Bagnore. In ambedue i recipienti vennero poi messi 10 cm.* della so- luzione di acqua ossigenata. Dopo un'ora, si titolò con permanganato (bene inteso, dopo aver acidificato con acido solforico) l'acqua ossigenata rimasta; detratta la quantità di soluzione di permanganato che ciascuna delle due acque consumava per conto proprio, risulterebbe (supponendo che l’acqua ossigenata consumata abbia reagito con ozono) che l'acqua delle Bagnore conterrebbe 0.153 cm.* d’ozono per litro. Questo valore però è influenzato certamente dalla presenza, sia pure in piccola quantità, di sali ferrosi; noi quindi, come valore più vicino al vero, sceglieremo quello fornito dal metodo all’anidride arseniosa. Gas disciolti nell'acqua oltre l'ozono. Vennero determinati : a) Anidride carbonica libera. È stata fatta la determinazione dell'acido carbonico totale col metodo Fresenius-Classen. Operando su 325 cm.* d'acqua, si è trovato che la quantità d’anidride carbonica in essi ammontava a gr. 0.6884, da cui si deduce che vi sono gr. 2.1181 di CO; per litro d'acqua (1) Questo numero è, naturalmente, approssimato in eccesso, inquantochè sulla sepa- razione di iodio influiscono anche i nitriti; è bene però osservare che col reattivo di Griess non ottenemmo che una debolissima colorazione rosea. — 745 — minerale. Poichè, d'altra parte, l’ anidride carbonica combinata e semicom- binata ammonta a gr. 1.0483, sì ha che un litro d’acqua delle Bagnore a 21°.5 contiene gr. 1.0748, cioè em. 543.72 di anidride carbonica libera. 5) Ossigeno disciolto. Per questo impiegammo il metodo di Wink- ler(*). In adatta boccia a tappo smerigliato si raccolsero 275 cm. di acqua minerale, ai quali sì aggiunsero 1 cm.8 di soda caustica purissima al 32 °/, contenente il 10 °/, di ioduro potassico, e 1 cm.* di soluzione di cloruro man- _ganoso circa 4-normale. Dopo chiusa la boccia si agitò ripetutamente lasciando in riposo fino a completa deposizione del precipitato. Acidificato il liquido con 3 cm? di acido cloridrico fumante, fu dosato con iposoltito sodico N/100 l’'iodio messo in libertà. Il valore risultante da tale titolazione porterebbe al numero 1,48 cm.? di ossigeno disciolto in un litro; però, tenendo conto che l'acqua minerale trattata con ioduro di potassio libera già per conto suo alquanto iodio (come abbiamo visto), bisogna detrarre questa quantità, e allora si ottiene che in un litro d'acqua a 21°,5 sono disciolti cm.* 1,26 di ossigeno. Riassumendo, i gas disciolti nell’acqua delle Bagnore (astrazion fatta dai gas inerti: azoto, ecc., che non abbiamo potuto determinare sul posto) hanno la seguente composizione: Gas disciolti in un litro d’aqua a 21°,5. Amidridefcarbonica st. ©. ©. .. Teme t543:72 Ossigeno RE e ee 0. 1,26 OZONO e e. o 0,135 em. 545,115 (Gas inerti non determinati). Analisi del gas che gorgoglia attraverso l’acqua. — Questa analisi fu eseguita sul posto, impiegando la buretta di Bunte riempita di acqua satura del gas e posta in comunicazione con la campana che, come è stato detto in principio, era capovolta su l’acqua per la raccolta dei gas. Per il resto, sì seguì il metodo solito; si trovò che, su 100 cm.* di gas naturale, vi sono: AmidiadeWcarbonica enne, “0 Mem P9945 Ossigeno) più ozono i. . . i 0,15 Residuo inassorbibile. . . . . » 6,40 cm. 100,00 Tenendo poi conto del risultato della titolazione dell'ozono eseguita sul residuo, si trova che 100 cm.* di gas naturale contengono 0,00064 cm. di (*) Berl. Ber. 2/, pag. 2843 (1888). RenpIiconTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 97 — 746 — ozono; quindi se ne ricava che un litro del gas naturale suddetto è così composto : Anidride carbonica . . . . cm. 934,5000 Ossigeno: eni UA ” 1,4936 Ozonornia:! nnt FO n ” 0,0064 Residuo inassorbibile. . . . ” 64,0000 cm. 1000,0000 Per quanto concerne poi la composizione del residuo inassorbibile, ne abbiamo raccolto sul posto circa 4 litri, riserbandoci di farne l’analisi, qua- litativa ed eventualmente quantitativa, che speriamo di pubblicare quanto prima. Ricerche accessorie. — Queste si riferiscono alle altre tre sorgenti, citate al principio di questa Nota, che scaturiscono a non molta distanza dal casotto dell'Acqua Forte, ma che però, non essendo state sfruttate, for- mano attualmente delle pozze d'acqua nelle quali sì osserva un forte svi- luppo gassoso. L'acqua di tali pozze ha, come l'Acqua Forte, in grado note- vole l'odore d'ozono (la presenza di questo gas è stata svelata anche da cartine ozonoscopiche sospese a breve distanza dal pelo dell’acqua), e anche qui si osserva il deposito di idrato ferrico; il gas anche ad un esame super- ficiale si rivela costituito in gran parte da anidride carbonica, sebbene da una delle pozze si sviluppi pure, in quantità minime, idrogeno solforato. Non parrebbe quindi escluso il caso che tutte queste sorgenti avessero una origine unica. La temperatura dell’acqua in tali pozze si aggira intorno ai 16° (temperatura esterna 12°). Esperienze di dispersione. — Queste esperienze, eseguite col contaioni di Ebert, sono riportate in un altro lavoro (*), insieme con altre misure di radio- attività e dispersione atmosferica; qui rammentiamo che le osservazioni fatte dentro al casotto in cui scaturisce l’acqua forniscono il numero di 1888 ioni per cm. (mantenutosi anche in esperienze fatte in giorni diversi), mentre nei dintorni non si avevano numeri che raggiungessero i 1000 ioni per cm.? ; ci siamo in quel lavoro astenuti da ogni considerazione, riserbandoci di farlo in questo. Essendo l’acqua completamente inattiva dal punto di vista della radio- attività, tale dispersione relativamente grande non si può spiegare, almeno a nostro avviso, che in due modi: a) rammentando che nell’aria ambiente è contenuto ozono, come hanno mostrato le ricerche precedentemente esposte ; 5) tenendo conto che attraverso l'acqua gorgoglia una grande quan- tità di gas, la quale, spandendosi poi nell'ambiente, potrebbe far aumentare, per gli ioni provenienti dal gorgogliamento, la dispersione. (5) Rendiconti Acc. Lincei, vol. 2/, pag. 475 (1912). — 747 — La prima spiegazione non è però accettabile se non supponendo che l'ozono vada formandosi nell'ambiente stesso. Infatti, se da una parte Conrad e Topolansky (*), hanno osservato che la dispersione atmosferica è tanto mag- giore quanto più alto è il contenuto in ozono (per identificare questo, si ba- savano però esclusivamente sulla reazione con ioduro di potassio e salda di amido la quale, come è noto, può esser data da altri gas): e se Guggen- heimer (*) ha constatato che nella formazione di ozono dal fosforo si ha au- mento di dispersione (e precisamente tanto maggiore, quanto più le condi- zioni sono favorevoli alla produzione di ozono), abbiamo, d'altra parte, il lavoro di Harms (*) (al quale, del resto, anche Guggenheimer si riporta), nel quale viene citato il fatto che l'ozono già preparato non conduce gran che meglio di altri gas(‘), e l'emissione di ioni viene attribuita alla formazione e alla scomposizione dell'ozono per la comparsa di molecole uniatomiche di ossigeno (°). Ora, siccome lavori posteriori — quali quello di de Broglie e Bri- zard (°) — hanno mostrato che nella distruzione dell'ozono non si ha affatto ionizzazione, risulta che, nel nostro caso, riguardando come causa di maggior dispersione l'ozono, bisognerebbe ammettere che l'ozono stesso si formasse nell'ambiente medesimo: il che però è assai improbabile (”). (*) Phys. Zeitschr. 5, pag. 749 (1904). (©) Phys. Zeit-chr. 5, pag. 397 (1904). (*) Phys. Zeitschr. 5, pag. 98 (1904). (4) Anche noi abbiamo voluto fare alcune esperienze in proposito, usando il conta- ioni di Ebert (questo per metterci in condizioni analoghe a quelle in cui si era esperi- mentato nel casotto dell’acqua); abbiamo fatto le osservazioni in Laboratorio, prima sem- plicemente coll’aria ambiente, poi facendo aspirare, insieme con l’aria, ozono, sia secco sia umido, il quale effluiva da un pallone connesso ad un tubo livellatore. In nessun caso si ebbero differenze sensibili nella dispersione. (5) È da notare a questo punto che, tra gli altri, Schaum (Phys. Zeitschr. 6, pag. 73 (an. 1905) e più specialmente Richarz (ibid., pag. 1) hanno sostenuto la formazione di ioni dall’ozono, basandosi principalmente sull’annerimento di lastre fotografiche da essi otte- nuto mediante l’ozono (anzi Richarz sostiene che occorre adoperare ozono umido, ed è per questo che nelle esperienze da noi esposte ultimamente in nota abbiamo voluto esperi- mentare sia con ozono secco, sia eon ozono umido). Come però bene osservava Guggenhei- mer, anche l’acqua ossigenata agisce sulle lastre, pur essendo completamente inerte elet- tricamente. (6) Le Radium 7, pag. 164 (1910). (*) A scanso di equivoci facciamo osservare che Becker (Ann. d. Physik [4]. 36 (1911) pag. 209) ha potuto, in particolari condizioni, ottenere per mezzo dell’ozono ioni lentamente migranti (grossi ioni); è opportuno però rilevare che se tali ioni hanno gran- dissima importanca in riguardo alla natura degli agenti ionizzanti (giacchè tali ioni costituiscono il 98 °/, della ionizzazione totale), prendono d’altro canto una parte assai piccola alla conducibilità atmosferica (circa */so di quella degli ioni piccoli) e quindi poco possone influire sulla conducibilità stessa (Vedere Gockel, Die Luftelektrizitàt, Leipzig, 1908). — 748 — Appare quindi più plausibile la seconda ipotesi da noi formulata, tanto più che durante le misure di dispersione era aperto il bottino nel quale N scaturisce l'acqua; è abbastanza nota del resto la ionizzazione dei gas per gorgogliamento, perchè occorra qui insistervi. Esperienze con acqua osoniszata artificialmente. — In appendice alle ricerche eseguite sul posto, non ci è parso inopportuno di eseguire alcune espe- rienze in laboratorio su acqua ozonizzata artificialmente, e ciò allo scopo di indagare: a) quale era il limite approssimativo al quale si percepiva ancora l'odore d’ozono nell'acqua ; b) a quale concentrazione l'ozono disciolto dà ancora, nell'acqua, una reazione evidente coll'ioduro di potassio e salda d’amido. Vedremo poi le conclusioni che si possono trarre da queste esperienze. Per fare tali ricerche, abbiamo scelto, come metodo di preparazione dell'ozono, quello per via chimica indicato da Malaquin (*), vale a dire par- tendo da persolfato ammonico ed acido nitrico; con questo metodo si ottiene facilmente e rapidamente un gas che contiene notevoli quantità d’ozono. Il gas che si sviluppava veniva fatto passare attraverso un tubo a dieci bolle contenente soluzione concentrata di idrato potassico, e veniva raccolto per spostamento d'acqua in un pallone — della capacità di circa un litro — a due robinetti; facendo poi entrare, in maggiore o minore quantità, acqua distillata nel pallone, facendovela soggiornare più o meno a lungo, e di- luendo il gas con aria, si poteva far variare entro limiti abbastanza larghi la quantità di ozono che veniva disciolta dall'acqua. Abbiamo così potuto eseguire una serie di sette esperienze, che verranno riportate più sotto; il modo di operare era il seguente: Introdotta l'acqua distillata nel pallone, si chiudevano i robinetti di questo, si agitava energicamente e. prolungatamente e poi si lasciava a sè per alcun tempo; dopo di che si prelevavano (aprendo il robinetto superiore del pallone e facendo scolare l’acqua ozonizzata dall’inferiore) due campioni: uno di circa 80 cm?, che veniva raccolto in un bicchiere e del quale veniva subito sentito l'odore; l’altro, di circa 300 cm*, si raccoglieva in una boccia a tappo smerigliato contenente un po' di soluzione neutra di ioduro di po- tassio; subito dopo si chiudeva la boccia, si agitava ripetutamente e si la- sciava a sè per circa mezz'ora. Trascorso questo tempo, si acidificava il con- tenuto della bottiglia con acido solforico e, dopo aggiunta di salda d'amido, si titolava con iposolfito 100 l'iodio messo in libertà; siccome si teneva conto dei cm? di altri liquidi aggiunti, sì poteva poi, misurando il volume (1) Chem. Centralblatt, 1911, I, pag. 1574. — 749 — finale della soluzione, dedurre il volume dell’acqua ozonizzata prelevata per la titolazione, e, da questo, quello dell'ozono disciolto in un litro d'acqua. Riportiamo qui i risultati delle nostre osservazioni : I. Allaconcentrazione di 0.68 cm? di ozono per litro d’acqua, si ha odore forte. II. Alla concentrazione di 0.54 cm? di ozono per litro d’acqua, si ha odore forte, ma un po’ meno intenso. III. Alla concentrazione di 0.49 cm? di ozono per litro d'acqua, si ha odore ancora forte (meno del precedente). IV. Alla concentrazione di 0.25 cm? di ozono per litro d'acqua, si ha odore abbastanza forte. V. Alla concentrazione di 0.19 cm? di ozono per litro d’acqua, si ha odore ancora discretamente forte. VI. Alla concentrazione di 0.10 em? di ozono per litro d’acqua, si ha odore nettamente apprezzabile. VII. Alla concentrazione di 0.037 cm? di ozono per litro d'acqua, si ha odore ancora sensibile, ma che svanisce subito. Come risulta da questi dati, l’odore d’ozono nell'acqua si sente ancora ad una concentrazione di 0.037 cm? d’ozono per litro d'acqua. Quanto poi al limite della sensibilità della reazione coll’ioduro rispetto all’ozono disciolto nell'acqua, abbiamo fatto qualche esperienza diluendo acqua a contenuto noto in ozono; ne è risultato che si ha reazione netta (colorazione debolmente azzurra) alla concentrazione di 0,02 em? d'ozono per litro d’acqua. Unendo questo risultato all’altro, se ne trae che le due reazioni vanno all'incirca di pari passo, vale a dire che si ha reazione quando si sente l’odore, e viceversa; tanto più questo appare ammissibile quando si pensi che nelle esperienze sopra elencate non abbiamo voluto procedere troppo oltre nella diluizione per non rendere troppo soggettive le esperienze stesse. Conseguenza di ciò è anche il fatto che debbono ‘ritenersi erronee 0 esagerate le affermazioni fatte, da alcuni autori, sulla presenza dell'ozono in forti quantità in alcune acque minerali italiane, giacchè tali acque non mo- strano il minimo odore d'ozono. Rispetto ai numeri più sopra riportati, vogliamo poi far osservare che le concentrazioni in ozono da noi riscontrate non debbono sembrare esagerate, e questo diciamo perchè si hanno dati assai oscillanti sulla solubilità dello ozono nell'acqua. : Così mentre Schònhein e Berthelot (*) lo ritengono insolubile in acqua, Carius (*) dà il coefficiente d’assorbimento 0,635 (a 1°), Schòne (*) 0,366 (*) Ann. chim. phys. (5), 2/, 180 (1880). (2) Berl. Ber. 5, 520 (1872). (*) Berl. Ber. 6, 1224 (1873). — 7.0 — (a 18°.2), Mailfert (') 0,64 (a 0°), Ladenburg (?) 0.01, Moufang(*) 0,0047 (a 2°); però secondo un recentissimo lavoro di V. Rothmund (‘) tale coeffi- ciente ammonta, per l’acqua a 0°, a 0,494; come anche Rothmund ha messo in evidenza la discordanza nei dati sopra riportati dipende principalmente dal fatto che, presso al limite di saturazione, l’acqua scompone rapidamente l'ozono. Geologia. — Ze isole maltesi. Cenni geologici. Nota del Socio C. DE STEFANI. s Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Chimica fisica. — Presenza dell’elio nei berilli. Memoria del Corrisp. A. PIUTTI. Questo lavoro sarà pubblicato nei volumi delle Memorze. Matematica. — Sopra l’esistenza di alcuni sistemi equinor- mali-ortogonali. Nota del dott. L. Amoroso, presentata dal Corri- spondente V. REINA. Sia S un'area rettangolare del piano #,y, precisamente l’area O, EM ozy=b, e diciamo > l'insieme delle funzioni di x,y integrabili superficialmente entro S, in senso di Lebesgue, insieme coi loro quadrati e coi loro prodotti due a due; 7; l'insieme (contenuto in 7») delle funzioni di x,y integra- bili parzialmente rispetto ad x, insieme coi loro quadrati, in senso di Le-- besgue, nell'intervallo 04 qualunque sia y nell'intervallo 09, e parzialmente rispetto ad y, insieme coi loro quadrati, in senso di Lebesgue, nell'intervallo ob, qualunque sia x nell'intervallo 04; infine diciamo Ty" l'insieme (con- tenuto in 13) delle funzioni di x,y continue e limitate entro S, colle de- rivate prime continue e limitate e le derivate seconde appartenenti a 73. (*) Comptes Rendus 7/9, 951 (1894). (£) Berl. Ber. 2/, 2510 (1898). (*) Centralblatt. 1911 II, pag. 1674. (4) Nernst-Festschrift, (Knapp, Halle a. d. S. 1912), pag: 391. — 751 — Recentemente (*) abbiamo dimostrato: A) Una funzione arbitraria di Ti, f(x ,y) è sviluppabile in una serie convergente assolutamente ed uniformemente in tutto il rettangolo =, IE (1) f(@,4)= Perno +2 ( i cel + 2 bla 2 2 oa DI ZE DE, n) I° pi, n) | df(0.m) dY(0,)) di dn dE dn ta dn dn? (EST X=Y=0 le w,(2,y) essendo funzioni di 7 che soddisfano alle seguenti condizioni : I** annullarsi insieme con le loro prime derivate per «= 7 = 0. II** se 0(x,gy) è una funzione di 17, che si annulla insieme con le sue derivate prime per x=y=0, e che per tutti i valori di »v verifichi alla d*g(E.0) d*w(E.0) | d°0(E. n) IW(E, n) Mai-— DE? DE? a dÉE Mm dE dM în 2°9(0, n) 2°Ys(0, n) Th sia necessariamente 0(x,y)=0; III** sieno verificate le diyu(E 0) IPSE, 0) | d'Wu(E,9) dW(E,) (3) sl o era dE° N DI Egr —- dwp(o , n) Òd apy(0, Dida >. 0= dn dp? 1 ni =0, uv. B) © funzioni arbitrarie di Ty: /1(2,4), f:(7,9)..-fp(2,4) sono svtluppabili simultaneamente nelle serie (4) pep=po)+s(L)_ +e) + teca] ie ii d°fr(0,7) dWrs(0, DI un Edo (') Nuovo Cimento, novembre 1912, Gli sviluppi in serie, ete., $ 6, 7. — 092 — convergenti assolutamente ed uniformemente nel rettangolo o=x = 0, o=y=b,le w,;(2,y) essendo funzioni di 75 che verificano alle Sa **I. annullarsi tutte insieme con le loro prime derivate per x=0, y=0; **IIL se 0;(2,49),---0(x,y) sono funzioni di Ty, per le quali si abbia, per ogni valore dell'indice ». aL (3I0,(E,0) d°WrolÉ 0) | d°0(5,7) d°Wrn(É,) (5) | 2 dE° DE v dÈ dm dE dI ù d°0r 2°0,(0,1 n) dÌ -, 0, d'Wrl(0 , n)\ = n n vi Porre) dé dg =0 PB, sia identicamente 0;(z,y)=0, (7=1,2,...0); **III. sieno verificate le relazioni: (6) Y x( QE? DE? Ùi dE IN dE dM + dWru(0,7) dWry(0,7 \ SI ni —- Te io Big=t, g=2 =0, ps=d. Secondo una locuzione già introdotta in un caso analogo diremo equi- normale ortogonale (*) un sistema di funzioni w,(x ,y) di I (r=1,2,...) che verifica alle (3); ed equinormale ortogonale in complesso, un sistema di funzioni @W,;(<1 9) (C=Me2io Rs I) ARL cheAyerinica alle (6). Scopo di questa Nota è di mostrare l'effettiva esistenza di sistemi equi- normali ortogonali del tipo indicato: cioè di funzioni di 75" che verificano alle condizioni I**, II**, III**, e di funzioni di 77 che verificano alle dl Rea DN 2. Sia perciò BB: un sistema di funzioni TY, indipendenti da y, chiuso e normale ortogonale nell'intervallo o = x R, (4); consegue il Neca SO) Shi DA O 39) VUn(®, y) dae, A dA dY dX dY D'Um(0,9) d°Walo, Dt BE + VE dg de dy=0, m=En =} @=%: cioè la (3). Infine sia 0(2,y) una funzione di TY, nulla insieme con le sue derivate prime per =y=0, per la quale si abbia identicamente per ogni in- dice n, 2°0(2 10) IWm(c,0) + d°0(0,Y) dI Wm(£, 4) DO da? dae? Di dI dWY da W O SE d°0(0, 4) PWm(0, 2) de dy=0. dY? dY° Melo, Si avrà per m=3v — 2, v=1,2,..., posto mente alla (10), (o) fe Sdr0) P,(x)de=0; To Da? PE i 000 da cui, in forza delle (8), segue 2 3 Je O) 0 dI in tutto il rettangolo o <= x <=4,0= | Pru(&) PE) d=0, =» AAP r=l 0 => 1 ; ID) S? v ; mentre dalle e a DI JI hr(8) P,y(é) dé (DL DIRI hi), ..., ho(x) essendo funzione di TY, indipendenti da y, segua identica- mente /,(x) = A-(2)=-- = A(2)=0, in tutto l'intervallo o dY CE ER I Sin +wg)=e dr È 3 DRD ® Ku + Io + o (Ep peo nno. La (1) diviene allora: EL _ Pa ) (9) eS( e e ni ge—)s=a S( vi IT Supponiamo ora lo spostamento nel vibratore, e il potenziale di velo- cità nel fluido dipendere da # a mezzo di un esponenziale. Poniamo cioè: |Uu,V,W= (Um, Um, Um) > UV WU Un Un) (4) | D = Um È Pm ; D,= perl Pa. Le Um,UmW,m, Pm... Sono funzioni di posizione e soddisfanno a equazioni che è facile formare. Le 2,,n saranno poi radici di una equazione trascen- (') 01 è la densità nel fluido. — 758 — dente in Z, la quale si ricava dalle equazioni in superficie (del tipo 2 d7s) nello stesso modo in cui si ottiene l'equazione di frequenza delle vibrazioni libere di un corpo elastico (?). Con la posizione (4), la (3) diviene allora, dopo facili riduzioni: (5) o(4n 4) IL (Um Un + UmUn + Wm tn) dS= Um Mn dIPn P) SG del ; (ingoia Pai yatgi o] Mm n GC Sia o, una superficie tutta esterna al vibratore. Diciamo »v, la sua nor- male interna, S, lo spazio compreso tra o e 0,. In esso si ha [per la (2)]: CA Pm = dî Pm > CA = di, Pn E poichè per il lemma di Green si ha pure: dn f dPn f ) = m Fa m = d mo Yn) UD1 3 Spata 22 Sy PL do tana cai Jsi 1(9m + Yn) A, dove si è posto: ’ 4 = 19m + Pa) meo de dY dY da de avremo infine: Sa Pmi =L TI 43: Pn 2, do == 1 D) pn : dos V — (25) 1109090) 8. La (5) allora diviene (supposto 4, — 4 #0): (6) Q i (Um Un + UmUn + Wmwn) AS + ef. 49m Pa) dS, = 0 g Pmba AL f SR, 29m) ci Àm dn di — di (a Tar 1 n Pa di, n: Nel fluido si ha d'altra parte propagazione di sole onde progressive; il potenziale di velocità nel fluido sarà dunque esprimibile nella forma di (') E cioè dalle equazioni in superficie. che nell’attuale problema sono quattro, e da quella della superficie del vibratore si eliminano le 2,y,z e la 4. Cfr. le mie due Note in questi Rendiconti, vol. XXI, 1° sem., pp. 754-759; 2° sem., pp. 20-25, dove una slmile equazione è calcolata nel caso delle vibrazioni di una lastra piana e nel caso di una sfera vibrante radialmente. — 759 — un potenziale ritardato, e le gm, n sotto forma di potenziali generalizzati di Helmoltz (!): c dS, = fre = qa (7). g.(®= [ Fe) ° essendo P la posizione dell'elemento 4S e 7 la distanza dei punti Py L'equazione di cui Z,,, sono radici (che solo per brevità ma impro- priamente (*) dirò di frequenza nel seguito) è a coefficienti reali; potremo perciò assumere nella (6) per Zm,4, una coppia di radici complesse coniu- gate. Per la validità della (6) supporremo inoltre diversa da zero la parte reale di 4m Polti Avremo allora: L= (i ÙPn gr dem \ do ga, Ani rg, echtir = SSA F(P,) d$ 48, Sap 4 (A sof eThtira “i echi, de X (h— de) ww x. = (Ri-H)r (+) inaiori | sviene (24) sa - i de,, (*) Se le 4 sono immaginarie pure si hanno quei potenziali per primo considerati dall’ Helmoltz. Per la loro irregolarità all’infinito nel caso di 4 imaginario puro cfr. Po- ckels, Veber die Gleichung A4xu+ h®u=0. Il caso di 4 imaginario con parte reale di- versa da zero è stato considerato da me nella Memoria: Sopra i moti vibratori semplici e smorzati ecc. Acc. Sc. di Torino. tomo LX, serie II (2?) Se questa equazione ammette invero una radice @+ 18, a questa corrisponde una vibrazione del tipo smorzato (cfr. la mia Memoria sopra citata) se a <0. Questa è di frequenza f (cioè di periodo Dl la quantità « è poi un coefficiente di smorza- mento. La suddetta equazione dovrebbe perciò dirsi l'equazione ai periodi e agli smor- zamenti. — 760 — nella quale P, P, sono le posizioni degli elementi dS, dS, e 7,7, sono le distanze di questi punti dall'elemento do,. Semplificando otteniamo: ra Se AL L= F(P) F(P,) 48 dS, X emhr+ri) dI x[ kcosk(r—-r,)+Ahsenk(rT—-r,)|—- do, + on PP dI +a i fr P) F(P.) dS dS$, X ether+ra) yr Sl TR [oe sen (e — ri) — bk cos klr—ri) | do. 1 Gli integrali superficiali del 2° membro hanno significato pure al limite quando come superficie o, si assuma quella di una sfera il cui raggio R tende a divenire infinito. Poichè d'altro lato il 1° membro della (6) nella posi- zione (75is) fatta è sempre positivo (è per di più crescente con R), ed il Ana a ; ; è pur esso positivo, dovrà aversi: Mm Rn coefficiente @, 0 Al limite il 2° integrale che compare nell'espressione di L è trascura- bile rispetto al 1°, e = tende a —1. Il segno di L (al limite) è dunque Vj quello di: + fi L= lim zo JJ, FO) FP.) d8 48 x —hr+r1) x] A {Kkcosk(r — r.) + hsenk(r—r.){ do. Si scambi l'ordine delle integrazioni, allora subito si vede che è nullo l'integrale che contiene sen X(r — 71). E poichè allora: Li =lim EE Ur (a) eri i) —— cos 47, dSi + Pi o) er eri + cli Kb) — sen kr ds | F(P.) 7 500 kr, a Lp ERE (4g (1 (ay I, — lim 2000 SAL iL 05) api CoS krdS | + —hr 2 + LS, F(P) = sen 4r 88 | i È — 7601 — si conclude che il segno di L, (e quindi quello di L) coincide con il segno di h. Per quanto precede si dovrà dunque avere: lv <<08 Sicchè: le sole vibrazioni del tipo: e-[cos kf.u(c,y,3) — senktw (2,4 ,3)]. dove 440, che possono sussistere nel moto di un corpo elastico immerso in un fluido sono quelle per le quali si ha: ZIO ossia quelle di tipo armonico smorzato. Per discutere le armoniche semplici e i moti aperiodici del vibratore devesi non più ricorrere all’equazione (6) (teorema di reciprocità) ma bensì all'equazione delle forze vive. Rimando questa discussione a una 2* Nota. Matematica — Serie di Taylor e funzioni analitiche di più variabili. Nota del prof. EuceNIO ELIA Levi, presentata dal Cor- rispondente 0. TEDONE. Matematica. — Sopra le funzioni ordinatrici. Nota di Fi- LIPPO SIBIRANI, presentata dal Socio C. SOMIGLIANA. Le precedenti Note saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Mineralogia. — lmerite delle cave di pietra ollare al Sasso di Chiesa (Val Malenco). Nota di L. MAGISTRETTI, presentata dal Corrisp. E. ARTINI (?). In una precedente Nota (?) ebbi occasione di descrivere il giacimento di minerali delle cave di pietra ollare al Sasso di Chiesa. Caratteristici minerali di questo giacimento sono: Granato, Vesuvianite, Aragonite, Apatite, Clorite e soprattutto Ilmenite. (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Mineralogia del Museo Civico di Storia Na- turale in Milano. (*) L. Magistretti, Osservazioni sui minerali delle cave di pietra ollare al Sasso di Chiesa (Val Malenco). Rend. R. Acc. Lincei, 1910. ReNDpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 99 — 762 — Descritti brevemente nella Nota succitata i minerali associati alla Ilme= nite, mi riservai di fare di questa uno studio speciale. Potei così, dal molto materiale raccolto, scegliere un gran numero di cristalli (circa 50); e sono appunto i risultati delle osservazioni su questi che mi accingo a rendere noti. L'Ilmenite di questa località si presenta in cristalli di caratteristico co- lore nero piceo, visibilejsoprattutto sulla frattura fresca; il più spesso dotati di viva lucentezza metallica, talora invece appannati da un sottile velo di ossido. L'abito dei cristalli è, nel maggior numero degli individui, tabulare tozzo; ma in alcuni, per sviluppo predominante del romboedro fondamentale, pressochè romboedrico. Non mancano però individui sottilmente lamellari per predominio assoluto della base; mentre sono rarissimi i cristalli tabulari secondo {1011} (fig. 7). Le forme osservate nei cristalli in questione sono le seguenti: 50001} = € 31120} =G i1ol4t=% {202516 {4047 = —lolli=7 10227} = w 30112} = e 10221f=ss ti23f = ze }2243} = n 18443} = y 164105} = — {8121{=% fra le quali le forme: 14047} 10227} {8443} 13121} sono, a quanto mi consta, nuove pel minerale, benchè della III e IV si co- noscano le coniugate. Forme di ugual simbolo sono invece note per l’ Ematite. Le forme semplici suddette sono riunite a formare le combinazioni: OG Rao e > ein e” N CIC S miei; a ii Et e CRONICA $: nn n n cn Me» ai nane POR e ATO Vi iii ig: DI AI rito ART Mi studiai, nelle figure presentate, di rendere al possibile i più carat- teristici aspetti dei cristalli osservati, scegliendo, fra le forme complesse, le più frequenti. Fra queste, le più comuni sono quelle rappresentate dalle figg. 3 e 2, specie quest'ultima che presenta il caratteristico sviluppo predo- minante dei romboedri diretti sugli inversi, così da conferire al cristallo, tabulare secondo la base, un caratteristico contorno triangolare smussato. — 765 — Ma il fatto che spesso coesistono in un unico cristallo romboedri di- retti e inversi di inclinazione poco diversa sulla base (fig. 4), conferisce ai cristalli di Ilmenite di Val Malenco un abito analogo a quello dei cristalli di Ematite di alcune località (vedi i xx di Ematite di Framont descritti da Schweitzer). Sono comuni, pei cristalli di questa località, associazioni di individui sovrapposti o affiancati colle basi parallele (fig. 5): chè spesso anzi un grosso individuo cristallino è costituito dalla associazione di molti individui mi- nori; ma l'essere le basi perfettamente coincidenti, fa sì che tale struttura si riconosca solo alle profonde intaccature a fondo poliedrico che solcano le faccie del cristallo. Osservai, anzi, che in taluni individui i cristalli com- ponenti sono tanto minuti da conferire alle faccie del cristallo un aspetto vellutato per le finissime striature di cui le faccie stesse sono coperte. Più rari sono i geminati. Quelli da me osservati e riprodotti (tig. 6), mostrano evidente la caratteristica legge di geminazione del minerale: 2 individui colle basi in comune disposti in modo che l'uno è girato rispetto all’altro di 180° intorno all'asse ternario verticale. Sono soprattutto comuni, nel- l’Ilmenite di questa località, gruppi di due individui nettamente separati da una profonda striatura sulla base. Essi assumono un caratteristico con- torno triangolare; e potrebbero tar pensare all’esistenza di geminati a basi in comune, se le due basi non fossero inclinate fra loro di un angolo che può giungere a 50°. I gruppi tabulari di Ilmenite di Valle Malenco sono davvero notevoli per la loro bellezza. Le grandi faccie splendono di un terso grigio acciaio caratteristico mentre un tenue velo iridescente riveste di colori vivi le più minute faccette che brillano di colori rosso-violacei, azzurti, verdi. Annidati fra i prismi vitrei di apatite, essi acquistano sullo sfondo verde vellutato delle minutissime lamelle di clorite un particolare risalto, cosicchè gli esemplari del Sasso di Chiesa sono certo, per l’Ilmenite, fra i migliori che si conoscano. Fra i molti cristalli che la copia di materiale di cui disponevo, mi permise di osservare, solo 12 furono impiegati per le misure, e furono quelli capaci di fornire immagini riflesse nitidissime. Dalle misure istituite su questi cristalli, e precisamente da quelle degli angoli RA B/N 1011 — 0001 0221 — 0001, dedussi il valore, caratteristico pel minerale, del rapporto —.0604 — I°) Dall'angolo tra le faccie, di AN RICO 1011 — 0001 = 57°58' 22", dedotto da n.° 29 osservazioni fra i valori limiti STO SIZE ricavai o=1.38446.. II°) Dall'angolo tra le faccie, SAN 0221-0001 = 72°37 55%, dedotto da n°. 12 osservazioni fra i valori limiti Mer! - (2° 420, ricavai o=1.38445.. Tenuto conto dei pesi rispettivi delle misure nel I e nel II caso, risulta, per la costante o, il valore più probabile di o=1,884456.. Questo valore è reso ancor più attendibile dalla rispondenza fra i valori dei molti angoli calcolati in base a questa costante, e i valori dedotti dalle osservazioni dirette. Tale rispondenza, che la tabella annessa alla presente Nota mostra evidente, non sarebbe possibile per misure eseguite su cristalli meno nitidi e perfetti di quelli studiati. Credo quindi che, se si tien conto della perfe- zione e della ricchezza di forme che questi cristalli presentano, come del fatto di essersi riscontrate in questa Ilmenite quattro forme nuove pel mi- nerale, si potranno porre gli esemplari di Ilmenite di Val Malenco fra i più interessanti di questa specie. Composizione chimica. — Dell’analisi chimica si volle occupare il dott. A. Moreschi del laboratorio di Chimica agraria ‘presso la R. Scuola Super. di Agricoltura in Milano. Alla cortesia di lui vado debitore dei dati seguenti. L'analisi fu eseguita su cristalli isolati, previa accurata cernita ese- guita colla lente. La separazione del Titanio dal Ferro fu eseguita secondo Treadwell, precipitando il Titanio come ossido idrato da una soluzione debol- mente acida in presenza di acetato sodico. Fu inoltre controllata col metodo suggerito da Thornton, mediante il quale, in presenza di acido tartarico, il Ferro si separa dal Titanio in soluzione lievemente alcalina. La determi- nazione del ferro (ferroso) fu fatta per ossidazione con permanganato potas- sico; quella del Manganese (Knorre) si eseguì facendo deporre il metallo sotto forma di biossido idrato da una soluzione acida per azione di un persolfato alcalino. — 765 — Risultato dell'analisi. Sile eee: n. AMO :65 Ossido di titanio (Ti0.) . . 47.20 Ossido@fermicoeMiriot. —. (033/50 ” ficrmtosoRTeei. ‘.; 1. RMNAO:00 mind bmanganese asi :34 gi Ciraci SME 00 ” digcalcio sc. .—. eee aim agnesioni 0. MRe0:90 99.59 Confrontando questi risultati con quelli delle analisi esposte da Doby e Melezer in appoggio al loro asserto, secondo il quale nell’Ilmenite, come per le miscele isomorfe, con la composizione chimica variano regolarmente la forma cristallina e il peso specifico, rileviamo che l Ilmenite di Val Ma- lenco si accosta molto alle Ilmeniti caratteristiche dei monti Ilmen e di Kragerò. ILOGIIMTÀ, o o Snarum Tvedestrand Monti Ilmen RAD @. 0 6 1.368 1.3716 1.8772 Peso specif. . . 5.041 4.910 4.852 TT r—FT__s _ u___tP—tr___—— TS I, II. TÉ II. JE OA 5.665 5.665 21.576 21.576 47.679 Als (0A . ° - 9 Ei oa si fai Re OR 93.503 93.624 70.392 66.078 33.905 Recon ea 0.109 _ 8.044 11.945 VEST MORO EE traccie — = I = CAO dor — — —_ _ — ME OM ECoRe 1.098 1.098 — — 0.550 TO cata MEI Kragerò Valle Malenco Prigraten RaPpA ME 1379 1.3844 1.9844 Peso specif. . . 4.614 4.55 — rt. -T<=37 TÉ II. IL, Te TRO 49.684 49.684 47.20 51129) ATO SR —_ _ 1.00 0.74 tag o 90 34.506 20 874 33.50 40.31 Ro ltatee 15.724 28.839 15.00 _ MIRO SORA — = 1.34 0.11 Cal oe 0075 = — 1.15 MEO — 0.075 0.90 1.23 Il peso specifico di 4.55, ottenuto come media di varie misure sulla Tlmenite di Val Malenco, si accosta pure notevolmente (pur considerando la scarsa attendibilità di tale determinazione) a quello delle Ilmeniti sopra citate. Faccio seguire una tabella dei valori angolari osservati, messi a con- fronto coi calcolati partendo dalla costante o da me determinata. S — 766 — Spigoli Limiti Valori. misurati di osservazione SIERO ONT TO RR 1014 0001 21.47 21.47 2025 ” 32°.11”-32°.40” 32.32 4047 ” 42 .17-42 .28 42.22 1/s 1011 ” 57.583 -57 .59 57.58 1/, 0227 ” 24 .382 -24 .88 24.35 0112 ” 38 .82-38 .45 38.37 3/4 0221 ” 72.95 -72 .42 72.38 1123 ” 42 .80-42 .48 42.41 2243 ” 61.23 -61 .40 61.32 1120 ” 89 .55-90.. 5 90.0 8443 ” 74 44-75 11 74 54 3121 ” 76 .39-76 .49 76.44 1/, 64105 ” 70.11 -70 .89 70.21 2025 1120 62. 9-62 .17 62.11 4047 ” 54 .11 -54 .11 54.11 1011 ”» 42 .86 42 .49 42.46 0112 ” 57 .15-57 .20 57.173/, 0221 ” 34. 9-34 .16 34.11 2243 ” 28 .28 -28 .28 28.28 8121 2110 INC Liz 64105 1120 20 .45 -20 .50 28.48 2025 1011 25925” 25.25 4047 E) 15°40” 15.40 0112 ” 47 .16-47 .16 47.16 0221 ” 55 .46 -55 .07 55.50 1123 1011 27 .18-27 .20 27.19 2243 n 26 .57 -26 .12 26. 31/3 8121 ” 25 .29 -25 .42 25.38 1/4 64105 ” 24 .21 -24 .84 24.27 1213 ” 66 .50 -67 .10 Qua 1101 ” 85 .94-85 .41 85.37 2025 0112 34 .15 -84 .19 34.17 4047 7) 38°6” 38. 6 1123 ”» 19 .49-19 .52 19.50 2243 » 31 54-32. 7 32. 01/, 4843 ” 48 .17-43 .26 43.21 23I1 ” 50°17” 50.17 2025 | 0221 51 .46-51.47 51.46 /, 1123 ” 38 .46 -88 .51 38.48 4843 ” 28°554 28 55 Valori calcolati OI 21.47 32.36 42.24 24.38 38.38 42.42 61.33 90.— 74.52 76.42 70.17 62.12 54.15 42.46 97.17 34.15 28.27 Io 20.46 25.22 15.34 47.15 55.50 27,24 25. 5 25.99 24.20 67. 5 85.32 34.18 38. 5 19.50 32. 3 43.27 50 23 91.45 38.45 28.52 T_W DN __ N I: So Ss, d >» co d0 vo co 0 D e L_ W D _ N è So i ou w29qîîae SD REND. DELLA R. ACCAD. DEI LINCEI (CI. d. se. fis. ecc.) 1912. L. MAGISTRETTI. di ti Da (E n “ BRE C: CI Al ta. LAI 1 Mr — 767 — Spigoli Limiti. Valori. | Valori N misurati di osservazione ue” calcolati | i 2025 | 1128 20°.367-200.47” 2040" 20.41” 4 64105 | 2113 82 .26 -82 .30 82.29 82.25 2 8121 | 1123 DOO Le 53. 4 53. 3 1 2025 | 2243 66 .22 -66 .23 66.22 1/, 66.21 2 64105 » 10 .83-10 .36 10.35 10.35 3 0221 ” 29039 29.39 29.39 1 64105 | 4223 70 35 70.35 70.75 1 1011 | 4223 75 25 75.25 75.22 1 3121 | 2025 46 30 46.30 46.26 2 8443 ” 47 52 47.52 47.58 1 4047 | 3121 37 53 37.53 37.49 1 8443 | 3121 10 45 10.45 10.43 2 La tabella seguente dà i valori caratteristici di angoli tra faccie di due individui geminati (1): Angolo Limiti | Valori. | Valori | N tra le faccie di osservazione ME calcolati E; (2025) | 0112 6° 4° 6° 4 6°. 2” 1 (1011) 0221 14°.40”-14° 41" 149,40" 1/, 14 40 2 (1011) | 1011 64° 6 64. 6 64.3 1 (0112) | 10I1 19 17 19.17 19 .20 1 (1120) 1123 47 14-47 .27 47 .20 47 .18 2 (1120) | 2243 28 .17 -28 .54 28 .35 28.27 2 (2025) | 10II 89° 30’ 89 .30 89 .26 1 (4) I simboli delle faccie di uno degli individui sono racchiusi in parentesi. TANA Chimica. — Sulla tendenza a combinarsi tra alogenuri e fosfati dello stesso metallo. III. Fluoruro, cloruro e fosfato di piombo (*). Nota di MARIO AMADORI, presentata dal Socio G. Cra- MICIAN (°). Si trovano in natura numerosi composti complessi tra i cloruri, o fluoruri da un lato e gli orto-fosfati, -arseniati, -vanadati di alcuni metalli bivalenti dall'altro (8). In una serie di composti, tra soli fluoruri e fosfati, i due componenti si trovano in proporzioni equimolecolari secondo la formula generale: M Fl,. M; (PO,).,[M= Mg, Ca, Fe, Mn]: questi sali doppii costituiscono quei minerali che appartengono al gruppo delle wagzerziz; composti di questo tipo non esistono invece in natura nè per i cloruri, nè per gli arseniati e vanadati. In altra serie di composti più vasta e comprensiva i due sali si trovano in proporzione come 1:38 secondo le formule generali: M Fl,.3M3R, e M C1,.5 M; R°[M= Ca, Pb ed anche Mn; R=PO,,A80, e VO,]: i mine- rali di questa composizione sone molto più diffusi ed appartengono al gruppo delle apatiti. Era interessante uno studio termico per vedere tra questi composti quali sì possano formare per semplice fusione dei singoli sali e per ricercare le proprietà dei composti in relazione anche con i componenti. In questo senso furono condotte le esperienze qui esposte tra il fluoruro e il cloruro di piombo e il fosfato dello stesso metallo. Sarebbe stato soprattutto interessante com- piere questo studio sui sali di calcio; infatti di questi sali si trovano in natura ambedue le specie di apatiti, ed è stato descritto anche il minerale del tipo delle wagneriti; i sali di calcio però non si prestano a questo studio dati i punti di fusione assai elevati dei componenti. Ho compiuto perciò lo studio sui sali di piombo, di cui è solo noto il minerale piromorfite: 3 Pb3(PO,)».PbCl,: le ricerche furono compiute in modo completo per il sistema fluoruro-fosfato: per il sistema cloruro-fosfato data la volatilità dell’un componente, il cloruro, ho dovuto limitarmi ad al- cune osservazioni generali qualitative. (!) Lavoro eseguito nell’Istituto di Chimica generale della R. Università di Padova, diretto dal prof. G. Bruni. (*) Pervenuta all'Accademia il 25 agosto 1912. (*) Dana, A Sistem of Mineralogy, 6% ediz. 1909, pagg. 762-775. — 769 — Fluoruro di piombo. - Ortofosfato di piombo. I sali puri e le miscele vennero fusi in crogiolo di platino situato in un forno a resistenza di nichel: le temperature vennero lette con la pila termo- elettrica Pt-Pt Rd immersa direttamente nella massa: questa era costituita da circa 20 grammi di sostanza. Il punto di solidificazione del fluoruro puro venne trovato a 820°: esso concorda sufficientemente con quello dato da Sandonnini (824°) (?). Il punto di solidificazione del fosfato non era noto: esso risultò a 1006°: dalla curva di raffreddamento del sale puro, seguìta fino a 200°, risultò anche una trasformazione a 782°. La curva di cristallizzazione primaria scende dal punto di solidificazione del fluoruro, 824°, sino a 678°, a circa 75°/ mol. Pb3 (PO,):; da questa temperatura sale sino ad un massimo, a 1046°, a circa 75 °/, Pb3 (PO), e poi ridiscende al puuto di solidificazione del fosfato, 1006°. Alla temperatura del massimo si ha la cristallizzazione di un composto — della concentrazione corrispondente Pb Fl,.3 Pb; (PO,): (°). Le miscele da 0 a 10°/ mol. Pb;(PO,), hanno un arresto eutet- tico a 678°, la concentrazione di questo eutettico è circa 7,5 ®,, molecole Pbz (PO). Le miscele da 15 a 75 °/, mol. non dànno l'arresto eutettico accennato. Anche le miscele da 75 a 100 °/, mol. dànno il solo rallentamento all’inizio di cristallizzazione e nessun altro arresto di natura eutettica. Il composto Pb Fl,.3 Pb; (PO), dà quindi una serie di soluzioni solide per concentra- zioni da 10 a 75°/, mol. Pb; (PO,): con il fluoruro, e dà una serie continua di soluzioni solide con il fosfato. I due rami della curva di cristallizzazione primaria da 7,5 a 75 e da 75 a 100 °/, mol. Pb;(PO,), segnano il deposi- tarsi di soluzioni solide tra composto e fluoruro e rispettivamente tra compo- sto e fosfato. Dalla curva di cristallizzazione del composto Pb Fl, .3 Pb (PO,), risulta che esso subisce una trasformazione a 696°. Questa nuova modificazione del composto si comporta in modo diverso che la precedente con il fluoruro e con il fosfato. Nel sistema fluoruro-composto per le miscele da 10 a 75°/ mol. Pb;(PO,). si nota nel raffreddamento della massa completamente solidificata un rallentamento e quindi un arresto a temperatura costante. La curva che sì può costruire in base alle temperature di rallentamento ottenute è costi- tuita di due rami che scendono dalla temperatura eutettica, 678°, e dalla (') Questi Rendiconti, vol. 20, I, 172 (1911). (2) In segnito le concentrazioni verranno sempre espresse nella quantità totale di fosfato. RENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 100 — 770 —- temperatura di trasformazione del composto, 690°, e sì incontrano a circa 33 °/, mol. Pb3 (PO), a 480°: questa temperatura è quella dell'arresto accennato, la cui durata massima corrisponde appunto alla concentrazione anzidetta del 33 °/, mol. Pbs(PO,).. Lungo il ramo da 10 a 33 °/, i cristalli misti che si erano formati nella solidificazione, si secompongono separando il fluoruro: si ottengono così cristalli misti sempre più riechi in composto fino alla concentrazione di 33 °/0- Lungo il ramo da 75 a 33 °/, i cristalli misti si scompongono sepa- rando il composto nella modificazione stabile a più bassa temperatura: si ottengono così cristalli misti sempre meno ricchi in composto fino alla con- centrazione di 33 °/. Per tutte le concentrazioni di cui si è parlato, le concentrazioni dei cri- stalli misti, lungo il raffreddamento, si spostano sino a giungere alla con- centrazione del 33 °/, mol. Pb3(PO,).: raggiunta questa composizione, a 480°, i cristalli misti si scindono in modo completo in fluoruro e in composto nella modificazione stabile a più bassa temperatura. Anche le miscele da 0 a 10 °/ dànno l'arresto a 480°; infatti nella separazione eutettica a 678° si separano accanto a fluoruro puro, cristalli misti tra fluoruro e composto della composizione dei cristalli misti limiti; essi poi si scindono lungo la curva di smistamento e la scissione si completa a 480°. TABELLA. x Inizio Temperatura | Temper. di smi-| Equilibrio inva- | Equilibrio inva- °/o molecolare |®/o in peso di pi TO riante riante 0 cristallizza-.| trasforma- | e di trasforma- | === eaGanmaa A i GEE EÒa 0 0 820° _ = = == — = 2,9 7,80 775 — — 678° 40° | 480° 10° 5 14 82 726 = —_ 678 80 480 30 1,5 21,14 _ = — 678 150 | 480 40 10 26,86 726 = —_ 678 60 | 480 60 15 36,85 790 = 647° — —_ 480 70 20 45,25 840 ni 612 — _ 480 80 25 52,45 866 — 594 — — 480 100 80 58,08 906 = ? = — 480 120 35 63,52 936 — ? _ —_ 480 100 40 68,81 960 = 558 —- — 490 60 50 76,80 996 — 628 — = 480 40 60 83,22 1020 =“ 674 = _ 480 40 65 86,20 1032 = 685 = = 480 20 15 90,85 1046 ? 696 = = —_ = 80 92.83 1042 ? 692 692 9 _ = 85 94,83 1038 804 732 692 ? —_ = 90 96,75 1033 796 7165 686 2 — = 93 97,73 1024 796 776 = = = = 95 98,40 1024 794 780 —_ _ — = 100 100 1006 182 782 — — 1 — 1100 1100 1000 1000 DO Dl I N 900 x 900 | x | È al \ III 800 R 800 I NI | | 700 1 | 700 600 600 500 500 9/0 mol. Pb, (PO), Fi. 1. — PbFI,- Pb, (PO). La solubilità fra il fluoruro e questa modificazione del composto stabile a bassa temperatura è quindi praticamente nulla. Nel sistema composto-fosfato pure si notano nel raffreddamento dei ral- lentamenti, le cui temperature sono rappresentate da due rami di curva che dal punto di trasformazione del composto, 696°, e dal punto di trasforma- zione del fosfato, 782°, scendono a 692°, a circa 80 °/ mol. Pb3 (PO). Le miscele da 80 a 90 °/, all’incirca a questa temperatura. mostrano inoltre un arresto di cui non si può apprezzare esattamente la durata: per le mi- scele da 90 a 100 °/ l'arresto non si scorge; probabilmente esso non è vi- sibile perchè la variazione termica è piccolissima: non possiamo dire se questo arresto esista per le miscele da 80 a 75 °/, perchè le temperature del rallentamento sono assai prossime alla temperatura dell'arresto. Se si ammette che gli arresti eutettici esistano per tutte le concentra- zioni, da 75 a 100°/ lungo i due rami di curva si separano dai cristalli — 772 -- misti il composto e il fosfato nelle forme stabili a bassa temperatura, mentre la composizione dei cristalli misti si sposta fino a 80 °/ mol. Pbz(PO,).: questi cristalli misti a circa 690° si scompongono poi completamente nei componenti. Se si ammette che non per tutte le concentrazioni esistano gli arresti eutettici, lungo i due rami di curva i cristalli misti si scompongono in cri- stalli misti più ricchi dell'uno o dell’altro componente, isomorfi con la sua forma stabile a bassa temperatura, mentre anche in questo caso la compo- sizione dei cristalli misti del tipo primitivo si sposta fino a 80°/, mol. Pb; (PO,)3: questi cristalli misti allora si scindono completamente nelle due specie di cristalli misti a concentrazione limite che con l’abbassarsi della temperatura andranno man mano scomponendosi nei loro componenti. Nella prima ipotesi la solubilità tra le due forme stabili a bassa tempe- ratura del composto e del fosfato sarebbe nulla; nella seconda esisterebbe tra le due forme una solubilità limitata alle concentrazioni dove manca l'ar- resto eutectoide. Ho detto come si sposta nei. miscele il punto di trasformazione del fosfato di piombo in relazione a quello del composto. Nello studio delle mi- scele da 100 a 85 °/, mol. Pbg(PO,):, si osservano però dei rallentamenti nel raffreddamento anche a temperature superiori a quelle di cui ho già par- lato: le temperature relative si trovano su una curva che, partendo dalla tem- peratura di trasformazione del fosfato, si innalza leggermente e non si può seguire oltre l'85 */, Pb3(PO,):. Il solo modo razionale di spiegare la pre- senza e l'andamento di questa curva mi sembra il seguente: questa curva non s'arresta alla suddetta concentrazione, ma deve giungere alla concen- trazione del composto, ed essere in relazione con un'altra modificazione e con un’altra temperatura di trasformazione del composto. Il calore che si sviluppa in questa trasformazione deve essere assai piccolo così da non poter notare nessuna variazione nel raffreddamento sia del composto, sia delle miscele dove esso si trova in eccesso. Questa curva superiore segna quindi le temperature di trasformazione dei cristalli misti che si erano formati nella solidificazione e che permangono tra queste due modificazioni del composto e del fosfato. Nelle miscele con meno di 75 mol. °/, di fosfato tale trasformazione do- vrebbe pure ritrovarsi con una curva di trasformazione discendente fino a raggiungere il ramo che da 696° scende a 480°: non è però possibile pre- vedere con precisione l’andamento totale. 2. Cloruro di piombo - Ortofosfato di piombo. Come ho già detto, ho dovuto limitarmi ad alcune esperienze generali data la grande volatilità del cloruro di piombo. Riscaldate al solito in crogiolo di platino le miscele al 25 e 50 °/, mol. Pb3 (PO,): si notò, prima ancora che la massa fosse completamente fusa, un — 7135 — grande sviluppo di fumi bianchi dovuti a sublimazione del eloruro; proce- dendo nel riscaldamento essi diminuirono sensibilmente. Dopo aver riscal- dato per parecchio tempo la massa, determinai il punto di solidificazione della miscela la cui composizione iniziale era del 50 °/,, esso risultò a 1100°. Anche le miscele a 75 e 85 °/, Pb3(PO,): fuse diedero poi come punto di solidificazione rispettivamente 1104° e 1100°; in queste miscsle la volati- lizzazione è molto minore che per le precedenti. L’innalzamento del punto di fusione osservato ci induce a concludere per la formazione di un composto il cui punto di fusione giace sopra 1100°: siccome poi la volatilità del cloruro è assai minore nelle miscele a 75 e 85 °/, che nelle miscele a 25 e 50 °/, mol. Pb3(PO,)» e in queste stesse miscele diminuisce la volatilità con l’allontanarsi del cloruro, è presumibile che anche il composto di cloruro e fosfato abbia una composizione prossima al rapporto 1:3, come il corrispondente tra fluoruro e fosfato e come si trova in natura nella piromorfite. Riassumendo i risultati ottenuti possiamo dire: 1° Tra il fluoruro di piombo e il fosfato di piombo si forma un com- posto Pb Fl..3 Pb; (PO,); il cui punto di solidificazione (1046°) è superiore a quello dei componenti: questo composto esiste almeno in due e probabil- mente in tre modificazioni. Si potè però osservare sperimentalmente una sola temperatura di trasformazione a 696°. Anche il fosfato esiste in due modi- ficazioni il cui punto di trasformazione è a 782°; 2° tra la forma « del composto e la forma « del fosfato esiste com- pleta solubilità; anche tra la forma « del composto e il fluoruro esiste estesa solubilità allo stato solido; 3° tra la presunta forma 8 del composto e la forma # del fosfato esiste pure probabilmente completa solubilità; tra la forma #8 del composto e il fluoruro dovrebbe pure esistere una serie di cristalli misti con campo di esistenza non ben definibile; 4° tra la forma y del composto e la forma f del fosfato esiste una solubilità nulla o assai limitata: tra la forma y del composto e il fluoruro la solubilità è nulla; 5° anche tra cloruro di piombo e fosfato di piombo si forma un com- posto corrispondente probabilmente a quello tra fluoruro e fosfato: il suo punto di solidificazione è superiore a 1100°; 6° il composto tra fiuoruro e fosfato corrisponderebbe a quello che sì trova in natura per i sali di calcio (apatite) il composto tra cloruro e fosfato corrisponderebbe alla piromorfite : il composto del tipo delle wagneriti anche nelle esperienze termiche non esiste. — 04 — Noia aggiunta durante la correzione delle bozze. Nel fascicolo del 15 settembre del Centralblatt f. Mineralogie, Geologie und Palàontologie (1912, n. 18) è comparsa una Nota del prof. R. Nacken col titolo Veber die Bildung des Apatits. Egli riferisce su risultati, ancora incompleti, di esperienze sulla formazione delle apatiti e wagneriti clorifere e fluorifere. Senza entrare nel contenuto di questo lavoro che si occupa di un argomento assai strettamente connesso a quello da me trattato, mi li- miterò a fare osservare che la assoluta indipendenza dei due lavori risulta dalla data della loro presentazione. M. A. Chimica. — Sui so/foalluminati d’argento. Nota di Livio CAMBI, presentata dal Socio R. NASINI. Chimica. — Sui dorati. Sistema B°0°-(NH')°0-H°0 a 30°. Nota di A. SBorgì, presentata dal Socio R. NASINI. Chimica fisica. — Spettr: di assorbimento di alcuni sali di uranio. Nota di ArrIGo MazzuccHELLI e OLGA GRECO D’ALCEO, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Patologia-vegetale. — Su la supposta origine europea del cranco americano del castagno. Nota di G. PANTANELLI, presen- tata dal Socio G. CuBoNI. Patologia vegetale. — Sulla recettività del frumento per la carie în rapporto al tempo di semina. Nota di 0. MUNERATI, pre- sentata dal Socio R. PIROTTA. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. — 05 — Patologia vegetale. — cerche sulla malattia del castagno detta dell’incehiostro. Nota di L. PETRI, presentata dal Socio G. CUBONI. La maggior parte degli studiosi che si sono occupati del mal dell'in- chiostro, per quanto non concordi sulle sue possibili cause, hanno riguardato questa malattia come una particolare alterazione dell'apparato radicale. Contro quest’ opinione Briosi e Farneti(!) recentemente hanno sostenuto trattarsi di un'infezione della parte aerea della pianta, riguardando il marciume delle radici come una semplice conseguenza dell'infezione del fusto. L'agente pato- geno è un fungo, il Coryneum perniciosum Br. et Farn., il quale, penetrando nella corteccia dei giovani rami, ne determina il disseccamento. L'infezione procede verso il basso, passando quindi anche nei rami principali e da questi al tronco e alle radici. Griffon e Maublanc (*?), in Francia, hanno studiato, nei cedui di castagno del Limousin, un caso simile di disseccamento dei rami prodotto da un Coryneum, identico a quello trovato da Briosi e Far- neti, e che per i due patologi francesi non è una specie nuova, ma è il C. Kunzei var. Castaneae Sacc. (C. Modonium Griff. e Maubl.). Ducomet (*) ha ritrovato la stessa affezione dei rami di castagno in Bretagna, riscontran- dovi lo stesso fungo e confermandone il riferimento sistematico fatto dai due autori francesi sopracitati. Quasi contemporaneamente a queste constatazioni avvenute in Europa, era già stata scoperta in America un'infezione dei ca- stagni dovuta alla Diaporthe parasiiica Murr. ed analoga, per molte ragioni, a quella attribuita al Coryneum. I fatti osservati dai patologi americani, oltre a dimostrare il parassitismo di questa Diaporthe, che può far dissec- care un grosso albero in breve tempo, hanno contribuito indirettamente a richiamare un maggior interesse sulla presunta azione parassitaria del Cory- neum suì nostri castagni. Tralasciando ora un'esposizione dettagliata e critica delle ricerche che sì riferiscono al parassitismo di questo fungo e alle alterazioni dell'apparato assorbente delle piante ammalate, è necessario che io riassuma brevemente le diverse questioni che si presentano quando le odierne conclusioni di Briosi e Farneti si vogliano considerare in rapporto alla presenza costante del particolare marciume delle radici nei castagni colpiti dall’inchiostro. (!) Atti dell’ Ist. bot. dell’Univer. di Pavia, serie II, vol. XIII, 1907; vol. XIV, 1909; vol. XV, 1910. (9) Comptes rendus Ac. Sc. Paris, 1910; Bull. Soc. Myc. France, 1910. (3) Annales de 1’ Ecole d’Agriculture de Rennes, tomo V, 1911. =M0O > È veramente l'infezione della parte aerea per opera del Coryneum che precede l'alterazione dell’apparato radicale? O non è piuttosto uno stato pato- logico delle radici che predispone la pianta all'infezione fungina dei rami? A simili quesiti non si trova una risposta esauriente negli studî fatti sino ad ora. Briosì e Farneti, nella descrizione della riproduzione sperimentale della malattia, non parlano dello stato delle radici della pianta infettata prima e dopo l’esperienza. Griffon e Maublane, come Ducomet, sono molto dubbiosi nell'attribuire al Coryneum il mal dell'inchiostro; e nella descrizione del disseccamento dei polloni e dei rami per opera del Coryneum, in un modo che corrisponde esattamente a quello studiato da Briosi e Farneti, tacciono del tutto sulle condizioni delle radici. Gibelli è il primo e forse l’ unico, fra i ricercatori anteriori al 1907, che ha osservato sui polloni e suì rami le striscie livide prodotte dal Coryreum, senza però aver notato la presenza del fungo. Tali alterazioni della parte aerea, secondo Gibelli, rappresentano un fenomeno posteriore all'inizio del marciume radicale. Prescindendo da queste prime questioni, è pure da domandarsi se è a un infezione diretta di Coryreum che si deve attribuire il marciume delle radici, o piuttosto al parassitismo di altri organismi. i Briosi e Farneti hanno dichiarato di non aver mai osservato che il Coryneum attacchi le radici e vi fruttifichi. Griffon e Maublanc citano un solo caso di un castagno attaccato da questo fungo nei rami e che ne pre- sentava le fruttificazioni anche sulle radici. In stretto rapporto con le suddette questioni sta l’altra se l'alterazione delle radici proceda dalle micorize al tronco, come sostengono la maggior parte degli autori, o in direzione opposta. come affermano Briosi e Farneti. Le ricerche che da qualche tempo ho iniziato sulla malattia dell’ in- chiostro nei castagneti della provincia di Lucca e del Viterbese (Soriano nel Cimino) (') portano un contributo di osservazioni nuove alla soluzione delle questioni suesposte. Nella presente Nota preliminare riassumo i risul-_ tati che si riferiscono alle indagini eseguite sulle infezioni presentate dal tronco e dai rami dei castagni colpiti dalla malattia. 1. Negli alberi che presentano un semplice ingiallimento delle foglie, in vicinanza di altri in parte disseccati e col caratteristico marciume nero delle radici, non ho trovato traccia di Coryneum, per quanto nelle piante vicine fossero numerosi i rami con le striscie longitudinali livide, depresse, disseminate di fruttificazioni di questo fungo (*). (1) I caratteri presentati dalla mora dei castagni di Soriano sono perfettamente identici a quelli presentati dai castagni di Vorno. Torcigliano, Villa Basilica, Borgo a Mozzano, Ghivizzano (Lucca) e di Intra (Novara), per citare i luoghi dove ho potuto rac- cogliere materiale e studiare la malattia. (?) Non ho trovato mai la forma di /usicoccum cui alludono Briosi e Farneti. Nello stesso stroma della forma conidica di Coryreum,in autunno avanzato si origina la forma UU, — La causa dell’ingiallimento delle foglie deve essere attribuita alle con- dizioni della parte inferiore della pianta. Le grosse radici, in vicinanza del tronco, presentano macchie nere a contorni irregolari, dovute a un marciume umido della corteccia e dell’alburno. limitato a settori più o meno estesi. Anche il durame ha un colore più scuro del normale ed un abbondante con- tenuto in acqua. Filamenti di micelio riferibili a due specie diverse sì tro- vano nei vasi. L’alterazione del durame procede dalla base della radice verso l'estremità di questa, precedendo l'alterazione dell’alburno e della corteccia. Nel parenchima corticale e nei fasci liberiani si trova lo stesso micelio che invade l'alburno. La necrosi della corteccia in molti casi avviene, indipendentemente da qualsiasi infezione diretta, nei punti dove l'alterazione dell'alburno, progre- dendo in senso centrifugo, raggiunge il cambio. Im vicinanza del tronco l’imbrunimento dell’alburno diventa molto più esteso, e gli anelli annuali rimasti inalterati, nelle zone dove la corteccia è ancora sana, sono ridotti a uno o due. Nel tronco, al punto di origine delle radici più alte, e anche sino a pochi centimetri dal suolo, l'alterazione del cilindro legnoso presenta gli stessi caratteri di quella delle radici. A livello del terreno le porzioni di alburno e di corteccia imbruniti sono intercalate da porzioni di tessuto ancora sano che vanno estendendosi verso l’alto, cosicchè le striscie di ne- crosi si assottigliano gradatamente, e a un metro circa da terra terminano completamente. Nei tronchi ricoperti da uno spesso ritidoma nessuna depres- sione o alterazione di colore rivelano la presenza di queste zone necrotiche. Dalla base del tronco e delle radici più grosse è stato isolato un micelio che, per i caratteri presentati in coltura, è riferibile alla Zrdothia radicalis (De Not.). 2. Nei castagni da più lungo tempo colpiti dalla malattia, la presenza di striscie longitudinali, livide, depresse, con pustole di Coryneum, è mani- festa sul rami che mostrano un disseccamento parziale di qualche estremità. Le sezioni trasverse di questi rami presentano una netta separazione fra la porzione ancora vivente e quella attaccata dal fungo. Tutti i rametti che si sono originati dal lato su cui si trova la zona infetta, sono per intero o in gran parte disseccati. Nelle piante non molto deperite le striscie livide del Coryneum non si propagano più oltre, verso il basso, dei rami di 3° o 4° ordine. l rami principali e il tronco, sino a due metri da terra, sono privi di zone necrotiche della corteccia e dell’alburno. ascofora di Melanconis. Io ritengo questo Coryneum identico ul 0. Aunzei Cda var. Casta- neae Sace. (C. modonium Griff. e Maubl.). Le ragioni di questa mia opinione, che coin- cide con quella degli autori francesi, saranno esposte nella Memoria definitiva. ReNDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 101 — 7738 — A due metri, e anche meno, dal livello del suolo, sì trovano nel fusto le alterazioni già descritte nelle piante che sono all’inizio della malattia. Al colletto, quasi tutto l’alburno e la corteccia sono imbruniti ; il tessuto con- duttore ancora in stato di funzionare è ridotto a strette striscie longitudi- nali dell'ultimo anello legnoso formatosi. A un metro di profondità la cor- teccia e il legno del fittone presentano le zone necrotiche più limitate, e in relazione a queste migliori condizioni sì trovano le radici più profonde ancora sane. Di quelle più superficiali, alcune, in vicinanza del tronco, sono completamente fracide, altre mostrano la corteccia e l'alburno quasi del tutto imbruniti, mentre a 7 o 10 metri dal loro punto di origine queste stesse radici hanno l’alburno e la corteccia privi di alterazioni manifeste. Anche dalla base del tronco e delle grosse radici di questi castagni è stata isolata la Yndothia radicalis (De Not.). 3. In molti rami disseccati, nei quali non si trova traccia di Coryneum, il disseccamento è da attribuirsi all'Zndothia. Il micelio di questo fungo si sviluppa spesso nel legno vecchio dei rami, progredendo verso l'estremità di questi. Per tale particolare localizzazione esso può restare circondato per lunghi tratti da un involucro di tessuti viventi, costitmti dall'alburno e dalla corteccia. Questi rami, che solo apparentemente sono sani, vengono sovente attaccati dal Coryneum. In questo caso è facile di trovare una metà del ramo con le fruttificazioni di questo fungo e l’altra con i picnidi dell'Endothia (*). (}) La forma picnidica di questo fungo è stata riguardata da De Notaris (in herb.) come una Nemospora Pers. Saccardo recentemente ne fece un genere nuovo: Endothiella. [Z. gyrosa (Fuck.) Sacc., in Amm. Myc., IV, 1906, n. 2]. Le fruttificazioni picnidiche si presentano con caratteri leggermente diversi a seconda che si sviluppino sui rami rela- tivamente giovani, a corteccia liscia, o su quelli a grosso ritidoma e sul tronco. Sui primi il fungo forma delle grosse macchie rosso-arancione e le camere sporifere dei picnidi si trovano subito sotto la peridermide mancando quasi del tutto l’ectostroma. In questi rami difficilmente si sviluppa la forma ascofora. Sui rami a grosso ritidoma o sul tronco, i picnidi sono contenuti in un ectostroma tuberiforme, giallo-arancione. In autunno si dif- ferenziano i periteci nell’endostroma. Questi hanno i caratteri di quelli dell’Endothia radicalis De Not. e nella Memoria definitiva ne sarà data dettagliata descrizione. Il mi- celio che in coltura si origina, sia dalle ascospore che dalle picnospore, dopo due mesi dalla semina dà origine a degli pseudopicnidi di color giallo-arancione, costituiti da un lasso intreccio di ife ialine, involucranti più cavità sporifere, tappezzate da conidiofori sottilissimi, ramificati, portanti ail’estremità dei conidi bacillari, ialini, di 0,8-2 W7 2-34. Queste fruttificazioni picnidiche, sprovviste di uno stroma e di una vera parete ben dif- ferenziata, si originano come agglomerati bianchi di micelio sulla superficie del terreno nutritivo, sostenuti in alto dai filamenti aerei aracnoidi. Questo micelio superficiale così poco sviluppato ricorda più quello dell’E. parasitica (Murr.) Andersen che quello della E. virginiana And. Le camere sporifere sono divise le une dalle altre da una sorta di trama, costituita da ife ricche di un pigmento giallo-arancione, che, nelle ife morte, si presenta anche come®una incrostazione intorno alla membrana. Questa sostanza non dà la reazione di Zopf dei lipocromi, nè si colorisce in bleu con HNO,;, nè in bleu verdastro con l’iodio in ioduro di potassio; non si scioglie in acqua nè a freddo nè a caldo, in — 779 — 4. L'infezione della base del fusto da parte del Coryneum si verifica di solito: nelle pollonete, quando la ciocca, da cui derivano i polloni, è già molto danneggiata dal marciume delle radici; nei castagni ripiantati in luoghi dove già erano morte altre piante per la stessa malattia dell’in- ehiostro. In quest'ultimo caso l'attacco del Coryreum al pedale è limitato dalla età della pianta stessa. Quando l'albero ha raggiunto i 30 e 40 anni, l’in- -fezione diretta della base del tronco non avviene più; essa può verificarsi sino a che la corteccia presenta esternamente uno strato suberoso relativa- mente sottile. I castagni colpiti al pedale dal Coryneum disseccano rapidamente in pochi giorni, e raramente i rami alti presentano traccia di questo fungo. Le radici di queste piante sono già da tempo invase dal marciume nero, e non contengono micelio di « Coryneum ». Il durame della base del tronco di queste piante presenta un'alterazione che è in diretta dipendenza del marciume radicale, e che precede l'attacco del Coryneum. In tutti i castagni colpiti dal mal dell'inchiostro che io ho potuto esa- minare, non ho mai trovato fruttificazioni di Zrdothia sulle radici (*), per quanto la sua presenza vi sia dimostrata dalle colture. * xx Dai fatti che ho brevemente riassunto, risulta prima di tutto che nelle piante, nelle quali la malattia non è troppo avanzata, esistono almeno due infezioni separate, una alla base del tronco e delle radici più grosse, l'altra sui rami minori. La prima, ascendente, precede sempre la seconda, discen- dente. Mentre quest’ultima attacca di preferenza ì rami ancora giovani, l’altra predilige il tronco e i grossi rami, diffondendosi spesso attraverso il durame. Quando la malattia sia molto avanzata, le striscie longitudinali di necrosi possono esser continue dall'alto dei rami al pedale dell'albero; ma sì cadrebbe in errore se si credesse che l'origine di tali alterazioni risiedesse esclusivamente nella parte periferica della chioma. Prescindendo per ora dai numerosi risultati delle ricerche eseguite in- torno all’etiologia del marciume delle radici, da quanto precede sì può trarre questa conclusione: che esiste un'infezione della pianta nella regione del colletto, da cui rapidamente si diffonde in senso centrifugo. Questa rapidità petrolio, benzolo, xilolo, toluolo; si scioglie in etere, cloroformio, acetone, alcool; in KOH diluita o NaOH si scioglie acquistando un’intensa colorazione rosso-carminio. Queste reazioni sono date anche dal pigmento dell’ E. parasitica. (*) Anche Gibelli e gli altri autori, che si sono occupati della flora fungina radi cicola dei castagni affètti dal mal dell'inchiostro, non fanno menzione, che io sappia, di questo fungo. — 7350 — è dimostrata dal fatto di trovare la regione prossimale delle grosse radici quasi morta, mentre quella distale è ancora vivente. Si può anche concludere che questa infezione non è prodotta dal 0o- ryneum. Quando questo fungo attacca una giovane pianta al pedale, l’infe- zione resta localizzata. Per quanto essa sia la causa immediata del dissec- camento dell'albero, rappresenta un fenomeno che è subordinato a una pre- cedente infezione del colletto. Dalle ricerche sin qui eseguite, il Coryneum modonium sembra essere il principale agente diretto di disseccamento della chioma dei castagni col- piti dal mal dell'inchiostro; raramente ho trovato anche una forma di Melan- contum (’) che certamente appartiene a una Me/anconis, diversa dalla M. mo- donia Tul.. L'azione dell'Endothia, che precede e forse rende possibile quella del Coryneum, determina anche, molto probabilmente, l'infezione delle piante al colletto e nelle grosse radici (?). Di ciò manca per ora la conferma spe- rimentale. Le inoculazioni, eseguite in primavera con picnospore di Zndothia, sui rami, sul fusto e sulle radici di castagni coltivati in vaso, per ora non hanno determinato alcuna apprezzabile alterazione; lo stesso resultato ho ottenuto inoculando i conidi del Coryneum e le spore della forma ascofora di questo fungo (5). In seguito alle ricerche intraprese da Shear e Anderson in America (‘) sull'identità tassonomica della Diaporthe parasitica Murr., questo fungo deve essere riferito al gen. Endothia. Secondo Shear questa specie sarebbe iden- tica all’Endothia che in Europa è conosciuta col nome di 7. radicalis De Not. (non Schw.) (?). Secondo Anderson, almeno provvisoriamente, è ritenuta per una specie distinta (£. parasitica (Murr.) Anderson). L'E. radicalis, raccolta e descritta da Schweinitz, non esisterebbe in Europa secondo Shear. Questo autore at- tribuisce dunque, forse un po’ troppo prematuramente, alla nostra Endothia radicalis la nuova malattia dei castagni americani. L'identità assoluta fra quest'ultima specie e l' 4. parasitica non esiste che nella forma picnidica, le differenze della forma ascofora sono della stessa natura di quelle che se- parano la £. parasitica dalla E. virginiana Anderson, una specie americana non parassitaria, alla quale si avvicina forse l'Z. radicalis europea per il suo saprofitismo. Le conclusioni alle quali sono giunti i micologi americani contribuiscono a dare un particolare interesse alla presenza di quest’ultimo (1) Trovato anche in Francia da Griffon e Maublane. (*) Il micelio dell’Ezdothia nelle radici non si trova che a breve distanza dal tronco, ed è sempre una derivazione di quello che si sviluppa nel fusto. (3) Io c edo che la stagione più favorevole sia l'autunno. (4) Phytopatclogy, vol. II, n. 2, pag. 88, an. 1912. (5) Di quest, argomento già da tempo si occupa il dott. Pantanelli, il quale in una prossima Nota pubblicherà i risultati delle sue ricerche. — 781 — fungo sui castagni colpiti dal mal dell'inchiostro, facendo sorgere il dubbio che le differenze fra questa malattia e quella attuale dei castagni americani non siano così grandi come potevasi credere. Ma ogni asserzione a tal riguardo sarebbe ora prematura, giacchè non è ancora dimostrato che l'£. ra- dicalis si trovi sempre in tutti i castagni affetti dal mal dell'inchiostro (’), che essa abbia un grado di parassitismo paragonabile a quello della £. pa- rasîtica, e che infine nei castagni, disseccati da quest'ultimo fungo, alla morte della parte aerea si accompagni un'alterazione delle radici. Il fatto, più sopra citato, della costante assenza di fruttificazioni di Endothia sulle radici dei castagni ammalati, per quanto il micelio di questo fungo vi sia contenuto, può essere spiegato ammettendo che altri microrga- nismi, sviluppatisi negli stessi tessuti, impediscano la formazione di organi sporigeni, oppure che si tratti di una forma di Zndothia diversa da quella a fruttificazione ipogea (*). Patologia vegetale. — Ulteriori ricerche sulla malattia del Castagno detta dell'inchiostro. Nota di L. PETRI, presentata dal Socio G. CUBONI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (*) La ricerca diretta di questo fungo sui tronchi dei grossi castagni è molto difti- cile perchè le fruttificazioni si formano fra le screpolature del ritidoma, restando na- scoste; molte volte poi non si formano affatto. In molti casi ho potuto constatare la pre- senza dell’Endothia iv grazia delle colture, non perchè ne avessi trovato le fruttificazioni all’esterno degli organi attaccati. (3) Quando questa forma si sviluppa sulle radici morenti o morte dei castagni non si forma mai quel marciume umido e nero caratteristico del mal dell'inchiostro. Le uniche differenze, quasi trascurabili, che io trovo fra questa forma e quella dei rami riguardano le dimensioni degli aschi e delle ascospore. Allo stato attuale delle nostre cognizioni sul genere Endothia non si può escludere che anche sulla parte aerea si svi- luppino due o più specie diverse, ma delle conclusioni sicure intorno a una simile questione sono rese difficili dalla rarità della forma ascofora. — 782 — Biologia. — Sullo sviluppo e sullo accrescimento degli Anfibi. I. Le azioni morfogenetiche e il movimento. Nota del dott. GiuLIo CoTRONEI, presentata dal Socio B. Grassi (?). Da molto tempo mi vado occupando dello sviluppo e dell’acerescimento degli Anfibi Anuri e Urodeli, allo scopo di contribuire, mediante una ricerca comparativa, alla migliore conoscenza di varie questioni che rimangono tut- tora sospese o mal note. Chiunque esamini lo sviluppo degli Anfibi, nota la varietà della forma nei varî periodi della vita: embrionale, larvale, adulta; e non potrà sfuggirgli che tale varietà di forma non è così spiccata negli Urodeli come negli Anuri. Gli Urodeli presentano una maggiore omogeneità di sviluppo e d'accrescimento. Tutto questo è volgarmente noto: tuttavia, quando noi entriamo nella disa- mina minuziosa, diligente, del fatto osservato grossolanamente, vediamo de- linearsi tutta una serie di quesiti, formularsi tanti problemi, la cui risolu- zione non può essere se non la conseguenza di una serie di ricerche, tanto di morfologia quanto di fisiologia generale. Io mi occupavo di tali questioni, in rapporto alle modificazioni degli organi interni e al genere di vita degli animali, e, naturalmente, non ignoravo ciò che era già noto in questo genere di lavori, quando sono stati pubbli- cati gli studî del Polimanti (?) e dell’Houssay (*) sulla forma dei pesci. La differenza che corre tra le conclusioni a cui io vengo con i miei studî e quelle che ne trae dai suoi l’ Houssay (specialmente secondo l’ultimo lavoro), mi induce alla valutazione di alcuni fatti, circa gli Anfibi, da cui scaturisce nettamente, secondo me, che l’ Houssay abbia dato eccessiva im- portanza a un sol lato del problema a detrimento degli altri. Che esista una strettissima relazione tra l'ambiente, la forma e il mo- vimento degli animali, è cosa nota ed ovvia; ma che sia l’ambiente, e quindi il movimento, che determini la forma dell'animale (acquatico, nel caso nostro), sembra a me — e anzi, credo, a tutti — una conclusione così grave, che, se fosse veramente accertata, risolverebbe in senso più che intransigentemente lamar- (*) Lavoro eseguito nell’ Istituto di Anatomia e Fisiologia comparata della R. Uni- versità di Roma, diretto dal prof. Battista Grassi. (£) Polimanti Os., Influenza della forma sulla locomozione dei pesci. Zeitser. f. allg. Phys., Bd. /2 (1911), pp. 407-488. ($) Houssay Fred., Forme, puissance et stabilité des poissons. Collection de Morpho- logie dynamique, IV. Paris, A. Herman, pag. 372 (1912). — 783 — ckista quasi tutti i problemi di biologia generale, che sono tuttora argo- mento di pazienti ricerche e di profonde discussioni. Ad una osservazione superficiale, ad un esame non rigorosamente logico, può venire alla mente il pensiero di considerare la relazione suddetta come una dipendenza di effetto da una causa: l'ambiente, più che lasciar vivere e conservarle, crea le forme: tuttavia è noto che se è vero che in molti ambienti determinati qualche cosa di comune collega le forme che vivono in esso, è vero pure, ed è noto, che malgrado ciò, in uno stesso ambiente esistono infinite varietà di forme, che non è possibile non riconoscere. Osservando una larva di Rana (Rana esculenta, Rana temporaria) pochi giorni dopo che è venuta fuori dalla mucillaggine avvolgente, si nota come incomincia a delinearsi un tipico aspetto biplanare; ossia possiamo distin- guere l'animale secondo due piani, l'uno anteriore orizzontale e.l’altro po- steriore verticale, tra loro normali: intanto il lembo dorsale cutaneo, che si estendeva molto avanti nella regione anteriore, si trae indietro; finchè la coda, nella larva che ha delineato la sua forma tipica, si mostra bene in- dipendente dalla parte anteriore: la coda, negli Anuri, è una regione molto ben determinata morfologicamente. Ora è un fatto che, quando si sono stabilite queste condizioni morfolo- giche, la coda è l'organo propulsore dell'animale: le sue ondulazioni inces- santi stabiliscono il movimento (non molto rapido in questo caso); però i muscoli del tronco non rimangono inerti: alle oscillazioni della coda cor- rispondono le vibrazioni della parte anteriore; ma ciò serve unicamente a stabilire e mantenere l’equilibrio del movimento, e non ad agire attivamente nella propulsione. In un corpo spiccatamente biplanare agente nell'acqua, il piano verticale posteriore è quello che ha decisiva influenza nella propulsione: naturalmente, questo si verifica tanto più intensamente quanto più indipendenti sono dal punto di vista morfologico il piano orizzontale anteriore e quello verticale posteriore. Tale considerazione va estesa anche ai pesci: quanto più è mani- festo quest'aspetto, quanto più grossa è la parte anteriore, tanto più ha im- portanza la regione codale nel movimento: un'anguilla lunga e sottile si muove invece con un movimento serpentino di tutto il corpo: nei pesci, però, non bisogna dimenticare l'influenza delle pinne. Il rigonfiamento anteriore degli Anuri (tronco) è tipico, ma esso risulta da-cause molto più complesse che non sia il semplice modellamento, dovuto al movimento della regione posteriore e della resistenza dell’acqua: nel caso degli Anuri (Rana, Bufo) esso è una conseguenza dell’accrescimento degli organi interni: ciò è molto evidente. Il tubo digerente, è noto, ha un'evoluzione speciale: in. precoci stadî si osserva la tendenza dell'intestino a volgersi a spirale: esso tende ad un enorme sviluppo in lunghezza, a detrimento di altre direzioni di ac- crescimento: ne risulta che non viene utilizzato lo spazio interno del tubo a — 784 — intestinale (lume), e l'intestino occupa un gran volume: si è formata una matassa voluminosa, che rigonfia il tronco dell'animale e lo distingue netta- mente dalla coda. Lo sviluppo degli organi interni, le peculiari direzioni d'accrescimento, sono tutte condizioni collegate a quel complesso di fattori che formano, per dir così, la caratteristica del modo di evolversi di un dato organismo. È il concetto della forma che un organismo raggiunge attraverso una serie, spesso lunga, di modificazioni e. qualche volta, di profondi cambiamenti (metamor- fosi). Io non ho nessuna pretesa di dire una cosa nuova! L'importante è appunto d'applicare nel caso in esame un concetto scientifico, che risulta da un gran numero di ricerche, e che è sostenuto da molti valorosi ricercatori, e d'aver scelto un materiale d'osservazione così facile, il quale fa vedere le esagerazioni in cui si può incorrere. La larva dell’Anuro, dunque, è dominata, per la sua forma esterna, dal- l'enorme lunghezza del tubo digerente. Una stretta relazione, e non a torto, è stata stabilita tra la lunghezza dell'intestino e il modo di nutrizione: per il momento io tralascio di occuparmi di siffatta questione, ma conviene che io osservi che anche in tal caso si tratta di una correlazione: il modo di svilupparsi del.tubo digerente è una condizione dell'organismo; mentre ancora si riduce il vitello, sì vede ben delinearsi la matassa intestinale, con i suoi giri, e rigonfiarsi la parte anteriore: la nutrizione non ha avuto ancora modo di imprimere la sua influenza. Certamente il tubo digerente continua ad accrescersi; ma i caratteri morfologici, nelle linee generali, si mantengono costanti per lungo tempo. Ho già accennato che con il plasmarsi della parte anteriore, per con- dizioni interne di sviluppo, si definisce la coda della larva dell'Anuro: ri- sulta però, nel caso nostro, assai evidente che il movimento non ha avuto la influenza predominante nel determinare la forma. Io so bene d’esprimere un concetto diffuso quanto esatto, dicendo che non è possibile di voler considerare un organismo vivente come un semplice corpo plastico. Ora, se in determinate condizioni sperimentali si riesce ad imprimere notevoli tracce su di un tale corpo, si sa bene che non do- vrebbe dedursi che tali forze modificatrici agiscano ugualmente su un orga- nismo vivente, perchè in tal caso entrano in campo tanti fattori di sviluppo degli organi interni, la cui azione ha certamente grandissima influenza. Senza alcun dubbio, gli esperimenti suddetti hanno una grande impor- tanza, appunto per lo studio degli effetti fisiologici: difatti non possiamo di- menticare che un organismo che vive in un qualunque ambiente, soggiace sempre alle leggi fisiche della massa e dell’equilibrio; e però sotto certe determinate condizioni di forma, è vero che sono possibili soltanto alcuni determinati modi di locomozione: sotto questo punto di vista il tentativo — 785 — così laborioso dell’ Houssay è molto interessante e merita sincero plauso. Polimanti poi ci dice (pag. 434): « Corpo e pinne in moto, presi nel loro insieme danno il fenomeno della propulsione: in alcuni pesci hanno mag- giore influenza le pinne che non il corpo; in altri, viceversa, la funzione del corpo e delle pinne si equilibrano quasi, e sono quasi uguali come importanza fisiologica. È la pinna quella che si modella sulla forma del corpo ». In un corpo rigonfiato anteriormente, per ragioni speciali di sviluppo, l'organo di propulsione si deve modellare nel ridursi in una zona posteriore: ed esiste, come sì riscontra da tanti noti fatti, un perfetto equilibrio tra tutte queste condizioni interne e la vita che dovrà condurre l’animale: equilibrio che scaturisce dalla forma e quindi da tutte le complesse condizioni che la determinano e dall'ambiente nel quale l'animale svolge la sua biologia. Osservazioni molto interessanti sorgono dalla comparazione, a tal pro- posito, degli Anuri con gli Urodeli. Quando si esamina una larva di tritone (Triton cristatus), sì vede che non esiste una regione codale nettamente, decisamente divisa dal resto del corpo: la larva si presenta allungata e non lascia scorgere un così manifesto rigonfiamento schiacciato un po’ superior- mente della regione anteriore (tipico degli Anuri). Ora l'esame dello svi- luppo degli organi interni ci fa vedere che i fatti si svolgono molto diver- samente: il tubo digerente mostra già precocemente la differenziazione dello animale adulto, lo stomaco si accenna sùbito, l'intestino larvale presenta una diversa evoluzione e non mostra l'eccessiva lunghezza che si riscontra negli Anuri: in generale non sì riscontra un cor/litto, per dir così, d'accresci- mento tra gli organi: l'animale si accresce principalmente secondo la dire- zione lineare, e la larva presenta una sufficiente simmetria bilaterale: anche il movimento presenta differenze, giacchè la pinna nel periodo larvale si estende molto avanti nella regione anteriore. Lo studio della larva degli Anuri c'induce, invece, ad ammettere in essa una asimmetria molto accen- tuata e profonda. Di ciò mi occuperò in una prossima Nota; voglio però, intanto, far notare che tale asimmetria (e si badi che io mi riferisco, a tal proposito, unicamente agli organi interni) è dovuta anche essa allo sviluppo enorme del tubo digerente: la matassa intestinale spinge sul lato destro della larva il fegato e il pancreas; anche l’accenno dello stomaco (mani- cotto glandulare del Ruffini, nel caso della Rana) si viene a trovare sul lato destro. Sulla questione che riguarda il modo di riduzione delle branchie io non voglio affatto pronunziarmi: tuttavia questa asimmetria interna, quan- tunque non da esso prodotta, è legata allo speciale movimento dell'animale, giacchè, come ho fatto notare, il rigonfiamento anteriore determina una re- gione posteriore di propulsione; la maggiore bilateralità del tritone invece è in relazione col corpo allungato. L'ambiente liquido è uguale tanto per gli Urodeli quanto per gli Anuri; ma la forma si evolve molto diversamente per i due ordini. RENDICONTI. 1912, Vol. XXI Sen, 2°, 102 — 7380 — Evidentemente le divergenze sono da attribuirsi al ciclo diverso e alla diversa organizzazione. Ora io desidero, affinchè non ci siano equivoci sulle idee esposte, e perchè non mì sì accusi di una intransigenza opposta, in cui sarebbe facile cadere, chiarire meglio alcuni concetti. Dicendo che la forma è determinata principalmente dallo sviluppo proprio dell’animale, io non escludo l'influenza dell'ambiente; in tal caso io dimostrerei semplicemente di ignorare ciò che risulta da tante osservazioni e da tante esperienze, e che non è qui il caso di ricordare: da questi studî scaturisce il concetto che esiste una tendenza dell’organismo ad armonizzare, per dir così, con le con- dizioni esterne proprie. E non si può dimenticare che quando sperimental- mente si fanno variare queste condizioni esterne, il più delle volte si assiste a notevoli variazioni, più o meno accentuate, che spesso conducono a pro- fonde anomalie e mostruosità. Quando io dico che il rigonfiamento anteriore del girino è prodotto dallo speciale sviluppo del tubo digerente, e quindi degli organi interni, io con- stato semplicemente un fatto che nessuna esperienza può distruggere; tuttavia bisogna anche ammettere che il movimento, e quindi le direzioni di resi- stenza dell’acqua sono favorevoli a un tal modo di accrescimento. Houssay ha eseguito esperimenti molto interessanti sulle condizioni meccaniche del movimento nell’acqua e sul fenomeno idrodinamico della vena inversa. Egli prende un sacchetto di caoutchou molle, lungo circa 20 cm. e largo 4 o 5; prepara diverse miscele di varia plasticità e ne riempie il sacchetto fino a una certa distanza. Un peso sospeso all'estremità libera di un filo imprime, per mezzo della sua caduta, un movimento al sacco di cautchou immerso. Variando le condizioni di riempimento del sacchetto e variando la forza del peso motore, Houssay ha ottenuto diversi risultati (rimando il lettore alle pp. 38-44 del lavoro citato). Nella 5* Esperienza, riempendo il sacchetto per */, di un miscuglio formato di */, di olio, 1/4 di vasellina e un po'di cerussa, in modo da avere una densità uguale ad 1, con un peso motore di 100 grammi, lo sperimentatore è riuscito a produrre una inversione a 2 zone, sensibilmente uguali: la prima piatta e orizzontale, la seconda piatta e verticale. L'esperienza, ripetuta sei volte di seguito nelle medesime condizioni, dà sempre i medesimi risultati. Riconoscendo, ci tengo a ripeterlo, tutta l’importanza di questi esperi- menti, pure richiamo le considerazioni già esposte. Nel caso in esame si tratta di un corpo passivo, su cui s'imprimono assai facilmente le tracce delle resistenze esterne: queste non si negano affatto, e le ricerche di Houssay ci danno un'idea, molto interessante, delle direzioni di resistenza dell’acqua, già intraviste da un discreto numero di sperimentatori; ma un organismo che si evolve è dotato, lo si sa bene, di forze interne: forze di sviluppo e di reazione agli stimoli esterni, le quali determinano una forma speciale — 787 — del corpo che si equilibra con le resistenze esterne. Del resto, queste stesse resistenze esterne, come dimostrano tanti studî d’idrodinamica, vengono ad essere profondamente differenti a seconda del corpo che si muove. Certa- mente Honssay non ignora questi fatti; ma non esita a scrivere (pag. 46): « De cette faxon se précise la reversibilité entre l'action et la réaction que nous avons invoquée en terminant le chapître précédent. Le tourbillon a créé des dispositions et des organes qui, à leur tour, créent, aujourd’hui, ou du moins facilitent et dirigent la fuite tourbillonnaire de l’eau ». La forma degli organismi acquatici è enormemente complessa e varia. Amans riconosce che l’aspetto biplanare negli stessi Teleostei talvolta può non essere molto apparente, o sfuggire addirittura. Marey. che ha studiato il movimento con grande genialità, riconosce che per i corpi pisciformi im- mersi è di vantaggio che l'estremità più grande sia in avanti: la disposi- zione inversa creerebbe molta resistenza alla progressione. E Pettigrey, a sua volta, ci dice che i cambiamenti di forma e i movimenti particolari della superficie natatoria sono resi necessarî da questo fatto (segnalato da Newton), che i corpi o gli animali, moventisi nell'acqua o nell’aria, pro- vano una resistenza, che è più o meno grande secondo la densità proporzio- nale, la tenacità del fluido, la forma, la superficie e la velocità dell’animale. Polimanti ammette la distinzione delle forme (pesci) in due grandi gruppi: la forma bentonica e la nettonica. Vi sono forme di passaggio, e, ciò che è molto importante, vi sono eccezioni. Houssay lascia trasparire fin dalle prime pagine l’idea dominante del suo lavoro. A differenza di Amans che si è occupato essenzialmente del modo come funzionano le forme realizzate e gli organi acquisiti, egli vuole studiare le condizioni nelle quali il movimento stesso le ba prodotte. È un po’ più innanzi dice testualmente: « La conception dynamique à laquelle nous sommes parvenus, procède des théories lamarkiennes. mais va plus avant que celles-ci dans la voie déterministe, ne faisant qui une parte minime au desir de l'animal, à sa volonté è son effort. .... L'étre étant supposé pla- stique et, par suite, modelable, la force modelable est la résistence que l'eau oppose au déplacement ». Ma Houssay non mi sembra dia grande importanza al fatto che la forma pesce, e anche quella degli esseri acquatici in generale, è estrema- mente varia. Egli costruisce semplicemente uno schema, sul quale fonda i suoi risultati, e stabilisce da principio un pesce tipo, prescindendo dai Pleuronettidi, dalle Anguille, dalle Murene, dai Plectognati e da molti Lofobranchi. To credo sia errato voler rintracciare una forma tipo. Le esperienze e le osservazioni in proposito sono necessariament> manchevoli. E mi sembra che il valente scienziato francese abbia preso come chiave per la spiega- zione delle cause la semplice constatazione degli effetti sperimentali. Non — 788$ — sì è autorizzati a concludere. in tal modo, anche perchè ci mancano troppi elementi per stabilire la storia di un organismo. Prendendo a studiare gli Anfibi (non i Pesci, come si potrebbe obbiet- tare) io ho voluto semplicemente far risaltare l'enorme difficoltà e le infinite cause che bisogna considerare in uno studio di tal genere, considerazioni che però bisogna estendere, dato l’ambiente liquido, anche ai Pesci. La morfologia dinamica è una scienza molto interessante, che può pre- scindere da qualsiasi eccessiva influenza teorica e stabilire dati sperimen- tali. obbiettivi e sicuri; ma appunto perchè io considero necessario ed utile lo studio di una morfologia intesa in tal senso, credo che bisogna tener conto ;di tutti i fattori che si possono valutare, e cercando di non cadere in esagerazioni nella valutazione degli esperimenti anche se sono così interes- santi come nel caso d' Houssay. Biologia. — Contributo allo studio sulla identità delle leish- mamiosi (Reciprocità di alcune reazioni biologiche). Nota preventiva del prof. Ivo BANDI ('), presentata dal Socio B. GRASSI. Nello scorso mese di luglio intrapresi alcune ricerche sperimentali allo scopo di accertarmi se la distruzione intraorganica dei corpi di Leishmann inducesse la formazione di principii ad azione specifica verso questi paras- siti. L'intento pratico di questi miei esperimenti, era la ricerca di un metodo diagnostico basato su reazioni biologiche, alle quali si attribuisce universal- mente carattere di specificità; e questo metodo avrebbe dovuto servire di valido aiuto nel formulare la diagnosi di Leishmaniosi, diagnosi basata almeno nella Z. umana, quasi unicamente sul reperto dei preparati per striscio ese- guiti con materiale ottenuto colla splenopuntura, e quindi non completamente attendibile, se negativa, per ragione che sarebbe ovvio enumerare. Nella prima parte dei miei esperimenti si comprendono le prove isti- tuite per mettere in evidenza se e in quale misura, si possono ottenere prin- cipii specifici nel sangue di animali d'esperienza trattati con culture di Leishmanie. Usai come materiale di prova due stipiti di Z. snfantum e di L. canina che mi procurai direttamente da C. Nicolle nella mia recente gita di studio in Tunisia. Come animali d'esperienza scelsi i conigli, ai quali iniettavo per via endovenosa, a taluni culture bene sviluppate di Z. infantum, ad altri di L. canina. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto d’Igiene della R. Università di Nupoli. Lasciando per ora impregiudicata la questione della possibilità di dimo- strare nella Leishmaniosi spontanea, sia dell’uomo che del cane, la presenza di principii ad azione specifica che facciano sperare ad un'applicazione dia- gnostica, cosa del resto negata dalla scuola dello Jemma, e sulla quale ho intenzione di approfondire le mie indagini, riporto in questa breve Nota rias- sunti i risultati di queste mie prime esperienze, risultati che mì sembrano avere un valore scientifico e pratico non trascurabile. Le iniezioni ripetute nella vena marginale del coniglio con culture di L. infantum e di L. canina, mentre non inducono. almeno nella mag- gioranza dei casi uno stato patologico nei conigli stessi, determinano però la comparsa nel sangue di questi animali, di un principio specifico che de- termina l'aggruppamento dei corpi di Leishmann omologhi in cultura. Questa azione aggruppante che può entro certi limiti paragonarsi all’azione agglu- tinante esercitata sui batteri dai sieri omologhi, si manifestò per i sieri in esame, fino alla diluzione dell’ 1:200. Il siero di coniglio nuovo, nella stessa diluzione si mostrò inefficace. Non fui capace fino ad ora ad ottenere con detti sieri un'azione litica apprezzabile. I sieri ottenuti colle iniezioni di Z. infantum, e di LZ. canina, dimo- strarono azione aggruppante per una Leishmania eterologa (L. furuncolosa, stipite Nicolle) fino ai tasso di diluzione dell’1:70. I sieri di conigli iniettati con culture di Z. enfantum e di L. canina. dimostrarono azione aggruppante reciproca sulla specie eterologa, fino al tasso di diluzione del 1 per 160 circa. In conclusione dai risultati di queste esperienze preliminari emerge an- zitutto che può dimostrarsi un'azione specifica di gruppo nei sieri antileish- maniosi, quale si riscontra per alcuni sieri antibacterici (ad es. i sieri anti- tifici per i bacilli similtifi). Questi parassiti, agenti di malattie clinicamente differenti, dovrebbero dunque raggrupparsi nella sistematica, non solo per la grande assomiglianza nei caratteri morfologici, ma per l'affinità che indica esistere fra di essi, la reciprocità nella esplicazione di reazioni immunitarie indubbiamente specifiche. E questa reciprocità che tra Z. infantum e L. canina giunge ad un grado così alto da potersi quasi confondere con una vera identità, rappresenta certo un argomento di alto valore in appoggio dell'opinione oggi quasi universale che le due forme cliniche di Leishmaniosi l’umana e canina, siano man- tenute dallo stesso parassita. Questa prova biologica corrobora validamente le osservazioni epidemio- logiche e microbiologiche di Nicolle e altri osservatori, e le recenti prove sperimentali di Basile, che ci indicano la via da seguirsi nella lotta pro- filattica contro questa terribile infezione. — 790 — Microbiologia. — Contributo alla differenziazione dei fer. menti lattici ('). Nota del prof. CostANTINO GORINI, presentata dal Socio G. BrIosI (°). In batteriologia lattiera chiamansi fermenti lattici i batteri che pro- ducono la fermentazione lattica del lattosio. La serie di questi fermenti lattici, iniziata da Hueppe col suo Baczerium acidi lactici, è andata arricchendosi di numerosi componenti per opera di parecchi ricercatori; cosicchè è da tempo sentito il bisogno di una classificazione, o per lo meno di un coordinamento. Già varî autori si sono provati di soddisfare a tale bisogno; citerò fra i principali: Weigmann (*). Conn, Esten e Stocking (4), Lòhnis (*), Rogers e Davis (5) ed altri. Con tutto ciò noi vediamo che gli esperimentatori male si adattano a catalogare i fermenti lattici da loro incontrati secondo l'una o l'altra classificazione; la più parte si inducono a darne la descrizione senza curarsi di identificarli coi precedenti o di differenziarneli, e bene spesso as- segnano loro nuove denominazioni. Ciò può dipendere da diverse cause dirò così personali, quali la impurezza delle culture, l’ insufficiente consultazione della letteratura. il desiderio di scoprire e battezzare cose nuove e via di- cendo. Ma, fatte poche eccezioni, ritengo che le ragioni per cui tanto sì stenta ad uniformare la classificazione dei fermenti lattici, debbano ricercarsi principalmente nei tre fatti seguenti: a) l'inadeguata durata delle osservazioni; 6) il soverchio peso che in generale si dà alle proprietà morfologiche dei fermenti lattici; c) l'introduzione di criteri dì ciassificazione che sono estranei al latte. Svolgerò brevemente questi tre concetti. A) Circa la durata delle osservazioni non ho che da richiamarmi a quanto già ebbi ad esporre in una pubblicazione precedente, sulla necessità che la fissazione dei caratteri dei microrganismi del latte venga fatta sola- mente in base ad accertamenti ripetuti e prolungati (7), essendo le qualità (') Lavoro eseguito nel Laboratorio di Batteriologia della R. Scuola Superiore di agricoltura di Milano. (*) Pervenuta all'Accademia il 27 Novembre 1912. (3) Centralbl. f. Bakter., Abt. 22, vol. V, 1899. (4) Connecticut Agricult. Exper. Station, 18° Annual Report, 1906. (5) Centralbl. f. Bakter., Abt. 2%, vol. XVIII, 1907. (6) U. S. Department of Agriculture, Bureau of Animal Industry, Bull. 154, 1912. (?) Gorini, Rend. R. Ist. Lomb. Sc. e Lett, XL, 1907, pag. 947. 7 — 791 — del latte suscettibili di sensibili variazioni sia ab origine, sia per cause inerenti alle alterazioni a cui va incontro il latte o prima di arrivare in laboratorio o nel laboratorio stesso a seconda della temperatura alla quale è spinto per la sterilizzazione, a seconda che la sterilizzazione data da mi- nore o maggior: tempo, e via dicendo. Aggiungerò che anche la dose della semente può influire sul comportamento di un batterio nel latte. Tutto ciò lo deduco dall’osservazione accurata di questo comportamento che vado fa- cendo da anni sui trapianti periodici settimanali o al più quindicinali delle mie culture. B) Anche circa il soverchio peso dato alle proprietà morfologiche dei fermenti lattici, non ho che da rincalzare quanto già accennai in precedenti scritti (*), e cioè che erroneamente alcuni autori tendono a stabilire un rap- porto fra la forma e le attività fisiologiche (potere acidificante, filotermia ecc.) di detti fermenti, tanto più che non è sempre facile precisare la forma di questi microrganismi. Prova ne sia che uno stesso fermento è da alcuni Autori messo fra i cocchi, da altri fra i bastoncini, e che alcuni fanno tre gruppi morfologici di fermenti lattici, altri invece due soli. Ricordo anche le mie osservazioni sul Bacz/lus minimus mammae (*). C) Veniamo al terzo punto: l'assunzione di criterî differenziali che sono estranei al latte. Molti autori per distinguere i fermenti lattici vanno ad indagare l’azione su terreni o materiali di nutrizione diversi dal latte, quali la gelatina, il glucosio ecc., vale a dire sopra albuminoidi o carbo- idrati che non sono nè la caseina nè il lattosio. Ora, se in tesi generale per l'identificazione di un batterio è sempre utile possedere il maggior numero possibile di elementi, per il caso speciale della classificazione dei fermenti del latte parmi che il sistema di valersi di criterî estranei al latte venga a complicare anzichè agevolare il còmpito e in ogni caso presenta il pericolo di far passare in seconda linea ciò che deve stare in prima linea nei riguardi del latte e dei derivati. Ricordo 2 questo proposito le mie ricerche sui cocchi acido-presamigeni del formag- gio (5); per questi cocchi è stato proposto da alcuni autori il nome di Micrococeus casei liquefaciens in base al loro potere fondente sulla gela- tina. Ora io non ho potuto accedere a tale proposta, avendo dimostrato che non tutti i cocchi acido-presamigeni rivelano il loro potere proteolitico nelle culture in gelatina; per cui se per la loro ricerca e sistematica ci si atte- nesse a tale criterio ed alla conseguente denominazione di /iguefaczens, si finirebbe a trascurarne un gruppo non indifferente, che pur meritano di es- sere messi fra i caseolitici, per il solo fatto che non fondono la gelatina di () Gorini, Rend. R. Acc. Lincei, XXI, 2° sem., 1912, pag. 472. (*) Gorini, Rend. R. Ist. Lomb. Sc. e Lett. XL, 1907, pag. 947. (8) Gorini, Rend. R. Acc. Lincei, 1910, 2° sem., pag. 150. MI — cultura. Ond'è che io mi trovai indotto ad assegnare invece a detti cocchi il nome più adatto di Micrococcus casei acidoproteolyticus. Da tutte queste premesse concludo che per la classificazione dei fer- menti lattici sia consigliabile di attenersi piuttosto alle proprietà fisiochi- miche che alle morfologiche, e di basarsi sul loro comportamento in latte studiato colla massima accuratezza e sul maggior numero possibile di cul- ture in trapianti successivi periodici. Ed ora senza nessun intendimento di proporre delle classificazioni nè di creare nuovi nomi, credo opportuno di esporre i criterî secondo i quali io tengo ripartiti i fermenti lattici della mia collezione, per regolarmi nei trapianti che vado facendo periodicamente da oltre 12 anni in latte steri- lizzato (in autoclave a 120° C. per 20 minuti). 1. Un primo criterio sta nel potere gasificante, separando nettamente i fermenti lattici specifici da quei fermenti lattici gasogeni che entrano piuttosto nei gruppi del Bacterium Coli e del Bacterium lactis aerogenes. 2. Un secondo criterio sta nel potere caseolitico, distinguendo i fermenti che nelle culture non ridisciolgono il coagulo latteo, da quelli che lo ridi- sciolgono, sempre s'intende mantenendo reazione acida. In questa distinzione però procedo molto cautamente, imperocchè vi sono fermenti lattici che mo- strano subito fin dall'inizio delle culture il loro potere caseolitico, altri in- vece che lo rivelano solamente in progresso di tempo. Talora il ritardo di- pende dalla temperatura a cui è stata fatta la cultura. In generale, come già dimostrai anni addietro (*), la temperatura elevata è più favorevole al- l'attacco del lattosio che a quello della caseina, onde nelle culture tenute a simili temperature la dissoluzione del coagulo tarda a manifestarsi; al- l’incontro nelle culture tenute al di sotto di 30° C. la caseolisi si compie contemporaneamente alla saccarolisi. Notevole è l’aspetto offerto talvolte dal coagulo in queste condizioni. Bisogna sapere che il coagulo in via di pepto- nificazione assume colore giallognolo mentre il coagulo inattaccato ha colore biancastro; orbene, si dànno delle culture di questi fermenti lattici proteo- litici che presentano un coagulo bicolore, cioè giallognolo nella zona supe- riore, biancastro nella zona inferiore, alla quale la digestione si estende so- lamente in seguito; nelle culture di altri fermenti invece la peptonificazione avviene di botto in tutto il coagulo con separazione di siero per lo più laterale ; in altri termini, nei primi la peptonificazione si mostra più strettamente legata all'accesso dell'aria che nei secondi. Ma vi sono però dei fermenti lattici i quali, a qualunque temperatura siano messi a coagulare, non accennano a ridisciogliere il coagulo se non tardivamente; e questa dissoluzione avviene (') Gorini, Bullettino Ufficiale del Ministero di Agricoltura, 1897 e Annales de Mi- crographie, 1897, IX, pag. 433. — 199 — preferibilmente a temperatura bassa. Così per esempio vi sono dei fermenti lattici proteolitici, i quali a 85° C. dànno un coagulo sodo, cre se rimane a quella temperatura si conserva compatto e a poco a poco essica per eva- porazione, comportandosi come i coaguli dati dai fermenti lattici non proteo- litici; ma se invece il coagulo viene portato per tempo alla temperatura ambiente, va lentamente sgretolandosi e disciogliendosi gradatamente in siero giallo citrino. Curiosa è la formazione di caverne, di anfrattuosità. di fim- brie, di lacinie che compaiono in seno ai coaguli di questi fermenti lattici che chiamerò tardivamente proteolitici in confronto agli altri precocemente proteolitici. 3. Un terzo criterio di differenziazione dei fermenti lattici lo traggo dalla temperatura optimum di incubazione; a questo riguardo ho trovato di poter stabilire tre gruppi di fermenti, a seconda che prediligono temperature attorno ai 25° C., ai 37° C. e ai 45° C. Ve ne sono poi alcuni che sono atti a svilupparsi a tutte le temperature, dall'ambiente fino ai 45° C., altri in- vece che sono legati ad una scala termometrica piuttosto ristretta, ad es. fra 25 e 37°C., oppure fra 30 e 45°C., persino soltanto fra 30 e 37° C.; ricordo infine i fermenti lattici termofili come il Baczllus lactis termophilus da me descritto nel 1894 (1) che ha una temperatura di sviluppo fra 37° e 65° C., e i fermenti lattici psicrofili che prosperano anche a temperature infe- riori ai 10° C., come i cocchi acidopresamigeni del formaggio da me descritti (*). 4. Un quarto criterio lo derivo dalla rapidità di coagulazione, facendo astrazione, ben s'intende, dalle variazioni di vigoria vegetativa che sono ine- renti all'età delle culture da cui si fanno i trapianti. Qui trovo comodo per i miei trapianti di fare tre gruppi di fermenti lattici; quelli che coagulano in giornata, cioè nello spazio di dieci o dodici ore, quelli che coagulano da un giorno all’altro, cioè nello spazio di 24 ore, e quelli che impiegano più giorni a coagulare, ritardando persino 15-20 giorni. E questa lentezza di coagulazione non accenna a scemare stabilmente per quanto avvicinati siano gli innesti successivi. 5. Un quinto elemento di cui tengo calcolo nel raggruppamento dei fer- menti lattici della mia collezione è la durata della loro vitalità; la quale mi serve di norma per la frequenza dei trapianti. Mentre alcuni si possono trapiantare a distanza di mesi, altri resistono malamente al di là di un mese, altri infine esigono di essere rinfrescati ogni settimana o al massimo ogni quindici giorni, purchè si abbia cura però di anmentare in tal caso la quantità di semente. Infatti, mentre nella generalità dei casi, per i trapianti da. provetta a provetta (contenenti circa 10 cc. di latte) mi valgo, come di consueto, di un'ansa di semente; per alcuni fermenti ho riconosciuto la ne- (*) Gorini, Giornale della R. Società Italiana d’Igiene, XVI, 1894. (£) Gorini, Rend. R. Acc. Lincei, XX, 2° sem., 1911. RenpIcONTI, 1912, Vol. XXI, 2°Sem. 103 — 794 — cessità di adoperarne almeno tre anse; imperocchè quando usavo anche per questi una sola ansa, mi accadeva che una parte dei trapianti non riusciva a coagulare, ancorchè facessi trapianti molto avvicinati. Ciò sta a dinotare una ben scarsa vitalità di questi fermenti almeno nelle culture artificiali in latte sterilizzato; onde si spiega come molti di essi finiscano coll’andar per- duti nelle collezioni e possano passare anche inosservati. 6. Qui tornano in acconcio alcune osservazioni relative al potere acidi- ficante dei fermenti lattici. A tutta prima parrebbe presumibile che detto potere sia proporzionale alla loro rapidità di coagulazione sul latte. Ma in realtà non è sempre così. Certamente quel gruppo sunnominato di batteri che coagulano il latte in giornata, cioè nello spazio di 10-12 ore, posseggono un alto potenziale acidificatore, il quale può spingersi fino oltre 50 gradi Soxhlet (cioè 50 c.c di soluzione quartinormale di soda per 50 cc di cultura in latte); ma fra i batteri che coagulano solamente in capo a parecchi giorni di incubazione ve ne ha che producono un grado di acidità più elevato di altri fermenti i quali coagulano bensì in tempo più breve, cioè in 24-48 ore, ma con acidificazione piuttosto debole; sono questi ultimi i fermenti lattici che segregano anche un enzima presamico, per cui la coagulazione del latte avviene per l'azione associata dell'enzima coll’acidità, ancora prima che questa abbia raggiunto un grado sufficiente per determinare la precipitazione della caseina. 7. L'argomento dell’ enzima presamico mi induce ad esporre un altro ordine di osservazioni. Come già ebbi a dire in precedenti lavori, la guida che mi ha condotto a scoprire la formazione di enzima presamico presso alcuni batteri acidifi- canti del latte, fu la constatazione della loro facoltà caseolitica; ciò in base alla cognizione che la digestione della caseina è generalmente preceduta da una trasformazione della stessa operata da un enzima presamico, Laonde, ogniqualvolta ho incontrato un fermento lattico proteolitico mi sono curato di verificare se fosse anche presamigeno. Debbo dire che tale accertamento mi riuscì facile nella maggior parte dei casi; in alcuni casi però mì è fallito per qualche tempo e mi fu possibile assodarlo solamente in seguito a ripetute prove, variando l'età della cultura e la temperatura di incubazione. ‘A dilucidazione di ciò, ricorderò che il metodo da me adottato per la ricerca dell’enzima presamico consiste nel filtrare la cultura attraverso can- dela Chamberland e nell’aggiungere porzioni di filtrato, variabili da !/, a 2 cc., a provette di 10 cc. di latte sterilizzato che vien posto a 35°-37 C. uni- tamente ‘ad altre provette del medesimo latte per controllo. Io mi attengo a questo metodo perchè lo giudico il più sicuramente al riparo dagli errori che possono verificarsi quando si facciano i saggi con culture non filtrate o su latte non sterilizzato. Riconosco peraltro che il mio metodo non è il più sensibile, cioè non è il più adatto a rivelare la presenza di deboli quantità 5 — di enzima; imperocchè in primo luogo una parte dell'enzima può, com'è noto, rimanere trattenuto nella parete della candela filtrante; in secondo luogo il latte sterilizzato a temperatura elevata perde assai, come pure sì sa, della sua attitudine a coagulare per opera del presame. Aggiungasi che esperimentando sul filtrato noi eliminiamo dalla reazione i corpi batterici e conseguentemente la parte endocellulare dell'enzima (endoenzima). A questo riguardo merita di essere segnalato il caso occorsomi di fermenti lattici che, mentre sì dimostravano attivamente proteolitici, non mi hanno rivelato la proprietà presamigena se non quando dopo replicati tentativi mi indussi ad assaggiarne culture molto invecchiate, nelle quali verosimilmente era avve- nuto un disfacimento cellulare con passaggio degli endoenzimi nel liquido di peptonificazione. Pertanto, sebbene riterrei arrischiato ammettere in linea assoluta l’as- sociazione costante delle attività presamigene colle attività caseolitiche dei fermenti lattici, credo bene però di asserire che io finora l’ ho sempre osser- vata e che le poche volte in cui mi è sorto qualche dubbio, mi è riuscito di dissiparlo insistendo opportunamente nelle ricerche. Del resto, ripeto, l'argomento merita di essere studiato caso per caso, anche come contributo alla verata quaestio della unicità o duplicità degli enzimi coagulante e proteolitico, contributo che io ho già intrapreso a recare in un lavoro precedente (’). 8. A questo tema si riannoda l'altro non meno importante della qualità dei prodotti di caseolisi. Sottoponendo il siero ottenuto per filtrazione delle culture di fermenti lattici proteolitici alla ricerca dei diversi derivati azotati, mediante i suc- cessivi trattamenti con acido acetico, tannico, fosfovolframico, e con barite, è facile accertare che la demolizione della caseina non si arresta ai peptoni e alle albumosi, ma scende anche più in basso fino agli amino-acidi e al- l'ammoniaca. Debbo dire però di aver osservato che il processo di degra- dazione della caseina varia a seconda della temperatura a cui i fermenti sono tenuti, e segnatamente a seconda del grado di acidificazione rag- giunto. Questa differenza è rilevabile anche semplicemente dall'aspetto e dal sapore del siero di solubilizzazione. Lo stesso batterio quando è coltivato a temperature basse, con conseguente inacidimento debole e lento, espelle un siero torbidiccio, gialliccio, e amarognolo, mentre se è coltivato a tem- perature elevate, con conseguente inacidimento più rapido e intenso, esprime un siero limpido, pressochè incoloro o appena leggermente citrino e di sapore acidulo punto disgustoso. Degna di nota in quest'ordine d'idee è anche la dimostrazione da me data di un fermento lattico tilante la cui cultura in latte perde la vischiosità coll'aumentare dell'inacidimento (°). (*) Gorini, Rend. R. Ist Lomb. Sc. e Lett., XLI, 1908, pag. 117. (2) Gorini, Rend. R. Ace. Lincei, XXI, 1912, 2° sem. SOG — Pertanto anche lo studio dei prodotti di demolizione della caseina per parte dei fermenti lattico-proteolitici deve essere condotto con cura su nu- merose culture, variando la temperatura di incubazione e tenendo nota del grado di acidificazione. Come si vede, parecchi sono i caratteri fisio-chimici sotto i quali i fermenti lattici meritano di essere differenziati, in base ad uno studio ap- profondito del loro comportamento in latte senza bisogno di ricorrere a cri- terî estranei, che offrono il pericolo di misconoscere le strette affinità di alcuni tipi di fermenti lattici o di assimilare specie distinte di detti fermenti. Chimica. — Tra nuova ossima della santonina ("). Nota di Guipo Cusmano, presentata dal Socio A. RortI. Per la santonina, chetone asimmetrico, erano prevedibili due ossime stereoisomeriche; invece, sin ad oggi sì conosceva solamente quella preparata da S. Canizzaro (*) nel 1885. È ben vero che I. Klein (*) ne descrisse un'altra con p. f. 202°, ma P. Gucci (*) dimostrò trattarsi dell'antica ossima impura. Come risulterà dalla presente Nota, si è ora riusciti a ottenere la - seconda ossima della santonina. In precedenti ricerche (*) si è posto in rilievo che molte isonitrammine dei terpeni, riscaldate verso 100° con alcali, perdono acido iponitroso, trasfor- mandosi in corpi con un doppio legame unito al carbonio che portava il gruppo isonitramminico. La reazione avviene celeremente e in soluzioni diluite, cosicchè si rendono improbabili ulteriori azioni degli alcali sulle tanto instabili molecole terpeniche. Si è supposto che lo stesso potesse accadere per le due isonitramminossime @ e 8 descritte tempo fa per la santonina (°), e che. quindi, da esse si sarebbe passati a due ossime. Difatti, riscaldando quelle sostanze con la quantità equimolecolare di idrato sodico normale, sì sviluppa protossido d'azoto, e dal composto # si forma l’ossima di Canizzaro, e da quello a una nuova ossima. Esse si distinguono per questi caratteri: Ossima di Cannizzaro. — Fonde a 216°-218°, meno solubile nell'acqua e nell'alcool dell’altra; cristallizza con una mol. d’acqua; si scioglie negli (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale dell’Ist. di Studî superiori in Firenze. (2) Ber. deut. Ch. Gesell., 18, 2746. (3) loc. cit., 26, 412. (4) Comunicaz. scientif. R. Acc. Fisiocritici di Siena, giugno 1897. (5) R. Ace. Lincei, XIX, 5%, 1° sem., pag 747 (1910); Gazz. ch. ital., XLII, I. (5) Francesconi e Cusmano, Gazz. ch. it., 39, II (1909). 5 — 797 — alcali caustici, e riprecipita inalterata da essi per mezzo degli acidi forti; senza sapore apprezzabile; per idrolisi, restituisce la santonina. Nuova ossima. — Fonde decomponendosi a 230°; discretamente solubile nell'acqua, solubilissima in alcool; cristallizza con 14 H,0; si scioglie negli alcali caustici, ma la soluzione, trattata con la quantità molecolare di acidi minerali forti, depone un acido santoninico, dal quale si rigenera l’ossima stessa per mezzo dei desidratanti; sapore amaro. Anche questa ossima, per idrolisi, dà santonina, per cui si può conchiudere ch'è stereoisomerica con quella antica. Si tratta ora di stabilire quali delle contisurazioni (I) e (II) (adottando per la santonina la formola che si deduce dalle recenti ricerche di Angeli e Marino) (') CH; | C HO HC 7 O Rc N=- NS ch | Ri spetti a ciascuna ossima. Per tale intento non ci si può valere del criterio della relativa stabilità delle due sostanze, perchè queste non si trasformano l'una nell'altra, per azione degli acidi o degli alcali. Sembrami, tuttavia, d'essere giunto egualmente a fissare le due formole, tenendo conto del comportamento dell'anello lattonico nei due isomeri. Si è detto, che per uno si chiude spontaneamente non appena si decompone il sale alcalino con la quantità necessaria di un acido minerale forte, mentre per l'altro, nelle stesse condizioni, rimane aperto. Ora, come si rileva dalle formole ON ANS OH ATA OH i) 99 N= COOH NAST NAGAI Gn \ SA COOH a seconda dell’orientamento dell'ossidrile ossimico, è possibile che il carbos- sile degli acidi santoninici delle due ossime resti vicino o si allontani dal- l'ossidrile alcoolico, e che, quindi, l'anello lattonico si chiuda più o meno facilmente. Da ciò segue, che l'ossima per la quale l’acido santoninico libero (1) Rend. Acc. Lincei (1907), XVI, 1° sem., pag. 159. — 109 ; non è stabile, vale a dire l'ossima di Cannizzaro, avrà la formola (I); e l'altra, di cui l'acido è notevolmente stabile, la formola (II). Qui è da accennare, che la configurazione delle suddette ossime si ri- peterà nelle due serie di sostanze da cui esse si possono derivare, cioè le idrossilammine- e le isonitrammin-ossime @ e # della santonina ('); e, infatti, solo la serie @ (a cui appartiene la nuova ossima) fornisce acidi santoninici stabili. Decomposizione dell''isonitrammin-ossima B della santonina: - Ossima di Cannizzaro. — Gr. 0,5 dell’isonitrammina # si disciolgono in cc 1,55 (1 mol.) d'idrato sodico normale, e si riscalda la soluzione su b. m. bollente. Si nota un tumultuoso sviluppo di protossido d'azoto; quando questo cessa, e dopo raffreddamento, si aggiunge la quantità molecolare di acido solforico diluito. Precipita subito, in forma cristallina, l’ossima descritta da Canniz- zaro, la quale, quindi, avuto riguardo al modo di formazione, si potrebbe contrassegnare con f. Decomposizione dellisonitrammin-ossima a della santonina. - Nuova ossima. — Gr. 1 dell’isonitramminossima « si sciolgono in ce 3,1 (1 mol.) di idrato sodico normale. Riscaldando, si ha anche qui sviluppo di protossido d’azoto; ma aggiungendo, dopo raffreddamento, ce 3,1 di acido solforico nor- male, non si forma alcun precipitato. Se, però, si mette ancora qualche goccia d'acido e sì riscalda, appare subito una bella sostanza in foglioline madreperlacee, la cui quantità aumenta con il raffreddamento. Il rendimento è notevole; nelle acque madri si riscontrano santonina e idrossilammina. La nuova ossima è discretamente solubile in acqua calda è molto solubile in alcool, anche freddo; cristallizza bene dal miscuglio dei due solventi, in aghetti duri, bianchi, rilucenti. Possiede un sapore fortemente amaro, mentre quella di Cannizzaro non ha sapore apprezzabile. Riscaldata, dopo i 180° va colorandosi in rossastro; a 230° fonde con decomposizione. Analisi: gr. 0,1007 : CO, gr. 0,3667; H.0 gr. 0,1598. Trovato °/ Calcolato per Ci: Ha NO +14 H,0 C 62,5 62,4 H 30 7,6 L'ossima (che potrebbe indicarsi con @) si discioglie agevolmente negli acidi minerali e negli alcali caustici diluiti. Nelle soluzioni dei primi si idrolizza in santonina e idrossilammina. Cloridrato. — Si forma, trattando l'ossima con acido cloridrico con- centrato: fogliette bianche le quali, conservate in essiccatore, perdono acqua e si cambiano in prismi grossi, trasparenti. Sotto l’azione del calore, questo cloridrato si altera a grado a grado, sino che a 168° fonde. Nell’acqua, (©) Lo Ge — 799 — in cui è poco solubile, subisce idrolisi e dà l’ossima a p. f. 230°, insieme con santonina e cloridrato d'idrossilammina. Acido santoninico. — L’ossima fusibile a 230° si discioglie a freddo nella quantità molecolare di idrato sodico. Decomponendo il sale con l'esatta quan- tità di acido, si depongono lentamente rosette di cristalli incolori, setacei. Il nuovo prodotto reagisce fortemente acido. Alla temperatura di 80° fonde, poi svolge acqua e risolidifica; intorno a 180° si colora in rossastro ; infine a 280° fonde e si decompone. Gr. 0,2532 si tengono a 100° per circa 20 ore: si elimina acqua nella proporzione del 19,87 °/, e si ottengono gr. 0,2029 del- l’ossima fus. a 230°. Il composto p. f. 80° è quindi l'acido santoninico cor- rispondente a questa e, in base ai dati riferiti, si calcola per esso la formola CH 0,N+34H.0. L'ossima si ripristina, oltre che nel modo anzidetto, anche per riscaldamento con acidi diluiti, per cristallizzazione dall'alcool a 90°, e infine, con il lungo soggiorno in essiccatore ad acido solforico. Per un ulteriore confronto tra l'antica e la nuova ossima della santo- nina sì è fatto agire sulla seconda l’acido nitroso, seguendo il procedimento usato da Francesconi e Ferrulli (!) per la prima; inoltre, si è fatto agire il solfato dimetilico su ambo le ossime. Derivato pernitrosilico della nuova ossima. — Un gramma dell’ossima sì scioglie in ce. 9 di acido acetico, scaldando leggermente, e si aggiunge una soluzione acquosa concentrata di un grammo di nitrito sodico. Dopo qualche tempo si deposita un precipitato cristallino, giallognolo, di sapore amaro; il quale, cristallizzato dall'alcool, si ha in forme prismatiche, libere o geminate. Riscaldato, dopo 175° va picchiettandosi in rosso; a 197° fonde con sviluppo GASssoso. Analisi: gr. 0,1101:C; gr. 0,2342 ; H.0 gr. 0,0685. Trovato °/o Calcolato per C,3H1s NN044-H, 0 (6; 58,06 58,98 H 6,91 6,55 Differisce dalla pernitrososantonina ottenuta dall’ossima di Cannizzaro, per il punto di fusione e per la mol. di acqua di cristallizzazione; ma, come quella (*), restituisce la santonina, dopo riscaldamento con alcali, e colora in azzurro la soluzione solforica di defenilammina. Eteri metilici dell'ossima di Cannizzaro. — Sciogliendo questa nella quantità doppia molecolare d'idrato di sodio, e aggiungendo due mol. di sol- (Gazz dati da I 168, (*) Francesconi e Ferrulli, loc. cit. — fato dimetilico, dapprima sì ha un liquido limpido, poi si va formando una sostanza oleosa, la quale a poco a poco solidifica. Il prodotto si discioglie nell'alcool bollente: ma, con il raffreddamento, la maggior parte si depone di nuovo, in aghetti lucenti, p. f. 162°; nelle madri rimane un altro composto con p. f. 196° circa. La prima frazione, però, non è una sostanza unica; ma per mezzo di successive cristallizzazioni dall’acido acetico e dall'alcool, sì divide in una parte meno solubile, che fonde a 184°, e in un'altra p. f. 196° circa. Per ambedue, l’analisi dà risultati corrispondenti a C,6H33 0, N, cioè ad un etere monometilico (trovato: C°/ 66,0 H 7,9 ; cale.: C 65,47, H 7,9). La frazione p. f. 184° si presenta in bei cristalli aghiformi, bianchi setacei, i quali ingialliscono lentamente alla luce. Si scioglie con difficoltà negli acidi e negli alcali; dalle soluzioni alcaline riprecipita inalterato con acido car- bonico, per cui si tratta di un etere carbossilico. La frazione a p. f. 196°, che si ottiene concentrando fortemente le acque madri del composto ora descritto, differisce da questo, oltre che per il p. f. e la maggiore solubilità in alcool e in acido acetico, anche perchè si discio- glie agevolmente in acido diluito; cristallizza in aghi lunghi e sottili. Etere metilico della nuova ossima. — Si ottiene nelle condizioni sopra accennate; dalle soluzioni alcooliche, lentamente concentrate, si depone in grossi cristalli prismatici, liberi o geminati, p. f. 185° (un miscuglio di esso con l'etere dell'ossima di Cannizzaro p. f. 184°, fonde verso 160°). Poco so- lubile nelle soluzioni di alcali caustici e di acidi. Possiede la formola C,6H330, N. Ringrazio la laureanda signorina C. Rossi del pregevole aiuto presta- tomi in questa ricerca. MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI G. ManciNI. Petri Franceschi, vulgo Della Francesca, pictoris Burgensis, De quinque corporibus reqularibus. Pres. dal Socio VOLTERRA. RELAZIONI DI, COMMISSIONI Il Corrisp. REINA, a nome anche del Corrisp. FANTÒLI, relatore, legge una Relazione sulla Memoria dell'ing. L. ALLIEVI intitolata: Teorza del Colpo d’ariete; la Relazione conclude col proporre l'inserzione della Memoria nei volumi accademici. Le conclusioni della Commissione esaminatrice, messe ai voti dal Pre- sidente, sono approvate dalla Classe salvo le consuete riserve. — 801 — PERSONALE ACCADEMICO Il Corrisp. LAuRICELLA legge una Commemorazione del defunto Corri- spondente prof. CESARE ARZELÀ. Questa Commemorazione sarà pubblicata nel fascicolo prossimo. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosevicH presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle dei Soci TARAMELLI, SACcARDO, KARPINSKY, e del prof. DE Toni; fa inoltre particolare menzione della pubblicazione del prof. A. Fa- varo: Amici e Corrispondenti di (Galileo Galilei. — XXIX. Vincenzio Viviani, di cui mette in luce l'interesse e la importanza; di una Bzografia di Giorgio Reichenbach pubblicata da W. von Dyck e donata dal Museo tedesco di Monaco; e del fascicolo XXVII contenente i risultati delle Cam- pagne scientifiche del Principe di Monaco. Il Socio VoLTERRA fa omaggio, a nome dell'autore prof. Le Bon, di varie pubblicazioni, intrattenendosi su di una Biografia e bibliografia analitica degli scritti di A. Poincarè, Villustre matematico e Socio straniero della Accademia, di cui la scienza lamenta la recente perdita. Il Socio De STEFANI offre le due seguenti pubblicazioni delle quali discorre: A. MARTELLI: L'isola di Ustica, studio geologico-petrografico. — O. DarnELLI e G. MARINELLI: Azsultati scientifici di un viaggio nella Colonia Eritrea. CORRISPONDENZA Il Presidente BLASERNA comunica alla Classe di aver inviato gli augurî dell’Accademia a S. M. la ReGINA MADRE col seguente telegramma : S. E. Marchesa ViLLamarINA Dama d’Onore di S. M. REGINA MADRE Arenzano. In questa fausta ricorrenza prego esprimere all’Augusta Sovrana augurî profonda- mente sentiti a nome Reale Accademia Lincei e mio. Dopo tanti dolori patiti voglia Cielo concederle un’èra di pace serena. Presidente Lincei BLASERNA. RenpICONTI. 1912. Vol. XXI, 2° Sem. 104 — 802 — A questo telegramma S. M. faceva rispondere nel seguente modo: On. senatore prof. BLASERNA, presidente R. Accademia Lincei — Roma. Sua Maestà la Regina MADRE che sa a quali devoti sentimenti sieno ispirati gli auguri da lei oggi espressi in nome anche cotesta R. Accademia, la ringrazia di cuore dell’affettuoso graditissimo pensiero. La Dama d’onore: MARCHESA DI VILLAMARINA. E. M. MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI Mancini G. Petri Franceschi, vulgo Della Francesca, pictoris Burgensis, De quinque corpo- nibus@mesularibusk(pres-sdaleSocionVolrenso)i — Gee Pag RELAZIONI DI COMMISSIONI Reina e Fantoli (relatore). Relazione sulla Memoria dell'ing. Z. Allievi: «Teoria del Colpo Ciconio ee e RE) PERSONALE ACCADEMICO Lauricella. Commemorazione del Corrispondente prof. Cesare Arzelà (*). . . .. .. » PRESENTAZIONE DI LIBRI Millosevich (Segretario). Presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle dei Soci Z'aramelli, Saccardo, Karpinsky, dei proff. De Toni, A. Favaro ecc... . . » Volterra. Fa omaggio di varie pubblicazioni del prof. Le Bon e ne parla. . . . .. » De Stefani. Offre alcune pubblicazioni dei proff. JMartelli, Dainelli e Marinelli e ne di- SCONO EN RP. a OO CORRISPONDENZA Blaserna (Presidente). Comunica un telegramma di auguri inviato a S. M. la Recina MaDRE e quello di ringraziamento fatto trasmettere da S. M. all'Accademia . . .... » (*) Questa Commemorazione sarà pubblicata in un prossimo fascicolo. 800 801 RENDICONTI — Dicembre 1912. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali Seduta del 1° dicembre 1912. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Righi. Nuove esperienze di rotazione ionomagnetica. . . . “Pag: Nasini e Porlezza. Sulla esistenza di acque naturali O, e Sor abalnli io del feno- meno. L'Acqua Forte delle Bagnore nel Monte Amiata . LL... De. Stefani. Te ‘isole, maltesi, Cenni geolosielti@ i . RR Piutti. Presenza dell’elio nei berilli (*) . . .. SEO VOTO) Amoroso. Sopra l’esistenza di alcuni sistemi cquinomaliortaonli sii dal Corrisp. REMOTE SINNI ; Sas ò IRPTR SEI. ED) Laura. Sopra le vibrazioni sirio sot di un corpo o immerso in un fluido (pres. dal Socio Somigliana). . . . è 5 ARA O Levi. Serie di Taylor e funzioni analitiche di) più Variabili (oil; dal Cono. Pedone (i Sibirani. Sopra le funzioni ordinatrici (pres. dal Socio Somigliana) (*). . /. 0...» Magistretti. Ilmenite delle cave di pietra ollare al Sasso di Chiesa (Val Malenco) (pres. dal Corrisp Ar) Re È eno] Amadori. Sulla tendenza a combinarsi n alogenna e fosfati dello sie meno II. Fida cloruro e fosfato di piombo (pres. dal Socio Ciamician). . °°... Cambi. Sui solfoalluminati d’argento (pres. dal Socio Masini (). LL...» Sborg?. Sui borati. Sistema B?03-(NH*)*0-H®0 a 30° (pres. 14.) (f/. 0... Mazzucchelli e Greco d’Alceo. Spettri di assorbimento di alcuni sali di uranio (pres. dal SOCIO PLACARE Bui, ER) Pantanelli. Su la supposta origine europea “al cancro americano del castagno (res dal Socio AC400 E Ì Rs) Munerati. Sulla recettività del Gimenai per Tai carie in ranno Gi no di semina (pres. dalfSocio Riz IO sE 3 ° SAI Petri. Ricerche sulla malattia del Casta detta dell’ inchino dra. dal ao Cu- 010) A NEINE RS A A) Id. Ulteriori ricerche ca salata del co. detta delitto fica Id) (}) » Cotronei. Sullo sviluppo e sullo accrescimento degli Anfibi. I. Le azioni morfonogetiche e il movimento (pres. dal Socio Grassi) . . . È SR, Bandi. Contributo allo studio sulla identità io [ishmaniosi Roia di liune reazioni biologiche) (pres. /d.) . . . . . SIPARIO) Gorini. Contributo alla differenziazione dei pei lattici (e dal 0 Brios) RT) Cusmano. Una nuova ossima della santonina (pres. dal Socio Roli) . . . LL.» 790 796 (Segue în terza pagina) (*) Questa Nota sarà pubblicata in uno dei prossimi fascicoli. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. Pubblicazione bimensile. Roma 15 dicembre 1912. Ni. 12. SA DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CCCIX. 1912 SEE Ri Q EN TA. RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 15 dicembre A912. Volume XXI. — Lascicolo 12° e Indice del volume. 2° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1912 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE I. Col 1892 sì è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltrei Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca= demia; tuttavia se î Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz'altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 4) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell'Accademia. 8. Nei primi tre casi, previsti dall'art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che,i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50.se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. RENDICONTI [DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 15 dicembre 1912. P. BLASERNA Presidente MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Chimica. — Sulla esistenza di acque naturali ozonizzate e probabili teorie del fenomeno. L'Acqua Forte delle Bagnore nel Monte Amiata. Nota del Socio R. NaAsini e di C. PoRLEzzA. (*). Considerazioni sull'eventuale origine dell’osono nel gas e nell'acqua delle Bagnore. — Il fatto notevolissimo, e (per quanto a noi consta) per la prima volta accertato, della presenza dell'ozono in un'acqua minerale, me- rita alcune considerazioni intese a formulare una ipotesi sul modo di for- mazione dell'ozono nel nostro caso; non crediamo quindi inopportuno il pas- sare brevemente in rassegna i fenomeni e le reazioni che possono dar luogo a produzione d’ozono, per discutere se qualcuno di essi possa adattarsi al caso nostro. da Al punto attuale delle nostre conoscenze si ha formazione. d’ozono nei casì seguenti : 1. Mediante le scariche elettriche oscure: metodo, questo, di prepara- zione dell'ozono, così noto, che è inutile di insistervi. 2. Per via pirogenica: a questo proposito abbiamo in primo luogo il lavoro di Troost e Hautefeuille (*), i quali per semplice riscaldamento dello (*) V. questi Rendiconti, pag. 740. (1) Comptes Rendus, 84, pag. 946 (1877). RenpIcoNTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 105 — 804 — ossigeno a 1300°-1400° poterono constatare la trasformazione dell'ossigeno in ozono; inoltre Fischer e Braehmer (') hanno trovato che si forma ozono in tutti i processi di combustione; infine Brunck (*), riscaldando varî peros- sidi alla loro temperatura di scomposizione, ottenne (per alcuni in atmosfera inerte, per altri in corrente di ossigeno) ozono in quantità più o meno grande. 3. Mediante raggi catodici e raggi ultravioletti (*). 4. Per azione delle sostanze radioattive (4). 5. Nell’elettrolisi di alcuni acidi e loro sali (©). 6. Nella lenta ossidazione del fosforo all'aria umida. 7. Per azione del fluoro sull’acqua (°). 8. Per azione dell'acido solforico concentrato : a) sul perossido di argento (Schònbein) ; 6) sull'acqua ossigenata e suoi sali (”); c) sull'acido persolforico e suoi sali ("); d) sull'acido percarbonico e suoi sali ("); e) sui permanganati (°). 9. Il succo di alcuni funghi può trasformare l'ossigeno in ozono (Schòn- bein); ciò fu confermato da Phipson (8) il quale trovò anche che per azione dell'ossigeno sui succhi azotati di piante può aversi formazione di ozono. 10) Il platino, i fermenti e diverse sostanze animali e vegetali produ- cono ozono dall'acqua ossigenata (Schonbein) (°). Come risulta dal rapido sguardo così dato ai modi di formazione dello ozono (naturalmente, noi abbiamo cercato di ‘citare soltanto i processi sui quali ci pareva non potesse esistere dubbio), assai pochi sono quelli che possono, nel nostro caso, essere presi in considerazione, tanto più che l'acqua è com- ‘pletamente radioinattiva: si può soltanto supporre : 1) che l'ozono siasi formato nel gas per via pirogenica dall'ossigeno in esso contenuto: ma questa ipotesi è così arrischiata che ci contentiamo di accennarla; n 2) che nell'acqua sia contenuta qualcuna di quelle sostanze che second Schònbein e Phipson (v. processo 9), possono trasformare d’ossigeno in ozono. (1) Berl. Ber., 39, pag. 940 (1906). (è) Berl. Rer., 26. pag. 1790, e Zeitschr. f. anarg. Ch. 0, pag. 222 (1895). (*) Berl. Ber., 38, pag. 2633 (1905), (Fischer e Brachmer). (4) R. Nasini e M. G. Levi, Gazz. chim. îtal., 38, parte II, pag. 615 (1908). (5) Fischer u. Massenez, Zeitschr. f. anorg. Ch., 52, pp. 202, 229 (1907). (©) Moissan, Comptes Rendus, /29, pag. 570 (1899). (7) Arnold e Mentzel (Berl, Ber., 23, pag. 2902 [1902]) hanno sottoposto al con- trollo della reazione colla tetrametilbase tutti questi modi di formazione dell’ozono, e noi quindi rimandiamo al loro lavoro per i dettagli. Re) (8) Comptes Rendus, 43, pag. 864. (*) Per più dettagliate notizie sulla letteratura dell'ozono rimandiamo all'ultima edizione del trattato Gmelin-Kraut, vol. I, /, pag. 28. — 305 —- Un'altra ipotesi che pure si può avanzare è quella relativa al modo di formazione 10; noi infatti sappiamo che in moltissime autossidazioni si ha; formazione d'acqua. ossigenata: questa poi, per azione di speciali sostanze: potrebbe fornire ozono. Sulle autossidazioni in genere sì è andata formando una letteratura ab-. bastanza vasta, e sono state formulate diverse teorie per ispiegare i feno- meni connessi a detti processi. Tuttavia le nuove teorie delle autossidazioni; riposano sull'ipotesi di Traube, secondo la quale l'ossigeno viene assunto come molecola, e questo provano anche le ricerche eseguite sulla cinetica delle autossidazioni. | L'assunzione di ossigeno molecolare porta poi alla formazione di com- posti perossidati che contengono l’ossigeno legato molecolarmente (molossidi), dai quali può venir fornita acqua ossigenata ed anche ozono. Vengono generalmente distinti due tipi di autossidazione (?): 1) Processi di autossidazione diretta, nei quali i corpi che agiscono sì combinano direttamente coll’ossigeno molecolare fornendo molossidi : 0 ALT e). ZO ‘0 In tal modo si comportano alcuni metalli (rubidio. sodio, potassio, piombo, ecc.), l'idrogeno allo stato atomico, alcune combinazioni metallorga- niche facilmente scindibili, lo zolfo, il solfito sodico, il fosforo, l'ossigeno atomico, l'ossido d'azoto, nonchè molti composti organici. 2) Processi di antossidazione indiretta: i corpi agenti nell’autossida- zione possono, senza combinarsi direttamente coll’ossigeno molecolare, fun- zionare da « pseudo-autossidatori », cioè predisporre un secondo corpo in modo che esso funzioni da « autossidatore secondario o indiretto » : OHR —0 Wi R=S0 Ar + |DP>ACK _+ | OHR —0 NOH (RESO A OHR —0 Hs OMIREZZO b) N Ir | => segg | H OHR —0 H.0.R-0 A queste categorie di autossidazione indiretta, nelle quali il. processo di trasformazione si compie in generale più rapidamente che non nelle autossi- dazioni dirette, appartengono quelle presentate da alcuni metalli (rame, ecc.), e soprattutto dalle combinazioni metalliche non sature (nel senso che tendono ‘ (1) Vedere Engler e Weissberg, Aritische Studien iiber die Vorginge der Autoxy- dation, Braunschweig 1904, al quale lavoro rimandiamo per i dettagli. — 806 — a saturarsi con altri atomi o complessi atomici), le quali possiedono la pro- prietà di funzionare da pseudo-autossidatori dando facilmente origine ad autossidatori secondarî; così si possono citare i sali cobaltosi, ferrosi, rameosi,- nichelosi, cromosi, manganosi, cerosi, ecc.; infine vi è tutta una serie di pseudo-autossidatori organici. Rammentiamo anche che nei processi di autossidazione può formarsi acqua ossigenata, sia direttamente sia indirettamente, e in particolare: 1) Allorchè un perossido formatosi mediante autossidazione diretta può idrolizzarsi con l'acqua e dar luogo a formazione di acqua ossigenata 79 0-08 .0H ACTTH 0 AC +H,0 AC +H;0, 0) OH \OH 2) Quando l'ossigeno molecolare può venir assunto da idrogeno attivo (in stato nascente, ecc., oppure fornito da uno pseudo-autossidatore). Infine nelle autossidazioni si può avere formazione di ozono allorchè l'ossigeno atomico può venir ossidato dall’ossigeno molecolare; questo avviene quando si formano combinazioni che cedano facilmente ossigeno atomico (p. es. : autossidazione del fosforo). Abbiamo voluto, sia pure in modo sommariissimo, accennare alle autos- sidazioni e ai fenomeni che le accompagnano, per il fatto che nell’ Acqua Forte va compiendosi continuamente un'autossidazione; tale acqua, ricca in anidride carbonica, contiene infatti anche piccole quantità di sali ferrosi (con tutta probabilità bicarbonato ferroso), e precisamente (secondo i risultati di varie prove fatte sul posto acidificando l'acqua e titolando a freddo con per- manganato To) gr. 0.001565 Fe per litro, corrispondenti a circa gr. 0.005 di bicarbonato ferroso. Il bicarbonato ferroso va poi man mano ossidandosi a spese dell'ossigeno disciolto nell'acqua, dando luogo, come prodotto finale, all’abbondante deposito di idrato ferrico che si osserva nel bottino in cui scaturisce l’acqua. Prendendo a considerare il processo di autossidazione dei sali fer- rosi, troviamo nella letteratura dati discordanti rispetto al composto super- ossidato intermedio che si forma; che tale composto sì formi, è quasi fuori di dubbio dopo le esperienze di Manchot (') il quale in opportune condizioni potè constatare anche quantitativamente la trasformazione dell'acido arsenioso in arsenico (Manchot operava in soluzione fortemente alcalina e con grande eccesso di acido arsenioso) (*?): ammesso questo, resta ancora da spiegare di (*) Zeitschr. G. anorg. Ch. 27, pagg. 404 e 420. (?) Facciamo rilevare come queste condizioni siano assai diverse, specie per le con- centrazioni, da quelle in cui noi ci siamo messi per titolare l’ozono disciolto nell'acqua. — 807 — quale natura sia il composto perossidato che si forma; infatti in questo caso, come del resto in generale per le autossidazioni indirette, il processo decorre molto rapidamente rendendo così assai difficile lo studio delle fasi intermedie del fenomeno. i Lasciando da parte il composto Fe 0. di Manchot, ritenuto da Meyer (?) assai poco probabile, altre supposizioni si possono fare che non contraddi- cono ai risultati sperimentali, come già ebbe a rilevare Just (*) nel suo studio sulla autossidazione del bicarbonato ferroso; in particolare si può ammettere: 1) Che l'azione riducente dell’idrato ferroso (componente idrolitico non saturo) formi atomi d’ idrogeno i quali siano capaci di addizionare l'ossi- geno molecolare formando acqua ossigenata : OH _0H +2HOH — 2Fe-0H-+2H H \0H Io HI0! DA 2 Fer (0) Siccome però nell’autossidazione in discorso non si è potuta riscontrare formazione di acqua ossigenata, bisogna ammettere (e questo vale anche per quanto segue) che l'azione secondaria, consistente nella cessione di ossigeno attivo, sia molto più rapida di quanto non lo sia il processo principale della formazione di acqua ossigenata. 2) Che si formi un molossido: US 708 | ) Fe (Gi x\0H 3) Che si formino, come prodotti intermedî, ferro tetravalente e acqua ossigenata : Hog We-SCE 0.+2H'+2©=H;0; In questo caso il ferro tetravalente e l'acqua ossigenata reagiscono poi con altro ferro bivalente, per dare il prodotto finale trivalente. 4) Che si abbia formazione di ioni ossigeno monovalenti : Fe: 1 @— Fe: 0. +0=0 Nel qual caso si avrebbe formazione del composto HO; studiato da Calvert (*), giacchè questo fornisce appunto ioni 0';. (1) J. f. prakt. Chem. [2] 72, 278; Centralblatt, 1905, II, pag. 1217. (*) Zeitschr. f. phys. Ch. 63, pag. 385 (1908). (*) Zeitschr. f. phys. Ch. 38, 513 (1902). AS — Da ciò tuttavia appare come la formazione di acqua ossigenata sia assai probabile, benchè, ripetiamo, non sia possibile identificarla ('). Discusso così questo punto e ammesso che si formi acqua ossigenata, resta ancora da vedere se in tale autossidazione possa formarsi ozono. Noi abbiamo voluto provare se nell’autossidazione pura e semplice del bicarbonato ferroso si formasse ozono; e a tale scopo abbiamo usufruito del dispositivo di Just. Il metodo seguìto da questi era il seguente: far. gorgogliare attraverso alla soluzione del bicarbonato ferroso un miscuglio gassoso composto di ani- dride carbonica, azoto e ossigeno, dei quali venivano opportunamente variate le percentuali a lo scopo di ottenere le costanti corrispondenti alla parteci- pazione del sale ferroso, dell'anidride carbonica e dell'ossigeno alla reazione.. Questo portava naturalmente qualche complicazione nella preparazione del miscuglio gassoso; ma siccome nel nostro caso non si trattava di fare misure quantitative, noi ci siamo limitati a far gorgogliare attraverso alla soluzione di bicarbonato ferroso un miscuglio gassoso (contenuto in un grande gassometro) composto di anidride carbonica addizionata di una certa quantità di aria 0, quando occorreva, di ossigeno. Si fecero parecchie esperienze, che venivano protratte per lungo tempo, variando il contenuto in ossigeno del gas immesso nella soluzione; precisa- mente si passò da un gas che conteneva l' 1°/ di ossigeno nella prima esperienza, ad uno contenente il 25 °/, di ossigeno nell'ultima. Cercammo di seguire strettamente le indicazioni di Just nella pre- parazione della soluzione di bicarbonato ferroso; si precipitò con carbo- nato sodico una soluzione di solfato ferroso, si lavò ripetutamente il precipi- tato di carbonato ferroso con acqua privata dell'ossigeno mediante anidride carbonica, e, dopo aver aggiunto un'ultima volta acqua, si fece gorgogliare nella soluzione anidride carbonica per lungo tempo; come è naturale, tutto questo veniva fatto in una boccia munita, presso al fondo, di tubo laterale di uscita per potere operare fuori del contatto dell’aria. Infine sì decantava parte del liquido in un’altra boccia (dalla quale era stata scacciata l'aria mediante anidride carbonica) munita anch'essa di tubo d'uscita laterale, e da questo si faceva gorgogliare il ‘gas nella soluzione. Sebbene le osservazioni di Just abbiano mostrato che la velocità della corrente gassosa ha pochissima influenza, noi cercavamo, nelle singole esperienze, di mantenere all'incirca la stessa velocità. Alla bocca superiore della boccia, dalla quale veniva ad uscire (') Anche nell’acqua delle Bagnore abbiamo voluto provare se fosse contenuta acqua ossigenata; fra le altre. abbiamo usufruito altresì della reazione indicata recente- mente da von Sobbe (Chem. Zeitung, 35 [1911] pag. 898), cioè saggiare l’acqua con ni- trato d’argento ammoniacale, reattivo che (come noi stessi abbiamo potuto constatare) non dà reazione coll’ozono: il risultato fu però completamente negativo. — 809 — il gas, si ponevano le cartine ozonoscopiche; queste però non diedero mai indizio di ozono. Dopo tale risultato non resta che ammettere un'azione concomitante di altre sostanze, e a questo riguardo sì possono emettere due ipotesi: 1) che nell'acqua sia contenuta qualcuna di quelle sostanze le quali, secondo Schònbein, possono produrre ozono dall'acqua ossigenata; 2) che nell’aqua stessa siano contenuti speciali micro organismi i quali possano operare la formazione di ossigeno atomico che poi potrebbe ossidarsi e produrre ozono. L'ultima ipotesi che noi abbiamo formulato è, forse, la più probabile, e crediamo quindi opportuno di farla seguire :da brevi considerazioni. Dobbiamo ricordare anzitutto che in uno dei suoi lavori (') il pro- fessor G. Gasperini, direttore dell'Ufficio d Igiene del Comune di Firenze, riferisce le osservazioni da lui fatte sulle acque del Monte Amiata in ri- guardo alla deposizione di idrato ferrico. Egli ha trovato che quasi tutti i depositi ocracei lasciati da tali acque sono dovuti al lavoro di microfiti, i quali debbono essere dotati di uno straordinario potere ossidante, poichè anche da acque, nelle quali il ferro è introvabile chimicamente, si osserva la formazione di idrato ferrico ‘dovuto alle specie ferrigene succitate. È naturale però che in tali acque, anche se l'ozono potesse originarsi dal lavoro dei microtiti, esso potrebbe essere pro- dotto, data la quantità di ferro estremamente esigua in esse acque contenuta, in proporzioni così piccole da sfuggire ad ogni indagine. Abbiamo però citato in principio di questo lavoro l’acqua dei Bagnòli come quella che per prima attrasse la nostra attenzione per il suo odore’ caratteristico d'ozono; ora l’acqua dei Bagnoli altro non ha a comune con quella delle Bagnore se non di contenere pure essa una piccola quantità di bicarbonato ferroso, il quale facilmente dà idrato ferrico: del resto si tratta di acque diversissime anche per la loro origine, una venendo dalle trachiti, l’altra, certo, da terreni calcari; una essendo fortemente radioattiva, l’altra inattiva. Dobbiamo aggiungere che non potremmo assicurare che l’acqua dei Ba- gnoli abbia sempre l'odore di ozono: parrebbe anzi di no, perchè nell’ ana- lisi fatta da uno di noi insieme con R. Salvadori si dice che l’acqua è inodora. Le persone del paese dicono che « qualche volta ha odore di ferro ».. L'acqua delle Bagnore invece è stata sempre conosciuta per il suo odore; a taluni sembrava « odore di zolfo », ad altri « odore di ferro =. È innegabile ‘che talora il ferro manda odore assai simile a quello dell’ ozono o, per meglio dire, di traccie di ozono. (1) L’Idrologia, la Climatologia, ecc., vol. 22, pag 598 (1911). — 210 — Il prof. Gasperini. avendo più volte esaminato l'acqua dei Bagnoli, ha riscontrato fra i depositi ocracei le specie ferrigene; e poichè il contenuto in ferro di tale acqua è assai superiore a quello delle comuni acque sorgive succitate, sarebbe naturale (ove si considerino i microfiti come possibili coo- peratori alla formazione d’ozono) che essa mostrasse in grado relativamente elevato l'odore d’ozono. Anche per il deposito dell'Acqua delle Bagnore ci siamo rivolti alla gentilezza del prof. Gasperini, il quale cortesemente ne ha esaminato un campione; benchè il risultato non sia stato del tutto positivo per il depo- sito dell’acqua delle Bagnore, pure non si può escludere l’azione dei micro- fiti nella formazione dell’idrato ferrico, tanto più che i microfiti stessi pos- sono non comparire alla superficie in determinati periodi o trovarvisi in quantità insignificante; di più essi possono esistere nelle acque a profondità e in condizioni idrodinamiche tali da restare nascosti; è anche da notarsi che il campione inviato non era di recentissima formazione. Da questo parrebbe dunque non improbabile che il deposito di idrato ferrico potesse essere dovuto all’azione dei microfiti, e che questi, dato il loro eccezionale potere ossidante, possano favorire la produzione d'ozono. Poichè tuttavia tali specie ferrigene non si possono coltivare in labora- torio, resta chiusa per ora la via a ricerche sistematiche salvo a quelle che sì possono fare, e che ci proponiamo di fare, sul posto; l'ipotesi quindi da noi ultimamente formulata, non resta che la più probabile, secondo noi, tra quelle che abbiamo enunciate nel corso di questo lavoro, inquantochè mancano ancora argomenti decisivi. La questione non è dunque risoluta; abbiamo però creduto utile di- scutere, alla stregua del materiale sperimentale e teorico che in oggi pos- sediamo al riguardo, le possibili cause della presenza, da noi osservata, di ozono nell'acqua, lieti se ulteriori studî potranno portare maggior luce sul- l'interessantissimo fenomeno. Ci proponiamo però nell'anno prossimo di ese- guire uno studio sistematico sulle acque del Monte Amiata e dì proseguire in Laboratorio le ricerche sulla autoossidazione del bicarbonato ferroso in diverse condizioni. Quanto poi all'azione fisiologica dell'ozono che viene così ad essere in- gerito insieme con l’acqua, non è compito nostro indagarla. Certo è questo: che i casì di miglioramento o guarigione ottenuti con quest'acqua e con quella dei Bagnoli, sì contano a centinaia e centinaia; non parrebbe quindi improba- bile che anche l'ozono avesse la sua parte nei benefici effetti constatati. Ricorderemo che quando si credette di aver trovato l’ozono nell'acqua di Fiuggi, parve questa ai medici e agli idrologi una scoperta di immensa importanza e tale che avrebbe spiegato i benefici effetti della celebre acqua. Riepilogando : 1) viene scoperta, crediamo di potere affermare per la prima volta, la esistenza in natura di acque ozonizzate in via non transitoria, ma permanente Î Ri — 811 — e normale, e così ricche di ozono da sentirsi evidentissimo l’odore di questo: è ozonizzata in modo eminente l’acqua acidula o Forte delle Bagnore (Santa Fiora nel Monte Amiata), e in grado minore quella della fonte dei Bagnoli (Arcidosso nel Monte Amiata); 2) del fatto si propone una possibile spiegazione, spiegazione basata sull'autossidazione del bicarbonato ferroso o di per sè o per opera di Beggiatoe ferrigene: ciò corrisponderebbe a un nuovo modo di produzione dell'ozono in natura: su questo argomento altri studî seguiranno; 3) sì accenna alla grande importanza che nella terapeutica (e forse anche per altre applicazioni) possono avere tali acque veramente ozonizzate; importanza che potrà mettersi in evidenza e specificarsi, sia tenendo conto dell’azione medicamentosa, già empiricamente accertata, delle acque esaminate, sia istituendosi, dai medici e dagli idrologi, speciali studî sopra l’acqua delle Bagnore e sopra acque artificialmente ozonizzate. Meccanica — Sopra le vibrazioni armoniche smorzate di un corpo elastico immerso in un fluido. Nota II di E. LAURA, presentata dal Socio C. SOMIGLIANA. 2. Sia W il potenziale elastico unitario del vibratore corrispondente allo spostamento %,v,w; ® il potenziale di velocità nel fluido. L’equa- zione delle forze vive, per il moto del vibratore, assume allora ovviamente la forma: se dagli ci af i > i t dove il simbolo indica differenza dei valori che assume la funzione 0 in parentesi agli istanti 0 e /. Sia: An=îkn (E, quantità reale) una radice imaginaria pura dell'equazione di frequenza. Poniamo perciò: (10) u= 08 Ent Un(2,Y,%) ecc. RenpICcONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 106 — 812 — Porremo per la ®, in corrispondenza della posizione (10), Ta it a : o@= fre ———{ Fl ca) a — costst (re) — Las4 sen La + sen 4 iL. F(E.) ago Le Pn(Q) cos Kn Lt + w,(Q) sen £n É, e ciò perchè nel fluido si ha propagazione di sole onde progressive. Per la posizione (10) il 1° membro di (9) diviene una funzione perio- dica di /, mentrechè il 2° per la posizione (11) diviene somma di una funzione periodica di (con lo stesso periodo della 1%) e del termine: o dn DI pr Dl - nt {(%» de n esi de — Di Dico che H è nulla solo se è identicamente nulla la F. Procediamo perciò come nel numero precedente. Sia o, una superficie tutta esterna a S, S, lo spazio compreso tra o e o,. Nello spazio S, si ha: Mn ga (9). Avremo dunque per il lemma di Green: H= to f, (9. > — Wa 2 do, v, = normale interna a 07). E quindi per la posizione (11): H= ( ( F(P)F(P,)4848x CATTSEAS 0 E (O sen i "ar d71 da 0, e e gl PIPA na rr Sia o, una superficie sferica di raggio R tendente all'infinito. Gli in- tegrali superficiali hanno significato pure al limite. Al limite quello conte- : ; dI nente il seno si annulla, e 3TA tende a —1. Avremo dunque: Vi cos La (_rn) (12) i Pi tim Sea “(eyes + kn ( Seli ) +) [ET asi | Cioè H è costantemente negativa. — 813 — Notiamo che H può esprimersi mediante un integrale esteso allo spazio S. Nello spazio S, per le espressioni assunte per le @,,%,, applicando il teo- rema di Lorenz, si ha: ki \dgn +7 90 =— dal DE) |a, ty, =o. Perciò: S(gad Un WA g,) dS= tn (K y,dS= sen 22 dn f I F(P)F(P.) —— 48481, avendo posto: di 4 da questa, per il lemma di Green, consegue: En A SON =? ut Z2(( R(P)\E(P.) ISS (A SUS En, c Alla stessa formola si perviene calcolando l'integrale superficiale che compare nella (12); questo calcolo conferma la validità del suddetto pas- saggio al limite. Diciamo « l'angolo che PP, fa con la direzione comune dei raggi 7,7, (al limite) e poniamo /= PP,; avremo: sen fa ; cos k,(P — 73) 65 TGA 47T C lim ———_- ‘de,= x cosf —— cose) sena da = — si PIRA O c Gdl c e quindi discende ancora la (18). ken sen—7r Si conclude quindi: 7) nucleo simmetrico è definito positivo. n e Infine la (9), per essere soddisfatta dalla posizione (10), vuole che ® sia identicamente nulla; cioè che non vi sia propagazione di moto nel fluido. Nell'ipotesi da noi fatta, della continuità delle tensioni e dello sposta- mento normale attraverso la superficie del vibratore, possono effettivamente sussistere nel vibratore delle vibrazioni semplici non propagantesi nel fluido. Basterà che esse dieno tensioni nulle e spostamenti normali ancora nulli sulla superficie. L'esistenza di tali vibrazioni è stata provata dal Lamb — SI4 — nella sua classica Memoria sopra le vibrazioni libere di una sfera elastica isotropa (’). 3. Passiamo infine a considerare i moti aperiodici. Sia 4, una radice reale dell'equazione di frequenza. In corrispondenza ad essa avremo una so- luzione del problema: u= e un(1 4,8) ecc., ®@= wu, ei g,(0,Y,2). La equazione (9) quando in essa si faccia questa posizione diviene, dopo aver soppresso il fattore eat 1, (14) 22: fl +0 + et) )dS+ fw, dSs= A (2 do In essa W,, è il potenziale elastico unitario corrispondente allo spostamento Un gs Un, Wns; ìl 1° membro è dunque l’energia totale iniziale del vibratore, ed è una quantità essenzialmente positiva. Poniamo g, sotto forma di potenziale di spazio: tenendo conto della osservazione più volte fatta, che nel fiuido vi è solo propagazione di onde all’esterno del vibratore, dovremo porre: —}}E e g(Q= { FM) 48. All'esterno di S si ha: dî, Sia o, una superficie tutta esterna a S, S, lo spazio compreso tra e e 0,. Avremo: Ta o=| gt dr: do 4% fas + (4 puuste La (14) diviene allora indicandone con E, il 1° membro: È 3 D+ [2 (gd + fig, | re as, 30 d Si Si Gi dvi Dovrà dunque essere qualunque sia la superficie 07: K mi do, a <0. (1) H. Lamb, London Math. Soc. Proc., vol. 18, 1882. — 815 — Come superficie 0, assumiamo quella di una sfera di raggio R infini- tamente grande. La , all'infinito è asintotica a: dn ——=R e Cc ATEO (A essendo una costante). La quantità K è dunque asintotica a: — RR NI ter ht se DC, e ; A R a m + R: 4nR°. Il segno di K al limite è perciò quello di: gin Sl Tp) a dn € È 2 A 7 To ai . Per l'osservazione prima fatta avremo dunque: VA (0°. Gli unici moti aperiodici compatibili sono cioè smorzati. 4. Possiamo infine così riassumere i risultati di questa Nota: In un corpo elastico isotropo immerso in un fluido perfetto, vibrante în virtù di uno stato di velocità e di una deformazione iniziale, possono sussistere solo delle vibrazioni armoniche smorzate e semplici e dei moti aperiodici smorsati, se il vibratore e il fluido non sono sollecitati da forze di massa. Inoltre le vibrazioni armoniche semplici del vibratore non sono comu- nicate al fiuido; esse dànno cioè tensioni nulle e spostamento normale nullo in superficie. Ed anche: L'equazione di frequenza relativa alle vibrazioni di un corpo elastico isotropo vibrante immerso in un fluido nella ipotesi di assenza di forze di massa, ha le sue radici complesse coniugate con parte reale negativa 0 nulla. — 316 — Matematica — Serie di Taylor e funzioni analitiche di più variabili. Nota del prof. EuGeNIO ELIA Levi, presentata dal Cor- rispondente 0. TEDONE. 1. È noto che per definire le funzioni analitiche si può a piacere par- tire o dalle condizioni di monogeneità nel campo complesso, o dalla consi- derazione delle serie di potenze. Però dal punto di vista delle variabili reali e dell'analisi infinitesimale, parrebbe forse più naturale riattaccarsi allo svi- luppo in serie che si presenta negli elementi del calcolo: allo sviluppo in serie di Taylor: appunto come faceva il Lagrange, che primo, se pure con coscienza non perfettamente chiara delle limitazioni che imponeva, determinò il concetto di funzione analitica. Ora, se per le funzioni di una variabile serie di Taylor e serie di potenze sono la stessa cosa, per le funzioni di più variabili non è lo stesso: queste sono serie multiple, quelle sono serie di polinomii omogenei ordinate per gradi crescenti; in una serie di potenze sì possono riordinare e aggruppare i termini in modo di ottenere una serie di Taylor, ma rimane irresoluta la questione di sapere se in una serie di Taylor convergente in un intorno dell’origine per valori reali delle variabili si pos- sono spezzare ì polinomii nei loro singoli addendi, ottenendo una serie mul- tipla di potenze; così da accertare che essa rappresenti nell'intorno dell'origine una funzione regolare analitica. Il Dulac (') ha risposto affermativamente a tale questione nell'ipotesi che la serie di Taylor converga uniformemente ; nella breve Nota che segue, mostrerò che si può togliere questa restrizione. Risulterà così in generale che una serze di polinomit omogenei in v varia- bili x, %2,. dy, ordinata per gradi crescenti, convergente in un campo anche arbitrariamente piccolo dello spazio in cui sono coordinate le va- riabili reali x,,%2,... dy, rappresenta una funzione regolare analitica nell'intorno dell'origine. Resta aperta la questione se, come nel caso di una sola variabile, tutti i punti interni al detto campo di convergenza della serie, sono punti in cui la funzione è regolare; non mi è riuscito di rispondere esaurientemente a questa domanda; qui dovrò limitarmi a dimostrare che < punti interni al compo di convergenza in cu eventualmente la funzione non è regolare formano un insieme non denso in nessuna regione parziale del campo (*) Dulac, Sur les séries de Maclaurin à plusieurs variables, Acta Mathematica, vol. 31 (1907), pp. 96-106. Sullo stesso argomento vedi pure P. Painlevé, Sur le déve- loppement des fonctions analytiques, etc. Comptes Rendus, vol. 121 (2° sem. 1899) pag. 92. — 817 — medesimo. Mi pare che tale fatto renda assai probabile che anche all'ulte- riore domanda qui posta debbasi rispondere affermativamente: stabilendo così una perfetta analogia tra il caso di una e quello di più variabili. 2. Lemma I ('). — Sta 1) f(2)= Y ano” un polinomio di grado n in x, che per —1l=x=1 sia sempre in va- lore assoluto minore di M: si ha 2) anl<@+DM(7)2". n Si ponga infatti x = cos g: la funzione /(cos g) = ) @n cos” g sarà i sempre in valore assoluto inferiore a M per g reale. E se noi l’esprimiamo per coseni dei multipli interi di g, noi sappiamo che essa assume la forma > Um cos mg: ed allora i coefficienti a, essendo dati dalle formule 0 1 27 Up = 2 f(cos g) cos mp dp, TT o soddisfanno alla disuguaglianza (3) |am| <2M. Basterà quindi al nostro scopo che cerchiamo di esprimere gli @» per gli Am. Ora si ha per una formula di Vieta (*) i == r m UA Pea 1 m=2r m=2Y-1 cosmp= 2(— 1) a i, ) cos p.2 3 Quindi si deduce 9 ALE Cm = 271 » (= 1) mir (di = (P I) ir VER RES Lime ialei Vi Col ng 00 o=2rZn—m eo ii on!) notissime formule relative ai coefficienti binomiali e per (3), si ha n = 2ea| (MI)+> (Cali (*) Questo lemma ha molta analogia con uno di Dulac, loc. cit., pag. 96. (2) Cfr. ad es. Hagen, Synopsis der hòheren Mathematik, Bd 1, pag. 109. E quindi, chiamando / il massimo intero contenuto in — $S18 — dove per 7 =0 devesi intendere oi a) = 0. Si osservi ora che (+) ee m m+1 m mHtb1l e che essendo m+j,... Bn ,... di aggregati di punti di uno spazio di r dimensioni: sia E la somma degli E,, e cioè l'aggregato dei punti che appartengono a qualche B,. Se E riempie un campo U ad r dimensioni, esiste in C un campo C, parziale nel quale è denso almeno un E;. Supponiamo invero che nessun E, sia denso in un campo parziale di C; E, sarà non denso in C, quindi esiste in C un'ipersfera S, che non ha nè sul contorno, nè all’interno nessun punto di E,; a sua volta E. non è denso in S,, quindi esiste in S, un'ipersfera Ss che non ha nè all’interno. nè sul contorno punti di Es, ecc. Così proseguendo si costruisce all’interno di C una successione di ipersfere S,,S,,...S,,.. contenute l'una nell’altra, e tali che nè all’interno nè sul contorno di S, vi sono punti di E,. Esiste un punto P comune a tutte queste ipersfere: esso non appartiene a nessun E, e quindi neppure a E, il che contradice all'ipotesi che E contenga tutti i punti di C. (1) Osgood, Am. Journal of Mathematics, vol. 19 (1897); Math. Annalen, vol. 58 (1900), pag. 462. Osgood enuncia il teorema nell’ipotesi, evidentemente inessenziale, che gli E; contengano ciascuno il precedente. — 819 — 3. Ciò posto, si abbia una serie di polinomii omogenei ordinata per gradi crescenti, e supponiamo dapprima che le variabili siano due sole: 0 Og Re (2: Ue mm dia y) la serie assegnata. Se 0 0 0 poniamo x = @ cos@, y=@sen@ avremo che essa si può anche scrivere (ce) I, fn(cos 0, sen 9) 0"; e per la teoria della serie di potenze, se essa con- 0 verge in un punto (20%) = (00%) converge in tutti i punti (2 y) per cui è 0= 0, e 0 è complesso con |e|< o. In particolare converge su tutto il segmento (20, Y) —>(— o, — yo) della retta che congiunge (xo yo) coll'ori- gine; questo fatto si può anche enunciare dicendo che il campo di conver- genza di una serie di polinomii omogenei è una stella con centro l'origine. Supponiamo dunque che la serie converga su una curva del piano delle xy reali, la quale non sia una retta per l'origine, nè un sistema di tali rette ('); per l'osservazione testè fatta esisterà un settore y di un cerchio di centro l'origine e raggio 7 sufficientemente piccolo, tale che in esso e nel settore simmetrico rispetto all'origine, la serie converga. Concludendo potremo dunque fissare l'ipotesi che la serie converga per |o|, /x(2y); ed intine nell'angolo — a < 0 <= 0' = avremo ver (6) n \pn(0 cos 0", 0 sen = i(£) : 1 Poniamo 0 = cot 1, E er |0'| <=, sarà sempre |o|< I e o g cos 0!" p mor MR p cio quindi pure 1 n | n d', ))j=> n ’ O)? i \Pnf0 cos 0", 0 sen 6')|=|gn(cotgr , cotge tg 0) = i(- RE =) Ma quando 0' varia tra — e ©, la quantità 2 = cotg tg 0° varia tra —1 e 1; applicando quindi il lemma I al polinomio di grado x in @ n gr (colei a COVO 0 avremo ; i 1 ALAN a l'afetimi E (2 + lisa Sn .) (2)e tg e= {n 2 DI Il RIV -—@+Di(7) 1 sen | \, al ; Ne segue che, qualunque siano x' e y', si ha: n Li In-m Im DI Qnm m LT Y 0 ' n» = Di | Che ooligi y""| < T) ail 7, COST 7, Sen T Quindi la serie assegnata è assolutamente ed uniformemente convergente in ogni campo chiuso interno al campo dei punti di coordinate «'y' reali o complesse, ma tali che EA 2|y| CTR ZI (9) ri sg a nt — oa Ora per un noto teorema di Weierstrass una serie di funzioni regolari analitiche uniformemente convergente in un campo complesso ha per somma una funzione analitica regolare nel campo stesso: nel nostro caso, essendo 0 De Pn(d'y') una serie di polinomii uniformemente convergente in (9), vi (0) rappresenta una funzione ®(x',y) o F(x,y) regolare analitica di x 6 y. E siccome il campo (9) contiene un intorno dell'origine, concludiamo intanto col primo degli enunciati del n. 1. Anzi dalla precedente dimostrazione risulta che non è neppure necessario supporre come ivi è detto che la serie di poli- nomii omogenei converga in un campo del piano reale x,y, ma che basta fare l'ipotesi che la serie converga nei punti di una curva continua di tale piano che non sia una retta passante per l'origine, nè un sistema di talî rette per concludere che essa rappresenta una funzione regolare analitica nell'intorno dell'origine stessa. Per ottenere il secondo degli enunciati del num. 1 osserviamo che il campo (9) sul piano reale dà una losanga che contiene tutti i punti interni del segmento |x|<7,cosv della retta @. Ora, fissata la retta & che si vuole scegliere come asse delle x, si può prendere 7 piccolo a piacere; quindi fare 7, cost quanto si vuole prossimo ad 7,: possiamo quindi dire che tutti i punti di w per cui 0< 7, sono punti in cui F(xy) è regolare analitica. Ricordiamo ancora che nei precedenti ragionamenti 7, è un nu- mero arbitrario purchè < 7, e w è una retta arbitraria di anomalia com- presa fra 0, e 63. Risulta che possiamo precisare il campo in cui la F(xy) è analitica regolare col dire che, fissato arbitrariamente entro la stella di DD convergenza di De fn(€y) un settore circolare y: 0, =9=0,,0<7, ed 0 un numero 7 < 7, esistono in y dei settori y, di raggio 7’ tutti di punti in cui la funzione rappresentata dalla serie è regolare analitica. In parti- colare dunque l’aggregato dei raggi, su cui esistono punti che distano dal contorno della stella di convergenza più di un numero e fissato (anche arbitrariamente piccolo), e nei quali la somma della serie non è regolare analitica, è non denso in nessun angolo. È chiaro che questo fatto trae seco quello enunciato al n. 1 che l'aggregato dei punti interni alla stella di con- vergenza, in cui Ja somma della serie non è funzione regolare analitica, è non denso in nessuna area interna alla stella; anzi impone a tale aggregato una condizione anche più restrittiva. È chiaro che, tranne qualche lieve cambiamento nelle notazioni, il ra- gionamento vale anche per il caso delle v variabili: basta introdurre le coordinate polari relative allo spazio a più dimensioni, ed applicare il lemma II in luogo del lemma I: all'ipotesi fatta che la serie converga su una curva continua che non sia una retta per l’origine (o un sistema di tali rette) occorrerà sostituire l’altra che la serie converga su una V,_, re- — 822 — golare dello Sy in cui x,%».. ay sono variabili reali, che non sia nè un iperpiano per l'origine nè un sistema di tali iperpiani. 4. Al precedente teorema si può dare varie forme, specialmente pre- sentandolo come un teorema della teoria delle serie. Osserviamo invero che il teorema di Weierstrass su citato ci dice pure che una serie di funzioni analitiche uniformemente convergente in un campo complesso si può derivare termine a termine quante volte si vuole. Appli- cando alle nostre serie tale teorema si vede subito che i coefficienti dei polinomii sono perfettamente determinati e coincidono coi noti coefficienti della serie di Taylor. Otterremo così: 1°). Ogni serie di polinomii omogenei ordinata per gradi crescenti in v variabili, convergente su una ipersuperficie Vi, dello Sy in cui sono coordinate le variabili reali x,, tz, ... ty — la quale non sia nè un iper- piano per l'origine nè un sistema di tali iperpiani — è la serie di Taylor di una funzione analitica. 2°). Due tali serie non possono avere la stessa somma su una Vy-i del tipo descritto, senza essere identiche. 3°). Ogni tale serie — e quindi ogni serie di Taylor — sì può integrare e derivare termine a termine quante volte si vuole in un intorno conveniente dell'origine. E infine poichè ogni funzione analitica regolare nell'origine si sviluppa in serie multipla di potenze: 4°). Ogni tale serie converge uniformemente ed assolutamente in un conveniente intorno dell'origine e continua a godere di tale proprietà se sì spezzano i polinomii nei loro singoli termini. Fisica matematica. — Su corpi di attrazione nulla. Nota di UMBERTO CRUDELI, presentata dal Socio P. PIZZETTI. In una Nota precedente (!) abbiamo trovato che, se @, rappresenta una distribuzione di densità (limitata ed integrabile, per la quale, inoltre, valga la formula del Poisson) corrispondente ad una data azione esterna non nulla, l’espressione (1) eo +45), dove i simboli hanno i significati allora indicati, rappresenta la più gene- rale distribuzione di densità (limitata ed integrabile, per la quale, inoltre, valga la formula del Poisson) corrispondente alla data azione esterna new- (1) Rend. R. Accad. dei Lincei, ottobre 1912. — 823 — toniana. Abbiamo, poi, mostrato che, se 0, rappresenta una distribuzione di densità in un dato pianeta, la (2) e +40) + 31 _ (vede ? Je di S rappresenta (*) la più generale espressione della densità (limitata ed inte- grabile, per la quale, inoltre, sia valido il teorema del Poisson) corrispon- dente ad una data azione esterna e ad un dato moto rigido del pianeta intorno al suo baricentro (almeno escluso il caso allora indicato) intendendo assunti, come assi di riferimento, gli assi principali centrali (detti anche, senz'altro, principali) d'inerzia del pianeta stesso (corrispondenti alla data azione esterna). E, naturalmente, occorre aggiungere, trattandosi, per i pia- neti, di densità positive, che l'arbitrarietà della v sia ulteriormente ristretta in modo che la (2) resulti positiva (*). Qui desidero mostrare, anzitutto, come, supponendo ora che la e, am- metta tutte le derivate che occorre considerare, si possa immediatamente (*) Nella Nota precedente, al posto dell’ s® che figura nell’ fora ; trovasi, per T un evidente errore di stampa, un sf. (°) Che possano aversi, in ogni caso (pur intendendo positiva la 01) funzioni del tipo (2) tali che esistano punti in corrispondenza dei quali le funzioni stesse resultino negative, può mostrarsi così: Si prenda La (2) porge allora, come densità particolare, 1-1-44° (5°) E poichè, indicando con # una costante diversa da zero e con si una funzione (indipen- dente da 4) della stessa natura supposta per la s, è lecito intendere che la s sia della forma s= hs, avremo 0° + ARtA8(s*)). Ora si osservi che 4%(s4,) +0 (giacchè, altrimenti, essendo s1 = 0 sul contorno, sarebbe ovunque, nell’interno, si = 0, mentre noi intendiamo che la si sia diversa da zero in ogni punto interno del corpo) e si osservi, inoltre, che è anche lecito supporre A+ 0. Infine, si osservi che fas de=0. T Sicchè esisteranno punti in corrispondenza dei quali 44*(s4,) sarà negativo. E potremo intendere la costante & così grande che, in corrispondenza dei punti stessi, resulti nega- tiva 01 + 44442 (s4,). — 824 — estendere un resultato dovuto al prof. Lauricella, dimostrando che, assegnata l’azione esterna, vi è sempre arbitrarietà nel distribuire la densità in modo che, sul contorno, la densità stessa e le sue derivate par- ziali, fino a quelle di un ordine finito qualsiasi, abbiano rispetti- vamente gli stessi valori della 0, e delle derivate parziali della o, medesima. Infatti. nell'espressione generale della densità 0 + Aus?) noi possiamo, al posto di s, sostituire s”, indicando con x un qualsiasi nu- mero intero. positivo, superiore od eguale al numero 2. Per fissare le idee, prendiamo n= 4, e scriviamo 2 4 204 4 4° 7 PA de o= 0,4 4°(us')= 0, + ud°s IRR DT i ( ds) dU dI È Qus?d A*88 4>(È) 44? 8833 So: 0,4 2us ( SA da ao ine da dX Ciò premesso, s' intenda che non soltanto la s ma anche le sue derivate, che occorrono, siano funzioni limitate nel campo 7. Allora, se prendiamo per x una qualsiasi funzione limitata, che ammetta, inoltre, le derivate, che occorre considerare, e se intendiamo che le derivate stesse siano pure limitate, avremo (tenendo presente come sul contorno s= 0) che la corsispondente o e le sue derivate parziali del primo ordine avranno sul contorno stesso i va- lori rispettivamente della 0, e delle derivate parziali del primo ordine (che intendiamo ora esistenti) della 0, medesima. E ormai sì comprende ovviamente (e ne tralasciamo, perciò, Ja dimo- strazione) come si possa stabilire il teorema generale enunciato. Incidentalmente, poi, vogliamo osservare che, richiamando la nostra espressione generale della densità, si ricava immediatamente, e si rende valido per densità più generali di quelle considerate dal prof. Lauricella, il seguente notevole teorema (stabilito dallo stesso prof. Lauricella): Condizione necessaria e sufficiente affinchè feud sia invariante rispetto alle densità corrispondenti ad un'assegnata azione esterna, è che la funzione U sia armonica. Infatti, ponendo in esso o= 0, + 4?(v5s?) e quindi tenendo presente ds? che sul contorno s= 0, dn 0, avremo in (ovd:= fon Ude + (U/ us) di ica fustde Var. T /T /7 2) Ia Sicchè. data l’arbitrarietà della x, resulta immediatamente che, affinchè si abbia fever = f ervde è necessario e sufficiente che sia 4°U = 0. Come pure, richiamando la nostra espressione generale della densità, resulta ovviamente il seguente teorema: Data l’azione esterna di un corpo 7, resultano determinati la massa totale del corpo. il centro di massa del corpo stesso, gli assi principali di inerzia, e le differenze fra ì momenti principali d'inerzia. Matematica. — Sopra le funzioni ordinatrici. Nota di FI- LIPPO SIBIRANI, presentata dal Socio C. SOMIGLIANA. 1. Nella mia Nota Sulle funzioni ordinatrici delle funzioni reali di una 0 più variabili reali (*), ho detinito come funzione ordinatrice di una funzione limitata e continua /(x) in 4... dè una funzione 0/(x) continua, non decrescente (o non crescente), che prende in 4... è tutti e soli i valori di /(@) e per la quale è b cd f(x) de =) 0/(2)l@z Ivi ho introdotto anche le funzioni ordinatrici delle funzioni limitate e continue di più variabili rispetto al complesso delle variabili o rispetto ad alcune sole di esse. Alcune semplici osservazioni permettono qui di provare che se una suc- cessione di funzioni continue di una o più variabili tende uniformemente ad una funzione continua, le funzioni ordinatrici corrispondenti tendono, pure uniformemente, alla funzione ordinatrice della funzione limite. In una lettera indirizzata al prof. Somigliana e da questi riportata nella sua Nota, Considerazioni sulle funzioni ordinate (*), il prof. Volterra considera un processo di ordinamento per una funzione finita anche discon- tinua. Ma a me sembra che per certi tipi di funzioni discontinue non si possa introdurre il concetto di funzione ordinatrice se questa debba avere (®) Rendic della I°. Accad. dei Lincei, vol. XX, ser. 5%, pp. 694-701. Colgo l’occa- sione per notare due errori che mi sono sfuggiti nella revisione delle bozze della Nota citata. A pag. 698, linea 6 dal basso, anzichè y(), devesi leggere Oy(#); e alla pag. 699, linea 5%, anzichè 4 — Vo, si deve leggere 4 Ko , o (a-7)-0 (a-7)-0 (2) Rend. della R. Accad. dei Lincei, vol. VIII, serie 5%, pp. 125-185. — 30 tutti e soli i valori della data funzione e se, ammessa per quest’ ultima l'integrabilità, gli integrali estesi al comune intervallo di definizione deb- bano essere uguali: nel n. 5 indico un siffatto tipo di funzioni. 2. Dette (9, 7°, LÎ le misure degli insiemi di punti in cui /(x) è in 4... d rispettivamente minore, uguale e maggiore di A, numero compreso fra il minimo w ed il massimo M di /(«), la funzione 0/(x) è la funzione che ina =a+/, ina=a+/!+4"=5—LO, e nei punti inter- medî, ha il valore A, quando sì faccia assumere ad A tutti i valori com- presi fra u ed M. Sia data una successione di funzioni limitate e continue in «... è, (1) fi(2); fo(2)--. fal@) che tendono uniformemente ad una funzione continua F(«). Si costruiscano delle (1) le funzioni ordinatrici (2) 0/1(2) , Ofx(2),..., O/s(2),..; vogliamo provare che codeste funzioni tendono. pure uniformemente, ad OF (x), funzione ordinatrice di F(x). Poniamo, per brevità, a He pa Se gf A—-0 (fn) (fa) __ fn) O ATA el, A+0 Per la convergenza uniforme delle (1) alla F(x), prefissato un numero o piccolo a piacere, esisterà un indice v tale che, per ogni 7 >v e qualunque sia x di a... db, Fia) —0< fs(@)» in tutto a... 6; ciò che dimostra, come ci eravamo proposti, il teorema: Le funzioni ordinatrici di una successione di funzioni limitate con- tinue che tendono uniformemente alla funzione continua F(x), tendono, pure uniformemente, alla funzione ordinatrice di F(x). 3. Siano (3) iii... Lu infinite funzioni limitate e continue nello stesso campo quadrabile 4, le quali tendano uniformemente alla funzione continua F(x, 7%). Se d è un asse per l'origine degli assi cartesiani, nel 1° e 3° quadrante, sul quale la direzione positiva sia quella che con la direzione positiva del- l’asse x forma un angolo acuto, ogni retta 7 normale a 4 e che abbia qualche punto in comune con 7, dà luogo. insieme con la parte del contorno di 4 che rispetto ad 7 sta dalla banda negativa di 4, ad uno o più pezzi di 4, la somma delle cui aree in valore assoluto è determinata. Se A è un numero compreso fra il minimo wu, ed il massimo M, di (fn) (fn) fa(c ,y) in 4, siano ì , GI le misure superficiali degli insiemi Y A LA A le) dei punti in cui /,(2,y) è minore di A, uguale ad A, o maggiore di A. Sia 9 la retta normale a 4 che con la parte anzidetta del contorno (fn) INIIIRI di 4 limita un'area misurata da g Definiamo in 4 una funzione che (fn) A sui punti dì 7 appartenenti a 4 ha il valore A e, se IZ, ha il na lfn) valore A anche nella porzione di .4 (e suo contorno) limitata da 7” e da quella parallela che con la precedente e con il contorno di 4 forma l’area PI Al variare di A fra wu, e M,, sì ottiene una funzione O/(x ,y) continua in 4, crescente secondo la direzione degli assi, che prende tutti e soli i valori di /,(2,y) e per la quale è (fata 4) da dy ni Forte ,y) dx dy . RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 108 — 828 — Codesta funzione è una funzione ordinatrice di /,(2,%y) rispetto ad entrambe le variabili. Orbene, sussiste il teorema: La successione delle funzioni ordinatrici delle (3) è convergente in egual grado alla funzione ordinatrice di F(x ,y), quando, ben inteso, per tutte le funzioni (3) e per la F(x,y) si conserva la stessa direzione d. Per la convergenza uniforme delle (3), prefissato un numero o piccolo a piacere, per ogni x maggiore di un determinato indice »v, sarà, in tutto 4, (4) Fa, y) — 0 : Per la costanza delle funzioni ordinatrici sulle rette normali a d. e per il modo della loro creseenza, dalle disuguaglianze precedenti si deduce che O[F(x,y) — ]<0/n(x,y)»v e in tutto 4, OF(x ’ Y) sand S 0769) << OF(£ 9 Y) slù 0, ciò che dimostra il teorema. Come ho osservato nella mia citata Nota, alle rette normali a d si possono sostituire curve di convenienti famiglie. 4. Il campo 4 sia limitato da due curve di equazioni x = «@(Y), xc=(y), con @(y) e £(y) funzioni continue, ad un valore, in a... db, es- sendo a e d le ordinate minima e massima del contorno stesso: il contorno può, eventualmente, oltre Je due curve, comprendere due segmenti sulle rette y=a,y= bd. — 829 — Data in 4 una funzione /(4, 7), e fissato per y un valore 7, sì può costruire di /(4,7), funzione della sola x, la funzione ordinatrice. Se altret- tanto si fa per ogni y compreso fra @ e è, si ha una funzione, che indiche- remo con 0,/(x ;y), continua, che prende tutti e soli i valori di /(x, y), cresce secondo la direzione positiva dell'asse 4, e soddisfa alle relazioni CIO) Ban k f(e.y) da = 0, (Chiaia; ) «/ A(Y) A(Y 5 f(e,y) da dy »: fo ,y) da dy . La 0,/(x ,y) dicesi « funzione ordinatrice » di /(x ,y) rispetto ad x. Sussiste il teorema: Se le funzioni (5) fe) fe) fa y) tendono ad una funzione continua F(x ,y) mn tal guisa che la successione delle stesse funzioni in cui si sia fatto y=7% (con y qualunque, compreso fra a e b) tenda uniformemente ad F(a,7), allora la successione (6) Oxfi(0,4)Oxfo(0,9).-Oxfa(034) tende a O, F(x,y) în guisa, che ogni successione che si ottiene da (6) mettendo y=7, tende uniformemente a O, F(x 7). Basta ripetere la dimostraztone del num. 2, una volta fatta, nelle (5), y=7: Ed ancora vale la proposizione: Se le (5) tendono uniformemente a F(&.y), le (6) tendono unifor- memente a O, F(x,y). Pel teorema precedente, se per ogni n > v è Fla,7), — », è verificata la (4); epperò la (7) vale per qualunque 7 compreso fra a e d: è quanto dire che, in tutto 4, O, F(x,y)) — T 2) di punti o in un numero infinito di punti costituenti un gruppo di misura nulla, nei quali /(x) assume valori diversi da A. Osserviamo che se i valori assunti da /(x), maggiori di A, si possono ordinare in una successione crescente (o decrescente) A,,Ao....,An;.. SÌ può definire una funzione F(x) non decrescente che prende tutti e soli i valori di /(x) il cui integrale esteso ad «...d differisce da quello esteso allo stesso intervallo di /(z) per una quantità n, prefissata piccola a piacere. Se M è un numero non superato da /(x), sia d un numero tale che (M —A)d=p»: allora si consideri la funzione F(x) che in a... bd —d è d uguale ad A; in b_d9..b=5 è uguale ad A,; in p—3.b—3 è Seu lo) È uguale ad A,, e così, in generale, fra 6 — 5 e b- è uguale ad A,. d +1 La funzione F(«) prende tutti e soli i valori di /(«), è non decrescente ed il suo integrale esteso ad 4... d è = AL ((—a—d)A+dY me SOI I Il le n e ALMESE mentre quello di f(x), esteso allo stesso intervallo, è manifestamente (2 — a) A. — 831 — Matematica. — Sulle funzioni permutabili di seconda specie. Nota III di LurcI SINIGALLIA, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA. 1. In due Note precedenti (*) mi sono occupato della determinazione delle funzioni permutabili con una funzione data, quando questa è la somma di un numero finito di prodotti di una funzione della sola 4 per un'altra funzione della sola y. Lo stesso problema fu contemporaneamente risoluto dal prof. Volterra (?) il quale fece vedere come esso possa, almeno nel caso generale, ridursi a quello della determinazione delle sostituzioni lineari per- mutabili con una sostituzione data. Ora mi propongo non solo di mostrare l'accordo di tale risultato del prof. Volterra con quello già da me stabilito ma anche di far vedere, applicando la teoria delle forme algebriche bilineari di Frobenius (*) come le funzioni chieste nel caso generale si esprimano per mezzo dei nuclei iterati del nucleo dato. Comincio qui coll'occuparmi di questi nuclei iterati, fra i quali sussisteranno le stesse relazioni che esistono fra le potenze delle forme bilineari, riserbandomi di trattare in una Nota successiva delle funzioni permutabili del nucleo dato. I. — I NUCLEI ITERATI. 2. Se la funzione F(4,y) è definita nel campo (a=x =0,@ la funzione IA SS JA S b E,(e.y)= f E,_\(x,s) F(5,4) ds (£=2,3,..) quando si prenda F,(x.yg)=F(x,y), dicesi nueleo iterato di ordine % del nucleo dato F(x,y). Supponiamo che il nucleo dato F(x,y) sia uguale alla somma di un numero finito di prodotti di una funzione della sola x per un'altra funzione della sola y, di guisa che se @,(4), w,(y) costituiscono il sistema ortogonale completo della Do si abbia = (!) Sinigallia, Sulle funzioni permutabili di seconda specie, Rendiconti dell'Acca- demia dei Lincei, Nota I (ser. 5%, vol. XX, 1° sem. 1911); Nota II (ser. 5%, vol. XX, 2° sem. 1911). (2) Volterra, Sopra le funzioni permutabili di 2 speice e le equazioni integrali (Rendiconti dell’Accademia dei Lincei, ser. 5%, vol. XX, 1° sem. 1911). (*) Frobenius, Veber lineare Substitutionen und bilineare Formen (Journal fr d. r. u. a Mathematik, Bd. 84 (1878); Encyclopédie des sciences mathématiques (édition frangaises), tom. I, vol. 2, fasc. 4, pag. 440 e seg. — gg Ponendo ora b Ain | Pi(5) Wn(s) ds, sarà n rlesy= D PA 90) va); OJ ed in generale se (1) _f% sez=)l 1 OA i, h Tasto se i+ Ù À;h Ajn n e = (&=1,2,...) r=1 3 avremo DI A) 3. Se ora consideriamo il nucleo F;(2,7) come una forma bilineare coi nie ROMEA pi «ISIN coefficienti 7 e le variabili h sarà la potenza (4 — 1)" coli Frobenius) del nucleo F.(x ,y). Perciò la successione dei nuclei F.,F:,... condurrà certamente ad un nucleo che sarà una combinazione lineare omogenea a coetficienti costanti di tutti i nuclei precedenti. Se F,(x,y) è il nucleo del minimo ordine che gode di tale proprietà, avremo .wn(Y). per le (2) il nucleo Fx(2, 9) (4) aF(e,9) + a:F(ea,M)+- + apF,(£,9)=0, essendo le 4 delle costanti ed a, + 0. La (4) si dirà l'equazione del mi- nimo ordine cui soddisfa il nucleo F(x, y). Dalla (4) qualunque sia il nu- mero intero positivo 7 si deduce di F,4(£ , Y) + Ag Ka ’ Y) + Sag + Up ie 9 y) =0 cioè ogni nucleo di ordine maggiore di p è pure una combinazione lineare omogenea a coefficienti costanti di F,,F.,... Fp.. — 8359 — L'equazione caratteristica del nucleo F;(x ,y) sarà An gg Ao Ani À, ° dg MEZZI Ai Aso sg Ano Coe 7 + 0g = Ain Aon Ann AC 7 "> poor s =D 4 dos + ba5° +4 du 418° = 0. E se y(s) è il massimo comun divisore di tutti i minori di ordine — 1 del determinante £(s) e OE A 4 4,54 a35°H4 - -- 4 gps x(5)” l'equazione del minimo ordine cui soddisfa il nucleo F(x,%y) sarà appunto la (4). Invece, se i divisori elementari del determinante (s) sono potenze di basi tutte diverse fra loro sarà yx(s)=1 e 6(s)= (s). Inversamente se 6(s)= @(s) sarà y(s)=1 ed i divisori elementari del determinante (s) saranno potenze di basi tutte diverse fra loro. Dunque la condizione necessaria e sufficiente perchè b Pa, y) + be Pole, y) +-+ das Fa(@,9)=0 tO 6(s)= sia l'equazione del minimo ordine cui soddisfa il nucleo F(x ,y) è che i divisori elementari del determinante (s) siano potenze di basi tutte di- verse fra loro. Quando ciò accade (e soltanto in questo caso) i nuclei F,,F.,...F, saranno tutti linearmente fra loro indipendenti ed i nuclei iterati di tutti gli altri ordini saranno delle loro combinazioni lineari omo- genee a coefficienti costanti. 4. Però quando il determinante An . Ù O Ain DE= An . . . Ann è nullo ed ha la caratteristica 9, l'equazione del minimo ordine cui soddisfa il nucleo dato non può avere ordine maggiore di g + 2. Infatti se 0) Ag Aa (GIMME REMI / — % r= nd — 834 — ponendo n A ( ) OY] O gm. gl MEL) Le 9) rar] r i n] q+r avremo e le g{(x) saranno fra loro linearmente indipendenti e così pure le w(y). Quindi, s Ba — La pipa 4 S Mi TE poichè, per le (5), Bon e BO E avremo File. y)= Si I (2) Wi (Y ). i, h=1 Ora anche il determinante |B}| potrebbe essere nullo: perciò suppo- niamo in generale che le costanti BY) siano determinate ‘dalle formole Ai.h po == i,h dr, 9 Gra —Ur-3 1 (a (over dI e s=1 (Getto e = eos PED) essendo le ul delle costanti e q-1=% ; do="%9 ; Ri == Min. Supponiamo ancora che il determinante Bg: +) 7 Sena SIA BIS pil ° . . Ba, ,qr-3 — 835 — sia nullo ed abbia la caratteristica gr», sicchè Uras (8) BO nt ) u9BG gl (ei... ge. 1) e che le funzioni g(x), wY(y) siano definite dalle relazioni 1 dL)= pile) 3 W°4) = TE Wi(Y) Qr=2 . Yi 3 IV 0 @) SE Bet, Ù 300° ra ) (9) I Pi (2) da is 95 (2) i, s= Qr=aYre1 EMME DO e. s_il Dalle formole precedenti segue subito che, se uo = pi pi Qra1— Gr 10) 53 DE 3 Sio ‘ uf gono L N n atap, sl si ha r=l Qo-1-95 Il - puirir=0=1) ; 6] (7) ==] Dc a Ol) #9)=7 Utd Digi: O= t= Infatti la (11) per 7="1 coincide con la seconda delle (6). Inoltre supposta vera la (11) per un valore di 7 per le (9), (11) avremo Qre1—9r r+ Wi ) o pra BOL I by M+ i = q,+T drndg 1 e 1,0 (n dun De i) Wa,+3(0) CEI GS t=1 43 G=il e per la (10) v_ Qo-17Yo sci! sia? den O e=0 t=1 cioè la (11) sussiste anche per 7 +1. ReENDICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 109 — 836 — Segue anche dalle formole precedenti che (12) Bo 774 SI 122 I, 7 (212) (#9) si BS, (== dr == 01 RIMA Infatti per le (7), (8) si ha Qr \ Qrai —-Qr Î (CAPS), — (1) (F+2) \ Mportr2) \ Bien oa » Usi ‘i + 5 Who BS i ’ sli o=1 e quindi , (T+3) 30 r+3 (121) Brin = y por» BE+® cioè la (12) sussiste per 7 = 0. E supposta vera la (12) pel valore 7 poichè per le (7), (12) Qqr_ai Qra74r Î (+3 =, 2 2 a Bilo ,ten Ta si Usi Pi b i ap / Uehia o Big,to ca s=il o=]l Ir_a iI P=1,T r+3 = \ US i ) Br ) 3 = avremo per le (12'), (10) Qr Qr-17Ir r+3 —1,T r r=1,T i) Br un pr + > aut BE = Sal o=l \ Ur. = (M3T41) P(r+3) ni Usi Bor 9 s=l cioè la (12) è vera anche per tT+ 1. Posto ciò se Qr_s F.(2,9)= xs Bigi vi) (2) dn=i e quindi Quas (13) Fi-.(® 39) = Db Bg» px ) TY )c vli=1 — 837 — Rue le B soddisfanno alle (8), avremo per le (9) qs (14) Fi(cg)= D gw); o= (n donde per l’ultima delle (7) (2,9) = der, i AL) Wa(9) - Perciò tenendo conto della (12) has k—3 Qr=9r (K—3.k-r—3) Î n L 8 È 5 Fi(c.y)= ) BW gf "(0) i DID SM) sp=1 a (AG e per la (11) Qr—3 (15) Pio .9)= ) BW gi 2) WA). i,h=1 Chimica. — Swi sol/foalluminati d’argento (*). Nota di Livio CAMBI, presentata dal Socio R. NASINI. Le ricerche che comunico sui solfoalluminati sono in relazione con quelle da me iniziate sui solfosilicati, che ho già in parte reso note (°). Lo studio di questi solfosali interessa per le conoscenze sul comporta- mento, come solfoanidridi, dei solfuri di silicio e di alluminio; comporta- mento finora assai poco studiato. I solfuri di silicio, Si Ss, d'alluminio, Al, Ss, di boro, B»S:, sono nettamente distinti dagli altri solfuri omologhi per le loro proprietà chimiche; i loro caratteri fisici sì allontanano pure notevol- mente dagli ossidi degli stessi elementi: presentano la massima diversità che sussista fra solfuro e ossido di uno stesso elemento. Un confronto dei solfosali con gli ossisali degli elementi su citati, e con i solfosali di elementi a eguale grado di valenza presenta un interesse generale. Ma anche altre considerazioni mi hanno indotto allo studio di questi solfosali: le relazioni che essi possono avere con gli oltremari. Pure nella (') Lavoro eseguito nel IEEE di Elettrochimica del R. Istituto 'l'ecnico supe- riore di Milano, diretto dal prof. G. Carrara. (£) Rendiconti del R. Istituto Lombardo, 1912, pag. 183. — 838 — ipotesi più moderna (*) che i colori degli oltremari siano dovuti ad una di- spersione di solfo, ad una soluzione colloidale di solfo, in seno a sali diversi, più comunemente poliborati o silicoalluminati alcalini, rimane però ancora oscuro il meccanismo con il quale si stabilisce la dispersione. Se cioè la dispersione di solfo sia dovuta ad una dissociazione di polisolfuri, oppure ad una dissociazione di composti ossigenati del solfo, come iposolfiti. La que- stione dell'importanza della funzione dei solfuri e dei composti ossigenati del solfo, per il problema degli oltremari è tutt'ora aperta. E mi sembrò interessante riprendere lo studio sugli oltremari partendo da solfosali puri, esenti da ossigeno. Per le relazioni dei solfosali con gli oltremari ricorderò infine che gli oltremari rossi di boro si ottengono introducendo in essi effettivamente sol- furo di boro (*). Le indagini sui solfoalluminati d’argento non costituiscono che una ri- cerca preliminare sui solfoalluminati, e intendo occuparmi specialmente di quelli alcalini. I solfoalluminati come i solfosilicati che ho su citati non possono venir prodottti che per fusione e per lo studio di essi occorre appli- care l’analisi termica. PARTE SPERIMENTALE. La preparazione dei solfoalluminati venne compiuta in parte con metodo analogo a quello da me usato per la preparazione dei solfosilicati d'argento (*): cioè venne compiuta la solforazione di miscele di argento e alluminio con idrogeno solforato puro e secco, a temperature da 900° a 1200°. L’argento era puro in minuti cristalli, l'alluminio del più puro (circa 99°/,) in truccioli. La solforazione delle miscele di alluminio e argento procede però assai stentatamente, per il fatto che l'argento fuso viene presto a ricoprirsi di uno strato di solfuri fusi molto ricco di solfuro d'alluminio, che protegge il metallo sottostante. Per procedere più speditamente ricorsi alla riduzione del solfuro d'argento con l’alluminio metallico, sempre in corrente di idrogeno solforato, portando il tutto a temperature di circa 1100°-1200°. Anche im- piegando solfuro e alluminio nei rapporti 3 Ag» S:2 Al, agendo in atmosfera solforante non ottenni che miscele di solfuro di argento e d'alluminio, la composizione delle quali variò nelle mie esperienze dal 25 °/ al 15 °/ in Ag, S. In ogni preparazione potevo ottenere circa 15 gr. di prodotto. Il solfuro d'argento venne preparato, per via ignea, come già altrove ho descritto. (') Abegg's Handh. anorg. Chemie, III, 1, pag. 128. M. I. Hoffmann, Chem. Indu- strie, 1911, pag. 699; Zeit. chem. Ind. fir Colloide, 1912. (?) Vedi M. I. Hoffmann, Chem. Ind., loc. cit. (3) Rendiconti R. Ist. Lombardo loc. cit. — 859 — Le fusioni di solfuro d'argento e d'alluminio intaccano la porcellana e ne provocano la rottura, ho dovuto usare navicelle e crogiuoli di grafite: rispetto a questa sostanza, almeno alle temperature alle quali ho SPELotO; i prodotti da me usati si mostrarono inerti. Le analisi termiche vennero eseguite pure in corrente di idrogeno solfo- rato ('), in crogiuoli di grafite. La pila termoelettrica (platino-platino rodiato) era difesa da un tubetto di porcellana. Le curve di raffreddamento vennero seguite fino a 650°; la velocità di raffreddamento era di 0,3°-0,4° al secondo. La quantità di sostanza impiegata per le analisi termiche era di 10 gr: in molti casi le analisi vennero ripetute con 15 gr. di miscela. Le durate si riferiscono a 10 gr. di miscela. La composizione delle varie fusioni venne controllata con l’analisi dopo la misura termica: l’intera massa di sostanza venne polverizzata (ciò che fu possibile fino circa al 90 °/, di Ag»S) rapidamente; dalla polvere prele- vavo il saggio per le analisi. Le determinazioni di argento e alluminio vennero compiute ossidando i solfuri con acido nitrico; il solfo totale venne determinato con il metodo della riduzione con stagno e acido cloridrico. Ho determinato spesso il solfo rispondente al solfuro di alluminio, attaccando îl solfosale con acido cloridrico diluito, in corrente di idrogeno, e determinando l'idrogeno solforato svoltosi. La tabella seguente riassume i risultati termici ottenuti. 5 n I UNO Primo arresto I Secondo arresto REI ; È in peso cristallizzazione 5 1|Ag,S 100 | 0° 836 Ta £ Ri do 2 95.9 830 Co 812 20 — _ 3 91.2 823 814 40 - _ 4 89.5 818 814 70 Lil - 5) 86.8 895 825 60 — | = 6 84.0 870 828 70 _ —_ 7 76.5 944 826 90 = = 8 11-2 998 820 50 — | = 9 66. 1010 810 30 = = 10 61.7 1015 817 10 — = Jl 08 1027 809 20 — = 12 56.9 1032 — —_ - = 13 54,0 1057 —_ — —_ =; 14 51.4 1050 = = 23 È 15 469 1026 _ —_ C° 840 = 16 41.4 1012 — — 847 20 (1) L'impiego dell’idrogeno solforato l’ho trovato assai utile con i solfosali di ar- gento e di piombo. I solfuri di questi due metalli fondono in corrente di questo gas senza subire alcuna decomposizione. Non ho mai trovato un contenuto anomalo di solfo nei solfosali che ho studiati. — 840 -— I dati termici corrispondono al diagramma seguente: Le miscele più ricche del 40°/ in Al»S3 fornirono dati termici non ben decisi. Queste miscele si alterano anche con grande rapidità all’ aria umida. Le miscele dal 20 °/ al 30% di Al, S; sono fuse fra 900° e 10509: sì presentano dopo raffreddamento come masse compatte, apparentemente omogenee, dure che si spezzano in scaglie di colore giallo dorato. Come si vede la curva di fusione presenta un massimo poco pronunciato a 1035°, compreso fra il 54°/ e il 57° di Ag,S, come ho veriticato in prove diverse. Dai dati termici, quali mì risultarono. non si poteva dedurre con sicurezza quale composto fosse presente: fra quelle due concentrazioni sono compresi i due rapporti molecolari più semplici 3 Ag.9:5 Al»S,, (Ag:955,2°/,) e 4 AgaS.5 AlaS; (Ag»$56.8 °/,). Ho dovuto decidere per il rapporto 4 Ag» S : 5 Al» S3 per le seguenti ragioni ('): Che le miscele 56-57 °/, Ag»S si mostrarono sempre composte omoge- neamente di cristalli bene appariscenti di colore giallo carnicino, di compo- sizione costante. Che inoltre sono riuscito ad isolare di questi cristalli, a composizione costantemente superiore al 56 °/, in Ag» S, tanto dalle miscele più ricche di solfuro d’argento, quanto da quelle più ricche in solfuro d’al- (*) Osserverò che il rapporto 4 Ag, S:5 Al, Ss è ben distinto dal rapporto più sem- plice Ag. S:AlsS che corrisponde al 62,2°/ di Ag,S. — 84l -. luminio: ciò approfitiando di fenomeni di liquazione molto bene evidenti. Cito i seguenti esempi: Dalla miscela a concentrazione di I cristalli separati avevano la composizione Ag:S su cento 98,05 Ag»S su cento 56,49 ” 51,58 ” 57,05 ’ 46,94 ” 57,28 Le analisi vennero eseguite con tutte le cautele del caso, trattandosi di sostanze sensibili all'umidità atmosferica. Le miscele a concentrazione anche di poco superiore al 56,8 °/, mo- strarono nella massa, dopo raffreddamento delle zone di solfosale colore ardesia, ben distinte dal resto della massa costituita dai cristalli che ho su descritti. Queste parti ardesia avevano un contenuto assai superiore in solfuro d’argento. Le miscele oltre il 70°/, di Ag»S hanno colore ardesia. L'arresto eutectico, che varia fra 828°-810°, presenta una curva dei tempi anomala; probabilmente tale andamento anomalo è dovuto alla sepa- razione di un composto decomponibile, la cui temperatura di formazione è assai vicina a quella eutectica inferiore, per modo che i due arresti sì con- fondono. Il composto sarebbe compreso fra i 70 e 60 °/, moli di Ag» S. Conforta questa ipotesi il fatto che le miscele a tenore di Ag» S inferiore all'eutectica presentarono l'arresto costantemente con sopraraffreddamenti a differenza delle altre. Casi simili vennero d'altra parte osservati anche recentemente ('). Il composto 4 Ag» 8:5 Al.S: è di colore giallo carneo, come dissi, in cristalli facilmente friabili, molto rifrangenti. Al microscopio di polarizzazione i cristalli si mostrarono otticamente omogenei, birifrangenti: debbo queste osservazioni alla cortesia del prof. E. Repossi che ringrazio vivamente. Riferisco alcuni dati analitici riguardanti questo sale: Trovato su cento Calcolato per 4 Ag» S.5 Al, Ss Ag. 49,19 49.50 AI 15,74 15,99 Al.Sz 43,06 43,14 Il solfuro d'alluminio s'intende dedotto dall’idrogeno solforato svoltosi per trattamento con acido cloridrico diluito, come dissi. Il contenuto in ferro e in silicio, impurità assai difficilmente evitabili, venne ridotto al minimo nei prodotti ottenuti. Ad esempio, nella determinazione precedente riscontrai il 0,30 °/, di silice. Concludendo, nel tratto di sistema studiato, si incontra il solfosale 4Ag,S.5 Al»S3 che fonde inalterato a 1035°, e con molta probabilità un (') C. Sandonnini. Questi Rendiconti. — 842 - altro composto, decomponibile a 825°, la cui composizione è compresa fra i 70 e 60 moli, su cento, di Ag,S (2 Ag» S.A1,83 2). A quanto io sappia, mancano composti analoghi al primo composto descritto: si incontrerebbero rapporti molecolari vicini in una cuprobismutite naturale, 3 CuS.4 Bis S3 ('). Si potrebbe forse ritrovare qualche analogia nell'ossialluminato 3 Ca 0.5 A1:0;, che anche ricerche recenti hanno bene definito (?). Chimica. — Gl equilibrii nel sistema: cloruro di bario, ni- trato di sodio, nitrato di bario, cloruro di sodio e acqua (*). Nota di AnGELO Coppaporo, presentata dal Socio R. NasIni (‘). Il processo industrialmente più usato per la preparazione del nitrato di bario è quello fondato sul doppio scambio fra cloruro di bario e nitrato di sodio in soluzione acquosa. Lo studio di tale processo presuppone lo studio della coppia reciproca di sali: Ba Cl, + 2Na NO; = Ba (NO;)- + 2Na CI in presenza di acqua. In tale caso le sostanze presenti sono: acqua, cloruro di bario, nitrato di sodio, nitrato di bario, cloruro di sodio; ma sebbene esse sieno cinque, pure si tratta di un sistema quaternario, perchè — data la equazione pre- cedente che lega fra loro i quattro sali — quando sieno note le quantità di tre qualunque di essi, è implicitamente indicata la quantità del quarto sale. Questo sistema quaternario contiene quattro sistemi ternarii formati dalle coppie di sali con un ione a comune in presenza di acqua; l'esame di questi sistemi ternarii, da varii autori fatto a temperature poco diverse da quella da me adottata (il quarto sistema fu da me già esaminato a 0°) (*), mostra che non ha mai luogo la formazione di un sale doppio fra due di questi sali con un ione a comune: si ha il fenomeno generale che la presenza di un sale con un ione a comune diminuisce la solubilità dell'altro sale. Tali espe- rienze furono da me ripetute a 80°, temperatura scelta per lo studio com- pleto della coppia reciproca. (1) Vedi M. Bauer. Lehrbuch der Miner, pag. 488. (?) E. S. Shepkerd e G. A. Rankin, Zest. anorg. Chemie 71 (1911), pag. 58. (*) Lavoro eseguito nel R. Istituto Tecnico di Asti (1912). (4) Pervenuta all'Accademia il 26 ottobre 1912. (5) Gazz. Chim. Ital., XLII, parte I (1912). A questa Nota rimando per le modalità sperimentali. Sii — I. — Il sistema: acqua, cloruro di sodio, nitrato di sodio. Questo sistema fu già esaminato a 15° da G. Bodlander (*) e a 20° da IWVESAVISRONI colt)? TABELLA I. Composizione della soluzione a 30°. PERCENTUALE IN PESO Ix 100 MmoLECOLE È n] nio] TG SOSTANZA DI FONDO ‘o H30 |°/o Na C/o Na NO! HO |(Na CD, |(NaNO,): 50,84 — 49,16 90.717 _ 9.283 | Na NO, 92,56 4,05 43,39 90 966 1.090 7.944 » 53,41 10,82 BOLT —_ — — ” 53,53 10,89 35,58 90.781 2.839 6 380 ” suo Da DE 90.747 3.246 6.007 | Na NO, + Na Cl 94,67 12.95 32.38 — _ —_ NaCl 94,87 13,11 32,02 91.037 3.545 5.618 ” 59,79 16,14 24,07 92.247 3.836 3.917 ” 69,70 23,30 7,00 94.184 4,839 0.977 ” 73,53 26,47 — 94.758 5.242 — ” Graficamente, questo sistema è rappresentato da due sole curve di sa- turazione, che si incontrano nel punto B che corrisponde alla soluzione satura di entrambi i sali (ved. figura). Anche l’esame dei rest? esclude la presenza, nelle fasi solide, di sali doppii. II. — Il sistema: acqua, cloruro di sodio, cloruro di bario. Questo sistema, a 30°, fu già esaminato da Schreinemakers e De Baat (8), in occasione dello studio del sistema quaternario: acqua, cloruro di sodio, cloruro di rame. Mi valgo quindi dei loro dati. Anche in questo sistema hanno luogo rapporti molto semplici, perchè compaiono due sole fasi solide: Ba Cl, :2H,0, e NaCl. La isoterma quindi, anche in questo caso è costituita da due sole curve di saturazione che si incontrano nel punto D; anche Ridorff aveva escluso l’esistenza di sali doppî a 19°,4 (*). (1) Zeit. fir phys. Ch., 7, 358 (1891). (?) Phys. Magaz. (5), 2/, 369 (1891). (*) Zeit. fir phys. Ch., 65, 587 (1909). (4) Berichte, /8, 1159 (1885). RenpICONTI. 1912, Vol. XXI. 2° Sem. 110 — 844 — III. Il sistema: acqua, cloruro di bario, nitrato di bario. Étard (') esaminò soltanto la solubilità del nitrato di bario in soluzioni sature di cloruro di bario fra —7° e 210°. Il sistema ternario non era mai stato studiato a nessuna temperatura. Anche qui la isoterma è costituita da due sole curve di saturazione, che si incontrano nel punto F. TABELLA II. Composizione della soluzione a 30°. =—_rmr—tr——&+»+----——----+YTYT+------@<@<@x>x&&&@&=—» PERCENTUALE IN PESO In 100 MOLECOLE ct Hy0:l0/y Bai, sl Do mol ! Pd ni. SOSTANZA DI FONDO 89,67 = 10,33 99.213 _ 0.787 |Ba(NOx)s 84,39 6,06 9,55 98.621 0.611 0.768 ” 78,05 | 13,75 8,20 97.805 1.488 0.707 ” 75,94 16,14 7,92 97.511 1.789 0.700 ” 69,36 22,70 7,94 96.507 2.733 0.760 ” 66,00 26,06 7,94 | 66,02 26,14 7,84 95.843 3.350 0.807 |Ba(NO;).+BaC1,°2H,0 66,01 26,12 7,87 67,99 26,64 5,97 96.086 85255. 0.659 |BaCls:2H20 68,96 | 26,91 4,13 96.357 3.246 0.397 ” 71,04 27,38 1,58 96.636 3.216 0148 ” 72,4 27,6 — 96 813 3.187 _ ” IV. — Il sistema: acqua, nitrato di bario, nitrato di sodio. A 0°, questo sistema fu già da me studiato dettagliatamente in vista della possibile esistenza di sali doppî, la formazione dei quali è invece da escludersi (?). Le esperienze furono ripetute a 30°, in modo perfettamente analogo. Le due curve di saturazione si incontrano nel punto N. (4) Ann. Chim. phys. (7), 13, 275 (1894). (2) loc. citato. — 845 — TaseLLA III. Composizione della soluzione a 30°. [rr —____________rrrrr==__=.========-—=——- | PERCENTUALE IN PESO In 100 MOLECOLE o, H,0 S “lo A o mol. mol. _mol. SOSTANZA DI FONDO a(NO,),| Na NO; | H,0 |Ba(NO;):{(NaNO;), 89,67 10,33 — 99.213 0.787 = | Ba(N0;), 89,09 8,58 2,33 | 99.069 0.657 0,274 ”» 87,63 5,28 7,09 | 98.744 0.410 0 846 ” 84,04 3,89 12,07 | 98.194 0.313 1.493 ” 82,05 3,54 14,41 | 97.879 0.291 1.820 ” 78,98 3,20 17,87 | 97.393 0.272 2.335 ” 77,87 3,07 19,06 | 97.216 0.264 2.520 ”» 73.64 2,81 23,55 | 96.480 0.253 3.267 » 56,51 DAT 41,22 | 92.591 0.256 7158 ”» a ni SOI ogni 0.268 9.306 | Ba(NOg)s + Na NO 49,61 208 | 4881.) 0° 0a i i ; 50,50 1,00 48,50 | 90.655 | 0.124 9.221 | NaNO; 50,84 — 49,16 | Ono 9.283 ” V. — Il sistema quaternario: acqua, nitrato di bario, cloruro di bario, nitrato di sodio, cloruro di sodio. Per la rappresentazione, sia numerica che grafica, di questo sistema seguii il metodo proposto da Schreinemakers e da lui applicato allo studio della coppia: solfato di rame, cloruro ammonico, solfato ammonico, cloruro di rame ('). Le esperienze consistettero nel preparare ed analizzare le possibili so- luzioni sature di tre sali e le soluzioni sature di due sali in presenza di quantità variabili di un terzo sale, in modo da passare dalle soluzioni sature di tre sali a quelle sature di due soli sali, con un ione a comune, e prive affatto del terzo sale. Queste ultime sono le quattro soluzioni sature di due sali già esaminate durante lo studio dei quattro sistemi ternarii, e sono so- lamente quattro, data l'assenza di sali doppî fra i sali con un ione a comune. (*) Zeit. fùr phys. Ch., 69, 557 (1910). — 846 — Ognuna di queste soluzioni è graficamente rappresentata dal punto di incontro delle due isoterme del sistema ternario; ad esse corrispondono i quattro punti B, D, F, H della figura, la quale rappresenta la proiezione, sul piano, della piramide. Sperimentalmente si conferma che le soluzioni sature di tre sali sono soltanto due: l'una è satura di Na(NO);, NaCl e Ba(NO:).; l’altra, di NaCl, Ba(NO:)., Ba Cl: : 0, per meglio dire, delle due soluzioni sature, l'una è in equilibrio con le tre sostanze di fondo Na NO:, NaCl e Ba(NO;),, l'altra con le tre NaCl, Ba(NO:), e Ba Cl, :2H,0. Queste soluzioni, come pure le soluzioni sature di due sali in presenza di un terzo, si ottennero mettendo in presenza di una certa quantità d’acqua quantità varie di tre dei quattro sali in questione. Oltre alle soluzioni, ven- nero analizzati anche i rispettivi resti, la composizione dei quali permette di stabilire la composizione delle sostanze di fondo. Nella seguente tabella riporto la composizione centesimale delle solu- zioni e dei rispettivi resti. “ 3317 FS8I 1916 = 498 10‘0 6L°8 89448 = 1999 “ PARKS she 16‘99 “a 8L°8 10‘0 88°8 SIFE = CL°99 s' “ 8618 9098 c9‘7E È IO'TI 61°0 668 ESTE = SO L9 i « 6L‘69 98° 99°L = 69‘FI 60‘0 978 60446 = 9619 UL IO EN + 0°H3: "IO *ad+"("oN) ea | 0979 9661 96% = 81°gI 930 18°8 LT43 S 0999 ù “ C819 G8EC LEO * 9E'F1 cL'9 LS°L G8'LI “ 9829 8 0°H3 -‘19t*Ed + (ON) Ud | 6909 139% È UA 1251 GL 19% = 9389 L do 3 9g L0°17 POTP = SOI EE11 6LFE CGS 9 | “(‘‘ON) vd + ONÈN| — ILE B6‘89 99°, # 88° cG9 10‘68 766 S à “ ui qee ge‘ee 0897 = I9°l 8I°3I 1688 1669 F I ‘ = 178 089F LL'OI = FOT 61° 08°G£ 1L8°69 £ (FONDA +IO2N+°ONUN| = s = a a = SIT tata! CGS 61°89 G IDEN HT "ONTEN| — L6‘0 ESSI G8*FE C98F =° OI°I 8661 GL'8s USS I ‘Toeg |*(ON)?a| ION | “ONEN O“H ‘TOUa |FFON)TA] IOUN | fONUN O°H z OCNOJI IA HZNVLSOS E OLSHY 140 INOIZATOS VITAG 2 o00E D apnquassad auorz:s0duog ‘AI VITSAVI], — 848 — L'esame dei resti porta ad escludere anche nel sistema quaternario la esistenza di sali doppii o complessi; nei resti delle esperienze 7 a 13 bisogna tener presente che la massima parte dell’acqua è acqua di cristallizzazione del sale Ba Cl, - 2H:0, per cui la quantità percentuale di acqua libera esi- stente in questi sette resti è molto piccola. Le esperienze 2, 3, 4 portarono a soluzioni d'identica composizione, cioè sature dei tre sali Na NO;, NaCl e Ba(NO;): (punto M); e parimenti le esperienze 9, 10, 11, 12, 13 porta- rono alla stessa soluzione satura dei tre sali Ba(N0O3),, Ba Cl, 2H;0, NaCl (punto N), sebbene e nell’uno e nell’altro caso si fosse partiti da quantità diverse dei tre sali. Se ora, riferendoci al contenuto dei diversi sali in 100 molecole — inten- dendo per molecole i complessi molecolari equivalenti: (Na Cl)», (Na NO), Ba(NO;)., Ba Cl, — uniamo insieme le composizioni delle soluzioni del sistema quaternario con le composizioni delle soluzioni dei sistemi ternarii, sature di due sali con un ione a comune, possiamo con uno sguardo generale osservare qual'è l'andamento della solubilità di due sali con un ione a comune in presenza di quantità variabili di un terzo sale. TABELLA V. Composizione delle soluzioni in molecole per cento a 30°. | °/o mol. | °/o mol. | °®/o mol. | °/o mol. |°/o mol. g H30 |(NaNO;),|(NaC1),|Ba(NO;)a | Ba Cl OSTANZENDISZONDO B | 90.747] 6007 | 3.246 0 Na NO, + NaCI | 90.721 5.947 M | 90.648 5.965 3.204 3.196 n Na NO; + Na C1+ Ba(N0;), H |-90.331| 9.806 0 0,263 0 NaNO; + Ba(N0x), 91.038] 7.104.| 1.646-| 0217 0 n 90411) 6.375 | 3017 | 0.197 0 > M | 90.648| 5.965 | 3.196.| 0.191 0. | NaNO,+NaC1+ Ba(N0;), D | 94751 0 4.819 O | 0.430 | NaCl+ BaC],-2H,0 N | 93.890 5.269 | 0.827 | 0.014 | NaCI + BaCl3' 2H,0 + Ba(N0;), F | 95.84 0 0 0.807 | 3.350 | Ba(NO;), + Ba Cl. -2H,0 95454] 0 2,046 | 0.724 | 1.776 n 94.657 0 3.824 | 0.727 | 0.813 n N | 93.890] 0 5.269 | 0.827 | 0.014 | Ba(NO;)2 + BaCl:2H,0+ NaCl M | 90.648| 5.965 | 3.196 | 0.191 0 | NaNO,+NaCl+Ba(N0;), N| 93890] 0 5.269 | 0.827 | 0.014 | NaC1-+ Ba(NO;), + BaCl,:2H;0 — 849 — Dall'esame dei risultati qui sopra raccolti, si deduce che a 30° possono esistere in contatto colle soluzioni quattro corpi solidi: Na NO;, NaCl, Ba(NO;)., BaCl:-2H;0. Poichè le soluzioni quaternarie sature di un corpo solido sono nello spazio rappresentate da una superficie, devono esistere nel caso nostro quattro superfici di saturazione ; le loro proiezioni sul piano della piramide sono rappresentate nella figura: AHMB è la superficie di saturazione di Na NO, BMNDC ’ ’ Na 01 DNFE . ; Ba Cl, ‘ 2H;0 NFGHM 5 ) Ba(N0.). Ba (N01), Le curve, secondo le quali si intersecano a due a due le superfici di saturazione, sono le curve di saturazione, le quali rappresentano le soluzioni sature di due sostanze contemporaneamente. Queste curve sono cinque: BM è la curva di saturazione di Na NO; + Na Cl HM ; ) Na NO, + Ba(N0;); DN , ) Na Cl + Ba Cl, ‘ 2H;0 FN ; o Ba Cl, ‘ 2H,0 + Ba (N0;)» MN , > NaCl + Ba(N0;): . I punti in cui convergono a tre a tre le curve di saturazione sono i punti di saturazione. Essi rappresentano le soluzioni sature di tre sostanze; sono solamente due, e cioè: M è la soluzione satura di Na NO; + NaCl +4- Ba (N0;)»: N ” ” NaCl + Ba Cl:2H,0 4 Ba(NO:).. I dati della tabella V sono quelli che servono a disegnare le curve di saturazione e i punti di saturazione, i quali, sia nella tabella che nel diagramma — 850) — sono indicati colle stesse lettere: ed è perciò che. in corrispondenza alle cinque curve di saturazione, la tabella è divisa in cinque parti orizzontali. Le altre curve della figura, e precisamente quelle che delimitano il campo delle soluzioni sature, sono le isoterme dei quattro sistemi ternarii, sono cioè le eurve di saturazione che rappresentano le soluzioni sature di un solo sale in presenza di un, secondo sale con un ione a comune. Dall'esame della figura si può dedurre quale sale solido può trovarsi in contatto con un altro sale solido in soluzione satura. Il NaNO; solido, p.es., può trovarsi in contatto con NaCl e con Ba(NO;:),, ma non con Ba Cl, : 2H,0; invece il NaCl e il Ba(NO;), possono trovarsi in contatto con uno qualunque degli altri sali. Ciò viene a dirci che delle due coppie di sali, costituenti la coppia reciproca, è stabile alla temperatura di 30° la coppia Na C1 + Ba(N0O.:).; l'esame del sistema ad altre temperature sarebbe necessario per stabilire la temperatura di trasformazione, di là dalla quale è invece stabile la coppia Na NO; + Ba Cl». Chimica fisica. — Spettr: di assorbimento di alcuni sali ura- nilici. Nota di ArrIGo MazzuccHELLI e OLGA GRECO D’ALCEO, presentata dal Socio E. PATERNO. In una Nota precedente (!) si sono esposti i risultati di studî sulla capacità dei sali uranilici e uranosi di formare complessi colle ammine, e si è accennato che i resultati, soprattutto negativi, là ottenuti, erano stati con- fermati da osservazioni sugli spettri di assorbimento. Di questi ultimi appunto si occupa la Nota presente. Gli spettri furono fotografati nel modo consueto, con un buon spettro- scopio di A. Hilger, Londra, che dà tutto lo spettro visibile, fra le linee 778 e 390, avendo una lampada Nernst da 16 candele come sorgente luminosa, e un tubo Baly (*) per realizzare gli spessori variabili, che furono di mm. 5; 7,4; 10; 14,2; 20; 28,4; 40; 50; 65; 80. Si usarono per lo più le lastre Lumière al gelatino bromuro, che con quel dispositivo restavano impressionate (per una esposizione di 60%) fra le 590 e 410; qualche volta le Pinacyanol bathed di Wratten e Wainwright, che restavano impressionate fra 700 e 415, con un minimo di sensibilità nel verde (500 a 560). Ai due estremi di ogni lastra si fotografava in ogni caso lo spettro dell’elio, come riferimento (5). (*) Rend. Accad. Lincei, XXI. 2, 1912 (620-626). (3) Baly, Journ. chem. Soc., 85, 1031. (*) Per quanto concerne la lettura dei nostri spettri, che richiede la conoscenza delle relazioni fra distanze lineari e lunghezze di onda, questa, che è determinata dall’indice di rifrazione del prisma e forma e dimensioni dell’apparecchio, non potrebbe aversi in modo rigoroso se non con una formola assai complicata, nè i comuni manuali(Ostwald-Luther — 851 — Ed ora passiamo ai risultati sperimentali. Nella prima Nota si è accennato che non si è potuto preparare l’ammino- acetato uranilico nè trattando con acido ammìnoacetico l’idrato uranilico o il pirouranato potassico, nè per doppia decomposizione fra solfato uranilico e amminoacetato baritico: è purtuttavia concepibile che in soluzione sì formi un composto di addizione, o anche, almeno in parte, l’amminoacetato per una reazione di questo genere: UO:(NO.), -- 4C.H;0,N= U0:;(C.H40;N). + 2C0:H30:N.NO;. Si son perciò fotografati gli spettri del nitrato uranilico in soluzione da 20 molecolare; e dello stesso più 5 molecole di acido amminoacetico. I due spettri, che qui non sono riportati, e saranno descritti nella Gazzetta chimica, difte- riscono assai poco tra loro, avendo le stesse bande, solo un po’ più definite e spostate verso il rosso in presenza della glicocolla: ciò può interpretarsi come dovuto alle variazioni nell’alcalinità del liquido per opera del gruppo amminico, ma nou accenna affatto alla formazione di un sale totalmente diverso come sarebbe l'amminoacetato uranilico, soprattutto se complesso. Il solfato uranilico (il cui spettro sarà pure descritto altrove) risente anche meno dell'aggiunta della glicocolla, e ciò sta in relazione colla sua minore ionizzazione. Dalla Nota precedente risulta pure che non si sono ottenuti composti di addizione fra uranilossalato sodico e anilina o piridina: alle stesse con- Messungenz Kohlrausch, Praktische Physik; Kayser, Handbuch der Spektroskopie, ecc ) indicano formule empiriche che possano farne le veci; io ho trovato che una del tipo 3-A4BYd+0 » dove 4 è la distanza da un punto preso per origine (foggiata per analogia con la nota formula di dispersione del Cauchy), serve abbastanza bene entro un certo campo delle nostre fotografie: all’infuori di esso, continua a dare valori mediocri per l’estremità violetta, mentre sono assai divergenti per l’estremità rossa dello spettro. Per dare una idea della concordanza e dei limiti di validità, riporto qui una serie di valori calcolati, in base alle misure eseguite colla macchina a dividere su una lastra qualunque, mediante le formula numerica n = 1090 + 164,5 V'aeE 12,78, ove la distanza d è la distanza in millimetri dalla D3: i varî numeri rappresentano le lunghezze di onda 4 delle principalifrighe dell’elio (v. Kayser, Spektroskopie, V, 519) +4- le differenze (calcolato — 4): 667,3+-50,1; 587,6+-8,4; 504,8+-0,2; 501,6+-0,2; 492,2+-0,2; 471,3+0,2; 447,2— 0,2; 443,7+-0,1; 488,8 — 0,2; 412,1—1,6; 402,6 — 2,6. Allo stesso modo ho calcolato, in base a misure fatte sulle zincotipie colla macchina a dividere, le formule che si troveranno riportate a proposito delle varie figure. Esse differiscono un po’ fra loro, in parte per disuguaglianze nella riproduzione fotomeccanica, e in parte a causa della costruzione dello strumento, per cui non si può dare a tutte le lastre, nelle esposizioni successive, una posizione assolutamente identica, perchè differenze analoghe, sebbene un po’ minori, si riscontrano pure fra le negative. Esse, del resto, non superano qualche decimo di millimetro. A. M. ReENDICONTI, 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 1610] go — clusioni conduce l’esame degli spettri di assorbimento. Quello dell'uranilossa- Da è riportato nella figura 1. Come scala, vi sono foto- grafate le righe dell’elio (da sinistra a destra): 667.8; 587,0; 501,6; 492,2 471,3; 447,2; 438,8. Le loro lunghezze di onda sono espresse in funzione della loro distanza « in mm. dalla riga D; mediante la formula (dedotta dalle misure sulla zin- )6 salt AGIO 10 TESS cotipia, lato inferiore) ‘ni 1122 + 161,9 V4+12,353.. lato, in soluzione Le distanze non van contate dal centro delle righe, ma dal loro bordo dalla parte del violetto, perchè la fenditura dello spettroscopio Hilger è ad apertura unilaterale. Nello spettro si osserva: una banda debolissima, e rico- noscibile solo coi maggiori spessori, intorno alla lunghezza di onda 489; una, stretta e assai permanente, col vertice a 471; una, ancora più permanente, a 455, la quale, col crescere dello spessore, si fonde nell’assorbimento generale del violetto; una a 442, che compare fin dai minori spessori e poi si fonde nell’assorbimento generale; infine, una a 432, riconoscibile solo cogli spessori minimi. La fotografia fu eseguita su lastra ortocromatica. Nella figura 2 è riportato lo spettro di 25 ce. della soluzione precedente più 3 ce. di piridina; tutte le lunghezze del tubo Baly furon qui aumentate di 57 , allo scopo aver sempre lo stesso « spessore ottico » dello strato assor- bente. Vi sono fotografate le righe dell'elio: 607,8; 587,6; 501,6; 492,2; 471,3; 447,2; 438,8. La formula che dà le lunghezze di onda in funzione delle distanze in mm. dalla D;, è 112] + 162,5//4+ 12,33, ed è stata de- dotta da misure sullo spettro inferiore. Le bande di assorbimento sono qua- litativamente le stesse, ma la posizione ne è un po variata, e ne è un poco cresciuta la larghezza: così la banda a 489, debolissima per l’uranilosale puro, è qui meglio apprezzabile, e ha il centro a 493; l'altra, a 471, si trova all'incirca allo stesso posto, ma è più dilatata e scompare prima nell'assor- bimento generale, ciò che può dirsi pure per l’altra a 455, mentre quella a 442 non è quasi riconoscibile nel maggiore assorbimento del violetto; la 432 è quasi del tutto scomparsa. Anche questa fotografia fu presa su lastra ortocromatica. Se manteniamo il caposaldo che ogni variazione nello spettro di assorbimento è indizio di variazione nella sostanza disciolta, occorre am- mettere che in questo caso una certa azione la piridina deve averla avuta. Ma io ritengo che ciò possa interpretarsi, anzichè colla formazione di un complesso (il cui spettro, secondo ogni verosimiglianza, dovrebbe esser total- mente diverso da quello del sale iniziale) colla influenza che una base, sia pur debole come la piridina, deve avere avuto sulle condizioni di neutralità della soluzione: è stato infatti già osservato da altri (Morton e Bolton, 1873), — 853 — che una variazione nell’acidità delle soluzioni urariliche fa variare la esten- sione, ma non la posizione delle bande: non identico, ma analogo effetto deve dunque aversi se. invece di acidulare, si alcalinizza debolmente la so- luzione. Le stesse determinazioni si sono fatte su un miscuglio di uranilossalato sodico ed esametilentetrammina, — questa nel rapporto di 5 molecole contro M 1° SE ; una di uranilosale in soluzione an n il cui spettro è riportato nella fig. 3. Vi si trovano le righe dell'elio: 501,6; 492.2; 471,3; 447,2. La formula che dà le lunghezze di onda in funzione delle distanze in mm. dalla 501,6 LOS pra i ; è Mi = 1127 + 161,4V/4-+28,9, ed è stata dedotta da misure sullo spettro inferiore. Per questo spettro, che è fondamentalmente uguale a quello del- l'uranilosale puro, solo essendo un poco ridotta la estensione delle bande, sì posson ripetere le stesse considerazioni del caso precedente: la esametilen- tetrammina, cioè, ha avuto influenza in quanto è base, ma non ha dato luogo a formazioni di complessi; e ciò è d'accordo con quanto si è trovato nella Nota sopracitata, per via puramente chimica. Analoghe determinazioni si sono fatte coll'uranilomalonato sodico (in soluzione 20) Lo spettro della sua soluzione. qui non riportato, si risente assai poco dell'aggiunta di piridina. che solo fa dilatare un poco le bande, non spostando i loro massimi. A controllo poi delle conclusioni precedenti, si è esaminato un caso in cui l'azione chimica fra ammina e sale uranilico fosse fuori dubbio, per verificare se effettivamente lo spettro ne risentisse una notevole modificazione, e se quindi il suo mantenersi pressochè inalterato potesse senz'altro interpre- tarsi come dovuto a inattività chimica. Dagli studî di Itzig risulta che il tartrato di uranile ha una costituzione anormale, di acido complesso uraniltartrico. che dagli alcali non viene de- composto, ma salificato con formazione di uranilotartrati, sul tipo, pare, del tartaro emetico. Si è dunque esaminato lo spettro del tartrato di uranile, solo e in presenza di piridina. Nella fig. 4 è riportato lo spettro del tartrato doppio (0, più probabil- mente, complesso) di uranile e sodio, UO,(C,H,OgNa)., ottenuto, in conc. ii o per doppia decomposizione fra nitrato di uranile e tartrato sodico in propor- zioni opportune. Vi sono riportate le righe dell'elio: 667,8; 587,6; 501.6; 492,2; 471,3; 447,5; e la formula che dà le lunghezze di onda in funzione 10 _ 1116+163,0V/4+123 ed è stata dedotta da letture fatte sullo spettro superiore. Nello spettro di assor- delle distanze in mm. dalla D;, è — 854 — bimento sì riscontrano due bande, strette e assai permanenti, a 502 e 484; una terza, a 468, si intravvede sull’orlo dell’assorbimento completo della parte violetta dello spettro. La lastra era ortocromatica, e da ciò l'indebolimento generale nel verde. Lo spettro di 25 cc. della soluzione precedente più 3 ce. di piridina (con corrispondente allungamento del tubo Baly), è riportato nella fig. 5. Vi si trovano le righe dell’elio: 667,8; 587,6; 501,6; 492,2; 471,3; 447,3; e la formula che dà le lunghezze di onda in funzione delle distanze in mm. dalla )6 Di: è 11164 163,0 /d-+12,3 ed è stata dedotta da misure sullo spettro superiore. Lo spettro di assorbimento è qui assai diverso: le bande precedenti sono scomparse, dando il luogo ad una, abbastanza larga, col vertice a 496; l'as- sorbimento del violetto è assai maggiore, e sì estende sempre più col cre- scere dello spessore, arrestandosi però nettamente a 507, anche per gli spes- sori massimi; nullo, al solito, l'assorbimento dei raggi meno rifrangibili. La lastra era anche qui ortocromatica. Non cì si può esprimere categorica- mente sulla natura dell'azione chimica che ha avuto luogo in questo caso: probabilmente si ha il passaggio, sopra accennato, dall'uranilosale complesso, con due molecole di acido tartrico, al composto di Itzig, con una sola molecola di acido tartrico per un atomo di uranio, senza escludere però una addi- zione ('); ma in ogni caso è certo che una variazione è avvenuta, e vediamo che lo spettro di assorbimento non manca di risentirsene. A ragione dunque può escludersi una azione chimica dove la natura delle bande non è cambiata. (*) Sono in corso studî per precisare la questione in questo caso e in quello di altri acidi attivi, malico, chinico, lattico ecc. dove il problema può esser discusso anche col sussidio del potere rotatorio. A M. REND. R. ACCAD. DEI LINORI (CI. sc. fis. ecc.) 1912. A. MAZZUCCHELLI e OLGA GRECO D’ALCEO. Fia. 1. Fia. 2. Uranilossalato sodico. Uranilossalato sodico + piridina. M@s ta RIGO: Uranilotartrato sodico. Uranilossalato sodico 4 esametilentetrammina. Fia. 5. Uranilotartrato sodico + piridina, — 859 — Chimica. — Sui dorati. Sistema B°0°-(NH')°0-H°0 a 30° (2). Nota di U. SBoRseI, presentata dal Socio R. NASINI. La composizione dei borati è nota solo incompletissimamente. Anche per 1 borati delle basi più comuni non si hanno nella letteratura — fatte alcune eccezioni — che dati manchevoli: non di rado erronei. Ciò — come è noto — proviene principalmente da due ragioni. Con quasi tutte le basi colle quali si combina l’acido borico dà origine, per via umida, a borati diversissimi a seconda delle condizioni di concentrazione, di temperatura ecc. e di tutti i borati ottenibili per una stessa base non ne sono stati studiati e descritti che pochi. Inoltre lo studio di quasi tutti questi borati è stato eseguito quando i mezzi di indagine si riducevano alla sola analisi del composto, nè si poteva giungere a fissarne la composizione per una via indiretta. Data la difficoltà che si ha per molti di questi composti a isolare il corpo di fondo separantesi da una soluzione, lavarlo, seccarlo, pesarlo per l'analisi senza che esso subisca alterazioni, dato che non sempre, salvo i casi più chiari, l’analisi può dire se si tratti di un solo composto o di un miscuglio di due o di più, e dato infine che i metodi di determina- zione dell'acido borico che si hanno oggi sicuri e rapidi mancavano quasi del tutto prima, si capisce come i resultati che si trovano nella letteratura siano spesso malsicuri e contraddittorî. Ora la conoscenza esatta e completa della composizione dei borati mi è sembrata di importanza non trascurabile, prima di tutto dal punto di vista strettamente chimico specialmente per l'attitudine dell'anidride borica a dare origine ad aggruppamenti polimolecolari; di importanza non trascurabile poi anche dal punto di vista industriale in Italia, dove si ha nei soffioni di Lar- derello la maggior sorgente e la maggior industria borica del mondo; indu- stria, il cui sviluppo è di necessità connesso anche colla conoscenza più pre- cisa della chimica del boro. Per queste ragioni mi sono proposto di studiare, servendomi specialmente della teoria delle fasi, la composizione dei borati di diverse basi e questo studio sarà argomento di una serie di Note. Si ha già lo studio dovuto a Dulkeski dei borati di sodio (?), di potassio (*) e di litio (‘) a 30°. (!) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Pisa. (2) Dulkeski, Zeitschr. f. anorg. Ch., 50, 38. (8) Id. id., 50, 38. (4) Id. ld., 54, 45. — 856 — La presente Nota riguarda il sistema (NH*)?0-B*03-H?0 a 30°. I principali borati di ammonio formantisi per via umida che si trovano descritti sono ì seguenti (!) espressi colla notazione x-y-s in ((NH*)®0)® (B?03)v (H°O):: I 1.2.4 Gmelin (Schw. 15 (1815) 258. II. 1.2.5 A. Atterberg (Bull. Soc. Chim. (2) 22, 351). IIT 1.3.7 Schleisner (Ber. 26 (1893) Ref. 112). IV 1.4. 4 (Larderellite). V. 1.4.6 Gmelin. VI 1.5.8 A. Atterberg (Bull*Soc. Chim. (2) 22, 351). VII 1.6.9 (Secondo Bechi, si forma dalle soluz. acqu. calde della Larde- rellite). VIII 2. 1. 2 (?) Berzelius (Pogg. 2 (1824) 126). IX 2.5.5 Arfvedson. X 3.4.3 Arfvedson (Pogg. 2 (1824) 130). XI 3.4.9 Arfvedson. Si trovano anche accennati 1. 4. 9, 1. 4. 7, 2. 5, 2 ecc. ecc. La composizione percentuale di questi borati è la seguente: Borato (NH*)?0 0/o gr B*0° °/, gr. H?0 °/, gr. Ie Qi 19.70 53.08 27.27 19295 18.44 49.64 31.915 oo 13.402 94.123 32.475 1.4.4 12.871 69.307 17.822 1.4.6 11.82 63.64 24.54 Io 56 © 9.523 64.102 26.375 TONO 8.202 66.204 25.552 DID 49.524 33.338 17.143 2.9. 9 TO SIR 64.34 16.544 3.4.3 81.837 57.143 11.020 3.4.9 26.087 46.823 26.99 Secondo quanto sì trova nella letteratura, i borati più sicuramente esi- stenti degli 11 sopra citati sono l'1-5-8 e 1'1-2-5 (2). o La preparazione di questi composti consiste di solito nella precipita- zione da soluzioni acquose in diverse condizioni di temperatura e di concen- trazione dei costituenti che non è qui il caso di riportare: la composizione veniva determinata dai dati detratti dall'analisi diretta del composto. Per (*) Confr. Gmelin Kraut, Handbuch der anorg. Ch. 7 Aufl. Bd I Abt. 3, 441. (8) Cfr. Gmelin Kraut, loc. cit.; Abegg. Handb. d. anorg. Ch. Bd III Abt. 3, 389, Atterberg, Zeitschr. f. anorg Ch. 48, 371. — 857 — le ragioni espresse in principio di questa Nota i resultati così ottenuti sono per lo meno incompleti e talvolta incerti, in questo caso particolare più che altrove data la volatilità di uno dei componenti. Ma attualmente la teoria delle fasi permette di ricercare sistematica- mente tutti i composti che possono formarsi, di determinarne la composizione anche quando non sia possibile separare il corpo di fondo ottenuto e di de- cidere se il corpo di fondo sia un solo composto o un miscuglio di composti. Le esperienze da me eseguite sono le segnenti. In palloncini a vetro sottile della capacità di circa 30 em? si poneva una quantità pesata approssimativamente di acido borico purissimo; si aggiun- geva un certo numero di cm? di soluzione di ammoniaca esente da CO? a titolo approssimativamente noto, e una certa quantità di acqua pure esente da CO?. Le quantità di sostanza poste a reagire venivano scelte in modo che si avesse naturalmente sempre un corpo di fondo e che poi le quantità di am- moniaca fossero via via crescenti. Il palloncino si tappava e si poneva in termostato a 30° dove si lasciava un tempo opportuno a raggiungere l'equi- librio: sì faceva in modo che non sì avesse pressione stappando il palloncino dopo un po di tempo dall'inizio dell'esperienza, perchè sfuggisse l’ammoniaca eventualmente liberatasi e ritappandolo subito. Nelle prime esperienze ci si assicurò di aver raggiunto l'equilibrio analizzando due campioni di soluzione presi a intervalli di 24 ore. Si vide ben presto che l’equilibrio era raggiunto di solito dopo 24 ore dall'inizio dell'esperienza. forse anche assai prima, ma in ogni caso si tenne sempre in termostato almeno 24 ore per tutta sicurezza: del resto in questo genere di esperienze i resultati sono più che altrove una riprova se siano intervenute o no cause di errore, perchè questo si manifesta subito nel decorso delle rette di coniugazione del diagramma in cui essì sì esprimono. L'equilibrio si raggiungeva assai presto anche — credo — per il modo di agitazione impiegato che mi pare il caso di descrivere perchè — che io mi sappia — non è stato fin qui adoprato mai. L'apparecchio di agitazione è quello della figura schematica seguente. Un asse verticale AB porta in D una piccola ruota dentata, la quale ingrana su una cremagliera C. Questa cremagliera ha un movimento di vai e vieni per mezzo di una testa di cavallo O e di una piccola asta snodata S che unisce C ad O. La testa O è solidale coll'asse della ruota R azionata da un motorino. La forcella F FF” sostiene l’asse A B e l'asse della ruota. La cremagliera si muove lungo guide appoggiantisi sulla F FF”, che nel disegno non sono riportate. L'asse A B compie allora per ogni movimento di andata della cremagliera C una rotazione in un senso, per ogni movimento di ritorno una rotazione in senso opposto: si ha cioè un moto rotatorio invertito di continuo. — 858 — Nel mio apparecchio l'inversione di rotazione avveniva ad ogni giro dell'asse A B. All'estremità inferiore di questo sono ora posti due o più bracci fissi, i quali portano ai loro estremi delle morsette. In queste si fissano i palloncini per il collo in modo che essi sieno immersi fino all'orlo nel liquido del termostato. È chiaro che nel mio apparecchio per ogni giro dell’asse ogni palloncino descriveva una circonferenza di raggio PB una volta in un senso, una volta in senso opposto. Questo agitava vivamente il contenuto del pal. loncino ed insieme il liquido del termostato. Per estrarre la soluzione mi serviva di una pipetta due volte ricurva : all'estremità che si introduceva nel palloncino ponevo della tela fitta per avere la soluzione ben filtrata: dall'altra estremità facevo aspirazione. L'estra- zione si eseguiva senza togliere il palloncino dal termostato dopo averlo lasciato alcun tempo in riposo, perchè il corpo di fondo si depositasse. Estratto il liquido si tappava la pipetta alle due estremità e si pesava così. Pari- mente si pesava il palloncino contenente il Resto. Prima di ogni esperienza si faceva sempre di nuovo la tara della pipetta e del palloncino. Nella soluzione e nel Resto pesati sì determinava ora l’ammoniaca con HCl titolato e metilorange. Naturalmente si adoperavano tutte le precau- — 859 — zioni possibili per non perdere ammoniaca: a seconda dei casi si faceva arrivare la soluzione in una beuta contenente già H Cl titolato: per il Resto si metteva direttamente una porzione di H Cl titolato nel palloncino prima di trasportare in beuta ecc. ecc.: sì cercava poi di operare 1] più rapidamente possibile. Si cacciava poi l'ammonìaca con KOH, si neutralizzava con H CI, sì poneva a bollire ìn vifrigerante a ricadere per cacciare la CO?, infine si determinava l’acido borico con soda titolata esente da CO? in presenza di manuite e fenolftaleina. Esprimendo graficamente i resultati sperimentali (che pubblicherò per esteso tra breve) in diagramma triangolare di Roozeboom, si ha che dei borati ammonici ricordati in principio della presente Nota si forma a 30° soltanto l'1-5-8; inoltre che si forma a questa temperatura un borato 2-4-5 mai descritto prima di ora. Botanica farmaceutica. — Sull’anatomia del Jequirity (Seme dell'’Abrus precatorius L.) e dei semi delle piante comune- mente usate per sofisticarlo (*). Nota preliminare di Rosa BARIOLA, presentata dal Socio G. BRIosi. Il seme dell’Abrus precatorius L. (Jequirity) ebbe fin dai tempi più antichi applicazioni varie; oggidì esso viene largamente usato in terapeutica, specialmente in oculistica, e recentissimamente venne applicato dal prof. Ro- berto Rampoldi alla cura di alcune forme di cancro. Come fece notare recentemente il dott. Gino Pollacci (*), i semi di Abrus precatorius, non ostante il loro aspetto singolare, si possono facilmente confondere con quelli di altre leguminose: tali ì semi di RAynehosia preca- toria o phaseoloides D. C.; di Adenanthera pavonina L.; di Ormosia dasy- carpa Jacks: tutti pure di un colore rosso vivace e talvolta provvisti anche della macchia nera, benchè in posizione diversa da quella dei semi dell'Adrus. L'anatomia del seme dell’Abrus non fu studiata sin’ora, in modo esan- riente, da nessun autore (3); nè alcuno studiò la struttura dei semi delle specie sopra citate, che gli assomigliano e che, involontariamente o per frode, sì impiegano per sofisticare i preparati farmaceutici a base di Abrus. (*) Il lavoro completo, corredato da disegni e tavole a colori, apparirà negli Atti dell'Istituto Botanico di Pavia, nel quale fu eseguito. (£) G. Pollacci, Sull’Adrus precatorius L. (Acc. Lincei, XXI, pag. 420, 1912). (3) L’unico che se ne sia occupato, ma in modo incompleto, è stato il Tichomirow. (W. Tichomirow, Die paternosterbohnen Abrus precatorius L. mit einigen anderen Papilionaceen-samen verglichen, Mosckau, 1884). RespICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 1012 — 860 — Inoltre, fin'ora non si sono messe in chiaro le differenze morfologiche che possano permettere di distinguere all'aspetto i semi dell’A»rus preca- torius da quelli che loro somigliano. Lo studio anatomico e micro-chimico di questi semi è quindi importante non solo dal lato istologico, ma altresì da quello di farmacognostico, poichè le differenze di struttura insegneranno a distinguere in modo sicuro i semi e le polveri dell'Abrus dai semi e dalle polveri che comunemente servono per sofisticarli. Nella presente Nota preliminare espongo alcuni dei più importanti ri- sultati che su tale argomento fin'ora ho ottenuto. Differenze morfologiche. — I semi dell'Abrus precatorius sono ovali o rotondeggianti, di color rosso scarlatto vivace, muniti assai spesso, ma non sempre, di una macchia nera nella regione dell'ilo; talvolta sono anche rosei o biancastri con una macchia giallastra nella stessa posizione. I semi della RAynehosia phaseoloides, molto simili a quelli dell’ A07us, sono un poco più piccoli, e la macchia nera è in essi molto più estesa e in posizione diversa: essa ricopre la metà circa del seme, e trovasi nella regione opposta alla chilariale. Quest'ultima, inoltre, è più estesa longitudi- nalmente, ed è a labbra più sporgenti. Nell’Ormosia dasycarpa i semi sono molto più grossi, di un rosso più o meno vivace e forniti di una larga macchia nera, quasi triangolare, che dalla regione chilariale, assottigliandosi, giunge fin quasi all'estremità op- posta del seme. La regione chilariale, assai infossata, si trova ad uno dei poli del seme. I semi dell Aderanthera pavonina sono più grossi di quelli dell''Ad7rus, cuoriformi, biconvessi e a margine assai marcato. Hanno tegumento duro, di un colore rosso meno vivace di quello dell'Adrus; e la fossetta chilariale, assai piccola, è posta al vertice più acuto del seme. Differenze anatomiche. — Gli strati di cellule che compongono il tegumento dei semi dell’Abrus precatorius variano di numero a seconda della regione del seme; cioè a seconda che si tratti della regione chilariale o di punti distanti da essa. Nelle porzioni di tegumento lontane od opposte alla regione chila- riale, il tegumento si compone di quattro strati. Il primo consta di cellule a palizzata (cellule malpighiane), allungate a forma di bastoncino, avvicinate le une alle altre e disposte normalmente alla superticie del seme. Questo strato occupa la metà circa dello spessore del tegumento, e le sue cellule, nella parte basale, presentano uno o due rigonfiamenti laterali. Il loro lume non è uniforme: quasi lineare alla som- mità della cellula, segue poi un decorso ondulato, finchè nella parte basale sì allarga seguendo i rigontiamenti suddetti. Tanto il plasma quanto la mem- brana cellulare contengono una sostanza colorante rosso-rosata, solubile in — 861 — acqua. In queste cellule si riscontrano a volte taluni corpi che probabilmente sono avanzi nucleari. La linea lucida decorre vicinissima alla membrara di rivestimento. Il secondo strato è costituito da cellule a colonna, di forma caratteri- stica. allungate e disposte normalmente alla superficie del seme. formando come un colonnato ricco di spazî intercellulari, r'pieni d'aria. Superiormente esse sono allargate a guisa di capitello. e per mezzo di numerosi pori-ca- nali comunicano con le cellule malpiglhiane. Indi le cellule, per un tratto, si assottigliano, diventando quasi cilindriche; poi si fanno gibbose. con rieti- tranze e sporgenze a corte braccia che si innestano a quelle delle cellule vicine. Il contenuto plasmatico è granuloso. La porzione inferiore di queste cellule, irregolarmente ingrossata, ripiegata e contorta, si anastomizza con lo strato sottostante. Il terzo strato, « strato profondo », è costituito da elementi parenchima- tici, disposti tangenzialmente alla superficie del seme e ricchi di sostanze tanniche. Il quarto, finalmente, è uno strato endospermatico rudimentale, che consta di tre o quattro serie di cellule irregolarmente poliedriche, un po' allungate tangenzialmente, quasi quadrangolari. Il limite estremo di questo strato è dato da una specie di membrana, la « membrana limitans » di Tichomirow, la quale, con cloruro di ferro dà la reazione delle sostanze tanniche. Nella regione chilariale la struttura del tegumento si differenzia no- tevolmente da quella suddetta. sia per il numero degli strati, che va au- mentando, sia per i nuovi elementi che vi sì riscontrano. Al di sopra dello strato di cellule malpighiane (notevolmente più corte) è un altro strato for- mato anch'esso da cellule malpighiane, dette « di rinforzo », nelle quali non è visibile la linea lucida. Il Jimite superiore di queste cellule è quasi sempre mascherato da avanzi del funicolo, che formano talvolta un robusto strato. Al di sopra di questo si nota un terzo strato di cellule malpighiane, più corte delle altre, delle quali il Tichomirow nou fa cenno. Invece delle cellule a colonna, nella regione chilariale vi è un tessuto assai spesso, formato dapprima da cellule poliedriche compatte, poi da cel- lule stellate a larghi meatiì intercellulari. Entro quest'ultimo tessuto sì trova la lamina chilariale, un organo caratteristico che non è descritto dal Ticho- mirow. In sezione trasversale essa presenta la forma di una bottiglia che si assottiglia nella fessura circoscritta dalle valve chilariali: è formata da tracheidi a cellule irregolarmente romboidali, allungate secondo l'asse mag- giore della lamina stessa, con areolature molto fitte ed orbiculari. Questo tessuto è circondato da una guaina, formata da tre o quattro serie di cellule parenchimatiche prive di contenuto, allungate nel senso stesso dell'organo, e incurvantisi nei tessuti sottostanti. — 862 — La lamina chilariale, trattata con cloruro di zinco iodato, dà la reazione della lignina, mentre i tessuti perichilariali assumono una colorazione tur- china Seguono più internamente: lo strato profondo e lo strato endosperma- tico, più sviluppato che non nelle rimanenti porzioni del tegumento. Nei cotiledoni l'epidermide è costituita da un solo strato di piccole cellule poligonali, quasi isodiametriche. Il tessuto fondamentale consta di cellule più grandi, rotondeggianti o poliedriche, un po' allungate. a pareti ispessite ma a rientranze e strozzature così marcate da dare l'aspetto di un ispessimento gibboso, attraversato da numerosi canaliculi. [m tali cellule mancano l’amido e l’aleurone. I cotiledoni sono percorsi da numerosi fasci fibro-vasali. I cotiledoni dei semi, che si possono scambiare con quelli dell’ Ad74s precatorius, presentano invece le seguenti caratteristiche: Rhynchosia phaseoloides, D. C. — Il tessuto cotiledonare di questa specie è formato da cellule irregolari, le cui pareti sono molto meno (ma più regolarmente) ispessite, e il cui lume cellulare è assai più ampio che non nell'Abrus precatorius. Inoltre, è notevole in esse la presenza di gran quantità di amido, che manca affatto nei semi dell'Abrus. Ormosia dasycarpa, Jacks. — I cotiledoni di questa specie sono for- mati da cellule irregolari, le cui pareti sono fortemente ispessite, onde il lume cellulare è molto ridotto, con forma irregolarmente stellata. Gli ispes- simentìi sono fortemente gibbosi e molto irregolari. L'aspetto, quindi, di queste cellule, è ben diverso da quello delle cellule corrispondenti dell'Abrus pre- catorius. Adenanthera pavonina L. — Le cellule del tessuto cotiledonare in questa specie, sono molto grandi, rotondeggianti o quadrangolari, a pareti poco e regolarmente ispessite. Il lume loro è relativamente molto ampio e con- tiene grossi granuli d'aleurone con cristalloidi e numerosi cristalli di ossa- lato di calcio: caratteri questi, che bastano a distinguere questi semi da quelli dell'Abrus. Caratteri diagnostici della polvere di « Abrus precatorius» L. — Nella polvere dei semi di Abrus precatorius (privati dei tegumenti) si dovranno quindi trovare soltanto i seguenti elementi: 1°) frammenti di tessuto epidermico cotiledonare formato da cellule assal piccole, poliedriche, quasi isodiametriche; 2°) frammenti di tessuto interno, dato da cellule più o meno roton- deggianti, con pareti a ispessimenti gibbosi percorsi da numerosi canaliculi; 3°) elementi fibro-vascolari; 4°) goccie d'olio, riconoscibili al color rosso che assumono con la tin- tura d'Alcanna. Questa polvere non dovrà invece contenere: cellule a pareti con piccoli ispessimenti gibbosi, regolari, e granuli d'amido (Akynchosia phaseoloides); DR09 — cellule a pareti fortemente e irregolarmente ispessite (Ormoszta dasycarpa); cellule a pareti poco ispessite ma molto regolarmente, granuli d'aleurone e cristalli d'ossalato di calcio (Adenanthera pavonina). Per ciò che riguarda i caratteri chimici, se la polvere di Ab7us è pura, essa deve colorarsi: con acido nitrico (*), in giallo-canarino (colorazione stabile); con tintura di iodio, in giallo, che presto scompare; col clorofurmio, in rosa-pallido permanente. Per quanto concerne gli altri semi: con aetdlo nitrico, le polveri di Rhynchosia phaseoloides, di Ormosia dasycarpa e dì Adenanthera pavonina non dànno nessuna colorazione; con ntura di todio, la polvere di ARhynehosia phaseoloides si co- lora in violetto, pei numerosi granuli d'amido che contiene; quella di Ormosia dasycarpa si colora invece in rosso-aranciato, colore che scompare dopo un po' di tempo; quella di Aderanthera pavonina, infine, in giallo-avana persistente. Col cloroformio, le soluzioni acquose delle polveri di R/ynchosta phaseoloides, dì Ormos:a dasycarpa e di Adenanthera pavonina, non si colorano, ma diventano leggermente opalescenti.. Patologia vegetale. — Ulteriori ricerche sulla malattia del Castagno detta dell’inchiostro. Nota di L. PETRI, presentata dal Socio G. CUBONI. Nella Nota precedente ho riferito sul fatto che î castagni, ì quali da poco tempo sono stati colpiti dalla malattia dell'inchiostro, presentano una alterazione in tutta la regione del co//etco e nella parte basale delle radici più superficiali. Im corrispondenza di questa alterazione ho quasi sempre accertato lo sviluppo dell'Endothia radicalis De Not nei tessuti ancora viventi del legno e della corteccia. Se le mie ricerche hanno potuto stabilire che questa infezione può precedere quella del Coryneum modonium e di altri funghi sui rami, hanno lasciato insoluta la questione se essa sia preceduta a sua. volta da un'alterazione delle radici nella loro porzione terminale. Per quanto l’imbru- nimento e il marciume dei tessuti nelle grosse radici proceda dalla base verso l'apice, non si può escludere che la prima causa di questa alterazione possa trovarsi in possibili danni sofferti dalle estremità dell'apparato assor- bente. Intorno a questo argomento è stato fatto il più grande numero di indagini dalla maggior parte degli studiosi che si sono occupati della ma- (©) Palace, Moe, Gite — OE lattia dell'inchiostro. Le Gaiverse opinioni che da simili ricerche sono deri- vate, sì possono così riassumere: 1.° Il micelio delle ordinarie micorize si comporterebbe come un parassita (Gibelli, Delacroix, Camara Pestana, Du- comet), in seguito a un indebolimento generale della pianta per cause inde- terminate (Gibelli). in seguito a una deficienza di /umus nel terreno (De- lacroix), in seguito a condizioni del suolo improprie alla nitrificazione (Camara Pestana), in seguito allo sviluppo preponderante di particolari micorize dar- nose costituite di miceli eminentemente parassiti (Ducomet). 2.° Le micorize sarebbero attaccate ed uccise da particolari parassiti (da un micelio bruno forse riferibile alla Diplodia Castaneae secondo Gibelli, dal Mycelophagus Castaneae secondo Mangin, da due miceli bruni indeterminati e da batteri secondo Ducomet). 3.° Le radici a struttura primaria, al di fuori della re- gione delle micorize, e quelle a struttura secondaria sarebbero attaccate pure da microrganismi parassiti (dalla Zoru/a exztiosa secondo De Seynes. dalla Diplodia Castaneae secondo Gibelli, dall’Armil/laria mellea secondo Planchon, (oizet; dagli stessi funghi delle micorize secondo Ducomet, Camara Pestana; da una Chytridiacea secondo Ducomet, da batteri secondo Ducomet e Camara Pestana). Mentre Delacroix e Camara Pestana, pure ammettendo l’alterazione delle radici come un’affezione parassitaria, ritengono la malattia non conta- giosa, perchè il passaggio dalla simbiosi al parassitismo del micelio delle micorize è determinato da condizioni di nutrizione della pianta ospite, Du- comet, ammettendo lo stesso parassitismo delle micorize, ritiene contagiosa la malattia potendo il micelio in questione attaccare direttamente le radici a struttura secondaria, comportandosi come un vero parassita. Circa le cause che determinano questo parassitismo Ducomet per ora le ignora comple- tamente. In tutte queste ricerche si è trascurato di stabilire quali fossero le con- dizioni della base del tronco e delle radici superficiali nel periodo della malattia in cui si notano le prime alterazioni delle micorize. Se è giustificato l'indirizzo dato da Gibelli ai suoi studi in seguito alla scoperta di un fatto nuovo che richiamò tutta la sua attenzione sull'apparato assorbente delle radici. le ricerche ulteriori forse si sono troppo esclusiva- mente basate sopra delle ipotesi che, per quanto seducenti, non hanno per ora risolto la questione. È merito di Briosi e Farnesi l'aver determinato un nuovo orientamento in questi studî. Le mie ricerche sulle condizioni delle radichette dei castagni che sì trovano all’inizio della malattia sono state eseguite in rapporto ai resultati e alle opinioni ora esposti, unitamente alle nuove vedute sulla natura del mal dell'inchiostro. quale malattia della parte aerea. Le analisi chimiche del terreno, in zone dove da tempo si sviluppa la malattia e in zone limitrofe, rimaste immuni, hanno dato resultati discor- danti. Il quantitativo in potassa e acido fosforico spesso è maggiore nelle — 865 — località dove si sviluppa la malattia che in quelle ancora immuni; così l'azoto può essere in più gran quantità nelle prime che nelle seconde. Le sostanze organiche in generale (perdita alla calcinazione) si trovano spesso in maggiore quantità nelle terre immuni che in quelle ammalate. Il tenore in azoto nitrico presenta delle differenze incostanti e trascurabili. Le analisi fatte eseguire dal Gibelli per numerose località hanno dato dei resultati che non presentano alcun rapporto con la presenza o assenza del mal dell'inchiostro, e ciò per quanto riguarda la potassa e l’acido fo- sforico. Anche Delacroix riconosce che le analisi chimiche non gli hanno rivelato differenze apprezzabili fra regioni ammalate e sane relativamente agli elementi nutritivi più comuni. Eguali risultati hanno avuto Prunet e Mangin. La maggiore o minore quantità di carbonato di calcio non ha neppure un'influenza apprezzabile sullo sviluppo della malattia, contrariamente alla opinione di Camara Pestana che i carbonati alcalini, favorendo la nitrifica- zione, costituirebbero uno dei fattori d’immubità. Si può dunque ritenere come ormai ben dimostrato che il ma) dell’én- chiostro non è causato dalla deficienza di elementi nutritivi e che fra com- posizione chimica del terreno e il manifestarsi della malattia non vi è alcun rapporto. Non così può dirsi per la struttura fisica del suolo. I terreni pro- fondi, umidi, compatti, ricchi di argilla favoriscono lo sviluppo della ma- lattia, che non comparisce o è molto rara nei terreni rocciosi, poveri di terra bene aereati, di facile scolo per le acque. Secondo Delacroix, il passaggio del micelio delle micorize dalla simbiosi al pavassitismo avverrebbe in una prima fase della malattia, quando già le punte dei rametti incominciano a disseccare. Nelle numerose piante da me esaminate, anche molto prima di questo stadio. alla base del tronco si mo- strano già le zone necrotiche e così pure sulle grosse radici più superticiali. In tali condizioni qualsiasi alterazione che presentino le micorize può essere interpretata come una conseguenza dell'infezione del co/le/to e della porzione basale delle grosse radici. Anteriormente a questo stadio della malattia ho infatti trovato le micorize in condizioni normali. Il micelio, che più comu- nemente avvolge con un fitto intreccio l'estremità delle radichette n.icotro- fiche, è costituito da ife fortemente colorite in 94470, con frequenti rami- ficazioni laterali a percorso sinuoso, mai riunite in cordoni, con rare unioni a fibbia. prive di organi di fruttificazione. Altri rivestimenti simili delle micorize souo dovuti a miceli coloriti in grigio-violaceo, in giallo. Il micelio bruno corrisponde senza dubbio a quello osservato da Gibelli, da Delacroix e da Ducomet. È incoltivabile sui substrati nutritivi ordinarî ed appartiene certamente a un basidiomicete. Il micelio grigio-violaceo presenta caratteri simili, ed è pure incolti- vabile. Il rivestimento giallo zolfo è spesso costituito dal micelio di una — 866 — specie riferibile al gen. Arachniotus, affine all’A. aureus (Eidam) Schròt., che si sviluppa anche sulla corteccia delle grosse radici. Questi miceli non hanno niente di comune con quelli costituenti le micorize. In alcune di queste si trovano più o meno numerose cellule del parenchima corticale con- tenenti delle ife del fungo simbionte che da intercellulare è diventato intra- cellulare. Questo fatto, che è stato interpretato da Ducomet come la prova del parassitismo del micelio della micoriza, non rappresenta altro che uno dei frequentissimi casì di concomitanza di ectotrofismo e endotrofismo nella stessa radichetta, come è stato già osservato nelle Conifere (Von Tubeuf). Non ho mai osservato che il micelio della micoriza attacchi le radici a struttura secondaria. L'asserzione che questo fatto avvenga è per ora una semplice ipotesi, giacchè non è stata accertata la continuità fra il micelio presupposto parassita e quello delle micorize, nè l'identità loro è stata dimostrata con ricerche colturali. Lo stesso Ducomet del resto pone in dubbio che realmente sì tratti del micelio o dei miceli costituenti le micorize. I funghi che si trovano nella corteccia e nel legno delle radici a struttura secondaria e che ho potuto in gran parte isolare sa substrati nutritivi appartengono all’ #xdo- thia (solo in vicinanza del tronco), a un Macrophoma. Diplodia, Fusarium, vari ifomiceti, rizomorfe bianche, riferibili al gen. Psatyrella, Armillaria. Raramente ho trovato dei batteri. Questi microrganismi si comportano come saprotiti, eccetto l' Endothia e il Macrophoma che ho isolato da zone della corteccia dove la morte delle cellule era causata dal micelio di questi tunghi e dove la reazione difensiva dei tessuti ancora sani si manifesta con la formazione di uno strato di sughero. Sino ad ora non ho trovato nè il Mycelophagus Castaneae Mangin, nè la Chytridiacea di Ducomet. Probabilmente i microrganismi che attaccano le micorize delle piante già affette della malattia variano da luogo a luogo; l'unico micelio che sembra trovarsi costantemente è quello a ife brune, ma per ora non è stabilito che esso appartenga sempre allo stesso fungo. La necrosi della corteccia, del cambio e del legno nelle radici a strut- tura secondaria ancora giovani avviene in punti separati come se fosse dovuta a singole infezioni isolate le une dalle altre. In corrispondenza di questi punti non si trovano batteri, ma solo rarissime ife ialine a percorso inter cellulare e intracellulare. Per ora questo micelio non è stato identificato, e forse corrisponde a uno di quelli menzionati da Ducomet e ritenuti come i simbionti delle micorize. Questa sorta *di alterazioni si osservano contemporaneamente e anche prima di quelle delle radichette, in uno stadio della malattia in cui le foglie incominciaro a ingiallire e sul tronco, a livello del terreno, si notano le zone necrotiche già descritte. — 867 — Quando si piantano dei giovani castagni dove già altri sono morti in seguito all'7nehiostro, la morìa si manifesta presto o tardi anche su questi ripianti. Alcune volte sino dal primo anno, altre volte le giovani piante crescono apparentemente in buone condizioni per 5-8 anni per disseccare poi rapidamente, in altri casi raggiungono l'età di 20-30 anni prima che la ma- lattia li colpisca. Non è raro che l’ordinario marciume radicale, determinato dallo svi- luppo di rizomorfe diverse, sia la causa della rapida morte dei ripianti, aggravata dall'attacco del Coryneum modonium sulla parte aerea; in questi casi non sì tratta dunque di malattia dell'inchiostro. Molto istruttivo, per studiare l’etiologia di questa malattia, è il caso presentato da quelle giovani piante che dopo alcuni anni dall'impianto muoiono con tutti i sintomi del- l'inchiostro. È evidente che questo fatto non costituisce ancora una prova della natura contagiosa della malattia, ma contribuisce a rendere verosimile l'opinione che ammette la presenza di un agente patogeno specifico nel ter- reno, sia che esso attacchi le piante al co//efto, sia nelle radici. È da os- servare però che il lungo spazio di tempo. talora 20-80 anni, di buona vege- tazione dei ripianti in terreni malati, dimostra che l’azione patogena non sì compie sempre con la stessa rapidità, e ciò forse è in relazione a condi- zioni intrinseche particolari delle singole piante, ma fa anche sorgere il dubbio che nel terreno non si trovino tutte le condizioni necessarie e suffi- cienti perchè la malattia si sviluppi. In alcune Jocalità della provincia di Lucca (a Torcigliano specialmente) si usa premunirsi contro i danni della malattia riducendo a ceduo il bosco d'alto fusto. Con questo espediente si ha il rapido e vigoroso sviluppo di polloni che. da quanto resulta sino ad ora, si mostrano più resistenti alla malattia e rappresentano, solo però in alcune località, una fonte di lucro maggiore di quella data dagli alberi a frutto. Si sarebbe in errore se sì credesse che questa maggior resistenza alla malattia dei polloni che derivano da ceppaie all'inizio del mal dell'inchiostro, costituisse una prova delle buone condizioni delle radici. Nell'estate scorsa ho avuto occasione di esaminare alcuni castagneti ri- dotti a ceduo, in zone ammalate, ed ho potuto constatare che in quelle piante nelle quali la necrosi dei tessuti erasi già manifestata alla base del tronco prima del taglio, i polloni, che naturalmente si erano originati dalla parte dove il legno era ancora sano, vivevano quasi esclusivamente per le radici sane di nuova formazione. Le radici vecchie erano quasi tutte invase dal marciume nero. In tali condizioni io credo che un simile ringiovanimento delle piante potrà dare dei buoni resultanti solo nei primi anni e dopo il primo taglio. Il disseccamento di alcuni po]loni di 6-7 anni, che si è verificato già in questi castagneti ridotti a ceduo, induce a riguardare ancora molto dub- biosa l'efficacia di questo espediente quando la malattia si è già manifestata. RENDICONTI. 1912, Vol. XXI. 2° Sem. ING) 868 — Per determinare sperimentalmente se nel terreno ammalato sì trovi un agente patogeno per le giovani piante e su quale parte di queste si eserciti la sua azione, ho posto delle piantine di castagno di 4-7 anni in vasi con- tenenti terra tolta da località infette. Insieme a questa terra furono poste a contatto delle radici vive dei pezzi di radici di castagni ammalati col caratteristico marciume nero, come pure abbondanti micorize di piante ammalate. L'esperienza venne iniziata in agosto. Dopo due mesi niente di anor- male si osservava nell’estremità delle radichette, ma sulle radici a struttura secondaria si vedevano qua e là delle macchie nere in corrispondenza dei punti nei quali vi era stato contatto con le radici ammalate. La figura qui unita rappresenta una sezione trasversa di una radice di 2 anni così dan- neggiata. La necrosi giunge sino al legno, i cui vasi iniziano la formazione di tilli. Uno strato suberoso radiale (S) si forma nel parenchima corticale. Tl processo di necrosi s' inizia con la distruzione della peridermide in un modo particolare che descriverò nella Memoria definitiva. Dopo 4 mesi circa, queste alterazioni sono ben poco aumentate di numero, quelle preesistenti si sono alquanto estese in senso longitudinale, provocando in alcune radici un vero marciume nero simile a quello delle radici di castagni colpiti dal mal dell'inchiostro. — 809 — Il processo di necrosi è dovuto a un micelio a ife ialine, settate rara- mente, a percorso intercellulare, che disorganizza le cellule del fellogeno peridermico, e che si diffonde in seguito sino al legno. I tentativi per identificare ed isolare questo micelio sono ora in corso. lo considero questo primo risultato non come una prova definitiva della possibilità di riprodurre sperimentalmente la malattia, nè una conferma della natura contagiosa di quest'ultima, ma solo come un fatto che dimostra come certi fenomeni di marciume delle radici siano dovuti ad infezioni con- tagiose. Non essendo ancora dimostrato che il marciume nero ('), oltre a rappresentare uno dei sintomi più salienti della malattia, compendi in sè tutta questa, sarebbe attualmente prematura ogni conclusione in proposito. Patologia vegeiale. — Su /a supposta origine europea del cancro americano del castagno. Nota di E. PANTANELLI, presentata dal Socio G. CUBONI. Il fungo produttore del cancro del castagno in parecchi degli Stati Uniti di America da Murrill (*) è stato classificato come Diaporthe parasitica n. Sp. (*). Clinton (‘) espresse per primo il dubbio che non si tratti di una Dia- porthe, bensì di una Zndothia. al cui genere attualmente i micologi ascri- vono una sola specie, £. gyrosa (Schw.) Fuck. = /. radicalis (Schw.) Fr. Shear (?), in seguito all'esame di materiale americano, arrivò alla me- desima conclusione, e più recentemente, in base a molto materiale raccolto in Italia ed in Svizzera, in una Nota preliminare (°) conclude che la Diaporihe parasitica Murr. è identica alla Endolhia radicalis europea e che è stata importata in America dall'Europa, mentre in Europa non esisterebbe la vera E. radicalis descritta primitivamente da Schweinitz (7). (*) La caratteristica di questo processo di marciume è la straordinaria abbondanza d’acqua contenuta nei tessuti delle radici, specialmente nella corteccia anche durante il periodo di riposo, e l’attiva ossidazione delle sostanze tanniche elaborate in particolare nel parenchima corticale. Questa ossidazione, che determina il color nero, non si compie spontaneamente, ma sotto l'influenza di particolari microrganismi alcuni dei quali ho isolato, constatandone in vitro questa proprietà. (%) Murrill W. A., A new chestnut disease. Vorreya, VI (1906), pag. 189. (*) Cfr. Pantanelli, Su! parassitismo di « Diaporthe paravitica Murr. ». Rend. Accad. Lincei, 1911, I, pag. 366. (4) Clinton G. P., Ohestnut bark disease. Connect. Agr. Exp. Sta., Report 1908, pag. 879. (5) Shear C. L., Z'he chestnut bark fungus. Phytopathology, II. 1912, pp. 88-89. (5) Shear C. L., Z'hRe chestnut blight fungus. Phytopathology, II, 1912, pp. 211-212. (7) Anderson P. J. e Anderson H. W., Z'he chestnut blight fungus and a related saprophyte. Phytopathology, II, 1912, pp. 203-210. — 870 — Nel contempo gli Anderson (*), in base all'esame di abbondante materiale americano, riconoscono che la D. parasitica è una Endothia, da essi quindi giustamente ribattezzata per £ndothia parasitica (Murr.) Anderson, ma diffe- rente dalla £. radicalis da essi trovata negli Stati Uniti meridionali (sulla cui identità con la E. radicalis di Schweinitz essi non si pronunziano), ed anche da una terza Zadothia comune nella Virginia, e per la quale propon- gono il nome di &ndothia virginiana. Ora è mio obbligo ildire che fino dal 28 maggio 1911 il prof. P. A. Sac- cardo mì scrisse che egli riteneva la D. parasitica Murr. identica alla £n- dothia gyrosa (Schw.) Fuck., comune su la corteccia di diversi alberi in Europa ed in America, col suo stato conidiifero Andothiella gyrosa Sace. (*). Seguendo il consiglio dell’illustre micologo, mi detti subito a raccogliere materiale di Endothia per stabilirne le relazioni con la D. parasitica e le attitudini parassitarie. CARATTERI MORFOLOGICI. — Ambedue questi funghi appartengono al genere Endothia, perchè posseggono in comune pseudostromi (o piuttosto stromi genuini) innato-erompenti, a forma di verruche, subcoriacei o piuttosto suberosi, friabili, di colore aranciato vivo all'esterno, giallo all’interno; pe- ritecii immersi, a lungo collo nerastro; asci oblunghi, affusati, senza parafisi, con otto ascospore, leggermente atfusate o ellittiche, bicellulari, incolore; picnidii immersi in uno stroma innato superficiale, a cuscinetto, distinto o sovrapposto allo stroma ascoforo, di colore aranciato, quasi sugheroso, friabile, con microconidii jalini, bacillari, unicellulari, portati da ife filiformi semplici o ramificate, frammiste a parafisi (pseudoparafisi) semplici o ramificate. La forma picnidifera corrisponde cioè, per ambedue, a Endothiella Sace. Esiste però una serie di caratteri differenziali, che permette di separare la £. parasitica dalla nostra £. radicalis: Endothia parasitica Endothia radicalis Pseudostromi numerosi anche nell’in- Pseudostroma unico solamente nella terno della corteccia, fino al libro. parte più esterna della curteccia. Cavità picnidiche (pseudopicnidii) nu- Picnidii aggregati, ma regolari e disposti merose ed irregolari, disposte in varii piani in una sola serie subsuperficiale. in ogni stroma fino alla parte più profonda della corteccia. Stromi picnidiferi: spessore 1,1-1,2mm,; Stromi picnidiferi: spessore 0,4-0,5mm.; diametro 2,1-2,2 mm. diametro 1,1-1,3 mm. Conidiofori: lunghezza 17-18 wu. Conidiofori: lunghezza 10-12,5 w. Conidii: 3,8X1,7 4. Conidii: 3,8X 1,3 4. (") North American Fungi, n. 1296. (2) Saccardo P. A., Notae mycologicae. Ann. Mycol., vol. IV (1906), pag. 273. — 871 — Endothia parasitica Parafisi nei picnidii lunghe e nume- rose (1). Stromi ascofori: spessore 1,8-2,0 mm.; lunghezza 2,5-3,4mm.; larghezza 3-3,2 mm. Peritecii disposti in 2 o 3 strati. Collo del peritecio lungo in media 1,25 mm.; ostiolo appena prominente o in- cospicuo (peritecii non rostellati). Peritecii: larghezza 366-500 4; profon- dità 366-535 4. Parete del peritecio incolora o legger- mente bruna all’esterno nei campioni più guasti; spessore 34-43u; composta di ife intrecciate irregolarmente. Strato proligero di più strati. Asci: 44-50 X8,5-9 wu. Ascospore distiche, 9-10 X 4-5 u. Endothia radicalis Parafisi nei picnidii brevi. Stromi ascofori: spessore 1,1-1.4mm.; lunghezza 2,5-3,2mm.; larghezza 1-2 4. Peritecii monostichi, raramente subdi- stichi. Collo del 0.45 mm.; ostiolo prominente (peritecii leg- peritecio lungo in media germente rostellati). Peritecii: larghezza 370-635 &; profon- dità 285-420 wu. Parete del peritecio nera già prima della maturazione; spessore 274; composta di ife recolarmente intrecciate ad angoli retti (*). Strato proligero di poche ife. Asci: 23-28X 6-94 (?). Ascospore subcongeste, 7,5-9 X 3-4 wu. Per quanto si tratti di differenze minute, esse sono apprezzabili e non permettono l'identiticazione della £. parasitica con la £. radicalis nostrale, come vorrebbe il Shear (*). CARATTERI CULTURALI. — Su agar glucosato all’estratto di scorza di castagno, l'aspetto dei micelii è eguale: per altro, l' £. radicalis più rapida- mente assume il color giallo-aranciato caratteristico; lo sviluppo procede, per ambedue, di pari passo. Su rami di castagno sterilizzati si sviluppa più ra- pidamente l’ £. parasilica, su radici sterilizzate molto più presto l'A. radi- calis, anzi l' E. parasitica non sempre vi si sviluppa. Finora in cultura non ho ottenuto altro che la forma 4#ndothiella, tanto partendo dalle ascospore, quanto partendo dai conidii, e ciò per ambedue le specie; in cultura su agar le differenze suddette fra le due Zndothzella tendono a scomparire. HaBirat. — L'A. radicalis sì trova con abbastanza frequenza allo stato ascoforo nei castagneti del Lazio: non però sui rami alti nè sul tronco, ma bensì (') Non tutte si possono considerare come parafisi o pseudoparafisi, perchè talvolta formano conidii alla loro estremità. Ciò in ambedue le specie. (2) Cfr. De Notaris, Sferiacei italici, I, 1863, tav. III, fig. 3. (*) La specie tipica, come ho veduto in taluni «exsiccata» sotto £. gyrosa, dovrebbe avere gli asci più lunghi (25-35) e le ascospore non costrette al setto: nei miei cam pioni. quasi tutte le ascospore sono costrette al setto (*) Recentemente (28 novembre 1912) il prof. P. A. Saccardo mi ha comunicato che egli ritiene che la Diaporthe parasitica Murr. sia una razza di Endothia radicalis mo- dificata dal parassitismo. Si potrà dunque discutere se si tratti di specie o di varietà distinte: ma ciò, dal punto di vista patologico, è indifferente. — 872 — su le radici e precisamente su le radici messe allo scoperto da franamenti del suolo. Erompono allora gli acervuli per 10-20 cm. nella porzione di radice che sta ancora nella terra e per qualche centimetro nella porzione esposta all’aria, purchè la stagione sia piovosa, altrimenti il micelio preferisce restare intra- corticale o gli acervuli erompono solo nella porzione ipogea. Il primo svi- luppo si ha in radici v/ve, continuando per altro a formarsi gli acervuli anche dopo la morte della radice. È dubbio se la radice morrebbe per il solo attacco dell'Endo/hia, perchè per lo più si tratta di radici mozzate ed esposte all'aria. Raramente ho trovato questo fungo su monconi di pertiche 0 di fusti tagliati; l'attacco era cominciato poco dopo il taglio: e dalla zona di corteccia morta per la ferita, il fungo si era poi diffuso verso la base, inva- dendo la corteccia viva. Ad ogni modo, questa invasione ha luogo solamente nei fusti tagliati, quindi vicini a terra. D'altra parte, il fungo non scende nelle radici se non pochi centimetri sotto la superficie del terreno, così che si può considerare come un abitatore della regione del colletto ('). I patologi americani indicano invece la £. parasitica come abitatore dei rami di ogni grossezza e dei fusti; nessuno ha accennato al colletto, nè alle radici. Esiste dunque probabil- mente una differenza anche nell''habitat. Finora ho trovato 1 £. radicalis sul castagno, non su altri alberi; per altro una radice di carpino intrecciata con radici di castagno infette era ri- coperta di pustole di £ndo/hia (*). Secondo Metcalf e Collins, 1 Z. parasitica sì sviluppa solamente sul castagno (*). PaRassIiTIismo. — I castagni attaccati su le radici da 4. radicalis non mostrano di soffrire: ciò che sì spiega, perchè solamente qualche radice, fra tante, è attaccata. Anche meno dannoso è l'attacco sui monconi delle perti- che, raro e non generale; del resto, il fungo progredisce molto lentamente nella corteccia. Tuttavia il suo parassitismo è indubbio. La corteccia invasa muore rapidamente, indi il cambio e una sottile fascia tangenziale di alburno; i tessuti corticali rispettati si proteggono con la formazione di sughero, così che in un taglio trasversale o tangenziale la zona colpita appare nettamente delimitata dai tessuti vivi. Questo portamento è analogo a quello dell'£. parasitica: per altro, sui monconi di pertiche lE. rud:calis determina raramente la comparsa delle macchie rosse o scolorate, depresse, caratteristiche per il cancro americano; le sue pustole, anzi, restano spesso nascoste fra le squame del ritidoma (*). (*) Non l'ho trovata ancora sul grosso ritidoma, nè sul legno denudato delle ceppaie. (£) Secondo gli autori. IZ. radicalis è comune sui tronchi, rara su le radici di quercia, carpino, betulla. ippocastano, ontano, castagno. nocciòlo, faggio, noce ed olmo. (3) Zhe control of the chestnut bark disease. Farmers Bull., n. 467 (ottobre 1911). (*) Ho osservato talvolta sui rami alti dei castagni nel Lazio un’infezione che ricorda la malattia americana, per la comparsa di macchie rosse o giallo-aranciate; in queste non sempre si trova l’Endothia, bensì un altro fungo, di cui finora non ho trovato fruttificazioni. — 873 — Inoculando ascospore o conidii di £. radicalis su pezzi di rami vivi di ca- stagno, sterilizzati esternamente con immersione in sublimato 1°/, 0 in acqua bollente e mantenuti in camere umide sterili, lo sviluppo infracorticale del mi- celio non comincia se non uno o due mesi dopo l'inoculazione, quando cioè i tessuti radicali sono languenti; su le radici trattate nel medesimo modo, lo sviluppo del micelio nella corteccia comincia dopo 2-3 settimane. L'Z. pa- rasitica sì comporta inversamente: nei rami vivi l'invasione della corteccia è dimostrabile dopo due settimane (!); nelle radici comincia uno o due mesi più tardi, quando cioè i tessuti corticali sono già languenti o morti. A queste differenze di portamento in cultura corrispondono i resultati delle inoculazioni; già dissi (1911) della facilità con cui l'£. parasi/iea invase i fusti di castagni allevati in vaso; invece le inoculazioni di conidii di £. rd4- dicalis, eseguite nei febbraio del 1912 su materiale analogo, non hanno avuto successo. Le prove con ascospore inoculate al piede o su le radici sono in corso. Ad ogni modo, la differenza fra la attitudini parassitarie delle due forme . è manifesta. Anche Shear l’ammette, oservando che nell’£. radicalis europea egli non potè constatare alcun segno di parassitismo: ciò che d'altra parte è esagerato, essendo manifesto che il micelio di 4. radicalis può invadere corteccia, cambio ed alburno ancora vivi, e farli morire anzi tempo. Endothia radicalis (Schwein.) Fries; o £. gyrosa (Schwein.) Fuck. ? La questione non sarà del tutto risolta a favore dell'indipendenza della £. pa- rasitica americana dalla nostra Ez4othia, finchè resti il dubbio che esistano in Europa forme diverse di Endothiu. La Sphaeria gyrosa — descritta da Schweinitz (?) e da Fries (#), in base ad un campione di Schweinitz, come diversa dalla 4. radicalis — è stata poi trascurata da de Notaris (4) e con- siderata ad essa identica da Tulasne (°) e Saccardo (°). È però curioso che Fries (‘), Rabenhorst (*), Cesati e de Notaris (°), Winter (!°), preferirono adottare lE. radicalis come rappresentante del genere, mentre Tulasne, Fuekel (!!), Roumeguère (1°), Saccardo e von Thimen (!*) preferirono chiamarla E. gyrosa. (*) Cfr. Rend. Accad. Lincei, 1911, I, pag. 367. (2) Synopsis fung. Carolinae, n. 24 (1822). (3) Systema mycologicum, 1822, pag. 221. (4) Sferiacei italici, 1863, pag. 9. (5) Selecta fung. carpol., II (1863), pag. S7. (9) Syloge, I (1884), pag. 601. (*) Summa veget. Scandin., 1846, pag. 385. (5) Herb. mycol., II, n. 254. (*) Schema Sferiacei ital., pag. 207 (Vaisa radicalis). (1°) Die Pilze Schlesiens, II (1887), pag. 803. (14) Symbolae mycologicae, 1869, pag. 229 (non Sphaeria gyrosa Schweinitz!). (‘°) Fungi gallici exsiccati, n. 989. (1°) Mycotheca universalis, n. 769. — 874 — Stando alla descrizione di Sphaeria gyrosa data da Schweinitz e ri- portata da Fries('). e ai caratteri dell'essiccato di Schweinitz accuratamente descritti da Anderson, questa forma non può essere identica all'£. radicalis di Fries e de Notaris, nè a quella che ho raccolto io. nè alla £. parastzica. Secondo Shear, non sarebbe un'Zrdo/hia e neppure una Valsacea. Forse per questa ragione de Notaris l'aveva taciuta. Il nome Z. gyrosa dovrà quindi essere abbandonato; per lo meno non esiste in Europa una Zrdothia eguale alla Sphaeria gyrosa di Sehweinitz (?). Tuttavia, anche gli esemplari trovati nel Lazio differiscono leggermente dal tipo descritto da de Notaris; gli ostioli sono poco prominenti, mentre p. es. gli esemplari di Cesati (Klotzch e Rabenhorst, n. 254), Daldini (Herb. Cryptog. Ital., n. 986) e Licopoli (Herb. Cesati) hanno peritecii nettamente rostellati, con ostiolo conoideo, mai però spinuloso, come indica Fries (1828) per la Sph. radicalis di Schweinitz. Anche i picnidii in varii essiccati sono diversi da quelli dell #adothzia da me studiata, per disposizione, numero, forma e per la lunghezza dei conidiofori. Gli asci, nella mia forma, sono più piccoli che non nell’. radicalis (Fr.) de Not. In conclusione. dal punto di vista micologico: 1) la Diaporthe parasitica Murrill è un'Endothia, molto affine ma non eguale all 7. radicalis (Schw.) Fr. (3): quindi è opportuno distinguerla come Endothia parasitica (Mur.) Anderson: 2) anche l'Z. radicalis europea non è una specie omogenea, ma, a parte la Sphaeria gyrosa di Schweinitz (1822), che non può essere consi- derata come sinonimo di Z. radzcalis, racchiude in Europa forme leggermente diverse, di cui però nessuna coincide con l Z. parasitica. Dal punto di vista patologico. l'/. parasitica non può essere di origine europea, perchè le attitudini parassitarie delle nostre Zrdothia, per quanto indubbie, sono molto deboli di fronte al castagno europeo, mentre è dimo- strato che l'#. parasitica può attaccarlo con estrema facilità e proprio nel mite clima romano, ove sono esclusi i forti geli invocati da Clinton (4) per spiegare lo scoppio dell'epidemia americana. (1) Systema mycol., II (1822). pag. 221; Elenchus fung., 1828, pag. 221. (£) N prof. P. A. Saccardo è attualmente di avviso, che, data la variabilità di L.radicalis, la Sphaeria gyrosa possa esserne una forma; ritiene però più esatto l’abban- donare questa sinonimia (28 novembre 1912). (3) Il prof. P. A. Saccardo preferisce (28 novembre 1912) chiamarla £. radicalis (Schw.) de Not.; in realtà la più accurata descrizione della forma europea si deve a de Notaris (1863). (4) Clinton G. P., Chestnut bark disease. Convecticut Agr. Exp. Sta., Report 1908 (1909), pp. 879-890. — 875 — Le ulteriori ricerche dei patologi americani, che si sono accinti ad esse con una serietà ed una vastità di mezzi (') degne dell'importanza della malattia (*). potranno mostrare se la nostra Z. radicalis è realmente in grado di produrre lo stesso danno dell'£. parasziica sui castagni coltivati in America (Castanea vesca var. americana, C. dentata). Patolozia vegetale. — Sullo recettività del frumento per la carie in rapporto al tempo di semina. Nota di 0. MUNERATI, pre- sentata dal Socio R. PIROTTA. In una mia prima Nota, pubblicata nel 1911 nei Rendiconti della R. Accademia dei Lincei (*), comunicavo i risultati di una serie di osserva- zioni e di esperienze compiute nel 1909 e nel 1910, dalle quali risultava come il grado di temperatura all'atto della semina. e nei giorni che coinci- dono con l'evolversi delle prime fasi di sviluppo della pianta di grano, eser- citi effettivamente una decisa influenza sulla recettività del grano stesso per la carie. Nel desiderio di suffragare con altre prove l'asserto, ho voluto ripetere simili indagini, sia nell'annata 1910-911.sia in quella 1911-912. Dei nuovi risultamenti ottenuti vuole occuparsi Ja presente Nota. * x * Prove DEI 1910-1911. L'esperienza fu compiuta sia con grano autunnale (Cologna). sia con grano primaverile ( Marzuolo veronese). Il grano. copiosamente infettato con spore di carie (7à/letza tritici | Bierk] Wint). fn seminato in periodi suc- cessivi in raffronto a grano degli stessi lotti, ma conciato con soluzione di solfato di rame al 2°/,: parte del grano così conciato fu spolverato poi con calce sfiorita. Una certa quantità del frumento fu infettata con spore di carie prove- niente dalla raccolta 1909, e una parte con spore del raccolto 1910. La semina fu compiuta in quattro tempi: il 12 ottobre e il 9 novembre con frumento autunnale, e il 22 febbraio e il 27 marzo con marzuolo. Una (*) Lo Stato di Pennsylvania ha disposto un fondo annuo di 13875.000 lire, il Mi- nistero di Agricoltura di Washington un fondo annuo di 400.000 lire per le ricerche su questa malattia. Cfr. Williams J. C., The new chestnut bark disease, in Science, nuova ser., XXXIV (1911), pp. 397-400; True, Exp. Sta., Record, XXVII (1912), pag. 303. (*) Nell'ottobre 1911, il danno era stimato già in 125.000.000 lire. Vedi Metcalf H. e Collins J. F., The control of the chestnut bark disease, in U.S. D. A., Farmers Bull., n. 467. (3) Vol. XX, serie V, 1° sem., fasc. 11, seduta del 3 giugmo 1911. RenpIconTI. 1912. Vol. XXI, 2° Sem. 114 — 876 — prima distribuzione di autunnale doveva farsi alla fine di settembre, ma circostanze speciali me lo impedirono. In ogni caso la semina, in parcelline alterne, venne fatta in doppio, per maggiore sicurezza e attendibilità di risultati. Nulla di anormale nè nell’andamento della temperatura, nè nella quan- tità di pioggia caduta. Nel qui unito prospetto sono raccolti i dati relativi: Spiche trovate cariate. con semina con semina con semina con semina al 12 ottobre al 9 novemb. al 22 febbraio al 27 marzo 1°) Frumento trattato con soluzione di solfato di ra- me, e subito dopo spolve- rato con calce spenta. . OA 00/0 OA 0805 2°) Frumento trattato con solfato di rame e calce come sopra, e distribuito in terreno copiosamente co- sparso, al momento della semina, di spore di 77//e/ia dell 909 Ie 20 220) TO TE 8°) Frumento come sopra, ma distribuito in terreno cosparso di spore di 77/- VettoRà OE LOU ZI SÒ T9G 4°) Frumento infettato con spore di 7%//etta del 1909 25, °/ TOO 65 °/o 09; 5°) Frumento infettato con spore di 7z/letia del 1910 37 YA 85 %o 28 (0 Sin Osservazioni. — Recettività passante dal 26°/, all'80 in media con grano infettato e non conciato seminato a un mese di distanza in autunno, e dal 70 al 7 in media con grano infettato, e non conciato, seminato a un mese di distanza in primavera. Nessuna differenza di comportamento tra azione delle spore di 77/letia del 1910 (dell'annata stessa) e del 1909. Il rivestimento della cariosside con una certa quantità di idrossido di rame (concia aderente a base di solfato di rame e calce) ha una indubbia azione contro l'attacco della 7%//etza, ma non però tale da sottrarre com- pletamente il grano all'attacco del fungo quando spore di questo vengano a infettare seme già trattato, oppure quando qualche spora si trovi nel terreno. — 877 —. Prove DEL 1911-1912. Anche in tal caso feci la prova su parcelle in doppio, con semine suc- cessivamente compiute il 28 settembre e il 12 ottobre con gentile rosso, e il 29 febbraio e il 27 marzo con marzuolo americano rosso. Andamento della stagione: normale. Spiche trovate colpite da carie. semina semina semina semina 28 settembre 12 ottobre 29 febbraio 27 marzo 1°) Frumento trattato con solfato di rame, e spolve- TatoNconk calce ei. 009% 09% 0070 (OE 2°) Frumento trattato come sopra, ma distribuito - su terreno copiosamente co- sparso di spore al mo- mento della semina . . 00/5 40/0 — = 3°) Frumento infettato . . 0,5 % TZ 0/0 90° 3°/o Osservazioni. — In tutto corrispondenti a quelle dell'annata precedente. ALTRE OSSERVAZIONI NEL 1912. 1) Il primo marzo 1912 seminavo, in 24 vasi di terra cotta, alquanto fru- mento marzuolo infettato di spore di carie: 12 vasi tenni in camera calda sino a metà aprile. mentre posi gli altri subito all'aperto. Alla raccolta si tro- varono: Spiche cariate a) con vasì tenuti per 40 giorni in serra . . . 2/ b) con vasi posti direttamente all'aperto . . . 12/ 2) Nell'autunno 1911 iniziavo pure una prova che aveva per fine di ri- spondere al seguente quesito: Qualora un seme non appena distribuito nel terreno venga a contatto di spore già da qualche tempo trovantisi nel suolo, e quindi più o meno in via di evoluzione, potrebbe il fusticino dive- nire recettivo per il parassita anche se la temperatura dell'ambiente fosse favorevole @ un assai rapido sviluppo delia piccola pianta di grano ? Furono preparati due piccoli lotti di gentil rosso, l'uno trattato con acqua calda a 54° (metodo Jensen) e l’altro conciato con soluzione di solfato di rame e successivo spolveramento con calce. Su terreno che era stato cosparso di spore il 28 settembre, furono seminate le due partite di grano il 12 ot- - dI = tobre, e su terreno cosparso di spore il 12 ottobre fu seminato il grano il 9 novembre. Alla raccolta, con mia sorpresa, non trovai nessuna spica colpita da carie. Non potendo sentirmi sicuro dei risultati di un solo anno e di una semplice prova, mì riserbo di compiere altre osservazioui allo stesso riguardo. CONCLUSIONI. Dalle esperienze ed osservazioni di un quadriennio risulta confermato che: 1) un seme, anche fortemente infettato da spore vitali di « Tilletia», non dà piante sempre e necessariamente destinate ad essere attaccate dalla carte. Fattore determinante la recettività per il parassita è, în questo caso, il grado di temperatura all'atto della semina e nei giorni che coin- cidono con l'evolversi delle prime fasi di sviluppo della pianta: quanto più rapidamente si compie l'evoluzione della prima fase di vita del grano, tanto più questo sfugge all'attacco della « Villetia », e viceversa. Con il me- desimo seme sì può avere il zero per cento di spiche cariate nel primo caso, ed oltre l’ottanta per cento nel secondo caso; 2) un trattamento 0 concia al seme non è, în conseguenza, condizione sine qua nou per evitare l'attacco del fungo della carie. In pratica pero, se è sempre prudente un trattamento tendente a togliere ogni vitalità alle spore di « Tilletia» eventualmente aderenti al tegumento del grano, il trat- tamento tanto più s impone quando si voglia 0 si sia costretti a semi- nare tardi in autunno 0 molto presto in primavera ; 3) una concia aderente (ad es. immersione del seme în soluzione di solfato di rame,e successivo spolveramento di calce) non permette in ogni caso alle piantine di sfuggire all'attacco della « Tilletia » 0 per spore che successivamente aderiscano al tegumento 0 per sporidioli con cui il seme germinante venga a contatto nel terreno: tuttavia un notevole numero di spore, în conseguenza della prolungata azione fungicida del composto ra- meico, viene messa fuori della possibilità di nuocere. Il rilievo della decisa influenza del tempo di semina sulla recettività del frumento per la 7//elza giungerebbe a spiegare come anche nei tempi passati, quando nessun trattamento si faceva al grano da semina, le gravis- sime annate di carie si alternassero ad annate a raccolte quasi immuni. Ad annate di forte attacco da parte della 7///etta debbono avere corrisposto pe- riodi di lento sviluppo delle piante nel loro primo stadio di vita. Le compiute osservazioni suggeriscono ancora, quando si voglia deter- minare l'efficacia di fungicidi o di speciali metodi di lotta contro la carie, di compiere la semina del grano trattato o nel tardo autunno (per varietà autunnali) o in primavera presto (per varietà marzuole), allo scopo di met- tere le piante nelle condizioni di massima recettività per il parassita. — 879 — PERSONALE ACCADEMICO Commemorazione di CesaRE ARZELÀ, letta dal Corrispondente G. Lau- RICELLA nella seduta del 10 dicembre 1912. La sera del 15 marzo u. s., in età di 65 anni, spirava a S. Stefano di Magra, suo paese natìo, CesaRE ARZELÀ, tra il compianto dei suoi scolari, dei colleghi e di quanti ebbero ad apprezzarne le elette qualità di mente e di cuore. Cesare Arzelà nacque da modesta famiglia, e fin dai suoi teneri anni fu educato alla consuetudine del lavoro. Compiuti con distinzione i corsi ginnasiali a Sarzana, ottenne dalla pro- vincia un sussidio, che gli permise di proseguire gli studî secondarii nel Liceo di Pisa. Ottenuta la licenza liceale, concorse per un posto di studio nella Scuola Normale Superiore di Pisa, riuscendo vincitore. In tal modo potè frequentare l’Università e laurearsi in matematica nel 1869. Nello stesso anno superò felicemente gli esami di abilitazione all'insegnamento presso la Scuola soprad- detta, e riuscì vincitore al concorso per una borsa di perfezionamento al- l'estero. Ma non potè usufruirne, per le ristrettezze della famiglia; e fu costretto ad accettare un posto di insegnante nei RR. Licei. Piegatosi così alle necessità del momento, non rinunziò all’ideale suo di continuare gli studî universitarî per rendere più vasta e più solida la propria cultura. Pertanto, appena gli fu possibile, dopo due anni di insegna- mento, chiese l'aspettativa e ritornò a Pisa. Ivi frequentò per un anno i corsi di Enrico Betti e quello di Analisi Superiore del prof. Dini, che esponeva allora per la prima volta i risultati dei suoi profondi studî relativi ai nuovi metodi ed ai principii, sopra i quali è poggiata l'Analisi moderna. Quindi nell'ottobre del 1873 fece ritorno all'in- segnamento liceale, e due anni dopo passò all'Istituto Tecnico provinciale di Firenze, dove, per designazione del prof. Betti. era stato nominato insegnante di matematica. In quell'epoca questo Istituto costituiva un corso di studî propedeutici per le Scuole di Applicazione per gli Ingegneri, analogo all'attuale primo biennio universitario di matematica; sicchè l'Arzelà ebbe agio, per l'eleva- tezza del nuovo insegnamento, di usare nelle sue lezioni quel rigido metodo di discussione, al quale si era educato a Pisa, ed al quale si sentiva attratto per la natura eminentemente critica del suo ingegno. Durante questo inse- gnamento, e precisamente nel novembre del 1877, pubblicò la Teoria ele- 930 — mentare dei limiti e dei numeri irrazionali, per diffondere nelle scuole medie il metodo di rigore, che soprattutto su tale teoria difettava nei trattati scolastici di allora. Divenuto così uno dei riformatori degli studî di Analisi elementare in Italia, per incarico dell’ editore Lemonnier scrisse un trattato di algebra per le scuole secondarie, il quale doveva rappresentare un rifacimento, secondo il nuovo indirizzo di studî, del vecchio trattato di algebra elementare di Bertrand. Il libro dell'Arzelà ebbe sùbito un gran successo: ne furono fatte in breve tempo varie edizioni, ed anche oggi, dopo 30 anni, serve di testo con grande utilità in parecchie scuole. In seguito, non ostante le gravi occupazioni dell’insegnamento superiore e delle sue ricerche scientitiche, continuò con affetto costante ad interessarsi dell'’insegnamento medio, sia col pubblicare altri importanti trattati elemen- tari, sia col prendere parte a commissioni di concorsi per insegnanti di scuole medie e coll’accettare altresì incarichi di ispezioni in queste scuole. I primi lavori scientifici dell’Arzelà risguardano l'ardua teoria algebrica della eliminazione. In un primo lavoro egli trovò alcune proprietà geometriche del sistema di tre superficie algebriche, applicando un noto teorema di Jacobi su questa teoria. In un secondo svolse un procedimento per trovare gli svi- luppi di » funzioni algebriche di un parametro, riducendo la ricerca alla riso- luzione effettiva di un certo sistema di equazioni algebriche con altrettante incognite; e quest'ultima questione poi egli riprese in un terzo lavoro, ap- portandovi notevoli contributi. Sin da queste prime pubblicazioni si rivelano le belle qualità d'ingegno dell'Arzelà e la sua spiccata attitudine alla ricerca. Esse insieme con la citata Teoria elementare dei limiti e dei numeri irrazionali, e con una elegante Memoria sulla deformazione di un ellissoide elastico, nella quale è risoluto un importante problema di Fisica-matematica, collegato con lo studio delle deformazioni elastiche della Terra, valsero a fargli guadagnare nel 1878 la cattedra di algebra nell’ Università di Palermo. Durante la non lunga dimora a Palermo si occupò intensamente della preparazione del corso di algebra, e compì un molto interessante studio sui massimi e minimi delle funzioni algebriche, in cui comincia già a deli- nearsi l'indole critica dell'Arzelà e la sua predilezione per quelle ricerche di analisi, nelle quali il più valido strumento è l'acutezza del ragionamento. La pubblicazione sui massimi e minimi segna il passaggio dell'Arzelà dal primitivo suo indirizzo algebrico a quello, nuovo, sulla teoria delle funzioni. Trasferitosi nel 1880, per concorso, alla cattedra di calcolo infinitesi- male a Bologna, trovò in questo nuovo insegnamento la sorgente vera dei suoi studî sui fondamenti dell'Analisi, ai quali si dedicò col più vivo entu- siasmo. -— 881 — Dopo una prima Memoria suì prodotti infiniti di funzione, nella quale diede nuove ed eleganti proprietà funzionali su di essi, comunicò nell'aprile del 1883, all'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, una breve Nota, nella quale egli, pur non presentando risultati del tutto nuovi, inaugurava un nuovo metodo per lo studio delle serie di funzioni, che doveva ben presto condurlo a quei risultati, in virtù dei quali il suo nome è oramai legato indissolubilmente alla scienza. Il metodo dell'Arzelà si fonda sull'idea, tanto semplice quanto geniale, di considerare una serie di funzioni di una variabile indipendente come caso particolare di una funzione di due variabili indipendenti, e di interpretare la continuità della serie come la continuità di detta funzione rispetto ad una delle due variabili. Nella. sua Nota egli premette un approfondito studio sulla continuità assoluta e sulla continuità di direzione delle funzioni di due variabili indipendenti, fissando in particolare, mediante un'opportuna formola elementarissima, un legame fra le continuità di una funzione nelle due dire- zioni degli assi; e dalla semplice lettura dei teoremi stabiliti sulla conti- nuità delle funzioni, fa scaturire 1 noti teoremi del Dini sulla continuità di una serie di funzioni in un punto e sulla continuità in tutto un campo. L'Heine, per dimostrare rigorosamente la continuità delle serie di fun- zioni continue, aveva ammesso che la serie nel campo di variabilità fosse uniformemente convergente. Il Dini osservò che questa condizione è troppo restrittiva; e perciò introdusse, come condizione sufficiente per la continuità delle serie di funzioni, il suo nuovo concetto di convergenza uniforme sem- plice. L'Arzelà, nella suddetta Nota, oltre a dare ragione della esuberanza della condizione di convergenza uniforme, posta dall’ Heine, osserva che anche la condizione del Dini, benchè molto meno restrittiva, è esuberante; e la sua Nota chiude con le seguenti parole: « Le poche cose qui esposte servono @ mostrare come dalla considerazione delle funzioni generali a due variabili si possa trarre in modo semplicissimo la teoria delle serie i cui termini sono funzioni di una variabile 2; ma questo concetto è certamente suscettibile di più ampio sviluppo ». Queste parole provano che egli aveva intuito tutto il valore del suo nuovo concetto; e infatti concentrò tutta la sua attività a svolgere intorno ad esso quel maggiore sviluppo, che aveva di già intravveduto. L'anno dopo, nella seduta dell’11 aprile 1884, potè finalmente comu- nicare all'Accademia di Bologna il suo teorema, il quale dà la condizione necessaria e sufficiente per la continuità in tutto il campo di una serie di funzioni continue. Per comprendere tutta l’importanza di questo teorema, noto oramai sotto il nome di feorema di Arzelà, basterà rammentare che quasi tutti i problemi, i quali dipendono analiticamente dalla ricerca di una o più fun- zioni, si risolvono oggidì per mezzo di serie di funzioni, e che una delle — 882 — prime proprietà, che generalmente occorre stabilire, è la continuità o la non continuità nel campo di variabilità delle funzioni cercate. Il merito dell’Ar- zelà, nella scoperta di questo teorema, acquista maggior valore, quando si pensi che egli riuscì ad esaurire una quistione che pochi anni prima aveva tormentato la mente di alcuni fra i più illustri matematici. Dopo questo brillante risultato, l’Arzelà pensò subito ad applicare ad altri problemi analoghi il suo metodo di ricerca. Una quistione, che subito dopo quella della continuità si presenta nello studio delle serie di funzioni, è quella dell'integrabilità, poichè una serie non continua, o per la quale non sì riesce a dimostrare la continuità, può essere atta all'integrazione riemanniana. In vista di ciò. erano state già trovate delle condizioni sufficienti per | integrabilità riemanniana della serie; e di queste, la meno restrittiva era quella del Dini, che richiede l’ integrabilità dei termini della serie e la convergenza uniforme semplice della serie stessa. L’Arzelà, in una Nota dei Rendiconti di questa Accademia, nell’aprile del 1885, comunicò un lemma sulle serie di funzioni, il quale gli doveva servire, se- condo affermava chiudendo la Nota stessa, a stabilire la condizione necessaria e sufficiente per l'integrabilità riemanniana delle serie di funzioni integrabili ; e questa condizione difatti egli pubblicò qualche mese dopo negli stessi Rendiconti, riuscendo così ad arricchire l’Analisi di un nuovo importante teorema. Le pubblicazioni di Arzelà sulle serie di funzioni non richiamarono subito, come conveniva, l'attenzione degli analisti: però non passarono molti anni, che si manifestò un risveglio relativamente allo studio dei fondamenti del Calcolo; ed allora i risultati dell'Arzelà ebbero il debito posto di onore nell’Analisi, e furono brillantemente avvalorati da svariati esempî. Lo stesso Arzelà, lieto dell interessamento che i suoi teoremi avevano destato, in due belle Memorie dell’Accademia di Bologna, pubblicate rispettivamente nel 1899 e nel 1900, raccolse i suoi studî sulle serie di funzioni, facendcne una esposi- zione sistematica e corredandola con opportuni esempî; ed oramai i due teo- remi dell’Arzelà sulla continuità e sulla integrabilità delle serie si trovano in tutti i trattati sulla teoria delle funzioni, e sono noti a tutti gli studiosi di questo importante ramo dell'Analisi. Forse la mutabilità del concetto di integrale potrà un giorno sminuire l’importanza che attualmente ha l'integrale di Riemann, e quindi ancora l’importanza del teorema sull integrabilità delle serie di funzioni dell’Arzelà; ma il concetto di continuità non ha nulla di mutabile, mentre per altro la storia ci insegna che ben difficilmente l'Analisi potrà disfarsi dell'uso delle serie di funzioni; sicchè il teorema sulla continuità dell’Arzelà conserverà in- tatta la sua importanza, ed il nome dell'autore vivrà imperituro nella scienza. Le applicazioni e le estensioni che l’Arzelà fece dei suoi teoremi sulle serie di funzioni, sono numerose e di gran valore; e pure di gran valcre sono — 889 — le nuove ricerche che egli più tardi affrontò sopra problemi fondamentali di Calcolo e sopra ardite quistioni di Analisi, concentrando ogni volta tutti i suoi sforzi alla ricerca delle condizioni necessarie e sufficienti, o quanto meno alla ricerca del minimo di condizioni. Rammenteremo qui il teorema sulla integrazione termine a termine delle serie; l'estensione di una formola di Cantor sul problema della sviluppabilità in serie di Fourier; l'elegante studio degli integrali fra limiti infiniti di funzioni contenenti un parametro; quello sull'integrazione per sostituzione, sull’inversione delle funzioni, ecc. Un insieme veramente notevole di lavori dell’Arzelà è quello che ebbe origine dal concetto di funzione di linea, introdotto nel 1887 dal prof. Vol- terra. Questi, nelle sue ricerche sulle funzioni di linea, si era limitato a sta- bilire quelle proprietà funzionali che gli occorrevano per le applicazioni che intendeva farne alla teoria delle funzioni di due variabili complesse, all'esten- sione della teoria di Hamilton-Jacobi e alla teoria delle equazioni integrali. L'Arzelà, in una Nota del 1889, riprese la teoria del Volterra dal punto di vista funzionale, ed estese ad essa una gran parte delle proprietà delle fun- zioni ordinarie, ed in particolare di quelle continue ir tutto un campo. Queste proprietà, e, sopra tutto, il teorema di esistenza di una linea di mas- simo e di minimo, gli fecero intuire il legame fra la teoria delle funzioni di linea e la dimostrazione riemanniana del principio di Dirichlet. Qualche anno più tardi infatti, dopo di avere perfezionato in parecchi punti essenziali la teoria delle varietà di funzioni, pubblicò una Memoria, nella quale espo- neva un suo nuovo metodo, mediante il quale pensava dovesse rendersi rigo- rosa la dimostrazione di Riemann. Edil tempo gli die’ ragione, inquantochè con considerazioni analoghe a quelle dell’Arzelà, alcuni anni dopo, l' Hilbert potè colmare le lacune che conteneva la primitiva dimostrazione di Riemann. Assai notevole poi è l’uso, che l’Arzelà fece, della teoria delle funzioni di linea per dare una nuova e più semplice dimostrazione del secondo teo- rema della media per gli integrali doppii, di quel teorema che, qualche tempo avanti egli stesso per la prima volta aveva stabilito, e che acquistò subito tanta importanza nella teoria degli sviluppi in serie doppie di Fourier. I suoi risultati sulle varietà di funzioni l'Arzelà applicò pure con suc- cesse a semplificare la nota dimostrazione di Cauchy-Lipschitz sull'esistenza di integrali dell'equazione differenziale ordinaria del 1° ordine, e quella di Picard, fondata sulle approssimazioni successive; e di tali risultati pensò di valersi ancora per dimostrare, seguendo una via analoga, il teorema di esi- stenza, nel dominio delle quantità reali, per l'equazione alle derivate parziali del 1° ordine. La dimostrazione che di questo teorema egli pubblicò, indica una nuova via per la trattazione di tali quistioni; però essa non è esente da qualche menda, che diede molto a pensare all'autore. e che, come egli ebbe occasione di scrivere ad uno dei suoi più cari discepoli, credeva alfine di RenpICONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. 115 I} o — 884 — avere rimossa. Ma il male lo colse, e non potè pubblicare la nuova dimo- strazione dell'importante teorema. I risultati dell'Arzelà sulle varietà di funzioni ed i suoi metodi di ricerca hanno avuto ancora, come egli stesso ebbe a provare e come è stato provato ancora da altri valenti analisti, un importante ufficio nella teoria del Calcolo delle variazioni, alla quale egli in questi ultimi tempi aveva dedicato partico- larmente la sua attività con vivo entusiasmo e successo, non ostante l’ incal- zare del male. L'opera scientifica di Cesare Arzelà è collegata intimamente all'opera sua di maestro. Quasi tutti gli argomenti delle sue ricerche gli venivano suggeriti dai corsì di Calcolo e di Analisi superiore, che ogni anno preparava per i suoi scolari dell’ Università di Bologna. Tante volte una quistione gli sì presentava durante una lezione, e nel corso stesso di una lezione tante volte egli tentava di superare una difficoltà, facendo contribuire la scola- resca al lavorìo necessario per riuscirvi. Le lezioni di Calcolo furono cura costante dei suoi lunghi anni di inse- gnamento, e già da qualche tempo ne aveva iniziato la pubblicazione; ma la morte immatura gli impedì di condurre a fine questa bell'opera. Si resta colpiti di ammirazione nel pensare come egli, per più di 30 anni e finchè visse, abbia avuto la tenacia d'insistere in ricerche tanto difficili e qualche volta anche penose, nelle quali manca la risorsa degli artificî anali- tici: in ricerche nelle quali si tratta di completare risultati di uso comune, di togliere sottili inesattezze od imperfezioni, di rinvigorire in breve le basi dell'Analisi col valersi esclusivamente delle più delicate risorse dell'argomen- tazione. I meriti di maestro e di scienziato gli furono riconosciuti con lusin- ghiere attestazioni di stima. Egli fu nominato corrispondente della nostra Accademia nel 1904; nel 1907 vinse, in seguito a concorso, metà del premio reale per le matematiche; e non poche furono le altre Accademie italiane ed estere che lo vollero socio. Allorchè l'Arzelà fu assalito dalla malattia cui dovette soccombere, la sua attività scientifica e la sua attività nell’insegnamento erano in pieno vigore; ed anche quando il male si aggravò, benchè gli fosse prescritto asso- luto riposo, continuò, finchè le forze glielo permisero, ad impartire le sue lezioni o ad assistere a quelle del suo supplente; e non cessò di interes- sarsi delle sue ricerche e delle sue pubblicazioni. L'impronta che egli lascia dell’opera sua come maestro, è di gran va- lore: il patrimonio di risultati, dei quali ha arricchita l' Analisi, è veramente prezioso; e la immatura morte di lui, fu perdita assai grave per la scienza. K. M. Saisss — INDICE DEL VOLUME XXI, SERIE 5°. — RENDICONTI 1912 — 2° SEMESTRE. INDICE PER AUTORI A Ageno. V. Masini. ALuievi. È approvata la stampa della sua Memoria: «Teoria del e rpo di ariete ». 800. Amapori. « Solubilità allo stato solido tra solfati e carbonati ad alta tempera- tura ». 65. — « Sulla tendenza a combinarsi fra alo- genuri e fosfati dello stesso metallo ». 182. — « Sulla capacità degli alogenuri potas- sici di dare soluzioni solide ad alta temperatura ». 606. — « Sulla tendenza a combinarsi fra alo- gennri e fosfati dello stesso metallo II. Fluoruri e fosfati alcalini ». 688. — « Sulla tendenza a combinarsi fra alo- genuri e fosfati dello stesso metallo. III. Fluoruro, cloruro e fosfato di piombo ». 768. Amoroso. « Sopra un’estensione del teorema di Riesz-Fisher». 41. — «Sopra un’equazione integro-differen- ziale del tipo parabolico ». 141; 257. — « Estensione di alcuni precedenti risul- tati n. 400. — « Integrazione delle equazioni del moto lento di un fluido viscoso ». 501; 580. — «Sopra l’esistenza di alcuni sistemi equinormali-ortogonali ». 677; 750. ANDREOLI. « Sulla totalità dei numeri primi inferiori ad un limite assegnato ». 404. Anger. « Sulla chimica dell’argentotera= pia». 12. ARMELLINI. « Supra l’integrabilità delle equazioni differenziali della mecca- nica ». 177. ARZzELÀ. Sun Commemorazione. 801; 879. b BaGLIONI. « Ricerche sugli effetti dell’ali- mentazione maidica. Azione del succo enterico di cane su zeina, gliadina, zeosi e gliadosi ». 655. BargGELLINI e MoLina. « Sulla costitu- zione di alcuni acidi trimetossiftalici ». 146. BarIoLa. « Sull’anatomia del Jequirity (Se- me dell’Abrus precatorius L.) e dei semì delle piante comunemente usate per sofisticarlo ». 859. BecaRrELLI. V. Marino. BeLLUuccI. « Su alcune incompatibilità far- maceutiche del salolo ». 610. BeRNARDIS « Soluzioni solide fra alogenuri di uno stesso elemento ». 438. BertonI. V. Colacicchi. BrancHI. « Intorno ad una nuova classe di superficie ». 383. — 886 — BLASERNA (Presidente). Comunica i tele- grammi di auguri inviati a S. M. il RE. 735; a S. M. la Regina MADRE. 674; 801. — Presenta una lista di sottoscrizione per uo ricordo marmoreo al Socio Spezia. 674. — Offre due medaglie commemorative dei Soci stranieri Dardour e Mond. 674. Boegio. « Sul moto di una massa liquida che conserva la forma ellissoidale ». 268. Bompiani. « Sulla sostituibilità dell’ urea nelle soluzioni artificiali pel cuore iso- lato dei selaci ». 667. BosineLtI. V. Ravenna. Bortasso. « Sopra le equazioni del moto generale ‘e perturbato di un filo ine- stendibile ». 587. Borrazzi. « Sulla tensione superficiale delle soluzioni proteiche ». 221. — « Sulla tensione superficiale delle solu- zioni e sospensioni di saponi n. 365. — « Proprietà chimiche e chimico-fisiche del succo di muscoli striati e lisci». 493. — e D'Agostino. « Sulla tensione super- ficiale delle soluzioni proteiche ». 561. Bovini. V. Padoa. BranDI. « Contributo allo studio sulla iden- tità delle leishmaniosi (Reciprocità di alcune reazioni biologiche)». 788. Briosi e PavaRrINO. « Una malattia batte- rica della Matthiola annua L. (Bac- terium matthiolae n. sp.) n. 216. BuraLi-FortI. « Gli enti astratti definiti come enti relativi ad un campo di nozioni ». 677. CaLcagni. « Solfati anidri ». 71. — « Basicità degli acidi contenenti ossi- drili alcoolici ». 348; 445 — e MarorTA. « Solfati anidri ». 93; 240; 284. Cami. « Sui solfoalluminati d’argento ». 774; 837. Casati. V. Scagliarini. CeruLLI. È eletto Corrispondente. 220. — Ringrazia. 672. CrsortI, « Sulla deformazione idrostatica degli scafi». 37. Ciusa e ScAGLIARINI. « Ricerche sulla stric- nina e brucina ». 84. — e VeEccHIOTTI. « Sui prodotti d’addizione dei derivati del trinitrobenzolo con alcune sostanze aromatiche azotate ». 161. CoLaciccHi e BerToNI. « Azione degli alco- olati sodici sopra gli eteri esrbopir- rolici ». 450; 518. CoLonnETTI. « Sulle deformazioni elastiche delle condotte d’acqua con tubi di grande diametro ». 326. Corpaporo. « Gli equilibrii nel sistema: cloruro di bario, nitrato di sodio, ni- trato di bario, cloruro di sodio eacqua». 695; 842. Corronet. « Sullo sviluppo e sullo accre- scimento degli anfibi. I. Le azioni morfogenetiche e il movimento ». 782. CRUDELI. « Formule del Green e metodi del Betti nella teoria del moto lento dei liquidi viscosi ». 231; 271; 332. — «Icorpidiattrazione nulla ». 407 ; 822. Cusoni. Presenta una pubblicazione del dott. Petri e ne discorre. 673. Cusmano. « Una nuova ossima della san- tonina ». 796. D De STEFANI. Offre alcune pubblicazioni dei professori J/artelli, Dainelli e Mari- nelli. 801. — « Calimno. Cenni geologici ». 479. — «Le isole maltesi. Cenni geologici ». 750. DI Franco. « Gli inclusi nella lava etnea di Rocca S. Paolo presso Paternò ». 249. Di STeFANO, « Intorno ad alcune faune cretaciche del Deserto arabico ». 167. E Emery. « Sulla teoria della determinazione dei sessi ». 397. — 887 — EREDIA. « Andamento diurno della tempe- ratura a Tripoli ». 58. Evans. « Sull’equazione integro-differen- ziale di tipo parabolico ». 25. F FantòLI. Riferisce sulla Memoria Allievi. 800. Foà. « Movimenti degli ovidotti e conse- guente metabolia delle uova negli Acaridi ». 158. Fossa-MancinI. « Rettifica. (Studio critico sulla teoria del Poynting) ». 52. FuBinI. « Derivate successive di una fun- zione di più variabili ». 595. G Gayba. « Ricerche di elettrofisiologia sui tessuti di sostegno n. 536; 661. Grorg1. « Sul problema Alfa della dina- mica ». 320. — «Sui problemi dell’elasticità eredita- ria». 412. — «Sugli operatori funzionali ereditarii ». 683. GorInI. « Di un fermento lattico filante (Bacillus casei filans)». 472. — « Contributo alla differenziazione dei fermenti lattici ». 790. Grassi B. (Segretario). Presenta due pub- blicazioni del prof. Pirocchi e ne parla. 673. — È confermato nella carica di Segretario aggiunto della Classe di sc. fisiche ecc. 673. — « Nuova contribuzione alla storia dello sviluppo dei murenoidi ». 15. — « Nuovo contributo alla conoscenza delle fillosserine ». 543. — « Ricerche sulle anguille argentine al- levate forzatamente in vasche d’acqua dolce ». 548; 675. Greco D’ALcro. V. Mazzucchelli. GuarescHI. È eletto Corrispondente. 220. — Ringrazia. 672. I Iona. « Bromo e cloro-guajacoli ». 202. L Laura. « Sopra le vibrazioni normali di un corpo elastico immerso in un fluido ». 20. — «Sopra le vibrazioni armoniche smor- zate di un corpo elastico immerso in un fluido ». 595; 756; 811. LAauRICRLLA. « Commemorazione del Cor- rispondente Arzelà ». 801; 879. Levi. « Serie di Taylor e funzioni anali- tiche di più variabili». 761; 816. Lorta G. È eletto Corrispondente. 220. — Ringrazia. 672. Luciani. « Ancora sulla sfera visiva del mantello cerebrale dei cani ». 487. M MarreI. V. Z'urconi. MacistRETTI. « Ilmenite delle cave di pietra ollare al Sasso di Chiesa (Val Malenco) ». 688; 761. Mayorana. «Sui rivelatori di onde elet- tromagnetiche fondati sull’ emissione elettronica dei fili incandescenti ». 235. — «Su di un nuovo tipo di rivelatore di onde elettromagnetiche fondato sulla emissione elettronica dei fili incande- scenti ». 274. Mancini G. Invia per esame la sua Me- moria: « Petri Franceschi, vulgo della Francesca ecc. n 800. MarcoLonco. È eletto Corrispondente. 220. — Ringrazia. 672 Marconi. È eletto Socio nazionale. 220. — Ringrazia. 672. MARINO e BECARELLI. « Ricerche sulle com- binazioni sub-alogeniche di alcuni ele- menti. I. Sul cosiddetto sottoioduro di bismuto ». 617; 695. — e ToninELLI. « Ricerche sui seleniti asimmetrici. Sui prodotti di addizione della piperidina cogli acidi selenioso e solforoso ». 98. Marogna. V. Palazzo. Marotta. V. Calcagni. MascARELLI. « Formazione spontanea di basi iodoniche contenenti iodio in un nucleo eterociclico pentaatomico ». 617. 9 — 888 — Mauerni. V. Ravenna. Mazza. « Risultato di esperimenti fatti sopra alcune anguille argentine (/z/a- trotas) vissute forzatamente in acqua dolce ». 648; 730. MazzuccHELLI. « Ancora su una formula per l’indice di rifrazione dei miscugli binarii ». 626; 701. — e 0. Greco D’ALceo. « Studî sui sali dell'uranio n. 620. — — «Spettri di assorbimento di alcuni sali di uranio ». 774; 850. MiLLosevica E. (Sesretario). Presenta le pubblicazioni giunte in dono, segna- lando quelle dei Soci: Berlese, Giglioli. 673; Aarpinsky.801; Liapounoff. 673; Saccardo, Taramelli. 801. — e dei signori: Adetti. 673; De Toni, Fa- varo. 801; Sergi. 673. — È confermato nella carica il Segretario della Classe di sc. fisiche ecc. 673, MirLosevica F. « Studî petrografici sulle isole dell'Egeo. I. Rocce di Kalymnos e di Kos». 304. Mina. « Sulla resistenza dell’aria nelle su- perficie piane inclinate ». 360. MoLina. V. Bargellini. MoLinarI. « Sull’inteerale di Dirichlet ». 419. MuneratI. « Sulla recettività del frumento per la carie in rapporto al tempo di semina ». 774; 875. Murray. È eletto Socio straniero. 220. — Ringrazia. 672. Nasini e Ageno. « Volatilità dell'acido bo- rico nel vapor di acqua, ed ebullizione delle sue soluzioni sature con fase solida». 125. — e PorLezza. « Sulla presenza di note- voli quantità di acido borico nelle acque minerali di Salsomaggiore ». 379. — — «Ricerche sulla radioattività delle acque sorgive di Monte Amiata, ed esperienze sulla dispersione atmosfe- rica della regione n. 475. Nasini e PorLezza. « Sulla esistenza di acque naturali ozonizzate e probabili teorie del fenomeno. L'Acqua Forte delle Bagnore nel Monte Amiata ». 577; 740; 803. (0) OrLANDO. « Sull’equazione alle potenze ». 92 — « Sulla trasformata di Tschirnhausen ». 1,24 P Papoa e Bovini. « Sulla grandezza mole- colare dei metalli nelle fasi solide ». 708. — e RoronpI. « Un caso speciale di ra- cemia ». 626. — e Santi. « Relazioni fra la fototropia e la costituzione ». 192. — e TaBELLINI. « I coefficienti di tempe- ratura delle trasformazioni fototropi- che ». 188. PaLazzo. « Sulla stereoisomeria della tri- cloro-acetaldossima ». 530. -- « Sulla tautomeria dell’ acido fulmi- nico ». 713 — e Marogna. « Sopra alcuni acil-deri- vati delle amnino-piridine @ e fp ». 912. PANTANELLI. « Su la supposta origine eu- ropea del cancro americano del ca- stagno ». 774; 869. PaoLInIi. « Sui glicerofosfati di jodio del commercio ». 350. Parona. « Affioramento di Titonico con Diceras Luci presso Parenzo in Istria ». 578. ParRravano. « Contributo allo studio chi- mico dei pirosseni della provincia di Roma ». 469. — « Sulla composizione chimica della haiynite dei Colli Albani ». 631. PaAvaANINI. « Prime conseguenze d’una re- cente teoria della gravitazione ». 648. Pavarino. V. Briosi. Pe1RI. « Significato patologico dei cordoni endocellulari nelle viti affette da ar- ricciamento ». 113. — 889 — PeTRI. « Ricerche sulla malattia del Casta- gno detta dell'inchiostro ». 735; 775. — « Ulteriori ricerche sulla malattia del Castagno detta dell'inchiostro ». 781; 863. PincHERLE. « Sulle operazioni lineari, e sulla teoria delle equazioni integrali ». 572: ProLa e TrerI. « Gli sforzi interni nei corpi ferromagnetici posti nel campo magnetico ». 335; 481. PiurTI. « Presenza dell’elio nei berilli n. 750. PorncarE. Annuncio della sua morte. 672. Ponte. « Sulla cenere vulcanica dell’eru- zione etnea del 1911 ». 209. PorLezza. V. Nasini. R Ravenna e MauGINI. « Sul comportamento delle piante coi sali di litio ». 292. — e BosineLtI. « Sulla azione di alcune sostanze aromatiche nella cianogenesi delle piante ». 286. — — « Sulla presenza dell’acido cianidrico libero nelle piante ». 355. Reina. Fa parte della Commissione esa- minatrice della Memoria Allievi. 800. Repetto. V. frolla. RieHi. « Sul trasporto di ioni positivi ef- fettuato dai raggi magnetici ». 121. — « Sui raggi magnetici in diversi gas ». BIL, — « Nuove esperienze di rotazione iono- magnetica ». 737. Roca. « Sul calore di formazione dello acido selenidrico n. 278. — e RepeTTO. « Azione dell’iodio sull’acido selenidrico ». 463. Rosati. « Studio cristallografico dell’acido 3-4-5 trimetossi-o-ftalico ». 358. — « Studio cristallografico sul sale sodico dell’ iso-ossi-tetrazolo ». 645. Roronpi. V. Padoa. Rovereto. « Sulle correlazioni del pam- peano con i fenomeni quaternarii della glaciazione ». 460. S SaLaGHI. « Della volgarizzazione ed appli- cazione della fisica-matematica in me- dicina ». 48. SaLvapoRrI. « Combinazioni dell'uranio con l’idrazina». 455. SANDONNINI. « Sulla tendenza degli aloge- nuri alcalini a combinarsi cogli alo- genuri d’argento ». 196. — « Analisi termica di miscele binarie di cloruri di elementi bivalenti ». 524; 634. — e Scarpa. « Analisi termiche di mi- scele binarie di cloruri di elementi monovalenti ». 77. Sani. « Azione del fosfato monocalcico nella conservazione dei foraggi verdi ». 108. SantI. V. Padoa. Sporei. « Sui borati, sistema B”03 — (NH*)£ 0 - H® 0 a 30° ». 774; 855. ScaGLIARINI. « Su alcuni nitriti instabili fissati a mezzo di basi organiche ». 88; 151; 640. — e Casati. « Ossidazione anodica della ammoniaca in ambiente acido in pre- senza dei sali d’argento ». 726. — V. Ciusa. Scarpa. « Sali doppî del cloruro talloso col cloruro ferrico e col cloruro di bismuto ». 719. — V. Sandonnini. SenEPA. « Sulle forze termomagnetiche dei metalli ». 53. SIBIRANI. « Sopra le funzioni ordinatrici ». 761; 825. SiLvestRI. « Sulla stabilità dei moti sta- zionarî di sistemi con 7 gradi di li- bertà ». 508 — «Sui moti stazionarii nel caso della Kowalevsky ». 601. SinicaLLIa. « Sulle funzioni permutabili di seconda specie ». 688; 831. Strovica. « Sulla marcasite di Castelnuovo disPortoA 859 — « Analisi del granato del fosso del T'a- volato n. 643. SouLa. « Sur la permutabilité de 2me espèce n. 425. = 890 — T TABELLINI. V. Padoa. TERNI. « Sul perossido di alluminio ». 104. Treri. V. Piola. ToGLIATTI. « Sulle superficie algebriche, del 5° ordine irriducibili, con un fa- scio ellittico di coniche ». 35. ToneLLI. « Sugli integrali curvilinei del calcolo delle variazioni ». 132. TonineLLI. V. Marino. Turconi e MAFFEI. « Due nuove malattie della Sophora japonica Sin. n. 246. V VeccurorTI. V. Ciusa. VENTURI. « Determinazioni di gravità re- lativa in Tunisia e a Malta nel 1908 ». 548. VILLAT. « Espressione per trascendenti ellittiche della funzione che caratte- rizza i moti ondosi provocati da pe- riodiche accidentalità del fondo ». 188. VrioLa. E eletto Socio nazionale. 220. — Ringrazia. 672. VIsenTINI. «Sulla fina struttura della Leish- mania del Kala-Azar italiano in cul- tura ». 155. VITALI. « Sopra una proprietà caratteristica delle funzioni armoniche ». 315. VoLtERRA. Fa omaggio di varie pubbli- cazioni del prof. Ze Bon. 801. — Presenta, per esame, una Memoria di G. Mancini. 800. — « Vibrazioni elastiche nel caso della eredità ». 3. Z ZiggeL. Annuncio della sua morte. 672. ZurrarpI. « L’Elephas antiquus Falc. nella filogenesi delle forme elefantine fos- sili ». 298. — 891 — INDICE PER MATERIE A AERONAUTICA. « Sulla resistenza dell’aria nelle superficie piane inclinate ». £. Mina. 360. B BorAnICA FARMACEUTICA. « Sull'anatomia del Jequirity (Seme dell’Abrus pre- catorius L.) e dei semi delle piante comunemente usate per sofisticarlo ». R. Bariola. 859. BroLogia. « Contributo allo studio sulla identità delle leishmaniosi (Recipro- cità di alcune reazioni biologiche) ». I. Brandi. 788. — «Sullo sviluppo e sullo accrescimento degli anfibî. I. Le azioni morfogene- tiche e il movimento ». G. Cotronei. 782. — « Sulla teoria della determinazione dei sessi ». C. Emery. 397. — «Movimenti degli ovidotti e conse- guente metabolia delle uova negli Acaridi ». A. Foà. 158. — «Nuovo contributo alla conoscenza delle fillosserine ». B. Grassi. 543. Cc Chimica. « Sulla chimica dell’argentote- rapia». A. Angeli. 12. — «Sulla costituzione di alcuni acidi tri- metossiftalici ». G. Bargellini e 0. Molina. 146. — «Su alcune incompatibilità farmaceu- tiche del salolo ». /. Bellucci. 610. RenpIcoONTI. 1912, Vol. XXI, 2° Sem. CuÙimica. « Soluzioni solide fra alogenuri di uno stesso elemento ». G. 2. Ber- nardis. 438. — « Solfati anidri ». &. Calcagni. 71. — « Basicità degli acidi contenenti ossi- drili alcoolici ». /d. 343; 445. — «Solfati anidri ». /d. e D. Marotta. 93; 240; 284. — « Sui solfoalluminati d’argento ». £. Cambi. 774; 887. — « Ricerche sulla stricnina e brucina ». R. Ciusa e G. Scagliarini. 84. — « Sui prodotti d’addizione dei derivati del trinitrobenzolo con alcune sostanze aromatiche azotate ». Id. e L. Vec- chiotti. 161. — «Azione degli alcoolati sodici sopra gli eteri carbopirrolici ». UV. Colaciechi e C. Bertoni. 450; 518. — «Gli equilibrî nel sistema: cloruro di bario, nitrato di sodio, nitrato di bario, cloruro di sodio e acqua». A. Coppa- doro. 695; 842. — « Una nuova ossima della santonina ». G. Cusmano. 796. — « Bromo- e cloro-guajacoli ». 7°. Zona. 202. — «Ricerche sulle combinazioni sub-aloge- niche di alcuni elementi. I. Sul co- sidetto sottoioduro di bismuto ». £. Marino e L. Becarelli. 617; 695. — « Formazione spontanea di basi iodo- niche contenenti iodio in nn nucleo eterociclico pentaatomico n. L. Masca- relli. 617. — «Studî sui sali dell'uranio ». A. Maz- zucchelli e O. Greco d’Alceo. 620. — «Sulla presenza di notevole quantità 116 TE rr DA SER — 892 — di acido borico nelle acque minerali di Salsomaggiore ». A. Masini e C. Por- lezza. 379. CHÙimica. « Sulla esistenza di acque natu- rali ozonizzate e probabili teorie del fenomeno. L'Acqua Forte delle Ba- gnore nel monte Amiata ». /d. /d. 577; 740; 803. — «Sulla grandezza molecolare dei me- talli nelle fasi solide ». 2. Padoa e F. Bovini. 708. — « Uncaso speciale di racemia ». G. Ro- tondi. 626. — « Relazioni fra la fototropia e la costi- tuzione n. /d. e L. Santi. 192. — «I coefficienti di temperatura delle trasformazioni fototropiche ». /d. e G. Tabellini. 188. — «Sulla stereoisomeria della tricloro- acetaldossima ». FM. C. Palazzo. 580. — «Sullatautomeriadell’acido fulminico». Id. 713 — «Sopra alcuni acil-derivati delle amnino- piridine « e pn. Id. e G. Marogna. 512. — «Sui glicerofosfati di sodio del com- mercio n. V. Paolini. 350. — « Contributo allo studio chimico dei pi- rosseni della provincia di Roma». M. Parravano. 469. — « Sulla composizione chimica della hati- ynite dei Colli Albani ». /d. 631. — « Azione dell’iodio sull’acido seleni- drico n. Z. Rolla e A. Repetto. 463. — « Combinazioni dell’uranio con l’idra- zina n. R. Salvadori. 455. — «Sulla tendenza degli alogenuri alca- lini a combinarsi cogli alogenuri di argento n. 0. Sandonnini. 196. — « Analisi termica di miscele binarie di cloruri di elementi bivalenti ». /d. 524; 634. — « Analisi termiche di miscele binarie di cloruri di elementi monovalenti ». Id. e G. Scarpa. T1. — « Sui borati. Sistema B?08-(NH*)?0-H®0 a 30°». A. Sborgi. 774; 855. — «Su alcuni nitriti instabili fissati a mezzo di basi organiche ». G. Sca- gliarini. 88; 151; 640. Chimica. «Ossidazione anodica dell’ammo- niaca in ambiente acido in presenza dei sali d’argento ». /d. e A. Casali. 726. — « Sali doppi del cloruro talloso col elo- ruro ferrico e col cloruro di bismuto ». G. Scarpa. 719. — «Sulla marcasite di Castelnuovo di Porto ». G. Sirovich. 352. — « Analisi del granato del fosso del T'a- volato ». /d. 643. — « Sul perossido di alluminio». A. Terri. 104. CHIMICA AGRARIA. « Azione del fosfato mo- nocalcico nella conservazione dei fo- raggi verdi». G. Sani. 108. CHImica-FISICA. « Solubilità allo stato so- lido tra solfati e carbonati ad alta temperatura ». VM. Amadori. 65. — « Sulla tendenza a combinarsi fra alo- genuri e fosfati dello stesso metallo ». Id. 182. — «Sulla capacità degli alogenuri po- tassici di dare soluzioni solide ad alta temperatura ». /d. 606. — « Sulla tendenza a combinarsi fra alo- genuri e fosfati dello stesso metallo. II. Fluoruri e fosfati alcalini n. /d. 688. — «Sulla tendenza a combinarsi tra alo- genuri e fosfati dello stesso metallo. III. Fluoruro, cloruro e fosfato di piombo ». /d. 768. — «Sulla tensione superficiale delle solu- zioni proteiche ». HP. Bottazzi. 221. — «Sulla tensione superficiale delle solu- zioni e sospensioni di vapori». /d. 365. — « Proprietà chimiche e chimico-fisiche del succo di muscoli striati e lisci ». Id. 493. — «Sulla tensione superficiale delle solu- zioni proteiche ». /d. e £. D'Agostino. 561. — «Ricerche sui seleniti asimmetrici. Sui prodotti di addizione della piperidina cogli acidi selenioso e' solforoso ». £. Marino e A. Toninelli. 98. — «Ancora su una formula per l'indice di rifrazione dei miscugli binari». A. Mazzucchelli. 626; 701. — 893 — Cuimica-Fisica. « Spettri di assorbimento di alcuni sali di uranio ». /d. e 0. Greco d’Alceo. 174; 850. — « Volatilità dell’acido borico nel vapore di acqua, ed ebullizione delle sue so- luzioni sature con fase solida ». A. Ma- sini e F. Ageno. 125. ‘ Ricerche sulla radioattività delle acque | sorgive del monte Amiata, ed espe- rienze sulla dispersione atmosferica della regione n. Id. e C. Porlezza. 475. — «Presenza dell’elio nei berilli n. A. Piutti. 750. — «Sul calore di formazione dell'acido selenidrico n. £. Rolla. 278. Chimica vEGETALE. «Sulla azione di alcune sostanze aromatiche nella cianogenesi delle piante ». C. Ravenna e G. Bosi nelli. 286. — « Sulla presenza dell'acido cianidrico libero nelle piante ». /d. /d. 355. — «Sul comportamento delle piante coi sali di litio». /d. e A. Maugini. 292. CRISTALI.OGRAFIA. « Studio cristallografico dell’acido 3-4-5 trimetossi-o-ftalico ». A. Rosati 358. — «Studio cristallografico sul sale sodico dell’iso-ossi-tetrazolo n. /d. 645. K Elezioni di Svci 220; 672 — dei Segre- tarî della CI. di sc. fis. ecc. 673. ELETTROTECNICA. « Rettifica (Studio critico sulla teoria del Poyting)». C. Mossa- Mancini. 52. F Fisica. « Sui rivelatori di onde elettroma- gnetiche fondati sull’emissione elet- tronica dei fili incandescenti». Q. Ma- iorana. 235. — «Su di un nuovo tipo di rivelatore di onde elettromagnetiche fondato sulla emissione elettronica dei fili incande- scenti ». /d. 274. — « Gli sforzi interni nei corpi ferroma- gnetici posti nel campo magnetico ». F. Piola e L. Teri. 335; 431. Fisica. «Sul trasporto di ioni positivi ef- fettuato dai raggi magnetici ». A. Righi. 121. — « Sui raggi magnetici in diversi gas». ld. 311. — « Nuove esperienze di rotazione iono- magnetica ». /d. 737. — « Sulle forze termomagnetiche dei me- talli ». P. Senepa. 53 Fisica, MATEMATICA. « Formule del Green e metodi del Betti nella teoria del muto lento dei liquidi viscosi ». U. Crudeli. 231; 271; 332. —- «I corpi di attrazione nulla ». /d. 407; 822. FisroLogra. « Ricerche negli effetti dell’ali- mentazione maidica. Azione del succo enterico di cane su zeina, gliadina, zeosì e gliadosi ». S. Baglioni. 655. — « Sulla sostituibilità dell’urea nelle so- luzioni artificiali pel cuore isolato dei selaci ». f. Bompiani. 667. — «Ricerche di elettrofisiologia sui tes- suti di sostegno». 7. Gayda. 536 ; 661. — « Ancora sulla sfera visiva del mantello cerebrale dei cani». Z. Luciani, 487. G GroLosia. « Calimno. Cenni gelogici ». C. De Stefani. 479. — « Le isole maltesi. Cenni geologici ». /d. 750. — «Intorno ad alcune faune cretaciche del Deserto arabico ». G. Di Stefano.167. — « Aftioramento di ‘l'itonico con Diceras Luci presso Parenzo in Istria». C./. Parona. 578. — «Sulle correlazioni del pampeano con i fenomeni quaternarii della glacia- zione n. G. Rovereto. 460. GropESIa. « Determinazioni di gravità re- lativa in Tunisia e a Malta nel 1908 ». A. Venturi. 548. M MaTEMaTIca. « Sopra un'estensione del teorema di Rien-Fisher ». L. Amoroso. 41. — 894 — MATEMATICA. « Sopra un’equazione integro- differenziale del tipo parabolico ». /d. 141; 257 — « Estensione di alcuni precedenti risul- tati». /d. 400, — «Integrazione delle equazioni del moto lento di un fluido viscoso n. /d. 501; 580. — «Sopra l’esistenza di alcuni sistemi equinormali-ortogonali ». /d. 677; 750. — « Sulla totalità dei numeri primi infe- riori ad un limite assegnato ». G. Ax- dreoli. 404. — «Sopra l’integrabilità dell’ equazioni differenziali della meccanica ». G. Ar- mellini. 177. — « Intorno ad una nuova classe di su- perficie ». ZL. Bianchi. 383. — « Gli enti astratti definiti come enti relativi ad un-campo di nozioni ». G. Burali-Forti. 677. — «Sull’equazione integro-differenziale di tipo parabolico ». G. C. Evans 25. — «Derivate successive di una funzione di più variabili». G. Pubini. 595. — «Serie di Taylor e funzioni analitiche di più variabili». Z. E. Levi. 761; 816. — « Sull’integrale di Dirichlet ». A. M. Molinari. 419. — «Sull’equazione alle potenze ». Z. Or- lando. 32. — «Sulla trasformata di Tschirnhausen ». Id. 172. — «Sulle operazioni lineari e sulla teoria delle equazioni integrali ». S. Pin- cherle. 572. — «Sopra le funzioni ordinatrici ». f. St- birani. 7161; 825. — «Sulle funzioni permutabili di seconda specie n. Z. Sinigailia. 688; 831. — «Sur la permutabilité du 2.me espèce ». I. Svula. 425. — «Sulle superficie algebriche, del 5° or- dine, irriducibili, con un fascio ellit- tico di coniche ». E. G. Togliatti. 35. — «Sugli integrali curvilinei del calcolo delle variazioni ». ZL. Tonelli. 132. — «Espressione per trascendenti ellittiche della funzione che caratterizza i moti ondosi provocati da periodiche acci- dentalità del fondo». H. Villat. 138. MATEMATICA. «Sopra una proprietà caratte- ristica delle funzioni armoniche ». G. Vitali. 315. -— « Vibrazioni elastiche nel caso della ere- dità n. V. Volterra. 3. MATEMATICA APPLICATA. « Della volgariz- zazione ed applicazione della Fisica- matematica in medicina n. S. Salaghi. 48. Meccanica. « Sul moto di una massa li- quida che conserva la forma ellissoi- dale». 7. Boggio. 263. — «Sopra le equazioni del moto generale . e perturbato di un filo inestendibile ». M. Bottasso. 587. — «Sulla deformazione idrostatica degli scafi». U. Cisotti. 37. — « Sulle deformazioni elastiche delle condotte d'acqua con tubi di grande diametro ». G. Colonnetti. 326. — «Sul problema Alfa della dinamica ». G. Giorgi. 320. — «Sui problemi della elasticità eredi- taria». /d. 412. — «Sugli operatori funzionali ereditarii ». Id. 683. — «Sopra le vibrazioni normali di un corpo elastico immerso in un fluido ». E. Laura. 20. — «Sopra le vibrazioni armoniche smor- zate di un corpo elastico immerso in un fluido ». /d. 595; 756; 811. — «Sulla stabilità dei moti stazionarî di sistemi con 7 gradi di libertà ». C. Silvestri. 508. — «Sui moti stazionarii nel caso della Kewalevsky », /d. 601. MECCANICA CELESTE. « Prime conseguenze d'una recente teoria della gravita- zione». G. Pavanini. 648. MeTEoROLOGIA. « Andamento diurno della temperatura a Tripoli ». /. Fredia. 58. MicroBroLoGIa. « Di un fermento lattico filante (Bacillus casei filans)». C. Go- rini. 472. I — « Contributo alla differenziazione dei fer- menti lattici». /4. 790. — 895 — MineRALOGIA. « Ilmenite delle cave di pie- tra ollare al Sasso di Chiesa (Val Ma- lenco)». ZL. Magistretti. 688; 761. N Necrologie e Commemorazioni. Annun- cio della morte dei Soci stranieri P0n- caré e Zirkel. 267. — Commemora- zione del Corrisp. Arzelà. 801; 879. P PaLEonTOLOGIA. « L'Elephas antiquus Falc. nella filogenesi delle forme elefantine fossili». P. Zuffardi. 298. ParoLogia. « Sulla fina struttura della Leishmania del Kala-Azar italiano in cultura ». A. Visentini. 155. PATOLOGIA VEGETALE. « Una malattia bat- terica della Matthiola annua L. ». (Bacterium Matthiolae n. sp.). G. Briosi e L. Pavarino. 216. — « Sulla recettività del frumento per la carie in rapporto al tempo di se- mina ». O. Munerati. 174; 875. — «Su la supposta origine europea del cancro americano del castagno ». 7. Pantanelli. 774; 869. — «Significato patologico dei cordoni en- docellulari nelle viti affette da arric- ciamento ». Z. Petri. 113. — «Ricerche sulla malattia del Castagno detta dell’inchiostro ». Id. 735; 775. PATOLOGIA VEGETALE. « Ulteriori ricerche sulla malattia del Castagno detta del- l'inchiostro n. Id. 781; 863. — «Due nuove malattie della Sophora ja- ponica Sin. n. M. T'urconi e L. Maffei 246. PETROGRAFIA. « Gli inclusi nella lava etnea di Rocca S. Paolo presso Paternò ». S. Di Franco. 249. — «Studî petrografici sulle isole dell'Egeo. I. Rocce di Kalymnos e di Kos». Y. Millosevich. 304. V VuLcanoLogia. « Sulla cenere vulcanica dell'eruzione etnea del 1911 ». G. Ponte. 209. Z ZooLogra. « Nuova contribuzione alla storia dello sviluppo dei murenoidi n. £. Grassi. 15. — « Ricerche sulle anguille argentine al- levate forzatamente in vasche d’acqua dolce ». /d. 548; 675. — «Risultato di esperimenti fatti sopra alcune anguille argentine (/ilotrotas) vissute forzatamente in acqua dolce ». F. Mazza. 648; 730. ERRATA CORRIGE A pag. 380 penultima linea del testo invece di Zurasso legg. Zarasp » 382 linea 7 invece di Sv Cla legg. Sr Cl,. A pag. 400 le righe 3 e 4 debbono correggersi nel seguente modo: per l'uovo fecondato femmina: (AÉ + X) (AÉ£+ 0); per l’uovo fecondato maschio: (o +x)(AÉ + 2) e nel rigo 6 invece di x legg. x Pag. RIGA 508. 29 (dal basso) n gradi un grado 509 13 annessì omessi DU Touloune Toulouse 511 16 ie = |An” | a b—- & a b—- A DINT D= 8° — ac D= ac — b° 512 10 sussistano sussistono sen? # così d 601 3 (dal basso) NA “gl sa di 5 cond Pro i Po sen? & i 2r00n DI 602 24 Rotazione Rotazioni 603 12 3(c° — 2) 9* — 3(c° — 2) 9* » 16-17 2 DA 2 D'42 » 18 0 Oil 604 18 (1— 3sen? do) (1 — 3 sen? do) 605 1 alla CR; la alla equazione dp} = sen Fof* la dt dt ” 14 sen? 9° sen? do 606.2 costituito costruito A pag. 794 1. 12 invece di « fino oltre 50 gradi Soxhlet (cioè 50 c.c. di soluzione quartinormale di soda per 50 c.c. di cultura in latte » leggasi: « fino oltre 50 gradi Soxhlet-Henkel (cioè 50 c.c. di soluzione quartinormale di soda per /00 c.c. di cultura in latte. quia? SL x 3 7 “i eps è i I | Pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell'Accademia pontificia dei Nuovi Lincei. Tomo I-XXIII Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2° — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. 1II. (1875-76). Parte 1* TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di sciense fisiche, matematiche e naturali. 33 MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. ® MolBCIV.: V. VI SSVISSVIZIE Serie 3* — TransunTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1,2). — II. (1, 2). — HI-XIX. MemoRIE della Classe. di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpIcontI. Vol. I-VII. (1884-91). MemoRrIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRrIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RenpIcONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Nol XXdE:(L39251912). 2° \SemBzbasenaiza ReNpIcoNTI della Classe di scienze moruli, storiche e filologiche. Vol. 1-XXT. (1892-1912). Fasc. 5°-6°. Memorik della Classe di sciense fisiche, matematiche e naturale. Vol. I-IX. Fasc. 7°. MemoRIE della Classe di sciense morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIT CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINOFI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia è di L. 10; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LoescHer & C.° — Roma, Torino e Firenze. Utrico Horpri. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Dicembre 1912. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali Seduta del 15 dicembre 1912. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTA" DA SOCI Nasini e Porlezza. Sulla esistenza di acque naturali ozonizzate e probabili teorie del feno- meno. L'Acqua Forte delle Bagnore nel Monte Amiata . . . . . +... +. Pag. 808 Laura. Sopra le vibrazioni armoniche smorzate di un corpo elastico immerso in un fluido » 811 Levi. Serie di Taylor e funzioni analitiche di più variabili (pres. dal Corrisp. Zedone). . » 816 Crudeli. Sui corpi di attrazione nulla (pres. dal Socio Pizzetti). i EI » 822 Sibirani. Sopra le funzioni ordinatrici (pres. dal Socio Somigliana) . . . n 825 Sinigallia. Sulle funzioni permutabili di seconda specie (pres. dal Corrisp. Lauricll) - » 831 Cambi. Sui solfoalluminati d’argento (pres. dal Socio Masini) . . . n 887 Coppadoro. Gli equilibri nel sistema: cloruro di bario, nitrato di nio, O) di tali i elonuro di sodio (etacqual(pres.W/0)) Mn Se ani S42 Mazzucchelli e Greco d'Alceo. Spettri di assorbimento di alconi Su camici ra dal Socio Paternò) . . IE a) Sborgi. Sui borati. Sistema Bios. (NEYO- Ho a 300 do dal "sodio Nasinî) MES Ca) Bariola. Sull’anatomia del Jequirity (Seme dell'Abrus precatorius L.) e dei semi delle piante comunemente usate per sofisticarlo (pres. dal Socio Briost) . . . . 20 7 n 4859 Petri. Ulteriori ricerche sulla malattia del castagno detta dell'inchiostro (pres. CI Socio Cuboni) . AA ; sa È A nAR68 Pantanelli. Su Ù SOTA origine dci del cancro americano < del castani lnsd Id.) n 869 Munerati. Sulla recettività del frumento per la carie in rapporto al tempo di semina (pres. dal Socio Pirotta) ° sil lie Mato les n l'aflio., ce, e viel ie da lE SES SI RA SA EI N SIIT, 875 PERSONALE ACCADEMICO Lauricella. Commemorazione del Corrisp. prof. Cesare Arzelà . . .. ... +. n 879 Tndicetdelisyol: XXI semestre OI I ea o RR ERRATA-CORRIGE ———— A pag. 794 1. 12 invece di « fino »'tre 50 gradi Soxhlet (cioè 50 c.c. dî soluzione quartinor- male di soda per 50 c.c. di cultura in latte » leggasi: « fino oltre 50 gradi Soxhlet-Henkel (cioè 50 c.c. di soluzione quartinormale di soda per /00c.c. di cultura in latte. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. r5ge® pf È) == cnc sr e lio 3 9088 01356 8936