Lafi_VENI pa > una INCI a ” PEGI = > Vale, © Ven Sa) 'a > > wr pa a SARA: L CARESIEE: Ve” = P. 7 BP (ni PI __ A Cani “ MI -— SM \ f PANRAA ar sù pr > PS am S per alia A giù Vate [a "n lag' N DN z I \ di 6 I A CN aa A Va A À avv MARNA MADARA 2 FS n mt ai J A a 2% 2 (Ce «Ci Ca LEA A@ Ce . Cao «(dal ("* Ci TU Pi AU T ‘€ \ a elarialio a Len] ci Niala AA DI GI mail Are aYN » ai fan ì Na "atù E. a 9. dr + 4 RE < pr ene av? Sat “Lang? ESTE dp | ò iS Si dig 3 D È x 4 n È È È 1 l af L di @: , bee I PN ERA (N has ) 5 2 La Rs AN = AM a) sefaa!. i Desa e — = mm end > DS a (| An LÌ n . Al ug i VALZIA an sa) <= i © Pa Si Sa È) —* A, ni e C«& 4 SS 3-d i ( (CENNI € Coe led O. 7 CET @m. 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SL DELLA | REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CCCXII. 1915 SBRIH QUINTA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 3 gennaio 1915. Volume XXIV°. — Fascicolo 1° 1° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL DOTT. PIO BEFANI 1915 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due ‘Classi. Peri Rendiconti della Classe-di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme ‘seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- «golarmente due volte al mese; essi contengono @le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli. compongono un volume; «due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- «denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità sono portate a 6 pagine. 8. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l'autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz’altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe, 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti. o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’autore. - d) Colla semplice pra- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esama è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti. non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'. st. 26 dello Statuto. G 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Socio Corrispondenti; 5086 estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico- degli autori. DG Bag Ba ( DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCHI ANNO CCCXII. o SBMRIE QUINTA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. VOLUME XXIV. 1° SEMESTRE. \ 9° -J ) 4 cd 26602SÀ4, ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL DOTT. PIO BEFANI 1915 RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. AA Seduta del 3 gennaio 1915. P. BLASERNA, Presidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Matematica. — Sopra una proprietà caratteristica delle con- qruenze rettilinee di rotolamento. Nota del Socio Luici BIANCHI. 1. Indico col nome di congruenze di rotolamento le congruenze retti- linee generate da una retta trascinata in sistema rigido da una superficie Sp, quando questa rotola sopra una superficie applicabile S. S' intende per altro escluso che le superficie applicabili siano ambedue rigate, perchè in questo caso (e in questo soltanto) la retta satellite assumerebbe solo una semplice infinità di posizioni, e descriverebbe quindi una superficie rigata, non una congruenza. Allo studio dalle congruenze di rotolamento ho dedicato una Memoria, ora in corso di pubblicazione nei Rendiconti del Circolo matematico di Pa- lermo (tomo 39°, 1915); ai risultati generali ivi stabiliti, faccio seguire nella presente Nota le dimostrazioni di alcune proprietà complementari. Le congruenze di rotolamento sono congruenze rettilinee affatto speciali. I loro fuochi ed i piani focali sono sempre reali e godono dell'importante proprietà che le loro posizioni per ogni raggio della congruenza dipendono soltanto dalla superficie rotolante Se, e non cangiano se varia comunque la superficie (applicabile) S di appoggio. Ne segue che se ogni raggio della congruenza s' immagina invariabilmente legato agli elementi del corrispon- dente piano tangente di S, e indi si deforma comunque per flessione questa superficie, i fuochi ed i piani focali restano fissi per ogni raggio. Principale scopo di questa Nota è di provare che per le congruenze a sviluppabili distinte questa proprietà è caratteristica per le congruenze o a di rotolamento. In pari tempo stabiliremo qui nuovamente le proprietà fon- damentali di queste congruenze, per una via alquanto diversa da quella seguìta nella Memoria. 2. Al nostro studio sulla deformazione delle congruenze occorre premet- tere la risoluzione di un problema, già in sostanza contenuta in una Me- moria di Ribaucour ('), ma che qui conviene riprendere seguendo i concetti introdotti da S. Lie (*) nella geometria infinitesimale. Chiamiamo elemento piano o faccetta / l'insieme di vn punto P e di un piano 7r incidenti, o più propriamente un intorno infinitesimo del punto P (centro di f) sul piano 77. Consideriamo una superficie S come la totalità delle sue 00? faccette /, ed insieme un'altra superficie S' corrispon- dente punto per punto alla S, sicchè ad ogni faccetta / di S corrisponderà una determinata faccetta /" di S'. Ora immaginiamo di deformare comunque per flessione la S, e che ogni sua faccetta / trasporti seco, în sistema in- variabile, la corrispondente faccetta /". In generale accadrà che, dopo la deformazione, le co? faccette /' cesseranno di costituire una superficie; ora noi domandiamo di (rovare tutti i casi nei quali, dopo qualunque defor- mazione della S, le x? faccette trasformate f' costituiscono sempre una superficie. Dimostreremo che ciò avviene in due soli casi, e cioè: a) quando ogni faccetta f' è normale alla congiungente il suo centro F' col centro F della faccetta corrispondente f (caso di Beltrami); b) quando i piani n, n' di due faccette qualunque corrispondenti f,f', sono fra loro ortogonali, e inoltre il centro F' della /' giace sul piano rr della f (caso di Ribaucour). Per provare queste asserzioni, cominciamo dal riferire la superficie S, in una qualunque delle sue configurazioni, ad un sistema (u,v) di coordi- nate curvilinee qualsivoglia. Mantenendo le consuete notazioni della teoria generale, indichiamo con «',y',' le coordinate del centro F' della fac- cetta /', corrispondente alla faccetta /=(w,) della S, e con X', Y', 7" i coseni di direzione della normale al piano 7’ della /'. Per esprimere che la /' è invariabilmente legata alla /, in qualunque deformazione della S, basterà scrivere 2", y", 2"; X', Y°,Z' sotto la forma dA i dI I ‘Aa doi rendi BIL. VR dY DU (1) ini usare Il 7 dé de = = m— + nZ s=3+t “i pale (1) Ved. Mémoire sur la théorie générale des surfaces courbes (Journal de mathém., 4ème série, tom. VII, 1891), n. 92. (*) Cfr. le mie Lezioni, vol. III, $ 39. (322 1,2 et i i CASA RIS (2) Y LEE ip | Qi È +e 4a, dove i coefficienti /, m, x nelle (1), e gli altri 4, w, v nelle (2) sono tutti funzioni di x.,v, invariabili per flessione. Per ipotesi, per qualunque deformazione della S, debbono sussistere le due relazioni MdA ,9dY dda! x_-LY_L+LZ" —= (8) \ dU t dU 1° du , d0° , dY AI xo LY — = dv + dV un 4 dv le quali esprimono appunto che le 00° faccette /' formano una superficie S'. Ora dalle (1), derivando, con riguardo alle furmole fondamentali della teoria, veniamo ad esprimere linearmente ed omogeneamente le derivate di a',y'", per quelle di x,y,z, e per X, Y,Z, colle formole seguenti: da Deo FD— ED'\ x == Al du (L+ RG — F? du | (MH t EG — E? ap +(+D/+D'm)x du E) +(F+ D+ D'm)x. ed analoghe per y',", ove i coefficienti L, M P,Q hanno valori invaria- bili per flessione, e precisamente: IDDISRTO, dI, (12), , (22), DE cia lia LI ©) n), È AR 12 dm 1 X12), | X22) | wu li un E a ali Introducendo nelle (3) per X'. Y',Z' i valori (2), e per De lori (4), otteniamo le due relazioni seguenti : | (n4— 0) D 4 (nu — vm) D'= — XEL + FM) 4 u(FL + GM) +e, (6) | si | (n4 — vl) D'+ (nu — vm) D'= = (EP + FQ) + w(FP+6GQ) +» S 3 nelle quali i secondi membri sono indipendenti dalle flessioni, mentre i primi contengono linearmente i coefficienti D, D'.D" che fissano la configurazione di S. Ora, affinchè le (6) si verifichino in tutte le deformazioni, come è supposto, occorre che le (6) risultino identità (*), ed avremo quindi neces- sariamente (7) nh = vl , nUu=vM. Viceversa, se sussistono queste due equazioni, ed in una. particolare configurazione di S le co? faccette /' costituiscono una superficie. ciò avverrà in tutte le altre deformazioni, poichè si annulleranno nelle (6) anche i se- condi membri. Ora le (7) portano a distinguere due casi, secondo che v è diverso da zero, oppure zero 1° caso: v+ 0. Possiamo scrivere ; ment, =n- v 1 onde abbiamo n n Cee gay nd v v queste esprimono che le faccette /" sono normali alle congiungenti FF' dei centri delle faccette corrispondenti, il che è appunto il caso a) di Beltrami. 2° caso: v= 0. Qui abbiamo XX Za cioè i piani delle faccette corrispondenti sono normali fra loro. Ma inoltre dalle (7), non potendo essere insieme 4= «= 0, segue che necessariamente n=0. vale a dire il centro F' di /' giace sul piano 7 di /, cioè sul piano tangente delle superficie S; ci troviamo dunque nel caso b) di Ribaucour. La proposizione enunciata è così stabilita. (*) Cfr. Lezioni, vol. III. $ 254. aly 3. Supponiamo, ora, che a ciascuna faccetta / della superficie S, fles sibile ed inestendibile, sia coordinato wn corrispondente raggio r di una congruenza (I°); e mentre la S si deforma per flessione, ciascuna faccetta / trasporti seco invariabilmente il raggio corrispondente. In generale avverrà che, al deformarsi della S [o anche, diremo, al deformarsi della congruenza (T)] i due fuochi sul raggio ed i due piani focali attorno al raggio varie- ranno di posizione. Ora i risultati del n. 2 permettono di rispondere su- bito alla domanda: In quali casi avviene che per la congruenza (T°), supposta a svilup- pabili distinte, i due fuochi F,,F. ed i due piani focali mr, my restano immobili per ogni raggio in qualunque deformazione della superficie S, o della congruenza (T)? In tal caso le due serie co? di faccette // =(F,,7), /:=(Fa, 72), ciascuna costituita da un fuoco e dal relativo piano focale, restano invaria- bilmente legate alla corrispondente faccetta /= (F,7) della S, e, dopo qualunque deformazione, le /, costituiscono sempre la prima falda focale Sì, e le /: la seconda falda Ss. Secondo il n. 2, ciascuna di queste due fac- cette /1,/» dovrà offrire o il caso a) di Beltrami, o quello b) di Ribau- cour; ma poichè i due fuochi sono distinti, uno di essi, poniamo F,, sarà nel punto (7,77) ove il raggio interseca il piano tangente 77 di S, ed allora il relativo piano focale 7, sarà quello condotto per r normalmente a 7. Dopo ciò, il secondo fuoco F; cadrà nel piede della perpendicolare abbassata da F sopra 7, ed il relativo piano focale 77» sarà quello condotto per 7 normalmente al piano (F, 7). Viceversa, se i fuochi ed i piani focali, in una particolare configura- zione della S, offrono la disposizione descritta, essi la conserveranno, defor- mando comunque la S. Concludiamo, quindi, che la invariabilità dei fuochi e dei piani focali per ogni raggio di (Z°) avrà luogo allora, ed allora sol- tanto, che siano soddisfatte le condizioni seguenti: c) Ogni punto F della superficie S si trova sopra la normale nel punto corrispondente ad una delle due falde focali (distinto da questo punto), ed il piano tangente în F alla S passa per la normale all'altra falda focale. 4. Le condizioni c), ora rilevate, sono quelle che, nella Memoria citata, assicurano trattarsi di una congruenza (I°) di rotolamento. Di questa pro- posizione fondamentale darò ora un’altra dimostrazione, colla quale verranno a stabilirsi, per una via alquanto diversa, le proprietà delle congruenze di rotolamento a sviluppabili distinte. Supponiamo, adunque, che ad ogni punto F della superficie S corrisponda un raggio r della congruenza (T°), le cui superficie focali S,,S, sono di- stinte; la normale alla Ss in F; contenga il punto F, e quella alla S, in F, giaccia nel piano tangente in F_ alla S. Noi proveremo, allora, che esiste SR una deformazione della S in una superficie applicabile S,, tale che in questa configurazione Sy tutti i raggi di (T°), trascinati nella deformazione, vengono a raccogliersi in una sola retta 4. Così, in effetto. quando sì faccia rotolare So sopra S, la retta 4, rigidamente trascinata da So, verrà appunto a descrivere la congruenza (I). Sia F=(x,%,) un punto generico di $S; F\=(x1,%;4:) il punto ove il corrispondente raggio 7 di (7°) incontra il piano 77 tangente alla S in F; e sia inoltre F°=(x:, y» ; 22) il piede della perpendicolare abbassata da F sopra r. Riferiamo la S ad un sistema di coordinate curvilinee orto- gonali (x, v), scelte in guisa che la tangente in F alla linea v= cost sia normale al raggio 7 di (7). Ritenendo le consuete notazioni, avremo le formole: x = E VE Xi ’ È sh CS np 3 du du VG dv VE’ dX, 1 3VE RGDA DG i du Ya dw “Val du VE. VG (8) A dA pe IX 1 3V/G D' == pi a == = == do! E w VE SIT La; di tag, N, n, D_e dv VE dit e de dove i coefficienti D,D',D" della seconda forma fondamentale di S do- vranno soddisfare alla equazione di Gauss DD DELE AI LAS) d (1 3VE\) I) VEG Sho Erba du vba dv Ji ed alle due equazioni di Codazzi ba, da l VG D' STARTED d\yn} d\yk} o PIEDI RADAR 1 3VE D du 7a) ola VE wu VE VG dd Y Se indichiamo con o l'angolo d'inclinazione del raggio 7 sul piano tangente di S, e con X, Y,Z i coseni di direzione del raggio stesso, po- tremo porre (9) X= coso X, +- seno X,, CER colle formole analoghe per Y,Z. E per le coordinate @,, 7%, del primo fuoco F, della congruenza, potremo serivere le formole (10) a=L+X+mXa, colle analoghe per y,,1, dove i coefficienti / , #2 sono convenienti funzioni di «,v, indipendenti dalle /lessioni. 5. Ciò premesso, passiamo a scrivere le equazioni cui debbono soddis- fare le funzioni 0, /,7# di w,v, aftinchè siano verificate, come supponiamo, le condizioni c) del n. 3. I coseni di direzione della normale alla prima falda focale S, sono, per ipotesi; X., Y., Za, e debbono quindi sussistere le due relazioni = Nd =0, SX. =0, Qu dv SX le quali, calcolate mediante le (10) e le (8), forniscono le due equazioni: dm 1 OVE \ qui VG dv 1 | Î am__ 193. dv VE d Ora, per le coordinate >, >, del piede Fs, della perpendicolare ab- bassata da F sopra 7 (secondo fuoco), troviamo subito, dalle (9) e (10), (OO 8 wo = x + (seno X, |+-mXs —/seno coso X;, e analoghe per ys >. L'altra condizione c), che la normale alla Ss in F4 sia la retta FF., si esprime scrivendo le altre due condizioni DEE = dI — MES (ee dU (23 ) dv —= (). (12) S(x.— 2) Per calcolarle, osserviamo che dalle (11) si ha S(x° — a) =? seno + m; e per ciò, derivando, Sta — 2) E — S(c, — di bIseno 3 (/ sen 0) + nt, ua dA dm | Ste 2) Eta slm 1 e e] Siccome dalle (11) e dalle (8) segue d ca x A) S(2— 2) 7 = sento //E > Sta E my/G A RenpICcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 2 sd) ES dm se sostituuamo nelle (13) questi valori, e per > VE i valori (1), le (12) si riducono alle due seguenti: x RL 2 È ° LATTA ! 3VE po \ L Ki H+ 3.) sen Sia i ta S m | 0, (13*) l l i 1-| 3, seno + Lsen 0 coso di — 8] Il caso /= 0 è escluso nelle nostre ipotesi, perchè con /= 0 coinci- derebbero, per le (10), (11), i fuochi F,, F:; e se escludiamo il caso seno =0, le (12) si traducono nelle due condizioni —_ /E \ è (Iseno) = —y/E seno — US! IA du sen d ]/ GU dv (11) m 1 >3VG I ai ((senoc)= - = \ dV sen 0 J/E dU Il caso seno = 0 ora escluso, non ha realmente interesse alcuno, poichè allora. non potendo essere m = 0 (altrimenti F, coinciderebbe con F.), risul- terebbe dalle (13*) VE og . 2VE_ DLE 0 e potremmo fare VE=VG=1. La superficie S sarebbe una sviluppabile, ed i raggi della congruenza (T°), avendo i coseni di direzione (X,,Y1,Z1); e questi risultando costanti lungo ogni generatrice della sviluppabile, sì ordinerebbero in sviluppabili cilindriche, ed uno dei fuochi sarebbe allonta- nato all infinito. Così, adunque, il verificarsi delle condizioni c) n. 3 viene tradotto nelle equazioni (I) e (II). Ma converrà ancora tener conto, per la dimostrazione, delle loro conseguenze differenziali. La condizione d'integrabilità delle (I), d(193YE, ra 4a no, 1 du dv\1/G - dv VE d du ci dà » si x og Riise ovvero, avendo riguardo alle (II). (14*) KVEG=— cotto L_3VG A VE. co dU VE du dv VG dv ce In fine, costruendo la condizione d’integrabilità delle (II). d>(_m 193/G\ af m 1 dl AA na rca du aa dD + (VE seno) =0; ed osservando le (I) e le (14*), resta semplicemente IR = (15) Li coso =|E seno È A od anche (15*) 5 (VE coso)=0. 6. Sviluppate così le formole che seguono dal supposto verificarsi delle condizioni c) n. 3, passiamo a provare che esiste una deformata S, della S per la quale tutti i raggi di (7°) verranno a confondersi in una sola retta. Per questo, cerchiamo quali valori Do, Dj, Do dovranno assumere i coeffi- cienti della seconda forma fondamentale nella S,. Intanto è chiaro che questi valori dovranno essere tali che risultino soddisfatte le condizioni seguenti : a) è coseni di direzione X,Y,Z dei raggi della congruenza si riducano a costanti; 8) le derivate rapporto ad u, e quelle rapporto a v, di 21,Y1,%, risultino proporzionali a X,Y,2. Viceversa, se i valori Do, Do, Do saranno tali da soddisfare a queste condizioni @), £), e, insieme, alla (G) di Gauss ed alle (C) di Codazzi, i raggi 7 saranno raccolti nella configurazione S, in un'unica retta; poichè, per le @), tutti i raggi avranno la stessa direzione e, per le #), nel pas- saggio da un raggio ad un qualunque successivo il punto F, si sposterà sempre nella direzione del raggio stesso. Ora, derivando le (9) coll’osser- vare le (8), si ottiene | 3X dU = (È + 3) (— sen 0oX, + cos oX3) — sa sen o D' css Ex (ga tva >» (16) dX D' do dv ( sl VE SÌ (- senoX, + cosoX,) — sen o D" DIS a | E 00 ii e le formole analoghe. Nella configurazione Sy, riducendosi X, Y,Z a co- oi stanti, i secondi membri delle (16) dovranno annullarsi, e questo determina già univocamente i valori Do, Do, DI colle formole Do ne d0 Di da: d0 \ VE du Ve Barco (III) D' persi " A | Di __coto 37E | Da VG pie ae va (ITA: sulle quali è da osservarsi che le due espressioni scritte pel coefficiente medio D;, in effetto, coincidono, a causa della (15). Per esaminare le condizioni #8), deriviamo rapporto ad v e v i valori (10) di x,,%1,41, il che dà dei i dl VE dm È Did. | = + - Dia == + -_ == I dU Le du ' JG dw ES ( VE yG (17) o dx) dl m dVG dm ( IVG dv uv pE dU )a+ (1a fer dv Tya dU xt D' D" alt= )x I +e +70 Ma, a causa delle (I), spariscono nei secondi membri i termini in Xs; e ponendovi poi per L so i valori tratti dalle (II). troviamo dU da l 30. meoto VE ; \ du = sen Al DU 59 | G Ju ) oX, + seno X;) 4 AE DEA. ( do mcoto IG Ct) dV sen 0° dv y/ E Du sicchè le derivate di x,,%1, risultano proporzionali a X,Y,Z. Così adunque coi valori (III) di Dj, Do, Dj sono soddisfatte, insieme colle con- dizioni @), anche le £), e resta solo da provare che questi valori (III) sod- disfano anche alle equazioni di Gauss e di Codazzi. Ora, se introduciamo i valori (III) nella (G) di Gauss, questa si cangia nella (14*), ed è quindi verificata. D'altronde, la prima equazione (C) di Sie Codazzi diventa un'identità; e la seconda, che diventa /G VE O. ETA Dadi covo LIE) dU VE d dv VG dv __1 30396 1 3YE do VE dU du VG dd dw° viene nuovamente a coincidere colla (14*). Abbiamo così dimostrato il teorema: Ogni congruenza rettilinea a sviluppabili distinte, che soddisfi alle condizioni c) n. 3, è una congruenza di rotolamento. 7. In riguardo alla determinazione della superficie rotolante Si, i ri- sultati precedenti ne fissano intrinsecamente la forma, assegnando i valori (III) dei coefficienti della sua seconda forma fondamentale. Volendo trovare effettivamente questa configurazione So, rimarrebbe però da integrare una equazione differenziale del tipo di Riccati, complicata inoltre di immagi- narii. Ma è facile vedere che, nel caso nostro, con sole quadrature nel campo reale, sì può trovare in termini finiti la So. E invero ricordiamo che nella configurazione S, i tre coseni X, Y,Z debbono ridursi a tre costanti, che possiamo supporre date da (0,0,1), bastando, per questo, prendere per asse Oz la retta satellite. Allora, da cos oX, + senoX3 = 0 cos oY, + senoY3= 0 cosoZ, + senoZ3= 1, si trae Re VAT Le prime (8) dimostrano che l’ordinata < = s(w, v) nella superficie Sy sarà data, per quadrature, dalle formole de _ VE coso LIA, dU dO la ove è da osservarsi che la condizione d'integrabilità è soddisfatta per (15*). Conosciuta così # con una quadratura, per determinare x,y abbiamo da* + dy° + ds = E du®° + Gdv?, cioè dx* + dy° = Ksen®o du° + Gdo. CRT) (7, NET Ma subito si riscontra che la forma differenziale del secondo membro ha in effetto nulla la curvatura, a causa delle (14*), (15*); sicchè bastano quadrature per trovare 4,7%, i Come ulteriore verifica, si può notare che i valori dei coefficienti della seconda forma fondamentale, calcolati dalle note formole Dane DAD vengono appunto a combinare coi valori (1II). 8. I calcoli eseguiti al n. 6 possono farsi servire a dimostrare inversa - mente che: ogni congruenza di rotolamento (a sviluppabili distinte) s0d- disfa alle condizioni c) n. 3. E invero, se la congruenza (T°) è di rotolamento, dovrà esistere una deformata S, per la quale i raggi 7 si raccolgano in una sola retta, e quindi X,Y,Z diventino tre costanti, e le derivate di x,,%,,4, risultino propor- zionali a X,Y,Z. La prima condizione dà, per Do, Do, DI, i valori (III), e conseguentemente la (15) dovrà essere verificata. E la (14*) ne seguirà ancora nuovamente esprimendo che Do, Do, DI' soddisfano alle equazioni di Gauss e Codazzi. i SA 2 e” )XI d dI rn CM al du’ du du dw dv La seconda condizione, che DI calcolati dalle (17), risultino proporzionali a X,Y,Z, torna a dare in primo luogo le (I), ed in secondo luogo le (II), sicchè le condizioni c) n. 3 vengono ad essere soddisfatte (n. 5). Possiamo intanto concludere che: Le congruenze a sviluppabili distinte per le quali i fuochi ed i piani focali si serbano immobili per ogni raggio, deformandosi la congruenza nel modo del n. 1, sono unicamente le congruenze di rotolamento. Aggiungiamo, però, subito, che, per le congruenze a sviluppabili coinci- denti, l’immobilità del fuoco e del piano focale non è affatto caratteristica per le congruenze di rotolamento. E infatti, una qualunque congruenza a sviluppabili coincidenti è costituita dalle tangenti alle linee asintotiche di un sistema di una superficie XY che rappresenta l’unica superficie focale. Ora se si considera la prima o la seconda falda focale della evoluta di X, ed alle faccette piane di questa superficie S si legano invariabilmente i relativi raggi delle congruenze, subito si vede che il fuoco ed il piano focale serbano posizione invariabile, deformando comunque S. Dunque, qualunque congruenza a sviluppabili coincidenti soddisfa alle dette condizioni d’immo- bilità. Invece la congruenza è di rotolamento soltanto quando, sulla super- ficie focale 2, le linee, lungo le quali è costante la curvatura di Y, sono linee di curvatura (ved. Memoria citata, $ 5). Be Ritornando alle congruenze senerali di rotolamento a sviluppabili di stinte, possiamo riassumere i risultati ottenuti colle seguenti costruzioni per i loro fuochi e piani focali: Supposto che sia 7 la posizione occupata dalla retta satellite, quando la superficie rotolante S, viene a contatto con quella S d’appoggio in un suo punto P, avremo: 1°) Un fuoco F, è il punto ove il piano n tangente in P_inter- seca r, e l’altro fuoco F. è il piede della perpendicolare abbassata da P sopra r. 2°) Il piano focale n, relativo al fuoco F, è il piano condotto per r normalmente a tt, ed il secondo piano focale mr» è il piano con- dotto per r normalmente al piano (P,r). 9. Le costruzioni geometriche così semplici. ora formulate, dei fuochi e dei piani focali nelle congruenze di rotolamento, valgono anche nel caso delle congruenze a sviluppabili coincidenti, e qui da ultimo vogliamo con- fermarle in generale con brevi considerazioni geometriche. Per questo uti- lizzeremo le proposizioni elementari relative al rotolamento (') di superficie applicabili: e particolarmente la nozione di direzioni cinematicamente co- niugate dovuta a Beltrami. Si sa che se la superficie rotolante S, passa dalla posizione attuale ad una successiva Sc, spostandosi il punto P di contatto colla superficie S di appoggio (centro istantaneo di rotazione) dalla posizione P alla infinitamente vicina P', il movimento rigido, intinitesimo, che porta S in Si, è puramente rotatorio, e l'asse istantaneo di rotazione è quella tangente in P che ha la direzione cinematicamente coniugata a quella PP’ dello spostamento del centro di rotazione. Essendo qui inoltre escluso il caso di rigate rotolanti, si sa che le coppie di direzioni cinematicamente coniugate attorno a P formano un’2v0- luzione propria: sicchè l’asse istantaneo di rotazione può scegliersi ad ar- bitrio fra le tangenti in P, purchè lo spostamento del centro di rotazione si assuma nella direzione cinematicamente coniugata. Ciò premesso, è facile di determinare le sviluppabili nella congruenza di rotolamento, ricercando per ogni raggio 7 quali sono le posizioni infinita- mente vicine 7’ che lo incontrano. È evidente che la tangente { in P, che rappresenta l'asse istantaneo di rotazione, dovrà per questo offrire uno dei due casi seguenti: 1°) appoggiarsi in un punto a 7; 2°) essere normale al raggio 7. Ora appunto fra le tangenti in P ve ne è una, ed una sola, di- ciamo #, appoggiata ad 7, e cioè nel punto (7,7) ove il piano tangente in P sega 7; ed una seconda, /’, normale ad r. Quando l’asse istantaneo si fa coincidere con t, il punto F,="(7.7) è altresì il punto ove 7’ inter- (1) Cfr. Darboux, Zegons, Véme partie, chap. VI; e le mie Zezioni, vol. II, $ 237. Ln sd seca 7, e per ciò F, è uno dei fuochi. E se l’asse istantaneo coincide con 7" il punto ove 7 è incontrato dalla sua posizione successiva 7’ è il piede F, della perpendicolare abbassata da P sopra 7, onde F, è il secondo fuoco. È poi manifesto che nel primo caso il piano 77’ (secondo piano focale) è quello condotto per 7 normalmente al piano (P,7); e nel secondo caso, invece, il piano 77 (primo piano focale) è quello condotto per 7 normalmente al piano tangente 77. Così restano dimostrate, per via geometrica, le costru- zioni assegnate al n. 8 pei fuochi e pei piani focali nelle congruenze di rotolamento. Ed ora completiamo queste considerazioni col determinare le sviluppa- bili della congruenza. Per abbreviare, diamo il nome di profilî meridiani della superficie rotolante S, alle sue sezioni piane con piani per la retta satellite, e chia- miamo /inee di livello quelle fatte con piani normali alla retta. stessa. Per quanto precede, possiamo allora dire che gli assi istantanei di rotazione, corrispondenti alle striscie elementari delle sviluppabili di una serie, invi- luppano sulla superficie S d’appoggio le trasformate dei profili meridiani della Sg, mentre quelli corrispondenti alle sviluppabili dell'altra serie invi- luppano invece le trasformate delle linee di livello. E poichè, ogni volta, lo spostamento del centro istantaneo di rotazione avviene nella direzione cinematicamente coniugata, possiamo enunciare il risultato finale: In una congruenza di rotolamento, le sviluppabili di una serte cor- rispondono alle linee della superficie d'appoggio che sono cinematicamente coniugate alle trasformate dei profili meridiani della superficie rotolante; e, similmente, le sviluppabili dell'altra serie corrispondono alle linee cine- maticamente coniugate alle trasformate delle linee di livello. Questo risultato dimostra, in particolare, che la congruenza di rotola- mento avrà sviluppabili coincidenti solo quando per la superficie rotolante So le linee di livello coincidano coi profili meridiani; lo che accade manifesta- mente solo per le superficie conoidali rette, il cui asse sia la retta satellite: Le corgruenze di rotolamento a sviluppabili cormcidenti sono tutte e sole quelle generate dall'asse di una superficie conoidale retta che rotola sopra una qualunque superficie (non rigata) applicabile. E in fine, ritornando al caso generale di sviluppabili distinte, osser- veremo che, se si cangia la retta satellite mantenendole la stessa direzione, le linee di livello nella superficie rotolante Sy restano le stesse; e per ciò, quando la superficie d'appoggio S si mantenga la stessa, le sviluppabili della seconda serie nelle congruenze di rotolamento si corrispondono; onde concludiamo: Se una superficie S, rotola sopra una superficie applicabile S, rette parallele, come satelliti della So, generano congruenze le cui sviluppabili în una serie si corrispondono. SOT, Astronomia. — Zclisse totale di sole, del 2I agosto 1914. Relazione preliminare del Socio A. Riccò, per la missione italiana in Crimea. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Chimica. — Azioni chimiche della luce. Nota XXX del Socio G. CIAMICIAN e di P. SILBER. Recentemente il prof. Paternò ha riunito in un fascicolo le sue pub- blicazioni sopra alcune azioni chimiche della luce, che erano comparse nella Gazzetta ‘chimica nelle annate dal 1909 al 1914, e vi ha aggiunto una IX Nota (') di considerazioni generali, dedicata specialmente a noi. Po- tremmo anche esimerci dal rispondere, perchè i nostri lavori sono abba- stanza noti e non hanno bisogno di commenti; avendo peraltro riguardo ad alcune sue osservazioni, crediamo opportuno di dimostrargli che esse non sono giustificate. Nel 1900, riprendendo vecchie esperienze (*), abbiamo intrapreso una serie di ricerche sistematiche sulle azioni chimiche della luce (ciò che, in questa misura, prima di noi non era stato tentato) per vedere quali erano le reazioni che la luce determina o favorisce nei diversi campi della chi- mica organica. Abbiamo iniziato i nostri studî prendendo naturalmente le mosse dalle nostre prime osservazioni sul chinone e sul nitrobenzolo. Vo- lendo organizzare una simile vasta ricerca, non abbiamo stimato utile o ne- cessario di esaurire in tutti i casi i singoli argomenti, ritenendo sufficiente di prenderne in certo modo possesso per ritornarvi sopra quando ne avremmo avuto l'opportunità. Così è avvenuto che parecchi dei nostri temi sono stati ripresi più volte, o sono anche rimasti apparentemente abbandonati. Nel 1909 il prof. Paternò è entrato in questo campo di studî senza usare verso di noi quelle forme di cortesia che si sogliono seguire in simili circostanze, come hanno fatto tanti altri nostri colleghi quando ebbero occa- sione di occuparsi di argomenti da noi toccati; il prof. Paternò ha creduto che i casi da lui esaminati fossero essenzialmente diversi dai nostri, cer- cando di mettere in rilievo che, mentre noi ci eravamo occupati sopra tutto di fenomeni di ossidazione e riduzione, egli aveva intrapreso ricerche di indole sintetica. Potremmo fargli osservare, a questo proposito, che noi invece (1) Gazzetta chimica, vol. 44, II, pag. 463. (*) Vedi questi Rendiconti, 1886, 3 gennaio e 14 novembre. ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. I — 18 — non abbiamo ritenuto opportuno di fare questa distinzione: in fine la for- mazione di un pinacone è pure un processo di sintesi, e quella del glicole trifeniletilenico dal benzofenone e da alcool benzilico anche un processo di simultanea ossidazione e riduzione, in quanto che, in entrambe le reazioni, la luce determina il passaggio dell'idrogeno del gruppo alcoolico all'ossi- geno del carbonile: il primo si ossida; l’altro si riduce. Il fatto essenziale è che la luce favorisce specialmente simili processi, per cui anche le rea- zioni studiate dal prof. Paternò possono in gran parte ricondursi a fenomeni di tale natura. Con ciò, naturalmente, non crediamo di sollevare questioni di priorità, che sarebbero fuori luogo. Noi siamo ben lieti che altri cooperino con noi in un campo di studî nel quale c'è posto per tutti: saremo paghi se si vorrà riconoscere che la modesta opera nostra ebbe il merito di attirare la attenzione dei chimici sopra un argomento che era stato alquanto trascu- rato. E però speriamo che il prof. Paternò vorrà riconoscere che non pote- vamo avere l'intenzione di presentare sotto falsa luce il suo lavoro e, se egli ce lo permette, glielo dimostreremo ora, con maggiori particolari, nei singoli casi da lui riportati. Già nella nostra prima Nota (’) avevamo accennato che « il benzofenone «è un composto che sì riduce per azione della luce con la massima facilità; « e non è soltanto l’alcool, ma molte altre sostanze organiche che lo tras- « formano in benzopinacone », per cui il prof. Paternò ha fatto benissimo a servirsi di questo composto per i suoi studî, che vennero così a comple- tare i nostri. Egli peraltro ritiene a torto, rispetto alla reazione fra il cimolo ed il benzofenone, che ad essa si riferisca la nostra osservazione: che « non "ci sembra giustificato il concetto che più o meno chiaramente « traspare dalle recenti pubblicazioni del prof. Paternò, che cioè le reazioni « da lui descritte sieno essenzialmente diverse dalle nostre ». No: in questo caso non si trattava di una esperienza essenzialmente diversa dalle nostre, ma della stessa esperienza che il prof. Paternò ha ripetuto senza ottenere nulla di più di quanto avevamo osservato noi. Difatti, nella nostra V Nota dicevamo che « per scoprire l'alterazione patita dal cimolo, bisognava ripe- « tere l'esperienza su assai più vasta scala » : il prof. Paternò l’ha ripetuta, ma, come noi, con 3 gr. di benzofenone e 10 di cimolo, e non ha potuto riconoscere il secondo prodotto che si forma accanto al benzopinacone. Riprendendo lo studio, con 50 gr. di ciascuno dei due composti, abbiamo trovato (Nota XVII) (2) che quel prodotto è un diciminile. Che noi abbiamo pubblicato questi risultati quindici mesi e mezzo dopo che era comparso il lavoro del prof. Paternò, è verissimo: egli, coì suoi studî, aveva richiamato (') Questi Rendiconti, vol. X, T, pag. 98 (1901). (3) Ibid., vol. XIX, I. r PERTOR la nostra attenzione sulle nostre vecchie esperienze, e noì abbiamo cercato di completarle in quella parte in cui egli non l'aveva fatto. Così abbiamo pure ottenuto dal benzofenone e toluolo il dibenzile, che a lui era sfuggito. Rispetto alla formazione del dichetone Cs. H,10, dal metiletilchetone, abbiamo detto che « essa è un resultato inaspettato e veramente notevole » perchè il metiletilehetone, a differenza dell'acetone, reagisce su se stesso secondo lo schema: 3 CH, . CO . (C.ES . We == Ca His (07 + CH, . CHOH. OH UH: ) metiletilchetone dichetone alcool butilico secondario riducendosi ad alcool butilico secondario ed ossidandosi a dichetone ed anche perchè quest'ultimo è un composto interessante per le sue relazioni col tetrametilpirrolo. Di questo parere è stato pure il Willstàtter (!). Assai strana deve apparire l'osservazione del prof. Paternò relativa alla fondamentale reazione che ha luogo fra il benzofenone e l'alcool benzilico nella formazione del glicole trifenil-etilenico. Egli dice: « a prova che non «avevano (noi) chiaro il concetto della reazione, soggiungono, che la stessa « formola del trifenilglicol aveva bisogno di ulteriori prove sperimentali per « essere accettata ». Ora, questo nostro riserbo è stato determinato da una svista bibliografica, perchè ci era sfuggito che il trifenilglicole era già noto; difatti nelle estesa Memoria pubblicata poi nella Gazzetta chimica (?), dicevamo in proposito: « Questa sostanza è assai probabilmente identica a « quella ottenuta e descritta da A. Gardeur, a la quale questo autore attribuisce « il punto di fusione 164° (noi avevamo trovato 168°). Tanto dalle sue, « quanto dalle nostre esperienze, risulta evidente che ad essa spetta la co- « stituzione del trifenilglicol, la di cui formazione alla luce per condensa- « zione del benzofenone coll’alcool benzilico è un fatto interessante, sebbene « prevedibile in seguito ai nostri studî ». Si sarebbe quasi tentati di appli- care al prof. Paternò le parole a noi rivolte, « di cercare, con artifizî, di pre- « sentare sotto falsa luce il nostro lavoro ». Il prof. Paternò non deve però meravigliarsi se, dopo la pubblicazione di molti altri casi dello stesso tipo da parte sua, noi abbiamo ripreso i nostri studî sulle condensazioni aldoliche o enoliche, come egli le chiama: eravamo nel nostro pieno diritto, ed è a questo proposito che noi scrivevamo (ciò che è riportato più sopra) che le reazioni fotochimiche da lui descritte non erano essenzialmente diverse dalle nostre; siamo stati, ci pare, assai modesti. Rispetto alla reazione fra benzofenone ed etere, noi ci siamo astenuti dal ricordare le relative esperienze del prof. Paternò, per diverse ragioni. (') Berichte, vol. 47, pag. 293 (1914). (*) Gazzetta chimica, vol. 34, II, pag. 183 (10% LS Anzitutto perchè egli non ha menzionato le nostre, fatte nel 1901 ('); in queste avevamo dimostrato che il benzofenone si trasforma in pinacone ed in una sostanza resinosa, della quale dicevamo di non averla potuta otte- nere allo stato di sufficiente purezza, ma che peraltro l'etere entrava a far parte della medesima. Il prof. Paternò, ripetendo alla distanza di 9 anni la stessa esperienza, non ottenne essenzialmente nulla di più, perchè la sua resina, a cui egli attribuisce con riserva la costituzione ZA DN C-——_—_—CH,—CH. 0C0.H; | CH; dà 12,8 per cento di ossietile, mentre quella formola ne richiede 17,7. Il suo peso molecolare sarebbe 254, mentre egli trova 310. Egli stesso però dice che questi risultati « provano che la sostanza non era del tutto pura «e che conteneva ancora del benzopinacone ». Noi (?), riprendendo la nostra vecchia esperienza, abbiamo trovato, oltre al benzopinacone e alla resina, un prodotto cristallino, che fonde a 51°, che al prof. Paternò è sfuggito: ed è a questo che noi attribuiamo la formola C,1H200:, cioè quella di un prodotto di addizione. Rispetto alla resina ci siamo limitati a dire che la sua formazione deve essere collegata a quella del benzopinacone, senza proporne una formola, sebbene avessimo determinato il peso molecolare (363-372) ed il per cento in ossietile (14,80). A noi, che abbiamo meno confidenza con le resine, ci sembra almeno prematura la formola proposta dal prof. Paternò: e fu anche per non fare tutte queste osservazioni, che noi ci siamo astenuti dall’accennare a quel suo lavoro. Le resine — come appunto lo dimostrano le nostre ripetute ricerche sulla polimerizzazione dell’aldeide benzoica, che il prof. Paternò cita con evidente compiacenza — presentano ben note difficoltà; ma noi vogliamo ricordargli che, nella nostra prima pubblicazione (*) su tale argomento, dicevamo: « si do- « vrebbe attribuirle la formola 4(C,4H40,). Noi però non osiamo fare ciò; «e non escludiamo che la coincidenza dei numeri possa essere fortuita ». Le ulteriori ricerche (‘) costituiscono una regolare ripresa di uno studio, di cui nessuno può farci rimprovero. Creda pure il prof. Paternò che la ragione, (*) Vedi Ja nostra I Memoria negli Atti della R. Accademia delle scienze di Bo- logna, 1901; e nella Gazzetta chimica, vol. 32, I, pp. 241-242. (2) Questi Rendiconti, vol. XX, I, pag. 723; e Berichte vol. 44, pag. 1557. (8) Questi Rendiconti, 1901, I, pag. 99. (4) Ibid., 1908, I, pag. 286; e 1909, I, pag. 216. BERO JE per cui ci trovammo in collisione, non è causata « dall'argomento tanto « fecondo di risultati » (l'ironia è qui fuori di luogo) ma bensì dal fatto che le sue ricerche si muovono in un campo di studî che è talvolta troppo vicino al nostro. Infine vogliamo completare una osservazione che gli abbiamo rivolto nella nostra ultima Nota ('). Si tratta dell’azione della luce sul miscuglio di alcool etilico ed aldeide acetica dai quali, secondo quanto avevamo pre- veduto in un precedente lavoro (*), doveva formarsi il glicole dimetiletilenico. Il prof. Paternò, insieme con G. Peret (*), ha eseguito questa espe- rienza, senza arrivare ad una definitiva conclusione. Abbiamo esposto in tubi il miscuglio delle due sostanze, composto di 345 ce. d'alcool e 55 ce. d'aldeide acetica, dal marzo al settembre 1914. Il prodotto venne da prima distillato a b. m. e poi col vapore acqueo. Dal residuo della distillazione (24 gr.), colorato in giallo, si separa, per salatura con carbonato potassico, un liquido oleoso (13 gr.) dello stesso colore, che a 26 mm. passa fra 100 e 110°. Le prime porzioni contengono piccole quan- tità di dzacetile, che venne riconosciuto alla sua diossima. dal punto di fusione 240°. La porzione principale che, a pressione ordinaria, venne raccolta fra 178 e 185°, hollente in massima parte a 182°, è costituita dal ylzcole dimetil- etilenico, di cui è dato il punto di ebollizione a 183-184° (4). Analisi: Trovato Calcolato per C,H00% C 58,67 59,93 H 10,81 Tai Per accertarne l'identità, l'abbiamo ossidato con acqua di bromo alla luce; ed abbiamo ottenuto il diacetile, che fu riconosciuto per mezzo della sua diossima, dal punto di fusione 240°, che dà il caratteristico sale di nickel (5). La reazione avviene dunque realmente — come noi avevamo preveduto, e come, dopo, il prof. Paternò aveva reso probabile, secondo lo schema e così è completato il quadro delle reazioni che alla luce si compiono fra l'alcool etilico e l’acetone (°). (*) Ibid., 1914, I, pp. 864-865. (?) Ibid., 1911, I, pag. 715. (*) Gazzetta chimica, vol. 44, I, pag. 152 (1914). (*) Beilstein, III ediz., vol. 1°, pag. 262. (5) Vedi Tshugaeff, Berichte, vol. 38, pag. 2520. (5) Questi Rendiconti, vol. XX, I, pag. 720 (1911). Fisica. — Emissione ed assorbimento del gas residuo nei tubi del Rontgen, ed emissione dei raggi X. Nota del Corrispondente P. CARDANI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Petrografia. — Su alcune rocce della Terra del Fuoco. I. Rocce eruttive (*). Nota del Corrispondente FEDERICO MILLOSEVICH. Le rocce che sono oggetto del presente studio furono raccolte dal dottor G. B. De Gasperi durante il viaggio di esplorazione dei ghiacciai della Terra del Fuoco, compiuto dalla spedizione De Agostini nel 1913 (?), e furono da lui donate al Museo geologico di Firenze. L'illustre collega C. De Stefani volle gentilmente affidarmene lo studio, e di ciò vivamente lo ringrazio. La descrizione delle rocce è condotta in modo succinto e piuttosto som- mario, come si conviene ad una collezione raccolta da un naturalista viag- giatore in lontane contrade e quindi costituita da un solo o da pochissimi campioni per ogni tipo e località. Tuttavia non credo che debba riuscire del tutto priva di interesse scientifico, poichè si tratta di materiale assoluta- mente vergine e di regione pochissimo conosciuta sotto l'aspetto geologico generale, e quasi punto sotto l'aspetto particolare litologico. Granitite anfibolica. Loc. Seno tranquillo, fiord Negri. — Loc. Morena frontale del ghiac- cialo Negri. Roccia granitoide a grossi elementi feldspatici e quarzosi e con mate- riale laminare verde e nero relativamente scarso, sebbene in quantità varia- bile da campione a campione. Al microscopio si osservano i seguenti minerali: Ortoclasio: in individui lamellari con i caratteri normali, spesso gemi- nati con la legge di Baveno. Per alterazione si sono prodotti, in seno ad essi, aggregati epidotici-muscovitici con prevalenza di quest'ultimo minerale. Feldspato calcico-sodico abbastanza frequente e in grossi individui lamellari. È riferibile, per i suoi caratteri ottici, ad un oligoclasio basico (1) Lavoro eseguito nel Gabinetto di mineralogia del R. Istituto di studî superiori di Firenze. (?) Per l’itinerario, e per i nomi delle località qui citate vedasi resoconto sommario di tale spedizione nella Rivista geografica italiana, XX, 1918, pag. 423. SS DAMA con 30 °/, circa di An. Si trova in istato di freschezza maggiore che il feldspato alcalino. Quarzo, in masse più o meno estese, allotriomorfe, con estinzione ondulosa. Anfibolo, che è il più abbondante fra gli elementi colorati e che si pre- senta in cristalli nettamente idiomorfi con i caratteri ottici della comune orneblenda; pleocroismo a verde gialliccio, 0 verde bruno, c verde oliva cupo; angolo cc 15° in media. Meno abbondante la mica (biotite) con i normali caratteri e sempre con un processo di cloritizzazione più o meno avanzato. Abbastanza comune è l’epidoto derivante dalla trasformazione del feldspato in granuli incolori o giallognoli e, in tal caso, con lieve pleocroismo. Apatite, zircone e magnetite puramente accessorîì. La struttura è la granitica tipica, cioè ipidiomorfa granosa. Aplite. Loc. Morena frontale del ghiacciaio Negri. — Roccia uniformemente granulare, giallo-rossiccia in causa di pigmento limonitico. A ricroscopio mostra la struttura aplitica tipica, cioè panidiomorfa gra- nosa con prevalenti feldspato alcalino e quarzo in granuli di dimensioni uguali. Il quarzo è in granuli, con tendenza talora a contorno cristallino ben definito; tra i feldspati prevale l’ortoclasio tipico; più raro è un oligoclasio acido. Il materiale micaceo è in gran parte muscovite in lamine e anche in aggregati a rosetta. Non manca peraltro la biotite e spesso le due miche formano aggregati in comune. In complesso, però, la quantità del materiale micaceo è scarsa. Pochissima magnetite e rari granuli di zircone sono assolutamente accessorii. Pegmatite granitica. Loc. Morena frontale del ghiacciaio Negri. — Roccia di aspetto gros- solanamente granitico, bianca, con pochissimo elemento colorato. Al microscopio rivela un aggregato di grossi individui feldspatici con quarzo in quantità un po minore, non concresciuto col feldspato come nello Schriftgranit tipico. Il feldspato alcalino è predominante, ed è in gran parte ortoclasio tipico; in parte minore, microclino. Non manca, per altro, anche un feldspato calcico- sodico rappresentato da individui che per i caratteri ottici corrispondono ad un oligoclasio normale con 20 °/, circa di An. Oda Il materiale lamellare è rappresentato da poca hiotite e da pochissima muscovite; in alcune piccole cavità miarolitiche della massa sporgono minuti aghetti di apatite, che si trova anche racchiusa nel materiale feldspatico. Pegmatite sienitico-dioritica. Loc. Morena frontale del ghiacciaio Negri. — Roccia, per l'aspetto esterno, simile alla precedente, e corrispondente ad essa anche nella struttura. Al microscopio invece si nota che il feldspato, assai prevalente, è calcico- sodico, appartenente ad una miscela oligoclasico-andesinica. In minor quan- tità sono l'ortoclasio e il microclino. L'elemento colorato, assai scarso, è la comune orneblenda e, in minor quantità, anche biotite. Il quarzo, in queste pegmatiti, è elemento accessorio. La struttura pegmatitica, la scarsità del quarzo, la prevalenza del mate- riale feldspatico e in ispecial modo di quello calcico-sodico, la natura del- l'elemento colorato predominante fanno ritenere la roccia come una facies pegmatitica di un tipo intermedio fra le sieniti e le dioriti. Diorite anfibolica. Loc. Morena frontale del ghiacciaio Negri. — Roccia grigio-verde, com- patta, finamente granulare. L'esame microscopico mostra che gli elementi essenziali sono: feldispato calcico-sodico e anfibolo. Il feldspato forma individui tabulari di non grandi dimensioni, tutti con geminazione albitica distinta: i caratteri della rifrazione e quelli dell'estin- zione simmetrica anche nei varî geminati doppî albite-Carlsbad lo rivelano appartenente ad una miscela andesinica basica con 45 °/, circa di An. Spesso è alterato in un aggregato di caolino e calcite con poca mica muscovite. Anche dei granuli di epidoto, che si trovano sparsi nella roccia, sembrano provenire da un processo di alterazione del feldspato. L'anfibolo orneblenda è abbondante e costituisce, insieme con poca clorite, l'elemento colorato della roccia; forma cristalli prismatici con spiccato grado di idiomorfismo, per la maggior parte geminati secondo (100). I suoi carat- teri ottici sono i normali: cc = 15° in media; pleocroismo a verde giallo- gnolo, b verde, c verde oliva. Elementi accessorii sono: titanite, apatite e magnetite. La struttura è quasi panidiomorfa, perchè il grado di idiomorfismo è presso a poco uguale nel feldspato e nell'anfibolo, come accade di frequente nelle dioriti meno acide, in cui l'elemento feldspatico non è sovrabbon- dante. SER gene Porfirite. Loc. Seno tranquillo, fiord Negri. — Roccia porfirica con massa fon- damentale grigio-verde uniforme, con scarsì cristalli porfirici di feldspato. Al microscopio tutti gli interclusi porfirici si rivelano costituiti, almeno originariamente, da feldspato calcico-sodico, in istato però di tale alterazione da esserne impossibile una esatta determinazione. Sono, per lo più, prisma- tici allungati e mostrano in seno alla loro massa numerosi prodotti secon- darî, fra i quali prevalgono l’epidoto, la clorite e la calcite. Altri minerali, come interclusi porfirici propriamente detti, non si riscontrano. La massa fondamentale è costituita da un aggregato di microliti feldspa- tiche e di lamine cloritiche, molto probabilmente di derivazione augitica con una piccola quantità di base vetrosa o microfelsitica. Porfiritica augitica. Loc. Morena frontale del ghiacciaio Negri. — Roccia grigio-verde scura, compatta, con interclusi porfirici di feldspato vitreo e di augite nera. Gli interclusi feldspatici, che variano di dimensioni e per abbondanza nei diversi campioni, all'esame microscopico si rivelano di natura differente. Alcuni freschissimi, nettamente microtinici e ben sviluppati, si prestano bene ad esatte determinazioni ottiche, anche perchè quasi tutti presentano ben chiare e distinte le due geminazioni di Carlsbad e dell’albite I valori massimi delle estinzioni simmetriche che raggiungono i 18°, e quelli delle differenze 4 di 10°, portano ad una miscela andesinica con circa 35 °/, di An. Altri, più opachi, ricchi di inclusioni e meno freschi, appartengono ad una labradorite con poco più di 50 °/, di An. Gli interclusi pirossenici appartengono in parte alla comune augite basal- tica verdina; sono dei netti prismi ben cristallizzati e geminati secondo (100). Altri, che hanno birifrazione meno forte e color roseo chiaro, sembrano da riferirsi a quella varietà che dicesi enstatite-augite. La massa fondamentale è olocristallina e ne fa parte un feldspato cal- cico-sodico di seconda generazione in individui piccoli laminari e raramente in microliti: ad esso si uniscono poche lamine augitiche, pure di seconda generazione, e squame di clorite. Non abbondanti, e non in tutti i campioni, trovansi granuli di olivina. Nella massa si trovano immersi numerosi cristalli di orneblenda basal- tica con pleocroismo dal giallo chiaro al verde bruniccio e con angolo e e di circa 10°, i quali, sebbene abbiano dimensioni assai più piccole di quelle degli interclusi pirossenici, pure, per il loro perfetto idiomorfismo, sono da considerarsi anch'essi come di prima segregazione. RenpicontTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 4 Di conseguenza, la roccia presenta dei caratteri intermedî fra le vere por- firiti augitiche e quelle orneblendiche. Diabase uralitico. Loc. Monte Garibaldi, fiord Negri. — Roccia grigio verde scuro, fina- mente granulare. IÌ componenti essenziali della roccia sono il pirosseno o, meglio, il suo derivato uralitico e il feldspato calcico-sodico. Il processo di metamorfismo che si rivela nella trasformazione uralitica del pirosseno è stato subìto anche dal feldspato iì quale non si presenta col solito aspetto di individui tabu- lari o listiformi, più o meno idiomorfi e nettamente geminati. A ciascuno di questi individui si è sostituito un aggregato granofirico di cristalletti tondeg- gianti e senza contorno definito e che spesso non presentano traccie di gemi- nazioni. In tal caso, solo il valore dei loro indici di rifrazione, nettamente superiori a quello della collolite (1.535), li fa attribuire ad una miscela calcico-sodica di media o bassa acidità. Tale processo di metamorfismo e di ricristallizzazione è presentato in talune sezioni nei suoi stadii intermedî, quando cioè le nuove parti formatesi per frantumazione del cristallo primi- tivo sono ancora tutte isorientate. In altri campioni è dato ancora di osser- vare gli individui feldspatici non trasformati con i loro caratteri tipici: e in tal caso si possono determinare come appartenenti ad una miscela labrado- ritica. Il pirosseno abbondante è quasi tutto uralite: solo in minima parte le pseudomorfosi uralitiche presentano tracce della originaria augite. Si tratta di individui laminari, di dimensioni non grandi e con i caratteri ottici della uralite tipica. A differenza di ciò che accade nei pirosseni diabasici, essi hanno uno spiccato grado di idiomorfismo, cosicchè, per il fatto anche che contemporaneamente la maggior parte del feldspato ha perduto la sua indi- vidualità distinta, la struttura non è la normale diabasica ma quella olocristal- lina porfirica propria delle porfiriti diabasiche. La cloritizzazione rappresenta un ulteriore stadio di trasformazione del pirosseno primitivo, e infatti taluni campioni di questo giacimento presen- tano la clorite di gran lunga più abbondante che non l’uralite. Epidoto, olivina, magnetite, ecc., sono elementi accessorii. Peridotlite diallagica con quarzo (Webhrlite quarzosa). Loc. Monte Garibaldi, fiord Negri. — Roccia di color verde scuro a grana piuttosto grossa, che anche all'esame superficiale esterno si dimostra costituita da olivina, da diallagio e da quarzo. Sono infatti questi i tre elementi principali. O L’olivina si presenta sotto forma di aggregati granulari incolori o appena verdini. Il diallagio è in lamine estese, con i normali caratteri, ed è sostituito soltanto in parte da augite e da pirosseno trimetrico (bronzite). Abbastanza comune è una varietà di orneblenda bruno-rossiccia. Un elemento che ben di raro si rinviene in rocce di tale famiglia è il quarzo che si presenta in quantità notevole e sotto forma di aggregati di granuli tondeggianti di dimensioni variabili, ma in generale non molto grandi, che si insinuano irregolarmente fra gli altri minerali della roccia. Come elemento accessorio è da notarsi clorite derivata evidentemente dai pirosseni o dagli anfiboli o anche dal granato che si riscontra pure in distinti e abbastanza frequenti cristalli rombododecaedrici. Masserelle di magnetite e cristallini di uno spinello nero (picotite) non sono molto abbon- danti. La roccia, per l'associazione di olivina e diallagio con orneblenda acces- soria, appartiene a quel gruppo di peridotiti che prendono il nome di webhrliti : ma la presenza di quarzo ne costituisce una varietà speciale e, finora, nuova. Mi riservo di approfondire anche col sussidio dell'analisi chimica lo studio di tale roccia interessantissima, che, purtroppo, nella collezione del De Gasperi è rappresentata da un solo campione. Sarà difficile quindi aecertare se, come sembra probabile, la presenza del quarzo rappresenti un fenomeno secondario e posteriore all'emissione della roccia e sopratutto stabilire in quali propor- zioni tale fenomeno si è esercitato sopra la roccia, cioè se in tutta la sua massa o in parte soltanto di essa. Fisiologia. — Nuove ricerche sui muscoli striati e lisci di animali omeoterni. Nota INI (part. 2°): La fatica studiata nel pre- parato frenico-diaframmatico, del Corrisp. Filippo BotTAZZI ('). Avendo studiato la fatica delle giunzioni neuro-muscolari. vediamo come si comporta il preparato diaframmatico quando è stimolato direttamente. 3. Curve di fatica muscolare. — Nelle figg. 4 e 5 sono riprodotte alcune porzioni di due lunghe curve di fatica muscolare: nella fig. 4, la sola parte iniziale (4, 4, c); nella fig. 5, le parti iniziale e terminale Il tratto 4,2, c, di tutte e due le curve differisce notevolmente da quello delle curve riprodotte nelle figg. 1 e 2 della Nota precedente (*). Il fenomeno della scala è più accentuato nella tig. 4, dove corrisponde al tratto d2'; (') Lavoro eseguito nell'Istituto di fisiologia di Napoli. (*) La presente Nota è continuazione di quella precedentemente pubblicata in questi Rendiconti, vol. XXIII, 2° sem. 1914. TERRORE l’« uncino », più nella fig. 5. La porzione terminale (B) della curva della fig. 5 rappresenta uua cospicua « contrattura terminale », la cui comparsa è stata accelerata dall’asfissia; essa si continua indistintamente con l’accor- ciamento da rigidità del muscolo. Queste curve di fatica muscolare somigliano moltissimo, nei tratti fon- damentali, a quelle ottenute dagli autori che hanno sperimentato su muscoli isolati dal corpo di animali pecilotermi, e per ciò credo superfluo di indugiarmi a parlarne particolarmente. Fic. 4. — 29 aprile 1914. Prepar. fren.-diafr. di canino giovanissimo. Stimol. ritmica del muscolo: 2 accum., DR=150 mm.; frequenza degli stimoli: 34 per minuto. — ) Temper.: 32° C. Tempo: 1°. Peso: er. 3 (Riduz. fotografica). 4. Azione dell’acido lattico e di altri acidi organici sulla fatica del preparato frenico-diaframmatico. — Date le odierne conoscenze sulla forma- zione dell’acido lattico nei muscoli e sulla sua importanza per quanto riguarda l'attività normale di essi e lo stato di fatica, si può agevolmente prevedere l'effetto dell'aggiunta di acidi al liquido di Ringer in cuì si trova immerso il preparato neuro-muscolare. Dobbiamo ammettere che questo, specialmente se appartiene ad animali omeotermi, si trova fin dal principio del periodo di sopravvivenza in condi- zioni tali, che ogni eccitamento vi deve provocare la formazione di una certa quantità di acido lattico, la quale non può scomparire interamente negl’ inter - valli di riposo tra le successive contrazioni, e deve necessariamente in parte accumularvisi. È chiaro, quindi, che ogni minima aggiunta di acido lattico o di altri acidi (per es., degli acidi formico, propionico, butirrico, valeria- nico, caproico e tricloracetico, che io ho sperimentati), non può se non acce- lerare l'avvento della fatica, e lo stabilirsi del blocco in corrispondenza delle giunzioni neuro-muscolari ; abbreviare le curve di fatica, sia di queste sia ERRO dello stesso muscolo; provocare la contrattura di esso e la rigidità musco- lare etc. Ciò dimostrano evidentemente le seguenti figure 6 e 7, che riproducono alcuni dei molti tracciati da me ottennti. Come si vede, l'acido caproico (fig. 7) è altrettanto potente che l’acido lattico (fig. 6); e gli altri acidi grassi sperimentati si comportano approssi- mativameute nello stesso modo. Fia. 5. — 80 aprile 1914. Prepar. fren.--diafr. destro di cane. Stimol. ritmica del muscolo: 2 accum., DR =150 mm.; frequenza degli stimoli : 44 per minuto. — Temper. : 31° C. Tempo: 1’. Peso: gr. 8. — Da 1 a 2 l’ossigeno gorgoglia per il liquido di Ringer; da 2 in poi, non più. — La curva 8, è il tratto terminale della curva A,: non è riprodotto un lungo tratto intermedio (Riduz. fotografica). 5. Considerazioni generali sulle curve di fatica delle giunzioni neuro- muscolari e dei muscoli. — Ho detto quali sono le differenze principali fra le porzioni iniziali delle curve di fatica neuro-muscolare e quelle delle curve di fatica mnscolare propriamente detta. Ma le differenze non si limitano alle dette porzioni. La durata dell'intera curva di fatica delle giunzioni neuro-muscolari è variabilissima; ma in generale, almeno per quanto riguarda i preparati sepa- rati dal corpo degli animali omeotermi, è minore di quella della curva di fatica del muscolo, contrariamente a ciò che, secondo Boehm ('), sì osserve- rebbe nei preparati neuro-muscolari di rana. Secondo questo autore, infatti, (*) R. Boehm, Finige Beobachtungen ber die Nervenendwirkung des Curarin. Arch. f. exper. Path. und Pharmak. 35, pag. 16 (1895). Deo ie «am unvergifteten Thieve (rana) ist der Muskel leichter ermiidbar, als der Nervenapparat. Die Nervenermidung kann also nicht beobachtet werden. Bei der Curarinvergiftung dreht sich das Verhdltniss um,...». La durata delle curve di fatica, tanto delle giunzioni neuro-muscolari quanto del muscolo stimolato direttamente, è tanto maggiore quanto minori sono la frequenza degli stimoli e la temperatura alla quale si fa l'esperimento, Fra. 6. — 16 febbraio 1914. Prepar. fren.-diafr. di cane. — La conduttività neuro-musco- lare è abolita. — Stimolazioni dirette del muscolo immerso in 50 cm. di liq. di Ringer: 2 accum., DR = 100mm.; frequenza: 46 stimoli al minuto. — Temper: 85° C. Tempo: 1' (Riduz. fotografica). In 1. si aggiungono 0,1 cm. solnz. 0,1 n acido lattico » 2. » O » » DI) » 8 ” 1 goccia di acido lattico puro » 4 » 1 ” D) ) » ta) n Il ) ) » ” » 6. ” 2 gocce ) ” ) 3a ; 3 ; ; ” ) » 8. ” 3 ” ” ” ” (In a, breve riposo del muscolo). — La prima goccia di acido lattico puro provoca una cospicua contrattura, che non è poi molto intensificata dalle successive aggiunte. Il tratto terminale, non riprodotto, della curva, presenta l’accorciamento da rigidità. — La prima aggiunta (in 1) della soluzione diluita di acido determina un piccolo au- mento della altezza delle contrazioni muscolari. purchè questa non sia abnormemente bassa (per es., inferiore a 29°-30° C). Anche l'eccessiva intensità degli stimoli elettrici ha per effetto un più rapido affaticamento dal preparato. I periodi di riposo, intercalati nel corso di una lunga serie di stimo- lazioni ritmiche, hanno per effetto una restaurazione della capacità funzio- SLA E nale del preparato, sia che si stimoli il nervo o il muscolo: di guisa che, dopo il riposo, le contrazioni ritmiche sono più alte delle ultime del periodo precedente di attività, e spesso si presentano disposte come nella parte iniziale di una nuova curva di fatica (« scala » etec.). Le periodiche diminuzioni di frequenza degli stimoli, nel corso di una curva di fatica, equivalgono, negli effetti, a un relativo riposo: infatti, ad esse corrispondono contrazioni più alte; ripristinata poi la frequenza mag- giore, le contrazioni tornano gradatamente a diminuire di altezza. Se gli stimoli non sono massimali, un aumento della loro intensità ha sempre per effetto un aumento dell'altezza delle contrazioni, la frequenza rimanendo la stessa. Se l'intensità degli stimoli è molto inferiore alla mas- simale, raggiunto con essa il termine della curva di fatica, si può ottenere una nuova curva di fatica, con tutti i periodi che in essa sogliono essere distinti, aumentando l'intensità degli stimoli. L'aspetto di una curva di fatica, dunque, specialmente per quanto riguarda la sua durata totale, l’altezza delle singole contrazioni nei varî periodi di essa, il decorso e la durata dei varî tratti della curva, non è qualche cosa di assoluto e di immutabile, ma anzi è sempre relativo principalmente alla frequenza e alla intensità degli stimoli, ammettendo come press'a poco eguale la capacità funzionale dei preparati neuro-muscolari o muscolari. Solo la forma della curva di fatica, specialmente se la si considera nei suoi tratti fondamentali (ad, de, c...), apparisce come una costante, trattisi di fatica delle giunzioni neuro-muscolari o del muscolo, e per quanto varii la durata dei detti tratti di curva e l’altezza delle contrazioni componenti ciascuno di essi. Ciò si spiega, del resto, facilmente, se si pensa che la forma della curva è determinata da proprietà generali delle strutture eccitabili, che io non ho bisogno di richiamare alla memoria del lettore. È noto, e resulta anche evidentemente dalle curve sopra riprodotte, che a partire dal punto c la curva di fatica, così delle giunzioni neuro-muscolari come del muscolo, non solo può avere una grandissima durata, ma presenta di solito anche un decorso molto regolare e uniforme, tanto piccola è, da c in poi, quella che Kronecker chiamò (loc. cit.) « differenza di fatica ». Nel tratto precedente il punto c, invece, le contrazioni prima aumentano (« feno- meno della scala ») e poi diminuiscono più o meno rapidamente di altezza, fino a raggiungere quell’altezza che, da ec in poi, rimane per molto tempo apparentemente costante. Il fenomeno della scala ricorda, secondo Brailsford Robertson (*), il decorso dell'aumento iniziale di velocità delle reazioni autocatalitiche ; mentre la diminuzione progressiva dell'altezza delle contrazioni, seguenti alla cima (1) F. Brailsford Robertson, On the biochemical relationship between the « starrcase » phenomenon and fatigue. Bioch. Zeit. 2, pag. 287 (1908). ION della scala, somiglierebbe alla diminuzione di velocità che in un secondo tempo subiscono quelle medesime reazioni, come effetto dell’'accumularsi, entro la sfera della reazione, del catalizzatore in quantità eccessiva. Nel caso nostro, il catalizzatore sarebbe l'acido lattico, che è un prodotto normale dell'attività muscolare. Il suo accumularsi in piccola quantità nel muscolo, porta, secondo Mines (*), la concentrazione degli idrogenioni gradatamente Fic. 7. — 5 marzo 1914. Prepar. fren.-diafr. di cane. — La conduttività neuro-muscolare è abolita. — Stimolaz. diretta del muscolo: 1 accum., DR=100 mm.; frequenza: 46 al minuto. — Temper.: 85° C. Tempo: 1’ (Riduz. fotografica). In 1. si aggiungono, a 60 cm.? di liq. di Ringer, 5 cm.? sol. 0,0694 n ac. caproico. » 2. ”» altri 5 cm. della stessa soluzione. » 3. ” 2 gocce di acido caproico puro. n 4. ” »” ” È) ”» a quel valore opttmum, cui corrispondono le più alte contrazioni. « Conse- quently we have the condition familiar in the 7reppe, the condition of increased excitability and contractility which is the first result of activity of the muscle..... If the excitations are continued so that the optimal Ca. is exceeded, the effect is of course depression. It is to be noted that these ideas are most strongly borne out by observations on the effects of a rest during a prolonged series of excitations of muscle ». (') G. R. Mines, On the summation of contractions. Journ. of Physiol. 46, pag. 1 (1913). ng Con ciò non mi sembra che sì possa spiegare, però, come mai le con- trazioni, rimanendo invariata l'intensità degli stimoli, diminuiscono di altezza rapidamente solo fino a un certo punto, per poi continuare a diminuire per molto tempo, cioè per tutto il periodo più lungo della curva di fatica, tanto lentamente da sembrare di altezza eguale in brevi tratti della curva, tanto piccola è la « differenza di fatica » fra le successive contrazioni. Ora, se si considera che una differenza fra il tratto iniziale «, d, e, è tutto il resto della curva di fatica esiste profonda solo nelle curve di fatica delle « giunzioni neuro-muscolari », mentre è, generalmente, poco rilevabile in quelle di fatica muscolare propriamente detta (e meno rilevabile ancòra sarebbe se il preparato muscolare fosse curarizzato), non sarà difficile persua- dersi che la peculiare forma del tratto a, b, c, nelle curve di fatica neuro- muscolare è l’espressione caratteristica della fatica delle giunzioni neuro- muscolari. Queste non sono colpite da fatica a gruppi, perchè, se così fosse, otterremmo delle curve a gradini, simili a quelle pubblicate dal Mines (loc. cit.: per es., fig. 2). Esse sono colpite tutte insieme, ma gradatamente, dalla fatica, come dall'azione della curarina (ved. Boehm, loc. cit.) o del- l'acido lattico. Ma mentre sotto l’ influenza della curarina o degli acidi, entro un tempo relativamente breve, si stabilisce il blocco assoluto nelle giunzioni neuro- muscolari; nel preparato frenico-diaframmatico, come ho detto, la pervietà delle giunzioni agli eccitamenti nervei diminuisce, più o meno rapidamente, durante il tratto d, c, ma un blocco assoluto non si stabilisce se non dopo molto tempo. L'acido lattico che si forma nel preparato, si accumula in quan- tità tale da esercitare un'azione curarica relativa, ma non assoluta. Solo quando se ne aggiunge dell'altro dall'esterno, sì ottiene l'assoluta impervietà delle giunzioni. Bisogna quindi ammettere, in queste giunzioni, almeno due meccanismi d’eccitamento locale e di conduzione: uno A, più eccitabile ma più labile, e che per ciò più presto anche si affatica e diviene inattivo; l’altro 5. meno eccitabile, più resistente, che è quello che rimane attivo dopo il punto € della curva di fatica, cioè mentre il muscolo eseguisce le numerose contra- zioni del tratto più lungo di questa curva. La pluralità delle sostanze ecci- tabili o ricettrici (e quindi, implicitamente, dei mezzi di conduzione), nelle giunzioni neuro-muscolari, già ammessa da Langley (') e da Lucas (?), in base a ricerche di genere del tutto diverso, troverebbe dunque nuova con- ferma in questi miei esperimenti sulla fatica. (3) J. N. Langley, Journ. of Physiol. 33, pag. 874 (1905-06); Proced. Roy. Soc. London (B) 78, pag. 170 (1996); Arch. intern. de physiol., 5 (Compt. Rend. du VIIm® Congr. intern. de physiol.), pag. 115 (1907). (*) K. Lucas, Journ. of. Physiol. 34, pag. 372 (1906); ibid. 25, pag. 103 e 310 (1906-7); ibid. 26, pag. 113 (1907). ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 1) 21 DI Meccanica. — Sistemi astatici equivalenti a due forze asta- ticamente irriducibili. Nota I di MATTEO BoTTASSO, presentata dal Corrispondente R. MarcoLONGO. Nei numerosi studî sulla astatica, iniziati colle belle ricerche di Minding (') e Mébius (*), pur comprendendo non solamente le Memorie fondamentali [fra le quali è particolarmente importante quella del Darboux (*)] ma anche gli altri svariati e noti lavori recenti sull'argomento, non si trova mai studiato con qualche larghezza il caso notevole in cui il dato sistema è astaticamente equivalente a due sole forze, astaticamente irriducibili. Tale è, per esempio, un sistema astatico di forze tutte parallele ad un piano, quale s'incontra in un corpo magnetico e pesante, che è pure il primo esempio fisico importante in cui si sono riconosciute soddisfatte le condizioni che detiniscono i sistemi astatici. Nondimeno, per questo caso non sì trovano se non cenni limitati, o al più è trattata completamente per esso qualche ricerca particolare di astatica (‘), ovvero si ha l'affermazione che tutti i casi particolari possono dedursi facilmente dal caso generale, in cui il sistema non può ridursi astaticamente a meno di tre forze. Ciò è detto in un cenno finale dal Darboux (loc. cit., $ XIV, pag. 65), ed altrettanto è accennato dal Da Silva (*), che pure diede per primo varie importanti proprietà, ritrovate poi dal Darboux, trattando specialmente dei diversi casi di riduzione, e relative condizioni, in una poderosa Memoria rimasta lun- gamente ignorata ai più, e sulla quale è stata richiamata l'attenzione da F. G. Teixeira e da F. de Vasconcellos (°). (1) E. F. Minding, Untersuchung betreffend die Frage nach einem Mittelpuncte nicht paralleler Krifte, Journal f. d. r. u. angew. Math., 14 (1835), pp. 239-815; Veber den Ort sùmmtlichen Resultanten u. s. w., ibidem, 15 (1836), pp. 27-38. (*) A. F. Mobius, Veber den Mittelpunete nicht paralleler Krifte, Journal f. d. r. u. angew. Math., 16 (1837), pp. 1-10; ZLehrduch der Statik, 1, Leipzig 1897. (5) G. Darboux, Mémoire sur l'équilibre astatique et sur l’effet que peuvent pro- duire des forces de grandeurs el de directions constantes, ete., Mém. de la Soc. des sciences de Bordeaux (22), tom. II (1878), pp. 1-65. Vedi pure la mia Nota Sull'equilibrio asta- tico ecc. in questi Rendiconti (serie 52) XXXIII (2° sem. 1914). (*) Così, ad es., nel Zehrduch der Statik, $$ 140 e:seg., il M6bius fa la ricerca degli assi principali di rotazione, introduce la retta centrale, ecc. Il Michin (On astatic equi- librium, Proceedings uf the London Math. Soc., tom. 9, an. 1878) trova l'involuzione della retta centrale. (") D. A. Da Silva, Memoria sobre a rotagào das forgas em torno dos pontos d’applicacào, Mem. da Ac. Real das science. de Lisboa (28), tom. 111, parte I (1851), pp. 61-233. (9) F. de Vasconcellos, Sur la rotation des forces autour de leurs points d’appli- cation et l’équilibre astatique, Annaes da Ac. Polytechnica do Porto, tom. VII (1912), pp. 5-45, 65-83, 129-159. RO DE Ora, ove si volesse ammettere senz'altro, in generale, tale asserita faci- lità di deduzione, non si comprenderebbe come per certe questiori fonda- mentali, ad es. per il teorema di Minding, non sia mai stata indicata la forma assunta, nel caso in esame, dalle proprietà dimostrate nel caso gene- rale. D'altra parte, è ben noto che nei casi particolari è quasi sempre pos- sibile di ampliare e completare le proprietà che valgono anche per il caso generale, e di stabilirne delle nuove. È ciò che accade qui, per es., per il complesso degli assi centrali di Poinsot, che può essere molto meglio studiato e precisato che non nel caso generale, ove nondimeno ci si riferisce all'ampio studio del Painvin, sullo speciale complesso quadratico da questi investigato. Credo perciò interessante di esporre qui rapidamente le principali pro- prietà da me ricavate e svolte, per questo caso particolare, in un volume sulla astatica in corso di stampa ('), e che, nel complesso, non sono affatto conseguenze ovvie del caso generale. Fra queste ritengo siano specialmente notevoli l'espressione (10) dell’asse centrale, in una configurazione arbitraria, e la costruzione del complesso di questi assi nei nn. 7. 8 e 9; la proposi- zione che sostituisce il teorema di Minding del caso generale (n. 11); l’iden- tificazione del complesso suddetto a quello delle rette d'intersezione delle coppie di piani ortogonali, tangenti ad un dato iperboloide ad una falda, o a due iperboloidi associati d'un sistema di quadriche omofocali (n. 13). Mi sembra pure degno di nota l'aver dimostrato (n. 14) che le coppie di piani ortogonali, uscenti dalle rette del complesso e tangenti all’iperboloide indi- cato, sono sempre reali, avendosi così un'altra costruzione reale di tutte le rette del complesso. Infine, ho mostrato come si ottengano le direzioni prin- cipali di ogni punto (n. 16), le quali permettono di ottenere tutti gli ele- menti astaticì invariabilmente legati al corpo. SULLE VARIE FORME DI RIDUZIONE DEL SISTEMA DATO E PROPRIETÀ RELATIVE. 1. Ricorderemo che un sistema astatico è formato da un corpo rigido €, di cui ogni punto P;, in ogni posizione del corpo, è sollecitato da una forza di vettore f; (che per alcuni dei punti ?; può esser nullo), tale che, comunque si sposti il corpo, ogni vettore f; rimane invariabile. Invece di muovere il corpo C, si può supporre che questo rimanga fisso, e assoggettare invece tutti i vettori delle forze ad una medesima rotazione arbitraria. (') M. Bottasso, Analyse vectorielle générale, tom. IV : Astatique, Pavia, Mattei & C., 1915. Nel seguito s'indicherà, per brevità, questo volume con « Astat.», richiamando del pari i volumi precedenti della stessa Collezione con « A. V.» seguìto dal numero del volume stesso. Un tale sistema va quindi riguardato come insieme delle coppie (P; , f;); e sì ha una sua configurazione quando si considera una data posizione del corpo e dei vettori delle forze. Nello studio del sistema astatico (/;, f;) sì riconosce utilissima la con- siderazione dell’omografia vettoriale (1) o,=X;H(P;— A,f;). funzione tanto della configurazione considerata quanto del punto A (0r2- gine dell’omografia). Così essa permette di dimostrare che (Astat., cap. I, $ 5): Affinchè il dato sistema (Pi; ,f;) sia astaticamente equivalente a due sole forze, astaticamente irriducibili, occorre e basta che l’omografia 04, relativa ad un punto generico A del corpo, sia semplicemente singolare, cioè (A. V., I, pag. 12; ed Append., pp. 164 e seg.) Ilo,=0,Ro,#+0, ed il vettore del sistema, espresso da £=Z;f;, non sia nullo e soddisfi alla condizione KRo,f=0. Se queste condizioni sono soddisfatte, il sistema può ridursi astatica- mente in 00° modi a due forze, i cui vettori non paralleli h, ed h, devono esclusivamente verificare le relazioni: (2) KRo,h,=0 ) KRo,h.=0 , h+h=f. e son quindi perpendicolari al vettore di direzione costante Ro,x, per x vettore arbitrario. I punti d'applicazione di tali forze, al variare dei vettori h, ed h;, variano sopra una retta, che è la RETTA CENTRALE del sistema. In partico- lare, se i due vettori h, ed hy sono perpendicolari (cioè h, X hs = 0), detti punti d'applicazione sono: 1 Il (3) P=AtfKuh, Ci o. A tale retta appartiene il PuNTO cENTRALE di Minding, il quale è espresso da (Astat., nn. 30 e 35) (4) G=A+ 3 of, ove si è posto /= mod f. L'omografia con origine in G s'indicherà sem- plicemente con 0; essa, come quella relativa ad ogni altro punto della retta centrale, è doppiamente singolare. Inoltre (Astaf., nn. 22 e 30), la retta centrale, del nostro sistema (Pi, f;), ed il punto centrale di Minding sono invariabilmente legati al corpo ©, e quindi non variano quando — restando fisso il corpo — tutti i vettori f; o delle forze subiscono una rotazione arbitraria: cioè sono delle figure geome- triche astatiche rispetto al corpo. 2. Si ha, pure, che /a retta centrale d’un sistema (P; ,f;) astaticamente riducibile a due sole forze, è il sostegno d'yna involuzione ellittica (di Michin) formata da tutte le coppie di punti d'applicazione delle coppie di forze perpendicolari fra loro, e formanti un sistema astaticamente equivalente al sistema dato. Questa involuzione della retta centrale ha come centro il punto cen- trale G del sistema; come potenza, (5) — p° = 7 kr.) =— a ho + 4(Vo)?], ed è essa pure un elemento, del sistema dato, astatico rispetto al corpo. Indicando con j, ,J:.js una terna unitario-ortogonale-destrogira di vet- tori, dei quali i due ultimi siano rispettivamente paralleli ad Ro,x ed f (perpendicolari fra loro), tutte le coppie di vettori ortogonali h, ed h;, sod- disfacenti alle (2), si ottengono facendo variare comunque @ nelle espressioni (6) h=fcos@(cosìj;+sen@j,) , h:=/sen0(sendj: — cos@ji); peri da cui segue facilmente, per le (3) e (4), (Pt G)X(Q— G)= pa(Kojo, che dimostra la prima parte della proposizione enunciata. 3. Fra tutte le possibili coppie di vettori (6) possiamo considerare, in particolare, quella formata da vettori equiinclinati sopra f = /]J3, corrispon- denti a 0=7 nelle (6): e così si ha che 2/ sistema dato (Pi. f;) è asta- ticamente equivalente a due forze d’uguale intensità f/V2, i cui vettori f(J° +3)/2,/(J —Ji)/2 sono ortogonali ed i cui punti di applicazione 1 A 1 3 i l PETTICONE Po=G+ aKodi a do = 0357. Ko), sono è due punti coniugati dell’ in- voluzione della retta centrale, simmetrici rispetto al centro (i. Se p= mod Ko), è la distanza di P, (0 @) da G (cioè — p° è la potenza dell’involuzione della retta centrale), e con i, s indica il vettore unitario parallelo a questa retta e dello stesso senso di Koj,, dalla (1) sì ha: (7) o = P/TA(i ji +j) — Hi. ji —j)]=p/H i), da cui (A. V., I, pag. 28 [3], pag. 48[2])): (8) Ko=p/H(j., i), Ko.o=p°f*H(i,,i)) , I(Ko.0)=p?f®. ERAGES e ne segue così (A. V., I, pag. 167, pag. 28 [3]) la (5). Questa poi mostra che tale involuzione è un elemento astatico rispetto al corpo, perchè si può facilmente riconoscere (Astat., n. 12) che /@ dilatazione Ko,.0,, relativa ad un punto arbitrario A del corpo, è un operatore 0 funzione astatica rispetto al corpo, mentre la dilatazione 0,.Ko, è astatica rispetto alle forze del sistema dato (!). COMPLESSO DEGLI ASSI CENTRALI. 4. In una configurazione arbitraria del sistema (?;.f;) possiamo consi- derare la forza motrice del sistema statico di forze, cioè la formazione di 22 specie di Grassmann-Peano (Astat., pag. 2) s= X; P;f;, la quale rappresenta completamente il wrench di R. S. Ball. Per f+ 0, l'usse centrale (*) di questa formazione s è il bipunto 3.55 Ii statico di forze. Perchè questo sistema (nella configurazione considerata per il sistema astatico) possa esser sostituito da una forza unica, occorre e basta che l invariante (od automomento) di s, cioè ss, sia nullo; ed allora s è un bipunto coincidente con 7. Se consideriamo la speciale riduzione astatica del nostro sistema (Pesfi) indicata nel n. 3, si ha: r=8— f, che rappresenta l’asse centrale (di Poinsot) del sistema = s>L Uri +i)+ olj— i] =/(0+ri). ed il suo invariante è (*) ss=2/?p GjshJi = dfpi Xi. Perciò il si- stema statico di forze, formato dal sistema ( ?;, f;) nella configurazione conside- rata, ha come asse centrale la retta (bipunto) 7=/(Gj:+ piji + pi XJ 133); e siccome, per l'identità fondamentale [ £/6ments, pag. 38 (12)] e le proprietà del prodotto alternato, è ij, + i Xje. [js ==(i i Xje-Jo)hi =i Xda JJ; si ha pure: (10) r=f(G— pi Xja.j)}a- (*) Gli AA. ricordati chiamano, in generale, astatico ogni elemento del sistema invariabilmente legato al corpo; e, volendo pure considerare le figure (od elementi) va- riabili solamente col variare la direzione delle forze del sistema, è necessario il distinguere le due diverse forme di astaticità (Astat., pag. 4) rispetto al corpo, od ai vettori delle forze, cosa che non ho trovato fatta da altri. (3) C. Burali-Forti, Lezioni di geometria metrico-proiettiva, Torino, Bocca (1904), pag. 91. (3) C. Burali-Forti et R. Marcolongo, Zléments de calcul vectoriel ete., Paris, Hermann, 1910, pag. 36 (6). Nel seguito, quest'opera si indicherà brevemente con « Eléments ». oi oe 5. Il complesso degli assi centrali è formato dagli assi centrali cor- rispondenti a tutte le 00? configurazioni del sistema (P;,f;), che si hanno mantenendo fisso il corpo in nna posizione determinata, facendo rotare 1 vettori f; e, con essi, i vettori j, ,j:,J:. invariabilmente legati alle forze. Quindi, una qualsiasi di tali configurazioni si potrà ottenere con una rota- zione (corrispondente) dei vettori delle forze, a partire da una configurazione fissata (ad arbitrio) come 7rzziale. Noi riguarderemo come tale una fra quelle in cui il bivettore j. j: è normale alla retta centrale del sistema, Gi,. Precisamente, se i, ,ix,i3 è una terna unitaria-ortogonale-destrogira invariabilmente legata al corpo C, la configurazione iniziale sarà comple- tamente determinata supponendo che, in essa, i tre vettori Ji -Je;Js (inva- riabilmente legati alle forze) coincidano rispettivamente con i vettori i, i. .iz- In tal modo le due forze applicate nei punti Pr= GH+ pi), W@= Gt pi, ed equivalenti astaticamente al nostro sistema, agiscono secondo due rette che nella configurazione iniziale sono (G+pi)(is+i)=(6G— pi)(is+i), (G— pi,) (i —i)= (G — pi3) (i: n i) > ed hanno quindi in comune il punto G — pix. Così le forze del sistema sono allora staticamente equivalenti ad una forza unica di vettore f= fjz, perpendicolare alla retta centrale e passante per il punto centrale. La stessa forza è ancora ovviamente la risultante unica del sistema, nella con- figurazione cttenuta con una rotazione di mezzo giro intorno ad iz (il che corrisponde a far coincidere la terna j1,J:.J: con la terna — i, .— is. iz). Ed è chiaro che in ognuna delle co’ configurazioni ottenute, dalle due ora indicate, mediante una rotazione arbitraria (dei vettori delle forze) intorno alla retta centrale, le forze del sistema potranno sempre sostituirsi con una forza unica, agente secondo una retta del fascio di centro & e giacente nel piano normale alla retta centrale. 6. La (10) ci rappresenta tutte le rette del complesso degli assi centrali che si ottengono facendo variare i due vettori, unitarî ed ortogonali, j. e js (invariabilmente legati ai vettori delle forze. con j»), in tutti i modi possibili. Un tale complesso contiene la congruenza delle rette, ciascuna delle quali è il sostegno d'una risultante unica del sistema di forze, in una conveniente configurazione. E questa congruenza è determinata da tutte le forme s, che sì riducono ad un bipunto, cioè (essendo f+ 0) soddisfano alla condizione ss= 0; ossia è l'insieme dei bipunti 7, o delle s, che soddisfano alla (11) Mea 00 Teorema. /l complesso degli assi centrali (10) è quadratico. Le rette di questo complesso, passanti per un punto (proprio) arbitrario A, sono le generatrici del cono asintoto delle quadriche indicatrici, con centro SIE în A, della dilatazione Ko,.0, — f*(G — A)?; cioè son le rette AP, luogo dei punti P che soddisfano all’equazione : (12) PEXkolo ee) Infatti, perchè il bipunto 7 passi per A, occorre e basta che la forma- zione di 3* specie (di Grassmann-Peano) 47 sia identicamente nulla, cioè sia GAj: + pi Xj:-Ajij:= 0; ossia, dev'essere (Z/éments, pag. 181 [4]) (G— )XA4= )VAjs pi Xii da) XE =D qualunque sia il punto O. Ponendo, per es., successivamente, A+-j,, 4+js, al posto di O, si ottiene subito: da cui, per l'identità fondamentale che lega G — A alle sue componenti secondo j,,.j:,J:, si ha: (G— A)° =p° (i Xja) + [(G — 4) Xija]?. D'altra parte, se P è un punto qualsiasi d’un asse centrale 7, essendo questo parallelo al corrispondente vettore j;, è P— A= © mod (P— A).jz, e quindi l’ultima relazione può scriversi: (G—4).(P_47=pE XE KECDSETOO la quale equivale alla (12) perchè, com'è facile riconoscere, si ha (cfr. Astat., pag. 55): (14) o,=0+/H(GT—A,j3), Ko,.0,= K0.04f°H(G—-A,G— A). In particolare, siccome Ko .o trasforma ogni vettore in un vettore paral- lelo alla retta centrale [vedi le (8)], gli assi centrali uscenti dal punto cen- trale G formano il fascio delle rette per &, normale alla retta centrale. 7. Io ho chiamato PraNo MEDIANO (milieu), del sistema considerato, il piano normale alla retta centrale condotto per il punto centrale; e, per ana- logia con le focali di Minding, ho chiamato circoLo FocaLE il circolo di tale piano con centro in & e raggio p (essendo — p° la potenza dell’invo- luzione della retta centrale). Ne risulta che i/ piano mediano ed il circolo focale sono figure astatiche rispetto al corpo; inoltre: il circolo focale è il luogo dei punti, da cui, protettando l’involuzione della retta centrale, si ottiene un’involuzione circolare. Si ha pure il Teorema. Za sezione col piano mediano dei cono formato dagli assi centrali passanti per un punto A, fuori di tale piano e della retta centrale, è un’ellisse bitangente internamente al circolo focale, nei punti (opposti) d'incontro di questo circolo col piano del punto A e delle retta centrale. L'asse minore dell’ellisse (normale al diametro di contatto col 2AS0/ E a, circolo) è il prodotto del diametro (2p) del circolo focale per il coseno dell’angolo che la retta centrale forma con la retta (AG) congiungente il vertice del cono con il punto centrale. — Gli assi centrali uscenti da un punto arbitrario della retta centrale, formano il cono rotondo che ha per direttrice il circolo focale. Infatti, per le note formole (') del prodotto regressivo fra due forme di 2* e 32 specie (di Grassmann-Peano), l'intersezione del bipunto 7 (10) col piano mediano Gi. iz è [ #/6ments, pag. 182, n. 3; pag. 34 (2); cfr. Astat., f Gixi3.r=6Gisi3j3. G+ 6pi Xj3(Gisizji-J° — Gioiz}3.)))= = i, Xj:[G+p(i Xi Ji i XJ] =i Xja(G+pi Aia) - Quindi, se i, Xj3= 0, la retta A4j; appartiene al piano mediano; ed inoltre, per le (18), il vettore GA risulta parallelo a ;j:; perciò, finchè A è fuori del piano mediano Gisiz, si hai, Xj3 +0. Allora la (15) mostra che una retta 7, per A, è tagliata dal piano Gis i; nel punto @= G+- pi /\j». ove il vettore unitario j, può variare comunque, conservandosi però, per la 1° delle (13), normale alla retta GA. Perciò G è il centro della conica descritta da Q (potendosi cambiare ja in — j»). Inoltre mod (Q — G) è costante ed uguale a p quando, e solo quando, il punto A sta sulla retta centrale, chè solo allora js è sempre normale ad i. Per A fuori della retta centrale Gi, , il vettore j, è normale ad i, solo quando i, /\ j; è parallelo all'intersezione dei due piani Gisi; ed AGi,; ed allora detto mod (Q —G) assume il suo valore massimo p. Il minimo valore della stessa distanza di Q da & si ha quando |», normale a GA, è parallelo al piano GAi,, cioè quando Q— G è normale a questo piano ed il suo modulo è quindi —psen(i,,j.) = #pcos(i,, G— A). CRULed. Corollario. Gli assi centrali che incontrano una retta arbitraria uscente dal punto centraie, e che non giace nel piano centrale, sono tutte (e sole) le rette che si appoggiano alla retta data e ad un’ellisse del piano mediano, bitangente, negli estremi del suo asse focale, al circolo focale. (') Ved., per es, C. Burali-Forti, Corso di geometria analitico-proiettiva, 'orino, G. B. Petrini, 1912, pag. 165 [1]. ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 6 AS 0a Meccanica. — Nuov: tipi di onde periodiche permanenti e rotazionali. Nota II di U. Cisorti, presentata dal Socio T. LEvI- CIVITA. Matematica. — Sulla definizione di arco di una curva e dell’integrale di Weterstrass, che si presenta nel calcolo delle variazioni. Nota di Guino FuBINI, presentata dal Corrispondente O. TEDONE. Le Note precedenti saranno pubblicate nei prossimi fascicoli. Fisica. — Nuove ricerche sulla dirigibilità delle onde elet- triche ('). Nota del prof. ALESSANDRO ARTOM, presentata dal Socio P. BLASERNA. Fin dall'inizio della radiotelegrafia, mì sono proposto di risolvere al- cune questioni le cui soluzioni potevano meglio assicurare la continuità e l'indipendenza di funzionamento delle stazioni radiotelegrafiche. Mi occupai principalmente del modo di dirigere le onde elettriche, essendo questa, a parer mio, una delle proprietà più importanti per ottenere che le comuni- cazioni radiotelegrafiche fra varie stazioni possano compiersi senza reciproco disturbo. Proposi diversi metodi per ottenere la dirigibilità delle onde elettriche, metodi che sperimentai, con risultati perfettamente corrispondenti alle pre- visioni teoriche, col concorso della marina italiana, come ho esposto nelle mie precedenti Note (?). Nella Nota del 17 giugno 1906 mettevo in rilievo la capitale impor- tanza, per la dirigibilità delle onde elettriche, della forma degli aerei, della posizione relativa e della situazione di essi, rispetto alla terra. Scopo della presente Nota si è di descrivere alcune semplici ma assai notevoli forme di aerei radiotelegrafici dirigibili, da me ideati e sperimen- tati fra stazioni poste anche a qualche centinaio di chilometri fra loro. (*) Lavoro eseguito nel R. Politecnico di Torino. (2) Rendiconti della IR. Accademia dei Lincei, A. Artom: 15 marzo 1903, 5 feb- braio 1905, 17 giugno 1906. eo Le forme di aerei radiotelegrafici da me ideati, sono in generale com- poste da due o più conduttori inclinati, simmetricamente disposti rispetto ad un piano verticale; oppure da circuiti oscillanti di forme opportune. 1. Una forma semplice di aereo radiotelegrafico è quella della fig. 1. costituita da un triangolo isoscele aperto in alto e da me ideata fin dal 1902. O_——a Fia. 1. Quando i due rami dell'aereo sono alimentati da correnti di fasi op- poste, il diagramma di dirigibilità delle onde elettriche irradiate, è quello rappresentato nella fig. 2. È questo un caso particolare del metodo ge- nerale da me indicato nelle precedenti Note e fondato sull'impiego di due oscillazioni elettriche spostate di fase. La teoria nel metodo è stata con- fermata più tardi dall’Eccles, dal Garbasso (*) e da altri. Le curve di dirigibilità furono più tardi anche determinate misurando le intensità di radiazione, nelle diverse direzioni, col termogalvanometro Dud- dell. Queste curve, come mostra la figura 2, hanno forma di due ellissi tangenti il cui asse maggiore giace nel piano dell'aereo triangolare e di cui la base del triangolo è coincidente con l’asse comune dei due ellissi. Fis. 2. In altri termini, la radiazione si estende tutta nella direzione del piano dell'aereo radiotelegrafico, tanto dalla parte destra quanto dalla parte sinistra. Nella direzione perpendicolare al piano dell'aereo la radiazione è praticamente nulla. Così, per ricordare un esempio pratico: nella direzione del piano del- l’aereo ed in quelle prossime ad essa, si possono inviare radiotelegrammi a distanza di quattrocento e più chilometri, colla spesa di energia inferiore a quella impiegata nelle ordinarie stazioni radiotelegrafiche, mentre nella di- (!) Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, A. Garbasso, 5 giugno 1910. rezione perpendicolare al piano dell'aereo ed in quelle comprese in un assai ampio settore, già ad un chilometro di distanza la radiazione è pratica- mente nulla. Lo stesso aereo triangolare adoperato come aereo ricevente, fig. 3, gode di proprietà identiche rispetto al ricevimento dei radiotelegrammi. Tale aereo riceve benissimo i radiotelegrammi dalle stazioni radiotele- grafiche che sono situate nella direzione del piano dell'aereo ed in quelle prossime ad esso. Ciò perchè le onde elettriche, che provengono da quelle direzioni, colpiscono gli aerei in istanti di tempo successivi e generano cor- renti differenti di fasi, le quali direttamente o per induzione sono trasmesse all'apparato rivelatore di onde elettriche, che potrà essere del tipo a cri- stalli, o di qualunque altro. Le oscillazioni elettriche provenienti dalle stazioni radiotelegrafiche si- tuate prossimamente nel piano di simmetria perpendicolare al piano del. l’aereo, colpiscono i due rami dell'aereo sensibilmente negli stessi istanti, e provocano nell’apparato ricevitore effetti differenziali, cioè correnti contrarie, ed in questo caso sensibilmente uguali, e colla stessa fase: il che è quanto dire che le stazioni radiotelegrafiche, situate nelle posizioni sopra accennate, non influenzano l'apparato ricevitore. Ciò è praticamente assai importante, perchè in grazia di questa pro- prietà, il servizio radiotelegrafico si può rendere indipendente dai disturbi delle stazioni colle quali non sì desidera comunicare. 2. Una assai notevole proprietà di questa forma di aereo radiotelegra- fico dirigibile è quella da me descritta nel gennaio 1907, ed attuata con pieno successo, poco dopo, nelle stazioni della Regia Marina sulle coste del mare Adriatico. ISO | I Immaginiamo di far ruotare attorno all'asse verticale di simmetria uno dei due triangoli rettangoli in cui il triangolo isoscele si può scom- porre tracciando l'altezza del triangolo. Ne risulta un aereo (fig. 4) costituito dalla ipotenusa e da un cateto di due triangoli rettangoli i cui piani formano fra loro un angolo diedro. Fis. 5. Variando il valore dell'angolo diedro, si possono creare diagrammi (fig. 5) della distribuzione dell'energia irradiata, tali da soddisfare alle più difficili esigenze della pratica. SCR) | Così, ad esempio, diminuendo il valore dell’angolo diedro compreso fra i due rami dell'aereo, la curva di dirigibilità viesce assai più ristretta ed allungata. Si può, in altri termini, fare in modo, come l'esperimento ha provato, che i radiotelegrammi giungano esclusivamente in determinate regioni, evi- tando completamente che essi possano essere intercettati dagli apparati si- tuati fuori da quei prestabiliti territori. È importante di ricordare, a questo punto, quanto ho indicato già fin dal 1904, cioè che le proprietà direttive di questi aerei possono essere rese anche più perfette, facendo agire insieme, tenendo conto delle fasi delle cor- renti oscillatorie, parecchie coppie di tali aerei. Essi possono allora disporsi o nello stesso piano od in piani paralleli, cosicchè le loro azioni vengano a sommarsi nelle direzioni desiderate. Fia. 6. 3. Un altro aereo radiotelegrafico dirigibile ho pure sperimentato con buoni risultati, allo scopo di assicurare la continuità e la indipendenza di funzionamento degli apparati radiotelegrafici dai nocivi effetti della elettri- cità atmosferica e di quelli dovuti alle oscillazioni elettriche irradiate dalle stazioni con le quali non si desidera di comunicare. Tale aereo radiotelegrafico è rappresentato nella fig. 6. In questo aereo le estremità superiori del triangolo della fig. 1 sono ripiegate e messe a terra per mezzo di due conduttori. L'apparato ricevente è riunito, coll'intermediario di un circuito indotto, colla parte centrale del conduttore orizz.ntale. Come l'aereo della fig. 3, esso reude l’apparato ricevitore sensibile alle trasmissioni che arrivano dalle stazioni situate prossimamente nel piano del- l'aereo, ed esclude le ricezioni provenienti dalle stazioni situate fuori del piano dell'aereo. Sti In questo caso l'antenna, invece di essere parzialmente chiusa, costituisce un circuito interamente metallico, interrotto solo da condensatori. La sua azione come aereo ricevente è dovuta alle forze elettromotrici generate dalla variazione del flusso magnetico che attraversa la superficie racchiusa dal- l’aereo. i L'aereo di questa forma si presta bene, come l'esperimento di parecchi anni ha dimostrato, per diminuire notevolmente gli effetti nocivi della elet- tricità atmosferica sul ricevitore. È pure singolarmente adatto per poter ottenere effetti sintonici con onde elettriche di grande lunghezza, senza dover troppo aumentare la superficie dell’uereo. % x x Nelle stazioni radiotelegrafiche dirigibili, volendo trasmettere e ricevere radiotelegrammi secondo diverse direzioni dell’azimut, sono disposti parecchi aerei dirigibili attorno ad un unico palo o supporto, dal quale sono so- stenuti. Nel loro complesso, le stazioni radiotelegrafiche dirigibili, del tipo da me ideato, vengono ad assumere l'aspetto esterno di un grande cono col vertice in alto, e di cui le generatrici sono costituite dai fili inclinati dei diversi aerei che servono ad operare nelle varie direzioni. Le proprietà direttive e selettive degli aerei dirigibili così disposti, pos- sono essere utilizzate adoperando detti aerei indipendentemente l'uno dal- l’altro: ed allora gli estremi di ciascun aereo fanno capo ad opportuni com- mutatori che li mettono in comunicazione rispettivamente coi circuiti ge- neratori ovvero coi circuiti dei rivelatori di onde elettriche. Nelle stazioni dirigibili sopradescritte, i diversi aerei possono essere collegati invece tra loro in modo da utilizzare gli effetti di composizione oppure di interferenza delle onde irradiate o ricevute. In entrambi i modi di utilizzare le proprietà direttive e selettive di questi aerei, si può determinare con esattezza la posizione in cui sì trova la stazione radiotelegrafica che trasmette i radiotelegrammi. Geografia fisica. — Quarta relazione della spedizione scien- tifica nel Karakoram orientale, trasmessa al PRESIDENTE dal capo della spedizione dott. FiLippo DE FILIPPI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. TA: Fisica terrestre. — Za distribuzione della forza magnetica terrestre nella media Eritrea. Nota di L. PALAZZO, presentata dal Socio E. MILLOSEVICH. 1. — Prima del 1913 non erano state fatte, nella nostra colonia Eritrea, misure assolute e complete dei tre elementi che definiscono il campo magne- tico terrestre, se non a Massaua ed in pochi altri punti della costa e delle isole del mar Rosso. Per Massaua si possedevano i valori magnetici deter- minati dagli ufficiali della R. Nave idrografica « Staffetta » nel marzo 1911, quelli trovati dall'americano W. H. Sligh della Carnegie Institution nel- l'aprile dello stesso 1911, e quelli ottenuti dall'austriaco alfiere di vascello C. Roòssler assai tempo prima, cioè sul finire del 1897; è pure a quest'ultimo che si dovevano i valori per l’isola Nocra del gruppo delle Dàhalak, per l'isolotto Harmil e pei punti costieri Daramsas, Abàyil, Assab, nei quali aveva fatto scalo la i. e r. nave-trasporto « Pola » durante la campagna oceanografica intrapresa nel summentovato anno 1897. Nessuna stazione magnetica era mai stata fatta nell'interno dell'Eritrea; conoscevasi bensì un valore della declinazione osservato a Chèren nel 1861, mediante bussola, dai viaggiatori Kinzelbach e von Heuglin; ma un dato così isolato, e relativo ad un solo elemento, nulla diceva per la conoscenza del regime magnetico della regione. Pertanto un rilevamento magnetico, che si fosse sistematica- mente eseguito per l’Eritrea, avrebbe presentato non piccolo interesse. 2. — Tale lavoro di rilievo magnetico ebbi appunto occasione di com- piere nell'estate 1913, allorchè mi recai nell’Eritrea, chiamatovi dal Governo coloniale per l'impianto di un'osservatorio sismico in Asmara e per lo studio dei terremoti che, cominciati nel gennaio di quell'anno e continuando con straordinaria frequenza, tenevano in viva apprensione gli abitatori della co- lonia. Dovendo andare in giro per visitare i luoghi più battuti dai terremoti e per raccogliere informazioni suì fatti geodinamici, mi parve opportuno di asso- ciare alle indagini sismologiche anche l'esplorazione magnetica della regione percorsa. Grazie alle molte facilitazioni concessemi, nei mezzi di trasporto, dal Governo, ed alla cortesia degli ottimi funzionarii, qua e là residenti, che andarono a gara nel favorire la mia intrapresa, potei in brevissimo tempo, cioè dal 7 giugno al 7 agosto, fare una magnifica serie, compatta ed omo- genea, di misure dei tre elementi geomagnetici 1 punti di osservazione sono 16 in tutto, di cui 11 sull’altipiano, ad un livello medio di circa 2000 m. (Asmara, Debàroa, Adi Ugri, Chenafenà, Coatìt, Adi Caièh, Addi Adid, Saga- neiti, Uochertì, Az Teclesàn, Chèren), 1 a mezza costa (Ghinda, 910 m.), 4 a livello del mare (Massaua, Zula, Aràfali lungo il litorale, e poi l'isola di Nocra). Il poligono avente al contorno questi punti è ben lontano dal raggiungere in estensione tutta quanta l' Eritrea; esso non ne copre che SEA) una modesta parte, che è la regione media per latitudine e più orientale, comprendente i centri abitati più importanti; per definire meglio, diremo che i punti, distribuiti in verità non molto uniformemente, sono contenuti entro un trapezio limitato dai meridiani 38° 25' e 40° 0’ (est da Greenwich) e dai paralleli 14° 45' e 15° 50' (nord). Un trapezio siffatto ha l’area di 20200 kmg., e quindi la nostra rete magnetica viene ad avere una densità media di 1 stazione per ogni 1260 kmq ('). 3. — I risultati delle misure da me eseguite in Eritrea nel 1913 si troveranno esposti, per estenso e con molti particolari, in una Memoria che vedrà presto la luce nel volume XXXV, parte 12, degli Annali del R. Ufficio centrale di meteorologia e geodinamica; frattanto mi pregio di far qui cono- scere, all'Accademia, in breve riassunto, i risultati stessi. Riporto in una tabella i valori dei tre elementi magnetici direttamente osservati: declina- zione d, inclinazione 2 ed intensità orizzontale 7; e poi i valori della forza totale 7 e delle sue componenti ortogonali X, Y, Z, che dai tre primi dati, con semplici calcoli, si deducono. Valori degli elementi magnetici determinati in Eritrea, intorno all’epoca 1913, 5. COORDINATE | ELEMENTI MAGNETICI Ti te RR NERO ASCII TRE geografiche direttamente osservati g bor. | Zorien.| À | d oce. | i bor. H X VE Z CITATA SOTTANA: m|j o , Sr E pe Asmara . ..| 15.20.10 | 38.55.50 | 2390 | 1.40,4 | 12.08,9 | 0,34827 | 0,34812 |— 0,01017| 0,07497 | 0,35625 Debàroa . . .| 15.05 35 | 38.50.20 | 1930 | 1.43,4 | 11.34,5 |0,34897 | 0,34881 |— 0,01049| 0,07147 | 0,35621 Adi Ugri..| 14.52.45 | 38.49.00 | 1980| 1.48,2 | 11.15,8 | 0,34928 | 0,34911|— 0,01099| 0,06956 | 0,85614 Chenafenà .| 14.47.20 | 39.01.10 | 1630| 1.45,5 |10.51,2 0,34900 |0,34883 |— 0,01071|0,06691 | 0,35536 Coatìt ....| 14.48.20 |39.13.30 | 190u|| 1.39,5 ‘10,558 0,34890 || 0,34875 |— 0,01010| 0,06738 | 0,35535 Adi Caièh .| 14.50.45 | 39.22.25 | 2410 || 1.37,3 | 10.59,6 ‘0,34929 0,34915 |—- 0,00988| 0,06785 | 0,35582 Addi Adid.| 14.57.25 | 39.13.35 | 1950| 1.38,8 | 11.16,8 | 0,34927 | 0,84913 |— 0,01004|0,06966 | 0,35615 Saganeiti . .| 15.03.15 | 39.10.55 | 2160] 1.39,5 | 11.33,7 |0,34842 | 0,34827 |— 0,01008| 0.07128 | 0,35564 Uochertì. . .| 15.10.35 | 38.59.50 | 2200| 1.42,0 (11.51, 0,34823 | 0,34803 |— 0,01038| 0,07310 | 0,85582 Az Teclesàn| 15.34 00 | 38.46.45 | 2250 | 1.44,0 | 12.41,3 | 0,34804 | 0,34788 |— 0,01053| 0,07836 | 0,85675 Chèren ....| 15.46.45 | 38.27.15 | 1400| 1.53,9 |13.12,9 | 0,34788|0,34769|— 0,01152| 0,08169 | 0,35734 Ghinda. ...| 15.26.30 | 39.06.05] 910| 1.34,6 {12 20,1 o 0,34842 | 0,34829 | — 0,00959| 0,07619 | 0,35665 Massaua... . 15.35.50 39.27.50 2| 1.31,8 | 12.54,2 | 0,34819 | 0,34807 |— 0,00930| 0,07977 | 0,35721 Zalann 15 15.10 | 39.42.55 1| 187,9 |11.49,8 |0,84970 | 0,34956 | 0,00996| 0,07325 | 0,85729 Aràfali ....| 15.05.10 |39.44.55| 1] 1.39,1 |11.37,0 |0,35071]|0,35056 |— 0,01011|0,07210 | 0,35804 Nocra..: 15.483,20 | 39.56.40 2| 1.27,0 | 13.05,7 | 0,34807|0,34796 |— 0,00881|0,08097 | 0,35736 (') La densità delle stazioni nella carta magnetica d’Italia è solo di 1 per ogni 1500 kmq. i i RENDICONTI, 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. de 4. — Le osservazioni fatte non sono, nè potevano essere, rigorosamente coeve: manca d'altra parte il mezzo di ricondurle ad un'epoca fissa, comune, non esistendo, in più o meno grande vicinanza all’ Eritrea, alcun osserva- torio magnetico, di cui si posseggano registrazioni magnetografiche atte a servire di riferimento per consimili riduzioni, come farebbesi in Europa. È stata però nostra cura di scegliere, in generale, per l'osservazione degli ele- menti maggiormente variabili, quali la declinazione e l’ intensità, quelle ore del giorno in cui il rispettivo elemento assume presso a poco il suo valor medio giornaliero; cosicchè i dati osservati, in sostanza, ben poeo devono risentire l'effetto della variabilità diurna. Inoltre tutte le osservazioni cadono entro un ristretto termine di tempo che s'aggira intorno al punto di mezzo dell'anno 1918, e perciò i dati raccolti si possono sensibilmente considerare tutti come riferibili all'epoca comune 1915, 5. Ciò posto, mi è stato possi- bile di costruire la carta magnetica per la media Eritrea e perela suddetta epoca 1913,5, col tracciamento delle tre specie di linee isomagnetiche cor- rispondenti ai tre elementi osservati, cioè le isogone, le isocline e le isodi- namiche della componente orizzontale. Tale carta, alla scala di 1:600.000, è annessa alla Memoria che si pubblica negli Armzalî, ove sono anche com- mentate le varie particolarità di forma e di andamento delle linee suddette, su di che io qui sorvolo. Invece, per dare un'idea della distribuzione della forza magnetica terrestre sulla media Eritrea, presento qui una cartina, in scala ridottissima, col disegno delle linee di eguale forza totale, nonchè delle isodiname per ciascuna delle tre componenti: sud-nord, ovest-est e verticale. Dall'esame della cartina, a chiunque appare manifesto che. mentre nella porzione superiore, 0 più settentrionale, le varie linee mantengono un anda- mento relativamente regolare, nella metà meridionale della carta, ed in ispecie verso sud-est, si hanno invece le maggiori anomalie. Sopratutto si mostrano irregolari i percorsi delle isodiname della forza totale 7 e delle compo- nenti X e Y; un punto singolare, per la forza totale, si ha in Aràfali, che abbiamo circuìto con l’isodinama del valore 0,858. Al contrario, i valori della componente verticale Z sono distribuiti con assai maggiore regolarità su tutta l'estensione della carta; essi si scalano fra di loro molto rapida- mente ed ordinatamente, dando luogo ad una serie di isodiname di Z pres- sochè equidistanti e parallele ai paralleli geografici; è la stessa cosa che avviene per le linee isocline, cioè di eguale inclinazione. La causa delle anomalie magnetiche, così evidenti nella regione meri- dionale, è da ricercarsi — io penso — nella speciale costituzione geologica del suolo, cioè nella presenza delle rocce eruttive, e più specialmente dei cosiddetti {rapp:, diffusi un po’ dovunque nell’altipiano, ma che per l'appunto maggiormente sì sviluppano verso il sud. Aràfali poi giace al piede di un cono vuleanico, il Dòla, che è il primo di una numerosissima serie di cra- teri spenti, salvo qualche manifestazione di fumarole o di sorgenti termali, E disseminate sugli estesi campi di lava della zona vulcanica dell'Alid. È ben vero che io ho cercato di evitare, in genere, il collocamento degli strumenti magnetici direttamente su suolo lavico (trachiti e basalti); ma si appalesa pur sempre l’azione a distanza di tali rocce. Carta magnetica delle isodinamiche sulla media Eritrea per l'epoca 1913, 5. Lona_Est_39°dal merid di Greenw. 15° __ » dal SIR 0.010 GHINDA © OO FSE A “puflo FRENI —_ e e) î (BABE Y ASMARA OEBAROA ° \ cime COATITO OCHENAFENA Linee di uguale componente A (-ud-nord) OL SOM eni = ”» Y (ovest-e t) RIO: ee e te _ ” £ (verticale) NOTI: i ri ir I n ” forza totale 7" 0,356 È poi anche doveroso far osservare che la rappresentazione grafica relativa agli ele- menti non direttamente osservati A, Y, Z e 7°, non sempre rispecchia, assolutamente e per intero, la reale distribuzione della forza magnetica, in quanto che essa rappresenta- zione può facilmente risentire, talora in misura non lieve, l'influenza degli ordinarii errori commessi negli elementi di osservazione diretta; tali errori, anche se piccoli in se stessi, possono per avventura, nel calcolo degli elementi derivati X, Y, Z e 7°, congiungersi in modo da originare errori assai più sensibili nei rispettivi prodotti. Infatti, dalle note relazioni X=Hcosd, Y=Hsend, Z=Htgi, U&—#Hisecno si hanno i rispettivi differenziali: dX=cosd.dH--Hsend.dd, dY=send.d H+ Acosd.dd, (RSA EE Lan + E! Da cos? i cos? SEO In generale, si può ritenere esatto d entro + 1’, i entro + 2", 4 entro * 10y; ma qui, oltre agli abituali errori delle osservazioni di campagna, si devono considerare quelli derivanti, nella collettività dei valori utilizzati per la rappresentazione grafica, dalla mancata od imperfetta riduzione all’epoca comune di riferimento. Pertanto ammettiamo che nelle nostre misure eritree gli errori dd, di, d H possano avere valori anche doppî o tripli di quelli su assegnati. Ora, a seconda dei segni, in A, Y,Z, 7° possono gli errori prove- nienti da d e H, ovvero da è e 7, combinarsi per differenza o per addizione, cioè ten- dere ad elidersi a vicenda ovvero a sommarsi. A vero dire, data la piccolezza dell’angolo di declinazione d' nell’Eritrea, l'errore d X dipende quasi esclusivamente dall’errore d 7; l'errore d Y è subordinato invece essenzialmente all'errore dd; ma in Z e 7, l'eventuale combinazione degli errori dî e d 7 può dar luogo ad errori amplificati, ed indurre quindi il disegnatore della carta a distorsioni di linee simulanti anomalie, le quali non sono che’ apparenti. Nell’Eritrea però si ha la favorevole circostanza che l'inclinazione é non è molto grande (tra 10° e 13°), e pertanto risultano relativamente impiccioliti i termini di dZ e AT aventi a fattori tg? o seni, ed a divisori cosi o cos? 7. Inoltre, nel sistema delle isodiname di Z, data la grande rapidità con cui varia ?,e quindi Z, nelle latitudini eritree, gli errori, di cui parliamo, si pronunciano meno nella rappresentazione grafica; ma nelle isodiname di 7°, la quale varia assai lentamente nell’èùmbito della carta, le anomalie apparenti, cioè dovute all’accidentale esaltamento suddetto degli errori, possono rendersi assai più spiccate. Tutto questo ho voluto dire, affinchè la cartina da noi offerta non venga intesa come espressione vera ed assoluta del fenomeno della distribuzione della forza geomagnetica nell’Eritrea, ma sia considerata al suo giusto, modesto valore e con le dovute riserve. 5. — Il rilevamento magnetico dell'Eritrea presenta il fatto, non fre- quentemente incontrato in rilievi congeneri, che una parte delle stazioni, le quali hanno servito di base alla carta, giacciono al livello del mare. ed altre stazioni, a non grande distanza orizzontale dalle prime, si trovano ad un dislivello di oltre 2000 metri. Ci si ofire pertanto qui l'opportunità di ricer- care quale azione eserciti siffatta differenza d’'altitudine sulla forza magne- tica terrestre. Il raffronto fra i risultati ottenuti nelle stazioni basse ed in quelle elevate riesce però piuttosto complicato in causa delle anomalie magne- tiche di cui sopra abbiamo discorso; esse, sovrapponendosi all'effetto del- l'altezza, di per sè assai piccolo, possono del tutto mascherarlo. Tuttavia abbiamo voluto tentare la prova, valendoci delle stazioni della metà supe- riore della carta, ove meno manifeste sono le anomalie. Nella Memoria pre- parata per gli Amnali di Meteorologia abbiamo fatto il calcolo della varia- zione coll’altezza per la componente orizzontale 77; qui lo faremo invece per l'intensità totale 7°. Scegliendo le stazioni di Chèren, Az Teclesàn ed Asmara sull’altipiano, e quelle di Massaua e Nocra sul mare, ho stabilito un sistema di equazioni, risolvendo le quali sono riuscito a determinare, ad un tempo, le variazioni della forza 7 (considerata come funzione lineare ed omogenea della latitudine g, della longitudine Z e dell’altitudine %) rispettivamente per 1° di g, per 1° di Z (crescente verso Z#) e per 1 km. di f. Non m'indugio Sea sull'impostamento e sulla condotta del calcolo, e dò senz'altro i valori trovati pei suddetti rapporti: f&=+0,00210, /x= — 0,00002, /4 = — 6,00015-7. Dalle misure eritree si rileverebbe, adunque, che l'intensità 7 diminuisce, coll'altezza, in ragione di 15,7 unità y per ogni chilometro di dislivello. Questo valore della diminuzione di 7 coll'altezza è solo di poco inferiore a quello previsto dalla teoria di Gauss, e che nel caso dell’Eritrea è espresso numericamente da 16,8 y ('). Mediante un procedimento, analogo bensì, ma non identico, nella summenzionata Memoria avevamo trovato che la varia- zione della componente / per chilometro d'altezza è — 7.7 y, numero pur esso inferiore, ma notevolmente di più, al valore — 16,4 dato dalla teoria. Non è da attribuire molta importanza ai valori numerici dei gradienti di 7 e di 77 in altezza da noi trovati, poichè troppo scarse sono, e forse anche non scevre da difetti, le osservazioni che hanno servito di base al nostro calcolo: questo, in verità, nen è da considerarsì se non come una sem- plice punta d’assaggio (« eine Stichprobe » direbbero i Tedeschi) effettuata sul materiale di dati magnetici da noi raccolti. Tuttavia, il fatto che quei valori sono risultati più bassi dei rispettivi valori teorici, può essere inter- pretato con l'esistenza di forze magnetiche esteriori alla superticie della Terra, quali sarebbero correnti elettriche (trasporto di ioni con prevalenza d'un determinato segno) attraverso all'atmosfera, la cui azione sull’ago cala- mitato si compone con l’azione del campo magnetico propriamente dovuto alla litosfera. Che esistano siffatte correnti elettriche in seno all'atmosfera, è ormai accertato; e non è detto che queste debbano agire ovunque nel mede- simo senso, chè anzi il loro sistema, nelle varie zone della Terra, appare connesso con le correnti d'aria costituenti la circolazione generale atmosfe- rica. È chiaro che, a seconda del senso, l’azione delle correnti elettriche, di cui parliamo, può ritardare od accelerare la diminuzione che deve veri- ficarsi nell’'intensità magnetica coll’allontanamento dalla superficie della litosfera (al livello medio), sede del magnetismo terrestre. Pertanto la or ora ricordata. relazione fra le correnti elettriche e la circolazione generale atmosferica, potrebbe per l'appunto invocarsi a spiegare perchè nell'Eritrea, paese della zona tropicale, il rapporto della variazione della forza magne- tica alla differenza d'altezza verticale si sia trovato inferiore al valore teorico. mentre nei paesi d'Europa, di più elevate latitudini, si è riscontrato, in generale, il fenomeno inverso, cioè una diminuzione della forza coll’altezza : x h > ni (*) Infatti, se nell’espressione generale d7,= — sn T, (ove Ta e 7 sono le forze totali all'altezza % ed al livello del mare, e A è il raggio medio terrestre) poniamo h=1, R=6371, e 7Z,=0,357 che è il valor medio di 7 in Eritrea, otteniamo: tr = MO Pac, pe maggiore. anche di cinque volte tanto, al valore dedotto dalla teoria gaus- siana. 6. — Data la ristrettezza dell’area magneticamente esplorata e dato il piccolo numero delle stazioni della carta Eritrea, non mi è stato possibile di spingermi ulteriormente su questa interessante via di ricerche, indagando, per esempio, se le forze magnetiche esterne, di cui parlammo sopra, siano di quelle che ammettono un potenziale (come avverrebbe nel caso di correnti elettriche che percorressero l'atmosfera parallelamente alla superficie del geoide), ovvero se parte di esse forze non abbiano potenziale (tali sono le correnti elettriche verticali nell'atmosfera che, dirette o dal basso all'alto, o dall'alto al basso, defluiscono perpendicolarmente alla superficie terrestre). Come criterio per stabilire se si verifichi o l'uno o l’altro caso, serve l’ inte- grale che sì ottiene quando lungo una curva qualsiasi, chiusa, sulla super- ficie della Terra, si moltiplica ciascun elemento della curva per la compo- nente della forza magnetica che agisce nella direzione dell'elemento stesso, e sì sommano i prodotti così calcolati sopra l'intera curva. Se questo som- matorio od integrale (o, come si potrebbe dire, il valor medio della forza magnetica lungo la curva) si annulla, allora non vi sono correnti che attra- versino in direzione verticale l’area chiusa dalla curva; se invece l'integrale risulta diverso da zero, allora le dette correnti verticali esistono. Si com- prende che, come curva o poligono chiuso pel calcolo dell’ integrale. conviene scegliere il contorno del trapezio sferico compreso fra due meridiani e due paralleli; così, lungo i meridiani non sì hanno da considerare che i valori della componente _X della forza magnetica. e lungo i paralleli i valori della componente Y. Tale metodo fu già applicato in parecchi casi, e. tra gli altri, dal Liznar al rilevamento magnetico dell'Austria-Ungheria (Meteorologische Zeitschrift, 1898, pag. 175); ma il Trabert giustamente osserva (ibidem, pag. 403) che mettendo in calcolo simili porzioni, relativamente piccole, della superficie terrestre, non riesce definitiva e sicura alcuna conclusione sul- l’esistenza, o meno. delle correnti verticali. A più forte ragione, non era da attendersi successo intraprendendo siffatte laboriose computazioni per il trapezio della nostra carta limitata alla media Eritrea. CS Chimica-fisiologica. — /niroduzione del nucleo quanidinico nella molecola dei polipeptidi e sua importanza fisiologica. Nota del dott. ANTONINO CLEMENTI ('), presentata dal Socio L. LUCIANI. Schultze e Winterstein (°), ottenendo per sintesi l’arginina dalla ciana- mide e dall'ornitina, ne misero in evidenza la formula di struttura e dimo- dimostrarono che parte integrante della molecola di questo diamino acido (che insieme con la lisina e con l'istidina forma il gruppo delle cosidette basi esoniche di Kossel) è il nucleo guanidinico: l’arginina è infatti acido a-amino-d-guanido-valerianico, ed ha questa costituzione: NH» CH, | CH -NH, | CO.OH (arginina) Le classiche ricerche di A. Kossel e della sua scuola dimostravano, frattanto, che l’arginina è la più importante e la più costante pietra struttu- rale dell'edificio molecolare dei corpi proteici; e che anzi esiste una classe di proteine ben individualizzate, da Kossel denominate protamine, la cui molecola risulta costituita in modo preponderante da diaminoacidi e più specialmente da arginina. L'importanza fisiologica del nucleo gvanidinico come costituente della molecola proteica, che risulta dalle ricerche suaccennate, è diventata ancora più grande dopo la scoperta, fatta da Kossel e Dakin (*), dell’esistenza, nel- l'organismo e specialmente nel fegato, di un fermento imidolitico, l'arginasi, (‘) Ricerche eseguite nell'Istituto di fisiologia dell’ Università di Heidelberg, diretto dal prof. Albrecht Kossel. (*) Schultze und Winterstein, Veber die dildung von 'Ornithin bei der Spaltung des Arginins und dber die Konstitution dieser beide basen (Zeitschr. f. Physio]. Chem., Bd. 26, s. 1, an. 1898; Bd. 84, s. 128, an. 1901). (#3) Kossel und Dakin, Veber die Arginase (Zeitschr. f. Physiol. Chemie., Bd. 41, s. 324, an. 1904); id., Weitere Untersuchungen ber Harnstoff bildung, Bd. 42, s. 181, an. 1904. PISA capace di idrolizzare la molecola dell’arginina, staccarne il nucleo guanidi- nico e trasformarlo in urea e dopo che è stato dimostrato dalla ricerca siste- matica dell’arginasi nell'organismo della serie dei vertebrati, che nel fegato degli uccelli e della maggioranza dei rettili, presso cui l'acido urico occupa nel catabolismo il posto dell’ urea, l’arginasi è assente, mentre è presente nel fegato dei mammiferi, degli anfibii e dei pesci (Clementi) (’). L'importanza fisiologica del nucleo guanidinico risulta anche dal fatto che esso prende parte alla costituzione della molecola di uno dei costi- tuenti azotati dell'urina più importanti, dopo l’urea e l'acido urico, cioè della creatinina e della creatina che, come è noto, è acido metilguani- doacetico NB NN (CH,) CH, È | CO-OH (creatina) Quando d’altra parte si pensi al posto che negli ultimi anni occupano i polipeptidi nell’indagine della costituzione e del metabolismo dei proteici, risulterà evidente l'interesse fisiologico che presenta il problema della pre- parazione e dello studio biologico di polipeptidi portanti legato alla loro catena il nucleo guanidinico. La risoluzione di tale problema non è stata ritentata, dopo che fallirono i tentativi fatti da E. Fischer (?) diretti a fare la sintesi del dipeptide arginilarginina, che è il guanidopolipeptide che esisterebbe, secondo gli studî di A Kossel (#), allo stato naturale nella molecola delle protamine. Io mi sono proposto di tentare per ora la sintesi di guanidopolipeptidi più semplici seguendo un procedimento diverso da quello di E. Fischer, cioè unendo direttamente il nucleo guanidinico con la molecola di poli- peptidi della glicocolla. Le prime ricerche in tal senso compiute con la glicilglicina, mi hanno dato risultato positivo. Infatti, facendo reagire cianamide e glicilglicina in quantità proporzionali ai loro pesi molecolari, ho ottenuto un nuovo corpo che cristallizza in bellissimi aghi, insolubili in alcool ed etere, poco solubili in acqua fredda, che a 218°-220° imbruniscono, a 235° circa si scompongono (*) A. Clementi, Weder die Verbreitung der Arginase im Tierwelt. IXème Congrès international des fisiologistes de Groninge, 2-6 septembre 1913. (?) E. Fischer, Wntersuchungen ‘ber Aminosauren, Polipeptide und Proteine, Berlin 1906. (3) Kossel A., Sitcungsber. d. Hielelberger Akad. d. Wissenschaft. Math.-Naturw. Klasse, Ath. 1913. RENI dopo annerimento, e alla analisi elementare dimostrano possedere la for- mula grezza Cs Hio 03 Nu. Tale formula grezza corrisponde a quella della guanidoglicilglicina, a cui, dato il meccanismo per cui se ne è ottenuta la sintesi, spetta la se- guente formula di costituzione : NH, DA 2 C=NH (guanido- DAL glicit- CH; glicina) Î CO-NH-CH.-C0-0H La guanidoglicilglina (glicociamilglicina) è il più semplice e il primo rappresentante, di tutta una nuova classe di polipeptidi, la cui sintesi e il cui studio biologico mi riserbo di condurre a termine. Chimica. — Sw/ metabolismo degli aminoacidi nell'organismo. Nota I: Azzone del tessuto muscolare sugli aminoacidi aggiunti al sanque circolante, del dott. Uso LomBROsO, presentata dal Socio L. LUCIANI. Dopo che le nostre conoscenze sulla digestione delle sostanze proteiche sono venute, per opera particolarmente di Conheim ed Abderalden. a modi- ficarsi così profondamente, è entrato nella convinzione della maggioranza degli studiosi il concetto che le sostanze proteiche vengano idrolizzate com- pletamente sino allo stato di aminoacidi nel tubo digerente. Si sono quindi formulate varie ipotesi, tuttavia in discussione, rispetto al destino che tali aminoacidi avrebbero nel ricambio intermedio e finale delle sostanze azotate. Principalmente si dibattono le seguenti ipotesi: se avvenga cioè una rico- struzione della complessa sostanza proteica negli epitelii intestinali {(simil- mente a quanto avviene nella digestione dei grassi), ovvero se gli amino- acidi penetrino in circolo serbando poi le loro ulteriori modificazioni (rico- stituzione nelle albumine specifiche di ogni singolo organo, oppure combustione definitiva) in seno agli elementi dei varii tessuti dell'organismo. Non entro in maggiori dettagli rispetto a questa ipotesi, tanto più che io non sottoscrivo, per ragioni che spiegherò in prossime pubblicazioni, al concetto fondamentale dell’idrolisi così completa delle sostanze proteiche, prima del loro assorbimento. RenpicontTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 8 = de Ma ho voluto farne cenno, in quanto quest'ultima ipotesi è il punto di partenza di alcune ricerche che voglio ora menzionare, ricerche che fu- rono dirette a risolvere il seguente problema : Ammesso che, per via sangnigna, aminoacidi giungano a contatto di di- versi tessuti, quale sarà il loro comportamento? Per rispondere a questa domanda, apparentemente così semplice, già si richiede una complicata serie di esperienze e ricerche, la più elementare delle quali si rivolge alla seguente indagine: come si modifica il contenuto in amino- acidi di una determinata quantità di sangue circolante in un determinato organo ? A. questo problema, assai interessante, pochi contributi furono portati: e buona parte soltanto indirettamente. Nella numerosa serie di lavori eseguiti da Embden (') e dai suoi col- laboratori, facendo circolare nel fegato varie sostanze, e fra queste molti aminoacidi, indirettamente venne sfiorato tale problema. Infatti Embden di- mostrò che, condizionatamente alla presenza di aminoacidi nel sangue usato per la circolazione artificiale del fegato, avvertivasi la produzione di acetone, acido lattico. ecc. Egli però non si preoccupò di determinare direttamente la diminuzione od eventuale scomparsa degli aminoacidi. Altre notizie più dirette si possono trarre dalle interessanti comunica- zioni del v. Slyke (?) e collaboratori. Questi studiosi, in una diligente serie di ricerche, verificarono il comportamento dei varii tessuti a varie distanze di tempo dopo iniezioni di soluzioni concentrate di aminoacidi o mescolanze di essi. Da queste ricerche risultò che, più o meno, tutti ì tessuti aumentano in tali condizioni il loro contenuto di aminoacidi, ed in modo particolare il fegato. Inoltre in queste esperienze constatarono che non soltanto il fegato è capace di raddoppiare e più il suo contenuto di aminoacidi, ma è anche quello che se ne libera più rapidamente di tutti gli altri organi. Siccome quest'ultimo fenomeno è accompagnato da aumento di urea nel sangue, essì ritengono probabile che la scomparsa degli aminoacidi si debba alla loro ossidazione. Negli altri organi gli aminoacidi assorbiti spariscono meno rapidamente; ed i muscoli che con minore quantità di aminoacidi raggiungono il punto di saturazione, se ne liberano più lentamente. La sparizione degli aminoacidi in tutti gli organi avverrebbe, secondo v. Slyke, per opera del fegato, il quale, distruggendo rapidamente gli aminoacidi assorbiti, li sottrae continuamente alla circolazione e quindi ai tessuti che, non essendo capaci di utilizzarli, li riversano in circolo. (*) Zeitschrift f. die gesammte Biochemie. VIII, Heft 3/4 1906. (*) Journ. of. Biolog. Chem., XII, 399, 1913. 59 — Quando la penetrazione degli aminoacidi in circolo è troppo rapida, il rene (che, come il fegato, è capace di assorbire la maggior copia di ami- noacidi, ma da esso se ne differenzia perchè non atto a distruggerli) aiuta l'organismo a liberarsene, eliminandoli immutati. Contrarii all'ipotesi di v. Slyke, della elettiva azione epatica nella disanimazione, sono Rattevos e Nelson (*), i quali ritengono che tale pro- prietà sia comune a tutti i tessuti viventi. Per dimostrare questa tesi, gli autori citati praticarono iniezioni di miscugli di aminoacidi in animali ai quali avevano esportato tutto il fegato. salvo quel piccolo pezzo che cir conda la cava; e videro aumentare l'azoto ammoniacale nelle orine, segno che la decomposizione era avvenuta. Però gli stessi autori dovettero ricono- scere che le loro esperienze non erano conclusive, perchè si verificava anche un aumento nella eliminazione dell'urea tale da dimostrare non essere an- nullata l’azione del fegato. Tutte le ricerche di cui abbiam fatto cenno, e particolarmente quelle dirette da v. Slyke, se hanno portato preziosi contributi alla conoscenza del metabolismo degli aminoacidi, lasciano però insoluto il quesito se e quanto i varii tessuti siano di per sè capaci di utilizzare gli aminoacidi cir- colanti nel sangue. E ciò perchè, essendo stati eseguiti nell'organismo #7 foto. nel quale viene mantenuta fra 1 diversi organi la possibilità di scambiarsi le varie sostanze nel sangue circolante, riesce impossibile di distinguere esattamente l’azione che si deve attribuire ai singoli organi in riguardo al metabolismo generale. Indagini che sfuggirebbero a questa obiezione furono eseguite da due ricercatori il Buglia (*) e il Lanzillotti (*). Il Buglia sottopose all'esperimento una affermazione formulata in via di ipotesi dal Lussana, che avendo più volte fatto ricerche sul cuore isolato nutrito con liquidi a cui erano stati aggiunti aminoacidi, sosteneva che detti aminoacidi non erano ulteriormente metabolizzati. Risultò, da tali ricerche del Buglia (eseguite facendo circolare in cuore isolato di coniglio una soluzione fisiologica cui erano stati aggiunti diversi aminoacidi) che, anche prolungando per molte ore l'esperimento, non si ve- rifica mai una diminuzione di aminoacidi. Al contrario, in qualche caso sì ha anche un aumento di aminoacidi, dovuto al riversarsi, nel liquido cir- colante, degli aminoacidi proprii del tessuto muscolare. Un risultato invece completamente positivo avrebbe avuto il Lanziìl- lotti, esperimentando col rene di cane. In queste indagini, nelle quali l’au- tore, come il Buglia, per liquido circolante aveva usato soluzione fisiologica (1) Journal of Biol. Chemistry, XIX, 229, 1914. (*?) Arch. di farmacol. sperimen. e scienze affini, XVII, 277, 1914. (*) Archivio di fisiologia, XII, 429, 1915. =) del Ringer, si era verificata una diminuzione di aminoacidi che raggiunse perfino il 20 °/o. AR Volendo contribuire a tale complesso problema, io ho iniziato, in col- laborazione anche di C. Artom, una serie di ricerche sistematiche sul com- portamento dei varii tessuti in rapporto agli aminoacidi in essi circolanti. In questa Nota riferisco le indagini eseguite esperimentando con tes- suto muscolare. Io mi sono anzitutto proposto di rispondere a queste do- mande: 1) facendo circolare sangue unito a vari aminoacidi per il tessuto muscolare, quali variazioni si riscontrano nel suo contenuto di aminoacidi dopo un determinato periodo di circolazione? 2) e quale modificazione subisce il contenuto in aminoacidi del tes- tessuto muscolare? 3) a una eventuale diminuzione degli aminoacidi nel sangue, cor- risponde la presenza di sostanze (NH3, acetone) che indichino la loro com- bustione ? 4) infine (dopo il risultato ottenuto nelle prime ricerche) ho esteso anche al tessuto muscolare la determinazione dell'NH,. Tutte queste varie ricerche apparivano ugualmente necessarie in quanto l'una coll’altra si completava ed integrava. Infatti, una diminuzione degli aminoacidi del sangue non ci dimostra di per sè sola una utilizzazione di essi, potendosi giustificare con nn corrispondente loro aumento nel tessuto muscolare. E, d altra parte, soltanto la dimostrazione diretta dei prodotti della loro ulteriore combustione può assicurarci che effettivamente di ossì- dazione si tratti e non di una sintesi di tali aminoacidi. * x x Per eseguire le presenti ricerche, dissanguavo rapidamente l’animale di esperimento, e, liberato della cute un arto posteriore, lo ponevo nell’ap- parecchio per la circolazione Lind, che facevo funzionare usando il sangue defibrinato dell'animale stesso. Per ragione di praticità, non veniva l’appa- recchio smontato dopo ogni esperienza, ma lavato 7 toto col passaggio di liquido di Ringer, piccola parte del quale rimane aderente alle palline di vetro dell'ossigenatore, ed al serpentino. Per ciò, per avere un esatto con- fronto fra le sostanze titolabili al formolo, prima e dopo la circolazione del muscolo, facevo circolare a vuoto, nell'apparecchio, il sangue a cui avevo aggiunto gli aminoacidi in modo che si mescolasse col liquido di Ringer rimasto; prelevavo un campione, e subito dopo procedevo all'innesto nell’arteria femorale. Il dosaggio degli aminoacidi del sangue si eseguiva dopo aver trattato il sangue e gli estratti idroalcoolici del tessuto con ferro colloidale, previa Coeli estrazione dell’NH,; col metodo del Sorensen. Ricerche di controllo mi di- mostrarono che la precipitazione col ferro colloidale non disturba sensi- bilmente il dosaggio degli aminoacidi se questi sono disciolti in acqua. Invece una certa diminuzione si avverte quando gli aminoacidi sono sciolti nel sangue. Perciò i dati raccolti nelle osservazioni che riferisco hanno valore più comparativo che assoluto, ed io riporto semplicemente i cc. Na OH!/,0 # adoperati per la formoltitolazione. di Cane maschio kg. 7,300. — L’arto posteriore pesa 560 gr. (di cui, 140 rappresentano tessuto osseo). Si inizia la circolazione con 420 ce. sangue + 4 gr. glicocolla sciolti in 80 cc. liquido di Ringer. La pressione vien tenuta fra 150-180 mm. mercurio. Dopo 8 ore di circolazione, l'arto pesa gr. 555. Per 10 ce. sangue la formoltitolazione richiede . . . . 9,1 cc. Na OH!/o0w ” ” dopo circolaz. la formoltitolazione richiede 7,0. » ” Per 50 gr. muscolo la formoltitolazione richiede. . . . 5.2ce. Na OH!/10 ” » dopo circolaz. la formoltitolazione richiede 12,2» ” REGTE: MD an ESA » ” » dopo circolazione . . . . . . 19,6 Ha SO04!/s0o ® NIE PErto ETA SCO 2A SO ” ” n dopo circolazione . . . . .. 14,8 H,S0:!/o0 # Complessivamente sono mancanti nel liquido circolato tante sostanze titolabili col formolo, da richiedere 105,0 cc. Na OH '/10 n. Se ne trovano in più nel muscolo tante da richiedere 81 cc. Na OH !/10 n. Il deficit assoluto corrisponde quindi a 24 cc. Na OH !/x0 n. II. . Cane maschio kg. 5. — L'’arto posteriore pesa 380 gr. (dei quali, 94 rappresentano tessuto osseo). Si inizia la circolazione con 360 ce. sangue + 4 gr. glicocolla sciolti in 140 ce. liquido di Ringer. La pressione vien tenuta fra 140-180 mm. mercurio. Dopo 2 ore di circolazione, l’arto pesa 420 gr. Per 15 cc. sangue la formoltitolazione richiede . . . 14,2 cc. Na OH !/io n » » dopo circolaz. la formoltitolazione richiede 11,2 » ” INIEISMP er 00 GA 8A 3600 HA SO Lo ” ” ” dopo circolazione . . . . . 12,9 cc. Ha SO4 !/15 n Per 50 gr. muscolo la formoltitolazione richiede . . . 19,5 ce. Na OH '/10 » dopo circolaz. la formoltitolazione richiede 20,4 ” ”» NH; per 50 gr. muscolo... ...0 0... + 18 ce. H,S04'/s0 # ” ” ni dopo! circolazione. . 16,2 ” ” Complessivamente sono mancanti nel liquido circolato tante sostanze titolabill col formolo, da richiedere 99,9 ce. Na OH '/10 n. Se ne trovano in più nel muscolo tanti da richiedere 61,3 cc. Na OH '/.0. Il deficit assoluto corrisponde quindi a 88,6 ce. Na OH, III. Cane maschio kg. 5,5. — L’arto posteriore pesa 390 gr. (di cui. 100 rappresentano tessuto osseo). Sangue, diluito con Ringer, ce. 520 + 4 gr. di @ alanina. La pressione vien tenuta fra 150-200 mm. mercurio. Dopo 1,45 ore, l'arto pesa 450 gr. BERG DI = Per 15 ce. sangue la formoltitolazione richiede . . . 6 ce. Na OH !/10 # n » dopo circolaz.laformoltitolazione richiede 5.5» ” Per 50 gr. muscolo normale la formoltitol. richiede . . 15,5 ce. Na OH !/15 # ” » dopo circolaz. laformoltitolazione richiede 17,0.» » NH (su@l00fccssancuete e perduto ” » MAGICO Ato ne O 8 cc. Ho SO, 1/50 NH, per 50 gr. muscolo . . . . .. .. . +. 22 ce. Ha $04'/s0% ” ” n dopo circolazione. . . . 135 ” Complessivamente sono mancanti nel liquido circolante tante sostanze titolabili col formolo, da richiedere 39,3 ce. Na OH '/10 n. Se ne trovarono in più nel muscolo tante da richiedere 29,1 cc. Na OH '/10 n. Il deficit assoluto corrisponde quindi a 10.2 cc Na OH !/wo n. Dalle presenti ricerche risulta che: Facendo circolare, nel muscolo di cune, sangue contenente in forte dose (sino all'1 °/,) aminoacidi, si avverte sempre una diminuzione degli ami- noacidi dopo la circolazione. Di questi aminoacidi, una parte, la maggiore, sì ritrova depositata immutata nel tessuto; della rimanente, una parte viene bruciata (come dimostra l'aumento dell'’NH;), e un’altra deve venir uti- lizzata a formare corpi non titolabili col formolo. Sul significato e sulle deduzioni che da questi risultati si possono trarre, esporrò nella Nota che segue, allo scopo di poter fare gli opportuni raffronti coi risultati ottenuti usando, quale liquido circolante, la soluzione di Ringer, in luogo del sangue. Chimica. — Nuove ricerche intorno all’azione dei nitroso- derivati sui composti non saturi (‘). Nota del dott. Luirci ALES- SANDRI, presentata dal Socio A. ANGELI. Lo studio intorno all'azione del nitrosobenzolo sui composti non saturi fu iniziato nel 1910 da A. Angeli, L. Alessandri e R. Pegna (?); e per i composti aromatici a catena laterale allilica, più precisamente per il safrolo, venne allora dimostrato come il prodotto cristallino, principale, della rea- zione, possiede la struttura seguente : (CH 03) . Co H. . CH=CH . CH=N . (0h HE Il O cioè di etere N-fenilico della ossima (CH. 02) . Co H, . CH=CH . CH=NOH (!) Lavoro eseguito nel Laboratorio di chimica farmaceutica del R. Istituto di studî superiori di Firenze. (3) Questi Rendiconti, vol. XIX, 1° sem., pag. 650. ® So a alla quale infatti si pervenne per azione dell'idrossilammina sul composto primitivo. Da tale ossima si passò poi facilmente alla aldeide (CH.0.). Cs Hz. CH=CH. CHO identica alla piperonalacroleina già conosciuta; e da questa infine, per con- densazione con fenilidrossilammina, si potè riottenere un prodotto identico a quello formatosi per l’azione diretta del nitrosobenzolo sul safrolo. Per quel che riguarda il meccanismo di questa reazione, si ritenne come più probabile che, reagendo dapprima il nitrosobenzolo nella sua forma bimo- lecolare sul safrolo, dia origine ad un composto intermedio di addizione. della forma (CH. 0.). Cs Hz. CH:—CH . CH=N. CH; | 0 CH. N.0H e da questo. in una fase successiva, si arrivi al prodotto finale sopraindicato, per eliminazione di una molecola di fenilidrossilammina. Quest'ultima poi, reagendo col nitrosobenzolo presente, formerebbe l’azossibenzolo, del quale infatti si ottengono insieme notevoli quantità. Continuando fino da allora lo studio di questa reazione, ho potuto con- fermare la verisimiglianza di tale supposizione, poichè accertai che il ren- dimento in prodotto greggio, che è del 20 °/, circa quando sì uniscono pesi equimolecolari di safrolo e di nitrosobenzolo, sale al 40 °/, circa quando si fa reagire una molecola del composto allilico con tre molecole di nitroso- benzolo. In seguito a questo resultato e dovendo anche tener conto che alcune delle sostanze impiegate sono difficilmente accessibili, nelle esperienze ulte- riori, che feci per verificare la generalità della reazione ed estenderla ad altri composti non saturi, ho impiegato tre molecole del nitroso-composto per una delle sostanze in esame. Ho fatto reagire il nitrosobenzolo in tali proporzioni con l’estragolo (?), la miristicina (*) ed il metileugenolo: ed ho ottenuto tre bei prodotti gialli. rispettivamente col p. f. 165°, 180° e 154°, i quali han senza dubbio la struttura analoga a quella del derivato safrolico, sia per i resultati anali- tici, sia per le proprietà. (*) Un campione di questo prodotto mi fu gentilmente regalato dal prof. E. Rimini, cui porgo sentiti ringraziamenti. (*) Una notevole quantità di essa mi venne regalata dalla Casa Schimmel, che rin- grazio qui pubblicamente. gi Accenno qui che anche essi, come quello, per azione della luce solare sì decompongono assai rapidamente (!). In modo non del tutto analogo procede l'azione del nitrosobenzolo sopra l'apiolo del prezzemolo. Infatti, in alcune esperienze preliminari eseguite con esso, ottenni una sostanza col p. f. 137° circa e che ha qualche rassomi- glianza con i prodotti preparati dagli altri composti allilici: è colorata ad esempio in giallo, ed è poco stabile al permanganato potassico (reazione di Baeyer); ma non contiene azoto. La scarsezza del rendimento e di prodotto abbastanza puro, che con- sumai in parte per la determinazione dell’azoto, per ora mi ha permesso di stabilire soltanto che esso reagisce con la idrossilammina, fornendo un de- rivato p. f. 172°, che all’analisi ha mostrato di avere una percentuale di azoto corrispondente alla formula C,»3.H13 NO;. Per quanto riguarda la struttura del composto giallo p. f. 137°, soltanto analisi e ricerche ulteriori potranno determinarla con tutta sicurezza: mi sembra però che ì resultati sopra esposti rendano già assai verisimile la ipotesi, che il prodotto in questione sia da identificarsi con l'aldeide, che potrà chiamarsi apiolacroleina: (CH30)») (CH RI CH=CH.CHO, 2472) ) l l'ossima della quale ha in realtà il contenuto di azoto trovato pel composto palo In appoggio a tale ipotesi sta pure il fatto che anche l'acido corri- spondente a questa aldeide, e che permetterà forse di identificarla, (CH3 0): ) TESA (CH, 0.) CH. CH=CHXC00Hg possiede, secondo Ciamician e Silber (*), una colorazione gialla. (1) A questo proposito posso ora far rilevare, in primo luogo, come dalle osservazioni già pubblicate e «la altre fatte da me in seguito, risulti che il carattere dell’instabilità alla luce è veramente generale per gli eteri N-alchilici non solo delle aldossime, ma anche delle chetossime [ cfr. questi Rendiconti, vol. XIX (1910), 1° sem., pag. 651; ibidem, vol. XIX, 2° sem., pag. 122 e seguenti; ibidem, vol. XXIII (1914), 2° sem., pag. 182 e pag. 135]; in secondo luogo, che dal confronto delle strutture di alcune di tali sostanze, r tipiche, riducibili ai due schemi R_N=C<} e R_N=0<È, (dove R,R',R° rap- Il Il O presentano i diversi radicali alifatici ed aromatici presi in esame) l'instabilità alla luce, constatata in esse, si delinea già come propria del gruppo —N=C<. (*) Berliner Berichte, 22, pag. 2485. La formazione di una tale aldeide acquista anche maggior verisimi- glianza per il fatto che assieme ad essa ho isolato, fra i prodotti della rea- zione, anche un composto incoloro, p. f. 100° circa, che si può estrarre anche con bisoltito sodico e che con ogni probabilità sarà identificato per aldeide apiolica. Ma la più convincente conferma della giustezza di queste ipotesi dovevo trovarla nelle esperienze eseguite col nitrosobenzolo sopra alcuni dei derivati aromatici a catena laterale propenilica, alle quali preludevano i saggi, fatti fino dal 1910, con l'isosafrolo e l’anetolo. Però, a differenza di quanto veri- ficammo allora per quei derivati (che cioè non davano origine a prodotti cristallini e quindi facilmente caratterizzabili), trovai che dall’asarone, per azione del nitrosobenzolo, si perviene con tutta facilità e discreto rendimento ad un prodotto cristallino. giallo-chiaro, assai somigliante a quelli ottenuti dai derivati allilici, sia per le proprietà fisiche, sia per l'instabilità alla luce: con permanganato potassico anch'esso svolge nitrosobenzolo. Potei presto accorgermi che in alcuni casì esso si separa anche in cristalli contenenti solvente, di forma e p. f. poco netto e diversi fra loro, in modo da far credere dapprima ad una mescolanza di prodotti: ma infine accertai che effettivamente si trattava di un'unica sostanza che, pura e secca, fonde a 125°. Sottoposta in questo stato alle determinazioni di carbonio, idrogeno ed azoto, dette numeri che conducono alla formula Cig Hi7NO,. Allo scopo di definirne la struttura. prima ancora di determinare il sno peso molecolare, applicai il procedimento, già impiegato per il composto ottenuto dal safrolo, cui ho accennato da principio. ]l derivato asaronico venne cioè fatto reagire con idrossilammina, e dette origine ad un prodotto incoloro, col p. f. 137°, molto vicino al p. f. 1359,3 assegnato all’asarilal- dossima (*), della quale all'analisi dimostrò aver la composizione. D'altra parte, il derivato asaronico primitivo, per idrolisi con acido diluito, condusse ad un prodotto che fuse a 112°-113° e che possiede anche tutti gli altri caratteri dell'aldeide asarilica: quest'ultima infine, fatta reagire con fenil- idrossilammina, riprodusse una sostanza identica a quella ottenuta diretta- mente dall’asarone col nitrosobenzolo. Rimane così dimostrato senz'altro, che al derivato asaronico giallo p. f. 125° spetta la struttura di etere N-fenilico dell’asarilaldossima: (CH30)3 . Cs H,y . CH=N Ù (075 H; | 0 come indicavano già i resultati analitici. Fra i prodotti secondarî della reazione ho riscontrato anche dell’aldeide asarilica, oltre a notevoli quantità di azossibenzolo. (1) Fabinyi, Zeitschrift fùr phys. Chemie, XII, pag. 578. RknpIcoNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 9 CIG Una reazione analoga riscontrò già nel 1893 Fabinyi (') fra l’asarone stesso e l’acido nitroso che egli faceva svolgere fra nitrito alchilico ed acido cloridrico. Il prodotto finale della reazione, a seconda delle condizioni nelle quali egli operava, era il cloridrato dell'asarilaldossima o l’'asarilaldeide libera: in questo ultimo caso si sviluppava una gran quantità di gas, cer- tamente protossido di azoto (N30), che corrisponde all’azossibenzolo, da me trovato fra i prodotti secondarî, nello stesso modo come nell’altro caso l’asarilaldossima corrisponde all’etere N-fenilico dell’ossima medesima, da me ottenuto. Anzi è da ritenere che, ponendo a reagire tutto insieme l’ec- cesso di nitrosobenzolo con i derivati allilici o propenilici (ambedue i casi infatti si riducono al medesimo, poichè abbiam visto che nella reazione la catena allilica si trasforma anche essa in propenilica), avvengano diverse di tali reazioni secondarie, specialmente quando i prodotti, perchè sono solubili, non si sottraggono agli altri reagenti. È probabilmente per questa ragione che, facendo reagire il nitrosoben zolo sull'isosafrolo, non ho potuto finora isolare il composto che dovrebbe formarsi, analogamente a quanto avviene per l’asarone: cioè l'etere N-fenilico del piperonalio, già conosciuto. Anche in questo caso avviene bensì lo spez- zamento della catena laterale, giacchè mediante idrossilammina ho potuto isolare dall’olio rosso-bruno, che sì forma, alquanta piperonalossima; ma oltre ad una porzione di isosafrolo inalterato (*), che passa dapprima distillando in corrente di vapore, vi sono, nell'olio meno volatile, azossibenzolo ed anche una sostanza che per ebollizione con acido diluito dà anilina. Da tutto ciò si comprende che la reazione può complicarsi assai, dando origine a numerosi e svariati prodotti, alcuni dei quali di ossidazione. Tali complicazioni, senza dubbio, sono la causa dei resultati ancora non abbastanza netti e costanti, ottenuti per ora nelle ricerche preliminari intorno all'azione del nitrosobenzolo sulla gomma elastica, iniziate parecchi anni addietro dal prof. Angeli. Per le considerazioni sul probabile andamento della reazione, svolte in principio, ho cominciato a studiare il prodotto, che si ottiene unendo ad un peso molecolare di gomma elastica, calcolato in base alla formula semplice CioHis, sei pesi molecolari di nitrosobenzolo. Mescolando quest’ultimo, ben polverizzato, alla gomma elastica, fatta rigonfiare in un volume non grande di benzolo, esso sì sciolse dapprima col caratteristico color verde-smeraldo e con notevole raffreddamento. Il color del miscuglio passò poi successivamente al verde-bottiglia, al verde-bruno, al rosso-bruno: infine, in quelle condizioni di concentrazione, una parte del nuovo prodotto colorato in giallo-rosso rimase indisciolta come massa gelatinosa. (*) Zeitschrift fir phys. Chemie, XII, pag. 578. (*) L'ho identificato trasformandolo nella caratteristica anidride del nitrosito (cfr. Angeli, Gazzetta chim. italiana, anno 1892, II, pag. 336). Sig, Il liquido, pure giallo-rosso, separato per decantazione e diluito con eccesso di ligroina, dette dei fiocchetti amorfi di color giallo-ocra: la parte indisciolta, ripresa pure con ligroina, si trasformò in una massa friabile. che dette una polvere amorfa, di colore e di aspetto molto somigliante alla precedente. Ambedue le porzioni di prodotto si sciolgono abbastanza bene in cloro- formio, un po' meno in henzolo, pochissimo in solfuro di carbonio, ligroina ed etere solforico; sono insolubili in acqua; riscaldate in tubetto per p. f., si rammolliscono fra 135° e 140°, decomponendosi poi con vivace sviluppo gassoso. Due piccoli campioni delle due porzioni, lavati ripetutamente con sol- furo di carbonio ed ogni volta lasciati a lungo con esso, allo scopo di eli- minare il caucciù inalterato, vennero infine disciolti in cloroformio, ripreci- pitati con ligroina dalla soluzione filtrata, e ben seccati. All’analisi ambedue dettero numeri concordanti fra loro: e cioè C °/, 71,49 e 71,38, H°/ 6.46 e 6,44, ed N°/, 7,84 e 7,36; dimostrando che nella reazione aveva avuto origine un unico prodotto. Il calcolo in base a questi numeri condurrebbe ad una formula C;s He, N50, nella quale il numero di atomi di ossigeno è superiore quello degli atomi di azoto : questa percentuale di ossigeno (15 °/, circa) crebbe fino al 19°/, circa, bollendo a più riprese con etere solforico un poco del prodotto, già lavato col solfuro di carbonio (*). Il prodotto greggio, precipitato successivamente due volte con ligroina dalla soluzione cloroformica, all'analisi fornì numeri alquanto diversi dai soprascritti, e più vicini a quelli calcolati per la condensazione di una mo- lecola di gomma elastica con due molecole di nitrosobenzolo. Anche questo prodotto dall'azione del nitrosobenzolo sulla gomma ela- stica con permanganato potassico svolge nitrosobenzolo e odore di isonitrile, ma non sembra molto sensibile all’azione della luce. Per quanto questi primi resultati non appaiano fino da ora abbastanza si- gnificativi, ci riserbiamo di studiare sia i diversi prodotti che si ottengono variando le proporzioni dei composti reagenti, sia l'azione del nitrosobenzolo sulle diverse qualità di gomma elastica e sulla guttaperca, e di accertare se la reazione sia applicabile per la demolizione delle molecole della gomma elastica e la determinazione della sua struttura, nonchè per l'esame quali- tativo e quantitativo in genere di questi interessanti prodotti naturali. Pubblicherò prossimamente nella Gazzetta chimica italiana la descri- zione particolareggiata delle esperienze. che si riferiscono alla presente Nota. (1) Provai ciò, allo scopo di sciogliere i prodotti, che con nitrosobenzolo avessero formato le resine eventualmente presenti (cfr., in proposito, Harries, Sopra :l presente stato della chimica della gomma elastica. Gummi Zeitung, XXIV, 1910). Fisiologia. — Azione dell'intestino sugli aminoacidi. — Azione del rene sugli aminoacidi. Note del dott. C. Artom, presentate dal Socio L. LUCIANI. Queste Note saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Biologia vegetale. — .Su/a biologia fiorale del Pesco. Nota preventiva di C. CAMPBELL, presentata dal Socio R. PIROTTA. Si hanno nel pesco caratteristiche fiorali su cui, ch'io sappia, non sì è fermata completamente l’attenzione dei botanici, mentre offrono il maggiore interesse, sia dal lato biologico e dal sistematico, sia da quello agrario. Dal lato botanico non si ha che il cenno dato dal Darwin, sulla diversa grandezza dei fiori e sulla diversa colorazione dei petali, per quanto riguarda il fiore, perchè sul pesco, sulla sua origine e sulla sua affinità col pesco a buccia liscia, il Darwin, oltre numerose citazioni, fa le più interessanti con- siderazioni ('). Gli agronomi che sì sono occupati del Pesco, si sono limitati a distin- guere i diversi aggruppamenti delle gemme fiorali, a cui fu dato per molto tempo un diverso valore di fronte alla produzione, diverso valore che viene negato oggigiorno. Si hanno infatti nel pesco: gemme fiorali isolate; gemme fiorali abbinate. più raramente associate in numero maggiore; gemme fiorali accoppiate a gemma da legno; gemme fiorali abbinate. nel cui mezzo sì trova una gemma da legno; più raramente gruppi di gemme terminali — come nel mandorlo — accompagnate o meno da gemma da legno. Si ritenne, un tempo, che le gemme fruttifere del pesco fossero eselu- sivamente quelle accompagnate da gemma da legno, e più precisamente quelle abbinate accompagnate da gemma legnosa, credenza che permane tuttora tra i pratici di qualche regione. L'osservazione di frutticoltori, che gemme fruttifere isolate od abbi- nate, non accompagnate da gemma da legno, potevano dare egualmente ottima produzione, fece « priori negare la vecchia credenza. (*) Ch. Darwin, 7he variation of Animal and Plants under Domestication. London, 2 vol. (1868). ‘0use] tp eprururtay tuwmas 0 1[e}odrAoIq 0101] U09 qoww, g tOIOI] tp opeurutio) vuwas è Ie}odiduo] rIoy un) Mpowe wp Ca Nell’uno e nell'altro caso vennero a mancare rigorose ricerche ed espe- rienze, tenendo conto principalmente della varietà e delle condizioni di ambiente. Che la gemma da legno possa esercitare una benefica influenza, specie in terreni aridi, attirando la linfa bruta, niun dubbio, e per tale ragione sono più produttivi i rametti fruttiferi che terminano con gemma da legno anzichè da fiore; ma per dare un diverso valore od eguale a gemme accom- pagnate o meno da gemma legnosa, bisognava approfondire le superficiali osservazioni. Anzitutto, nel pesco bisogna distinguere due forme fiorali ben differen- ziate morfologicamente e biologicamente, distinzione non ancora rilevata, a quanto io sappia. In una forma i petali sono, come nel mandorlo, ben sviluppati e appa- riscenti, e la loro lunghezza supera quella degli stami. Un'altra forma ha petali brevi, la cui lunghezza non supera quasi mai della metà quella degli stami. Chiamerò, per distinguere le due forme, /ongipetala la prima, brevi- petala la seconda. Alle due forme corrisponde la ben nota divisione delle pesche in spic- caiole e duracine : e, precisamente, la forma longipetala è propria delle pesche spiccaiole; la brevipetala, delle duracine. Biologicamente, le due forme restano ancora distinte, in quanto lo svi- luppo del petalo ed il suo colorito, nelle spiccaiole, ha per effetto il ri- chiamo dei pronubi e quindi la impollinazione e la fecondazione incrociata; nelle duracine brevipetali l’azione dei pronubi è nulla od accidentale. La prova di tale osservazione si ha dalle piante che si ottengono per seme dalle due forme, in quantochè, mentre nella forma brevipetala, con la semina, si ottengono piante che quasi nella totalità mantengono immutati i caratteri proprî, nella forma longipetala dalla semina si hanno piante che difficil- mente riportano i caratteri della pianta madre. Tale distinzione fa ancora cadere la ipotesi che il pesco non sia che un mandorlo modificato dalla coltura, in quanto che, se tale affermazione può sostenersi per la forma longipetala, non può reggersi per la brevipetala, così ben differenziata dal mandorlo. È forse più logico di ritenere una ipotesi che sorge spontanea e che ricerche sperimentali potranno in seguito affermare o distruggere: e che cioè il pesco longipetalo sia un ibrido tra il mandorlo ed il pesco brevipetalo, dai col- tivatori conservato e selezionato. Tra la forma longipetala e quella brevipetala non è difficile di trovarne una intermedia, che, mentre ricorda nella struttura la brevipetala, ha petali più sviluppati, e la caratteristica, quasi sempre, del frutto duracino. ara SS Anche il colorito dei petali, come già aveva osservato il Darwin, è nelle due forme ben distinto. Mentre nella forma longipetala il petalo tende ad avere un colorito più intenso verso il centro, per divenire più sbiadito, quasi bianco o leggermente roseo alla periferia, nella forma brevipetala il petalo ha un colorito più intenso nel suo contorno, carattere che tende a conser- varsi nella forma intermedia. Ibrida deve ancora considerarsi, quasi certamente, la pesca a buccia liscia, forse con l’albicocco. Comunque sia, le due forme di pesco devono venire distintamente con- siderate, in quanto le differenze tra esse sono troppo sensibili perchè pos- sano ragionevolmente rimanere unite, sia sistematicamente, sia, e più, dal lato biologico; e perchè ricerche in questo senso potranno chiarire la tanto discussa origine del pesco coltivato. * * x Nei fiori brevipetali, quanto meno in quelli delle piante e varietà che ho avuto agio di potere studiare, non si hanno sensibili differenze negli stami e nel pistillo delle diverse gemme fiorali, e nei fiori delle diverse varietà o piante. Gli stami di varia lunghezza hanno le antère che vengono a trovarsi in parte sopra ed in parte sotto lo stimma: forma biologica che si dimostra la più propria alla impollinazione autogama, cosa del resto di- mostrata nel riprodursi, nelle piante da seme, dei caratteri delle piante madri. Non così uniformi sono invece ì fiori longipetali, dove si notano differenze da pianta a pianta, da varietà a varietà, e nei fiori della stessa pianta, per cui uno studio accurato delle singole varietà sarebbe utilissimo anche dal lato pratico, in quanto sì verrebbero a spiegare le cause della alternanza di produzione e la parziale infecondità, più o meno costante, di varietà o piante. Interessante è la presenza di fiori staminiferi, in cui manca qualsiasi traccia di pistillo, ed a cui sembra corrispondere un maggiore numero di stami, con un maggiore, per quanto appena sensibile, sviluppo delle antere. Tali fiori non hanno nella pianta una speciale disposizione, per quanto ten- dano a mostrarsi verso l'estremità del rametto fruttifero, trovandosi isolati od accompagnati da fiore non staminifero. Ho notato aggruppamenti di due gemme, in cui l’una era staminifera, e l'altra completa mediostila. Variazioni si hanno ancora nella lunghezza dello stilo, ciò che fa av- vicinare ancora più il pesco longipetalo al mandorlo, per quanto nelle piante domestiche coltivate non abbia potuto riscontrare quelle caratteristiche così ben definite che si hanno nel mandorlo, e che potranno aversi più palesi in piante inselvatichite. ano Le gemme aggruppate non presentano sempre gli stessi caratteri. Qualche volta una delle gemme è staminifera ; od ancora una a fiore longistilo, e l'altra a fiore brevistilo. In generale però le notate variazioni non sono molto frequenti, e la forma fiorale più comune è la mediostila, così da potersi ritenere che rap- presenti quella normale. Anche nel polline si notano differenze che vanno rilevate. Nei fiori brevipetali non si osservano differenze sensibili nella forma e germinabilità del polline, mentre differenze come nel mandorlo si hanno nei fiori longipetali. Come nel mandorlo, il polline, a forma più elittica, in solu- zione di saccarosio al 10 °/, in goccia pendente, si gonfia ma emette diffi- cilmente il tubetto pollinico, ed in proporzione sempre bassissima. Un polline prepotente sembra invece aversi nei fiori staminiferi. Questo, infatti, nelle stesse condizioni, dopo due ore inizia l'emissione del tubetto pollinico; e dopo sei, 1'85 °/, dei granuli pollincii è germinato, con un tubo pollinico che raggiunge una lunghezza circa 10 volte il diametro del granulo pollinico. Polline di fiori della stessa pianta, ma monoclini, germina, ma più lentamente — 6 ore circa — e l'accrescimento del tubo pollinico è proporzionatamente più lento. Dette ricerche sono state fatte suì fiori di un'unica pianta e varietà, e mi propongo di estenderle in seguito. Riesce, così, evidente come il valore del polline, anche in fiori di una medesima pianta, non sia eguale, per quanto sembri che differenze sensibili non esistano per fiori egualmente costituiti, o posti in aggruppamenti diversi sulla medesima pianta o sul medesimo ramo. Le ricerche sul polline devono in ogni caso essere precedute e comple- tate da quelle sul fiore, per stabilire la relativa importanza, in ogni varietà, di ogni singola forma del fiore, e per poterne definire il valore biologico. Interessanti ricerche sul polline — e che mì propongo di continuare — sono quelle della influenza che sulla germinabilità possono esercitare la luce diffusa, l'oscurità, o un maggiore o minore grado di intensità luminosa, in quanto si potrà forse spiegare l'influenza del fattore luce sopra una più o meno facile impollinazione e quindi allegagione, e venire così a spiegare nel processo fecondativo l'influenza delle esterne condizioni. I tessuti dell’ovario e dello stilo sono talora glabri, talora pubescenti; e tale caratteristica deve essere propria di determinate varietà, e il tenerla presente può essere di aiuto nell'identificare le varietà stesse. A tale pro- posito devo notare come le mie osservazioni non sieno state fatte sopra la pesca a buccia liscia, dove la caratteristica di ovario o stilo glabro deve essere costante. * x x Non mancano ancora nel pesco fiori anormali, su cui spero potere in seguito seguire l'andamento. DS, ORE Nel pesco longipetalo ho trovato fiori con due ovarî distinti e separati, stilo e stimma ben conformati e di eguale lunghezza. In un fiore, tre ovarî nelle identiche condizioni, ma due laterali a stilo lungo e uno mediano a stilo breve. Una anomalia più comune è quella di due stili che sembrano nascere da un unico ovario, mentre nascono da due ovarî più o meno congiunti tra loro, che dànno poi luogo a frutti gemelli, come gli ovarî. da cui hanno avuto origine, più o meno saldati tra loro. Una tale anomalia è abbastanza comune anche nel Pesco brevipetalo. Fra i numerosissimi fiori osservati, uno solo ho trovato con l'aborto del pistillo. Da tali cenni sommarî e preventivi. parmi risalti evidente l' importanza della premessa: Lo studio delle varietà coltivate, tenendole, distinte secondo la conformazione del fiore, in brevipetali e longipetali, considerando a parte le forme evidentemente ibride, sia per l'interesse sistematico-botanico ed agrario, sia per quello biologico. Mineralogia. — Lo zolfo dell'antimonite alterata di Selva presso Casal di Pari (Grosseto) (*). Nota di E. QUERCIGH, presen- tata dal Socio G. STRUEVER. Lo studio dei cristallini di zolfo originati dall'alterazione di solfuri metallici come la galena, la blenda, l’antimonite, ecc., si è dimostrato sempre particolarmente interessante per la ricchezza di forme che essi generalmente presentano: ed anche in Italia se n'ebbero begli esempî nello zolfo prodotto dall'alterazione della stibina delle Cetine di Cotorniano (Siena), nel quale il Pelloux (*) rinvenne 18 forme, e meglio in quello trovato, accanto ad anglesite. sulla galena blendosa di Malfidano presso Buggerru dal Millosevich (*), nel quale egli rinvenne ben 27 forme, delle quali tre nuove per lo zolfo. Perciò mi parve utile lo studio di alcuni cristalli provenienti da un'altra località italiana. la miniera di Selva, presso Casal di Pari (Grosseto), ove lo zolfo trovasi come prodotto d'alterazione dell’antimonite, ed accettai con piacere alcuni campioncini che il prof. Zambonini a tale scopo mi offerse, e dei quali mi è grato ringraziarlo di nuovo sentitamente. (') Lavoro eseguito nell'Istituto di mineralogia della R. Università di Torino, di- retto dal prof. Ferruccio Zambonini. (*) A. Pelloux, Appunti sopra alcuni minerali delle Cetine di Cotorniano presso Fosia. Rend. Acc. Lincei X (1901), II, 12. (*) F. Millosevich, Zolfo ed altri minerali della miniera di Malfidano presso Bug- gerru. Rend. Acc. Lincei VII (1898), II, 250, ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 10 Lo zolfo, che ricopre spesso i cristalli di antimonite alterata di Selva, o si trova nelle cavità lasciate dai diversi gruppi di cristalli, come già ebbe ad osservare il De Angelis d'Ossat (') al quale si deve un interessante de- scrizione del giacimento, si presenta generalmente in nitidi cristallini di color giallo citrino, abbastanza ricchi di facce; essi talvolta raggiungono, secondo il De Angelis d'Ossat, anche i tre mm. nella massima dimensione, mentre quelli da me visti non sorpassano mm. 1.5, ma, per la bellezza delle loro facce, si prestano molto bene alle misure. In essi mi fu possibile identificare le seguenti forme: a {100}; 4 j010}; ce {001} m }110} co }117}; # {115}; 0 {114}; s {113}; %]}112}; p}l11}; 7331} 3315}; 1811 q}131}; << {133}; << {135} n 3011}; v {013} e }101}; w }103. A queste venti forme va aggiunta, come incertamente determinata, la w }119}, riscontrata una sola volta, ma in condizioni sfavorevoli per avere una buona misura. I cristalli esaminati presentano talvolta un aspetto globulare, ma più di frequente sono più o meno tabulari secondo la base: alcuni sì riducono a tavolette abbastanza sottili. Nei cristallini completamente misurati, le forme suddette si riscontrano sempre, ad eccezione di w e di z che talvolta mancano; w fu osservata con una faccettina così sottile che la determinazione non può essere sicura. Nella zona [0017110] le forme più sviluppate sono costantemente p}111}, y {331} e 7 {110}; le altre hanno grandezza variabile. Notevole è il fatto che # {115} talvolta è grande quanto p; delle restanti forme: {100} è spesso abbastanza grande; }010} è ora molto sviluppata, ora, invece, pic- colissima; {101} si presenta frequentemente grande; }103{ è, al contrario, sempre pochissimo estesa; j011} è sempre piccolina, e }013f lo è ancora maggiormente. Costantemente con faccie grandicelle si presenta }311}; molto subordinata è invece j315{; caratteristico è il grande sviluppo che in tutti i cristalli ha }131{, mentre le altre forme della zona [0017181] sono, in generale, piccole. Questi cristalli di zolfo di Selva sono quasi sempre conformati molto irregolarmente; in modo da avere in generale un aspetto spiccatamente asim- metrico. (1) G. De Angelis d’Ossat, Appunti sopra alcuni minerali di Casal di Pari. Rend. Acc. Lincei XI (1902), I, 551. Si aes Parecchie forme presentano in essi una parte soltanto delle loro faccie. La fig. 1 rappresenta uno di tali cristalli ridotto a modello: Esso presenta la combinazione delle seguenti forme: 4. d, c. m. w. £. s, y, DER Nella fig. 2 è effigiato analogamente un cristallo di Xabitus diverso e | che presenta la combinazione di tutte forme rinvenute per questa località: Nella seguente tabella I sono raccolti gli angoli misurati, in confronto a quelli calcolati in base alle costanti di Kokscharow; l'accordo, come si vede, è assai soddisfacente. TABELLA I. o È Valori calcolati ANGOLI 5° LIMITI OSSERVATI MEDIE gr DIFFERENZE ® Kokscharow (001) :(119)? 1 = 20° circa 18°32° (001): (117) 1 —_ 23020” 23 19 1 (001): (115) 8 30°55/-31°16" 81 4 dl (60/ 2 1/a (001): (114) SA 36 55 -37 17 37.7 37” 5) (001): (113) h) 45 5-45 17 45 11 45 10 Il (001): (112) 8 56 21 -56 32 562D4/1 56 27 1/a 2 (001): (111) 8 7136 -71 48 71 39 3/4 7140 0/2 (001): (331) Ti 83 36 -83 45 83 41 83 42 Di (001) : (110) 4 89 57-90 1 89 59 90 0 1 (COND YE:(GRAD) 3 36 40 -36 42 — 8641 96 40 1 (111): (331) 3 12 2-12 5 12 3 12 2 nl (001): (315) 4 55 29 -55 39 55 80 !/, 55 80 065/ (001): (311) 5 82 1-82 9 82 41/, 8210 5 !/a (315): (811) 1 —_ 26 40 26 40 0 (001): (101) 7 66 42 -66 56 66 51 66 52 il (001) : (103) 2 88 7-37 49 37 58 37 58 0 (101): (101) 2 46 16 -46 19 46 17 1/a 46 16 TR (001): (100) 1 — 90 01/, 90 0 0 1/s (001): (131) 12 80 40 -80 55 80 47 1/, 80 47 2/4 0 1/4 (131) :(131) 4 18 22-18 32 18 23 18 25 2 (001): (133) 4 64 1-64 6 64 4 64 41/, OE (001) : (135) 2 61 2-51 4 51 83 50 59 5) (001): (011) 3 62 17 -62 26 62 21 62 17 4 (001) : (018) 2 32 28 -32 33 32 30 1/a 92.294, 7 (011): (011) 1 — 55 28 1/s 55 26 PA (011): (013) 1 _ 29 58 29 53 1/2 0 !/a Come si vede, lo zolfo che accompagna l'antimonite di Selva assomiglia molto. per la ricchezza di forme, oltre a quelli ricordati della galena di Malfidano e dell’antimonite di Cetine, ad altri cristalli provenienti pure dall’alterazione di solfuri metallici, come ad esempio a quelli che si rin- Lig ge vengono nelle cavità della galena di Bassick (Stati Uniti), nei quali il Busz (?) rinvenne le forme a dbenveumydpfygstywrqas. Notevole è il fatto che lo zolfo proveniente dalla scomposizione di detti solfuri fu, in generale, poco studiato, nonostante che abbia dato alle volte buoni risultati col rinvenimento di forme nuove per la specie, come le }305]. 4 }155}, w}319} e la yx}122}. Cristalli formatisi dall'antimonite alterata furono descritti — oltre che dal Pelloux, per quanto riguarda il giacimento di Cetine — dal Foullon (?), prove- nienti da Allchar presso Rozdan (Macedonia), e da Pelikan (*). provenienti da località non ben precisata della stessa Macedonia, ma che con tutta pro- babilità è la stessa dei cristalli di Foullon; poi da Eakle (‘) per un cam- pione del Museo di Monaco di cui non potè conoscere la provenienza; ed ultimamente da Simek (*), per la località di Kostajnik in Serbia. Non credo privo d'interesse il riportare nella seguente tabella II il riassunto delle forme trovate finore in cristalli di tale origine, allo scopo di metterne senz'altro in evidenza le analogie: (!) K. Busz, Schwefel von Bassick. Zeitschr. f. Kryst 1/7 (1890), 549. (°) Foullon, Verh. geol. Reichsanst 40 (1890), 318; 42 (1892), 175: in C Hintze, Handbuch d. Mineralchemie 1 (1898), 85. (*) Pelikan, Schwefel von Allchar in Macedonien. Tschermak Mitt. N XII (1891), 344, (4) A. S. Eakle, Sekundare M'ineralbildungen auf Antimonit. Zeitschr. f. Krist. 24 (1895), 586. (5) A. Simek, Veber den Schwefel von Kostajnik in Serbien. Rozpravy bòm. Akad. Prag (1908), Ref. Zeitschr. f. Kryst. 50 (1912) 639. ra TABELLA II. Forme dello zolfo proveniente da antimonite alterata. ='r_—r—r—_ ——__ ______ww.éiWtt—oc_rrrrcrc cli SERBIA MACEDONIA . ; ITALIA KOosTAJNIK ALLCHAR ALLCHAR? | (Esklo) CETINE SELVA (Simek) (Foullon) (Pelikan) (Pelloux) (Quercigh) a {100} a a a a a d {010} 7) b db d b c {001} c 6 c c c m {110} m m m m m n |011} n n n n n v }013} v v 0) v O e {101} e e e e e u {103} 0) 0) 07 D7 u w {119} y w "# v y? w |117} = ‘ - _ (0) t {116} == = - — 3 lA {115} È È - É É È o {114} = — 0 0 0 s {113} $ 8 s s 8 y {112} Y Y y y Y p_{111} p P p p p f {885} - — - — _ d {221} — d —_ _ = 7 {331} y y o y ;% e {551} _ - — _ _ r {321} = r —_ — r a {313} = 0) = = = 8 {315} _ _ = n B q {131} q q q q Q x {133} d % EA x LA z {135} Li 4 2 3 2 x {122] = x 2 n “i TOTALE... 27 17 22 16 18 21 Noterò che tali cristalli sono in generale piccoli (1-3 mm.); hanno habitus molto vario, presentandosi essi, talvolta anche nel medesimo giaci- mento, con aspetto globulare o cilindrico in alcuni individui, bisfenoidico, piramidale oppure tabulare in altri; per conseguenza varia in essi, entro certi rg limiti. l’enstensione relativa delle diverse forme, che sono però sempre nume- rose in ogni cristallo. In quanto allo sviluppo delle varie forme. va notato che in generale predomina, come in quelli di Selva, la zona delle bipiramidi }M 4 /{, tra le quali p {111} possiede la maggiore estensione: seguono poi s}113} e y {331}. Pure in generale, abbastanza estesa è g}131}, che compare in tutti i giaci- menti insieme con x }133} e 2}135{ le quali sono in generale più piccole, tranne che a Kostajnik, ove Simek riscontrò un discreto equilibrio fra queste tre forme. Si riscontrò costantemente la presenza dei tre pinacoidi 4,2,e; fra i prismi }X XK o} compare sempre soltanto wm }110}. Come forme rare per lo zolfo proveniente dall'alterazione dell’antimo- nite si possono considerare le 7 }116} ed {551}, rinvenute solo nei cristalli di Kostajnik, che sono i più ricchi di facce. Rara invece per lo zolfo, in generale, è la x }122{, trovata per la prima volta da Pelikan nei cristalli della Macedonia e confermata in seguito da Simek su quelli di Kostajnik. PERSONALE ACCADEMICO Il PRESIDENTE dà il triste annuncio della morte del Corrispondente prof. ApoLcro VENTURI, mancato ai vivi il 28 dicembre 1914; apparteneva il defunto all'Accademia per la Meccanica, sino dal 13 luglio 1902. PRESENTAZIONE DI LIBRI L'Accademico Segretario MiLLosevicH presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle del Socio TARAMELLI; dei Corrispondenti DI STE- FANO, PascaL e SiLvestRI; del Socio straniero GoEBEL, e dei signori De ANGELIS D'OssaT e VILLANI. Il Corrisp. REINA fa omaggio, a nome della Società italiana pel pro- gresso delle scienze, del primo fascicolo del Bollettino del Comitato glacio- logico italiano, che si pubblica sotto gli auspicî della Società predetta e del Club alpino italiano; e dà notizia degli scopi che il Comitato si propone, e dei lavori che nel fascicolo testè apparso sono contenuti. Il Presidente BLASERNA presenta l’'Annuario accademico pel 1915. SIR (pate CONCORSI A PREMI Il Segretario MiLLosEvicH comunica il seguente: Elenco dei concorrenti al premio Reale per l'Astronomia. (Scadenza 31 dicembre 1914. — Premio L. 10.000). 1. ArmeLLINI LurGi « Le Comete-Larva » (st... — 2. PoRCARI GABRIELE « Genesi, natura, previsione e cronologia dei terremoti ecc. » (ms.). 3. Viaro BortoLo « Posizioni medie per il 1900.0 di 1645 stelle ecc. » (st.). Lo stesso SEGRETARIO annuncia che al premio Carp? scaduto col 31 di- cembre 1914, si è presentato il dottor: Zappa GIOVANNI « Studio di un nuovo metodo per la determinazione della latitudine » (ms.). PE [pere OPERE PERVENUTE IN DONO ALL’ ACCADEMIA presentate nella seduta del 3 gennaio 1915. BortIno-Barzizza G. — Sui limiti nord e sud di una eclisse di sole. (Estr. dai « Rendic. del R. Istituto lombardo di scienze e lettere ». vol. XLVII). Pavia, 1914. 8°. De AneeLIs D'Ossat G. — Applicazioni della geologia XIII-XVIII. (Estr. dalla « Rivista di ingegneria sanitaria », vol. X). Torino, 1914. 4°. IvaLpi G. — Le leggi della natura. Parte I-VIII. Sampierdarena, 1914. 8°. LeBon E. — Théorie des nombres. Sur une nouvelle table de diviseurs des nom- bres. (Extr. d. « Comptes rendus de l’Acad. des sciences »; t. 159). Paris, 1914. 8°, Lonco B. — Delectus sporarum-seminum- fructuum anno MCMXIV collectorum quae Hortus botanicus senensis pro mutua commutatione offert. Semy, 1914, Bo, Longo B. — Note di morfologia floreale (tav. VI). (Estr. dagli « Annali di bo- tanica», vol. XIII). Roma, 1914. 8°. Longo B. — Variazione di gemma in una Quercia (tav. V). (Estr. dagli « Annali di botanica», vol. XIII). Roma, 1914. 8°. PascaL E. — Determinanti a scala, (Estr. dal « Rendic. della R. Accad. delle scienze fis. e mat. di Napoli », vol. XX). Napoli, 1914. 8°. PascaL N. — Su di una classe di deter- minanti. (Estr. dal « Rendic, della R. Accad. delle scienze fis. e mat. di Napoli », vol. XX). Napoli, 1914. 8°. Silvestri F. — Viaggio in Eritrea per cercare parassiti della mosca delle olive. (Estr. dal « Bollettino del labo- ratorio di Zoologia gener. e agraria di Portici », vol. IX). Portici, 1914, BUI SPEGAZZINI C. — Primo contributo alla co- noscenza delle Laboulbeniali italiane. (Estr. dal « Redia », vol. X). Firenze, 1914, 8°. Sterilizzazione (la) con l’Ozono delle acque del R. Arsenale militare marittimo di Spezia (Ministero della Marina). Roma, 1914. 8° TARAMELLI T. -—- Appunti per la storia geologica del Lago di Varese. (Estr. dai « Rendie. del R. Istituto lomb. di scienze e lett. », vol. XLVII). Pavia, NO1A4AN80) VinLani N. — L’equazione di Fermat X” + Y®=Z" con dimostrazione gene- rale. Lanciano, 1914, 8°, RenpICcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem, 10 PERSONALE ACCADEMICO .Blaserna (Presidente). Da annuncio della morte del Corrisp. prof. Adolfo Venturi . . Pag, PRESENTAZIONE DI LIBRI Millosevich (Segretario). Presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle dei Socî Taramelli, Di Stefano, Pascal, Silvestri e Goebel; e dei signori De Angelis d’Ussat euillani at 5 ACCIAIO COVERI ia N SOA Sei VESTO ERI, Reina. Fa omaggio di una O e ne a ta ARIA MAI AE ARIA AAA Blaserna (Presidente). Presenta l’Annuario accademico pel 1915. ET INI NA, Pra eco AOGIERI I CONCORSI A PREMI Maillosevich (Segretario). Comunica l'elenco dei concorrenti al premio Reale per l’Astronomia csalipremioylarpgiscadutLali S.ldicambre: DONA e E A e WBULLETTINO BIBLIOGRAFICO. ..\. 0.0... .. SO Ve ANI NEREUN SPOT Iii COM a RETI Co RATTI 79 80 81 RENDICONTI — Gennaio 1915. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 3 gennaio 1915. MEMORIE E NOTE Di SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Bianchi, Sopra una proprietà caratteristica delle congruenze rettilinee di rotolamento Pag. Ricco. Eclisse totale di sole, del 21 agosto 1914 (*) L20000. +4 Ciamician e Silber. Azioni chimiche della luce . . . ‘ AR) Cardani. Emissione ed assorbimento del gas residuo nei Do del Rontgen, sa emissione dei LAGPICA(*)e ERRE AS Millosevich F. Su alcune rocce SITA Terra del Fuoto I, ca. etutllivo. SPO SAI, Bottazzi. Nuove ricerche sui muscoli striati e lisci di animali omeotermi. Nota III Part. 22): La fatica studiata nel preparato frenico-diaframmatico. . . PAIA tt) Bottasso. Sistemi astatici equivalenti a due forze astaticamente irriducibili (pres. dal Corrisp. Marcolongo). . . . .* Rat, Cisotti. Nuovi tipi di onde Delicuicne Ae e SS) È dal SH Levi Gino (A) Fubini. Sulla definizione di arco di una curva e dell’integrale di Weierstrass, che si presenta nel calcolo delle variazioni (pres. dal Corrisp. Zedone) (*) Li...» Artom A. Nuove ricerche sulla dirigibilità delle onde elettriche (pres. dal Socio Blaserza) » De Filippi. Quarta relazione della spedizione scientifica nel Karakoram orientale (*) .,. » Palazzo. La distribuzione della forza magnetica terrestre nella media Eritrea (pres. dal Socio Millosevich). . . . AIR i LEN UPSEALAA Clementi. Introduzione del «n Siatnico Lola Diviene “i o, e sua impor- tanza fisiologica (pres. dal Socio Luciani) . . È ; LIO SR RAI] Lombroso, Sul metabolismo degli aminoacidi DO; I. oe del tessuto nia sugli aminoacidi aggiunti al sangue circolante (pres. PO ES e E, Alessandri. Nuove ricerche intorno all’azione dei nitrosoderivati sui composti non saturi (pres. dal Socio Angeli). . . . GREENE Ba È DS o Artom C. Azione dell’intestino Li ATA —_ Nuti. del rene Loi SER, (pres. dal Socio Luciani) (È) . . . + ir e e o, Campbell. Sulla biologia fiorale del pesco (De dal Socio Pirati) ESSTAE Met: so Quercigh. Lo zolfo dell’antimonite alterata di Selva, presso Casal di Pari (cu fs dal MOCIONSIPUODET) ANA SA SARA A ee nt 1 IO I ERI 73. Segue în terza pagina. (*) Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. ° Pubblicazione bimensile. —Roma 30 gennaio 1915. N. 2. AGII DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CCCXII. 1915 SHEVTH QUINTA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 17 gennaio 1945. Volume XXIV°. — Fascicolo 2° 1° SEMESTRE. TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL DOTT. PIO BEFANI 1915 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti: 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; ‘essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota ‘per iscritto. S II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indiì- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz'altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe, 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all'autore. - d) Colla semplice pro posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. i 8. Nei primi tre casi, previsti dall'art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esama è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'.st. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50se estranei. La ‘spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori, RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. ESS Seduta del 17 gennaio 1915. P. BLASERNA, Presidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Astronomia. — £Eelisse totale di sole, del 21 agosto 1914. Relazione preliminare del Socio A. Riccò, per la missione italiana in Crimea. Di grande importanza per gli studii solari era certamente l’eclisse to- tale di sole del 1914; e gli osservatorii e gli astronomi delle varie nazioni sì erano preparati da lunga pezza all'osservazione del fenomeno. Infatti, al Congresso tenutosi a Bonn nel luglio-agosto 1913 dalla International Union for solar Research, erano state annunziate circa venti missioni per lo studio dell’eclisse, che si presentava in condizione favorevole per la stagione e fa- cilmente accessibile, specialmente agli europei; poichè la zona percorsa dall’ombra della luna andava dall'estrema America settentrionale, attraver- sava l'Atlantico, la penisola Scandinava, la Russia da Riga a Teodosia (Crimea), il mar Nero, l'Asia minore, e andava a finire nell'India inglese: la zona dell'ombra, ossia della totalità, era larga circa 180 km. Si aveva dunque in Europa un esteso e comodo spazio per l'osservazione. L'interesse per lo studio di quest’eclisse era aumentato dal fatto che, in Europa, più non si avrà alcun eclisse totale di sole sino al 1927, ed anche allora sarà visibile soltanto nella parte più settentrionale dell'Europa, ove il clima è poco favorevole; nel 1919 ve ne sarà uno visibile nell'Africa occidentale e nell'America meridionale. Soltanto nel 1961 vi sarà un eclisse totale, visibile in Italia. ReENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 11 Ma l’eclisse totale del 1914 aveva una durata breve, al massimo di 2% 14° tra Vilna e Minsk. Per la maggiore probabilità di buon tempo era indicata Teodosia, dove la media dell'annuvolamento in agosto è solamente del 24 °/,; perciò, quantunque ivi la durata fosse soltanto di 2" 85, pure quivi era la maggiore affluenza degli astronomi. Infatti vi erano due mis- sioni francesi, una inglese, una argentina, quattro russe, una spagnuola ed una italiana. Missione italiana. — La nostra missione scelse dunque come stazione Teodosia, per la detta probabilità di bel tempo, ed anche perchè essendovi linee di navigazione italiane che vanno dall'Italia ad Odessa, il viaggio po- teva farsi per mare dall'Italia a Teodosia, con un solo trasbordo ad Odessa, dalla nave italiana ad una russa: il che era molto importante, non solo dal punto di vista dell'economia, ma ancora dell’integrità dei numerosi, importanti e delicati strumenti che si intendeva di trasportare. La detta spedizione italiana — che il Ministero della istruzione pubblica, accogliendo benevolmente la proposta dello scrivente, validamente appoggiata dal sen. prof. V. Volterra e dal prof. E. Millosevich, direttore dell'Osservatorio al Collegio Romano, inviava per l'eclisse— originariamente era formata da Riccò, e dal signor Luigi Taffara (già assistente all'Osservatorio di Catania, attual- mente incaricato all'Osservatorio al Collegio Romano e compilatore all'Ufficio centrale di meteorologia e geodinamica) come assistente fotografo. Poi ad essa sì associò il prof. L. Palazzo, direttore del R. Ufficio centrale di meteorologia e geodinamica, il quale, dovendo recarsi a Pietrogrado circa all’epoca dell’eclisse, per la riunione dell’Associazione internazionale sismologica, come delegato dell’Italia, aveva opportunamente pensato di approfittare del viaggio in Russia per farvi anche osservazioni e studii circa l'influenza dell’eclisse sui fenomeni meteorici e magnetici della terra, come aveva fatto nel 1905 a Tripoli. Inoltre il prof. G. Mengarini (che aveva già osservato l’eclisse del 1905 in Spagna), pure desiderò di fare parte della missione, a sue spese. assieme alla figlia, signorina Fausta, come assistente, ed alla signorina. C. Modigliani, pittrice; col proposito di studiare direttamente, e colla foto- grafia autocromica, le interessanti colorazioni dell'eclisse. S, E. il contram- miraglio E. Millo, allora Ministro della marina, accogliendo con illumi- nata benevolenza la domanda di Riccò, aveva concesso che la regia nave « Ar- chimede », stazionaria a Costantinopoli, si recasse a Teodosia per partecipare, col personale di bordo, ai lavori della missione italiana. Programma. — Così, senza aumento di spesa per lo Stato, la missione italiana era accresciuta, ed il suo programma veniva allargato, comprendendo osservazioni visuali dirette e spettroscopiche della cromosfera e delle pro- tuberanze (Riccò); fotografie spettrali della cromosfera, delle protuberanze, dello strato invertente (Taffara); disegni e fotografie monocromatiche ed a luce completa, della corona (F. Mengarini); fotografie autocromiche del- = gp — l’eclisse totale (G. Mengarini); quadro dell'eclisse a colori (C. Modigliani); osservazioni meteorologiche e magnetiche complete, dirette, e registrate prima, durante e dopo l’eclisse (L. Palazzo). Strumenti. — Gli strumenti che la missione portava con sè, erano: un equatoriale CooXe di 223 cm. lunghezza focale e 15 cm apertura, munito di spettroscopio Zezss; un equatoriale Frannhofer di 300 cm. lunghezza focale e 18 cm. apertura (gentilmente prestato dal prof. A. Bemporad, direttore del R. Os- servatorio di Capodimonte), cui si era applicata alla estremità oculare una camera Reflex Mentor; i una quadraplice camera, 0 coronagrafo, con quattro obbiettivi di 200 cm. lunghezza focale e 8 cm. apertura (cortesemente prestata dal pro- fessor Mengarini), munita davanti allo c/hdssis, per un compartimento, di un filtro di luce rossa presso la riga C, e di un filtro di luce verde presso la riga coronale per un altro compartimento; al terzo compartimento si appli- cava una lastra sensibile ai raggi più rifrangibili; al quarto una lastra pancromatica. Questo coronagrafo era pure montato parallatticamente, e for- nito di motore e regolatore gentilmente prestati dal prof. Millosevich; una camera prismatica di 126 cm. lunghezza focale e 10 !/, cm. apertura, con prisma di /lir/ pesante, coll'angolo rifrangente di 20°. Questa camera era montata (come per l’eclisse del 1905) sul manicotto dell'asse di declinazione del Coofe, mediante apposita sella con cui la camera sì po- teva dirigere e fissare a declinazioni varie; un equatoriale Steinheîl portatile, con lunghezza focale 124 cm., apertura 8 cm., coll’oculare d’ingrandimento 40, cui era stato applicato un congegno col quale si poteva portare davanti all'oculare sia un oscuratore graduato, sia uno spettroscopio oculare A40de, mentre una fessura andava a collocarsi nel fuoco anteriore dell’oculare; un cannocchiale terrestre Watson, di 120 cm. di lunghezza focale, e 8 cm. di apertura, fornito dal prof. Mengarini; un cronografo fotografico costruito dal prof. Mengarini, composto di un apparecchio atto ad impressionare « films » cinematografiche, innanzi al cui obbiettivo erano disposti un cronometro a secondi e due lampadine elettriche. Chiudendo un contatto elettrico, le lampadine davano un lampo brevissimo, la pellicola fotografava la posizione degli indici del cronometro e, cessato il lampo, si spostava, pronta per una nuova impressione. In questo modo, chiudendo un contatto elettrico, ciò che avveniva automaticamente mediante lo scatto dell’otturatore fotografico, si poteva ottenere la esatta riproduzione dei tempi. Disgraziatamente, dopo la prima registrazione, l'oro- logio che spostava la pellicola si incantò e fu dovuto rimettere in moto brusca- mente, sicchè le successive registrazioni non riuscirono sicure. ide una serie completa di strumenti meteorologici per le osservazioni e le registrazioni della pressione, della temperatura dell'aria e del suolo, e del- l'umidità; il pireliometro di Angstròm per la radiazione solare; l'elettro- metro di Wulf per lo studio della radiazione penetrante; i variometri con l'apparecchio a registrazione fotografica per la declinazione, la forza verticale e la forza orizzontale magnetica; il magnetometro e l'inclinometro per l’os- servazione diretta degli elementi magnetici. Inoltre, parecchie camere fotografiche e strumenti accessorii. Viaggio. — Questi strumenti in 26 casse, del peso complessivo di circa tre tonnellate, furono riuniti tutti in Catania, donde con esse partirono, il 28 luglio, Riccò, Palazzo e Taffara sul piroscafo Porto di Smirne della Società marittima italiana; il quale, toccando Siracusa, la Canea, il Pireo, Chio, Smirne, Costantinopoli, li portava ad Odessa, ove giungeva il 7 agosto; e là, il giorno 8 si imbarcavano sul piroscafo russo ZLazarew, col quale arrivavano il giorno 10 a Teodosia. Il prof. Mengarini con le sue compagne si era imbarcato a Brindisi, ed aveva raggiunto la missione a Costantinopoli, viaggiando con la linea diretta. Stazione a Teodosia. — Per il cortese interessamento del viceconsole d'Italia in Teodosia, signor F. Durante, e del signor T. Rinesi, addetto al Consolato medesimo, la missione ebbe presso Teodosia, circa a due km. ad ovest della città, una villetta per alloggiare, l’attiguo giardino per impian- tarvi gli strumenti astronomici e meteorologici, una stanza per la fotografia, una stanza per gli strumenti magnetici registratori. Preparativi. — Veramente, negli undici giorni che precedettero l'eclisse la stagione non si mostrò propizia: all'arrivo vi fu una pioggia torrenziale, ed un’altra al giorno 17 agosto, e frequentemente si ebbero nubi e venti forti; ma si ebbero anche frequenti periodi di cielo purissimo e di straor- dinaria trasparenza, cosicchè si potè presto costruire una grande baracca in legno e tela, ed i pilastriin muratura per gli strumenti principali e mon- tare questi; ed il 18 Riccò potè cominciare con l’equatoriale Coo/e le 08- servazioni spettroscopiche quotidiane delle protuberanze solari, mentre si continuava la collocazione e la rettifica degli altri apparati, con osserva- zioni astronomiche e fotografiche. Col 16 agosto il prof. Palazzo aveva terminato di mettere in ordine il magnetografo, il quale cominciò a registrare regolarmente dal giorno sud- detto, sino a tutto il 28 agosto. Alla vigilia dell'eclisse, tutti gli strumenti erano pronti e si potè fare la prova generale in dianco di tutte le operazioni da eseguire per l’eclisse. Il sig. T. Rinesi assunse di rontare i secondi a voce alta, seguendo le bat- tute di un metronomo. Al mattino del 21 il cielo era sereno: Riccò osservò le protuberanze, che erano bellissime, ma poche. 2 E Si fecero gli ultimi preparativi con grandi speranze. Però verso mezzodì cominciarono a comparire nubi che si fecero sempre più dense ed oscure. La missione era pronta, ma in grande angoscia. Si decise di svolgere egual- mente il nostro programma, anche malgrado le nubi. Fortunatamente, pochi minuti prima della totalità, cioè a circa 3" 19" di tempo locale, 0° 58" di tempo medio di Greenwich, nelle nubi oscure si formò uno squarcio di cielo puro, e le osservazioni poterono compiersi secondo il programma; pochi secondi dopo la fine della totalità tornarono le nubi. Dopo l’eclisse. — Nei giorni seguenti, aspettando il piroscafo italiano che da Odessa avrebbe ricondotto in Italia la missione, il signor Taffara sviluppò accuratamente le fotogratie, si smontarono e si imballarono gli stru- menti che più non servivano, e si continuarono ancora per alcuni giorni le osservazioni spettroscopiche delle protuberanze e le osservazioni meteorolo- giche, attinometriche e magnetiche; si visitò la città, i suoi istituti e monu- menti, di cui parecchi della dominazione genovese. Verso la mezzanotte del 30 la missione s'imbarcò sul piroscafo russo « principessa Eugenia Oldemburg », che il primo settembre al mattino arrivò ad Odessa; ed alla sera la missione ripartì col piroscafo « Favignana » della marittima italiana che con lo stesso itinerario, come per l'andata, ma con alcune peripezie, la riportò in Italia. Il compito della missione è stato facilitato e reso gradevole dai molti aiuti, informazioni, cortesie, che ha ricevute: dal R. Console generale d’Italia ad Odessa cav. uff. G. Rosset e dal viceconsole cav. S. G. Cozzio, dal Con- sole di Teodosia sig. F. Durante e dall’addetto al consolato sig. T. Rinesi, dal Direttore dell'Osservatorio meteorologico centrale per la Crimea prof. Saran- dinaki, dal principe Léon Galitzine, dalla « Compagnie de navigation è vapeur et de commerce » di Odessa, dalla Società marittima italiana, dalla Società di servizii marittimi. A tutti la missione professa viva riconoscenza. Le condizioni politiche non hanno permesso alla regia nave « Archimede » di recarsi a Teodosia, ed al personale di bordo di prendere parte ai lavori della missione: ma questa è pur sempre grata a S. E. Millo della buona intenzione di aiutarla. Risultati. — Le osservazioni spettroscopiche fatte a Teodosia da Riccò dal 13 al 23 agosto (eccettuato il 17, per cattivo tempo) dimostrarono che il fenomeno delle protuberanze solari era in decrescimento di numero e di grandezza, talchè al 23 non ve n’era più che una piccolissima; al mattine dell'eclisse, cioè del 21, ve ne erano soltanto tre, di cui una alta 69”, cioè 7/100 del raggio solare, ma assai debole, una mediocre ed un’altra piccolissima. Nell'osservazione diretta delle protuberanze con lo Steinheil durante la totalità, cioè nel pomeriggio, Riccò ha osservato una protuberanza rosea traente un poco al violetto, complessa, grande, delicata, corrispondente per posizione alla maggiore osservata prima con lo spettroscopio; ma la protu- i ggita beranza durante la totalità, quantunque ancora debole, fu stimata alta quasi tre volte di quanto si era vista con lo spettroscopio. Anche la protuberanza mediocre nella osservazione spettroscopica, era più grande nella diretta, circa nella stessa proporzione, ed era di color roseo e di forma molto diversa; inoltre Riccò ha osservato direttamente un'altra protuberanza, o meglio un gruppo di fiamme diritte, lucidissime, di color roseo chiaro, le quali non avevano corrispondenza nell’osservazione spettrosco- pica del mattino. Certamente queste fiamme si sono formate dopo l’osserva- zione spettroscopica; e così pure le differenze di forma nelle protuberanze delle due sorta d’osservazioni, certamente dipendono da variazioni intervenute nel tempo scorso fra esse osservazioni. Anche nelle fotografie della prismatie camera, prese dal sig. Taffara, ed in quella della quadruplice camera, prese dalla signorina Mengarini, le protuberanze sono più grandi e più numerose che nella osservazione spettroscopica. Anche il prof. Mengarini colla visione a mezzo del cercatore del Fraunhofer le ha segnate in uno schizzo, fissato subito dopo l’eclisse, di dimensioni assai maggiori rispetto al raggio solare. In una delle dette fotografie, fatte colla camera prismatica prima della totalità, quando la fotosfera visibile era ridotta ad un sottilissimo filetto, si vedono righe nere di Fraunhofer, di cui poche si prolungano appena fuori dei lembi dello spettro continuo con cuspidi finissime, lucide; nella foto- grafia seguente, fatta quando il filetto fotosferico cominciava ad interrom- persi, un maggior numero di righe fraunhoferiane si vedono invertite oltre gli orli dello spettro continuo, in forma di filetti acuti, lucidi e più nume- rosi: sono le principali righe lucide della cromosfera. La fotografia succes- siva dà lo spettro del /lash, ossia dello strato invertente al principio della totalità; le altre fotografie dànno quello della cromosfera e della corona; la penultima dà il secondo /lash alla fine della totalità: l'ultima fotografia, dopo la totalità, non è utilizzabile. In nessuna di queste fotografie si vede traccia della riga verde coro- nale, 4= 5810, mentre essa si ottenne nell'eclisse del 1905; invece vi si osserva una riga rossa, coronale, 4 = 6374, che non si ebbe nel 1905. Queste fotografie spettrali, quando saranno misurate e studiate comple- tamente, daranno altri risultati interessanti. Gli abbozzi della corona fatti dal prof. Palazzo, dal prof. Mengarini, dal sig. Taffara, dalla signorina Mengarini e dalla signorina Modigliani, dànno con sufficiente accordo la posizione e la forma della corona solare, cioè brevi raggi divergenti dai poli del sole e due ali che si staccano dalle regioni equatoriali: a ponente una semplice, limitata da due pennacchi; a levante un'altra più larga, costituita da tre pennacchi principali, estesa sino alla distanza di poco più di due diametri solari. Questa forma è presso a poco quella tipica del minimo dell'attività solare, in cui la corona ha due ali equatoriali semplici, come fu nell’eclisse SS del 1900; ma questa del 1914 è stata alquanto più complicata. Effettiva- mente il minimo dell'attività solare era passato da un anno. Delle otto fotografie prese con la quadruplice camera dalla signorina engarini con l’aiuto della signorina Larissa Viaceslavona Norisina, sono ORONA E PROTUBERANZE SOLARI. 0 affara, ottenuto geometricamente da fotografie e secondo le osservazioni della missione italiana per l’eclisse totale di sole del 21 agosto 1914, osservato in Teodosia (Crimea). Disegno del sig. L. T riuscite più complete quelle fatte con lastre sensibili al verde e con filtro di luce verde: vi si osservano le particolarità della corona vista ad occhio nudo, ed anche le protuberanze principali. Le quattro fotografie, fatte durante la totalità dal prof. Mengarini su lastre autocromiche, e ben riuscite, donno in modo notevole l'impressione SOG dell’eclisse visto ad occhio nudo, con le belle sue colorazioni, concordanti con la pittura che ne ha fatto la signorina Modigliani. Il dott. K. Truschkovsky, che gentilmente ha aiutato la missione in tutti i suoi preparativi, si è incaricato della osservazione e del disegno delle cosiddette ombre volanti, che egli ha ben osservato prima del principio della totalità e dopo la fine, col solito aspetto di striscie ondeggianti, parallele, ed alternate, oscure e chiare; ed ha notato in esse pure la colorazione spet- trale, che pochi osservatori hanno rilevata. L'oscurità durante la totalità è stata notevole, assai maggiore che nel 1905, circa come a 40 minuti dopo il tramonto: il prof. Palazzo ha visto la stella Regolo nella costellazione del Zeone. Dalle osservazioni meteorologiche e magnetiche, quantunque disturbate dal tempo cattivo, il prof. Palazzo ha potuto rilevare che durante l’'eclisse vi fu un forte abbassamento di temperatura dello strato superficiale del suolo, e che non vi è stata alcuna sensibile variazione speciale del magnetismo terrestre. Il prof. Palazzo ha pure determinato gli elementi del magnetismo ter- restre in Teodosia: è da notare che la declinazione è risultata orientale di. circa un grado. Chimica. — Azioni chimiche della luce. Nota XXXI del Socio C. CIAMICIAN e di P. SILBER. Autossidazioni VIII. Ci sembrò interessante di conoscere il contegno di alcuni alcaloidi, ed abbiamo iniziato lo studio con la nicotina e la piperidina. Nicotina. Vennero esposti alla luce 3 matracci da 5 litri, pieni di ossigeno, contenenti ciascuno 12 gr. di nicotina e 100 d'acqua, dal maggio al novembre. Alla fine dell'insolazione il liquido, che s’era fatto leggermente giallastro, aveva lieve reazione acida; nei palloni l'ossigeno era quasi scom- parso. Dopo parecchi tentativi preliminari, abbiamo adottato per la elabo- razione il seguente processo : Il prodotto, diluito con acqua, venne trattato con 20 gr. di carbonato baritico e distillato in corrente di vapore acqueo; il distillato alcalino venne saturato con acido cloridrico e portato a secco nel vuoto. Si ebbero, così, 5,3 gr. di cloridrati.. Per accertare la natura delle basi presenti in questa parte del prodotto, i suddetti cloridrati furono trasformati in cloroaurati separando in questo modo la nicotina rimasta inalterata: Il precipitato ottenuto col cloruro d'oro, Asa 1 [pen purificato dall'acqua, fondeva a 194° ed aveva la composizione del cloro- aurato di nicotina. Analisi: Trovato Calcolato per Cio Hi 4N2.2 H Au Cl Au 47,15 46,79 Dalle acque madri non si potè avere un prodotto unico; vennero perciò liberate dall’oro, ed i cloridrati ottenuti vennero trasformati in cloroplatinati : così si tolsero piccole quantità di ammoniaca allo stato di cloroplatinato am- monico. Convenne ritornare ai cloroaurati: e però il liquido, liberato dal platino, venne trattato nuovamente col cloruro d'oro. Si ebbero dei cristalli gialli, aghiformi, che furono riconosciuti per il cloroaurato di melilammina. Analisi: Trovato Calcolato per CH, NH». H Au Cl, H,0 H.0 4,46 4,63 Calcolato per CH, NHsa.H Au Cl, C 3,99 2,92 H 1,39 1,46 Au 53,04 53,07 53,15 La parte del prodotto primitivo, che rimane indietro nella distillazione con carbonato baritico, fu liberata a caldo dall’eccesso di quest'nltimo portata a secco per distillazione nel vuoto. Il residuo aveva l'aspetto di una massa bruna e resinosa. Essa venne ripresa con alcool assoluto; e per questo trattamento rimase indietro una polvere giallastra, costituita da sali baritici, i quali si poterono separare, inoltre, aggiungendo molto etere alla soluzione alcoolica concentrata. Liberata così dai sali barici per ripetuti trattamenti con etere, la soluzione alcoolico-eterea lasciò per svaporamento uno sciroppo bruno, che costituiva la maggiore parte del prodotto, circa 30 gr. La sua purificazione presentava peraltro le maggiori difficoltà; dopo varî tentativi, ci risolremmo di separare allo stato di picrato la base in esso contenuta. Lo sciroppo, in proporzioni di 10 gr. per volta, sciolto in acqua (1 ?/s litro), venne trattato con una soluzione satura acquosa d’acido picrico (1 ‘/, litro). Si forma un precipitato resinoso, brunastro, che resta aderente alle pareti del vaso, mentre dal liquido, di apparenza lattiginosa, si può far separare, sbattendolo in un agitatore meccanico, un secondo precipitato giallo, di aspetto assai migliore. Quest'ultimo, purificato ripetutamente dall'alcool, si presentò in prismetti o in mammelloni, che fondevano a 168°. La sua composizione corrisponderebbe al picrato d’una base dalla formola Ca lai IN9 (0) ° Analisi: Trovato Calcolato per C23 Hso 015 Ns (0 41,45 41,51 H 8,31 8,14 RenpIcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 10) = aiggr E Questo prodotto ha la composizione della ossinzcotina ottenuta da Pinner e Wolffenstein (') per ossidazione della nicotina con acqua ossigenata. Il punto di fusione del picrato, che questi autori indicano a 154-158, è, per altro, alquanto inferiore a quello da noi trovato. Volendo accertare la natura del composto da noi avuto, bisognerebbe riprenderne lo studio. Il sale baritico, insolubile nell’alcool e nell’etere, sopra menzionato, venne anzitutto purificato in soluzione acquosa con nero animale ed indi trattato con la quantità voluta di acido solferico. Svaporando il liquido, se- parato dal solfato baritico, si ebbe uno sciroppo brunastro da cui si depo- sitarono dei cristalli che furono purificati dall'acqua. La sostanza così otte- nuta si presentava in aghetti raggruppati, fusibili a 234°; e fu riconosciuta per l'acido nicotinico. La sua quantità era, peraltro, assai esigua (1 gr. da 86 di nicotina); ad essa corrisponde la piccola quantità di metilammina summenzionata. Analisi: Trovato Calcolato per Cs H5 023.N C 58,72 58,58 H 4,06 4,06 L’autossidazione della nicotina alla luce dà, assieme con molta resina, come prodotto principale la suddetta ossinicotina; e, per ulteriore autossida- zione di questa. l’acido nicotinico e la metilammina. Il processo si potrebbe rappresentare con il seguente schema, che per altro è incerto in quanto riguarda la costituzione dell’ossinicotina. I prodotti di ossidazione dell'acido pirrolidinico della nicotina potrebbero essere stati anidride carbonica ed acido formico. (8A Hu N, a Cio ON, —_—> (C:H, N) COOH | NH; . CH, nicotina ossinicotina ac. nicotinico metilammina Come si vede, la nicotina viene ossidata alla luce, in parte, assai profon- damente. Piperidina. Vennero esposti alla luce, dal maggio al novembre, comples- sivamente 40 gr. di questa base sciolti in 400 cc. d’acqua. Risultò un liquido ancora alcalino, giallo-brunastro; l'ossigeno nei matracci era quasi scomparso. L'elaborazione venne fatta in modo analogo alla precedente esperienza. Il prodotto venne anzi tutto distillato in corrente di vapore per eliminare la base libera. Si ebbero 24 gr. di cloridrati, che furono cristallizzati dal- l'alcool. Il punto di fusione 240° (Ladenburg trovò 237°) trovato, è quello del cloridrato di piperidina. Con la parte rimasta disciolta si preparò il cloro- aurato, ma anche questo dimostrò trattarsi della stessa base; fondeva a 216°. (') Berichte, vol. 24, pag. 64; ibid., vol. 25, pag. 1428; ibid., vol. 28, pag. 460; ibid., vol. 34, pag. 2412; Beilstein, vol. IV, pag. 858. Egg Analisi: Trovato Calcolato per C5H1N.H Au Cl AU 46,86 46,40 Il liquido rimasto indietro nella precedente distillazione, venne trattato con carbonato baritico, e nuovamente distillato. La base raccolta dette 8,2 gr. di cloridrato di piperidina. Dei 40 gr. della piperidina impiegata, si riebbero dunque 32 gr. di cloridrato. La soluzione rimasta indietro, venne liberata a caldo dall’eccesso di carbonato baritico, portata a secco nel vuoto; ed il residuo, colorato in bruno e di aspetto resinoso, venne trattato. come nella precedente esperienza con alcool ed etere. I sali baritici insolubili furono così separati: dal liquido alcoolico etereo si ebbe una materia sciropposa (15,9 gr.), che alla ulteriore ricerca presentò non lievi difficoltà. Una parte di essa venne salificata con acido clo- ridrico e trasformata successivamente in cloroaurato ed in cloroplatinato. Il primo si dimostrò nuovamente per quello di piperidina dal punto di fu- sione 219°. Analisi: Trovato Calcolato per Co H1N .HAuC], C 14,30 14,11 H 3,08 2,82 Au 45,98 46,40 Il secondo, preparato dalle acque madri del primo e separato dal cloro- platinato ammonico pure presente, fondeva a 200° e dette all'analisi numeri che farebbero supporre la presenza di una base ossigenata, della formola CH ON ('). Analisi: Trovato Calcolato per (C5 Hi, ON)s Ha Pt Cl Pt 31,27 31,88 La quantità di questo sale era, peraltro, insufficiente per un ulteriore esame. Un'altra parte del prodotto resinoso suddetto, venne distillata con soda caustica per eliminare le basi, e, dopo questo, acidificata con acido solforico ed esaurita con etere. Si ebbero molto acido formico ed un piccolo residuo cristallino, che, purificato dall'acqua, fondeva a 92-96°. La sua piccola quan- tità non consentiva un ulteriore esame; ma potrebbe darsi si trattasse di acido glutarico, che fonde a 97,5. (1) È probabile che si tratti dell’aldeide aminovalerianica. Vedi Wolffenstein, Beri- chte, vol. 25, pag. 2781; 26, pag. 2991 e Haase e Wolffenstein, Berichte, vol. 37, pag. 3228; e poi Beilstein I, pag. 949, e Supplemento I, pag. 480. seggio I sali baritici sopra menzionati contenevano una parte facilmente so-. lubile nell'acqua calda, ed una assai poco solubile. Dalla prima si ebbero, dopo avere eliminato il bario con acido solforico e successiva distillazione, notevoli quantità di acido formico. Il residuo della distillazione venne unito al liquido che si ebbe dopo avere precipitato il bario della por- zione meno solubile. Questa soluzione dette, per concentrazione, delle croste cristalline, che, purificate dall’acqua, fondevano a 185-186° e furono rico- nosciute per acido succinico. Ne abbiamo analizzato il sale argentico. Analisi: Trovato Calcolato per Cy HO, Aga Ag 64,85 65,06 La piperidina si autossida, alla luce, in minore misura della nicotina; ma anche essa, per quanto si altera, va soggetta ad una ossidazione pro- fonda. Si forma, anche in questo caso, come primo prodotto, una base ossi- genata, che non abbiamo potuto identificare; ma non è improbabile si tratti del composto ottenuto, per la prima volta, da R. Wolffenstein, per ossida- zione della piperidina con acqua ossigenata, che è un ossido isomero della aldeide d-aminovalerianica. Quest'ultima per ossidazione con acido nitrico, dà l'acido succinico (*), che noi pure abbiamo trovato per i prodotti dell’autossi- dazione. Aggiungeremo a questa Nota, quale appendice, i risultati dell’autossi- dazione della Pinacolina. Dai nostri studî sulla scissione di questo interessante che- tone alla luce (*), appariva assai probabile che esso si scomponesse secondo lo schema CH, CH; CH;—C—CO—CH;, — C=CH, + CH;—CH0 | | in butilene ed aldeide acetica, analogamente alla scissione aldeidica dei ciclo- chetoni. Siccome l’autossidazione di questi ultimi corrisponde sempre alla scissione idrolitica, così abbiamo pensato che, studiando l'autossidazione della pinacolina alla luce, si poteva trovare una conferma del processo suddetto. Così avviene di fatto; ed i prodotti ora ottenuti sono: trimetilcarbinolo ed acido acetico, CH; CH, | | CH:—C—C0—CH, — CH;—C.0H + CH;—C00H ; | | CH; CH; (*) Beilstein, Supplemento, I vol., pag. 480. (*) Questi Rendiconti, vol. 19, I, pag. 539 (1910); e Berichte, vol. 43, pag. 1349. cs gg il primo dà, poi, per ulteriore ossidazione, acetone, formaldeide, acido for- mico e carbonico. Per ossidazione della pinacolina con permanganato o con acido cromico si ottiene invece rispettivamente l'acido trimetilpiruvico (*) o l'acido trimetilacetico. Alla luce vennero esposti 7 palloni, di 3 litri, pieni d'ossigeno, conte- nenti ciascuno 5 gr. di pinacolina e 100 d’acqua, dal giugno al novembre. Aprendo i matracci, si svolse anidride carbonica. Il contenuto dei medesimi venne neutralizzato con carbonato sodico, impiegando 160 cc. della soluzione normale, e distillato. Il residuo della distillazione contiene molta a/dezde formica, che venne riconosciuta al suo composto con la p-difenildiidrazina, che fonde a 220°; per eliminare l’aldeide, si portò a secco a b. m. in corrente di anidride car- bonica. Il residuo salino non reagisce con la fenilidrazina, ciò che prova l'assenza dell'acido trimetilpiruvico menzionato più sopra. Una parte del sale venne trattata col nitrato d'argento: si ebbe, a caldo, un forte anneri- mento causato dalla presenza di acido formico ; e l'ebollizione venne protratta fino a completa ossidazione di quest'ultimo. Dal filtrato si ebbero gli aghi bianchi di acetato argentico. Analisi: Trovato Calcolato per C,H, Os Ag Ag 64,14 64,66 Il distillato ottenuto più sopra, che aveva spiccato l’odore di acetone e dell'alcool butilico terziario, ridotto per ulteriore rettificazione a 75 c., dette, per salatura con carbonato potassico, 17 gr. di un liquido oleoso. Per sepa- rare l’acetone in esso contenuto, lo abbiamo trattato a freddo con 15 gr. di cloridrato di semicarbazide in una soluzione di 15 gr. d'acetato potassico in 40 d’acqua. Dopo qualche giorno venne raccolto il precipitato (8,4 gr.) del semicarbazone dell’acetone, che, purificato dell'alcool metilico, fondeva a 190-191° (2). Analisi: Trovato Calcolato per C4Hs 0 N; N 36,61 36,54 Il filtrato dal semicarbazone dell’acetone venne distillato; e dal liquido passato si separò, per salatura con carbonato potassico, l'alcool butilico ter- ziario. Per togliere le ultime traccie di acetone, il trattamento con la semi- carbazide venne ripetuto. Si ebbe così un liquido che, seecato sull’ossido di bario, bolliva a 81-83°. Per l’analisi venne raccolta la porzione bollente (1) Vedi Gliicksmann, Monatshefte fiir Chemie, 1889, pag. 773. (*) Questo è il vero punto di fusione del semicarbazone dell’acetone. Thiele e Stange trovarono 187°. (Berichte, vol. 27, pag. 32). =ooge e a 82°, che si solidificò. Fondeva a 25°. Queste sono le costanti del /7rime- tilcarbinolo (). Analisi : Trovato Calcolato per C4Hi00 C 64,86 64,86 H 13,96 13,51 L'autossidazione della pinacolina era completa. Il contegno di questa sostanza tanto alla scissione aldedica quanto nell’autossidazione, invoglia a studiare il comportamento, alla luce, di altri composti del genere. Infine vogliamo ricordare il valido aiuto che durante queste ricerche ci hanno prestato, prima il dott. G. B. Bernardis, e poi il dott. Emilio Sernagiotto. Chimica. — Azioni chimiche della luce. Nota XXXII del Socio G. CIAMICIAN e di P. SILBER. Le esperienze che descriviamo in questa Nota sono state fatte in seguito ad una comunicazione del dott. Eugenio Bernhard di Schwanheim sul Meno. Egli ci scriveva gentilmente, circa un anno fa (nel dicembre 1918), di avere osservato che, esponendo alla luce aldeide benzoica contenente benzoato di rame, si forma un deposito speculare di rame metallico sulle pareti del vaso, che all'oscuro scompare. Questo contegno non è limitato al benzoato di rame, perchè anche quello di piombo mostra un analogo comportamento. Egli mise a nostra disposizione queste sue osservazioni, per cui noi vivamente lo ringraziamo. Per esaminare più attentamente questi processi, abbiamo da prima ese- guito la seguente esperienza, operando in soluzione benzolica per evitare l’impiego dell'aldeide benzoica come solvente che, essendo presente in eccesso, avrebbe dato luogo alla formazione dei suoi prodotti di polimerizzazione. Benzoato rameico ed aldeide benzoica. Alla luce vennero esposti, dal marzo al settembre, 7 tubi contenenti ciascuno 6 gr. di benzoato di rame e 2 gr. di benzaldeide sciolta in 50 c. di benzolo. Durante l’insolazione la polvere azzurra si raggruma e prende un colore brunastro, mentre sulle pareti del tubo comparisce lo specchio metallico; in fine si trova nel tubo una massa cristallina grigia, ed accanto ad essa una polvere bruna commista ad alcuni cristalli azzurri, sospeso il tutto in un liquido giallo-brunastro. La parte solida venne raccolta in filtro; pesava 10 gr. ed era formata, per la parte maggiore, da prismetti lunghi dai 2 ai 5 mm. e dalla menzio- (') Vedi Butlerow, Liebigs Annalen der Chemie, vol. 162, pag. 232. BIS nata polvere bruna metallica. La separazione presentava da principio grandi difficoltà, perchè la sostanza cristallina si alterava assai facilmente per trat- tamento coi varî solventi di uso ordinario; siamo riusciti invece abbastanza bene ad asportare i cristalli dal miscuglio per mezzo di una bacchetta elet- trizzata di ebanite, sulla quale essi venivano di preferenza a fissarsi. Ripetendo più volte l'operazione, abbiamo ottenuto un prodotto abbastanza omogeneo. Esso appariva formato da piccoli cristalli senza colore, che, peraltro, in massa avevano un colore grigio; nell'acqua erano insolubili; si scioglievano invece nell’acido cloridrico concentrato, dando un liquido senza colore, da cui, per aggiunta di acqua, si separava l’acido benzoico, e per trattamento con po- tassa un precipitato rosso di ossido rameoso. Non ostante i numeri imperfetti dell'analisi, crediamo che la sostanza in parola fosse denzoato rameoso. Analisi: Trovato Calcolato per Cs H3 C00 Cu C 44,61 45,50 Hi 2,79 2,78 Cu 35,08 34,42 Il rimanente del prodotto venne liberato da questo sale per trattamento con ammoniaca, in cui il benzoato rameoso si scioglie facilmente: escludendo l'aria, si ottiene un liquido senza colore, che altrimenti diventa intensamente azzurro. Il residuo è una polvere bruna formata in grande prevalenza da rame metallico. La soluzione benzolica, colorata in giallo brunastro, all'aria, si fece verde intensa, ciò che prova che essa conteneva ancora del sale rameoso. Svapo- rando il solvente, rimase indietro una massa cristallina, che aveva l'odore della benzaldeide. Ripresa con etere petrolico, restarono indietro dei cristalli azzurri (2,9 gr.), evidentemente di benzoato rameoso. La parte solubile nel- l'etere petrolico, liberata dal solvente (29 gr.), era formata precipuamente da acido benzoico, che venne tolto con carbonato sodico. Il resto (9 gr.) conteneva ancora dell’aldeide benzoica, che fu eliminata col bisolfito, ed una parte oleoso-resinosa (3,2), che non venne ulteriormente esaminata. Il benzoato rameico, per azione dell’aldeide benzoica alla luce, viene dunque ridotto a benzoato rameoso ed a rame metallico, mentre si forma acido benzoico; la reazione appartiene però alle reciproche riduzioni ed ossi- dazioni che la luce favorisce di preferenza. È assai probabile che l’acqua intervenga in tale processo; ma per poter affermare questo con sicurezza, converrà ripetere l'esperienza escludendo ogni traccia di umidità, ciò che ci proponiamo di fare in seguito. Intanto pubblichiamo anche una seconda esperienza fatta col benzoato di rame ed aldeide acetica. Benzoato rameico ed aldeide acetica. Per questa prova preliminare abbiamo esposto al sole, dal maggio al dicembre, 5 gr. di benzoato rameico ESSI IA sospeso in 50 c. d’aldeide acetica. La massa azzurra del primo imbrunisce a poco a poco, e in fine si trasforma in una polvere rosso-bruna, mentre sulla parete del tubo comparisce lo specchio di rame. Il liquido si man- tiene senza colore. Per l'elaborazione si filtrò; il deposito solido venne analizzato, Analisi: Gi .1:0;7.7 H 0,63 Cu 98,91 e risultò formato da rame metallico a cui aderiva poca materia organica. Venne dosato tutto il rame, che si era liberato per azione della luce, tanto quello raccolto in filtro, quanto quello aderente al tubo; e se ne ebbero 0,951 gr., da cui risulta che il 91,5 per cento del benzoato impiegato era stato ridotto a rame metallico. Svaporando l’aldeide acetica, impiegata in eccesso, restò indietro un residuo cristallino, che aveva odore di paraldeide e di acido acetico. Ripreso con etere petrolico, dopo essere stato nel vuoto sulla soda, si asportò l'acido benzoico formatosi nella riduzione. Il residuo insolubile, di colore verdognolo, dava, con potassa in soluzione acquosa, un precipitato rosso di protossido di rame. Erano però presenti piccole quantità di sale rameoso. Il benzoato rameoso viene dunque ridotto, alla luce, dall'aldeide acetica, prevalentemente a rame metallico, mentre si libera acido benzoico ed evi- dentemente si forma acido acetico. Anche questa reazione verrà ripresa; ed è pure nostra intenzione di studiare il contegno di altri sali metallici alla luce, in presenza di aldeidi e di chetoni. Infine porgiamo i nostri ringraziamenti al dott. Emilio Sernagiotto, che ebbe efficacemente a coadiuvarci in questa breve ricerca. Patologia vegetale. — I/ ma/ dell’inchiostro nelle gio- vani pianticelle dei, castagneti e dei semenzai. Nuova Nota del Socio GiovaNnNI BrIosi e di RopoLFo FARNETI (')- Allorquando in un castagneto il male dell'inchiostro (morìa) piglia piede ed infierisce, si formano di frequente in esso delle chiazze più o meno estese ove gli alberi in gruppo muoiono producendo delle radure, che veg- gonsi talora interamente spoglie di alberi, tal'altra disseminate di tronchi secchi, residui delle piante morte ma non abbattute. (1) Note precedenti : Briosi G. e Farneti R., Sulla moria dei castagni (male dell'inchiostro): prima Nota (Atti Istituto botanico di Pavia, vol. XIII, pag. 291-298, con 1 tav. litogr.), anno 1908; Intorno alla causa della morìa dei castagni (male dell'inchiostro) ed ai mezzi per com- batterla (ibid., vol. XIV, pag. 47-51); Za mora dei castagni (male dell’ inchiostro): osservazioni critiche ad una Nota dei sigg. Griffon e Maublane (ibid., vol. XV, egg In questi spiazzi, se, per disseminazione naturale. nascono dei castagnoli. essi non rimangono a lungo in vita, come non riescono ad attecchirvi le pian- ticelle che artificialmente ivi si ripiantino. A poco a poco gli uni e le altre muoiono: ed in capo a due o tre anni, o, tutt'al più, dopo cinque o sei, delle nuove pianticelle nessuna rimane viva. Quando il ripiantamento vien fatto con alberelli adulti rivestiti di forte corteccia, se essi riescono ad attecchire (il che non sempre avviene), resistono qualche anno di più, ma non tanto da poter ripopolare la radura. È per tale ragione che gli spiazzi formatisi nei castagneti attaccati dalla mor20 più non si ripiantano e rivestono, come non si sostituiscono nella selva gli alberi che isolatamente il male qua e là uccide. Che nel luogo stesso, ove un albero spontaneamente muore, non se ne debba subito ripiantare un altro, è cosa ab antiguo risaputa, poichè esso non vi attecchisce o presto muore. Ciò è dovuto alla presenza di rizomorfe o d’altri micelii fungini nemici che la pianta che muore abbandona nel terreno: micelii i quali dapprima vivono come saprotiti sulle radici della pianta perita; di poi, come parassiti sopra le radici vive della pianta sostituitavi. In egual modo peraltro non si può spiegare la morte delle giovani pian- tine nelle radure prodotte dal male dell’ inchiostro, poichè sulle radici delle piante che questo morbo uccide non si trovano di solito nè rizomorfe, nè altri micelii patogeni. Altre spiegazioni quindi si sono escogitate, diverse e varie fra loro ma tutte partenti dal concetto che la causa del male va ricer- cata nel terreno. Così, alcuni sostengono che le piante muoiono perchè il terreno più non contiene in quantità sufficiente alcuni degli elementi minerali che sono ad esse indispensabili, o perchè esso difetta dell’humus necessario alla vita delle piante stesse. Altri ritengono che trattasi del parassitismo di micelii che per speciali condizioni sviluppansi nel terreno ed invadono le ultime barbicelle delle radici che restano uccise (Ducomet). Altri, partendo dal presup- posto che le micorizze siano indispensabili alla vita dei castagni, fanno risa- lire la causa della m0r2a ad un micromicete ( Mycelophagus) che attaccherebbe e distruggerebbe i micelii micorizzici e, di conseguenza, anche le micorizze (Mangin). Altri invece, riconoscendo che i castagni possono vivere e prosperare anche senza le micorizze, ritengono che gli stessi micelii, che in condizioni nor- mali concorrono alla formazione di queste vivendo con le radici in consorzio mutualistico, quando invece nel suolo l’humus difetta, non trovando nel terreno pagg. 43-51); Nuove osservazioni intorno alla moria dei castagni (male dell’ inchiostro) e sua riproduzione artificiale (ibid., vol. XIV, pagg. 327-334); A proposito d'una Nota del dott. Leonello Petri sulla morèa dei castagni (male dell’ inchiostro), in Rendic. Accad. Lincei, vol. XXII, ser. 52, 1° sem., fasc. 6; Ancora sulla morìa del castagno (male del- l'inchiostro), in risposta al sig. dott. L. Petri (Rendic. Accad. Lincei, vol. XXII, ser. 5°, II sem., fasc. 2°). RenpIcoNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 18 — 100 — le sostanze organiche delle quali abbisognano, le sottraggono alle radici stesse trasformandosi in veri parassiti di queste, ed uccidendo le piante (Delacroix). Infine, non manca chì attribuisce la morte a misteriose e mal definite sostanze tossiche escrete ed abbandonate nel terreno dalle piante malate che muoiono. Le osservazioni ed i fatti che qui sotto esporremo serviranno a portar nuova luce in questo intricato contrasto di ipotesi ed opinioni, ed a ricon- fermare ancora una volta quanto noi abbiamo dimostrato e sostenuto nelle nostre precedenti Note e Memorie: cioè che la causa del male non risiede nel terreno e non sale dalle radici alle parti aeree della pianta, ma, vice- versa, da queste a quelle discende; e che è semplicemente l’opera del paras- sitismo di un micete epigeo. Apa Nella scorsa primavera, in alcuni castagneti della valle del Serchio in provincia di Lucca, la mo0r?2a delle giovani pianticelle di castagno era fre- quente: onde la nostra attenzione fu rivolta in modo speciale a ricercarne la causa. Eravamo ai primi di maggio, e molte piante da poco germinate ave- vano appena spiegato le prime fogliole. Apparentemente la maggior parte di esse era vegeta e prosperosa; ma un attento esame mostrava in parecchie, sul fusticino, delle macchiuzze o delle brevi striscie longitudinali livide con necrosi del tessuto la quale interessava l'intero spessore della corteccia; ed il microscopio rivelava in esse (in sezioni tangenziali) un micelio fungino, non ancora sporificato. Trattavasi di minuti cancri incipienti che erano sparsi sul fusticino, tanto nella parte soprastante ai cotiledoni. quanto nell’'ipocotile, benchè quivi in minore quantità. Estendendo l'esame alle pianticelle dell’anno precedente, nate cioè nella primavera del 1913, trovammo pure dei piccoli caneri sull’ipocotile, alcuvi dei quali formanti pustole costituite da stromi immaturi. In pianticelle di tre anni, malate ma non morte, il fatto si ripeteva; cancri trovavansi tanto verso la base dell’ipocotile quanto nella regione del colletto. In uno di questi castagnoli di tre anni il cancro basale, anzi, era già disceso, con larga striscia nerastra, nel fittone della radice, mentre altri castagnoli trovammo di già morti in seguito a forte attacco del male, avvenuto nella parte infe- riore del fusto: infine, alcuni castagnoli di cinque anni erano morti per attacco nella regione del colletto. In tutti questi cancri trovavasi sempre un micelio, spesso con stromi non peranco differenziati, o sporificati sotto forme di Fusicoccum 0 di Cytospo-- rella: pag Ai primi dello scorso luglio, dal vivaio forestale di Gozzano in provincia di Novara, ci furono mandate delle piantine di castagno malate, per ricercare la causa del deperimento loro. Recatici sul luogo, trovammo che le pianti- — 101 — celle sofferenti, o morte, erano affètte da cancri simili a quelli dei castagnoli della valle del Serchio, anzi in uno stadio più avanzato. Il vivaio di Gozzano contava circa duecentomila pianticelle, tutte nate nella primavera da castagne seminate nel precedente autunno. Di questi castagnoli, circa diecimila erano di già morti, e gli altri vedevansi morenti o fortemente compromessi. Dall'inchiesta fatta sul luogo emerse: 1) che il vivaio di Gozzano si trovava a notevole distanza da qua- lunque castagneto; 2) che anche negli anni scorsi sì seminarono, nello stesso terreno, delle castagne, e si ebbero castagnoli sani, senza mortalità; 3) che il vivaio era fatto a regola d’arte e trovavasi in ottime con- dizioni poichè il terreno era sciolto, profondo, provveduto di regolari canali di scolo, con aiuole rialzate e senza ristagno o infiltrazione di acqua. Inoltre il terreno era fertilissimo e ricco di %Xumus, sicchè le piante in poco tempo avevano raggiunto un grande sviluppo, arrivando e sorpassando un metro d'altezza; 4) che nel vivaio si coltivavano diverse altre essenze, ma solo quella del castagno era malata. Allora, non sapendo come orientarci, sospettammo che il male potesse provenire dalle castagne che avevano servito per la semina. Ed infatti, dalle informazioni da noi prese risultò che queste eransi avute in parte da casta- gneti del comune di Armeno. Ci recammo ad Armeno, ed una accurata ispe- zione assodò che, purtroppo, in questi castagneti eranvi molti alberi attac- cati dal male dell'inchiostro, tanto nei rami, quanto nel tronco e nelle radici. Era quindi evidente che nel vivaio la malattia era stata portata per mezzo delle castagne che avevano servito per la semina. * x x Nel vivaio di Gozzano. il male si manifestava con gli stessi caratteri di quelli dei castagneti della valle del Serchio {caratteri che sono identici a quelli di tutti i castagni, qualunque sia la loro età, che muoiono per male dell'inchiostro: in tutti si hanno i cancri caratteristici prodotti da micosi). Anche nei castagnoli di Gozzano il male aveva preso non solo le parti aeree ma. talora, anche le radici. E le foglie disseccavano contemporaneamente al fusto, o prima di esso, rimanendo secche attaccate alla pianta; precisamente come avviene nei grossi alberi attaccati dal male dell’ inchiostro, quando muoiono della cosiddetta forma apopletica. Nel vivaio scegliemmo, prendendole dalle diverse aiuole, oltre un cen- tinaio di piantine in tutti i gradi di sofferenza, con tutte le loro radici e la terra che vi aderiva, e le portammo al Laboratorio per sottoporle ad esame più accurato e minuto. — 102 — Nelle centoventidue piantine esaminate, ne triovammo centodiciotto che presentavano cancri più o meno sviluppati, o sul fusto, o nella regione emersa dell'ipocotile. Delle quattro che non avevano cancri nella parte aerea, una era sana, e le altre tre erano malate nella radice. I cancri si manifestavano come depressioni o lividure della corteccia, di vario aspetto, generalmente elissoidali-allungate o lineari, cioè sotto forma di striscie più o meno appariscenti nel fusto ancor verde; spesso il cancro abbracciava l’intera circonferenza del fusticino, ed allora vi produceva una specie di strozzatura anulare. Frequentemente nei cancri eranvi delle pustole, a forma di verruchette dovute allo sviluppo di uno stroma fungino, subcorticale, non ancora diffe- renziato, nè sporificato: in alcuni, per altro, si intravvedeva di già una strut- tura irregolarmente valsoidea. Questi stromi esaminati più tardi, sopra pian- tine morte raccolte nello stesso vivaio nel mese di novembre, si trovarono in parte sporificati, come nel Lucchese, sotto forma di Yusicoccum e l'ytospo- rella. Erano peraltro diversi dal Yusicoccum da noi altrove descritto, e più vicini, se non identici, alle forme spermogoniche descritte dal Fuckel come appartenenti al ciclo evolutivo della Melanconis modonia Tul., e simili altresì ad alcune forme conidiche da noi ottenute in coltura, od osservate in elcuni stadii di sviluppo della nostra Melanconis perniciosa. Non intendiamo peraltro dedurre, da queste apparenze, che tali forme spermogoniche siano identiche alle forme del parassita da noi studiato e descritto nelle nostre precedenti Note, poichè ce ne manca ancora la conferma colturale e sperimentale. a Studiamo ora attentamente l'origine ed il percorso delle infezioni. Per rispetto all'origine, le infezioni si potevano distinguere, topografi- camente, in 4eree (sul fusto) ed in radicali (sulla radice). Delle prime, alcune erano dasali 0 cotiledonali, cioè alla base del fusto in corrispondenza all'inserzione dei cotiledoni; altre trovavansi nell’ipocotile. Ora, dei centoventidue castagnoli presi in esame in Laboratorio, uno, come si disse sopra, mostravasi perfettamente sano; centodiciotto presenta- vano infezioni aeree; tre, infezioni radicali. Tra le prime, quarantatrè erano basali o cotiledonali, e le piantine con infezioni basali o cotiledonali, gene- ralmente, avevano altresì una o più infezioni (non di rado le più gravi) nella parte superiore del fusto. In molti casi queste infezioni basali provenivano dal seme, ed erano state trasmesse al fusticino direttamente dal seme stesso per mezzo del picciuolo dei cotiledoni. L'esame delle tre piantine con infezioni radicali rivelò quanto segue: in una l'infezione si era iniziata a fior di terra, da dove era scesa alla radice; e la pianta mostrava anche una seconda infezione alla base del fusto, che — 103 — non comunicava colla prima. Che l'infezione della radice provenisse dal fusticino e vi si fosse propagata in direzione discendente, lo dimostravano lo stato di necrosi dei tessuti e il degradare della loro colorazione patologica che si estingueva a un terzo della radice lasciando perfettamente sani i due terzi inferiori. In un'altra delle dette pianticelle l'infezione si era iniziata a circa sei centimetri di profondità dalla superficie del terreno, ed aveva proceduto pari- menti con direzione discendente, degradando verso l'estremità della radice, che mantenevasi tuttora sana. Nella terza, la radice era mozzata a due terzi della sua lunghezza, pro- babilmente per opera di qualche larva d’insetto. Nella corrispondente ferita non cicatrizzata si scorgeva un processo infettivo con percorso ascendente, che aveva risalito la radice fino a raggiungere l'ipocotile dove s'insinuava nel legno nel quale aveva prodotto delle striature brune. In corrispondenza di queste striature, l'esame microscopico mostrava numerose colonie di bacterii, che non si osservavano nei casì precedenti, sicchè questo sì può ritenere come un caso eccezionale di marciume dovuto ad accidentale infezione bacterica della ferita, completamente estraneo quindi alla causa della mortalità delle altre piantine del vivaio. Per rispetto al decorso del male ed agli effetti da esso prodotti, sì rilevò che, dei centoventidue castagnoli sottoposti a studio, quarantaquattro avevano il fusto tuttora verde o solo in parte secco, ed in settantaquattro il fusti- cino era completamente morto. Di queste ultime settantaquattro piantine, in cinquantadue era morta anche tutta la radice la quale mostravasi più o meno marcescente per tutta la sua lunghezza (con intensità peraltro decre- scente dall'alto al basso); in sette, una porzione di radice verso l'estremità inferiore era ancora sana (da tre a dieci centimetri); in cinque era sana l'intera metà inferiore della radice, ed in dieci tutta la radice sana era sino al colletto. Delle quarantaquattro piantine dal fusto ancor verde, ventitrè avevano la radice perfettamente sana (cosa naturale, perchè non avevano caneri alla base del fusto o solo incipienti e leggieri); tre avevano cancri nell’ipocotile e nel fusto, i quali discendevano sino alla radice ed in essa si prolungavano; ne ave- vano uccisa di già la parte superiore, ma sana era tuttora la parte inferiore. Tutte le radici e le porzioni di radici ancora sane, portavano barbe e barbicelle pure sane. In dieci castagnoli che avevano alla base del fusticino caneri abbraceianti e discendenti nelle radici, queste erano interamente morte e, in alcuni casi. anche marcescenti. Questi diversi casi non erano, come si potrebbe sospettare, stadii suc- cessivi della malattia; poichè le loro differenze derivavano evidentemente dal punto iniziale del processo infettivo e dalla gravità dell’ infezione. — 104 — Spesso a produrre la marcescenza della radice aveva altresì contribuito grandemente la presenza di gallerie longitudinali scavate da insetti nel fittone. Anche nei castagnoli avveniva quanto si verifica nei grossi castagni: cioè, quando il cancro raggiunge la radice, in questa si espande e discende con maggiore rapidità che non nel fusto, onde la morte della radice non di rado precede quella della parte aerea della pianta che muore poi d'un tratto della forma così detta apopletica. Avvertiamo, ancora, che nel vivaio di Gozzano, oltre i castagnoli che pre- sentavano i caratteri del male dell’ inchiostro, alcuni se ne trovavano che, pure avendo senza cancri e più o meno vegeta e sana tutta la parte aerea, avevano la radice mutilata, probabilmente per opera delle larve di Melolontha vulgaris o delle Grillotalpe; ed altresì, altri che presentavano il fittone della radice scavato longitudinalmente da gallerie di larve d’insetti. Alcune di queste gallerie erano invase da micelii fungini che ne avevano provocato la marcescenza. Nei castagnoli a radice mutilata le ferite eransi cicatrizzate, e le piante vivevano tuttora. I castagnoli con galleria longitudinale nel fittone radicale erano quasi tutti morti, senza che nel fusto i cancri si fossero formati. Notiamo, da ultimo, che, allorquando nei mesi di agosto e settembre rivisitammo il vivaio, si trovò che nelle aiuole (circa cinquecento metri qua- drati), nelle quali si erano lasciate le piantine malate, quelle di esse con caneri erano tutte morte senza che la malattia si fosse, almeno apparente- mente, propagata alle sane contigue: il che si può spiegare col fatto che sopra queste piante malate il parassita non aveva ancora cominciato a spo- rificare, ciò che avvenne solo nel tardo autunno. CONCLUSIONI.. Da quanto abbiamo sopra esposto, emerge: 1) che non solo gli alberi adulti ma anche le piante giovanissime ed altresì i semi germinanti possono essere attaccati dal male dell’ inchiostro, e possonsi avere larghe epidemie di male dell'inchiostro anche nei semen- zai, ciò che finora non si era avvertito; 2) che i sintomi ed i caratteri, coi quali muoiono i castagnoli, sono identici a quelli che si manifestano negli alberi che per tale morbo scom- paiono dalle selve; 3) che i semenzai ed i vivai vanno attentamente sorvegliati, e le pianticelle loro non debbonsi distribuire se non si è sicuri che siano perfet- tamente sane, cioè anche senza macchie sospette e cancri i quali spesso, per essere minutissimi e poco appariscenti, facilmente sfuggono all'osservazione superficiale; — 105 — 4) che quello che avviene nei castagnoli e nei semenzai pure con- ferma che il male dell'inchiostro non sì inizia nelle radici e non segue un andamento centripeto: che esso è prodotto da una micosi od infezione crittogamica che attacca da prima le parti aeree della pianta (rami e fusti), poi scende alle radici: che talora l'attacco può aver luogo anche diretta- mente nell’ipocotile stesso, ed altresì nella parte superiore della radice del seme germinante; 5) che il male non si può attribuire ad esaurimento del terreno; 6) che non occorre l’opera di uno speciale micromicete, il .Mycelo- phagus, che attacchi e distrugga le micorizze, come vuole Mangin; 7) che nemmeno il male è prodotto dai micelii micorizzici divenuti parassiti per deficienza di humus nel terreno, come pensa Delacroix; 8) che nemmeno fa d'uopo di pensare all'esistenza di sostanze miste- riose e tossiche, prodotte ed abbandonate nel terreno dalle piante che muoiono. La quistione micologica non è di capitale importanza per la patogenesi, la profilassi e la cura del male. Essa verrà interamente chiarita e risolta più tardi, quando le ricerche in proposito saranno compiute e tutti i lati del problema micologico studiati. Sino da ora possiamo peraltro affermare che, quando anche si riuscisse a dimostrare che non un solo fungillo ma parecchi concorrono a produrre il complesso delle alterazioni che vanno sotto il nome di morìa 0 di male dell'inchiostro del castagno, ciò non infirmerebbe quanto noi abbiamo ripetutamente affermato nelle nostre precedenti pubblicazioni e che anche le attuali ricerche sull’'infezione dei castagnoli e dei vivai rì- confermano. Fisica. — £missione ed assorbimento del gas residuo nei tubi del Rontgen, ed emissione dei raggi X('). Nota del Corrispondente P. CARDANI. È noto che i tubi del Rontgen, per raggiungere le migliori condizioni per l'emissione dei raggi x, devono subire un lungo processo di esaurimento, allo scopo di eliminare i gas che si trovano occlusi negli elettrodi o nelle pareti di vetro: e siccome questi gas non sì sprigionano liberamente nep- pure con le rarefazioni più spinte, si sa ancora che, per ottenere l'esaurimento è necessario di circondare i tubi con speciali involucri, per es. di amianto, e portarli ad elevate temperature, mandando anche attraverso i medesimi una corrente sufficientemente intensa, sapendosi che la scarica elettrica facilita notevolmente l'emissione dei gas occlusi. Ed è altresì noto che, per evitare lo (') Lavoro eseguito nell’Istituto di fisica della R. Università di Parma. — 100 — annerimento dei tubi per la polverizzazione del platino anticatodico, i co- struttori aggiungono un terzo elettrodo, che serve appunto da anodo nel pro- cesso di esaurimento, mentre si ha cura di mantenere isolato l’anticatodo. Sul gas che viene emesso dagli elettrodi, sono già state fatte alcune interessanti ricerche. Lo Skinner (') ha per es. osservato che il gas che si svolge dal catodo, formato di metalli differenti, è idrogeno; ed ha dimo- strato che l'emissione di questo gas dal catodo è accompagnata da un assorbimento che si produce all’anodo; ed ha anche trovato che questa emis- sione riprende, lasciando per qualche tempo gli elettrodi in riposo: il che indica la grande difficoltà incontrata dal gas occluso per portarsi dagli strati più profondi alla superficie. Nello stesso modo osservò l'emissione e l’assor- bimento dell'azoto da catodi ed anodi formati da dischetti di carbone. Le sue esperienze vennero però eseguite a pressioni tra 1 e 3 mm. di mercurio e con la scarica a forma di fiocco. Esperienze analoghe per l'assorbimento dell'idrogeno e dell'azoto da parte di anodi diversi per il passaggio delle scariche furono fatte dal Chrisler (*), sempre con pressioni del gas superiori a 2 mm. di mercurio. Altre ricerche sui gas occlusi nelle pareti di vetro dei tubi a vuoto furono fatte dallo Swinton e dal Pohl (3). Particolarmente degne di nota sono le ricerche di Hirsch e Soddy (‘) sul gas che alle rarefazioni, alle quali avviene la emissione dei raggi X, viene dato dagli elettrodi di alluminio: gas, la cui formazione essi riten- gono connessa con la presenza di tracce di sodio negli elettrodi e di cui la natura non è ben precisata. D'altra parte, il fatto che i tubi del Rontgen, per il loro uso continuato, tendono ad indurirsi, sta a dimostrare che gli elettrodi devono riassorbire il gas contenuto nell’ampolla, ed è pure noto che in certe condizioni si può ottenere con le scariche una autorarefazione del tubo, la quale può raggiun- gere limiti elevatissimi. Ciò posto, è manifesto che molti punti restano ancora da chiarire su questo argomento: resta così da chiarire come proceda l'emissione del gas con le scariche durante il periodo di esaurimento dei tubi Rontgen; come vi influisca l'innalzamento della temperatura; come, quando l'esaurimento è sufficientemente progredito, avvenga il fenomeno inverso dell'autorarefazione del tubo, e come si raggiungano quelle condizioni di grande stabilità che presentano i tubi forniti dalle fabbriche. Vi è inoltre da approfondire lo studio di quel gas che in determinate condizioni viene emesso dagli elet- rodi e in altre riassorbito. (1) Physikalische Zeitschrift, 1905, pag. 610; è Philosophical Magazine, 1906, pag. 481. (2) Physikalische Zeitschrift, 1909, pag. 746. (3) Beiblatter zu den Annalen der Physik, vol. 33, an. 1909, pag. 1382. (*) Philosophical Magazine, 1907, pag. 779. — 107 — Lo scopo delle presenti ricerche è quello di portare un nuovo contributo alla risoluzione di tali questioni estremamente complesse, in modo da poter chiarire i fenomeni che avvengono nelle estreme rarefazioni dei tubi del Rontgen e conoscere le condizioni necessarie per il loro migliore funziona- mento: esse però non costituiscono se non uno studio preliminare per poter in seguito stabilire le condizioni interne del tubo dalle quali dipende l’emis- sione dei raggi z, in particolar modo in rapporto alla pressione, perchè queile da me pubblicate nel 1904 riguardavano il caso di tubi non esauriti, nei quali per ciò la scarica doveva esser accompagnata da un'abbondante emìs- sione dei gas residui. Evidentemente, per raggiungere lo scopo propostomi, le ricerche dove- vano esser rivolte da una parte alla misura delle pressioni del gas conte- nuto nel tubo attraversato dalle scariche, e dall'altra alla misura della ionizzazione prodotta. I tubi adoperati provenivano da fabbriche tedesche: dopo aver sperimen- tato il loro perfetto funzionamento, sia radioscopicamente sia per la ioniz- zazione che producevano, essi venivano aperti e subito saldati ad un tubo di vetro che conduceva ad una provetta di Mach Leod e alla pompa Gaede. Ho fatto uso di tubi di diametrì diversi, muniti sempre di anticatodo di platino: il catodo e l’anodo erano, al solito, di alluminio. Un rubinetto nor- male, tipo Leybold, a perfetta tenuta, era inserito tra il tubo Réntgen e il manometro: un secondo rubinetto identico era invece inserito tra il mano- metro e la pompa Gaede. Nel tubo di vetro di comunicazione tra il mano- metro e questo secondo rubinetto, ho inoltre saldato un tubo Geissler senza elettrodi, per analizzare per mezzo di uno spettroscopio il gas contenuto: due larghe striscie di stagnola, incollate esternamente nelle parti più larghe del tubo Geissler, servivano per rendere luminoso il gas contenutovi, colle- gandole con i poli di un rocchetto. Il tubo Réntgen era disposto orizzontale, e la comunicazione col mano- metro partiva dal tubo laterale adiacente al catodo ed era rivolta verso l'alto. Siccome per esaurire il tubo dal gas occluso si doveva riscaldarlo a temperatura elevata, esso era appoggiato sulle parti opportunamente ripie- gate di due bacchette di vetro le quali erano superiormente fissate a robusti sostegni. Con questa disposizione era facile di circondare dal basso il tubo Ròntgen con una scatola di amianto e chiudere questa scatola con un co- perchio, pure di amianto, che doveva naturalmente portare delle fenditure in corrispondenza delle bacchette di vetro che reggevano il tubo medesimo e del tubo di vetro che stabiliva la comunicazione col manometro: una serie di 10 fiamme sottostanti permetteva di raggiungere una temperatura di oltre 300°. La pompa Gaede comunicava a sua volta con una pompa ad olio Gerik; e nel tubo di comunicazione era inserito un rubinetto a tre vie, per poter RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 14 — 1038 -— introdurre nella pompa Gaede, nel manometro e nel tubo Réntgen, gas dif- ferenti. Per misurare la ionizzazione prodotta dai raggi X, ho disposto il tubo Ròntgen in modo che l’emissione avvenisse in direzione di una finestra ret- tangolare praticata in una spessa parete. Questa finestra era chiusa da una lastra di piombo che portava un'apertura circolare di 9 cm. di diametro: l'anticatodo del tubo distava 22 cm. da questa apertura; la disposizione era tale che il centro dell’anticatodo e il centro dell'apertura si trovavano sulla stessa retta orizzontale. L'apertura della lastra di piombo era protetta da una sottilissima lastra di alluminio, che ne distava circa 2 mm., accu- ratamente isolata con supporti di ebauite e mantenuta costantemente carica da 400 elementi Volta: un elettrometro di Exner e Geitel indicava il buon funzionamento di questa pila. Nel vano della parete, e ad una distanza di 1 cm. dalla lastrina di alluminio, era collocato un disco di rame annerito, di diametro un po' mag- giore dell’apertura esistente nella lastra di piombo, accuratamente isolato e comunicante con l’ago di un elettrometro del Mascart. Questo elettrometro, appoggiato sopra un piano coperto da lastra di zinco, si trovava dunque nella stanza attigua a quella del tubo Rontgen: sullo stesso piano si tro- vavano le cassette di pile per la carica dei quadranti, una pila campione con uno dei poli isolati, e un interruttore. Una grande cassa di legno tap- pezzata di stagnola, senza fondo ed aperta dal lato che si addossava alla parete, copriva l'elettrometro, le cassette delle pile di carica. la pila cam- pione e l'interruttore: e poichè anche il vano della parete, a partire dalla lastra di piombo, ed il tratto di muro, a cui si addossava la cassa di legno, erano pure tappezzati di stagnola, è chiaro che tutti questi apparecchi veni- vano a trovarsi protetti da ogni azione elettrostatica. L’interruttore, che sì manovrava dall'esterno, permetteva o di stabilire la comunicazione dell’ago dell’elettrometro col suolo, o di isolarlo, o di farlo comunicare col polo isolato della pila campione: quest'ultima serviva per controllare le condizioni di sensibilità dell’elettrometro. Un’apertura praticata nella cassa di legno lasciava visibile lo specchietto dell'ago dell’elettrometro, le cui deviazioni si leggevano con cannocchiale a scala. Gli elettrodi del tubo comunicavano con i poli di un rocchetto di circa 15 cm. di scintilla con interruttore rotante: ho avuto sempre cura che il motore dell'interruttore ruotasse con velocità costante. L'intensità della cor- rente primaria, fornita da accumulatori, si misurava prima e dopo di ogni serie: essa sì mantenne quasi sempre eguale ad 8 ampéères. Volendo proce- dere ad una misura di ionizzazione, si isolava il sistema formato dall’ago dell'elettrometro e dal disco annerito, e si faceva agire il rocchetto o per 2 o per 5 secondi, ovvero si lasciava isolato l’elettrometro finchè raggiungeva la posizione di equilibrio: indi si leggeva la deviazione ottenuta per la ca- — 109 — rica portata per la ionizzazione dell’aria dalla lamina di alluminio sul disco di rame. Nella provetta del Mac Leod, l’ampolla ed il cannello avevano la capacità complessiva di 12,000 mm.8: il cannello aveva la sezione di 1 mm.? e la graduazione in mm. Le misure si facevano in modo che il mercurio nel ramo esterno arrivasse al livello dello zero del cannello gra- duato, e leggendo la divisione alla quale arrivava il mercurio dentro il can- nello medesimo: così che questo numero w di divisioni rappresentava nello stesso tempo il dislivello in mm. tra i due rami della provetta, e il numero dei mm?. ai quali era ridotto il volume del gas inizialmente contenuto nel- l’ampolla; la pressione del gas nel tubo si aveva così a meno di una diffe- renza trascurabile, dividendo w? per 12000. L'apparecchio, naturalmente, teneva il vuoto in modo perfetto; chiuso il rubinetto tra il manometro e la pompa Gaede, la pressione rimaneva immu- tata anche dopo parecchi giorni: la qual cosa stava a dimostrare un fatto già noto, che, cioè, anche alle estreme rarefazioni i gas occlusi negli elettrodi non sì sprigionano spontaneamente alla temperatura ordinaria: d'altra parte però non si è mai osservato, nemmeno quando i tubi erano esauriti, alcun assor- bimento spontaneo dei gas da parte degli elettrodi: non essendovi dunque nè spontanea emissione nè spontaneo assorbimento è chiaro che per questo riguardo le condizioni dei tubi dovevano rimanere immutate. Una precauzione assolutamente indispensabile per ottenere l'esaurimento dei tubi, è quella di impedire che una parte della scarica arrivi a propa- garsì al manometro ed alla pompa, perchè in tal caso si sprigionano, molto probabilmente nella superficie di contatto tra vetro e mercurio, dei gas che mascherano completamente i fenomeni che avvengono nel tubo. In alcune esperienze preliminari — nelle quali adoperavo le scariche impulsive di una batteria di condensatori, in luogo di quelle del rocchetto — i rubinetti facil- mente si foravano, mentre, se resistevano, la scarica passava tra le due su- perfici di vetro del rubinetto combacianti ed insieme con questo passaggio della scarica, si vedeva la pressione aumentare, non ostante che i rubinetti lasciati a sè, tenessero ancora perfettamente il vuoto. Se non si elimina questa propagazione di una parte della scarica dal tubo al manometro e alla pompa, non è possibile di ottenere l'esaurimento degli elettrodi, che nelle prime esperienze, non ostante tutte le precauzioni prese, sembravano per ciò inesauribili. Le cose cambiarono completamente quando pensai di avvolgere di sta- gnola un buon tratto del tubo di comunicazione tra il tubo Rontgen ed il manometro, in prossimità del tubo Rontgen medesimo, stabilendo poi una buona comunicazione di questa stagnola col suolo. Con questo artificio la parte di scarica, che tendeva a propagarsi al manometro, veniva arrestata — 110 — al luogo rivestito dalla stagnola, così che tutto il rimanente dell'apparecchio restava escluso da ogni azione elettrica: eliminata così questa gravissima causa di errore, i fenomeni di emissione e di assorbimento del gas da parte degli elettrodi presero una grande regolarità, che mi permise di compiere lo studio propostomi. Non essendo qui possibile di riportare tutte le serie di misure fatte, anche se volessi limitarmi a quelle riferentisi all'esaurimento di un solo dei tubi sperimentati, mi limiterò a riferirne alcune che, opportunamente scelte, da- ranno una chiara idea del modo come il processo si svolge. Naturalmente questi fenomeni di emissione e di assorbimento dipendono essenzialmente dalla natura degli elettrodi: anzi sì può dire che ogni tubo abbia un com- portamento proprio, così che mentre qualche tubo dava tin da principio delle emissioni di gas notevolissime, qualche altro dava una emissione relativa- mente scarsa. Ciò non poteva dipendere che dal modo stesso con cui era stato preparato l'alluminio che serviva per gli elettrodi. I risultati in se- guito riferiti furono ottenuti con un tubo che ha dato tra le più abbondanti emissioni del gas accluso. Nei seguenti prospetti, nella colonna indicata con la lettera / sono ri- portati i minuti primi per i quali si è fatto funzionare il rocchetto; in quella indicata con la lettera «, il numero delle divisioni lette al mano- metro; in quella indicata con P, i valori di w?, proporzionali alla pressione, il cui vero valore si otterrebbe dividendo, come si disse, w? per 12000; in quella indicata con 4, il rapporto tra l'incremento o il decremento dei valori di P osservato, e il numero dei minuti durante il quale esso sì è verificato. L'anticatodo venne unito al catodo soltanto quando si procedeva a misure di ionizzazione per conoscere l'andamento della emissione dei raggi X: e ciò per non annerire con le scariche il tubo, cosa che avveniva rapida- mente se sì teneva l'anticatodo unito al catodo per la facile polverizzazione del platino specialmente a temperature elevate. Durante poi le serie di misure che si andavano facendo per la pressione, si manteneva costante- mente chiuso il rubinetto adiacente alla pompa Gaede, così che quest'ultima restava esclusa, ed il gas che si sprigionava dagli elettrodi occupava un volume costante. — ll — 10F3|0°6F 69L |O'S1 9888 (0°16 0 30 EI 10P8 |0°6F PLI |G:8I 9933 |9°LF 1088|6'G6 | 0 ro 0 88 CIG |L'66 GIS |L°88 i 10P8 06 1F#8 (066 veg |6:LI SI |9°8I 9966 927 IG6L 068 0 0 là 0 0 SO 14 34 GIS |L°66 gIS |L'eg EEC |S'87 178 |0°6% 038 (GLI 961 [0441 8163 |I°L7 9c0L |0°F8 I IAC) HI () 0 E 6 9 1689 |0'84 ITS |9°%3 6063 |0°LF 148 |0‘6% 068 .|6°LL 633 |0'SI 1818|6°9F 6819 |6'08 Se FI St SI VI FI 03 OTI 9LS |07G L6V |8'GG I8LT|G:Gt 638 |8‘8% 908 |S'ZI 698 |3°GI 9861 |0°FF ‘16689 |0'8L E 8 06 6 i) 149 PE 818 OPL |G'L3 8et IG G8EI |S°98 F8L |0°8% 988 |6°9I 889 (0° POLL |0°GF 1937 399 19 SI 013 FI 8 9G 8L 816 198 |u'62| =|88# [8‘02 cI6 |G°06 9GL |S'L6 69 |F'9I 069 |S°68 809L|I°0} 1398 [2409 FII SG 968 8 SG IEI GII c9e 6801 |0'SE 18E |9'61 007 |0‘08 099 |L°SG 618 |8FI cI6 |°08 69EL|O°L8 0088 |0°0S 088 GP 798 801 0S L8% LL 9601 6981 |0'LE G8E |E'8I 98 |0°9 Gee [C'E 69L |0'G1 66ET|FALE 66 |S'IE FPPI |0°88 V dl | mV d NZ n 14 dI n || 7 d n VÀ d n | 7 d n | 7 d n Ì I XI] UINHS IIIA BIdAS IIA HIHI IA BIUUg A UIUAS AI HITS III HIdAS II HIHAg 646S|0LL } Le8c|HoL OL | GGEC|RFL SI esgelL'aL 18 2108/8'02 29 9684/8499 821 E8LE|ST9 608 19ge 088 LI oeca|s‘0c 18GI 9681/0498 ria|a I DUI 00I 06 OI 4 — 12 — La prima serie riportata, eseguita alla temperatura ordinaria poche ore dopo che il tubo Réontgen era stato saldato al tubo di comunicazione del manometro e della pompa, mostra in modo evidente che per il passaggio delle scariche del rocchetto si svolge dagli elettrodi di alluminio una note- vole quantità di gas, così che la pressione è salita, in 75’, da 1296 (pari a 0,108 mm. di Hg.) a 5837 (pari a 0,486 mm. di Hg.): ma l'emissione va rapidamente diminuendo col crescere della pressione; e tende verso un valore limite, oltre il quale la emissione si arresta. A questa pressione esiste dunque uno stato di equilibrio tra il gas ‘esterno e quello occluso in prossimità della superficie degli elettrodi: essa può servire come indice del progressivo esaurimento del tubo Réntgen, essendo manifesto che, per avere il tubo stabile, si deve raggiungere quella condizione di cose per la quale pressione di equilibrio debba essere proprio quella corrispondente alla massima emissione dei raggi X. La seconda serie riportata è stata eseguita due giorni dopo, durante i quali si è proseguito il processo di esaurimento del tubo: a questo scopo, il tubo venne portato, durante questi due giorni e per alcune ore, a 200°, aiutando l’emissione del gas occluso negli elettrodi, e che avveniva sponta- neamente per l'elevata temperatura, sia mandando di tanto in tanto le sca- riche del rocchetto, sia facendo funzionare la pompa in modo che la pres- sione rimanesse sufficientemente bassa (circa 0,09 mm. di Hg.). Dai valori riportati si vede che per il passaggio delle scariche la pressione è salita, nello stesso tempo di 75’, da 1444 (pari a 0,095 mm. di Hg.) ad 8501 (pari a 0,705 mm. di Hg.), dimostrandosi, così, che alla temperatura di 200° l'emissione del gas da parte degli elettrodi provocata dalle scariche è stata notevolmente superiore a quella ottenuta nella I* serie a temperatura ordi- naria, non ostante la notevole quantità di gas già eliminata nei due giorni precedenti. Questa seconda serie è molto interessante, perchè dimostra quale importanza abbia l'elevata temperatura nel conseguire un rapido esaurimento degli elettrodi del tubo. La terza serie è stata eseguita il giorno successivo, mentre il tubo si trovava alla temperatura pure di 200°. Tra la seconda e terza serie si era proseguito il processo di esaurimento, mantenendo il tubo per diverse ore a 200°, mandando di tanto in tanto le scariche e mantenendo la pressione sufficientemente bassa. Come risulta dai valori riportati, la pressione sale, nel solito tempo di 75’, per l’azione delle scariche soltanto da 992 (pari a 0,083 mm. di Hg.) a 2266 (pari a 0,189 mm. di Hg.), dimostrando, col confronto della 22 serie, che il processo di esaurimento degli elettrodi aveva già fatto sen- sibile progresso. La quarta serie è di particolare interesse: essa venne fatta due giorni dopo la precedente, essendosi proseguito durante i medesimi il processo di esaurimento degli elettrodi. Dopo aver portato il tubo a 200°, e dopo averlo — 113 — tenuto per parecchie ore alla maggiore rarefazione possibile per il funzio- namento della pompa, si escluse la pompa e si attese che la pressione del gas uscito dagli elettrodi sotto l'azione dell’elevata temperatura, e con l'aiuto delle scariche del rocchetto, salisse ad un valore di circa 2500: indi si spensero le fiamme e, tolto l'involucro, si portò il tubo rapidamente alla temperatura ordinaria. La pressione del gas si ridusse, per il raftred- damento, a 1399 (pari a 0.117 mm. di Hg.). Fatto in seguito funzionare nuovamente il rocchetto, si sono eseguite le misure che sono riportate nella serie IV. Questa serie dimostra che gli elettrodi riassorbono, alla temperatura ordinaria e sotto l'azione delle scariche, il gas che, sotto l’azione delle sca- riche, avevano emesso a temperatura elevata, dando origine ad una rarefa- zione del tubo la quale raggiunse pressioni molto basse, cioè il valore di 169 (pari a 0,014 mm. di Hg); pressione alla quale si era già oltrepassata la massima emissione dei raggi X, ed il tubo sì mostrava così indurito da non lasciare quasi più passare la searica. La quinta serie riportata fu eseguita nel giorno successivo: ed è pure importante. perchè dimostra che, dopo parecchie ore di riposo, gli elettrodi del tubo tornano ad emettere, sempre per azione delle scariche, del nuovo gas, il quale evidentemente non può che provenire dai più profondi strati di essi. Questa emissione si accentua se il riposo del tubo si prolunga, come lo dimostra la serie sesta fatta due giorni dopo la quinta: è omessa per brevità la serie fatta nel giorno intermedio, e nella quale la pressione era salita, da 320, a 522. Se però si confronta la serie sesta con la prima, risulta manifesto quale progresso sia stato fatto nell’esaurimento degli elet- trodi del tubo e come questo esaurimento proceda regolarmente. La serie VII fu fatta alla temperatura di 300°, cioè a temperatura molto più elevata delle precedenti. Essa dimostra come, anche quando gli elettrodi sembrano sufficientemente esauriti alla temperatura ordinaria. emet- tono ancora abbondante quantità di gas, a temperatura elevata: ma se si confronta questa serie ultima con le precedenti fatte a 200°, si vede come per il solo fatto di aver portato il tubo a temperatura più elevata di quelle prima adoperate, si accentui notevolmente l'emissione del gas dagli elettrodi: la pressione infatti è salita, in 75’, da 26 (pari a 0,003 mm. di Hg.) a 2401 (pari a 0,2 mm. di Hg.). L'ottava e nona serie riportate servono a dimostrare che in ogni parti- colare condizione di esaurimento degli elettrodi vi è una. pressione per la quale si stabilisce l'equilibrio tra il gas in essi contenuto e il gas interno. La serie ottava è una serie di emissione alla temperatura ordinaria, fatta dopo che il tubo era rimasto in riposo per molte ore: e si vede che la pres- sione sale lentamente per l’azione delle scariche, così che in 50" si passa dal valore di 335 (pari a 0,028 mm. di Hg.) a 515 (pari a 0,043 mm. di Hg.). Riscaldato subito dopo il tubo a 280°, e aiutata l'emissione del gas — ll4 — con le scariche fino a raggiungere il valore di 2500, lasciando naturalmente esclusa la pompa, si è in seguito ricondotto rapidamente il tubo alla tem- peratura ordinaria, alla quale la pressione sì trovò ridotta, per il raffredda- mento, a 1369 (pari a 0,114 mm. di Hg.). La serie nona mostra come siasi compiuto l'assorbimento del gas emesso; e si vede che la pressione, alla quale l'assorbimento si arresta, è precisamente quella di 515, alla quale si era anche arrestata la emissione del gas nella serie precedente. Dal complesso di tutte le serie fatte si può dunque concludere: 1°) che gli elettrodi di alluminio dei tubi Rontgen, dopo essere stati in contatto con l’aria atmosferica, contengono occlusa una notevole quantità di gas, che non si sprigiona spontaneamente alla temperatura ordinaria neppure nelle rarefazioni più spinte, ma che invece viene emessa per il passaggio delle scariche; 2°) che l'emissione del gas avviene spontaneamente a temperature elevate, ma anche in questo caso viene notevolmente facilitata per il pas- saggio delle scariche: e la quantità di gas che si sprigiona è tanto più notvole quanto più elevata è la temperatura; 3 3°) che il gas occluso incontra grandissima difficoltà per raggiungere la superficie degli elettrodi, anche a temperature elevate e a rarefazioni molto spinte; 4°) che in seguito a queste difficoltà gli elettrodi possono esaurirsi superficialmente in modo che la pressione rimanga stabile al passaggio della scarica anche per qualche giorno, finchè, cioè, il gas occluso negli strati più profondi non compensi, venendo alla superficie, l'esaurimento prodotto: raggiunta questa condizione, ricomincia per il passaggio delle scariche la emissione del gas; 5°) che ottenuto l'esaurimento superficiale, gli elettrodi riassorbono, sotto l’azione delle scariche e a temperatura ordinaria, il gas che sotto l’azione delle scariche avevano emesso a temperature elevate; 6°) che l'emissione e l'assorbimento dipendono dalle particolari con- dizioni di esaurimento nelle quali si trovano gli strati superficiali degli elettrodi. Affinchè dunque un tubo diventi stabile per l'emissione dei raggi X, è necessario che il gas occluso in tutta la massa degli elettrodi sia in equi- librio permanente, anche quando il tubo è attraversato dalle scariche, col gas esterno e per quella pressione per la quale ha luogo la massima emis- sione dei raggi X medesimi: ed è appunto il conseguimento di questo stato di equilibrio del gas occluso in tutta la massa degli elettrodi col gas esterno alla pressione corrispondente al massimo dei raggi X, che costituisce, data la estrema difficoltà del gas di muoversi nell'interno degli elettrodi, l’ope- razione più lunga per la costruzione di un tubo Réntgen. — 115 — Se gli elettrodi non sono sufficientemente esauriti, il gas occluso negli strati più profondi raggiunse lentamente la superficie, e, per il passaggio delle scariche, lentamente si sprigiona: il tubo, che sembrava fatto, si ram- molisce perchè lo stato di equilibrio ha luogo per una pressione superiore a quella per la quale la produzione dei raggi X è massima, rendendosi in tal modo inservibile. Se invece gli elettrodi sono troppo esauriti, il gas esterno viene lentamente occluso, e il tubo si indurisce non lasciando più passare la scarica rendendosi, in tal modo, per un altro verso inservibile. La legge con la quale avviene la emissione e l'assorbimento del gas da parte degli elettrodi, è di natura esponenziale, come si riconosce facil- mente portando i valori del tempo sulle ascisse, e quelli delle pressioni sulle ordinate, in una rappresentazione grafica su carta millimetrata. L'emissione si compie sensibilmente con una legge della seguente forma: P--B=(A-B)(1—-10>%), dove ) è una costante dipendente dalle unità di misura scelte e dalle con- dizioni del tubo, B il valore della pressione iniziale al tempo # = 0, ed A il valore della pressione finale per {#= 0. Similmente, l'assorbimento si compie con una legge della seguente forma: SNA dove ancora 2 è una costante dipendente dalle unità di misura scelte e dalle condizioni del tubo, B il valore della pressione iniziale al tempo t= 0, ed A il valore della pressione finale per { = 0. Stabilito così l'andamento generale dei fenomeni che si compiono negli ordinarî tubi Rontgen per quanto riguarda l'emissione e l'assorbimento del gas che si sprigiona dagli elettrodi di alluminio, ho creduto conveniente di esaminare come si comportasse l’aria sostituita nelle identiche condizioni al gas svolto dagli elettrodi di alluminio, e ciò allo scopo di stabilisce se il gas emesso dagli elettrodi di alluminio fosse appunto aria dai medesimi occlusa, ovvero fosse un gas differente. Uhe il gas emesso dagli elettrodi fosse diverso dall'aria, appariva invero manifesto dall’aspetto stesso del tubo attraversato dalle scariche: è noto, infatti, che, se la scarica passa in un tubo contenente aria, la luce che invade il tubo, prima di raggiungere lo stato di emissione dei raggi X, è di colore rosa purpureo: invece la luce che si osservava nelle stesse condizioni quando la scarica attraversava il gas emesso dagli elettrodi, era del tutto diversa, e precisamente di un colore bianco azzurrognolo. Per risolvere la questione, subito dopo la serie IV, già sopra riportata (serie che riguarda l'assorbimento, da parte degli elettrodi, del gas emesso dagli elettrodi medesimi), feci nel tubo, con la pompa Gaede, la massima RENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 15 — 116 — 1 i 4 | 12000 di mm. di mercurio, e introdussi nel tubo una piccola quantità di aria ben secca, alla pressione iniziale di 3136, pari a 0,261 mm. di mercurio. Indi, esclusa la pompa, ho fatto una serie con le scariche. Nel seguente prospetto trovansi riportate, per maggiore chiarezza, la serie IV di assorbimento del gas emesso dagli elettrodi, e la serie del- l'assorbimento dell’aria. rarefazione possibile SERIE IV SeRIE X t w Je w ! op | 0 97,4 1399 56,0 8136 1 | 302 | 912 | 187 | 515 | 2652 pi: 3 295,5 650 56 51,0 2601 0 5 2952 538 34 51,0 2601 6 10 19,2 869 9 50,7 2570 75 30 14,0 196 0.5 49,2 2421 89 50 13,6 185 04 47,5 2256 71 75 13,2 174 02 45,6 2079 89 100 13,0 169 ; 43,3 1875 71 1125 41,2 1697 74 150 38,9 1518 78 6/5 36,3 1318 76 200 | 833,6 1129 75 225 30,7 942 76 250 274 751 578 275 24,6 605 48 300 22,0 484 49 325 19,0 861 49 350 16,0 256 24 375 14,0 196 02 400 13,8 190 25 La differenza tra il comportamento del gas emesso e quello dell’aria è evidente. Da prima l’aria subisce una brusca contrazione di volume, così che la pressione scende rapidamente, dal valore iniziale di 3136 (pari a 0,261 mm. di mercurio), al valore di 2601 (pari a 0,217 mm. di mercurio), indicando che sotto l'azione delle scariche l'ossigeno si combina con parte dell'azoto per dare origine a qualcuno degli ossidi dell'azoto: anche il colore della scarica in questi primi momenti subisce una profonda modificazione. Dopo, la pressione diminuisce proporzionalmente al tempo e, quindi, alla quantità di elettricità che attraversa il tubo: l’autorarefazione non avviene più con la legge prima stabilita, dimostrando che gli elementi dell'aria non vengono occlusi dagli elettrodi, come avveniva per il gas emesso, ma l'auto- rarefazione avviene con un processo differente, che probabilmente consisterà in un processo di combinazione chimica degli elementi stessi con gli elet- trodi di alluminio. I numeri riportati dimostrano, poi, che l'autorarefazione del tubo procede regolarmente, e solo a pressioni molto basse essa si compie più lentamente — 117 — sino a raggiungere un limite al quale si arresta: nel caso della serie rife- rita, la pressione minima raggiunta è di 190 (pari a 0,0158 mm. di mer- curio), pressione alla quale ricomincerebbe l'emissione del gas che sì sprigiona dagli elettrodi e che nel caso attuale era anche inferiore a quella per la quale si aveva la massima emissione dei raggi X. Ad avvalorare questa interpretazione, che gli elementi dell’aria siano stati fissati e non assorbiti dagli elettrodi, sta il fatto che, riscaldando nuo- vamente il tubo ad alta temperatura e mandandovi le scariche, ciò che torna a liberarsi dagli elettrodi più non è aria ma il solito gas: la qual cosa ho potuto facilmente riconoscere dall'esame spettroscopico fatto per mezzo del tubo di Geissler unito al manometro. Nè poteva esservi dubbio di sorta, » perchè lo spettro del gas che si sprigiona dagli elettrodi è costituito da poche righe che corrispondono alle seguenti lunghezze d'onda: A = 656,8 ; 606 ; 578; 558; 545; 515; 484. Delle azioni chimiche che si compiono sotto l’azione delle scariche tra gli elettrodi di alluminio ed il gas esterno dando luogo ad autorarefazioni del tubo che possono raggiungere pressioni estremamente basse, avrò modo di riferire in un’altra occasione: qui mi basta affermare che il gas che si sprigiona dagli elettrodi si comporta molto diversamente dell’aria. Ma una ancor più notevole differenza tra il comportamento del gas occluso dagli elettrodi e il comportamento dell’aria, si ha dall'esame della emissione dei raggi X. Riporto qui due delle serie fatte con gli elettrodi, quasi esauriti com- pletamente, nelle seguenti condizioni: dopo avere riscaldato il tubo a più che 300° per alcune ore, ed aver aiutato l'emissione del gas residuo ancora contenuto negli ‘elettrodi con le scariche, si è lasciato raffreddare rapida- mente il tubo medesimo togliendone l'involucro di amianto. La pressione del tubo si trovò così portata a 1024 (pari a 0,085 mm. di Hg.). Indi, alla temperatura ordinaria, si mandarono nuovamente le scariche del rocchetto, avendo riunito l'anodo all’anticatodo. Il gas veniva, al solito, assorbito e la pressione decresceva; nello stesso tempo si misurava all’elettrometro la mas- sima deviazione che esso presentava tenendo l'ago isolato mentre il roc- chetto fnnzionava: questa deviazione misurava la ionizzazione prodotta dai raggi X emessi dal tubo. Questa serie di misure è riportata nel seguente specchietto: nella prima colonna, indicata con w, si trovano i numeri letti nella provetta di Mac Leod; nella seconda, i valori di P= x? proporzionali alle pressioni: nella terza la deviazione 4 osservata all'elettrometro. Subito dopo terminata questa serie, si è fatto il massimo vuoto con la pompa Gaede, e si mandò nell'apparecchio una piccola quantità di aria secca, regolando le cose in modo che la pressione dell’aria fosse inizialmente la — 118 — stessa di quella della serie precedente, e cioè 1024. La seconda serie ripor- tata contiene appunto i valori w, di P e di 4 ottenuti con l'aria. SERIE I SeRrIE II w 18) 4 w JR 4 32,0 1024 (0) 32,0 1024 0 30,8 949 0 27,2 740 0 29,6 876 94 23,0 529 0 28,0 784 126 19,0 361 46 26,8 718 182 18,0 324 126 25,5 650 240 16,8 282 229 24,2 986 286 15,8 250 294 23,5 952 306 14,8 219 392 22,0 484 340 14,1 199 350 21,0 441 350 12,7 161 300 20,2 408 356 12,2 149 150 19,4 376 346 18,3 353 310 18,0 394 200 i Dall'esame delle due serie si vede che l'andamento dei fenomeni è nei due casi lo stesso: i raggi X cominciano ad una determinata pressione, rag- giungono un massimo, indi la loro intensità ritorna rapidamente a zero col diminuire della pressione perchè la scarica non attraversa più il tubo. Ma esiste una notevole differenza nei valori ottenuti nei due casi: quando cioè nel tubo si trova il gas emesso dagli elettrodi, i raggi X cominciano ad una pressione sufficientemente elevata, di circa 900 (pari a 0,075 mm. di Hg.); in seguito la loro emissione diventa più abbondante sino a raggiungere il massimo per una pressione di circa 400 (pari a 0,033 mm. di Hg.); indi rapidamente decresce, e, ad una pressione di circa 300 (pari a 0,025 mm. di Hg.), il tubo si spegne. Invece, con l’aria, l'emissione dei raggi X comincia ad una pressione molto inferiore, e cioè a 400 circa (pari a 0,033 mm. di Hg); aumenta con molta rapidità e raggiunge lo stesso valor massimo di prima per la pressione di circa 200 (pari a 0,017 mm. di Hg.); indi, pure molto rapidamente, diminuisce, e alla pressione di circa 130 (pari a 0,011 mm. di Hg.) la scarica non attraversa più il tubo. Quel gas che così difficilmente si svolge dagli elettrodi e che rende così lungo il loro esaurimento sino a raggiungere quelle tali condizioni che rendono stabile il tubo per la massima emissione dei raggi X, si presenta — 119 — adunque, sia per lo spettro che fornisce, sia per il modo come viene rias- sorbito dagli elettrodi, sia per quanto riguarda il suo comportamento per la emissione dei raggi X, completamente diverso dall'aria. Che cosa sia questo gas, se cioè esso sia uno degli ossidi dell'azoto proveniente per il diverso assorbimento da parte degli elettrodi dei due gas principali contenuti nell’aria, ovvero sia un gas alla cui formazione prenda parte qualche altro elemento contenuto come impurezza nell’alluminio non mi è possibile precisare non avendo potuto approfondire la ricerca spettro- scopica: le osservazioni finora fatte non mi forniscono indicazioni sufficienti per un giudizio sicuro: ma su questo intendo compiere ulteriori esperienze. Le due ultime serie riferite dimostrano ancora quale importanza abbia sulla pressione di massima emissione dei raggi X, ed in generale su tutto l'andamento dell'emissione dei raggi medesimi, la diversa natura del gas contenuto. Dal complesso però di tutte le serie fatte durante il processo di esaurimento del tubo, ho riconosciuto che le curve di emissione dei raggi X con la pressione variano continuamente e dipendono essenzialmente dalle con- dizioni superficiali degli elettrodi dai quali la scarica si diparte; solo ad esaurimento quasi compiuto la legge di emissione dei raggi X si presenta costante, così che i raggi X cominciano sempre alla stessa pressione che è pure costante: ma anche di questi fenomeni, che escono dai limiti di questa Nota, e che sono molto complessi, mì riserbo di riferire prossimamente. Matematica. — Sopra un sistema di equazioni algebriche. Nota di A. CecconI, presentata dal Socio T. Lkvi-CIvITA. In certe questioni di Statistica si presenta talvolta il problema che con linguaggio matematico si può esprimere nel modo seguente: Dato un sistema di m.x numeri reali 4, disposti in righe ed in co- lonne, formanti cioè una matrice rettangolare, determinare m + x quantità pure reali, x1,%2,.-,Xm ; Y1:Y2; -+1Yn, per modo che valgano le egua- glianze: \ &iDUry= Ai (f=1,2,..,m) 1 (1) è Yi; Da a= B; Veda) 1 nelle quali, A; e B; sono numeri assegnati tutti diversi da zero e legati dalla relazione Concettualmente la questione è esaurita, essendo ricondotta alla discussione — 120 — di un sistema di equazioni algebriche (di 2° grado), se non che i metodi generali di eliminazione sono in pratica inapplicabili. Era quindi necessaria la ricerca di un algoritmo che permettesse di calcolare, con quella appros- simazione che più aggrada, almeno una soluzione del sistema di equazioni (1). Il metodo che andrò esponendo consente, sotto certe condizioni affatto re- strittive per le applicazioni statistiche, il suddetto calcolo. 1. Conviene anzitutto osservare che, soddisfatte x + m — 1 equazioni, di necessità risulta soddisfatta anche la rimanente; e che, se Xx; = Qi (i=1,2,..,) x;= B; Q=15200%50) è una soluzione, ponendo Xi=0. Qi 1 Yes 0 ‘bj, o designando un numero diverso da zero, si ottiene una nuova soluzione, che sarà però da riguardarsi come sostanzialmente coincidente con la prima. Inoltre, poichè per la natura stessa del sistema (1) non può alcuna delle @ e delle # essere eguale a zero, si potrà sempre fare in modo, determinando opportunamente 0, che una delle incognite acquisti un valore arbitraria- mente prefissato. Potremo quindi limitarci alla ricerca di quelle soluzioni per le quali è y,= 1; e reciprocamente, assegnando una soluzione, supporre sempre ch’essa sia tale da attribuire all’incognita y, il valore 1. Nel seguito, una soluzione si dirà uziforme, se per essa tutte le inco- gnite acquistano valori del medesimo segno. 2. Ciò premesso, dimostriamo che: Se i coefficienti ars e i termini noti A; e B; del sistema di equa- zioni (1) sono tutti diversi da zero e del medesimo segno, esiste una, ed una sola, soluzione uniforme. ESISTENZA DELLA SOLUZIONE UNIFORME. — Poniamo infatti: sO =yO =. = ya =0, e consideriamo, per p=1,2,..., le seguenti successioni: Ai i (2) g= PT '——-— (=1,2,..,) —l DI Qis ye | ze din (8) par (f=1,2,..,#_1), . x ( DE: Urj a 1 — 121 — la legge di formazione delle quali è senz'altro manifesta dalla semplice ispezione dei secondi membri delle (2) e delle (3). Si osservi, poi, che, essendo ogni yj diversa da zero, il denominatore di ciascuna x è maggiore di quello della corrispondente «#; perciò si ha: 1 2 Uan Ammesso ora come provato che, per ogni valore dell'indice 7, sia e Di al) 3 facilmente dimostreremo che vale una disuguaglianza analoga fra i termini xP e xfP*). Infatti, basta notare, che per le (3), il denominatore di yfP_® (7 generico) supera quello del termine successivo y, e quindi è: yP_!) )ZyP; poichè allora, osservando che il denominatore di x! è minore di quello di a+, ne scende subito che dev'essere Pa. Le x costituiscono perciò 72 successioni decrescenti; e, conseguentemente, le y rappresentano x — 1 successioni crescenti. Ora si osservi che, se fra queste ultime ve ne fossero di divergenti, tutte le x dovrebbero essere infinitesime. Ma poichè ciò è da escludersi, avendo sempre, per qualunque p, m DI Bi) 1 si dovrà concludere che ogni y!” tende ad un limite finito che indicheremo ‘ con #;. (1) Infatti, poichè è yi > COTE dalle (2) si ricava: Ne1 m m m a Dai Asr ‘pai vi lat eD> >Z,A Til 10, ve e dalle (3): donde, tenuta presente la relazione fra i termini noti A; e B;, scende: m (p) DE AUrn DG > Ba 1 — 122 — Dalle (2) risulta allora, che le successioni x! convergono verso limiti positivi Ai n—l Da dis Ps 4 din Sui Ci = Se ne inferisce, passando al limite anche nelle (3), che, ponendo cia PE.) Y; = Bj (f=1,2,..,n_1) Yn=l1, si ottiene una soluzione uniforme del sistema di equazioni (1). UNICITÀ DELLA SOLUZIONE. — Ammettiamo, ora, che esista un'altra soluzione uniforme : GU; (19255000) yj= Vj J1E25602290E e ricordiamo che, per quanto abbiamo detto sopra, possiamo supporre v,="1, e quindi u; e »v; positivi. Avendo noi assunti tutti eguali a zero i valori degli elementi y0°, YO ,.1Y0,, a norma delle (2) si avrà manifestamente : xi > Wi; e quindi, per le (3), anche Y Mi (Mena) 4 Si Bj = vj (=1,2,..,.n—-1) Ma dovendo valere l'identità -|MU3 n Arn (@r — pr)=0, i segni di disuguaglianza delle (4) non possono sussistere, e perciò la se- conda soluzione coincide con la prima ci ded — 123 — Come ovvia conseguenza di quanto venne dimostrato, abbiamo: Se i termini noti del sistema di equazioni (1) hanno tutti il me- desimo segno opposto a quello comune ai coefficienti, esiste una, ed una sola, soluzione per cui tutte le x assumono valori negativi mentre tut le y assumono valori positivi. 3. Stabilita la esistenza e la unicità della soluzione uniforme, osserviamo che nelle successioni (2) le x acquistano ordinatamente i valori —. Qin Mutando questi, si può dubitare che le successioni generate dalle formole ricorrenti (2) e (3) conservino la convergenza. Perciò dimostriamo che: Qualunque siano i valori positivi che si attribuiscono agli elementi e, ae... ,x®, si ha sempre lima: = (=) lim yi) = #; older): p=zo Infatti, essendo €, ,c2,..,Cm dei numeri positivi qualunque, e posto xVU= ce, EMI SR) possiamo determinare m numeri è; maggiori di —1, per modo che sia: Cj==" &;(1 + hi) : Indichiamo con H un numero positivo arbitrario non minore del mas- simo degli %;, ed analogamente con /% un numero positivo minore di 1, ma, del resto, qualunque, purchè —/ non superi il minimo degli %;. Neces- sariamente sarà a;(1 — = co= (14+H), dalle quali, tenuto presente che è pat, LS Arj Cy scendono le disuguaglianze DE di a (O Ped m lira A; — hain &; ’ Di si A; + Ha;n 0; i RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 16 — 124 — con facili semplificazioni sì ricava: (4) a;(1 = h6)) < x I==i a;(1 + H) 5 E poichè, come si verifica subito, se, per un determinato valore di o> —1, il rapporto Ar — rn Or A, si Q0Urn Gr è il massimo dei numeri Ai — dina; At Q0in a; esso rimane il massimo, qualunque sia il valore che si attribuisce a ©, purchè maggiore di — 1, dovranno valere le relazioni: A, — Urn Ay hO a®. (=1,2,..,%) Ciò, infatti, risulta subito dall'osservare che in tal caso, con un ragionamento esposto al n. 2, si dimostra che le successioni (2) sono tutte decrescenti. In modo analogo si può provare che: Condizione sufficiente perchè un dato sistema di numeri ci costi- tuisca un'emmupla di difetto, è che sia: = x. id) 5. Da quanto venno esposto sì ricava un metodo per l'effettivo calcolo della soluzione uniforme del sistema di equazioni (1). Basterà infatti, asse- gnati m valori positivi arbitrarî per gli elementi x, servirsi delle formole 2) e (3) per la determinazione delle successive approssimazioni. Per ren- dere più breve il calcolo, converrà partire da valori quanto più prossimi è possibile ai valori limiti. A questo scopo possono essere di guida le seguenti osservazioni: a) Badando alle (2) ed al fatto che dev'essere soddisfatta l'equazione (6) DE Arn Xr = B, D 1 B, ? r 7 e > Lin din si riconosce che ciascuna a; è minore del più piccolo dei numeri = 126, 5) Se le colonne della matrice dei coefficienti del sistema di equa- zioni (1) sono fra loro proporzionali, ed in particolare, quindi, se sono fra loro eguali, è, come subito si verifica, Ain D : o B, AUrj ; nelle quali l'indice 7 è arbitrario, essendo, per l'ipotesi supposta, il valore del rapporto si dipendente dal solo indice j. ri c) Se i numeri c;, che si attribuiscono alle x6, soddisfanno alla (6), alcuni di essi sono #° generale maggiori, e gli altri minori dei rispettivi limiti. A;Bu din D ) 6. Partendo da un’emmupla di eccesso, è facile assegnare un limite su- periore dell'errore che si commette arrestandosi ad una approssimazione di un dato ordine p, quando cioè si assumono per le «; e le y; le determina- zioni «{? ed y anzichè i rispettivi limiti a; e #;. Siano c; i valori attribuiti alle x e sia 9; un'emmupla di difetto. Indichiamo con « la differenza x — &;, con R il maggiore dei numeri Ci Yi € poniamo Tali sono, ad esempio, i numeri con che le g; risultano necessariamente frazioni proprie. Tenuto presente quanto venne esposto al numero 3, ed osservato che il prodotto Ha; può sempre supporsi minore di R, sarà: n a AES ARESE No Dual) 0, sia f(a,y,232',y' ,8)=f(2,y,8;ka' ,ky' la). Sia C una curva rettificabile interna a T°, di cui «= x(s8),y= y(8), z=2(s) definiscano un punto generico A, in funzione dell'arco s misurato da un estremo di C fino al punto A. Lo I= f/(@,9,5:4,4,9) ds, esteso a tale curva C, è, secondo Weierstrass, il limite dell’integrale ana- logo relativo ad una poligonale P inscritta in C, quando il massimo lato di P tende a zero. Evidentemente questa definizione non muta se poniamo le equazioni parametriche di P sotto la forma a=(t),y=7(t) ,8=5(t), — 129 — dove £ è il parametro sopra definito, e consideriamo J come il limite del- l'integrale (calcolato secondo Riemann) (1) S1G,9,3:3/,7,3) di esteso a P, quando il massimo lato di P tende a zero. Ora è ben evidente che x(t) +-7°(4) + #"*(6) < 1. Quindi /(7,7,7;%",7,s") è limitato, se la poligonale P ha i lati così piccoli che ogni suo punto appartenga a I°. Per un noto teorema del Lebesgue, il limite di (1) coincide con l'integrale del lim /(2,7,5:; 2,75) calcolato al modo del Lebesgue. E per i nostri risultati precedenti (lim7'= =x', ecc.), ne concludiamo: Per le curve rettificabili, l'integrale di Weierstrass è uguale all’in- tegrale del Lebesque (*). Meccanica. — Muovi tipi di onde periodiche permanenti e rotazionali. Nota II di U. CisorTI, presentata dal Socio T. Levi- CIVITA. 6. Per integrare la (15) (?), (15) = M—1%-) +2, (1) Questo teorema è stato per tutt'altra via ottenuto, in casi meno generali, dal prof. Tonelli nel tomo 32 (1911) dei Rendic. del Circ. matem. di Palermo; e in questi Rendic. 14 aprile 1912. In casi particolari il prof. Tonelli ha dimostrato, in più, che la rettificabilità di C è condizione necessaria affinchè l’integrale di Weierstrass sia finito. (@) L'equazione differenziale del profilo delle onde « cnoidali » di Korteweg e De Vries è Do Lamb, loc. cit., pag. 402]: pay 0h) dove h, e hs sono il massimo e il minimo dei valori di y, c la velocità di propagazione, c? h? ì ; ER : © = ghila E . Come si vede, questa equazione è del tipo (15). Tuttavia l'integrazione della A non si può far dipendere da quella precedente fatta da Korteweg e De Vries, e conduce, per conseguenza, ad un profilo d'onda diverso. La ragione sta nella circostanza che la costante %”, che comparisce nella (15), è positiva [cfr. n. 4], mentre la costante corrispondente nell’altra equazione è —/, che è negativa. Gli autori, supposto infatti ha 0 e R1 — [>>0, f È reale. Nel caso nostro, l’ integrale precedente non è applicabile, perchè darebbe per £ un valore immaginario. D'altra parte, confrontando la precedente colla (28), si vede che le equazioni sono essenzialmente differenti, e quindi i profili delle nostre onde non sono cnoidali. — 131 — Posto quindi _ fhk—-a _(e—4)k+50—2 prata VI E SAD, E N LI sa eo Nel DIE Ch, nea RT OTO, A a SOUo sl, (O RH4+1 0 120(#+41) te se0<1, dove ora è, in ogni caso, eotete=0, la (20) diviene (24) pri(p_—e)(p—e)lp—_e). La p è dunque la funzione ellittica di Weierstrass, i cui invarianti 9: € 93 sono notoriamente legati a e,,e»,e3 dalle relazioni Î 1 \ 0034 08014 0= 7925 (25) I i CPescir gdo 7. È facile verificare che è, in ogni caso : (26) AGRA PAIE Infatti, cominciamo a dimostrare che è sempre e, > 0. Il numeratore di e, è >0 se o> 1. ed è <0 se o< 1 [cfr n. 5]; lo stesso dicasi del denominatore. Dunque, numeratore e denominatore di e, essendo sempre dello stesso segno, sarà e, > 0. In quanto a e2, esso è => 0 se o= 4 e in tal caso è manifestamente e, > es. Facciamo ora vedere che in ogni caso è ee—-e>O0. Infatti, essendo, per le (23), nel caso o>1, (o 4)kX+20+1 60(kX— 1) sarà avendo posto [(0)=(0—4)(8k—1) +40+2. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 17 — 132 — È facile il vedere che /(0) > 0; inquantochè è /'(0)=3(4+1)>0 e f(0)=2. Dopo ciò potremo concludere che, se è 0 > 1, e quindi [n. 5] 4>1, è e° — 4 > 0. In modo analogo si vede che se è 0< 1, essendo allora kEO0. Restano intanto dimostrate le diseguaglianze (26). 8. In ogni caso, dalle (23) scende che le radici e, , e», 63 della p°= 0, sì mantengono sempre reali; perciò il discriminante A=]4(c. — 63) (es — 21) (01 — 02) {? è sempre positivo, e si annulla solo per @ = 1, valore che abbiamo escluso [nzt5a]” In tali circostanze la funzione p ammette due periodi, 20 e 20°, reale il primo e immaginario il secondo, definiti notoriamente dalle formule se- guenti : DETEI I 90 = | dp 56, \ /_- ei V(p— e.)(p— e)(p— 6) ; (27) _ | 20) _ | SE EC AA € Ja, Vp—a)(p—_e)(p—_ e) Quest'ultimo non ha, evidentemente, alcun interesse per noi. Ciò posto, la (18) per l'ultime delle (14), definisce in modo completo il pelo libero 4, il quale ha per equazione EEE Lo , RAM 1 (28) de re più dove p = p(è) r(7), essendo @ e # definite in funzioni di o mediante le (22). La eliminazione di y tra la precedente e la (12), 1 a,=37, Yy definisce la funzione a, (GL sì ottiene così SENI mai TRINO a) (29) Tala r=?(5 per la quale l’espressione (10) w=0@,Y, — 133 — della funzione di corrente, diviene 1 PTR (30) Urge Come si vede, si tratta di onde periodiche e di periodo 2@% definito dalla prima delle (27). 9. È interessante di stabilire la profondità del canale, cioè il valor medio delle altezze del pelo libero sul fondo del canale. Tale altezza media, che indicherò con H, sarà definita, a norma della (28), dalla seguente espressione : î dn, Ie )l +e‘ ma essendo, per le (22) e le (23), | Dial a! 1 —— se TE dee sine hi) n 2o p_—er e p+ p+ ZI l1+ pe a se o1, (31) H= 20h + O ra pg ai Fan, LR 0a Q CA i Supposto 0 > 1, si ha ('), tenendo presenti le (23), U a pé — n—- w') — 03 Dida (eo — 21) (e° — 63) SD: 240° pé — ®© — 0')— 2(0— 4)o 3(1- e)}le- 4)E+e+2] dove w' è definita dalla seconda delle (27); per questa da (31), si ricava (O0—-4)(E_- 1) )} per 3(0—- 4)k+4+0+2) Siniicato 0<1, allora essendo (*) per le (283): dio) 3te— 1) i(e—49)E+0+2f (32) H= È dr i IE l ee plE — 0) — 63 P— 63 (es — 21) (03 — 03) =(k—1) da (31) si ricava in definitiva: GIONA REA (82) ce o) per 0<1. (1) Cfr., ad es., Halphen, Fonctions elliptiques [Paris, 1886, vol. 1, pag 205]. (2) Cfr. Halphen, loc. cit. — 134 — Geografia fisica. — Quarta relazione della spedizione scien- tifica nel Karakoram orientale, trasmessa al PRESIDENTE dal capo della spedizione dott. FiLippo DE FILIPPI. La spedizione lasciò la stazione di Suget nella valle del Karakash, a nord del Karakoram, nei primi giorni di settembre, per recarsi nella valle dell'alto Yarkand o Raskem Daria. valicando il colle Kug Art . (4925 m.). Raggiunto il fiume a Kirghiz Jangal, ci dividemmo nuovamente in due gruppi. Il maggiore Wood risalì la valle per riunirsi a Kufelang con l'ing. Spranger e Petigax, e procedere con loro alla esplorazione dei due affluenti occidentali, di cui aveva constatato l'esistenza nel mese pre- cedente. Il dott. De Filippi, il prof. Abetti ed il marchese Ginori si diressero a valle con l'intenzione di raggiungere l’Oprang attraversando la catena Aghil. Avevamo sperato che il mal tempo, di cui avevamo sofferto nell'estate, sarebbe cessato coll'autunno, ma fummo completamente delusi. Ogni giorno cadeva nuova neve sulle creste e pioggia nelle valli; l'atmosfera torbida e carica di vapori toglieva la vista dei monti e delle catene, rendendo ol- tremodo difficile e penoso il lavoro topografico. La conseguenza più grave di questo persistente cattivo tempo fu la mancata diminuzione autunnale dei fiumi, sulla quale avevamo contato e senza la quale è impossibile per- correre queste valli. Nei primi due giorni dopo lasciato Kirghiz Jangal, guadammo il Yarkand otto volte, in certi tratti dove la valle più ampia permetteva al fiume di dividersi in. più rami. Più sotto, la valle si rinserrò in gola, e divenne impossibile di attraversare il fiume raccolto in un unico letto. i Con molte difficoltà, specie per il trasporto del bagaglio, riuscimmo a superare varî alti contrafforti del lato destro della valle e sei giorni dopo, lasciato Kirghiz Jangal, scendemmo a precipizio da uno di questi in faccia alla valle per la quale dovevamo salire al colle Aghil. Fra noi ed essa correva però il fiume gontio, torbido, violento e pieno di gorghi. Dopo aver speso un giorno intiero in vani tentativi, dovemmo per- suaderci che era inutile sperare di poterlo traversare con la carovana. Solo qualche robusto cavallo riusciva a raggiungere l’altra riva a nuoto. I cam- melli erano trascinati via. Così, con grande rincrescimento, fummo costretti a rinunciare alla pro- gettata esplorazione della valle Oprang. — 185 — Nel frattempo, la comitiva del maggiore Wood visitava, l'uno dopo l’altro, i due affluenti occidentali dello Yarkand. Contrariamente alle no- stre previsioni, questi non provengono dai versanti settentrionali della catena del Karakoram, ma da una catena nevosa a settentrione di essa, la quale, probabilmente, separa il bacino dell'alto Yarkand da quello del- l'’Oprang. Quando sarà fatta la definitiva compilazione della nostra carta, potremo forse renderci conto dei rapporti di questa catena colla Aghil e col Karakoram. In una di queste valli tributarie, e precisamente nella settentrionale, a circa cinque miglia sopra la sua confluenza con lo Yarkand, la comitiva esplo- rativa scoprì traccie del passaggio di uomini; alcuni esemplari del Corano, e poche lettere. Questa valle è una gola così stretta, che per gior- nate intiere si deve procedere nell'acqua del torrente; e sembra impossibile che essa sia mai stata una via di regolari comunicazioni. Tuttavia questa scoperta sembra dar fondamento alle tradizioni di una via diretta fra Ku- felang e la valle Nubra di cui fan cenno molti antichi esploratori (G. W. Hayward, ecc,); ma che nessuno ha finora verificate. Coll’aiuto delle let- tere da noi ritrovate, stiamo ora facendo una inchiesta a Yarkand e Kashgar, nella speranza di raccogliere qualche maggiore informazione. Dal Raskem Daria le due comitive topografiche attraversarono per vie diverse il Kuen Lun occidentale, e pervennero direttamente a Kargalik e Yarkand. Fra il 27 settembre e il 10 ottobre venne eseguita la stazione gravi- metrica e magnetica di Yarkand, dove ricevemmo anche ottimamente i se- gnali di tempo radiotelegrafici trasmessi da Lahore. Il 15 ottobre giunge- vamo e Kashgar, dove ritrovavamo ospitalità europea nelle case dei consoli generali inglese e russo. I lavori geografici ci trattennero undici giorni. Grazie al metodo radiotelegrafico, sì potranno determinare con grande esat- tezza le longitudini di Yarkand e di Kashgar, due stazioni importanti che hanno servito di base per tutto il lavoro topografico del Turkestan cinese. Il 27 ottobre lasciavamo Kashgar per l’ultimo tratto di viaggio in ca- rovana. In undici giorni attraversammo la complicata regione montuosa in- terposta fra Turkestan orientale e Turkestan russo. trovando i colli più alti (Terek Dawan) coperti già dalle prime nevi autunnali; e ad Andijan ritrovavamo la ferrovia, dopo quattordici mesi di viaggio per le vie ca- rovaniere. Nell’osservatorio di Taskent, compivamo l’ultima delle stazioni gravi- metriche iniziate all'ufficio trigonometrico di Debra Dun; ed il collegamento del sistema indiano con quello della Russia Asiatica era così completato. L'Istituto topografico militare di Taskent ha cortesemente acconsen- tito a prendere in consegna il materiale scientifico strumentale della spe- dizione ed a trattenerlo fino a che siano ristabilite le vie normali di tras- — 136 — porti interrotte dallo stato di guerra. La spedizione ha recato con sè in Italia soltanto i cronometri, le lenti fotografiche, l'apparecchio gravimetrico, tutti i dati ed i documenti scientifici, le carte ed il materiale fotografico esposto. Il comandante Alessio ed il prof. Abetti sono ora intenti ad eseguire l’ultima stazione gravimetrica all'Istituto idrografico della regia marina a Ge- nova, con lo stesso apparecchio che ha servito a tutte le nostre osservazioni. La stazione di Genova è stata pure la nostra stazione di partenza. In questo modo tutto il sistema di stazioni gravimetriche dell'India, dell'Asia cen- trale e della Russia asiatica sarà collegato con una stazione fondamentale. RIASSUNTO GENERALE DEI LAVORI DELLA SPEDIZIONE. La spedizione ha potuto svolgere intieramente il suo programma di ri- cerche, in sedici mesi e mezzo di lavoro. Nel campo della geofisica, il sistema di stazioni eseguite dall'Ufficio Tri- gonometrico dell'India nei piani preimalaiani è stato collegato con quello stabilito nel Turkestan russo da quell'Ufficio Geodedico Militare, per mezzo di una catena di stazioni eseguite attraverso i grandi sistemi di monti in- terposti fra India occidentale ed Asia centrale, ed attraverso il Turkestan cinese. Tutto questo complesso sistema è collegato colla rete europea per mezzo della stazione fondamentale di Genova. Le stazioni da noi eseguite furono quattordici: e, non ostante le difficoltà dovute alle condizioni eccezionali nelle quali si dovette spesso osservare, sono state condotte tutte col più rigoroso metodo scientifico. Vennero sempre osservati otto pendoli. L'apparato gravimetrico fu sempre adoperato senza supporto ed appoggiato generalmente sopra un grosso masso di pietra inter- rato, col quale si ottennero sempre variazioni minime del valore della flessione. Dove mancavano gli edificii, le osservazioni sì fecero in una grande tenda appositamente costruita, nella quale le variazioni termiche sì manten- nero nei limiti desiderati. Vennero determinate con grande esattezza le coordinate geografiche di ogni stazione, e si raccolsero dati topografici del terreno adiacente, corredandoli con vedute e panorami fotografici. La spe- dizione era fornita di cronometri e di strumenti astronomici. Per i caratteri eccezionalissimi della regione attraversata dalla spedi- zione, l’analisi delle determinazioni gravimetriche non può mancare di con- durre ad interessanti constatazioni sulla influenza che le masse montane, l'altitudine ecc., esercitano sul valore della gravità. Le stazioni vennero ese- guite ad altezze che variano fra 1500 e 5300 m. sul livello del mare. In tutte le stazioni si fecero anche osservazioni magnetiche (incli- nazione, declinazione e forza); ed a Skardu, approfittando della lunga sosta invernale, venne anche determinata la variazione magnetica diurna. — 137 — Dovunque la spedizione si fermò per le osservazioni geofisiche, si fecero regolari osservazioni meteorologiche, lanci di palloni-piloti e, quando il tempo lo permetteva, osservazioni di radiazione solare con varii pireliometri. Particolarmente notevoli sotto questo riguardo sono le stazioni di Skardu, dove si raccolsero regolarmente i dati meteorologici durante quattro mesi, nell'inverno 1913-14; e quella dell’altipiano Depsang. a 5300 metri di al- titudine, dove si fecero ininterrotte osservazioni per due mesi e mezzo. Per accordi presi coll’Ufficio Meteorologico Indiano, i lanci di palloni- piloti venivano eseguiti simultaneamente da varie stazioni dell’India. per modo che si spera di poter desumere dai dati d’assieme qualche conclu- sione intorno al regime dei venti, con speciale riguardo allo studio dei monsoni. È difficile, od anzi impossibile, di riferire in modo intelligibile intorno al lavoro geografico, senza l’aiuto di carte o di illustrazioni; per cui mi limito a pochi cenni sommarii. L'estremità orientale della catena del Kara- koram era, finora, molto incompletamente conosciuta. Verso il 1865, un to- pografo dell'Ufficio trigonometrico indiano, il Johnson, aveva fatto un rile- vamento delle valli, attraverso le quali passa la via carovaniera fra il Ladakh e l'Asia centrale. Egli aveva veduto la fronte di un ghiacciaio dalla quale esce uno dei principali tributarii dell'Indo superiore, il fiume Shyok, ed aveva chiamato Remo questo ghiacciaio. Ma non aveva potuto determinarne l'estensione, nè la direzione o la disposizione delle valli in cuì scende; nè accertare la posizione dello spartiacque. L'esplorazione di questo ghiacciaio e della porzione corrispondente del Karakoram fu il lavoro della spedizione nell'estate trascorso. Il Remo si rilevò come un ghiacciaio di proporzioni e di importanza inaspettate. Il bacino glaciale ha oltre 700 chilometri quadrati di superficie, ed è formato da tre grandi finmane di ghiaccio, lunghe oltre 30 chilometri, che riempiono valli di 5-8 chilometri di larghezza. Il ghiacciaio ba caratteri molto singolari, e il suo bacino è come un termine di passaggio tra la valle e l’altipiano. Il fatto più inte- ressante è senza dubbio quello che il Remo dà ad un tempo origine al fiume Shyok, tributario dell'Indo, le cui acque vanno all'Oceano Indiano, ed allo Yarkand, uno dei grandi fiumi che vanno a perdersi nelle sabbie dell'Asia Centrale. L'esplorazione della zona limitrofa del Karakoram ha permesso di constatare in questa regione una grande incertezza dello spartiacque, la quale prelude senza dubbio ai bacini chiusi degli altipiani tibetani. La scoperta delle sorgenti del finme Yarkand ci condusse poi alla esplorazione sistematica di tutto il suo bacino superiore. Questi lavori furono continuamente ostacolati dal persistente cattivo tempo. Tuttavia, grazie alla concorde attività di tutti, si poterono triango- lare e rilevare quasi 5000 miglia quadrate di terreno. — 138 — Particolarmente interessanti furono le determinazioni di differenze di longitudine col metodo delle trasmissioni radiotelegrafiche di segnali di tempo. I segnali venivano trasmessi dalla stazione radiotelegrafica di Lahore, ed erano ricevuti simultaneamente dall'Ufficio Trigonometrico di Dehra Dun e da noi, nelle varie stazioni. Prima e dopo della trasmissione veniva determi- nato il tempo locale, con osservazioni stellari. In questo modo si potranno calcolare le longitudini con grande approssimazione e sarà possibile di deter- minare — coll’aggiunta della latitudine — la deviazione della verticale in tutte le stazioni eseguite nella valle dell'Indo e nella stazione sull’ alti- piano Depsang; mentre si otterranno esatte coordinate per le stazioni del Karakoram e dell'Asia centrale, utili sia per la correzione delle carte antiche, sia per il futuro lavoro topografico in quelle regioni. La vasta zona montuosa interposta fra India occidentale ed Asia Cen- trale non ebbe alcuna cattiva influenza sulla trasmissione dei segnali ra- diotelegrafici, i quali vennero sempre percepiti chiarissimi, anche nelle lon- tane stazioni di Yarkand e di Kashgar. Mi rimane a dire delle ricerche geologiche. Queste coprono una zona molto più vasta di quella compresa nell'itinerario della spedizione; gran parte del Baltistan e del Ladakh, alcuni dei grandi altipiani del Tibet Oc- cidentale e l'estremità orientale del Karakoram. Fu raccolto un abbondante materiale litologico e molti fossili, grazie ai quali si potrà assegnare una data a molte delle formazioni da noi attraversate; e vennero studiati con particolare cura l'estensione ed il limite dei passati periodi di glaciazione. È da sperare che lo studio del materiale raccolto potrà condurre a qualche dato per una classificazione razionale di quei complicatissimi sistemi di monti, fondata sulla loro costituzione geologica. Il prof. Dainelli, nel corso delle molte escursioni geologiche, ha anche raccolto abbondante materiale per uno studio antropo-geografico del Baltistan e del Ladakh, la cui antropologia non è stata finora studiata sistematica- mente, tanto che si hanno le più contraddittorie notizie sulle razze che vi abitano. Infine, la spedizione ha riportato un abbondantissimo materiale illu- strativo, riguardante tutti i campi della sua attività. — 139 — Chimica-fisica. — In/luenza delle basi organiche sul poten- ziale dell’elettrodo a idrogeno ('). Nota di ARRIGO MAZZUCCHELLI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. In un lavoro recentemente presentato a questa Accademia (*), ho tro- vato che l'aggiunta dei sali di varie basi organiche influenza sensibilmente il potenziale di riposo di un elettrodo di zinco immerso nella soluzione del suo solfato. Ho già annunziato la mia intenzione di estendere queste ricerche agli altri metalli più comuni, su alcuni dei quali sto già lavorando; ma in- tanto si presentava di particolare interesse la questione, se analoghi feno- meni si manifestino anche nel caso dell’elettrodo a idrogeno, il quale oc- cupa una posizione eccezionale pel fatto che i cationi H* che esso emette sono quelli stessi che, sommandosi col gruppo amminico delle basi organiche, dànno origine ai cationi di queste. Con la presente Nota rendo conto dei risultati ottenuti in proposito. Nelle mie esperienze ho misurato, col solito metodo di compensazione, mediante un elettrometro capillare che dava 0,001 V., e una pila Weston come normale, il potenziale dell'elemento Hg | Hg, SO, , H: SO, N | H; (PI). L’elettrodo a idrogeno era del tipo di Bottger (*) (ma con elettrodi in platino, invece che di oro); la lamina di platino era stata platinata elettro- liticamente con la nota soluzione di Lummer e Kurlbaum; l'idrogeno era ottenuto da zinco e acido solforico, e veniva depurato attraverso una solu- zione di KMnO,, acidulata con ac. solforico. Il potenziale assumeva un valore costante, in meno di una diecira di minuti. Non si tenne conto della tensione di vapore dell'acqua alla temperatura ambiente (verso 14°) nè della pressione barometrica giornaliera, poichè quasi tutte le misure furono fatte in modo comparativo, prima misurando il potenziale dell'elettrodo a idro- geno in soluzione solforica pura, e poi aggiungendo il solfato organico, e ripetendo la misura. L’elettrodo a mercurio era contenuto in un recipiente della forma consueta (4), unito mediante un sifone, da cui si faceva ‘goc- ciare un po’ di liquido alla fine di ogni misura, col bicchierino dove era l'elettrodo a idrogeno, e nel quale si facevano le aggiunte. (*) Lavoro eseguito nell'Istituto chimico dell’Università di Roma. (8) Seduta del 20 dicembre 1914. (*) Z. ph. Ch., 24, 260. (4) Ostwald, Messungen. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 18 — 140 — Siccome ambedue gli elettrodi erano immersi nella stessa soluzione, non esisteva forza elettromotrice di contatto liquido, la quale peraltro doveva manifestarsi dopo che si era aggiunto al liquido dell’elettrodo a idrogeno una soluzione titolata del solfato organico, o anche (a seconda della con- venienza pratica) il solfato allo stato solido. Per avere una idea dell'im- portanza di questa f. e. m., feci saggi comparativi, diluendo un poco l’acido dell’elettrodo a idrogeno, o addizionandovi un po’ di solfato potassico (elet- trolito estraneo, ma sicuramente senza influenza sul potenziale elettrodico), ovvero diluendo e aggiungendo solfato potassico contemporaneamente, come è espresso dagli schemi seguenti, di cui il primo corrisponde all’elemento senza alcune aggiunte: Hg | Hg» SO, Hg: SO, N | Ig (Pt) = 0,695 V. (e Come si vede, si tratta di variazioni abbastanza piccole: e poichè nelle misure effettive le diluizioni e le aggiunte di solfati organici ebbero luogo per un ammontare assai 1ninore, possiamo con sicurezza affermare che diver- genze dal valore normale della f. e. m. superiori a quelle sopra riportate sono senz'altro da attribuire ad azione specifica delle varie basi sul processo elettrodico. E ora riporto senz'altro in forma di tabelle i risultati ottenuti : nella testata è indicata la composizione del liquido intorno all’elettrodo a idro- geno, quale veniva a risultare dopo l'aggiunta della soluzione titolata o del solfato organico solido; nella colonna Tempo sono indicati i minuti decorsi dopo l'aggiunta; nell'altra « F. E. M. » il risultato ottenuto col metodo di compensazione. Nei casi (e sono i più) dove, prima di aggiungere la base, si determinò la f. e. m. dell'elemento in stato normale (e cioè secondo lo schema I), il valore ottenuto è riportato coll’indicazione s. a. I II. HsS0, 0,974 N + 0,3°/ p. disolfato chinina H,SOo,N+0,5°/% p. disolfato cinconina Tempo F. E M. Tempo F. E. M. _ 0,692 s. a. — 0,700 s. a. 8 0,624 15 0,682 30 0,621 50 0,682 165 0,666 (*) Lo stesso valore fu osservato da Wilsmore a 25° (ved. Abegg-Auerbach, Mes- sungen elektromotorischen Krifte, 118). Hg | Hgs SO, , H» SO, N | H, SO, 0,8N | H; (Pt) = 0,693 V. Hg | Hg» SO, , H, SO4 N | Ha $0,0,8N+ 1°/, p Ka SO, | H. (Pt) = 0,698 V. Hg | Hgs SO, , Ha SO, N | Ha1SO,N+1°/09 K SO, | Hs (Pt) = 0,696 V. — l4l — III HaS0,N+ 0,5 °/0 p. solfato brucina Tempo F. E. M. = 0,696 s. a. 15 0,668 25 0,674 85 0,678 45 0,678 V. H.9S0, 0,92 N-+ 0,7 °/ p. solfato coniina IV. H,S0,N+-0,5°/, p. solfato veratrina Tempo F. E. M. —_ 0,696 s. a. 5 0,692 17 0,692 25 0,692 40 0,692 VI. Hs 50, 0,97 N+ 0,56°/, p solfato idrastina Tempo | F. E. M E Î 0,696 s. a. 3 0,690 20 0,692 40 0,692 70 0,696 90 0,696 VII. Hs$0,0,975N+0,6°/,p solfato chinolina Tempo F. E. M. -— 0,696 s. a. 20 0,696 30 0,696 40 0,696 VIIL H; $0,0,975.N+0,73°/ p. solfato lutidina Tempo F. E. M. Tempo F. E. M —_ 0,695 s. a. — 0,695 s. a. 5 0,676 13 0,694 7 0,682 51 ‘0,693 13 0,685 IDE X. H,80,0,955 + 0,70°/0 p. s0/. dimetilanilina HaS04N+0,5°/ p. solfato fenilidrazina Tempo F, E. M. 13 0,686 25 0,686 XI. HsS0,N4-0,5°/ p. saponina Tempo F. E. M. 15 0,650 25 0,655 30 0,667 75 0,672 85 0,679 105 0,682 XII. H: S04.N+ 0,5 °/ p. gelatina Tempo F. E. M. — UE, Sa 10 0,697 20 0,698 30 0.698 Tempo F. E. M. 15 0,696 95 0,696 — 142 — XIII. H. SO,.N+ 1°/ amido solubile Tempo F. E. M. 15 0,696 45 0,696 50 0,696 Ai numeri precedenti possiamo far seguire brevi osservazioni. Le basi organiche hanno effettivamente una azione sul potenziale del- l'elettrodo a idrogeno, rendendolo più nobile, appunto come si era prece- dentemente esservato nel caso dello zinco. La loro attività varia poi speci- ficamente da sostanza a sostanza (si confrontino, fra gli alcaloidi propria- mente detti, le tabelle I, II, III, di fronte alle IV, V, VI); è però note- vole che, fra le basi di costituzione più semplice, la chinolina e la dime- tilanilina (VII, IX), che influenzano molto la deposizione catodica dello zinco, si mostrano pure assai attive di fronte all’elettrodo a idrogeno. Ec- cezionalmente attiva è la fenilidrazina, per la quale peraltro si può sospet- tare una azione depolarizzante propriamente chimica. L'azione deprimente alle basi si manifesta sempre allo stesso modo: e cioè più energica nei primi tempi, per affievolirsi (più o meno lentamente) in seguito. Ho limitato in ogni caso le misure a qualche diecina di minuti, perchè non sembra dover essere particolarmente interessante ciò che avviene dopo un tempo assai lungo; sapendosi, infatti, che i catalizzatori (in senso lato) alterano la velocità dei processi, ma non il loro equilibrio definitivo, è ovvio di indurne che al limite dovrà stabilirsi il potenziale normale. Del resto, misure di lunga durata potran sempre farsi, qualora se ne presenti la con- venienza. Ho fatto alcune misure con sostanze colloidi (gelatina, amido) o ca- paci di concentrarsi alla superficie libera dei liquidi (saponina, che dava abbondante schiuma di grosse bolle colla corrente di idrogeno), sia per avere un termine di contronto, sia in vista delle osservazioni, più che altro qualitative, di C. Marie (*), il quale avrebbe trovato che la gelatina fa au- mentare la tensione di deposito elettrolitica dell'idrogeno. Nel nostro caso le tre sostanze hanno una azione quasi nulla, ciò che può stare in rela- zione col fatto che la diffusione degli joni, e dei cristalloidi in genere, non è notevolmente influenzata dai colloidi. (1) Compt. rend. 147, 1908, (1400-1402). — 143 — Per quanto concerne invece l’azione delle basi, non è facile darne una interpretazione completa: a una decomposizione elettrolitica del sale, con liberazione della base, che si deporrebbe sul catodo [come ho supposto nel caso dello zinco (') ], in questo caso non può evidentemente pensarsi. In quanto le variazioni della f. e. m. corrispondono a una diminuzione della massa attiva dell’H,, esse accennano a una diminuzione nell'attività del nero di platino come trasportatore di idrogeno, e l’effetto perciò sarebbe da ravvicinarsi agli « avvelenamenti » dei metalli colloidali (*), processi, del resto, assai oscuri nel loro meccanismo, ma dove in ogni caso ha una parte assai importante l'assorbimento superficiale. Poichè nell'assorbimento dei sali da parte delle superficie solide spesso la parte basica viene più assorbita della acida (valga ad es. il noto caso dell'’Mn O:), è concepibile che anche iu questo caso sia assorbita soprattutto la base libera. Ma questo fenomeno potrà essere pienamente apprezzato solo in cor- relazione cogli studî che ho in corso sull’influenza delle basi sui poten- ziali elettrodici dei metalli; in questa Nota mi basta di aver reso noto il fatto sperimentale. Mi è grato di ringraziare lo studente signor Di Giorgio, della cui ze- lante opera mi sono valso nella esecuzione delle misure sperimentali. Chimica. — Sulla costituzione del trifenil-ammino-etil-alcool ottenuto per azione della luce (*). Nota di Lypia MONTI, presen- tata dal Socio E. PATERNÒ. Nella Nota IX (‘) Sintesi in chimica organica per mezzo della luce il prof. Paternò descrisse un composto della formula Cso Hi9 ON che ottenne per azione della luce sopra una mescolanza di benzofenone e benzilammina. Per analogia con altre simili reazioni, ammise allora che questo composto si fosse formato per condensazione enolica fra il gruppo CO del benzofenone e il gruppo CH, della benzilammina, e che avesse la costituzione di trifenil- ammino-etil-alcool: CH; CeH; | | HO—-C_—_C-H. | | CHs NH; (*) loc. cit. (*) Cfr. Leblane, Die elektrem. Krifte dsr Polarisation, Halle, 1910, (39). (*) Lavoro eseguito nell’ Istituto chimico della R. Università di Roma. (4) Gaz. Ch. It., 44 (1) 247 (1914). — 144 — Siccome prima di allora questa sostanza non era stata ottenuta per altra via, non era inutile cercare di dimostrarne la costituzione. Perciò il prof. Pa- ternò mi dette un campione di tale sostanza perchè cercassi di trasformarla in qualche corpo noto. La via migliore mi sembrò la eliminazione dell’azoto per mezzo dell'acido nitroso, perchè in tal modo avrebbe dovuto ottenersi il trifenil-glicol di Gardeur (') o qualche suo prodotto di trasformazione che fosse conosciuto. Gr. 2 di sostanza si disciolgono in circa 25 ce. di acido acetico: se alla soluzione raffreddata si aggiungono circa 2 gr. di nitrito sodico sciolto in poca acqua, subito si svolgono bollicine gassose. Il miscuglio limpido di color giallo chiaro si fa bollire finchè non si vedono più vapori nitrosi; poi si aggiunge acqua e si lascia raffreddare: si deposita una sostanza bianco-gial- lastra voluminosa che si fa cristallizzare più volte da alcool bollente. La sostanza così purificata si presenta allora in aghetti bianchi fusibili a 134-136°. La sostanza seccata a 100° fino a peso costante dette all'analisi i seguenti risultati : Sostanza gr. 0,2730; CO». gr. 0,8775; Hs0 gr. 0,1468 Donde °/, Trovato C 87,66 H 5,90 I risultati analitici conducono dunque alla formula Gs Hi60 per la quale si calcola. C 88,23 H 5,88 Questa sostanza in tutte le sue proprietà è identica a quel prodotto di disidratazione del trifenil-glicol ottenuto allo stato impuro da Klingermann (*) e studiato poi da Delacre (*), da Collet (‘) e da Biltz (5). Il prof. Paternò e Forlì-Forti (5) l’ottennero pure riscaldando con alcool in tubi chiusi a 200° il monoacetato del trifenil-glicol, preparato per azione della luce sopra una mescolanza di benzofenone ed acetato di benzile. Ho potuto confermare che la sostanza da me preparata è veramente identica a tale prodotto di disidratazione del trifenil-glicol, facendone, col metodo descritto da Biltz, l’acelil! derivato, per riscaldamento con anidride acetica ed acetato sodico. Ho ottenuto così un prodotto, che cristallizzato da acido acetico diluito, fonde a 101-108°, identico a quello descritto da Biltz (*) Gardeur, BI. de l’Acad. Belgique (3) 54, 92 (1897). (*) Klingermann A., 275, 88 (1893). (*) Delacre, BI. (3) 75, 889 (1896). (*) Collet, BI. (3) /5, 22 (1896). (5) Biltz, B. 26, 1957 (1893) e A. 296, 242 (1897). (9) Paternò e Forlì-Forti, Gaz. Ch. It., 40 (2) 832 (1910). — 145 — e identico a quello che il prof. Paternò aveva preparato dal mono-acetato del trifenil-glicol riscaldandolo con cloruro di acetile in presenza di acido acetico. La formazione di questo prodotto di disidratazione del trifenil-glicol sta a dimostrare che veramente la benzilammina per azione della luce reagisce col benzofenone in maniera analoga a quella con cui reagiscono l'alcool ben- zilico e l'acetato di benzile. Il gruppo CHs della benzilammina reagisce cioè col CO del benzofenone dando luogo ad una condensazione enolica. Sol- tanto ammettendo la formula (I) per il composto che si ottiene dalla ben- zilammina e benzofenone si può spiegare la formazione, da me osservata, del trifenil-glicol (II) e per esso del suo prodotto di disidratazione, sia esso da considerarsi come ossido di trifenil-etilene (III), sia come trifenil-vinil- alcool (IV) (probabilmente, come fece notare il prof. Paternò, si tratta di un caso di tautomeria) CH, C,H, | Î | aa 08, 0, Cal CE; DA ai HS Se ae III OL Peel Pars CsHs NH». GEA OH 39 (oe 1a 1 II O | | CH, OH IV In successivi trattamenti della sostanza con nitrito sodico, ho provato a variare le condizioni di esperienza, facendo la reazione in presenza di acido acetico più o meno diluito, aggiungendo o no qualche goccia di acido sol- forico e facendo bollire più o meno a lungo. Ho sempre ottenuto la medesima sostanza fusibile a 134-136°; solo qualche volta ho potuto isolare dei pro- dotti secondarî della reazione, ma in quantità così piccola da essere in- sufficiente per l’analisi. Così potei separare un prodotto che, cristallizzato da molto alcool bol- lente, si presenta in aghetti bianchi piccolissimi che fondono a 217-2199; forse è indentico al mono-acetil-derivato del trifenil-glicol ottenuto dal prof. Paternò, per azione della luce sul miscuglio di benzofenone e acetato di benzile. Altre volte ho potuto isolare una sostanza che cristallizza pure dall'al- cool in magnifici aghetti bianchi splendenti che fondono a 232-233°; nel- l'insieme dei suoi caratteri sembra identica all’idrocarburo fusibile a 233° descritto da Biltz. — 146 — Ma non ho creduto necessario di continuare lo studio di questi pro- dotti secondarî che nessun nuovo contributo avrebbero portato al problema che ho risolto con la identificazione della sostanza fusibile a 134-136°, tanto più che, colle esperienze sopra descritte, ho finito tutto il prodotto che avevo a disposizione e per averne dell'altro avrei dovuto aspettare molto tempo. Fisiologia vegetale. — Ancora sull'azione degli ammonio- composti sul germogliamento dell’Avena sativa. Nota del dott. F. PLATE, presentata dal Socio R. PIROTTA. In una mia precedente Nota comparsa nell’ultimo ottobre, io studiavo l’azione di soluzioni di nitrato di ammonio sull’Avena sativa. Parevami opportuno di confrontare il comportamento di soluzioni normali, rispetto allo sviluppo delle piantine, con soluzioni contenenti pesi variabili di sostanze riferiti a 100 gr. di acqua, le quali ultime soluzioni io chiamerò, per brevità, percentuali. Facevo quindi il raffronto fra i risultati ottenuti con le soluzioni normali e percentuali adoperate, mettendo in apposite tabelle il contenuto in azoto dei due casi. Ora accadde in questa Nota una deplorevole confu- sione tipografica, per la quale, specialmente alla pagina 293, manca com- pletamente il senso scientifico, come il lettore avrà potuto facilmente ri- levare (*). Riprendo adunque l'argomento nella presente Nota. Le soluzioni normali e percentuali di NO; NH,, stante la deliquescenza- di questo sale, furono preparate rispettivamente sciogliendo in un litro di H:0 un peso di sale puro (Kahlbaum), un poco superiore al necessario. Venne stabilito il titolo della soluzione distillando da un dato volune l’NH; e titolando quest'ultima. Con la quantità d’H,0 calcolata, la soluzione stessa fu diluita per riportarsi alla esatta concentrazione normale e percen- tuale. Il contenuto quindi in azoto totale per il NO; NH, era, per ogni litro di soluzione normale, la seguente : N/50 N/ 100 N/200 N/400 N/300 N/1600 N/3200 0.5604 0.2802 0.1401 0.0700 0.0350 0.0175 0.0087 e per il Cl NH, l'azoto ammoniacale era: N/ 50 N/100 N/200 N/400 N/s00 N/1600 N/sa00 0.2802 0.1401 0.0700 0.0350 0.0175 0.0087 0.0048 (!) Il manoscritto di quella Nota era irto di correzioni e aggiunte; trovandomi nei mesi estivi in vacanza, le bozze furono restituite senza essere da me viste, d’onde la enorme confusione per cui alcuni periodi e tabelle furono saltati, ed altri posposti. — 147 — A causa dell'azoto del gruppo NO:, la quantità di azoto totale esistente nel NO; NH, è naturalmente doppia della quantità di azoto esistente nella corrispondente soluzione normale di Cl NH,. Nelle soluzioni percentuali di NO; NH, abbiamo invece le seguenti quantità di azoto totale per ogni litro: 2 °/oo 00 0.5 9/00 = 0.25%/0 = 0.125 9/00 0.0625 °/so 0.0812 °/oo 0.7004 0.3502 0.1751 0.0875 0.0437 0.0218 0.0109 e per il Cl NH, l'azoto totale era: 2 °/oo 100/00 05 9/00 0.25 %o0 0.125 °/o0 0.0625 0/0 0.0312 °/o0 0.5242 0.2621 0.1310 0.0655 0.0327 0.0163 0.0081 Ora la quantità d’azoto totale esistente nella soluzione percentuale del nitrato d'ammonio, a causa del gruppo NO:, è maggiore della quantità esi- stente nella corrispondente soluzione percentuale di Cl NH,, ma non doppia come nel caso delle soluzioni normali. Mentre poi, viceversa, la quantità dell'azoto ammoniacale esistente nelle corrispondenti soluzioni percentuali è maggiore per il cloruro d'ammonio che non per il nitrato d'ammonio. Infatti abbiamo che per il NO; NH, l'azoto ammoniacale è contenuto in ogni litro nelle seguenti quantità: 2 9/o0 1 °/o0 0.5 °/o0 0.25 %/oo 0.125 °/oo 0.0625 °/00 0.0812 °/o0 0.35012 = 0.1751 0.0875 0.0437 00218. 0.0109 0.0054 mentre che per il Cl NH, è contenuto in queste altre quantità: 2 °/o0 1 °/o0 0.5 °/o0 0.25 °/oo 0.125 %/00 0.625 °%/ 00312 9/00 0.5242 0.2621 0.1310 0.0655 0.0327 0.0163 0.0081 Ed è appunto di questo diverso contenuto in azoto che mi sono voluto servire per potere meglio studiare l’azione degli ammoniocomposti sul ciclo di sviluppo della Avena saziva, e stabilire così un termine di confronto fra i risultati ottenuti con una serie di esperienze e quelli ottenuti con l’altra. In due altre mie Note precedenti (') ho accennato appunto ai risul- tati diversi che si hanno sul germogliamento delle piantine di Avena, quando si adopera il nitrato d'ammonio e quando il cloruro. Ora, usando soluzioni normali, mentre con il primo di questi sali le piantine vengono ad essere molto danneggiate, con il cloruro d'ammonio ciò non avviene, ed anzi le piantine continuano a crescere rigogliose. Quindi trovandoci, in un caso, jin presenza d'una quantità doppia d'azoto, e, in un altro, del solo azoto am- moniacale, l'azione nociva del NO; NH, si può probabilmente riferire a due cause: o ad un eccesso di azoto, oppure a cause di natura fisico-chimica. (1) Questi Rendiconti. vol, XXIII, 2° sem. 1914, pagg. 166 e 234. RenpICONTI. 1915. Vol. XXIV, 1° Sem. 104) — 148 — Giunto a questo punto volli vedere se usando invece le soluzioni per- centuali sopradette, i risultati ne sarebbero stati i medesimi. In una prima serie di esperienze i risultati nou sarebbero molto diversi da quelli ottenuti per le soluzioni normali; epperò mi occorre ancora di approfondire meglio la questione, per cui ritornerò a suo tempo su questo argomento. Come in tutti ì miei precedenti lavori sperimentali, io ho fatto sempre uso di soluzioni normali, anzichè di soluzioni che chiamai percentuali, ri- spondendo questo concetto indubbiamente meglio al rigore scientifico da usare in simili ricerche. Ma credo che qualche volta possa tornare utile di stabilire confronti con i risultati ottenuti per mezzo di soluzioni per- centuali. Così ho creduto opportuno, in questa Nota ulteriore, di chiarire meglio il mio concetto, riparando alla involontaria confusione avvenuta, per le ra- gioni suddette, nella Nota precedente, e di indicare il metodo che intendo seguire nelle indagini già intraprese. Chimica. — Su! metabolismo degli aminoacidi nell'organismo. Nota II: Azzone del tessuto muscolare sugli aminoacidi aggiunti al liquido di Ringer circolante, del dott. Uso LomBROSsOo, presen- tata dal Socio I. LUCIANI. Abbiamo nella precedente Nota dimostrato che, facendo circolare ami- noacidi col sangue nel tessuto muscolare di un arto di cane, si ottiene una loro diminuzione nel liquido circolante. Una parte degli aminoacidi scomparsi dal liquido viene ritrovata nel tessuto muscolare, il quale (come aveva osservato v. Slyke 7n vivo) se ne satura. Del quantitativo che ancora rimane per colmare il deficit, una parte, < che però dalle nostre ricerche, non appare molto cospicua, viene bruciata, come si può desumere dall'aumento dell’NH, del sangue; dell'altra parte non possiamo in altro modo giustificare l'assenza se non ammettendo una sintesi degli aminoacidi, in sostanze più complesse non titolabili col formolo. Questi risultati apparivano in contrasto con quanto era stato descritto dal Buglia a proposito della circolazione artificiale del cuore di coniglio con liquido di Ringer ed aminoacidi. In tali esperienze l’autore non avrebbe mai ottenuto una diminuzione di aminoacidi dal liquido, ma al contrario, in qualche caso, un lieve au- mento dovuto al versamento, nel liquido, degli aminoacigi del tessuto cardiaco. — 149 — Molte potevano essere le ragioni invocate a spiegare questa differenza di risultati: ad esempio la particolare natura del tessuto muscolare cardiaco la varia specie di animali, ecc., ecc. Fra le varie ragioni, la più importante e degna di essere presa in im- mediato esame mi parve fosse quella che la divergenza in questione attri- buiva all'avere io adoperato sangue in luogo di liquido di Ringer. Come è stato dimostrato, per la formazione dell'acido ippurico nel rene, che soltanto con l’intervento del sangue è possibile la sintesi della glicocolla con l'acido benzoico, così potevasi supporre che anche nel muscolo la sintesi o la distruzione degli aminoacidi non si potesse compiere senza la partecipazione del sangue. Perciò ho creduto opportuno di ripetere le esperienze già da me fatte sulla circolazione di aminoacidi nel muscolo di cane, sostituendo al sangue il liquido di Ringer. In una parte di queste ricerche ho semplicemente determinato la quan- tità di aminoacidi presenti nel liquido prima e dopo la circolazione, nella presunzione di ottenere un risultato simile a quello del Buglia (ottenendo il quale, rimanevano quindi inutili ulteriori ricerche). Ma avendo constatato la diminuzione degli aminoacidi, alcune volte assai notevole, volli meglio determinare il destino di questi aminoacidi scomparsi, e quindi estesi le ri- cerche al tessuto muscolare, ed al contenuto in NH; del liquido e del muscolo. IL Cane femmina, kg. 3,800 — Peso dell'arto sottoposto alla circolazione, gr. 215. So- luzione di Ringer adoperata, cc. 400 + 4 gr. glicocolla ; pressione media 140-180 mm. mercurio. Durata della circolazione, 2 ore circa. Peso dell'arto dopo la circolazione, gr. 320. Per 10 cc. di soluzione la formoltitolazione richiede . . 12,6 cc. Na OH /10 # ” » dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 11,6 » ” II. Cane maschio, kg. 4,600. — Peso dell’arto sottoposto alla circolazione gr. 245. So- luzione di Ringer adoperata 450 cc. + 4 gr. di @ alanina; pressione media 100-140 mm. mercurio. Durata della circolazione 1 ora e mezza. Peso dell’arto dopo la circolazione gr. 350. Per 10 ce. di soluzione la formoltitolazione richiede . . 8 cc. Na OH !/10 7 D) » dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 6,9» » III Cane maschio, kg. 6,500. — Peso dell’arto sottoposto alla circolazione gr. 355. So» luzione di Ringer adoperata ce. 590 + 4 gr. asparagina (neutralizzata). Pressione media 110-150 mm. mercurio. Durata della circolazione ore 1 e un quarto. Peso dell’arto dopo la circolazione gr. 503. Per 10 cc. di soluzione la formoltitolazione richiede . . 4,8 cc. Na 0H!/10% ” » dopo circolaz. la formoltitolaz, richiede 4,2» ” —- 150 — IV. Cane femmina, kg. 7,400. — Peso dell'arto sottoposto alla circolazione gr. 420. So- luzione di Ringer adoperata cc. 500 + 4 gr. glicocolla. Pressione media 140-160 mm. mercurio. Durata della circolazione ore 1 e mezzo. Peso dell'arto dopo la circolazione gr. 645. Per 10 cc. di soluzione la formoltitolazione richiede . . 10,2 cc. Na OH !/,0 n ” » dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 8,4» » Non riferisco altre esperienze limitate alla semplice indagine sul con- tenuto in aminoacidi, del sangue nutritizio prima e dopo la circolazione nel tessuto muscolare; bastano questi esempî per indicare come si ottenga sem- pre, ed in misura più o meno cospicua, una loro diminuzione. Emerge pure, da queste prime osservazioni, che sì produce rapidamente durante la circolazione un edema assai cospicuo; tale da raddoppiare per- sino il peso dell'arto in esperimento; una gran parte del liquido viene quindi in tal modo sottratta. Perciò riusciva tanto più importante di indagare il contenuto in ami- noacidi nel tessuto muscolare prima e dopo la circolazione. Ma a tale proposito si incontra una difficoltà nel prelevare i campioni del tessuto muscolare dopo la circolazione, perchè la percentuale degli ami- noacidi non è omogenea ma si rivela più elevata nel liquido dell’edema che non nel tessuto muscolare. Avendo io nelle prime ricerche avvertito in qualche caso risultati che parevano paradossali, ho cercato invece di sfuggire a questo inconveniente col prelevare proporzionalmente i campioni dei due elementi (muscolo ed edema); ed infine in una esperienza ho determinato il contenuto in aminoa- cidi dell'intero arto (escluso, naturalmente, il tessuto osseo). Riferisco anzitutto due esperienze, nella prima delle quali il contenuto in aminoacidi dopo la circolazione fu desunte dall'esame del tessuto muscolare deterso con cura dall’edema, e nella seconda, invece, dall'esame del liquido edematoso. VE Cane maschio, kg. 5,200. — Peso dell'arto sottoposto alla circolazione gr. 290. So- luzione di Ringer adoperata ce. 410 + 4 gr. glicocolla. Pressione media 120-150 mm. mercurio. Durata della circolazione 2 ore. Peso dell'arto alla fine della circolazione gr. 530. Per 10 ce. di soluzione la formoltitolazione richiede . . 11.8 cc. Na OH !/10 » » |. » dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 9 ” ” Per 30 gr. di muscolo la formoltitolazione richiede . . 6,4 ce. Na OH !/10.2 ” » dopocircolaz.la formoltitolaz.richiede 15,8.» ” Complessivamente, nel liquido rimasto dopo la circolazione si richiedono per la for- moltitolazione 822 cc. Na OH !/10 x in meno. Nel muscolo, dopo la circolazione, si conter- rebbero, in più del normale, tanti aminoacidi da corrispondere a 195,8 cc. Na OH !/,0 2. Risulterebbe quindi un deficit assoluto di 126,7 ce. Na OH !/,0 2. — 151 — VI Cane femmina, kg. 4. — Peso dell’arto sottoposto a circolazione gr. 225. Soluzione di Ringer adoperata 400 ce. + 4 gr. glicocolla. Pressione media 120-140 mm. mercurio, Durata della circolaziono ore 1 e mezza. Peso dell’arto dopo la circolazione gr. 340. Per 10 cc. di soluzione la formoltitolazione richiede . . 11,5 ce. Na OH ?/10 ” » dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 9,8» ” Per 50 gr. di muscolo normale È) ”» 8,2 ce. Na 0H !/0 » (cc.) edema ” P) 40,5.» ” Complessivamente, nel liquido rimasto dopo la circolazione si richiede per la formol- titolazione 135 cc. Na OH !/;0 n in meno. Nel muscolo, dopo la circolazione, la formolti- tolazione richiede 210 ce. Na OH !/;0 # in più del normale. Risulterebbe quindi un ec- cesso assoluto di 75 cc. Na OH !/1o0 #. VII. Cane maschio, kg. 5,700. — Peso dell'arto sottoposto a circolazione, gr. 340 (tessuto osseo gr. 85). Soluzione di Ringer adoperata 525 cc. + 2 gr. asparagina neutraliz- zata. Pressione media 13-15 mm. mercurio. Durata della circolazione, 1 ora. Peso dell’arto alla fine della circolazione, gr. 495. Per 15 cc. di soluzione la formoltitolazione richiede . . 7 cc. Na OH !/io0 n ” » dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 6,5 ” » Per 50 gr. di muscolo normale ” ” 17 cc. Na 0H1/0 n ” » dopo circolaz. ” ” 20 ” » NH; per 100 cc. soluzione dopo la circolaz. corrispondono a 2,5 ce. H, S04 !/co # ” 50 gr. muscolo normale ” ” 15 ” ” ” ” ” dopo la circolaz. ” 12 ” ” Complessivamente si trovano nel liquido, dopo la circolazione, tanti aminoacidi da corrispondere a 85,1 cc. Na OH '/10 x in meno. Nel muscolo, dopo la circolazione, si tro- vano tanti aminoacidi da corrispondere a 77,3 cc. Na OH !/1o x in più del normale. Il deficit assoluto sarebbe quindi di 7,8 cc. Na OH !/10 n. VIII. Cane maschio, kg. 8. — Peso dell'arto sottoposto a circolazione, gr. 480 (tessuto osseo gr. 120). Soluzione di Ringer adoperata, cc. 500 + 4 gr. alanina. Pressione media 130-160 mm. mercurio. Durata della circolazione 2 ore. Peso dell'arto alla tine della circolazione, gr. Per 15 cc. di soluzione la formoltitolazione richiede . . 20,7 cc. Na OH !/10. ” n dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 9,6» ” Per 50 gr. di muscolo ” ” 10 ec. Na (0H1/10% ”» » dopo circolaz. ” ” 17,6» ” Complessivamente si trovano nel liquido dopo, la circolazione, tanti aminoacidi da corrispondere a 118 cc. Na OH '/10 # in meno. Nel muscolo, dopo la circolazione, si tro- vano tanti aminoacidi da corrispondere a 106,1 cc. Na OH '/10 # in più del normale. Il deficit assoluto sarebbe quindi di 11,9 cc. Na OH 1/0 n. IX. Cane maschio, kg 3,200. — Peso dell’arto sottoposto alla circolazione gr. 215 (tes- suto osseo gr. 55). Soluzione di Ringer adoperata cc. 400 + 4 gr. glicocolla. Pressione STO media 100-130 mm. mercurio. Durata della circolazione, ore 1 e mezza. Peso dell’arto dopo la circolazione, gr. 320. Per 10 cc. di soluzione la formoltitolazione richiede . . 12,6 cc. Na OH !/10 # » » dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 11,7.» » Nella totalità del muscolo normale ” ” 20,8 cc. Na OH 1/10 n ” » dopo circolaz. a DIO. ” NH; per 100 ce. soluzione dopo la circolaz. corrispond. a 7 cc. Hs SO, !/so # Complessivamente si trovano nel liquido, dopo la circolazione, tauti aminoacidi da corrispondere a 156 cc. Na OH '/1y n in meno. Nel muscolo, dopo la circolazione. si tro- vano tanti aminoacidi da corrispondere a 150 cc. Na OH ‘/;0 2 in più del normale. Il de- ficit assoluto sarebbe quindi di 5.9 ce. Na OH !/0 n. Dalle esperienze esposte risulta che: 1) Facendo circolare nel tessuto muscolare aminoacidi sciolti in li- quido di Ringer, sì ottiene sempre una più o meno notevole diminuzione del contenuto in aminoacidi del liquido nutritizio, diminuzione che raggiunge persino il 12 °/o. 2) Oltre alla diminuzione percentuale degli aminoacidi nel liquido circolante nel tessuto muscolare, si ha pure una diminuzione nella quantità del liquido stesso, per l'insorgere di un cospicuo edema. Sommando la per- dita di amicoacidi dovuta, sia alla diminuzione percentuale nel liquido 7e- siduo, sia alla diminuzione del liquido 7 oto, si avrebbe una perdita di aminoacidi che supera persino il 50 °/. 3) Se sì determina il contenuto in aminoacidi del tessuto muscolare prima e dopo la circolazione, sì avverte che pressochè tutti gli aminoacidi scomparsi si ritrovano depositati nel tessuto. Non si tratta quindi di una ulteriore utilizzazione degli aminoacidi per processi combustivi o sintetici, ma di una semplice loro deposizione. Quella piccolissima percentuale, meno dell'1-2 °/, di aminoacidi che non si ritrovano nel tessuto muscolare (e che potrebbe rientrare nei limiti di errore del metodo usato per la determinazione, o che potrebbe esser stato sottratto al tessuto osseo), può forse indicare nna avvenuta combustione. Infatti nel liquido nutritizio, dopo la circolazione, abbiamo sempre tro- vato piccole quantità di NH,. Ma non è possibile di formulare in proposito alcuna recisa affermazione, perchè non abbiamo seguìto con sufficiente esattezza il contenuto in NH; del muscolo, che abbiamo dosato nell'estratto idro-alcoolico del muscolo previamente essiccato e triturato. Rimandando al risultato di ulteriori ricerche il giudizio se, concor- demente all'affermazione di Buglia, il muscolo perfuso con soluzione di Ringer sia del tutto incapace di distruggere gli aminoacidi, o invece se esso compia in lievissimo grado tale ufficio, questo per ora si può affermare: che durante la perfusione del muscolo con soluzione di Ringer ed aminoacidi, una gran parte di questi viene sottratta al liquido circolante. Ma in luogo di venir utilizzati, essì si depositano nella totalità, o nella mas- sima loro parte nel tessuto; mentre, invece, durante la circolazione con sangue, pur osservandosi sempre in cospicua misura il fenomeno del semplice de- positarsi di aminoacidi, si ottiene anche la loro combustione ed una loro trasformazione in sostanze non titolabili al formolo. Matematica. — Sulle superficie di Riemann multiple, prive di punti di diramazione. Nota del dott. Oscar Casini, presentata dal Corrispondente F. ENRIQUES. 1. Se, sopra una funzione razionale cei punti di una curva algebrica, di genere p, sì estrae una radice n-esîma y=17(2,3). sì ottengono famiglie di funzioni y birazionalmente distinte, corrisponden- temente ai sistemi di sostituzioni secondo cui si permutano gli n valori di y quando il punto (x, <) descrive uno dei 2p cicli riemanniani della vw, o gira attorno a uno zero di /(x ,<); questo, in generale, è uno zero sem- plice, e costituisce un punto di diramazione, un giro intorno ad esso pro- ari ducendo su y la moltiplicazione per # = e" . Gli zeri della / possono però non essere punti di diramazione, e risultare punti critici apparenti, e ciò quando essi siano zeri d'ordine 7, cioè quando le curve /=0 e w=0 abbiano un contatto z-punto. Nel caso in cui manchino i punti di dirama- n i zione, le famiglie di funzioni y="|//(%,z) dipendono soltanto dalle so- stituzioni S; relative ai 2p cicli riemanniani della w: ora queste sostitu- zioni devono, evidentemente, essere una potenza della sostituzione circolare (1,2,...,%) e, del resto, possono essere arbitrarie, esistendo effettivamente funzioni y per un sistema qualunque di sostituzioni S; (*): ne segue che le famiglie di funzioni y sono in numero di n?2, comprese quelle riducibili per le quali il gruppo delle S; non sia transitivo. Qui scopo di questa Nota è di costruire effettivamente le funzioni y=Vf(ax,) prive di punti di diramazione sulla w, per le quali sia dato «a priori » il sistema delle sostituzioni Si: a ciò si arriva con consi (!) Cfr. Hurwitz, Math. Annalen, Bd. 389: ZVeder Riemann'sche Flichen mit gege- benen Verzweigungspunkten, pag. 55. — 154 — derazioni essenzialmente topologiche, assegnando in funzione delle S; la serie lineare cui appartiene il gruppo dei punti critici apparenti. Si ritrova, così, che questa serie determina la famiglia delle funzioni y, cosa già di- mostrata per via algebrica da A. Comessatti (') nel caso di n = 2. 2. Esporrò qui, discorsivamente, il filo delle mie considerazioni, riman- dando alla fine ($ 3) della presente Nota per la dimostrazione di alcune proposizioni che verranno momentaneamente ammesse, e ciò per rendere più chiaro lo svolgersi del ragionamento. Supponiamo che la curva W=0 sia dotata solo di punti doppî a tan- genti distinte (caso a cui si può sempre ridurre con una conveniente tras- formazione birazionale), e indichiamo con ® la riemanniana della curva stessa. Assumiamo come modello della W una sfera con p manici, e su essa prendiamo come sistema dei cicli riemanniani C; il sistema delle 2p retro- sezioni A; e B; (£=1,2,...,p) (2). n Se la funzione y=|//(x,) non ha punti di diramazione sulla ®, occorrerà, come già abbiamo ricordato, che la curva /=0 abbia un con- tatto n-punto, ovunque essa intersechi la w= 0; conviene però esaminare come si comporti la / nei punti doppî della w ad essa comuni. Precisamente, se la / passa per un punto D doppio per la w (a cui corrispondono due punti sulla 4), essa dovrà avere x intersezioni riunite con ciascuno dei due rami della w, e pertanto dovrà avere come doppio (almeno) il punto D, e ciascuno dei suoi rami dovrà avere un contatto, con i rami della w, di ordine z — 2, se il punto D è solo doppio per la /; d'ordine x — r, se il punto è r-plo. Veniamo ora alla costruzione del polinomio /(x ,<), tale che gli x va- lori della funzione n y=Vf(®,8), priva di punti di diramazione sulla &, si permutino secondo sostituzioni S= (ol: ’ 9 Sac n); assegnate, quando il punto (x, z) descrive un ciclo C; della ®. Per comodità cercheremo la curva /(%,), soddisfacente alle nostre condizioni, fra le curve di un ordine #7 abbastanza elevato, passanti per ogni punto doppio della w ed aventi » intersezioni riunite con ciascuno dei rami della w uscenti dal punto medesimo: indicheremo con / queste curve. (*) Sulle curve doppie di genere qualunque, Memorie dell’Accad. delle Scienze di Torino, ser. II, tom. LX. (2) Cfr., per esempio, F. Severi, Lezioni di geometria algebrica. Tip. Draghi, Pa- dova 1908, pag. 269. — 155 — Essendo nr abbastanza elevato esisteranno certo delle 7 le quali abbiano un contatto #-punto in ogni loro intersezione con la curva w: indico con / le curve soddisfacenti a questa ulteriore condizione, e con q il numero dei punti in cui esse osculano la w fuori dei suoi punti doppî, e che, insieme con i punti doppî contati due volte, formano il gruppo dei punti critici apparenti per le funzioni Ui y=V[(0,8). Sussiste anzitutto il TEOREMA: se due curve fs e f, toccano la curva w in punti (fuori dei punti doppî) di due gruppi G, e G, equivalenti, esse dànno luogo alle medesime sostituzioni Si, e quindi a funzioni 1 birazionalmente identiche. La dimostrazione di questo teorema si fa osservando che si può pas- sare con continuità [efr. S 3, 4)] dalla curva /o alla /1 muovendosi nella famiglia delle curve /, e che durante questo passaggio il sistema delle sostituzioni S; non può venire modificato. Invece non è possibile di passare per continuità, movendosi entro la fa- miglia delle curve 7, da una curva /, a un'altra /1, corrispondenti a di- versi sistemi di sostituzioni S;. Questo passaggio diventa però possibile quando si muova nella famiglia delle curve /', data da quelle curve / le quali abbiano, con la w, non più g intersezioni r-ple, ma g — 1 punti Rx d'intersezione n-p/a, un punto Q d'intersezione (n — 1)-pl/a, e un punto P d’intersezione semplice: le curve ni ed /, apparendo così particolari curve Jia per le quali P e @ coincidono. Precisamente noi faremo il passaggio effettivo da una curva /n, per la quale tutte le S; siano l'identità, a una curva /, per la quale il sistema delle S; sia un sistema prefissato: e in questo modo determineremo quale è la serie a cui appartiene il gruppo G, dei punti in cui la /, oscula la w, cioè il gruppo dei punti critici apparenti della n y=Vf(&,3); in questo ci gioveremo essenzialmente del fatto che le curve /" dànno fun- zioni n y= V7.(x 38), dotate di due punti P e Q di diramazione. Consideriamo adunque la curva peo RenpIcoONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 20 — 156 — dove p= 0 rappresenta una curva d’ordine 7 passante per i punti doppî di vy. La funzione y=1Vg"(x, 2) sì spezza evidentemente in n funzioni: per essa, quindi, ogni sostituzione S; è l'identità. Si ottiene ora una funzione gni i cui rami 71,723 3n (dove ys= e" ys-1), si permutano secondo sosti- tuzioni prefissate nel modo seguente: Si osservi anzitutto che la curva /=h = g” è una curva /J in cui i punti P e ( coincidono. Facciamo variare la /, nella famiglia delle /’ lasciando fisso il punto Q [che è un'intersezione (n — 1)-pla di /' e w], facendo descrivere al punto P (che è un'intersezione semplice) un cammino chiuso C, e lasciando variare comunque i punti Rx (che sono intersezioni n-ple): sì otterrà infine una curva /' per la quale i punti P e @ coincidono, la quale è quindi una curva /, che dà luogo a una funzione y= Vi (e sa) priva di punti di diramazione. È facile ora determinare quale deve essere il cammino chiuso C perchè n la y =Vif.(2,2) ammetta un dato sistema di sostituzioni S;. A tale og- getto, definiamo il senso positivo per i cicli nulli, e per quelli costituiti dalle retrosezioni A; e B;. Per i cicli nulli assumiamo come senso positivo quello contrario alle lancette dell'orologio: per il ciclo B; un senso qua- lunque, e per il ciclo A; un senso tale che un punto P, che descriva A;, tagli B; passando dalla sinistra alla destra. Ora esserviamo che quando, al variare della /', il punto P, percorrendo negativamente una retrosezione A;, taglia il ciclo costituito dalla retrose- zione coniugata B;, questo ciclo B; viene a sommare un ciclo nullo che avvolge P in senso positzvo; e pertanto, se il ciclo B;, prima di essere attra- Ae versato, corrispondeva alla sostituzione (1,2, ..., n)" per la y=//", dopo corrisponderà alla sostituzione (1,2,...,2)"+!. — 157 — Si noti, ora, che ogni ciclo A; taglia in un punto il ciclo B;, e non taglia nessuno degli altri cicli: pertanto, se i rami della nostra funzione % y=Vf.(a ,6) debbono permutarsi secondo le sostituzioni Sa; == (1,2, n) Soa quando il puuto (2,2) descrive rispettivamente le retrosezioni A; e B;, dovrà essere C=Z—a;B+T— Pf A;. Vediamo ora quale sia la serie cui appartiene il gruppo G, dei punti in cui la /, oscula w. Supponiamo che la serie segata sopra la w dalle curve @, passanti per ì punti doppî della w, sia definita dalle p relazioni ZU,(a)=0, IAA) dove U,(4;) indica uno dei p integrali abeliani di prima specie, calcolato in uno dei puuti 4, della serie stessa, e dove il segno = indica la con- gruenza rispetto ai periodi degli integrali stessi. Se indichiamo con 0 e 0° i i i periodi dell’integrale U, relativi ai cicli A; e B;, avremo che la serie cui appartiene G, è definita dalle p relazioni 0} 09 U,=£Xa; -+ Sp; 2a (dove 4A=1,2,...,p) [cfr S 3, d)]. Pertanto, se sî vuole che la funzione LI n UE Via , 8) ammetta cume sistema di sostituzioni S le sostituzioni Sa, (ez) S,=(1,2,.., n), occorre prendere il gruppo G, dei suoi punti critici apparenti entro la serie definita dalle p relazioni CIO - +PIEBT. n ZU, =Za; — 158 — 5. Dimostriamo ora le due proposizioni 4) e 6) ammesse nel $ 2. a) Per dimostrare che si può passare con continuità dalla /» alla fi muovendosi entro la famiglia delle /, nell'ipotesi che i due gruppi dei punti di contatto G, e G, siano equivalenti, basta osservare che la serie segata dalle curve / (fuori dei punti doppî di w) è completa, e, pertanto, ogni gruppo equivalente a G,, contato x volte, dà un gruppo segato da una /, e quindi è costituito dai punti di contatto n-punto di una f. Pertanto, potendosi passare con continuità da G, a G, entro la serie lineare che li contiene, si può passare per continuità da /, a /, entro la famiglia delle curve /. 5) Per dimostrare che U,(G,), somma degli integrali U, abeliani calcolati nei punti di G,, è congrua, rispetto ai periodi, a (h) (0) Ri Wy, Va, nb” ei n° ricordiamoci che G, è ottenuto partendo da G,, facendo percorrere a P il ciclo C=2—a;B+S—-#8;A;, e che i gruppi Gy ed xG, sono equivalenti, e sono inoltre equivalenti al gruppo variabile formato da P+(-1)Q+aZRx. Teniamo presente il teorema d’Abel il quale dice che: condizione perchè due gruppi siano equivalenti, è che siano uguali le somme degli integrali abeliani nei gruppi stessi; osserviamo, poi, che, quando P descrive C, la somma degli integrali abeliani U,, calcolata in P, diminuisce di MILO) NUO Za; 5: + 2 Bi; Wa; Ù quindi, restando @ fisso, la somma degli integrali U, calcolati nei punti R, deve aumentare di 06° E 06) rara pertanto, essendo U,(G)=0, è 3%) 8° Ù,(G.)= Ya; È +3 B: x . CRA I — 159 — Cristallografia. — Sopra alcuni cristalli di gesso artificiale (*). Nota di C. PERRIER, presentata dal Socio G. STRUEVER. Il metodo più semplice per ottenere artificialmente cristalli di gesso, consiste, come è noto, nel concentrare le acque che lo contengono in soluzione. Sovente il gesso in natura deve la sua formazione all'azione dell'acido sol- forico e dei solfati metallici solubili sopra le roccie calcaree ed eventual- mente sopra i silicati che contengono calcio. Acido solforico e solfati me- tallici si formano spesso nell’alterazione dei solfuri e specialmente in quella della pirite e della marcassite, che acquista una particolare importanza per la grande diffusione di questi due minerali. È noto infatti come la concomitante azione dell'ossigeno e dell’acqua alterino la pirite con produzione di solfato ferroso e di acido solforico; Je acque filtranti, che hanno lisciviato questi prodotti, attaccano facilmente i calcari trasformandoli in gesso, e questa azione è poi resa tanto più facile in quanto che, l'ossigeno agendo ulteriormente sul FeSO, , la trasforma in solfato ferrico, che, facilissimamente idrolizzandosi, produce nuovo H,S0,. Nel riordinare il Museo e l’Istituto di mineralogia della R. Università di Torino, fu rinvenuto un frammento di calcare, sul quale erano impiantati dei nitidi cristallini di gesso. Un'etichetta, di mano del compianto prof. Spezia, indicava che quel calcare era rimasto per due anni immerso in una solu- zione di solfato ferroso: evidentemente, il prof. Spezia aveva voluto imitare la formazione del gesso come si verifica in certi casi in seguito all’altera- zione della pirite. I cristalli ottenuti, grandi e belli, non sono mai stati studiati; interessante appariva invece il loro esame cristallografico, non sol- tanto per stabilire quali sono le forme cristalline che si originano in quelle particolari e ben definite condizioni di formazione, ma anche perchè alcuni di quei cristalli presentavano delle facce che già ad occhio nudo appari- vano diverse da quelle comuni del minerale. I cristalli si trovavano sulla massa di calcare, parzialmente arrossata per deposito di idrato ferrico, parte impiantati per l’asse delle 2, parte invece poggianti per una faccia di 3010}. Essi sono piuttosto allungati secondo l’asse delle #, raggiungendo talora, in questa direzione, anche 1 cm. di lunghezza; e si presentano sempre tabulari secondo }010}. Generalmente i cristalli sono incolori e trasparenti ; su alcuni, però, verso l'estremità libera si osserva un esilissimo deposito granulare di (') Lavoro eseguito nell'Istituto di mineralogia della R. Università di Torino, diretto dal prof. F. Zambonini. Dicembre, 1914. ES 160053 una sostanza nera costituita da un sale ferrico, del quale però, per la troppo esigua quantità disponibile, non potei identificare la natura. Io ho misurato parecchi cristallini, determinando le seguenti forme: D{010}, m {110{, /{LII}, y}181}, #}113}*, 2 {553}; delle quali, la 77 e la w sono nuove per il minerale. Le combinazioni osservate sono solamente due: OO POOR VO SEA TE Di gran lunga più frequente è la prima combinazione, nella quale si rinvengono solamente le solite e comunissime forme del gesso; d è sempre \£I7 JA EraSgls molto grande e striata parallelamente a 2, come pure sempre striate nella stessa direzione sono le faccie di 7: esse per- mettono tuttavia misure discrete la cui media si avvicina assai ai valori calcolati. Il prisma / si presenta, in gene- rale, con buone faccie, abbastanza lucenti e piane. Frequenti sono i geminati, per lo più con penetrazione parziale, secondo la solita legge: asse di geminazione la normale ad (100). Molto più interessanti sono invece i due cristalli nei quali si osservò la combinazione 2*, con le due forme nuove rr e w. Uno di quei cristalli è rappresentato dall'attigua fig. dl. Le facce di d e di m si presentano come nel caso precedente; tra le forme terminali domina y {131} che pos- siede facce abbastanza piane e splendenti. La presenza di questa forma, che è rarissima nel gesso, e che in questi cristalli così dominante, presenta un notevole interesse. Per quanto mi consta, essa venne rinvenuta, fino ad ora, altre tre volte soltanto; scoperta da Nenmann nel 18383 (') in un cristallo di gesso di Bex dove si presentava con facce incurvate e poco lucenti, venne rinvenuta una seconda volta da Schrauf (?) in cristalli di gesso dell’ Harz, anche qui con facce non molto belle; e ultimamente venne notata da Simek (3) sopra alcuni cristalli non molto belli di questo minerale, che si trovavano sopra dell’antimonite nel giacimento di Kostajnick in Serbia. Che si tratti effettivamente di una forma jh%4, fu stabilito determi- nando con certezza, mediante la posizione della direzione di estinzione su (1) Pogg. Ann., (1833) XXVII, 240. (?) Ber. Ak. Wien., 63 (1), 157 (1871). (9) Simek, Groth's Zeit. f. Kryst., (1912) L, 640. — 161 — 3010} che le facce riconosciute appartenenti a }131{ giacciono effettivamente nell'angolo ottuso f.. Le due forme nuove }553} e {113} si presentano con facce poco estese, non molto splendenti e leggermente curve; le misure eseguite sono però attendibilissime, ed i valori trovati concordano abbastanza bene con quelli calcolati in base alle costanti di Des Cloizeaux, generalmente accettate, come risulta dalla seguente tabella: Trovato Calcolato (010):(118) 82°43' 82°38' (110):(113) 69°1” 69°17'4 (010):(553) 65°49' 65°59/34” (110):(553) 36920" 36°30°50" Fu verificata l'esistenza della zona 77, u,m. È interessante di osservare che con la forma {553}, da me trovata, si identifica un altro prisma jh 7}, descritto molti anni fa da Schrauf, il quale credette di attribuire ad esso il simbolo 4995}. Schrauf, infatti (*), nel 1871 studiando alcuni grossi geminati di gesso dell’Harz, rinvenne tre forme nuove; tra queste un prisma #}995} determinato in base alla misura dell'angolo (995) : (995) . Ora, quella misura ha un valore limitato, perchè, come le altre riferite in quel lavoro, venne eseguita esclusivamente col goniometro d'applicazione; ad ogni modo, il valore trovato da Schrauf si accorda meglio con quello calcolato per il simbolo }553} che non con quello che si deduce per 995f. Si ha infatti: (AR1):(hh1) = 48°1/, misurato (553) :(553) = 48°1’ calcolato (995) :(995) = 49012" >» Il simbolo {553} merita poi d’essere preferito, per la sua maggiore semplicità; la forma 995} è quindi sicuramente identica con la {553} da me rinvenuta, e per questo io adottai per quest'ultima la lettera w. È poi ancora da notarsi che la 4, tanto nei due cristalli nei quali io la rinvenni, quanto in quelli esaminati da Schrauf, compare sempre insieme con la y. L’aver stabilito che alla forma w di Schrauf spetta, in realtà, il sim- bolo }553} conduce necessariamente a cambiare il simbolo dell'altra forma È scoperta da Schrauf insieme con w. Questa forma giace in zona con w e con y: (1) Ber. Ak. Wien, loc, cit. _ 162 —- Schrauf assegnò ad essa il simbolo }733{, in base a questo fatto ed alla misura approssimativa (hk1):(hk1)= 25° circa. Se u ha il simbolo j553f, ne segue che &, che si trova nella zona [553:131], deve avere un simbolo che soddisfi alla condizione: MISE questa non può naturalmente essere soddisfatta da }733}, ma, invece, dal simbolo molto più semplice {211}. Per l'angolo (211):(211) si calcola, sempre con le costanti di Des Cloizeaux, 26°46': l'accordo col valore trovato è poco soddisfacente, ma non va dimenticato che si tratta di un angolo misurato col goniometro di applicazione fra due facce che, se sono sufficientemente estese, sono però un po' curve. Date queste circostanze, non è il caso di calcolare per © un sim- bolo più complicato che soddisfi al legame di zona e dia un miglior accordo fra l'angolo misurato ed il calcolato. Lo stesso Schrauf, del resto, rifiutò di accettare il simbolo {211}, solo perchè, avendo egli erroneamente alla w attribuito il simbolo {995}, veniva, per la condizione di tautozonalità con w e con y, escluso per la È il sim- bolo }211|. Nella tabella seguente sono contenuti i valori angolari misurati, posti a confronto con i valori teorici calcolati in base alle costanti di Des Cloizeaux ('). a:b:c=0,68994:1:0,41241 8=80°42"10”" —__ __—+___—_—+-++-=- LIMITI Num. MEDIA VALORI DIFFERENZE delle delle misure |osserv.| delle misure | calcolati | esp.-cale. (110) : (110) 68°20’- 68°44" 8 68981” 68°30” iù (110): (010) 5520-56 1 16 55 42 55 45 SB (010) : (131) 45 8-45 52 4 45 39 45 33 45” 51/, (181): (181) 89 2-8910 2 89 6 88/521 135, (110) : (181) 39 20 - 39 56 4 39 47 41 4 ol; (010) : (553) 65 33 - 65 56 4 65 49 65 53 34 — 10 (553) : (553) 4810 - 48 13 2 48 11 48 1 10 (110) : (553) 36 14 - 36 26 2 36 20 36 30 50 — 105 (010) : (113) 82 9-83 9 4 82 43 82 88 5 (113) : (113) 14 25-14 41 2 14 36 14 44 8 (110) : (113) 68 54-69 4 2 69 1 69 173 161/, (010): (111) | 7122-7144 2 71 38 71 54 16 (1) Bull. Soc. min., (1886) 9, 175 — 163 — Finora, di determinazioni cristallografiche su cristalli macroscopici di gesso ne sono state eseguite ben poche. La lenta azione del solfato ferroso sul calcare, che riproduce abbastanza bene alcuni processi naturali di formazione del gesso, pare un metodo assai adatto per ottenere cristalli con discreta ricchezza di forme. I cristalli artificiali di gesso da me studiati presentano perciò, in con- fronto di quelli esaminati da altri autori, una ricchezza di facce relativa- mente notevole: così Lacroix (') in cristalli di gesso ottenuti per lento sva- poramento di una soluzione diluita di acido solforico che aveva reagito con fluoruro di calcio, potè osservare solamente le forme }010}, {110}, {111} e geminati secondo (100); e Gorgeu (*), in cristalli ottenuti da una soluzione di solfito di calcio in acqua contenente acido solforoso, osservò appena 1010} {110} ed i soliti geminati. Più recentemente Barker (*), in cristalli di gesso, ottenuti per lento svaporamento di una soluzione cloridrica di solfato di calcio, riuscì ad iden- tificare la forma {111} insieme con le {0104 e }110}. Ultimamente poi Fletcher {‘) rinvenne cristalli di gesso, depositatisi in una caldaia che serviva per la distillazione dell’acqua, anche più inte- ressanti. Infatti egli vi rinvenne {010} {110} {230} {111}, e, ciò che è più rimarchevole, notò geminati secondo 4}101}, che fino ad ora, a quanto pare, non erano mai stati rinvenuti in cristalli di gesso artificiale. Mi è grato infine di rivolgere al prof. F. Zambonini i miei più vivi ringraziamenti per l’ospitalità concessami nel suo laboratorio e per i con- sigli ed insegnamenti, di cui mi è prodigo nelle mie ricerche. Biologia vegetale. — Sulla diologia fiorale del mandorlo. Nota preventiva di C. CAMPBELL, presentata dal Socio R. PIROTTA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (*) Bull. Soc. min., (1883) 6, 173. (*) Bull. Soc. min., (1894) 77, 8. (*) Mineralogical Magazine, (1907) XIV, 211. (4) Mineralogical Magazine, (1911) XVI, 137. ReENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 2 si E L' mise . PI pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1° — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuov: Lincei. Tomo I-XXII] Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2° — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. 1II. (1875-76) Parte 1% TRANSUNTI. 2 MEMORIE della Classe di ‘scienze fisiche, matematiche e naturali. 3% MEMORIE della Classe di scienze morale, storiche e filologiche. VobVIViVAvIo VII. VII Serie 3* — TransuUNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II. (1, 2). — III-XIX. MeMoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4° — RenpIcONTI. Vol. I-VII. (1884-91). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XXIV. (1892-1915). Fase. 2°. Sem. 1°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XXIII. (1892-1914). Fasc. 5°-6°. MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-X. Fase. 13°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R_ Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l'Italia è di L. 8@; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LorscnHer & C.° — Roma, Torino e Firenze. UtrIco Horpi:. -- Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Gennaio 1915. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 17 gennaio 1915. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Ricco. Eclisse totale di sole, del 21 agosto 1914.) 0. 0... +00 Pag. Ciamician e Silber. Azioni chimiche della luce. /././././././000 Ia. Id. Azioni chimiche della luce. . . . a ”» Briosi e Farneti. II mal dell’inchios t ro du giovani i plenbieglle dei castagno e dei semenzai ” Cardani. Emissione ed ibimionto i gas o, nei i tubi del Route? Ci emissione dei raggi X. 1 ” Cecconi. Sopra un sistema di equazioni altehrioto CR dal SUL. Tapi: Civita) AN) Fubini. Sulla definizione di arco di una cùrva e dell’integrale di Weierstrass, che si presenta nel calcolo delle variazioni (pres. dal Corrisp. Z'edone) . . . ” Cisottà Nuovi tipi di onde periodiche permanenti e rotazionali (pres. na sica Ianonaa) De Filippi. Quarta relazione della spedizione scientifica nel Karakoram orientale . . . » Mazzucchelli. Influenza delle basi organiche sul potenziale dell’elettrodo a SE (pres. dal Socio Paternò)... . Bets i i È RSI Monti. Sulla costituzione del nifeniLamimie i i. per azione seus luce (Presseld) ee “A MES 3 ISSN) Plate. Ancora sull'azione degli ammonio- soliti sì no dell n vena sativa (pres. dal Socio Pirotta). . . . ; È RR Lombroso. Sul metabolismo degli ihin dacia oloni IL. Mgiduo ii Cesento images sugli aminoacidi aggiunti al liquido di Ringer circolante (pres. dal Socio Zuciani) . » Chisini. Sulle superficie di Riemann multiple, prive di punti di diramazione (pres. dal Corrisp, Enriques) . . . i . NERO ” Perrier. Sopra alcuni cristal di gesso i artifiolsio eee, dal Socio Sirio) Sat RI Campbell. Sulla biologia fiorale del mandorlo (pres. dal Socio Pirotta)(®) < /././. 0.» (*) Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale, ‘Pubblicazione bimensile. Roma 25 febbraro 1915. N. de ASSET DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CCCXII. 1915 Salo PRI QU TINTA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 7 febbraio 1915. Volume XXIV°. — Fascicolo 8° 1° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL DOTT. PIO BEFANI 1915 | | ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti: 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indì- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro: — priamente dette, sono senz’altro inserite nei . Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. 8. Nei primi tre casi, previsti dall'art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti ; 50:se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del ? febbraio 1915. P. BLASERNA, Presidente. S MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Chimica. — Su/l'impiego della soluzione acquosa di acetato mercurico nell'analisi della parte terpenica delle essenze. Nota del Corrispondente L. BaLBIANO ('). Fin dal 1901 in una Nota pubblicata nella Chemiker Zeitung, pag. 932, proponevo la soluzione acquosa satura a freddo di acetato mercurico, come reagente atto a svelare la presenza delle olefine nei petrolii naturali, perchè tale reattivo non agiva sugli idrocarburi aromatici, nè sulle paraffine, nè sui cicloidrocarburi saturi « nafteni », mentre agiva ossidante, trasformandosi l’acetato mercurico in mercuroso insolubile, sulle olefine. Le mie esperienze venivano, in quest'ultimo decennio, confermate ed ampliate da altri chimici. Il dott. Jenò Tausz (*), nel laboratorio del prof. Engler del politecnico di Karlsruhe, nella sua tesi di laurea, sottoponeva il metodo da me proposto per l’analisi delle benzine del petrolio ad una minuta critica sperimentale e concludeva: Die Methode ist somit fiir den Nachweis der unter 100° siedenden ungesùttigten Kohlenwasserstoffe brauchbar. La modificazione (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di chimica organica del R. Politecnico di Torino. (*) Beitràge zur identifizierung und Kenntniss der Kohlenwasserstoffe des Erdòls. Inaug. diss. Polytech. Karlsruhe. Borna-Leipzig, Buchdruckerei Robert Noske, 1911. RenNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 22 — 166 — più importante introdotta dal Tausz e che rende pratico il metodo, è di far agire la soluzione di acetato mercurico alla temperatura di 100° anzichè alla temperatura ambiente; così si abbrevia la durata della reazione, che sì può ridurre a 3 ore. Altri chimici applicarono il processo d'ossidazione coll’acetato mer- curico disciolto alla ricerca dei legami olefinici nelle sostanze grasse, e fra questi A. Leys (') adopera la mia reazione, e siccome discioglie l’ossido di mercurio ed il grasso nell’acido acetico concentrato, non usando l’acetato mercurico già fatto, ritiene la sua reazione originale e naturalmente trascura di citare il mio lavoro anteriore di sei anni. C. Grimaldi e L. Prussia (*) applicarono la soluzione di acetato mer- curico alla ricerca e determinazione dei derivati del petrolio negli olii di trementina, lavorando un metodo pratico che permette di svelare tale sofisti- cazione. La mia reazione serve anche, come ho dimostrato nel 1909 (*), a sepa- rare i composti naturali delle essenze che contengono i due radicali CH; allile e propenile, perchè l’azione dell'acetato mercurico introdotto in quan- tità stechiometrica nella miscela reagisce prima sul radicale a////e, formando il composto aceto-mercurico fisso, e lascia inalterato il composto properz- lico volatile col vapore d’acqua (*). L'azione della soluzione acquosa di acetato mercurico si esplica sui terpeni in due modi differenti. Il pinene viene ossidato a diossipinene (°); il canfene invece dà un composto aceto-mercurico di un'ossicanfene. (!) BI. 1907, 262, 543. (£) Ann. chim. appl., tom. I, 1914, pag. 324. (3) R. A. L., XVIII, serie 5%, 372. B. 42; 1502 [1909]. (4) Questa reazione è l’unica praticamente distintiva, conosciuta attualmente fra il radicale allile e propenile; perciò non so spiegarmi perchè il professor Nasini, nel suo. audace discorso fatto al congresso della Società italiana per il progresso delle scienze (Atti 1912, pag. 320), dopo aver rilevato l’importanza del problema, abbia taciuto di essa nella « Rivista sintetica dei progressi della chimica organica durante i 50 anni d’unità nazionale », esaltando invece nella « Rivista sintetica dei progressi della chimica-fisica » il metodo —- in origine del Gladstone — basato sul differente indice di rifrazione delle due serie di isomeri, metodo che, come ho avvertito nella mia Memoria (Atti accademici 1905), manca allo scopo quando si conosca soltanto uno dei due termini isomeri. (9) Non ho risposto — contrariamente alla mia abitudine — alle osservazioni con- tenute nella Nota di G. G. Henderson e J. W. Agnew (Soc. 95, 289, an. 1909) sulla costitu- zione del diossipinene che si ottiene per ossidazione acetomercurica del pinene, perchè non avevo alcun fatto da obbiettare alle loro conclusioni. Essendo essi riusciti ad isolare nel primo periodo di ossidazione il Sobrerolo (I), che poi nel secondo periodo si cambia nel chetone (II), ed inoltre avendo essi ottenuto coll’idrogenazione mediante il sodio e la soluzione eterea umida del chetone la ritrasformazione in Sobrerolo, mentre tale passaggio non mi era stato possibile coll’idrogeno svolto dall’amalgama di alluminio, le loro con clusioni erano logicamente dedotte 167 — Ho quindi un mezzo per separare questi due terpeni nelle essenze natu- rali: ed a questo scopo ho lavorato un metodo analitico che mi permette di separare e riconoscere in una miscela di idrocarburi, le paraffine, gli aroma- CI CH, (GE (È LÈ si AO ON 74 Cr ene 4 cori, DION HCO” CH-0H HC CO : | I | ll .| II | i: C-CH3 | 20 tI > No CH, al ATE RESA Ge No (5 (6: ENT Il di reosia drei Però mi è sempre stato difficile di spiegare la formazione del Sobrerolo in prima fase di reazione, perchè l’esperienza mi aveva insegnato che il pinane, prodotto d’idrogenazione del pinene col metodo Sabatier-Senderens, non reagiva per niente colla soluzione acquosa di acetato mercurico. Da ciò deducevo che la reazione ossidante era soltanto provocata dal legame etilenico del pinene, non dalla rottura del ponte, come era proposta nella mia interpretazione ed ammessa la costituzione del pinene, dimostrata dall'adZau perman- ganica del Wagner e del Baeyer, questo legame non era attaccato al C al quale si aggrappa l’isopropile; doveva quindi presumibilmente avvenire prima nel pinene uno spostamento del doppio legame. Verso la fine del 1911 Zelinsky (Ber. 44, 2782) dimostrò che per azione del nero di palladio, preparato con certe modalità, il pinene si isomerizza cataliticamente, alla tem- peratura ordinaria, in isopirene con trasporto del legame etilenico al C al quale si ag- grappa l’isoproprile. Allora ammettendo tre fasi nella reazione — 1°) sloggiamento del legame etilenico ; 2°) rottura del ponte ; 3°) saturazione con -OH delle valenze libere — si ha la forma chetonica del Sobrerolo, che, ossidata ulteriormente, dà il diossipinene. I passaggi delle diverse fasi sono rappresentati dai seguenti schemi. CH, CH; CH, DL Se /°N 05 \ 4 3A HC 4 CH H,C 6, Hs 07 °C-OH | cHy0C H3] i | ones CH | | i Hal | CH, Hel, | 7C6Ho HaC\ qu CH: de : A NE NÉ (È (o (0. H H STO COST Pinene Isopinene Forma enolica del Sobrerolo CH H?0 CH CH +0 Î d ARS | SATA H®C CO te le KG CO | | | 2(* L2 215 4 3(12 H N 19) CH “0 H?°C LiC CH C C Lx IRC x To) OH 1 RATA OH CHyC Contrazioni doppie 6 ”» 345) 100 \ 7 ” 38 93 8 ” 40 88 9 » 40 87 10 ” 40 80 11 ” 41 62 12 ” 40 51 13 ” 36 47 14 » 35 48 15 » s1 50 | Ore 18 tura, il periodo di latenza prima diminuisce e poi tende di nuovo ad aumen- tare un poco; l'altezza delle contrazioni prima aumenta e poi di nuovo di- minuisce; la durata totale (ampiezza) di esse, prima diminuisce e poi di nuovo aumenta. Lo stesso dimostra la Il tabella, con la sola differenza che la durata delle contrazioni, in questo caso, diminuisce sempre col crescere della temperatura. Nell'esperimento, cui si riferiscono i dati della III ta- bella, la temperatura fu fatta prima aumentare e poi di nuovo diminuire. Anche l'altezza delle contrazioni prima aumentò e poi diminuì; ma la dimi- — 178 — nuzione di essa s' iniziò mentre la temperatura era ancora in via d’aumento; e quando questa tornò ad abbassarsi. le contrazioni tornarono ad aumentare d'altezza. Si osservino le curve delle figg. 7 e S. Dai dati raccolti nelle tabelle e da queste figure risulta che spesso le più alte contrazioni sono quelle che il muscolo compie a una temperatura, non prossima a quella centrale del corpo, ma di molto inferiore (ancor che VANNA MAMMINA MANN Fia. Quattro contrazioni di uno stesso muscolo registrate a temperature diverse. Una con- È) p trazione tonica distinta si vede solamente nella 4% curva. La curva 13% è molto prolungata, probabilmente a causa della fatica. variabile secondo i casi), il che è in accordo con i risultati ottenuti da Gad e Heymans (!*), da Fréhlich (!*) e particolarmente da Gayda (14). Questo fenomeno singolare può solo ora essere spiegato, considerando che, come ri. 1/00" /2 IVANA AMANTI NANNA NANTANANA ANA MANNA VIVAI ei Curve di contrazione di un muscolo raffreddato a 20°-13° C. Si vede nettamente, specie nella 38, come l’apice è fatto dalla contrazione tonica. sulta dai miei tracciati, solo entro certi limiti di temperatura sotto la tem- peratura centrale del corpo la contrazione tonica, quando si presenta, è mas- simamente sviluppata, tanto da elevarsi col suo apice al di sopra della contrazione clonica. Per es., nella curva 8 della fig. 8, l'apice della curva complessiva è fatto dalla contrazione tonica, che si distingue abbastanza bene dalla contrazione primaria. L'altezza così grande di quella curva, alla ‘''‘''ithttt6+SSS5S — 179 — temperatura relativamente assai bassa di 20° C. è determinata dal fatto che la contrazione tonica si sovrappone alla clonica. Crescendo la tempe- ratura, la contrazione tonica diventa sempre meno cospicva, fino a scom- parire del tutto, come nella 9* curva della tig. 7. Nell'esperimento corrì- spondente, la contrazione tonica si manifestò solo fra i 29° e i 35° CU; non se ne vide traccia a temperature inferiori (27°-24° C) nè superiori (37°-42° C). È evidente che qui non si può parlare di un coefficiente ter- mico (!5) costante della contrazione muscolare; ma ciò dipende assai pro- babilmente dal fatto, sul quale io insisto, che la contrazione muscolare non risulta di un unico processo contrattorio. ma almeno di due, ciascuno dei quali può avere un coefficiente termico distinto. VANNA NANNA ANNA MANA MMM O MMM” 1300" Fa. 9 Azione iniziale della veratrina: 1, curva normale; 2, 1’ dopo l’azione della veratrina; 32, 5" dopo. Aumento progressivo delle altezze di contrazione, provocato dalla ve- ratrina. Influenza della veratrina. — Dalle mie ricerche risulta, che la vera- trina determina i seguenti effetti nel preparato diaframmatico: 1°) In primo luogo, subito dopo l’azione della veratrina (fig. 9), aumenta l'altezza delle contrazioni (ved. a questo proposito il lavoro di Carvallo e Weiss, 10), che man mano diventano anche più ampie. 2°) Quindi sempre più si sviluppa la contrazione tonica (!5), che viene assumendo addirittura l'aspetto di con- trattura (fig. 10); col tempo, mentre s intensifica la contrattura, s' indebo- lisce la contrazione clonica, sino a fondersi interamente con la prima: allora le rispettive curve assumono l’aspetto di quelle dei muscoli fetali da me già descritte in un'altra pubblicazione [17], che somigliano, quanto alla forma, alle curve di contrazione dei muscoli lisci. 3°) Spesso la contrattura, come nella fig. 10, è ritmica, cioè la rispettiva curva sì presenta ondulata, cia- scuna ondulazione avendo a sua volta l'aspetto di una piccola contrazione elementare. La veratrina, come una temperatura relativamente bassa, non fa che esaltare nel muscolo la sua attività tonica. Da ciò credo che dipenda anche — 180 — l'aumento in altezza delle contrazioni, che si osserva immediatamente dopo l'azione della veratrina. Più tardi questa deprime la contrazione clonica, anzi l'attività contrattile generale del muscolo. Azione analoga esercita sul muscolo l’ammoniaca (e altre sostanze). Contrazioni multiple seguenti a stimoli unici. — In certi casi di esal- tata eccitabilità naturale del preparato frenico-diaframmatico, stimoli unici, applicati per lo più al nervo (talora anche direttamente al muscolo), pro- vocano contrazioni multiple, cioè contrazioni che differiscono profondamente da quelle finora descritte, perchè risultano da quattro o più contrazioni sem- plici seguentisi con un ritmo regolare sopra una linea di tonicità assai ele- / AIN VINI VINIVNNINVV\NNVIVIIVYVINN\WTITIVWWYOWAOOOII — Fic. 10 Azione tardiva della veratrina. Dalla 1% all'ultima di queste contrazioni, mentre appa- risce e sempre più si accentua la contrazione tonica, che qui anzi assume l'aspetto di contrattura ritmica, diminuisce l'altezza della contrazione clonica, che nel- l’ultima curva è interamente fusa con la contrattura. vata, in guisa che la curva complessiva assume l'aspetto d’un tetano in- completo, come nella fig. 4. Io suppongo che questo fenomeno, del resto non nuovo perchè lo si può constatare in una quantità di tracciati ottenuti da varî autori (!8), dipende da una moltiplicazione dell’ eccitamento, pro- dotto dallo stimolo unico forte, nelle giunzioni neuro-muscolari del pre- parato (1°). Considerazioni generali sulla genesi della contrazione doppia. — Dopo quanto ho detto, mi pare che più non sia lecito di dubitare dell’esistenza, in ogni muscolo striato, di una vera duplicità fuuzionale, cioè di un'attività clonica e tonica. Per ogni condizione capace d'influire sull'attività contrat- tile esistono dei limiti, entro i quali la duplicità funzionale si manifesta con la comparsa di tipiche contrazioni doppie, e questi limiti variano per i varii preparati muscolari: ciò è vero per la temperatura, come per l'intensità degli stimoli, per la concentrazione degl'idrogenioni, per il peso onde il muscolo è caricato, per l'azione di speciali sostanze (veratrina ecc.). La contrazione muscolare è quasi sempre doppia. Quando essa appa- risce semplice, spesso ciò dipende da una fusione completa della contrazione — 181 — tonica con la clonica. Solo in certe condizioni (stimolo debolissimo unico, peso eccessivamente piccolo, certe temperature ecc.) la contrazione tonica non si manifesta. Ma in altre condizioni (temperatura eccessivamente bassa, periodo avanzato dell'azione della veratrina, della fatica ecc.) sembra dile- guarsi invece la contrazione clonica. Generalmente, quando una contrazione, prima apparentemente semplice, si trasforma in contrazione nettamente doppia, ciò è effetto dunque di dis- sociazione delle due contrazioni prima fuse, dipendente dal fatto che la con- dizione determinante tale dissociazione agisce diversamente sulle due atti- vità, clonica e tonica, del muscolo, diversamente quanto alla intensità e alla velocità di svolgimento di esse. Tra i fattori determinanti la forma della contrazione, principalissimo è la natura del muscolo, se cioè questo è un muscolo bianco o rosso (°°). Es- sendo l’attività tonica massimamente sviluppata nei muscoli rossi, la fre- quenza con cui il preparato diaframmatico eseguisce contrazioni doppie di- pende dall’essere il diaframma un muscolo rosso per eccellenza. Le contrazioni più alte, che an muscolo compie in risposta a stimoli unici, sì osservano quando in esso l’attività clonica e l’attività tonica sono eccitabili a un grado optimum e armonicamente; allora la contrazione to- nica fa da « sostegno interno » alla contrazione clonica. Il detto grado optimum di sinergia delle due attività non può corrispondere alla massima dissociazione di esse. Solo nei muscoli abnormemente raffreddati o avvele- nati con veratrina, la straordinaria altezza delle contrazioni può essere deter- minata, per così dire, da sovrapposizione della contrazione tonica sulla clonica. L'ipotesi più soddisfacente che oggi possediamo, per spiegare la con- trazione doppia in tutti i casi in cui si presenta, come anche i varii feno- meni alla medesima connessi, mi sembra che sia quella da me proposta (?!); vale a dire, che la duplicità funzionale dei muscoli striati sia propria di ogni fibra muscolare, e però corrisponda alla duplicità strutturale di questa; e particolarmente, che l’attività clonica (contrazione primaria o rapida) sia localizzata nelle miofibrille, mentre l’attività tonica (contrazione secondaria o lenta, contrattura) sarebbe localizzata nel sarcoplasma. BIBLIOGRAFIA (1) A. Fick, Studien dber elektrische Nervenreizung. Arb. a. d. physiol. Labor. d. Wiirzbirger Hochschule. Wiirzburg 1872, pag. 65. tav. VI. (°) O. Funke, ZVeder den Einfluss der Ermidung auf den zeitlichen Verlauf der Muskelthàtigkeit. PAùgers Arch. VIII, pag. 218 (1874). (3) E. Tiegel, Veber Muskelcontractur im Gegensata zu Contraction. PAiger's Arch. XIII, pag. 71 (1876). 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XII, pag. 247 (1912). (2°) E. Paukul, Die Zuckungsformen von Kaninchenmuskeln verschiedener Farbe und Structur. Arch. f. (Anat. wu.) Physiol. 1904, pag. 100. (21) F. Bottazzi, 7'he oscillations of the auricular tonus in the batrachian heart with a theory on the function of sarcoplasma in muscular tissues. Journ. of physiol. XXI, pag. 1 (1897). Chimica-fisica. — Za materia allo stato sopraffuso. III. Vi- scosità e conducibilità elettrica delle sostanze sopraffuse. Memoria del Socio R. NasinI, di A. BRESCIANI e F. ZACCHINI. Questo lavoro sarà pubblicato nei volumi delle Memorie. — 184 — Meccanica. — £stensione della soluzione del Sundman dal caso di corpi ideali, al caso di sferette elastiche omogenee. Nota di G. ARMELLINI, presentata dal Socio T. LeEvI-CIVITA. INTRODUZIONE. — OGGETTO DELLA PRESENTE Nora. 1. Il Sundman, nella sua Memoria sul problema di tre corpi (!), sup- pone esplicitamente che si tratti di corpi ideali, cioè tali da essere soggetti, anche nell’urto, soltanto alla forza d'attrazione newtoniana. « Il va sans dire — egli scrive (®) — que lorsque nous parlons de la « continuation du mouvement après un choc, nous supposons qu'il s'agisse « de corps idéaux » ecc. Data l’importanza dello studio del Sundman, riesce quindi assai inte- ressante di esaminare se il risultato possa estendersi al caso di sferette materiali omogenee e perfettamente elastiche. Vedremo, nella presente Nota, che la risposta sarà affermativa. 2. Più esattamente immaginiamo tre sfere S, Ss S3, materiali, omogenee, di massa 7, MM e di raggio 7; le quali si attirino secondo la legge di Newton. Supponiamo, inoltre, che esse (per usare il linguaggio degli antichi) siano perfettamente elastiche: cioè tali che, nell’urto, non abbia luogo alcuna perdita di forza viva; ciò che in natura sì verifica con approssimazione per l'acciaio, l’'avorio ecc. Indichiamo con €, C.C, le traiettorie che i centri di S, S. S3 descri- vono dall’istante iniziale t= 0 sino a t= 0. Siano K, K; K; le traiet- torie dei corrispondenti punti ideali del Sundman; cioè le traiettorie di tre punti ideali di massa 72, ms #3, abbandonati in condizioni iniziali identiche a quelle dei centri di S, Ss Sg (8). Chiamiamo con X; Y; Z; le coordinate del centro della sfera S;; e con Xi Yi zi quelle del corrispondente punto ideale di massa m;, nello stesso istante £. (*) Karl F. Sundman, Mémoire sur le problème des trois corps, Acta Math., tom. 36. (3) Op. cit., pag. 141. (*) Supponiamo, ancora, che, nell’ istante iniziale, le tre sfere non abbiano alcun moto di rotazione; di maniera che il momento della quantità di moto, e la forza viva del sistema S, Ss S siano usuali a quelli del corrispondente sistema ideale del Sundman, Mi Ma Ma + — 185 — Supponiamo, che data una quantità positiva e, estremamente piccola, si abbia sempre (1) |VX— +-+ LA Y+i ehi tenendo fisse le prime v colonne. Questi determinanti sono soluzioni della più generale equazione di Laplace la cui successione termina dalle due parti secondo il caso generale. Le equazioni della successione si ottengono dando ad h tutti valori da 0 ad n (?). Analogamente si procederebbe negli altri casì di chiusura. 6. Consideriamo il caso in cui la (1) abbia gli invarianti (°) i = +ab—c re a, Sal d0» uguali. La caratteristica geometrica di questo fatto è espressa dal teorema di Koenigs, che ora dimostriamo (*). Sia x un punto generico di @: i punti (1) Cfr. la mia Nota: Sur les configurations de Laplace (Compt. rend. Acad. de France, tom. 156, février 1913). (*) Darboux, Zegons sur la théorie générale des surfaces, vol. II (1889), ch. VI, n. 385. (*) Darboux, loc. cit., vol. II, ch. II. n. 326; ho adoperato per gli invarianti le lettere maiuscole, invece che le minuscole come nel Darboux, per evitare confusioni con quel che precede e segue. (4) Darboux, loc. cit., vol. IV, pag. 878. La dimostrazione del Darboux è d’indole metrica; una dimostrazione proiettiva era stata annunziata da Tzitzéica, ma, per quanto so, non è stata pubblicata. — 194 — che da esso si ottengono con la trasformazione di Laplace (nel piano tan- gente in x a ©) hanno le coordinate Scegliamo questi tre punti come vertici di un triangolo fondamentale per un sistema di coordinate proiettive, e precisamente (nel viano tangente considerato) sia (10,0) È a (001000: 002002908 Segue, da ciò, che le derivate di x; sono (in x): dX1 dI = 0) = 1 en 0) de) dl Lo ; ai = dl dì -—='—- d IE, d01 de2 da x 20 CEI, EEA. de) d02 Una conica che tocchi i lati del triangolo fondamentale nei vertici x! e x! ha un'equazione del tipo 2123 — 443= 0. Vogliamo determinare 4 in modo che la conica riesca osculatrice in x alla curva 0» di ®_, che vi passa. Detta conica deve perciò contenere il punto le cui coordinate si calcolano subito servendosi dei valori trovati per le derivate prime ed eliminando le successive per mezzo della (1) stessa; e sì trova: 1 X=1+-- ; Xa=Kdo, kb: ; X=35Kdos; ove i ... indicano termini d'ordine superiore, in do», a quelli scritti. L'equa- zione della conica richiesta è perciò: 1 Xr Xg — 2K do — 0 La conica analoga osculatrice in 4° alla curva e, che vi passa (e tan- gente in x alla curva 0.) ha l'equazione dae DI TEMI 2H ©? — 195 — Condizione necessaria e sufficiente perchè esista una conica oscula- trice in x alla curva 0, e in x' alla curva 0, è che gli invarianti della (1) stano uguali: H= K. Questo è il teorema di Koenigs. 7. Occupiamoci ora della costruzione di tutte le equazioni ad inva- rianti uguali con integrale esplicito. Osserviamo, subito, che, essendo ad invarianti uguali l'equazione, la suc- cessione termina da tutte due le parti della (1) dopo lo stesso numero di trasformazioni e presentando lo stesso caso. Supponiamo sia quello di Goursat. Come s'è detto al n. 3, la superficie ® che si considera è luogo dei punti d’interseziono degli S, e degli S, osculatori a due curve di un Sr+; poichè nel nostro caso #=%, ® va considerata in uno spazio di dimen- sione pari, S.= Sen. Bisogna ora sfruttare, per caratterizzare D, le due con- dizioni: che le caratteristiche di ® sono in S osculatori a due curve y, 72, e che esiste la conica di Koenigs in ogni suo piano tangente. Dalla prima condizione segue che le curve 0. su ®, appartengono agli Sr, osculatori alla curva y, (su cui varia soltanto 01), e le curve g, di D_, appartengono agli Sp_; osculatori a ys (su cui varia soltanto 0»). Per sfrut- tare la seconda condizione, cerchiamo il luogo della conica di Koenigs al variare di < su @. Sia M il punto di y, il cui S, osculatore contiene la curva 0, passante per x, e il cui S,_, osculatore contiene la curva g» (di P,) passante per x!, ed N il punto analogo su y:. Consideriamo una qualunque ipersuperficie quadrica Q passante per gli Sn, osculatori a y, in tre punti infinitamente vicini M,M',M". e tan- gente alla curva 0, di ®_, in x. ll piano tangente in a a ® sega Q in una conica che è osculatrice in x' a @, (di D,) e tangente in 2° a @s (di D_,). Per il teorema di Koenigs detta conica, quindi @, è osculatrice in Lio: Facciamo variare «7 su > (di ®_,): la conica di Koenigs varia man. tenendosi tangente alla posizione precedente e osculatrice alla Q in punti della curva 0» passante per 4! (giacente tutta su Q). Poichè la conica di Koenigs relativa a 4 sta su Q, vi stanno anche tutte le posizioni succes- sive, quindi pure la curva 0, per x. Ora facciamo variare la curva 0» e consideriamone % posizioni infini- tamente vicine. Queste /% curve 0, appartengono ad una stessa quadrica, se una ne esiste passante per 4-42 S,_, osculatori a Z, in M e in punti infini- tamente vicini e per due S,_;, osculatori a ys in N e in punto infinitamente vicino. Poniamo di aver dimostrato l’esistenza di una tal quadrica Q: gli Sh, in cui si trovano le curve 0; di D_,, incontrano almeno in % punti (infin. vicini, sulle £ curve 0») la Q. Ma due di essi sono contenuti, per costruzione, sulla quadrica Q. quindi vi appartengono tutti. Q contiene dunque tutti gli Sa osculatori a ya; scambiando ®_, con ®,, si vede che Q contiene anche tutti gli Shu osculatori a y, (poichè ne contiene già #4 2). — 196 — Rimane da vedere se esista una quadrica soddisfacente alle condizioni imposte. Perchè un Sx-, appartenga ad una quadrica di S,= Sn, occorre che vi appartengano MALL) suoi punti; poichè due Sy_; osculatori suc- cessivi si tagliano in un Sp_s che pure deve appartenere alla quadrica, si MA—1) 2 hanno, per questo, condizioni; quindi, ad esprimere che lo Sx_; appartiene alla quadrica, occorrono più soltanto % condizioni. Sicchè .gli h(h h4-2 Sr_; osculatori successivi a y, impongono SZ Lang +2) con- dizioni. Analogamente i due Sy_, osculatori a ys impongono MA gp condizioni. In totale si hanno Hi 1) Lana nn e 3 3) condizioni, cioè appunto tante quante bastano per individuare una quadrica in S, ('). Raccogliendo, abbiamo: le curve yi,ys, insieme con le loro sviluppabili fino a quelle costi- tuite dagli Sn, osculatori, stanno sopra una stessa quadrica Q; c. v. d. Siccome non ci sono altre condizioni da sfruttare, si è certi che, sce- gliendo in questo modo y, e y», sì ha, come luogo dei punti d'incontro degli S, osculatori, una superficie ® ad invarianti uguali, la cui successione di Laplace si chiude dalle due parti. Infatti il piano tangente in un punto x taglia la quadrica Q in una conica che per costruzione riesce osculatrice in x! ad una curva @,, e in x ad una curva gs; quindi deve coincidere con la conica di Koenigs, e perciò l'equazione ha invarianti uguali. 8. Per tradurre analiticamente il resultato, facciamo ancora qualche 08- servazione relativamente alle curve y,,ys: quel che si dice per una, vale anche per l’altra. Poichè gli Sn_, osculatori alla y, sono contenuti in Q, gli S,_, osculatori a y, nei suoi punti sono gli iperpiani ivi tangenti a Q. Infatti, lo S osculatore in un punto è polare dello Sp_; osculatore, e così di seguito (si noti che anche questo fatto è essenzialmente legato alla parità dello spazio, chè in uno spazio dispari non sarebbe possibile costruire curve come quelle qui richieste). Rappresentiamo ancora y, con la (2): dev'essere anzitutto x = 2%. Inoltre, se vogliamo ottenere enti reali, l'equazione della quadrica Q riferita ad un (x + 1)-edro autopolare può scriversi : 2 Sex n 2 = cita t: Lari — 41 — Theo — 0 — Cin = 0. (1) Il fatto che questa quadrica contiene Sn osculatori a curve (7: e 73) è possibile solo perchè l’ambiente ha dimensione pari. Vedi per es. Bertini: Geometria protettiva degli iperspazi (Pisa, Spoerri, 1907), cap. 6, n. 18. 1 — 197 — È poi notissimo, nella teoria delle equazioni (2), che il passaggio da essa all'aggiunta equivale a sostituire alla curva (che ne è il modello proiet- tivo) i suoi S,_1 osculatori, o, se si vuole, il luogo dei poli di questi S,_, rispetto a Q: ma, nel nostro caso, questo luogo coincide con la curva pri- mitiva; dunque le equazioni (2) e (3) debbono essere d'ordine dispari e autoaggiunte. Una superficie dello stesso tipo sì ottiene partendo dalle curve y,,7, considerando i loro S,+g osculatori, gli Ssg d'intersezione di due di essi appartenenti a curve diverse, e infine tagliando con un Ssp_s8 la configu- razione ottenuta. Possiamo quindi concludere col teorema di Darboux ('): S7 ottengono tutte le equazioni a invarianti uguali che s° integrano col metodo di Laplace, prendendo, nelle espressioni (4), h=k, e come funzioni x,y soluzioni particolari di due equazioni d'ordine dispari auto- aggiunte; queste soluzioni debbono inoltre esser tali da soddisfare, in- sieme con tutte le loro derivate fino a quelle d'ordine h — 1, ad una stessa relazione quadratica. Meccanica. — Sistemi astatici equivalenti a due forse asta- tiche irriducibili. Nota II di MATTEO BoTTASSO, presentata dal Corrisp. R. MARCOLONGO. ALTRE PROPRIETÀ DEL COMPLESSO DEGLI ASSI CENTRALI. 8. Il teorema precedente permette già di raffigurarci molto chiaramente il complesso degli assi centrali del sistema dato; esso può però completarsi considerando gli assi centrali passanti per un punto improprio, o per un punto del piano mediano. Come nel caso generale, si riconosce facilmente (Astat., n. 54 e Mo) Che: Gli assi centrali paralleli ad un vettore unitario u, fissato ad ar- bitrio, formano un cilindro circolare retto, il cui asse passa per il punto centrale ed il cui raggio è (mod cu)//, cioè [ per la (7)]} pu Xi,. Tale raggio è nullo quando u è normale alla retta centrale, ed è massimo quando u è parallelo a questa retta. La sezione del cilindro indicato, di raggio non nullo, col piano mediano, è l’ellisse (bitangente al circolo focale) luogo delle traccie di tutti gli assi centrali che s'appoggiano alla retta Gu. (*) Darboux, loc. cit., vol. II, ch. VII, n. 388. RenpicontI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 26 — 198 — Basta infatti osservare che tenendo fissa la direzione dell’asse centrale 7, cioè il vettore jz in (10), e cambiando, in questa, j, in un altro qualsiasi vettore unitario ji (normale a j3), è sempre G— pi, X js ji il piede della perpendicolare all'asse centrale condotta da G, e quindi è = pi, Xj: la distanza del punto centrale G da detto asse. Giidiid. 9. Se è d la distanza d’un punto @ del piano mediano, non esterno al circolo focale, dal punto centrale, s'avrà, come nella (15), Q= G+ pi Ajè: quando si abbia pj:= ©Vp°—d'i — 1A(Q— 6), come risulta subito moltiplicando vettorialmente per i,, ed osservando che il quadrato del secondo membro è p°. Gli assi centrali (paralleli a j3) cor- rispondenti a tale vettore js sono normali a questo vettore, e quindi s’ap- poggiano alla retta per G parallela al vettore d*i, + /p° — d° i. A(Q— 6), il che, dopo quanto si è visto nei numeri precedenti, permette di conclu- dere il teorema: Il cono degli assi centrali, con vertice în un punto del piano mediano non esterno al circolo focale, si spezza in due piani passanti per il punto centrale, simmetrici rispetto al piano mediano, e tali che il seno del loro semidiedro è uguale al rapporto della distanza, del punto considerato dal punto centrale, al raggio del circolo focale. Per un punto del piano mediano, fuori del circolo focale, non vi sono altri assi centrali (reali) oltre alla congiungente del punto stesso col punto centrale. IL TEOREMA DI MINDING PER 1 SISTEMI RIDUTTIBILI ASTATICAMENTE A DUE FORZE 10. Dal teorema precedente risulta, in particolare, che gli assi centreli passanti per un punto del circolo focale formano un unico fascio (doppio), il cui piano è perpendicolare al piano mediano, cioè passa per la retta centrale. Inversamente, si ha che: Gli assi centrali, appartenenti ad un piano passante per la retta centrale, formano due fasci di rette î cui centri sono î punti d'incontro del piano dato con il circolo focale. Ognuno degli assi indicati è il so- stegno d'una forza che può sostituire (staticamente), in una configurazione conveniente, tutte le forze del sistema dato. Infatti, siano: i. un vettore unitario perpendicolare alla retta centrale, cioè ad i,, e parallelo al piano considerato, ed u un vettore unitario qual- siasi dello stesso piano. Le rette dei due fasci indicati si ottengono allora dal bipunto (G = pi.)u facendo variare il vettore u; e poichè la distanza di (G=* pi,)u, dal punto centrale G, è # pu Xi, (che è precisamente, per — ]99 — il n. 8, la distanza da & dei due assi centrali paralleli ad u, e situati nel piano Gi,i:), così tutte le rette indicate appartengono al complesso degli assi centrali. Ad una qualsiasi di queste rette 9 corrisponde almeno una configurazione del dato sistema, nella quale 9 è rappresentato dal bi- punto 7 (10). In tale configurazione il vettore j3 è parallelo al piano con- siderato Gi,i.; e poichè @= pi, Xj3 .Ji è il piede della perpendicolare con- dotta per il punto centrale G alla retta 9, escludendo il caso (già consi- derato nel n. 5) di i, Xj3=0, si ha che il vettore ji è anch'esso parallelo al piano Gi,is: perciò js è normale a questo piano, e la condizione (11) è veriticata. cosdiedi 11. A complemento del teorema precedente (e di quanto s'è visto nel n. 5), si ha la proposizione seguente, che sostituisce, nel caso in esame, il teorema di Minding: Quando un sistema (P;,f;) è astaticamente riducibile a due sole forze, la congruenza luogo delle rette, ciascuna delle quali è il sostegno d’una forza (di vettore £) che può sostituire staticamente il sistema di forse, in una conveniente configurazione, è formata da tutte (e sole) le rette che incontrano la retta centrale ed il circolo focale del sistema dato. Infatti, quando ss= 0, cioè è verificata la (11), la forma s (9) (che è allora un bipunto) rappresenta tutte le rette della congruenza indicata; e sì vede immediatamente che tutte queste rette incontrano la retta cen- trale Gi,, poichè si lia identicamente Gi, s = 0. Inoltre la (15) mostra che, quando i, Xj: +0, ed è verificata la (11), il vettore i, \js ha modulo unitario; ed il punto G + pi, \je d'incontro di 7 (od s) col piano mediano Gisi; risulta, così, sempre sul circolo focale. Quando è i, Xj:=0, già sappiamo (n. 5) che le rette considerate, normali alla retta centrale, appartengono al piano mediano. Inversamente, per i nn. 5 e 10, tutte le rette che si appoggiano alla retta centrale ed al circolo focale appartengono alla congruenza indicata; ed il teorema è, così, completamente dimostrato. QUADRICHE OMOFOCALI. 12. Se 7 è una forma di 3 specie che individua un piano ('), del quale A è un punto ed u è un vettore unitario ad esso normale, il momento asta- i ‘alal 3 Pi 3 tico del sistema rispetto al piano, cioè il vettore %; = f; (somma dei vettori delle forze per le rispettive distanze, con un segno, dei punti d’ap- plicazione dal piano), risulta eguale (Astat., n. 96) a c,u. ._ (*) €. Burali-Forti, Corso di geometria analitico-proiettwwa, Torino, G. B. Petrini, 1912, pag. 163, n. 196 c. — 200 — Se allora si considerano tutti i piani rispetto ai quali il modulo del momento del sistema ha un dato valore positivo 7 , essi inviluppano una quadrica d'equazione (Astaz., n. 99): (16) ((M— G)X(m°— Ko.0}!(M— 0)=1, la quale è di rivoluzione intorno alla retta centrale, perchè dalle (8) segue (A. V., pag. 166): (m° — Ko .0)} = (16) 1 n Toe Lui i =? Ges Blind At a eda) ea i | i da quest'equazione si trae, inoltre, che il quadrato del semiasse di rotazione 2 2 della quadrica è n -» tali espressioni risulta, ancora, che le quadriche (16), al variare di m, for- mano un sistema di quadriche omofocali, le cui linee focali si ottengono ponendo successivamente p°/?, e 0 al posto di m?; esse sono il circolo focale e la retta centrale. I fuochi principali (') su questa sono i punti doppî dell’involuzione (di Minchin) del n. 2; e non sono, quindi, reali. 13. Un asse centrale arbitrario 7 (10) è parallelo al vettore jz (od f), e passa per il punto A= G— pi, Xj3-j1, la cui omografia, per le (4) © (1,06: è il quadrato del parallelo principale. Da i Dici OA = pf[H(i, 331) + ì, XJs . H(jì ;J3)] . D'altra parte, i piani passanti per l’asse centrale 7, ossia per A4J3, si ottengono facendo variare 4 nell'espressione A|u= A|(cos gj. + sen gje). Perciò, fra i piani uscenti da tale retta, quelli il cui quadrato del momento ha un valore dato m?, corrispondono agli angoli 4 soddisfacenti alla rela- zione (0,(cos pji + Sen gj:)]} = 22° [ (cos g)* + (sen @)?], cioè all'equazione di secondo grado in tang gp: (17) Lp®/*(i1Xja)? — #2] (ang @)° + 2p*/?i Xi i Xjetangg + + p"/* [GX ja) + (1 XJ] — m=0, alle cui radici corrispondono i piani A|u, per la retta r, tangenti alla quadrica (16). (1) Ved., per es., L. Bianchi, Lezioni di geometria analitica, Pisa, Spoerri, 1915, $ 213, pag. 581. — 201 — Ora, osserviamo che: 1°) I] prodotto delle due radici di questa equazione sarà —1 quando (e solo quando) è nulla la somma dei coefficienti estremi, cioè è PSI (20 ossia sz i ma dn 2°) Le due radici dell'equazione (17), corrispondente ad un valore m, di m, saranno uguali alle inverse, cambiate di segno, delle radici della stessa equazione (17) per m = wm», quando (e solo quando) il primo ed il terzo coefficiente di detta equazione, per 1= #,, sono rispettivamente opposti al terzo ed al primo coefficiente della medesima equazione per m = 6, cioè quando è pefeli Xi) — mi = — p°/° i X + (i Xi] + ni, ove 7, j indica una delle due permutazioni degli indici 1 e 2; ossia, quando si ha mi + m=p°f°. Si ha così, analogamente a quanto sì dimostra per il caso generale ('), che: Considerando, nel sistema di quadriche omofocali (16), due iperbo- loîdi (che diremo associati) ad una falda, i cui raggi dei circoli di gola stano eguali ai cateti d’un qualsiasi triangolo rettangolo avente per ipo- tenusa il raggio del circolo focale (e quindi tali che il quadrato del semi-asse, non trasverso, di uno, sia eguale al quadrato del raggio del circolo di gola dell'altro). il complesso degli assi centrali del sistema dato può riguardarsi come il luogo delle rette d’intersezione di due piani ortogonali, uno tangente all'uno, e l’altro tangente all’altro dei due iper- boloiîdi associati. In particolare, per mî = mìî=4p°/*, o per l'osservazione 1), si ha: Il complesso degli assi centrali è il luogo delle rette d’intersezione delle coppie di piani ortogonali tangenti all'iperboloide, ad una falda, di rotazione intorno alla retta centrale, il cui circolo di gola è concentrico al circolo focale; ed il suo raggio è eguale a quello del circolo focale mol- tiplicato per 1/V2, e la cui sezione meridiana è un'iperbole equilatera. 14. La nostra deduzione permette ancora di riconoscere senza difficoltà (come nel caso generale: cfr. Astat., n. 106) se una qualsiasi delle coppie di piani ortogonali, indicate nei teoremi precedenti, è formata da piani reali, poichè basta esaminare il discriminante dell'equazione (17). È chiaro intanto, per îa (15), — contrariamente al caso generale — che per un asse centrale, non appartenente alla congruenza di Minding, () Ved., per es., E. J. Routh, A treatise on analytical statics, vol. IT, Cambridge, 1892, pag. 199; oppure Astat., n. 106. Edo = non passa alcun piano reale tangente al circolo focale, come non passa alcun piano reale tangente agli iperboloidi associati con un loro asse suffi- cientemente piccolo. Si può invece riconoscere che: I due piani ortogonali tangenti all’iperboloide ad una falda dianzi indicato [corrispondente ad m*=+ p*f* nella (17)], ed uscenti da un qualsiasi asse centrale, sono sempre reali. Con ciò sì ha una effettiva costruzione geometrica reale di tutti gli assi centrali del nostro sistema. Infatti, il discriminante dell’equazione (17), per m° = p°/?, è pifi XJ)? + (i XJ) — CO Xi — 3-7 XX = p'f*[(i1Xja? (Xi) — 4]; e siccome il massimo valore che può assumere il prodotto (i, X je)? (i, X ja)”, per un valore assegnato di i, XJ. è +[1—(i,Xj)?], tale discriminante è nullo solo quando i, Xj;= 0, ed (i, X ja)? = (i, X ja) =}, ed è nega- tivo in ogni altra ipotesi. Nel caso ora indicato, è facile di riconoscere che l'equazione considerata è identicamente soddisfatta, e corrisponde ad assi centrali che incontrano il piano mediano nel circolo di gola dell’iperboloide sopra considerato Dunque, le radici dell'equazione (17), per m? = + p*/? sono sempre reali; esse sono inoltre distinte e determinate finchè l’asse centrale consi- derato, 4}3, non è una generatrice dell’iperboloide indicato nell’enunciato ultimo del n. 13, chè allora sono (com'è ovvio) indeterminate. 15. Il complesso degli assi centrali rientra così, per l'ultimo teorema del n. 18, nel complesso (caso particolare del complesso di Battaglini) che i francesi (') chiamano senz'altro « di Painvin », il quale (*) ba studiato più specialmente il luogo delle rette, per ciascuna delle quali si possono con- durre due piani ortogonali tangenti ad un dato e//issoîde; ed è a tale studio che si riferisce il Darbonx (loc. cit., pag. 40). Peraltro, non tutte le pro- prietà dedotte dal Painvin si possono riportare al complesso degli assi cen- trali di un sistema astatico in cui, come nel caso qui studiato, comparisce sempre un 7perbdoloide ad una falda (Astat., n. 106); tanto più avendo sopratutto riguardo, come fa il Painvin (loc. cit., pag. 97), agli elementi reali. Così non si potrebbe rintracciare nel Painvin una costruzione del complesso che corrisponda a quella da noi esposta. (1) Ved., per es., A Demoulin, Sur Ze complexe des droiîtes par lesquelles on peut mener à une quadrique deux plans tangents rectangulaires, Bulletin de la Soc. Math. de France, t. XX, 1892, pp. 122-132. (?) Painvin, Htude d'un complere du second ordre, Nouv. Ann. de Mathém. (2), 11, 1872, pp. 49-60, 106-107, 202-210, 289-297, 481-500, 529-589. -- 203 — Passiamo ancora osservare che dal n. 9 risulta che: 7 piano mediano è il luogo dei punti il cui cono delle rette del nostro complesso si spezza in una coppia di piani; mentre, nel complesso studiato dal Painvin, tale luogo è una superficie d’onda (del 4° ordine), i cui punti reali sono tutti al finito. DIREZIONI PRINCIPALI. 16. Nel caso che si considera, si possono trovare facilmente le direzioni principali (A. V., I, pag. 35) dell'omografia 0, del sistema (P;, f;), relativa ad un punto qualsiasi A. Infatti, dalle (14) e (17) segue, anzitutto, che 0, trasforma in un vettore nullo ogni vettore normale al piano AGi,, od alla retta centrale, secondo che A è fuori o sopra questa retta. Se A è fuori della retta Gi,, e s'indicano con i’.j' due vettori unitarî- ortogonali paralleli alle direzioni principali non nulle di 0,; con i,j i cor- rispondenti vettori unitarî-ortogonali paralleli alle direzioni principali di Ko,; e con a,d i relativi parametri principali (A. V., I, pag. 166), è o,=aHli',i) + 5H(j',j). Poichè allora (A. V., I, pag. 166) Ro, = ab H(k', k), il vettore k=i/\j è parallelo al vettore j» del n. 2; quindi i e j, normali a j», sono paralleli ad una delle coppie di vettori h,, hs (6), per un determinato valore di 9: e perciò, in virtù delle (3), i vettori Ko,i= di’, Ko,j= Vj" sono paralleli alle rette ortogonali AP, 4Q, che vanno a due punti coniu- gati nell’involuzione della retta centrale, oltrechè alle direzioni principali, non nulle, di 0,. Inversamente, se le due rette AP, AQ, passanti per due punti coniu- gati (3) dell’involuzione della retta centrale, sono ortogonali, segue subito che, per l'omografia oa = H(P— 4,h) +H(Q— A, hs), le direzioni di tali rette sono principali. Così, anche per il n. 7, si ha: Ogni punto A della retta centraie ha o terne principali, ciascuna formata delle direzioni della retta centrale e da due direzioni (nulle per 04) ortogonali e normali a tale retta. Un punto qualunque A, fuori della retta centrale, ha come direzione principale (nulla per 0,) quella della normale al piano del punto e della retta centrale, insieme con le direzioni della coppia (unica, per A fuori del circolo focale, 0 fra le o coppie siffatte, se A è su tale circolo) di rette ortogonali, che vanno a due punti coniugati nell'involuzione (ellittica, di Minchin) della retta centrale. 17. Le direzioni indicate (doppie per la dilatazione Ko,.0,) sono degli elementi astatici del sistema (2;,f;) rispetto al corpo (Asta/., pag. 12), ed hanno perciò una importanza fondamentale nelle ricerche di astatica. Esse — 204 — sono parallele sia agli assi dell’'e//issotde centrale di Darboux, sia a quelli dell’e/lissoide di riduzione di Da Silva (che sono due quadriche indicatrici, con centro in A, rispettivamente delle dilatazioni Ko,.0, e 07. Ko7: cfr. Astat., Appendice), sia agli assi di squilibrio di Siacci (1); e permet- tono di determinare facilmente, per es., gli assi principali di rotazione di Mobius ed ogni altro elemento invariabilmente legato al corpo. L’omografia o, da noi considerata è definita, oltrechè da tali direzioni principali, dalle direzioni doppie della dilatazione 0,.Ko,, astatiche rispetto al sistema di forze, e dai parametri principali (Astat., cap. I, $ 10) che sono astatici rispetto al corpo ed alle forze; donde la ragione che con essa si possono facilmente ritrovare le proprietà ottenute sulla astatica con proce- dimenti assai diversi e spesso complicati. Di più essa permette di comple- tare, e vedere sotto nuova luce, molti risultati noti, poichè presenta il vantaggio di riunire tutti gli elementi che si trovano sempre considerati separatamente dai varî autori, a seconda dei loro punti di vista speciali. Matematica. — Normole di derivazione funzionale. Nota di E. DANIELE, presentata dal Socio V. VOLTERRA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Matematica. — Sulla derivazione per serie. Nota di Guino FugiINI, presentata dal Corrisp. O. TEDONE. Il seguente teorema mi sembra notevole, perchè semplice ed abbastanza generale. DD Se ulx)= > un(x) è una serie convergente di funzioni monotòne, 1 per es. non decrescenti, definite în un intervallo a = x <= b, ivi è quasi dappertutto lecita la derivazione per serie; cioè quasi dappertutto vale lau di v un(x). In altre parole: 1°) il gruppo G dei punti, ove non esiste oppure non è finita anche una sola delle w'(2) , &,(x); 2°) il gruppo dei punti ove Xw,(x) non converge; 3°) il gruppo dei punti ove non è w'(x) = Zu,(x) sono aggregati di misura nulla. (*) F. Siacci, Le quaterne statiche nei sistemi di forma invariabile, Memorie della Soc. Ital. delle Scienze, detta dei XL, (3°), tom. IV, n. 3, 1882, pag. 7. — 205 — Ciò è ben noto (per i teoremi generali del Lebesgue circa le funzioni monotòne) per quanto riguarda il primo gruppo G. Per un teorema di De la Vallée Poussin (*), è x \ u(x) — u(a) = f ue) da + V(x) (1) 5 | unta) — una = fd(0) de + Va(0) dove le V(x), Vn(x) si definiscono nel modo seguente: Costruiamo infiniti sistemi x, x, x®,... di intervalli, a due a due senzà punti interni comuni, fiala egrogato G. Siano dî), 06M, 0MN,... gli intervalli di 2‘; la somma delle loro lunghezze tenda a zero So r= 00. Siano va, © le variazioni di 4, e di w in uno dei segmentini d”, o sua parte, che appartiene all'intervallo (a, x). Poniamo (RENE) (9 ANO salito) V 2 ì Va Il teorema citato dice che: V(@)=limV® ; Vi(e)=lim VW} . Evidentemente O — pi vi? VU, nk * donde (VIGDIES Sa Sa N N più : R SIOE. k Essendo le v) positive, si possono nel terzo membro invertire i simboli di sommatoria, cosicchè @) vo=x| No “Je vvr. Ora noi possiamo scegliere i X” in guisa che ogni XY+! sia interno a X©. Con tale scelta, le V®, VW decresceranno al crescere della 7, pure essendo positive; e perciò è ultimo membro di (1) ha, per 7= co, un limite, che si può calcolare passando al limite termine a termine. Quindi (3) V(2)=lim V®=lim >) VO= > linv? => Vi(9). rZ=Z0 r=% n ron r==z0%0 (*) De la Vallée-Poussin, Cours d’analyse infinitésimale, vol. I, 2% edizione, 1909, pag. 269. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 27 — 206 — Ora, poichè u(x) = > u»(x), dalle (1) si trae: (4) JO u'(a) de + V(2)= > fu) da + DI Wi) la quale, per (3), diventa: (5) iL v(a)da = Di ur(x) da . Essendo le v,(x) non negative, e convergendo il secondo membro di (5), si avrà (!): (6) DI Sat x)dar = fe Deu,(e)ida, sa n cosicchè la (5) diventa: ( u'(x) da = f bi (1) | da. Derivando, se ne deduce che, come si doveva dimostrare, è quasi dappertutto uv) = un(®). Matematiea. — Sopra una equazione integro-differenziale del tipo ellittico. Nota di Lurer SINIGALLIA, presentata dal Socio V. VOLTERRA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (') B. Levi, Sopra l'integrazione delle serie, Rendiconti dell'Istituto lombardo, vol. XXXIX (1906), pp. 775 e segg — 207 — Meccanica. — Sulle vibrazioni di una corda elastica in un mezzo resistente. Nota I del dott. FRANCESCO SBRANA, presentata dal Corrispondente 0. TEDONE. 1. Ci occuperemo, in questa Nota, del problema delle vibrazioni di una corda elastica tesa, attorno alla sua posizione di equilibrio, in un mezzo resistente, supponendo che la resistenza del mezzo si possa rappresentare con un sistema di forze applicate agli elementi della linea, dello stesso ordine di grandezza di questi elementi, e proporzionali alle loro velocità, e che si possa trascurare il peso della corda stessa. Di questo problema si sanno determinare le soluzioni elementari ('), e da queste, coi noti metodi, si può risalire alla soluzione generale. Il nostro còmpito sarà invece quello di pervenire ad una tale soluzione, servendoci della formula che il metodo delle caratteristiche di Riemann fornisce per l'integrale generale dell'equazione a derivate parziali del problema. Il van- taggio, che fornisce un tal metodo, consiste principalmente nel non richiedere, perchè esso sia applicabile, che le funzioni che compaiono nelle condizioni iniziali siano prima poste sotto forma di espressioni analitiche speciali. 2. Nella posizione di equilibrio la corda sia distesa lungo l’asse x positivo, tra i punti di ascissa #x=0,z=L, sicchè sia L la sua lun- ghezza in questo stato di equilibrio. Cominceremo a contare il tempo dal- l'istante iniziale del movimento. Chiamiamo %,v,w le componenti dello spostamento di un punto della corda, a partire dalla posizione di equilibrio, secondo gli assi x,y. E notiamo che, dal punto di vista analitico, la determinazione di vu, .w costituisce uno stesso problema: quello cioè di ottenere una funzione @ di x e t, la quale, per t>0 e < compreso tra 0 ed L, sia soluzione del- l'equazione (1) si riduca a 0 per x=0,x=L e £# >0, e assuma valori assegnati, insieme dg su: con cs per {= 0, e 4 compreso tra 0 ed L. Soltanto le costanti / e a? hanno ordinariamente valori diversi, secondochè rappresenta lo spostamento (') Ved., per es., Routh, he advanced part of a Treatise on the Dynamics of a system of a rigid bodies, ediz. 1908, pag. 438; Bouasse, Mécanique physique, 2me edit., pag. 572. — 208 — longitudinale « o una delle componenti v,w dello spostamento trasversale di un punto della corda. Per risolvere questo problema, conviene trasformare la (1) nell’altra: i; prati nessi ponendo gp= Ue7!, e £= La pp == Si ponga pure — Db, E allora, considerando È e n come coordinate ortogonali in un piano, il nostro pro- blema si può porre sotto quest'altra forma: « determinare una funzione U di & e n, la quale, in tutto il campo C del piano #7, limitato dalle rette £=0 e £=/, nel quale 7>0, sia soluzione della (2), si annulli per £= 0 e £&=/, e soddisfi inoltre alle condizioni: sa ea Ma=/ ; (3) PO. essendo / e F funzioni assegnate della &, per £ compreso tra 0 ed / ». 3. Sia ora 7 una regione qualunque del piano #7, nella quale U è una soluzione regolare della (2), ed s una linea aperta in questo campo, lungo la quale sono assegnati i valori di U e delle derivate prime, mediante tre funzioni continue, delle quali, naturalmente, due sole saranno indipen- devti. Se conduciamo, per un punto 0=(£,, o) di 7, le due caratteri- stiche dell'equazione (2) s_n=te-M PEPyn = che diremo del 1° e del 2° sistema rispettivamente, indichiamo con 1 e 2 le loro intersezioni colla linea s, e intendiamo che il senso positivo su essa linea sia quello che va dal punto 1 al punto 2, la formula che dà il calore di U in 0. per mezzo dei valori che la U stessa e le sue derivate prime acquistano su s, tra i punti 1 e 2, ottenuta coll'applicazione del me- todo delle caratteristiche di Riemann, sì scrive: (8) 20,= 1 +0:+ f (7-13) +(1 vi), essendo U,,U,, U» i valori di U nei punti 0,1,2, e intendendosi l’inte- grale esteso alla linea s fra i punnti 1 e 2. Inoltre abbiamo indicato sem- plicemente con I, la funzione n2i ta) = Liazia dani ee (*) Ved., per es., Riemann-Weber, Part. Diff.-gleich. der math. Physik. 2° Bd, ediz. 1912, pag. 306. 2209 4. Cercheremo di risolvere il nostro problema coll’aiuto della formula (3), assumendo per la linea s, che comparisce nella formula (3), il contorno del campo C. Dividiamo anzitutto il campo stesso nelle regioni I, II, III, IV, come è indicato dalla figura, mediante la caratteristica del 1° sistema uscente dall'origine delle coordinate, e quella del 2° sistema uscente dal punto di ascissa / dellasse È. Conduciamo quindi per un punto 0=(£,,7) del é=0 5=l | g=0 campo C le due caratteristiche uscenti da esso. Intenderemo come punto 1 l'intersezione della caratteristica del 1° sistema coll'asse È positivo se 0 è nelle regioni I o III, coll’asse 7 positivo se 0 è nelle regioni II o IV; e come punto 2 l'intersezione dell’altra caratteristica coll’asse & positivo se 0 è nelle regioni 1 o II, colla parte positiva della retta = / se 0 è nelle regioni III o IV. Quando il punto 0 cade nella regione I, la formula (3) diventa: (4) 2U,= (fo — NM) + (fi + N) + É0 No RR Sn |rO0+/0> | L(VR=E= 5) de, Éo—MNo e determina quindi, senz'altro, il valore di U in questa regione, per mezzo delle funzioni assegnate / ed F. Se 0 cade nella regione II, ponendo 3) = (n), la formula stessa diventa: dÉ E=0 (5) 2U=/(M +) 0) "| a | EN ED +S F($) + /(5) x LEE) de (Laga Éo © _f I (© s/1) 82) (n) dn; IO e se 0 cade nella regione III, ponendo (i = Y(g): (6) 2U0= /(f, — 0) + i e a E +, |F® sie) Li I (V/nî — (È — E0)?) dé + e I (Vin— mn) — ((— E) (n) dn. Se infine 0 è nella regione IV, otteniamo, allo stesso modo, la formula: m 20=-f" LR Mt +/[L0+/03 [nie a+ + LETT VI) da, ° QU dU nella quale è ancora g(n) = (n e , Y(n) = (SH La funzione U sarà dunque determinata anche nelle regioni II, III, IV, quando si conoscano i valori di (7) e w(7). Il nostro problema sarà perciò risoluto se noi riusciremo a determinare queste ultime funzioni. Le condizioni alle quali le funzioni g(7) e w(7) devono soddisfare, si ottengono imponendo al valore di U determinato, nel campo C, dal sistema delle formule precedenti, che tenda a zero quando si fà tendere il punto 0 ad un punto del contorno del campo C appartenente all’asse 7 o alla retta EM Facendo tendere È, a 0 nella (5), troviamo allora: @ 0=/w+["|10+/03 [nWa=P) &- No -f L(Mo- n) 9(n) dn; e facendo tendere £, ad / nella (6), otteniamo: O) 0=/0- + S| FO+/03 ]nW-E=9) a+ +f"umnvma. — 211 — Infine, facendo tendere &, prima a 0, poi ad /, nella (7). abbiamo le due equazioni: o=f|r® )+/02 | (va=F i— 8°) de + No + I, (Va — n) — 2) (n) da — i Is(mo — 7) 9(7) dm o= f' i. )3- [n =E= - 1°) dé — [LT g RETI (m—) 40) dn (10) La (8), nella quale è da ritenersi no <, è un’equazione integrale, alla quale deve soddisfare g(7), per 7 /. Se si suppone di aver determinato g(7) e w(n) per mn QU ottenuta, £, ad /, ricaviamo, quando s' imponga la condizione che A o tenda a w(70) per fi =!, (9) Y(m)=/"l— m) — FU -m)— È (0) î 3 o SEO +03 |i1Wi-e-Ma= i) +" |re-a +s@-9E | I (VEEF) de. Finalmente, derivando la (7), e facendo quindi tendere &, prima a 0, poi ad /, otteniamo allo stesso modo: gm) = — sh | ro +03 | iLvaAa+ No—L Toi ona) .i V(n—m)— Voi (10) | W(M0) = (Mo — 0) — -[[Lo+03]31 ame m4+ oI, (VACEZONE AC a) SR d il a 9(N) dy . Le formule (8°) e (9') dànno i valori (7) e W(), per pn” ; perciò dv 8 2 TARRA yVS+ e Tod Indicando con I, la corrente senza l’azione del campo, e con e la con- ducibilità della lamina, si avrà, d'altra parte, dIVo RR 7 e, perciò, DUE lo dn' ope Vs + e? i L’ultima relazione ha un significato fisico evidente: la funzione v è identica alla distribuzione dei potenziali che si determinerebbe nella lamina senza campo, qualora, mantenendo gli antichi elettrodi a potenziale zero, si facesse penetrare per il contorno libero un flusso di correnti il cui valore nel senso n’ fosse punto per "punto proporzionale alla corrente I, che si aveva senza campo. La (4) dà anche dv dV ini dn Ni Ma dalle equazioni (2) si deduce facilmente che la corrente 7, nel senso della tangente alla linea di flusso o al contorno è data, mentre agisce il campo, da Se. s+ e dV ra I e perciò dv E . (5) gni ea — 217 — la quale ci dice che la funzione v è identica col potenziale che si deter- minerebbe nella lamina, qualora, per mezzo di nuovi elettrodi applicati a tutto il contorno libero, mentre gli antichi son tenuti al potenziale comune zero, si invii nella lamina un flusso di correnti normale al contorno, e pro- porzionale punto per punto alla corrente locale che si aveva sotto l’azione del campo. 4. Come si è detto, l’effetto del campo si riduce a una rotazione mutua di un angolo # delle linee di corrente rispetto a quelle equipotenziali, con la condizione che il contorno sia, come prima, in parte linea di flusso (dove esso è libero) e in parte linea equipotenziale (dove sono gli elettrodi). Ma se la lamina fosse poggiata su elettrodi molto estesi e di elevatissima resi- stenza specifica, allora il sistema delle linee di corrente resterebbe quello Fic. 2. di prima, e ruoterebbero solo le linee equipotenziali: il che più non sarebbe impedito dai muovi elettrodi, i quali consentono che, lungo il contorno della lamina con cui stanno in contatto, il potenziale assuma valori diversi. Si può anche dire che quando gli elettrodi sono di resistenza nulla, e obbligano parte del contorno a conservare il primitivo potenziale, essi dànno origine a correnti locali con la lamina, cosicchè le linee di corrente totale non son più le primitive. Questo si verificherà anche nel caso semplice di un rettangolo, per esempio di bismuto, provvisto di elettrodi AC BD di rame (fig. 2). Le linee di corrente sotto l’azione del campo non saranno più, come suppone il Drude, parallele all'asse x, cioè quelle esistenti senza campo, poichè le cariche di Hall che si liberano agli orli AB e CD si combine- ranno in parte attraverso agli elettrodi che mettono gli orli in corto cir- cuito. E perciò la corrente resterà diretta lungo l’asse # solo nell’orlo libero; mentre nell'interno della lamina le linee di corrente saranno deformate. Ciò non avverrebbe se il rettangolo ABCD fosse deposto su elettrodi molto estesi e di altissima resistenza: nel qual caso lungo AC e BD potrebbe crearsi e mantenersi la nuova distribuzione dei potenziali di Hall. Solo allora le linee di corrente resterebbero in tutta la lamina dirette secondo l’asse x, — 218 — mentre le linee equipotenziali ruoterebbero di un angolo # rispetto alle ‘antiche. i Tornando al caso di una lamina qualunque, nelle circostanze ora indi- cate che consentono alle linee di corrente di conservare l'assetto primitivo, sia n una linea equipotenziale a campo zero. La (5), integrata fra gli estremi A a B di una di queste, ci dà E fia & J PA a se dove / è la corrente totale che traversa la lamina. E perciò fra due punti del contorno o di due linee di flusso qualunque, se essi sono inizialmente allo stesso potenziale, si manifesterà un effetto Hall costante, proporzionale alla corrente totale che fluisce tra le due linee considerate. In questo caso, perciò, il problema che discutiamo sarà completamente risoluto. Fic. 3. 4. Possiamo invece considerare un altro caso estremo, facilmente realiz- zabile: quello di una lamina a connessioni multiple, che abbia sui contorni distinti 1 e 2 due elettrodi a potenziali costanti (fig. 3). Sotto l’azione del campo l'intero contorno conserverà i valori primitivi del potenziale, mentre le linee di corrente potranno deformarsi liberamente, poichè non c' è più una parte del contorno che debba essere, prima e dopo, linea di flusso. Le linee. di flusso e quelle di livello faranno, per virtù del campo, un angolo - — È; ma, mentre si deformeranno le linee di flusso, resteranno inalterate le equi- potenziali, e perciò il potenziale conserverà in tutti i punti il valore di prima. Mancherà in tale caso l’effetto Hall; ma la deviazione delle linee di corrente potrà far nascere altri effetti rivelatori dell’azione del campo. Io ho già avuto agio di illustrarne alcuni (*) nel caso di un disco di bi- smuto che abbia un elettrodo circolare al centro e uno concentrico alla periferia. Le correnti, che sono radiali senza il campo, diventano, per virtù (') Corbino, N. Cimento, serie VI, tom. 1, giugno 1911. — 219 — di questo, delle spirali logaritmiche, cosicchè il disco si comporta come una lamina magnetica dando origine a quelle singolari azioni elettromagnetiche e meccaniche che potei mettere in evidenza nel lavoro citato. 5. Tolti questi casi estremi, la presenza degli elettrodi arrecherà, nei casi ordinariamente considerati, perturbazioni molto gravi. Così, nel rettan- golo della fig. 2 l’esperienza mi ha dimostrato che l’effetto Hall, massimo al centro fra M ed N, declina rapidamente fino a zero, con legge parabo- lica, avvicinandosi ad AC o a BD. Le correnti che si sovrappongono alla corrente normale hanno un centro di simmetria nel centro O del rettangolo: ma non sono simmetriche rispetto a MN; ne risulta che, lungo MN, esisterà una corrente /, variabile da punto a punto e perciò la differenza di poten- N ziale tra M ed N verrà diminuita di una quantità proporzionale a fi» dy «/M che sarà diversa da zero poichè j, conserva un segno costante lungo MN e in tutta la lamina; anche fra M ed N avverrà perciò una depressione del- l’effetto Hall normale. Questa causa perturbatrice deve aver necessariamente influito nelle misure finora eseguite dell'effetto Hall. Essa inoltre giustifica il risultato di un'esperienza da me istituita con una lamina rettangolare di bismuto, molto lunga nel senso y e corta nel senso x, che avrebbe dovuto dare, senza l’azione degli elettrodi AC BD, un effetto Hall fra M ed N superiore alla differenza di potenziale ohmica esistente tra P e Q, costituendo così un trasformatore elevatore stazico di tensioni per correnti continue. L'esperienza diede invece per risultato una differenza di potenziale fra M ed N sempre minore di quella longitudinale fra P_o Q; l'insuccesso va attribuito appunto all’azione degli elettrodi. Infine le correnti create dalla presenza degli elettrodi, le quali sì so- vrappongono alla corrente principale determinando la deformazione delle linee di flusso, daranno luogo ad un consumo supplementare di energia per effetto Joule, che si aggiunge al consumo dovuto alla corrente normale. E perciò la resistenza apparente della lamina deve essere aumentata in misura sensibile, sotto l'azione del campo, per la presenza degli elettrodi. Sono in corso esperienze per constatare l'effetto previsto. — 220 — Fisica matematica. — Sulle correnti elettriche in una lamina metallica sotto l’azione di un campo magnetico. Nota I del Socio Vito VOLTERRA. 1. Il prof. Corbino ha dimostrato (*) che le leggi della propagazione delle correnti elettriche in una lamina metallica sotto l’azione di un campo magnetico dipendono da un potenziale V, il quale è legato alle componenti Je ® jy della densità della corrente dalle relazioni 1) | dar W : SV IV = —-LkbAi—-}), o K(3+ “I ove ___Ne?vî NETZIOA (2) era Pene e He ( N, dî N. 03 ) _ _ 14+H?esî 1-+H?e0î (3) A=tgp= No CAN) i (ea 1+ H°e? vî essendo : H la intensità del campo magnetico normale alla lamina; e il valore assoluto della carica elettrica per gli ioni; v, e v: le mobilità degîi positivi e negativi; N, e N, il numero degli ioni positivi e negativi per c. c. Di qui il prof. Corbino deduce che V deve soddisfare alle condizioni seguenti: 1°) in tutta l’area o occupata dalla lamina, 4°V=0; 2°) nelle porzioni del contorno libere ed isolate n pd (1) Ved. la Nota del prof. Corbino: Il movimento della elettricità in una lamina metallica sottoposta all’azione di un campo magnetico, pubblicata in questo stesso fa- scicolo. l — 221 — ove / è una direzione che forma, colla normale esterna 7, un angolo costante eguale a f; 3°) lungo degli elettrodi di resistenza trascurabile, V è costante. 2. Cominciamo adesso dallo stabilire alcune formule fondamentali che ci serviranno in tutta la seguente trattazione. Fia. l. Sia s una linea qualunque tracciata nell'interno o al cuntorno della lamina, » la sua normale diretta, in modo che la coppia di direzioni ortogo- nali (s,) sia congruente nel piano colla coppia (x. Y). Dalle formule (1) seguirà che il flusso di elettricità attraverso ds si esprimerà con — K NO — cost yi Înds = (ja c0snx +jy 00sny) ds=—K (2 ‘pali)as= ove / è una direzione che forma con x l'angolo #. Ed il flusso lungo MN, ossia l’intera linea s, sarà — K DI nd [a av) —Va= DAS ) fu sc ds — AK(Vy— Vu) = ar pds Analogamente avremo l’altra formula Per la validità di queste formule basterà ammettere che, lungo s, V sia finita e le sue derivate prime siano finite o infinite di ordine inferiore ad un numero minore dell'unità (?). (*) Qui e nel seguito l’ordine di infinito di una funzione in un punto si ha pren- dendo come infinito fondamentale la inversa della distanza al punto stesso. RENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 29 — 222 -— Supponiamo che la linea s sia chiusa. Allora, essendo V monodroma, perchè ammettiamo che nessuna regione della lamina sia sede di forze elet- le YA n | Fia. 2 tromotrici, le formule (4) e (5) divengono: a ia AS finds =kf valina s dI di Cn dV == 2V (B) fvind= Kfvita PONTI I 3 ESE, 8. Ciò premesso, supponiamo che la corrente entri lungo la porzione AB del contorno da un elettrodo di resistenza trascurabile, ed esca dalla por- zione CD del contorno la quale costituisca pure un elettrodo di resistenza trascurabile, mentre le porzioni del contorno BC e AD siano libere ed isolate. IRTGeRo: Avremo lungo AB e CD, respettivamente, V=0C, ’ V=0s, — 223 — ove C, e C; sono costanti; e lungo BC e AD, DV Li ce 05 Nell’interno dell’area o occupata dalla lamina, V sarà regolare ed armonica. Ora. se chiamiamo s l’intero contorno, e supponiamo soddisfatta la condizione precedente circa l'ordine d’infinito delle derivate di V lungo s, avremo, in virtù della (B), [vinas+ | vinas=— (vas. v KB ven WI giacchè, sopra BC e AD, ni =jn cos f è nullo. Quindi l 1 È DO 0: f sa ds + fit ds= — kfv2! ds . Chiamando J la intensità totale della corrente che percorre la lamina, sarà e f Ho ds= — i ds, quindi v Cet Is dn e, per un noto teorema sulle funzioni armoniche, (Ci —- Ca) J= K fAvdo. Da questa relazione segue che, se C, = C°= 0, V deve essere nulla in tutti i punti di o, e, per conseguenza, che a dati valori di C, e C, non può corrispondere che una unica soluzione per V. Abbiamo dunque il teorema: Noti î valori costanti del potenziale lungo gli elettrodi AB e CD, la distribuzione delle correnti nella lamina è completamente determinata. 4. Il precedente teorema si estende facilmente. Sia o un'area nel cui interno la funzione V armonica è regolare, ed s ne sia il contorno. Come conseguenza delle (B) avremo (se, al contorno, V è finita e le sue derivate sono finite o infinite di ordini inferiori ad un numero minore di 1) Sr ds cos fvPT as cos f avido. bi dl /$ dn /6 — 224 — Quindi, se in certe parti del contorno V è nulla, e nelle rimanenti è LV x E : nullo il pè sarà V nulla entro o: e perciò, se V è nota in certe parti A L Fic. 4. dv QUI dv del contorno, e nelle rimanenti è noto il V sarà determinata entro o. Se lungo tutto il contorno è noto solo il , V sarà determinata a meno dl È e RIC 5 3 ua di una costante. La (A) ci dà la condizione a cui deve soddisfare il pi ; OM —i) (A) Sao 5. Supponiamo, ora, che la corrente entri ad esca dalla lamina attra- verso due elettrodi puntiformi A e B. Riprendiamo la formula (A), e sup- poniamo, dapprima, che la linea s sia la linea sa che circonda il punto A. Fic. 5. Chiamando J l'intensità della corrente, e supponendo w esterna allo spazio racchiuso da sy, avremo si v J= { Va dsa = — K DA Lisa Sa dN — 225 — mentre, se chiamiamo sy una linea che circonda il punto B, e n è la nor- male esterna allo spazio racchiuso da sy, avremo ì dIV -J=( dsa = — K ZA 8h Ss so dN i Prendendo invece una linea s, che abbia nell'interno A e B o escluda ambedue questi punti, avremo 1 SV = = — K f — ds. o J Jn ds, Sc dn i Dunque, nella suddetta ipotesi, noi dovremo porre (6) V log 78 — logr,) + W, — 2nK essendo W armonica regolare, e r, ed 7s essendo le distanze del punto generico x,y da A e da B, e dovremo porre al contorno dell’area o la condizione dV (7) i 0, ossia ; DIS) = (7) culo (log rx — log rx) |. Ne segue che il problema della distribuzione delle correnti è ricondotto alla determinazione delle funzione armonica regolare W, di cui al contorno sì conoscono i valori di Ii dati dalla (7°). È facile il riconoscere che la condizione (A') del $ 4 è soddisfatta. W resulterà determinata a meno di una tostante arbitraria additiva, la quale evidentemente non ha influenza sulla legge della distribuzione delle correnti. 6. Supponiamo invece che la corrente entri da un elettrodo puntiforme A ed esca da un elettrodo BC posto al contorno e di resistenza trascurabile. D Fic. 6. Sia J la intensità della corrente. In tale ipotesi si riconosce facilmente, con un procedimento analogo a quello tenuto nel paragrafo precedente, che sì deve porre ee RA, — 226 — ove W è una funzione armonica regolare nell'interno di o. Lungo la por- zione libera ed isolata BCD del contorno, si dovrà avere MO VA rei W= 0433 logm, e, lungo BC, ove C è il valore costante che deve assumere V lungo l'elettrodo BC. Quindi, se la funzione W è finita, e le sue derivate lungo s sono finite o infinite di ordine inferiore ad un numero minore di 1, essa sarà determinata entro o (cfr. $ 4), e perciò sarà determinata la legge della distribuzione delle cor- renti. 7. Riterremo, come si suol fare ordinariamente, che, se da un elettrodo esce una corrente di intensità J, ciò sia equivalente a dire che vi entra una corrente di intensità —J. Se dunque abbiamo un elettrodo puntiforme da cui entra la corrente I (qualunque sia il suo segno), nell'intorno di esso il potenziale sarà I Veda Serao ove r è la distanza del punto generico #,y dall’elettrodo e W è una fun- zione armonica regolare nell'intorno del punto. La parte del potenziale 1 1 logr = 57K 87 — 2nk 187 si dirà il potenziale dell’elettrodo e sarà il potenziale logaritmico di un punto di massa 9a 8. Stabiliamo adesso alcune altre formule fondamentali, da aggiungersi a quelle trovate nel $ 2. Fic. 7. Immaginiamo di invertire il senso del campo magnetico, ossia cam- biamo H in —H. Per distinguere i due casi, diremo che, nel primo, il campo magnetico è diretto, e nel secondo il campo magnetico è ervertito. — 227 — Dalle formule (2) e (3) segue che K rimane inalterato, mentre 4 cambia segno, ossia cambia segno l'angolo 8, e, per conseguenza, la direzione / si cangia nella direzione simmetrica rispetto alla normale 7, che chiameremo /,. Se diamo un indice 1 a tutti gli elementi corrispondenti a questo caso, dovremo scrivere le formule DIVE Zia) ant K( dI LE dY dVi dh) = K n rsa 4 Jo ( dY dI ed avremo dVi = ni lungo le porzioni del contorno libere ed isolate. Sia ora una linea qualunque s = MN interna o al contorno di 0, come abbiamo considerato nel $ 2. Sarà Vijn — Viin=Vi(Jacosne + ],c08ny) — V(jincos na + ji, cos ny) = DIA | vati) v( io uzh) | dn ds dn IS IV i d(VV,) E (9 IV va.) SSA Beto Rai dn dn si. dla ds cosf —_x(v e, integrando a tutta la linea s, PSE ey A ZARE IV dV e Vie a 1 il der) 3) &- — 228 — Se la linea s sarà chiusa, resulterà v (C) Sorin Vj) ds= — K i a vali ds= I dV PIV — cost (vi dl i o) È questa appunto una delle formule che conveniva stabilire. Essa è suscettibile di estensione. Infatti, denotiamo con S non già una sola linea chiusa ma un insieme di linee chiuse le quali formino il contorno di un ‘campo o’ interno a o. Siccome per ciascuna linea chiusa vale la formula precedente, così essa varrà anche sostituendo ad s l’in- sieme S; e se, entro l’area o’, V e Vi saranno regolari, si avrà prendendo n esterna al campo o" . — K dV dVi 0) {Mi Vimas=zt ( (vv DEA Vir —V 2) ds=0, giacchè, per il lemma di Green, si ha Str Ta) ds_0. 8 dn Supponiamo che S sia formato dall’insieme di linee chiuse S' e dal- l'insieme di linee chiuse S"; allora la formula (D) si potrà ancora scrivere L CEN sÈ i sn 7 CAL , SCI Te (DI) ai e VIT) ast + (ne — VO ds Le formule (D) e (D'), che abbiamo trovato, costituiscono delle estensioni del lemma di Green. 9. Passiamo ad alcune applicazioni delle formule precedenti. Prendiamo V data dalla (6) colla condizione (7), e supponiamo di prendere per S' il contorno s di o, e per S” due cerchi s, e s» aventi i Fia. 9. centri in A e B. Supponiamo V, regolare entro o. L'area o” si ottiene togliendo da o le aree incluse entro sg e s,; quindi sarà limitata da s, — 229 — sa e sp. In 0”, Ve V, sono regolari: onde, applicando la (D'), tenendo conto V h che, su s, i = 0, resulterà A — d V\——V—__ |dsg cosp. Di DA (6h. DI 1 dr n ni dV DA nai +S (VR da =0. Ma, facendo impiccolire indefinitamente i cerchi s, e sp, si vede che n: dV DIVO J —V—-|\ds,= Vi Lu (Vi dm dn ) da Re 2V 2h) J eee Pn V SE lim f (Vi = % dsy KU» ove V,,, e Vi,s denotano i valori di V, nei punti A e B; quindi K È > dVi — Vig= ———— || V—- ds. Vai, Jceosf./s dI 5 Da questa formula si deduce la proposizione seguente: Se sî conosce la distribuzione delle correnti în una lamina, quando la corrente entra da A ed esce da B, ed il campo magnetico è diretto, si potrà determinare la differenza dei valori di una funzione armonica regolare nei punti A e B allorchè si conosce al contorno la sua derivata nella direzione Ll,. Evidentemente sussiste anche l'altra proposizione: Se si conosce la distribuzione delle correnti in una lamina, quando la corrente entra da A ed esce da B, ed il campo magnetico è invertito, si potrà determinare la differenza dei valori di una funzione armonica regolare nei punti A e B allorchè si conosce al contorno la sua derivata nella direzione |. In altri termini, il potenziale V, corrispondente ad un campo magnetico diretto e ai due elettrodi puntiformi A e B, è una /unzione analoga a quella di Green, per il caso in cui si conoscono al contorno è valori della derivata di una funzione armonica regolare nella direzione l,; mentre il potenziale corrispondente ad un campo magnetico invertito e ai due elet- trodi puntiformi A e B, è una funzione analoga a quella di Green, per il caso in cui si conoscono al contorno i valori delle derivate di una fun- sione armonica regolare nella direzione Ll. 10. Ritorniamo al caso del $ 6 e supponiamo che sia C= 0. Sia V, una funzione armonica regolare entro o. Prendiamo per S' il contorno s ReENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 30 — 290 — della lamina e per S” una circonferenza s, avente il centro in A. Appli- cando la formula (D') resulterà 1 I Vi ] ( aV il CSV avi at, te LIE ee (VI ai ) asa —0 BC e facendo impiccolire indefinitamente il cerchio s, V —T irc Sia . ‘a 7 J cos f DI a J cos f Re Dunque, se sé conosce la distribuzione delle correnti quando la cor- rente entra da A e esce dall’elettrodo BC ed il campo magnetico è diretto si potrà determinare il valore in A di una funzione armonica regolare allorchè se ne conosce il valore lungo BC e si conosce lungo BDC ?/ valore della derivata nella direzione l, . L'analoga proposizione si ha quando il campo magnetico è invertito. 11. Prendiamo ora V data dalle (6) colla condizione (7), e V dato da J Vi= vw (log rn, — logra,) + Wi, ove W, è una funzione armonica regolare entro o, A, e B, sono due nuovi punti scelti in questo campo, e si ha dV, dl lungo il contorno s di o. Supponiamo che S' sia il contorno s, e S' l'in- BTGRL0Ì sieme dei quattro cerchi sa, 5»; Sa, ; S, aventi respettivamente i centri in AcG:Ba: Arena 1 — 281 — L'area o” si otterrà togliendo da o le aree racchiuse entro i quattro cerchi. In o’, V e V, sono regolari; onde, applicando la (D’) e tenendo conto che, su s, A 0, resulterà dl dla e dV Vi 4 dV DIVI nh (vi mo dn ) da ri LE dn Ù dn ) as, JR (vi > — V 3a ) ds +£; (vi Mm x ) den, — iO Ora, facendo impiccolire indefinitamente i quattro cerchi, si ha facil- mente tim f (METE lim sb (vi DI DL di z Vis tim f (VT) dn DV, dim f (Vette quindi INVE e, se le intensità J e J, delle correnti sono eguali, Vis n Vu —- Va, — Va . Da cui segue la seguente legge di reciprocità: Se in una lamina conduttrice si fa passare una corrente di inten- sità J sotto l’azione di un certo campo magnetico, e in due punti A, e B, si ha una differenza di potenziale, otterremo la stessa differenza fra i potenziali dei punti A e B quando si faccia entrare da À, e escire da B, la stessa corrente d’intensità J € Ho dato nel 1382 una legge di della precedente, giacchè corrisponde l'azione del campo magnetico. Debbo sî inverta il campo magnetico. reciprocità che è un caso particolare al caso di correnti elettriche senza osservare, peraltro, che allora non era posta la condizione di omogeneità pel conduttore ('). (1) Sopra una legge di reciprocità nella distribuzione delle temperature e delie correnti galvaniche costanti in un corpo qualunque. Nuovo Cimento, ser. III, vol, XI, anno 1882. — 232 — 12. Supponiamo che al contorno della lamina esistano gli elettrodi A;B, , AsBs , A3B3 , A4B4 , ... di resistenza trascurabile e le altre parti siano libere ed isolate. Supponiamo inoltre che non esista alcun elettrodo interno. Siano JP, JO, IS, TA, .. le intensità delle correnti che entrano da questi elettrodi, CC, C®,C4,... i valori del potenziale V sopra di Fis. 11. essi quando il campo magnetico è diretto. Siano poi IP, IP.,IP,IH,...; CHA, C®,C®,C4,...; V,, le corrispondenti quantità quando il campo ma- gnetico è invertito. Avremo evidentemente rg = SJ = 0 come del resto resulta dalla formula (A). Applichiamo ora la formula (D) prendendo per S il contorno s della lamina. Avremo ESS | VO Vl or 3,(0® JO 5 du) JM) AhBKh e quindi ah h SI 0° TM = 0 JE . Se le J sono tutte nulle escluse J° e I, e le J® sono pure tutte nulle escluse J® e J9, avremo JOIA J)HE=_-JTHWE=I, onde (CI eli CP) I = (OS? RIA: C#) I, TL CO CO—-C®—- CA. Queste ultime formule costituiscono dei nuovi teoremi di reciprocità di facile interpretazione (cfr. coi resultati del $ 28). 13. Si può immaginare finalmente che nel caso del campo magnetico diretto, oltre gli elettrodi al contorno A,B,,AsB:,... si abbiano degli elet- — 2393 — trodi puntiformi interni MM, M®,... da cui entrino delle correnti di intensità I, I ,I®,... e nel caso del campo magnetico invertito, in luogo dei precedenti, altri elettrodi puntiformi interni M®, MP, MP,... da cui entrino delle correnti di intensità IM, I®.,I9,... Sarà allora Dr JM + 3, INC, JM + 3, IO = 0 Sa C® JM SE Xx VI tL2 = 3, (DI2) JM) + Zi Vv &) [Fu i ove V denotano i valori del potenziale V, nei punti M e V® i valori del potenziale V nei punti Mf". 14. Riprendiamo le formule (1), e denotiamo con V' la funzione coniu- gata delle V ('), tale cioè che dV__dV dV dI == ’ , da dY dY dx allora le (1) potranno scriversi IVH AV, \ "ni a (1) i i Î d(VH4V) lisa rn \ dY onde, posto V + 4V' = U, avremo : CA RAT) (Cl) por eee n= ia sa Lungo le porzioni del contorno libere ed isolate sarà WU, VA , e in tutta l’area interna sarà 4°U= 0. Dunque /a distribuzione delle correnti nella lamina avviene come se non vi fosse il campo magnetico, ma il potenziale fosse U anzichè V, e la conducibilità si conservasse eguale a K. Siccome K è costante, così le linee di corrente sono indipendenti da K . La funzione U si chiamerà la /uazione fondamentale della distribu- zione delle correnti nella lamina, 0, più semplicemente, la /unzione fonda- mentale. Essa non coincide col potenziale, altro che se il campo magnetico è nullo. Allorchè si conosce il potenziale V. per ottenere U basta la ope- razione (E) UST I . cost (!) Essa sarà determinata a meno di una costante arbitraria additiva. — 2384 — Risolviamo adesso il problema di calcolare il potenziale quando si conosce la funzione fondamentale. Faremo, come precedentemente, uso dell’aggiunta di un apice per de- notare la funzione coniugata di una funzione armonica data. Quindi (8) U=V_-4V; onde, tenendo conto della (E). resulterà U— 2U' 144° Il problema propostoci è quindi risoluto. Se poniamo (E') VE = (U cos f — U'sen #) cos p. otbig=2a., U-+:U=f() , V+iV=oy(3), avremo E” e) la eb (È ) Ar g(<) Fisica. — Arco e scintilla. (Rilievi sopra una Nota del prof. A. Occhialini). Nota di M. La Rosa, presentata del Corri- spondente D. MacaLuUSso. Varie circostanze mi hanno impedito, finora, di mettere insieme alcuni rilievi sulla Nota Sczrii/la ed arco, del prof. Occhialini (*), nella quale sono chiamato in causa. E per prima cosa faccio questione, dirò così, di esattezza storica; perchè non credo che il mio nome venga ben a posto citato, in una discussione intorno alla vera distinzione fra arco e scintilla, non essendomi fino a questo momento occupato di un tale argomento. Nel lavoro, di cui il prof. Occhialini cita un passo (*), ho sostenuto semplicemente questa tesi: «che la natura dello spettro emesso da un vapore 0 gas attraversato dalla scarica (e forse, più generalmente, ecci- tato in un] modo qualsiasi) debba dipendere essenzialmente dalla potenza spesa nell'unità di massa eccitata, e che limitata e secondaria delba essere l'influenza del modo con cui tale potenza viene introdotta » (3). Ho fatto, dunque, soltanto questione di struttura spettrale, sostenendo il concetto che questa xon dipenda dalle modalità della scarica, dalla pe- culiarità del fenomeno che produce l'emissione, e, più generalmente, dai (') Nuovo Cimento, vol. VII, ser. VI, pag. 365 (1914). (?) Mem Lincei, vol. VII, pag. 451, giugno 1908. (3) loc. cit., pag. 466, capoverso 3°. — 285 — mezzi — elettrici o no — impiegati per l'eccitazione luminosa; ma che dipenda soltanto dal valore della potenza specifica, 11 quale dovrebbe riguar- darsi come l'unico paramento che determina ciascuna struttura spet- trale. Tutta la discussione, che forma la seconda parte del mio lavoro, è in- formata a questo concetto; e credo che, chiunque voglia prendersi la pena di rileggerla, anche senza soverchia attenzione, non potrà non persuadersene. Non discuto quindi di più su questo punto; nè per spiegare quale senso abbia il passo citato dall’Occhialini, quando sia letto nel contesto del discorso di cui fa parte; nè per rilevare la contraddizione completa che esiste tra questo concetto fondamentale del mio lavoro, ed il proposito che mi si vuole attribuire: quello di ostinarmi a chiamare con uno, piuttosto che con un altro nome, la forma di scarica su cui avevo sperimentato. Non è dunque la divergenza nei nomi, che mi preoccupa, e che mi spinge a scrivere queste brevi osservazioni; tale questione, nè mi tocca, nè mì tenta. Alcune divergenze, di natura più profonda, esistono tra fatti riferiti dall'Occhialini, e fatti da me, e da molti altri, osservati; sulle quali sento il bisogno di fermarmi, perchè esse potrebbero screditare la mia opinione. E però, mio malgrado, debbo entrare nell'esame del lavoro in parola. Il concetto, su cui l'Occhialini da vario tempo insiste, è questo: ogni forma di scarica s'inizia con una fase di preparazione, che è una vera scintilla; e passa, dopo un certo intervallo di tempo, ad una forma più stabile, che è un arco, oppure un daglzore (pag. 367, 35° rigo; e pag. 368). Nulla avrei da obiettare ad un tale modo di esprimersi, se l'A. volesse limitarsi ad una semplice questione di nomenclatura. L'esistenza di una fase preparatoria in ogni forma di scarica è stata accertata con numerose espe- rienze, fra le quali sono degne di ricordo quelle di Battelli e Magri per la scintilla, quella di Stark e di Simon per l’arco; e non saprei non elogiare il proposito di distinguere, con convenienti nomi, ciascuna delle fasi. Ma il disaccordo nasce, quando si vogliono attribuire, a quella fase a cui sì riserba il nome di scintilla (e cioè alla preparatoria), tutti i caratteri che appartengono al fenomeno, che finora è stato chiamato scinzi/la; e più pre- cisamente si manifesta come inevitabile, quando si vuole sostenere, che a detta fase preparatoria corrisponde sempre quel tipo di spettro, che finora è stato distinto col nome di « spettro di scintilla ». Non mi fermo a discutere le esperienze sulle « scintille troncate », di cui l'A. fa tanto uso per la sua dimostrazione ; solo osservo che esse avreb- bero bisogno di un’'interpretazione più ponderata, in cui fosse tenuto il debito conto dell'alterazione inevitabile della resistenza complessiva del circuito elettrico, dovuta, alla sostituzione dell’elettrodo liquido a quello metallico; sostituzione, che, facendo crescere lo smorzamento, può dar luogo a tutte, — 236 — o a parte delle modificazioni che sono state attribuite alla presenza del- l'elettrodo non arroventabile (?). Debbo però fare un rilievo intorno alla interpretazione dei risultati dal punto di vista spettrale, in relazione alle idee propugnate dall'A. Stando a queste idee, i due spettri ottenuti, lasciando inalterate le costanti del circuito e sostituendo l'elettrodo liquido a quello metallico dovrebbero semplicemente differire per gli elementi spettrali caratteristici della seconda fase della scarica, cioè di quella che si identifica con un arco, e che viene soppressa dalla sostituzione dell’elettrodo; eppure la semplice ispezione degli spettrogrammi riprodotti nel lavoro dell'A. mostra tutto il con- trario: nello spettro emesso dalla scintilla troncata, mancano tutte le righe e le bande del gas, e tutte le righe di alta eccitazione del vapore metallico, ossia proprio gli elementi spettrali emessi dalla pilota, e dalle primissime oscillazioni (si confronti in proposito la bella Memoria di Battelli e Magri) (?). L'A. stesso riconosce che lo spettro emesso dalla scintilla troncata si riduce a quello d'arco, o anche a quello di fiamma. Egli stesso dunque ci offre un altro esempio, in cui l’aeriforme eccitato dalla fase iniziale della scarica — quella fase a cui deve essere riserbato il nome di scintilla, e che deve possedere tutti i caratteri distintivi della scin- tilla, la struttura spettrale compresa (secondo le affermazioni di lui, pag. 376, 24° rigo) — emette invece uno spettro di arco, o di fiamma. Ma più importante è, per me, quanto l'A. serive intorno allo spettro della fase iniziale dell'arco ($ 6, pag. 373), poichè i fatti, ivi riferiti, ven- gono direttamente in contraddizione con quelli da me osservati. L'A. afferma che l'arco prodotto fra un elettrodo freddo (positivo) e l'elettrodo negativo di un arco ausiliario, reso intermittente mercè l’impiego di un campo magnetico, convenientemente orientato, dà sempre uno spettro di scintilla, senza l’impiego di condensatori. Un tale risultato potrebbe far credere che la struttura spettrale non è vincolata all'impiego di una grande potenza, ma — conformemente alle vedute dell'A. — al tipo di scarica, al suo carattere transitorio. Quest'affermazione, da parte dell'Occhialini, non è nuova. Già un’altra volta egli riferì che l’arco fra carboni, nella fase iniziale, emette uno spettro di righe. Dubitai, allora, che sì facesse confusione fra questo spettro di righe, e lo spettro di scintilla del carbonio, costituito da righe di alta eccitazione. Al mio dubbio dava fondamento appunto la tendenza, già manifestata dall’Occhialini, di identiticare questa fase iniziale dell'arco, con una scintilla (1) Non è possibile dalla Nota Occhialini farsi un’idea dell'influenza che tale sosti- tuzione avrebbe potuto produrre, perchè l’A. ha trascurato di dare qualsiasi indicazione sulla grandezza degli elementi elettrici e sulle dimensioni del vaso. (2) Mem. Lincei, vol. VII, fase. IX (1909). — 237 — vera e propria; e, per conseguenza, a sostituire quest’ intespretazione a quella, da me già sviluppata, intorno ai fenomeni di trasformazione spettrale, che avevo studiati. Colsi perciò l'occasione di un successivo lavoro (*), per mettere nei giusti termini i fatti. Questo spettro di righe, dall'A. osservato, è quello delle righe di famma e di arco dovute alle impurezze metalliche, contenute nei carboni. Esso si osserva identicamente nelle esperienze da me fatte, sopra un baston- cino di carbone arroventato dalla corrente elettrica, tutte le volte che la quantità di vapore di carbonio prodotta è molto piccola; e si osserva ancora — come sanno tutti coloro che si sono occupati di spettroscopia dell'arco fra carboni — in un arco comune, negli istanti in cui esso diviene instabile, e però cigola. Di questi fatti diedi allora una spiegazione — li ascrissi alla mancata formazione dei carburi metallici, per la povertà di vapore di carbonio — la quale è stata accettata e confermata (?). Però, di fronte alla nuova affermazione dell'A., non mi sono acquietato nel facile suggerimento che l'equivoco non fosse ancora chiarito; ed ho vo- luto ripetere le esperienze riferite, con quella fedeltà che le scarse indica- zioni dell'A. mi hanno consentito. Ho prodotto un arco fra carboni (*), alimentato da una corrente di 6 amp. circa, mediante i poli —150 e 0 Volta della nostra rete urbana, attraverso ad un reostato a lampade; ho collegato un terzo elettrodo di carbone, disposto normalmente all'asse dei primi due col polo +150 della stessa rete, attra- verso ad un altro reostato che permetteva di far variare la resistenza da 40 a 250 ohms circa. Ho attaccato in serie col primo arco un'elettro-magnete, a ferro di ca- vallo, e l'ho disposto in modo da avere il campo — nella regione in cui gli elettrodi erano affacciati — nel senso indicato dall’A., cioè secondo l’asse del primo arco; con ciò ho introdotto nel circuito principale l’autoinduzione con- sigliata. Ho ottenuto così la descritta successione di scariche, la quale, a se- conda della resistenza in serie col terzo elettrodo, genera o un crepitìo pa- ragonabile a quello di una macchina elettrica in funzione, o un suono quasi musicale. Per osservare bene lo spettro, ho proiettato le due scariche sopra la fenditura di uno spettroscopio Hilgher, in modo da avere contemporaneamente sott'occhio, nella regione inferiore del campo di osservazione, lo spettro del- l’arco ausiliario, e nella superiore lo spettro della scarica intermittente. Avverto che, mentre l'arco si proiettava col suo asse in direzione normale (') Nuovo Cimento, vol. XX, pag. 352 (1910). (*) Cfr. Kayser, Handb. d. Spektr., Bd. VI, pag. 96, an. 1912 (Hirzel). (*) Poichè l'A. non indica esplicitamente la sostanza degli elettrodi, mi credo auto- rizzato a ritenerli di carbone. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. sl 2 9g alla lunghezza della fenditura, l'altra scarica si proiettava con l’asse nella direzione di questa. Osservazioni prolungate, e ripetute con diversi valori dell'intensità, mi hanno mostrato che questa scarica, costi/uita dalla successione di fasi ini- ziali dell'arco, ha la identica struttura spettrale dell'arco comune, salvo la ripartizione delle intensità: presenta, cioè, i medesimi gruppi di bande, a cui sì uniscono le medesime righe di impurezze metalliche. Tracce delle righe di scintilla del carbonio non sono mai presenti; e si badi che alcune di esse, come la 4267, hanno tali caratteri e sono di solito così intense, che, se presenti, non possono sfuggire, o venire confuse con altre. Negli istanti in cui la scarica ha rapidi sbalzi di tensione e di inten- sità, sì osserva, come dice l’A., uno spettro dì righe brillantissimo; ma esso è quello ben noto, di cui avanti ho discorso. Questo spettro — insisto — non ha nulla da vedere con lo spettro de alta eccitazione del carbonio, emesso dalla scintilla condensata, o dall'arco musicale, che studiai nel lavoro più volte ricordato. Si chiami arco o scintilla la forma di scarica in parola, a me poco im- porta; è certo, però, che il suo spettro è quello dell'arco! Il nuovo fatto è ancora qui conforme agli antichi. e contraddice nettamente alla seconda parte della proposizione enunciata dall'A. Della prima parte — la quale afferma che la seconda fase di una scin- tilla è un arco — non ho ragione di occuparmi. Osservo, però, che non solo le esperienze su cui l'A. si appoggia non hanno grande valore, per quanto ho già detto; ma che, riguardando come fasi distinte la pilota e la scarica oscillatoria nel vapore :-— e ciò secondo il criterio comune —, l'afferma- zione in parola è contraddetta dalle esperienze di Hemsalech e da quelle di Battelli e Magri, che ho avanti ricordate. Infatti esse dimostrano che /o spettro di alta eccitazione (cioè di scin- tilla) del vapore, viene emesso anche nelle prime oscillazioni della seconda fase. Ogni altro criterio di distinzione mi sembrerebbe incerto ed artificioso. Che l'aureola di vapore — la quale raggiunge il suo massimo sviluppo nelle ultime oscillazioni — emetta uno spettro di arco, è un fatto oramai troppo vecchio; riferito da Hemsalech, e consacrato nella spettroscopia della scarica. Quanto sono venuto dicendo fin qui, non pregiudica punto il mio modo di vedere, nei riguardi della trasformazione dei fenomeni della scarica elet- trica, dall'uno ad altro tipo. La opinione che il prof. Occhialini mi attri- buisce, non si concilia, a me sembra, così col punto di vista catastrofico, come con l’evoluzionista. Se mai, egli avrebbe potuto tacciarmi di cocciuto conservatorismo, se avessi voluto ostinarmi a mantenere il nome di arco ad un fenomeno, che più non ne possiede tutte le proprietà (in particolare lo spettro). Ma questo non è il caso. — 259 — Nondimeno, non voglio sfuggire l'occasione di confermare il pensiero, che in altra occasione mauifestai, intorno alla trasformazione elettrica, che necessariamente si accoppia con la trasformazione spettrale (?). In proposito credo che allo stato attuale delle nostre conoscenze si possa sostenere la veduta, che il prof. Corbino ha chiamato, con parola felice, evoluzionista. Ritengo appunto che, nel fenomeni di scarica comunemente studiati, ci s' incontri di frequente con una sovrapposizione di quelle forme, che vengono adottate come tipiche. Queste forme tipiche, che non sono puri schemi ideali, ma bensì processi reali, si ottengono in condizioni bene definite. Alte- rando le quali, la scarica, più non è soltanto arco, o bagliore, o scintilla, ma partecipa dei caratteri di due tipi almeno. La continuità della trasfor- mazione spettrale, a cui si accompagna una successione, pure graduale, di mu- tamenti negli elementi elettrici, giustifica, secondo me, questo modo di vedere. Il quale, per altro, non implica affatto la negazione che arco e bagliore, per es., siano due processi, che decorrono con caratteri interamente distinti, se presi ciascuno nelle condizioni tipiche; poichè esso afferma solo la pos- sibilità di passare dall'uno all’altro di questi processi, con una successione di mutamenti graduali. E del resto non mancano fatti, che potrebbero mettere in imbarazzo l'atteggiamento opposto; il catastrofico, dall'A. propugnato. Ricorda ognuno, che oramai si conoscono parecchie forme di arco, il cui numero non è ancora stabilito, e va sempre crescendo. Nella letteratura che mi è nota, sono descritti già sei tipi diversi di arco, che si trasformano l'uno nell'altro, e che sempre più si avvicinano alla scarica a bagliore. E fra gli osservatori di questi fatti — mi piace ricordarlo — si annoverano Arons e Child, veri specialisti in materia. (*) M. La Rosa, Ricerche spettrali sull'arco fra carboni a piccole pressioni. Nuovo Cimento, vol. IV. agosto 1912. — 240 — Fisica terrestre. — // recente terremoto nella Marsica e gli strumenti sismici. Nota di G. AGAMENNONE, presentata dal Socio E. MILLOSEVICH. Il focolare sismico di questa nuova e tremenda convulsione del suolo, la quale ha seminato di tante stragi e rovine l'Italia centrale, è lungi ancora dall'essere ben determinato. Però, dalle notizie pubblicate dai giornali e raccolte da persone che si sono. a scopo di studio, recate nei luoghi più colpiti, parrebbe che l'epicentro non dovesse distar troppo dal bacino del Fucino, e più precisamente dal versante meridionale del M. Velino. Senonchè il riscontro d'incalcolabili danni anche nella vall- del Liri ci lascia per- plessi se nel terremoto attuale non siasi in presenza di due centri sismici ben distinti, anzichè d'uno solo, i quali siano entrati in azione nello stesso istante, oppure immediatamente, o quasi, l'uno appresso a l’altro. In quest'ul- tima ipotesi, il 2° terremoto rientrerebbe nella categoria di quelli che in sismologia son detti à relais, e cioè che, già preparati da lunga mano, scop- piano proprio al passaggio delle onde sismiche generate altrove. Non si può neppure escludere che l'epicentro abbia avuto una forma lineare di note- vole lunghezza e che, per ragioni geologiche, abbia determinato le maggiori rovine in due punti, tra loro molto distanti (*). Ci si può domandare quale di questi due punti abbia agito per il primo. tanto nel caso di due epicentri distinti, quanto nell'ipotesi d'un unico dislocamento di forma allungata. La risposta può essere resa meno difficile dal prendere in considerazione le ore precise in cui incominciò il movimento negli Osservatorii sismici più vicini, che sono precisamente quelli di Montecassino, Rocca di Papa e Roma. L'inizio esatto dei sismogrammi è stato: a 7°52"505 (*) per la 12 località, a 7252545 + 8 (3) per la 23 e 7252555 +25 (‘) per la 38. E vero che queste (1) L’aggravamento dei danni si è realmente osservato, qua e là, anche in altri luoghi, ad es. a Poggio Nativo in Sabina, a notevole distanza dall'area epicentrale; ma sembra che in detto paese le maggiori rovine siano dovute ad un contemporaneo assesta- mento del sottosuolo, già minato dalle piogge straordinarie di quest’inverno. (*) Questo dato parrebbe irreprensibile, in seguito alle minuziose spiegazioni che il solerte direttore dell’Osservatorio di Montecassino s'è compiaciuto comunicarmi, sia per ciò che concerne il tempo campione, sia per quanto riguarda il rilevamento dell’ora sul sismogramma. (3) Questa è l'incertezza inevitabile nelle ore di Rocca di Papa, dovuta al fatto principale che il tempo campione è dedotto dalla caduta, a mezzogiorno preciso, della palla del Collegio romano a Roma; caduta che spesso, specie nell'inverno, non è visibile a causa di vicende atmosferiche. E questo stato di cose viene naturalmente aggravato dalla mancanza d'un vero pendolo astronomico e, meglio, d'un cronometro di alta preci- sione (per non potersi arrestare anche in occasione di scosse più o meno sensibili) i quali sarebbero in grado di mantenere il tempo anche per molti giorni di seguito. Questa mancanza diverrebbe, senza dubbio, meno dannosa, qualora fosse permessa la recezione del tempo per mezzo della telegrafia afila, o si potesse con facilità disporre del telegrafo o del telefono, ciò che attualmente non è possibile. (4) L'incertezza è minore, in confronto di Rocca di Papa, perchè il segnale del mezzodì — 241 —- tre località si possono trovare a distanze alquanto diverse dal punto da cui per primo s'è irraggiato lo scuotimento; ma la 1* ora, che anticipa di ben 4-5 secondi, starebbe a provare che l'Osservatorio di Montecassino è stato di molto il più vicino, data la notevole velocità delle onde sismiche, come vedremo appresso. Se però la vicinanza di questi tre Osservatorii alla regione epicentrale è stata utile per il rilevamento dell'ora esatta, allo scopo di poter calco- lare con sicurezza la velocità delle onde sismiche fino ai più lontani Osser- vatorî del mondo intero, disgraziatamente ben poco s'è potuto dedurre dai sismogrammi, perchè appunto, a causa del troppo energico scuotimento del suolo (grado VII-VIII c. della scala Mercalli), gli strumenti, specie i più sensibili, dei predetti tre Osservatorii furono immediatamente, o quasi, posti fuori d'azione, sia in seguito alla caduta delle stesse penne scriventi. sia pel fatto che le masse pendolari urtarono ripetutamente contro le apposite viti che ne limitano l'oscillazione. Ciò sta a provare, una volta di più, come non sia prudente, ai fini degli studî sismici, di fondare Osservatorî di 1° ordine, e destinati anche ai terremoti mondiali, in regioni di alta sismi- cità. I danni subìti dai miei microsismometrografi furono tali che uno di essi, il più sensibile, con massa di ben 1600 kg. ed ingrandimento di c. 300 volte, fu rimesso a posto soltanto ad 8"37", e l'altro, più modesto, a 9"25", sicchè andò perduta la registrazione di numerose repliche che seguirono, a breve distanza, la grande scossa delle 7"53" e. Fu più fortu- nato il mio sismografo a pendoli orizzontali installato in Roma nell'atrio dell'Uff. centr. di met. e geod., poichè, in virtù del suo minore ingrandimento è sempre visibile a Roma, e con il medesimo si regola ogni giorno il cronometro collegato elettricamente al sismografo. È interessante il far rilevare che mentre l’inizio esatto dello scuotimento del suolo s'ebbe in Roma alle 7° 52m 558, invece, da notizie cortesemente comunicatemi dal comm. prof. E. Millosevich, l'ora di arresto di un pendolo astronomico del R. Oss. Astr. al Collegio Romano, ed il cui piano d’oscillazione era esattamente nel meridiano, avvenne ben più tardi, e cioè alle 7° 58m 245, quando lo scuotimento sensibile era già forse cessato. Ad un'ora quasi identica (7° 58m 265) si arrestò un orologio elettrico Hipp dello stesso Osservatorio, a corto pendolo ed oscillante in direzione E-W. Anche a Rocca di Papa l’unico orologio a pendolo posseduto e di cui si conosceva la correzione, fu trovato fermo alle 7° 532 38. Da ciò si vede, una volta di più, quanto si sarebbe andati lontano dal vero se, nel calcolo della velocità delle onde sismiche, in mancanza dei dati orarî ricavati dai sismografi di M. Cassino, Rocca di Papa e Roma, si fosse presa in seria considera- zione l’ora d'arresto degli anzidetti pendoli, appunto perchè perfettamente regolati. Su questa grave questione io non ho mancato di richiamare più volte l’attenzione dell’Ac- ‘cademia e segnatamente nello studio sulla velocità delle onde sismiche del terremoto andaluso del 25 dic. 1884, presentato nelle sedute del 18 e 25 nov. 1894. Per questo terremoto non mancò allora chi volle basare il calcolo della velocità esclusivamente sul- l’ora di arresto di due pendoli astronomici dell’Osserv. di S. Fernando presso Cadice, e giunge così alla strana conclusione che la velocità decresceva notevolmente con la distanza! — 242 — e della maggiore semplicità dell'apparato amplificatore, potè continuare a ben funzionare, e così fu in grado di registrare anche le prime repliche. Un fatto importantissimo, che per la prima volta si è potuto ben assodare, grazie alla vicinanza di strumenti extra-sensibili all'area epicentraie d'un violento terremoto, è stato lo straordinario numero di repliche che lo hanno seguìto. Così, dal più potente microsismometrografo di Rocca di Papa si registrarono ben 240 scosse dalle 8"37" fino alle 24" dello stesso giorno 13; e questo numero è inferiore al vero, pel fatto che lo strumento non potè funzionare dalle 7°"53" alle 8"37". Il numero delle repliche scese a 120, 88, 38, 30 ecc. nei giorni successivi. Fino a tutto ierì (6 febbraio) il numero delle repliche è stato di quasi 750, di cui solo una trentina furono più o meno lievemente sentite all'Osservatorio o nel sottostante paese. È anche verosi- mile che molte altre registrazioni di minore entità siano andate perdute, per essere rimaste mascherate dall'agitazione microsismica, di cui è quasi sempre preda questo potente microsismometrografo. Per chi riguardava lo strumento, era stupefacente la ripetizione di tante repliche che sì susse- guivano talora alla distanza di men di un minuto e che testimoniavano la quasi continua convulsione del suolo nell’area epicentrale, sebbene alla di- stanza di ben 70 km.! La più parte di dette registrazioni sono così piccole da essere probabile che perfino colà siano sfuggite ai sensi dell'uomo. Tutto ciò dimostra l'enorme progresso realizzato in sismometria negli ultimi anni. Ciò è tanto vero, che un altro mio sismometrografo, che pur aveva figurato con onore all'Esposizione di Parigi del 1900, non è stato in grado di registrare che 2/3 circa delle repliche sopra indicate. Si può bene immaginare il lavoro immenso che si è avuto in quest'occasione all'Osservatorio da me diretto e, si può dire, l'eroica abnegazione del ristrettissimo personale (assistente e custode) che vi ha dimora fissa e che è costretto anche di notte a prestare servizio in seguito ai continui allarmi dati dai sismoscopî (*). Quasi sempre si tratta, è vero, di scosse strumentali, che non avrebbero bisogno dell'intervento del personale; ma chi potrebbe garantire che talora non sopraggiunga il forte contraccolpo di qualche violento e lontano terremoto che ponga fuori di azione gli strumenti più delicati, come avvenne nei terremoti calabri del 1905 e 1908 e in varî altri, di modo che s'interrompa il loro prezioso funziona- mento, specie di notte? ox Chiudo la presente Nota col riportare. le ore relative all’inizio della registrazione avutasi in molti altri Osservatorî italiani ed in alcuni anche (1) Tra i medesimi s’è comportato in modo ammirabile il mio sismoscopio a doppio effetto per scosse ondulatorie. Nè si può supporre che quello di Rocca di Papa abbia una costruzione speciale, poichè il direttore dell’ Osservatorio di Montecassino mi ha comn- nicato che un altro sismoscopio dello stesso modello, colà in azione, ha potuto indicare tutte le 421 repliche che sono state registrate da quei sismografi fino al 1° febbraio. — 243 — esteri, dai quali fino ad oggi m'è stato possibile avere notizie (*). E dap- poichè non è possibile, per adesso, di conoscere con esattezza l'epicentro del nostro terremoto, mi limiterò a riportare le 20 località. per le quali sì co- nosce l'ora, in ordine della loro distanza da Avezzano che, com' è noto, è restata completamente distrutta e per tal fatto non può trovarsi troppo di scosta dal focolare sismico. Assunta dunque Avezzano quale epicentro prov- visorio, ho voluto fare anche un tentativo per il calcolo della velocità super- ficiale delle onde sismiche, assumendo quale punto di partenza l'ora media (7°52”535) dei tre Osservatori di Montecassino, Rocca di Papa e Roma, i più vicini ad Avezzano, e ponendo a suo riscontro l'ora di tutti gli altri Osservatorî. All'ora media, prescelta quale punto di partenza, corrisponde la distanza di 70 km., che è appunto la media delle distanze dei tre Osser- vatorî anzidetti dalla città di Avezzano. Distanza | Ore Distanze Tempi Velocità da Avezzano LocaLità SRSCizsa | percorse impiegati | al secondo (t. m. E. C.) | | S | ENO. Avezzano PR ” 64 c. | Montecassino . 7 52 50 » 68 c. | Rocca di Papa .| 7 52 54 ” 78 c._ Rimase, 192990 ” 70 MEDIA... .. 752 53 PEMIgIo CA MSC VR 7 53 12 Km. 80c.| sec. 19 m. . 4210 c. » 160c.|Valle di Pompei| 7 53 10 ” 90 e ” 17 n 5290c. » 220 c. | Siena (Osservanza) TODI. ”» 150 e ” (7) » (21.480 c.) A 2 0X CRE IPO 7 53 27 ZO ” 34 » 7350 c. » 380c.|Venezia ..... AE » 810c.| » (164) |» (1890c.) 03900 Padova i. | 75989 MS 20C1 ” 46 » 6960 € n 4000 |Trieste...... 7 53 39 » 3800.) n 46 |» 7170c. RN LIONE ITeVISO Nt: 0 e TROISI » 5340c. ” 3 » 8950. 7) 440 c. | Mileto . .....| 7 53 40 ”» SIOE: ” 47 ” 7370 c. RM 5 00 Catania Ren 7 54 18 » 430c. ” 85 » 5060 c. » 5580 c. | Carloforte(Sard.)| 7 54 37 » 460 » 104 no 4420c. n 560c. | Moncalieri... .| 7 54 6 ) 490 c ) 3 » 6710c PM 5 SOC Graz mine 7 58 59 EMME Oc: ” 66 DI di13.0)01 » 600 c. | Domodossola ..| 7 54 30 » 580c. ” 97 » 5460. DER 200C Va enna za tone 7 54 16 » 650 ” 83 » 7830c » 1300 c. | Amburgo ....| 7 55 88 » 1230c.| » 160 » 7690. 2016400. |\Granata 1 755 44 »n 1470c. » 171 » 8600 c. MEDIA GENERALE m. 73830 c. (*) Negli Osservatorî di J/ilano e di Quarto Castello (presso Firenze) gli strumenti sismici sì trovarono accidentalmente fuori di azione; da altri Osservatorî non ho avuto ancora risposta. 2944 Scorrendo l’ultima colonna, salta subito agli occhi la forte discordanza per la velocità che risulta per Siena, la cui ora è evidentemente troppo in anticipo; e se il tempo campione fosse inoppugnabile, bisognerebbe ricer- care la causa dell'errore o forse nella così detta parallasse degli stili scriventi o nell’essersi considerato, quale principio della perturbazione sismica, qualche rinforzo nell’agitazione microsismica di cui fosse stato per caso preda quel sismografo. Per giustificare. invece, la velocità troppo piccola che vien fuori per Venezia. bisogna pensare o a qualche equivoco nella misura della pa- rallasse, ovvero a poca sensibilità dello strumento il quale probabilmente s'è mosso in ritardo, oppure al fatto che l’inizio della registrazione non era visibile a causa di agitazione abituale nello strumento. Colpiscono pure le tenui velocità relative ad Ischia ed a Valle di Pompei; ma considerata la distanza relativamente piccola di questi due Osservatorî dall’epicentro, può essere che la stessa incerta posizione di quest’ultimo basti a spiegare l'anomalia, tanto più che queste due località si trovano dalla stessa parte. La minore velocità, spettante all’ Osservatorio di Carloforte, è giustificata dal fatto che il principio della registrazione, a quanto mi ha scritto quel direttore, è rimasto realmente mascherato da piccole tracce di oscillazioni prodotte da vento. Dà, infine, a pensare la poca concordanza della velocità che si ottiene per Catania e Domodossola, per rispetto alle altre più sicure, e forse la si potrebbe anche qui attribuire alla difficoltà di riconoscere il vero inizio della registrazione in mezzo all’agitazione microsismica, quando non si volesse invocare l’insufficiente sensibilità di quei sismografi, ai quali potrebbero essere sfuggite le prime onde, meno intense ma più veloci. Nè è lecito di spiegare l'anomalia con la diversa direzione nel percorso delle onde sismiche, poichè Catania e Domodossola si trovano rispettivamente non troppo discoste da Mileto e Moncalieri, per i quali due ultimi Osservatorî s'ebbero velocità ben più notevoli. Ponendo quindi in disparte tutti i predetti 7 Osservatorî, per i quali, per nna ragione o per l'altra, si nutre qualche sospetto, riunisco qui sotto i 18 rimanenti, con a fianco la loro distanza da Avezzano, il rispettivo dato orario e la velocità che ne risulta : Distanza oi Ora Velocità da Avezzano dell’inizio al secondo | M. Cassino Km. 70. ì Rocca di Papa Th 52" 58° = Roma di SI ee » 53 27 m. 7350 c. n ‘890. Padova... .. » n 39 » 6960c. n 400c.| Trieste. .... » » 39 » 7170c. n 410c.| Treviso. .... » » 31 » 8950 c. ” 440 c. | Mileto ..... » n 40 » 7870. » 560c.| Moncalieri. . . » 54 6 » 6710c. DIMM OICR Graziano: » » 80 n 3000, ” 7200c. | Vienna... .. > » » 16 n 7830c. n 1300c. | Amburgo. ...| » 55 33 » 7690c. » 1540c.| Granata ....| n » 44 » 8600c. MeDIA . . | m. 7690c. Queste velocità oscillano da un minimo di m. 6960 (Padova) ad un massimo di m. 8950 (Treviso); ed il loro valore medio di c. 7690 m. è di poco superiore alla media generale sopra trovata, ed è quasi identico a quello (m. 7680) da me trovato pel terremoto nelle isole Jonie, del 1912 (?). Basandoci su questa velocità media di 7690 metri al secondo, e suppo- nendo che la medesima non si discosti troppo da quella con cui effettiva- mente si propagarono le onde sismiche dal presunto epicentro fino alla di- stanza di 70 km., troviamo che quest’ultima è stata percorsa in circa 9 secondi; e perciò l’ora all’epicentro, provvisoriamente da noi assunto, sarebbe: 7520 58° — 9° — 70520445. Infine, ritengo importante di riportare qui appresso il fac-simile della prima porzione di uno dei sismogrammi, ottenuti nella importante Sta- zione sismologica di Cartuja a Granata, in occasione del terremoto di cui ci siamo qui occupati. Questo bel sismogramma (che io debbo alla cortesia del reverendo P. Manuel M.* S. Navarro Neumann, il quale dirige con tanto amore e con tanta abilità il predetto Osservatorio) fu tracciato da un pendolo bifilare oscillante in direzione N-S, con massa di kg. 425, periodo di 183, (') G. Agamennone, /l terremoto del 24 gennaio 1912 nelle isole Jonie e sua ve- locità di propagazione (Rend. della R. Acc. dei Lincei; seduta del 19 maggio 1912). RenpIconTI. 1914, Vol. XXIV, 2° Sem. 32 — 2416 — ingrandimento di 60 volte, e smorzamento di 4a 1. Le ore che si leggono sul sismogramma sono espresse in t. m. Gr.. la 1 (;P) rappresenta l’inizio ben netto della registrazione, la 2* (S) indica, a giudizio di quel Direttore, il primo apparire dei secondi tremiti preliminari, i quali avrebbero dunque MMI COMP. W20°5 — E20° N | | \ | etc. | i si] 37° Ga. TIT viaggiato con una velocità di soli m. 4360 c. al secondo. Tale cifra sì ottiene, infatti, dividendo la distanza di m. 1.540.000 di Granata da Avezzano per l'intervallo di 350 secondi, che si ottiene sottraendo l'ora al presunto epicentro da quella di detto Osservatorio. Chimica. — Ricerche sulle combinazioni subalogenate di al- cuni elementi: III. Sul cosidetto sottocloruro di bismuto. Nota di IL. MaRrINO e R. BecARELLI, presentata dal Socio R. NASINI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. — 247 — Chimica. — // sistema « nitroglicerina - cotone nitrato ». Condensazione dei vapori di nitroglicerina sul cotone nitrato în un ambiente vuoto a temperatura uniforme. Nota I di D. CHIARA- viaLIo e 0. M. CoRrBINO, presentata dal Socio E. PATERNÒ. È noto che la gelatinizzazione del cotone nitrato, che ha così grande importanza nella fabbricazione dei moderni esplosivi di propulsione, è ge- neralmente ottenuta o per mezzo di un solvente volatile non esplosivo, che viene nell'ultima fase di fabbricazione della polvere eliminato da questa in modo opportuno così da non restarne che traccie nel prodotto finito; op- pure per mezzo di altre sostanze, quasi sempre esplosive, pochissimo vola- tili, che nel prodotto finito restano come costituenti essenziali. Fra queste sostanze la nitroglicerina ha speciale interesse, perchè ad essa il più spesso si ricorre per ottenere con il cotone nitrato esplosivi tanto «li propulsione ‘come la balistite, quanto di rottura, come la gelatina esplosiva. Il complesso delle proprietà fisiche di tali miscugli di nitroglicerina e di cotone nitrato conferisce ad essi il carattere generico dei colloidi ; ma quando si è detto ciò, siamo ben lungi dal conoscere l’intima struttura della sostanza, le vere condizioni in cui si trovano associati il cotone nitrato e la nitroglicerina, e il grado di omogeneità o di dispersione del sistema che già a un semplice esame microscopico, con ingrandimenti anche non ecces- sivi, apparisce di costituzione assai complessa ('). Non sarà inutile il notare che il problema in questione, già importante in sè ai fini della generale conoscenza dei corpi colloidi, na un interesse speciale e grandissimo nel caso delle sostanze esplosive, poichè ogni super- ficie di discontinuità nella costituzione di un esplosivo può divenire il posto di accumulo dei prodotti di lenta decomposizione, e perciò la struttura fi- sica del colloide deve notevolmente influire sulla stabilità dell’esplosivo. Qualunque ricerca destinata a illustrare la proprietà del sistema bi- nario « cotone nitrato - nitroglicerina », per quanto ne siano modesti ì risultati, va perciò considerata come un contributo di interesse non trascurabile sia dal punto di vista scientifico sia da quello tecnico; questo convincimento ci ha indotti a render noti i risultati seguenti. frutto di una lunga serie di esperienze da noi eseguite nel Laboratorio Chimico per lo studio delle so- stanze esplosive. Esse sono caratterizzate dal fatto che abbiamo potuto ope- rare a temperature ordinarie, utilizzando i vuoti elevatissimi che le attuali (') E. Paternò e F. Traetta-Mosca, Gazzetta Chimica, t. 382, pag. 512, 1908. — 248 — macchine pneumatiche permettono di ottenere, e che ci è stato possibile seguire la migrazione dei vapori di nitroglicerina dal liquido al cotone nitrato, e dalla balistite a una parete fredda, non ostante che la pressione di quei vapori sia estremamente piccola, come abbiamo dimostrato in due ‘precedenti lavori. 1. — Condensazione dei vapori di nitroglicerina sul cotone nitrato in un ambiente vuoto a temperatura uniforme. Abbiamo descritto, in una Nota anteriore ('), uu apparecchio costruito al fine di permettere la distillazione nel vuoto della nitroglicerina, conte- nuta in un piccolo bicchiere sospeso nel centro di un grande pallone. Un apparecchio analogo fu adoperato per ricercare se, e in quale mi- sura, ì vapori che si sprigionano dal bicchiere centrale vanno a depositarsi in una massa polverulenta di cotone nitrato deposto al fondo del pallone. L'unica causa di migrazione del vapore doveva essere la sua tendenza ad essere assorbito dal cotone nitrato; fu quindi evitata con ogni cura ogni possibilità di differenze di temperatura fra la nitroglicerina e il cotone ni- trato. A tal fine, il pallone, rilegato, nel modo già descritto, a una pompa Gaede a mercurio e a un provino di Mac-Leod, venne introdotto in un grande termostato ad aria, nel quale si poteva, per mezzo di una corrente elettrica opportunamente graduata, mantenere una temperatura uniforme e regolarla a volontà fino a circa 50°. Dentro il pallone eran disposti due termometri al decimo di grado, immersi nella nitroglicerina del bicchiere e nel cotone nitrato; si potevano così conoscere le temperatura dei due corpi e assicurarsi della loro identità. L'operazione poteva esser proseguita senza interruzioni per molti giorni, mentre una serie di finestre praticate nel termostato, e provviste di vetri, permetteva di guardare con un canocchiale nell'interno del pallone, di se- guire il progressivo abbassamento di livello della nitroglicerina nel serba- toio e di sorvegliare l'andamento dei termometri. Di regola il pallone, dopo fatto il vuoto, veniva escluso dal resto della tubulatura di rarefazione con la manovra di un rubinetto. Un lungo fun- zionamento della pompa era necessario, all'inizio, prima che si raggiungesse stabilmente una rarefazione elevata; e ciò a causa della grande quantità di aria aderente alle fibre di cotone nitrato finamente polpate. Anche in seguito fu sempre seguìto al Mac-Leod l'andamento della pressione, facendo agire di tempo in tempo la pompa per riportare la pressione al punto voluto. In queste condizioni, e mantenendo fin da principio una temperatura di circa 30° nel pallone, si potè constatare una rilevante migrazione dei (1) D. Chiaraviglio e O. M. Corbino, Rend. Lincei, t. 23, 1° sem., pag. 37, 1914. — 249 — vapori verso il cotone, e perciò un progressivo abbassamento del livello della nitroglicerina nel suo serbatoio. A poco a poco la distillazione si andò facendo più lenta, fino a rendersi, dopo alquanti giorni appena sensibile. Un esame chimico del cotone nitrato, alla fine dell’esperienza, rivelò che esso aveva assorbito uniformemente in tutta la massa la nitroglicerina sparita dal serbatoio, pur mostrando un aspetto poco diverso dal primitivo; solo si notava in esso una struttura più attaccaticcia. Schiacciando la pol- vere sotto una rilevante pressione, per mezzo di una pressa, le fibre sì rap- prendevano in un insieme apparentemente omogeneo, colore di cuoio, traslu- cido, molto simile all’ordinaria balistite, e che manifestava cioè i caratteri di una gelatinizzazione. Il contenuto in nitroglicerina corrispondeva, com'è naturale, al liquido sparito nel bicchiere centrale; e dipendeva solo dalla temperatura di equi- librio, purchè si fosse aspettato un sufficiente tempo a raggiungerlo. Così con cotone collodio contenente il 12,25 °/ di azoto, e mantenuto per 7 giorni in presenza dei vapori di nitroglicerina alla temperatura comune di 30°, si ottenne una galletta impregnata al 31,5 °/ di nitroglicerina; ma prolungando in altre esperienze il tempo col contatto dei vapori, in 40 giorni si raggiunse il contenuto del 35,6 °/,. Ricorrendo invece a fulmico- tone, che conteneva il 13,27 °/, di azoto, si pervenne a fissarvi, dopo 40 giorni, il 37,4 °/, di nitroglicerina. L'esame microscopico delle fibre di cotone nitrato prima e dopo l’as- sorbimento dei vapori di nitroglicerina non ha dato finora risultati sicura- mente interpretabili, e noi ci riserbiamo perciò di approfondire in seguito l'importante questione. Resta intanto assodato che effettivamente il cotone nitrato provoca un abbassamento nella tensione di vapore della nitroglicerina. e perciò una mi- grazione del liquido, pur trovandosi alla stessa temperatura di questo. Evidentemente, questo risultato non corduce necessariamente ad am- mettere che fra il cotone nitrato e la nitroglicerina tenda a formarsi una vera soluzione, che cioè il meccanismo della distillazione sia identico a quello per cui l’acqua distilla, a pari temperatura, verso un sale che in soluzione determina un abbassamento della pressione di vapore. Come è noto, un abbassamento nella tensione di vapore può anche pro- dursi per la presenza di un solido capace di dare col liquido fenomeni di semplice imbibizione. Ed è ben probabile che un processo analogo abbia luogo tra i vapori di nitroglicerina e le fibre di cotone nitrato, così come un batuffolo di cotone idrofilo assorbe acqua in un'atmosfera umida. L'analogia è completata dal fatto che abbiamo potuto osservare una mi- grazione della nitroglicerina verso il cotone nitrato anche se questo ha per- duto la struttura fibrosa, come avviene nel residuo della balistite da cui sì sia estratta con etere la nitroglicerina. Il cotone nitrato, così ottenuto, — 250 — era ancora capace di assorbire i vapori per circa l'8 °/, del suo peso; ora, com'è noto, un fenomeno analogo si manifesta fra l’acqua e la cellulosa che abbia perduto lo stato fibroso. Non sarà poi inutile il riferire l'esito di un’altra esperienza da noi ese- guita, la quale, mentre conferma l'analogia col caso del cotone coll’acqua, permette di escludere che la tendenza del cotone nitrato ad assorbire i va- pori di nitroglicerina xia analoga a quella che determina la igroscopicità di alcuni sali e l'abbassamento della tensione di vapore delle soluzioni. Abbiamo infatti osservato che, lasciando cadere nel vuoto una certa quantità di nitroglicerina sul cotone nitrato, si manifesta un ben netto svi- luppo di calore, capace di elevare sensibilmente la temperatura della massa. Il cotone nitrato era stato tenuto per molto tempo nel vuoto assai spinto della pompa Gaede per eliminare i fenomeni perturbatori dovuti all’atmo- sfera d’aria che aderisce fortemente alle fibre. Per mezzo di un apparecohio in vetro alquanto complicato, che per- metteva di evitare la manovra di rubinetti nel tragitto del liquido esplosivo, si potè al momento voluto far cadere in seno alla massa di cotone, con ve- locità regolabile, una certa quantità di nitroglicerina la cui temperatura era sensibilmente eguale a quella del cotone nitrato e la cui quantità era molto minore di quella occorrente per imberlo tutto; un termometro sensibile al decimo di grado, immerso nella polvere, permetteva di constatare le varia- zioni di temperatura prodotte dal contatto col liquido. Fu così riconosciuto un elevamento di temperatura che raggiunse, in una esperienza, circa tre gradi. Questo risultato prova certamente che non siamo in presenza di un processo semplice di dissoluzione del solido nel liquido, cui dovrebbe invece corrispondere un abbassamento di temperatura. Non resta quindi che o ammettere la produzione di una vera reazione chimica esotermica tra il cotone nitrato e la nitroglicerina, o tutti i fatti osservati attribuire a fenomeni di pura imbibizione. Chimica. — Sui dorati. Sistema Na°0,B°0*, H°0 a 60°. Nota I di U. Spore e F. Mecacci, presentata dal Socio R. NASINI. Chimica. — Sui borati. Sistema (NH*)P0, B°0*, H°0 a 60°. Nota di U. Ssoro1 e F. MecaccI, presentata dal Socio R. NASINI. Biologia. — na ipotesi biologica sulla deposizione dello zolfo durante l'epoca gessoso-solfifera. Nota del prof. G. BAR- GAGLI-PETRUCCI, presentata dal Corrispondente P. BACCARINI. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. — 251 — Mineralogia. — Atcercehe mineralogiche e petrografiche sulla valle del Chisone (Alpi Cozie): sopra un'interessante va- rietà di gneiss di Prali ('). Nota di EMANUELE GRILL, presentata dal Corrispondente FEDERICO MILLOSEVICH. Da alcuni anni mi occupo della mineralogia e geologia di quella por- zione delle Alpi Cozie comprendente la valle del Chisone, la quale, come pure l’adiacente valle del Pellice, è stata, a differenza di molte altre valli alpine, fin’ora, assai poco studiata dai mineralisti. Infatti, se si prescinde dai magistrali lavori dell'ing. V. Novarese (?), compiuti in seguito al rile- vamento geologico della regione, è veramente esiguo il numero delle pub- blicazioni di indole mineralogico-petrografico riguardanti quella zona (5). Questo fatto, come ancora il mio abituale e lungo soggiorno estivo in quei luoghi, mi ha determinato ad occuparmene profondamente. Nell'attesa di poter dare alle stampe lo studio complessivo di tutte le più importanti formazioni litologiche di quell’interessante territorio, non appena ne sarà ultimato l'esame chimico e petrografico, espongo, in questa Nota preliminare, il risultato delle mie ricerche intorno alla vera natura di una roccia, intercalata nell’importante gruppo dei micascisti, e dall'in- gegner Novarese (‘) considerata come una quarzite. Secondo l'ing. Novarese, la quarzite, in forma di banchi, si presente- rebbe nel vallone di Prali (parte alta e meridionale della Germanasca, affluente del Chisone) in due località: « sulla cresta che scende all'ovest « della punta Cornour (°), e sul monticello di fronte a Prali, dove un banco (') Lavoro eseguito nell'Istituto mineralogico di Firenze, diretto dal prof. Federico Millosevich. (°) V. Novarese, Sul rilevamento geologico eseguito nel 1894 in Valle della Ger- manasca (Alpi Cozie). Bull. R. Com. geol., pag. 253, an. 1895, Roma; / giacimenti di gra- fite delle Alpi Cozie, Bull. R. Com. geol., pag. 4, an. 1898, Roma. (*) S. Franchi e V. Novarese, Appunti geologici e petrografici sui dintorni di Pi- nerolo, Bull. R. Com. geol., pag. 885, an. 1895, Roma: L. Colomba, Note mineralogiche sulla valle del Chisone (cave del Pomaretto), Atti R. Acc. sc., Torino, vol. XLITI, 1908; C. Barucco, Ze cave di talco nella valle di S. Martino (Alni Pinerolesi), Rassegna mi- neraria metall. chimica, vol. XXXII, n. 12, Torino, an. 1910, (4) V. Novarese, Su! rilevamento geologico ecc., pag. 264. (9) Nota. Nonostante l’indicazione, un po’ vaga, della località, sono certo di averne identificato esattamente l'ubicazione, sia perchè ron si hanno altre creste ad ovest della punta Cornour, e sia anche perchè il rilevatore non ha indicato l’esistenza del banco di calcare da me segnalato, mentre sono invece esattamente ricordate tutte le altre for- mazioni calcaree circostanti. — 252 — « di una diecina di metri di potenza di una quarzite bianca, simula l’'a- « spetto che hanno nella valle gli affioramenti di calcare cristallino ». Il banco della prima località, cui accenna Novarese, attraverserebbe la scoscesa e poco accessibile parete del Cornourin, cioè della vetta che s'in- nalza esattamente a sud dei ricoveri militari dei Tredici Laghi e quindi anche all'ovest del Cornour (vedi foglio 67 della carta d'Italia, Perosa-Argen- tina, scala 1 a 50000). Dal colle del Cornourin, tra la punta omonima e il Cornour, detto banco scende obliquamente in basso, con direzione all'incirca SO-NE, mantenendosi però sempre ad un'altezza difficilmente accessibile. Per prelevarne un campione in posto, è necessario di arrampicarsi per il ripido canalone che dalla conca dei Tredici Laghi conduce al suddetto colle, ove, un po' prima di giungere sulla cresta, s'incontra la roccia bianca in questione, la quale non è una quarzite ma bensì un calcare bianco, cristal- lino, di cui avrò ad occuparmi in un altro lavoro. Il secondo banco di presupposta quarzite si osserva vicino alla frazione Villa di Prali, in regione Galmont, e più precisamente alle Ronciaglie, ove esso attraversa, per un lungo tratto, la testata dell'ultima propaggine di monte che divide il vallone di Rodoretto da quello di Prali. È racchiuso anch'esso, come il precedente, fra strati di micascisto di cui segue, in perfetta concordanza, l'andamento, immergendosi con essi verso il monte con una pendenza di 62° circa e con direzione NNE-SSO. La roceia costituente il banco è bianchissima, compatta, e con una fronte quasi verticale che sopravanza alquanto il micascisto includente, assai meno resistente. Nella sua massa si notano delle linee di frattura con dire- zione variabile, le quali ne sminuiscono però ben poco la compattezza e la tenacità. Alla parte superiore si ha un netto distacco rispetto al micascisto, il cui color grigio-plumbeo ne fa risaltare anche maggiormente la separa- zione. Non si ha così un manifesto e graduale passaggio tra l'uno e l’altro tipo di roccia. Tuttavia in prossimità della zona di contatto si osserva, così nel micascisto come nella roccia inclusa, un leggero aumento degli elementi micacei. Non è possibile, a prima giunta, di riconoscere sicuramente la natura di quella intercalazione dei micascisti, la cui colorazione bianchissima, che la rende appariscente anche da lontano, e la grana regolare e tanto minuta da non lasciar distinguere, ad occhio nudo, altro costituente essenziale al- l'infuori del quarzo e della mica, le dànno addirittura l'aspetto di una quarzite micacea. La mica è tutta bianca, assai abbondante e in numerose laminette, lu- centi, molto piccole (la dimensione lineare massima è di rado superiore ai 2 mm.), distribuite nella massa della roccia in modo regolare e con una disposizione varia. Esaminando però attentamente le diverse superficie di frattura dei campioni staccati, si nota un certo parallelismo tra le lami- 053 nette di mica e gli strati del micascisto includente, senza che la roccia in- clusa assumi però una vera scistosità. Al microscopio, la roccia presenta la struttura caratteristica delle rocce cristalline metamorfiche, cioè quarzo cataclastico e pavimentato. La pavi- mentazione del quarzo viene interrotta da adunamenti di mica e di feldspato, i quali, invece di seguire piani costanti di scistosità, accennano ad aggrup- parsi in zone irregolari, ciò che giustifica la frattura scagliosa. Rispetto all'abbondanza relativa dei tre principali costituenti, il primo posto è tenuto dal quarzo. Questo passa da frammenti estremamente minuti a frammenti che non oltrepassano, per altro, le dimensioni proprie agli gneiss minuti. Il secondo posto è occupato dal felspato, che, nel campo del mi- croscopio, occupa le maggiori aree come microclino, il quale, in grosse plaghe (Vedi figura. Ingrandimento 35 diam., nicols incrociati) prende parte al mosaico cristallino. Poi viene la mica, anch’essa assai abbondante. Il quarzo è abbastanza limpido, a contorni molto irregolari e allotrio- morfo rispetto agli elementi del felspato e della mica. Presenta frequentis- sime fenditure, che, assieme con l'estinzione ondulata, abbastanza notevole, sa- rebbe una prova del dinamometamorfismo cui è stata soggetta la nostra roccia. ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. I I — 254 — Non mancano le inclusioni di mica e di qualche altro granulo che per i suoi colori di polarizzazione sembra doversi attribuire al pirosseno. Il felspato è rappresentato, nella quasi totalità, da plaghe, relativa- mente assai grandi, di mzcroclino, riconoscibile per la caratteristica strut- tura a graticcio, dovuta alla germinazione polisintetica albite periclino e per gli indici di rifrazione sempre inferiori ai due principali del quarzo e a quello del nuovo mastice adoprato da Voigt e Hochgesang, la collolite con Noa = 1,5854. Questo felspato è assai fresco e sembra derivato, anche qui, come in molti altri gneiss alpini, da ortoclasio, ancora presente, in seguito ad ener- giche deformazioni meccaniche. Esso non mostra tracce di accrescimento pertitico; le sue uniche inclusioni sono quelle di minute squamette a forte poter rifrangente e ad elevata birifrazione, riferibili a mica muscovite. In talune zone di microclino, vicine alla discontinuità della roccia, si nota una estinzione raggiata, che attesterebbe una incipiente zeolitizzazione, ossia una alterazione per idratazione. Qua e là compaiono pure lamelle di plagioclaszio, il quale, in confronto dello sviluppo, veramente notevole, del microclino, assume una parte quasi accessoria. A cagione dei contatti mai definiti tra plagioclasio e quarzo, non si possono fare sicure misure comparative tra gli indici di rifrazione di quei due minerali, secondo il metodo di Becke. Quindi la determinazione del felspato sodico-calcico, geminato sempre secondo la legge dell'albite, venne fatta, nelle sezioni normali a {010}, solo in base al valore dell'estinzione simmetrica, trovato compreso fra 8° e 13°. I confronti con la collolite dànno i seguenti schemi: a > n STE si tratterebbe dunque di un plagioclasio assai acido, compreso fra l’oliglo- clasio basico e l’'andesina, corrispondente cioè ad una miscela isomorfa in- termedia a Ab, An; e Ab; An. L'ortoclosio vi è varimenti scarso. È abbastanza fresco e limpido. Si presenta in larghe plaghe con evidenti linee di sfaldatura basale e in ele- menti allungati, geminati secondo la legge di Carlsbad. Il confronto con la collolite dà : a' < n vin: La mica che prende parte alla costituzione della roccia è da riferirsi completamente alla muscovite. Essa è in lamelle pochissimo sviluppate, con marcate linee di sfaldatura secondo le quali avviene l'estinzione, e as- sume colori d'interferenza vivaci e iridati tra i nicols incrociati. — 259 — I suoi contorni sono più regolari e meno sfrangiati di quelli di tutti gli altri elementi: ciò che, come anche il ritrovarsi inclusa nel quarzo e nel felspato, attesterebbe la precedenza genetica di questo minerale sugli altri. La muscovite è pure essa abbastanza fresca, e solo di rado accenna ad alterazione in clorite. Minerali accessorii. Se si eccettua la rara comparsa, nel quarzo e nel felspato, di granuli assai rifrangenti, quasi incolori e con pleocroismo poco sensibile, probabilmente dovuti a pirosseno, si può dire che la roccia qui studiata è assai povera di interclusi. Infatti, in tutta la sezione vidi un solo cristallo di granato non molto esteso, torbido, e fortemente fratturato. L'analisi chimica mi ha dato i seguenti risultati: DOpirari: ee eee SI ee 8:29 ATO e. LIO Fe.0g . . .. 0,42 CIOTTI Mp0 rene e tr. I e ALSO Nagope.t. . <. (9:01 100,8 p. sp. 2,677 Dalla diagnosi microscopica e chimica risulta quindi, in modo sicuro, che larocciadi cui ci occupiamo non è una quarzite di cui ha solo tutta l'apparenza, per la colorazione bianchissima, dovuta alla mancanza pressochè assoluta di elementi colorati, non mai visibili macroscopicamente, e per la grana minu- tissima. E data poi la notevole abbondanza della mica e del felspato alcalino, il quale prende parte essenziale alla costituzione della roccia, tanto che in certe plaghe è addirittura prevalente sul quarzo e sulla mica, elementi normali degli scisti cristallini, credo non si debba neppure riferire ad uno gneiss quarzi- tico ma considerare come un vero e proprio gneiss con struttura speciale. Volendo quindi dare a questa varietà locale di gneiss un nome che ne in- dichi la struttura e la composizione mineralogica ad un tempo, bisogna chia- marla gneiss minuto muscovitico a microclino. Sulla diffusione di questo gneiss, e sull’estensione e importanza delle formazioni quarzitiche nella valle del Chisone, tratteremo più particolar- mente nella descrizione generale delle formazioni litologiche della regione, CRQ5G0= Biologia vegetale. — Sulla biologia fiorale del mandorlo. Nota preventiva di C. CAMPBELL, presentata dal Socio R. PIROTTA. La conformazione del fiore nelle diverse piante e varietà, presenta differenze tali, su cui è bene fissare l'attenzione, per l'interesse che esse offrono sia dal lato botanico come da quello agrario, in quanto possono por- tare alla spiegazione delle cause di bassa prodattività in date annate, in mandorleti specializzati con unica varietà o forma biologica, e individual- mente per certe piante, specie quando, anzichè associate in vaste colture, si trovino isolate, e vengano a mancare o difettare nella località i pronubi neces- sarî alla impollinazione. Sul dimorfismo fiorale del mandorlo, non si hanno che scarse malsicure e contraddittorie notizie, riguardanti esclusivamente le diversità che passano tra mandorlo dolce e mandorlo amaro, distinzione che verrebbe a cadere se il mandorlo dolce si ritiene, come è forse più logico di ritenere, una forma col- tivata derivata dal mandorlo amaro, con tutte quelle modificazioni morfolo- giche, chimiche e adattamenti biologici, che sono così comuni tra le piante coltivate. De Candolle (') così ne scrive: «a amara — Stylis fere longitudine staminum infra tomentosis; 8 dulcis — ..... stylis stamina multo superantibus ». Identica distinzione si trova p. es. nel Loudon (?): «amara — Styles nearly as long as the stames, and tomentose in the lower part; dulcis — Styles much longer than the stames ». Scotti (*), tra l’altro, fa riconoscere i caratteri del mandorlo amaro per lo stile un po’ più corto. Egualmente ne parlano gli autori — anche agrarî — che si sono occupati del mandorlo, e così in una recente pubblicazione si esprimono Marre e Toulouse (*). « Le pistil des variétés amères est de méme longueur que les étamines, ce qui facilite la fécondation; le pollen tombe naturellement des anthères sur le stigmate, et assure la fécondation. Le style des variétés douces, au con- (') De Candolle, Prodromus systematis naturalis regni vegetabilis. Parisiis 1824-1844. (?) I. C. Loudon, Zree and shrub. London 1842. (3) G. Scotti, Flora medica 1872. (4) E. Marre et A. C. Toulouse, L’amandier. Paris 1913. — 257 — traire, est beaucoup plus long que les étamines; le pollen ne peut aller de lui-mème sur les stigmates ». Nel Fiori (') viene invece fatta una distinzione decisamente opposta: « seme ora (a- dulcis [Mill, sub amygdalo]) dolce in pianta a stilo lungo come gli stami esterni, ora (b - amara [ Hayne, sub amygdalo ]) amaro in pianta a stilo più lungo degli stami esterni ». Da tali esempii di citazioni risulta evidente come la questione non sia stata approfondita, sia nei riguardi della distinzione tra mandorlo amaro e mandorlo dolce, sia nei riguardi della biologia fiorale. e come principal- mente due sole forme sieno state notate, la mediostila e la longistila, nessun cenno trovandosi di una forma decisamente brevistila come risulta dalle mie ricerche. Da Nel mandorlo, le gemme fiorali si trovano sui rametti fruttiferi isolate e meno frequentemente abbinate o raggruppate alla estremità dei rametti fruttiferi. I caratteri del fiore all’antesi, o anche prima, sono sensibilmente varii da pianta a pianta, quando provenga da seme, e da varietà a varietà, così per struttura come per dimensioni. Le presenti ricerche furono fatte sopra piante, sia direttamente prove- nienti da seme, sia innestate. Il calice, coi sepali più o meno fortemente pubescenti, ha colorito varia- bilissimo, che va dal colore nocciola-rossastro al verde chiaro, con variazioni più o meno accentuate in fiori di determinata varietà o pianta. Nè minori sono le variazioni che si riscontrano nelle dimensioni e colo- rito dei petali, che vanno dal bianco più perfetto, al bianco con sfumature o striature rosee, ad un rosso più o meno intenso. Sembra che non vi sia relazione tra le dimensioni e il colorito dei sepali e petali, la qualità del frutto e le diverse caratteristiche degli organi della riproduzione, che presentano le differenze strutturali della maggiore impor- tanza e del maggiore interesse, sia dal lato morfologico, sia da quello biologico. Generalmente, in un medesimo fiore gli stami sono di varia lunghezza, e quindi le antère non vengono a trovarsi sopra un medesimo piano; la loro deiscenza, se non avviene contemporaneamente, avviene quasi sempre in un periodo molto breve di tempo. Il maggiore interesse viene offerto dal pistillo, per la sua posizione rispetto agli stami, così che le diverse forme fiorali debbono dividersi come segue: fiore longistilo » mediostilo » brevistilo. (!) Fiori, Alora analitica d'Italia. Padova 1896-98, vol. I. — 258 — A queste tre distinte formazioni ne va forse aggiunta una quarta, che ho trovata però in un'unica pianta, ma in tutti i fiori della stessa: fiore a stilo ricurvo Fiore longistilo - È il fiore in cui lo stilo supera di circa metà della sua lunghezza gli stami, e viene quindi a trovarsi isolato sopra di essi, ancora prima che avvenga la perfetta schiusura; fig. 1, e 1 dis. Sembra che la forma longistila sia propria delle varietà più gentili col- tivate, e la si trova di preferenza nelle piante innestate, per quanto la abbia riscontrata anche in piante direttamente provenienti da seme. — 259 — Fiore mediostilo - In tale forma lo stilo ha una lunghezza presso a poco eguale agli stami più lunghi, e quindi lo stimma viene a trovarsi all'al- tezza delle antère più elevate. Tale forma ho trovata in piante coltivate ma provenienti da seme direttamente e non innestate; fig. 4. Fiore brevistilo - In esso lo stilo non arriva se non raramente all'altezza degli stami più corti, e lo stimma viene quindi a trovarsi in posizione infe- riore alle antère anche degli stami più corti; fig. 3 e 3 ds. VAGA: Fia. 1 dis. — Longistilo. Fig. 2 dis. — A stilo ricurvo. Fia. 3 dis. — Brevistilo. Fic. 5. Fis. 6. Tale forma ho trovata in piante provenienti da seme non innestate, 0, quanto meno, in piante innestate non mi fu dato rinvenirla, senza escludere che anche tra piante innestate possa rinvenirsi. Fiore a stilo curvo - In una coltivazione di piante non innestate, ne ho rinvenuta una in cuì tutti i fiori portavano lo stilo ricurvo (fig. 2 e III); e, in qualche fiore, qualche stame presentava lo stesso carattere. Lo stimma, in tali fiori, viene quindi a trovarsi completamente rivolto in basso. Notevole ancora in tali fiori la costante presenza di due ovoli nel- l’ovario; mentre negli altri tiori, diversamente costituiti, dei due sacchi embrio- nali che sì sviluppano ordinariamente da principio, uno solo arriva a matu- rarsi, così che osservato il fiore completamente sviluppato, s1 trova nell’ovario un solo ovolo, e raramente due. — 200 — È questa una forma nuova, che va studiata e ricercata altrove, per sta- bilirne la genesi e l’importanza biologica. Le ricerche sul polline e sulla sua germinabilità, posto in soluzione di saccarosio al 10 °/, in goccia pendente, mostrano caratteristiche anche di grande interesse. Il polline non germina sempre con lo stesso tempo, e talora non ger- mina affatto. Nelle ricerche sui fiori longistili, e di una pianta più special- mente, il polline ha mostrato un alto potere germinante, con l'emissione del tubo pollinico in breve tempo: due ore circa a temperatura di laboratorio ed in soluzione di saccarosio al 10 °/, in goccia pendente. Nelle diverse forme fiorali si ha sempre l'emissione del tubo pollinico, ma con variazioni sia nella percentuale di germinazione, sia nel tempo impiegato; il che potrebbe anche essere in relazione ad altre cause, tra cui l'età del polline, così da far ritenere che una relazione tra potere germinante del polline e forma fiorale non vi sia, per lo meno nelle forme e fiori da me indicati e studiati. Una relazione sembra invece esista tra la forma del polline e la sua germinabilità. Esaminato al microscopio, il granulo pollinico mostra una forma che va dalla rotonda più o meno regolare (fig. 5), alla elittica, con un solco mediano (fig. 6), che deve essere una ripiegatura dell'esina. Le due figg. 5 e 6 rappresentano le due forme di polline ad un ingrandimento di circa :500 diam. disegnate con la camera lucida di Abbe. In fiori mediostili (di unica pianta) ben differenziati ancora pel colorito bianco-puro dei petali e verde-chiaro dei sepali, polline di cui alla fig. 6, non è germinato nella soluzione di saccarosio al 10 °/,, nè nella stessa allun- gata con acqua. Il granulo pollinico, in tali condizioni, ingrossava, per assu- mere la forma primitiva all'asciutto, senza mai emettere il tubo pollinico. Granuli di presso a poco la stessa forma, ma tolti da altri fiori, e di altra forma, e di altre piante, hanno dato una bassissima percentuale di germi- nazione, in confronto a quelli, rotondi, d'altri fiori e d'altre piante. Può darsi che tale polline esiga condizioni diverse per germinare, sia di luce sia di mezzo nutritivo; in ogni caso riesce evidente la stretta rela- zione tra forma e germinabilità del polline, relazione che ha bisogno di più larghe indagini sperimentali. La germinabilità del polline dei fiori a stilo ricurvo non ha mostrato nulla di caratteristico. * * x Dalle cennate ricerche ed osservazioni, non è certo logico di trarre conclusioni definitive. in quanto nuovo e più esteso lavoro, fatto in condi- zioni che permettano una accurata sperimentazione (in aperta campagna le esperienze sono difficili e mal sicure, perchè chi può garentirle da mani A profane?), chiarirà non pochi dubbî che sorgono naturali e non poche ipotesi non meno logiche ed importanti. Qualche pratica osservazione può però sino da ora chiarire il compli- cato meccanismo della fecondazione del fiore del mandorlo, quando si consi- deri che piante isolate non producono affatto. o molto poco e raramente, e che bassa produzione presentano spesso mandorleti innestati con piante biologicamente simili, mentre la maggiore e più costante produzione sembra aversi là dove sieno raggruppate le tre forme fiorali longistila mediostila brevistila. Tale constatazione fa subito pensare all'oscuro fenomeno dell’andina- mandria, secondo cui, in fiori monoclini, il polline, ancorchè ottimo, è inca- pace di fecondare lo stimma del proprio fiore — e probabilmente della stessa forma biologica — mentre lo stesso polline può fecondare il fiore proveniente da diversa individualità fisiologica, e probabilmente diversa conformazione. Nel caso in parola, si avrebbe quella forma di andinamandria che il Delpno chiama triplostaurogamia. Resterebbe da delucidare il posto biologico da assegnare al fiore a stilo ricurvo, se pure non trattisi di una forma puramente anomala, non stabile o atavica, in quanto non sono noti — ch'io sappia — casi di fiori, nelle diverse specie del genere ed affini, che portino stilo ricurvo. Simili considerazioni farebbero ancora cadere la distinzione tra mandorlo amaro e mandorlo dolce. come varietà a sè o come mutazione colturale. nei riguardi dei cavatteri fiorali; ma le diverse forme dovrebbero considerarsi come un naturale nesso biologico, all'infuori delle esterne condizioni e della azione colturale. Dal complesso esame della questione, e di ricerche per quanto preven- tive, risalta evidente — parmi — la necessità, anche per la pratica agraria, che simili ricerche vengano completate ed estese, perchè l’assodare sicura- mente la biologia fiorale di una pianta coltivata, vuol dire contribuire ad una più certa e regolare produzione, affidata ancora al caso e, più. all'empi- rismo. RENDICONTI. 1415, Vol. XXIV, 1° Sem. 34 Fisiologia vegetale. — I! magnesio nelle piante albicate e clorotiche ('). Nota della dottss®, Eva MAMELI, presentata dal Socio GIOVANNI BRIOSI. In una precedente Nota (?) dimostrai sperimentalmente che la quantità di clorofilla che si forma negli organi assimilatori epigei è in rapporto con la quantità di magnesio somministrata alla pianta. Infatti: 1° piante diversissime, tanto crittogame quanto fanerogame, apparte- nenti a diverse specie (Protococcus viridis, Spirogyra majuscula, Vau- cheria sp., Zea Mays, Polygonum Fagopyrum, Helianthus annuus, Torrenia Fournieri), coltivate in soluzioni prive di magnesio, diedero tallo e foglie completamente eziolate o appena debolmente verdi; 2°) le stesse specie, coltivate in soluzioni contenenti quantità varie di magnesio, svilupparono tallo e foglie la cui intensità di colorazione cre- sceva col crescere della quantità di magnesio che era stata loro sommini- strata. i Gli estratti eterei di queste foglie, confrontati con il metodo colorime- trico, dimostrarono che tra clorofilla e magnesio v'è un rapporto diretto costante. Le presenti ricerche mirano a portare un nuovo contributo alla dimo- strazione dell'esistenza di questo rapporto, per mezzo del dosaggio quanti- tativo del magnesio contenuto nelle foglie (o in parti di foglie) verdi ed in foglie (o parti di foglie) bianche o giallognole, appartenenti ad una stessa pianta variegata o clorotica. Le analisi chimiche, sinora fatte dai diversi autori allo scopo di co- noscere le quantità di ceneri, di sostanza organica, di acqua e dei diversi elementi, contenuti sia nelle foglie verdi sia nelle corrispondenti albicate o clorotiche, sono scarse ed i risultati contradditorii, tanto che lo Czapek scrive, per ciò che riguarda il magnesio, nella sua Biochemie der Pfanze (II, 796): « che il contenuto, in magnesio, delle foglie eziolate, si differenzi in modo speciale e costante da quello delle foglie verdi, non è finora risul- tato dalle analisi delle ceneri ». Tale mancanza di un risultato conclusivo, che compendii tutte le ri- cerche fatte, è dovuto soprattutto alla disparità del materiale d’analisi usato dai diversi autori, i quali analizzarono, ora foglie normalmente albicate, (*) Lavoro eseguito nell'Istituto botanico della R. Università di Pavia, gennaio, 1915. (2) Mameli E., Sulla inliuenza del magnesio sopra la formazione della clorofilla (Atti Ist. bot. di Pavia, XV, 151), an. 1912. — 263 — appartenenti cioè a piante nelle quali l’albinismo era da molto tempo fissato quale carattere ereditario; ora foglie eziolute per clorosi patologica d'origine recente; ora foglie eziolate perchè provenienti da culture fatte in ambienti privi di luce; ora infine foglie ingiallite, còlte nella stagione invernale. È evidente che le condizioni fisiologiche generali delle foglie non co- lorate (o debolmente colorate), in confronto a quelle verdi, debbano essere assai varie a seconda che si tratti di uno o dell'altro di questi quattro casi, e che specialissime poi debbano essere in ciascun caso le condizioni nelle quali avvengono l'assorbimento delle sostanze minerali e il loro accumularsi. Esaminiamoli partitamente. Albinismo. — Le prime analisi comparative di foglie verdi e di foglie variegate di bianco e di verde, si debbono al Church ('). Egli analizzò fo- glie di Acer Negundo, di Hedera Helix, e di Ilex Aquifolium; e trovò le seguenti percentuali dei componenti le ceneri: ACER H: DERA ILEX f. bianche f. verdi f. bianche f. verdi f. bianche f. verdi Potassione a. 45,05 12,61 35,90 16,22 47,20 17,91 Calcio E 10,89 39,93 21,50 34,48 12,92 48,55 Magnesio. . . . . 3,95 4,75 3,29 2,43 TRIO. 1,04 erronee dio E ? ? 8,11 Sb 2,62 Zell Bosforo se 0.0 14,57 8,80 9,51 7.29 10,68 3,87 Si noti che, mentre per i quattro elementi — K, Ca, Fe, e P — le diffe- renze tra foglie bianche e foglie verdi sono concordanti per tutt’e tre le specie, per ciò che riguarda il magnesio v'è invece sconcordanza. Dopo quelle del Church, le sole analisi di sostanze minerali, nelle fo- glie albicate, che potei trovare nella bibliogratia, sono quelle di Aso (?), che analizzò foglie di Aruzdo Donax, dopo averne separato le parti bianche dalle verdi. Egli trovò che nelle prime è contenuto il 0,455 °/ di ossido di Mg; nelle seconde, il 0,513 °/,. Clorosi. — Ramann [citato da Sorauer (#) |] analizzò foglie di pino affette da clorosi e trovò che esse contengono 0,2791 °/ di magnesio, mentre le foglie verdi della stessa pianta ne contengono il 0,6069 °/. Schulze, nelle viti sane. trovò, invece, meno magnesio che non in quelle malate di clorosi. (') Church A., Variegated leaves (Gard. Chronicle II, 586), 1877. — Chemische Untersuchungen ber den Albinismus der Pflanzen (Centr. Agrik. XVI, 429), an. 1887. (*) On the different forms of lime in plants (Bull. of the Coll. of agrie. Tokyo V, 259), an. 1912. (*) Sorauer, P/lansenkrankheren, Berlin, an. 1909, I, 305. — 264 — E per ciò che riguarda il magnesio, non abbiamo altre analisi di piante clorotiche. Sulle foglie autunnali ingiallite abbiamo analisi: di Grandeau e Fliche (*) i quali in foglie di Robinia. Prunus avium, Castanea e Betula, constatarono che la quantità di magnesio aumenta in autunno; di Tucker e Tollens (*) che trovarono anch'essi che il magnesio aumenta nelle foglie di platano sino alla loro caduta, e subisce una debole diminuzione alla fine del periodo vegetativo. Stahl (*) fece fare l’analisi di foglie ancora verdi e di foglie gialle (autunnali) di Evonymus japonicus, dalle quali risultò che il magnesio è in maggior quantità nelle foglie gialle. Lo stesso autore fa conoscere però 11 risultato di alcune analisi di Swart, secondo le quali il ferro e il magnesio sono in quantità minori nelle foglie gialle. In un recentissimo lavoro, lo Swart (‘) riporta numerose analisi, secondo le quali, durante il decoloramento delle foglie autunnali, la quantità di magnesio re- sterebbe costante nel maggior numero dei casi, e in alcuni casi diminuirebbe ; ma questa variazione è dall'autore attribuita alle condizioni del materiale analizzato. Come si vede, i dati analitici su questa questione sono troppo scarsi e contradittorii perchè se ne possa fare alcuna deduzione su un probabile rap- porto quantitativo fra magnesio e clorofilla. Assai scarsi sono particolar- mente i dati che riguardano le piante albicate. Mi è quindi parso che fosse interessante e opportuno di fare un'accurata ricerca quantitativa del magnesio in un maggior numero di specie presen- tanti questo fenomeno. Scelsi a questo scopo: Vinca minor var. foliis va- riegatis, Pelargonium sonale var. fol. var., Pandanus javanicus var. fol. var., Polygonum orientale var. fol. var.. Acer Negundo var. frazxinifolia, Spiraca lobata var. fol. var., Funkia lancifolia var. albo-marginata, Evonymus faponicus var. fol. var., Haegopodium podagraria var. fol. var. Aggiunsi a queste anche le analisi di foglie appartenenti a individui in qualche loro ramo colpiti da clorosi: Camellia japonica, Rosa bengalensis, Catalpa bignoniotdes. Per ogni specie prelevai tutte le foglie da una stessa pianta; e separai le foglie (o le parti di foglie) bianche da quelle verdi, tagliandole, quando era necessario, con le forbici, ed escludendo sempre i piccinoli, e quelle zone fogliari che apparivano non precisamente bianche o verdi e che non avrei potuto includere con sicurezza nè fra le une, nè fra le altre. (*) Grandeau e Fliche, (Ann. Stat. agron. de l'Est, an. 1878). (2) Tucker e Tollens, Veder den Gehalt der Platanenblatter an Nahrstoffen und die Verwendung dieser Nahrstoffe beim Wachsen und Absterben der Blitter (Journ. f. Landw. XLVIII), an. 1900 (*) Stahl, Zur Biologie des Chlorophylis. Jena, an. 1909, pag. 139. (4) Swart, Die Stoffwanderung in ablebenden Bléttern. Jena, an. 1914. — 205 — L'incenerimento delle foglie venne fatto secondo ileKénig (*); per il metodo d'analisi seguii il Fresenius (*), dosando il magnesio allo stato di pirofosfato. I risultati ottenuti sono riassunti nella tabella riportata alla pagina seguente. Dai dati analitici ivi riportati si deduce: 1°) che nelle piante affette da clorosi risultò, in due casì su tre, maggiore la quantità di magnesio contenuta nelle parti clorotiche. Proba- bilmente la varia natura delle cause fisiologiche, che, a quanto sì ritiene oggidì, possono provocare la clorosi, esercita, a seconda dei casì, influenze diverse sull’assorbimento dei sali: di qui i risultati varii ottenuti da queste analisi e da quelle eseguite dagli autori su citati, che dosarono il magnesio contenuto nelle piante clorotiche (*); 2°) che nelle piante albicate la quantità di magnesio risultò, în otto casi su nove, maggiore nelle parti verdi rispetto alle parti bianche dello stesso individuo: risultato che conferma esservi uno stretto rapporto fisiolo- gico tra magnesio e clorofilla. In base a questi risultati mi permetto di dissentire dallo Swart per ciò che riguarda l’interpretazione dei suoi dati analitici. Secondo quest’au- tore, non v'è contraddizione tra il fatto che il magnesio non diminuisca nelle foglie ingiallite e la presenza del magnesio nella clorofilla, perchè (a suo avviso), essendo la quantità di magnesio contenuta nella clorofilla una piccola porzione della quantità totale di questo elemento contenuta nella pianta, la variazione di questa piccola quantità, anche se si verificasse, non avrebbe importanza. Ammetto anch'io che contraddizione non vi sia; ma osservo che una più probabile causa della costanza quasi generale che lo Swart constata nella quantità del magnesio durante l’ingiallimento delle foglie, è non l’errore analitico, ma bensì la non avvenuta emigrazione di questo elemento dopo la scissione della clorofilla. (1) Konig, Die Untersuchung landwirtschaftlich und gewertlich wichtiger Stoffe. Berlin, an. 1906, pag. 194. (?) Fresenins R., 7raité d'analyse chimique quantitative. Paris, an. 1909, vol. I, 255 e 644; II, 466. (*) Per quanto ancora non siano state fatte esperienze in proposito, noto che già da qualche anno trovansi in commercio sostanze a base di sali di magnesio, il cui uso viene consigliato pei terreni calcari ove appare la clorosi. Esempio: il concime « La fertilité » della « Société des produits dolomitiques de l'Hérault ». Infatti, anche nella letteratura si trovano casi di clorosi guarita con somministrazione di sali di magnesio: vedi Soraner (loc. cit.) per la clorosi del pino; Bonrcart (Ze maladies des plants, Paris, an. 1910), e Accardi (Za clorosi delle viti americane, Napoli, an. 1918), secondo il quale la clorosi permanente deve ascriversi specialmente alla deficienza di assorbimento del magnesio da parte della pianta. NOME DELLA PIANTA Vinca minor Pelargonium zonale . . Pandanus javanicus . . “| Polygonum orientale. . Acer Negundo....... Spiraea lobata Funkia lancifolia . Evonymus japonicus . . Haegopodium podagraria Camellia japonica . . . . i Rosa bengalensis Catalpa bignonioides. . . | foglie bianche verdi bianche verdi bianche verdi bianche verdi bianche verdi bianche verdi bianche verdi bianche verdi bianche verdi bianche verdi bianche verdi bianche verdi Ceneri | Mg0 °/o °/o MERE IRE sul peso |sul peso Osservazioni secco | secco 15,91 4,09 | Foglie totalmente o per metà 10,74 4,55 bianche. 15,85 3,96 | Poche foglie bianche; la mag- 16,52 3,67 gior parte giallastre. 8.12 8,19 | Foglie a lunghe zone bianche. 6,14 | 10,85 11,51 10,94 | Foglie con zone bianche e 12,11 14,23 giallastro. 11,77 4.23 | Foglie verdi, c foglie perfet- 9,17 6,98 tamente e completamente bianche. 12,18 5,25 | Molte foglie completamente 9,29 7,92 bianche, altre giallognole. 15,01 4,88 | Foglie con larghe zone per- 8,66 6,80 fettamente bianche. 11,81 4,29 | Numerose foglie totalmente 10,48 4,43 bianche; altre zonate di bianco. 16,90 5,01 | Foglie totalmente o per metà 13,80 6,34 bianche. 6,60 8,52 | Piante diverse che nell'estate 5,52 | 11,56 1914 presentarono foglie clo- rotiche, alcune delle quali perfettamente bianche. 7,05 9,17 | Pianta in cui alcuni rami ap- 11,37 7,00 parvero nell’agosto 1909 eziolati, ma in cui le foglie rimasero verdiccie. = 9,36 | Pianta che nell’estate 1912 —_ 9,32 presentò un grosso ramo le eui foglie erano quasi to- talmente bianche. — 267 — Infatti, che l'assenza della clorofilla sia collegata con una diminuzione del magnesio, è ben dimostrabile con l'analisi, come si rileva dai risultati da me ottenuti; ciò che non sappiamo è quello che avvenga allorchè la clo- rofilla si scinde o comunque si trasforma (clorosi, ingiallimento autunnale); quali siano cioè i prodotti della decomposizione che emigrano, e quali quelli che permangono nella foglia. Ma osservando che tanto diversi sono i risul- tati ottenuti dai varii autori (Grandeau e Fliche, Tucker e Tollens, Stahl, Swart) a me pare non improbabile l'ipotesi che, almeno per ciò che riguarda l'emigrazione del magnesio, ogni pianta possa avere un comportamento suo proprio a seconda della natura della sua clorofilla, dell’epoca d’ingiallimento delle sue foglie, della maturazione dei suoi frutti, ecc.; a seconda, cioè, dei varii e complessi mutamenti che avvengono nel chimismo cellulare della pianta durante quel periodo di tempo nel quale essa perde le foglie, e an- cora più durante il periodo che immediatamente precede questo fenomeno. Lo stesso non può dirsi per il caso delle piante albicate, da me stu- diato a fine di dimostrare la concomitanza dei due fatti: assenza, o quasi, di clorofilla, e minor quantità di magnesio. In questo caso non sì tratta di piante nelle quali avvenga un temporaneo e quasi subitaneo fenomeno di squilibrio, come nel caso della clorosi e dell’ingiallimento autunnale; ma di piante nelle quali i germogli, sin dal loro apparire, sono o albicati o verdi, il che dà un'apparenza di fatto quasi normale a questo fenomeno, che non si sa ancora se sì debba o no considerare come patologico. CONCLUSIONE. Dalle analisi comparative di foglie e parti di foglie bianche e verdi appartenenti ad una stessa pianta albicata, si rileva che l'assenza totale, 0 quasi, di clorofilla nelle foglie, è accompagnata da una minore percentuale del magnesio in esse contenuto. Questi risultati, come quelli resi noti in una mia precedente Memoria, vengono in appoggio alla constatazione, fatta da Willstàtter, che la clorofilla è un composto magnesiaco. Chimica-fisiologica. — Proprietà chimiche e chimico-fisiche dei muscoli e dei succhi muscolari. Nota VI: Sul contenuto in fosforo dei muscoli striati bianchi e rossi, del dott. G. QUAGLIA- RIELLO, presentata dal Corrisp. FiLIiPPO BOTTAZZI. Chimica-fisica. — Sullo stato dell’acido carbonico nel sanque. II: Mobilità dell’ione HCO": a varie temperature. Nota dei dot- tori E. D'Agostino e G. QUAGLIARIELLO, presentata dal Corrispon- dente F. BOTTAZZI. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. — 268 — Fisiologia. — Sul rapporto fra centri corticali del giro sigmoideo e sensibilità cutanea nel cane ('). Nota del dott. G. AMAN- TEA, presentata dal Socio L. LUCIANI. Una classica serie di indagini fisiologiche, eseguite col metodo delle ablazioni parziali della corteccia cerebrale (Hitzig, Goltz, Munk, Luciani e Tamburini, Carville e Duret. ecc. (?)) ha permesso di dimostrare sperimen- talmente, nel cane e nella scimmia, che esiste un rapporto funzionale tra i centri della zona cosidetta eccitabile e la sensibilità cutanea. Anzi, appunto in base ai risultati di queste ricerche, il Luciani sostenne il concetto che la cosidetta zona eccitabile « logicamente non può essere definita come sen- sîliva, nè come motrice, ma deve essere considerata come sensz/zvo-motrice. Motrice, perchè rappresenta quella parte della corteccia cerebrale che è di- rettamente connessa, per mezzo di fibre efferenti di proiezione, coi centri motori inferiori, mesencefalici, bulbari e spinali, e perchè è da essa che emanano gli impulsi e s’inizia la prima fase degli atti muscolari volontarî; sensitiva, perchè gli atti volontarî sono guidati e governati dalle sensazioni cutanee e muscolari, e quindi le parti della corteccia nelle quali essi si ori- ginano debbono trovarsi in intimo nesso coi centri percettivi di dette sen- sazioni; sensitiva-motrice, infine, perchè i disturbi che conseguono alla di- struzione della zona rolandica non sono nè esclusivamente motori, nè esclu- sivamente sensitivi ». In seguito alle osservazioni accennate, si può dire che nulla di più la fisiologia sperimentale ha potuto aggiungere alle conclusioni molto gene- rali, cui il metodo delle ablazioni aveva condotto. Nel corso di numerose mie ricerche, eseguite col metodo della stimo- lazione chimica sui centri corticali del giro sigmoideo nel cane (*), ho avuto occasione di osservare dei fenomeni, che mi hanno aperto la via ad una nuova serie di indagini sul rapporto tra i centri suddetti e la sensibilità cutanea, le quali tendono a precisare ed a illuminare ulteriormente la que- (1) Lavoro eseguito nel laboratorio di fisiologia della R. Università di Roma, di- retto dal prof. L. Luciani (?) L. Luciani, /istologia dell'uomo, IV ediz., vol. III, 1913. (3) G. Amantea, Zentralbl. f. Phys., Bd. XXIV, n. 5; id., Arch. di farmac. sper. e sc. aff., vol. XIV, 1912; id., Arch. di fisiol., vol. XI, 1913; S. Baglioni e G. Amantea, Mé- langes biolog. déd. à Ch. Richet, pag. 11, 1912; Arch. di farmac. sper. e sc. aff., vol. XVII, 1914, e Zeitschr f. biol. Technik u. Methodik, Bd. III; G. Amantea, Arch. di fisiol., vol. XII, 1914. — 269 — stione. Qui voglio appunto accennare al nuovo metodo sperimentale e alle mie prime osservazioni. È un fatto bene accertato, che, quando si applica stricnina (in soluzione acquosa all’1 °/,) su un centro corticale del giro sigmoideo nel cane, si ottengono scosse cloniche e ritmiche del gruppo muscolare ad esso corri- spondente, come per i primi hanno dimostrato S. Baglioni e M. Magnini ('). Ebbene, lavorando sotto la direzione di S. Baglioni, io ho potuto assicurarmi (?) che sono capaci di aumentare entro certi limiti la frequenza e l'intensità di queste scosse tutti gli eccitamenti provenienti dagli organi di senso su- periori (specialmente da quello uditivo) e tutti gli eccitamenti afferenti (sensitivi) tattili o dolorifici partenti dalle regioni cutanee del corpo del- l’animale, ciò che fa pensare a fenomeni di sommazione o di agevolazione. Continuando le mie esperienze, mi accorsi, però, che tutto questo si verifica nel caso in cui l’eccitamento corticale indotto dalla stricnina ha rag- giunto un grado relativamente elevato, o quando si siano fatte più applica- zioni successive e sempre efficaci della sostanza, pur avendo avuto la mas- sima cura (in ciò appunto consiste il fondamento del nostro metodo di stimolazione chimica) nel circoscriverne e limitarne l’azione. Mi fu dato anche di osservare che, nel periodo in cui sì presentano le prime scosse cloniche spontanee, gli eccitamenti che provengono dagli organi di senso superiori possono riuscire inefficaci, mentre è già evidente l'influenza degli stimoli (tattili e dulorifici) portati sulla cute; ed anche questi ultimi non sono sempre efficaci su qualsiasi regione del corpo dell'animale, ma, talora, solo su determinate aree cutanee. Solo stimolando tali aree in simili casi la scosse divengono più numerose e più forti. Se poi l’eccitamento corticale indotto dalla stricnina diviene gradualmente più elevato, questa limitazione a mano a mano scompare, e tutta la cute dell'arto, che è sede dei muscoli in clono, risponde allora agli stimoli nel senso sopra accennato, come se fosse divenuta quasi iperestesica. Però, anche nei casì, in cui si è ripetuta più volte successive l’appli- cazione di stricnina, e lo stato di eccitamento corticale è divenuto, da qualche tempo, massimo, sì può spesso, mercè un esame accurato, accertare, che esiste in realtà una differenza tra l'effetto di stimolazioni eseguite sulle cute del- l’intero arto, che presenta le contrazioni cloniche, e l’effetto di stimola- zioni eseguite su altri punti della superfice cutanea: nel primo caso l’ef- fetto è positivo e costante; nel secondo, spesso incerto o affatto mancante. Ma il fenomeno da me osservato, e che mi parve degno della massima attenzione, è il seguente: il periodo delle scosse cloniche spontanee da stricniz- zazione corticale è immediatamente preceduto da un altro, che può anche (*) S. Baglioni e M. Magnini, Arch. di fisiol., vol. VI, an. 1909, (*) S. Baglioni e G. Amantea, Mélanges biolog. déd. à Ch. Richet, pag. 21, 1912. RknpIcoNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 35 — 270 — essere assai breve, ma che non manca mai, durante il quale le con- trazioni cloniche si possono ottenere solo in via riflessa, stimolando regioni cutanee ben circoscritte e determinate dell'arto che è sede del clono. La cute di tali regioni sembra divenuta, come ho accennato più sopra, quasi iperestesica; e gli stimoli portati su di essa esplicano, al solito, la loro azione provocando una o più contrazioni successive del gruppo muscolare corri- spondente al centro stricninizzato. Stimolando altre aree cutanee, ciò non si ottiene, e la differenza è spesso nettissima nel breve periodo in cui è dato osservarla. O Era logico di pensare, dopo ciò, che appunto il poter prolungare questo periodo, così da permettere una più agevole condizione di osservazione e una maggior precisione di indagine, ‘avrebbe potuto costituire una nuova ed utile applicazione del nostro metodo di stimolazione chimica circoscritta corticale, mercè la stricnina. Pensai di tentare la soluzione del problema, regolando o graduando l'applicazione della sostanza chimica in rapporto al vario e variabile grado di eccitabilità corticale degli animali (cani) da esperimento, in modo da ottenere, eventualmente, che le scosse cloniche, invece di manifestarsi in ma- niera spontanea, potessero destarsi so/o 22 via riflessa, per azione di sti- moli tattili o dolorifici applicati sulla cute. Le dosi di stricnina da noi di solito adoperate (soluzione all'L °/,), il più delle volte determinavano troppo rapidamente. nel centro stimolato, il grado di eccitamento massimo, che si rivela colle scosse spontanee; e l'applicazione di stricnina in soluzioni più diluite e appropriate avrebbe forse potuto permettere di raggiungere lo scopo. Così facendo, cioè applicando (sempre con la tecnica, per i particolari della quale rimando a quello che è stato altrove pubblicato (')) soluzioni di stricnina di concentrazione crescente, dalla proporzione di 1:2000 a quella di 1:200, ho potuto accertare che è possibile di trovare, per ogni cane su cui si esperimenta, una soluzione di stricnina di concentrazione tale, che, applicandola una 0 più volte successive sul centro corticale voluto del giro sigmoideo, ne modifichi la funzione, in maniera da rendersi efficaci su determinate aree cutanee stimoli tattili 0 dolorifici, prima inefficaci, i quali a loro volta destano în via riflessa una o più contrazioni clo- niche successive di determinati gruppi muscolari. La concentrazione media sufticierte, nella maggior parte dei casi, mi risulta essere quella compresa tra 1:1000 e 1:500. Dopo aver localizzato, mercè la corrente faradica, il centro sul quale si vuole sperimentare, si incomincia coll'applicarvi (servendosi di dischetti (*) Baglioni e G. Amantea, Arch. di farm. sper. e sc. aff., vol. XVII, an. 1914; Zeitschr. f. biol. Technik u. Metodik, Bd. III Bier o. SO di carta da filtro di 1-3 mm. di diametro) una soluzione debole, per poi passare, se è necessario, a quelle più forti. Prima e dopo l’applicazione della sostanza chimica sul centro, si saggia lo stato della sensibilità cutanea in modo rapido, servendosi di stimoli dolorifici, e confrontando i risultati che si possono ottenere su regioni corrispondenti dei due lati del corpo del- l'animale. Le esperienze sono delicate, e richiedono pazienza e costanza. Fig. 1. Fic. 2. In conclusione, non generose ablazioni e rilievo dei conseguenti sin- tomi di deficienza sensitivo-motrice, sì bene esaltamento dell'attività di sin- goli centri ben localizzati e rilievo delle eventuali connessioni funzionali con determinate aree cutanee e determinati gruppi muscolari: questo il fondamento della nuova tecnica, che mi sono proposto di seguire. Finora ho potuto sperimentare già su parecchi cani, rivolgendo spe- cialmente l’attenzione ai centri corticali per gli arti anteriori. E più volte ho potuto così osservare, per es., il seguente fatto: yuundo s7 stricninisza il centro per l'estensione delle dita di un arto anteriore, l'area cutanea ipere- slesica si presenta generalmente circoscrella uilu cute della superfice superiore 0 dorsale dell’estremità dell'arto stesso (ved. tig. 1); quando în- vece si applica la stricnina sul centro dei flessori delle dita, l'area ipere- stesica corrispunde alla cute della superfice plantare (ved. fig. 2). — 272 — Già quello soltanto che ho esposto potrebbe bastare per numerose con- siderazioni, e per una discussione completa sul valore dei fenomeni osser- vati. Ma mi sembra più opportuno di limitarsi, per ora, al semplice rilievo dei fatti; chè quando altre osservazioni avranno completato quelle già eseguite, le considerazioni e le discussioni teoriche potranno trovarvi più ampia base di sostegno, guadagnando in efficacia. Voglio solo fin da ora far notare che i fatti da me accennati possono considerarsi come l’espressione e la conferma insieme, del concetto limpida- mente espresso dal Luciani, e ricordato al principio della presente Nota. Fisiologia. — Sull’adattamento degli anfibi all'ambiente li- quido esterno, mediante la regolazione della pressione osmotica dei loro liquidi interni. IV: Îl tempo entro il quale avviene la regolazione osmotica. Nota di Bruno BRuUNACCI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Un altro problema che mi sono proposto di risolvere è stato quello relativo al tempo necessario alla rana esculenta estiva per mettersi în equilibrio osmotico coll’ambiente, e ciò, tanto per gli animali trasportati dall'acqua dolce (acqua piovana di cisterna 4 = 0°,01) in soluzione Ringer ipertonica, quaato per quelli che dall'ambiente ipertonico erano riportati nell'acqua dolce corrente. Le esperienze sono state fatte tenendo i recipienti ove erano le rane, in locale a temperatura quasi costante (temperatura circa 12° C.) ed al buio (sotterraneo annesso all’ Istituto). Nelle tabelle 6* e 7 (serie Z) sono trascritti i dati sperimentali ot- tenuti. Per quanto concerne /e rane che dall'acqua dolce venivano poste nella soluzione Ringer ipertonica, si constata che sono state necessarie 8-9 ore perchè i liquidi interni degli animali riuscissero non solo a rag- giungere il livello di concentrazione molecolare iniziale dell'ambiente esterno, ma a sorpassarlo; mentre un tempo minore (6-7 ore) si mostrò in- sufficiente. Ciò si è osservato tanto per la soluzione Ringer ipertonica mas- sima (contenente cioè il 10 °/,, di NaCl; cfr. esp. I, tab. 6*), quanto per la soluzione Ringer meno concentrata (Na Cl gr. 9 °/o: cfr. esp. II, tab. 6). Come ho detto nella Nota precedente, è caratteristico il fatto che la regolazione osmotica della rana avviene, nelle prime ore dell'adattamento, soprattutto a spese degli elettroliti, mentre nei giorni successivi essa è do- vuta più a sostanze organiche osmoticamente attive costruite dall'organismo stesso dell'animale (cfr. tab. 4-5-6). = La linfa dei sacchi. scarsa nelle prime 6-7 ore, cresce, successivamente, moltissimo. L’urina si forma, invece, parecchio tempo più tardi della linfa. Circa le rane trasportate nell'acqua dolce corrente dopo aver s0g- giornato per vari giorni in ambiente ipertonico, si nota che esse — già nelle prime 6-7 ore — non hanno quasi più linfa nei sacchi linfatici (della quale erano pieni), mentre non di rado si accumula una abbondantissima quantità di urina in vescica. Verso la decima ora di permanenza nell'acqua dolce corrente, anche l'urina scompare, infine, del tutto. Sembra che le rane le quali avevano soggiornato in soluzione Ringer più concentrata (Na Cl gr. 10 °/s0; esp. I, tab. 7*) impieghino più tempo per adattare la concentrazione del loro sangue alle mutate condizioni di ambiente, di quelle che erano state tenute nella soluzione salina meno con- centrata (Na Cl gr. 9 °/00; esp. II, tab. 72). Ad ogni modo, occorre minor tempo per far aumentare la concen- trazione molecolare dei liquidi interni dell'animale, che non per far perdere ad essi la concentrazione maggiore, alla quale erano prima per- venult. Il fatto, sul quale ho già richiamato l’attenzione nella Nota prece- dente (cioè che le rane, le quali hanno soggiornato in ambiente ipertonico, non riescono, se trasportate in acqua dolce, a raggiungere quel livello minimo di concentrazione molecolare del proprio sangue, al quale giun- gono invece gli animali posti direttamente nell'acqua dolce senza aver in precedenza soggiornato in soluzione Ringer concentrata), potrebbe anche es- sere spiegato ammettendo un più difficile passaggio di elettroliti dall'interno all'esterno dell'organismo. Ma l'aver osservato (cfr. Nota precedente) che le rane provenienti da altra località (Grosseto), tenute in identiche condi- zioni di quelle dei dintorni di Siena (stesso numero di giorni "di perma- nenza in acqua di condotta sino a depurazione, e successivo soggiorno, di eguale durata, in acqua distillata), presentavano una maggiore concentra- zione molecolare del loro sangue, può far pensare anche — come si disse — alla possibilità di una fissazione, nel sangue, di caratteri osmotici acqui- siti dall'ambiente esterno. — 274 — = fa» <& me a #3 ‘00000 eun 68661 |066F0| ELI |FIFSO|S0G |S690 | B}BULIQUOp e pUL] - n 6691 16867 0| 83096 |908F0| — |OL90 | 08S93S oI]op 03918 910 97-28 dog (II « ‘I3nss0} I0u opinbi] 090q ‘ojnoto9 ta a sd do A S siate a}uepuogqe uoo a725uvg ‘(ou Gg Volo ‘uti GI LG | 489:0 | PFRULIGUOP audueg ( ep) Iqooes I9u v/u:7 eHow ‘nun aquaru ‘auti GI € _ _ — — 6L |0890 | equorque opiabr] (0) = TED SSe ne ve -— |}--.0.6- vung 1689°1 |099800| I8Fo'a |9I060| 906 |S890 | eYEULIUep JUL] | ‘arqemmstoa GraL'g |B0I7FO| OSSTF |08890| 66 |0290 | 0SS93S OII9P OIIS Ù gio 6-g odog (II° € quautaueguods ‘(‘oWw9 GE VOI AULI pg ep) 10038/ur) NE sz Da ; e |eg90 | oqeutaguop anSueg 12908 19U 0P1nDi] VUSSTFO]M ‘2QUAIU dI}? 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Quindi, se sì ha in A un elettrodo puntiforme da cui entra la corrente J, il corrispondente potenziale sarà ($ 7) direzione fissa; — et e la corrispondente funzione fondamentale J 1 4J J i co Sr o E a dunque la funzione fondamentale corrispondente ad un elettrodo punti- (*) Supposta l’orientazione degli assi 2 e y come è indicata nella figura 1 del $ 2, noi supponiamo di contare l’angolo 6, nel senso contrario a quello secondo cui ruotano le lancette di un orologio, mentre ammettiamo che un vortice di momento positivo ruoti nel verso delle lancette di un orologio. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem 37 — 290 — forme in A, ove entra la corrente di intensità J, è il potenziale logarit- J ? AJ. mico di una massa == e di un vortice di momento + situato nel 2rK K punto A. Questo resultato può enunciarsi dicendo che l’azione del campo ma- gnetico sulla distribuzione delle correnti si esplica, modificando la funzione fondamentale, coll’aggiungere ad ogni elettrodo un vortice il cui momento è eguale alla intensità moltiplicata per 4 divisa per la conducibilità, mentre si mantiene nulla la derivata normale della funzione fondamentale nei punti del contorno libero ed isolato ('). La funzione 06, è polidroma: quindi la funzione fondamentale è una funzione polidroma, la quale ha per punti di diramazione gli elettrodi. Dunque, mentre il potenziale è monodromo, e gli elettrodi puntiformi sono i punti di infinito logaritmico, la funzione fondamentale ha negli elettrodi punti di infinito logaritmico e di diramazione. Ha: 12. 16. Supponiamo, adesso, che la lamina sia circolare, e la corrente entri ed esca da elettrodi puntiformi interni. Cerchiamo di calcolare l’effetto del contorno C (che è di render nulla la derivata normale della funzione fon- damentale) coll’aggiunta di masse e di vortici immagini distribuiti nei punti reciproci degli elettrodi interni rispetto al contorno. Sia A, il punto reciproco dell'elettrodo A. Se in A, disponiamo una JI: 1 AIR Ti ea massa DK ® il potenziale logaritmico delle due masse 57K distribuite in A e A, avrà la derivata normale lungo C eguale a Ma 2rKR (*) L'aggiunta del vortice per l’azione del campo magnetico resulta ben naturale quando si pensi all'azione deviatrice prodotta dal campo stesso sul moto degli elettroni nell'intorno dell’elettrodo. O essendo R il raggio del contorno; e se in A, disponiamo un vortice di mo- mento AJ K ,Ì AJ. DG il potenziale dei due vortici di momenti i e si disposti in A, e A avrà la derivata normale nulla al contorno. Tenendo presente che le somme algebriche delle intensità delle cor- renti che entrano dai varî elettrodi interni è nulla, si otterrà dunque, come espressione della funzione fondamentale, J (9) U=— 237 1logra + logra, +40, —40,,}, essendo estesa la somma a tutti gli elettrodi interni. La espressione stessa può seriversi: J RESSE: , v=-233. (legni +20) +4, ove 7) e SR (log r,, — 40,,); ed evidentemente w è regolare entro l’area occupata dalla lamina, giacchè i punti di infinito e di diramazione sono tutti esterni all’area stessa. Il resultato ottenuto può enunciarsi nei termini seguenti: La distribuzione delle correnti che entrano ed escono da elettrodi puntiformi in una lamina circolare soggetta ad un campo magnetico, è quella stessa che si avrebbe sopprimendo il campo magnetico, rendendo indefinita la lamina ed aggiungendo ad ogni elettrodo ove la intensità è J 1 ì Va I 1 un vortice di momento K inoltre aggiungendo, nel punto reciproco di ciascun elettrodo interno, un elettrodo immagine ove la intensità è la stessa, ed un vortice immagine del vortice interno di momento invertito. 17. Poichè abbiamo calcolato, mediante la formula (9), la funzione fon- damentale della distribuzione delle correnti, così, applicando la regola (E'), possiamo ricavare dalla espressione ottenuta il potenziale. Cominciamo dall’esprimere la funzione coniugata di U. Questa sarà , J U =_—- ZE (0+% —Alogrn4àlogr.,), e perciò il potenziale resulterà J 27 = agenti LOR gio), — 292 — Ora, poichè 4 = tg f, abbiamo 1—- 24 175 — 00628 b ipa e quindi J ) =—-t-- "x, — sen 28. \ (10') V î 57 (log 7, + cos 28. log 7r,, — sen 28. 0,,) Questa espressione può scriversi TRO Va A + ) si 25 %rK g A Pi ove J (102) Pra (cos 28. logr,, — sen 28. 0,,). Il primo termine delle (10") è il potenziale degli elettrodi, ed il secondo termine g è una funzione regolare nell’area occupata dalle lamina, giacchè i punti di infinito e di diramazione sono esterni. Il resultato conseguito può enunciarsi nei termini seguenti: Se in una lamina circolare soggetta ad un campo magnetico, le correnti entrano ed escono da elettrodi puntiformi, il potenziale si vtterrà aggiungendo a quello di ciascun elettrodo ove la intensità è J il poten- ziale di un elettrodo immagine situato nel punto reciproco di intensita Jcos 28, e quello di un vortice pure disposto nel punto reciproco di mo- J sen 28 RR 18. Esistono dunque due diversi principii delle immagini nel caso in cui la lamina è soggetta al campo magnetico, uno dei quali è relativo alla distribuzione delle correnti e quindi alla /unzione fondamentale, e l'altro al potenziale elettrico. 19. Questi stessi resultati possono ottenersi molto facilmente adoperando le funzioni di variabili complesse introdotte alla fine del $ 14. Osserviamo che se a ed a' denotano gl'indici di due punti reciproci rispetto ad un cerchio nel piano complesso < = x + 2y e £M=0 essendo le M e la m reali, sì ha che la funzione mento — (11) e X M log (2 — a) — e" ZM log(a — d') ha la parte reale costante sulla periferia del cerchio, e (11') eîm ZM log(e — a) + e" XM log(e — a’) ha costante la parte immaginaria. — 293 — Ora se denotiamo con 4 gl’indici degli elettrodi puntiformi il poten- ziale degli elettrodi è la parte reale della funzione di variabile complessa gp= —D log (e — a), 27 K quindi in virtù della (E”) la corrispondente funzione fondamentale sarà la parte reale di — eC'8 J z cos f 2rK f= log (2 — a). Tenendo conto del contorno circolare la funzione fondamentale dovrà resultare quindi, a cagione della (11’), come parte reale di ] 5 i Sri — (e BRE ip ui F Z537K tosta (e logle — a) + ef log(e— d)), e per conseguenza, per la (E"), il potenziale elettrico sarà la parte reale di @=— 35 (logle — a+ e*logle— 2), da cui resultano immediatamente le formule (9) e (10). 20. Noi abbiamo fin qui supposto che gli elettrodi puntiformi fossero interni, ammettiamo ora che vadano al contorno. Basterà nelle formule (9) e (10) supporre coincidenti i punti A e A,. ossia logra=logr,, , 0,=0,,, e perciò avremo J = v de 7 108” We DER loo 7 sen 3. 0,) = 7 (008A. ogr, — senf.0,)cosf. Ne segue che, se gli elettrodi puntiformi sono al contorno, il campo magne- tico non altera la distribuzione delle correnti, mentre altera il potenziale elettrico. 21. Se gli elettrodi sono due A e B, le formule (9) e (10) divengono U= 54 (tog(Taîn) + AL, 5) 1 mK PAT, J RA J r Va Zefa. | Loi Zu} : ) Ì 9rK log ( A RK B (log » sen? + 2,, a, c0sf ove Lig = 05 — 0, , 2,5, = 0, — 0,, sono gli angoli sotto cui si vedono dal punto generico x,y le due coppie di punti A, B e A, ,B,. — 294 — Se i due elettrodi sono al contorno, allora J rs J | TE i a 198 = M SK (così . log n — sen f.. Qua) cos f . U= 22. Allorchè gli elettrodi sono puntiformi il problema è quindi risoluto completamente nel caso in cui la lamina è circolare. Per conseguenza esso sì risolverà anche in tutti i casi in cuì l’area occupata dalla lamina sarà rappresentabile conformemente in un cerchio. 23. Consideriamo il caso in cui gli elettrodi puntiformi sono al con- torno, allora, comunque sia la forma della lamina, purchè essa sia sem- plicemente connessa, ia distribuzione delle correnti non viene alterata dall'azione del campo magnetico. Ciò dipende dal resultato ottenuto nel caso del cerchio ($S 20) e trasportato in un campo generale semplicemente connesso mediante la rappresentazione conforme, e può ricavarsi anche diret- tamente dalle condizioni a cui deve soddisfare U ($ 14). Infatti se il campo è semplicemente connesso e gli elettrodi puntiformi | QU 3 sono al contorno, U è monodromo; al contorno — = 0; inoltre, se con un arco di curva qualunque « stacchiamo la regione ove esiste l'elettrodo dalla rimanente area della lamina, deve aversi © 2U J — des= — + Je dN K° ove J è l’intensità della corrente che esce dall'elettrodo. Quindi, se la in- tensità delle correnti non vengono alterate, U non può differire dal poten- ziale elettrico nel caso in cui manchi il campo magnetico. Chiameremo questa proposizione il principio degli elettrodi puntiformi al contorno. Evidentemente se la lamina non è semplicemente connessa, la sua area non è rappresentabile conformemente nel cerchio. nè può dirsi che U deve essere monodroma, quindi le dimostrazioni date non valgono più in questo caso, e difatti la proposizione precedente in generale non è vera quando la lamina non è semplicemente connessa (cfr. $ 32). 24. Da quanto è stato trovato nel paragrafo precedente resulta che se noî conosciamo la legge della distribuzione delle correnti in una lamina qualunque semplicemente connessa non soggetta al campo magnetico, al- lorchè gli elettrodi puntiformi sono al contorno, potremo conoscere U onde, applicando le regole del $ 14, data mediante la (E°), potremo avere il potenziale elettrico nel caso in cui agisce il campo magnetico. Per esempio: se una lamina rettangolare non è soggetta al campo ma- gnetico noi sappiamo esprimere (secondo i calcoli del Betti) ('), mediante (‘) Betti. Opere, vol. II, pag. 267. — 295 — la funzione ellittica Zam, la distribuzione delle correnti allorchè gli elet- trodi sono nei punti di mezzo di due lati opposti; applicando dunque le precedenti considerazioni potremo risolvere l'analogo problema quando la lamina è soggetta ad un campo magnetico. 25. Abbiansi delle correnti di date intensità che entrano ed escono in una lamina da elettrodi puntiformi al contorno. Supponiamo di non alterare le intensità stesse allorchè si assoggetta la lamina (supposta semplicemente connessa) al campo magnetico. Se x è la funzione fondamentale prima che esista il campo e U quando esiste il campo magnetico, avremo Uto ove 0 è il rapporto delle conducibilità della lamina nei due casi, quindi per la regola (E'), indicando sempre con un apice la funzione coniugata di una funzione data armonica, u— hu' — 0 3° 1+4 V Conduciamo la rete delle linee di corrente e delle linee equipotenziali nel caso in cui manchi il campo magnetico MN e QP siano linee di corrente, e MQ e NP linee equipotenziali. Avremo Fis. 13. Un — Un = |, UV, e per conseguenza Va— Vist Vi Vi==0, donde il teorema: Allorchè gli elettrodi puntiformi sono al contorno, se st considera un quadrilatero formato da linee di corrente e di livello corrispondenti al caso in cui manchi il campo magnetico, e si determi- nano è valori del potenziale elettrico ai quattro vertici allorchè agisce il campo magnetico, la differenza dei valori in due vertici adiacenti è eguale alla differenza negli altri due. Questa proposizione che chiameremo il teorema dei quattro vertici è suscettibile di facile verifica sperimentale. — 296 — 26. Supponiamo in particolare che la lamina sia circolare, le correnti entrino ed escano dagli elettrodi puntiformi A e B al contorno. Tracciamo i cerchi che passano per A e B ed i cerchi ortogonali. Qualunque sia il Fic. 14. campo magnetico per un quadrilatero MNPQ formato con questi cerchi Va— Vit Ve—-Vi=0. 27. Il resultato enunciato nel $ 22 può notevolmente estendersi ; infatti, se si conosce la legge di distribuzione delle correnti in una lamina semplice- mente connessa non soggetta al campo magnetico allorchè la corrente entra ed esce da due elettrodi puntiformi, si sa fare la rappresentazione conforme dell’area occupata dalla lamina in un cerchio, onde si saprà determinare la distribuzione delle correnti, ed il potenziale quando le correnti entrano ed escono da elettrodi puntiformi qualsiasi e la lamina è soggetta ad un campo magnetico. 28. Varie fra le proposizioni date valgono tanto se l’area occupata dalla lamina è semplicemente connessa, quanto se è più volte connessa, altre (e lo si è dichiarato esplicitamente volta per volta) non valgono che se sì tratta d’un'area semplicemente connessa. Le formule ed i teoremi di reciprocità dati nei $$ 11, 12, 183 sussi- stono evidentemente anche nel caso in cui la lamina è più volte connessa. Solo in questo caso essì possono assumere un aspetto alquanto diverso, giacchè le porzioni del contorno ove il potenziale è costante possono essere alcune delle intere linee chiuse il cui insieme forma il contorno totale dell'area più volte connessa, occupata dalla lamina. Supponiamo la lamina o limitata da più linee chiuse s1,52,.-+, 8% 5 81, 85,57, e ammettiamo che le prime siano libere ed isolate, e le seconde siano mantenute ad un potenziale costante. Chiamereme S' l'insieme delle prime linee, ed S” l'insieme delle altre. Escluderemo per semplicità l'esi- stenza di elettrodi puntiformi. — 297 — Con il campo magnetico diretto i valori del potenziale V in s1,83...., 87m siano respettivamente C,C0,...,C e con il campo magnetico invertito i valori del potenziale V, siano C®, CP, ..., C?. Denotiamo poi con J®, J®,....J le quantità di elettricità che penetrano nell'unità di tempo nella lamina attraverso i contorni s;'.s5",...,s7 allorchè si sperimenta col campo elettrico diretto, e denotiamo con JM, J®,..., JM le quantità di elettricità che penetrano attraverso gli stessi contorni quando sì sperimenta col campo elettrico invertito. Applicando i resultati del $ 12 avremo x, JPCME= IMC. Se noi consideriamo si", 5 ,...,87 come orli di elettrodi di resistenza trascurabile le J e .J sono respettivamente le intensità delle correnti che penetrano dagli elettrodi stessi. Dalla precedente relazione si ricavano quindi evidentemente le proposizioni di reciprocità nel caso di elettrodi interni di area finita e di resistenza trascurabile. 29. Ciò premesso consideriamo il caso del campo magnetico diretto, e impieghiamo la regola (E) ($S 14) per passare dal potenziale V alla fun- zione fondamentale U. Avremo (12) U=V+4V, e se tracciamo una linea chiusa s nell'area occupata dalla lamina IV dV l (a) (8) ( Sr: SS = — (.J@ JP staine JP WEBE J ni x uaiiion dr denotando con sy , sg ,..-,55 i contorni interni alla linea s. Ne segue che la funzione V' è polidroma, i cieli di polidromia sono quelli che contengono nell'interno i contorni sy ... ed i moduli di polidromia sono ì numeri Ja : K Poichè V è monodroma (ctr. $ 2), U avrà la stessa polidromia di V' salvo che i moduli di polidromia saranno cambiati nel rapporto 4. 30. Applicando le formule (A) e (B) del $ 2 si deduce (cfr. $ 4) zJV=0, ZzIJMPCWZK | Avdo i Dall'ultima si ricava che se le J sono zero sopra alcuni dei contorni Ss e le C sono zero sopra i rimanenti s/, V deve essere nulla; e se si sa che tutte le J° sono nulle, V deve essere costante. Se ne conclude che la conoscenza delle J® determina V a meno di una costante e la conoscenzza di alcune delle J e delle rimanenti C determina completamente V. RenpIcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 38 — 298 — Supponiamo che manchino i contorni liberi ed isolati s,, e che siano note tutte le C, V sarà determinato e sarà indipendente dalla conduci- bilità K. Se invece sono note tutte le J®, V cambierà in ragione inversa delle conducibilità K. Se finalmente sono note in parte le C, ed in parte le J. V dipenderà dalla conducibilità K. Da tutto ciò segue che se ciascuna delle diverse linee che costituiscono il contorno ha un potenziale costante inalterabile, il potenziale elettrico non dipenderà dal campo magnetico, ma il campo magnetico altererà la funzione fondamentale, e quindi la distribuzione delle correnti. Ne resulta che se noi conosceremo la distribuzione delle correnti quando manca il campo magnetico, e quindi il potenziale V, mediante la formula (E) potremo calcolare l'alterazione delle correnti stesse. In modo analogo avremo resultati simili se si suppongono note ed inal- terabili le JT. Questi ultimi resultati sono in perfetto accordo con quanto aveva già riconosciuto il prof. Corbino nel caso di due contorni a potenziale inaltera- bile ('). Supponiamo in particolare che i due contorni della lamina siano due circonferenze concentriche di raggi R, e ks. Avremo allora (C° — C°) log ” + Cl log Ri — C? log Rs Viso log R, — log R» v_ (IG Reti 022) — logR, — log R» U = (CERA) TEN ann UDO. ove 7 e 0 sono le coordinate polari dei punti dell'anello circolare che co- stituisce la lamina avendo preso come origine il centro, e C è una costante. Se la corrente entra dal cerchio maggiore di raggio R,, e la sua inten- sità è I, avremo I 2rK Ve ’__I I P loc Neca ; USE (log 7 + 40). 31. I resultati del $ 29 si possono estendere. Supponiamo in generale di avere una lamina più volte connessa limitata dalle linee chiuse s1,52,..-35n- Senza fare alcuna ipotesi sni valori del potenziale lungo di esse e sul modo (1) O. M. Corbino, Azioni elettromagnetiche dovute agli ioni dei metalli deviati dalla traiettoria normale per effetto di un campo, Nuovo Cimento, ser, VI, vol. I; E. P. Adams, Some electromagnetic Effects related to the Hall Effect, Phil. Magazine, vol. XXVII, Sixth Series; E. P. Adams und A. K. Chapman, 7'%e Corbino Effect, Phil. Mag., vol. XXVIII, Sixth Series. — 299 — come sono disposti lungo di esse degli elettrodi puntiformi o lineari, deno- tiamo con Ji, Ja, ...,Jn le quantità di elettricità che nell'unità di tempo entrano nelle lamine attraverso le linee stesse. Abbiansi poi degli elettrodi puntiformi M,,M,...., Mm enterni da cui penetrano delle correnti di intensità I, ,I,,...,Im. Avremo D+) Lh= ’ 1 1 e se una linea chiusa s interna al campo racchiude nel suo interno le linee Sa , 88, +S7, e i punti M,, M,...,M, avremo ‘OE pe pagi - =] FE RO ++ +5 +L+b+- +1). Ciò prova che V' e quindi U è polidroma a meno che tutte le J,,J2,,....In, 1,12, .-,Im non siano nulle. D'onde il teorema Condizione necessaria e sufficiente affinchè la funzione fondamentale sia monodroma è che non esistano elettrodi puntiformi interni, e che la quantità totale di elettricità che entra dagli elettrodi distribuiti lungo ciascuna linea chiusa che fa parte del contorno sia nulla. Nel caso invece in cui l’area occupata dalla lamina sia semplicemente connessa, basta che non esistano elettrodi puntiformi interni perchè la funzione fondamentale sia monodroma, mentre la loro presenza la rende polidroma. 32. Diamo subito un'applicazione dei resultati ora ottenuti. Supponiamo che l’area sia più volte connessa e che tutti gli elettrodi siano puntiformi, e distribuiti lungo le linee stesse s1,58...,Sn che formano il contorno. Siano 00), 6 ,... 6% le intensità delle correnti che entrano dagli elettrodi distribuiti lungo la linea sy. La condizione necessaria e sufficiente affinchè la funzione fondamentale sia monodroma è che hp Dai =0 pile; 1 Ora se la funzione fondamentale è monodroma noi potremo, ripetendo il ragionamento fatto nel $ 23, dimostrare che il campo magnetico non altera la distribuzione delle correnti, mentre se la funzione stessa è poli- droma, avremo che l’azione del campo magnetico dovrà far cambiare la distribuzione delle correnti, giacchè quando esso non esiste la funzione fon- damentale coincide col potenziale e quindi è monodroma. Si avrà dunque il teorema seguente: Se la lamina è più volte connessa e tutti gli elettrodi sono punti- formi e distribuiti al contorno, l’azione del campo magnetico non altererà — 300 — la distribuzione delle correnti solo quando la somma delle intensità delle correnti che penetrano dagli elettrodi disposti su ciascuna linea chiusa che forma una parte del contorno sia nulla. 33. Quando la condizione precedente sia soddisfatta, e si conosca la legge della distribuzione delle correnti nella ipotesi che non agisca il campo magnetico, potremo mediante la regola (E') calcolare il potenziale corrispon- dente allorchè agisce il campo magnetico, precisamente come nel caso del campo semplicemente connesso, e quindi risolvere completamente il problema. Resta da risolverlo quando la suddetta condizione non sia soddisfatta. A tal fine denotiamo con s, la linea chiusa che forma il contorno esterno della lamina più volte connessa, con s» , $3,... sn le linee chiuse che Fi. 15. formano i contorni interni. Tracciamo una linea / che congiunga s, con sr senza incontrare altre linee del contorno, e immaginiamola sede di una forza elettromotrice 1 diretta nel senso in cui cresce l'arco s,. Supposto che la lamina non sia soggetta al campo magnetico, il potenziale elettrico gr sarà una funzione armonica regolare nel campo occupato dalla lamina stessa che avrà una discontinuità 1 lungo 4. Inoltre Iwa... =0, | Pa=1, f Pg,=0,1<9=8. dMi dNz /Sn d8h /s9g d$g n potrà ancora considerarsi come una funzione armonica finita e continua polidroma nel campo liberato dal taglio / i cui cicli di polidromia abbrac- ciano sy e il cui modulo di polidromia è —1. Le funzioni 4», @3 ,... dipen- deranno soltanto dalla forma geometrica del campo e le chiameremo i suoi potenziali ciclici elementari. Denoteremo con @y, 43, ... le loro coniugate ('). (*) I potenziali ciclici elementari si considerano nella idrodinamica classica per — 301 — Ciò premesso supponiamo tolta ogni forza elettromotrice interna nel campo, e chiamiamo W il potenziale elettrico quando le correnti entrano éd escono da elettrodi puntiformi disposti lungo le varie linee chiuse che costituiscono il contorno, V il potenziale elettrico quando agisce il campo magnetico, U la funzione fondamentale. Sia J, la somma algebrica delle intensità delle correnti che entrano ed escono dagli elettrodi distribuiti sopra s,. Se S, è una linea che abbraccia la sola sx, avremo dv n dW Î d3V' > f dW' n _ K (1) A e ’ T — K rarcue S = — K 1S n di L, dNy di DI Sh IN CR /8n dÒHh i i Sh EI da ove V' e W' sono coniugate di V e W. Ne segue (Vedi formula E) SE ASSAI ci VA E cane d dSn == | Is, IN Sn dI quindi potremo prendere 3 LE Mar DENZA 2 giacchè essa soddisfa a tutte le condizioni a cui deve verificare la U. Per avere V basta applicare la regola (E') e otterremo T o ca r Tr 1 ui W di DI, Jr P,, —a(w — K a Jn vi) V= : iene Dunque se sî conoscono i potenziali ciclici elementari dell’area più volte connessa occupata dalla lamina, potremo determinare la perturba- zione prodotta dal campo magnetico sulle correnti elettriche, qualunque esse stano, purchè entrino ed escano da elettrodi puntiformi situati al contorno. Le due formole precedenti ci esprimono il principio degli elettrodi puntiformi al contorno modificato nel caso delle lamine più volte connesse (cfr. $S 23). ottenere ì moti non vorticosi di un fluido in uno spazio più volte connesso limitato da pareti rigide. Essi corrispondono nella teoria della elasticità alle distorsioni. Se si cono- scono le funzioni regolari armoniche wy , Wg , ... n tali che w, si annulla sulle s1,... sn eccet- tuata s, ove ha il valore 1, potremo ottenere (combinandole linearmente con coefficienti costanti) le g', e quindi potremo ricavarne le gr. La conoscenza delle 7 o delle w, è quindi analiticamente equivalente. — 302 — 34. Consideriamo il caso particolare in cui la lamina sia un anello limitato da due cerchi concentrici. ep Fia. 16. In questo caso il potenziale ciclico elementare è og 0 è l’an- IT golo che il raggio vettore spiccato dal centro forma con una direzione fissa Fi. 17. gita : . logr peut 72 la cui funzione coniugata è or Quindi le formule precedenti divengono | W 4. Ja logr — 4 W+ ì 0) a — a le 2W+ 37 = Io. Vor OE - 2nK 142? \ Se i due cerchi non sono concentrici presi i punti A e A, immagini l'uno dell'altro per rapporto ai due cerchi contemporaneamente, il potenziale — 303 — o) a 6 SR: ciclico elementare sarà —— ove 6 è il supplemento dell'angolo sotto cuì Cei dal punto generico B della lamina si vede il segmento AA,. La funzione coniugata sarà È log SII sara 77 È 3 2rr È A, B Matematica. — Sulle superficie isoterme come superficie di rotolamento. Nota del Socio LuiGir BIANCHI. In due Note pubblicate l’anno scorso nei Rendiconti di questa R. Acca- demia (*) mi sono occupato di due problemi fondamentali che concernono il rotolamento di superficie applicabili nello spazio euclideo, o, più in gene- rale, negli spazî di curvatura costante. Un punto invariabilmente legato alla superficie rotolante descrive una superficie che diciamo superficie di rotolamento; similmente, un piano tra- scinato nel rotolamento inviluppa una superficie che diciamo 7nv2/uppo di rotolamento. Secondo i risultati stabiliti in quelle due Note, qualunque superficie Y può generarsi infinite volte, sia come superficie, sia come invi- luppo di rotolamento; e ciascuna volta la ricerca delle infinite coppie cor- rispondenti di superficie applicabili dipende da un'equazione a derivate parziali del secondo ordine, ad ogni soluzione di questa corrispondendo una tale coppia di superficie applicabili. La presente Nota ha per iscopo di stabilire che, se la superficie data X è isoterma (a linee di curvatura isoterme), si possono trovare co* genera- zioni della superficie come superficie di rotolamento, integrando il sistema di equazioni differenziali ordinarie che traduce analiticamente le trasforma- zioni Dm di Darboux delle generali superficie isoterme (*). Per tal modo le trasformazioni Dm vengono ad acquistare un nuovo significato per la teoria del rotolamento, ad ogni tale trasformazione di una superficie isoterma 2 corrispondendo una generazione della X come superficie di rotolamento. Una delle due superficie applicabili, quella d'appoggio, è data dalla superficie $, luogo dei centri del corrispondente inviluppo conforme di sfere; la superficie (') 1) Sui problemi di rotolamento di superficie applicabili (seduta del 4 gen- naio 1914); 2) Sul rotolamento di superficie applicabili, in geometria ellittica ed iper- bolica (seduta del 15 febbraio 1914). Verranno qui citate come Nota 1), Nota 2). (?) Cfr. Darboux, Sur la déformation des surfaces du second degré, et sur les sur- faces isothermiques [Annales de l'École normale supérieure, III série, tom. XVI (1899)]. Ved. anche le mie due Memorie: a) Ricerche sulle superficie isoterme e sulla deformazione delle quadriche [Annali di matematica, serie 82, tom. XI (1905)]; è) Com- plementi alle ricerche sulle superficie isoterme [ibid., tom. XII (1905)]. Qui saranno citate come Memorie a) e 2). — 304 — rotolante S, è già intrinsecamente definita dalla proprietà: che il sistema co- niugato comune alla S, ed alla S è quello corrispondente alle linee di curva- tura di X, e la sua determinazione effettiva discende da quella trasforma- zione T,, delle superficie isoterme che ho introdotto nella Memoria è), come associata alla D, di Darboux. Nel caso particolare che la superficie isoterma X, insieme con la sua tras- formata X,, abbia la curvatura media costante (o nulla), la superficie roto- lante S, è una quadrica rotonda, ed il punto satellite un suo fuoco princi- pale. Si ritrovano così nuovamente i risultati che provengono dalla inver- sione dei teoremi di Guichard sulle deformate delle quadriche di rotazione (*). Le generazioni, qui considerate. delle superficie isoterme generali come super- ficie di rotolamento, ne costituiscono la naturale estensione; solo resta da trattare più da vicino lo studio delle corrispondenti coppie di superficie applicabili, ciò che mi propongo di fare in seguito. In una prossima seconda Nota dimostrerò che per le superficie arap- presentazione isoterma delle linee di curvatura, considerate quali inviluppi di rotolamento, sussistono proprietà analoghe ed in certo modo duali di quelle qui stabilite per le superficie isoterme. 2. Premettiamo alcune osservazioni generali su quegli inviluppi di co? sfere (della teoria dei sistemi ciclici) sulle cui due falde 2,3, si corri- spondono le linee di curvatura; ed osserviamo in primo luogo che: Sulla superficie S, luogo dei centri delle sfere, alle linee di curva- tura delle due falde X,Z,, corrisponde un sistema coniugato. Infatti le normali alla prima falda X, dopo riflessione sopra S, si can- giano nelle normali di X, (?); e poichè le sviluppabili delle due congruenze di normali si corrispondono per ipotesi, esse tagliano, secondo un teorema di Dupin, in un sistema coniugato la superficie riflettente S. Viceversa, pel teorema stesso di Dupin, se le normali di 2 tagliano una superficie S in guisa che alle linee di curvatura di 2 corrisponda sopra S un sistema coniugato, le sviluppabili della congruenza di normali si conser- vano per riflessione, e quindi la superficie S è il luogo dei centri di 00° sfere, di cui ® è una prima falda dell’inviluppo, e la seconda, 2, corrisponde a X per linee di curvatura. Esprimiamo ora analiticamente la condizione cui deve soddisfare il segmento R di normale a X, intercetto fra X ed S, affinchè alle linee di curvatura di XY corrisponda sopra S un sistema coniugato. Riferita la superficie 2 alle sue linee di curvatura (vv), e mantenendo le consuete notazioni, ricordiamo le equazioni fondamentali : (1) Cfr. la mia Memoria: Sulle trasformazioni delle superficie a curvatura costante [Annali di matematica, 32 serie, tom. III (1899)]. (*) Cfr. le mie Lezioni, vol. II, $ 2535. — 305 — I = 1 3VE /E L ZE, eo 1 WB, _ WE, dU dU VG dvU UE IX »” 1_3I E x, IX Si E Di dU pG dv dU Pa (1) c; Se 4 Leno da LA ALST dU dv VE dw dA: 1 3VG y/G QX VG x = — —- i XK = — \ dv VE du n, dVU ri e le due equazioni di Codazzi d (Le) _13yG e) (18) _193yE. du Tal Po dU ’ dv rg TY, dU (2) Essendo ora M=(«,v) un punto variabile sopra Z, ed M, il punto ove la normale in M incontra X, poniamo MMi=R=Rz0); ‘e, per le coordinate #0, %0, 50 di M, avremo (3) do RX, yy Ri, e Z| Ra. Derivando colle (1), e ponendo (4) hi = NE(1+5%) h=1G(1+). otteniamo dito _ IR: | ail O Ma o ò ° |emnx tx, indi, per l'elemento lineare ds, della $, (6) ds = Edu? + 2F,dudv + Gdo, dove (6) L= +(3e) nati q= n+ (35) î RenpIcoNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 39 — 306 — Dalle (5) i coseni di direzione X, Yo, Zo della normale alla S risul- tano proporzionali alle espressioni ed alle due analoghe. D'altra parte, una nuova derivazione delle (5) dà CER I dv dv n: du dv Xs, ed ora esprimiamo che il sistema (v,v) è coniugato sopra $, scrivendo che si ha Per le formole ora scritte, la condizione richiesta si traduce nella equa- zione per R: (7) dR 1% 9d3R, 1 dUI: ?3R dU dI hai dd Uni mad 3. È importante di osservare, pel nostro scopo, che questa condizione (7), introducendo in calcolo i coefficienti E, Fo, G, dell'elemento lineare di S, si può scrivere sotto la forma equivalente A) 2d°R __(12) 3R, (12) 3R U uv (1h5 2 (2h dv od anche, brevemente, (A*) Ris = (12) (12) i simboli di Christoffel , 0 la derivata seconda covariante R,s, (1902) intendendosi presi rispetto alla forma differenziale (6). Che la (A) equivalga alla (7), si vede scrivendo i valori effettivi: dE PIA do db G — E Btci CORE de I: RI: to dv (LI EoG, — Fi Tae La SITE E, Go — Fî i poichè, ponendo per nn momento dR_ 2R DERAME : e e — 307 — dalle (6*) abbiamo . EG, — Fr= hp + ng + ht 2 2 _2 dh _ ) dha (12) AI )h dv PI ha du (e ra h3 p° + hîq* + hî hì , 2 n) eh (12) Ki qs + (h4- p ) ha du Pq hi dv (2h pepe e, conseguentemente, s_ 612) ha hî Hi ( 1 dd 1 de ) (00 (ahi in + ag PRI hi ww hh UU 1 Ne risulta appunto che la (A) equivale alla (7). 4. Dalle osservazioni precedenti deduciamo una proprietà relativa alle deformazioni per flessione della superficie S che supponiamo trasporti ‘seco, invariabilmente legati, i segmenti M, M normali, negli estremi M, alla super- ficie Y. Supponiamo che esista una deformata S, della S, tale che nella configurazione S, gli estremi M dei detti segmenti si riuniscano in un solo punto 0; e dimostriamo che allora: // sistema coniugato (u,v) di S, cor- rispondente alle linee di curvatura di X, si conserva coniugato sulla deformata Se. Per dimostrarlo, calcoliamo i coefficienti Dj, Di, DJ della seconda forma fondamentale della Ss, che ha la stessa prima forma fondamentale (6) della S. Siccome, per ipotesi, R è la distanza di un punto variabile sopra So da un punto fisso O, se poniamo 1 (8) e=3P°, dalle formole relative ai parametri differenziali, calcolate al $ 46, vol. I, delle mie Lezioni, risulta rie | pere A RI n V2e— A2 V20 — 40 120 — 10 le derivate seconde covarianti 0,1, 012,023 edil parametro differenziale 4,0 essendo calcolati rispetto alla forma differenziale (6). Osservando la posi- zione (8) e le formole (6*), le precedenti si mutano subito nelle altre RBachk pr Ris pr RBe hi seen, ta pe 9) D — Ai WEAR — 308 — Ma, essendo soddisfatta la (A), ossia la (A*), ne risulta Di=0, cioè il sistema (w,v) è coniugato anche su S,, c. d. d. Se ora si osserva che, nelle nostre ipotesi, quando la superficie S, rotola sull'applicabile S, il punto O satellite di S, descrive la superficie X, pos- siamo enunciare sotto la seguente forma il risultato ottenuto : Se alle linee di curvatura di una superficie di rotolamento ® cor- risponde un sistema coniugato sulla superficie S d'appoggio, questo è il sistema coniugato comune alla superficie rotolante S; . 5. Nella Nota 1) ho dimostrato che, per trovare le generazioni di una data superficie X come superficie di rotolamento, basta riportare sulle sue normali un segmento variabile R che soddisfi ad una certa equazione del 2° ordine, la quale, supposta riferita la > alle sue linee di curvatura « ,v, assume la forma (I) del n. 3 della Nota 1). Nelle notazioni attuali questa equazione sì scrive: è (VG aR\) | è (PEN ai ai Sh) dv (i dj i: Ne pe ul R (e * ti (1) ed ogni sua-soluzione R fornisce, nella superficie S luogo degli estremi dei segmenti R di normali a X, la superficie d'appoggio in una corrispondente soluzione del problema di rotolamento. Per venire all'oggetto proprio della presente Nota, supponiamo che la superficie data 2 sia isoterma; in tal caso si vedrà che la (I) ammette soluzioni comuni dipendenti da quattro costanti arbitrarie coll'altra equa- zione del 2° ordine (7), ossia >*R 1 da, OR du dv hi dv Ww 19h dR ha du dU (1) + L) la quale esprime (n. 2) che il sistema (x,v) è coniugato sulla superficie S d'appoggio. E si osservi che, non presentando il sistema delle equazioni si- multanee (I) (II) il caso d’involuzione, il numero di quattro costanti è ap- punto il massimo possibile che può aversi per le soluzioni comuni a due equazioni simultanee del 2° ordine (*). La ricerca di queste 00‘ soluzioni, comuni alle equazioni (1) (II) per una superficie isoterma, si identifica colla integrazione del sistema differen- ziale ordinario, lineare in cinque funzioni incognite, che il Darboux ha dato nella citata Memoria sulle trasformazioni Dm delle superficie isoterme. Ab- breviamo la ricerca partendo dal sistema di Darboux ed interpretandolo sotto il nuovo punto di vista. i (1) Cfr. Goursat, Legons sur les équations aux dérivées partielles du second ordre. Tome II, chap. VI, n. 21. — 309 — 6. Essendo isoterma la superficie X, introduciamo parametri isometrici U,U, e poniamo, in conseguenza, VE=VG=@. Il corrispondente sistema di Darboux nelle cinque funzioni incognite A,U,W,0,, Sì scrive: my) 909 ed 6 li) LE ene] meo Me p | dU dv Hi ra t T È | du __ 3 | du dU 30 ue 9] dU Pa edi = e84 dU DI . o = e8à 4 | du (D) DA PL e = = dv du | du 30 ed 1 -—_——_T—_.i—- —w mero — med dv du Ia + 3 dw eb == == — u dv (Pai | | OP air — e du do | —— = — ed uu g dv dove m è una costante arbitraria (non nulla). Il sistema (D) è completa- mente integrabile e possiede l'integrale quadratico : A° + u° + w° — 2mgo = cost. Per ottenere una trasformazione Dm di Darboux, occorre scegliere i valori iniziali (arbitrarii) delle cinque funzioni incognite, in guisa che la costante nel secondo membro della equazione ora scritta sia nulla, e sia quindi (D*) 4 + u° + w° = 2mgo . Dopo ciò, se si riporta sulle normali di X un segmento R=—È s la superficie S, luogo degli estremi, è il luogo dei centri di un inviluppo — 310 — (conforme) di sfere di raggio = R, di cui la prima falda è la superficie SX, e l’altra 2, è una seconda superficie isoterma che corrisponde a 2 per con- servazione degli angoli e delle linee di curvatura. Da quest’ ultima circostanza segue (n. 2) che il sistema (vv) è coniugato sopra S: cioè R= 94008 w disfa alla (II), come del resto è facile di verificare. Ma noi ora proveremo che, nel tempo stesso, questo valore R= — £ vw soddisfa anche a la (I), e per ciò la S è superficie d’appoggio in una genera- zione della superficie X come superficie di rotolamento. Per compiere queste verifiche, sì osservi che qui le (4) diventano n=@(1— sa i h=@(1— DI WwT, WT 3 e formando colle (D) di Darboux le derivate di R=—-£ w sì trova R VI R DR i e 5 DAR A du II) dV wu La equazione (I) da verificarsi resta quindi d si) I (04) Ci (1 DI ui Tar g E” tr O e, eseguendo le derivazioni a sinistra mediante la (D) stessa, vediamo che questa si cangia precisamente nella (D*) ed è quindi verificata. 7. Le proprietà ora riscontrate nelle trasformazioni Dm di Darboux, combinate coi risultati dei numeri precedenti, possono formularsi geometri- camente così: Si consideri un inviluppo conforme di sfere, le cui due falde XX, sono due superficie isoterme in trasformazione D,m di Darboux, e la super- ficie S luogo dei centri delle sfere, flessibile ed inestendibile, trasporti seco nelle sue flessioni i segmenti M M, di normali intercetti fra X ed S. Esiste una deformata S, della S, per la quale i termini dei segmenti, prima distri- buiti sopra XY, vengono a riunirsi in un punto O, e la deformazione è quella che conserva coniugato il sistema (u,v) della S corrispondente alle linee di curvatura di Z, X,. Facendo rotolare S, sopra S, il punto satellite O descrive la superficie isoterma X. — 811 — Si vede, adunque, che ad ogni trasformazione D, di Darboux di una superficie isoterma X corrisponde una generazione di questa 2 come super- ficie di rotolamento, la superficie d'appoggio S essendo il luogo dei centri delle sfere dell’inviluppo conforme. Quanto alla superficie rotolante, essa è già intrinsecamente definita dalla sua seconda forma fondamentale, colle (9) n. 4, e la sua determinazione effettiva si ha colla integrazione di una equa- zione di Riccati. Per quanto è dimostrato nella Nota 1) al n. 8, la que- stione si riconduce all'altra di ridurre a forma normale del ds'? della sfera la forma differenziale quadratica AIR 9 2 (10) ds': = e88 (- Da: 2) du? + 220 (—- So a dv, che ha appunto la curvatura K = + 1. Ma si può ad essa dare un’altra inter- pretazione geometrica, secondo i risultati della Memoria bd), in quanto essa equi- vale alla ricerca di un'altra superficie isoterma >, trasformata della X per la trasformazione T, associata alla D, di Darboux. E infatti questa nuova superficie isoterma X ha l'elemento lineare hp da (du? + dv?) y° e le curvature principali onde appunto il suo 4s'* sferico rappresentativo è quello dato dalla (10). 8. Da ultimo dimostriamo che i risultati qui ottenuti per le superficie isoterme nello spazio euclideo si trasportano inalterati al caso degli spazii a curvatura costante. Nella Memoria /) ho dimostrato che le trasformazioni Dm di Darboux per le superficie isoterme 2 nello spazio di curvatura costante K; (positiva o negativa) dipendono da un sistema differenziale, affatto analogo al si- stema (D) n. 6, nel quale sono solo da introdursi due modificazioni : A A O 1°) Nei secondi membri delle formole per A d deve togliersi il termine K, e’, lasciando le altre formole inalterate; così: QU À (11) tento — do (+ 7) 2-3 1 —2K;e0g. ro} du vl dIsS dU dU 2°) L'integrale quadratico diventa, ora, 4° 4 u° + 2° + Kg? — 2mygo = cost, — 312 — e per ottenere una trasformazione D,,, deve farsi nulla la costante nel se- condo membro, onde si avrà : (12) 2° 4 u° + w0° + K,g° = 2mgo . Per dimostrare che anche qui ad ogni trasformazione D, corrisponde una generazione della superficie isoterma X come superficie di rotolamento, la superficie S luogo dei centri essendo superficie d'appoggio, basta provare. secondo la Nota 2) (n. 2), che il ds?, dato da SO / .\2 dst = ed (S E 2) dui + e28 dh Cad 2) dv? Pa (17 Pa P, ha la curvatura = +1. Posto, adunque, (13) Hi (7-2) , He (1-2) . si deve verificare che si ha RUNE Di d (1 Sn) Si Cha) Za dw no; E dw o Se deriviamo le (13), osservando le (D) e le formole di Codazzi 2 (£)=£ 20 2(£)- e O du let re du doNsal no otteniamo e 1 du dU P | ?2H, — n. (pal) . I, dV dv p per cui la (14) diventa 20 d°0 À (5) TE4 i (at) _d(elil du? — du g e ir (1 l w° ì nea e )+eto. PI Po Se eseguiamo a sinistra le derivazioni colle formole (D), ponendo mente alla (11), ed all'equazione di Gauss per lo spazio curvo. d°0 dv 920 ed " 3a 1 asa to si vede che la (15) si riduce all'identità (12), e trovasi perciò verificata. — 313 — Mineralogia. — Due minerali di Baveno contenenti terre rare: weibyeite e bazzite. Nota del Corrispondente E. ARTINI. Già da qualche tempo l'ing. E. Bazzi, assiduo ed acuto osservatore dei minerali del granito di Baveno, richiamò la mia attenzione sopra alcuni esem- plari da lui raccolti in quella classica località. Avendo egli avuto la grande cortesia di offrirmi per lo studio tale interessante materiale, posso ora render noti i risultati delle mie ricerche, non senza profittare della occasione per presentare pubblicamente all'egregio amico i più vivi e cordiali ringrazia- menti. Un primo risultato di queste ricerche è la constatazione della presenza della we:bdyeite fra i minerali di Baveno. Si tratta di cristallini bipirami- dali, rombici, della dimensione massima di 0,3 mm., impiantati ordinaria- mente sul quarzo. Le facce ne sono brillanti, ma curve; il colore è giallo- gnolo, come si riconosce bene dove il minerale giace sopra una matrice chiara, mentre appare bruniccio, fino a rosso bruno, dove i cristallini riposano su quarzo incrostato da pulviscolo ematitico. A tale patina ematitica, interposta fra il quarzo e la weibyeite, si deve anzi se i cristallini di questa, non ostante la loro esiguità, possono essere staccati senza rottura. Al microscopio di polarizzazione si constata che il minerale è biritran- gente, biassico; la birifrazione è fortissima; le direzioni di estinzione coin- cidono sempre con le diagonali delle sezioni rombe. Posti sovra un portoggetti, e bagnati con una goccia di HC], i cristal- lini si sciolgono subito, facilmente e completamente, con viva effervescenza. La soluzione, liberata per evaporazione dalla maggior parte dell’acido in eccesso, e diluita con una goccia d'acqua, dà, con l'aggiunta di un granu- letto di acido ossalico, la ben nota reazione del cerio, nella maniera più nitida e sicura. Salvo il ferro, la cui origine è facile a riconoscere, nessuna traccia di altri metalli potei constatare, quantunque abbia a tale scopo sacri- ficato varî dei non molti cristallini disponibili. Quanto alla identificazione specifica del minerale, tra i carbonati di cerio noti finora era da escludersi subito, per le proprietà morfologiche ed ottiche, la parisite, già trovata da Tacconi a Montorfano ('). Restavano la weibyeite di Brògger (*) e la ancilite di Flink (*), rombiche entrambe. Ma (1) E. Tacconi, Ulteriori osservazioni sopra i minerali del granito di Montorfano. Rendic. della R. Acc. dei Lincei, vol. XIV, serie 52, fasc. 2°, an. 1905. (:) W. C. Brogger, Die Mineralien der Syenitpegmatitginge der Siidnorwegischen Augit-und Nephelinsyenite. Zeitschr. f. Kryst. XVI, 1890, pag. 650. (*) G. Flink, On the minerals from Narsarsuk on the firth of Tunugliarfik in Southern Greenland. Meddelelser om Gronland, 1899, XXIV, pag. 49 dell’estratto. RenpIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 40 — 314 — quest'ultima ha sviluppo pseudopiramidale, per combinazione di due prismi rombici, come bene si rileva anche dalla fig. 3, tav. III, del Flink, mentre nel nostro minerale, come in quello di Brògger, l'abito è veramente bipira- midale rombico, e le estinzioni diagonali. Il dubbio, quindi, più non era pos- sibile; ma per maggiore sicurezza della determinazione volli teutar di por- tare al goniometro il più bello dei cristallini da me staccati. Non senza pena potei misurare, sopra due spigoli omologhi, l'angolo (111) . (111), otte- nendo valori di 94°.40' e 96°.20' (media 95°.30'), abbastanza ben corrispon- denti al valore dato da Brògger, di 95°.59'. Una sol volta invece, al bagliore incerto delle faccette, curve e striate, potei misurare lo spigolo (111). (111), trovando un valore di circa 54°, che ricorda non troppo da lontano quello dato da Brògger, di 560.44. La grande rarità del materiale, e la estrema piccolezza dei cristalli mi impedirono ulteriori ricerche; potei solo osservare che il minerale va a fondo nella soluzione di Thoulet concentrata, di d = 3.19. Io però credo che quanto sopra esposi giustifichi il riferimento dei nostri cristallini alla weibyeite. Anche nelle druse pegmatitiche del granito di Baveno, come in quelle di Montorfano, si trovano dunque, benchè in quantità estremamente scarsa, car- bonati di terre rare. Ma assai maggiore importanza mi sembra presentare un’altra specie, tra quelle di Baveno dall'ing. Bazzi notate come critiche e singolari. Si tratta di un minerale che si presenta esso pure assai raramente — fu anzi osservato solo nei frammenti di una unica grande geode — in forma di fascetti prismatici di un bellissimo colore azzurro chiaro, impiantati, con molta musco- vite secondaria incrostante a piccole rosette, poca laumontite, e albite in nitidi cristallini limpidi e incolori, su cristalli di quarzo ed ortoclasio roseo. Lo studio morfologico e ottico fu agevole cosa, trattandosi di prismetti che possono raggiungere anche, in qualche esemplare, due mm. di lunghezza, per qualche decimo di mm. di spessore. I prismi sono esagonali, un poco assottigliati verso l'estremità, che è troncata da una nitida faccetta di base; quando sono fascicolati, all'estremità libera si suddividono in varî sottilis- simi, ma nitidi subindividui; talora tendono ad assumere quella forma a bariletto che è tanto caratteristica per i minerali del gruppo della piromorfite. Non si osserva sfaldatura distinta; ma è facile, rompendo trasversal- mente uno dei cristallini, ottenere un moncone giacente sulla base. Si può così constatare, mediante la figura di interferenza, che il minerale è unias- sico, con carattere ottico negativo; la figura uniassica si presenta nitida, senza deformazioni od anomalie sensibili. La lucentezza è vitrea; la traspa- renza quasi perfetta neì minori individui. La birifrazione è energica ; il po- tere rifrangente forte, all'incirca come nella tormalina; gli strati successivi presentano qualche diversità rispetto alla intensità della colorazione, alla birifrazione e al potere rifrangente. Con miscele di monobromonaftalina e — 315 — olio di vaselina potei determinare con sufficiente esattezza (0,001) gli indici principali di rifrazione, mediante l'osservazione della linea di Becke. Ottenni: per il nucleo interno s—1,008w'—11,620; per la zona più esterna e = 1,602; @= 1,623; valori tutti riferiti, si intende, alla luce di sodio. Il pleocroismo è bellissimo; e precisamente sì ha: e= azzurro-cielo intenso; o= giallo verdognolo, estremamente pallido, quasi incolore. L’assorbimento è dunque inverso di quello, ben noto, della tormalina. Il p. sp. determinato con la soluzione di Thoulet, sopra alcuni fram- menti purissimi, fu trovato = 2,80. La-durezza è=6./,. Al cannello il minerale diventa scuro, opaco, lucido di smalto alla superficie, ma non fonde. La reazione del Bo, eseguita tre volte di seguito, con ogni cura, alla fiamma, alternando con prove di confronto su eguali quan- tità di tormalina, riuscì costantemente e assolutamente negativa. Dagli acidi forti, salvo il fluoridrico, il minerale è affatto inattacca- bile. Fuso con bisolfato potassico, viene scomposto con molta difficoltà; la soluzione solforica, saggiata con Hs0,, non dà traccia della reazione, tanto sensibile, del TiO,. Da HFI fumante, freddo, sopra un portaggetti difeso con balsamo ben cotto, il nostro minerale è abbastanza rapidamente attaccato; dopo lenta eva- porazione, si nota la formazione di pochissimi nitidi cristalli esagonali di fluosilicato sodico; si intende bene che il balsamo è intatto, e il vetro non attaccato. Polverizzato e fuso con carbonato sodico secco, il minerale si disag- grega facilmente; riprendendo con HCl secondo il notissimo metodo, si può riconoscere con sicurezza la presenza di Si 0, come componente essenziale. Il soluto, filtrato, precipita abbondantemente con NH3; questo precipitato, fioccoso, giallognolo per Fe, lavato, si ridiscioglie facilmente e completa- mente in HCl diluito, freddo. La più accurata ricerca, anche microchimica, di Al e Be, da me prima sospettati presenti, riuscì sempre assolutamente negativa. Notai invece la presenza di sensibile quantità di Fe, e sopra tutto la formazione di un precipitato relativamente abbondante, bianco, prima fioccoso, che poi diventa cristallino, determinato dalla aggiunta di acido ossalico alla soluzione cloridrica sensibilmente acida. Constatata così la presenza di notevole quantità di terre rare, non essendo la massa del minerale disponibile sufficiente ad una separazione — 316 — completa e sistematica, eseguii una serie di prove microchimiche, sussidiate da numerosissimi saggi di confronto sui composti delle diverse terre rare più importanti, e relative miscele. Nel corso di tali prove giunsi alla persua- sione che il reattivo microchimico il quale determina la formazione di pro- dotti più distinti e caratteristici, e permette le più sicure conclusioni, è an- cora l'acido ossalico. Una goccia della soluzione cloridrica del precipitato ottenuto con NH;, leggermente acida, con l'aggiunta di un granuletto di C,0,H», lascia prima riconoscere la formazione di aghetti sottili, con viva biritrazione ed estin- Fia. 1. Fis. 2. zione positiva parallela all'allungamento, riuniti in croci rettangole, o in gruppi stellati a sei raggi, o in ciuffetti raggiati più complessi; l'aspetto e i caratteri di questo prodotto di reazione son proprio gli stessi degli ossa- lati dei metalli appartenenti al gruppo del cerio. Ma più abbondante e caratteristico è un altro prodotto, che si forma poco dopo, in cristallini più grossi assai, e meglio distinti, evidentemente perchè il composto è relativamente più solubile. Si tratta di laminette rombe, nitidissime, con angolo di circa 44°; la birifrazione ne è vivissima; la di- rezione di estinzione otticamente positiva fa un angolo di 11° !/, con uno dei lati, nell'angolo acuto del contorno rombico (fig. 1). Quando la sostanza sia più abbondante, e la goccia di soluzione, molto diluita, si lasci concen- trare assai lentamente, si possono avere cristallini più grossetti, del tipo di quelli della fig. 2. Questi sono ancora tabulari; la larga faccia su cui ri- posano è tagliata, oltre che da due facce di un pinacoide quasi normale ad essa (lati lunghi) e dalle due facce di un altro pinacoide ad essa molto obliquo (lati medî, che fanno 44° coi primi), anche dalle due facce, pure — 917 — molto oblique, di un terzo pinacoide, le cui tracce (lati corti) troncano non simmetricamente l’angolo acuto della sezione romba formata dai pre- cedenti; gli angoli esterni del contorno esagono sono, come sì può rilevare dalla figura, di 44°, 59° !/, e 76° !/.. L'obliquità dei pinacoidi, visibile nettamente e costantemente (cfr. fivwura 2), basta a stabilire che i cristalli sono triclini, e non monoclini gia- centi su (010), come si poteva sospettare dalla ispezione superficiale delle laminette più semplici e più sottili; in tutte, del resto, si può riconoscere che dalla larga faccia su cui riposano esce una bisettrice dell'angolo degli A. O., con sensibile e costante, per quanto non grande, obliquità. Qualche volta queste laminette si riuniscono a gruppetti raggiati o stellati, di pochi individui. Più tardi ancora, ai margini del preparato, con la quasi completa evaporazione del solvente, insieme coi cristalli di acido ossalico in eccesso, si nota la formazione di piccolissimi ma nitidissimi rombododecaedri, per- fettamente incolori ed isotropi. Tre volte ho proceduto alla disaggregazione di piccole quantità di ma- teriale puro, non ostante la difficoltà di ottenerlo; e tutte e tre le volte ot- tenni gli stessi risultati, con nitidezza e precisione mirabili. Ma con ciò non ero avanzato di molto, perchè non sapevo a quale ele- mento raro poter attribuire la formazione di così distinti prodotti. Invano avevo sperimentato ripetute volte con acido ossalico sui composti di cerio, lantanio, neodimio, praseodimio, ittrio, erbio, itterbio. zirconio e torio, e loro miscele; mai ero riuscito a ottenere qualche cosa di pur lontanamente simile. Restava da provare lo scandio, al quale, per vero dire, mi facean pensare insistentemente, oltre alla diffusione di tale elemento nei graniti, dimostrata dai recenti lavori spettrografici di Eberhard (*), sopra tutto il peso specifico, relativamente assai basso, del minerale in questione. Non essendo tuttavia riuscito a procurarmi, nè presso colleghi, nè presso i principali negozianti di prodotti chimici da me interpellati, una piccola quantità di un composto di scandio puro, mi decisi a rivolgermi al prof. R. J. Meyer di Berlino, ben noto per numerosi lavori sulle terre rare, e in modo particolare per il suo metodo di separazione dello scandio dagli altri ele- menti rari, e per le ricerche sue e dei suoi allievi sopra i composti di questo rarissimo elemento (*). Il prof. Meyer, con gentilezza veramente squisita, della quale gli resterò perennemente e profondamente grato, mi (') G. Eberhard, Veber die weite Verbreitung des Scandium auf der Erde, I Sitzb. d. K. preuss. Akad. d. Wiss., an. 1908, XXXVIII, pag. 851; II ibid., an. 1910, XXII, pag. 404. (3) Ved. riass. tali ricerche nella recente Memoria sintetica: R. J. Meyer, Veder das Skandium. Zusammenfassende Mitteilung iiber Vorkommen, Darstellung und Chemie des Skandiums. Zeit. fir anorg. Chemie, 86, an. 1914, pag. 257 — 318 — mandò subito in dono una notevole quantità di cloruro di scandio puro, di sua preparazione. Con questo prezioso prodotto mi fu agevole di persuadermi che il mio sospetto era fondato: il minerale azzurro del granito di Baveno è realmente un composto di scandio. Infatti, le soluzioni diluitissime di SeCl; . 6H,0, leggermente acide per HCI, saggiate con qualche granulo di acido ossalico, lasciarono sempre riconoscere la formazione di bei cristallini tabulari, a contorno rombico od esagonale, assolutamente identici, per valori angolari e per orientazione ot- tica, a quelli osservati nella soluzione cloridrica del precipitato del gruppo NH; ottenuto dal minerale in questione. Nè basta: ai margini del prepa- rato, dopo evaporazione quasi totale, insieme coi cristalli di acido ossalico in eccesso, mi fu agevole di riconoscere anche nei preparati di puro scandio quei piccoli rombododecaedri, così nitidi e così problematici, da me osser- vati nei primi miei preparati. Restava da vedersi a che cosa essi potessero attribuirsi; dovendo le lamine rombe riferirsi all'ossalato di scandio Sc» (C»0,)3.5Hs O già descritto dal prof. R. J. Meyer (« Entholt die Losung viel Scure, so bildet sie sich erst allmihlich in Form schòn iristerender Blittchen », loc. cit., pag. 284), e non essendo verosimile una così sensibile impurità, comune al mio minerale e al prodotto inviatomi da questo scienziato, mi parve pro- babile che si trattasse di un sale acido, più solubile, e stabile solamente in presenza di un grande eccesso di C04H,. Numerose prove microchi- miche eseguite sopra soluzioni diluitissime di cloruro di Sc, acide per HCI, con aggiunta di quantità gradatamente crescenti di acido ossalico, mi per- misero infatti di riconoscere che, quando l’acido ossalico è scarso, si formano solo ed esclusivamente le tavolette rombe; se l’acido ossalico è in eccesso, ai margini della goccia, dove con la evaporazione si formano i cristalli del- l'acido libero, si ha anche sempre formazione di rombododecaedri. Qualora l'eccesso di C,0,H> sia fortissimo, questi ultimi si formano anche nel bel mezzo del preparato, ma sempre da ultimi. Il composto prevalente è dunque dato dalle tavolette rombe od esagone sopra descritte; queste non mancano mai, e formano veramente il prodotto caratteristico della reazione microchi- mica dello scandio: prodotto che permette di differenziare questo metallo, senza esitazione, da tutti gli altri delle terre rare da me esaminate, e di riconoscerlo anche nelle miscele. Le dimensioni dei rombododecaedri sono anche notevolmente minori di quelle delle tavolette rombe; in queste la dimensione massima può age- volmente raggiungere mezzo millimetro, mentre i rombododecaedri raramente raggiungono 0,05 mm., e per lo più stanno fra 0,02 e 0,03 mm. Che si tratti di un sale acido, mi par certo; anche perchè tali rombododecaedrini, isolati, separandoli dall’eccesso di acido ossalico libero, e bagnati con pochissima acqua, sì scompongono e si intorbidano; con più acqua si sciolgono, ma la — 319 — soluzione evaporata non ridà i cristalli primitivi, bensì piccole tavolette rombe. Queste ultime invece, riprese con acqua fino a dissoluzione, sì rifor- mano inalterate con la evaporazione. Da quanto sono venuto esponendo risulta, parmi, che il minerale az- zurro di Baveno è un silicato di scandio, con altri metalli di terre rare (cerio ?), ferro e poco sodio. Si tratta evidentemente di una specie nuova, importante sopra tutto perchè questo sembra finora essere l'unico minerale nel quale lo scandio sia un componente essenziale (com'è noto, dalle ul- time osservazioni di Eberhard risulta che ciò non può dirsi della wiikite). Di una analisi completa e precisa, anche solamente qualitativa, non è il caso di parlare, data la piccolissima quantità di materiale finora disponibile (tutto insieme il materiale puro da me riunito, saccheggiando i pezzi più ricchi messi a mia disposizione dall'amico ing. Bazzi, raggiunse forse sette od otto centigrammi, quasi interamente consumati nei varii saggi analitici); ma poi che la specie è perfettamente identificata morfologicamente e fisica- mente, e noti ne sono almeno i principali componenti, credo di essere in diritto di dar ad essa un nome, chiamandola bdazzize, in omaggio a colui che l'ha scoperta, riconoscendo fra mille e mille esemplari del nostro granito i minuscoli e rarissimi cristallini azzurri, tanto interessanti e degni di studio. Matematica. — /ormole di derivazione funzionale. Nota di E. DANIELE, presentata dal Socio V. VOLTERRA. Raccolgo in questa Nota, ed in una successiva, alcune formole che dànno le derivate di funzioni di linee espresse in forma analitica esplicita. Più che altro, veramente, le funzioni che io considero appartengono al tipo delle funzioni composte; e comprendono all'incirca, o si estendono facilmente a comprendere, i più notevoli casi di derivazione di funzioni esplicite, che si trovano sparsi nei lavori dei varii autori, tralasciando quello delle funzioni analoghe ai polinomii, trattato esaurientemente dal prof. Volterra nel cap. I delle Zecons sur les équations intégrales et les équations integro-différen- tielles. È noto, tuttavia, quanto sia limitato l'insieme di tali casi, e come d'altra parte non si veda, per le funzioni di linee, la possibilità di una classifica- zione.analoga a quella che si fa per le funzioni ordinarie, che permette di compendiare in una tabella di formole tutto quanto occorre per la deriva- zione di una qualsiasi funzione del tipo algebrico o trascendente elementare. Perciò, una approfondita esposizione del calcolo delle derivate funzionali dovrebbe inevitabilmente rivolgersi alle funzioni implicite, dove il problema sì presenta sotto un aspetto molto più vario e più complicato che non nel corrispondente caso delle funzioni ordinarie. Le Note attuali si possono dunque — 320 — considerare come costituenti un paragrafo introduttivo, di carattere necessa- riamente elementare, alla trattazione sistematica di quel problema. Credo inutile di fare uno speciale richiamo delle definizioni e notazioni adottate: sono quelle che il prof. Volterra adopera nei suoi lavori e nei due volumi di lezioni, che i matematici ben conoscono. 1. Sia \ Ko)= to 0) È | (0=/(v8, 0], cioè F dipenda in modo ordinario da una funzione /(x) e dalle sue prime x derivate, mentre /(x) dipenda a sua volta da tutti i valori di una fun- zione w(é) fra 0 e 1, nonchè da una variabile 4. Si può allora pensare F come dipendente, oltrechè da 4, da tutti i valori che yw($) assume fra 0 e 1. Ammessa la derivabilità di F rispetto a /, /',..., f‘, e supposto che 7, considerata come funzione di w, sia priva di punti eccezionali, vogliamo calcolare la derivata funzionale di F rispetto a vw. Diamo a w(é) una variazione y($) di segno costante e infinitesima in un intervallo (uv) compreso fra 0 e 1, e poniamo = (0) ds= incremento dell'area corrispondente alla linea w(£); k inoltre diciamo d/ e dF le variazioni di / e F. Avremo, a meno di infini- tesimi d'ordine superiore, or= FO e, n] x(M dn=0f'|[Y(8), 2,7]: dove n indica un conveniente punto dell’intervallo (wv); e quindi n 9dF n dF DI F i d Meg ea VA d D 9f® (i 2a dfn da! [W(E), 2,7] Dividendo i due membri per o e facendo tendere tutti i punti di (uv) ad uno stesso punto &,, otteniamo infine: ® PIO) e ti r=0 Come caso particolare assumiamo (1) r-F/) , /=/WOI, — 321 — cioè F sia funzione ordinaria di una variabile /, che a sua volta dipenda da tutti i valori di una funzione w($) fra 0 e 1; la (I) diventa (1°) F[w(5), #1 ]/= F(/)./"|[d(8), fill. La (I) e la (I') mostrano una perfetta analogia con le formole che val- gono per la derivazione delle ordinarie funzioni composte, come pure per la derivazione intesa secondo la definizione del prof. Pascal (*), quando sì con- sideri una linea /(z) funzione di un’altra linea w(Y) composta mediante una linea g(£). 2. Il caso delle funzioni composte sì ha, meglio che non colle (1) e (1’) del num. precedente, colle formole db È (2) F=F[9(2)]] , 9(2)= WC), 1, le quali permettono di considerare F_ come dipendente da tuttì i valori di w(€) fra 0 e 1: = FW), Vogliamo la derivata di F rispetto a w in un punto è, nell'ipotesi che tanto F|[g]| quanto g|[w]} stano prive di punti eccezionali. Diamo a w(é) una variazione y($) come al n. 1; si avrà allora, colle stesse notazioni dianzi adoperate, trascurando infinitesimi d'ordine superiore: dg =J PW) , è, n]|x(Mdn= 09 [WE), è 7]. Passando a F, sì avrà: D Ki 8P= SP C9(0) 111091) dy; e sostituendo coll’ultima formola: dF ora È = a), FIS) 9) PIV) 7, ny; al limite, col tendere dell'intervallo (w») a zero, si ha infine: b (II) F[y(£) ’ 5, ]| il F'|[y (2) ’ 4) gp" \Lyw(£) 14) È] dy . (*) Cfr. le Note: Sui principii della teoria deile funzioni di linee (Rend. R, Acc. delle sc. di Napoli, ser. 3%, vol. XX, 1914). RenpICcONTI, 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 41 o 'gnoveo Come esempio si assuma, nelle (2), (2) ga=y(f Ova). cioè sia funzione ordinaria dei due argomenti A=//@1Od è e, dove supponiamo che /($) sia una funzione fissa. La (l') ci dà g(A, x) 9 y®, ae EEE a I, mentre A' si calcola con formole note ('): = ff). Finalmente si ha, essendo g(x) data dalla (2'), mM) PIO, 5I=/0) (O) EL L'ipotesi del caso generale sulla mancanza di punti eccezionali per g, si riduce ora a quella della derivabilità ordinaria di 4 rispetto ad A. Si può osservare che, se si pone F E ZA QoO Yn) o) Yi fra Pi(41 se Za) sì ha DE _S 2F di der ii dYi dr * (= L25970 e da questa formola si deduce la (II) col noto passaggio dal finito all’ in- finito. In particolare, se Yi= Pi(C181 +: + Ca em); ove le c sono delle costanti, e si pone si ottiene d5F ini 2 dg da cui si deduce la (Il'). (1) Cfr. Volterra: Zesons sur les équations intégrales ete., ch. I, n. VI. — 323 — 3. Riprendiamo la F|[yw]| definita dalle (2); ma, conservando l’ ipotesi che F[g]| sia priva di punti eccezionali, supponiamo, invece, che g|[Y']| dipenda specialmente da w(«), e scriviamo ('): (8) ga =9 (4) 2 (400), mentre per dg si abbia dp= 0g [W(E) e. n] + a|[y(8), ©]\x(2). Il dF verrà dato da sF=0 ( FCg(2).y1-g WE). 4.714 + + f Fitgo sy] @|[Y(£), y]|- x(9) dy ; e dal secondo termine del secondo membro sì estrarrà pure un fattore ©, per cui si avrà, in definitiva, b um) PIv@.sd=f PIO It E F' [g() , E] . a [w(£) , E, ]| Assumiamo, in particolare, (8) sa=9(( Iv) cioè g sia funzione ordinaria dei due argomenti 1 A=| (2,94) dE è Vv), A) ove f(x,é) è una funzione fissa, e supponiamo che anche x varii fra 0 e 1. Il calcolo diretto, oppure l'applicazione della (I°), conducono alla formola: MA: al) Mr) FIW@.5]=f Fo). 138) dy + AO « (IP(A_ (8) +P[g(a). sj (oa e Ciò che nel caso generale era indicato con a, qui diventa iui (') La notazione è del prof. Volterra; veggasi la seconda delle Note Sulle funzioni ché dipendono da altre funzioni (Rend. Lincei, 1887, 2° sem., pag. 141). — 324 — Come esempio si prenda ga) = f (2,8) VE) LE+ W(2); avremo P[y@) &1)= f PICY6O) 991/05) ey +FC90) 511. Prendiamo invece 8) gia= EL. fuma sì ottiene: (II) Pie sla ct + ELAI. La F|[w]| definita dalla F = F|[g]|e dalla (3), con F funzione arbi- traria, dà la soluzione di un’equazione alle derivate funzionali studiata dal prof. Volterra nel num. 2 della Nota Sulle equazioni alle derivate funzio- nali (Rend. Lincei, 1914, 1° sem.). Ricorrendo alla (I1I”), la verifica della soluzione riesce immediata. La (3') e la F=F|[g]|, che definiscono nel loro insieme la F_come funzione di w, si possono dedurre, col passaggio dal finito all'infinito, dal sistema F=F(%1..-Yn) Yi= Pi(c 81 + >: + Cim dm; 2) (een) che permette di considerare F come funzione di 2, ... 2m- Si ha quindi, ponendo Ci 8 4 Cime 1605 dalla quale la (IIl') è deducibile col solito procedimento. Matematica. — Sopra una equazione integro-differenziale del tipo ellittico. Nota di Luici SINIGALLIA, presentata dal Socio V. VOLTERRA. 1. Le equazioni integro-differenziali del tipo ellittieo sono state studiate dal prof. Volterra ('). Quella, però, che io qui voglio considerare, non è stata trattata nè dal detto Autore, nè da altri. Ad essa sono applicabili i risul- tati noti per le equazioni dello stesso tipo, quando si conosca la soluzione fondamentale dell'equazione aggiunta: ed è la determinazione di tale solu- zione che forma lo scopo principale di questa Nota. 2. L'equazione di cui qui vogliamo occuparci è la seguente: ao + f O de vp ( ul (1 Cei (Zi) i I 1 ) cd) MERBAE(0) MICRO) __ 0 10 7 Vea gri Comp pai Cnp+1 ,p 9 Cmp oi ( Cm-p » p+1 “tn 9 Cmp,p (’ ed in particolare 4. Se r?= (x — a) + (y — 6), formiamo le funzioni P PO vga y— di CSI \ M-P1P TT m-p,p © o Mp»P r =

0) \ dA d°Wm-p i p_a | A°Wm-p,p > — dY? (p>0). Inoltre, se s è una linea chiusa avente nel suo interno il polo (4, ), ed n è la normale esterna alla linea s, si ha | | “i ds = | Lesa LAO (A 4) (7) e: - | freni dem — | Anne cos ny ds (p>O0). 5. Le funzioni /,0(4.t), /o(4, 7) si suppongono finite ed integrabili pei valori delle variabili che si considerano. Se poniamo Q t finte) =D f fisj-o,tmj(t 9) fog ,j(0,0)do (O in ce. di HCI © in ce. | ai dati ottenuti analizzata RESERO nella titolazione per la mediante (fenolftaleina) : Ea A la rititolazione diretta rititolazione n con HCl = ) Soluzione di controllo Acqua 10 cc. Miscela di Formolo 20 ce. | Rosa pallido. . 0,0 = —_ Rosso evidente 0,1 — _ Rosso intenso. 0,3 —_ _ Sovratitolazione 0,50 | Rosso intenso . —_ 0,20 0,30 Rosso evidente _ 0,40 0,10 Soluzione n di sarcosina — 20 cc. 10 Miscela di Formolo 20 cc. Efflorescenza rosa inferiore al rosa pallido del controllo. 6,50 —_ = Rosa pallido come il con- trollo 7,60 — — Rosso evidente 9:00 — = Rosso intenso 9,7 — pe Sovratitolazione 11,00 Rosso intenso = 1,30 9,70 Rosso evidente = 1,90 9,10 Rosa pallido. . —_ 3,20 7,80 Rosa più pallido del controllo . _ 4,10 6,90 Dalle cifre ottenute nella titolazione della soluzione, sottraendo le cifre ottenute nella titolazione della prova di controllo, risulta che, per titolare 20 ce. di sarcosina '/10 2, sono necessarî cc. 9 di NaOH !/; n per raggiungere il colore rosso evidente della fenolftaleina (secondo stadio di Sorensen), e ce. 9,4 di NaOH !/ n per raggiungere il colore rosso intenso della fe- nolftaleina (terzo studio di Sorensen). Facendo il calcolo dell'azoto che così viene titolato rispetto a quello che teoricamente dovrebbe risultare, si ottengono le cifre visibili nella se- guente tabella: — 357 — TABELLA IV. QUANTITÀ ADOPERATA SOSTANZA INDICATORE i N 2 ; ; Te SIBA, Osservazio adoperata per l’analisi adoperato in ce. in °/o del calcolato Fenolftaleina (colore rosso evidente) . . 9,00 90,00 : Il 20 cem. di soluzione 10” (2° stadio) di sarcosina .(metilgli- Fenolftaleina (colore rosso intenso). . . 9,40 94,00 (3° stadio) cocolla) I risultati ottenuti in questa analisi dimostrano che la sarcosina rea- gisce positivamente colla formaldeide, e nella titolazione secoudo il metodo di Sorensen, si comporta come un acido monobasico. Dato il comportamento di acido monobasico della sarcosina nella tito- lazione al formolo, come risulta dalle esperienze surriferite, si deduce che la sarcosina e l’aldeide formica reagiscono fra loro secondo la seguente equazione : C0.0H CO.0H | c | È cH,. NU» CH,. N i raggi principali di curvatura, che soddisferanno alle equazioni di Codazzi (2) 2 (nfa)=n ) 2 (fan dU dv Sopra ciascuna normale alla X riportiamo un segmento R = R(u, 0); e sia S la superficie luogo degli estremi, alle cui flessioni immaginiamo in- variabilmente legati i segmenti stessi (n. 1). Affinchè esista una deformata So della S, per la quale gli estremi dei detti segmenti sì distribuiscano sopra un piano zr, occorre e basta che R soddisfi alla equazione del secondo ordine (11) della Nota A) n. 3. Se poniamo (8) h=Ve(RB+r) , h=tV9(R+"), questa equazione sl scrive CAM. kR ©: n Vi a i) va. La corrispondente deformata S, si trova con sole quadrature, poichè si conosce allora la distanza R di un suo punto variabile dal piano fisso 77 (ved. Zezioni, vol. I, $ 109). I coefficienti della seconda forma fondamentale di Se, che indichiamo con Di, Di, Do, sono dati dalle formole Ri D' Ri: Ros Di SR SAR TE ZAR (4) Do= dove il parametro differenziale e le derivate seconde covarianti di R s'in- tendono calcolati rispetto al ds comune delle due superficie applicabili S, So - Supponiamo, di più, che alle linee di curvatura (u,v) di X corri- sponda sopra S un sistema coniugato. Questa condizione si traduce, per R, nell'altra equazione del secondo ordine [nota B) n, 2]: DRS ERE II = () dU dv li, dv du ha du dv o anche, semplicemente, R, = 0. Ma allora la media delle (4) mostra che avremo Do = 0, cioè il sistema (x, v) sarà coniugato anche sopra So. Ora — 370 — quando S, rotola sopra S il piano satellite 77 inviluppa la superficie X, e possiamo enunciare il risultato seguente, analogo a quello finale del n. 4 della Nota B): Se, nel rotolamento di una superficie So sopra una superficie appli- cabile S, un piano rr satellite di So inviluppa una superficie X alle cui linee di curvatura corrisponda sopra S un sistema coniugato, questo è il sistema coniugato comune alla superficie d'appoggio S ed alla roto- Lante SI 3. Da ora in poi supporremo che la superficie X abbia rappresentazione isoterma delle sue linee di curvatura, e verremo a provare che in tal caso le due equazioni del secondo ordine (I) e (II) hanno co' soluzioni comuni. Per questo introdurremo le trasformazioni E,, di Eisenhart, deducendole geome- tricamente da quelle particolari delle superficie minime. Avendo X rappresentazione isoterma delle linee di curvatura, esiste una superficie d’area minima (determinata a meno di un'omotetia) con la stessa immagine sferica delle linee di curvatura. A questa superficie minima, che diremo X, applichiamo una delle co trasformazioni che provengono dall’in- versione del primo teorema di Guichard (Lezioni, vol. II, $ 851), e sia 5y la superficie minima derivata. Si sa che X, 3° sono le due falde di un in- viluppo (conforme) di sfere e sì corrispondono per le loro linee di curvatura, per cui il sistema co? di circoli normali a X, 2° in coppie di punti corri- spondenti è un sistema ciclico. A questo sistema ciclico applichiamo una trasformazione di Combescure (Zezzori, vol. II, $ 416), che lo cangi in un altro sistema ciclico, e di più in guisa che la trasformata della superficie minima Y sia la superficie data Y. In questo abbiamo ancora disponibile una costante arbitraria, p. es. il raggio del circolo normale a 2 in un punto iniziale. Nel muovo sistema ciclico diciamo 2’ la superficie corrispondente alla superficie minima trasformata x", colla quale X' avrà a comune l’im- magine (isoterma) delle linee di curvatura. Ora le due superficie X°, 3’ am- bedue a rappresentazione isoterma delle linee di curvatura, sono alla loro volta le due falde di un inviluppo di sfere e le linee di curvatura si cor- rispondono sulle due falde. Il passaggio da X a 2’ comporta, per quanto si è visto, quattro costanti arbitrarie, e dà appunto una trasformazione Em. 4. Per dare alle formole delle trasformazioni E, la forma meglio adatta al nostro scopo, introduciamo parametri isometrici x,v sulla sfera, e scri- viamo il ds'? sotto la forma ds'* = e.(du 4 dv*), onde il ds? della superficie minima XY potrà scriversi ds? = e°8 (du + dv?) . — 371 — Conviene anche trascrivere le formole relative ai coseni di direzione del triedro principale (X,, X2, X3), e cioè: IX 2309 IX, (o) Ds Ire : =_- Xg,,, = e78X, (5) \ dU dv du dv dU oh 06 DE dé De = Cio —-TX+e0X; , = —- ek. | iv dui dv dui iù : w Ed ora riportiamo dal $ 351 delle Zezzonz (vol. II) le formole di tras- formazione per le superficie minime scritte sotto forma lineare nelle quattro funzioni incognite A: gw, Pi abbiamo il sistema fondamentale seguente: DÀ 30 Qu BI e G) 2) -0 le del | = Uw me’ — e) w Mems conte = 7 wu ni ira * vu dv DU 4 Ò = ed 4, p CI _ ed À du dU Si dA I) du n) { c —— e. , —=—_4 me + e0)u — meg, dv du di dv dU nina Ju P dw Ò Sini SEA 1) n ca = eu , | dV dv dove m indica una costante arbitraria. Questo sistema (completamente inte- grabile) possiede l'integrale quadratico A + u° + e? — 2mpw = così, e, per ottenere una trasformazione D,, della superficie minima £, occorre dare un valore nullo alla costante del secondo membro, onde risulta (A*) A + u° + w = 2mgypw . Se indichiamo con (£,7,%) , (8, n.) le coordinate di due punti cor- rispondenti sopra X, x", abbiamo (Zezioni, loc. cit.) : 1 ULIATO) (6) EE (Z4X, + uX, + wX,), ece. mentre i coseni di direzione (X), Y}, Zi) della normale alla 2’ sono dati da DA (7) n= mg SAX +uX: + (0Ww— mp)Xz{, ecc. — 372 — 5. Ciò premesso, denotiamo con x,y, le coordinate di un punto mo- bile sulla superficie X ed avremo : da dXs dx DAG nie , a A) dU dU dv dv ossia per le (5) dI dI 8 —=e0riX , —=—er;X ( ) du 2 Il dv Ii 29 dove i raggi principali di curvatura soddisferanno alle equazioni di Codazzi (9) Siano ora x", y", le coordinate del punto corrispondente sulla 2’ de- dotta dalla con una Em (n. 3). Siccome la congiungente i punti (4, y, 2), (x',y',4') deve essere parallela a quella dei punti (£,7,0) ; (8',77,2), dalle (6) risulta che potremo porre (10) x'=x + t(AX, + pX + w0X3) ‘colle altre due analoghe, dove rimarrà da determinare 7 in modo conveniente. Per questo ci serviamo della condizione che la normale alla 2” deve avere i coseni di direzione (X3, Y3, Z3), e quindi sussistono le due relazioni PIA de =0 L = (). dV RAESÀE dU SX; Calcolando queste, mediante le (5), le (8) e le (A), si ottiene per 7 il sistema lineare del primo ordine: dI 2 Z ebr, A eda (11) E, [E (et rie dU (f) Uol Mm PW Questo è un sistema completamente integrabile, e si ha con una qua- dratura l'integrale generale dalla formola (12) gu.v = — - {le rs Adu— er, udv), con C costante arbitraria, l'espressione sotto il segno f essendo in effetto un differenziale esatto, a causa delle (A) e delle (9). — 373 — Le formole (10) definiscono le superficie 2’ trasformate della 2 per una Em, dove figurano, oltre m, tre costanti arbitrarie. Si osservi che le normali a X, 2' in punti corrispondenti s'incontrano in un punto (xo , Yo + €0), le cui coordinate sono (13) t,=Xrd+myptrX,, e queste definiscono la superficie S luogo dei centri delle sfere, colle due falde x, x" dell’inviluppo. 11 raggio R delle sfere è dato da (13*) R=mgyr. 6. Ora passiamo a verificare che questo valore R soddisfa all’equazione (I) n. 2, la quale nel caso attuale diventa ) IPS, IERI Mi; Ea du\R+ rs du v\R+ rv Dalla (13*) derivando, otteniamo per le (A) e per le (II): dR - u =—=e(R4 rn), dv Rin) w e la precedente diventa è) U d 7! ; REG Eseguendo le derivazioni colle (A), questa si riduce subito alla (A*) e trovasi quindi verificata. In modo simile si potrebbe riscontrare, colle precedenti, che R = my soddisfa anche la (II) n. 2; ma questo segue anche da che sulle due falde 2, 2' dell'inviluppo di sfere si corrispondono le linee di curvatura, e per ciò (Nota B) sulla superficie S luogo dei centri il corrispondente sistema (u,v) è coniugato. Dopo queste verifiche risulta dal n. 2 che la superficie S ammette una deformata per flessione So, tale che in Sp i termini dei segmenti vengono ad avere per luogo un piano 77, sicchè quando Sy rotola sopra S il piano 77 inviluppa la superficie XY. Così, in effetto, ad ogni trasformazione E, della superficie X corrisponde una generazione di questa superficie come inviluppo di rotolamento; la superficie S d’appoggio è la superficie luogo dei centri delle sfere e la rotolante So sì ha con quadraturo. 7. Fra le superficie £ a rappresentazione isoterma delle linee di curva- tura vi sono le superficie coi due sistemi di linee di curvatura piane, le cui immagini sferiche delle linee di curvatura sono due fasci ortogonali di circoli. Però noi qui considereremo solo il caso generale quando le due rette, coniugate rispetto alla sfera, che sono gli assi dei due fasci di piani dei — 374 — eircoli non sono tangenti alla sfera e non passano per il centro. In questo caso Eisenhart ha dimostrato (n. 8, m. c.) che, se si prende =; la costante della trasformazione Em, questa può applicarsi in guisa che anche la tras- formata 2' abbia linee di curvatura piane, ed allora la superficie S luogo dei centri delle sfere è una superficie di traslazione con curve generatrici in piani perpendicolari, e queste curve dànno il sistema coniugato corrispon- dente alle linee di curvatura di X. È d'altra parte noto (cfr. Lezioni, vol. II, $ 252) che queste superficie di traslazione ammettono una deformazione continua ad un parametro che conserva coniugato il detto sistema, le curve generatrici mantenendosi in piani perpendicolari; quindi se ne conclude che la superficie rotolante Sy è appunto una di queste deformate. Ma noi vogliamo ora invertire queste considerazioni e dimostrare il teorema: Sopra una superficie S di traslazione, con curve generatrici in piani perpendicolari, si faccia rotolare una superficie applicabile S, della me- desima classe, che trasporti seco, come piano satellite, un piano n orto- gonale ad ambedue i sistemi di piani delle curve di traslazione di Ss. Questo piano rr inviluppa una superficie È coi due sistemi di linee di curvatura piane. In questo modo si ottiene, come inviluppo di rotolamento, qualunque superficie a linee di curvatura piane della classe generale sopra indicata. 8. Alla dimostrazione del teorema enunciato premettiamo la deduzione di alcune formole più generali, che tornano utili in altre ricerche. Conside- riamo una superficie So, pel momento arbitraria, ed i segmenti rettilinei calati dai punti di S, normalmente sopra un piano fisso 77, che prendiamo per piano xy; e questi segmenti si pensino invariabilmente collegati alla Sa nelle sue flessioni. Se la S, assume, deformandosi, la configurazione S, il luogo dei termini dei detti segmenti diventerà una superficie X, ortogonale ai segmenti stessi, e noi vogliamo calcolare gli elementi relativi alla con- gruenza delle normali di X. Come nella mia prima Memoria sul rotolamento (*), scriviamo le equa- zioni parametriche di S, sotto la forma ordinaria di Vie e facciamo uso delle notazioni di Monge LIT) PI DÒ . d 80 di 20 10580 s== A — du ?dwU 20° (1) Alcune ricerche sul rotolamento di superficie applicabili (Rendiconti del Circolo matematico di Palermo, tomo XXXVIII, an. 1914). — 375 — per le derivate prime e seconde di 2. I coefficienti E, , Fo, Go ; Do, Do, De delle due forme fondamentali di S, in coordinate u,v saranno: bE=l4p° , Hh=pg ; Go=149° Di =_= = 9 Di = — 9 DI ; È 3 5 IERI VO VATI Per la deformata S i coefficienti della prima forma restano gli stessi E, Fo, Go, € quelli della seconda si indicheranno con D, D', D'. Ora i coseni di direzione a,#,y dei raggi della congruenza delle nor- mali a X, nella configurazione S, sono dati dalle formole (M. c., $ 3) SI p da qu da 4 X ami CAUARO a pia CAPI) VI1+p°+ 9° colle analoghe per 2 ,y avendo indicato con #,y,s le coordinate di un punto mobile su S, con X,Y,Z i coseni di direzione della normale. Dal calcolo eseguito al S 21 della Memoria ora citata, introducendo i coefficienti delle due forme fondamentali della congruenza: 2 Ò 2 e=s( east en) x d du dv dv da dI da dx 7 da dI da dL fe sede pod gdo ee, du dU du DU dv dv dd risultano i valori soguenti: (E=4%° pd? , F=d4/(444") , Ga) 14" (5) p=f=—4 , g=-d", (= PZd, e) dove abbiamo posto per brevità DTD, : D'— Di — 4' D" — Di — s=——2_ , g= bed Ae V1+p +9? VI+p +0 Di qui, formando l'equazione differenziale delle sviluppabili della con- gruenza, e sopprimendo il fattore non nullo 44"-— 4'*, troviamo (17) d'du4(4"—A)dudv—d'do®=0. (16) . Ora supponiamo che la superficie S, sia una superficie di traslazione, colle curve generatrici in piani paralleli ai piani coordinati 7=0 , y=0, onde sarà Di=0, cioè s=0. Supponiamo di più che anche la S sia di traslazione colle curve generatrici u = cost , v= cost, ed avremo anche D'=0, e per ciò 4'=0. Allora la (17) dimostra che le sviluppabili della congruenza sono le u= cost , v= cost, cioè a dire: a/ sistema coniugato comune di (S,S,) corrisponde sopra X il sistema delle linee di curvatura. RenpICcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 48 — 976 — Proviamo che queste sono curve piane, verificando che le loro imma- gini sferiche sono circoli, Dalle (15) abbiamo pel ds’? sferico ds — A%duf A Ad, - 1 RR 3 ; e se denotiamo con —- , — le curvature geodetiche delle linee sferiche u Q U u == cost, v= cost valgono le formole 1 Ida 1 1 dd Tae rdI ei Ma in generale dalle equazioni di Codazzi e di Gauss risultano le seguenti: I DU dI q cene) = A 84! rA' >» dv 14+p+ 2 (é 28 +74 ) dd' dd" p i = — (td — 2sd' + rd" (3 dv dU aironi ich (4 — 2sd'+ rd" p osa A? = — ——— --, | dd 1 + p° + DÈ Applicandole al caso attuale ove 4'=0, ne risulta ce LR Qu i quindi Li è funzione di « soltanto, da di v soltanto cioè le linee x = cost, v= cost sono circoli. CAdNd: 9. Terminiamo col dare, in termini finiti, le equazioni delle due su- perficie applicabili di traslazione So, S e quelle della superficie a linee di curvatura piane come inviluppo di rotolamento. Scriviamo prima le equazioni parametriche della Sy: So) Loi 40206, z= 9() + W(0), con g(u) , w(v) rispettive funzioni arbitrarie, la prima di «, la seconda di v. Quelle della superficie applicabile S della medesima classe, dipendenti da una costante arbitraria /, saranno: "% Là 9 = fTF0 Mg SH), — 377 — Calcolando di qui, secondo le (14), i coseni @,f,y, ove si ponga per brevità: VIFI=APA=U , Ja+(1- TA ORA troviamo: NA RO (8), SUM _ v@(V-7) RI PO kg! ( "7 14y° gen g° (0) Da queste formole seguono le altre \ Ua + gp'(u) (ky — 1) =0 pYe+ E o _o=o le quali dimostrano che le linee sferiche «= cost sono circoli i cuì piani passano per la retta X%X== 0 3 == e le v= cost circoli nei piani per la retta y=0 , a=k; queste due rette sono polari reciproche rispetto alla sfera (non tangenti). Quanto alle coordinate È ,7,6 di un punto della superficie X a linee di curvatura piane v,v considerata come inviluppo di rotolamento, sono date dalle formole = fra: 1+(1—-#2)g" (2) du—[g() +v(0)]e (19) ala = (n) do — [9(2) +4(0)] # Cé= kp(u) (+ (0)]7 avendo @,8#,y i valori (18). Il teorema enunciato alla fine del n. 7 è così dimostrato. Osserviamo da ultimo il caso particolare notevole che la superficie S, di traslazione sia il paraboloide rotondo, col piano direttore come piano satellite: Se 2 pa- raboloide rotondo rotola sopra uma delle sue co! superficie di traslazione applicabili, il piano direttore inviluppa la più generale superficie minima a linee di curvatura piane (esclusa la superficie minima d' Enneper ed il catanoide). — 378 — Fisica matematica. — Su/Ze correnti elettriche in una lamina metallica sotto l’azione di un campo magnetico. Nota III del Socio Vito VOLTERRA. 35. Passiamo a dare la soluzione del problema nel caso in cui gli elettrodi, supposti di resistenza trascurabile, costituiscano delle porzioni del contorno. Ritorniamo quindi alle condizioni esaminate nel $ 3. Supponiamo che si sia potuto rappresentare conformemente l’area 0, semplicemente connessa (fig. 3), entro un parallelogrammo add nel piano È, in modo tale che sia ZEN bad == + — fp. L l n È b d i ‘L et bi Fia. 18. Supponiamo, inoltre, che i lati 40 e cd siano paralleli all'asse 7, e che i tratti dei contorni 40 e AB, de e BC, cd e CD, da e DA si corrispon- dono respettivamente. Prendiamo la funzione V=M5+N, ove M ed N denotano due costanti, e consideriamo V come funzione di £ e n. Essa sarà costante lungo i lati ab e ed, e lungo de e ad avremo È facile riconoscere che lungo Ze e cd le direzioni 7 e — x sono respet- \ — 379 — tivamente inclinate dell'angolo # rispetto alla normale esterna » ai lati stessi. Consideriamo ora È come funzione di x e y, e riportiamo la funzione V sopra l’area o nel piano x,y. Essa resulterà armonica e regolare, sarà co- stante sopra le porzioni del contorno AB e CD, mentre lungo le porzioni BC e AD, avremo Servendoci dell’arbitrarietà delle costanti M ed N, potremo ridurre i valori di V eguali ai valori dati lungo AB e CD, e perciò V sarà il po- tenziale richiesto. È facile riconoscere l’ordine di infinito delle derivate di & rispetto a x e y nei punti angolosi del contorno. 36. Supponiamo che o sia un quadrato. Cominciamo dal prendere sul- l’asse reale del piano complesso 5 due punti « e —a, e poniamo (13) Z= (2 4 da 0 (13) L= | (a 2) da. 20, Mentre #« sì muove nel semipiano corrispondente al coefficiente dell’imma- ginario positivo, Z e Z, si muovono respettivamente entro due triangoli Fre. 19. isosceli ABC e A,B,C, i cui angoli alla base hanno respettivamente le aperture vr e ur. Applicando quindi il principio di simmetria. mentre percorre tutto il suo piano sezionato con due tagli —a — co e +a + co Z e Zy sì muovono respettivamente nei rombi ACBD e A,C,B,D,. — 380 — Prendendo »=j il primo rombo diventa un quadrato, e prendendo il secondo rombo diviene un parallelogrammo avente un angolo eguale IT 3 » a g 7 Per mezzo di una rotazione z=%; ae si riduce il secondo rombo ad avere una coppia di lati paralleli ad un asse, e perciò ci mettiamo nelle condizioni della figura 18 ed otteniamo la rap- presentazione conforme del quadrato nel parallelogrammo, che ci risolve il problema di determinare il potenziale e la distribuzione delle correnti in una lamina quadrata soggetta ad un campo magnetico, allorchè due lati opposti sono i due elettrodi di resistenza nulla da cui entra ed esce la corrente, gli altri due lati sono liberi ed isolati. È ovvio che avendo preso osi l'integrale (13) è ellittico, ed in- 4° fatti ponendo a? — s® =: x‘, e a==1, sì ha a (enna da I (ai — 2)t Lia SES i n mn B >D Cc S Fis. 20. 37. Esaminiamo ora il caso considerato nel $ 6, e supponiamo che la lamina sia circolare. Tutta la questione si riduce a costruire una funzione armonica regolare W di cui si conosce il valore lungo l'arco BC, mentre si conosce il valore di CO lungo l'arco CDB. — 381 — Rappresentiamo conformemente il cerchio entro un angolo di apertura Z — $ nel piano £7 (fig. 20), in modo che il lato de» parallelo ad 7 corrisponda all’arco BC, ed il lato inclinato dex corrisponda all'arco BDC il vertice B corrisponda a B e il punto c» all'infinito al punto C. Riportiamo nel- l'angolo i valori di W. Allora Du sarà nota sopra i due lati dell'angolo, dn SRIENEO dW . e poichè è armonica, potremo calcolare on internamente all'angolo, d'onde si ricaverà W. È evidente che si giungerebbe allo stesso resultato se un lato dell’an- golo fosse parallelo a £ e corrispondesse all'arco BC, e l’altro lato inclinato : i i : DAL, ERE corrispondesse all'arco BDC e si considerasse il pos anzichè il ww Ma per trattare questo caso, che svolgeremo nei $$ seguenti, è utile impiegare le funzioni di variabili complesse introdotte alla fine del S 14. — 2 E specialmente interessante esaminare la questione quando 8 = Ita giacchè mediante una opportuna rappresentazione conforme e quindi l’appli- cazione del doppio principio delle immagini considerato ($ 18) si giunge alla soluzione in modo molto samplice. 4 sì rappresenta (fig. 21) l'area interna ad un cerchio di raggio 1, col centro — 382 — all'origine, situato nel piano z, nel semipiano Z=X + :Y (fig. 22) corri- spondente ai valori positivi di Y. Se consideriamo i punti del contorno del cerchio aventi per indice = e°° si trova per Z w—- 0 sen Seni 2 quindi corrispondono ai punti dell'asse reale nel piano Z, ed in particolare a 0<@©<60 corrisponde il semiasse reale negativo, e a 9 << 277 cor- risponde il semiasse reale positivo. la TE Xx e e me oo D C E B Hiro 2822: (n) Supposto ia e posto é£ = Z# sì ottiene la rappresentazione conforme del semipiano nel- l'angolo di apertura ru (fig. 23) in modo che al semiasse reale positivo in Z corrisponde il semiasse reale positivo in È, e al semiasse reale negativo il raggio spiccato dall'origine y inclinato di zu sul detto semiasse positivo, ossia mediante RC = e \ 14) (è ? e? ( ei z—1 rappresenteremo il cerchio nell’angolo. ?| Boo Posto — 383 — per 0 aq; c verde-grigio-scuro, a verde-gialliccio; e c = 15° circa. Il feldspato calcico-sodico è per lo più allotriomorfo rispetto all’anfibolo, alcuni cristalli del quale sono nettamente inclusi nel feldspato. Dove le ge- minazioni sono distinte, e talora anche con le due leggi albite e Carlsbad, è possibile una esatta determinazione, che porta ad una andesina basica con circa 45 °/, di An. Il quarzo non frequente, e in quantità sparsa e variabile, si presenta, oltrechè in granuli, anche in imperfette sferoliti ed in taluni caratteristici aggregati mirmekitici con il feldspato. La biotite si trova in poche lamine di dimensioni abbastanza grandi, con pleocroismo minore del normale e sulle tinte giallo-verdi per incipiente cloritizzazione. Rara assai la muscovite. — 404 — Elemento accessorio caratteristico è il granato di color giallo-chiaro, in granuli tondeggianti piuttosto che in netti cristalli. L’epidoto è in rari granuli, quasi incolori. Infine gli ossidi di ferro, in gran parte ilmenite, si trovano in quantità assai variabile da campione a campione. Fisiologia. — Nuove ricerche sui muscoli striati e lisci di animali omeotermi. Nota VI: Il fenomeno dell’addizione di due contrazioni successive indagato nel preparato diaframmatico, del Corrispondente F. BOTTAZZI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Meccanica. — Su di una reciprocità tra deformazioni e distorsioni. Nota di G. COLONNETTI, presentata dal Socio V. VoL- TERRA. In una classica serie di Memorie sull'equilibrio dei corpi elastici più volte connessi, il prof. Volterra ha dimostrato la possibilità di creare, in essi, degli stati di equilibrio differenti dallo stato naturale, senza l’intervento di alcuna forza esterna, mediante certe operazioni a cui Egli ha dato il nome di distorsioni (?). È noto che tra i due sistemi di sforzi generati da due dati sistemi di distorsioni sussiste una reciprocità affatto analoga a quella che il Betti ha stabilita fra i due sistemi di spostamenti che derivano da due dati sistemi di forze esterne (?). Io mi propongo qui di dimostrare che una reciprocità esiste pure fra il sistema delle tensioni interne prodotte da una data sollecitazione esterna ed il sistema degli spostamenti che nello stesso corpo elastico vengono de- terminati da una data distorsione. (1) V. Volterra, Un teorema sulla teoria deila elasticità (Rend. R, Accademia dei Lincei, 5* serie, vol. XIV); Sull’equilibrio dei corpi elastici più volte connessi (ibid., (52 serie, vol. XIV); Sulle distorsioni dei solidi elastici più volte connessi (ibid., 52 serie, vol. XIV); Sulle distorsioni dei corpi elastici simmetrici (ibid., 5° serie, vol. XIV); Con- tributo allo studio delle distorsioni dei solidi elastici (ibid., 52 serie, vol. XIV); Sulle distorsioni generate da tagli uniformi (ibid., 5° serie. vol. XIV); Nuovi studii sulle distorsioni dei solidi elastici (ibid., 5* serie, vol. XV); Sull’equilibrio der corpi elastici più volte connessi (Il nuovo Cimento, 52 serie, vol. X e X1); Sur l’equilibre des corps élastiques multiplement connexes (Ann. éc. norm., 3, tom. XXIV). (2) Cfr. ad es. V. Volterra, Sur l’équilibre des corps élastiques multiplement con- nexes (Ann. éc. norm., 3, tom. XXIV) a pag. 482 e seg. — 405 — Sia S lo spazio, connesso — in generale, anzi, a connessione multipla, — occupato da un corpo elastico in equilibrio sotto l'azione di un dato sistema di forze esterne. Indicheremo con X la superficie, chiusa, che lo limita, e con o un diaframma arbitrariamente tracciato attraverso quello spazio, cioè una superficie contenuta tutta entro S, la quale non seghi se stessa ed abbia il suo contorno su X. Se sì immagina, lungo quel diaframma, operato un taglio nel corpo ela- stico dato, il primitivo stato di equilibrio di questo si può conservare, dopo il taglio, immutato se si immaginano applicate alle due faccie del taglio due distribuzioni di forze, ovunque equivalenti alle tensioni interne che nel corpo dato inizialmente si trasmettevano attraverso la superficie o . Detto il potenziale elastico unitario, ed indicate con Nod le componenti secondo tre assi coordinati della forza esterna applicata al- l'elemento generico di volume dS, riferite all'unità di volume, e con Xp 9, Sa 5) Ur le analoghe componenti, riferite all'unità di area, della pressione applicata all'elemento generico di normale n delle superfici X e 0, le condizioni di equi- librio si riassumono notoriamente nella relazione 0 =[ dp. dS + fon + Ydv + Z0w) dS + (1) T f,(Andu + Y,do + 2,810) d3 I + | [Xa(Îua — dg) + Yn(Îva — 90) + Zadig — dwep)] de nella quale du, dv, dw stanno a denotare le componenti, secondo gli stessi assi, dello spostamento di un punto generico di S o di X (n una qualsiasi deformazione possibile del corpo elastico TAGLIATO; Tua n d Va 4 dWa dug, dvg. dwg essendo i valori di du ,dv ,dw relativi ad un punto generico di o considerato come appartenente rispetti — 406 — vamente all’una ovvero all'altra faccia del taglio. Più precisamente, assunta al solito come positiva la direzione della normale a X che è rivolta verso l'interno di S, si dovranno intendere contraddistinte coll’indice « le compo- nenti dello spostamento di un punto di o se lo si considera come apparte- nente a quella faccia del taglio rispetto a cui la normale a o entra in $S, e coll’indice # quelle relative allo stesso punto considerato come apparte- nente all’altra faccia del taglio rispetto a cui la normale a o esce da S. Noi supporremo che il moto relativo delle due faccie del taglio sia un semplice moto rigido nello spazio: cioè che dua — du = + g'a — r'y Ova — dog =m+t+ra— pe do, — du = +p'y—- qa. con l',m,n',p',q',r', costanti. La variazione di configurazione che il corpo elastico subisce è allora, in generale, una distorsione di Volterra. di cui Ei sono le caratteristiche. Fa eccezione soltanto il caso in cui, per opera del taglio praticato secondo o, lo spazio S avesse cessato di essere connesso: in questo caso il fenomeno si riduce ovviamente ad un semplice spostamento rigido di una delle due porzioni in cui il corpo è rimasto diviso rispetto all'altra. Comunque stiano le cose, dette uU.,V,w le componenti dello spostamento così determinato in un punto generico di S o di X, e posto, al solito, ; du È _dw Bi TT a dI per aool pa da dwv' VyT ay Ade da SA SA dv du ASILO): vd dV/ la (1) si trasforma facilmente nella relazione il (Xu' -|- Yo + Zw') dS x u 4 Yno + Znw') dE + S 9; 2)\t [oi [Xa(l'+ gear) + (+ ra — Pat Zan + py—d2)]do = dP Ù ; _dG dp d@P_, dr dI dYy 4 7 dYa dx — 407 — che noi scriveremo sotto la forma \ Î (Xu + Yo' 4 Zew') dS + fe 4 Ynv + Znw') dX 4 19 c @) + LU + Mw + No + Pp'+ Qy +Rr = DA IP OPP Pa ww, lap gt L4 Ly pala dXa dYy ci BEE dYz È dex bi; dLy J / denotando, per brevità, con L= | Xdo P= f (Zuy— Yue) do «/0 M= (6 do Q= | (ue — 2,2) do Yy== 8 Y:= 83 Xy= 0. Nel caso generale, in cui si verifica la distorsione propriamente detta, si può osservare che, per l'equilibrio, deve riescire soddisfatta una equazione del tipo (1) per forze nulle così in S come su X, e per variazioni du , dv, dw , affatto qualunque. Ora se tali variazioni si prendono precisamente eguali agli spostamenti « v, e che nel sistema elastico dato sono prodotti dal dato si- stema di forze esterne, siccome in ogni punto di o riesce Ola = dz « Olde== dvg dvi dw3 quella equazione si riduce a dg g' dg dg dg dg i ra ar 49 rig snn4a Sx rg I Area te + torto): e poichè, per una nota proprietà delle forme quadratiche, , EIA dy' EI dg dg BIO) La 7 7 8 ui 4 — 7 8a TX = dan na dI, Yyt de! at >. (Ep a sa da Ly IP IPP LP Cr ag 5 T si 2 %y E A i Ae, o La + Wi Yy t RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 52 — 408 — se ne conclude ehe dp 3 dP a -2,) Ta 8x tx d = esa +3 E i * 2t3 Ta d8==240 come si voleva dimostrare. La (2°) assume pertanto la forma caratteristica (3) il (Xu + Yo' + Zeo') d$ o RR PI + LU 4 Mm' + No + Pp' + Qg +R"=0 la quale esprime il teorema: « La somma dei prodotti delle sei caratteristiche del sisterna di ten- « sioni interne che in un corpo elastico in equilibrio si sviluppano in cor- « rispondenza di una data sezione, per le corrispondenti caratteristiche di « una distorsione, è eguale e contraria al lavoro che le forze esterne, applicate «al corpo stesso, eseguirebbero nel cambiamento di configurazione a cui « quella distorsione darebbe origine ». Se si introduce il concetto di distorsione unitaria negativa, chiamando così ogni distorsione le cui caratteristiche siano tutte nulle, eccezion fatta sol- tanto per una, a cui si attribuisce il valore fisso —1, si può enunciare il teorema sotto la forma: « Ciascuna delle sei caratteristiche del sistema di tensioni interne, che «in un corpo elastico in equilibrio si sviluppano in corrispondenza di una « data sezione, è misurata dal lavoro che le forze esterne applicate al corpo « eseguirebbero qualora su questo si operasse la corrispondente distorsione « unitaria negativa » Così espresso, il teorema non è nuovo: chi scrive aveva già cercato di darne una dimostrazione generale in una breve Nota che ha avuto tre anni or sono l'onore di comparire in questi stessi Rendiconti (?). E già molti anni prima, il principio, qui espresso nella sua forma più generale, era stato in qualche caso particolare intuito, ed applicato utilmente alla risoluzione di qualche problema di equilibrio iperstatico (*). In una prossima Nota io mi propongo di precisare la portata di queste applicazioni mettendo in evidenza in qual modo la dimostrata reciprocità fra deformazioni e distorsioni riconnetta alla teoria del Volterra alcuni fra ji più importanti capitoli della scienza delle costruzioni. (1) G. Colonnetti, Sul principio di reciprocità (Rend. R. Accademia dei Lincei, 5° serie, vol. XXI); cfr. anche: Introduzione teorica ad un corso di statica dei corpi elastici (lez. litogr., Genova 1912); Sul principio di reciprocità (Giorn. del genio civile, 1913). (*) Cfr. ad es. W. Ritter, Anwendungen der graphischen Statik, Dritter Teil, Zi- rich 1900, pp. 89 e seg. — 409 — Meccanica. — Sulle vibrazioni di una corda elastica in un mezzo resistente. Nota II del dott. FRANCESCO SBRANA, presentata dal Corrisp. 0. TEDONE. 6. Ci occuperemo ora brevemente delle verifiche alle quali abbiamo innanzi accennato. Per adoperare formule non molto complicate, possiamo supporre dap- prima /(£)= 0. Sostituendo, in questa ipotesi, nella (8), il valore di g(7) dato dalla (8'), troviamo l'equazione: fe F($) La) 0 — (PI o(M0 — 7) a o (VE —P) dn ds = 0 nella quale F(#) è una funzione arbitraria. Dev'essere dunque: (19) ("EL LVL). n Allo stesso risultato si giunge quando si passa a verificare che il valore di g(n) dato dalla (9') soddisfa alla (9). Supponiamo ora che le (10), (10') siano scritte per no compreso tra / e 2/, ritenendo sempre /(#)= 0. Sostituiamo, nella (10), a (7), dove questa funzione compare con n 0 ne contiene, anzi, infiniti) e sta sempre in un tal gruppo di iperpiani razionali (anzi in infiniti. se X <2p — 2). Evidentemente lo spazio congiungente e lo spazio intersezione di due spazi razionali di X sono anch'essi degli spazi razionali (°). Un sistema nullo dello spazio XY, rappresentato da un'equazione del tipo 1...2p x dr,s YrXs= 0 rs (dove le x e le 7 sono le coordinate di due punti qualunque di X coniu- gati rispetto al sistema nullo, e le a,,s sono gli elementi di un determi- nante emisimmetrico d'ordine 2p), si dirà razionale se i mutui rapporti (°) Cfr. Rosati, Sulle corrispondenze algebriche fra i punti di una curva algebrica (Rendiconti della R. Accademia dei Lincei (5), vol. XXII, 1918, 2° sem., pag. 481), n. 7. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 58 — 416 — delle 4,,s sono numeri razionali, cioè se le @,,s si possono supporre numeri interi. Lo spazio polare di un Sy razionale rispetto a un sistema nullo razio- nale è, evidentemente, razionale; e un sistema nullo razionale di X, che sia singolare di specie 4 (dove % è necessariamente pari, una volta che X ha dimensione dispari) ('°), avrà, naturalmente, per spazio singolare (0 centro, o asse) un Sp_; razionale. Infine un sistema nullo di un Sx razionale di X si dirà razionale se si può concepire come indotto in Sx da un sistema nullo razionale di 3. 4. Se i punti di un Sx di X sono a due a due coniugati rispetto a un determinato sistema nullo di X, cioè, se il complesso lineare, che il sistema nullo definisce, contiene tutte le rette di Sx, diremo col Kantor (!’), che il sistema nullo o il relativo complesso lineare ha in Sx uno spazzo totale. Ricordiamo, a questo proposito, che se un sistema nullo (o complesso lineare) di x ha per centro o asse un S,;_;, i suoi spazi totali sono tutti e soli quelli contenuti negli spazi totali di dimensione massima. Questi ultimi sono della dimensione p-+/—1 e ognuno di essi passa per il centro del sistema nullo (o complesso lineare) considerato (°). 5. Ciò premesso, dimostriamo che : Se la varietà V, ammette un sistema A, 09, di integrali riduci- bili con 2q periodi ridotti, l Sg, congiungente le imagini a e @ di À è uno spazio razionale. E infatti se, per fissar le idee, 9 integrali indipendenti del sistema A sono appunto gli integrali u, , w2, ... tg, indicando con £;,,x(K=1,2...29) i periodi ridotti dell’integrale %; (j= 1,2... 9), esistono, per definizione, dei numeri interi 4,,x ({—12...2p;#=1,2...29) per cui sha: Ad Ma allora sarà pure, indicando con ®;,x la quantità complessa coniu- gata di 9;,x, k=?2q (3) opus dba ee 0) l Ea) Il (!°) Vedi per es. Bertini, Introduzione alla geometria proiettiva degli iperspazi (Pisa, Spoerri, 1902), pag. 105. (1) Kamtor, Z'heorie der linearen Strahlencomplexe im Raume von r Dimensionen (Crelle’s Journal, vol. 118, an. 1897). (1°) Palatini, Sui complessi lineari di rette negli iperspazi (Giornale di Matema- tiche di Battaglini, vol. XLI, 1908), n. 2. — 417 — Or si considerino in Z i 2g punti razionali aventi per coordinate gli elementi delle singole righe della matrice ha 7 hai sletate hop hi,e , ha,9 qua sa hop,s (4) ; . . . . ° . . . hi,29 ATI hop,29 in virtù delle (2) e (3) lo spazio che li congiunge contiene i punti ©,,%s, «0g 0302, 6g, Quindi esso coincide con l'$,7_, congiungente gli spazi a ed @, e questo è, come volevasi, uno spazio razionale. OssERvazIONE. — Il ragionamento fatto esclude evidentemente che la caratteristica della matrice (4) possa essere inferiore a 29 e quindi esclude, in particolare, che gli elementi di una sua riga possano essere tutti nulli. Ciò dimostra, incidentalmente, il teorema ben noto che un sistema li- neare completo di integrali riducibili non può avere dimensione superiore alla metà del numero dei periodi ridotti, diminuito di 2 (!*). Col Severi (!4), un sistema come il sistema A del teorema precedente si dirà un sistema regolare di integrali riducibili. 6. Il ragionamento del numero precedente è senz'altro invertibile, e quindi: Se esiste in X un Sog_1 razionale (AG (ese 21938] | | | OSE COOH CsH;, COOH per analogia con altre simili condensazioni che avvengono fra composti che contengono il gruppo CO e quelli che contengono il gruppo CH.. Dal prof. Paternò ebbi un poco di questo acido, da lui ottenuto per la prima volta, per cercare di prepararne alcuni derivati, e per vedere se il suo comportamento chimico fosse in accordo con la formula di costituzione attribuitagli. A questo scopo cercai dapprima di disidratare questo acido nella spe- ranza di ottenere l’acido f-trifenil-acrilico, per confrontarlo con quello che era stato preparato da Heyl e Meyer (’). Questi autori infatti, riscaldando a 220° il dicloro-difenil-metano con il cianuro di benzile, avevano ottenuto il nitrile dell'acido £-trifenil-acrilico, che per saponificazione, trasformarono nell'ammide e po nell’acido 8-trifenil- acrilico. Lo stesso acido ottennero saponificando l'etere metilico dell’acido B-trifenil-acrilico che si forma riscaldando a 220° il dicloro-difenil-metano con l’etere metilico dell'acido fenil-acetico. In questa ultima reazione, come prodotto secondario ottennero una sostanza, in cristalli rossi splendenti, che fonde a 150-151°, e che riconobbero per «-8-difenil-indone. Per azione dell'anidride fosforica, sull’acido del prof. Paternò, ho otte- nuto il difenil-indone di Heyl e Meyer. La formazione di questo prodotto conferma la costituzione attribuita all’acido f#-trifenil-lattico. L'anidride fosfo- rica avrebbe eliminato prima una molecola di acqua formando l'acido f-tri- (') Lavoro eseguito nell'Istituto chimico della R. Università di Roma. (*) Paternò e Ghieffi, Gazz. Chim. Ital.. 40 (2) 323 (1910). (*) Heyl e Meyer, Ber. 28, 2787 (1895). RENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 56 — 440 — fenil-acrilico, poi un'altra, dando luogo alla formazione del difenil-indone, secondo lo schema seguente: Us H; Cs H; Cs H; Cs H; ZA C—C; H ; (08) La Dal | | | | XX CsHs COOH CoHs COOH CO Quantunque io non sia riuscito a trasformare l'acido f-trifenil-lattico in acido £-trifenil-acrilico, pur tuttavia ho ottenuto l'etere etilico dell'acido B-trifenil-acrilico, facendo passare una corrente di HC1 gassoso attraverso ad una soluzione alcoolica dell'acido #-trifenil-lattico Ho tentato di ottenere l’etere etilico dell'acido f-trifenil-lattico, prepa- rando il sale d'argento di questo acido e facendovi agire lo ioduro di etile. Ho ottenuto però una sostanza, che all'analisi non dà risultati corrispondenti per l'etere etilico dell'acido 8-trifenil-lattico. La piccola quantità di sostanza non mi ha permesso di fare altre ricerche per chiarire la sua costituzione. Ho anche tentato di fare la sintesi dell'acido f-trifenil-lattico con una reazione analoga a quella con la quale Rupe e Busolt (*) avevano prepa- rato l'acido 8-difenil-lattico. Ho fatto agire, a caldo, il benzofenone e l'etere etilico dell'acido fenil- bromo-acetico in presenza di zinco, per ottenere l’etere etilico dell'acido B-trifenil-lattico; ma ho ottenuto un prodotto, difficile a purificarsi, sul quale, per ora, non ho fatto altre ricerche. Non avendo più acido f-trifenil-lattico, sono costretto perciò a interrompere il lavoro finchè non ne avrò preparato dell’ altro. Azione dell'anidride fosforica sull’acido f-trifenil-lattico. a-B- Difenil-indone. Ho disciolto gr. 2 di acido £-trifenil-lattico in 800 ce. di xilene, e alla soluzione ho aggiunto poi circa gr. 10 di anidride fosforica. Ho lasciato reagire a b. m. per 5 ore. Dopo pochi minuti, la soluzione, che era incolora, è divenuta di colore giallo arancio-intenso. Dopo avere distillato in corrente di vapore lo xilene, nel pallone rimane una sostanza semisolida, di colore granato. Estraendo questa con etere e (1) Rupe e Busolt, Ber. 40, 4537 (1907). — 44l — facendo poi distillare il solvente, resta un olio che, per raffreddamento, cristal- lizza in prismi di colore rosso-granato. Si discioglie, non molto, nell'alcool etilico bollente, e per raffreddamento non si deposita nulla. Lasciando svaporare lentamente l'alcool, a temperatura ordinaria, si depositano dei bellissimi prismi, ben formati, di colore rosso rubino. Fon- dono a 151-153°. Da gr. 2 di acido f-trifenil-lattico, si ottengono circa gr. 0,50 di questo prodotto. Si dissecca a 100° e si analizza: sostanza gr. 0,2283 CO; gr. 0,7458 H.0 gr. 0,1064 donde °/, trovato C 89,03 H 5,21 CREO calcolato —C 89,40 H 4,90 Questa sostanza è insolubile nell'acqua; è solubile nell’alcool etilico e metilico; più solubile in acetone e in benzolo. Neppure a caldo si discioglie negli idrati alcalini. Con H, SO, concentrato, a freddo, dà una bella colorazione verde-sme- raldo; a caldo il colore verde passa prima al giallo-arancio, poi al rosso- rubino. Non si decolora con anidride solforosa. Ha caratteri identici all'@-8-difenil-indone che Heyl e Meyer (') avevano ottenuto come prodotto secondario nella saponificazione dell'etere metilico dell'acido #-trifenil-acrilico. Etere etilico dell'acido f-trifenil'acrilico. CoHs .,C;Hy | | 0; C | | CoHs C00C.H; Ho disciolto gr. 3 di acido #-trifenil-lattico in 300 ce. di alcool etilico; ed ho fatto passare attraverso a questa soluzione, una corrente di HC1 gas- soso, fino a completa saturazione. La reazione avviene con svolgimento di calore, e occorre raffreddare esternamente il recipiente. La soluzione da inco- lora, diviene di colore giallo-scuro. Dopo aver lasciato stare per 12 ore, a temperatura ordinaria, ho distil- lato l'alcool, ed ho ripreso il residuo con una soluzione diluita di bicarbo- nato di sodio, fino a reazione alcalina. Precipita così una sostanza polve- rosa, di colore grigio scuro, solubile in acqua bollente, più solubile nell'alcool. (‘) Heyl e Meyer, loc. cit. — 442 — Dalla soluzione alcoolica, per aggiunta di acqua, precipita una sostanza fioccosa di colore bianco sporco. È solubilissima in benzolo e acetone, anche a freddo. Si cristallizza da una mescolanza di acqua ed alcool (1:1). Si hanno, così, degli aghetti bianchi, che fondono a 119-120°. La sostanza, disseccata a 100°, si analizza: sostanza gr. 0,2081 CO» gr. 0,6404 H,0 gr. 0,1136 donde °/, trovato C 83,93 H 6,10 Cs3Hs0 0, calcolato CC 84,20 H 6,10 Questo etere dà, con H, SO, concentrato, a freddo, una bella colorazione verde smeraldo, che, per riscaldamento, passa al rosso arancio e poi al rosso rubino. Azione dello toduro di etile sul sale d’argento dell’acido f-trifenil-lattico. Su gr. 5,2 del sale d'argento dell'acido #-trifenil-lattico, ben disseccato, in 20 ce. di alcool, ho fatto agire, a caldo, per 1 ora, cc. 15 di ioduro d'etile. La soluzione, da incolora, diviene di colore giallo pallido, e al fondo del recipiente si deposita lo ioduro d'argento. Filtro, lavo bene con alcool bol- lente; poi distillo tutto l'alcool e lo ioduro d'etile, che non ha reagito. Rimane così un olio, denso, di colore rosso scuro, che per raffreddamento cristallizza. Si discioglie molto facilmente in alcool etilico. Anche questo prodotto, così ottenuto, si colora, a freddo, con H; SO, concentrato, in un bel verde smeraldo; a caldo passa dal colore arancio al rosso rubino. Si cristallizza da una mescolanza di acqua ed alcool (1: 1). Si hanno, così, dei grossi prismi trasparenti, incolori, che tondono a 116-119°. La sostanza, disseccata a 100°, è stata analizzata: I sostanza gr. 0,2419 CO, gr. 0,7318 H,0 gr. 0,1339 II sostanza gr. 0,2561 CO; gr. 0,7746 Hs0 gr. 0,1403 IIl sostanza gr. 0,2390 CO». gr. 0,7232 H,0 gr. 0,1336 donde °/, trovato : C 82,51 — 82,49 — 82,53 H 6,19— 6,13— 6,25 I risultati analitici ottenuti sono molto differenti dal calcolato per la formula Cs3 Hs90:, dell'etere etilico dell’acido f-trifenil-lattico, per la quale si calcola C°/ 79,8 H9n00:38 Per ora non saprei che formula attribuire a questa sostanza: esperienze che mi propongo di eseguire in seguito, potranno forse chiarirne la costituzione. — 443 — Cristaltografia. — Sullo solfo di Zonda-S. Juan (Repubblica Argentina). Nota di C. PERRIER, presentata dal Socio C. PARONA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Chimica. — Sui dorati. Sistema Na?0,B°0?, H°0 a 60°. Nota I di U. SporcI e F. Mrcacci, presentata dal Socio R. NASINI. In una serie di Note precedenti vennero studiati, da uno di noi (*), diversi sistemi costituiti da B*0*, H?O e ossidi di metalli alcalini e alca- lino-terrosi a 30°, dal punto di vista della regola delle fasi, ullo scopo di precisare la composizione dei borati formantisi come fasi stabili, ottenendo insieme le loro curve di solubilità, coi metodi che in dette Note vennero ampiamente descritti. Degli alcalini il sistema Na?O - B?O* - H®O era stato già studiato da Dukelski (*), a 30°: cosicchè, proseguendo ora il nostro studio a temperature diverse da 30°, riprendiamo appunto da quel sistema. In questa Nota riferiamo intorno ai resultati ottenuti a 60° per tutta la parte del diagramma che riguarda i composti che si ottengono come fase solida a partire dall’acido borico sino al metaborato; prossimamente riferiremo sui composti dal meta- borato sino alla soda caustica. I borati di sodio descritti più o meno sicuramente fin qui sono quelli che riportiamo nella tabella seguente, insieme colle loro composizioni cen- tesimali. La notazione adottata nella tabella è la consueta, e cioè: il primo numero indica le molecole di Na?0; il secondo le molecole di B*O? ; il terzo le molecole di H?0. (') Lavoro eseguito nel Laboratorio di chimica generale della R. Università di Pisa, (*) U. Sborgi, Sui dorati. Questi Rendiconti, anni 1912, 1913, 1914. (*) M. Dukelski, Zeitschr. f. anorgan. Chemie 50 (1906) 38 e seguenti. — 444 — TABELLA TI, Composizione centesimale Composto SPERIMENTATORI (') Nas0 °/o|B203 °/o[H:0 °/o 1-1-4 .|30.43 | 34.29 {35.28 | Benedikt (Ber. deutsch. chem. Ges. 7, 700). 1-1-4.5 | 29.14 | 32.85 | 38.01 | Atterberg (Oefvers af K. Vetensh. Akad. Forh. 1874, 6, 16). 1-1-5.5 | 26.87 | 30.29 | 42.83 | Atterberg, loc. cit. 1-1-6 |25.86 |29.16 | 44.98 | Berzelius (Pogg. Ann. 34. 566): Bechi (Sillim. Journ. [2] 19 Nr. 55, p. 120). 1-1-8 |2249 |25.35 |52.16 | Ditscheiner (Ber. deutsch. Ges. 7. 402); Rammelsberg (Pogg. Ann. 49. 460). 66 |51.07 | 26.27 | Schweizer (Lieb. Ann. 76, 267). 1-2-5 | 21.26 | 47.93 | 3081 | Buron, Payen, Soubciran, Pellerin etc. 1-2-10 | 16.25 | 86.63 | 47.12 | Vohl, Phillips, Campbell, Berzelius, Schweizer, Stromeyer Marignac, Bechi etc. 1-3-x |22.82 177.18] — Spiegel (Chem. Ztg. 1904, 750). 1-4-10 | 11.89 | 53.63 | 34.48 | Bolley (Ann. Pharm. 68, 122). 1-5-10 | 10.49 | 59.11 | 30.40 | Atterberg, loc. cit. 1-6-12. | 8.89 | 60.17 | 30.94 | Tiinnermann (Kastn. Arch. 29, 8). 2-5-2 | 26.19 | 73.81 - Barthe (J. Pharm. Chim. [6] 7, 303) 1-2-4 | 22 Nello studio a 30°, il Dukelski confermò la esistenza, come fasi stabili solide, dei composti 1-1-4, 1-1-8, 1-2-10 e 1-5-10. Ecco ora quanto risulta dalle nostre esperienze a 60°: I modi di esperienza ed i metodi analitici da noi adoperati sono del tutto uguali a quelli già descritti nelle precedenti Note; e per brevità sti- miamo opportuno di rimandare a quelle. Per la estrazione dei campioni di soluzione adopravamo le solite pipette due volte ricurve; ma usavamo di riscaldarle a circa 60° prima di intro- durle nella soluzione, a fine di evitare variazioni di temperatura nelle zone della soluzione dove avveniva l'estrazione. La preparazione dei miscugli posti a reagire venne fatta nei modi più variati, come apparisce dalla tabella che segue: così talvolta ponevamo a reagire acido borico, soda caustica ed acqua; talvolta partivamo da un borato preformato con aggiunta della base o dell'acido ecc., per constatare se si giungeva agli stessi punti o.a punti di una stessa curva per tutte le vie possibili, il che meglio ci assicurava di aver raggiunto l'equilibrio. Del resto, ci assicuravamo di aver raggiunto l'equilibrio analizzando campioni estratti suc- cessivamente. Nella tabella seguente riportiamo anche gli intervalli di tempo, durante i quali ciascun miscuglio veniva tenuto in agitazione in termostato. (1) Cfr. Gmelin Kraut®s, Handb. d. anorg. Chemie, Bd. II, Abt 1 (1906), pag. 415 e seguenti. TABELLA II. Tempo Soluzione Resto Numero Sostanze poste di agitazione | Corpo d'ordine a reagire in Nas 0|B:0,|H,0 Na, 0|B:0,|H:0| di fondo i termostato °/o °lo | IPO ICT LIA 1 Acido borico, Acqua. ...| 6 giorni] — | 7.39|92.61 2 Acqua, Borace, Ac. borico | 2» 0.58) 9.65/89.79| 0.24|39.96|59.80 H, BO, 3 a) » » > 4» | 1.38|13.68|84.94 3 b) ” ”» ” dò» 1.39|15.92|84.69| 0.44|43.20|56.36 » 4a)( Acqua, Soda caustica e [10 » 2.91|20.13|76.96 4 ,) È Acido borico . ....... ll» 2.92|20.26|76.82| 1.21|42.47|56.32 ” 5 a)( Acqua, Soda caustica e | 5» 3.22|21.06|75.72 5 5) È Acido borico . 9 » 3.08|20.74|76.18| 0.88|44.08|55.09 a 6 a)( Acqua, Soda caustica e | 5° » 3.44|22.51|74.05 6/):0 Acido borico ........ 6 » | 341|2229/74.30| 3.26|45.60|5140|H,B0,1-5-10 7 Acqua, Soda e., Ac. borico | 2» 3.44|22.17|74.39 se | 8 Acqua, Borace, Ac. borico | 6° » 3.40|22.59|74.01| 5.44|42.05|52.51 » 9a) ( Acqua, Soda canstica e | 9» 3.36/21.67|74.97 È 5) ( Acido borico- -;...... 1l » 3:22|21.94|74.74| 7.57|46.45|45.98 1-5-10 10 Acqua, Borace, Ac. borico | 3 » 4.40|23.76|71.84| 8.36|46.91|44.73! ” 11 Acqua, Soda c., Ac. borico | 3° » 4.46|24 07|71.47|11.10|59.40|29.50 ” 12 Acqua, Soda, Ac.tetraborico | 7 » 5.10|25.62|69.28| 8.56|16.80|44.64 ” 13 Acqua, Soda c., Ac. borico | 1°» 5.45|27.08|67.47|10.71|58.83|30.46 ” 14 a) ” ”» ” 80» 6 11|28.94 | 64.95 14 d) ” ” ” 90» 6.08 |28,38|65.54| 8.90|48.82|42.28 ” 15 a) ( Acqua, Borace e Acido bo- | 7: » 6.38|29 13 |64.49 15 Di FCORMRANIOO ei Sal) 6.29|28.77|64.94| 6.80|33,23|50.97 ” 4 Acqua, Soda caustica 1-5-10 | 9» 6.35|29.50|64.15| — A == ” ” ” 2» 7.15|30.26|62.59| 8.84|45.43|45.71 ” 18 Di Soda, Acido borico, dè» 8.41/33.77|57.82] — — — IR) Acqua ila 5 » | 8.29|33.57|58.14| 9.35|44.73|45,92 ; 19 DI ”» » ” 3 in IB.64|849 56025 — | 199) » » 1» 4» | 8.53|34.31|57.16) 9.52/44.04|46.44 ” 20 Acqua, Soda c., Ac. borico | 3° » 11.29 |41.47|47.24|12.83|47 81|39.36|1-5-10 + 1-2-5 21 a) )\ Acqua, Soda caustica e | 4» |11.14|39.90|48.96 21 5) Acido borico . .. +... 6°» 11.02|39.90|49.08|18.83|46.69 34.84 1-2-5 — 446 — Segue: TABELLA II. Tempo Soluzione Resto Numero Sostanze poste di agitazione d'ordine a reagire in Na, 0| Bs 0, | Ha 0 |Nas 0] B403| Hy 0 3 termostate | 0/, °/o °/o °/o °/o °/ 22 a) | Acqua, Soda caustica. Bo- | 4 giorni| 8.42|28.05|63.53 22 4) l race, Acido borico.. .... 5» 8 32|27.98|63.70|15.25|39.13|45.62 23 a) ( Acqua, Borace e Acido bo- | 9° » 8.15|27.59|64 26 der DIANO i I 11» 7.96|27.11|64.98| 8.68|28.88|62.44 24 a) | Acido borico, Borace e | 9° » 7.77|25.70|66 53 24 d) ( ACQUA n ana ll» 7.77|25.73|66.50|12.18|33.52/54.30 25 Acqua, Soda c., Ac. borico | 3° » 7.57(2441|68 02 26 ” ” ” 2» 6.84|20.40|27.24 27 ” ” » 14» 6 48|19.75|73.77|10.95|28.59|60.46 28 Acqua, Borace, Ac. borico | 2» 5.77|16.58|77.65|13 94|32.23|53.83 29 Acqua, Soda c., Ac. borico | 4°» 5.65 |14.89|79.46|10.80|26.17|63.03 30 Acqua, Soda c., 1-5-10...|16 » 5 _60|14.32|80.08|13.79|35.94|50.27 81 a) | Acqua, Borace . ...... 3» 5.14|11.75|83.11 31 d) ”» mil cain eee 4» 5.07|11.72|83.21|12.86|29.18|57.96 82 a) | Acqua, Soda caustica e | 24 ore 5 03|11.16]|83.81 32 5) | Acido borico . ....... 48.» 5.15|11.77|83.08|18.55|42.11/39.34 33 Acqua, Soda c., Borace 3 giorni | 5.78|10.83|83.39|14.68|32.52|52.80 34 a) ” ” ” 38» 6.95|11.42|81.63 31 2) ” ” ” 40» 6.95|11.50|81.55|17.50|38.45 |44.05 35 ” ” ” 8” 10.32|15.26|74.42|17 86|37.33|44.81 36 | Acqua, Borace, Ac. borico | 2 » 10.48|15.29|74.23|16.59]33.43|49.98 Dil a) ( Acqua, Soda caustica e | 4» 11.48|16.57|71.95 37 b)( Borace:........... Dan 11.58|16.62|71.80|18.89|40.57|40.54 38 a) DI aaa EMO 8005 13.93 |18.54|68.43 38 2) DO La e ali o 4» 12.97|18.62|68.41|18.04|35.88|46 08 39 Acqua, Soda c., Ac. borico | 4° » 13.17|18.57|68.26 40 Acqua, Soda c., Borace .. | 2°» 13.10|18.65|68.25 41 a) | Acqua, Soda c., Ac. borico | 3 » 13.36|18.90|67.74 41 8) ” ” ” ò » 13.31|18.75|67.94|18.54|87.57]|43.89 42 a) | Acqua, Soda caustica e | 6° » 13.45 |19.27|67.28 42/5) ( ‘Borace; utili... 8 » |18.51|19.10|67.39|18.58|37.98|43.44 Corpo di fondo — 447 — Seque: TABELLA II n l'empo Soluzione Resto Numero Sostanze poste di agitazione l Corpo d'ordine a reagire in Na, 0[B,0,| H,0 |Na,0|Bs0,|H,0| di fondo É a i | Acqua, Soda c., Ac. borico | 2 giorni |14.06|19.77|66.17 44 a) | Acqua, Soda caustica ...| 5» 14.16 |19.98|65.86 44 va Borat ore oe na 7 » |14.12|19.97|65.91|17.62|83.85|48.53 12-5 5 |> » 4 » |16.03|22.61|61.36 46 a) | Borace, Soda caustica e | 3°» 15.89 |22.47|61.64 46 8) ( Acqua LL... 0... 5 » |16.13|23.05|60,82|19.17|37.66|43 17 ” 47 a) » » » 8 » |1641|23.38|[60.20 | 47 d) ” ” ”» 9» |16.38|2338|60,24|16.98|27.28|55.79 ” 48 a) ( Acqua, Soda caustica e | 2° » 16.32|23.03|60.65 48 B) È Acido borico ........ 10 » |16.44|23.45|60.11|18.99|36.16|44.85 È 49 ”» ” 3» |17.20|2387|58.93 50 Acqua, Soda, Ac. tetraborico | 10» 18.49|25.94|65.57|20.55|39.91|39.54 » 51 Acqua, Soda e., Ac. borico | 27 » |19.18|27.09|53.48|20.77|40.63|38.60 È 52 » ” n 4» |2125|31.06|47.69|21,38|48.45|35.17 5 53 a) » » » |12 » |2289|32.85|4476 58 0) ”» ”» 13 » |22.21|32.49[45.30|22.36|45.45|32.19 n 54 Soda c., Acqua, Ac. borico | 60 22.21|32.17|45.62|22.35|40.87|36.88 ” Come apparisce da questi risultati ('), a 60° noi troviamo come fasi sta- bili dopo l’H8 BO*, il pentaborato decaidrato 1-5-10, ed il diborato penta- idrato (borace con 5 molecole di acqua) 1-2-5. Dobbiamo notare che il punto invariante tra il composto 1-5-10 e l'1-2-5 è dato dalla sola esperienza 20. Tentammo ripetutamente e per diversissime vie di riottenerlo, ma sempre il miscuglio posto in termostato finiva per divenire semisolido, in modo che era impossibile estrarre il cam- pione della soluzione in quantità adatta per l’analisi. Stiamo ancora facendo esperienze in proposito e torneremo su questo in seguito quando completeremo il presente diagramma. Anche è difficilissimo ottenere il punto invariante tra il diborato (1-2-5) ed il metaborato il quale, come risulta dalle esperienze che abbiamo in corso, segue immediatamente al diborato. (') Il diagramma che si può ricavare colle solite regole grafiche da questi resultati verrà pubblicato insieme ai diagrammi delle esperienze che abbiamo in corso. RenpIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. DI — 448 — Per quanto riguarda la composizione delle fasi solide, essa risulta con molta precisione dalle linee di coniugazione le quali convergono con tutta regolarità nei punti rispondenti all'1-5-10 e all'1-2-5. Tuttavia, poichè le convergenti dell'1-5-10 formano un angolo assai acuto e, come è noto, questo può sempre ingenerare dubbî sull’esattezza delle conclusioni, volemmo a maggior sicurezza preparare il composto 1-5-10, e analizzarlo dopo averlo separato dalla soluzione ed asciugato rapidamente tra carta da filtro. I resultati che ottenemmo sono quelli delle esperienze 11 e 13 (Resto) i quali concordano bene con la composizione teorica dell’1-5-10 (vedi ta- bella I), dentro i limiti degli inevitabili errori sperimentali. Dalla espe- rienza 11 si ricava poi anche la composizione della soluzione del composto 1-5 nell'acqua pura; non così dalla esperienza 13 nella quale sì aveva un eccesso dei due componenti in soluzione. Giova notare che appunto allo scopo di avere la composizione della soluzione la esperienza 11 venne condotta nel modo seguente : Sl preparò il composto mischiando acido borico, soda caustica ed acqua in quantità pesate; poi si decantò la soluzione sovrastante, sì lavò per decantazione il precipitato, si aggiunse acqua e si lasciò in termostato sino ad equilibrio; allora si analizzò la soluzione, e quindi, dopo separato ed asciugato, il corpo di fondo. Invece, nella esperienza 183 non si lavò per decantazione; e solo si asportò il corpo di fondo, si asciugò e si analizzò. I valori trovati colla esperienza per la composizione della soluzione dell'1-5 in acqua pura, concordano bene con quelli che si possono ricavare dal diagramma coi mezzi grafici consueti: da quei valori si ha che la solu- bilità di 1-5 nell'acqua pura a 60° è data da 39,92 di sale anidro in 100 p. di acqua. Anche per l'1-2-5 si cercò sperimentalmente la. composizione della sua soluzione in acqua pura partendo da borace puro ed acqua. I valori che sì ottennero sono quelli della esperienza 31; ed essi pure concordano pienamente con quelli ricavabili con mezzi grafici. La solubilità del borace a 60° è data perciò da 20,18 di sale anidro in 100 parti di acqua ('). Come abbiamo già detto, riferiremo prossimamente sulle esperienze attual- mente in corso, dalla curva del diborato a quella della soda caustica. (*) Horn und van Wagener (Amer. Ch. Journ. 30, 347, an. 1903) dànno per punto di trasformazione dell'1-2-10 in 1-2-5 circa 60°, e a circa 60° trovano 20 gr. di sale anidro in 100 grammi di acqua (confr. Landolt-Bòrnstein, Physikalisch-Chemische Tabellen, 1905); Van’t Hoff e Blasdale (Ber. Berl. Acad., 1905, pag. 1086) trovarono dilatometricamente, come punto di trasformazione, 60°, — 449 — Embriologia vegetale. — Contribuzione all'embriologia delle Euphorbiaceae. Nota del dott. E. CARANO ('), presentata dal Socio R. PIROTTA. Le specie di Euphorbiaceae tinora esaminate dal punto di vista em- . briologico si comportano in due modi differenti: le une, e sono la grande maggioranza, producono un gametofito; a 8 nuclei, ordinati nell’ interno del sacco embrionale nel modo tipico per le Angiosperme; le altre, ancora scarse in numero (Euphorbia procera, E. palustris, E. virgata, Acalypha Sp.), producono invece un gametofito in cui i nuclei sono precisamente il doppio del caso ordinario, e cioè 16, così disposti da formare quattro triadi all’estre- mità dei due diametri longitudinale e trasversale del sacco, ed un nucleo secondario nel centro, risultante dalla fusione di quattro di essi. Il Modilewski, al quale dobbiamo le prime osservazioni sulle £uphor- biaceae a gametofito 16-nucleato, esprimeva in uno dei suoi lavori (?) il parere che, estendendo le ricerche a nuove specie di questa famiglia, sarebbe stato possibile trovarne di quelle in cui fossero riuniti i caratteri dell'una e dell’altra delle due serie. Ed accennava brevemente ad £uphorbdia lucida, riserbandosi però di sottoporla ad un più accurato esame prima di darne un giudizio definitivo. A me sembra, però, che un caso siffatto non meriterebbe quell’ interesse che potrebbe invece meritare un altro in cui sì presentasse un comporta- mento intermedio fra le due serie. Ora questo caso è realizzato in Podrnsettia pulcherrima, una specie da noi diffusamente coltivata per la vivacità del colore delle sue brattee, e che qualche anno fa è stata oggetto di studio da parte della signorina Donati (*). Il gametofito 16-nucleato nelle specie di Euphorbia suddette ripete la sua origine da ciò, che fra i quattro nuclei provenienti dalla divisione ridu- zionale della cellula madre delle megaspore, non si formano membrane; sicchè, non individualizzandosi quattro distinte megaspore, i nuclei di ridu- zione rimangono nella medesima cavità, e, per mezzo di due successive divi- sioni, ne producono in definitiva sedici. (') Lavoro eseguito nel R. Istituto botanico di Roma. (*) Modilewski I., Veber die anomale Embryosackentwicklung bei Euphorbia pa- lustris L. und anderen Euphorbiaceen. Berichte d. deutsch. bot. Gesellsch., Bd. XXIX, 1911, pag. 433. (3) Donati G., Ricerche embriologiche sulle Euphorbiaceae. Annali di botanica, . vol. XI, 1913. — 450 — In Potnsettia pulcherrima le cose procedono, nel caso più frequente, secondo il modo tipico: vi è cioè un'unica cellula madre che, dividendosi riduzionalmente, genera quattro megaspore disposte in pila, tre delle quali vanno a male, ed una, l’inferiore, mediante tre divisioni dà luogo ad un gametofito 8-nucleato. Eccezionalmente però le megaspore, separate sempre da distinta parete e disposte piuttosto che in pila, in tetrade, germinano tutte e quattro. accennando così alla produzione di quattro sacchi embrionali distinti. In altri casi due megaspore germinano e due degenerano; in altri infine ne germinano tre; in una parola in Pormsettia pulcherrima vi è la tendenza a sviluppare più di una delle megaspore provenienti dalla mede- sima cellula madre. Ora se noi stabiliamo un confronto fra il comportamento di Euphorbia procera, palustris ete., e quello della nostra pianta, vediamo che esiste una notevole corrispondenza: in entrambi i casi la cellula madre produce quattro nuclei di riduzione, i quali però, mentre nel primo caso, non essendo sepa- rati fra loro da pareti, dànno origine ad un gametofito complessivo di 16 nuclei, nel secondo, essendo separati da pareti, generano quattro gametofiti distinti. In un prossimo lavoro spero di dare maggiori dettagli in proposito, ed anche le figure illustrative. Fisiologia vegetale. — Su: procedimenti culturali suscetti- bili di provocare un aumento di zucchero negli steli del Mais. Nota di O. MunEeRATI e G. MezzADROLI, presentata dal Socio Ri. PIROTTA. Come è notorio, l’estrazione dello zucchero dal granturco è stata oggetto di numerosi studî e tentativi, che risalgono allo scorcio del secolo XVIII e inizio del secolo XIX (*); nel 1839 Pallas affacciava poi nettamente il con- cetto di asportare le spiche immature come mezzo per accumulare una mag- gior quantità di zucchero nello stelo (*); nel 1879 Dureau parlava di una industria dello zucchero di granturco negli Stati Uniti (?). (*) È opportuno di ricordare che Berti Pichat rivendicava la priorità dell'idea all’ita- liano Mirabelli (Istituzioni di agricoltura, Torino, vol. IV). Si veggano inoltre altre no- tizie in Legier E., Mistoire des origines de la fabrication du sucre (Essais sur la fa- brication du sirop de mais), Paris 1901; Borgnino G. C., Cenni storico-critici sulle origini dello zucchero in Italia, Bologna 1910; Stohmann, Handbuch der Zuckerfabri- kation, Berlin 1874. (') Compt. rend. Académie sciences, tome VII, pag. 692. (?) Dureau G., L’industrie du sucre de sorgho et de maîs aux Etats Unis. Journal des fabricants de sucre, 26 mars 1879. — 451 — Nel 1906 il chimico americano F. L. Stewart di Murrysville (Pensi I- vania) brevettava come nuovo il procedimento culturale preconizzato da Pallas, di asportare cioè le spiche allorchè « l’amido granulare comincia a depositarsi nelle cariossidi, ossia quando la sostanza liquida contenuta nel seme comincia a prendere un aspetto opaco o lattescente » (*). Più tardi lo Stewart completava il suo metodo suggerendo la concomitante asportazione della infiorescenza maschile. La comunicazione dello Stewart doveva mettere evidentemente il campo industriale a rumore. Si parlava già di una Società costituitasì nella stessa Pensilvania, con un capitale di 10 milioni di dollari; di una prima grande fabbrica a Pittsburg (*) e di un'altra a Cuba. Per i climi caldi littoranei degli Stati Uniti e della Repubblica Argentina si pronosticavano due rac- colti all'anno, con prodotti di 1300 e più quintali per ettaro di steli, e quindi con un ricavo, per ettaro, di 200 quintali di zucchero, 250 ettolitri di alcool e 250 quintali di cellulosa come sottoprodotto, cioè, per il solo zucchero, il quadruplo di quanto possano dare la barbabietola e la canna: la detronizzazione di queste culture era frattanto vaticinata come verifica- bile a non lunga scadenza, e nell’ Europa il monopolio della produzione dello zucchero sarebbe passato dalle regioni del nord a quelle del sud. Era naturale che in ogni paese, dove la cultura del granturco è pra- ticata con successo, si ripetessero le prove, e che le riviste agronomiche e tecnico-industriali le andassero poi man mano segnalando. Le prime inda- gini in Europa, che a noi consti, furono compiute in Ungheria da G. Doby, con resultanze molto incoraggianti (*); seguirono, sempre in Europa, le ri- cerche di E. Heckel a Marsiglia, pure con esito lusinghiero (l'A. si servì di una varietà di mais a grande sviluppo, il granturco gigante di Serbia, mentre più tardi Heckel considerava particolarmente degno di attenzione il granturco della Costa d'Avorio, che contiene normalmente il 10 °/, di sac- carosio) (4); da segnalarsi, ugualmente in Francia, le indagini di Ph. Vilmorin (*) Stewart 1. L., Verfahren zur Erzeugung von Maiszucker. Zeitschrift des Vereins der Deut. Zuckerindustrie, LVI Jahrg. (1906), pag. 567. (°} The utilizazion of maize plant (Indian Com) for sugar, ece., The American Sugar Industry, vol. XII (1910), n. 1, pag. 12. (*) Doby G., Zucker-, Cellulose und Alkoholfabrikation aus Mais. Chemiker Zeitung, XXXIV Jahrg. (1910), n. 149, pag. 1330. (4) Heckel E., De l’influence de la castration mile, femelle et totale sur la forma- tion du sucre dans les tiges du mais et du sorgho sucré (Compt. rend. Acad. des sciences, tome 155, 1912, n. 16, pag. 686); De la castration chez les végétaur, son influence sur le maîs et les sorghos au point de vue de la production du sucre (Revue scientifique, LI (1913), n. 8, pag. 225); Sur la castration mile du mais géant de Serbie (Compt. rend. Académie des sciences, tome 159 (1914), I, pag. 16. — 452 — ed F. Levallois con deduzioni poco ottimistiche ('): ad ogni modo gli A.A. troverebbero preferibile le varietà a seme zuccherino (Z. M. saccharata). Nelle Indie Olandesi N. Marx conduceva una serie di esperienze che lo por- tavano ad affermare come il succo ricavabile dal granturco, sia per il basso tenore in zucchero, sia per le sue impurità, non può valorizzarsi industrial- mente (°). Negli Stati Uniti quel Ministero di Agricoltura incaricava C. F. Clark di stabilire, con studî varî, la importanza del problema, e lo sperimentatore concludeva che, pur giungendo l'asportazione delle spiche immature ad aumentare di parecchio, particolarmente in alcune varietà, il contenuto zuccherino dello stelo, la qualità industriale del prodotto è molto al di sotto di quella della canna (*). Vanno infine citate le esperienze compiute su larga scala in Argentina da I. Bohle (che si servì, per le sue indagini di natura industriale, di una piccola fabbrica di zucchero a Tucuman), il quale A. concludeva un suo rapporto prevedendo « molto lontano ancora il giorno in cui si possa parlare di fabbricazione di zucchero di mais nell’Argentina » (). * * x Spinti dal desiderio di portare un modesto e occasionale contributo allo studio del problema nella bassa valle Padana, dove il granturco trova delle condizioni particolarmente propizie di sviluppo, credemmo di intraprendere alcune indagini tanto nel 1913 quanto nel 1914. Esperienze del 1913. Nel 1913 ponemmo a raffronto la facoltà saccarigena del granturco gigante di Serbia (suggerito da Heckel) e di una delle più reputate varietà, pure a grande sviluppo, della plaga padana, il « friulotto ». Da un appezzamento uniforme, nel quale le due varietà erano state espressamente seminate ai primissimi di aprile, prelevammo, il 28 luglio, un campione per un primo saggio; e nello stesso giorno, a varii gruppi alterni di piante, destinate ad analisi successive, vennero asportate rispettivamente: le sole spiche (a grano immaturo); la sola infiorescenza maschile; le spiche e l'infiorescenza maschile insieme. Un altro gruppo si tenne evidentemente come testimonio. (*) Vilmorin Ph. e Levallois F., Contribution è l histoire du sucre de mais, Revue scientifique LI (1913), I, 18, pag. 396. (2) Marx N., Sugar from corn, The Louisiana Planter XLIX (1912), 14, pag. 225. (9) Clark C. F., Preliminary report on sugar production from maize. U. S. Dept. of Agriculture, Bureau of Plant Industry, Circ. 111, febr. 1913. (4) Bohle I., Die Fabrikation von Rohraucker aus Mais. Die deutsche Zuckerin- dustrie, XXXIX Jahrg. (1914), n. 24, pag. 528. — 453 — Una lieve grandinata, sopraggiunta verso la metà di agosto, laciniava parzialmente il fogliame, così che l’esperienza veniva alquanto a perdere del suo valore. Un'analisi fu però egualmente eseguita il 22 settembre. I risultati di essa figurano nel qui unito prospetto, nel quale, per brevità, sono tralasciate le indicazioni relative al peso delle piante, lunghezza degli steli, ecc.: GRANTURCO LOCALE « FRIUOLOTTIO » GRANTURCO GIGANTE DI SERBIA | Analisi il 22 settembre 1913 Analisi il 22 settembre 1913 Analisi TORA il 28 luglio il 25 luglio 1913 Asporta- _|Asporta- 1913 Asporta- Tao Asporta- (all’inizio | Piante ea Spor RN (all’inizio | Piante A LIA a Sa normali Saia. on sciafior, EE normali | scenza a e Lofion DIOVA) maschile| Spiche [maschile Lora) maschile| SPiche |maschile °/o °lo °/o °/o %/o °/o %o °/o DE °/o Grado Brix nel sugo 8.5 6.2 7.8 11.5 11.70 6.95 8 6.7 sal 12.1 Saccarosio 1.26 1.75 DID, 5.46 6.12 1.67 53 IR72, 0.15 4.56 Purezza . . 14.8 28.20 | 37.40| 47.4 | 52.30] 24.0 16.6 | 25.6 | 46.8 | 37.6 Riduttori . . . 2.45 1.22 1.56 2 1.56 2.380 1.26 1.79 1.40 1.56 Sostanza secca oonsteli. = «| 19137 | 721K30126 254516241891 Ml5:01 21.38 | 22.17| 24.04| 26.90 Ceneri °/o sost. SECCA 4.68 5.79 5.98 4.46 4.50 DIS 4.84 4,39 3.67 3.76 Ceneri °/o steli 0.91 1.22 1.54 Te TESA 0.84 1.03 1.41 0.90 1.01 Altre determinazioni, fatte successivamente per il solo saccarosio, pale- sarono una degradazione ancora più rapida. Anche nelle condizioni più pro- pizie (asportazione delle spiche e della infiorescenza maschile) lo zucchero era mescolato a materiali eminentemente melassigeni, e tali quindi da to- gliere ogni valore industriale alle piante. Esperienze del 1914. Nel 1914 operammo col solo granturco « friulotto », semplificando le prove per la parte analitica, ma complicando le combinazioni dei tratta- menti, più per determinare come avrebbero reagito le piante, che non per un concetto di eventuale applicazione pratica. Ai gruppi, di cui alle prove del 1913 (asportazione spiche, asportazione infiorescenza maschile, asporta- zione tanto delle spiche quanto delle infiorescenze maschili), ne aggiungemmo altri costituiti: da piante nelle quali le spiche vennero asportate senza il loro rivestimento bratteale; da piante denudate completamente; da piante private di foglie, di infiorescenze maschili e dell'asse carnoso senza brattee. L'involuero bratteale, purchè la spica vi sia tolta per una incisione late- rale, continua a mantenersi verde più o meno a lungo (sino a oltre 15 giorni). — 454 — Il 5 settembre si procedeva ad una analisi per il saccarosio, la sostanza secca e la purezza, e si ottenevano le seguenti cifre: Saccarosio Sostanza Purezza secca a): Controllo? 3a 6.49 8.6 75.4 b) Asportazione infiorescenze maschili . . . . 8.03 10.0 80.3 c) Asportazione infiorescenze maschili e spiche, compreso involucro bratteale . . . .. . 9.67 12.9 74.9 d) Asportazione infiorescenze maschili e dell'asse carnoso della spica, lasciando l'involucro biatboalo:& cor eee a. 10.99 12.9 85.1 e) Denudamento completo . . ....... 141 3.3 42.8 f) Asportazione infiorescenze maschili, foglie e spiche senza brattee (denudamento completo lasciando solo involucro bratteale) . . . . 2.83 5.4 52.4 L'accumulo di saccarosio nello stelo fu molto superiore in confronto al 1913. Apparirebbe inoltre manifesta l'azione esercitata dall’involucro bratteale delle spiche come organo di assimilazione. Per ricontrollare l'osservazione a questo ultimo riguardo, ed anche perchè, come dicevamo, una delle argomentazioni dei fautori della utilizzazione del mais quale pianta saccarifera è che di questa cultura possano farsi due rac- colti all'anno, credemmo opportuno di eseguire anche una prova sul gran- turco in secondo raccolto. Varietà sperimentata : un cinquantino, seminato nella seconda metà di luglio in un podere del prof. A. Piva di Rovigo. Asportazione delle spiche con l'involucro bratteale ; delle spiche senza brattee; denudamento completo dello stelo ecc.. ai primi di ottobre. Nella seconda metà dello stesso mese sopravvenivano dei fortissimi freddi e qualche brinata che provocarono un parziale essiccamento delle foglie, per cui forzatamente lo scopo della esperienza poteva ritenersi quasi frustrato. Ma poichè bastava mettere assieme solo alcune cifre comparative, facemmo egualmente, al 24 ottobre, una de- terminazione per il saccarosio e per la sostanza secca. Ecco le cifre ottenute: Saccarosio Sostanza secca a) Controllo; eran ea 0.51 4.4 b) Asportazione infiorescenza maschile e spiche insieme con le brattee... elena 3.35 9.9 c) Asportazione infiorescenza maschile e spiche lasciando involucro bratteale . . . . . . 3.73 10.5 d), Denudamento completo ... . ...... 0.28 5.3 e) Denudamento completo lasciando involucro bratteale: sona nio e A Rn cao 0.60 6.0 — 455 — Come era da prevedersi, il titolo in saccarosio si palesò molto basso, ma si mantenne il parallelismo nella facoltà saccarigena dei singoli gruppi. CONCLUSIONI. Mentre ci proponiamo di continuare le nostre osservazioni negli anni venturi, possiamo sentirci autorizzati, dalle prove di un biennio, a formulare le seguenti conclusioni : 1°) Rimane ancora una volta confermato (se ve ne fosse stato bisogno) che con l’asportazione delle spiche immature (secondo il procedimento Pallas- Stewart) la pianta di granturco reagisce accumulando una quantità più 0 meno notevole di saccarosio nello stelo, e che l'aumento è maggiore quando si asporti contemporaneamente anche l’intiorescenza maschile. Una delle varietà considerata da Heckel come preferibile, il granturco gigante di Serbia, non ha mostrato di possedere una facoltà saccarigena superiore ad una delle varietà ad alto sviluppo (Friulotto) comunemente coltivate nella bassa valle Padana. 2°) Risulterebbe, come fatto nuovo, che, rimovendo la spica senza asportare l'involucro bratteale, si eleva, limitatamente, la facoltà della pianta di accumulare zucchero Per quanto però detta influenza favorevole possa trovare la sua facile spiegazione, è prudente di non considerarla ancora come definitivamente accertata. 8°) L'asportazione della infiorescenza maschile ad avvenuta feconda- zione porta, anche in piante normali (cioè non private dello loro spiche), ad un aumento discreto di zucchero nello stelo: le nostre prove, compiute con- temporaneamente a quelle di Heckel, avvalorano frattanto le resultanze di questi. La cimatura praticata per consuetudine in molte plaghe italiane e decisamente riprovata dagli agronomi, ma che Heckel troverebbe consiglia- bile per il mezzodì della Francia quale mezzo per aumentare il valore ali- mentare delle « canne » di granturco (!), verrebbe ad essere così riabilitata : anche questa conclusione va data però con tutto il dovuto riserbo. 4°) La facilità con la quale, in plaghe normalmente non irrigabili come la bassa valle Padana, il granturco va soggetto ai danni del secco, e la caduta ricorrente della grandine mettono il granturco, come pianta zuc- cherifera, in condizioni di sostanziale inferiorità di fronte alla barbabietola ; nè le varietà così dette cinquantine, da seminarsi in secondo raccolto dopo il frumento, sembrano offrire requisiti apprezzabili, anche per le eventualità sinistre cui possono andare soggette. Tanto valga per il mais considerato dal punto di vista culturale. 5°) Quanto alla utilizzazione del granturco per l'estrazione industriale dello zucchero, la presenza di rilevanti impurità melassigene, difficilmente eliminabili, dà alla pianta, almeno per le varietà di cui oggi si dispone, (*) C. R. Ac. sciences, Tome 159, p. 16. RENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 58 — 456 — un valore pressochè negativo: opinione, questa, che affacciarono negli ultimi tempi autorevoli studiosi americani, i quali hanno creduto doveroso di atte- nuare gli entusiasmi e le troppe rosee profezie dei sostenitori delle idee dello Stewart (*). Patologia vegetale. — Sulla bdaeteriosi del cetriolo in Ita- lia. Nota preliminare del dott. G. B. Traverso ('), presentata dal Socio G. CUBONI. | Nel maggio dello scorso anno il prof. C. Galimberti, direttore della Cattedra ambulante di agricoltura in Chioggia, inviava al prof. P. A. Sac- cardo, l'illustre micologo dell’Università di Padova, alcune foglie e frutti di cetriolo ammalati perchè vedesse se erano invasi da qualche fungo paras- sita, e faceva notare che la malattia si presentava con carattere epidemico e minacciava danni gravissimi. All'esame microscopico non fu possibile di rilevare la presenza di funghi parassiti che si dovessero ritenere causa della malattia, la quale invece sembrava doversi piuttosto attribuire ad infezione bacterica od a disturbi gravi delle funzioni di assorbimento e nutrizione. Dato l'interesse che il fenomeno presentava, tanto dal lato pratico quanto dal lato scientifico, perchè una tale malattia non si trovava descritta nei trattati di fitopatologia, ben volentieri aderii all'invito, fattomi dal (*) La questione sollevata al Congresso di chimica applicata di Washington - New York del 1912 in occasione della discussione di una comunicazione di D. Gibbs, Pro- duction of alcohol and sugar from sap of the nipa palm (Atti Congresso, vol. III, pag. 18), portava ad esplicite dichiarazioni di H. C. Prinsen Geerligs, antico direttore del Laboratorio dei fabbricanti di zucchero di Giava e noto fra i più competenti e auto- revoli. Non ostante le affermazioni di Stewart, secondo le quali i succhi derivanti dagli steli di granturco si possono, con un processo speciale, facilmente depurare (brevetta Stewart in Zeit. des Vereins der Deutsche Zuckerindustrie, sept. 1912, pag. 1166), il Prinsen Geerligs informava che «la grande quantità di gomme e altre impurità sembrano impe- dire la cristallizzazione dello zucchero, per cui si ottiene una massa cotta della consi- stenza di un pudding » (Atti, vol. XXVII, pag. 60). Il Prirsen Geerligs ribadiva più tardi gli stessi concetti in uno dei più accreditati periodici della Germania (Die deutsche Zuckerindustrie, XXXVIII Jahrg., 1913, n. 43, pag. 933). Aggiungasi che le fabbriche, di cui si annunciava l'impianto, non sarebbero esistite mai, perchè la Sccietà, costituitasi a Pittsburg per lo sfruttamento dei brevetti Stewart, si sciolse senza aver affrontato il problema della fabbricazione dello zucchero (Sucrerie indigene et coloniale, tome LXXXILI, 1914, I, nn. 10 e sgg.). Si parla oggi nuovamente di quattro o cinque fabbriche in corso di costruzione nella Florida (Sucrerie indigène, 1914, I, pag. 299), per le quali non è tuttavia possibile di emettere un giudizio. Veggasi anche il pensiero pessimistico di Parow, dell'Istituto di fermentazione di Berlino (Stéàrke- sirup und Stirkezucker aus Mais in Nordamerika. Centr. fir Zuckerindustrie, 1913-1914, n. 20, pag. 706). (') Lavoro eseguito nella R. Stazione di patologia vegetale di Roma, febbraio 1915. — 457 — prof. Galimberti, di recarmi sul posto per fare le opportune osservazioni e raccogliere materiale per lo studio della malattia. Debbo premettere, per spiegare l'allarme che la comparsa di questa malattia aveva suscitato, che la cultura del cetriolo viene praticata su larga scala nei dintorni di Chioggia, e precisamente in quella lingua di sabbie e dune costiere che si estende tra la punta di Sottomarina e la foce del Brenta, attorno a Brondolo. Riservandomi di fornire, nel lavoro definitivo, maggiori particolari intorno a questa cultura orticola, mi limito qui a far notare che la superficie coltivata a cetriolo nei pressi di Chioggia, secondo i dati gen- tilmente fornitimi dal prof. Galimberti, si può valutare a circa 250 ettari, con un prodotto medio, per ettaro, di 320 quintali. In complesso si può cal- colare un prodotto di 75-85 mila quintali, che vengono quasi tutti esportati in Austria ed in Germania, e che rappresentano un valore di oltre quattro milioni di lire. Nessuna grave malattia aveva colpito per l’addietro le culture dei ce- trioli, le quali pertanto riuscivano assai rimunerative. Solo nel 1913 si ebbe un forte attacco di G/oeosporium lagenarium, che deprezzò notevolmente buona parte del prodotto e portò di conseguenza perdite non indifferenti (*). Nel maggio del 1914 comparve la nuova malattia e si diffuse rapidamente destando serio allarme, il quale crebbe maggiormente nei primi giorni di giugno allorquando, in seguito ad una grandinata, il malanno accelerò la sua marcia invadendo parecchi orti che tino ad allora erano rimasti pressochè immuni. Fu appunto verso la metà di giugno che io eseguii il sopraluogo, consta- tando che l'allarme dei coltivatori era purtroppo giustificato, poichè si trat- tava di una infezione epidemica gravissima. In tutti gli orti i danni della malattia erano evidenti; ed in quelli più gravemente colpiti, le aiuole pre. sentavano un aspetto desolante perchè, invece di essere ricoperte dalla lus- sureggiante verzura che caratterizza le cucurbitacee in generale, apparivano quasi nude, con pochi ciuffi di verde, come se sopra vi fosse passata una tiammata devastatrice. Esaminando da vicino le piante malate, potei constatare che le radici ed i giovani germogli non presentavano nulla di anormale, mentre i segni del male apparivano ben evidenti sulle foglie adulte e sui frutti, però con caratteri diversi. Sulle foglie il primo sintomo del male si può osservare, come aveva acutamente notato il prof. Galimberti, esaminando le piante di buon mat- tino. Si vedono allora, sulla pagina inferiore delle foglie, delle aree irrego- larmente tondeggianti, od angolose se limitate dalle nervature, larghe 2-5 mm. (') Vedasi un articolo del prof. C. Galimberti, in « La Venezia agricola » del 28 dicembre 1913. — 458 — circa. dalle quali trasuda un liquido incoloro o quasi, al quale, a prima giunta, non si darebbe importanza. Ma in poche ore i segni della malattia diven- tano ben più appariscenti poichè, durante il giorno, questa sostanza liquida evapora e, come se dispiegasse una forte azione caustica, lascia al suo posto una macchia, dapprima giallognola, poi biancastra ed arida, in corrispondenza alla quale i tessuti muoiono e seccano completamente, diventando fragilis- simi e producendo sulla foglia una caratteristica vaiolatura. In seguito a ciò, le foglie colpite perdono ben presto il loro turgore, si afflosciano e si raggrinzano; i tessuti morti si staccano e marciscono, e le foglie sono ridotte a brandelli informi; donde l'aspetto desolante che presenta un’'aiuola forte- mente colpita dal morbo. Sui frutti invece, i quali possono venire colpiti dalla malattia in qual- siasi stadio del loro sviluppo, i fenomeni patologici, pur dimostrando iden- tità di origine, sono notevolmente diversi, a motivo della diversa struttura anatomica dell'organo colpito. I frutti colpiti dall’infezione presentano dap- prima piccole macchie livide, in corrispondenza alle quali, dopo qualche giorno, si osserva la fuoruscita di una sostanza vischiosa, densa, che a con- tatto dell’aria assume un colore ambrato e si indurisce formando delle masse gommose dure, di forma sferoidale od irregolare, specialmente se più punti d'infezione sono vicini per modo che le loro escrezioni confluiscano insieme, che raggiungono normalmente un diametro di 1-4 mm., ma che possono tal. volta anche arrivare ad un centimetro. Se i frutti. sono colpiti dal male nei primi stadii del loro sviluppo, essi rimangono atrofici, deformati e si devono considerare senz'altro come perduti. Se invece i frutti sono colpiti quando hanno già raggiunto uno sviluppo più o meno considerevole, la loro polpa diviene molle, acquosa, partendo dai punti d’ infezione e propagandosi questa marcescenza all’intorno, in modo da rendere il frutto inservibile, non solo, ma a sua volta centro d'infezione quando venga posto tra frutti sani. Dalla osservazione dei caratteri coi quali si presentava la malattia, assur- gendo alla indagine intorno alle cause immediate di essa, era logico di con- cludere fin da principio che la malattia fosse di origine parassitaria. Se infatti si fosse trattato di alterazioni e squilibrî nelle funzioni di nutrizione della pianta, la malattia avrebbe dovuto colpire prima o l'appa- rato radicale o le più giovani parti dei cauli in via di accrescimento. Invece questi, come abbiamo detto, erano sani, ed i segni del male erano localiz- zati sulle foglie adulte e sui frutti. D'altra parte, non essendosi riscontrati nel primo esame funghi parassiti, e non avendo osservato negli orti visitati alcun insetto od altro animale cui si potesse attribuire l'origine del male, io fui indotto a coneludere, colle dovute riserve, che doveva molto probabil- mente trattarsi di infezione bacterica o dacterzosi (*). Questa induzione tro- (*) Vedasi articolo del prof. C. Galimberti in « La Venezia agricola » del 19 lu- glio 1914. — 459 — vava anche appoggio nel fatto, rilevato dal prof. Galimberti e confermato dai coltivatori presenti, che la prima comparsa del male si era verificata pressochè contemporaneamente in due orti distanti non meno di cinque chi- lometri l'uno dall'altro, ma appartenenti allo stesso coltivatore: facendo pen- sare al trasporto di germi per mezzo degli strumenti da lavoro. Esaminando al microscopio il materiale raccolto, mi fu facile di mettere in evidenza la presenza di numerosi bacterî nelle parti malate e nei pro- dotti gommosi di escrezione. Per venire però ad una conclusione sicura era necessario di procedere all’isolamento delle specie bacteriche ed alla riprodu- zione artificiale della malattia. Mi accinsi perciò a tali ricerche nell'Istituto d'igiene della R. Università di Padova, col valido aiuto dell'amico prof. D. Car- bone. al quale mi è grato di esprimere qui la mia viva riconoscenza. Serven- domi dei frutti malati, che meglio delle foglie si prestavano alle diverse manipolazioni, riuscii ad isolare diverse specie di bacterî, una delle quali molto più abbondante delle altre e quindi verosimilmente causa della ma- lattia. Si trattava di un piccolo bacterio, mobile, fluorescente, non liquefa- cente la gelatina, del quale mi accingevo allo studio completo, morfologico e biologico, quando sopravvennero le vacanze estive prima, e poi il mio pas- saggio dall'Istituto botanico di Padova alla Stazione di patologia vegetale di Roma, che mi costrinsero a sospendere il lavoro. Anche alcune prove di infezione artiticiale, iniziate nell'Orto botanico di Padova, non arrivarono a risultati positivi, oltre che per possibili altre cause, per il fatto che. sopraggiunto in principio di luglio un periodo di clima asciutto, evidentemente contrario allo sviluppo del bacterio, anche l' in- fezione naturale si arrestò completamente, con grande sollievo dei coltivatori. Noi mi sarei pertanto deciso a pubblicare queste notizie preliminari prima d’aver ripreso e completato lo studio. se a ciò non mi avessero indotto la convinzione di fare cosa utile per i fitopatologi. segnalando questa ma- lattia, ed il fatto che proprio durante questi mesi la stessa malattia veniva studiata dal Burger (') negli Stati Uniti d'America, e precisamente nello Stato di Florida, dove produce gravi danni da circa un quadriennio. Dalla lettura del lavoro dei Burger e dall'esame delle figure che l'accompagnano, non sembra esservi dubbio che si tratti della stessa malattia, la quale sarebbe appunto dovuta ad un bactevio mobile riferibile al genere Pseudomonas. Ad ogni modo mi son fatto premura di chiedere materiale di confronto, che spero poter avere per completare, anche sotto questo rapporto, il mio studio. Nel chiudere questa Nota preliminare, credo opportuno, data la impor- tanza pratica dell'argomento, aggiungere qualche cosa circa i possibili mezzi di lotta contro la malattia. Il prof. Galimberti. che si era occupato di fare (1) Burger 0. F, Cucumber /tot (Florida Agricult. Exsper. Station, Bull. 121). Gai- nesville, 1914. ° — 460 — alcune esperienze con trattamenti a base di poltiglia bordolese dal 0,5 all’'l °/g con polvere di zolfo e con zolfo ramato all’ 1 °/,, non ebbe a rilevare, secondo quanto mi scrive, alcuna azione vantaggiosa da tali trattamenti. Secondo il Burger però, la poltiglia bordolese avrebbe sensibile efficacia purchè i trat- tamenti si comincino quando le piante sono molto giovani, con tre o quattro foglie soltanto e vengano ripetuti ogni dieci giorni con grande diligenza. Anche in questo campo, che dal punto di vista pratico è senza dubbio il più importante, mi propongo di fare ulteriori ricerche, se la malattia, come è probabile, farà la sua ricomparsa nella prossima primavera; ed intorno ad esse riferirò nel lavoro definitivo. Biologia. — Contributo alla conoscenza dello sviluppo em- brionale e post-embrionale degli Scopelini Miller (Saurus griseus Lowe, CAlorophthalmus Agassizii Bp., Au- lopus filamentosus Cuv.('). Nota preventiva di Lurci Sanzo, presentata dal Socio B. Grassi. I. Saurus griseus Lowe. Dietro tentativi seguìti per più di un biennio, sono riuscito ad operare, in questa specie, con esito positivo la fecondazione artiticiale. Per quanto io sappia, è questo il primo esempio di fecondazione artificiale nel gruppo degli Scopelidi. Le uova fecondate sono galleggianti, sferiche, alquanto opaco-bianchicce per la struttura della capsula ricoverta da un reticolo regolare a maglie esagonali, come nelle uova di Uranoscopus descritte dal prof. Raffaele. Mancano di gocce oleose e di spazio perivitellino. Il loro diametro oscilla da mm. 1,10 a mm. 1,35. Le medesime uova ho potuto identiticare tra il materiale di uova gal- leggianti pescate nelle acque dello Stretto di Messina nei mesi da giugno a novembre. Il periodo d'incubazione dura 4 giorni e mezzo. La larva, appena sgusciata, misura dai 4 ai 4.5 mm. È caratteristica per la presenza di quattro paia di macchie nere disposte, quasi ad uguale distanza, tra le pettorali e l’ano. A metà della coda un quinto paio di macchie, egualmente in nero, ed un sesto all'estremo del tronco. (1) Dall’Istituto centrale di Biologia marina in Messina del R, Comitato talassogra- fico italiano. — 461 — La pinna primordiale s' inizia dorsalmente dal capo e gira attorno al corpo sino all’ano, restringendosi leggermente in avanti dell'estremo del tronco candale. Sono presenti piccole e membranose pettorale. Si contano 58-60 segmenti: 39-40 addominali, e 19-20 caudali. La corda, come nelle larve di Clupeidi, è ampia e formata da grossi segmenti posti l'uno dietro l’altro. L'occhio è ovale. Ha il maggior diametro leggermente inclinato, con la sua porzione superiore in avanti, sull'asse longitudinale del corpo. Il tap- peto corioideo è già formato, e l'occhio risplende di riflessi metallici. Quasi attigue ed assai sviluppate sono le vesezcole auditive, ciascuna con evidente rigonfiamento ampollare. Lateralmente sul tronco si contano 7 bocezuoli sensitivi: 6 dal capo all'ano, e 1 sulla porzione caudale. Il sacco vitellino è disteso dal capo sino a livello della 3* coppia di macchie ventrali; è alquanto rigontio in avanti. La bocca non è ancora aperta, ma lo diviene nello stesso primo giorno dalla schiusa. Sono formati lo scheletro branchiale cartilagineo. la cartilagine di Meckel e le cartilagini basali del cranio. L’intestino corre diritto all'indietro, piegando ventralmente ad angolo ottuso poco prima della sua apertura anale. Al tratto di ripiegamento sta addossata la vescica urinaria. Ho potuto allevare le larve tino al 5° giorno dalla schiusa; il mate- riale vitellino s'è esaurito nei primi tre giorni. Oltre alle uova ed a le larve ottenute con la fecondazione artiticiale, ho potuto, con la pesca nello Stretto rinvenire una serie di stadî ancora larvali fino a quelli di giovanissimi Sawr:, la quale si connette alle larve ottenute dalle uova in cultura. Così come ho :nesso in rilievo per altri Seopelidz, anche nello sviluppo di questa specie si ha un periodo di accrescimento larvale, a cui segue un periodo contradistinto da riduzione, in grandezza, dell'animale. Tutta la serie è caratteristica per la presenza di sei paia di macchie peritoneali; delle quali, quattro paia corrispondono a quelle della larva ap- pena sgusciata, e due sono di nuova formazione. Con l'ulteriore sviluppo larvale tali macchie si rendono meno visibili, mentre si accenna del pig- mento lungo la parte laterale del corpo. Nelle semilarve e giovani Sawurz, mentre non appare più il pigmento ventrale, quello laterale ha pigliato il predominio, ed è entrato in iscena quello dorsale. Queste modificazioni coin- cidono, e molto probabilmente vi hanno rapporti, col cambiamento di habz47 dell'animale. Le larve infatti sono pelagiche e vengono sotto luce della lam- padara; le semilarve in riduzione avanzata capitano invece insieme coi gio- vani Saurus nella pesca con reti a strascico. — 462 — Con tale cambiamento di habitat è da pigliare in considerazione il mutamento di forma del corpo, di posizione degli occhi, di sviluppo cor- relativo delle pinne. Il capo ed il tronco, alquanto compressi lateralmente nelle larve pelagiche, divengono, nelle semilarve e stadî giovanili, schiac- ciato il primo, e subconico il secondo; gli occhi; da una posizione latero- ventrale, ruotano in modo da guardare latero-dorsalmente; e delle pinne le ventrali, sebbene apparse più tardivamente delle altre, assumono presto pro- porzioni più sviluppate e raggiungono, alla fine del periodo di riduzione in grandezza dell’ animale, quella forma, grandezza e, pei numerosi segmenti articolati dei raggi, quella pieghevolezza confacenti alla vita di fondo alla quale l'animale è passato. II. Chlorophthalmus Agassizii Bp. Di questa specie ho potuto identificare tutta la serie di sviluppo lar- vale dai 4,5 mm. fino ai 47 mm. È caratteristica di tutta la serie una grande macchia in nero, sulla vòlta peritoneale corrispondentemente alle basi delle pettorali, ed una piccolissima macchia, anch'essa in nero, all'estremo caudale. Tutto il resto del corpo si mostra completamente privo di pigmento. Il capo, negli esemplari più piccoli, è assai tozzo in rispetto allo spessore del tronco che è assai compresso lateralmente. Tale rapporto con lo svi- luppo, si va attenuando, di maniera che nell’esemplare, più sviluppato, di 47 mm., sì passa insensibilmente dallo spessore del capo a quello del tronco che è divenuto subcilindrico. L'occhio presenta analoghe modificazioni di posizione che in Saurus griseus. In esemplari sugli 8 mm. la pinna primordiale è ancora ampia. Man- cano gli abbozzi della dorsale e dell’anale. All’estremo posteriore della parte assiale del corpo accenna a piegare dorsalmente. (Il ripiegamento in alto è assal più tardivo in un Paralepino, come illustrerò in una prossima pub- blicazione) Su un ispessimento mesodermico ipocordale che in altezza occupa assai più della metà della pinna primordiale, si mostrano già abbozzati quattro ipurali. In esemplari sugli 11,5 mm. la caudale è definitivamente difterenziata. Allo stesso stadio, si mostrano gli abbozzi per la pinna anale. Il numero definitivo dei raggi si coglie in esemplari oltre ai 20 mm. L'apparizione della dorsale è, come in Saurus lacerta e Chauliodus Sloani, tardiva e posteriore a quella dell’anale. I primi accenni si hanno in stadî sui 15 mm., mentre a questo stadio l'adiposa ha la sua forma. Il numero di raggi si com- pleta in esemplari dai 21 ai 22 mm. Pettorali membranose e, finamente striate, ed arrotondite, si hanno ancora in stadii sui 18-14 mm. Su esemplari di 16 mm. sì mostrano abbozzati 13-14 raggi. Conto ancora lo stesso numero “digg di raggi a mm. 21,65 e 15-16, numero definitivo, in stadî sui 30 mm. Nello sviluppo ulteriore le pinne si allungano di molto, sino a raggiungere l’estremo delle ventrali. Queste sono piccolissime in stadî sui 16 mm.; presentano il numero definitivo di raggi in esemplari sui 21 mm. Tutta la serie dai 4,5 ai 47 mm. è da riferirsi allo sviluppo larvale. Ritengo che anche per questa specie intervenga un periodo di riduzione in grandezza. Vi è un forte sbalzo tra l'esemplare di mm. 47, quasi comple- tamente sprovvisto di pigmento, e i più giovani Clorophthalmus che ho po- tuto raccogliere, con superficie del corpo ricca di pigmento — specie latero- dorsalmente — che preaccenna a quella definitiva dell'adulto. Tale sbalzo, assai verosimilmente, è occupato dal periodo riduttivo i cui rappresentanti per le specie da me studiate, sono relativamente molto rari, quando non siano rarissimi. III. Aulopus filamentosus Cuv. Anche di questa specie, assai affine alla precedente, ho potuto stabilire degli stadî larvali, rarissimi nel materiale larvale di Scopelidi rinvenute in questo Stretto. Posseggo, in tutto, tre esemplari, rispettivamente della lunghezza di mm. 11.50, 32.70, 40.50. I caratteri offerti dalle larve non lasciano dubbio veruno che esse appar- tengano allo sviluppo dell'Ax/opus; e che la Pelopsia Scillae, sotto la quale denominazione il Facciolà descrisse un esemplare sui 55 mm., debba essere ora considerata quale uno stadio larvale dell'Au/opus filamentotus. La larva più piccola è caratteristica per l'ampiezza e la forma delle pettorali. Queste oltrepassano l'origine dell’anale, e contano ]4"grossi raggi. La membrana interradiale presenta, alla parte distale fra un estremo e l’altro di due raggi consecutivi, un’insenatura il cui bordo è pervaso da numerosi e piccoli elementi in nero. Sono altresì caratteristiche 13 macchie sulla volta peritoneale, le quali si mostrano ridotte a 10 nella larva di mm. 32,70, ed a 6 in quella di mm. 40,50. Nella larva più piccola persiste la pinna primordiale, ed è definitiva- mente abbozzata la caudale con 19 grandi raggi. Essa, così come negli altri due esemplari, è alquanto rialzata in alto sull’asse del corpo. Si contano 8 pezzi ipurali. Sul lembo dorsale e sul ventrale della pinna primordiale si mostrano rispettivamente abbozzate le pinne dorsale ed anale. Si contano 50 segmenti, che è il numero di vertebre da me riscontrato nell'adulto. La corda è ampia, con elementi stivati tra loro. Il mascellare inferiore sporge algnanto in avanti dal superiore. L'intestino ha un ampio lume, e termina un certo tratto in avanti dall’anale. Nell'esemplare di mm. 32.70 è scomparsa la pinna primordiale e sono già formate la dorsale con 15 raggi, l'anale con 11 e le ventrali cm. 9. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 59 — 464 — È comparsa una piccola adiposa. Le pettorali si mantengono ancora ampie. Gli stessi caratteri sono da ripetersi per l'esemplare di mm. 40.50. È da notare l'enorme sviluppo dei primi raggi della dorsale, carattere riscontra- bile nel maschio dell’adulto. I tre esemplari, per le stesse ragioni dette per la [specie precedente, ritengo appartenenti al periodo larvale. Non sarà improbabile rinvenire un giorno o l'altro, qualche stadio in riduzione. Parassitologia. — Ricerche sulle tignuole della vite. Nota del dott. MARIO Topi, presentata dal Socio B. GRASSI. Benchè assorbito quasi interamente da altre occupazioni, ho potuto fare anche quest'anno alcune osservazioni biologiche sulle tignuole della vite, ed alcune esperienze sulla efficacia dei trattamenti insetticidi, di cui qui bre- vemente riferisco. * x x In primavera avevamo 32 fasce di stoffa, che, essendo state applicate, durante l'estate precedente, alle viti perchè servissero di rifugio alle larve (metodo Catoni), racchiudevano 56 bozzoletti con crisalidi di tignuole. Dalle crisalidi si ottennero 32 Zudemis, 2 sole Conehylis ed 8 imenotteri parassiti. Queste cifre concordano in gran parte con quelle ottenute, nelle iden- tiche condizioni, l'anno scorso: la stessa percentuale di Cornchylis sul numero totale di farfalle schiuse (poco più del 5 °/); quasi la stessa percentuale di crisalidi non schiuse, probabilmente parassitizzate da funghi o batterî (21 °/ nel 1913; 25 °/ nel 1914); minore è stata invece quest'anno la per- centuale degli imenotteri parassiti {14 °%/, invece di 22 °/,). Non solo, ma sì è anche osservato che gli imenotteri parassiti sono schiusi quando già erano uscite più della metà delle farfalle. Lo stesso è avvenuto in capsula, ove tenevamo una ventina di crisalidi: imenotteri parassiti sono usciti da due crisalidi di tignuola, quando già tutte le farfalle erano schiuse da diversi giorni dalle crisalidi sane. Questo fatto è in contradizione con quanto sì ritiene ed avviene di regola: che cioè i parassiti compaiano assai più presto delle farfalle. Dal lato pratico della lotta, da ciò consegue che, se sono state collocate in casse con aperture reticolate le corteccie di viti, le punte delle canne che hanno servito alla impalatura delle viti o gli stracci appositamente appli- cati alle viti, conviene conservare queste casse fin molto tardi e non distrug- gere il contenuto appena compaiano le prime farfalle, come spesso sì con- siglia; e che ritardare lo scortecciamento per lasciar schiudere i parassiti è una pratica talvolta non sufficiente allo scopo. — 465 — In primavera, in estate ed in autunno ho ripetute le prove di cattura delle farfalle nell'acqua melassata in fermentazione, per seguire la schiusa e per constatare o meno la presenza, nella località, di una terza genera- zione. Furono posti quattro vasi pieni di liquido in fermentazione in una vigna molto attaccata dalle tignuole; tre erano ravvicinati tra loro ad una distanza di una diecina di metri l'uno dall'altro; l'ultimo (il II) era più distante ed in posizione più soleggiata. Le catture in primavera sono state molto scarse (15 farfalle in tutto: 12 Zudemis e 3 Conchylis) e distribuite in un numero grande di giorni: dal 12 maggio al 1° giugno. Non vi è stato un periodo massimo di schiusa, essendosene catturate giornalmente da 0 a 3. In estate le catture degli adulti della prima generazione dell’anno sono state discretamente numerose, come vedesi dalla tabella. Inoltre esse segnano due massimi, l'uno dal 15 al 18 luglio, l’altro dal 24 al 30; questi mas- simi ed in generale tutto l'andamento delle catture — e quindi, probabil- mente, quello della schiusa — concordano in modo straordinario con quelli ottenuti, con lo stesso sistema, lo scorso anno. Per far notare questa concor- danza. si riportano, nell’ultima colonna della tabella, le cifre totali dello scorso anno: GIORNI Vaso Vaso | Vaso Vaso Conchylis Pigenia Totale | Totale I II IM IV 1914 | 1913 6- 9 luglio È i ie 2) (SS I 2 Da 9-12» - 2 2 2 1 5) 6 1 12-15.» 3 —_ _ B) 2 4 6 8 15-18.» 10 _ 8 9 6 21 27 10 18-21» 4 _ 7 — 2 9 11 8 21-24» 2 _ 6 5 _ 13 3 8 24-27» 107; 1 TI 13 1 37 98 30 27-30.» 9 1 6 10 — 26 26 13 30 luglio - 2 agosto 3 1 —_ 4 — 8 8 3 2- 5 agosto 4 2 _ — — 6 6 2 TOTATTIIRE 52 7 88 46 12 131 143 83 In autunno si posero nuovamente, nella stessa località, i vasi col liquido in fermentazione, ma non si catturò nessuna farfalla. Restano così determinati, per la località presa in esame (Alice Bel Colle) e con osservazioni, in gran parte, di un biennio, i seguenti punti: 1°) l'assoluta predominanza della Evdemis sulla Conchylis; 2°) la schiusura degli adulti si protrae, in primavera, per circa 20 giorni, ed in estate per circa 30; — 466 — 3°) le schiusure primaverili procedono, dall'inizio alla fine, quasi con la stessa regolarità, mentre le estive diventano numerose nella seconda quin- dicina di luglio; 4°) vi sono solamente due generazioni annuali: gli adulti della seconda schiudono alla primavera successiva. f Fia. 1. — Uova di Polychrosis (Eudemis) botrana della prima generazione (var. ingranditi) Durante lo sfarfallamento, si può assistere, verso il crepuscolo, alla depo- sizione delle uova. In maggio abbiamo potuto seguire quella della Hudemis. La femmina, che si appresta alla deposizione, ha volo fermo e sicuro presso i grappoli fiorali, su cui si posa senza incertezze. Dopo la deposizione di un uovo, si rialza a volo, dirigendosi verso un altro grappolo o tornando sullo stesso. L'uovo è deposto in un punto qualsiasi del boccio fiorale o sulle brattee; ne abbiamo appunto veduti verso la sommità (fig. 1, I) e sui lati dei petali (fig. 1, II), sulla loro base d'inserzione (fig. 1, III) e sulle brattee (fig. 1, IV). In cattività si ottengono su qualunque parte della pianta. 7 — 467 — L'uovo ha l'aspetto di una piccolissima lente, appiccicata per una delle due faccie; il contorno è leggermente ellittico; ha un colore grigio chiaro trasparente, è finamente reticolato ed ha dei riflessi iridati che lo hanno fatto rassomigliare ad una piccola opale. Il volo dei maschi è invece più rapido, meno fisso, ed essi si sot- traggono in brevissimo tempo alla vista. Nella località dove facevamo le osservazioni, la fioritura ha cominciato, nelle posizioni ben soleggiate, ai primi di giugno. Le larve di Corchylis hanno raggiunto la maturità più presto di quelle di Zudemis, come si poteva verificare verso il 20 giugno; una conferma l'abbiamo avuta con le catture delle farfalle: infatti, dopo il 20 luglio non abbiamo preso che una sola Conchylis. Pu Come insetticidi contro le larve abbiamo usati l’arseniato di piombo Swift allo 0,8°/, in primavera, e l'estratto di tabacco al 2,5 °/, in estate, mescolati alla poltiglia bordolese, irrorando con getto ad intermittenza, avendo cura di bagnare specialmente i grappoli. In una vigna abbiamo trattato alternativamente un filare sì e l’altro no, facendo due trattametti primaverili con l’arseniato di piombo, il 28 maggio ed il 13 giugno; ed un trattamento estivo con l'estratto di tabacco, il 3 agosto. Forse, data la schiusura delle farfalle, sarebbe stato conveniente anticipare di qualche giorno tutti questi trattamenti. In questa vigna si coltivavano principalmente i vitigni /ambrusca e moscato. In un’altra vigna, in cui si coltivava principalmente il dardéra, si fece un solo trattamento il 5 agosto con l'estratto di tabacco, usando lo stesso sistema per il controllo. Osservando in estate il raccolto e giudicando all'ingrosso, a colpo d'oc- chio non si sarebbe potuto riconoscere, pel migliore stato dell'uva, quali fos- sero i filari trattati e quali i non trattati. Tuttavia un minuto esame degli acini ci ha permesso di notare una indubbia efficacia conseguita coi tratta- menti. Nella prima vigna scegliemmo 4 viti di mascato (2 trattate e 2 non trattate) e 2 di /ambrusca (l'una trattata e l’altra no), che avessero rispet- tivamente lo stesso numero di grappoli. L'esame degli acini ci ha fatto rico- noscere, nell'uva delle due piante di moscato trattate, 343 acini guasti od erosi; in quella zon trattata, 547; nell'uva della pianta di /ambrusca trat- tata, 248; in quella non trattata, 290. Nell’altra vigna di barbera scegliemmo pure 2 viti (l’una trattata e l’altra no), aventi 36 grappoli ognuna. Nell'uva della pianta trattata vi erano 442 acini guasti od erosi, ed in quella non trattata 759. — 468 — Con questo sistema di controllo non abbiamo potuto tener conto quasi esclusivamente che dei beneficî del trattamento estivo; per le ragioni già dette, nè in primavera nè in autunno abbiamo potuto fare altri controlli. Ci sembra tuttavia che, anche entro questi limiti, i risultati ottenuti, specialmente col barbéra ed il moscato, siano oltremodo incoraggianti per il trattamento delle vigne con insetticidi contro le tignuole. Chimica. — SuZlo stato dell’acido carbonico nel sangue. II. Mobilità dell’ione HCO, alla temperatura 18° C. Nota dei dottori E. p'AGostINO e G. QUAGLIARIELLO, presentata dal Corrisp. FILIPPO BOTTAZZI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Fisiologia. — Sul metabolismo degli aminoacidi nell’orga- nismo. III: Azione del rene sugli aminoacidi aggiunti al sangue od al liquido di Ringer circolante. Nota di CamiLLo ARTOM, pre- sentata dal Socio L. LUCIANI. Le ricerche di Folin e Denis ('), e più specialmente quelle di van Slyke e Meyer (?), hanno dimostrato che gli aminoacidi introdotti in circolo scom- paiono rapidamente, e nella loro quasi totalità, dal sangue. Si è quindi af- facciato il problema di determinare l’azione dei singoli tessuti in questo complesso fenomeno; al quale scopo il prof. Lombroso ha iniziato una serie di ricerche sistematiche sul comportamento dei varî tessuti rispetto agli ami- noacidi in essi circolanti. Io ho, per suo consiglio, proseguito, sperimentando col rene sottoposto a circolazione artificiale, le indagini già da lui compiute sul tessuto muscolare (*). Van Slyke e Meyer (‘), saggiando il contenuto di aminoacidi negli organi di cani a cui si era iniettata una soluzione di aminoacidi, osser- vano che il rene è, insieme col fegato, l'organo capace di assorbire in maggior quantità gli aminoacidi dal sangue. Così in una esperienza il rene aveva accumulato, per 100 gr. di tessuto, 60 mmgr. di N ammi- nico, mentre il muscolo per lo stesso peso di sostanza non ne aveva assor- bito che 27 mmgr. Aumentando la quantità di aminoacidi iniettati, sì (!) Journ. of biol. chem. XI, pag. 87, an. 1912. (2) Journ. of biol. chem. XII. pag. 399, an. 1912. (3) Rendiconti Accad. Lincei, vol. XXIV, serie 5*, 1° sem., fasc. 1° e 29. (4) Journ. of. biol. chem. XVI, pag. 197, an. 1913. — 469 — può anche produrre un accumulo tre volte maggiore. L'N aminico accumu- lato scompare in seguito dal rene, meno presto però che dal fegato il quale, distruggendo rapidamente gli aminoacidi assorbiti, verrebbe a sottrarli con- tinuamente dalla circolazione e quindi dai tessuti. Solo quando gli aminoa- cidi penetrino troppo rapidamente in circolo, o quando per condizioni pato- logiche il fegato sia insufficiente a compiere la sua funzione normale, il rene gli viene in aiuto eliminando inalterato per le urine l'eccesso di ami- noacidi. Lanzillotta (') ha fatto circolare nel rene, per 6-8 ore con l'apparec- chio di Aducco, soluzione di Ringer cui aveva aggiunto un aminoacido (glicocolla-alanina-tirosina-acido asparaginico) nella concentrazione 3-4 °/vo» Otteneva in queste condizioni un prodotto di secrezione nel quale gli ami- noacidi si trovavano press'a poco nella stessa concentrazione che nel liquido di circolazione: sommando il contenuto in aminoacidi di questi due liquidi e confrontandolo con la quantità di aminoacido fatta circolare attraverso il rene, si nota una diminuzione, pari a 0,8-7 °/ per la glicocolla, 5,3-19,9 °/ per l’alanina, 7.2 °/, per la tirosina. Solo con l'acido asparaginico non si aveva alcuna diminuzione, anzi si notava a volte un aumento del contenuto di aminoacidi. Questo reperto l'A. spiega con una idrolisi delle proteine del tessuto per opera dell'acido; infatti, ripetendo l'esperimento con acido asparaginico neutralizzato, ottenne una diminuzione pari a cira il 10 °/, dell’aminoacido posto in circolazione. Questa scomparsa di aminoacidi dal liquido di circolazione è attribuita dal Lanzillotta a un processo di disaminazione chimica per opera degli epitelii renali. Il fenomeno, osservato dal van Slyke, della singolare attitudine del rene ad accumulare aminoacidi, sottraendoli dal sangue, potrebbe veramente spiegare, senza dover ricorrere all'ipotesi della disaminazione, una parte dei risultati esposti dal Lanzillotta, ma non tutti. Egli avrebbe infatti in al- cune esperienze ottenuto una scomparsa di aminoacidi notevolmente superiore a quella capacità di saturazione che possiamo arguire dalle ricerche di van Slyke. Si può però sempre obbiettare che nelle ricerche con circolazione ar- tificiale di un organo isolato è possibile che l'accumulo sia ancora più rile- vante, venendo a mancare quello scambio di aminoacidi dal rene al fegato, cui van Slyke attribuisce importanza fondamentale nel fenomeno della scom- parsa, dagli organi, degli aminoacidi accumulati. % x * Per contribuire alla risoluzione di tali quesiti, ho dosato gli aminoa- cidi del liquido e dell'organo prima e dopo la circolazione: e ho anche ri- (1) Arch. di Fisiol. XII, 429, an 1914. — 470 — cercato se ad una eventuale diminuzione di aminoacidi del liquido corrispon- desse una produzione, sia nell’organo e sia nel liquido, di ammoniaca che stesse ad indicare un processo di combustione a spese degli aminoacidi scomparsi. Allo stesso scopo ho in alcuni casi esteso la ricerca anche all’a- cetone. Come liquido di circolazione ho usato in una prima serie di espe- rienze il liquido di Ringer, in una seconda il sangue, al fine di poter chiarire se e in quale misura la sostituzione del sangue con soluzione fisiologica mo- difichi (come fu osservato pel tessuto muscolare) i processi metabolici del rene sopravvivente rispetto agli aminoacidi. A cani appena uccisi per dissangnamento dalla carotide, asportavo il rene e lo ponevo nell’apparecchio di Lind ove facevo circolare o il liquido di Ringer o il saugue defibrinato dello stesso animale, dopo di avervi ag- giunto una certa quantità di aminoacido (4 gr. per 500 cm.* di liquido al- l’incirca). La durata di ciascun esperimento era varia a seconda della velo- cità di circolazione (che, quando si usava il sangue, era sempre molto pic- cola) ma non oltrepassava mai le ore 3-3 !/s. Il prodotto di secrezione, che, di regola, era in quantità notevole solo quando il liquido circolante era soluzione fisiologica, alla fine dell'esperimento veniva mescolato col liquido refluo dalla vena. Il rene aumentava di peso nel corso della circolazione, e l'aumento di peso, piccolo quando si circolava con sangue, relativamente ri- levante quando si adoperava liquido di Ringer, veniva assunto come indice della quantità di liquido di circolazione che rimaneva nell’organo, e che perciò doveva sottrarsi dalla quantità iniziale di liquido nei calcoli sopra il liquido residuante dalla circolazione. Il dosaggio degli aminoacidi era eseguito col metodo del Sorensen, dopo eliminazione dell'ammoniaca e, se si operava sul sangue, precipitazione delle sostanze proteiche con ferro colloidale. In qualche caso ho controllato i ri- sultati della formoltitolazione col van Slyke. Il dosaggio dell’ammoniaca era fatto col metodo della corrente d’aria del Folin; quello dell’acetone (eseguito solo in alcuni casi) col metodo Messinger-Huppert. Per l'organo, i dosaggi sì eseguivano sugli estratti, ottenuti con alcool e acqua bollente secondo le istruzioni del van Slyke. Tralascio per brevità i protocolli delle singole esperienze; e mì limito a riunire in due tabelle i dati principali delle due serie di circolazioni, con liquido di Ringer e con sangue rispettivamente. Nelle tabelle tengo nota: 1°) della quantità di liquido posto nell’apparecchio in principio del- l'esperimento; 2°) della quantità di aminoacidi aggiunti al liquido stesso, espressa in grammi; 3°) della pressione (in centimetri di Hg), della velocità (centimetri cubi effluenti dalla vena in 1’) e della durata della circolazione. — 471 — 4°) della quantità di aminoacido (rappresentata dai centimetri cubi di Na OH '/,0a occorrenti per la formoltitolazione) presente complessivamente nel liquido prima e dopo la circolazione, e della diminuizione corrispondente in cifra assoluta e percentuale rispetto alla quantità di aminoacido del liquido prima della circolazione ; 5°) della quantità di aminoacidi del rene normale e di quello cir- colato, e della differenza relativa; 1 6°) degli aminoacidi scomparsi (sia dal liquido, sia dall’organo) in cifra assoluta e percentuale; 7°) dell’ NH; del liquido (espressa in cm.* di Ha SO, '/so normale) prima e dopo circolazione, e della differenza relativa; 8°) dell’ NH; dell'organo normale e di quello circolato e della dif- ferenza relativa; 9°) dell’ NH3 eventualmente prodottasi nella circolazione, tenuto conto delle variazioni della stessa nel liquido e nell’organo; 10°) del peso del rene prima e dopo circolazione, e dell'aumento re- lativo. Infine nelle osservazioni notai la quantità di liquido raccolto dall’uretere, e 1 risultati dei dosaggi (non sempre eseguiti) dell’acetone. RexnpIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 60 ‘Ig Sy oqewtue ep osog s'Wd OTT =%%"/,I :9U0990y ‘001 s'WU9 aUOLZ8199g (0) ‘GI ‘SX o[ewutue [op 0s0q ‘90190t1) 1009007 ‘QUO1Z9199S IP 07poposd 01[5099%1 IS UON (3) "LI ‘Sx eeuuue op 0sad ‘9°IZI = %®/, HOEN ®SSI Ip IPIioLoOUTUI® :G,] g°W9 901791908 (3) ‘03 ‘Sx aqpeuue, ][ap 0sad ‘09 s'U9 QUOIZ019Ag (g) “LI ‘5% e[ewtue,.[[Pp 0soqg ‘Quorza10os Ip 0gpopord o1[F090t1 IS UON (,) "uo 9°G = %9/, ] :9U0p99y ‘oqupiod “EN o15svsoqg ‘7°97e = "/1Z/00N èssa tp Iprotourue ‘99% s'W0 QUOIZII9Ig ‘L] "SY o]ewutue pop osog (1) (3) |SI|SS|OF 868 I | #3|98|8T0T|8°I01|=|9°83| 889 £ LI | 01 |9'T8|8°2/a4491| 0v3|°/I| 68 |FI-OT|F 13 rutereniou Shou vmseridse| 008 | IA (s) [61[09|IF G‘99 v+| 08|9r[sc9o [sco |=|F6 | #28) 86 SF | FI |F'9T|#'S9 [8'E88|L'868|"/e | 8 |0I-9 {p_ 18 vunuete-») 066] A A (,) |08|99| SG p9 FI —| #1|86|7/06 |V06 |=|8"6 | 696) 9I 88 | GI |T'Fi|6°19|9F18|6°998| “/IT| #3 |FI-GI|P #9 vutuere-»! 00S| AI $ | | (:) [88|#8|99| S‘L1 03 —| 07109|8°28 (8°58 |=|#49 | 608] #64 | 689/86 |#'SI|E42| 60F/8°68F|*1| SG |GI-9 [7 #8 cnosoonp) 008 | III (4) 39 IsIEdW09S (:) | se|sslos] = [9981 —[FFI[e8|FGI (PET |=|S° [G1°9T|89"S8 (80‘9F|FOT| TI |8‘T9|3°60F| 197| 8 |uiea [via [5 18 vilosoao! 082| II (1) | 68 [00T| 19 = |=|= |= [s194| 12 |S61|9°01|819|8°98F]9°28}| & | 6 |9I-3I|# #5 enosoonp) 08G| I else SO 3 SIE Lu a | sE AI " | 8| è [ososmuup] * | * i s Es È 3 dr “ 05], FOSTH v 0°/, 7OS5H |% 04/, HO©N us), HOW “ 0t/r HOUN [e si 2 di DE ci 3 IWA BVOLIUO WI WLY Quel [op opinbi] [op Istedutoos Qual [9p opinbi] [ap 5 5 È & DI | gue1 [op osed CORIUOUUI Y CORIUOWLUTY IproeouIury IPIoEoUIUY IPIOEoOUIULY | Ss È s 5 VO*LSMOTOISIY HNOIZO'"TOS NOO INOIZVIOOUIO — 473 — ‘pai uo v 0t/,]:0u0p0Oy [Gg ato 40/1 'OStH = gortuowiae ‘Qt UO % %/, HOVN = Ipiotourwe 2u01guoo ] QI suo euri] ‘g‘89 9 eqrwtut [op osog (i (.) 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[PP 0S9d = |we+|rxe|st| = |=| = (|64]|9°%9 | 99 (Sei) 62 |8° |e'1[8218] 088) S| 0) SS|"T|S [06-81]? 28" * ** eros -EUI0Y |L_ tqeZZzi] (i) e -tamneu tu;Sextdse/)0G/ITA IsIeduLO9S = 86 LI| OS S63| S| SS [eS | SLI) 691/8008] 9°FI| OT|SEE|6'666|2‘688| OI] SS) SF A O A ALLA 9x |80+]|81|g1 p‘98|8‘17] #9 [9*GI| 2‘68| STI[S'IT| S|69T| | 63) 296) S| 68) FEl'/e8|ST [co-sIfee “9 vutuete-»/0Gp| A q°G OI — | ST|SE| S°cif ee) S'L [9°S | G'Se [estee|e'T8|89"L | L'OT | L'84 |9‘FO7|E‘ESF|S'OT| 8S|S'LYP| = S| # |9T-G1| #9 en0200HD/00S| AI 868 s‘G+ GI 01 8‘66|£6| S°L |T'T | 8° 06|8'98| 8°9T| 1°S |8°3| 09F|8°S8F|9F |T°67|°FE|F/rI| 8I|/g1-8 | + 9 emoooono/0gS) INI TRE #4 |9I |GI fromo 26] L@|erooea/e'9 | T'PE| SI| FE) TI) 6 |TLyr|[eaL7] 068) S| FR 68/9/2| S |91-G1|## 8 tioo0a9/00S| II a == lieti cS|e°69] 6 [9°L |FFE| T°T3|6499| 8‘98| SEI |SSS|[SFG8] OST] SI) L9) PS) S| 7 [681] # 3 tno00omo/(00S) I A a SANE [2A L=] (2a e. 5 i 0/ | "Tosse Di v È dI E Lu | ‘wd Si giu? 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La quantità di ami- noacido effettivamente scomparsa durante la circolazione è pertanto compresa, in media, fra il 5 e il 10 °/o. Adoperando per la circolazione liquido di Ringer con gli stessi ami- noacidi, si ha sempre una diminuzione dagli aminoacidi della soluzione cir- colata, che raggiunge il 16,4 °/, (solo in una circolazione con asparagina oltrepassa il 30 °/,) e che è quindi pressochè ugnale alla corrispondente 0s- servata nella circolazione con sangue. Tuttavia nelle esperienze, eseguite facendo circolare soluzione fisiologica, la quantità di aminoacidi che si ritrova inalterata nel tessuto renale è no- tevolmente superiore a quella che si riscontra nelle circolazioni con sangue, e in qualche caso riesce perfino a giustificare di per sè sola la perdita di aminoacidi nel liquido. La quantità di ammoniaca che si riscontra nel liquido è spesso rile- vante così da corrispondere a buona parte degli aminoacidi effettivamente scomparsi durante la circolazione. Ma dubitiamo che il trattamento fatto subire agli organi per la ricerca degli aminoacidi abbia potuto in certa mi- sura alterarne il contenuto in ammoniaca; cosicchè i dati relativi hanno un valore più comparativo che assoluto, essendo stati ottenuti dopo un eguale trattamento sia del rene normale e sia di quello circolato. Ad ogni modo possiamo affermare che, contrariamente a quanto fu 0s- servato per il tessuto muscolare nelle circolazioni con liquido di Ringer, il rene, anche se perfuso con soluzione fisiologica, si dimostra sempre capace di distruggere notevole quantità di aminoacidi. Ciononostante, anche sperimen- tando col rene si nota che, nelle circolazioni con sangue, la scomparsa asso- luta di aminoacidi è sensibilmente superiore a quella che si osserva usando liquido di Ringer. E tale differenza appare più cospicua, quando si consideri che, se si usa soluzione fisiologica, la circolazione è incomparabilmente più rapida che non nelle esperienze con sangue; e che quindi con maggiore fa- cilità e in più larga misura gli aminoacidi disciolti nel liquido di circola- zione possono subire l'azione degli epitelii renali con cui vengono a contatto. Concludendo, dalle presenti ricerche risulta che il fenomeno dell'accu- mulo di aminoacidi nel rene è molto cospicuo, sia che essi circolino disciolti nel sangue, sia che circolino nel liquido di Ringer; ma che nel secondo caso è — 475 — tanto più grande, da poter in qualche esperienza giustificare di per sè solo la di- minuzione degli aminoacidi osservata nel liquido circolante. Epperò nella to- talità delle ricerche eseguite col sangue, e sulla maggioranza di quelle ese- guite con liquido di Ringer, risulta pure che una più o meno cospicua parte degli aminoacidi mancanti è stata effettivamente distrutta. Fisiologia. — Sul metabolismo ‘degli aminoacidi nell’orga- nismo. Nota IV. Azione dell'intestino sugli aminoacidi aggiunti al sangue o al liquido di Ringer circolante, del dott. Uco Low- BROSO, presentata dal Socio 1. LUCIANI. Dell'influenza che l'intestino esercita di fronte agli aminoacidi che giungono ad esso pel circolo sanguigno non è stato trattato ex-professo. Però in numerose ricerche, eseguite in questi ultimi anni, è stato indiretta- mente portato un contributo anche a tale argomento, in quanto che si è cercato di determinare che cosa avvenga degli aminoacidi che attraversano la mucosa intestinale durante l'assorbimento alimentare. La soluzione di questo quesito appariva di capitale interesse per poter determinare sotto quale forma le sostanze proteiche alimentari penetrino nel nostro organismo. A questo proposito sì dibattono varie dottrine. Secondo alcuni l'assorbimento delle sostanze proteiche alimentari avviene senza una loro profonda idrolisi e soltanto una piccola parte di esse viene assorbita sotto forma di aminoacidi: secondo altri invece l'assorbimento intestinale avviene esclusivamente dopo la completa idrolisi delle sostanze proteiche. Fra gli autori che accettano quest'ultima concezione, esiste poi una discor- danza, poichè gli uni ammettono una sintesi degli aminoacidi nella mucosa intestinale, gli altri ritengono invece che essi giungono inalterati nel cir- colo sanguigno. Per quanto a prima vista possa sembrare facile la risoluzione di questo problema, esso è ancora insoluto. Gli autori stessi, che vi hanno contribuito, riconoscono che le loro esperienze non hanno portato alcun argomento riso- lutivo a favore dell'una o dell’altra ipotesi. Accennerò brevemente ai varî lavori eseguiti in proposito. Il Rona (') introducendo anse intestinali di gatto contenenti aminoacidi nel liquido di Tyrode vide passare una parte di essi nel liquido esterno, senza che si modificasse in misura apprezzabile la quantità totale di ami- noacidi. Dal risultato di tali esperienze non appare appoggiata l'ipotesi di una sintesi degli aminoacidi nella mucosa intestinale. \') Biochem. Zeitschr. XLVI, 307, 1912. ST RATGES Si deve però considerare che la vitalità delle anse intestinali poste in tali condizioni era molto problematica. Perchè se nelle anse anche messe in tali condizioni si possono avvertire ben conservati movimenti peristaltici, non si può da essi arguire che si sia pure conservata la vitalità e fun- zionalità del tessuto epiteliale che costituisce la mucosa, e che è probabil- mente più delicato e labile del tessuto muscolare. Cohnheim (*) sperimentando con intestino di cefalopodi e pesci immerso nel sangue degli animali stessi, vide che aminoacidi introdotti nell'intestino si ritrovano all'esterno, alcuni disamidati profondamente, altri poco. Anche da queste ricerche, per quanto più complete, non si può trarre una sufficiente nozione, perchè noi non sappiamo se l’ammoniaca ritrovata all’esterno sia dovuta alla decomposizione degli aminoacidi o sia ceduta dal tessuto intestinale, Comunque secondo il Cohnheim l'intestino o si lascia attraversare dagli aminoacidi o li idrolizza: non risulterebbe una loro sintesi. Abderalden (*), pur avendo ripetutamente dimostrato la formazione ed il passaggio di aminoacidi nel sangue durante la digestione e l'assorbimento delle sostanze proteiche, ritiene però di non poter azzardare alcuna ipotesi sulla eventuale loro penetrazione é% foto nel sangue, mancandogli i dati numerici complessivi sulla quantità formatasi e quella penetrata nel sangue. E questa nozione, non è evidentemente facile a trarre da ricerche ese- guite sull'animale in vita, nel quale gli scambi sono troppo rapidi e com- plessi per garantirci dalla possibile sottrazione di aminoacidi da parte di uno 0 di un'altro tessuto, come bene hanno dimostrato le ricerche di V. Slycke e Meyer. E perciò non mi trattengo a ricordare le indagini eseguite col con- fronto del contenuto di aminoacidi nel sangue arterioso o venoso prima o. dopo la somministrazione di sostanze proteiche ecc., indagini che sono molto interessanti, ma che non chiariscono nulla per ciò che riguarda il problema da noi preso in esame. Tutte queste ricerche sono molto ben riassunte in una Nota recentissima di Gayda (*) alla quale rimando il lettore che sì interessa del problema. Il Gayda ha inoltre portato all'argomento un notevole contributo spe- rimentale. Egli introduceva nell'intestino di gatto carne di cavallo idroliz- zata completamente con acido solforico, e poi faceva circolare liquido di Tyrode nei vasi sanguigni di tale intestino (dopo averli sbarazzati del con- tenuto sanguigno con abbondante lavaggio). Esaminandv di tratto in tratto il liquido circolante egli constatò la presenza di aminoacidi nel liquido della vena mesenterica e del dutto tora- (1) Zeitschr. f. physiol. Chem. XXXV, 396, 1902; LIX, 239, 1909; LXI-189-1909. (3) Zeitschr. f. physiol. Chem. LXXXI, 473, 1912; LXXXVIII, 478, 1913. (3) Archivio di Fisiologia XIII, 83 - 1914, — 477 — cico: il rapporto dell’azoto aminico coll’azoto totale assorbito, è minore del rapporto dell'azoto aminico coll’azoto complessivo del liquido iniettato nel- l'intestino. Gayda è incerto se tale risultato si debba interpretare come l’'e- sponente gi una selezione nell'assorbimento delle varie sostanze proteiche, o come dovuto ad una formazione di complessi fra gli aminoacidi. Non gli fu possibile di scegliere fra queste due opposte interpretazioni, perchè gli mancava un dato necessario, e cioè il quantitativo di aminoacidi scomparsi dall’intestino. Le ricerche fatte a tale intento andarono fallite, perchè inqui- nate dal riversarsi nel lume intestinale di aminoacidi contenuti in gran quantità nel tessuto. Ciò dimostra quanto favorevole sia, nello studio dell'argomento in esame, la disposizione adottata nelle nostre ricerche. Di determinare cioè il conte- nuto in aminoacidi non soltanto del liquido circolante prima e dopo l'esperi- mento, ma anche quello del tessuto esperimentato : e di determinare poi anche le sostanze che potevano indicarci l'ulteriore consumo di tali aminoacidi. Nelle esperienze che riferisco operavo nel seguente modo, L'animale veniva tenuto digiuno per un periodo di 24 ore (salvo in alcune esperienze che menzioneremo): poi veniva rapidamente dissanguato dalla carotide avendo cura di introdurre per la giugulare una certa quantità di soluzione di Ringer. Questa pratica allontana l'inconveniente della formazione di trombi du- rante la circolazione. Estratto l'intestino si vuotava del suo contenuto con abbondante lavaggio di soluzione fisiologica: si provvedeva poi con ripetute pressioni digitali a liberare il lume intestinale dal liquido introdotto. Na- turalmente però piccole quantità, sia di sostanze, come di liquido rimangono sempre aderenti alle pareti. Il campione intestinale di controllo veniva pre- levato dal segmento immediatamente vicino all'esperimentato: in qualche caso due campioni vennero presi uno del tratto orale e l’altro dell’aborale, e ciò per ottenere una media corrispondente al più possibile a quella del- l'intestino esperimentato. La circolazione nell'intestino si svolge in forma assai più rapida e copiosa che non negli altri organi di cui abbiamo rife- rito nelle precedenti Note (rene, tessuto muscolare) anche quando la pres- sione del liquido circolante è mantenuta più bassa. Nelle varie ricerche eseguite si constatò sempre un aumento più o meno notevole del peso dell'organo esperimentato, dovuto in massima parte o nella totalità al formarsi del secreto (o filtrato) nel lume intestinale. Nelle esperienze con sangue si ha una produzione assai più scarsa di secreto enterico, il quale appare denso, mucilaginoso, con tutti i caratteri e le proprietà enzimatiche del normale secreto. Nel caso invece di circola zioni con soluzione fisiologica il secreto, o per meglio dire, il filtrato, era così abbondinte da dover interrompere le esperienze per deficienza di liquido circolante. — 478 — RICERCHE ESEGUITE CON SANGUE. die Cane peso kg. 4,50. — Peso segmento intestino = gr. 108. Dopo ore 1 e mezza circolazione = gr. 155. Sangue cc. 500 (diluito con Ringer) + @ alanina gr. 4. Pres- sione 80-120 mm. mercurio. Velocità circolatoria per minuto 14-18 ce. Per 15 cc. sangue la formoltitolazione richiede . . . . 9.2 cc. Na OH 1/0 % ” » dopocircolaz. la formoltitolaz. richiede 8,2» ” Per 35 gr. intestino la formoltitolazione richiede . . . 24 cc. Na OH !/w0 ” ” dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 80 O) ” NH, per 100 ce. sangue dopo la circolaz. corrispondono a 5 cc. H, SO, 1/50 » » 55 gr. tessuto » ” 6.5 ” ” » » ” ” dopo la circolaz. » 7.2 » ” Complessivamente mancano nel liquido circolato tante sostanze titolabili col formolo da richiedere 64,6 cc. Na OH !/10 n. Se ne trovano in più nel tessuto da richiedere 36 cc. Na OH !/102. Deficit assoluto = 28,6 cc. Na OH !/,0 x. JOE Cane peso ke 17. — Peso segmento intestino = gr. 185. Dopo ore 1 e mezza circolazione = 195 gr. + succo cc. 55. Sangue cc. 520 + gr. 4 @ alanina. Pressione 120-160 mm. mercurio. Velocità circolatoria per minuto 10-15 cc. Per 15 cc. sangue la formoltitolazione richiede —. . . . 9,0 cc. Na OH '/o% ” ” dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 7,3. » » Per 55 cc. succo la formoltitolazione richiede —. . . . 26.9 » » Per 50 gr. intestino ” ” 24 » ” ” ” dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 27 ” ” NH; per 100 cc. sangue . one e 3,5 cc. Ha SO !/so # » » ” 0) dopo la circolaz. corrispond. a . 8,6 » ” SB ERESSE: 01059000057 ” » » ” ” dopo la circolaz. corrispond. a . 14 ” ” Complessivamente mancano nel liquido circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 67 ce. Na OH '/10 n. Se ne trovano in più nel tessuto da richiedere 16,5 cc. Na OH ‘/10 n. Deficit assoluto 50,5 cc. Na OH !/x x. » n 50 gr. tessuto . III. Cane kg. 720. — Peso segmento intestino = gr. 175. Dopo ore 1 di circolazione = gr. 195 + succo 20 cc., sangue cc. 550 + glicocolla gr. 4. Pressione 100-140 mm. mercurio. Velocità circolatoria per minuto (6-10 cc. Per 15 ce. sangue la formoltitolazione richiede . . . . 10 ce. Na OH !/jo0% ” ” dopo circolaz. la formoltitolaz. richiede 9,3 » ” Per 20 cc. succo ” ” 12 0icc. Na:0HA/o% Per 50 gr. intestino ” ” 18 ” ” cu» dopo circolaz. ” » 12,5 ” ” NH; per .90rgr. altestino .. +.pe. Ue ge legione OOC a SOL ” ” dopo circolazione . . . . . . 11,5» ” ” sangue è andata perduta. — 479 — Complessivamente mancano nel sangue tante sostanze titolabili al formolo da richie- dere 37,8 cc. Na OH !/10 #. Se ne trovano in più nel tessuto da richiedere 3,6 cc. Na OH !/10 %. Deficit assoluto 41,4 cc. Na OH !/10 %. IRNE Cane peso kg. 12. — Peso segmento intestino gr. 170. Dopo ore 1 e mezzo circola- zione gr. 200. Sangue ce. 500 + gr. 4 glicocolla. Pressione 80-130 mm. Velocità 10-14 cc. al minuto. Per 15 cc. sangue la formoltitolazione richiede . . . . 14,5 cc. Na OH "/10 7 ” » dopo la circolaz. » ” TER ” Per 50 gr. intestino la formoltitolazione richiede . . . . 28 ” » ” » dopo la circolaz. » ” 24,5.» » NH; per 100 cc. sangue dopo la circolazione . . . . . 14 cc. Ho S04!/0 7 ” bONOTARITIVES timo Mese ee n e ZO ” ” ” ” » dopo la circolazione . . . .. 20 ” ” Complessivamente mancano nel sangue tante sostanze titolabili al formolo da richie- dere 56 cc. Na 0H!/,0 n. Se ne ritrovano in più nell’intestino da richiedere 18,8 ce. Na OH '/1o n. Deficit assoluto 37,2 cc, Na OH 1/10 n. V. Cane peso kg. 28. — Peso segmento intestino gr. 165. Dopo ore 1 e mezzo circo- lazione gr. 210. Sangue cc. 510 + 4 gr. glicocolla. Pressione 120-160 mm. mercurio. Velocità per minuto cc. 8-14. Per 15 cc. sangue la formoltitolazione richiede . . . . . 14 ce. Na 0H!/10% ” » dopolacircolaz. » ” 10,8. » ” Per 60 gr. intestino la formoltitolazione richiede . . . . 53,2 » ” » » dopolacircolaz. » ” 33,6» ” NH; per 100 cc. sangue dopo la circolazione, perduta. ”» OONPrAtESSILO MN e e e 20) 2100, Ha SOL io ” ” n dopo la circolazione . .. . . 22,5» ” Complessivamente mancano nel liquido circolante tante sostanze titolabili col for- molo da richiedere 142,2 cc. Na OH '/,0 n. Se ne trovano nel tessuto in più da richiedere 91,8 ce. Na OH !/10 n. Deficit assoluto 50,9 ce. Na OH 1/10 n. NU Cane peso kg. 19 (*). — Peso segmento intestino, = gr. 220. Dopo ore 1 e mezza circo- lazione gr. 250. Sangue cc. 500 + 4 gr. « alanina. Pressione 140-160 mm. mercurio. Velocità per minuto 26-30 cc. Per 15 cc. sangue la formoltitolazione richiede . . . . 11 GOSENAA OE 10872 L) n» dopo la circolaz. » ” 9,6 ” ” Per 50 gr. tessuto la formoltitolazione richiede . . . . 78 ” ” ”» n dopo la circolaz. » ” 53,8 ” Z NiGper 100 co. sangue di e 3,5 06 Hg S04 son ” L) ” dopo circolazione . . .. .. 10,2 » ” “ 50 gr. tessuto . . Gar iaia O ” ” ” L) ” dopo circolazione +... ... 9,5 ” (*) L'animale viene sacrificato quattro ore dopo l'ultimo parto. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 61 — 4380 — Complessivamente mancano nel liquido circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 69,9 cc. Na OH ‘/10 n. Se ne trovano in meno nel tessuto da richiedere 74,2 ce, Na 0H"/n n. Deficit assoluto 141,1 cc. Na OH !/,0 n. «ESPERIENZE ESEGUITE CON LIQUIDO DI RINGER. VII. Cane peso kg. 6,6. — Peso segmento intestino = gr. 140. Dopo ore 1 e mezza circola zione = gr. 155 + 19 ce. succo. Soluz. Ringer ce. 500 + 4 gr. glicocolla. Pressione 60-30 mm. mercurio. Velocità per minuto 18-26 cc. Per 10 cc. liquido la formoltitolazione richiede . . . . 10,6 cc, Na 0H!/0 ” » dopolacircolaz. » ” 3 ” Ù) secreto la formoltitolazione richiede . .... 9 » ” Per 50 gr. tessuto ” ” 14,6 » ” » n dopolacircolaz. » ” 23,6» ” NH; per 100 ce. liquido dopo la circolazione . . . . . 6 cc. H, SO '/so D) ” SECrEtOn a ‘a e TOO D) Complessivamente mancano nel liquido tante sostanze titolabili al formolo da richie- dere 35 cc. Na OH !/,0 n. Se ne trovanoin più nel tessuto da richiedere 38 cc. Na OH 1/10 2. Deficit assoluto 2 cc. Na OH !/10 2. VIII. Peso cane kg. 16. — Peso segmento intestino gr. 160. Dopo ore 1 e mezza circola- zione = gr. 200 4 60 ce. succo. Soluzione Ringer cc. 500 + gr. 4 glicocolla. Pressione 60-100 mm. mercurio. Velocità per minuto 22-30 cc. Per 15 cc. liquido la formoltitolazione richiede . . . . 15,8 cc. Na OH !/10 ” » dopo la circolaz. » » 12,6 ” » D) secreto la formoltitolazione richiede . . . . 14,2 D) ” Per 50 gr. tessuto » D) 20,4 ” » L) n dopo la circolaz. » » 38 » ” NH; per 100 cc. liquido dopo la circolazione . . . . . 14 cc. Ho SOL !/s0 ” 50. gr.ttessuto: | silent ani o pia fait a20 ” ” ” ” ” dopo la circolazione . . . . . . 30 ” » Complessivamente mancano nel liquido circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 117 cc. Na 0H !/,0 #. Se ne trovano in più nel tessuto da richiedere 87,6 cc. Na OH !/10 x. Deficit assoluto 30,9 cc. Na OH 1/10 n. IX. Cane peso kg. 20. — Peso segmento intestino = gr. 170. Dopo ore 1 e mezza cir- colazione gr. 175 + 125 ce. succo che viene addizionato al liquido circolato. Soluzione Ringer cc. 520 + 4 gr. asparagina, alcalinizzata al tornasole, acida alla fenoftaleina. Pres- sione mm. 60-100 mercurio. Velocità al minuto 10-18 cc. Per 15 cc. liquido la formoltitolazione richiede . . . . 7,2cc. Na 0H1!/10% ” si Ae secreto. "9 i et 05 » b) » 50 gr. di tessuto la formoltitolazione richiede . . . 18,8» ” ” ” dopo la circolaz. » n 20 ” ” NH, perduto. — 481 — Complessivamente mancano nel liquido circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 24,38 cc. Na OH '/,0 n. Se ne trovano in più nel tessuto da richiedere 9,5 cc. Na OH !/10 n. Deficit assoluto 15,3 ce. Na OH ‘/10 n. X, Cane peso kg. 18. — Peso segmento intestino = gr. 145. Dopo ore 1 e mezza circola- zione gr. 190 + 190 ce. secreto. Soluzione Ringer cc. 550 + 4 gr. asparagina (alcali- nizzata al tornasole, acida alla fenoftaleina). Pressione 80-120 mm. mercurio. Velocità al minuto 16-20 ce. Per 15 cc. liquido la formoltitolazione richiede . . . . 7 cc. Na0H'/o0% ” » dopo la circolaz. » Li) 6,2» n Per 100 ce. succo la formoltitolazione richiede . . .. 7,38 » ” Per 50 gr. tessuto ” ” 29 ” ” ” » dopolacircolaz. » ” 22 ” ” NH; perduto. Complessivamente mancano nel liquido circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 20,5 cc. Na OH '/10 2. Se ne trovano in meno nel tessuto da richiedere 3,2 cc. Na 0H !/10 x. Deficit assoluto 23,7 cc. Na OH 1/10 n. XI. Peso cane kg. 6,50. — Segmento intestino peso gr. 140. Dopo ore le mezza di cir- colazione gr. 148 + 105 ce. succo. Soluzione di Ringer 500 cc. + 4 gr. « alanina. Pres- sione mm. 60-100 mercurio. Velocità al minuto 4-10 cc. Per 15 cc. liquido la formoltitolazione richiede . . . . 11,8 cc. Na OH '/uo # DI) » dopo la circolaz. » » 11,4» ” ”» secreto » ”» e D) Per 50 gr. tessuto ” ” DIANO: ” ” » dopo la circolaz. » ” 5,6» » NH: per 100 cc. secreto e liquido dopo circolaz. . . . 14 cc. Ha SO !/502 » sul tessuto perduto. Complessivamente mancano nel liquido circolante tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 15,5 cc. Na OH '!/;0 n. Se ne trovano in più nel tessuto da richiedere 2,1 cc. Na OH '/1on. Deficit assoluto 13,4 cc. Na OH 1/10 n. XII. Cane peso kg. 15. — Segmento intestino gr. 165. Dopo ore 1 e mezza di circola- zione gr. 195 + 265 cc. di succo. Soluzione di Ringer 510 ce. + 4gr. « alanina. Pres- sione mm. 60-120. Velocità al minuto 14-24 cc. Per 15 cc. liquido la formoltitolazione richiede . . . . 11,9 cc. Na OH 1/0 # ” » dopo la circolaz. » ” 8,2» ” ” secreto ” 81°» ” Per 65 gr. tessuto ” ” 6,4» » ” » dopo la circolaz. » ” 8,80» ” NH; per 100 ce. secreto ” ” 33,5 cc. H, SO, !/so n » ce, liquido dopo circolaz. » 75.» ” ” 65 gr. tessuto D) ”» 10 ” un »” » » » » 18 ” ” — 48902 Complessivamente mancano nel liquido circolante tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 88,1 cc. Na OH !/10 w. Se ne trovano in più nel tessuto da richiedere 74 cc. Na OH !/10 n. Deficit assoluto 14,1 cc. Na OH !/ion. * XMax Dalle esperienze riferite emerge che: Facendo circolare nell'intestino isolato sangue contenente aminoacidi in forte concentrazione (8 °/so circa) si avverte sempre una loro diminuzione, che raggiunge persino il 20 °/. Parte degli aminoacidi scomparsi dal sangue può trovarsi accumulata nel tessuto esperimentato, ma tale deposito è sempre assai lieve ed in qualche caso non soltanto non si riscontra deposito, ma al contrario si av- verte una scomparsa anche degli aminoacidi preprii del tessuto. In ciò l’in- testino si comporta in modo assai diverso dagli altri tessuti già studiati. Specialmente interessante a tale proposito è l’esperienza VI nella quale, es- sendo molto elevato il contenuto in aminoacidi della mucosa, ne scomparve il 21 °/, mentre nel sangue ne era scomparso il 18 °/. Il risultato di questa esperienza suggerisce una nuova serie di ricerche sul comportamento degli aminoacidi che si trovano già assorbiti nell'intestino. Se il fenomeno osservato ora incidentalmente è dovuto alla loro scomparsa (e non ad una casuale loro differente distribuzione nell'intestino) tanto più evidentemente esso sarà messo in luce con esperienze eseguite con sangue normale invece che con sangue carico di aminoacidi. Poichè in quest’ultimo caso la ten- denza dei tessuti a saturarsi di aminoacidi del liquido circolante viene a controbilanciare ed a mascherare la scomparsa di quelli preesistenti nel tessuto. Su tale argomento sono in corso esperienze. Adoperando per la circolazione liquido di Ringer si osserva pure una diminuzione degli aminoacidi disciolti, inferiore però a quella osservata nelle esperienze con sangue. Inoltre nelle esperienze eseguite con liquido di Ringer il deposito degli aminoacidi nel tessuto è assai superiore, tanto che in qualche caso corri- sponde esattamente alla quantità degli aminoacidi scomparsi. La produzione di NH3 osservata nelle varie esperienze non giustifica che in minima parte il deficit assoluto di aminoacidi constatato : e solo in una o due esperienze (IV-XII) l' NH; riscontrato, rappresenta una rilevabile parte dell'N aminico scomparso. — 483 — Chimica. — Sul metabolismo degli aminoacidi nell’ organismo. V. Azione del tessuto muscolare funzionante sugli aminoacidi aggiunti al sanque circolante. Nota dei dott. U. LomBROso è PATERNI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Chimica. — Sul metabolismo degli aminoacidi nell’ organismo. VI. Sul comportamento degli aminoacidi contenuti nella mucosa enterica o nel lume intestinale. Nota dei dott. U. LoMBROSO e C. ARTOWM, presentata dal Socio L. LUCIANI. Fisiologia. — icerche sulla secrezione spermatica. IV. In- fluenza del riposo sulla secrezione spermatica del cane. Nota del dott. G. AMANTEA, presentata dal Socio L. LUCIANI. Fisiologia. — /cerche sulla secrezione spermatica. V. Osser- vazioni sulla secrezione spermatica dell’uomo. Nota dei dottori G. AMANTEA e T. RINALDINI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Le Note precedenti saranno pubblicate nei prossimi fascicoli. Chimica fisiologica. — £icereke sull’arginasi: intorno all’a- zione dell’arginasi sulla creatina (*). Nota III del dott. AnroNINO CLEMENTI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Le mie ricerche sistematiche intorno alla distribuzione dell'arginasi nelle diverse classi di vertebrati hanno portato la dimostrazione, di natura biolo- gica, della partecipazione effettiva di questo fermento alla funzione uropoie- tica del fegato; l'arginasi assume quindi un posto di primo ordine tra i fermenti dell’organismo, e con essa acquistano un singolare interesse fisiolo- gico tutte le svariate questioni che si collegano alla biologia e alla chimica biologica, ancora sconosciuta, di questo fermento; primo fra tutti ci si pre- senta il problema riguardante la specificità di azione dell’arginasi, il quale si collega da una parte col problema della specificità dei fermenti in genere, e dall'altra col problema speciale della formazione di urea nell’organismo per via idrolilica. Per risolvere il problema della specificità di azione dell’arginasi, è necessario di ricercare se l’arginasi sia un fermento capace di staccare è nucleo guanidinico dalla molecola delle diverse sostanze organiche che lo (*) Lavoro eseguito nell'Istituto di chimica fisiologica della R. Università di Roma, diretto dal prof. D. Lo Monaco. — 484 — portano legato, o se invece essa sia in grado di aggredire solamente la mole- cola dell’arginina e di staccare il nucleo guanidinico, solo quando esso faccia parte della molecola di quest’ultima. Se l’arginasi fosse un fermento generale deguanidinizzante, esso dovrebbe agire, oltre che sull’arginina, anche sulla creatina, sulla glicociamina e sulla glicociamilglicina ('), data l'analogia strutturale di questi corpi, come si può rilevare dalle seguenti formule di struttura : VALE NH» DALLE NH. C=NH CaNH C=NH CE=NH )NH )NH )NH )N(CH) CH» CH. CH, CH. | | CH; CO CO. OH CO-0H | CH; NH | | CH.NH, CH. | | CO-0H CO - OH (Arginina) (Glicociamilglicina) (Glicociamina) (Creatina) Come è noto, l’arginina, in seguito all'azione idrolizzante dell'arginasi, sì scinde in urea e ornitina secondo questa equazione: NH; du CENH > C=0 (Urea) #SNH |, 0 (CR CH, + CH, 5 NH, | | CH», CH, | | (Arginina) CHa (Acqua) CH; (Ornitina) CH. NH; CH - NH, | | CO. OH co -0H Analogamente, per azione dell’arginasi, la glicociamina, la glicociamil- glicina e la creatina si dovrebbero scindere la prima in urea e glicocolla, (*) Clementi Antonino, Introduzione del nucleo guanidinico nella molecola dei polipeptidi, e sua importanza fisiologica. Rend. Acc. Lincci, vol. XXIV, serie 5*, 1° sem,, fase. 1°; Id., Introduzione del nucleo quanidinico nella molecola dei polipeptidi: sintesi della quanidoglicilglicina. Gazzetta chimica italiana, anno XLV, parte I, fasc, 1°, 1914. — 485 — la seconda in urea e glicilglicina, la terza in urea e sarcosina secondo le seguenti equazioni : H H, NH. T PALE VALE 5 NH, Ì NH UC—=0'(Urea) C.NH O C=0 (Urea) van | SEL SENE è pil \ NH; CH, -+H CH,- NH; CH, CH.-NH, | | | | Co -0H CO -0H CO CO | | NH NH | | CH, i CH, | | CO - OH CO-0H (Glicociamina) (Glicocolla) (Glicociamilglicina) (Glicilglicina) NH, NH: CESNH a Co O (Urea) S \NH. ZN ) a 2 DINE + H s. CH, CH.- NH (CHx) | CO - OH CO-0H (Creatina) (Sarcosina) Colle presenti esperienze mi sono proposto di ricercare se l’arginasi sia capace di idrolizzare la molecola della creatina: questo problema ha un’evi- dente importanza fisiologica, poichè, dopo l’arginina, la creatina si potrebbe ritenere (anzi è stata da alcuni ritenuta) come la fonte più importante per l'origine dell’urea, per via idrolitica, nell'organismo. Infatti, come è noto, la creatina, scoperta per la prima volta da Chevreul nella poltiglia dei muscoli, è stata riscontrata costantemente in svariati organi e specialmente nel plasma sanguigno e nei muscoli: nell’urina si riscontra in piccola quantità, essendo il suo posto occupato dalla anidride della medesima, la creatinina. Dalle ricerche degli ultimi anni è stato assodato che la creatina rappresenta uno dei più caratteristici prodotti del ricambio delle sostanze azotate nell’orga- nismo, insieme coll’urea e coll’acido urico. D'altra parte la creatina non si è riscontrata come tale nella molecola proteica: si ammette quindi, che essa derivi da altre pietre strutturali della molecola proteica stessa o del proto- plasma cellulare, le quali si degradano durante il metabolismo; tutto fa pensare, data l'analogia strutturale tra creatina e arginina, e la presenza costante di quest'ultima tra le pietre strutturali delle più svariate proteine, — 486 — che nell'organismo la prima derivi dalla seconda, sebbene finora non sia riuscito possibile il dimostrare nettamente una tale derivazione. Sembra d'altra parte dimostrato, dalle ricerche di Pekelharing e van Hoogenhujze ('), che la creatina sia un prodotto tipico finale del ricambio materiale delle cellule muscolari, e che stia in rapporto non tanto coll’attività contrattile, quanto coll’'attività tonica della fibra muscolare; in altri termini, la crea- tina rappresenterebbe, nell'organismo, specialmente l'esponente chimico del tono muscolare. L'azione dell’arginasi sulla creatina è stata studiata finora da un solo autore, il Dakin (*), il quale non potè constatare un'azione dell’arginasi sulla creatina e creatinina. Abderhalden (*) ha proposto recentemente di chiamare l’arginasi « deguanidasi »: questa denominazione implicherebbe il concetto della non specificità dell’azione di questo fermento. Ho creduto quindi di sotto- porre il problema a nuove ricerche sperimentali. Nelle mie esperienze, per ricercare se la creatina sotto l’azione dell’arginasi si scinde in urea e sarco- sina, ho applicato il metodo di Sérensen, fondandomi sul fatto che, mentre la sarcosina, come ho dimostrato in ricerche precedenti (‘), sî comporta, alla titolazione secondo il metodo di Sorensen, come un acido monobasico, la creatina si comporta come un corpo neutrale: se la creatina subisse l’azione idrolitica dell'arginasi scindendosi in urea e sarcosina, mediante la titolazione alla formaldeide si potrebbe riconoscere l'avvenuta scissione dal cambiamento di comportamento della creatina nella titolazione al formolo secondo il metodo di Sorensen. Ho condotto le mie esperienze nel modo seguente: fu preparato del- l'estratto acquoso dal fegato di cane ucciso di recente, nel quale l'azione dell'arginasi è presente e assai intensa (?); l'estratto acquoso dì fegato veniva mescolato in un erl/enmeyer con una soluzione */», x di creatina e posto in termostato a 37° per un tempo determinato, dopo aggiunta di toluolo; pre- paravo io stesso la creatina per via sintetica, secondo il metodo di Strecker, vi cH:-N, < e l' (limite supe- riore) (***) e sottintenderemo gli indici x, + ai simboli 6, Nul, ecc., per semplificare la scrittura, salvo a porli esplicitamente quando la notazione abbreviata possa dar luogo ad equivoci. L'unico elemento di %,che è nullo rispetto all'operazione + (°), lo indicheremo con 0 (zero). 2. Tra gli operatori per gli « giova considerare subito quello 7//o, che indicheremo con 0 (zero, come l’elemento di x che è nullo rispetto a +) e l'identità, che indicheremo con 1 (un0); (80) 0=7ufuoaslgenda ax = 0] [2] ERA Ai e per semplicità non porremo l'indice « e + a 0 ed 1, come regolarmente dovrebbe farsi, perchè (n. 1) x e +, essendo fissi, possono essere s0//2nfesz. Esiste almeno un operatore @, per gli x, tale che aa = 0, ovvero «x = x, perchè è stabilito, con /egge finita, quale è l'x che corrisponde ad un x di v fissato ad arbitrio. Tale operatore è anche unico (*), perchè, se per # sono verificate le medesime condizioni, si ha indubbiamente ax = $x. cioè a = f, essendo x arbitrario. Segue dunque che: [3] O,leufu(*) 3. Con le notazioni complete Qo(u, +), N(4, +), Ro, +) indicheremo, rispettivamente, le classi dei numeri reali, interi, razionali, che definiremo come classî di operatori per gli u rispetto all’opera- zione +. Ma per semplificare (nn. 1, 2)la scrittura, nelle proposizioni [4]-[17] sottintenderemo gli indici v, +, scrivendo semplicemente Qo, No, Ro. In seguito (n. 8) le notazioni Qo. No, Ro, prive realmente degli indici u, - indicheranno delle classi assolute. Definiamo la classe Q,, ponendo C) [4] Q=[Cls fuor) A. a,beu-a-=0-09a,51? jWnas (ca=bd)l ew... B. asw-a,beu-Da,a,0 (a+ =aa+ad.. C. agw:iqu-10Nx3 (aa =): a8u-10-Ia,a daA=U-.. D. a,B,yew:qu-1(00%3 (fe=ax+fx):aeu-10- Da, By 0° vra=aa+fai](*). (#*) e Rar='@a8(Qo- 00) + B. La (c) prova che l’operatore nullo, 0, è pure l'elemento di Q che è nullo rispetto alla operazione + definita dalla [6]. — 4939 — (u è, rispetto all'operazione +, sistema lineare ad una dimensione); , | aeQ0 00 -D-@u=%, oppure BOI (Q-:0 9 (fu) rep (ogni Q, non nullo è operatore univoco e reciproco per gli u). Per la dimostrazione della [10], e anche per le cose seguenti, giova ricordare che, essendo i Q, operatori per gli u, il prodotto funzionale (?) di un ® per un altro è un ® wuivocamente determinato, che tale pro- dotto .(*)te associativo. e-tche 0a —=a0=0,laal—=e. Se a è un Q, non nullo, dalla condizione @a = « segue a =" 1, perchè da e (a4)= ax segue a=l. Da fa=1 segue @afa=a, poi «Paf=@$ e quindi anche «8 = 1. Ora, da A e dalla [8] risulta che esiste un solo ele- mento # di ®, tale che #@a=1, o anche a8= 1; inoltre l'equazione ar = ha per soluzione, unica, «=, e quindi $ è precisamente l'operatore inverso di « (e la [10] è così dimostrata) che indicheremo, come d'uso, con «©! senza che, per ora, si dia ad 1 il significato stabilito dalla [2] (**). 6. Definiamo ora la classe N seguendo Peano (') o Pieri (*), non più mediante postulati, ma bensì con definizione nominale che dà la legge di formazione degli N, mediante 0 ed 1 nella classe Qo. [11] No=?[Cls‘Qn03/0ev:1+v09v:weCls'‘0-08w- l+wewow-Du:e=0}1] [Peano (?) |. [11°] No=?[C1s‘Q90 08j080:1+ vp viwe Cls'0-0w0 Hw0-(1+ w)(] [Pieri (?)]. Nella [11] la condizione 08N°:1+N;0 No dice che i Q, formati con 0 ed 1 soltanto, (a) 0,1+0,1+1+0,1+1+14+0,...-..., appartengono tutti alla classe N; inoltre la condizione weCls'No-0ew- o 90 -0w:èw=No dice che con la legge (a) st ottengono tutti e soli gli Ne. (*) Se «,8 sono Qo., operatori a sinistra per gli «, indico brevemente con f « il prodotto funzionale di @ per 8. Però tale notazione abbreviata non è regolare e può condurre ad assurdi [cfr. (?), n. 13]; mentre è regolarissima (ibid., n. 12) la notazione «a, ove a è un «. Per il segno esplicito di prodotto funzionale dei Qo si dovrà far uso del segno Xx poichè (n. 9) il prodotto funzionale dei Qo è niente altro che il loro pro- dotto aritmetico. (**) Per il rapporto di Euclide si ha a,beu-a-=-=0-0-bla=1{Q0ae[aa=B]} e da A risulta che 5/a8Q,. In virtù della [8], la proposizione precedente definisce anche il rapporto tra un Qo e un altro non nullo, e si ha ffa=@—'8, 1/a= a. Il procedimento seguìto in questa Nota per dedurre i Q» dalle grandezze è dunque, in sostanza, il metodo dei rapporti di Euclide, reso più agile dalla mancanza degli No e dalla presenza degli operatori; inoltre è precisato logicamente. — 494 — Lo stesso dice la [11"] quando, come ha fatto Pieri, si deduca dalla [11] il principio d'induzione che è esplicitamente contenuto nella [11] e dà, anzi, la legge yinita (*) di formazione degli N. Segue subito che: HON NosCls‘Q. Definiamo la classe Ro, ponendo (n. 5) [13] Ro = (N - 10) N; e dalla [12] e dal n. 5 si ha subito [14] Ra e'Cls Qi). Dimostrato il principio di Archimede [cfr. (4), 38‘1], e dimostrato che ogni Q, è compreso tra due N, consecutivi (non escluso l'estremo minore), sì ha: [15] esQ 9a = l'{RoN(0auvia) (**), dalla quale risulta [16] Q = 1'jCls Lim Rf, cioè che la classe Yo è costruibile mediante classi limitate ed esistenti di Ro e il limite superiore (***). ‘. Gli operatori 0,1 per gli x sono univocamente determinati (n. 2), anche indipendentemente dalle condizioni A-D. Una volta ammesso che le A-D individuino una, ed una sola, classe Q,, risulta, [11], che la classe N, è EFFETTIVAMENTE COSTRUIBILE mediante 0,1,4- con legge finita; con legge parimente finita è coSsTRUIBILE, [18], la classe Ro, e, mediante questa, [15], è EFFETTIVAMENTE COSTRUIBILE la classe Q,, sempre me- diante 0,1,-+-, la classe x e l’operazione 4 per gli x. (*) Le leggi [11], [11"] sono equivalenti perchè l’una è deduttibile dall’altra (2); ma la [11"] è finita, e quindi è pure /inita la [11]. Il ragionamento per induzione è dunque ragionamento finito, e il principio d'induzione caratterizza le classi finite, contrariamente all’opinione di Poincaré accettata da alcuni anche in Italia. (*) L'operatore inverso dell'identità è pure l’identità: e quindi N, 9 Ro senza bisogno di nuove convenzioni, antilogiche sempre perchè conducono ad identificare enti essenzial- mente distinti. (**) Come legame tra gli u e i Qo si ha aeQ0' 9 Cs Ro 0 08 |ceu dn 'aa=1l'(02)}. (***) Allo stesso risultato si giunge, sebbene sotto forma più complessa e punto chiara, anche quando ci si ostini a voler far uso delle pesanti e antiestetiche classi con- tigue, in luogo del concetto semplice chiaro ed elegante di lemite superiore. — 495 — Dunque: mediante le condizioni A-D è possibile di COSTRUIRE EFFET- TIVAMENTE, una, ed una sola, classe di operatori per gli u rispetto a +, che soddisfa, [15], alle condizioni A-D. Ne segue che: Za [4] definisce una, ed una sola, classe ®, rispetto ad u e +, cioè che [17] Qoe Cis (uf). 8. Torniamo a porre il segno generico / in luogo del segno speciale + per gli «, riserbando questo, definito dalla [6], per i Q,. Alla notazione abbreviata @, (n.3) sostituiamo quella completa Qo(v, 7); e lo stesso fac- ciamo per N, ed Ro. Inoltre indichiamo con % una classe di grandezze omogenea rispetto all'operazione /', e con 0" l'elemento di ' che è nullo rispetto ad /'. Se a è un N;(u,/) e x è un <, risulta dalle cose precedenti, che ax è formato, nella classe v, mediante 0,x,/, come a è formato, nella classe Qo (4, /), mediante 0,1,+. Se a’ è un 4’, la notazione @ 2° è attual. mente priva di significato perchè @ non è un Qp(w',/'). Noi converremo di indicare con az’ quell'elemento di %' che è formato, nella classe w/, mediante 0',x",/', come @x è formato, nella classe «, mediante 0,2, /, cioè come @ è formato, nella classe Q,(u,/), mediante 0,1,4- (*). E tale convenzione è lecita, perchè l’indicata formazione di a # nella classe « dipende esclusivamenta dalle proprietà I-VIII di u ed f, proprietà che NON VARIANO col variare di u ed f. In base a tale convenzione, e alla permanenza delle I-VIII, possiamo indicare, come d'uso, con i simboli 0,1,2,3,.., assoluti, cioè indipen- denti da u e da f, gli elementi della classe No (4, /). Alora 0,1,2,3,... formano una classe assoluta, N, di operatori per % , / arbitrarî. Dalla [18] risulta che, mediante la classe assoluta No, si ottiene la classe, pure asso- luta Ro. Inoltre, se osserviamo che nella [15] la classe Ron(0@via) è unica, allora dalla [16] risulta che R, dà la classe assoluta Q, di opera- torì per u,/ arbitrarî (*). 9. Se @, 8 sono No, si prova facilmente (') che a +8 = + « e che fa =@a8; da questo e da [13],[16] risulta che per la somma e per il (*) Per un’altra forma mediante corrispondenza ordinata, cfr. la mia Nota (5) n. 4. La forma del testo è più semplice. (*) Ottenuta così la classe assoluta Qo, e se @ è un suo elemento qualunque, allora, purchè si operi in una classe u,f, omogenea, ax è un w determinato. Ma se insieme con 2 non son dati u ed f (n. 1), allora «2 è notazione priva di significato. Come pure se « è omogeneo rispetto a due operazioni distinte 7,7, allora @@ indica due elementi distinti, uno in «, f, Valtro in u, f”. La questione « se esiste un'operazione f per gli u soddisfacente alle I-VIII, può esisterne un’altra f' diversa da f?» può avere interesse in sè, ma non ne ha per la teoria generale delle grandezze e dei Q,. A questo proposito ritengo dubbie le ultime due proposizioni della mia Nota (5). RenpiconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 68 — 496 — prodotto funzionale dei Q, vale la proprietà commutativa. Se a,b sono elementi arbitrarî di u, allora, fissato c non nullo di «, si ha a=@c,5=fec, da cui a-t5=c0tfe={0-L9)c (eg E e quindi risulta, come ha già dimostrato il sig. Huntington (5), che la pro- prietà commutativa della somma delle grandezze è conseguenza delle I-VIII. Infine è ovvio che il prodotto funzionale dei Q, coincide con l’ordinario prodotto aritmetico, e che l'operatore a, inverso di @, coincide con l’ordi- nario reciproco di a. In tal modo, senza ricorrere all'iper-logica e a classi di classi, è possibile ottenere in modo semplice rapido e rigoroso i numeri reali nella forma e sostanza abituale e loro propria da secoli, ed inoltre ottenerli già collegati con le grandezze perchè dedotti da queste. Matematica. — Zormole di derivazione funzionale. Nota II di E. DANIELE, presentata dal Socio V. VOLTERRA. 4. Riferendoci per le notazioni ed i simboli alla Nota pubblicata nel fascicolo precedente di questi Rendiconti col medesimo titolo, possiamo sup- porre che la funzione g del n. 3 contenga, oltre alla variabile x, un para- metro @; sia cioè Si 1 4) F=Poza] , 9A = E) ze), per cui F si potrà considerare come dipendente da tutti i valori di yi) fra 0 e 1, ed inoltre dal parametro @. Vogliamo calcolare la derivata (or- dinaria) di F rispetto ad «. Si ha: g(c|e+4a)= g(2]e) + 4a(29). Rea - 00, 7 } indicando con (22) il valore di = per un valore conveniente di «@. (04 Inoltre, se F|[p]| non ha punti eccezionali, e se Aa è supposto infinitesimo, 1 aP= | P'|Cg(e]a) 91) 3971) dy. Sostituendo a dg l'espressione dedotta dalla formola precedente, e di- videndo ambo i membri per 4a, si ottiene: “i | P|[9(e|e) 9) EA dy. — 497 — Come esempio prendiamo ) gela) = f Me.) VE + (a): l'applicazione della (IV) ci fornisce: F 1 io4(43 av) E (Pity ale f SLI Va, e questa coincide con una formola trovata direttamente dal prof. Volterra nel n. 3 della Nota dianzi citata, dove la F|[g(x|@)]|, con F funzione arbitraria e g(x|@) data dalla (4), è la soluzione di una certa equazione alle derivate funzionali. o. Il sistema 1 \ F@)=F [9,2] (5) Î vi g(ì) = 9(/(€) , f"(5),...,/5)); mediante il quale si fa dipendere F da tutti i valori di /(5) fra 0 e 1, è affine a quello formato dalle (1). Noi supponiamo F|[g]| priva di punti eccezionali. Volendo la derivata di F rispetto ad /, osserveremo intanto che si ha: e se noi assumiamo df sempre nulla fra 0 e 1 eccetto che in un intervallo (uv), la stessa cosa accadrà per dg. D'altra parte si ha: aP= f 1 IL9) 2, A] s9(m@m; sostituendo colla formola precedente ed eseguendo trasformazioni ben note, sì ottiene : se= Lisio ia FE x P.;m)(2 VO e == N (_-]\ner-i d ' sa dp IL, 2 1) CL :(P \[g($) 0, n]| RATIO) W > . De . . A CI . Col tendere di tutti i punti di (wr) a è,, la differenza (5) si annulla D/ | — 498 — per la continuità, che noi supponiamo, delle funzioni considerate, e si giunge così alla formola : (PIC) e,f)l=| FICO I La condizione che la F|[g]| sia priva di punti eccezionali non è es- senziale per la validità della (V). Se per es. si considera (5) Pe) = F][9(8), #]|(9(0)), per modo che si abbia dF = f P'Y | [g(€) RoHS n] dg(n) dn + a dg(x) 1 eseguendo la variazione di 4 in un intervallo (ww) inzerno al tratto (0,), x pv "f sì ridurrà a f , mentre il termine adg(x) s'annulla. Ù la Pertanto la (V) vale ancora per la F definita dalla (5'), alla sola con- dizione che il punto È,, in cui si calcola la derivata di F, non coincida con x. Meccanica. — Nuove osservazioni teoriche sull’irraggiamento nero. Nota del dott. Cino PoLi, presentata dal Socio 0. SomI- GLIANA. Quando in una cavità chiusa, a pareti perfettamente riflettenti, sia con- tenuto un corpo a temperatura costante e uniforme T, la densità w(»,T) dell'energia raggiante di frequenza v è pure costante e indipendente dalla natura del corpo che si considera, e, secondo Planck ('), vale Sa hv3 1 (1) Ai E n essendo » una costante universale di significato fisico non ancora precisato, e È k'T l'energia cinetica molecolare media di un gas perfetto alla tem- peratura assoluta T. Come è noto, questa relazione, che è in ottimo accordo coll’esperienza, è stata dal Planck dimostrata con ipotesi estranee, ed anzi incompatibili coi (*) Max Planck, Z'Reorie der Wirmestrahlung. Leipzig, 1906, pag. 157. — 499 — principî della dinamica classica ('), ed è opinione generalmente accettata (?) che essa non si possa ottenere col solo ausilio di questi ultimi. Mi propongo invece di dimostrare che questa incompatibilità non esiste, poichè si può imaginare per la emissione un meccanismo conforme alle teorie classiche, per il quale si dimostra facilmente la formula di Planck. Chiu- derò quindi la Nota con qualche osservazione sul significato e sul valore teorico di tali meccanismi. 2. Secondo le ipotesi fisiche generalmente accettate, l'irraggiamento di un corpo è prodotto dal moto di particelle elettrizzate contenute nel corpo stesso in numero enorme, e che nel sèguito indicherò brevemente col nome di ioni. Questi moti sono strettamente connessi alla natura fisica e chimica del corpo, cioè alla sua costituzione molecolare, atomica ed interatomica; possono dunque essere affatto diversi da corpo a corpo; ma se si suppone che questo sia circondato completamente da una superficie riflettente, essi divengono vincolati inoltre dalla condizione di non turbare l'equilibrio ter- mico, nè quello elettromagnetico. Vale a dire che nel corpo nero il moto degli ioni, il quale influisce certamente sui moti molecolari (come è dimo- strato dal fenomeno dell'assorbimento, per il quale energia elettromagnetica si trasforma, per l'intervento degli ioni stessi, in energia termica, cioè ener- gia cinetica molecolare), deve esser tale da non alterare la distribuzione del- l'energia molecolare che è richiesta dall’uniformità della temperatura; ed inoltre la quantità totale di energia elettromagnetica posseduta dagli ioni dovrà restare costante, poichè tale rimane quella presente nello spazio am- biente, come quella cinetica totale delle molecole. Se dunque voglio costruire un meccanismo irraggiante, se cioè voglio imaginare che i moti degli ioni nel corpo nero siano di una data natura, dovrò curare di soddisfare alle condizioni suespresse. Per quanto riguarda la costanza dell'energia totale degli ioni, supporrò addirittura che sia costante l'energia di ogni singolo ione. Questa ipotesi, assai più restrittiva del necessario, farà sì che il mio corpo fittizio non avrà riscontro nella realtà; ma ciò non importa per lo scopo che mi propongo, per il quale basta invece che le mie ipotesi non escano dal campo delle teorie classiche. Per la condizione relativa all'equilibrio termico, ammetterò semplice- mente che la legge dell'equipartizione dell'energia, quale si dimostra nella teoria cinetica dei gas, si applichi anche ai sistemi di molecole e di ioni, analogamente a quanto si fa nella teoria di Drude della conducibilità nei metalli. Sarà bene che faccia osservare subito. esplicitamente, che questo modo di estendere il teorema dell’equipartizione è radicalmente differente (*) Intendendo, con questo nome, tanto la meccanica delle masse, quanto le teorie elettriche di Maxwell e Lorentz. (?) Cfr. La théorie du rayonnement et les quanta. Paris, 1912, passim. — 500 — da quello usato da Rayleigh, Jeans e Lorentz, e che conduce alla formula 81akvT (2) ea in disaccordo coll’esperienza. In questo ultimo metodo si equipartisce, se mi è lecito dire, anche l'energia raggiante, mentre questa non interviene affatto nell'ipotesi che io intendo applicare. È appunto questa modificazione sostanziale nel modo di intendere l’equipartizione, che permette di sfuggire alla formula di Rayleigh. 3. Con le due assunzioni fatte, sono senza altro in grado di ottenere la formula di Planck. Per semplificare i calcoli, supporrò ancora che ioni mobili abbiano solo cariche negative, e che possano solo oscillare rettilinea- mente intorno alla loro posizione di equilibrio. Se allora chiamo 9 il momento di uno ione, cioè il prodotto della sua carica 0 per lo spostamento, la sua energia è della forma 2 (3) B=R'g+1(%) IRA ° 7 : Mad e poichè essa è per ipotesi costante, e quindi rai ho ca (4) Li + ky =0, dt ossia (5) q=0ac08(27rvt-d), essendo a l'ampiezza delle oscillazioni e (6) Sai la frequenza. Posso ammettere che il corpo sia perfettamente omogeneo, di modo che ogni ione sì trovi nelle stesse condizioni, e quindi K ed L siano le stesse per tutti gli ioni. Invece, per l'ampiezza delle oscillazioni, che è indipendente da K ed L, supporrò che sia maggiore per le cariche minori, e precisamente pongo (7) ao = cost. Si osservi che con questa ipotesi non si ammette affatto, come sembra a prima giunta, la possibilità di oscillazioni infinitamente ampie, poichè secondo la teoria degli elettroni, e non può essere inferiore alla carica ele- mentare e dell'elettrone, e quindi a ammette un limite superiore finito. — 501 — Di più, non solo deve essere o > e, ma addirittura (8) Dime (m intero positivo); per cui, invece di (7), sì può scrivere (9) ma? = cost, dove m è il numero degli elettroni che costituiscono lo ione oscillante con l'ampiezza a. Allora tenendo conto delle (5),(6), la (3) dà, per l'energia di uno ione costituito di m elettroni e oscillante con la frequenza v. il valore (10) E=mhv, essendo h= 2rma”e L'K una costante che, in virtù di (9), è la stessa per tutti gli ioni. La densità dell'energia raggiante di frequenza v dovrà essere tale da non alterare l'energia degli ioni della stessa frequenza. Ora Planck ha dimo- strato (') che, affinchè l'energia media E di un risonatore (cioè di uno ione oscillante periodicamente) di frequenza v rimanga costante, la densità x del- l'energia raggiante deve essere (12) lun e si può ammettere che questa relazione valga anche nel nostro caso, quando l'energia media sia calcolata sull'insieme degli ioni di frequenza v, cioè dividendo per il loro numero la loro energia complessiva. Infatti, siccome l’ intensità dell’ irraggiamento (che vale de) è uguale al rapporto fra i) coefficiente di emissione e quello di assorbimento, ciò equi- vale ad ammettere che questi coefficienti in un punto del corpo, per una data frequenza, sono uguali alla media dei coefficienti analoghi dei singoli ioni; media che risulta uguale in tutti i punti, poichè la distribuzione delle varie specie di ioni in tutto il corpo si deve pensare non-ordinata (ungeordnete). Rimane dunque da calcolare l'energia complessiva degli ioni di fre- quenza v: il che potrò fare valendomi dell'ipotesi posta al n. 2, che cioè valga anche per gli ioni la equipartizione dell'energia. Essendo il corpo alla temperatura assoluta T, ad ogni grado di libertà spetta l'energia cinetica gal, detta « la costante di Boltzmann. Ogni ione ha un solo grado di libertà: e poichè la sua energia, data dalla (8). (') loc, cit., pag. 124. — 502 — è precisamente il doppio della sua energia cinetica media, si è condotti ad assegnare ad ogni ione l'energia E=tat=4T, dove % è la stessa costante che compare nella (1). Allora E risulta uguale per tutti gli ioni; e dalla (12) risulterebbe, sen z'altro, i 817° ato Uu== cioè la formula di Rayleigh. Ma si deve osservare che questo modo di procedere non è esatto, poichè nella teoria cinet ca dei gas si dimostra che non tutte le molecole posseg- gono esattamente l'energia «T, ma che questo è solo il valore medio del- l'energia molecolare, l'esatta ripartizione della quale è assegnata dalla nota legge di Maxwell. E così dovrò ammettere che vi sono ioni che posseggono energia differente da X#T, e che precisamente il loro numero sarà dato dalla legge di Maxwell. Il valore di E, da introdurre nella (12), va calcolato per i soli ioni di frequenza v: e sarà precisamente (13) E=j;) mhvNa, detto N il loro numero totale, e N, il numero di quelli che hanno l’ener- gia mh»v, cioè che sono costituiti da 72 elettroni. Se m variasse con conti- nuità, la legge di Maxwell darebbe mhv N, dmn=-—Nde * ; ma siccome m non può essere che intero, sostituirò gli incrementi finiti ai differenziali, cioè mv Ni, dam=—Nde * , vale a dire _mhy ome (14) N,,=N e kT Le kr ); e quindi la (13) diviene ossia (15) Risa — 503 — e quindi la densità dell'energia raggiante diventa 8ahv 1 (16) bea el 2a] cioè si ottiene precisamente la formula di Planck. 4. Dunque, per l'irraggiamento di un corpo fittizio costituito nel modo spiegato al n. 2, è vera la formula di Planck; e poichè le ipotesi fatte non escono dal campo delle teorie classiche, e nella dimostrazione fatta nel n. 3 si ricorre solo ai principî della teoria elettromagnetica della luce di Maxwell, a quelli della teoria degli elettroni, e della teoria cinetica dei gas, rimane dimostrata la possibilità di ottenere la formula di Planck senza ipotesi dei quanta, o altre che contraddicano ai principî classici. Siccome, insomma, l’intero sistema irraggiante imaginato ricade nel domi- nio del principio di Hamilton, mi pare che più non si possa asserire che esso conduca nocessariamente alla formula di Rayleigh. Questa asserzione — che, almeno nella forma così recisa che gli hanno dato alcuni scienziati ('), era realmente prematura, e ora, mi pare di aver dimostrato, è certo erronea — è stata giustificata solamente dalla dimostra- zione di H. A. Lorentz (*), che è senza dubbio la più generale di tutte quelle finora date in base all’equipartizione. Ma essa non è completamente soddi- sfacente; in particolare, anch'essa porta ad equipartire l'energia raggiante. Ora io penso che ciò non sia conforme allo spirito della meccanica statistica ; e questa mia modesta Nota avrà raggiunto il suo scopo se avrà almeno con- tribuito a far sorgere l’idea della possibilità di giungere a risultati con- formi all'esperienza, applicando l’equipartizione in modo radicalmente diverso da quello seguìto finora, applicandolo cioè esclusivamente a quella parte dell'energia che si può considerare come ciretica. Spero, del resto, di poter presto sviluppare maggiormente questa osservazione. Mi sia infine permesso di rispondere ad un'ultima quistione: se cioè il calcolo, fatto in questa Nota, possa avere il significato di dimostrazione della (1). Vale a dire se esso, oltre a dimostrare che la (1) è compatibile col principio di Hamilton, dimostri anche che essa rappresenta proprio la den- sità dell’irraggiamento nero. È noto che il Planck stesso dimostra la sua formula considerando un meccanismo di emissione affatto particolare, che non ha riscontro nella realtà fisica, e giustifica il procedimento osservando che, per la legge di Kirchhoff, la « è indipendente dalla costituzione del corpo. Potrei senz'altro far mia questa giustificazione; ma essa non è esente da una critica grave. (!) P. es. Planck, in Théorie du rayonn. et les quanta, pag. 93. (*) Rapport sur l’applic. au rayonnement du théorème de l'équipartition de l’éner gie; ibid., pp. 12-39. RenpiconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 64 — 504 — La dimostrazione della legge di Kirchhoff è basata sulla termodinamica; quindi vale per tutti e soli quei corpi reali o fittizî, pei quali è vera la ter- modinamica. Dunque solo pei corpi costituiti da un numero enorme di par- ticelle in moto disordinato, chè altrimenti entrovia e temperatura non hanno significato. Planck invece considera un solo risonatore; la legge di Kirchhoff non sì applica più, e non permette di asserire che esso irraggia come un corpo nero. È vero che il Planck definisce l'entropia di un risonatore ma dalla sua definizione non risulta punto chiaro che essa sia proprio la stessa entropia della termodinamica, o, meglio, che l’estendere ad essa il secondo principio non sia una nuova ipotesi, ancor più essenziale, nel me- todo di Planck, di quella dei quarta. Questa critica esporrò più ampiamente in un prossimo lavoro nel quale vorrei mostrare come non sia lecito parlare di entropia, probabilità, di concetti statistici in breve, per l'irraggiamento considerato a sè, indipendentemente dal corpo che lo determina. Tornando alla quistione posta, mi pare che, invece, al corpo fittizio da me considerato si possa applicare la termodinamica, poichè esso è costituito appunto in armonia coi principî della meccanica statistica; e allora si può forse ritenere che i nn. 2 e 3 contengano una dimostrazione della formula di Planck per l'irraggiamento nero. PRESENTAZIONE DJ LIBRI Il Segretario MiLLosEvicH. presenta le pubblicazioni giunte in gono, segnalando quelle dei professori Lovisato e MELI, e il vol. IV dell’opera del prof. B. HayaTA: /cones Plantarum Formosanarum. Il Socio Grassi offre il volume XIV degli 4% dell'Istituto Botanico dell’ Università di Pavia redatti dal Socio Briosi, e parla della importanza di questa pubblicazione, ricca di interessanti lavori, dando notizia di quelli che nel volume attuale sono contenuti. Il Presidente BLaseRNA fa omaggio, a nome dell'autore prof. F. CaL- DARERA, della seconda edizione del primo volume del Corso di Meccanica razionale; lo stesso Presidente fa rilevare che trattasi di una edizione miglio- rata apparsa in questi giorni, della quale indica i principali capitoli, e che torna ad onore della ancor verde operosità del prof. CALDARERA. MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI F. Nicira. — Z metodo aritmetico nel caso irriducibile dell'equazione di 3° grado. Pres. dal Socio BLASERNA. — 505 — PERSONALE ACCADEMICO Il Presidente BLAasERNA dà il triste annuncio della morte del Socio nazionale GIOVANNI STRUEVER, mancato ai vivi il 21 febbraio 1915; ap- parteneva il defunto all'Accademia per la Cristallografia e Mineralogia, sino dal 16 giugno 1878. 1l Corrisp. Gino Loria legge la seguente Commemorazione del com- pianto Socio prof. PLAcIDO TARDY. Fra le lettere che si scambiarono Leibniz e Giovanni Bernoulli durante l’anno 1695, meritano la più alta ammirazione quelle nelle quali è segna- lata e svolta l'analogia formale che esiste fra le due operazioni di/feren- ziazione ed elevamento a potenza. Tale analogia, avvertita più tardi, per conto suo, anche da Lagrange, quando era ai primordii della sua carriera scientifica, fu la prima radice dalla teoria generale delle operazioni, che con tanto fervore e tanto successo venne coltivata, specialmente in Inghilterra, in sul principio del secolo scorso. La sorprendente disinvoltura, con la quale quei due sommi ragionavano e calcolavano, col mezzo di potenze ad indici qualunque, dei simboli di differenziazione e di integrazione, produce oggi me- raviglia non minore del vedere come, circa nella stessa epoca, fosse fami- gliare (') un modo così generale di concepire le coordinate, da formare uno stridente contrasto con le nostre abitudini mentali, che ci tengono sempre stret- tamente avvinti al semplice concetto di coordinate cartesiane. Ma, lo ha osser- vato giustamente il Bailly, « il semble que les idées ayent comme nous, une enfance et un premier état de faiblesse ; elles ne produisent point à leur nais- sance, et elles ne tiennent que de l'àge et du temps leur vertu féconde » (?). In conformità a tale legge che governa lo sviluppo del pensiero scientifico, la geniale idea di sottoporre i simboli di differenziazione ed integrazione al- l'operazione di elevamento a potenza con esponente qualunque, rimase per parecchi lustri inosservata, dimenticata o trascurata: spettava ad Eulero il riesumerla e fecondarla; spettava a Liouville, svolgerla ulteriormente in base a nuove vedute. Se non che, i risultati ottenuti dall'eminente geometra fran- (') La verità di tale asserzione è dimustrata, se non m’inganno, indiscutibilmente dall’Analyse des infiniment petits, pour l’intélligence des lignes courbes, pubblicata nel 1696 dal marchese de l’Hopital. (*) Histoire de l’astronomie moderne, tom. II, Paris MpocLxxIX, pag. 60. — 506 — cese parvero ad alcuni contenere qualche elemento arbitrario non accettabile, onde non riscossero la gènerale approvazione dei dotti. In conseguenza, quando nel settembre 1845 gli scienziati italiani si riunirono per la sesta volta a congresso in Milano, un giovane matematico siciliano scelse i differenziali ad indice fratto come soggetto di una comunicazione [3] (') intesa ad in- durre i geometri ad occuparsi di proposito di tale importante argomento. Avendo egli chiesto il giudizio dei colleghi sopra le proprie ricerche, Gabrio Piola e Giovanni Plana, che godevano allora di una autorità altissima, per incarico avutone, lessero una Relazione (*) in cui riconoscevano indiscutibile l'importanza del tema trattato e, facendo qualche riserva intorno ad alcune idee dell’autore, auguravano gli fosse riserbata la palma destinata a colui che riuscisse a fare piena luce sopra un argomento la cui metafisica era tuttora controversa. Probabilmente a cagione dei dubbî manifestati in tale Rapporto, il lavoro in questione rimase per ben quattordici anni inedito; soltanto nel 1858, dopo di avere subìto radicali migliorìe, venne inserito nel volume inaugurale della nuova serie degli Annali di matematica. Nè, dopo tale pubblicazione l’autore abbandonò del tutto l'interessante soggetto; chè, dieci anni dopo, vi dedicò una nuova pubblicazione di indole specialmente storica [15], che, meglio ancora della precedente, ebbe la virtù di richiamare l’attenzione dei mate- matici (*) sopra un soggetto importante in sè stesso ed interessante, non foss'altro, per essere uno dei pochissimi in cui le opinioni dei competenti si manifestarono discordi. Ma nel periodo che corre fra il 1844 ed il 1868, il giovane compa- triota di Maurolico, che aspettava trepidante il giudizio di coloro che egli venerava come maestri, aveva fatto la propria strada nel mondo; non sol- tanto veniva trattato come loro pari da scienziati del valore di un Betti, di un Bellavitis, di un Genocchi, ma si trovava alla testa di un Istituto d'istruzione superiore: cioè dell'Ateneo di cui mì reco ad onore di esprimere l'ammirazione per l'altezza della mente dell’antico suo duce, la gratitudine per la sua munificenza esemplare (4), il cordoglio per la sua scomparsa, nel mentre mi accingo ad esporne brevemente la vita ed a farne risaltare le benemerenze scientifiche. (4) I numeri in parentesi quadrata servono di richiamo ai lavori indicati nell'E/enco che chiude la presente Commemorazione. (?) Atti della sesta Riunione degli scienziati italiani, pagg. 90-91. (*) Ved. l'articolo di G. Borchardt, Sur quelques passages des lettres de Leibniz rélatifs aux differentielles à indices quelconques (Bullettino di Boncompagni, tom. II, an. 1869, pagg. 277-278; oppure C. W. Borchardt's Gesammelte Werke, Berlin, an. 1888, pagg. 486-487). (‘) Alla Facoltà matematica dell'Università di Genova Egli ha legato la sua ric- chissima biblioteca matematica. — 507 — DI: Placido Tardy nacque a Messina il 283 ottobre 1816, da una famiglia originaria della Francia ('). Esauriti gli studî che potevano compiersi nella sua città natale, si recò a Lucca per frequentarvi quel Collegio: dell’inte- resse che egli allora provava per gli studî matematici fa fede un breve ar- ticolo [1] con cui egli volle richiamare l’attenzione dei conterranei sopra un lavoro di un giovane siciliano, oggi del tutto dimenticato. Nell'autunno del 1837 passò a Milano, con l'intenzione di perfezionarsi ulteriormente sotto la direzione del matematico Gabrio Piola e dell’astronomo Paolo Fri- siani; del suo profitto fanno fede due bellissimi attestati, dai quali risulta che quei due valentuomini concepirono le più liete speranze sull'avvenire del loro alunno; nè va taciuto che l'influenza del primo di essi è visibile nella miglior parte delle pubblicazioni scientifiche del Tardy. Da Milano, nel 1838, passò a Parigi ed ivi ascoltò le lezioni di Liouville e Poisson; raccomandato dal Mossotti a Guglielmo Libri, che in quell'epoca era al- l’apogeo della gloria e della potenza, stabilì con lui relazioni di amicizia che continuarono anche dopo la fuga a Londra ed il ritorno in Toscana del famigerato storico delle scienze matematiche in Italia. Restituitosi in patria, da Ferdinando II re di Napoli, con decreto del 22 novembre 1841, veniva « nominato professore di matematica sublime nella regia Università degli studî di Messina » (?); ivi diede alla luce il suo primo lavoro originale [2]; ivi accolse il Lejeune-Dirichlet durante lo storico viaggio compiuto dal sommo matematico tedesco in compagnia di Jacobi e di Steiner. Ma, dopo i tumulti verificatisi a Reggio-Calabria e Messina nel 1847, quasi a preludio delle rivoluzioni che divamparono in Europa nell’anno successivo, ritornata la Sicilia dolorante sotto l’aborrito giogo borbonico, il Tardy, che a quei moti non era rimasto estraneo, abbandonò una cattedra ed un soggiorno che non erano di sua soddisfazione (*) e riparò a Firenze. Devesi però ritenere che la sua partecipazione a quella rivolta sia stata modesta, dal momento che il sospettoso Governo napoletano non lo molestò in alcun modo durante le visite che egli fece regolarmente al proprio padre durante i mesi di autunno degli anni seguenti e giunse perfino a far pra- tiche (1854) perchè egli riprendesse il suo ufficio nel pubblico insegna- mento. (') Il padre, Antonio, fu distinto ingegnere; mi si assicura che una chiesa eretta sotto la sua direzione è uno dei rari edifizii che si salvarono dall’immane disastro che distrusse Messina nel 1908. (*) Un manoscritto, tuttora esistente, portante la data del 2 marzo 1846, mostra che la Meccanica analitica fu uno dei soggetti delle lezioni del giovane professore. (*) Ragione precipua del suo malcontento era lo stato miserrimo della pubblica bi- blioteca di Messina, del quale egli fa cenno in un passo di uno dei suoi primi lavori [2]. — 503 — A Firenze il Tardy, mentre si dedicava a ricerche scientifiche, si adoperò per ottenere una cattedra; riusciti vani gli sforzi da lui fatti per ottenere un posto allora scoperto nell'Università di Bologna, e quelli del Plana per farlo eleggere professore nell'Accademia militare di Torino, il Tardy, in sul principio dell'anno scolastico 1850-51, si trasferì a Genova in qualità di pro- fessore di matematica in quel ginnasio. Un anno dopo, Camillo Cavour, al- lora ministro della marina agricoltura e commercio, lo nominò (lettera del 13 dicembre 1851) professore di geometria analitica e di calcolo infinite- simale in quella regia Scuola di marina; di tale Istituto egli fu anche di- rettore degti studî a partire dal 1854 e nel 1868 v’insegnò pure la mec- canica razionale (’). Il carteggio, tenuto in questo periodo di tempo dal Tardy con i più emi- nenti matematici italiani del tempo, sta a provare la grandissima stima che essi nutrivano per il suo ingegno, per il suo carattere, per la sua cultura; da esso, fra l’altro, risulta che la sua casa, sempre ospitale, venne scelta nella primavera del 1858 come sede di un piccolo convegno, al quale par- teciparono Betti, Brioschi e Genocchi, col precipuo scopo d'imprimere nuova vita al periodico di matematica fondato otto anni prima e costantemente diretto dal Tortolini. In tale minuscolo congresso vennero gettate le basi degli Annali di matematica pura ed applicata che da mezzo secolo sotto l’oculata direzione prima del Tortolini, poi del Brioschi ed ora del Dini, esercitano la più salutare influenza sopra lo sviluppo delle scienze esatte nella nostra patria. La parte presa dal Tardy in questo memorabile avvenimento non è generalmente nota, ma venne riconosciuta nel modo più esplicito in un’ occasione solenne: adunatosi, sullo scorcio di settembre del 1887, il primo Congresso universitario, i matematici che vi parteci- parono, riunitisi a fraterno banchetto per onorare il Brioschi, prima di sepa- rarsi, spedirono per telegramma al Tardy un « saluto riconoscente ai fon- datori degli Annali, primo segno del risorgimento degli studî matematici in Italia ». Resasi vacante la cattedra di analisi infinitesimale nell'Università di Genova, il Tardy fu chiamato ad occuparla con regio decreto del 19 ot- tobre 1859, in seguito a parere favorevole pronunziato da una Commissione di cui facevano parte Genocchi, Menabrea, Richelmy e Sella; nè volle più (') Fra gli innummerevoli discepoli che ebbe il Tardy, mi piace ricordare un noto scrittore di cose marinare, A. V. Vecchi (Jack la Bolina), il quale, del maestro che ebbe nel 1858, parla in un articolo su Le prigioni della regia scuola di marina in Genova (Fanfulla della domenica, an. 1881), per ricordare, senza rancore, che, non avendo saputo rispondere ad una domanda relativa alla paraboloide di rivoluzione, fu dal Tardy con- dannato a tre giorni di « prigionetta », che gli tolsero di assistere, insieme coi suoi con- discepoli, allo sbarco a Genova di Napoleone III, che veniva allora in Italia quale nostro alleato contro l’Austria. — 509 — abbandonarla, non ostante gli inviti, ripetutamente rivoltigli da Betti quando scomparsi, prima il Mossotti e poi il Novi, divenne libera una cattedra di matematica a Pisa, rivoltigli dal Genocchi alla morte del Plana. Dell'Uni- versità di Genova fu anche rettore durante due triennii (1865-1868, 1878-1881), conquistandosi da parte dei suoi commilitoni una stima altis- sima, non inferiore a quella concordemente tributatagli dai discepoli, in tutte le scuole in cui ebbe ad insegnare, dai matematici del suo tempo, che lo elessero a far parte dei principali sodalizî scientifici italiani (*), e dal Governo, che gli affidò ripetutamente importanti e delicati incarichi (?). Morta nel 1880 la diletta compagna della sua vita (*), al Tardy il soggiorno di Genova ed il gravame dell'insegnamento riuscirono insopporta- bili; onde, benchè sempre robusto di corpo ed alacre di mente, con gene- rale rimpianto della scolaresca, dei colleghi e della cittadinanza, chiese il proprio collocamento a riposo; essendo stato tale desiderio esaudito con de- creto del 4 dicembre 1881, egli si trasferì nuovamente a Firenze, ove visse altri trentatrè anni, circondato dall'affetto vivissimo dei congiunti e degli amici, senza dar segno di alenn deperimento intellettuale e fisico, a pre- scindere dall'indebolimento della vista. Una violenta polmonite lo abbattè il 1° novembre dello scorso anno, qual fulmine su vetusta quercia, mentre tutti coloro che lo conoscevano nutrivano fiducia di poterlo salutare cen- tenario. 100 La produzione matematica del Tardy non è molto voluminosa e com- prende scritti ispirati dalle opere che egli, lettore instancabile, andava stu- diando ; chè il loro scopo è o di risolvere questioni lasciate in sospeso (al- cuni, anzi, non fanno che sciogliere quesiti proposti nei Nouvelles annales de mathématques) o di chiarire, criticare od applicare concetti e metodi escogitati dai più eminenti matematici del suo tempo. Tale carattere si ri- scontra nel suo primo lavoro originale [2] (‘), il quale si riferisce ad un ordine di questioni poste all'ordine del giorno da Fourier ed a cui avevano dato importanti contributi due matematici con cui il Tardy aveva grande dimestichezza, cioè il Libri ed il Piola; parlo della costruzione di espres- (') Oltre che Socio nazionale della nostra Accademia, era uno dei XL della So- cietà italiana delle scienze, corrispondente dell’Accademia delle scienze di Torino e del- l’Istituto lombardo; apparteneva anche all'Accademia dei georgofili di Firenze; non escludo potesse appartenere ad altre congeneri compagnie. (?) Basti ricordare che a lui venne affldata l'istruzione matematica del principe Oddone di Savoia. (*) Laura Cini, scrittrice apprezzatissima ai suoi tempi, che pubblicò molti boz- zetti letterari nella Rivista europea, assumendo il nome di Sara. (4) Questa rarissima Memoria mi è nota soltanto per un manoscritto rinvenuto fra le carte relitte dal Tardy; ignoro, quindi, se tale ms. sia identico al lavoro stampato, — 510 — sioni analitiche atte a rappresentare in intervalli diversi della variabile in- dipendente, funzioni differenti. Sono specialmente i concetti del Libri che il nostro ha applicato a svariate questioni, non soltanto di algebra, ma anche di aritmetica od offerte dal giuoco degli scacchi (studio del cammine del cavallo). In tal modo egli ha ottenuto formole che si distinguono per semplicità ed eleganza, ma che non conseguirono un posto stabile nella scienza, avendo doti esclusivamente formali, a somiglianza dell'espressione che assegna il numero dei numeri primi non superiori ad un certo limite che, come è noto, il Legendre dedusse (*) traducendo in simboli la celebre procedura conosciuta sotto il nome di « staccio d'Eratostene ». Quest'ordine d’indagini, forse perchè ravvisate di non grande impor- tanza, fu ben tosto abbandonato dal nostro matematico, il quale passò a studiare uno fra i più ardui soggetti della meccanica, cioè il moto dei liquidi. Una sua Memoria [4], « di squisita fattura » (sono parole di Valen- tino Cerruti), mostra che egli conosceva a fondo tutti gli scritti anteriori sul- l'argomento ed era in grado di misurarne l’ importanza assoluta e relativa. Notevole specialmente il paragone da lui istituito fra i lavori di d'Alembert e Lagrange, sul moto a due coordinate, con quanto scrisse il Venturòli, che allora passava per un'autorità indiscutibile; tale acuta analisi portò il Tardy a concludere che questi nulla aggiunse di sostanziale ai risultati conseguiti dai suoi predecessori. Passando poi a trattare del moto a tre coordinate, ebbe occasione di fare varie eleganti applicazioni di alcune sue formole (allora ancora inedite) pertinenti alla teoria dei differenziali ad indice fratto, che meriterebbero di venir tolte dalla dimenticanza in cui sono cadute (?). Aggiungiamo che in un punto dello stesso lavoro il matematico messi- nese segnalò alcuni errori commessi dal geometra inglese Challis e che lo avevano indotto a « conseguenze falsissime »; le stesse critiche essendo state fatte per conto suo da G. Bertrand, il Challis tentò un’auto-difesa nel fascicolo di giugno 1849 del « Philosophical Magazine » : ciò indusse il nostro ad esporre con maggiore diffusione i proprî modi di vedere, in un progevole lavoro [6] che quella Rivista si affrettò a diffondere di là dalla Manica (*). Mentre il Tardy meditava sulle applicazioni della matematica alla spie- gazione d’importanti fatti naturali, non trascurava le investigazioni di pura analisi. (1) Théorie des nombres, II ed. (Paris, 1808), pag. 414. (*) Interessanti considerazioni sopra questo lavoro del Tardy si leggono nella se- conda parte della Memoria di A. Genocchi, Di una Nota del barone Plana: casi parti- colari del moto dei liquidi (Annali di matematica, tom. I, 1858, pp. 383-396). (*) Ivi è anche incidentalmente criticata una formola di V. Amici; da ciò due let- tere, d’intonazioni differenti, da questo scienziato pubblicate nel tom. II (pp.302 e 368) degli Annali di Tortolini. — 5l1 — Infatti un bel teorema sulle equazioni differenziali lineari, enunciato dal Malmsten, venne da lui dedotto [6], nel modo più naturale, da una proposi- zione del Libri; questa e quello furono poi da lui estesi [7] alle analoghe equazioni alle differenze finite. Circa nello stesso tempo [8] egli applicò alla divisione delle funzioni ellittiche i risultati stabiliti da Abel nella sua fondamentale Memoria Sur une classe particuliére d'équations resolubles algébriquement. Poco dopo seri- veva due brevi Note di carattere elementare [9 10] per rispondere a que- stioni proposte nelle Nouvelles Annales de mathématiques; notevoli entrambe per la perfetta eleganza di calcolo, lo sono inoltre la prima perchè addita una ricchissima sorgente di identità algebriche (*), l'altra (dimostrazione di un teorema di Prouhet) per un inatteso intervento della serie ipergeome- trica in una questione di planimetria elementare. Nella produzione matematica del Tardy si avverte a questo punto un'in- terruzione durata all'incirca un sessennio e dovuta indubbiamente alle cure dell’insegnamento, per lui allora gravosissime. Dal suo volontario silenzio egli uscì in occasione della fondazione degli Annali di matematica, nel primo volume dei quali egli fece finalmente conoscere [11] i frutti delle sue inve- stigazioni intorno ai differenziali ad esponente fratto, alle quali egli diede l'ultima mano, dopo di avere preso notizia dei più recenti lavori sull’argo- mento. I suoi risultati non coincidono, nè nel punto di partenza, nè tampoco nelle conclusioni, con quelli del Liouville (*); giacchè, mentre questi applicò l'espressione euleriana di un differenziale qualunque dell’espressione e” ad una funzione qualunque, previamente trasformata in una somma di esponen- ziali, il Nostro mostrò che tale incomoda previa metamorfosi si può evitare partendo dalla formola (a) n=% qetT a)det= Y (1) ———— px), ico ZE Cr 9A) (*) Il Tardy insegna una formola che serve a trasformare in una somma il pro- dotto d'un certo numero n di fattori. Per n = 2 o 8, essa diviene: 4a ag =(a + a,)° — (a, — 43) 24 a ag =(01+a ta} (ata, ta, (01 a +03) — (a +04, — 43), identità già note; per n= 4 essa dà invece quest'altra nuova: 192 a 0,03 0,= (A +a + az a) —(— a +4, +43 +44) — (aa +a3+a)'— (a +a, — a +0) — (a+ ad + a, — a) + (a1 4a, — a — a) + (a — ata — a) — (aaa + ad. Auguriamo che tali relazioni prendano posto in ogni collezione d’identità. (*) Sarebbe interessante di conoscere il parere del Liouville sopra questo nuovo indi- rizzo impresso alla teoria a cui egli si era dedicato con tanto impegno; ma sin dal 1858 egli aveva abbandonate tali ricerche, per dedicarsi totalmente alle ricerche aritmetiche che soltanto la morte potè interrompere. ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 65 — 512 — la quale, se 7 è intero positivo, si ottiene con successive integrazioni per parti; nel caso generale essa può adoperarsi per definire il primo membro, dal momento che il secondo membro ha anche allora un significato ben deter- minato. Non è il caso che io mì arresti ad esporre i corollari che il Tardy ne trasse supponendo che la funzione (4) si identifichi con le più semplici funzioni che s'incontrano nell'analisi (2%, log x, e"?,...). Va invece rile- vato che egli applicò le esposte considerazioni ad ottenere sotto forma nuova e di notevole concisione le funzioni soddisfacenti alle prime equazioni inte- grali del tipo Volterra che siano state incontrate ('), quelle cioè che ven- nero notoriamente risolute da Abel e da Liouville; ora, il fatto che i differenziali ad esponente fratto siano stati vantaggiosamente usati nel trat- tare specialissime equazioni integrali, porta a congetturare che fra quella teoria ed il più moderno (ed anche più italiano!) ramo dell'analisi matema- tica esistano legami profondi, meritevoli di esser posti in completa luce (°). Dieci anni dopo, il Tardy, per invito del principe Boncompagni, dava un complemento importante [15] a questo suo lavoro, mostrando come la nota formola di Leibniz ur n) Diete Dipo Pico ( r che dà la derivata w-esima del prodotto di due funzioni u,v d'una stessa variabile, sussista anche per valori non interi e positivi dell’esponente wu. Nel frattempo, altri argomenti di calcolo infinitesimale avevano attratto la sua attenzione. Così, da una formola stabilita dall’Hoppe per calcolare la derivata d'ordine qualunque di una funzione del tipo / [w(x)], egli fu indotto [12] a risolvere l’analoga questione per le funzioni della forma f[w1 (4), u»(7)], e così spianò la via a chi intendesse trattarla per tutte le funzioni della forma f[u.(2)-, ua (2). Un (2) Altro tema a cui dedicò assidui studî è il calcolo approssimato degli integrali definiti, sul quale scrisse un dottissimo lavoro [14], che quasi nes- suno conosce, nel quale, con procedimento uniforme, sono stabilite, discusse e paragonate fra loro tutte le migliori formole note per la quadratura appros- simata (quelle, cioè, che portano i nomi di Mac-Laurin, Poisson, Legendre, Menabrea, Poncelet, Simpson, Parmentier, Weddle, Gauss, Turazza), e per ciascuna espresse il resto sotto forma d'integrale definito: è questa forse la Memoria del Tardy in cui più chiaramente rifulgono le invidiabili sue doti (*) V. Volterra, ZLécons sur les équations intégrales et les équations intégro-diffé- rentielles (Paris, 1912, pp. 34 e segg.). (2) A chi intendesse riprendere gli studi sui differenziali ad indice qualunque va raccomandato un frammento postumo di Riemann (Werke, Leipzig, 1876, pag. 381) che (non sappiamo per qual ragione) venne escluso dalla traduzione francese delle Opere di quel grande analista. 1 — 513 — di vasta dottrina, di acume critico e di straordinaria abilità nel calcolo. Verso il termine di essa, egli incontrò due relazioni nuove ed importanti che passano fra una certa serie di coefficienti binominali, e credette poi oppor- tuno stabilirle direttamente [14] con semplici considerazioni di stretta per- tinenza dell'analisi combinatoria. Nè del calcolo infinitesimale si disinteressò dopo essersi ritirato dal- l'insegnamento: infatti è datato dal 1884 un suo lavoro [17] relativo alle equazioni differenziali lineari, secondo l'indirizzo dato a tale teoria dal Fuchs: esso ha per iscopo di stabilire alcune formole enunciate dal Thomé, col mezzo di calcoli la cui raffinata eleganza maschera l'inevitabile complica- zione. Circa contemporaneo e di soggetto analogo è un articolo [18] avente per iscopo di insegnare un metodo più semplice di quello che era stato allora proposto per integrare il seguente sistema di equazioni differenziali : d: dz D+ Py +tQo=o , gg tPot+Q=%, nel caso in cui tra le funzioni P,, Q,, P:, Q: della variabile x sussista la relazione il Tardy riduce la questione ad integrare l'equazione differenziale di secondo ordine d°y da* CSI ++) TAGtX)y=Y, ed aggiunge l'osservazione che tutte le equazioni differenziali lineari di detto ordine, che sapevansi allora integrare, sono casì speciali di quella ora scritta. Il carteggio del Tardy sta a provare che egli dedicò lunghe ore di assiduo studio alla Theorie der Abel’schen Funcetionen di Clebsch e Gordan, contro cui anzi fece qualche obbiezione, che, essendo stata comunicata dal Cremona al primo dei citati autori, venne riscontrata e dichiarata totalmente giusta. Anche alla teoria de’ numeri egli volse la propria attenzione, della qual cosa esistono pubbliche attestazioni nei due lavori di cui ci resta ancora da parlare. Uno di essi [16] ha per iscopo di dimostrare cinque importanti teoremi sulle equazioni binomie enunciati nel 1844 dall'Eisenstein. Dopo di averlo consegnato alla direzione degli Annali di matematica, l’autore si accorse di essere stato preceduto dallo Stern sino dal 1861; ma quella Direzione, col — 514 — pubblicare egualmente quello scritto, manifestò apertamento l'opinione che le antiche dimostrazioni non toglievano valore alle nuove. Di natura aritmetica è eziandio l’ultima delle pubblicazioni del Tardy; essendo apparsa quand'egli toccava gli ottantotto anni, è per avventura il lavoro più senile che annoveri la letteratura matematica. Però una sua let- tera, diretta al principe Boncompagni addì 27 novembre 1887, sta a provare che le ricerche, d’onde ivì sono esposti i risultati, vennero iniziate assai prima, cioè nel 1875; ed in pari tempo rivela che il movente ad intraprenderlo fu un articolo di quel benemerito bibliografo (*), concernente un celebre teorema scoperto per la prima volta da Nicomaco Geraseno e ritrovato poi molte altre volte da matematici di valore aventi imperfetta cognizione della matematica greca: parliamo del teorema espresso daila formola k=n n= fnn_-1)+ (4-1). tel Ora, il nostro matematico ha notato che una somigliante proposizione sussiste in tutte le progressioni aritmetiche aventi per primo termine l'unità e per differenza costante un numero pari 24; decomponendola, infatti, in gruppi che comprendano rispettivamente 1,14 d,14- 24,... termini, si ottiene sempre come somma degli elementi di ciascun gruppo un cubo. Esten- dendo ulteriormente tale considerazione, egli ha notato che, se x è pari, nella stessa progressione si può trovare un gruppo di 1 + xd termini la cui somma sia eguale a (1+ xd)", ove m è un intero = 3. Proprietà analoghe pos- seggono le progressioni aritmetiche del tipo a, 34, 54,... Queste propo- sizioni sono senza dubbio eleganti ed hanno una certa importanza, perchè collocano nella debita luce il surriferito teorema di Nicomaco: una certa, ma non una grande importanza; è quanto lo stesso Tardy bonariamente riconosceva quando le chiamava semplici giuochi a cui lo stato della sua vista lo costringeva a limitare le proprie occupazioni matematiche. Va notato che, benchè comunicate al mondo scientifico per il tramite di una delle più cospicue Accademie d'Europa, esse raggiunsero limitata notorietà: lo prova il fatto che la prima di esse venne, proprio ai dì nostri ed in Italia, riot- tenuta e2-n0v0 (*) come estensione del teorema di Nicomaco, riscoperto una nuova volta nell’anno di grazia 1914 (8). Giunti al termine di questa sommaria analisi degli scritti matematici del Tardy, osserviamo come da essa emerga che tali lavori si distinguono meno per novità di concetti e di metodi che per la profonda dottrina che atte- (1) Intorno ad una proprietà dei numeri dispari (Bullettino del Boncompagni, tom. VIII, 1875, pp. 51-62). (2) Vedi E. Nannei in Zl Pittagora, tom. XXI, 1914-15, pp. 11-13. (*) E. Barisien in L’intermédiaire des mathématiciens, tom. XXI, 1914, pag. 123. — 515 — stano nel loro autore, per la squisita accuratezza di stile e di calcolo e per la non comune abilità algoritmica che rivelano in chi li scrisse. Appunto tale preferenza da lui manifestata per il calcolo sul ragionamento, la quale è sintomo d’un'orientazione di pensiero in aperta antitesi con quella oggi domi- nante, spiega perchè le Memorie del dotto matematico messinese abbiano in questi ultimi tempi trovati poco numerosi lettori, ond’egli fu dimenti- cato dopo la scomparsa dei matematici della sua generazione ed è quasi totalmente ignoto alla schiera di giovani analisti, in cui l’Italia ripone le sue più fondate speranze. Ma la legge dei ricorsi storici, alla quale non sfugge l'evoluzione del pensiero scientifico, induce a credere che l'avvenire riserbi a lui tempi migliori; allora, forse, qualche nuova recluta dell’eser- cito matematico scoprirà, nelle formole che egli ha sapientemente architet- tate. qualche idea degna di venire riposta in circolazione o qualche algoritmo. suscettibile di ulteriore applicazione: che tale fiducia non sia priva di fon- damento, è dimostrato dall'intervento, nella teoria delle equazioni integrali, dei differenziali ad indice fratto, cioè della dottrina in cui egli si affermò con più spiccata originalità di pensiero. Il giorno in cui tale previsione sia per essere avverata, sarà dimostrato che Placido Tardy ha nobilmente disim- pegnati entrambi gli ufficî affidati ad uno scienziato degno di tale nome: il mietere le mèssi ormai mature ed il gittare semi capaci di assicurare vitale nutrimento alle generazioni dell'avvenire. ELENCO DELLE PUBBLICAZIONI DI P. TARDY [1]. Sulla dimostrazione del teorema fondamentale della teoria delle funzioni annalitiche di Lagrange di Agatino San Martino. Cenno di Placido Tardy (Il « Faro » giornale di scienze, lettere ed arti, tom. IV, Messina, 1836). [2] Sulle funzioni discontinue. Ricerche di Placido Tardy. Messina, 1843. [8]. Preliminari di una Memoria sui differenziali a indice fratto (Atti della sesta Riunione degli scienziati italiani tenuta in Milano nel settembre 1846). [4]. Sopra alcuni punti della teoria del moto dei liquidi. Firenze, 1847. [5]. Sulle equazioni differenziali lineari (Annali di Tortolini, tom. I; Giornale di Crelle, tom. XLII, 1851). [6]. Sopra una nuova equazione di idrodinamica. Alcune osservazioni (Annali di Torto- lini, tom. I, 1850; Philosophical Magazine tom. XXXVI, 1850). Sulle equazioni lineari alle differenze finite (Annali di Tortolini, tom. I, 1850; Giornale di Crelle, tom. 42, 1851). [8]. Sulla risoluzione algebrica di talune equazioni (Annali di Tortolini, tom. II, 1851). [9]. Trasformazione di un prodotto di n fattori (Annali di Tortolini, tom. IT, 1851; Nouvelles Annales de mathématiques, tom. X, 1851). [10]. Sopra un teorema di poligonometria (Annali di Tortolini, tom. IIT, 1852; Giornale di Crelle, tom. XLVII, 1854). [11]. Sui differenziali a indice qualunque (Annali di matematica, tom. I, 1858). [12]. Sulle derivate di ordine superiore delle funzioni composte (Giornale di matema- tiche, tom. II, 1864). [7]. — 516 — (13]. Sopra alcune formole relative ai coefficienti binomiali (Giornale di matematiche, tom. III, 1865). [14]. Sulle quadrature (Mem. della Società italiana delle scienze residente in Modena, ser. II, tom. II, 1866). [15]. Intorno ad una formula del Leibnitz (Bullettino del Boncompagni, tom. I, 1868; Nonvelles annales de mathématiques, II ser., tom. VII, 1869). [16]. Sopra alcuni teoremi aritmetici (Annali di matematica, tom. III, 1870). [17]. Relazioni tra le radici di alcune equazioni fondamentali determinanti (Atti della R. Accademia delle scienze di Torino, tom. XIX, 1884). [18]. Remarque sur une Note de M. Ibach (Nouvelles Annales de mathématiques, ser. 32, tom. III, 1884). [19]. Sulle serie aritmetiche di numeri interì (due Note) (Atti della R. Accademia delle scienze di Torino, tom. XXXIX, 1904). APPENDICE (*). LETTERE AL TarDbY DI GENOCcCHI, BETTI E SCHALFLI Il Tardy mantenne corrispondenza epistolare con tutti i principali matematici ita- liani del tempo suo (*) e con alcuni stranieri (2); le lettere, da lui ricevute e religiosamente conservate, verranno, per voler suo, depositate nell’autografoteca esistente nella Bibliotecca della R. Università di Genova. Un rapido esame da me fattone m’indusse a notarne al- cune dotate di tanto considerevole valore storico e scientifico che reputo opportuno di ren- derle di pubblica ragione, senza escludere che un più minuto esame di esse possa portare alla scoperta di altre di non minore importanza. I Nella traduzione italiana dell’Aritmetica generale del Baltzer è indicata (2 ed., Genova, an. 1875, pag. 49 (*)) una nuova coppia di « numeri amici », scoperta da un « signor Paganini di Genova »; ora, sopra tale ritrovato, dà qualche notizia il seguente brano di lettera del Genocchi: Carissimo amico, Non so se conosciate un barone Nicolò Paganini, giovine genovese di 16 anni, ni- pote del celebre violinista, che si occupa di teoria di numeri. Egli ha mandato già molte lettere all'Accademia delle scienze di Torino, e in esse comunicava una nuova coppia di numeri amicabili, che sono 1184 e 1210, ma senza far conoscere il suo metodo. Sapete che la questione può annoverarsi fra le difficiles nugae: tre coppie furono date da Schooten; altre ventisette da Eulero. Legendre, che non conobbe quelle di Eulero, trovò solamente le tre prime di Schooten e fece molti inutili tentativi per iscoprirne altre. La coppia del Paganini non è fra le trenta ora menzionate, e si compone di numeri molto più pic- (*) La presente Appendice fu pubblicata in seguito al testo riguardante la Commemorazione del Socio Placido Tardy, per il legame naturale che quella ha con questa; e però si oltrepassarono le pagine prescritte dal Regolamento per le Note presentate da Soci e Corrispondenti. (1) Bellavitis, Beltrami, Betti, Boncompagni, Brioschi, Casorati, Chiò, Cremona, Donati, Frisiani, Genocchi, Isè, Jung, Libri, Mainardi, Menabrea, Mossotti, d’Ovidio, Piola, Plana, Sella, Siacci Tortolini, Turazza. (2) Airy, Cayley, Grunert, Hirst, Klein, Pelz, Peters, Quetelet, Schlifli, da Silva, Spottinswoode, Sylvester. (8) Cfr. anche Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, tomo II, 1866-67, pag. 302. — 517 — coli di quelli d’Eulero. Ora egli scrive un’altra lunga lettera, da me non ancora letta, in cui pare spieghi il metodo da lui teriuto; i. LL s'e 008 ea mine N Fe) el Celio. ;e. Segglois. dis cosa e Rui d'cel, sis 6 #6 sen id e rei le La . nf Seldon Ce . Torino, 25 dicembre 1866. II Nell'autunno 1863 Riemann si trovava, per ragioni di salute, in Italia; delle con- versazioni da lui tenute col Betti, si ritrova una tarda eco in due lettere di questi, con- cernenti la « connessione », le quali mi sembrano importanti per due ragioni. cioè, perchè porgono un’illustrazione, per così dire, autorizzata delle idee del grande matematico te- desco, e perchè evidentemente preludono alle fondamentali ricerche, su quell’argomento, del Betti stesso. Donde i motivi alla presente pubblicazione : Firenze, 6 ottobre 1863. Mio caro Placido, Ho nuovamente parlato con Riemann della connessione degli spazii, e me ne sono fatto una idea esatta. Uno spazio si dice semplicemente connesso quando ogni superficie chiusa, contenuta in esso, ne limita da sè sola completamente una parte, e ogni linea chiusa contenuta contemporaneamente in esso limita completamente una superficie contenuta interamente nello stesso, ossia può riguardassi da sè sola come il contorno completo di una superficie contenuta interamente nello spazio stesso. Lo spazio racchiuso da un ellissoide è uno spazio semplicemente connesso. Lo spazio racchiuso da due sfere concentriche non è semplicemente connesso, perchè una terza sfera concentrica compresa fra le due, sebbene chiusa e contenuta nello spazio, non limita da sè sola una parte dello spazio stesso. In questo spazio però una linea chiusa qualunque può riguardarsi come l’intero contorno di una superficie, tutta contenuta nello spazio stesso. Questo spazio può ridursi semplicemente connesso per mezzo di una sezione lineare, cioè di una linea che va dalla superficie esterna a un punto della sfera interna. Dovendo i punti di questa sezione riguardarsi allora come esterni allo spazio, le sfere concentriche comprese fra le due non sono più comprese interamente nello spazio, perchè attraversano la sezione, e quindi lo spazio, coll’aggiunta di una sezione lineare, è ridotto semplicemente connesso. Lo spazio racchiuso in un anello pieno non è semplicemente connesso, perchè una linea come l’asse non può riguardarsi come il contorno completo di una superficie con- tenuta tutta intera nello spazio. Ogni superficie chiusa, però, contenuta interamente in questo spazio, ne limita da sè sola completamente una parte. Questo spazio si riduce semplicemente connesso mediante una sezione superficiale semplicemente connessa, che ta- glia l'anello normalmente all’asse interno dell'anello stesso. Uno spazio racchiuso da un anello vuoto non è semplicemente connesso, perchè una superficie chiusa, che racchiude l’asse interno ed è dentro la parte piana dell’anello, non limita da sè sola una parte di spazio, e una linea parallela all’asse interno conte- nuta nella parte piana dello spazio non può formare il contorno completo di una super- ficie contenuta tutta quanta nello spazio stesso. Si riduce semplicemente connessa me- diante una sezione lineare che va da un punto della superficie esterna ad uno della interna, e mediante una sezione superficiale che unisca tra loro la superficie esterna, l’interna e la sezione lineare, e che è semplicemente connessa. I tre spazii che ho considerati hanno differenti ordini di connessione, perchè l’ordine di connessione dipende dal numero delle sezioni superficiali semplicemente connesse, e — 518 — dal numero delle sezioni lineari mediante le quali si riduce semplicemente connessa. Questo numero rimane lo stesso, comunque si facciano queste sezioni, L'ordine di connes- sione è quindi rappresentato da due numeri; denotiamolo con (m, #) quando sono m le sezioni superficiali ed x le lineari che lo rendono semplicemente connesso. Sarà (0,1) l’or- dine di connessione dello spazio racchiuso da due sfere, una interna all'altra. Sarà (1,0) l'ordine di connessione di un anello pieno. Sarà (1,1) l’ordine di connessione d’un anello vuoto. La generalizzazione per più dimensioni è facile; e l’importanza, per gli integrali multipli, di tutta questa teorica, è evidente. La nozione delle sezioni è venuta in mente a Riemann per una definizione che gliene ha dato Gauss in un colloquio familiare, par- lando di altro soggetto. Nei suoi scritti si trova che egli dice che l'analisi di sito, cioè questa considerazione delle quantità indipendentemente dalla loro misura, è « wichtig », e negli ultimi anni della sua vita si è occupato molto di nn problema di analisi di situa- zione: cioè, dato un filo che si avvolge più volte e conoscendo, nei punti dove s’interseca, la parte che rimane sopra e la parte che rimane sotto, determinare se potrà svolgersi senza annodarlo; problema che non è riuscito a risolvere altro che in casì particolari. e. wi Le ie Le e) cel e) è la: Le. e. e Ue io Le) ‘el ‘ei cal cai (6 e. [o “e Lee "ie ‘e. rio ca. co Pgeore o e Te Firenze, 16 ottobre 1863. Mio caro Placido, Riemann dimostra, con molta facilità che si può ridurre uno spazio qualunque ad essere semplicemente connesso, mediante sezioni lineari e sezioni superficiali semplice- mente connesse. Uno spazio connesso non muta l’ordine della sua connessione se si restringono o distendono le superficie che lo limitano, facendone muovere i loro punti verso l'interno dello spazio stesso sino a far perdere allo spazio una e più dimensioni, purchè questo ristringimento e questa diffusione avvenga, con continuità e senza rotture. Affinchè uno spazio sia semplicemente connesso, è necessario che così si possa ridurre a un sol punto. Una superficie che così può ridursi a un punto, è semplicemente connessa senza potersi ridurre a un punto senza che si faccia in essa un punto di sezione; per esempio una superficie sferica, dove, se vuoi ridurla a un punto, devi fare un buco che estendi continuamente sinchè la superficie si riduca a un punto. Per maggior chiarezza riprenderò gli esempii dell’altra volta. Una sfera cava, se tu restringi la superficie esterna e distendi l’interna sino a ren- derle infinitamente vicine, perde una dimensione e si riduce ad una superficie sferica, la quale, mediante un punto di sezione, può ridursi ad un sol punto. Questo punto di se- zione, che ha una dimensione di meno di quella che aveva nello spazio, corrisponde ad una sezione lineare. Dunque una sfera cava si riduce semplicemente connessa mediante una sezione lineare; il suo ordine di connessione è (1,0). Un anello pieno, se tu ristringi continuamente la superficie esterna fino a che le sue pareti interne siano infinitamente vicine, perde due dimensioni e si riduce a una linea circolare, la quale con un sol punto di sezione si riduce a un sol punto. Questo punto di sezione, che ha due dimensioni di meno che, nello spazio primitivo non corrisponde ad una sezione superficiale che, potendo ridursi a un punto, è semplicemente connessa. Dunque l’ordine di connessione di un anello pieno è (0,1). Un anello vuoto, se tu restringi la superficie esterna e distendi la interna fino a ridurle infinitamente vicine perde una dimensione e si riduce ad una superficie anulare, la quale, per essere ulteriormente ridotta, richiede un punto di sezione corrispondente ad una sezione lineare. Allargando questo buco indefinitamente sinchè i suoi bordi risultano dalle parti opposte infinitamente vicini, la superficie anulare perde un’altra dimensione c si riduce a due linee circolari, una delle quali ha il centro comune coll’anello, l'altra — 519 — ha il centro sull’asse interno all’anello, e i piani loro puoi immaginarli perpendicolari tra loro. Per ridurre uno di questi circoli al solo punto che hanno comune, occorre un punto di sezione: poi un altro punto di sezione per ridurre ad un punto il circolo ri- masto. A questi due punti di sezione, che hanno due dimensioni di meno che non nello spazio, corrispondono, in quello, due sezioni superficiali semplicemente connesse. Dunque l’ordine di connessione dell’anello vuoto è (1,2), e non (1,1) come per inavvertenza ti aveva scritto l’altra volta. Una sfera con un vuoto anulare nell’interno, se tu restringi la superficie sferica, perde una dimensione e si riduce ad una superficie piana che unisce i bordi interni della superficie anulare. Con un punto di sezione si riduce questa superficie a una linea cir- colare che ha il centro nell’asse interno dell’anello, e a una superficie circolare piana che ha il centro comune coll’anello. Con un altro punto di sezione la linea circolare si ri- duce a un punto del bordo della superficie circolare piana, che senza altre sezioni puoi ridurre a un punto. Dunque una sfera con un vuoto anulare si riduce semplicemente con- nessa con una sezione lineare e con una sezione superficiale semplicemente connessa. Il suo ordine di connessione è (1,1). Generalizzando, si vede che una varietà a x dimensioni si può, sempre con ristrin- gimenti continuati e senza rotture, ridurre a sole n-/ dimensioni. Mediante punti di se- zione si potrà ridurre a n-2 dimensioni, mediante altri punti di sezione, a n-? dimensioni; e così di seguito, sino a ridurla a un punto. Ai primi punti di sezione corrispondono se- zioni lineari; ai secondi sezioni superficiali semplicemente connesse ; ai terzi sezioni di tre dimensioni semplicemente connesse...; agli wltimi sezioni di x-/ dimensioni semplicemente connesse. Il numero delle sezioni lineari è eguale al numero dei moduli di periodicità di un integrale (2-7)-plo; il numero delle sezioni superficiali semplicemente connesse al numero dei moduli di periodicità di un integrale (2-2)-plo,...; il numero delle sezioni di (n-7) di- mensioni semplicemente connesse, al numero dei moduli di moltiplicità di un integrale semplice, presi tutti nello spazio considerato. Quindi, essendo determinato il numero dei moduli di periodicità, devono essere sempre gli stessi i numeri delle differenti sezioni a ridurre lo spazio semplicemente connesso, comunque si facciano... II. Le due lettere seguenti, dirette al Tardy dall’illustre matematico svizzero Schlàfli, vengono qui pubblicate, in parte pel valore del loro contenuto, in parte pei significanti giudizii ivi espressi sopra lavori del Nostro. La prima prende le mosse dalle « funzioni bernoulliane » che entrano nella formola data da Mac-Laurin per il calcolo approssimato d’un integrale definito, della quale il Tardy si è occupato in una sua Memoria [14]. In- vece la materia della seconda rappresenta in massima parte la prima stesura delle ri- cerche che diedero argomento alle due ben note Memorie dello Schlifli, Sulle relazioni tra diversi integrali definiti che giovano ad esprimere la soluzione generale della equa- zione di Riccati e Alcune osservazioni intorno alle funzioni di Laplace, entrambe in- serite nel tom. I della 2° ser. degli Annali di matematica; onde le lettere stesse pro- vano essere stati i lavori del Tardy che ispirarono tali importanti scritti. Signore! La ringrazio pel pregevole dono che è avuto la benevolenza d’inviarmi. Ch'Ella mi perdoni che tento di parlare Italiano, e mi permetta qualche nota intorno alle fun- zioni Bernulliane. Preferisco di restituirvi l’ultimo termine (costante), se il grado è pari, RenpicontTi. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 66 — 520 — gola ES ; RP 6 e di dividerla sicchè il summo termine sia nn° Adesso ella può esser definita per l’ugua- xt n= 00 A te : î glianza Pret Si x(n, a)t", ove x(n, x) denota la cangiata forma della funzione »“ n=0 Bernulliana. Dalla uguaglianza definitrice si ricavano facilmente le formole d Jr 0: e)=xn_1,2) , Xn1_-@a)=(<1)"yn,2), el IATA OZ , ecc. n_1) La funzione Bern. è secondo Raabe In —1).(yx(n, 2) — x(n, 0)). Il Raabe è dato alla uguaglianza definitrice de’ numeri Bern. un termine complementare che mi pare esser di grand importanza. Se yx(1,0)=— 3, x(2a2,0)=(— 1)?! Too , X@n+1,0)=0, quella uguaglianza è 2=n 1 XA gut! ssi nà, xt ia 1 Pigi: + =" ety(n,1—-t)dt. da da _ na ne risulta la formola d’integrazione approssimativa col termine complementare. Moltiplicata con ex — 1, se poi si pone 4=1.2r7 (r=1,2,.., —1,—2,..), essa somministra il - E. DI . 5 Se si sostituisce #37 invece di x, e se vi è un oggetto (. 1 valore di f est y(n,t)dt, vale a dire, l’evoluzione 2/0 2 (270)? Dyer cos (eno — E) (021) ll x(n , x) —> 1 e quindi mediante f LISTA nt.sen2rat.dt=3 40. l-x r=% i (x(n+1,02+4t)—x(n+1,2))cotgnt.dt= — Ae Do poni cos (2ras — mu). d (27)41 rasl 2 yes Lao) | Sia ra Vi, 2) y* + R, il termine complementare sarà #03 2=0 exYy x lx R=—-y "+! y 00 ev g(n,t)dt+ f e y(n,1—-b)dt}. v-1\), US Comparando i coefficienti di y”+" nella evoluzione secondo le potenze ascendenti di y, 1 e poi facendo 2 =0, si ottiene y(m+n,0)=(— 1)! Ni x(m,t\y(n,t)dt, e quindi (1) perm=n. B, = II(2n) sii X*(n,t)dt, (1) espressione di B, in funzione di B, ,Bs,...Bn ovvero Ba-1, mentre che le formole di 2 2 — 521 — Raabe, provenendo dai coefficienti di 2” nella evoluzione ascendente delle uguaglianze X@n+1.2) (1 pae Ti x(n+4+1,1T— 2) x(n 1,2), x2n—-1,1— 2) + aaa 0 ig + ua =0 stabiliscono una relazione fra i numeri Bern. della seguente metà con esclusione di quei della precedente metà. Se 1+ a) = DI (7) a*, che @,,@,,...@n denotino numeri interi non negativi, X=0 la somma de’ quali sia un dato m, partito così in tutti i modi possibili, permutazioni ammesse, e che sia u= 14 234 2, la somma di x variabili; allora ga7m=1 (7 =Il n—_ 1 Zy(c1, 1) X(&2, ca)" X(€n, Cn) = Synm=l Semm (sin f); @ un numero qualsivoglia; allora la formola edi Sì Di )e cos 0) anali 2 sin @ n=0 è convergente; essa è connessa col teorema di Sig. Prouhet, e mi ha somministrato lo sviluppo 00 n= 92 e fai (1 IO f e72e così+a0 dg = 33 ( ù È Ù) T(a — 2n). a°n72 — ANILIE 22 TI») ove An= S (©) penalilicnlen Ora sia F(a,t) ci este sali cen la serie = \/a+n— 24° i = Imn+1)IMa+a+1) sempre convergente, per mezzo della quale si può esprimere l’integrale dell'equazione di Riccati; posso rappresentarla per un integrale definito convergente qualchesia a. Secondo che t è positivo o negativo, si à Ù 1 o . so | ) i = 3 27) f e? 0050 cos a0 .d6 — sin ar. Ji ex cos) — ad do , 0 0 1 T sa : F(a,—a3)= 7072 if '"c0s (2 cos 6 — i) cos 10. d6 — sin ar. fi e-3 sin 0— aò del . (O Colle stesse notazioni ch’ Ella è adoprato in « Trasformazione di un prodotto di x fattori », sia S” = e 1): XA?(1,2,.. A). Allora (3) SI è è l’aggregato di tutti = quei termini dello sviluppo di (a1 4 ag ++ @,)?+?", nei quali non si trova alcuno . 2r—1 esponente pari; Ia di _01 p pari; ma N, 0 , Bern den 17. Aug. 1865. — 522 — Caro Signore! Bramando di comunicarle alcune riflessioni ch'è cagionate la lettura delle sue istruttive memorie sull’uso dell'indice fratto di derivazione e sul moto dei liquidi prima di aver ricevuta la sua pregiatissima lettera, comincio dal rispondere ad una domanda ivi contenuta. La biblioteca publica a Berna non abonda in giornali matematici, ed io non è mai avuta un’altra occasione di vedere un giornale Napoletano; mà è investigato l’eq. (58 e 59 pag. 41 Quadr.), la quale mi apparve affatto nuova. Moltiplicata per (— 1) (ne) e ponendo m=n+1—-9gQ, 4A=n+1—k, essa prende la forma Sert) purchè x + 2 sia un numero intero; mà tosto che n--1= a è un numero qualsivoglia, la formola rimane convergente e si cangia in 2=:% DI (Qi Z=m ossia lo che torna lo stesso ZE) ’ (a) 2=m essa è adunque una formola complementare della serie relativa a m= 0; e, siccom’ella accenna, si dimostra subito pel prendere la differenza del secondo membro. Ma la ò pur tentata in un’altra guisa. Voglia permettermi in seguito l’uso dell’abbreviatura [{ wu (espr.) per dire « coefficiente di tu nello sviluppo della espr. per le potenze e pei prodotti di t,u ». Ora E (Ape a e to = (1+w +0 (147773) =C 1}n=1 n en. NE e MI Supposto ciascun dei valori assoluti di w e di sc minore di 1, gli sviluppi (alternanti) Leti di ea saran tutti inevitabili (di ar) necessità), e perciò l’impiego del principio della identità è permesso. | | — SAS + i 4 da ea — n | SES | fd ere per le potenze ascendenti di w, di £, di { 3 a BRA: — 2 Nella somma (60) ciascun termine è divisibile per i ai i ecc. Prendendo il partito del Lagrange contro gli avvisi adesso predominanti io sono persuaso che spesso viene adoprato il calcolo differenziale laddove il figuramento (più algebraico) dello sviluppo ci menerebbe più facilmente allo scopo, oltreciocch’esso è la sola aita quando siamo abbandonati dal teorema di Taylor. — 523 — È Aa—- La forma (a) nella presente, contenendo il numero (“ Le. al mentre 24; } 2 Tela 2 eee sin34 SA fia) (— 1) 21 sin?40 cos?) d6, rammenta la ug. Ea ( dii 1) (2i sin 9), DE Concedo che se fosse proposto trovare lo sviluppo del primo membro il metodo dei coeffi- cienti indeterminati, seguito dalla differenziazione doppia, sarebbe il più naturale; ma poich’esso non determina il primo coefficiente, bisogna assumere @ infinitamente piccolo per isolare il primo termine; quello che or è facile può in altri casi tornar difficile. Ecco un processo più artificiale, ma bensì pressochè puramente algebraico, se un cotal nome è permesso in sviluppi infiniti. =1—2y2. Si figuri y d | I Sia z=x4-y, PZA dunque 2° =1+ 2y2z , abbastanza piccolo acciò il valore assoluto di 2yt possa esser minore di 1, mentre quel di £ supera sì z che 3 e quello di {° supera quello di 1+ 2yt. Allora a-1 a-1 n saran Li poterle 244-274 = z(14-2y2) ? +7(1-2y2) di eli zl t t(1+2y%) * 2% 2 — | = 27. SE Le l(stazo (sar, leo inoltre a ; x Ala = É t t1+2yt) a z=a —[}0 Qt)? TaE = % [eeeh 2 2 [e1+2w0) ea a) w Lele DA -+929) Dunque e eIPA\ 0) salire fino a tanto che il valore assoluto di y è inferiore a 1. II. Le inegualità seguenti spettano ai valori assoluti (raggî o moduli) delle quantità espresse. Sia =D bits: sarà 22 (14 t)79 t É (1+ 72 _—_——— € to = . 221 [ei 2-1 ( es: s ) O rear ETICA t_- pra — t quindi ATENA a ho = i 2 n 1 2 Ponendo 2 = (-) e assumendo la componente reale di 0 per positiva, se ne ricava (0) na 2 2n — (c) daN ( È A a) (2 cos 6)4-2n-1 2 sin 0. ba n=0 — 524 — Per 8=0 la serie è divergente; se 90=x+iy, ove x deve e y può esser positivi, la condizione della convergenza è sinz©> siny, cosicchè l’impiego alle funzioni propria- mente goniometriche è proibito. Formando dietro la (c) l’espressione di e6+9 — gla-h8 e dividendola per 2 sin@, ne segue (ad) ed—=S ila (E a i) (2 cos 6)4-2#; — dpi = n_ a convergente per 0= 0. 5 ; 4 ) svanisce nell’intervallo 7 =n0, — 1IZA4<4 valgono tutte le cinque soluzioni, mentre non più di due ne possono essere indipendenti. Egli si tratta adunque di ridurre ciascuna d'esse alla forma AF(a,t) + Bi7*F(— 2,3). Se :o=)f e?x c0s9+a0 96 (la componente reale di x supposta positiva), la solu- 0 zione (A) si è y=79(V+V_a). Svolgasi e9 dietro la (c) e pongasi 2x cos6=%, otterremo Mm_— a Nei Da VeeaNi ( ) FERA et erre pa n si n=0 (— 1) i(227) ie — Tm+1) mt+ta—-2n° m ma l’integrale à per valore T(a — 22) — Quindi ponendo n= 5 3 == 2 a Qa+m 2n PSI A . per brevità A, = > Am ( hi °) —————_- (convergente come Zn ?), si ricava «=, n a+m_—- 3n i m=2 = (IE 3 -— a79F(-— a, 0°) \ An —— a. (8) sin a ss) _ "paoli (Il seguito ci mostrerà che la somma nel secondo termine converge). La (c) offre il mezzo a trasformare À, in una somma finita. Sia f(a,m)= Y ( 2n — ‘) (2ICOSt0) att n 3 —, sarà —f(a,m)=e°0(2 cos 0)", n atm_ 2n vii ) ( ) la quale avrei da integrare sviluppando (e8 + e-9)=. Ma l'incertezza della costante d’in- tegrazione mi costrinse a fare un lungo giro. Mediante due relazioni più semplici per- venni alla relazione (m° — a?) f(a,m)= 4m(m — 1) f(a,m — 2) — e99(2 cos 6)" (a — mtang 0), che dà immediatamente f(a , 0), (4,1), e poi mediante queste successivamente f(a, 2), m 1 TR \ ) n _____ p(a+m=22)0 inci — 0 f(a ,3),.. L'integrale 2 (io din 2° coincidendo per m=0,1 con fla,m) e soddisfacendo alla medesima relazione finita, non si è da dubitare che ambedue non siano uguali. Indi per 60=0 i=nm , m 1 (2) (7 «Re mA cos a0 . 90 . w 2: Af/at+m_— 24 ali Le Da qui si vede che la somma in quistione converge, purchè 4 non sia intero. — 526 — Conclusioni: 0 n (4) [ e-220s80+a0go— —— (a70F(—4,2°)—x4F(a,2°)), —-% sin 47 c = ss ( (x È (5) Mi) (i e?x 0088 d6 —- sin an Ji e_?2 così — ad dn) ; I o 0 convergente per qualunque valore finito di a, purchè la componente reale di x sia positiva. Intanto si può rimediare alla divergenza del secondo integrale la quale avrebbe luogo se la fase di 4 sortisse dall’intervallo ai La porzione dell’integrale si- tuata nell’infinità è per approssimato valore fed ed è di altissima piccolezza lungo tutta la parte dell'orizzonte ove la fase di re? cade dentro i limiti — 05 (mi figuro la parte orientale) e massimamente laddov’essa è zero. Dunque egli è nella nostra possanza, ponendo 2 = reî?, quando per esempio la fase g di # decresce da 0 fino a —3: menare il limite superiore di 6 collo stesso passo da co a ot i5- Fissato qui il limite superiore, sarà lecito il formare una linea rotta (in angolo retto) dal cammino, le di cui parti saranno E =i5+% ove @ trascorre tutti i valori positivi ). Scrivendo — i2 in vece di 2 = — îr, avremo dopo aver confuso la prima parte testè , 5 mentovata S — col primo integrale della (5) o (6) F(a pe n) = aT7e 49 an i 0 ; ti : ; e: 2 cos { 2. cos 0 — > ) 05 a0 .dt — sin ar e-22 sin 9-28 do). 2/0 lo) La soluzione (B) mi era nota da un trattato del calcolo integrale ed è T (7) S oe 0 sin'@6 do =I(3)F(a+3)F@,2"), per la o 00 Quella (C) diventa dapprima (ate ( eT“(u? — 49 la du, e dopo lo sviluppo 2x , da? 2 2 per le potenze di —-, mediante la valutazione u? Scar. ) 1 ai r(a+3)r(-«-5) =. È 2]2a—2n+m 2 3) ( valente per a> -3) ’ 2 sin a7r 1 1 © r(3)r(2+3) @ f ereeosintcodo— (Fa, 29) — Pla, 2°). 0 La (7) apparisce come conseguenza della (8), tornando la fase di 2 indietro da 0 a — 7, mentre il superior limite di 6 passa da co a co + iz. Ma invece io non poteva concludere — 527 — la (8) dalla (7), nemmeno connettere la (5) colla (8), benchè fui sorpreso dalla loro similarità. So per altro bene ehe la funzione F(a,t) non è altro che rin caso particolare della serie ipergeometrica di Gauss, il quale riede in più occasioni ed era più facile da trat- tarsi che quello generale. Un grande inconveniente delle soluzioni di equazioni differen- ziali per integrali definiti è la loro stretta limitatezza e cagiona il natural desiderio di dilatare il loro dominio. Perciò mi rincresce di non aver riuscito a tradurre tutte le tre forme di soluzioni l’una nell’altra senza lasciar la forma di integrale definito. Altre volte l'indice fratto di differenziazione mi sembrava sospetto; ma adesso la lettura della sua memoria, soprattutto la dilucidazione pag. 6 dopo l’eq. (3), me ne à dato una esatta idea. Mi figuro che si tratta di riunire nella medesima formola la ugua- x (a Te. ia Ho) di glianza fornita dal complemento della serie di Taylor D-”f(2)= Tn) 0 (per un’intero negativo — x) e D*f(x) riguardato come Ple PX Cf a+ REL (fe. ove A trascorre dei valori imaginarî attorno zero con fase crescente e riede al punto _ x N T(n41 \ . da cui è uscito. Questo integrale si può scrivere =“ (t— a)" f(t) dt, purchè XL il giro che fa t attorno # non inchiuda un punto di discontinuità di /(t). Il luogo nel piano (rappresentante i numeri imaginarî), dove ambedue limiti dell’integrale si riuni- scono, punto di partenza e di giunta, è irrilevante finchè x sia intero positivo; ma tostochè x diventa fratto, il valore dell’integrale dipenderà essenzialmente dalla scelta di quel punto di partenza. In questo dubbio la decisione vien recata dalla prima formola relativa ad un indice intero negativo: « zero deve essere il punto di partenza », poichè ambedue formole convergono nella sola D"f(a) —_ den 23 Tina f(6) dt 3 ove per ora mi figuro 2 esser positivo e (£-- 2)" ricevere un valore positivo nel momento ove t — x passa sul valore positivo, di modo che —7 sarà la fase di partenz a per t— e x quella di giunta. La formola di definizione così rappresentata offre il vantaggio di ammettere la differenziazione ordinaria sotto il segno d’integrazione, giacchè il cammino della variabile ausiliaria £# non tocca #; (e non formerei il cammino come un cerchio avente x per centro e passante per 0, perch'esso potesse inchiudere un punto di discontinuità di /(t); mà se nell'intervallo reale 0<£#< la funzione non si espone ad alcuno sturbo, meno £ su per la via reale fino a piccola distanza di 2, indi in un piccolissimo giro attorno 2, e poi lo riduco per la stessa via come dianzi a zero); mentre la rappresentazione equivalente Dini tm! f(2+t) di (la quale per lo svi- luppo Taylorico di /(2 + t) diventa formola (1) pag. 6) nei suoi limiti pregiudica la differenziazione, e lo sviluppo Taylorico torna divergente quante volte un ostacolo alla funzione f(t) si trova più vicino di 4 che di zero. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem, 67 — 528 — Fin qui è tacitamente supposto 2=0 come limite inferiore alla espressione J)?f(x) Se al disotto si dinota la variabile che deve svanire al limite inferiore, si à . D/@)_Prf)= i=% 3 ( pre das Dino Loi fia). Così penso potersi definire la funzione complementare i o Se nella vicinanza di 2 =0, /(x) è Tayloricamente sviluppabile, si à 2-m . D" (2) = Di e I fe? (0), la quale espressione diviene infinita quando m>Q0; e perciò fon r)) dx non è da (0) integrarsi quando m>1; ecco la ragione perchè DD /@)= se m—l1,n sono positivi, si à )=]D"=*f(), ma non =])7*])"/(2)). La uguaglianza Few a TntoT@m4trt.1}) =i 4 cen T(m+n+r+9+1) (verso il fondo della pag. 15) manifesta lo stesso, perchè la convergenza del primo membro richiede m + r > — 1, perchè r parte da zero, Per n> 0 è riuscito a dimostrare che se g(u) = i (u—t)"-f(t) dt, sarà Lee 2 fl — a) g(u) du = Sr A) ara rrara È fe — avena ft) di; ma per poter inverter l’ordine delle due integrazioni io era costretto a considerare (1— efi@_M7) XY il presente integrale doppio. Il moto dell’acqua nei vasi di rivoluzione mi è invece fornito un’esempio ove la formola quistionevole DiD-/)= D_'/ (D9) è in fallo. Sia Va ma 3 (glatila)—gla—iVa)), c_1 p-polatilotoleciva) arr 1 sarà DL L4dr S NO = 0 (Moto p. 26, eq. (44)). Volendo verificar questa eq. se ammettiamo nel secondo termine D=!% (D°), avremo ad ((L) +40) lati) glo i) = mà impiegando |)? (p/a) —]/s otteniamo cad RA i+ DE (elet i) 9(—iV3)) i (RA + (gia I) + —pla—ili)tu=0. — 529 — Gli esem}î recati ‘da Licuville rivengono a quello più generale proposto dall'Abel, che è attissimo a far veder l’ utilità -dell’indice fratto, ma anche può sciorsi al modo Xd% seguente. La ca f (2 — 0)7" p'(0):d0 = f(x), ove 0V O 7A ra a) iv Di +23, RenpIcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 63 a Sia ds un elemento lineare passante per A, e dx l'elemento normale, orientati fra loro come è stato detto nel $ 1: cioè sia de dy dj dr ds vi dig SOR Avremo . NIE) IV dV (A [EE gela TUE ia ’ leali dn 1. Î du i 2) ove jn denota la densità della corrente normale a ds. Facendo uso di un sistema di coordinate curvilinee % e v, avremo IV du, IV do (D dU dV 2 2 li "a (20) J E(atioant? dU dI dV IS Ora, se il quadrato dell'elemento lineare è dst = Edu? +2F dudv+4+ Gdv*, abbiamo (*) du 1 du dv SERA afipieee e ) | dn VEG = ( BIS +63) (a E ann (EEC i dn VEG — F° ds DS dU Il du dv \a- al pui o) (a') i ee - (a+); DI VEG 22h dn dn e l'equazione (20) si scriverà A = mu - IV |] du 20' Hi e Mg = SITE x| VEG — F° Ur du as 1 SANTE dU dv PENABRY, =—_—— 3 À =” e +x[ VEG — F° Sr (*) Si intenderà che la rotazione della linea v= cost (presa nel senso in cui cresce la «) verso la linea w= cost (presa nel senso in cui cresce la v), attraverso l'angolo mi- nore di 7, avvenga nello stesso verso in cui avviene, attraverso l'angolo retto, la rotazione della direzione positiva della linea s verso la direzione positiva della linea n. Supporremo inoltre di prendere qui, e nel seguito, il radicale VEG—F® positivo. — 595 — Supponiamo che la linea s coincida colla linea u= cost: allora l’equa- zione precedente diverrà V ar dv (21). In, = K paio - Zi Pa VEG — F° VG” ove 7n, è la densità della corrente normale all'elemento della linea = cost. Analogamente, SS (21,) in=—E| —— 2° Di VEG — F° du _JVE 44. Tutte le formule precedenti valgono per un elemento piano intini- tesimo. Ora, se la lamina è curva e si trova in un campo magnetico co- stante o variabile, per ogni elemento infinitesimo della superficie varranno le formule precedenti: solo dovremo supporre che K e 4= tg cambino da elemento a elemento; in altri termini, le formule precedenti varranno nel caso più generale di una lamina metallica di forma qualsiasi situata in un campo magnetico qualunque, purchè si considerino K e 4 funzioni note di u e v. Per calcolarle, dovremo tener conto delle formole (2) e (3) in cui dovremo sostituire punto per punto ad H la componente della intensità del campo magnetico nel senso normale alla superficie, la quale sarà variabile, sia per la diversa inclinazione della normale rispetto alla direzione del campo magnetico, sia per la variabilità di esso ('). 45. Riprendiamo ora la formula (20’) valida su tutta la superficie, e formiamo EA: TO te: IV ]w Cd Sia È =SI Li VEG — PF? Tae du _]93s si pl n IV) Aa— |—-{d pal pari DAT. (*) VG e VE debbono essere presi col segno positivo, (*) Se il campo magnetico non è normale alla superficie, si producono delle azioni secondarie che fanno perdere alla lamina, per rapporto alla sua conducibilità, il ca- rattere della isotropia (cfr. Winkelmann, Handb. der Physik, 22 ediz., vol. V, pag. 458). Tali azioni costituiscono delle perturbazioni al fenomeno, come viene qui studiato, Ci si mette al riparo da queste perturbazioni disponendo la lamina secondo una superficie di livello nel campo magnetico, il quale in tal modo resulta normale alla lamina in ogni suo punto. — 536 — estesa ad una linea s qualunque chiusa, che non includa alcun elettrodo. Il primo membro sarà nullo e, per conseguenza, dV dV dV dV pp P_rî dv du 3a | e dv dV pra e OST ER iu FK a n=: uri do rr ad dovrà essere un differenziale esatto. Chiamandolo 4W avremo quindi IV _p3I — VG; = LAM IA 12 | LIM SA Ira VEG — F° dv PI, “e a (Ri, KE i | VE Sn, EG = P up "3 da cui segue che V soddisfa all’equazione differenziale dV dV Qui cpeo d | dU dv dV ]) Pei = i | — (1) 30 fre dv ja OUT eh) dd du Va aa D D V/EG 2 de V È sì ottiene Risolvendo le equazioni (24) rispetto a DS e (e g2V _p3W 1 | du dv g>3W rs dV KI 3245) VEG — F° dv dv IW dW do 1 | dv dU PREAL So K(14 4?) VEG — F° du du | e, per conseguenza, W soddisfa, all'equazione differenziale dW dW Go di 1 dU dv dW |) © ail ran 101)" DEI 1 a I + iaHsl VEG=SF? 4 gia — 5387 — 46. Ritorniamo alla formula (22), e supponiamo che i) integrazione sia estesa ad una linea aperta s. In virtù della (24), avremo fins=(w=w.-w, s bi denotando con W, il valore di W all'origine dell'arco s, e con W. il valore all’altro estremo dell’arco stesso. Ne segue che, lungo le linee di corrente, W sarà costante, e quindi, lungo tutte le porzioni libere ed isolate del contorno, W sarà costante, mentre lungo tutti gli elettrodi di resistenza trascurabile, V sarà costante. Se supponiamo che non esistano forze elettromotrici interne nella la- mina, V sarà una funzione monodroma, mentre W resulterà polidroma percorrendo un ciclo chiuso qualsiasi che racchiude (*) degli elettrodi da cui entra nella lamina una quantità totale di elettricità diversa da zero. Se la lamina è semplicemente connessa e tutti gli elettrodi sono al contorno, W sarà evidentemente monodroma. Alla funzione W daremo il nome di funzione delle correnti. 47. L'espressione di /, [formula (20')] può trasformarsi in più modi. Valendosi infatti delle (24), potremo scrivere n STO (20 ) Vira ds ) e, applicando invece le (a’), avremo IV dV 20) = n dV Me DR) oa ANY VEG — F* dm | dV Di IV du 30) \ 301 +3 + (ar )x( Finalmente, sviluppando la (20”), cioè + dIW du, IWdv n du ds do ds e tenendo conto delle (@'), si trova 1 ({29W IW\ du IW dIW\ dv) 2017 n= ——————- î{F —19) 3 ( 04 ERE Ii a ( dU o dI ns (*) Alla parola racchiude degli elettrodi bisogna dare un senso generale intendendo tutti gli elettrodi che giacciono da una stessa parte della linea chiusa. as Le formule (21) e (21,) possono ancora scriversi, tenendo presente le (24), (21°) Ju, Chiamiamo j, e » le proiezioni ortogonali della corrente nelle dire- zioni delle linee «= cost e v= cost; se ne otterranno subito i valori fa- cendo nella (20"") coincidere successivamente x con le direzioni delle linee u= cost e v= cost, ed avremo | dV IV K [ 3V du ia (25) DIARI ; K E PI, A Je == — = —_ À == VE \ du VEG — F° e, mediante W, le stesse quantità si esprimeranno colle formule : o _p3W du Sui (251) pr du dv pa dU dv l VG\ VEG—F° VE\ VEG—F° Decomponiamo tinalmente la corrente secondo le direzioni delle linee u= cost e v= cost: troveremo, come componenti, | o RE ei ii ln 39) (26) pi «= _ EVE (g__pdV neri) lan FE (62! i apra ww, che, espressi mediante W, divengono e RS I I " VEG—F° dw VEGT—F* 30° 26) i Da qualunque gruppo di queste formule si ricava il quadrato della intensità della corrente che viene espresso da 2 | "G)etto) j= E*(14-22) dv dU dd du EG — F° (27) 2 a (30) op è n dU dd EG — F° i dU +6( — 599 — Queste formole si possono scrivere nel modo seguente, impiegando il simbolo del parametro differenziale del primo ordine, (O 2 2 . Ì 3h =: A,W . 48. Le espressioni ottenute per /, ci forniscono sotto altre forme la con- dizione j,= 0, lungo le porzioni libere ed isolate del contorno. Così, per esempio, servendoci della formula (20”), potremo scrivere la condizione stessa mediante la equazione V p2V__p3V ARE en IV 3 PD, dU ZA I, dU 2 | _0 Mt VEG—F? } > dv VEG—- E? fd 49. Supponiamo, adesso, che la lamina sia omogenea, e manchi il campo magnetico; avremo K = cost e 4 = 0: quindi le equazioni (F) e (G) di- verranno eV _p3V DV _poV È SEeT irdi PL A ( urp o VE) Liù .3W n93W IW IW Di, ST 20) dd WÌ_o dui yeG—F: | 30 VvEG—-F? ) e potranno anche scriversi, facendo uso del simbolo del parametro differen- ziale del 2° ordine (8) 4,VN=0 4W=0. V e W saranno quindi, come doveva prevedersi, due funzioni armoniche sulla superficie. Inoltre le (24) diverranno 2V DV W SV dV W SS E DLE sn pre RES da n cor dv _ÈK Dior TODI VEG — F° dv VEG — F° d% Le condizioni (8') sono le condizioni necessarie e sufficienti affinchè V e W siano funzioni armoniche sulla superficie; le (y), affinchè .W VIiKk sia una variabile complessa sulla superficie (*). (') Cfr. Beltrami, Delle variabili complesse sopra una superficie qualunque. Opere, vol. I, pag. 318. — 540 — Ora, allorchè KZ non è costante, le equazioni (F) e (G) differiscono es- senzialmente dalle (8), e perciò V e W non sono funzioni armoniche sulla superficie. Invece, nel caso delle lamine piane omogenee in un campo magnetico costante, il potenziale V si conserva armonico, anche quando agisce il campo magnetico (cfr. $ 1); soltanto cambia la condizione a cui deve soddisfare al contorno nelle regioni di esso libere ed isolate. Dunque si manifesta una differenza sostanziale, nel caso che adesso trattiamo, rispetto ai precedenti: cioè, l’azione del campo magnetico, non solo muta le condizioni al contorno a cui deve verificare il potenziale, ove il contorno stesso è libero ed isolato, ma altera intimamente la natura del potenziale in tutta l'area occupata dalla lamina. È facile stabilire, nel caso in cui K e 4 sono costanti, la relazione che passa tra la funzione delle correnti e la funzione fondamentale U ($ 14). Avremo infatti W = KU’, ove U' è la funzione armonica coniugata della funzione U. 50. Riassumendo i resultati ottenuti, possiamo dire che, allorquando si passa dalla lamina piana alla lamina curva omogenea o non omogenea in un campo magnetico costante o variabile, si passa (dal punto di vista ana- litico) dalla equazione differenziale di Laplace a nuove equazioni differen- ziali di carattere diverso [le equazioni (F) e (G)]. Delle quattro funzioni (potenziale, funzione fondamentale e loro coniugate), due sole si con- servano e cioè il potenziale e quella che abbiamo chiamato la /urnzione delle correnti. L'una e l'altra di queste perdono però il carattere di fun- zioni armoniche sulla superficie occupata dalla lamina: ed anzi è questa la ragione per la quale le altre due funzioni cessano di sussistere, in quanto che il potenziale e la funzione delle correnti non essendo armoniche, cioè non avendo il secondo parametro differenziale nullo, ma soddisfacendo invece alle equazioni (F) e (G), non possono avere funzioni coniugate nel senso della teoria delle funzioni di variabili complesse sopra una superficie. Da tutto ciò discende che il principio degli elettrodi puntiformi al contorno ($ 23) non sussiste più nel caso attuale; come pure non vale più il principio che il potenziale rimane inalterato nel caso di lamine più volte connesse, allorchè le linee che formano il contorno sono elettrodi di resistenza trascurabile, su cui il valore del potenziale si mantiene inalterabile ($ 30). 51. Riconosciute così le essenziali diversità analitiche che si presen- tano secondochè si tratta del caso precedentemente svolto della lamina piana uniforme nel campo magnetico costante, o del caso generale che adesso si esamina (sebbene quest'ultimo si sia derivato dal precedente), passiamo a — 541 — mostrare l’esistenza d'un principio fondamentale di carattere invariantivo: il principio generale di reciprocità (vedi $$ 11, 12, 18, 28). Dalle (20’), denotando con V, una funzione qualsiasi, e rappresentando con S il contorno (formato da una o più linee) di una parte o della lamina, ove V e V, sono regolari, segue e SV (28 fo dS fi KV, pa I du LA a VEG — F° VA Ma TAI IV +K du dv __32V V) 18 'L veG—F? dv _J >s È dV avi IV. Vv IV o Vi dV PASS = EE IS; du dU a du dv du o) +83 dv + e VEG— F3| VEG — F° SV IV, dVi dV do | sà E dvd o) {de ove sì è supposto di prendere 7 diretto verso l'interno di 0, e quindi si è fissata implicitamente la direzione s. Denotiamo con 4,V V, il parametro differenziale misto 0 intermedio delle funzioni V e V,, cioè dV IV, = rh dV DO 23V IV P) Ò È Eine du dU du dv du dv dV dv EG — F° e scriviamo il determinante dV dv du dv dUV,Vi) re A du dv | Si riconosce immediatamente che 4,V V, è simmetrico rispetto a Ve V,, mentre il determinante II cambia segno scambiando V con V,. La equazione (28) potrà seriversi (V,Vi) (E) fo n ds= | (Avv È ) Da +7 pi du, o) } RENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 69 — 542 — 52. Supponiamo, ora, che V, corrisponda ad un potenziale elettrico di correnti distribuite nella lamina quando il campo magnetico è invertito. In tale ipotesi dovremo mantenere inalterato K in ogni punto, e cambiare segno a À. Se in questo caso denotiamo con 7,, la densità della corrente normale ad S, e vogliamo stabilire la formula corrispondente alla precedente, dovremo scambiare nel secondo membro V con V,, il che non altera il parametro d(V.,V.) d(u,v) mine corrispondente è moltiplicato per 4, il quale muta anch'esso segno per la inversione del campo, quindi i due cambiamenti di segno manterranno inal- terato anche il secondo termine, onde avremo simmetrico 4,VV,, ma cambia segno al determinante ; però il ter- 7 n de, (A) SVind=fE(AVV+ E OR ola e quindi (L) (vin al Vi Va) dS = 0 O Se confrontiamo la formula (D) con la formula (L), riconosciamo che da questa possono ricavarsi le stesse conseguenze che abbiamo dedotto da quella, ed in particolare i teoremi di reciprocità. 53. Per esempio, supponiamo che, con il campo magnetico diretto, la corrente di intensità J entri da un elettrodo puntiforme A ed esca da un elettrodo B; e con il campo magnetico invertito la corrente J, entri da A, ed esca da B,. Prendiamo S formato dal contorno s della lamina e da quattro circonferenze geodetiche s,, sp , Sa, » 80, aventi i centri in A, B, A, e B,. Noi porremo la condizione che, almeno quando esse sono abbastanza piccole, pren- dendo n dall'interno all'esterno delle circonferenze stesse, j, sia positivo SU Sa, Negativo su sp e /i, sia positivo su sg, e negativo su sy,; mentre V e V, siano finiti o divengano infiniti di ordine minore ad un numero più piccolo di 1. Poichè sopra s. /jn @ Yin sono nulli, avremo f jruVdso + f sinVaso + f jrnVaso, + ( finVaso / 8a / 8h Sa, Sb, ca f nova dSa T3g f SPA ds, — | Tela d$a si JaVi ds, =0, 8a I 8) /Sa, SD da cui si ricava, passando al limite col far impiccolire indefinitamente i quattro circoli geodetici, Ji(Va, == Vi) = J(Via si Vis), — 543 — e quindi, se JJ=J, Va, “i Va =Vu_ Vis Nello stesso modo, tutti è teoremi di reciprocità (relativi ad elettrodi di aree finite interni e di resistenze trascurabili o situati al contorno e pure di resistenze trascurabili) s7 estendono, dal caso della lamina piana situata în un campo uniforme, al caso di una lamina curva in un campo uniforme o non uniforme. 54. L'equazione (L) può seriversi ancora, dW, Dl) e re al ossia VAW, — V;dW sarà un differenziale esatto, e questo sarà un altro modo di esprimere il teorema di reciprocità. 55. Poniamo, nella (H), V,= V, avremo allora (M) fi dS= f KA,Vdo, VS vG giacchè il determinante si annulla, ed il parametro misto diviene quello del primo ordine. La stessa formula può scriversi (M) IC vel qs= il K4,Vdo, o anche n (M”) J{ Vin ai (a K(1 î: kx)! “do, oppure "ui ut xa } 1 mM”) i. Vi=| give I primi membri delle precedenti equazioni misurano la quantità di energia che penetra nell'area o attraverso il contorno, nell'unità di tempo. Se quindi prendiamo o infinitamente piccolo, sarà ni 1609) la quantità di calore Joule che si sviluppa in ogni elemento superficiale della lamina. Dalla (M') poi segue che, se V è nullo in una certa porzione del con- torno S, e nelle rimanenti parti W è costante. V è nulla entro tutta l’area o. Di qui resulta che, se certe porzioni del contorno sono degli elettrodi di resistenza trascurabile ove è noto il valore del potenziale o la intensità della corrente che penetra nella lamina, e le rimanenti sono libere ed isolate, la distribuzione delle correnti sarà determinata (cfr. SS 3 e 4). — 544 — Matematica. — Sulla risoluzione di certe equazioni inte- grali di Volterra. Nota del Corrisp. 0. TEDONE. tI. s Il problema della integrazione indefinita dell'equazione p dp dg (1) da vena n col metodo delle caratteristiche di Riemann-Volterra, conduce, nel modo più naturale, a porre la quistione di determinare la funzione (7) dall’equazione integrale (2) l'o) La VEC )]= 20 lo in cui ®() è una funzione nota tale che l'equazione integrale stessa sia possibile, n=P-7® e, per ogni valore di v che non sia intero negativo, (È v+2s - (3) vii coito LS con Il(a) =| evax*dx, per a>—1, e ZMa+1)=(0+4+ 1)Z(a). / 0 Nell’equazione (2), inoltre, 4 non risulta, « priori. assoggettato ad alcuna limitazione, e potrebbe, a rigore. essere un numero qualunque; ma, per i bisogni della integrazione della (1), vien naturale ed è più che sufficiente il supporlo intero. Infine, lasciando da parte il caso speciale di p=1, il numero 7, appena è p > 2, è sempre positivo ed eguale ad un numero intero, ovvero alla metà di un intero dispari, mentre, per p=2, è n=}. In alcune Note, precedentemente pubblicate in questi stessi Rendiconti, abbiamo avuto occasione di risolvere l'equazione (2) in numerosi casi, avendo di mira, principalmente, la integrazione della (1). E nelle ricerche conte- nute nelle citate Note, il caso di p=2,(n= —) si presentava con ca- ratteri d'eccezione e di maggiori difficoltà, mentre, d'altra parte, dà luogo ad equazioni integrali notevolissime come la seguente: (2) fi o) Sen [VA (e # 1)] i 5 LT — 545 — dove Sen è, al solito, il simbolo di seno iperbolico, e che si ottiene dalla (2) per n= —i e 4=0. Ci siamo perciò indotti a riprendere e ad appro- fondire lo studio dell'equazione (2), imponendoci, a priori, le sole limita- zioni che 4 sia un numero intero e che x sia un numero intero. ovvero la metà di un intero dispari, positivo, o negativo; e con l'altre limitazioni, naturali, che, per 7 intero, sia n 4-4 = 0 e che, in ogni caso, ((—- La VE— ©] sia finito per#=v. Nella presente Nota riportiamo quelli dei risultati ottenuti che ci sono parsi non privi di interesse. Ma dobbiamo subito avvertire che i ripetuti sforzi fatti per ottenere, con un procedimento finito, la soluzione della (2') e di quelle altre equazioni che alla (2°) si possono ricondurre, sono riusciti sempre vani. D'altra parte la teoria generale delle equazioni integrali non sembra sufficientemente avanzata, così da poterci dare risposta alla domanda se un tale procedimento finito, nel caso della (2’), sia, o no, possibile. Per maggiore semplicità supporremo, nel sèguito, sempre X= 1. II. FORMOLE FONDAMENTALI. 1. Sono notissime e, del resto, si dimostrano con tutta facilità, le for- mole fondamentali seguenti della teoria delle funzioni di Bessel: d > d n e) I (A) all MA]=® bal), E hO] = (9) le quali valgono per ogni valore di v, diverso da zero, anche negativo, purchè non sia intero negativo. Per » = 0, le (A) sono sostituite dall’unica relazione (A') —=I;(). Le (A) dànno luogo immediatamente alle altre: (Ai) (2) + 3 I.(a)=HI_(2) , La) — n I,(2)=Ix1(8), nelle quali gli accenti indicano delle derivate, e queste ultime, a loro volta, per somma e per differenza, dànno luogo alle: 2 (A.) 26) =Ia)+ Lal), TIA = LL). — 546 — Dalle (A) discendono pure le altre formole notevolissime: d* \ ic [e I.(A)]} = (2v — 1) e! L(8), (As) ‘ P | a — i) fan) I(2)] = — (2v + 1) go 841) 1,,1(4) ; e, da queste, quando v è un intero positivo, si ottiene: 1 d* y \ Io(2)= EEE 22) (Gn = I) [a Ix(2)]. Ripe AAA AI È eee I) Lo(e). (A,) 2. Alle precedenti formole faremo ora seguire un'altra serie di formo le che, in certo modo, possono considerarsi come una generalizzazione delle prime. Poniamo (8) IO) (a Ind), e supponiamo che. se m è intero, sia anche m => 0. Derivando l'equazione precedente, rispetto a /, nell'ipotesi, idapprima, che m 40, in due modi diversi, considerando (f — «)"I,m(t — ©), una volta come prodotto di (ea) e di (6(—)"I,(t— 7), un'altra volta come prodotto di (f — 7)"+" e di (£— «)-"I,(t — ©), e tenendo conto della (A), si trova: \ = (n m) Dil a Daim_1 B i l Dim = (NH Mm) Dar sm + Vasimei 5 e queste formole sono equivalenti alle altre: \ (n4 m) Pr,m-1 — 2m Dr,m-(n_-M®n,ymr=0, (B,) ; l IM Pnrrm = Pasmor — Purmei è Le (B) restano valide anche nell'ipotesi di n=; nella quale ipotesi la prima delle (B), o delle (B,), si riduce semplicemente a (B') ®,, ana P,, n=1- Se poi è n-+-m= 0, abbiamo 1 "i d Za I n (B ) P_,, vin ®_,, on+l gn II(n) g(t) c i 3 i E Citiamo ancora le formole seguenti, che sono analoghe alle (Ag): \ (FE 1) 0) A a 30 de 1 | (1 - 1)0,,.()= — (2n+ 1) P_eat) n+i(é USE TRA, 3 3. Nel caso in cui gli indici delle funzioni di Bessel sono interi posi- tivi, o nulli, accanto alle relazioni (A), (A1), (A») (Az) fra queste funzioni e le loro derivate, ed alle quali si può dare il nome di formole differenziali, altre ne sussistono alle quali si potrebbe dare, ci pare, molto opportuna- mente, il nome di formole integrali e che si possono ottenere combinando le citate formole differenziali con l'identità fondamentale I,(x — xo) ei Lie e a; xo) 1 ei a Lo (C) I,(x: — Xo)= da noi dimostrata (*). Di tutte le formole che così potrebbero ricavarsi, noi terremo conto soltanto delle più importanti e che si mostreranno utili a raggiungere lo scopo propostoci. Derivando successivamente la (C), rispetto ad x,, e tenendo conto della (A), si trova (C.) I,(%; — Xx) = 2I,1(%1 = Lo) “i In .(%1 “ Lo) = x la_— a ATE (e) Et) da ?Lo Iii Lo tà e da questa, ancora con l'aiuto delle stesse relazioni (A+), discende A TL, = n-1(X1 —_ X = ara (05) e N A iii) I Xi Lo dI Lr — Lo XX =(n— 1) i Ne I he %) 1, do Tx eda (0 Notiamo pure la formola ( DE ) da Ie1 — 4) Da — x) i L._1 ii si do ge dI 1) Pd ima] , DIRI DIVI nella quale l'accento sulla sommatoria sta ad indicare che l’ultimo termine, in essa, dev'essere ancora moltiplicato per due. Dalla (C3), con l’aiuto della seconda delle (A3), si deduce anche l’altra formola (o) ft) diet g_ Jxo (1 — x)" X_—- xo Yi > __t.3. ba) ra Ria — Pi2rin— i)I(@n— 1) (Qn—- 3)... (@n—-2i +1) da (ci — do) * 4. Sì possono costruire formole integrali anche tra le ®,,m. Qui ricor- deremo soltanto la formola seguente, da noi dimostrata in un’altra Nota (?), , sc Lf () Pos ns() = 20) — fo OT de e la sua inversa É IR6e= (D.) Py (0) ={ PD, sn-1(t) lla di Èo Lt T JI STUDIO, PER #% > #M, DELL'EQUAZIONE t (4) [9 dal). 1. Nella ipotesi che sia 2 => m, la equazione (4) si risolve, tanto nel caso in cui 7 ed 72 sieno interi, quanto in quello in cui 7 ed 72 sieno entrambi metà di numeri dispari. Supponiamo dapprima x ed m interi e che quindi sia anche m => 0. Se m==, l'equazione (4) è stata già da noi risoluta nella Nota ultima- mente citata. Da ®,,, si ricava Do, con la formola 5) Goe= (‘9 LU-d io (5) da den ap ui; (1) Su l'inversione di alcuni integrali ecc. Questi Rend.., vol. XXIII, serie 52, 1° sem. e, trovata D,,0, Si ha poi subito (5') p(t) = Di; o(6) -[ Dos o(T eni g Ciò posto, è chiaro, per quello che ora abbiamo ricordato, che l’equa- zione (4) sarà risoluta se avremo il modo di calcolare ®,,, per mezzo di Pm. A questo scopo notiamo che, supposto noto P,,,,, dalla (B') abbiamo Pain-1= D'n,n, mentre la prima delle (B,), ponendo, per m, in questa ultima formola, successivamente, 7 —1,n—-2,...7# +1, ci dà, nello stesso ordine, Py, n-23 Pain-3 300, Pnsmo Pusm SÌ può quindi esprimere per mezzo di ®,,, con l'aiuto di un'espressione differenziale, lineare, a coefficienti costanti. Ne viene che, inversamente, dato ®,,,m, si otterrà ®,,,,, risolvendo un'equazione differenziale, lineare, a coefficienti costanti, con ter- mine noto. Il problema è determinato, potendosi ricavare dalla definizione stessa di ®,,,, i valori che questa funzione e le sue derivate assumono per t= 4. La quistione che ci siamo proposta, si può dunque considerare risoluta. Si tratti, per es., di risolvere l'equazione t i f g(r) (lv) If —)de= a, li). Abbiamo allora DIDO ’ SDr,jo = 2,14 Da = 204, +- Da, e perciò D,,: è la soluzione dell'equazione che si annulla, insieme con la sua derivata, per t=/,: ossia è 5) È LTT = id: VUCAZZO V2 Da ®,,, si ricava poi la funzione g(/), con l’aiuto delle (5) e (5'). 2. Lo stesso metodo precedente vale a risclvere l'equazione (3) anche nel caso in cui m ed x sono entrambi metà di numeri dispari, nella ipo- tesi, sempre, di n > m. Se infatti è m = n, come abbiamo dimostrato nella stessa Nota ulti- mamente citata, è VR hi n+i 6) TA cr (en VE 9) n RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 70 — 550 — Se poi, invece, % > 22, come precedentemente, si determinerà, dapprima, ®,,,, per mezzo di ®,,,m, e quindi la funzione (#) con l’aiuto della (6). Nel caso, anzi, che ora consideriamo può darsi ad 7 anche un valore nega- tivo purchè, naturalmente, sia n +-m = 0, chè il procedimento non soffre eccezioni. Si tratti, per un es., di risolvere l'equazione [y@u-n li (f(—-)dv = (u Di VE: (È (e) (6-1) Sen(t— tc) di=®; “| i T): Senl SR In questo caso ®; :» è la soluzione dell'equazione ; 292 Dall'espressione precedente di D; della (6). 5 ricaviamo poi la funzione g(t) con l'aiuto 2 9% ve RISOLUZIONE DELL'EQUAZIONE (4) PER % ED # INTERI ORA 00 1. Quando #= 0, ed m è un intero positivo, l'equazione (4) è stata da noi risoluta nell’ultima Nota più volte citata, con l’aiuto della (D). Possiamo dunque lasciare da parte questo caso, e supporre senz'altro che sia n >0. Vogliamo però, prima, notare che, se oltre di ®,,,,, fosse nota Pn,m-1, ovvero D,.,im+1, la prima delle (B,) ci darebbe il modo di calcolare tutte le ® col primo indice eguale ad x. Ed allora, com'è stato osservato in altro posto ('), con l'aiuto della seconda delle (B,), si potrebbero dedurre anche tutte le ® col primo indice minore di r. In particolare si potrebbero cal- colare Di, o € Po; i, dalle quali si dedurrebbe, immediatamente, (i) = Post) — Do 1(0). (*) Sull'integrazione delle equazioni ecc. Questi Rendiconti, vol. XXIII, ser. 5*, 2° sem., pag. 154. — 55] — Si può concludere allo stesso modo anche nel caso in cui, oltre di ®,,,,, forse nota un’altra qualunque ® con indici interi. Però, in questa ipotesi più larga, per determinare %(#) bisogna anche risolvere un'equazione diffe- renziale, lineare, a coefficienti costanti con termine noto, come ci si convince facilmente. Supponiamo, ora, che sia data soltanto D,,n cono a = | P_s, 3( Peep — lo (i alii 2 Applicando, quindi, ad ambo i membri di essa, l'operazione LOS] , con dt* l’aiuto delle osservazioni stesse che sono state fatte in generale, si trova l'equazione 7 2 r 4 (10) CAN n 0 ri HI )! È is) e) —2°(-——1)): gi ale) de — 20, (8). (na 1) 2a) | va del - 201,1) Potendosi, infine, ricavare dalla (9') i valori di g e di g', per 4=%), l'equazione (10) determina facilmente e completamente la funzione g(t). 2. Consideriamo ora il caso, più generale, dell'equazione t Im(f — ) RES Sh con m > n. Assumiamo come incognita ausiliaria ®_,,,m_, e notiamo che la solita equazione prima delle (B,), la quale, mutando z in — x, si scrive (11) UMBRI) (1 — 10) Danim-r — MD _nim + (MH) Dan ime =0, cl permette, ponendo, per 72, in essa, successivamente, mn —1,m —2,....n +1 di calcolare, nello stesso ordine, per mezzo di ®_,,m e di ®_n,m_1, le altre quantità P_,,..m_0, Dunsm_3 00% P_nsn-. Teniamo quindi conto del- l'equazione (5 , 1 (12) Don=Paimei tori 900), della relazione 3 ne (13) Lg) massi li 0) — 5504 — e della (9) che è una conseguenza integrale di quest'ultima. Se in (12) si sostituiscono a P_n,n , P_n,n+ le espressioni calcolate innanzi per mezzo di D_n,.m + P_nsm-, ed il valore di g(/) che si può ricavare da questa equazione sia sostituito nella (13) e nella (9), basterà operare su queste due ultime equazioni come in IV, 1 per ricavare un'equazione differenziale, lineare, a coefficienti costanti in ®_,,.,m_;, dalla quale quest’ultima funzione si potrà determinare Sì tratti, p. es., di determinare (7) dall'equazione SIOE dl. Possiamo scrivere intanto le tre equazioni 7 1 t I,(£ Disi=®y:+390) > fano, IS gm) = 20.) [fon a, e, con procedimento anche più spedito che non nel caso generale, eliminando g(t) fra la prima e la terza di queste equazioni, si ottiene l’ equazione seguente di, I.(f— i P_,,;(7) I di = 2®@_,, (i), che serve a determinare D_,,, per mezzo di @_,,,. Abbiamo infatti subito T ® = I) =40 2 ( P_;,2(1) Mera E e quindi 1 "r d t IR == ggO= 40-27). P_,,e(t) e dr 3. Osserviamo, qui, che l'equazione (4), con l’aiuto delle solite for- mole fondamentali contenute in II, si risolve anche in tutti casi in cui m ed » sono metà di interi dispari, se sì riesce a risolverla nel caso di m= —i} , m=} che è quello sul quale abbiamo richiamato l’attenzione fin dal principio. Aggiungiamo, infine, che i metodi precedenti, convenientemente estesì, permettono di determinare la funzione g anche nel caso in cui, invece di una sola ®,,.n, si dia una combinazione lineare qualunque, a coefficienti costanti di g e di varie ®,,m. S intende che in questa combinazione lineare le x ed 72 debbano essere, però, o tutti interi o tutti metà di interi dispari, ed, in quest'ultima ipotesi, anche n > m. — 559 — Mineralogia. — Sulla presenza della monazite nelle sabbie e nelle arenarie della Somalia meridionale. Nota del Corrispon- dente ETTORE ARTINI. Ho avuto occasione, in questi ultimi tempi, di esaminare dal punto di vista mineralogico numerosi campioni di sabbie e di arenarie della So- malia italiana; questo materiale mi fu gentilmente favorito per lo studio dal dott. G. Stefanini, il quale ebbe a raccoglierlo nel 1913, durante il viaggio della missione scientifica inviata dal R. Governo in tale regione. I risultati particolareggiati delle mie ricerche saranno altrove pubblicati; mì sia concesso qui di accennare soltanto, in via sommaria e preliminare, al ritrovamento di un minerale d'un certo interesse, la monazite, sia nelle alluvioni del Giuba, sia nelle arenarie antiche della regione interna (Lugh). Fin dallo scorso anno ebbi modo di rilevare l’esistenza di rarissimi granuli d'un minerale i cui caratteri mi sembravano quelli della monazite, nelle sabbie del Deserto Arabico, e nella formazione arenacea nota sotto il nome di Nubian Sandstone (*). Ma la eccessiva rarità del minerale avendo impedito una ricerca approfondita, la determinazione era rimasta alquanto dubbia e malsicura. Lo stesso minerale, con caratteri perfettamente simili, ho potuto ora ritrovare nelle sabbie del Giuba. Si tratta di granuletti del diametro ordi- nariamente non superiore a 0,10 mm., rotondeggianti, ciottoliformi, i quali anche per tale aspetto della superficie si differenziano abbastanza bene dai cristallini di zircone delle stesse dimensioni i quali, nelle medesime sabbie, sì presentano con facce nitide e con spigoli vivi. Il colore è gialliccio, talora giallo citrino chiarissimo, più spesso giallo puro assai pallido, passando anche a giallo miele; frequenti vi sono piccole chiazze ocracee, dovute ad incro- stazione, sia negli incavi della superficie, sia nelle screpolature. I caratteri morfologici esterni, in buona parte secondarî, insieme al colore, impartiscono al nostro minerale una fisonomia propria, ben riconoscibile, e affatto simile, per non dire identica, a quella della monazite delle sabbie brasiliane. Il pleocroismo è debolissimo, quasi insensibile; il potere rifrangente molto elevato, tanto ehe nel joduro di metilene si constata essere @ )) n. La birifrazione è fortissima, e all'incirca si può stimare y - @ = 0,05; l'angolo degli A. O. è piccolissimo, più ancora che nelle monaziti d’altre provenienze, così che la figura di interferenza a luce convergente, se non è esattamente (*) E. Artini, Sulla composizione mineralogica di alcune sabbie del Deserto Arabico. Atti Soc. ital. sc. nat., an. 1914, LITI, pag. 372, — 556 — centrata, può talora apparire quasi uniassica; il carattere ottico è positivo; 2 dispersione degli A. O. poco sensibile. Questi caratteri, escludendo da una parte lo zircone e dall'altra l'epi- doto, rendono certo assai verosimile la natura monazitica dei rari granuletti, ma non sono sufficienti ad assicurarne la diagnosi; per questa occorreva un esame chimico, il quale nelle alluvioni normali del Giuba, come nelle sabbie del Deserto Arabico, è ostacolato dalla impossibilità pratica di isolarne una quantità sufficiente. Ma ciò che nelle sabbie comuni non si poteva fare, mi riuscì perfettamente col trattamento di una speciale sabbia nera magnetica, raccolta dal dott. Stefanini presso Giumbo, alla foce del Giuba. È questa una delle solite sabbie nere, ottenute per naturale concentra- zione degli elementi pesanti, concentrazione spinta fino ad eliminare quasi tutto il quarzo e la maggior parte dei silicati; nel caso nostro il processo è arrivato a tal punto che il p. sp. della sabbia, presa così come fu raccolta, determinato sopra un campione di 100 grammi mediante il volumenometro di Schumann, raggiunse il valore di 4,90. Nera in massa, e ricchissima sopra tutto di magnetite e di ilmenite, che ne formano la parte principale. questa sabbia, sottoposta ad analisi chimica complessiva, coi soliti metodi, diede i seguenti risultati : 56,09 °/, di Fe, pari a 80,13 °/, di Fe. 03, e 16,87°/,Ti0.. Queste percentuali ricordano molto da presso quelle di Fe, 03 e di Ti 0: delle spinelliti titanomagnetitiche della Norvegia. Per quanto ha riguardo alla composizione mineralogica, questa sabbia oltre agli ossidi di ferro, prevalenti, contiene: — quarzo, augite, granato almandino, zircone, epidoto — scarsi; — spinello verde, ortoclasio e mi- croclino, pirosseno rombico, orneblenda verde, cianite, tormalina, stau- rolite, titanite, apatite, e la presunta monazite — tutti scarsissimi o rari. Ad una separazione della monazite con mezzi meccanici, o soluzioni pe- santi, non era il caso di pensare, avendo essa un p. sp. troppo alto, e troppo poco diverso da quello degli ossidi di ferro; evidente si presentava invece la opportunità di una separazione magnetica. A tale scopo mi servii di una elettrocalamita sul tipo di quella consigliata da Rosenbusch, ma di maggior potenza, utilizzando come sorgente di energia non già una batteria di pile Grenet, ma la corrente alternata stradale, abbassandone la tensione a 50 volts con un piccolo trasformatore, e raddrizzandola con una batteria di celle elet- trolitiche. L'apparecchio, costruito dietro le mie indicazioni dalla nota Ditta Campostano, della nostra città, si mostrò subito, sia per la considerevole po- tenza, sia per la facile regolabilità, egregiamente adatto allo scopo. Facilissimo mi fu infatti estrarre interamente gli ossidi di ferro, data la loro enorme suscettività magnetica (I* porzione); e nel residuo pure agevolmente riuscii — 557 — a separare i minerali con debole suscettività positiva (II® porzione) da quelli non magnetici, come quarzo, rutilo, zircone, titanite e apatite (III® porzione). Più delicato fu il trattamento da far subire alla II porzione, la sola che a me interessasse, perchè costituita da granato, pirosseni, anfiboli, epidoto, tormalina e monazite. Con opportuna regolazione, sia mediante reostato, sia variando la distanza fra le due espansioni polari, mi fu possibile, con suc- cessive separazioni frazionate, profittare della minore suscettività magnetica della monazite in confronto con gli altri minerali citati, per concentrarla in modo da ottenere, col trattamento di circa 500 gr. di sabbia nera, quasi 0,3 gr. di una sabbiettina gialla, certo non composta di monazite pura, ma formata in grandissima prevalenza da questo minerale. Potei così constatare che il suo p. sp. è superiore a quello del joduro di metilene, nel quale va a fondo rapidamente, e sopra tutto potei procu- rarmi per via chimica la riprova della determinazione specifica. Per ciò, la porzioncina contenente la monazite, salvo una piccola parte conservata per confronto, fu trattata per molte ore con HCI concentrato a dolce calore. Nel residuo, lavato con acqua e seccato, già ad occhio nudo si constata che il minerale giallo ritenuto monazite ha perduto la vivacità della tinta e la lucentezza, mostrandosi sbiancato ed opaco. Al microscopio, in essenza di garofani, sì riconosce all'evidenza la corrosione profonda subita dal nostro minerale, il cui contegno fa così chiaro contrasto con quello dei pochi epidoti che vi sono frammisti, i quali sono invece rimasti intatti, con forme nitide e spigoli vivi. L'attacco è però alquanto ineguale; alcuni granuli sono più ed altri meno profondamente corrosi, e spesso uno stesso individuo in una parte si mostra profondamente cariato, mentre in altra è appena corroso su- perficialmente: fenomeni tutti identici a quelli che potei osservare nella monazite del Brasile, similmente trattata a scopo di confronto. Della soluzione, filtrata, qualche goccia lasciata cadere nel reattivo molibdico dà subito assai chiaramente la reazione di P, O;. Il resto della soluzione cloridrica fu tirato a secco a bagno maria, ripreso con acqua di- stillata, riacidificando con qualche goccia di HCI, e nuovamente filtrato. Una goccia di questo liquido, diluita con alcune gocce d’acqua, dà con acido ossalico evidente la reazione microchimica caratteristica del Ce: un precipitato pul- verulento finissimo, che rapidamente si trasforma in cristallini aghiformi, riuniti in croci od in stellette a sei raggi con estremità biforcute, le quali, procedendo la evaporazione, crescono ramificandosi in eleganti arborescenze raggiato-divergenti; la estinzione dei singoli individui è parallela all’allun- gamento, e questo è otticamente positivo. Era così dimostrato trattarsi realmente di monazite; ma avendo a mia disposizione ancora la più gran parte della soluzione, potei sottoporla ad un'analisi meno incompleta. A tale scopo la soluzione, fortemente acidificata con HUI, fu versata, goccia a goccia, in un eccesso di soluzione diluita di RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem, 71 — 558 — acido ossalico, e fatta bollire per qualche momento; dopo raffreddamento, sul fondo del bicchierino si osservava un precipitato bianco, formato da quei leggeri e soffici fiocchetti di aghi finissimi, che sono così caratteristici per gli ossalati dei metalli delle terre rare, e in ispecie del Ce. Raccolto il precipitato sul filtro, e ben lavato, esso fu calcinato in crogiolino di por- cellana, e poi facilmente ridisciolto in acido nitrico diluito, previa aggiunta di qualche goccia d’alcool. Evaporato a dolcissimo calore l'eccesso d’acido, e ripreso con acqua il residuo bianco, cristallino, tale soluzione fu analizzata secondo Duparc e Monnier ('), e lasciò riconoscere Ja presenza di tracce di torio e notevole quantità di cerio. Data la scarsità del materiale, e le perdite inevitabili nel lungo e delicato procedimento, stimai non fosse necessario pro- seguire tentando il riconoscimento singolo di La, Pr e Nd, che si può supporre accompagnino il Ce. Ricondussi invece il perossido bruno ottenuto con H, 0, allo stato di nitrato, previa riduzione, e tentai la reazione di Sonnenscl ein, con soda caustica e solfato di stricnina: il risultato fu positivo, nitido e sicuro. Non resta ora che ricercare la provenienza della monazite delle sabbie del Giuba. Io non posso certamente escludere in modo assoluto che il raro minerale derivi da quelle granititi che qua e là, come isole, emergono nel- l'interno della regione somala, dalla vasta coperta delle rocce detritiche, eoliche od alluvionali; ma devo confessare che questa origine diretta mi sembra poco probabile. Già nella succitata mia Nota intorno alle sabbie del Deserto Arabico credetti poter indicare come fonte presumibile della monazite nelle sabbie desertiche quella formazione arenacea ch'è designata ordinaria- mente come Nubian Sandstone. Anche nella regione somala, in varie località dell'interno (Curetka, Scidle, Passo di Marilè) affiora un complesso di rocce arenacee, conosciute sotto il nome di aresarie dî Lugh, le quali, benchè cronologicamente siano dai geologi riferite a tutt'altro periodo, presentano con l’arenaria nubiana non solo una grandissima analogia d'aspetto, ma anche una rassomiglianza così grande, che potrebbe dirsi identità, nei riguardi della composizione mineralogica. Fra i caratteri comuni alle due serie di rocce noteremo qui solo: la grande copia del quarzo, e la eccezionale scarsezza dei minerali pesanti; la costante ed assoluta mancanza di pirosseni ed anfiboli; la prevalenza tra gli elementi colorati della tormalina, ch'è invece affatto scarsa e subordinata nelle sabbie d'alluvione o desertiche delle due regioni; e, posso aggiungere anche, la presenza in entrambe di quantità estremamente esigue di monazite, in granuletti delle stesse dimensioni e dell’identico aspetto che presentano quelli sopra descritti, delle sabbie del Giuba. Sarei pertanto disposto a ri- tenere probabile che nelle arenarie della formazione di Lugh debba ricer- carsi l'origine della monazite del Giuba, così come ritengo che nell’arenaria nubiana stia la fonte della monazite osservata nelle sabbie del Deserto Arabico. (1) L. Dupare et A, Monnier., 7raité de technique minéralogique et pétrographique. II® partie. Tome 1. Les méthodes chimiques qualitatives. Leipzig, 1913, pag. 201. — 559 — Fisiologia. — Muove ricerche sui muscoli striati e lisce di animali omeotermi. Nota VI: Il fenomeno dell’addizione di due contrazioni successive indagato nel preparato diaframmatico, del Corrispondente F. BOTTAZZI. L’addizione di due contrazioni provocate mediante due stimoli unici eguali, succedentisi a breve intervallo. è considerata come il processo fonda- mentale del tetano. Il fenomeno fu prima studiato da Helmbholtz (*), il quale ne formulò anche la legge, che però fu in seguito modificata, quasi simul- taneamente, da Kronecker e Stanley Hall (?) e da Sewall (*). Sullo stesso argomento, ricerche molto accurate fecero poi von Kries (4), von Frey (°), Wolff (), Scheck (7) e Ishihara (8). Del fenomeno in questione sono da considerarsi particolarmente i seguenti tre caratteri: 1°) il valore dell’addizione, cioè l'altezza a cui si eleva l'apice della curva addizionata (o della « coppia», come potrebbe brevemente dirsi l'insieme delle due curve); 2°) la velocità con cui questa si svolge rispetto alla prima, cioè la ripidezza con cui monta il tratto ascendente della rispettiva curva; 3°) il grado di fusione delle due curve, che aumenta col diminuire dell'intervallo fra i due stimoli. Mentre il primo carattere determina l'altezza del tetano, dal terzo dipende se il tetano è incompleto o completo. Al de- corso ascendente della curva tetanica, che ha la forma di una iperbole equi- latera (Bohr, 19), contribuisce poi la contrattura. Molti fattori influiscono sul fenomeno dell’addizione. Elevando la /emperatura, ordinariamente cresce tanto l'altezza delle contrazioni eloniche, quanto quella delle coppie, sia l'intervallo fra i due stimoli grande (per es. di 0,175”, come nell'esper. VIII, fig. 1), o piccolo (0.055”, nello stesso esperimento). Le temperature relativamente basse pro- muovono la contrazione tonica (ved. Nota V); ma siccome esse deprimono la contrazione clonica, non agevolano il fenomeno dell’addizione, per quanto questo ne dipende (ved. Ishihara, 8). Rispetto all'intensità degli stimoli, spesso si osserva che la contra- zione addizionata è più alta della precedente, più quando gli stimoli sono submassimali che non quando sono massimali o, peggio, ultramassimali; proba- bilmente perchè questi ultimi provocano già contrazioni uniche molto più alte (massimali) di quelle che provocano gli stimoli submassimali. Ma gli stimoli forti sviluppano la contrazione tonica (ved. Nota V). Si comprende, quindi, che, quando ciò avviene, il fenomeno di addizione in periodo di decremento è notevolmente agevolato dagli stimoli forti, come ho potuto constatare in — 560 — varii casì. L'influenza della intensità degli stimoli è quindi connessa con la frequenza di essi e con la disposizione del muscolo a eseguire contrazioni toniche più o meno gagliarde. L'influenza del peso o della tensione è grandissima. Se il muscolo è scarico o minimamente caricato, l’addizione o manca o è di minimo valore. Poichè il peso o la tensione sviluppano la contrazione tonica (ved. Nota V). la loro efficacia si fa sentire principalmente sull’addizione in periodo di de- cremento. La mancanza di addizione nel muscolo scarico dipende, almeno in parte, dal fatto che questo fa di solito contrazioni cloniche più alte di quelle DA Conte ton, Li DR= 100 nin A (Ue e Cda Fica Questa e le seguenti figure sono riduzioni fotografiche a !/s dalle curve originali. A e B indicano i due stimoli: quando l’intervallo fra essi diminuisce progressivamente, B si avvicina mano mano ad A. DR significa: distanza fra i rocchetti dell’indut- torio, in mm. del muscolo caricato (ved. fig. 2). Le contrazioni del muscolo scarico presen- tano un periodo di decremento più o meno prolungato, che a torto von Frey (5) considerò come dovuto a contrazione tonica (« Kontraktur »), là dove è invece da spiegarsi con la mancanza di un peso atto a sollecitare l'allungamento del muscolo. Nell'esper. X (fig. 2), aumentando il peso da 3 a 10 e poi a 20 gr., si accentua (col peso di 20 gr.) la contrazione tonica e aumenta il valore dell’addizione tino al punto che, raggiunto un intervallo optimum, l’al- tezza della contrazione addizionata diventa doppia di quella della contrazione unica. Ma se col peso di 20 gr. si raggiunge il massimo dell’addizione, l’altezza assoluta e della contrazione unica e della coppia è assai minore che non col peso di 10 gr. L'intervallo fra i due stimoli, cioè la frequenza di questi (stimoli d'intensità notevole, ma non massimali; temperatura conveniente), è un fat- tore fondamentale dell'addizione. Distinguiamo l’addizione in periodo d'in- cremento o di decremento, secondo che lo stimolo addizionale colpisce il muscolo avanti o dopo l'apice della prima contrazione. Nell’esper. VI, finchè — 501 — il muscolo fu eccitato con stimoli submassimali (DR = 200 mm) e non pre- sentò contrazione tonica, l'altezza della coppia aumentò col diminuire del- l'intervallo fra i due stimoli, fino a raggiungere circa il doppio dell'altezza della prima contrazione (fig. 8); ma poi, fatta aumentare l'intensità degli stimoli (DR=100mm), la prima contrazione raggiunse un'altezza superiore a quella delle più alte coppie precedenti, e quindi il valoro dell’addizione fu assai minore, qualunque fosse l'intervallo fra i due stimoli (fig. 4). Ciò risulta evidentemente dalla seguente tabella, oltre che dalle figg. 3 e 4: MOT 5 526. i =" Tesnnper.: 36°C E 0, 115 B DR=70 min Fig 2 Esperienza VI (6 giugno 1914): Preparato diaframmatico di cane. A. DR= 200 mm. B. DR= 100 mm. Altezza della prima contrazione, Altezza della prima contrazione, in media= 36 mm. in media = 105 mm. VOI die vio A da Il | 0,190” | mm. 39 11 | 0,200” | mm. 124 2 | 0,170 | » 40 12 0,170 n 127 3 | 0,140 |» 51 13 0,140 DO. 4 | 0,120 e ano 0,120 PREGO 5 | 0,080 ico Io 0,085 » 120 6 | 0,055 pal 62 16 | 0,055 , oa ? 7 0,040 ma 17 | 0,025 ILÒ prst95) 8 0,025 » 75 | N. B. In questa e nelle seguenti tabelle, il punto interrogativo significa che l’al- tezza delle curve nei tracciati originali non potette esser misurata con assoluta precisione. — 562 — Nella serie di contrazioni addizionate provocate da stimoli forti, si ma- nifestò il fenomeno, già osservato da von Frey (5°). che cioè, entro certi Feso « SA 10 , Temper 3S°C. A DR:= 200 nm B CHMIMANNIAINIMNANVKMVAANAAANIANNIAARAIIAMANMAMNIMAMANIAANY Yan" Fic. 3 limiti dell'intervallo fra i due stimoli (0,120”-0,085”), la seconda contra- 0200" A DR= 100 imm B Fiq.4 zione fu meno alta della prima, mentre incominciò ad apparire una mediocre contrazione tonica. Si direbbe che la contrazione addizionale fosse inibita, — 563 — Ma tale fenomeno si manifestò più evidente nell'esper. V, come risulta dalla seguente tabella e dalla fig. 5. Finchè l'intervallo fra gli stimoli fu rela- LÀ ed reo Temper ® 35 °C DI - ia = 1 0,230 39 DR= 150 nn B x VANNA MAAMMIAMAMANAAIANI IMAMAMINIMAAIMMATIVIINAMVINANIVANNANNNIM 1/20” Ros tivamente grande (0,230-0,120”), l’addizione in decremento aumentò col Ten per ° I6.I-40.5 °C diminuire di esso (curve 1, 4 e 5); ma come il secondo stimolo incominciò a colpire il muscolo in prossimità dell’apice della prima contrazione, l’addi- — 564 — zione scemò (curve 6 e 7), mentre incominciò a manifestarsi, in luogo della contrazione clonica addizionale, una sempre più cospicua contrazione tonica. All'intervallo 0,080” (curva 8), tornò ad aumentare la contrazione addizio- nale, che poi crebbe fino a raggiungere il massimo di altezza all'intervallo 0,080” (vale a dire, in periodo d'incremento); la contrazione tonica, invece, incominciò allora a diminuire, fin quasi a scomparire dalla coppia più alta registrata. i Esperienza V (3 giugno 1914): Preparato frenico-diaframmatico di cane. fra i due stimoli fi © fra (1) e (2) 1 (II) 0,230” mm. 49 — — |Niuna contrazione tonica. 2 (Xx) 0,230 57 mm. 66 mm. 9 |Lievissima contr. tonica. 3 (XI) | 0,230 55 66 11 , ’ n 4 (XIV) 0,160 59 72 13 | Non contr. tonica. 5 (XIII) | 0,120 56 67 11 |Contr. tonica sulla coppia. 6 (VII) 0,095 58 61 3 | Lieve addizione. 7 (I) 0,080 54 54 0 | Nessuna addizione. 8 (XII) 0,080 | 59 63 4 ” » 9 (VI) 0,080 —_ 62,5 — |Cospicua contr. tonica. 10 (V) 0,060 —_ 63 i — |Fusione completa. JIN GVI) 0,050 -- 72 _ ” ” 12 (II) 0,040 _ 76 — ” 2) 13 (VIII) 0,030 — 89 —_ ” ” 14 (IX) 0,030 —_ 88 — » ” N. B.I numeri romani indicano l'ordine con cui i gruppi di curve furono registrati, in questa come anche nella seguente tabella. Sembra, dunque, che: 1) in un muscolo non molto disposto a eseguire contrazione tonica, questa apparisce quando agiscono due (a fortiori, più) stimoli successivi, a breve intervallo; 2) la contrazione tonica apparisce e si accentua entro certi limiti dell'intervallo fra i due stimoli; 8) in simili casì, finenè esiste una contrazione tonica cospicua, la contrazione clonica addizionale è come inibita. Il fenomeno è di difficile interpretazione. L'addizione di due contrazioni (cloniche) successive in periodo d' incre- mento può essere determinata da più cause. Dobbiamo rammentare, a questo proposito. l’ « autosostenimento » 0 « sostenimento interno ». vale a dire quella condizione per cui il muscolo, al momento in cui inizia la contra- — 505 — zione addizionale, trova il peso già sostenuto alla corrispondente altezza dalla contrazione precedente. Già von Kries (*) e von Frey (°) dimostrarono che, quando il peso è artificialmente sostenuto, le contrazioni aumentano succes- sivamente di altezza a misura che il muscolo si carica più tardi dopo Vinizio di ciascuna di esse, fino a raggiungere, o quasi (°), l'altezza del tetano. Ma l'addizione in periodo d'incremento non può essere effetto esclu- sivo del sostenimento interno. Un altro fattore fondamentale è il seguente. Supponendo che il muscolo si allunghi quando ne scomparisce l'acido lattico, che è causa dell’accorciamento, se il muscolo è colpito dal secondo stimolo 0.030" IR icar prima che l'acido, formatosi per effetto dello stimolo precedente, ne sia del tutto scomparso, esso eseguirà una contrazione addizionale. E si può anche ammettere che l’eccitamento addizionale subisca una intensificazione (acce- lerazione) sotto l'influenza di qualcuno dei prodotti della reazione provocata nel muscolo dal primo stimolo, per es. dello stesso acido lattico [Ranke (1°), Sewall (*), Brailsford Robertson (1), Mines (?)], che catalizzerebbe la seconda reazione. Da ciò dipende il « fenomeno della scala », che può osservarsi anche in una serie di « coppie », come dimostra la fig. 7. Nell’addizione di due o più contrazioni successive, questo fattore deve agire tanto più effica- cemente, in quanto che la seconda reazione succede alla prima dopo un in- tervallo molto minore che non nell’ordinario fenomeno della « scala », quando cioè la, concentrazione del catalizzatore è maggiore. Col tempo, il catalizza- tore sparisce, e quindi il fenomeno della « scala » si attenua, fino a dile- guarsi del tutto quando la frequenza degli stimoli diminuisce oltre un certo limite. RenpIcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem 72 — 566 — Per quanto riguarda poi l’addizione in periodo di decremento, non può dubitarsìi che essa, più che dal fattore ora detto, dipende dalla presenza di una cospicua contrazione tonica, che fa da sostegno interno alla con- trazione clonica addizionale. Di fatto, in simili casi, l'altezza massima della « Coppia» si può già ottenere quando ancòra l'intervallo fra i due stimoli è assai grande, vale a dire quando il secondo stimolo colpisce il muscolo assai dopo l'apice della prima contrazione; e può non aumentare col dimi- nuire di esso, come risulta dalla seguente tabella e dalle curve della fig. 6, registrate nell'esperimento IX: Esperienza IX: 14 luglio 1914. Preparato diaframmatico di cane giovanissimo. Altezza Altezza A e a e i (1) ) (0) o (2) 1 (Xx) 0,200” mm. 54 |mm. 59 |mm.88_ |mm. 84 | 40,5° C. 2 (IX) 0,200 62 60 91(2) 32 | 40,50 C. 3 (VIII) 0,200 59 56 89 33 36,5° C; c. ton. 4 (XII) 0,155 61 62,5 91 80 | 36,50 C; c. ton. 5 (VD 0,125 62 59,5 91,5 32 37,5° C; c. ton. 6 (V) 0,125 72,5 69 87 14,5| 87,50 C. 71 0,085 60 58 86 27 |37°C. 8 (II) 0,085 61 58,5 86,5 28 38° C. 9 (II) | 0,0825 71 70,5) 85 14,5| 87,5° C; fusione. 10 (IV) 0,060 = 69 85 16 | 37,5° C; fusione. di) 0,060 726(2) 62,5 86,5 24 | 400 C; fusione. 12 (XII) 0,0325 = sE 88 — |400 C; fusione. N. B.I numeri stampati in corsivo corrispondono alle contrazioni del muscolo caricato con 4 g., gli altri a quelle del muscolo caricato con 10 g. Solo queste ultime sono state riprodotte nella fig. 6. Anche nell'esper. III (18 maggio 1914), l'altezza della « coppia » rag- giunse il massimo valore (mm. 108) in due momenti differentissimi: nel muscolo fresco stimolato con intervallo di 0,055”, mentre le contrazioni non presentavano traccia di contrazione tonica; e più tardi, dopo la comparsa di una forte contrazione tonica, l'intervallo fra i due stimoli essendo di 0,120". Interpretando le « oscillazioni del tono », descritte da Fano ('*), come contrazioni (lente) della muscolatura liscia dell'atrio cardiaco di £mys — 567 — europaea, io ho spiegato (!*) la maggiore altezza che le sistoli atriali rag- giungono verso l’apice di ciascuna oscillazione, ammettendo che la contra- zione tonica della muscolatura liscia fa da « sostegno interno » alle con- trazioni rapide (sistoli) della muscolatura striata. Certo è che le « oscilla- zioni del tono », in alcuni casi, presentano una singolare rassomiglianza con le serie di « contrazioni sostenute » del von Frey. Ora, mentre in queste il sostenimento è esterno, nelle « oscillazioni del tono » è interno, ma dovuto all’azione di un tessuto muscolare distinto da quello le cui contrazioni se ne giovano per aumentare di altezza; e nelle contrazioni addizionate, specie in periodo di decremento, dei muscoli striati, il sostenimento è pure interno, ma dovuto, non già a una specie diversa di tessuto, bensì a una sostanza contrattile diversa delle stesse fibre muscolari, al sarcoplasma, la cui con- trazione tonica fa da sostegno alla contrazione successiva. Se durante il periodo d'incremento l’ - autosostenimento » può esser fatto, in parte diversa secondo i casi, tanto dalla contrazione clonica quanto dalla tonica, è spe- cialmente nell’addizione in periodo di decremento che risulta evidente l’azione di sostenimento della contrazione tonica. Questa azione, del resto, si manifesta, comunque la contrazione tonica o la contrattura sia provocata. Infatti, le contrazioni rapide provocate con stimoli unici in un muscolo contratturato dalla veratrina o da acidi, da alcali, dall’ammoniaca ecc., sono sompre molto più alte di quelle provocate dagli stessi stimoli prima della contrattura. Dalle ricerche di von Kries (4°) e di von Frey (*°) risulta che tanto le contrazioni « sostenute », quanto quelle addizionate, si svolgono più velocemente delle contrazioni uniche ordinarie (come si può scorgere anche in alcune delle curve qui riprodotte), onde sì verifica il fenomeno che quegli autori chiamarono « anticipazione dell’apice » (Verfrihung des Gipfels). Anche questo fenomeno dipende probabilmente, in parte, dall'influenza acce- leratrice che la prima reazione esercita sullo svolgimento della successiva. Ma nelle contrazioni solamente « sostenute » artificialmente, tale influenza non si verifica, onde essa non può essere invocata a spiegare la « antici- pazione dell'apice ». In che modo il sostenimento esterno operi tale antici- pazione, nè quegli autori dissero, nè io sono in grado di spiegare. Da tutti i miei esperimenti risulta, in accordo con le osservazioni dì Sewall (*) e di altri, che la perfetta fusiune delle due contrazioni nella « coppia » esige una frequenza dei rispettivi stimoli sempre e notevolmente maggiore di quella che è sufficiente a produrre la massima addizione, spe- cialmente quando a determinare l’addizione contribuisce la contrazione tonica, cioè nelle addizioni in periodo di decremento. Risultati analoghi a quelli sopra descritti ho ottenuto stimolando il nervo, in vece del muscolo, del preparato frenico-diaframmatico. Ma la relativamente rapida alterazione delle giunzioni neuro-muscolari mi ha ob- — 568 — bligato a sperimentare principalmente su preparati muscolari già divenuti ineccitabili per mezzo del nervo, e a tener conto, in questo lavoro, 'sola- “mente dei risultati così ottenuti. In conclusione, molti e svariati sono i fattori che determinano l'altezza e il grado di fusione delle « coppie » (e, quindi, anche dei tetani). Alcuni agiscono agevolando il fenomeno di addizione: la frequenza e l'intensità degli stimoli; la temperatura (entro certi limiti); il peso o la tensione; l'’autosostenimento; l’ influenza acceleratrice (aumentatrice) che esercita qual- cuno dei prodotti della reazione intramuscolare sulle reazioni (contrazioni) successive; la contrazione tonica, specie nell’addizione in periodo di decre- mento ecc. Altri tendono a inibirlo: la fatica (che si può evitare, più nei muscoli di animali pecilotermi, facendo esperimenti di breve durata e pro- vocando il minor numero possibile di contrazioni in muscoli freschissimi conservati nelle migliori condizioni di sopravvivenza); il fenomeno descritto da Buckmaster (!) col nome di « einleitende Zuckungen », per cui in una serie di contrazioni iniziali la seconda contrazione è meno alta della prima, la terza della seconda ecc., e che von Frey (°°) considerò come una pro- gressiva « Anpassung oder Einstellung der Muskelarbeit auf ein bestimmtes Reizintervall » ; e finalmente quella inesplicata inibizione della contrazione clonica addizionale, di cui sopra ho parlato. Poichè tanti e di natura sì svariata e sì intimamente fra loro connessi sono i fattori che entrano in azione nel fenomeno in esame, si comprende come l'optimum dell’addizione (e del tetano), per quanto riguarda l'altezza e la fusione delle contrazioni componenti, si raggiunga solamente quando i detti fattori cooperano tutti armonicamente a produrlu, e come, di conse- guenza, sia difficilissimo il formulare una legge che descriva in modo sod- disfacente, cioè senza lacune, il fenomeno dell’addizione e del tetano. Una cosa è certa, però: e cioè, che la contrazione tonica, operando l’auto- sostenimento, contribuisce moltissimo a produrre l’addizione, specie durante il periodo di decremento, vale a dire con stimoli di frequenza relativamente piccola. Così solamente si può spiegare, per es., come i muscoli, nei quali è maggiormente sviluppata la disposizione alla contrazione tonica (muscoli rossi), sono capaci di eseguire tetani altissimi e completi, anche con stimoli di frequenza relativamente piccola (1°). BIBLIOGRAFIA. ('*) H. Helmholtz, Monatsber. d. Berliner Akad. d. Wiss., 1854, pag. 328. (*) H. Kronecker und G. Stanley Hall, Die willk&rliche Muskelaction. Arch. f. (Anat. u.) Physiol., 1879, pag. 13. (*) H. Sewall, On the effect of two succeeding stimuli upon muscular contraction. Journ. of physiol. 2, pag. 164 (1879-80). (4) a, J. von Kries, Untersuchungen zur Mechanik des quergestreiften Muskels. Arch. f. (Anat. u.) Physiol., 1880, pag. 348; è, idem., Berichte d. naturforsch. Ges. zu — 569 — Freiburg i. Br. 2 (1886); c, idem., Wntersuchungen ete. Dritte Mittheilung: Ueber den zeitlichen Verlauf summirter Zuckungen. Arch. f. (Anat. u.) Physiol. 1888, pag. 537. (59) a, M. von Frey, Reizungsversuche am unbelasteben Muskel. Arch. f. (Anat. u.) Physiol. 1887, pag. 195; è, idem, Versuche zur Auflòsung der tetanischen Muskelcurve. Beitrige zur Physiologie C. Ludwig gewidmet (Leipzig, 1887); c, idem., Veler 2usam- mengesetete Muskelzuckungen. Archiv. f. (Anat. u.) Physiol., 1888, pag. 215. (6) L. Wolff, Versuche ber Doppelreizung bei isometrischer Muskelthitigkeit. Diss., Wiirzburg 1889. (7) F. Schenck, Beitrige sur Lehre von der Summation der Zuckungen. I. Pfliger's Arch. 96, pag. 399 (1903). (8) M. Ishihara, Veber Zuckungssummation bei Kròtenmuskeln und bei abgekihlten und erwdrmten Froschmuskeln. PAhiiger®s Arch. 111, pag. 567 (1906). (9) G. R. Mines, On the summation of contractions. Journ. of physiol. 46, pag. 1 (1912). [L'A. crede che i tetani, coi quali von Frey paragonava le sue contrazioni « so- stenute », non fossero massimali]. (1°) J. Ranke, Z'etanus: eine physiologische Studie. Leipzig, 1865. (!!) F. Brailsford Robertson, On the biochemical relationship between the « stair- case » phenomenon and fatigue. Bioch. Zeit. 2, pag. 287 (1908). (1°) G. Fano, Veber die Tonusschwankungen der Atrien des Herzens von « Emys europaea ». Beitr. zur Physiologie C. Ludwig gewidmet, pag. 287. Leipzig, 1887. (18) Fil. Bottazzi, Ricerche sulla musculatura cardiale dell’ « Emys europaea ». Zeit. f. allg. Physiol. 6, pag. 140 (1906). (4) G. A. Buckmaster, Veber eine neue Beziehung zwischen Zuckung und Tetanus. Arch. f. (Anat. u.) Physiol., 1886, pag. 459. (!5) Fil. Bottazzi, Ricerche sulla genesi del tetano musculare. Atti della Soc. lig. di scienze nat. e geogr. 15 (1904). [Arch. ital. de biol. 42, pag. 169 (1904)]. (16) Ved. anche: a, Chr. Bohr, Veber den Einfluss der tetanisirenden Irritamente auf Form und Gròsse der Tetanuscurve. Arch. f. (Anat. und) Physiol. 1882, pag. 233; ò, F. B. Hoffmann, Studien ber den Tetanus. [PAligers Arch. 98, pag. 186 (1902); 95, pag. 484 (1908); 103, pag. 291 (1904)]. Meccanica celeste. — Aicerche sopra le perturbazioni del satellite di Nettuno. Nota preliminare di G. ARMELLINI, presentata dal Corrispondente E. ALMANSI. 1. Il satellite di Nettuno, come è noto, fu scoperto a Starfield, presso Liverpool, nell'agosto 1847, dall'astronomo Lassell, il quale si servì di un riflettore newtoniano di m. 0,61 di apertura e di m. 6,15 di distanza focale. L'ingrandimento adoperato era da 205 a 370 volte ('). Il satellite fu successivamente osservato, nel settembre dello stesso anno, da Otto Struve a Poulkowo, e quindi da Bond a Cambridge negli Stati Uniti (?). (!) F. Arago, « Astronomie », tom. IV, pag. 526. (*) Sopra le osservazioni del Bond si vedano i « Procedings of the american Aca- demy, II, 1847-1848. — 570 — Più tardi, nel 1852, lo stesso Lassell fece a Malta una seconda serie di osservazioni, le quali servirono a completare le prime e ad assegnare in modo approssimato gli elementi dell'orbita ('). Anche Otto Struve tornò a completare le sue prime osservazioni del 1847-48, istituendone una seconda serie nel 1871-72, e più tardi una terza nel 1873-76. Abbiamo poi quattro serie di osservazioni dell'astronomo A. Marth, eseguite le prime a Malta nel 1852 e nel 1864; le altre a Washington nel 1873 e nel 1883. Gran parte di questo enorme materiale scientifico (escluse naturalmente le osservazioni posteriori al '73) fu accuratamente discusso da Simon Newcomb, in una elaborata Memoria (*) nella quale egli riporta anche alcune osser- vazioni fatte da lui stesso, a Washington, nella opposizione del 1873. Più tardi l’astronomo Hall fece altre tre serie di osservazioni nel 1875-76, nel 1881-82 e nel 1883-84 e le discusse egli stesso mettendole anche a a confronto con le antiche del Lassell e del Marth (5). 2. Giungiamo così alla classica Memoria di Hermann Struve (4), publi- cata nel 1893 negli Atti dell'Accademia imperiale di Pietroburgo, la quale segna un progresso notabilissimo nello studio della questione che ci occupa. Hermann Struve riprende in esame tutte le osservazioni già fatte dal- l'epoca della scoperta del satellite, e le discute insieme con altre quattro serie di osservazioni eseguite da lui stesso, con straordinaria diligenza, negli anni 1887-89-90-92. Lo Struve si servì, a tale scopo, del grande equatoriale di Poulkowo, operando sia col reticolo illuminato su campo oscuro, sia col reticolo oscuro su campo illuminato, ora a luce gialla, ora a luce rossa chiara, ed ora a luce rossa oscura. 3. Riferendoci all'equatore, e chiamando con N ed I il nodo ascendente e l'inclinazione dell’orbita del satellite, abbiamo la seguente (1) La prima serie delle osservazioni del Lassell è pubblicata nella Rivista « Monthly Notices of the Royal Astronomical Society », VIII e XII; la seconda, ivi, XIII. (£) Simon Newcomb, « 7'he Uranian and Neptunian systems ». Washington, Obser- vations for 1873. Appendix I. (*» Hasaph Hall, « Ordite of the satellite of Neptune », Washigton, Observations, II Appendix. (*) « Beobachtungen des Neptunstrabanten am 30-2òlligen Poulkowaer Refraktor, von Hermann Struve ». Mémoires de l'Académie impériale des sciences de S. Petersbourg. — 571 — TABELLA I. A Epoca Errore C— Oss, Errore | C — Oss, OSSERVATORI media | N piobabilat LZ | I probabile | AI Bondi gn 1848,3| 17887 = +0786|-+0,61| 14505 = =+045|+1/18 Otto Struve. . ... 1848,6| 182,39 1,00 | — 3,37 | 126,24 0,48 | — 0,06 Lassell (a Starfield) |1849,8| 176,70 0,50 | 4- 2,50 | 126,55 0,21 | — 0,57 Lassell (a Malta) . |1852,9| 179,02 0,59 | + 0,64 | 126,21 0,39 | — 0,74 Otto Struve .... |1863,6| 181,33 0,77 | — 0,09 | 124,22 0,82 | — 0,51 Nilo en 1864 5| 181,65 0,42 | — 0,27 | 124,19 0,23 |—- 0,63 S. Newcomb .... |1874,5| 183,04 0,14 | — 0,17 | 121,70 0,10 |— 021 Itis aio 1876,3| 183,47 0,33 | — 0,35 | 121,64 0,19 | — 0,03 Eliot ce 1876,5| 182,79 0,30 | + 0,36 | 121,04 0,18 | + 0,54 Halle 1882,1| 184,05 0,15 | -— 0,07 | 120,03 0,11 | + 0,62 Hallispoten pato 1883,8|] 184,67 0.21 | — 0,44 | 120,13 0,23 | 4 0,24 Hermann Struve .. |1887,6| 184,48 0,15 | + 0,32 | 119,38 0,13 | + 0,36 Hermann Struve . . |1889,0| 185,05 0,11 | — 0,05 | 119,583 0,09 | — 0,01 Hermann Struve . . |1890,6| 185,51 0.12 | — 0,27 | 119,26 0,10 | — 0,01 Hermann Struve. . |1892,6|] 185,56 0,18 | — 0,03 | 119,06 0,15 | — 0,14 Haifa 1892,0| 185,783 0,45 | — 0,28 | 118,55 0,45 | + 0,47 4. Per ciò che riguarda l’eccentricità e, e la posizione del periastro Q. î dati sono assai incerti, come almeno risultano dalla seguente TABELLA II. S Epoca Errore _ Errore OSSERVATORI media e probabile W probabile Newcomb...... 1874,5| 00088 + 0,0020| 182° == ie Halles 1876,3 | 0,0090 0,0081 | 202 14 Hone eee 1876,5 | 0,0051 0,0020 88 36 HE oTRe 1882,1 | 00034 0,0014 | 124 24 Hall scafo 1883,8 | 0,0100 0,9021 | 150 ll Hermann Struve. . | 1887,6 | 0,0050 0,00138 | 267 3 Hermann Struve . . | 1889,0 | 0,0075 0,0011| 248 ta) Hermann Struve. . | 1890,6 | 0,0072 0,0009 | 271 6 Hallscsante 1892,0 | 0,0090 0,0029 | 201 16 Hermann Struve. . | 1892,6 | 0,0088 0,0014 | 248 $8 La difficoltà e l'incertezza del calcolo della posizione del periastro Q dipende sopra tutto dal valore estremamente piccolo dell’eccentricità e del- l’orbita. — 572 — Tenendo presenti infatti i metodi della teoria dei minimi quadrati, si vede immediatamente che, in tal caso, un leggiero errore d'osservazione nella posizione del satellite, porta con sè un errore molto più grave nel calcolo di Q. 5. Mentre, come ho detto, i risultati della tabella II sono incertissimi, dalla tabella I appare evidente un moto secolare nella linea dei nodi, e una diminuzione dell'inclinazione, presso che proporzionali al tempo. Hermann Struve trova che, prendendo come origine dei tempi l’anno 1890, i due movimenti risultanti dalla tabella I, sono dati, con sufficiente appros- simazione, dalle formole : (1) (| N= 1850,15 + 0°,148 (6 — 1890) f I=119°,35 — 09,165 (£— 1890). 6. Dopo lo Struve, il Dyson eseguì molte osservazioni servendosi del grande equatoriale fotografico di 26 pollici dell'osservatorio di Greenwich, e oceultando il pianeta per mezzo di uno schermo (Month. Not. 1903-04). Egli le discusse più tardi in un importante lavoro (*), e adoperando i simboli dello Struve, giunse ai risultati seguenti per l'epoca 1903, 1: 2) N=.1879,58 I=117°,40° fe=0;0005° Hn. I \ d(rBx) A 2) Df ) (!) Si ammette implicitamente che in ogni S sia sempre 1— /rcos3 > 0. — 580 — Queste equazioni si possono semplificare, rilevando che, per l'osservazione finale del $ 1, valgono le relazioni: na = E, È : : dl ETRE D E,,= È,, cos(/-/-) + E, sen(2- (3) = =_4E, Van 03 — dig 2 = È Va 433 —['rE, +(1—/rcos9)E, V(1={rcos9f+ fr? En, = DA sen (23 #,) + Er, cos(n3 2.) = = Lat» as — (10)? 5 e (1— /rc083) VE tfrba o Vas» PICCO) alta Padano V(1— frcos 9) ) + /!27 a? (ove al posto di E si può pensare sostituito H). Tenendo conto di esse, le (3) e (4) — ove si sottragga la (3), [la (4),] moltiplicata per /"” dalla (3): [dalla (4)3] e, per semplicità, si scriva E,,E,, Ex rispettivamente al posto di Fa. E Br — si riducono alle seguenti: I asd 4770 1(2>(rHx) 3d3H.) fe Ro AI edi c gii dI | ed, 470 È DI) cd a De D- +H, , 1959H, 1 {| dHy , èHz) (9) | e dI 1— frcos9| de pe III a 2DES 47r0 cdl il ode a 1 (a, palle) L069A, 2 \ — 1—frcos9l > dI I° 1—- frcosì ‘dr pOH __169(07Es) _dE). TARE A e; II | u3H, __fsendE, 1925, Il (2E5 ,dEs ) di ET er dI 1—-/rcos9l da dali 29 | __ eds 1 (23E ti [c089E, 92, CONDI 1— fr cos9 l x IS | —frcosg dr S 3. Nell'intervallo di tempo (£,#+- 7), il valor medio del calore di Joule, sviluppantesi nel tratto di filo limitato dalla sezione normale S e — 581 — da una sezione ad essa parallela condotta alla distanza (infinitesima) dx, è dato da in modo che, posto dQ v= dn si ha: t+T A (7) =" f di { {8} + E2+- Bg} d8. t -S Come espressione del quadrato dell'intensità efficace della corrente si ha poi o? t+7 2 di, to fre (8) = Jh u( (E: 18) i Dovendo, per una ben nota formola di Schwarz, essere ({ 8.48) = os ’ temente, in qualunque altra sezione) la resistenza efficace (= e) non eff sarà mai inferiore alla resistenza ohmica (=) Le due resistenze coin- cideranno, cioè nella (9) varrà il segno =, allora e allora soltanto che, ad ogni istante, in ogni punto di S sia e al tempo stesso valga l'eguaglianza (11) (J. 3,4) =sf E dS, la quale richiede, per esser soddisfatta ('), che E, abbia lo stesso valore in tutti i punti di S (cioè sia indipendente da 7 e 9). (*) Infatti, se la (11) è verificata, certamente è possibile di soddisfare l'equazione di 2° grado in @: Ss +2 (. E, d$r+ ( E} dS=0 S S RenpnIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 74 — 582 — S 4. Vediamo di determinare tutti i casi in cui le (10) e (11) sono con- temporaneamente soddisfatte in ogni sezione normale di un tratto (non infi- nitesimo) T del nostro conduttore. Se in T è ad ogni istante: ETNIE, 1(S(rHx) 3H,) ce C- EZIO, dito paio PAD, dHy + dèHz (12) es fsen E, .. 19H, da gni ELA Ù Or 008593 ri 1— frcos 9 3H, ,dHr _ _fcos9H, _?3H, di de sai dI 1—-/rceosd dr 1— freoss 0 doi 1— freos ®?IHz _ fcos9E, edo 1— frceos? (13) | dI | IH, fsend E, | c | Derivando la (12), rispetto a #, e tenendo conto delle (13), (13); si trova ue d(Q2E, , 470,, ) 1(d//frcosd E, d ( fsendE, \} +) ri or )G a dil di a 1— frcoss) 39\1— frcos® cioè, posto E s A = Toca tempo di rilassamento, ue d | dEL E, ) — f° En ala 6$—(1—=/rcos 9)” con un (ed uno solo) valore reale di .c 0, ciò che è lo stesso, è possibile di determinare una quantità # reale e indipendente da »e #, in modo che si annulli l’integrale f (En +.) dS. /8; — 583 — Poichè E, non dipende nè da 7, nè da 4, quest’eguaglianza non potrà essere verificata altro che quando, in T, 1°) la flessione della direttrice sia sempre nulla (cioè il filo sia ci- lindrico); 2°) si abbia costantemente: d (dEn da) 2 E; 6 mil dl Ma se è /=0, posto, come allora è lecito, /" = 0 (*), dalle (12) segue anche dda Ha = > +57) =. e dalle (13) dH _ CW Se ne conclude che, supposto pure che il filo sia cilindrico, la resistenza efficace coinciderà colla resistenza ohmica (allora e allora soltanto) che sia: 13) E=|e,+ ee 5}7, ove è», e sono quantità indipendenti da #, la prima delle quali non dipende neppure da «; 29) rob H= 7, cioè H=grady+ E°, T4P_0), ove lo scalare w non dipende dal tempo e soddisfa alla condizione div grad y= divH=0. $ 5. Limitandosi fin da principio alla considerazione di campi elettro- magnetici stazionarî, si può arrivare, in modo più semplice, a determinare le condizioni sotto cui accade che la resistenza efficace coincida colla resistenza ohmica. Se il campo è stazionario, detto 4 il suo potenziale scalare, sarà pet p-=1 29 (1) Con ciò le linee (z) si riducono a rette parallele all’asse del conduttore. — 584 — onde, se sono verificate le (10), g non potrà dipendere altro che da <. In conseguenza avremo dA RE Li dY 1 Ig i a dn Ja, cos (L. nz) dE Ti Var sen (2-/=) ds’ cioè 1 PI e= : n è * 1-frcosd da Evidentemente questa eguaglianza non è compatibile colla (11) altro che quando sia /f= 0. Ciò porta immediatamente a conclusioni che coin- cidono con quelle del $ precedente, riferite al caso limite 0= 0. $ 6. Prima di terminare sarà forse opportuno richiamare l’attenzione del lettore sul fatto che la resistenza effettiva di un tratto di filo condut- tore limitato da due sezioni normali può, se il filo non è rettilineo, risul- tare inferiore alla sua resistenza ohmica (*): questo, perchè nella presente ricerca non appaia come una restrizione inutile o ingiustificata l'aver rife- rito resistenza effettiva e resistenza ohmica ad una sezione normale del filo (cioè, sostanzialmente, a un tratto di filo limitato da una sezione normale e da una sezione ad essa parallela e infinitamente prossima). Matematica. — Sulle soluzioni fondamentali delle equazioni integro-differenziali. Nota I di N. ZeILoN, presentata dal Socio V. VOLTERRA. 1. Nella sua Memoria sulle equazioni integro-differenziali il prof. Vol- terra (*) ne inizia lo studio sistematico coll’applicare il metodo di Green all'equazione tipica di genere ellittico: d u(t) +LOL de INA VI dar +] ER + E gl + ge) eo. d° ult) dY? da? dy° Il primo problema che si incontra consiste nel formare la soluzione fondamentale della (I), la quale viene calcolata, nella detta Memoria, me- (!) V. A. Signorini, Sulla propagazione di onde elettromagnetiche in un conduttore toroidale (Questi Rend., vol. XXIV, ser. 52, 1° sem.). (3) Sur les équations intégro-difféerentielles et leurs applications. Acta math., tom 35. — 585 — diante uno sviluppo in serie. In questa breve Nota mi permetto di trattare lo stesso problema con un metodo che si applica in casi assai generali d’'equa- zioni alle derivate parziali (*). Ottengo, nel caso dell'equazione (I), un’'espres- sione di forma differente da quella del Volterra, ma l'identità dei resultati si prova senza difficoltà. 2. Procedendo come se si trattasse di un'equazione differenziale a coeffi- cienti costanti, sostituiamo alla (I) la stessa equazione (11) Au=0(2.y,830) con un secondo membro, funzione arbitraria di x ,7,4,%, e cerchiamone una soluzione qualunque, scritta nella forma u= [re E e f0(2,0,1:9) F(xr —- A,y—-u,z—-vt,t)dh du dv da. Chiamiamo, per analogia, F l'integrale fondamentale dell'equazione (I). Nel metodo ricordato si sostituisce alla funzione 0 la sua rappresenta- zione mediante l'integrale multiplo del Fourier. Seguendo questa idea, poniamo: (1) e=7 RE _-%0 = — 0 Xx pi(a(0-X) +=) +y (=) da dB dy di du dv 9 e si vede che la risoluzione della (II) viene ridotta a quella dell'equazione Au = o(4 sv I: t) ei(-N) + ply—11.) +] (-v)) È di cui la soluzione sia IAC OE Troviamo: 1 (2) x(0)+ NrRRA), (ef + P°p+ rw) x(t) de = 1 == n -_—— ——— 71 n VAS 7 Ele +e) 50) equazione integrale in cui possiamo supporre il limite superiore o variabile (tipo del Volterra) o costante (tipo del Fredholm). (') Vedi Zeilon, Das Nundamentalintegral der allgemeinen linearen partiellen Differentialgleichung mit konstanten Koeffizienten, Arkiv f. Mathematick, Astronomie u. Fysik. Stocolma 1911; Sur les intégrales fondamentales des équations è caractéristique réelle de la physique mathématique, Arkiv f. Matematik ecc., Stocolma 1913. — 586 — 3. Sia D'(@,8,y|]t,) il nucleo risolvente dell'equazione (2); avremo: RE ar RO Sn +8 +79) x(eG.111:0+ [Des fr}. Del2 00; t). @ <0)= relazione che più comodamente si scrive g/ — l ©) s0= Ser D=s((, a) + D', denotando con #(f, 7) una funzione (definita mediante un’espressione di limite conveniente) soggetta alla condizione che feto, mv ;e) ded, 039). re: La soluzione della (II) si scrive adesso: f { Ci x(a,P,y;4,W,;V; t)X o Vo -/—m X gi[ala—) + pu-w+yG-M] da df ... dv e si forma evidentemente nel modo desiderato per mezzo d’un integrale fon- damentale F, la cui espressione, scrivendo # invece di. — Z ecc., sarà la parte reale di UD Eco © NPI ie o g'(ae+av+2). da-dPiay® 4. La convergenza dell’integrale (III) può discutersi come nei casi analoghi delle equazioni differenziali di tipo ellittico. Si osserva che c’è una singolarità nel punto «=$=y=0; quindi bisogna definire un valore prin- ipale evitando questa singolarità, il che può farsi in modi diversi. Suppo- niamo, per es., che la integrazione rispetto a y si eseguisca fra — co e —d, e fra--d e + co , 0 essendo una piccola quantità positiva; invece di (III), prendiamo il limite per d = 0 dell’espressione risultante. Nel caso d'un'equazione del tipo del Volterra, la convergenza è accer- tata, D essendo allora una funzione sempre finita, almeno per i valori finiti delle @,8,y. Ora l'equazione (2) fa vedere che D è funzione omogenea, — 587 — d'ordine zero, di @,8,y; quindi la funzione sotto il segno J sì comporta, per i valori grandi di @,#,y, come la funzione DEGSE SIEE o° + 8° + y?°° e la convergenza dell’integrale (III) risulta dalla convergenza dell’ integrale conosciuto: gl +0%0 +% +% ei (4£ + pU+ 62) RSI, i —__ de d 1 er" =====-e=si all É | app I pipa us Al contrario, nel caso d'un'equazione (2) del tipo del Fredholm, la D' potrà possedere dei poli reali, di modo che la definizione del valore princi- pale dovrebbe forse modificarsi. 5. L'espressione (IIl) si semplifica con un calcolo in cui interviene Ja omogeneità della funzione D. Osservando che essa è una funzione reale, la quale contiene y alla seconda potenza, abbiamo facilmente: ca ea o e (9) cos( (ax + By + y3) da dB dy; e scrivendo ay, 8y invece di a, #, troviamo: +00 +% 1 |é, sa a do JR ine a? a 36 sa) cos y(ax + 8y 4 2) d(ax) d8 dy . Ma adesso la integrazione rispetto ad «x e y si riguardi come costi- tuente un integrale doppio del Fourier, di modo che "p(— AES 6, 1|6,8) (IY) = LES) dp, + #41 integrale semplice che richiede la conoscenza del nucleo risolvente dell’e- quazione integrale (4) (A va pre eg ore pr — 588 — Matematica. — // teorema del valor medio. Nota di Guino FUBINI, presentata dal Socio C. SEGRE. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Fisica. — Un generatore invertibile per correnti continue, senza collettore nè contatti striscianti ('). Nota di 0. M. CorBINO e G. 0. TRABACCHI, presentata dal Socio P. BLASERNA. In una Nota presentata nella precedente Seduta abbiamo dimostrato che con un indotto di speciale costruzione debbono verificarsi i seguenti fatti: 1°) L’indotto deve ruotare in un campo magnetico, sviluppando una coppia costante, qualora sia attraversato da una corrente continua inviata tra gli estremi puntiformi dell'albero; e la sua rotazione non si inverte in- vertendo il campo. 2°) Tenendo in rotazione l’indotto in un campo uniforme di qual- siasi senso si svilupperà una forza elettromotrice costante che può racco- gliersi tra gli estremi dell'albero, e cioè senza nè collettore, nè contatti striscianti. 3°) Questa f. e. m. può ugualmente ottenersi tenendo fisso l’indotto in un campo ruotante, il che rende possibile ottenere da correnti polifa- siche una corrente continua, per induzione elettromagnetica, senza organi in movimento. * *x X% 1°) Per ottenere la verifica sperimentale della prima proprietà sì è proceduto nel modo seguente : Tra due punte di centro P e @ (fig. 1) può ruotare un asse costituito da due cilindretti di ottone w ed x riuniti meccanicamente (ma isolati elettrica- mente) da un manicotto di ebanite, le cui estremità sono filettate in modo da permettere di avvitarvi i due dadi, pure di ebanite, 4 e d'. Mediante questi dadi si possono fissare all'asse, ortogonalmente fra loro, due telai costituiti ciascuno nel modo seguente. Con una lamina di rame dello spessore di cm. 0,2 si è costruito un telaio rettangolare di em. 3,6 X 7,4 sostituendo però, nel centro di uno dei due lati maggiori e per un tratto lungo cm. 3, una laminetta di bismuto al rame. (*) Lavoro eseguito nell'Istituto fisico della R. Università di Roma. — 589 — I lati minori sono stati foggiati in modo (fig. 2), che i detti telai potessero essere montati sull’asse descritto, stringendoli tra i dadi di eba- nite 4 e d'; delle lamine di mica li isolavano fra loro. Due nastri di rame A e B (fig. 1), che partono dagli estremi 7 ed s delle due parti isolate dal- l'asse fanno capo ai centri N ed M' (fig. 3) dei due lati liberi più lontani delle due laminette di bismuto, mentre un altro nastro di rame riunisce i dia JE | | d da Fi. 1. Fis. 2. centri dei due lati più vicini in modo che una corrente proveniente dalla parte superiore dell’asse attraversa le due lamine tra i centri dei loro lati liberi, e torna alla parte inferiore dell'asse; il nastro si svolge in un piano normale all'asse di rotazione del sistema. In virtù di quanto fu di- mostrato nella precedente Nota tale sistema, che è rappresentato nella figura 4, è soggetto, in un campo perpendicolare al suo asse di rotazione, ad una coppia costante il cui senso è indipendente dalla direzione del campo. K infatti l'esperienza prova che sì ottiene una rotazione continua e uniforme che non muta di senso invertendo il campo. Il movimento dell'apparecchio viene fortemente frenato dalle correnti indotte che si sviluppano nei telai e che dànno luogo, come è facile rico- RenDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 75 — 590 — oa noscere, a una coppia resistente, il cui valore aumenta con la velocità di rotazione. Infatti, supposto che il sistema dei telai ruoti con velocità angolare @, ognuno di essi sarà sede di una corrente indotta proporzionale alla derivata del flusso N che lo attraversa. La f. e. m. che genera questa corrente sarà: dN ATTI mentre si ha d'altra parte, indicando con 4 l'angolo formato (fig. 5) dalla normale al telaio col campo, e con S la superficie del telaio N= SH cosd9= SH cos wi. Fia. 5. Se chiamiamo 7 la resistenza della lastrina e si trascura la resistenza della parte in rame di ciascun telaio di fronte a quella della lastrina di bismuto, avremo che l’intensità 7 della corrente indotta dal movimento sarà: | 1 i= È SH sen ml = n. SHo send. Il lavoro d4W necessario per una rotazione dd sarà perciò aw=i Tag = _ l SH sen 9, SH:sen 9.48 Di = 2 S*H? wsen? 9 db . La coppia resistente sarà dunque, in valore assoluto, dW ila JI | va S°H° sen? 4% . =b0r Una coppia Cs sarà richiesta dall'altro telaio, e il suo valore sarà evidentemente | 1 So =-=-S?H?m cost 9. s. La coppia resistente totale sarà adunque 1 C—=SHHio r e, come si vede, anche questa coppia è indipendente dalla posizione dei due telai rispetto al campo. ‘ Nelle condizioni da noi realizzate era molto intensa la coppia motrice, e altrettanto elevata quella resistente, in modo da poter ritenere trascura- bile l'ostacolo al moto derivante dagli attriti. La velocità raggiunta si può calcolare eguagliando perciò la coppia motrice da noi calcolata nella precedente Nota, e la resistente, non tenendo conto, in prima approssimazione, dell'ostacolo prodotto dalle correnti di Foucault nella massa del rame costituente i telai. Si ha così: KSH?I =! S°2H°@, e perciò KIr (Oldies S La costante K dipende, come si disse nel lavoro citato, dal momento ionico differenziale E del metallo e dalle dimensioni della laminetta. Si ha all'incirca: K— E dove a è la larghezza, ed / la lunghezza della laminetta. Si può così pre- vedere che con una lamina di un metallo avente una resistenza specifica più elevata del bismuto, e una costante E non troppo minore, la velocità raggiunta possa essere maggiore. La coppia è però massima col bismuto: nel nostro caso colla corrente di una unità elettromagnetica, e un campo di 6000 Gauss, la coppia aveva il valore rilevante di 20000 dine-centimetro, o di circa 20 grammi-centimetro. Nell’apparecchio poteva mandarsi senza inconvenienti una corrente di 3 unità e. m.; ne risultava una coppia di circa 59 grammi-centimetro. xx Come prevede la teoria, se con un motore si mette in rotazione l’in- dotto (che a tale scopo porta sull'asse una puleggia) in un campo magne- tico sia continuo, che alternativo, si ottiene una forza e. m., costante nel primo caso, pulsante nel secondo, il cui senso dipende unicamente dal senso di rotazione. Il valore della f. e. m. fu misurato in corrispondenza della velocità di tre giri al secondo impressa all'apparecchino e in un campo costante di 6000 Gauss; e fu trovata pari a millivolt 4,3. La velocità potè essere ac- cresciuta fino a raggiungere una forza e. m. di 18 millivolt ; chiudendo al- lora l'apparecchio in corto circuito su un amperometro si ottenne una cor- rente continua superiore a un decimo di ampere. * * x Per verificare la terza proprietà dell’indotto, ci siamo serviti di un campo Ferraris, ottenuto con un avvolgimento a stella, alimentato da cor- Fic. 6. renti trifasi, ed eseguito, come di solito, intorno ad un anello di lamina di ferro. Nelle cavità di detto anello poteva introdursi un indotto simile a quello descritto, ma costituito da tre anzichè da due telai, disposti a 60° l’uno dall'altro, e riempiti nella parte corrispondente al bismuto di lamine di ferro, allo scopo di intensificare il campo là dove ciò era utile (fig. 6). I telai erano isolati con mica tra loro e dalla carcassa di ferro. Un cordone di rame saldato agli estremi del nastro che riunisre i centri dei lati liberi delle lamine di bismuto, si poneva in comunicazione con un volto- metro Weston, dove si leggeva direttamente la f. e. m. costante sviluppata. La velocità di rotazione del campo era nota, essendo nota la frequenza della corrente che lo alimentava. Con una velocità del campo pari a circa 54 giri per secondo, la f. e. m. continua e costante ottenuta era di circa 5 millivolt. Questa esperienza — 594 — può rendersi molto suggestiva tenendo l’indotto a notevole distanza dall’a- nello che produce il campo rotante, e constatando la f. e. m. continua pro- dotta con un galvanometro sensibile, di bassa resistenza. Riesce così molto facile il verificare che tutto intorno all'anello, e a notevole distanza, è pos- sibile ricavare una corrente continua per induzione, e che la sua direzione si inverte quando si inverte la rotazione del campo o rovesciando la corrente in una delle fasi, ovvero avvicinandosi all’anello dall'esterno anzichè dal- l'interno di esso. Par Abbiamo già enunciato nel lavoro precedente che fenomeni analoghi, per quanto in scala più ridotta, debbono potersi ottenere ricorrendo a telai omogeni di qualunque metallo per il quale la costante E non sia troppo bassa. Effettivamente noi abbiamo potuto riprodurre la terza esperienza (per cui la costruzione dell’indotto è più agevole), ricorrendo a un sistema di telai costruiti interamente in rame. Mentre questo metallo presenta una co- 1 3 stante Hall che è appena 10000 di quella del bismuto, la costante per gli effetti elettromagnetici è solo chi della corrispondente nel bismuto. Ed in- fatti l'apparecchino ha dato i risultati che si potevano prevedere riducendo 7 1 7 ; 1 circa a 150 ciò che si era ottenuto col bismuto. Fisica. — Motore termico fondato sulla rotazione che su bisce un disco di bismuto riscaldato al centro o alla periferia, nel campo magnetico. Nota di L. Treri, presentata dal Socio V. VOLTERRA. Nel 1911, in una riunione della Società italiana di fisica (sezione. di Roma), il prof. Corbino espose e illustrò con l’esperienza la proprietà di un disco di bismuto di orientarsi nel campo magnetico quando è riscaldato al centro o alla periferia ('). Il prof. Volterra faceva notare, come disponendo opportunamente delle sorgenti calde e fredde intorno a un sistema di dischi, si dovesse realizzare un movimento continuo di rotazione in modo da co- stituire una vera e propria macchina termica avente una sorgente calda e un refrigerante. L'esperienza fu fatta dal prof. Corbino con due dischi di bismuto aventi lo stesso centro e disposti a 90° fra loro; ma il risultato fu negativo, sia perchè nei dischi si formavano delle intense correnti di (1) Rend. Acc. Lincei, 52 serie, XX, 1° sem. 1911, pag. 569. — 595 — Foucault che si opponevano al moto, dato il grande spessore dei dischi stessi, sia perchè si incontrarono delle difficoltà pel riscaldamento e raffreddamento dei dischi, sia perchè ad ogni rotazione di 90 gradi si passava per un punto morto, che il sistema rotante non riusciva a superare con l’acquistata velocità. Sono riuscito a costruire un motorino termico fondato sul precedente concetto, nel seguente modo : Un cilindro cavo di bismuto, del diametro di cm. 4,8, alto cm. 3,1 e dello spessore di cm. 0,05, è sorretto da un leggero sostegno di lamina di alluminio a forma di © che porta in C un cappelletto di agata che poggia su una punta. Il cilindro cavo di bismuto vien posto fra le espansioni po- lari piatte E E, di una grande elettrocalamita Weiss, in modo che, eccitando l'elettrocalamita, il cilindro di bismuto viene a trovarsi in un campo pres- sochè uniforme di circa 5000 unità. Se in queste condizioni si concentra nel- l'area A del cilindro un fascio di raggi provenienti da una lampada ad arco, il cilindro di bismuto si pone in rotazione nel senso degli indici di un oro- logio se si guarda dall'alto. La velocità di rotazione del cilindro aumenta sensibilmente se l’area illuminata si estende fino alla punteggiata A'. Inver- tendo il campo, non si inverte il senso di rotazione. Se invece si riscalda la zona punteggiata A' con un fascio anulare, intercettando con opportuno schermo la luce nella parte centrale di tale zona, si riesce talvolta ad otte- nere la rotazione del cilindro in senso contrario agli indici di nn orologio se si guarda dall'alto. Moti rispettivamente contrarî ai precedenti si hanno se del cilindro di bismuto si illumina l’area A, o la zona punteggiata A’. Perchè il riscaldamento nella regione illuminata avvenga più rapida- mente, e perchè sia più rapido il raffreddamento delle altre parti del ci- lindro, questo è ricoperto, internamente ed esternamente, di uno strato di nerofumo. — 596 — Se si tien presente l’esperienza del Corbino col disco di bismuto, è facile rendersi conto del funzionamento dell'apparecchio. Nell'esperienza del Corbino un disco di bismuto è sospeso fra le espansioni polari di una elet- trocalamita a 45° dalle linee di forza del campo, per mezzo di un filo me- tallico, che compensa con la sua torsione la coppia orientatrice dovuta al diamagnetismo, la quale tenderebbe a portare il disco in direzione normale alle linee di forza del campo. Inviando nel centro del disco un fascio di luce, il disco ruota disponendosi nella direzione delle linee di forza del campo: la rotazione si inverte, se del disco si scalda la periferia. La coppia è massima a 45° dalle linee di forza. Ebbene, se nel cilindro di bismuto si scalda l’area A a 45° rispetto alle linee di forza del campo, quest'area viene sollecitata a disporsi nella direzione delle linee di forza del campo, e perciò il cilindro incomincerà a ruotare nel senso degli indici di un orologio se guardato dall'alto. In A intanto si presenta una nuova zona del cilindro, la quale, riscaldata dal fascio di luce che conserva sempre la stessa dire- zione, sarà anch'essa sollecitata a muoversi nello stesso senso; e così via. La velocità di rotazione del cilindro non potrà evidentemente essere grande, a causa delle correnti di Foucault che si generano nella massa di bismuto; però gli effetti di queste si riducono abbastanza piccoli se è pic- colo lo spessore del bismuto. La sottigliezza del bismuto influisce proba- bilmente sulla velocità del cilindro, per un'altra ragione. Come ben si com- prende, tale velocità dipenderà dalla differenza di temperatura fra A e A,; e precisamente, se maggiore è questa differenza di temperatura, maggiore sarà la velocità con cui si muove il cilindro. Se le temperature in A e A, fos- sero uguali, il cilindro rimarrebbe fermo; e se la temperatura in A, fosse maggiore che non in A, il disco ruoterebbe in senso contrario. Ora, siccome le parti riscaldate si muovono da A verso A,, quanto più rapido sarà il ri- scaldamento delle regioni del cilindro che arrivano in A, e quanto più ra- pido sarà il raffreddamento di quelle che se ne allontanano, tanto più ra- pida sarà la rotazione del cilindro. La velocità di rotazione aumenta ancora, se in un modo qualunque si favorisce il raffreddamento del cilindro a par- tire dalla generatrice LM (p. es., facendo sgocciolare dell'etere lungo tale generatrice); e l’effetto sarà ancora maggiore se si riscaldano l'area A e la sua opposta, e si raffreddano la zona LM e la sua opposta. Fisica matematica. — Za verifica del principio di recipro- cità di Volterra, nel caso generale. Nota di G. Tasca Borpo- NARO, presentata dal Socio V. VOLTERRA. Questa Nota «>ra pubblicata nel prossimo fascicolo. — 597 — Fisica terrestre. — Sul terremoto del 13 gennaio 1915. Nota di GruLio GraBLOVvITZ, presentata dal socio P. BLASERNA. Il disastroso terremoto della Conca del Fucino venne percepito general- mente anche nell'isola d'Ischia col grado V della scala Mercalli e fu se- guito sino alla fine di gennaio dalla registrazione di ben 73 repliche, tosto co- municate telegraficamente al R. Ufficio centrale di meteorologia e Geodi- namica e distinte nel quadro in fine alla presente Nota. Ne ebbi argomento ad indagini che, se pure sono ben lungi dall'essere condotte a termine, bastano a fornire già ora qualche particolare degno di speciale menzione come guida agli obbiettivi da tenersi di mira nello studio di tali fenomeni che con deplorevole frequenza funestano l’Italia. Gli strumenti che permisero una sicura determinazione del primo im- pulso nell'isola d'Ischia, come da relazione inviata al prefato Ufficio, furono cinque, cioè i pendoli orizzontali con masse di 12 chilogrammi e la vasca sîsmica,in entrambe le stazioni della Grande Sentinella e del Porto d'Ischia; ed in quest'ultima il #romografo. Questo strumento, che, costruito nel 1906, si dimostrò adatto alla registrazione dei terremoti vicini o locali, è di faci- lissimo trasporto, e per la semplicità del suo maneggio potè essere rimesso quasi immediatamente in funzione, mentre gli altri ebbero la sorte di quasi tutti gli apparecchi non frenati della penisola. Il primo impulso si potè fissare a 72539125 per un punto intermedio fra le due stazioni avente per coordinate: g = 40° 44” 36” N. e 7= 18° 55’ 24” est Greenwich; nè v'è da temere errore apprezzabile nel tempo campione, basandosi questo su una linea meridiana, in cui è apprezzabile anche la fra- zione di secondo. Inoltre è già nota la pur minima correzione lungo tutta la sua escursione; ed i controlli, fatti mediante teodolite presso al solstizio in- vernale con altezze di Vega e Capra in primo verticale, diedero correzioni di frazione di secondo una volta in più ed un'altra in meno, con vicendevole quasi completa eliminazione. Pur volendo supporre che l’edificio avesse subìto un cedimento per effetto del recente terremoto, esso viene escluso dalle me- ridiane dei giorni precedenti e seguenti, perchè esse si raccordano soddisfa- centemente. Dall'ampiezza delle prime oscillazioni la provenienza media degli urti risultò da N 18° W a conferma della diretta osservazione eseguita alle /ivelle geodinamiche; quella orientata da NNE a SSW presentava oscillazioni mas- sime di 90mm= 45”, mentre l’altra, facente con essa angolo retto, aveva un'ampiezza di poco inferiore, e le oscillazioni verso NNE dell'una concomi- RenpIconNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 76 — 598 — tavano con quelle verso WNW dell'altra in guisa da dare la suddetta ri- sultante. La determinazione della distanza, se non fu ricavabile dalla prima grande. perturbazione negli apparecchi ch’erano usciti di funzione, si potè fare sulle repliche immediatamente successive e risultò, in prima approssimazione. = 160 chilometri, che con la detta direzione corrispondono ad un punto vicino a Scurcola Marsicana, cioè nella zona disastrosa. Senza volermi pronunciare definitivamente sulla posizione dell'epicentro, nè voler qui discutere la que- stione d'un secondo possibile epicentro simultaneo, mi limito a considerare nel suo complesso la zona del massimo disastro, donde irradiò la propaga- zione sismica. In tale giudizio credo che la cifra delle vittime, se anche in- sufficiente a dare un criterio esatto, ha tuttavia un significato maggiore delle stesse rovine edilizie, le quali nella loro estensione sono certamente più gravi nei luoghi in cui la popolazione non trovò nè tempo nè luogo da porsi in salvo. Forse il criterio delle vittime non calza fra un terremoto avvenuto di giorno ed un altro che avvenga di notte quando tutta la popolazione è nel sonno; ma per uno stesso terremoto in paesi aventi analoghe consuetudini, le enormi differenze accertate fra le percentuali delle vittime umane non si spiegano, nella loro generalità, se non con la diversità di violenza del fenomeno. Così osservo che di fronte ad Avezzano, al NW del Fucino, col 90°/, di vit- time si trovano all'est i comuni di Pescina con S. Benedetto, Gioja dei Marsi, Collarmele ed Ortucchio, con percentuali fra 50 e 75 °/,, mentre Celano, Ajello e Cerchia, interposti al nord dànno da 10 a 15 °/,, e molto di meno Trasacco, Luco ed altri situati al SW. Perciò, per le ulteriori deduzioni assumo un punto centrale del Fucino, cioè: g = 42° N; 4= 18° 35' E. Ad analoga conclusione pervenne il prof. Martinelli, capo della sezione geodinamica del predetto R. Ufficio centrale, in un suo pregevolissimo lavoro intitolato « Prime osservazioni sul terremoto italiano del 13 gennaio 1915 », ove, basandosi sulle numerose informazioni pervenute da ogni parte della pe- nisola fino al 27 gennaio, costruì un grafico dell'intensità graduale del feno- meno secondo la scala Mercalli. Tali informazioni si addensano naturalmente di più nella zona maggiormente danneggiata; e se si considera l’eterogeneità degli apprezzamenti a seconda delle varie fonti da cui emanano, riesce vieppiù spiccato l'accordo in cui l’elisse allungata, rappresentante il X grado, si trova rispetto alle località sopra enumerate. L'autore presenta il suo lavoro in forma preliminare, il che non lo di- spensa dall’illustrarlo, come fa egregiamente, con confronti sulla anteriore sismicità della regione e con opinioni di varii studiosi. Il prof. Agamennone a sua volta s'è già occupato della velocità di pro- pagazione della prima scossa, utilizzando a tale scopo i dati giunti a sua cognizione fino alla presentazione, alla Reale Accademia dei Lincei, della sua Nota intitolata « Il recente terremoto della Marsica e gli strumenti — 599 — sismici». Su 20 stazioni ne pone in disparte sette, per le quali, per una ragione o per l'altra, si nutre qualche sospetto, e dalle altre 13, ponendo a base le tre più vicine, trae come risultato M 7690 quale media velocità uniforme del primo impulso, e 7°" 53" 445 quale istante all'epicentro. Non discuto i criterii coi quali fece lo scarto di 7 stazioni, mentre forse, procu- randosi i rispettivi sismogrammi, sarebbe venuto a capo delle correzioni da applicarsi; mai criteri coi quali esclude Ischia e Valle di Pompei, non hanno, a mio parere, certo fondamento: egli dice che, considerata la distanza re- lativamente piccola dall’epicentro, può essere che la stessa incerta posi- zione di quest'ultimo basti a spiegare l'anomalia, tanto più che queste due ‘località si trovano dalla stessa parte. Anzitutto, un miriametro, quant'è la distanza fra Avezzano e l'epicentro da me considerato, non modificherebbe a sufficenza le velocità ricavate di 4210 e 5290; inoltre, anche Monte Cassino trovasi dalla stessa parte, cioè a SSE dell'epicentro, per cui, se la velocità fosse realmente uniforme, lo spostamento non potrebbe influire sensibilmente ; invece, basando il calcolo, pei detti due punti, sulla sola stazione di Monte Cassino, si ottiene rispettivamente M 3909 e M 4800, cioè valori ancor più bassi. L'incoerenza sta invece nell'elemento di confronto: ed è sempre questa la sorte delle stazioni più vicine a quelle che si scelgono a fungere da epi- centro, perchè il piccolo intervallo decorso, posto come divisore, per minime alterazioni crea enormi differenze nel quoziente. A questo modo le stesse tre località assunte per base (cioè: Montecassino, Rocca di Papa e Roma, si tro- vano in non lieve disaccordo, perchè le loro distanze di 64, 68 e 78, divise pei rispettivi intervalli di 6,10 e 11 secondi sull’ora assegnata all'epicentro, dànno velocità di ch. 10-7, 6-8 e 7-1; anzi, Montecassino con Rocca di Papa darebbe, con ch. 4in 488, la troppo esigua velocità di un solo chilo- metro al secondo. In cambio, se con gli stessi valori calcolati dall’A., si ricalcolano gl'istanti per le rispettive località, compresevi le rigettate Ischia e Valle di Pompei, si ottiene: h m s S h ms S h ms S Montecassino . 7 52 52 — 2 Pola .... 758 26 +1 Moncalieri. 7 58 57 +9 Rocca di Papa 52 583 +4 Padova .. 53 35 +4 Graz .... 53 59 +0 Roma ..... 52 54 +1 Trieste .. 53 96 +3 Vienna... 54 18 —2 Ischia... 53 4 +8 Treviso .. 53 37 —6 Amburgo. . 55 880 Valle di Pompei 53 5 +5 Mileto ... 58 37 +3 Granata. . . 56 4 — 20 ove le dette due stazioni non farebbero cattiva figura, nemmeno se l'anomalia sì volesse intieramente ascrivere ad errori strumentali, perchè le minori di- vergenze tra quelle escluse si aggirano intorno al mezzo minuto. Ma anche per queste non sarebbe difficile il chiarire qualche possibile equivoco ; p. es.. per Siena (Osservanza), il dato direttamente comunicatomi è 7° 53% 525, anzichè 7° 53" 05; per Catania basta la differenza di parallelo con Avezzano a dare — 600 — 42°2" — 37° 30' = 4° 32" = km. 503 eccedenti di 3 km. i500 che l’A. prende per base, mentre la distanza vera, tenuto conto della differenza di longitudine, è di km. 523. Inoltre, il porre per base fondamentale di tutto il conteggio la media di tre dati con le incertezze ammesse dall'A., equivale a scaricare sulle sta- zioni contigue gli errori delle prime, per cui più corretto mi sembra assu- mere come incognite l’ora epicentrale (a) e la velocità (y) e, pur ammettendo la velocità uniforme, dare ugual peso a tutti i dati attendibili, trattandoli col metodo dei minimi quadrati. Posta l'equazione di condizione «x + dy = £, e riservandomi di assumere ulteriori informazioni sui dati contestati dall’A., ho utilizzato intanto pel calcolo quelli da lui riconosciuti attendibili, aggiun-* gendone altri avuti dalla cortesia dei dirigenti delle singole stazioni, ai quali porgo i miei ringraziamenti. Così procedendo, ho ricavato: A) x = 7520495822; y=0.1193351; e su questa base ho ricostruito i valori che si trovano nella colonna A del- l'annesso quadro, coi rispettivi residui. Escludendo la stazione più lontana, Granata, per le ragioni che dirò più oltre, si ottiene: B) x = 7520475284; y= 0,1269923; ed i valori che se ne ricavano sono nella colonna B. Dai valori di y si ricavano le velocità di km. 8:379 per A_e 7.875 per B; tuttavia gl'istanti ricalcolati non differiscono di più d’un secondo fra la distanza di 139 km. (Napoli) e quella di 534 (Mineo); se per le più prossime la differenza è nulla o lieve, per le più lontane va rapidamente crescendo ed accenna all'incremento della velocità. Questa, per comodità di conteggio si potrà considerare uniforme per brevi distanze, ed io tale l'ho ritenuta in tutte le considerazioni che precedono; ma tale concetto va usato con parsimonia e sotto determinati punti di vista, non mai come legge pre- cisa, che valga ad escludere dalla discussione dati che, appunto per le loro anomalie (quando non siano eccessive), possono guidare alla risoluzione di qualche problema. In oggi è bene accertato che il primo impulso, dopo 13 minuti incirca, varca il cerchio massimo terrestre avente per polo l'epicentro, e, dopo altri 9 minuti, emerge agli antipodi; ciò dà rispettivamente velocità medie super- ficiali di 14 km., e 18 km. mentre la velocità iniziale non è che di 8 km. nei primi mille. La detta velocità è danque rappresentabile con una curva che sul principio può identificarsi con la retta, analogamente al rapporto dell'arco con la corda, ma, a stretto rigore matematico, non è tale; e nel caso attuale ne troviamo già nel dato di Granata un chiaro indizio, che stazioni più lon- tane accentueranno viemmaggiormente. — 601 — IL ° a == VIENNA 2#]05 TS 21 CI ERANO Ci ee 0 anna ia VÀ : Les Se 5° za “gl DELLE Di pt dA si SE SI | gi Da «| ISOCRONOSISTE i a D- CM I 2 o A TA TA nl Be DEL 2 DOMODOSSOLA a Qi |A 03 . >| PRIMO | / oe dg Il VA è Ei rd SAL OY TREVISO "IE i IMPULSO |/ va Da” 5 PADOVA” o i Da [a s +2 ta NEL I oMONCALIERI 7 D Ho - 3 6°, FERRARA. _- Pi 74 DA ESITA TER REMOTO | / £ 4 7 /__ CHIAVARI 0“ 0BOLOGNA A 7 +6 7 +6 DEL | / 7 % 67 ola 9 % v 1 DE 7 / n ù i 4 A vel elit, S XI 4 / 127 e” Di / V 2a +34 Oggervanza G E N NA [| O / 4 4 lo] SIENAL 23 Università 3; / 7 > RI / lo / / DARÒ -_ né 4 T) l 445 / / a î i ri o ; | I VARI: / ol ° I / I dh) l | \ 4 pomai © \ oe NATEUCINONEN i : i o AYBOCCA DI PAPA \ i Ì I N INI SIE< È, } i i ; a “MONTECASSINO; ; 7 = I \ SESIA L e D, P, \ CSO NAFOLI / N "i ab ee N È LLE di POMPEI N SOSL Si ina DA ù i gi ora CATANIA +27 o o MINEO -24 — 602 — Ma se l'accrescimento della velocità è già tanto palese per grandi di- stanze, su cui i piccoli errori hanno un'influenza trascurabile, il problema pare più complesso nella zona epicentrale ove, sfuggendo il vero istante per mancanza di strumenti o per distruzione dei medesimi, bastano incertezze di qualche secondo a fornirci velocità eccessivamente alte od estremamente ridotte, mentre e queste e quelle possono avere la loro ragione naturale, in guisa che l'istante calcolato con l'ipotesi della velocità uniforme ha un si- gnificato più rappresentativo che reale. Infine, fatta astrazione dall'accrescimento in questione, è tuttavia di- seutibile se la velocità sia la medesima in ogni direzione, non dovendosi dimenticare che la propagazione *del moto sismico avviene attraverso solidi di varia natura, compattezza, elasticità ecc. L'urto che giunge per primo in una determinata località ha certamente seguito la via di più rapida propagazione, che può essere anche molto tor- tuosa; e da ciò può venir non poco deformata la figura di quel cerchio di geometrica precisione che viene presupposto da una velocità che sia la stessa in ogni direzione. Man mano che la propagazione guadagna distanza, gli urti che giungono per primi hanno trovato la somma delle vie più sollecite, e tale somma su grandi distanze potrà anche pareggiarsi, o quasi, in qualunque direzione; ma su piccole distanze conviene tenere il debito conto della varia costituzione geologica, non già per discutere a prior: il problema della velocità in base alle condizioni note della superficie, ma semplicemente per assumere un prin- cipio più consono allo scopo, quello del tracciamento grafico, quale è in uso per tutti i fenomeni meteorologici e magnetici e nella stessa geodinamica per le zone isosismiche. A titolo di semplice saggio, annetto un grafico in cui, oltre alle linee che chiamerò zsocronosiste, ho indicato in cifre i secondi d'anticipazione (—) o di ritardo (+) rispetto agl’istanti calcolati sulla base della propagazione a velocità uniforme; tali residui, necessariamente, armo- nizzano, in generale, con la forma grossolanamente elittica delle isocronosiste. Ciò che ho detto per la velocità può valere per la direzione apparente della provenienza degli impulsi. La direzione ricavata di N 18° W è un pò più occidendale di Fucino: ed anzi, volendo sottilizzare, presenta fra le due sta- zioni di quest'isola un divario di 5° che va a convergere verso un punto situato nel mare presso alle foci del Volturno. Talchè credo che anche col continuo perfezionarsi dei mezzi di registrazione non sì perverrà ad ottenere direttamente da questi la precisione che si presuppone ma, per avvicinarvisi, converrà studiare a fondo le anomalie. Il grafico da me abbozzato rivela estese lacune, mentre, per raggiungere meglio gl'intenti prefissi, occorrerebbe anzitutto rendere confrontabili i dati delle varie stazioni, coi seguenti provvedimenti: 1) con una maggiore uniformità o paragonabilità dei mezzi e metodi d'osservazione; — 603 — 2) con la sicurezza del funzionamento degli apparecchi ; 3) con unità di criterio nell'analisi dei sismogrammi; 4) con la perfetta cognizione del tempo-campione. Quest'ultimo punto, ch'è di capitale importanza, sarebbe completamente risoluto mediante la telegrafia afila, come già si praticava a Taranto, Monte- cassino e Firenze; tale mezzo, che non richiede le cognizioni astronomiche ne- cessarie per trattare uno strumento dei passaggi 0, quanto meno, per tracciare: un’economica meridiana, sarebbe accessibile a tutti ed avrebbe il grandissimo, infallibile vantaggio della perfetta simultaneità in tutte le stazioni, mentre con- fronti meno diretti di quelli ora accennati traggono seco non poche incertezze. Rispetto agli apparecchi è deplorevole che al vantaggio di registrare ogni minimo tremito del suolo vada inesorabilmente congiunto l'inconveniente del loro guastarsi o dello svisamento delle registrazioni per opera dei freni. Per tale ragione il prof. Agamennone ritiene che non sia prudente, ai fini degli studii sismici, di fondare osservatorii di prim'ordine, e destinati anche ai terremoti mondiali, in regioni di alta sismicità; ma in tal caso, con la frequenza che purtroppo i terremoti hanno dovunque in Italia, si dovrebbe rinunziare al possesso d'osservatorii di prim'ordine, mentre questi sono tanto utili sotto molteplici aspetti ed alla stessa sismometria, e tali rimarrebbero anche se si disinteressassero dei terremoti lontani. Nulla impedisce invece che, accanto al sismografo per terremoti lontani, vene siano altri adatti alla registrazione di forti terremoti vicini o locali senza il pericolo che falliscano, almeno fino a tanto che le diligenti ricerche ed i tentativi di chi studia esclu- sivamente il problema sismometrico non l'abbiano risolto con un apparecchio atto a registrare fedelmente ed indistintamente qualsiasi forma ed ampiezza di moto sismico. ELENCO delle registrazioni avute nell'isola d'Ischia dopo la grande perturbazione delle 7"53"135 del 13 gennaio 1915, a tutto il mese stesso, in corri- spandenza coi terremoti della Marsica. Di ISTANTE ii ISTANTE Di ISTANTE Dìî ISTANTE Dì ISTANTE bh ms h ms h, mis h ms h ms IE: 20) 13 17 19.7 (1)| 14 12 54.2 ii CERzoo) 20 8 29.0 8 28.4 17 44.6 14 16.7 bi60208 20 3.0 8 34.2 21 20.2 (1) 14 26.5 69.4 QUEI, 8 59.9 QQ 15 35.9 8 56.0 13 29.8 (4) 9 87 23 4.9 17 34.0 13 39 14 30.3 9 23.7 DIRI 17 55.8 (5) 14 19 22002100115:9:(2) 9 30.6 23 25.2 19 40.6 21 42.1 Si e 2a 935.2 .|14 2109 DITRMNOEO DOMEZAI | 9300 9 40.5 2 1120) 21217 I ei | AD 10 91 2805012 21 24.5 533 AUTO) 17 498 1093512 251.3 (2)| 15 0 94 N ZO AC6 24 447.0 10 56.0 Deo TReLo2 SOA O 25. 7 460 11 20.1 (1) 5 30.5 2 15.8 14 58.5 28 18 18.4 (2) 16 635 8 17.7 (6) OEA450] 10 Dblzai | 17 5.0(1) 9 16.0 4 58.0 21 17.6 Le cifre tra parentesi indicano l’ampiezza massima in centimetri di registrazione al centuplo; la mancanza d’indicazione esprime ampiezze inferiori ad un centimetro. — 604 STAZIONE | Istante dato uso A | B heemes LV |hm s Montecassino |7 52 50 Ch. 57 752 57— 775254— 4 Rocca di Papa. . 52.54 + 8% (n 77] 5259— dl 5257— 3 Roma 52 54-42) » 89| 53 0 5| 58 0— 5 Napoli, Vomero . 53 7 » 139 | 58:64 0153066 2 Ischia . IUERRE 53 12 » 148) 58 7+ 5) 58 646 Valle di Pompei . . 53 10 w. :159.| (58.194 53682582 Siena, Osservanza *. . . | 5340 » 238. 53 17+ 28 58174 28 Siena, Università * . . 58 52 » 234 53 18+ 34) 53 17+ 35 Bolt 58 27 321 | 5828— ll 5329— 2 Bologna enna 58 35 » 328 53 20+ 6) 53 29+ 6 do { Sismogr. Wiechert* | 53 11 rear sgonao 20 5g gl7t 20 è » Vicentini. | 53 32 | ] + 1 Ferrara... 53 30+155| » 349 53 32— 2 5332— 2 Venezia *. . 55 37 » 390 53 36+121| 53 87-+120 Padova . . 53 39 n 896| 59874 2) 58.88-P.1 Trieste . . 53 39 » 407| 5839 0) 5839 0 Treviso . . 3851 » 416 53 40— 9) 59 40— 9 Chiavari . 53 47 | 427 | 53414 6 58 42+ 5 Mileto . 538 40 | 4990) 5841 — 1 5942290 Sald* . 53 20 » 466| 53 46— 26) 53 I7— 27 Catania * 54 18 » 518| 53 51+ 27) 52 52-+ 26 Mineo * 53 30 » 584| 53 54— 24 53 55— 25 Carloforte * 54 37 540 | 53 54-+ 43) 53 56+ 41 Moncalieri. . . 54 7 » 578| 538 59+ 8 54 14 6 Graz. . | 58 59 » 587 BA 0 52M: Domodossola * | 54 30 | » 618 54 44 26) 54 64 24 Vienna . . | 54 16 n 720) 54 17— 1| 5420— 4 Potsdam . 55 15 » 1155) 55 8+ 7] 55 44.1 Amburgo . . 55 33 | cn 181 55027-- 6551842286 Granata 55 44 » 1576 55 59. 15) 56087323 * Stazioni ommesse nel calcolo delle formole. — 605 — Chimica. — L’acido cromisalicilico e î suoi derivati ammo- niacali (*). Nota di G. A. BARBIERI, presentata dal Socio G. Cra- MICIAN (°). In una Nota (*) precedente ho cercato d'interpretare la costituzione di alcuni salicilati complessi, avvicinandola a quella dei cromiossalati, cioè attri buendo all’acido salicilico lo stesso valore di coordinazione dell'acido os- salico. n / 0.CH, M'=C7,P{, VO Vo, 0.C0 M.c ( Ra R= metallo alcalino Cr È | Rs MOPRCOMI/E o radicale ammonico 0-C0/; salicilati complessi cromiossalati x x Ho trovato una conferma di tale interpretazione nello studio dei com- posti descritti nella presente Nota. Facendo reagire, in determinate condizioni, l'allume di cromo con un salicilato alcalino, ho ottenuto una sostanza polverosa giallastra, insolubile nell'acqua e nei comuni solventi organici, solubile nelle soluzioni degli idrati e dei carbonati alcalini, nell'ammoniaca e nella piridina. I risultati che diede all'analisi concordano con la formula 0G, H, cr oc0 N 00, E, COOH . 3H, 0 Si tratterebbe dunque di un acido cromisalicilico corrispondente ai ferri- 06. H, salicilati Fe — 0C0 descritti recentemente da R. F. Weinland oc, H, COR e A. Herz (‘). Speciale interesse presentano i derivati ammoniacali dell'acido cromi- salicilico. Dalle soluzioni di questo acido nell'ammoniaca concentrata si separa lentamente una sostanza roseo-violetta, cristallizzata in aghi finissimi micro- (*) Lavoro eseguito nel laboratoriò di chimica generale dell’Università di Ferrara. (*) Rend. Accad. Lincei, XXIV, 1° sem., 435. (3) Rend. Accad. Lincei XXIII, (1914), 2° sem., 408. (4) Liebigs Ann. 400, 219 (1913). RenpICcONTI» 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. Tiri — 606 — seopici, che all'analisi risulta come il prodotto della combinazione dell'acido eromisalicilico con tre molecole di ammoniaca : 0C, H, | Cre=060 \oc, H, COOH . 3NH, .3H, 0 Questo composto deve contenere una sola molecola di ammoniaca allo stato ammonico, perchè, trattata in soluzione con cloruro di potassio, clo- vuro di sodio, nitrato di argento, dà i seguenti sali cristallizzati che diffe- riscono dalla sostanza di partenza, oltre che per l’acqua di cristallizzazione, anche per la sostituzione di un gruppo NH, con un atomo di potassio o di sodio o di argento: 006 Hi OCO X\00;H,C00K .2NH;.5H,0 Cr 00, H, Cr — 000 \ oc, H, COONa . 2NH, . 6H, 0 / 006 BL, Cr — OC0 Esiste dunque in tutti questi derivati ammoniacali un complesso for- mato da un atomo di cromo, dus molecole di acido salicilico e due mole- cole di ammoniaca, che rimane inalterato nelle reazioni di doppio scambio. Ciò è spiegabile, colla teoria della coordinazione, ammettendo che due mo- lecole di ammoniaca siano legate all'atomo di cromo mediante valenze se- condarie, e attribuendo a detti composti la formula generale : DOCH, | OC0 Zi i Cr00 E C00.| RS “NE; / Ma siccome il numero di coordinazione del cromo è sei, e il cromo dà di regola composti coordinativamente saturi, e d'altra parte il sale di ar- gento è anidro e quindi l’acqua contenuta negli altri sali non fa parte del- — 607 — l'anione complesso, è forza ammettere che una valenza secondaria leghi l'atomo di cromo al carbossile impegnato col metallo alcalino, com'è espresso dalla formula 206 Hi | 000 Cr-0C H, | R. “x 000 I derivati ammoniacali dell'acido cromisalicilico appartengono quindi al tipo dei tetracidodiamminosali, e, secondo la nomenclatura proposta da A. Werner, sono da chiamarsi disalicilato-diammin-cromiati. Essi corrispondono perfet- tamente ai diossalo-diammin-cromiati [ce pei ci R descritti da Clève (') e da Pfeiffer e Basci (*), e ai diossalo-diammin-cobaltiati | 00 0N7: 204) ve | R descritti da Sorensen (5) Da tale analogia viene confermata l'equivalenza, dal punto di vista della coordinazione, dell'acido salicilico con l'acido ossalico. Trattando i disalicilato-diammin-cromiati con acidi diluiti, si mette in CSR | (Or<0 ) . Di. ag ibertà l’acido | Ci C00/. | H insolubile in acqua. Lo stesso acido (NH3)a può venir ottenuto anche scaldando a 100° il suo sale di ammonio. A questa temperatura, viene eliminata non soltanto tutta l'acqua di cristallizzazione, ma anche, per dissociazione termica, l’ammoniaca contenuta allo stato ammonico. Quanto alla costituzione della sostanza dalla quale, con ammoniaca, si preparano ì disalicilato-diammin-cromiati e che in questa Nota chiamo acido eromisalicilico per brevità e in considerazione della sua solubilità nei liquidi alcalini, non mi è ancora possibile d’ indicarla con sicurezza. I risultati ana- litici concordano tanto con la formula 0 C.H, I (ESCO , No c,H,C00H . 3H,0 (*) K. Vet. Akad. Handl. 6, n. +, pag. 24 (1865). (*) Liebigs. Ann. 3464 (1906). (3) Gmelin-Kraut Friedheim Handb., Amore. Ch. V 1509: — 608 — quanto con la formula OH (0:8.<600), de a | È ca (-Ci0-)n-E n 005: formazione di piccole quantità di un idrocarburo — non identificato — ed in un caso formazione, all’anodo, di una piccola quantità di acido mellitico. Si credette opportuno di rifare alcune piove su scala un po’ più vasta e variando un poco le condizioni dell'esperienza. Nello stesso labora- torio. con l’aiuto diligente del laureando G. B. Fasoli, preparai dunque una rilevante quantità dell'acido in questione, seguendo le prescrizioni di Ad. (') Lavoro eseguito nell'Istituto di chimica generale della R. Università di Padova. (*) Questi Rend, XIII. 2.112; XV. 1.574; XVI. 2.79 e 139; XVII. 2. 331; Gazz. chim. it. XXXIV. 2. 504; XXXVII. 2. 338 e 886; XXXIX. I. 46. — 612 — Bayer ('), e curando soprattutto la purificazione del prodotto, la cui facile alterabilità può giustificare il sospetto di parziali trasformazioni. Elettrolisi senza sètto poroso di una soluzione al 25 °/, di sale bipo- tassico, eseguita con una corrente della densità 50 amp. X dm.*; catodo di rete di platino cilindrica, e anodo interno di spirale di platino di 1 mm. di diametro. Voltaggio ai morsetti 4,8 — 3,8 volts. L'esperienza fu condotta in modo che il termometro immerso nell'interno della spirale anodica non segnasse più di 17° C. I gas che si svolgevano furono raccolti, al tubo d'uscita della cellula elettrolitica, direttamente con la buvetta di Hempel, o conservati in piccoli gazometri su acqua salata. L'elettrolisi fu protratta per 16,6 ore (circa 1000 minuti), cioè sino alla scomparsa dell’ossido di carbonio dalla miscela gasosa. La seguente ta- bella riassume chiaramente l'andamento della scomposizione : d= Adm3 | 23 | 25 50 | 50 | 50 | 50 | 50 | 50 50 | 50 U 10° | 280" | 4007 | 525 | 585” | 6007 | 635" | 720” | 750 |1000" Idroc. n. sat. 9/0. + | 0,07] (2054726901 0158] 0:00L01 010) 00,001 2 co, n... .|124|125|131| 86| 81| 80| 7.6] 64| 65) — co ». . 0. .|280| 48| 48/28.9|26.1[26.1| 16| 05] o.0l — 0, ». .. .| 00|16.2|187| 00| oòd| 0.0|258|27.1|265) — ToraLe °/ . . .|404|36.0|34.5|38.0|342|841|35.0|340|330| — La differenza a 100, non sempre determinata, idrogeno; nessun idro- carburo saturo. L'anidride carbonica, dopo le prime ore di elettrolisi, si svolge in quan- tità pressochè costante. L’ossido di carbonio, che si presenta da principio in grandi quantità, diminuisce rapidamente, per aumentare in su l'ottava ora, precipitando, dopo la decima, rapidamente a zero. Con le variazioni nel contenuto in ossido di carbonio, sì accordano le variazioni inverse nelle quantità di ossigeno svolto, così che la somma di questi due componenti si mantiene quasi costante. La differenza tra questo andamento, diremo così, saltuario, e quello re- golare osservato da A. Borgo, è dovuta probabilmente al fatto che, contra- riamente a quanto egli aveva fatto, nelle nostre esperienze evitammo di proposito l'agitazione del liquido. Si nota poi la formazione di una piccola quantità di idrocarburo non saturo, assorbibile dall'acqua di bromo, come dall’acido solforico fumante, (*) Ber. d. d. chem. Ges. /8, pagg. 677 e 2269. — 613 — la cui comparsa (nelle prime ore) pare in rapporto con la diminuzione del- l’ossido di carbonio. Identificazione dell’idrocarburo non saturo. — Tutta la miscela gu- sosa raccolta nei gasometri (circa 17 litri), fu fatta passare a traverso una serie di apparecchini contenenti i reattivi adatti all'assorbimento dei componenti CO,, 0, CO; e il gas rimanente veniva condotto in una solu- zione ammoniacale di cloruro rameoso di recente preparazione. Si iniziò tosto la formazione di un precipitato leggero rosso-sangue, che raccolto, lavato ed essiccato (durante l’'essiccamento volge al nero), fu sottoposto ad alcune prove. Una piccola quantità fu messa su una lamina metal- lica, a pochi centimetri da una eguale quantità di acetiluro di rame ottenuto per azione di acetilene puro sulla stessa soluzione rameosa, e si procedette al riscaldamento lento ed eguale della lamina metallica mediante una lampada Bunsen, la cui fiammella ne lambiva una estremità egualmente lontana dai due campioncini. Raggiunta la temperatura di esplosione, si videro i due prodotti esplodere nello stesso istante. La prova fu ripetuta più volte, con uguale risultato: ed io la ritengo altrettanto concludente quanto una determinazione quantitativa dei componenti. Si forma dunque dell’acelz/eze, per quanto in piccola quantità. Restava da sapersi dove e in seguito a quale reazione. Eseguimmo una e/lettrolisi in cellala, con gli spazii divisi da parete porosa, al fine di poter raccogliere ed esaminare separatamente gas anodici e gas catodici (d = 50 amp. dm.*; tensione ai morsetti 7 — 5 volts ; temper. del liquido anodico 20-25°). La celluta elettrolitica scelta per l’esperienza era necessariamente maggiore per far posto al cilindro di porcellana porosa, e i due spazî ben divisi e muniti di un tubo di uscita ciascuno. Il gas pro- veniente dall'anodo, dopo essere stato guidato a traverso apparecchini per l'assorbimento della CO., dell'O, e del CO, doveva attraversare una so- luzione ammoniacale di cloruro rameoso. 1 gas catodici venivano senz'altro condotti sopra una soluzione di questo reattivo. Si potè constatare che lo acetilene proviene dall'anodo, perchè solo i gas anodici provocarono una precipitazione di acetiluro di rame, Questo composto, lavato ed essiccato, fu riconosciuto con la prova di confronto dianzi descritta. Quanto all'andamento generale dell’elettrolisi, esso si può considerare analogo a quello precedentemente descritto. L'analisi dei gas anodici dà: dopo '/s ora: CO, 60 °/,; idr. n. sat. 1,1 °/, 0: 30%; CO 9,0 °/, circa » 9 ore: ». 45 » ” » 00» » 0,0» » 55 » >» » 12 » quasi esclusivamente ossigeno. Interessante è il fatto che, dopo un certo numero di ore, l’acido aceti- lenbicarbonico è completamente scomparso, e la elettrolisi va a carico del- RenpIcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 78 — 614 — l'idrato alcalino rimasto e del carbonato formatosi durante il processo di decomposizione. i Abbiamo cercato anche l'acido mellitico, sospendendo la elettrolisi del sale qualche ora dopo l’inizio; ma non ci è mai stato possibile di sve- larne la presenza. Potemmo isolare, sì, piccole quantità di acido fumarico: ma acido mellitico, mai. Elettrolisi dell'acido acetilenbicarbonico puro in soluzione al 10 °/;. Abbiamo adoperato per questa prova un prodotto ulteriormente purificato, allo scopo soprattutto di stabilire la provenienza dell'acetilene:d = 50 amp. X dm.*; tensione 2,5 volts temper. 7° circa. Senza parete porosa e senza agitazione. ll liquido perde rapidamente la leggerissima colorazione ambracea, per di- ventare perfettamente e permanentemente incoloro. L'analisi del gas misto diede: dopo 1 ora: CO» 10,0 °/0; idroc. n. sat. tracce; 0, 22,2 °/0; CO 4,0 °/ » 4dore: » 8,2 » ” ” ” 9 94:8 Sn it 02 a Il gas, eliminati come il solito i componenti ossigenati, fu condotto a traverso la soluzione ammoniacale di cloruro rameoso ; solo dopo lungo tempo sì potè notare la formazione di una piccolissima quantità di acetiluro. Sulla formazione dell'acetilene si possono fare ipotesi diverse. La più sem- plice e verosimile è che esso provenga dalla decomposizione anodica di. pic- cole quantità di acido fumarico (o maleico), originatasi durante la prepara- zione dell'acido acetilenbicarbonico stesso, escluso un processo di riduzione elettrolitica. Data la formazione, costantemente verificata, di acido fumarico nella preparazione di acido acetilenbicarbonico, sì capisce come ne sia estrema- mente difficile l'allontanamento completo, tanto più che vorosimilmente essi formeranno soluzioni solide (*). Abbiamo però notato che,in seguito ad una accurata purificazione dell'acido acetilenbicarbonico, la quantità di acetilene svoltosi all’anodo diminuisce fin quasi a scomparire. Io credo, perciò, che si debba escludere un’origine diretta di questo idrocarburo dall'acido aceti- lenbicarbonico. La scomposizione elettrolitica dell'acido acetilenbicarbonico puro e del suo sale potassico apparisce completa, nelle condizioni descritte, con sepa- zione dei due gruppi COO carbossilici e con ossidazione a CO del carbonio centrale della molecola. Il processo di ossidazione della molecola organica procede con una certa velocità (specialmente se si evita l'agitazione, che impedisce l'accumulo dell'acido intorno all'anodo), per la considerevole con- duttività dell'acido e del suo sale e per la conseguente azione dell'ossigeno nascente su atomi di carbonio non saturi e dotati quindi di una forte rea- gibilità. (1) Cfr. G. Bruni, Peste Lòsungen u. Isomorphismus, Lepzig, 1908, pagg, 60 e 72-73. — 615 — Una tale ossidazione è, d'altra parte, più comprensibile che non una sepa- razione di carbonato libero, la quale, verosimilmente, richiederebbe la concor- renza di un numero grande di resti (- C : C.) — ammesso che possa esi- stere, durante un tempo finito, questo aggruppamento libero — perchè questa separazione, che a prima giunta può sembrare della massima semplicità, di- pende forse da una reazione di grado superiore. Non abbiamo mai potuto constatare la formazione di qualsiasi sospen- sione incolora, o colorata, che potesse far nascere il sospetto della presenza di carbone colloidale; nessun effetto Tyndall si manifestò mai nel liquido prelevato dallo spazio anodico, e negative furono anche le ricerche all’ultra- microscopio a fessura (Zsigmondy-Siedentopf). La spiegazione dell'effetto osservato da A. Borgo si può forse trovare nella formazione di corpi complessi contenenti il gruppo carbonilico (ana- loghi ai corpi umici), che la forte agitazione del liquido usata dall'A. avrebbe strappato alla ulteriore ossidazione totale. Per quanto riguarda l'acido mellitico, riscontrato una volta dallo stesso operatore, nessuna traccia nelle nostre esperienze. È quindi probabile che la piccola quantità di questo acido trovata da Borgo fosse già presente nel- l'acido acetilenbicarbonico da lui impiegato, formatosi verosimilmente per polimerizzazione di questo durante la sua preparazione. Ricordiamo, a questo proposito, che l'acido propiolico dà, per polimierizzazione alla luce, l'acido trimesinico. Meglio potrebbe pensarsi — come conseguenza di una dissociazione binaria — alla sintesi anodica di acidi contenenti più volte il triplo le- game (diacetilenbicarbonico...); si tratterebbe però sempre di corpi assai poco stabili, sui quali l'ossigeno anodico avrebbe facile presa. In ultima analisi, la decomposizione elettrolitica dell'acido acetilenbi- carbonico si presenta come molto semplice e chiara, più chiara forse di quante sono state studiate finora in questo campo, e quasi paragonabile a quella dell'acido ossalico. Ho in corso esperienze sull’elettrolisi dell'acido feni/propiolico. — 616 — Chimica-fisica. — Cunduttività elettrica di miscele di sali fusi (*). Nota di U. SANDONNINI, presentata dal Socio Giacomo CIAMICIAN. La conduttività elettriche di molti sali fusi venne accuratamente de- terminata specialmente da Kohlrausch (?), Lorenz (*), Arndt (4), Tu- bandt (’), Goodwin (5), ed Aten (?). Per quanto riguarda la conduttività di miscele di sali fusi, all’intuori di ricerche isolate di Kohlrausch, i primi studii abbastanza estesi si debbono a Bouty (5), a Foussereau (°), e Poincaré ('°), e secondo quest'ultimo autore i valori delle conduttività delle miscele di sali fusi sarebbero calcolabili con la regola dei miscuglì. In seguito, Lorenz e Kalmus (loc. cit.) trovarono che le conduttività delle miscele fuse di cloruro di potassio e di cloruro di piombo sono di molto inferiori a quelle calcolate, e tali deviazioni attribuirono alla formazione di complessi. Goodwin e Mailey (?'), in una assai accurata serie di ri- cerche, studiarono le proprietà chimico-fisiche di alcune miscele di sali fusi; come tipo scelsero quelle di nitrato sodico e nitrato potassico che fondono a temperatura relativamente bassa e nelle quali è da escludere la formazione di complessi tra i due sali, e trovarono che le conduttività sono sempre inferiori a quelle calcolate: non si avrebbe quindi una con- ferma della Poincaré. Inoltre essi trovarono che la fluidità di tali miscele è superiore a quella calcolata: questo dovrebbe quindi produrre un au- mento di mobilità ioniche e, conseguentemente, di conduttività, anzichè una diminuzione; e pertanto la diminuzione osservata venne attribuita a retro- cessione di ionizzazione per la presenza di uno ione in comune. Grazie alle larghissime applicazioni che ha avuto negli ultimi anni l’analisi termica, siamo ora in grado di conoscere esattamente il com- (') Lavoro eseguito nel Laboratorio di chimica generale della R. Università di Pa- dova, diretto dal prof. G. Bruni. (8) Wied. Ann. 77, 642 (1882). (*) Elektrochemie geschmolzener Salze (1909). (*) Zeit. f. Elektroch., /2, 337 (1906); /4, 662-665 (1907). Ber. d. d. chem. Gesellsch, (1907). (5) Zeit. f. phys. Chem. 87, 513 (1914). (6) Phys. Rewiew, 25, 469 (1907); 26, 28 (1908). (*) Zeit. f. phys. Chem. 66, 641 (1909); 73, 574, 624 (1910); 78, 1(1912). (8) Ann. chim. et phys. [6] 5, 24, pag. 317 (1885). (9) Ann. chim. et phys. [6] 17, 24, pag. 52 (1899). (1°) Ann. chim, et phys. [6] 27, 289 (1890). (‘) Phys. Rewiew, 26, 28 (1908). 2937 — 617 — portamento di molte coppie di sali doppî. Con la guida di questi dati ho intrapreso una serie sistematica di ricerche per vedere se dalle determina- zioni di conduttività elettrica si possono avere dati caratteristici dei varii casi. Inoltre ho esteso le mie ricerche anche allo stato solido, per vedere quale infinenza eserciti l’aggregato cristallino. In questa mia prima Nota espongo i valori di conduttività di alcune miscele di sali con punti di fusione relativamente bassi. Per le misure delle conduttività usai il solito dispositivo di Kohlrausch; la maggiore difficoltà fu incontrata nella scelta del tipo di cella. Come è noto, i sali allo stato di fusione sono generalmente ottimi conduttori: quindi fu necessario di scegliere una cella la quale avesse una forte resistenza e che tuttavia potesse essere portata ad alta temperatura ed essere accuratamente pulita per potere poi servire ad una lunga serie di misure. Mentrechè, per misure su sali di valori molto diversi in con- duttività si presta molto bene quella proposta da Lorenz, per sali aventi conduttività nello stesso ordine di grandezza si presta assai meglio quella proposta da Arndt (*), usata poi con qualche modificazione da Tubandt e da Aten (loc. cit.), e che in sostanza è quella di Kohlrausch per la deter- minazione del potere conduttore di elettroliti forti. ssa consiste in un tubo ad U più o meno strozzato nella parte inferiore, il quale porta nella parte superiore più larga delle due branche gli etettrodi. Per le misure di potere conduttore allo stato fuso usai sempre questo tipo di cella: il diametro della parte inferiore strozzata variava da 2 @ 3 mm.; la larghezza da 7 a 10 cm., secondo che era conveniente l'impiego di una cella più o meno resistente. La parte superiore delle branche del tubo ad U aveva un diametro di 12 mm. e un'altezza di circa 2 cm., e conteneva elettrodi cilindrici di platino lucido di grosso spessore, di circa 1 centimetro di diametro e di 7 millimetri di altezza. A questi erano saldati due fili di platino per tutto lo spazio sottoposto ad alta temperatura, che venivano poi conve- nientemunte inseriti nel dispositivo per la determinazione delle con- duttività. Per la misura della capacità di resistenza mi son servito di una so- luzione normale di cloruro potassico purissimo precipitato dall'alcool, e di una soluzione di acido solforico di peso specifico 1,223, a 18°, già usata da Aten e da Goodwin per avere dati di controllo; ed ottenni risultati concor- danti. Fu curato che tanto nelle misure di capacità di resistenza come pure nelle misure di conduttività il liquido giungesse sempre alla mede- sima altezza sopra gli elettrodi, cioè di 4-5 millimetri. Durante le misure gli elettrodi vennero scossi e girati entro le branche che li contenevano, (*) Zeit. f. Elektroch., /2, 387 (1906). — 618 — senza che una senslbile influenza potesse venire notata nelle letture del ponte. Le celle erano di quarzo. Usando questo materiale, dato il suo pic- colo coefficiente di dilatazione (5,4-:10-7) (*), è da tralasciare la correzione che si dovrebbe portare nel calcolo alla temperatura di esperienza, dovuta ad una eventuale variazione delle dimensioni della cella sino a temperature relativamente alte. Così pure non venne preso in considerazione il potere conduttore della cella stessa, poichè esso è assolutamente trascurabile rispetto a quello dei sali usati. Non è invece trascurabile la resistenza che offrono le parti metalliche che vengono sottoposte ad alta temperatura; essa venne quindi misurata alle varie temperature, alle quali vennero poi eseguite misure di condutti- vità, e ne fu tenuto conto nel calcolo della capacità di resistenza della cella e nel calcolo della conduttività. Le miscele erano mantenute allo stato fuso, in un largo forno a resi- stenza elettrica in atmosfera di azoto. La misura delle temperature veniva fatta con un termoelemento Pt — Pt 4 Rh accuratamente controllato, la saldatura del quale era immersa in un tubetto contenente la stessa miscela che era contenuta nella cella di conduttività e posto tra le due branche di quest'ultima. La corrente usata per il riscaldamento era quella stradale, che veniva regolata con un sistema di reostati con raffreddamento ad acqua, e quindi di resistenza praticamente costante, dimodochè, una volta portato il forno alla temperatura voluta, si poteva ottenere una buona costanza di temperatura. In ogni determinazione questa verne mantenuta costante per almeno quindici minuti, tempo trovato sufficiente per avere la certezza che tutte le parti della cella di conduttività ed il tubicino che conteneva la sal- datura del termoelemento fossero alla stessa temperatura voluta. Il riempimento della cella venne fatto con ogni cura, per evitare l’oc- clusione di bollicine di aria nella massa fusa dei sali. Nella tabella seguente sono raccolti i valori di conduttività, espressi in ohms reciproci, dei singoli sali puri usati, quali risultarono dalle mie esperienze, posti in confronto a quelli, trovati da altri esperimentatori, alla stessa temperatura di 500°. Tubandt Arndt Lorenz PbiCl, 1,472 — — — — 14L1 Pb Br 1,030 et ee ape Ag CI 3,654 3,910 de RI Ag Br 2,920 2,920 3,020 == TEGI 1,224 1,332 — — — — (') Holborn e Henning, Ann. der Physik [4] 10, 446 (1903). — 619 — I punti di fusione dei sali usati furono i seguenti: Pb Cl, 495° Ag CI 455° TI Cl 429° Pb Br, 368° Ag Br 422° A mio parere, le differenze tra i valori di conduttività dei singoli sali, oltrechè ad impurezze, sono da attribuire a piccole variazioni nelle deter- minazioni della temperatura. I valori dati tanto per i sali quanto per le loro miscele rappresentano il valore medio di un buon numero di determi- nazioni fatte separatamente. Nelle tabelle seguenti sono raccolti i valori ottenuti per i tre sistemi sperimentati Pb Cls-Pb Br»; Ag C1- Ag Br; TI C1- Ag CI. Ognuno dei valori singoli portati in queste tabelle, è la media di al- meno tre letture differenti, ottenute con diverse resistenze di confronto; frequen- temente furono eseguite diverse serie di misure su miscele preparate a parte. Nelle tabelle seguenti, oltre alla composizione in peso ed in molecole percento delle varie miscele e ai valori di conduttività specifica realmente osservati, sono ancora riportati i valori calcolati colla regola dei miscugli in base alla composizione in molecole, le differenze assolute tra i due va- lori e quelle percentuali sui valori calcolati, Cloruro e bromuro di piombo. — Ricordo come dal diagramma di solidificazione del sistema cloruro-bromuro di piombo risulti la formazione di cristalli misti del primo tipo di Roozeboom ('), e come sia da esclu- dere la formazione di sali doppî tra i due sali e quindi, con ogni verosimi- glianza, anche l’esistenza di complessi nel fuso. Dai valori raccolti nella prima tabella risulta come le conduttività trovate siano sempre leggermente inferiori a quelle calcolate con la regola dei miscugli; le differenze raggiungono il 4 °/ per la miscela equimo- lecolare. TABELLA lA. Pb Cl, + Pb Br Composizione della miscela “LI Ntitovato. K n N Differenze °/p in peso molecole °/o t= 5000 calcolato | Ncarc--Ktrov. °/o Pb Cla Pb Cla 0.00 0.0 1080 — _ — 7.76 10.0 1.059 1.072 0.013 1,22 20.15 25.0 1.108 1.140 0.032 2.80 43.09 50.0 1.201 1.251 0.050 400 69.44 75.0 1.310 1.361 0.051 3.75 87.21 90.0 1.400 1.429 0.029 200 100.00 100.0 1.472 _ -- - (!) Monkemeyer, N. Jahrb. f. Min. G. u. P., Bb. 22, 1(1906). — 620 — Cloruro e bromuro d’argento. — Dalle miscele fuse di cloruro e bro- muro d'argento si depositano pure cristalli misti omogenei (!) (tipo II di Roozeboom). Come si può vedere dalla 2* tabella, anche in questo caso i valori trovati sono inferiori a quelli calcolati ; le differenze tra valori trovati e valori calcolati sono ancora più piccole che non nel caso precedente. TABELLA 2A. Ag Cl + Ag Br Composizione della miscela | K trovato Kosleal K K Differenze °/oin peso molecole °/o {= 500° calcolato calc»"É trov. %, di AgCI di AgCI 0.00 0.00 2.924 — —_ _ 24 65 30.00 3.130 3.148 0.013 0.22 43.00 50.00 3.246 3 288 0.042 1.27 64.00 70.00 3.409 3.434 0.025 0.73 100.00 100.00 3.653 _ — _ Cloruro talloso e cloruro d’argento. — Dal diagramma di solidifica- zione delle miscele di questi due sali (*) risulta la formazione di un com- posto decomponibile alla fusione, e quindi, indubbiamente largamente disso- ciato nel fuso. Si noti che l'isoterma di conduttività venne costruita a una temperatura di circa 250° più alta della temperatura di formazione di questo composto. Tuttavia, come risulta dalla tabella 3, le differenze per- centuali tra i valori trovati e i valori calcolati sono di molto maggiori che non nei casì precedenti, e raggiungono il 25 °/,: cosicchè, mentre, nei sistemi pre- cedenti, tali differenze potevano venire attribuite in principal modo a retro- cessione del grado di dissociazione per la presenza di uno ione in comune, in quest'ultimo esse debbono provenire principalmente dall'esistenza di mo- lecole complesse nel fuso. (1) Ménkemegyer, loc. cit (2?) Questi Rend., 20, 2° sem. — 621 — TABELLA 8°. TIC1 + AgCl Bomposizione della miscela K trovato Keslsoi K K Differenze °/oin peso | molecole °/ t= 500° del °/a di TI CI di TI C1 0.00 0.00 3.653 — — — 22.77 15.30 2.925 3.277 0.352 10.74 42.00 30.00 2.260 2,921 0.661 . 22.68 63.00 50 00 dei 2.438 0.662 27.21 79.43 70.00 1.470 1.946 0.476 24.46 100.00 100.00 1.215 — _ _ Dalle miscele di conduttività specifica non si possono tuttavia trarre deduzioni decisive, per le possibili variazioni di densità alla mescolanza dei due sali; è necessario ricorrere alla determinazione delle conduttività equivalenti. e quindi a misure di densità delle varie miscele, per poter ri- salire alle concentrazioni; sotto questo punto di vista proseguo le mie ri- cerche. Da misure già fatte posso già dire che le variazioni di densità sono assai piccole e tali da non alterare l'andamento generale dei valori della conduttività specifica come sono qui considerati. In una prossima Nota esporrò i risultati di misure allo stato solido di questi stessi sistemi e le deduzioni che da essi si possono fare. Chimica-fisica. — Analisi termica delle miscele degli idrati alcalini cor corrispondenti alogenuri. I. Composti di potassio. Nota di GIUSEPPE ScaRPA, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 79 — 622 — Mineralogia. — Sullo zolfo di Zonda-(S. Juan) (Repubblica Argentina) ('). Nota di C. PERRIER, presentata dal Socio F. PARONA. Nella collezione dei minerali della Repubblica Argentina, esistente nel Museo di mineralogia della R. Università di Torino, e della quale fu studiato solo recentemente il dioptasio di Còrdoba (*), notai un campione di zolfo portante l'indicazione « Azufre-Zonda-(S. Juan) », che mi parve partico- larmente interessante per la ricchezza e lo splendore delle faccie che i nu- .merosi cristallini presentavano. Siccome non risulta che tale giacimento sia stato finora menzionato a proposito dello zolfo, e tanto meno che sia stato fino ad ora descritto, ho accolto con piacere il consiglio del prof. Zambonini di eseguirne uno studio cristallografico, di cui espongo quì i risultati. Lo zolfo di Zonda si presenta in aggruppamenti irregolari di cristalli, sopra una massa argillosa compatta, di colore grigiastro, contenente qualche cristallino di quarzo; nelle piccole cavità di questa si rinvengono degli indi- vidui generalmente isolati, assai piccoli, molto riechi di facce, tutte ben lu- centi e piane, sui quali ho potuto eseguire delle buone misure. La grandezza di questi cristalli, che hanno habitus esclusivamente glo- bulare, varia da 1 a 2 mm. In essi mi fu possibile di identificare le seguenti 24 forme: a {100} = 33010f = e {001} m 110} n 5011} 03013] e }101} u }103}. 3119} 117} CH115f ojll4 = si118f y{112] p 11 01221} yj831f «j551I qJ131f 0 03188 24185} r 3311} @f313} RJS15k (1) Lavoro eseguito nell’Istitato di mineralogia della R. Università di Torino, diretto dal prof. F. Zambonini (2) E. Quercigh, /l dioptasio di Cordoba (Argentina). Rend. Ace. sc. fis. e mat. di Napoli, 1914, fase. 11-12. gog Le combinazioni notate furono le seguenti: icaro: Sn ESGISpodpra ROIO IEEE LAI NA) E ET (E RE ROERO RIONE I ONOR OSE DEVE O DER Ve eau 8) c,t,s,p,v,n,b.8,%,q (cristallo rotto). sa Limiti Valori calcolati * “ud c:w= (001): (119) 18°30” 18916" 18°45’ 18932” 2i (0) (CAL) 2 57 23 23 29 23 19 2 t (115) 315 3055 3114 31 6/, 0, 0 (114) 37 2 8697 375 872 0 s (118) 45 7 44 54 45 18 45 10 3 y (112) 56 81 5622 56 46 56 27 1, 31/, p (111) 71 39 7130 7146 7140 Il 7) (221) 80 42 80042” 80 85 1/a Zi y (331) 83 39 83027’ 83046 83 42 3 8 (551) 86 15 86015" ets6doi ag m (110) 89 59 i 89055’ 90°3’ 90 1 D (013) 32 22 1/a 3215 3232 32 23 1/4 1 n (011) 62 20 6217 6222 62 17 33 d (010) 90 2 901 904 90 — 2 Z (135) 50 59 50 56 515 50 59 0 x (1389) | 645 6412 647 64 4 1/3 — 1/s q (131) 8047 | 8041 8058 80 47 9/, 2/, U (103) 37 56 3749 881 37 58 % e (101) 66 49 66 37 66 55 66 52 3 a (100) 90 2 908901 90 Si, B (315) 95 29 | 55 22 55895 55 30 1 a (313) 67 34 | 67 26 67 40 67 34 0 iP (311) 82 12 529 8217 82 10 —_2 (331): (331) | 1233 12083" 12 36 8 Per la ricchezza di forme, per l'armonico sviluppo delle piramidi e dei prismi, questi cristalli assumono in generale l'aspetto di una botte, e ricor- dano, perciò, moltissimo i cristalli di zolfo dell’isola di Saba nelle Indie occi- — 624 — dentali descritti da Molengraaff('), solo si nota che nello zolfo di Zonda, oltre ad aversi un piccolo numero di forme in più, le piramidi della zona [001:310] sono alquanto più sviluppate, come risulta dalla annessa figura che riproduce un cristallo con la combinazione N°. 5. Dei pinacoidi, c non manca mai ed ha un discreto sviluppo, esso compare però quasi sempre con una faccia sola, essendo per lo più i cristalli impian- tati per l'asse delle 2; 4 venne osservato una volta sola come una piccola facciuzza, assai poco lucente; d è, per lo più, assai bello ed ha pure un discreto sviluppo. Tra i prismi di terza specie si nota solamente m, che però non sempre compare ed è, in ogni modo, pochissimo sviluppato. Nella zona dei prismi di seconda specie % ed e compaiono con nitide faccette ben sviluppate, e in quella dei prismi di prima specie v ed x, pure assai belli, con buon sviluppo. Le piramidi £, s e p non mancano mai (s e p con buon sviluppo, £ invece un po' meno sviluppata); w, 0 ed y compaiono quasi sempre, ed o è, in gene- rale, poco meno sviluppato di s. Le piramidi y, d ed e compaiono sempre come esilissime faccette: la prima venne osservata 3 volte; le altre una volta sola. Nella zona delle piramidi 8, @ ed 7, @ è, in generale, sempre meno sviluppata delle altre due; assume invece una notevole estensione in quei cristalli dove compare da sola. Le piramidi x, g e < hanno sempre buon sviluppo. Nella tabella seguente sono indicati i valori angolari misurati, messì a confronto con quelli calcolati in base al rapporto parametrico di v. Kokscharow a:b:c=0,818509; 1: 1,90339 (1) Groth's Zeitscrift, XIV (1888) 45. — 625 — il quale, data l'ottima concordanza tra valore calcolato e misurato, deve valere anche per lo zolfo di questa località. Dal punto di vista cristallografico questo giacimento acquista un note- vole interesse in quanto che è noto, come, in generale, siano assai ricchi di facce solo i cristalli di zolfo provenienti dall’alterazione dei solfuri me- tallici, e quelli, ma più raramente, di origine vulcanica. Così Pelloux (') nello zolfo proveniente dall’alterazione della stibina delle Cetine di Cortoniano rinvenne 18 forme; Millosevich (*) in quello rinvenuto sulla galena blendosa di Malfidano constatò ben 27 forme. Assai ricchi di forme (21) sono pure i cristalli provenienti dalla galena di Bassick (Stati Uniti) studiati da Busz (*), come pure quelli provenienti dal- l'alterazione dell’antimonite di svariate località, studiati da Foullon (‘), Pelikan (°), Eakle (°), Simek (7), Quercigh (5), nei quali il numero delle forme varia da 16 a 27. Fra i giacimenti di zolfo di natura vulcanica notevoli per ricchezza di forme ricorderò un cristallo di zolfo su lava alterata, esistente nel Museo Britannico. ma di ignota provenienza, nel quale Fletcher (°) osservò 14 forme; i cristalli di Saba misurati da Molengraaff, il quale vi rinvenne ben 23 forme; e da ultimo i cristalli di zolfo del Vesuvio, nei quali lo Zambonini (!°) potè notare 11 forme, sebbene, come nota lo stesso A. località vesuviane così ricchi di facce, siano veramente eccezionali. Lo zolfo di Zonda, mentre è da annoverarsi fra i giacimenti di zolfo più ricchi di facce, non è però, per quanto si disse in principio, da ricon- dursì a nessuno di questi due tipi, perchè giace sopra una roccia che non è affatto di natura vulcanica ed è priva assolutamente di solfuri metallici, onde la sua origine è verosimilmente da attribuitsi a decomposizione di acque sulfuree. (') A. Pelloux, Appunti sopra alcuni minerali delle Cetine di Cortoniano presso Rosia. Rendic. Acc. Lincei (1901), X, 2, 12. (*?) F. Millosevich, Zolfo ed altri minerali della miniera di Malfidano presso Buggerru. Rend. Ace. Lincei (1898), VII, 2, 250. (3) K. Busz, Schwefel von Bassick. Zeit. f. Kryst. (1890), /7, 549. (4) Foullon, Verh. geol. Reichsanst. (1890). 40, 318; (1892), 42, 175. (5) Pelikan, Schwefel von Allchar in Macedonien. Tschermak' s Mitt. N. F. (1891), 12, 34. (5) A. S. Eakle, Sekundire Mineralbildungen auf Antimonit. Zeitschr. f. Kryst. (1895), 24, 586. (OA. ‘Simek, Veber den Schwefel von Kostajnik in Serbien. Rozpravy. bom. Akad. Prag, 1908; Ref. Zeitschr. f, Kryst. (1902), 50, 689. (8) E. Quercigh, Lo zolfo dell’antimonite alterata di Selva presso Casal di Pari (Grosseto). Rend. Acc. Lincei (1915), XXXIV, 7, 73. (9) L. Fletcher, Arystallographische Notizen. Ref. Lcitsch. f. Kryst. (1881), 5, 109. ('°) F. Zambonini, Mineralogia Vesuviana. Memorie Acc. Sc. fis. e mat. Napoli, 1910. — 626 — Mineralogia. — A proposito dell’azione della hauerite sull’ar- qento e sul rame ('). Nota di E. QueRrcIGH, presentata dal Socio C. F. PARONA. Alcuni anni fa, il prof. Giovanni Striver ebbe occasione di osservare (°) l'alterazione prodotta dai cristalli di hauerite sull’argento e sul rame metal- lici, alterazione che si manifesta colla formazione dei solfuri corrispondenti. Egli osservò, infatti, che cristalli e solidi di sfaldatura della hauerite appoggiati su lamine levigate e pulite dei due metalli accennati, vi produ- cono, dopo un più o meno lungo periodo di permanenza, una macchia bruna o nera, avente la forma della superficie piana del minerale secondo la quale avviene il contatto; se la durata dell'esperienza si prolunga di molto, l’anne- rimento si manifesta anche nelle parti circostanti, immediatamente vicine, con intensità, però, rapidamente decrescente. Il colore bruno-nero dell'impronta, che la faccia del minerale lascia sul metallo, non è uniforme: esso è generalmente molto più debole in corrispon - denza alla parte centrale della faccia stessa, e l'alterazione che questa subisce durante il contatto sembra più rapida di quanto non si verifica ordinaria- mente nella hauerite esposta all'aria. Le osservazioni relative a tale argomento sono contenute, insieme con altre d'indole analoga, nella Nota citata ed in un'altra (*) che la seguì a brevissima distanza; in esse il compianto mineralista si limitava ad un’espo- sizione obiettiva dei fatti da lui osservati, che gli suggerivano la possibi- lità di una reazione chimica fra la hauerite e l'argento od il rame, ed espri- meva il desiderio che altri, potendolo fare, s' impossessasse dell'argomento. Scriveva, infatti (4): « non avrei naturalmente discaro se altri che hanno disposizione un laboratorio chimico, e sovrattutto i giovani, i quali hanno più fondata speranza di vedere la fine delle esperienze intraprese, volessero impossessarsi dell'argomento ». (!) Lavoro eseguito nell’Istituto di mineralogia della R. Università di Torino, diretto dal prof. Ferruccio Zambonini. (?) G. Struever, Azione chimica tra la hauerite ed alcuni metalli a temperatura ordinaria ed a secco. Rend. Accad. Lincei X (1901), 1° sem., pag. 124. (*) G. Struever, Azione chimica dei solfuri di ferro e del solfo nativo sul rame e sull’argento a temperatura ordinaria ed a secco. Rend. Accad. Line., X (1901), 1° sem., pag. 233. (4) locxicit. pag, 127. — 627 — Le interessanti esperienze del prof. Striiver sono rimaste, per parecchi anni, senza sèguito; solo recentemente il Beutell (*), con una particolareg- giata serie di osservazioni, ha ripreso l'argomento, arrivando, però, ad una conclusione ben diversa: egli, infatti, esclude assolutamente un'eventuale reazione, allo stato solido, fra la hauerite e l'argento ed il rame, ammessa dallo Striiver, ed attribuisce l’annerimento di questi metalli, nelle condizioni indicate, unicamente allo zolfo prodottosi per la scomposizione del minerale causata dall'aria atmosferica, zolfo che, avendo, alla pressione e temperatura ordinarie, una discreta tensione di vapore, rende possibile, com'è ovvio, la sua azione anche in punti relativamente distanti da quelli in cui si è formato. Queste conclusioni non mi sembrarono pienamente giustificate dalle ricerche del Beutell, e, dato l'interesse che mi parve presentasse questo pro- blema, decisi di eseguire qualche nuova esperienza in proposito. Mentre mi accingevo a comunicare privatamente al prof. Striiver i miei risultati, — i quali rettificano le conclusioni di Beutell nel senso che dimo- strano, oltre alla capacità della hauerite di agire sull’argento e sul rame per mezzo dei vapori di zolfo originatisi nella notissima scomposizione del minerale all'aria, anche quella di reagire allo stato solido coi detti metalli, conformemente all'opinione avanzata dal prof. Striiver, — giunse improvvisa la notizia, triste per la mineralogia, tristissima per quella italiana in par- ticolare, della morte dell’illustre scienziato. Esporrò quindi in questa Nota le mie osservazioni e le deduzioni che da esse sembrano giustificate, tanto più che così mi è possibile di compiere l'opera gradita di dimostrare come le vedute del compianto Maestro, ben noto per la precisione ed il rigore delle sue indagini scientifiche, corrispon- dano, anche su questo argomento —, contrariamente alla supposizione di Beutell — , completamente alla realtà delle cose. Il Beutell constatò anzitutto, come già aveva fatto lo Striiver, che la macchia nera della hauerite si estende tutt'intorno un po’ al di là dei limiti della superficie di contatto fra essa e l'argento. Quest’azione, però, che dimostra la presenza di zolfo libero — il quale, com'è noto, agisce anche a distanza, possedendo una discreta tensione di vapore alla temperatura ordi- naria —, non esclude in alcun modo la possibilità di una reazione, allo stato solido, fra il minerale ed il metallo. Lo stesso si deve convenire rispetto all’altro fatto osservato dal Beutell, e parimenti già messo in evidenza dallo Striiver, che, cioè, le macchie hanno i bordi molto marcati, mentre verso la parte centrale possiedono un colore (') A. Beutell, Die Zersetzung des Hauerits an der Luft und die dadurch hervor- gerufene Einwirkung auf Silber und Kupfer. Centralblatt f. Min. Geol. n. Pal. (1913), 758 (Dezember). — 623 — assai più debole, colore che solo col lungo prolungarsi dell'esperienza va diventando lentamente più carico; anche qui si mette bene in luce l’azione dell’aria e quella conseguente dello zolfo come prodotto di scomposizione del minerale, ma non sì può escludere la reazione allo stato solido, tanto più che, siccome quest'ultima avviene solo quando sì verifica un contatto diretto ed intimo, si possono avere gravi dubbî sulla perfezione dell'aderenza nei casi in cui, come nelle esperienze di Beutell, il cristallo di hauerite stava appoggiato semplicemente sulla lamina d’argento. Un'altra esperienza, e la più conclusiva in apparenza, fu eseguita dal Beutell: la polvere di hauerite, riscaldata a 50° nel vuoto eseguito colla sua pompa a mercurio (*), dava un sublimato di zolfo, e si mostrava, in seguito, inattiva verso l’argento. Analogo comportamento dimostrò un cubetto di sfal- datura di hauerite di 5 mm. di lato. A me sembra che in queste ultime esperienze rimanga maggiormente problematico il contatto fra l’hauerite ed il metallo: infatti, è evidente che, se un sublimato di zolfo si verifica nelle condizioni suddette, non possiamo più avere la certezza che la superticie esterna dei granuli di polvere o del cubo di sfaldatura sia costituita da hauerite inalterata, ed appare giustificato il dubbio che il contatto diretto e perfetto abbia luogo fra le due sostanze quando, dopo eseguito il vuoto ed il riscaldamento-a 50°, esse vengono, con opportune manipolazioni, portate in vicinanza. In tutta l'esposizione, molto particolareggiata, fatta dal Beutell, non si trova cenno di alcuna precauzione presa per assicurarsi un contatto intimo fra il minerale fresco ed il metallo. Per dimostrare che una reazione chimica fra solidi non si verifica in questo caso, sarebbe stato necessario di provare che, nonostante il contatto perfetto, l'azione non si manifesta nemmeno in piccolissima misura. Io ho incominciato col premere in una morsa una lamina d'argento piana e smerigliata di fresco, contro una faccia di sfaldatura, molto piana e splendente, della hauerite di Raddusa (che devo alla cortesia del prof. Zam- bonini, il quale me ne regalò, qualche anno fa, dei bellissimi esemplari, per servirmene in altre ricerche). Dopo circa 40 ore, la superficie dell'argento corrispondente alla faccia del minerale apparve leggermente, ma decisamente imbrunita in corrispon- denza ai punti in cui il contatto era stato più perfetto (messi in evidenza dalla deformazione subìta dalla lamina, la quale aveva uno spessore di mm. 0,5 ed era separata dalla morsa per mezzo di un interposto disco di cartone d'amianto), con delle striature nere qua e là, le quali si trovano, come poi verificai, in corrispondenza delle sottilissime linee di frattura del (’) A. Beutell, Neue automatische Quecksilberluftpumpe. Chemiker Zeitung, an. 1910, n. 150, pag. 1352. — 629 — minerale, nelle quali, come lo stesso Bentell ammette in un'osservazione ana- loga, probabilmente si è insinuata col tempo l’azione dell’aria. Per escludere l'azione dell’aria atmosferica, ho, poi, eseguito la pulitura della lamina d'argento sotto il toluolo contenuto in apposita bacinella; nello stesso modo ho pulito colla carta smerigliata una faccia d'ottaedro del mine- rale, e, mantenendo le sostanze sempre sotto il toluolo, le ho sovrapposte e strette, — per quanto fu possibile, senza incorrere nel pericolo di provocare la rottura del cristallo — in una morsetta. Dopo 24 ore di riposo sotto il toluolo, la lamina mostrò un notevole imbrunimento in corrispondenza alla faccia del cristallo. Quest'esperienza fu ripetuta moltissime volte senza levare le sostanze dal toluolo e smerigliando sempre accuratamente le due superfici di contatto; fu anche modificata ri- correndo a superficie di sfaldatura della hauerite, ottenute operando sempre sotto toluolo, ed ebbi così costantemente i medesimi risultati. Tre sono le ipotesi che si possono avanzare per spiegare questi fatti : 1°) reazione, allo stato solido. fra hauerite ed argento; 2°) azione del toluolo sulla hanerite, cioè capacità di sottrarne una parte dello zolfo che viene fissato dall’argento in immediata vicinanza; 3°) presenza di zolfo libero o di idrogeno solforato nel minerale di Raddusa. Sarebbe ammissibile, inoltre, la concomitanza di due o tutte queste pos- sibilità. Che la hauerite di Raddusa contenga dello zolfo libero, non pare pro- babile se si considera l'analisi che ne fece il prof. Eugenio Scacchi ('), tro- vandosi il 46,05 °/, di manganese ed il 53,76 di zolfo, mentre la formola Mn S»; richiederebbe, per tale quantità di manganese, il 53,77 di zolfo; ad ogni modo io ho distrutto il valore di questa ipotetica obiezione col tenere sotto toluolo la superficie levigata della hauerite, per 24 ore, separata dal- l'argento prima di sovrapporla a questo: è evidente che il toluolo in questo intervallo di tempo ha avuto modo di sciogliere ed asportare lo zolfo libero eventualmente esistente alla superficie, tanto più che non ho mancato di stro- finare, di tanto in tanto, la faccia in quistione sopra un pezzo di velluto posto al fondo della bacinella. Siccome anche con tale precauzione la macchia bruna si manifestò dopo il contatto fra le due sostanze effettuato per mezzo della morsetta, credo che più non sia sostenibile l’attribuire allo zolfo libero tale fenomeno. Anche l'ipotesi che il toluolo abbia la capacità di sottrarre dello zolfo alla hauerite, quantunque si sappia che in tale minerale la metà dello zolfo è molto debolmente legata, appare poco fondata dopo l’esperienza precedente, (1) Eugenio Scacchi, Sulla hauerite delle solfare di Raddusa in Sicilia, Rend. R. Accad. d. scienze fis. e mat. Napoli, aprile (1890). RenpIcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 80 — 630 — poichè, in tal caso, in 24 ore il toluolo avrebbe ben potuto asportare dello zolfo dalla superficie del cristallo, formandovi in tal modo un esilissimo strato di alabandina la cui azione sull’argento sarebbe ancora più difficile a spiegare, volendo escludere la reazione allo stato solido. Ad ogni modo, io ho voluto fare un'altra esperienza: un cristallino di hauerite fu accuratamente privato dallo strato superficiale di prodotti d'alte- razione, e quindi porfirizzato accuratamente in mortaio d'agata sotto il toluolo. Lasciata quindi depositare la polvere finissima in fondo al mortaio, fu esportata con una pipetta la maggior parte del liquido soprastante, rim- piazzandolo con del nuovo e ripetendo l'operazione un paio di volte nell’in- tento di allontanare tutto lo zolfo, presente come tale, nelle fenditure mì- croscopiche che esistono spesso nei cristalli di hauerite in direzione dei piani di sfaldatura, fenditure in cui, attraverso il tempo, l’aria atmosferica od altri agenti hanno prodotto una lieve alterazione che si può constatare sfaldando minutamente un cristallo: si osservano infatti, generalmente, fra la maggior parte delle superficie di sfaldatura brillanti e freschissime, alcune poche che sono matte e grigiastre. Il liquido di lavaggio, filtrato in pesafiltri tarato, fu evaporato lentamente ed il residuo tenuissimo, costituito da zolfo, fu pesato. Da gr. 1.000 di haue- rite ottenni così gi. 0.000 3 di zolfo, cioè il 0.3 °/s0: quantità, come si vede, molto piccola. La polvere di hauerite fu in tutte queste osservazioni tenuta costante- mente sotto toluolo, e l'operazione di lavaggio fu in seguito eseguita pa- vecchie volte ad intervalli di tre o quattro giorni. L'evaporazione del toluolo di lavaggio mise in evidenza che nessuna azione sensibile, nelle mie condi- zioni, è esercitata da questo solvente sulla hauerite pura, e con ciò riman- gono maggiormente da escludersi le ipotesi 2% e 34. Dopo che per varie settimane la polvere di hauerite fu sottoposta a questo trattamento, ne ho posto una porzione fra due lamine di argento levigate e pulite di fresco, agendo sempre sotto toluolo, ed ho stretto forte- mente il tutto nella solita morsetta. In 24 ore, la macchia bruna, in cor- rispondenza ai punti di contatto, è comparsa come al solito. Sembra, da quanto dissi, che la prima delle tre ipotesi menzionate sia la più verosimile, poichè non mi pare che il fenomeno sia altrimenti spiegabile che coll’am- missione di una reazione chimica fra hauerite ed argento. Il rame sì comporta in modo analogo all'argento; dato il colore del me- tallo, il fenomeno si manifesta in modo molto meno evidente ma non dubbio. Non è ammissibile che la pressione, molto piccola del resto, esercitata in tutte queste esperienze fra le due sostanze reagenti, abbia influenza favore- vole alla reazione, e tanto meno che ne sia la causa unica, perchè la rea- zione: Mn S, + 2Ag= MnS+ Ag»$ — 631 — avviene con un leggero aumento di volume e quindi non potrà essere che ostacolata da un aumento di pressione. Anche nel caso del rame si calcola che la reazione: Mn St + 2Cu= MnS+ Cu,$ avviene con una leggerissima variazione di volume, ciò che esclude una sen- sibile influenza delle piccole pressioni sull'andamento della reazione stessa. Da quanto esposi, sembra giustificata la conclusione che, mentre le ricerche di Beutell dimostrarono ad esuberanza l’azione dell’aria sull’haue- rite che si manifesta con liberazione di zolfo, esse però non esclusero in alcun modo la possibilità di una reazione chimica allo stato solido; tale possibilità risulta evidente dalle mie esperienze. L'azione è molto maggiore, com'è ovvio, alla presenza dell'aria, poichè in tal caso si verifica, inoltre, la liberazione di zolfo elementare, in modo analogo a quanto fu verificato per la cobaltite (*), il glaucodoto (*), l’arseno- pirite (*), ecc. dallo stesso Beutell. Lo zolfo, avendo una discreta tensione di vapore a temperatura ordinaria, agisce anche a distanza, e si può dire che, dopo avvenuta l'alterazione superficiale dell’hauerite in contatto coll’ar- gento, ogni ulteriore annerimento di questo è dovuto esclusivamente ai vapori di zolfo. Biologia. — Una ipotesi biologica sulla deposizione dello solfo durante l'epoca gessoso-solfifera. Nota I° di G. BaRGAGLI-PE- TRUCCI, presentata dal Corrisp. P. BACCARINI (*). In una Nota su « l'origine biologica della 7erra di Siena » (5) esposi le considerazioni che mi condussero a ritenere i depositi di terre gialle e (*) A. Beutell, Chemisch-mineralogische Untersuchungen am Glanzkobalt, in Central- blatt f. Min. Geol. u. Pal. (1911) 663. (*) IG., Chem. - min. Unters. am Glaukodot, loc. cit., pag. 411. (*) Id., Chem.-min. Unters. am Arsenkies, loc. cit., pag. 316. (*) Questa Nota era già in corso di stampa quando il Chemischen Centralblatt (1915, fasc. 7) ha pubblicato il riassunto di un interessante lavoro di Jacobsen pubblicato in Folia microbiologica (dic. 1914), dal quale risulta come da fanghi di diversa origine e da terra di giardino si possa ottenere un microorganismo (Thiobacillus thioparus) capace di decomporre H, S in culture liquide di laboratorio, con formazione di piccole goccie molto rifrangenti di zolfo alla superficie del liquido di cultura all’esterno dei batterii, Lo zolfo così formato passerebbe poi lentamente ad acido solforico. 1 Thiobacillus thio- parus agirebbe anche qui da ossidante, ed è importante di notare l'analogia fra le osserva- zioni di Jacobsen e quelle eseguite sul 8. ferrigenus alla regione boracifera. Il fenomeno sarebbe dunque assai più comune di quanto si credeva, e ciò rende più verosimile l'ipotesi. (9) Bargagli-Petrucci G., Sull'origine biologica della « Terra di Siena ». (Mem. della R. Accad. dei Lincci, anno CCCIX, 1914). — 632 — bolari del monte Amiata come un prodotto del lavoro di microorganismi ossidanti, i quali avrebbero esercitato la loro azione, se non esclusiva, al- meno preponderante, in seno ad acque lacustri di piccoli bacini montani. Si trattava allora di emettere una ipotesi probabile sull'origine di for- mazioni sedimentari di potenza relativamente assai piccola: e tale ipotesi, suggerita dalle esperienze di laboratorio sul Baci/lus ferrigenus (*), trovò indirette conferme nelle osservazioni eseguite, non solo nella regione bora- cifera toscana dalla quale quel germe proveniva (), ma anche sulle acque di alcune sorgenti del monte Amiata; acque abbastanze ricche in deposito fer- rugginoso, che ì chimici hanno trovate ozonizzate (*), e nelle quali potei constatare la presenza di microorganismi, poco diversi dal 5. /ferrigenus, agenti in modo analogo sul loro contenuto ferroso (*). Un'altra serie di ricerche mi permise di osservare sperimentalmente che microorganismi ossidanti, quali il 3. ferrigenus, sono capaci di agire anche sopra altri composti assai comuni in natura, quali l'idrogeno solfo- rato ed i solfuri, alla ossidazione dei quali essi contribuiscono in modo di- verso, secondo le condizioni nelle quali si trovano ad operare, riuscendo spesso, in determinati casi, alla liberazione dello zolfo dai suoi legami ed alla sua deposizione allo stato metalloidico (°). Da tali constatazioni nacque l'idea di prendere in esame quale potrebbe essere una eventuale azione, in natura, di grandi quantità di simili germi operanti in seno ad acque calde, lacustri o salmastre; e. benchè un accurato esame delle acque della regione boracifera non mi sia stato consentito, i fatti osservati e i dati raccolti in questa regione mi sono sembrati perfettamente concordanti con le ricerche eseguite in laboratorio, portandomi a ritenere che l'idrogeno solforato ed i solfuri, nelle loro trasformazioni chimiche, risen- tano, in maniera non dubbia, dell'opera di questi microorganismi. La quantità di zolfo metalloidico che si deposita nelle incrostazioni così frequenti a Larderello e negli altri luoghi boraciferi, e quella che si può riscontrare nei fanghi circostanti a certi lagoni ed a certi soffioni, è ben poca cosa in confronto ai potenti depositi di questo metalloide che si incontrano nei terreni della formazione gessoso-solfifera, tanto importante specialmente (1) Bargagli. Petrucci G., Studii della flora microscopica della regione boracifera toscana. 1II. Il Bacillus ferrigenus n. sp. (N. Giorn. bot. it., nuova serie, vol. XX, an. 1913). (*) Id., Studi ecc. IV. L'origine biologica della lagonite (ivi). (?) Nasini e Porlezza, Sulla esistenza di acque naturali ozonizzate ecc. (Rend. della R. Accad. dei Lincei, classe di scienze fisiche, vol. XXI, pag. 740, an. 1912). () Bargagli-Petrucci G., Sulla presenza di Batteriacee ossidanti nelle acque 0z0- mazate delle Bàgnore e dei Bagnoli sul monte Amiata. Proc. verb. della Soc. bot. ital., seduta 14 giugno 1914. (5) Idem., Studii sulla flora microscopica della regione boracifera toscana. V. L’os- sidazione biologica dell’ idrogeno solforato (N. Giorn. bot. it., nuova serie, vol. XXI, an. 1914). — 633 — nella Sicilia. Ciò non ostante, non mi è sembrato fuori di luogo il prendere in esame una interessante questione: se, cioè. e fino a qual punto si può supporre che azioni biologiche di microorganismi, e specialmente di batte- riacee, possano avere avuto parte nella formazione di quei depositi. All'esame di questa ipotesi sono dedicate le considerazioni che seguono; considerazioni che, mi auguro, non sembreranno fantastiche anche a coloro che non consen- tissero nella mia ipotesi, perchè io credo non si possa ormai più dubitare della enorme influenza che gli esseri microscopiei possono attualmente avere nelle trasformazioni della materia inorganica, e di quella che pos- sono avere avuta nel passato, in epoche nelle quali la più elevata tempera- tura e l'esuberanza della vita vegetale ed animale dovevano essere parti- colarmente favorevoli alla moltiplicazione ed alla attività di quei germi; tanto meglio poi in assenza dell'uomo, che con la sua agricoltura e le sue industrie, con i suoi diboscamenti e le sue bonifiche, altera profondamente tanti fenomeni naturali e tanti aspetti della natura. * xXx x Che lo zolfo ed il calcare solfifero si siano depositati in bacini chiusi o semichiusi fu già sosteputo, con successo, da autori anche non molto recenti, contro la opinione di altri i quali mettevano in rapporto la formazione dei depositi di zolfo unicamente con i fenomeni vulcanici, che avrebbero determi- nato infiltrazioni di gas nelle roccie preesistenti, dove essi avrebbero depo- sitato lo zolfo, oppure avrebbero determinate addirittura delle sublimazioni di questo elemento ('). Altri pensavano invece che la deposizione dello zolfo fosse avvenuta per effetto della decomposizione dell'acido solforico che avveniva in acque contenenti marne in sospensione (?), oppure la attribuivano alla decomposizione di questo gas per reazione dell'acido car- bonico e dell’acqua sopra i solfuri, l'origine dei quali sarebbe stata dovuta alla riduzione del solfato di calce per mezzo di sostanze organiche (8). Mottura scrisse a questo proposito, le seguenti parole : « L'influenza del regno organico sulla produzione dello zolfo allo stato « di libertà era già stata annunziata da Chaptal nel secolo scorso, abbenchè « egli abbia errato nell’indicare il modo di generazione dello zolfo. Egli os- « serva, nella sua opera di Chimica, che lo zolfo trovato nei pozzi neri e « quello trovato a Parigi nelle fosse dei baluardi antichi, allorchè questi « vennero distrutti, debbono alla presenza delle sostanze organiche la loro « origine ». () Schwarzemberg, Tecnologia dei prodotti chimici, Braunschweig 1865. (?) Maravigna, Comptes rendus VII, 1888. (°) Paillette, Comptes rendus XVII, 1843, — 634 — Altrove lo stesso Mottura, parlando delle ipotesi emesse da Bischoff e Paillette i quali consideravano « il minerale di zolfo come il rappresentante « locale di uno strato di solfato di calcio associato a sostanze organiche », cerca di dimostrarne la inammissibità, domandandosi fra le altre cose: « Per « quale ragione non venne ridotto il solfato di calce che si trova nei par- « timenti, ossia nelle parti più ricche, in sostanze bituminose, di tutta la « formazione solfifera? ». « Per spiegare questa ipotesi », egli aggiunge, « è necessario di ammettere « che queste sostanze organiche fossero nel baneo di minerale in propor- « zioni ragguardevoli, per dare origine ad una così importante formazione « di zolfo. Se questi esseri organici fossero esistiti, come si trovano im- « pronte di pesci, di legno fossile, e perfino delle foglie in stato di perfetta « conservazione, si dovrebbero rintracciare in quantità straordinaria i loro re- « sidui. Il legno fossile tuttavia, i pesci e le foglie, sono elementi rarissimi, « e servono, col loro stato di perfetta conservazione, a provare la quasi as- « soluta deficienza di esseri, sia vegetali sia animali, nel terreno solfifero, e « l'impossibilità della trasformazione locale del solfato di calce, dell'epoca « solfifera, nel minerale di zolfo » (1). Pienamente d'accordo con questo autore nel ritenere improbabile una tale trasformazione del solfato di calce in minerale di zolfo, ho però ripor- tato i precedenti brani per rilevare l’erroneità della illazione che egli trae a proposito dell’azione organica. Non è giusto infatti dire: se esseri 0rga- nici ci fossero stati, se ne troverebbero i resti; occorre pensare anche a quegli esseri che, come le batteriacee, non possono lasciare traccia di sè, e che pure possono esercitare enormi influenze in natura. Ma soprattutto intendo notare che l’idea di una azione organica, diretta o indiretta, nella formazione dei depositi solfiferi, è assai antica; e ciò è per me assai importante, benchè l'ipotesi che formulo sia assai diversa da quella immaginata dagli antichi autori e sostenuta anche da alcuni moderni. E a questo proposito è da ricordare anche l'ipotesi del Gemellaro (*) il quale -pensava che lo zolfo provenisse da organismi animali (molluschi), nello stesso modo che il carbon fossile proviene da sostanze vegetali. Per una non trascurabile coincidenza, gli esseri che con il loro compor- tamento nelle culture mi hanno suggerito la mia ipotesi, provenivano ap- punto da quella regione boracifera toscana che suggerì ad Hoffmann il se- guente ravvicinamento: « In un periodo che è immediatamente successo alle « più recenti formazioni dei terreni secondarii », egli dice, « una gran parte « della Sicilia, in uno spazio geogratico di 150 miglia quadrate, fu sotto- « posta all’azione di vapori carichi di zolfo, in quella guisa che le fumac- (4) Mottura, Sulla formazione terziaria della zona solfifera della Sicilia (Mem. d, Com. Geol., vol. I, 1871). (2) Gemellaro, Atti dell’Acc. Gioenia di Catania, vol. X, 1885. — 635 — « chie della Maremma toscana, da me precedentemente visitate, ancora chia- «ramente mì rappresentavano ». Mottura però non sembrò accettare l'ipotesi che nelle acque dell’epoca solfifera e nella sovrastante atmosfera esistessero notevoli quantità di acido solfidrico, che con la sua decomposizione avrebbe determinato il deposito di zolfo. Egli osserva che ciò non avviene alle Acque A/bule di Tivoli, dove l'acido solfidrico si disperde quasi completamente nell'atmosfera senza la- sciare un apprezzabile residuo di zolfo nelle concrezioni calcaree (travertini) prodotte dal passaggio del bicarbonato in carbonato di calcio. Partendo da tale osservazione, il Mottura esprime una ipotesi un poco diversa, ammettendo che le acque di quegli antichi laghi contenessero in soluzione, come materiale primo, del solfuro di calcio, proveniente forse dalla riduzione dei gessi sottostanti ai banchi di tripoli ed al calcare siliceo. Am- messo ciò, ritiene che la decomposizione del solfuro di calcio abbia dato. da un lato carbonato di calcio, e dall’altro idrogeno solforato, il quale, pro- ducendosi lentamente, e, per così dire, allo stato nascente, aveva agio di os- sidarsi a mano a mano che si formava, producendo zolfo libero, senza di- sperdersi nell'atmosfera come avviene nei laghi di Tivoli. L'una e l’altra ipotesi sulla natura del materiale primo che si offriva alla esplicazione del fenomeno, possono concordare con l'intervento in esso di una azione biologica, e non è da escludere che l'uno e l’altro caso pos- sano essersi verificati, sia contemporaneamente, sia in località ed epoche diverse, benchè io propenda a credere più verosimile l'ipotesi che ammette la presenza di bicarbonato di calcio e di idrogeno solforato. Sulla possibile origine di quest'ultimo accennerò qualche cosa più oltre, senza pretendere di approfondire in questo senso le indagini e le ipotesi. Un concetto, in qualche punto diverso da quello di Mottura, espose il Baldacci, il quale ritiene che 1 depositi di zolfo non abbiano origine la- custre, ma lagunare, o marina di basso fondo, fondandosi sul ritrovamento di alcuni fossili di pesci marini. Non è da escludere questo concetto: anzi esso è estremamente probabile, come sembra venir confermato dalla posizione che le più importanti solfare occupano di fronte alle varie formazioni geologiche; ma ciò non influisce sulla ipotesi biologica della deposizione dello zolfo, poichè il fenomeno come è supposto da essa, può ugualmente essersi verificato in laghi di acqua dolce, come in lagune o in insenature marine, e nulla si sarebbe opposto a sup- porlo possibile anche in mare aperto. * *x x Esaminando i diversi sedimenti che si sono formati successivamente in questi bacini lacustri e lagunari, basta, per il mio scopo, incominciare da quello che in modo costante precede, in ordine di tempo, il minerale di — 636 — zolfo, e che conserva nel modo più certo la evidente impronta di una origine organica: il tripoli, costituito, come è noto, dai resti silicei di Diatomee. Tralascio invece i sottostanti strati che non hanno, sotto il mio punto di vista, una speciale importanza, non ostante gli indizii che potrebbero suggerire intesessanti riflessioni, troppo vaghe per ora per essere qui ri- ferite. La massima potenza di questi banchi si aggira, secondo Mottura, fra i 30 e i 40 metri; ma può anche oltrepassarla. Questo potente deposito corrisponde in più grandiosa scala, ad una fase biologica analoga a quella di quei pic- coli laghi dell'Amiata che sono oggi le cave di tripoli, ed analoga a quella che si verificò, per brevissimo periodo, in quegli altri bacini dello stesso monte, dove più tardi si sviluppò il processo biologico della deposizione del- l'idrossido di ferro; fenomeno che condusse alla formazione delle terre gialle e bolari (Terra di Siena) ('). Durante quel periodo le acque dovevano es- sere assai limpide e pure, e non dovevano essere nè eccessivamente calde, nè troppo cariche di sostanze minerali; forse esse si rinnovavano abbastanza facilmente, perchè non potessero accumularsi e trasformarsi quei sali di calcio che avrebbero prodotto un notevole deposito di materiale calcareo. Ma verso la fine di questo periodo biologico, caratterizzato dalla egemonia delle Diatomee, le condizioni devono essersi modificate. Forse le acque di- vennero più ricche in questi sali; forse, la temperatura divenne più elevata; forse modificazioni oro-idrografiche sopraggiunte resero più lento il rinno- varsi delle acque nei bacini, nei quali così vennero ad accumularsi, non solo sali minerali, specialmente calcarei, che si depositarono sopra le spoglie delle Diatomee, ma anche sostanze organiche provenienti princivalmente appunto dalla decomposizione di un immenso numero di cadaveri di alghe. In questo periodo, a poco a poco, la vegetazione delle Diatomee si rallentò molto, e ad esso mi sembra corrispondere il deposito, più o meno potente, del calcare siliceo. Non abbiamo dati per affermare o per negare la presenza, durante questi periodi, di idrogeno solforato disciolto nelle acque: ma esso non do- veva certamente abbondare, specialmente durante il periodo di prevalenza delle Diatomee, o, se esisteva, sì perdeva nell'atmosfera senza lasciare traccie; non troviamo infatti nè gessi, nè zolfo, almeno in quantità no- tevoli. Ma esso deve essere ben presto comparso in abbondanza, qualunque sia stata la sua origine (emanazioni, fermentazioni di sostanze organiche, riduzioni di gessi, ecc.), ed allora, in quelle acque difficilmente rinnovantisi, ricche di sostanze organiche, assai ricche pure di bicarbonato di calcio, ed a tem- peratura piuttosto elevata, io suppongo abbia avuto principio il processo di (') Bargagli-Petrucci, Sull'origine biologica della « Terra di Siena» (loc. cit.). — 637 — ossidazione di questo gas, per opera dell’aria atmosferica in parte, ma prin- cipalmente sotto l’azione di microorganismi, che in quelle acque ed in quei fanghi, trovavano condizioni di vita favorevoli ad un rigoglioso sviluppo. E mentre il bicarbonato, trasformandosi in carbonato insolubile, precipitava verso il fondo, all'idrogeno solforato veniva impedita la dispersione nell’atmo- sfera dalla azione batterica che energicamente lo ossidava, liberando lo zolfo dai suoi legami chimici. Così si sarebbe formato il calcare solfifero che alimenta le industrie siciliane e di altre località. Chè se invece si volesse supporre col Mottura, la presenza, nelle acque, di solfuro di calcio in soluzione, le cose non cambierebbero molto, perchè sappiamo che i germi ossidanti, del tipo 8. ferrigenus, agiscono pure sui solfuri, e non sono dotati della proprietà. che hanno invece le Beggiatoacee, di ossidare ulteriormente lo zolfo conducendo alla formazione di solfati o di anidridi dello zolfo. Il B. ferrigenus infatti, coltivato in liquidi contenenti solfuro di sodio, sembra agire da ossidante, producendo, in primo luogo, zolfo, che, combinandosi poi con il solfito sodico, formatosi per ossidazione spontanea, conduce alla formazione di iposolfito invece che di solfato. Ove questa se- conda reazione manchi, per l'assenza di elementi alcalini, il processo può limitarsi alla prima fase, e dare un deposito permanente di zolfo, (come ho veduto avvenire in alcuni fanghi della regione boracifera) mentre il calcio, sotto l'azione di anidride carbonica o di altri gas carbonati, sviluppati da organismi viventi o da sostanze organiche morte, passa allo stato di carbo- nato (1). Si avrebbe insomma un processo perfettamente analogo a quello che ritengo abbia dato origine alle terre gialle e bolari: possono essere state diverse le specie batteriche: certamente fu diverso il materiale primo e, per conseguenza, anche il prodotto finale; ma il processo biologico appare per- fettamente analogo. Bene inteso, però, che questa azione biologica deve intendersi nel senso di una potente cooperazione al processo chimico, e non come una azione esclusiva, potendo come è noto, l'idrogeno solforato trasformarsi spontanea- mente in acqua e zolfo, secondo la equazione HiSi-0— HH. 0408: Varie specie di microorganismi possono aver preso parte al fenomeno, e non è escluso che possano avervi contribuito anche quelle Beggiatoacee che, dopo avere accumulato nel loro protoplasma notevoli quantità di zolfo, (') Bargagli-Petrucci, Studi sulla Flora microscopica della regione boracifera toscana. V: L’ossidazione biologica dell’ idrogeno solforato (analisi chimiche del prof. M. Mayer). Nuovo Giornale botan. ital., vol. XXI, 1914. RenpICcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 81 — 638 — alla loro morte lasciano un deposito di questo elemento in uno stato fisico tale da rendere facile la sua cristallizzazione, come ha dimostrato Wino- gradsky ('). Però non credo che siano state queste le forme prevalenti, perchè, dove esse esistono attualmente (e ciò non è raro), esse non formano notevoli depositi di zolfo; e poi è noto che esse molto spesso ossidano ulterior- mente lo zolfo trasformandolo in anidride solforosa, che passa poi ad ani- dride solforica, dando così origine a solfati. lo penso, invece, che la prin- cipale parte del fenomeno spetti a batteriacee ossidanti, proprio come per i depositi di idrossido di ferro dell’Amiata. Una prova assoluta di questa ipotesi non si ha, e forse non si avrà mai; ma sarà utile osservare con qualche dettaglio che essa spiega assai bene l'intima struttura dei depositi di zolfo, specialmente quando questo mine- rale presenta la così detta struttura sorzata, nella quale sottili straterelli solfiferi si alternano con straterelli di calcare non solfifero, o molto povero di zolfo. Chimica. — Sw//o stato dell'acido carbonico nel sangue. II. Mobilità dell’ione HCO: alla temperatura 18° C. Nota dei dottori E. p° AGostINO e G. QUAGLIARIELLO, presentata dal Corrisp. FiLipPo BOTTAZZI (?). Questa ricerca ci è stata necessaria per preparare la via allo studio della dissociazione dei bicarbonati e dell'acido carbonico, studio che sarà pubblicato in seguito. Esistono in letteratura soltanto i dati di Walker e Cormack (*), per la sola temperatura 18° C: questi autori hanno misurata la conduttività elettrica specifica di soluzioni abbastanza diluite di bicarbonato sodico, sia in acqua pura, che in acqua contenente un poco di acido carbonico. Le due serie di misure, in acqua pura ed in acqua carbonica, dettero risultati pres- sochè eguali, e perciò i detti autori credettero potere escludere che l'idro- lisi del bicarbonato alteri notevolmente i valori della conduttività. I dati degli autori summentovati, ricalcolati da noi per la riduzione in Ohm reciproci e per l'adozione dei valori più recenti determinati dal Kohlrausch, sono i seguenti: (1) Winogradsky, ZVeber Scwefelbakterien (Bot. Zeitung, XLV, 1887; cfr. anche Stiitzer, Die wichtigsten Lagerstàtten der Nicht.-Erze (Berlin 1911), Bd. I, pag. 260. (2) Nota I, cfr. questi Rendiconti (5), vol. XXIII, 1° sem., fasc. 10, pag. 844, a. 1914. (3) Walker e Cormack, Journ. chem. Soc., vol. 77, pag. 5, a. 1900, e Walker, Zeitschr. f. physik. Ch., vol. 32, pag. 137, a. 1900. — 639 — 1. Dati di Walker $ Cormack. SIETE, Moli È Conduttività Conduttività molecolare di bicarbonato sodico no per litri specifica 1000x di soluzione pa === nes I n =” 0,0 3125 0,0,2195 70,1 0,0 1562 0,0,1147 pa 0,037810 0,05940 76,06 MSA 0,0938905 0,0,3085 78,9 \ , 0,0,1952 0,0,1586 81,2 Per la conduttività limite si estrapola graficamente il valore: Me 890 e togliendo da tale valore la conduttività limite del sodioione, che, secondo i dati più recenti del Kohlrausch, è eguale a 43,6 per la temperatura 18° C, sì ottiene: mobilità dell’ione HCO; a 18° = wwacog = 85,0 — 43,6 = 41,4. Nella nostra ricerca ci siamo proposti di determinare di nuovo la mobi- lità dell'ione HCO; alla temperatura 18° C, e di determinare tale valore anche per la temperatura 37° C, in vista delle applicazioni che intendiamo fare ai liquidi dell'organismo; anche noi abbiamo creduto di non poter trascurare l’idrolisi del bicarbonato, anzi ce ne siamo preoccupati più degli autori summentovati, essendochè l’ idrolisi esplica un'azione maggiore alla temperatura più elevata 37° C. 1°. Soluzioni di bicarbonato sodico in acqua pura. Temp. 18° C. Riportiamo nella seguente tabella i risultati delle nostre misure; prima vogliamo soltanto spiegare il metodo seguito per tener conto rigoroso della idrolisi del bicarbonato. La quantità di soda m, espressa in moli per litro, che si libera per l’idrolisi di una soluzione assai diluita di bicarbonato sodico, della concentrazione 7, è data dalla nota formola: vai ment Fey fPe, in cui 4» è la costante di dissociazione dell’acqua (0,01262 secondo Lundèn), e £ è la costante di dissociazione dell'acido carbonico; per % adottiamo provvisoriamente il valore 0,036 che si deduce dai dati di Knox ('). Si ha allora m= 0,0,131 Va (1) Ann. Phys. Chem., vol. 54, pag. 44, an. 1895. — 640 — La soluzione di bicarbonato può, in seguito alla idrolisi, essere considerata come costituita dalla miscela di una soluzione di soda e di una soluzione di bicarbonato, reci- procamente isoridiche rispetto al sodioione. La prima soluzione sarebbe costituita (per un litro di soluzione mista) da 1000 no cme, di soda della concentrazione x, e la seconda n_M da 1000 cme. di bicarbonato sodico della stessa concentrazione n. } La conduttività del bicarbonato, quale risulta dalla misura, dopo averne detratta la conduttività propria dell’acqua, sia x; la conduttività propria di una soluzione n mole- colare di soda sia xx, e quella di una soluzione n molecolare di bicarbonato di sodio sia xa; sussisterà allora la nota relazione valida per le soluzioni isoidriche: m V (Mali /( x11000— + x» 1000 LL fra 1000 da cui si ricava KNn_-%X%iM Ko = nm Il valore x, ossia la conduttività specifica di una soluzione n molecolare di soda, può essere ricavato dai dati di Kohlrausch, e perciò a mezzo della formola precedente sarà possibile calcolare la conduttività x, di una soluzione pura non idrolizzata di bicar- bonato della concentrazione #, praticando in tal modo una correzione assolutamente rigo- rosa dell’idrolisi. 2. — Conduttività specifiche e molecolari di soluzioni di Na HCO; in acqua pura a 18° C. : Conduttività specifica] Concentrazione Conduttività Conduttività Conduttività Moli Na HOs trovata, diminuita calcolata specifica corretta molecolare per litro della conduttività della soda _ di una soluzione = È SEO dell’acqua mel0 01317/ n Na 0Hw mol. Za = ONE Fa = ai i 379 | n-m | n 0,0,7505 0,0,6135 0,0,114 0,0,1512 0,0,6094 |81,2 0,0 1489 0,0,1177 0,0,160 0,0,2950 0,0381172 78,8 = 0,0 2214 0,0,1707 0,0,195 0,0,4840 0,031702 |76,9> GX, 0,0 3630 0,0382707 0,0,250 0,036985 0,0382701 74,4 \ gi 0,0 5001 0,0,3628 0,0,4293 0,0,9501 0,03621 72,4 La conduttività limite, ricavata per estrapolazione grafica, è: lo = 84,4. (La correzione apportata per eliminare la influenza dell'idrolisi ha una certa importanza, poichè il valore che si ricava per u_, senza tale corre- zione è sensibilmente superiore, e cioè ux = 86,4). La mobilità dell’ione HCO; a 18° sarebbe dunque: Uo HC03 = 84,4 = 43,6 = 40,8, valore assai poco differente da quello calcolato sui dati di Walker & Cormack — 641 — (41,4), per il quale non si è fatta la correzione dell’idrolisi, e che forse appunto per tale motivo risulta un po’ maggiore. 2°. Soluzioni di Na HCO; e KHCO,, oppure di soda e potassa caustica în acqua più 0 meno ricca di acido carbonico alla temperatura 18° 0. L'osservazione da noi fatta, che la conduttività di una soluzione di bicarbonato tende ad aumentare lievemente col tempo trascorso dalla pre- parazione della soluzione, ci ha fatto pensare che la inevitabile liberazione di acido carbonico, da parte di soluzioni di bicarbonato esposte all’aria, potesse fare aumentare la soda libera in una proporzione tale, da influenzare i risul- ti della misnra in un grado maggiore di quello che non faccia l'idrolisi. In tal caso il valore precedente, ricavato per la mobilità dell’ione HCO, sarebbe troppo elevato rispetto al valore reale. Tale sospetto è stato com- pletamente confermato da una seconda serie di misure, ottenute usando dapprima delle soluzioni di Na HCO3 e KHCO; in acqua carbonica, e poi usando addirittura delle soluzioni di Na OH e KOH esattamente titolate e preparate sciogliendo le sostanze in acqua contenente un eccesso di acido carbonico, tale che, dopo la neutralizzazione della base, rimanesse ancora presente nella soluzione allo stato libero; il secondo sistema ci è sembrato più comodo per la facilità di ottenere tali basi purissime ed esattamente titolate, il che non è parimenti facile per i bicarbonati. Per il calcolo dei dati ci siamo serviti delle seguenti considerazioni. Per elettroliti assai deboli, come è il caso per l’acido carbonico, sussiste la rela- zione (per brevità se ne omette la dimostrazione): 1000 TE = uo VE in cui x è la conduttività specifica di una soluzione contenente nm moli dell’elettrolito debole, uo è la sua conduttività limite, e £ è la sua costante di dissociazione. In con» seguenza, anche ignorando i valori @o e #, è sempre possibile valutare l’esattezza di una serie di misure di conduttività specifiche di un elettrolito debole e la validità del- l’isoterma di dissociazione, ricavando i valori 1000 ia =, 1 quali devono essere costanti, m Nei dati seguenti, ad esempio, riguardanti soluzioni di acido carbonico, è praticato un x / calcolo di tal genere, dal quale appare la buona costanza dei valori ra (I m (!) La concentrazione delle soluzioni di acido carbonico fu determinata aspirando la soluzione in una bevuta a barite, seguendo il metodo descritto nella nostra Nota I (loc. cit.); la quantità di soluzione aspirata era determinata con la pesata della bevuta prima e dopo l’aspirazione. — 642 — 3. — Conduttività specifiche di soluzioni di acido carbonico a 18° C. (conduttività specifica dell’acqua = 0,069). SOI Conduttività La aeane di acido carbonico iminuita x ifi della conduttività ——= per lio so |> PREeiioe la conti 10007 eee x 0,00813 0,0,1989 0,0,1917 0,218 0,02047 0,0,8158 0,0,3084 0,216\ media 0,03104 0,0413799 0,0,3730 0,212 ( = 0,213 0,03995 0,0,4255 0,044186 0,210 La costanza dei valori dell’ultima colonna dimostra che l’acido carbonico segue fedelmente la legge di diluizione, e che, a mezzo della formola x= 0,0213V/m, noi possiamo calcolare la conduttività x di una soluzione contenente m moli di acido carbonico per litro. Ora, un litro di soluzione mista di acido carbonico e di bicarbonato alcalino, nelle © concentrazioni rispettive di m ed n moli per litro, può essere considerato come costituito da due soluzioni isoidriche rispetto all’ione comune HCO: la prima soluzione, conte- nendo m; moli di acido carbonico per litro, occuperebbe il volume di 1000 = cme.; la "i seconda, contenendo x; moli di bicarbonato per litro, occuperebbe il volume di 1000 - cme.; data però la grande dissociazione del bicarbonato rispetto a quella minima dell'acido carbonico, si può in via di approssimazione mettere x; =%, ed in conseguenza la solu- zione isoidrica di bicarbonato, conterrebbe # moli di bicarbonato per litro, ed occuperebbe _il volume di 1000 cme. Ciò premesso, per la nota formola che riguarda le conduttività Pspecifiche di miscele di soluzioni isoidriche, chiamando x la conduttività specifica trovata, diminuita della conduttività propria dell’acqua, x. la conduttività specifica di una solu- zione contenente m; moli di acido carbonico per litro, e xs la conduttività di una solu- zione contenente n moli di bicarbonato per litro, avremo x1 1000 È 4 x 1000 SA EIA RI, 1000 FORO rai da cui m K, XK_-% mi ossia, profittando della relazione precedentemente trovata, xa =x— 0,03218 V/m; ia 0,0218 & i Imi * Applicando la legge di diluizione all’acido carbonico, si ricava (HCO, = km — 643 — in cui [HCO',] indica la concentrazione dell’ione HCO, £ indica la costante di disso- ciazione dell’acido carbonico, ed m;j è la concentrazione dell’acido carbonico della solu- zione isoidrica, eguale in via di approssimazione alla concentrazione dell’acido carbonico indissociato. Essendo, inoltre, le soluzioni investigate di bicarbonato assai diluite, e poten- dosi in conseguenza ammettere che esse siano completamente dissociate, si ha [HC0',]= e quindi e sostituendo tale valore nella formola precedente, avremo x =z— 0,0,213 VR. n e adottando per % il valore 0,0336 dedotto dai dati di Knox (che può considerarsi abba- stanza esatto, in via di approssimazione), si ottiene aa n Seguono i dati sperimentali. in cuì la correzione dell'idrolisi è stata eseguita per mezzo di questa ultima formola. 4. Conduttività di una soluzione 0,00835 mol. Hs CO; dopo l'aggiunta di quantità variabili di Na HCO3 (m cost. = 0,00835). — 7emp. 18% C. Moli Na HCO DoRIni ato Conduttività corretta: Conduttività molecolare: per litro della conduttività 0,05128 X 0.0,835 n ce: dell’acqua die a 1000 i (7 = n n 0,0837270 0,0355985 0,0,5934 82,9 0,0 1442 0,0,1151 0.0,1151 79,8 0,0 2146 0,0:1680 0,0,1680 78,8 My n 0,0 3520 0,0,2655 0,0,2655 rfzh) 0,0 4851 0,023557 0,0,3557 73,3 5. Conduttività di una soluzione 0,0107 mol. HsCH3 dopo l'aggiunta di quantità variabili di KHCO, (m cost. = 0,0107). — Temp. 18° C. Moli KHCOs are Conduttività corretta: Conduttività molecolare: pe1 litro della conduttività 0,05128 X 0,0107 Di pati dell’acqua Ko, X_- 3 viale = ol n == 1,4 0,00912 0,039182 0.039181 100,7 0,01807 0,0,1772 0,0,1772 98,1 (ss 0.02684 0,0:2558 0,0342558 95,3 ( = 104,1 0,03545 0,0»3311 0,0,88 L1 93,4 — 644 — 6. Conduttività di una soluzione 0,0298 mol. H,yC0; dopo l'aggiunta di quantità variabili di Na HCO; (m cost.= 0,0298). — Temp. 18° C. Conduttività trovata, Conduttività corretta: Moli Na 0Hs vata, Conduttività molecolare: per litro | "OO enne vità) _.0,06128X 0,0298 = sr Ah: 4 ana ea 2000 ni sai n 0,0,9456 0,0,7412 0.0,7408 mesi 0,0 1871 0,0,1421 0,0,1421 75,9 Î 0,0 2778 0,0,2063 0,0,2063 74,3 dro D 0,0 4535 0,0»3232 0,0253232 71,3| SR 0,0 6223 0,0342938 0,0,4293 69,0 7. Conduttività di una soluzione 0,0405 mol. HsC03 dopo aggiunte di quantità variabili di Na OH (m variabile). — Temp. 18° C. (x dell’acqua = 0,0557). ‘unta | Acido carbonico | Conduttività trovata, | Conduttività corretta: onduttività mol soa: E, meno oto x i del E 1 (e) 1 acqua 2; La ar xo = x —0,0128 u=1000 È n 0,0,501 0,0400 0,0,517 0,0,414 82,7 0,05998 0,0395 0,0,874 0,0,823 82.5 0,0,191 0.0886 0,0,1596 0,0,1570 82,2 0,0,375 0,0367 0,0,3073 0,0,3060 81.6} Ir ; 0,0,»702 0,0335 0,0,5657 0,0,5651 I ee 0.0 1306 0,0274 0,0,1028 0,0,1028 78,7 \ 0,0 2303 0,0175 0,0,1762 0,031762 76,5 8. Conduttività di una soluzione 0,0405 mol. HsC0z dopo aggiunte di quantità variabili di KOH (m variabile). — Temp. 18° C. (x dell’acqua = 0,057). KOH aggiunta, Acido carbonico Conduttività trovata, Conduttività corretta: Conduttività molecolare io Ro meno AU Ria ta del bicarbonato moli per litro ell’acqua È do Ro peo x, =% — 0,05128 pr u=1000 = 0,03556 0,0399 0,0,6690 0,0,5771 1038, 0,031083 0,0394 0,0,1168 0,01121 LOonnI 0,0832115 0,0384 0,0322035 0,032180 103,1 Yo 0,0,4120 00364 0,0,4226 0,0,4215 102,38 { = 104,0 0,0,804 0,0325 0/0,8125 0,0,8120 101,0 \ 0,0 1573 0,0248 0,0,1558 0,0,15583 98,7 Ù Le correzioni, come si vede dalle tabelle precedenti, hanno una parti- colare importanza soltanto per le soluzioni ricche di acido carbonico e povere di bicarbonato; di esse può farsi a meno allorquando la concentra- zione del bicarbonato è maggiore di 0,01 mol. e quella dell'acido carbo- nico è minore di 001 mol.; è ovvio peraltro che per ottenere valori esatti per «., è necessario adoperare soluzioni assai diluite di bicarbonato. — 645 — Riassumendo i dati precedenti noi troviamo: Tap. 48. Conduttività limite Na HCO; .u_ = 85,0; Mobilità HC0;= 85,0 — 43,60 = 41,4 Tap. 52. Conduttività limite KHCO;.uL = 104.1; Mobilità HCO; = 104.1 — 64.7 = 39.4 Tap. 6%. Conduttività limite Na HCO; , u, = 81,6; Mobilità HC0O,= 81,6 — 43,6 = 38,0 Tap. 78. Conduttività limite Na HCO; ,u_= 82.9; Mobilità HCO; = 82,9 — 43,6 = 39,3 Tap. 88. Conduttività limite KHCO;.u_= 1040; Mobilità HCO; = 104,0 — 64,7 = 39,3 I valori 43,6 e 64,7 corrispondono alle mobilità rispettive del sodioione e del potassioione, quali risultano dai dati più recenti di Kohlrausch. Dalla media dei valori surriferiti, accordando però maggior valore alle ultime due misure, risulta che la modi/ità dell'ione HCO: alla tempera- tura 18° è eguale a 39,3 valore alquanto inferiore a quello trovato da Walker e Cormack (41,4) senza la correzione dell'idrolisi, ed a quello tro- vato da noi nella prima serie delle nostre ricerche (40,8), misurando solu- zioni acquose di bicarbonato, e correggendo i dati per l'idrolisi del sale. Da quello che precede risulta chiaro come queste divergenze sono dovute, sia alla trascuranza dell’'idrolisi, sia al fatto che le soluzioni di bicarbonato, esposte per un certo tempo all’aria. perdono acido carbonico ed acquistano di mano in mano una conduttività sempre maggiore. Matematica. — Sugl integrali abeliani riducibili. Nota II di GAETANO Scorza, presentata dal Corrisp. G. CAsTELNUOVO. 8 (*). Un sistema di 4p(p — 1) relazioni fra i periodi «©; del tipo 1...29 (5) Dcraw;rons=0 (j,k=1,2,ip;j<4), 138 dove le c,,s siano dei numeri intieri costituenti gli elementi di un deter- minante emisimmetrico d'ordine 2p, si dirà, per i periodi ©;x, un s/stema di relazioni di Riemann. Un sistema di relazioni di Riemann (5) si dirà poi un sistema di Riemann principale se, indicati con &+in (i=V—-1;& 07; vali ;j=1..2p) (*) La numerazione degli articoli, delle formule e delle note è fatta in continua- zione di quella della Nota I. RENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 82 — 646 — i periodi di una combinazione lineare omogenea qualunque degli integrali U, ,U2,... up nel fissato sistema primitivo di cicli lineari, sì abbia sempre 1...29 Dein 20 o sempre 1...2 2p 5: Crs È, 1)s 0. i r,5 Per quanto è detto nella mia già citata Nota di Palermo (?°), ciò equi- vale a dire che il sistema di relazioni di Riemann (5) è principale o non, secondo che è definita o non la forma Hermitiana nelle variabili 4,,48,... Ap (e nelle loro coniugate 4, , 4» ... 4») data da 1 1...29 1...p Da BE Di x Crss Dj,r Ohys Àj da» 4 sos i,k Per un classico teorema di Riemann e Weierstrass, poichè le ;x sono i periodi degli integrali u1,%2,... up, un sistema principale di relazioni di Riemann per le wjx esiste certamente. Se i periodi w;x sono legati dalle relazioni di due sistemi di Riemann, aventi l'uno i coefficienti c,,, e l'altro i coefficienti c',,;, i periodi stessi sono legati da tutti i sistemi di relazioni di Riemann aventi per coefficienti le oc.s + 0,5, OVe 0 e o sono intieri qualunque; quindi, di codesti si- stemi di relazioni di Riemann, o ve n’ha uno solo — principale — (i suoi coefficienti essendo determinati a meno di un fattore di proporzionalità in- tero), o ve n'è tutta un'infinità discontinua assimilabile a quella dei punti razionali di uno spazio lineare. La caratteristica di un sistema di relazioni di Riemann sarà la carat- teristica (necessariamente pari) del relativo determinante |c,,s|; quindi, per un teorema ben noto (*?), la caratteristica di un sistema principale è 2p. 9. Ora si osservi che scrivere le (5) equivale a scrivere le condizioni necessarie e sufficienti perchè il sistema nullo razionale di X, rappresentato dall’equazione 1..:29 (525) x Cris Yr dts 0, r,s (9) Scorza, loc. cit. ©, n. 1. (1?) Krazer, loc. cit. ?, pag. 119. Del resto, questo fatto e quello invocato più sopra (cfr. la citazione ?) son tutte e due compresi nella diseguaglianza che, coi simboli della. nostra Nota di Palermo, è ivi scritta 49 > 0 0 4,4p>0. — 647 — abbia in 7 (e quindi, attesa la realità delle c,,, anche in #) uno spazio totale; dunque: In esistono sempre dei sistemi nulli razionali aventi in t e t due spazi totali; e se ne esiste più di uno, ne esistono senz'altro infiniti, la loro totalità potendo assimilarsi a quella (discontinua) dei punti razio- nali di un conveniente spazio lineare. Ciascuno di questi sistemi nulli razionali si dirà, per comodità di di- scorso, un sistema nullo di V, (relativo al sistema prescelto di cicli lineari). 10. Quando dal sistema di relazioni di Riemann (5) per i periodi ©;x si passa al corrispondente sistema nullo (5%) di V,, viene a perdersi, in quest'ultimo, ogni traccia della scelta dei p integrali u,%2,...,%, fra gli oo? integrali semplici di 1 specie di V,. Ciò significa che il sussi- stere delle (5) per i periodi degli integrali w,,%s,... vp implica il sussi- stere di relazioni con gli s/ess? coefficienti per i periodi di altri p qual- siansi integrali semplici di 18 specie indipendenti di V, ('*); quindi i coeffi- cienti di un sistema di relazioni di Riemann dipendono non già dalla scelta (18) E facile comporre una dimostrazione algebrica diretta di questa circostanza. Dagli integrali 1, %2,... vp (coi periodi w;,x) si passi agli integrali indipendenti U,, Ua, ... Up (coi periodi ®;,,), essendo i=p u= ui Uz, (di=1a205320) =1 e il determinante |w;,,| diverso da zero. Sarà = Wir = ) Mii Qin (f=1,..p;7=1,2,..29) =1 e quindi, posto la +2) Al,m = DI Cr,s Li, ns (/ ZIO P), da 1,::3p Nero i=0 (leso), n, seguirà 1.,.P (a) S Ui, Uk,m arm = 0 Mead ae ; TIy dUg dVa i, Esse sono quindi in generale discontinue; ma risultano continue quando le componenti delle discontinuità soddisfacciano alle condizioni UG _ dUo . dUd dVa =) - =0 + =0 da dY opaca E questa conclusione è perfettamente conforme alla proprietà generale che abbiamo dimostrato in principio della Nota precedente, quando abbiamo stabilite le condizioni perchè una distorsione soddisfacesse alla definizione di Weingarten, cioè avesse continue, lungo la superficie di discontinuità, tutte le sei componenti di tensione. Ci sembra pertanto che, mediante le considerazioni che precedono, i principî della teoria delle distorsioni elastiche vengano ad assumere un RenDpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 84 — 664 — assetto generale e definitivo; e che le ricerche del Volterra, il quale ha così felicemente creata questa teoria, ne risultino meglio collegate sotto ogni rapporto colla teoria generale dell’elasticità. III Ci resta però ancora da rispondere ad un’obiezione che può essere sollevata circa alcune deduzioni delle quali abbiamo fatto uso. Data una relazione della forma ai che definisca le discontinuità di una funzione / lungo una superficie 0, noi abbiamo fatto uso delle relazioni che si deducono da questa, derivando tan- genzialmente alla superficie stessa. Ora, ammessa la regolarità delle funzioni hf +9, non vi è alcun dubbio che, insieme alla relazione precedente, debbano sussistere tutte quelle che se ne deducono con derivazioni tangen- ziali, finchè queste sono possibili. Ma non si può parimenti essere sicuri che queste relazioni rappresentino le discontinuità delle corrispondenti deri- vate della funzione /; poichè può darsi che le derivate calcolate sulla super- ficie o non coincidano col limite delle derivate, calcolate fuori di 0, quando ci avviciniamo indefinitamente a questa superficie. Tuttavia in molti casi questa coincidenza effettivamente si verifica ('). Non sarebbe facile discutere direttamente nel nostro caso intorno alla validità dei procedimenti seguiti. Però possiamo far vedere che i risultati, a cui siamo arrivati, possono essere stabiliti anche all'infuori di quei pro- cedimenti di derivazione. Non considereremo il problema elastico, ma ci limiteremo al corrispondente problema della teoria del potenziale che abbiamo considerato alla fine della Nota I. Le difficoltà, ed il modo di superarle, sono sostanzialmente identiche nei due casi; formalmente la quistione sì. presenta assai più semplice nel caso del potenziale. Il problema considerato era quello di determinare una funzione armo- nica regolare V in uno spazio S limitato da una superficie s e da un taglio interno o, colla condizione che fosse . Ò 1° sulla superficie s: Vo 0; (') Ad esempio le equazioni che si deducono dalla relazione che determina le discon- tinuità di un potenziale di doppio strato I W,-Wy=4n9 , wa fs i 000 i o” dv derivando tangenzialmente dWy SE dWy L= A dg dWy STA dWy SA da dg i da da da dY dY dY È . DAR 3 TEMEVA ; danno effettivamente le discontinuità delle derivate tangenziali por A DI del potenziale di doppio strato (Cfr. Poincaré, Z'héorie du potentiel newtonien). — 665 — dV dv 2° sulla superficie o: V\—- Vy=yg, Si * ce 0, ove g era una funzione data dei punti di 0. Per la validità della relazione d S S dv E dv da cui deriva l’unicità della soluzione del problema proposto. basta che le derivate seconde di V in S esistano e siano integrabili. Per determinare la V conviene porre V=U+W ove We fg supponendo che 9 soddisfaccia a quelle condizioni, indicate nella Nota I, affinchè non si presentino, per le derivate di W, degli infiniti sul contorno di 0. Le condizioni a cui deve soddisfare la U, a cagione delle relazioni verificate sopra o dalla W: W — W v=( rin 0 4 3 ° > dv t dv sono allora = dU, DU 3) v dI + dI mentre la condizione sopra s dV PID Fr ci dà QU dW da NZ Inoltre la U dovrà essere armonica. Da queste condizioni è facile dedurre che la U dovrà essere regolare insieme alle sue derivate, quando si attra- versa la superficie 0. Considerando infatti lo spazio S come limitato, oltre che dalla superficie s, dalle due faccie del taglio o, e rappresentando U colla formola di Green, troviamo 1 1 1a) ES Il 7 10m 01 Il 7 == Hu_- — LS TR == Jor À i 47t ci | dI dn Li ne n ALL È dI Line 1 dU SU\ do di i ‘ — 666 — ossia per le condizioni a cui soddisfa U sopra o 1 Dia AE r TH LU = S(O IR) Ora questo integrale non ha alcun rapporto con la superficie 0 e quindi la U non avrà alcuna singolarità sopra questa superficie. Possiamo quindi concludere che la U non ha nello spazio S alcuna singolarità, e perciò la determinazione di essa è ridotta a quella di una funzione armonica regolare, di cui sono dati i valori della derivata normale sulla superficie, che limita il campo. Questa funzione, come è ben noto, esiste in generale, e quindi, sì può concludere, esiste anche la V. Inoltre, poichè la funzione V è univocamente determinata dalle condizioni poste, ne viene di conseguenza che sopra la superficie o risultano pure completamente determinate le discontinuità di tutte le sue derivate di qualsiasi ordine. L'esistenza nella statica elastica di formole analoghe a quella di Green permette di trasportare immediatamente le considerazioni precedenti nei problemi della teoria delle distorsioni, che abbiamo precedentemente studiato. Meccanica. — Una proprietà di simmetria delle traiettorie dinamiche spiccate da due punti. Nota del Socio T. Levi-CiviTA. Il sig. R. Straubel rilevò, pochi anni or sono, una notevole relazione di reciprocità, concernente i pennelli elementari di raggi emessi da due centri luminosi di un mezzo qualsiasi (*) (comunque eterogeneo, ma isotropo). Questa relazione dà luogo a interessanti applicazioni fotometriche e diot- triche, indicate dallo stesso Straubel, e ricorre nei fondamenti della teoria dell’ irraggiamento, secondo il metodo integrale di Hilbert (?). Mi propongo di far vedere, sfruttando in generale le caratteristiche dell’azione hamiltoniana (*), che il risultato in questione rientra come caso (*) Veber einen allgemeinen Satz der geometrischen Optik und einige Anwendungen, Phys. Zeitschrift, IV, 1903, pp. 114-117. Il sig. A. Gleichen ne ha dato poco dopo [ibidem, 226-227] una dimostrazione di carattere elementare, considerando un numero finito di mezzi omogenei, e valutando l’influenza delle successive rifrazioni. (9) Begriundung der elementaren Strahlungstheorie, Nachr. der Kgl. Ges. der Wiss. zu Gottingen, 1912, pp. 1-17; riprodotto in Phys. Zeitschrift, XIII, 1912, pp. 1056-1064; e in Jahresbericht der Deutschen Math. Vereinigung, XXII, 1913, pp. 1-20. (8) Nella forma che meglio si presta alle applicazioni ottiche, quale emerge ad es. dal Treatise on natural philosophy di Kelvin e Tait, part I [ Cambridge, University Press, 1896], pp. 347-358. A pag. 358, sotto il titolo Application to common optics, si trova accennato con espressivo commento un caso particolare del teorema di Straubel. — 667 — particolare in una proprietà di simmetria dei fasci conservativi di traiettorie dinamiche, il che è quanto dire delle geodetiche di un arbitrario ds?. Nella relativa metrica la proposizione generale appare anche più semplice dei suoi corollarî ottici. Ne illustrerò uno a titolo d'esempio, ricavando sotto forma esplicita l'estensione della formula di Straubel ai mezzi anisotropi. 1. Generalità — Enunciato del teorema. — Sia O un punto di una varietà V,, a m dimensioni, definita metricamente dal quadrato del suo ele- mento lineare (1) dead o Consideriamo una geodetica G passante per O e un circostante pennello elementare (di geodetiche, spiccate tutte da O). Sia / la lunghezza dell'arco contato, su ogni geodetica del pennello, a partire da O. Le ipersuperficie (ipersfere geodetiche di centro O e raggio /) = cost tagliano ortogonal- mente (') il pennello in campi dè ad # — 1 dimensioni. Fissiamo una di queste ipersfere di raggio generico /. e sia O' il punto di G che ad essa appartiene. Il rapporto do (n=! dB, == sì può considerare come ampiezza angolare del pennello, misurata alla di- stanza /. Negli spazî euclidei, 7/9, è indipendente da / (= per es. al do dell’ipersfera di raggio L) e si può identificare coll’angolo solido del pen- nello nel suo vertice O, cioè con do de = lim Poe In uno spazio di natura qualunque, 4, varia, in generale, con /, e così il rapporto d®; de JO che misura manifestamente l'ingrandimento (angolare) in O' d'un pennello elamentare di geodetiche, spiccate da O verso O”. Ciò posto, si consideri invece un pennello spiccato da O’ verso O, e il relativo ingrandimento angolare, in 0, J(0', 0). L'annunciata relazione di simmetria è espressa dalla formula X(009)= 7(05,0). (!) Cfr., per es., Bianchi, Lezioni di geometria differenziale, vol. I [Pisa, Spoerri, 1902], pp. 336-338. — 663 — 2. La distanza geodetica W(P,P') va risguardata come una funzione simmetrica dei due punti P, P', regolare, finchè questi rimangono distinti, entro una regione convenientemente limitata della varietà V,. Essa coincide notoriamente coll’azione hamiltoniana di un sistema libero da forze, la cui RIDE TONO A ds? ; i Il energia cinetica abbia per espressione gg; © Sì conservi =3 durante tutto il moto. Giova rammentarne, per quanto verrà in uso qui appresso, il com- portamento differenziale caratteristico. Fissiamo, all'uopo, una geodetica generica, indicando con x; le derivate delle coordinate .; rispetto all'arco della stessa geodetica, e introduciamo le coniugate 0 momenti cinetici n (2) Wi Da ik La ’ atte, al pari delle x;, a caratterizzare la direzione della geodetica in un suo punto qualsiasi ('). L'identità (3) DEA Uik xi xx =l1 , 1 cui, per loro definizione, soddisfanno le x;, implica tra le p la relazione quadratica reciproca n (3) Za ali Di Pr = 1 (a complementi algebrici delle «x nel determinante da esse costituito, divisi per il determinante stesso). Riferiamoci in particolare alla geodetica congiungente P con P'. Siano xi, le coordinate di questi due punti; p;, 9; i valori che in essi assu- mono i momenti, convenendo che essi corrispondano, in entrambi i casi, alla direzione della geodetica che è rivolta verso l'esterno dell'arco PP'. Per arbitrarî spostamenti infinitesimi di questi due punti, cioè per arbi- trarî incrementi dx; , dx delle loro coordinate, sussiste l'identità (4) dW= Si pi dei + DI pidx (3) 1 1 (1) È manifesto che le Pi non differiscono dalle 4; di Ricci, cioè dal sistema coor- dinato covariante della geodetica in questione. (3) Non si dimentichi la convenzione fatta circa i versi positivi in P e in P’. Di solito si presenta la (4) sotto la forma (emisimmetrica rispetto ai due punti P,P') n n dW = 2; Di dei — Dili dai, 1 1 ma allora si intende che le p e le p' si riferiscano ad uno stesso verso di percorrenza (da P verso P'). = \069= BRACE ; dW 9dW la quale mostra che le p;,y; coincidono ordinatamente con nin dA: dI: 8. Piccoli intorni di variabilità per P e P' — Specificazioni del sistema di riferimento. — Immaginiamo, ormai, che P rimanga nell’ imme- diata prossimità di un assegnato punto O, e P' in prossimità di un altro punto O' distinto da O. Siano 4 e x; le coordinate di O e di 0', e si ponga 0 Cri | LO LE. Si designi poi con G la geodetica passante per 0,0', e si noti che (previa opportuna trasformazione delle coordinate generali x;) è sempre lecito ritenere: a) che, nei due punti 0,0', i valori numerici dei coefficienti @x del quadrato dell'elemento lineare, e con essi i loro reciproci a“, si ridu- cono ad «x (cioè zero per 1 + 4%, e 1 peri=%); b) che le x; (£=1,2,...,n— 1) relative alla G sono nulle in 0 ed in O’, avendosi ulteriormente [in causa della (3), che si riduce a È o : A . . . x DI xî=1]xà=1,0 addirittura (fissando convenientemente i versi) x,= 1. 7 Dalle (2), e da 4) e 2) segue che i momenti della G in O ed O' val- gono rispettivamente (6) 000 ENI, (pi=1 1 Avuto riguardo alle (4) e (5), lo sviluppo di W(P, P') nell'intorno di 0,0' (fino al secondo ordine inclusivo) si presenta sotto la forma Mii pie ON N; dI dove / sta per la distanza geodetica W(O , 0’), e £:,4: designano forme quadratiche degli argomenti & e & rispettivamente: ben si intende che i 2 coefficienti I della forma bilineare vanno (come le altre derivate i dXk di W) riferiti alla coppia 0, 0”. Per derivazione rispetto a x,,%2,..,%n-1 (0, ciò che è lo stesso, 81,32, Én-1), si ha, in base alla (7) (e a meno di termini d’ordine su- periore al primo), 2 d°W (8) Liza ine È drv oli; o—=1025,g05=1)} e, in modo analogo, (9) petit @=1,2,- 00) con ovvio significato di £,, E (forme lineari, delle & la prima, delle &' la seconda). Dacchè, in O e in 0’, a‘ = sx, la (3) porge > ,pi=1,dpf=1. 1 l Perciò, a meno di termini di second’ordine, p, e p, seguitano ad avere il valore 1 (che ad essi spetta, sulla G, in O e, rispettivamente, in 0"). 4. Pennello elementare di centro O — Ampiezza angolare misurata in prossimità di O', e all'origine. — Per le geodetiche (prossime a G) spiccate da O, le È vanno poste eguali a zero. La W(0,P'), limitata ai termini di primo ordine, si riduce .a t+ Ea e, nello stesso ordine di approssimazione, l'ipersfera geodetica di centro O W(0, P)=/ si confonde coll’ iperpiano passante per O' IU Sia do un campo elementare di questo iperpiano circostante ad 0", e si consideri il pennello di geodetiche che proiettano dm da 0. L'ampiezza angolare di questo pennello, misurata alla distanza /, vale manifestamente do d92, = ner ° In partenza (intendo dire nel vertice O), queste geodetiche hanno dei mo- menti p; (î=1,2,..,% — 1), definiti dalle (8), in cui sì sieno poste le È e la è, eguali a zero: ossia n—1l DA \\ e &, A_N) Pda; IX a i ) pis mentre, sempre a meno di termini del secondo ordine (nelle &'), ph = 1. D'altra parte, a norma delle (2), ed «), le p; coincidono in O colle Zi. Ne consegue che, sopra una generica geodetica del pennello, alla distanza elementare 4 da O, le coordinate x; si trovano incrementate di p;Z. Si ha così, confrontando colle (5), n—_l d9°W (10) &=4 POSI E! Sk Cee (11) AZIO — 671 — Quest'ultima mostra che l’ipersfera di centro O e raggio 4 si confonde, nell’ intorno considerato, coll’ iperpiano È, = 4. La (10) stabilisce così una corrispondenza omografica fra i due iperpiani &,= 0 e &,= 4, corri- spondendosi le intersezioni con una medesima geodetica del pennello. Fra due elementi omologhi do e do, di questi due iperpiani passa, a norma della (10), la relazione (12) do =" |4|d0, 2VA7 rappresentando 4 il determinante dei coefficienti ——_,- (certo diverso da Ti dt zero entro il campo di regolarità, cui si suppone di riferirsi). Angolo solido all'origine del nostro pennello (proiettante do da 0) è manifestamente il rapporto dwy do= Vizi ’ . 5 . ; S . . de, che si confonde, nell’adottato ordine di approssimazione, con lim ren i==0 5. Ingrandimento în 0" — Teorema di reciprocità. — Ingrandimento in O' del nostro pennello di centro O sarà da dirsi il rapporto J(0 , 0) delle due ampiezze angolari 42, e dL, ossia da, Dì dQ2 7 ixina. gra Jogo La (12) ce ne fornisce l’espressione Se si nota che W(0,0') è, per sua definizione, simmetrica rispetto ai due punti da cui dipende, e che simmetriche sono altresì le particolarizza- zioni di coordinate 4) e 2), di cui ci siamo valsi per semplificare le for- mule, senz'altro risulta che il determinante .4 rimane invariato, al pari di {= W(0,0'), quando si scambino O ed O'. Di qua la relazione J(0,0)=J3(0",0), che esprime, si può dire, la reversibilità dei pennelli geodetici rispetto al- l'ingrandimento angolare. 6. Applicazione ottica ai mezzi anisotropi. — In un punto generico P di un mezzo birifrangente, siano (per la specie di raggi che si dovranno considerare) 7, , 75 , #3 gli indici di rifrazione nelle direzioni degli assi ottici X,Y,8. In base al principio di Fermat, i raggi luminosi entro un mezzo siffatto coincidono colle geodetiche del (13) ds° = nî da° + ni dy*° + ni de?. RenpicontI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 00 (AI 22 go Sia S la varietà a tre dimensioni caratterizzata metricamente da un tale ds°, e S* lo spazio ordinario, sede del fenomeno ottico. Queste due varietà, definite entrambe metricamente, sono poste in corrispondenza biuni- voca dalla varietà analitica (2, 7,4). Detta ds* la distanza elementare euclidea fra due punti vicinissimi (2,y,2)0(+dx;y4dy,z+dz),e eo dx dy Si dz gg CRT gg raga i coseni direttori dell'arco che li congiunge, dalla (13) si ha ds TE ASA gg Vate 8° 4 nr? > (14) il radicale andando preso in valore assoluto. Sonsìderiamo ancora un intorno a tre dimensioni di (2, y,2), e i rela- tivi elementi di volume 4S e 4dS*, nella metrica (13) e nell’ordinaria. Avremo dS Ue USS = N No NZ. Consideriamo infine l'elemento superficiale normale alla direzione (@ , f , y), x db: . Sarà do = È la sua misura ds ds nella metrica (13), con che le (14) e (15) dànno cui compete la misura euclidea do* = do ni No Ng do* nta? + nt8°+ niy°" (16) Mediante queste formule possiamo riportare allo spazio euclideo del mezzo ambiente le ampiezze angolari 42 e 49,, definite al n. 4, con referenza ad un generico ds? e alle sue geodetiche [nel caso attuale, il ds° (13) a tre dimensioni, e i raggi luminosi]. Occupiamoci dapprima dell'angolo solido all'origine La misura di quest'angolo, nello spazio fisico, è, con manifesto significato dei simboli, dwt * DI do* = Ta: — 673 — Per divisioue, si ha d2 _ dor si de* T dot (- ; donde, tenendo presente che 4,4* vanno trattate come misure di uno stesso arco elementare, e applicando le (14) e (16), Ni Na Ng (nî a° + ni B° + ni y°)"l: (17) de = d2* Va da sè che, in quest'ultima formula, i valori di 7, 72, 23 si riferiscono al punto O; quelli di @,f#,y pure ad O e alla direzione del raggio che va a passare per O”. In prossimità di 0’, abbiamo, nella varietà S, un'ampiezza angolare misurata da L'ampiezza euclidea dello stesso pennello vale dw* 00'° dOt = c designandosi manifestamente con 00' la distanza dei due punti in senso ordinario. La (16) dà 00° ni Ng Ng 2 LI 9 > l Yna? + np TTNTETAE (18) dQ,= d2f le quantità accentate riferendosi ad O" e alla direzione del raggio che va a passare per O. i Ciò posto, indichiamo con d9} “000. o da* l'ingrandimento angolare (inteso nell'ordinario senso euclideo) che sì verifica le) per il nostro pennello di raggi, nel passare dall'origine O fino in 0°. Dalle (18) e (17) si ricava là 30,0) =3*(0, o) frena (nie? mi tar)" 00" mai no Ng (°° A n° BA n° y2y/a Il primo membro è funzione simmetrica dei punti 0,0". Lo è quindi anche il secondo. Esprimendo materialmente questa circostanza, si ricava l'estensione della formula di Straubel ai mezzi anisotropi. — 674 —. Per 11= >= n3= 7, si ritrova naturalmente la relazione già data da questo autore. Colle nostre notazioni essa assume l’aspetto J*(0, 0) #%=J*(0', 0) n, da cui apparisce che gli ingrandimenti angolari di due pennelli, diremo così, affacciati, stanno fra loro nel rapporto inverso dei quadrati degli indici di rifrazione nei rispettivi centri. Chimica. — 7rasformazione dell'acido bulirrico in butirrato di propile, per azione della luce. Nota del Socio E. PATERNÒ. Nella Nota V, « Sulla sintesi in chimica organica per mezzo della luce », ci siamo occupati, insieme col dott. Chiefti, del comportamento degli acidi col benzofenone ('). Il risultato più notevole di quelle ricerche è stata la sintesi dell'acido «-trifenillattico dall'acido fenilacetico, e quella dell'acido difeniladipico (o dibenzilsuccinico) dal fenilpropionico. In quanto agli acidi grassi abbiamo osservato che l’acido acetico non reagisce col benzofenone; con il propionico si ottiene solo una piccola quan- tità di resina gialla, mentre con l'acido butirrico la reazione si compie con formazione di notevole quantità di benzopinacone. Fin da principio mi pro- posi di studiare meglio questa reazione, ed il 28 giugno 1909 esposi alla luce un miscuglio di gr. 80 di acido butirrico normale e di gr. 50 di ben- zofenone; dopo circa 10 mesi, cioè al 10 aprile del 1910, ritirai il tubo, che fu lasciato per circa 5 anni alla luce diffusa; ma, occupato in altre ricerche, solo in questi giorni mi fu possibile cominciare lo studio di questo prodotto. Non sembra che durante questo secondo periodo siano avvenute ulte- riori trasformazioni, perchè la proporzione di sostanza solida depostasi non ha apparentemente mutato, nè il colore giallo arancio intenso ha subìto modificazioni. Lasciando al dott. R. de Fazi lo studio particolareggiato dei prodotti di questa reazione, le mie ricerche si limitarono soltanto all'esame di un prodotto secondario volatile di cui ho notato la presenza. Osserverò, prima di ogni altro, che all'apertura del tubo fu osservata una non indifferente pressione, e che potè constatarsi che il gas formatosi era anidride carbonica. Separando per filtrazione alla pompa il benzopinacone dalla parte rimasta liquida, e neutralizzando questa con carbonato potassico, si constatò un caratteristico odore di frutta, prima mascherato da quello, più acuto, dell'acido butirrico. L'etere trasporta dalla soluzione alcalina il ben- zofenone inalterato ed il nuovo prodotto. (') Gazzetta chimica, 1910, parte II, pag. 431. — 675 — Il residuo etereo, sottoposto alla distillazione frazionata, si separa facil- mente in benzofenone, ed in una piccola quantità di un olio più leggiero del- l’acqua mobilissimo, bollente verso 135°, di odore caratteristico e che ha tutto il comportamento e le proprietà del dutirrato di propile. La formazione di questo composto s'interpreta facilmente, supponendo che il benzofenone, per trasformarsi in pinacone, prenda l'idrogeno del car- bossile dell'acido butirrico, e che il composto CH;.CH,.CH;.C00 e CH;.CH,.CH,.C00 che dovrebbe formarsi, perda una molecola di CO, per dare origine al butir- rato di propile CH;.CH,.CH,.C0, YO. CH; .CH,. CH, Nessun esempio di simile reazione è stato finora osservato nelle rea- “zioni fotochimiche; ma la reazione in se stessa non è nuova. Ed invero nella elettrolisi degli acidi grassi è stata osservata la for- mazione, come prodotto secondario, di eteri composti dell'acido con l'alcool immediatamente inferiore. E dall'altro lato A. Simonini ('), per l'azione dello iodio sul butirrato di argento, ha ottenuto appunto butirrato di propile. Onde è provato che, ogni qual volta si tende a togliere agli acidi l'idrogeno del car- bossile, non si ha solo il raddoppiamento della molecola residuale, ma insieme ha luogo eliminazione di anidride carbonica, e così dall'acido acetico si ha l'etano; ma la eliminazione dell'anidride carbonica può limitarsi ad un solo CO:, formandosi come prodotto intermedio dall’acido acetico l' acetato di metile, e dal butirrico il butirrato di propile. L'avere constatato questa reazione anche per l’azione della luce solare, sembra possa servire a spiegare la formazione di alcuni eteri nelle piante. Mi propongo di continuare ed estendere questo studio. (*) Monatshefte, tom. XIII, pag. 320; e tom. XIV, pag. $1. — 676 — Fisica. — Osservazioni a proposito della Nota del profes- sore li. (ruglielmo, dal titolo « Sull'esperienza di Clement e De- sormes e sulla determinazione dell’equivalente meccanico della caloria ». Nota del Corrisp. Guipo Grassi. In una Nota pubblicata nel fasc. 3 maggio 1914 degli Atti di questa Accademia, il prof. Guglielmo solleva il dubbio che il modo ordinario di calcolare dall'esperienza di Clément e Desormes il rapporto fra il calor spe- cifico a pressione costante e quello a volume costante nei gas, basandosi sulla legge delle trasformazioni ediabatiche dei gas come fu formulata da Laplace e Poisson, e di dedurre poi da questo rapporto il valore dell'equi- valente meccanico della caloria, come fece R. Mayer, sia in sostanza una petizione di principio. La ragione di ciò sarebbe che la legge di Poisson- Laplace sulla variazione adiabatica della pressione nei gas vien dedotta dal 1° principio della termodinamica, e cesserebbe d'esser vera se questo non’ lo fosse. L'autore però si propone precisamente di rimuovere quel dubbio e di mostrare che si può dedurre dall'esperienza di Clément e Desormes il sud- detto rapporto senza far uso nè della legge di Poisson, nè del 1° principio di termodinamica. Ora io vorrei mettere ben in chiaro, anzitutto, che non c è motivo di sollevare cotesto dubbio. La formola che esprime il modo di variare della pressione e del volume specifico dei gas nelle trasformazioni adiabatiche, e che si scrive d'ordinario: pv"= cost. (dove /% è il rapporto fra il calor spe- cifico a pressione costante e quello a volume costante), non è una conseguenza del 1° principio di termodinamica e da molto tempo se ne dà la dimostra- zione semplicissima, basata soltanto sulla conoscenza delle leggi di Boyle e Gay-Lussac e sui concetti generici di calor specifico a pressione costante e a volume costante. Se talvolta nei trattati si fa precedere l'esposizione del 1° principio di termodinamica e poi, nello scrivere le equazioni relative alle trasformazioni dei gas, si introducono espressioni che si riferiscono al 1° prin- cipio, ciò non infirma la sostanza della dimostrazione della formola po*= cost., la quale, ripeto, è indipendente dal principio dell’equivalenza. Ad abbondanza, riassumo il procedimento di cotesta dimostrazione. Basta ricordare che la variazione di calore di un corpo qualunque si può espri- mere, per esempio, in funzione delle variazioni di volume e di temperatura, colla formola (1) dQ=c, dt + ldv, — 677 — dove il coefficiente di 4 necessariamente coincide con ciò che si chiama calor specifico a volume costante. Dalle leggi di Boyle e Gay-Lussac si ha l'equazione caratteristica dei gas, pv = R/, e, da questa, (2) pdv + vdp = Rit. Eliminando il vv colla (1), risulta R lv 00 (co+ ! "| di 3 dp e qui evidentemente il coefficiente di 46 deve rappresentare il calor:spe- fico a pressione costante c,; dunque R Geil = nr p Per vedere ciò che avviene in una trasformazione adiabatica, basta so- stituire nella (1) il valore di / ricavato da quest'ultima relazione, e poi egua- gliare a zero l'espressione di 4Q. Se allora si sostituisce a 4 il valore che sì ricava dalla (2), si ottiene dQ= e vdp 4 cppdv = 0 che, integrata, dà la equazione delle trasformazioni adiabatiche sotto la forma consueta po? = cost., e ciò, come si vede, senza presupporre affatto l'esistenza della legge dell’equivaienza. Resta adunque perfettamente rimosso il dubbio dell'A. e dimostrato che, quando si calcola il rapporto # dalla esperienza di Clément e Desormes, sup- ponendo nota la equazione della trasformazione adiabatica, e poi dal valore trovato di X si deduce l'equivalente meccanico, non vi è in questo proce- dimento alcuna petizione di principio. Il prof. Guglielmo giunge sostanzialmente alla stessa conclusione, co- sicchè la mia osservazione potrebbe sembrare affatto superflua; perchè, come dissi, l’A., dopo aver accennato al suo dubbio, si propone di rimuoverlo, ed anzi bisogna dire che è questo lo scopo della sua Nota. Se non che, nel suo modo di considerare l'esperimento di Clément e Desormes per dedurne il rapporto % senza ricorrere al 1° principio di termodinamica, egli, a mio parere, ha equivocato. Ed ha equivocato precisamente perchè ha scelto nna via tale, che, per giungere ad una conclusione esatta, avrebbe dovuto tener conto del 1° principio; ed avendolo invece trascurato, è giunto ad una con- clusione inesatta. L'A. suppone di fare, coll'apparecchio di Clément e Desormes, delle esperienze, nelle quali il gas viene assoggettato a trasformazioni ora a pres- sione costante, ora adiabatiche ed ora a volume costante, e si propone di — 678 — mostrare che si può combinarle in diversi modi e dedurne il valore di % senza far uso della legge di Poisson. Siccome però il modo di interpretare i risultati delle esperienze è basato sempre su di un medesimo criterio, basterà prendere in esame una sola combinazione, per esempio la seguente : L'A. considera le seguenti operazioni : 1°) Si riscaldi 1 kg. d'aria di 1 grado a pressione costante, spen- dendo il calore cy (calor specifico a pressione costante); il volume aumenterà. 2°) Si comprima adiabaticamente il gas fino al volume primitivo; la temperatura aumenta di JT. 3°) Ora, dice lA., se, prendendo l'aria nelle condizioni iniziali, la si riscalda a volume costante di 1--dT, si avrà la stessa aria nelle mede- sime condizioni come dopo le operazioni 12 e 2, e si sarà spesa la quantità di calore c, (14-0T), essendo e, il calor specifico a volume costante. E siccome le due quantità di calore ricevute dall'aria nei due casi devono essere eguali, poichè, dice l’A., non è concepibile che la stessa aria in condizioni eguali possieda diverse quantità di calore, sarà co = (1+ JdT). Il rapporto % risulterebbe eguale semplicemente a 14 JT. L'equivoco sta nel ritenere che debbano essere eguali le due quantità di calore spese nei due casi. È vero che nella 3® operazione supposta si spenderebbe la quantità di calore c, (14 OT); ma questa non può essere eguale a quella c, spesa nella 1* operazione, perchè in quella 1% operazione si è compiuto un lavoro esterno, e il calore equivalente non è rimasto nel gas; e inoltre nella 2* operazione, se non si è comunicato calore (essendo la compressione adiabatica), si è però speso un lavoro esterno, e il calore equivalente fu acquistato dal gas. Bisogna dunque tener conto di queste quantità di calore, positive e negative, per stabilire l'equazione finale: e cioè, come dissi, qnando si vuol considerare l’esperienza da questo punto di vista, bisogna necessariamente tener conto del 1° principio di termodinamica; ciò che invece l'A. voleva appunto evitare. Il ragionamento dunque si dovrebbe completare così: siano p ,v,/ pres- sione, volume specifico e temperatura iniziali, p,v, e 4, i valori dopo il primo riscaldamento a pressione costante; si avrà il calore speso cp (4 — 4) e il calore equivalente al lavoro esterno Ap (v — v), essendo A l' inversa dell’equivalente meccanico. Nella 2* operazione (compressione adiabatica), la temperatura sale da t, a te; il calore equivalente al lavoro di compressione è c, (2 — 11). Nella 3* operazione (riscaldamento a volume costante) il calore speso è colto — È). Eguagliando le variazioni di calore delle due prime operazioni a quella della terza, sì ottiene citi — 0) — Ap(v — v) 4 cite — bh) = este — è), ossia (3) o=tr+APT 7: Invece, secondo il ragionamento dell’A., si dovrebbe avere colti — t) = cAte- 3), ossia 5 ea t (4) Cp = lu pf ; e siccome egli ha supposto |, — {= 1 e pone t#—4,=dT, si ha la for- mola da lui trovata co = c.(1+ dT). La formola (3) non è altro che la nota relazione, per mezzo della quale si può calcolare l'equivalente meccanico, come fece il Mayer. La (4), quantunque inesatta, può all’ A. essere sembrata corrispondente al vero, per essersi egli limitato a considerare, nell’esperimento supposto, il riscaldamento di 1 grado; allora la piccolissima differenza tra il lavoro di espansione a pressione costante e quello di compressione adiabatica fa sì che il risultato numerico sia assai prossimo al vero. Ma si riconosce facil- mente che la formola (4) conduce a conseguenze erronee. Infatti nella 1% ope- razione (trasformazione a pressione costante) si ha bia Ve 7” ’ (2) nella 2* operazione (compressione adiabatica), (5 DA SON Se la (4) fosse vera, si otterrebbe x i s- I) a (2) _ 1 v v Ora, le radici positive di questa equazione sono tre : e propriamente zero, 1 e enfinito. Se si pongono questi valori di % nella formola pv" = cost., vi corrispondono rispettivamente trasformazioni a pressione costante, isoter- miche e a volume costante; ciò che s'accorda con quanto dissi sopra, che cioè l'equivoco è nato dall'aver trascurato la differenza tra il lavoro esterno nella trasformazione adiabatica e quello a pressione costante. Anche nell'ultima parte della Nota, dove l’ A. si propone di mostrare che dall'esperienza di Clément e Desormes si può dedurre l'equivalente mec- canico della caloria direttamente e in modo semplice, il ragionamento pecca per un equivoco dello stesso genere. Volendo semplificare il calcolo del RenpicONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 86 — 680 — lavoro nella compressione adiabatica, l'A. arriva a porre pdvo = — vdp; ora questa condizione equivale a supporre che la trasformazione sia isotermica e non adiabatica. Se, ciononostante, l’ A. giunge infine a scrivere esattamente l'ultima formola che dà l'equivalente meccanico, ciò dipende dall'aver egli supposto che nell'esperienza di Clément e Desormes il rapporto % sia dato esattamente dal rapporto fra le differenze di pressione osservate, mentre quella non è che una espressione approssimata; l’espressione esatta è quella in fun- zione dei logaritmi delle pressioni, che 1° A. stesso ha ricordato in principio della sua Nota. Del resto è evidente che qualunque esperimento, atto a de- terminare il rapporto %, serve pure a calcolare direttamente 1’ equivalente meccanico, quando sì conosca uno dei due calori specifici. Cristallografia. — Sulla sistematica dei cristalli. Nota del Socio C. VIOLA. Benchè sì riconoscesse la convenienza di classificare i cristalli secondo le 32 simmetrie, ciò nondimeno l'antico aggruppamento in 6 o 7 sistemi ha sempre avuto la precedenza per ragioni didattiche, pratiche e scientifiche; io anzi ho fiducia che ciò si manterrà ancora, ciascun sistema riassumendo una serie di proprietà fisiche e una caratteristica delle figure cristalline, che lo rendono individuato completamente e distinto da altri. Ma se l'antica sistematica si è affermata non ostante qualche moderna innovazione, non sì può del pari asserire che le definizioni dei singoli sistemi siano state sempre conseguenti e uniformi. Chr. S. Weiss (') e la sua scuola stabilirono le basi dei sistemi nella disposizione degli assi della piramide fondamentale; R. I. Hauy (?), Broocke, A. Lévy (*) e altri nella disposizione degli spigoli del parallelepido fonda- mentale. Taluni, come M. Bauer (‘), C. F. Naumann (?), Zirkel ecc., defini- rono i sistemi cristallini valendosi delle simmetrie delle forme oloedriche. Altri, come P. Groth (°), Schoenfliess (?), ecc., aggruppano le simmetrie in sistemi, quest'ultimo più conseguente, ma meno felice, creando p. es. il sistema digonale con assi 2-ri esclusivamente e il sistema monogonale senza assi; il primo uniformando il carattere di un sistema con quello della rispet- (1) Chr. S. Weiss, ZVedersichtliche Darst. d. versch. natùr. Abth. der Krystallisa- tions systeme. Abh. Berl. Akad., 1815, pag. 289. (*) R. I. Hany, Zraité de cristall., Paris, 1882. (*) A. Lévy, Descript. d’une collect. d. minéraua formé par M. Henland, Londres 1837. (4) M. Baner, Zehrbuch der Mineralogie. (5) C. F. Naumann, Elem. d. Mineralogie, I ed. 1846. (6) P. Groth., Physikalische Krystallographie, 1905. (?) A. Schoenfliess, Aristallstructur, 1891. Male tiva forma oloedrica, aggiungendo l'equivalenza degli assi, che non è rigo- rosa conseguenza delle premesse. Bravais (1851), Mallard (1879), Wallerant (1909) e in generale la scuola francese fondarono la sistematica sugli edificî molecolari, introducendo così nell’insegnamento una ipotesi che dal punto di vista didattico si dovrebbe sopprimere. Goldschmidt (') credette di riformare e unificare la sistematica, defi- nendo il sistema cristallino come quell'insieme di cristalli che hanno la stessa simmetria degli elementi, ovvero lo stesso numero di elementi varia- bili. Più conseguente, credo, procede in questa questione lo Tschermak. Per lui i cristalli monoclini hanno una zona mediana, rispetto alla quale le altre zone o sono normali o a due egualmente inclinate; i cristalli trimetrici hanno tre zone fra loro normali, e così via. Una sistematica razionale può fondarsi sul principio delle simmetrie, e può essere rigorosamente condotta, come ha fatto vedere il prof. Panebianco (?). Ma è anche facile che l'analogia dei numeri tragga in inganno, come è acca- duto nella sistematica di Schoenfliess. Nè si può dire che Groth, nel definire il sistema esagonale, sia stato felice, giudicando dai risultati ottenuti. Q. Sella (*) non discute nè i limiti, nè le definizioni dei sistemi cristal- lini; seguendo gli autori classici, stabilisce come tipo in ogni sistema la sim- metria oloedrica, e come carattere gli assi di riferimento e i rispettivi para- metri della faccia unitaria. Se io qui spezzo una lancia in favore di una sistematica indipendente dalle simmetrie che possono o no verificarsi, intendo solo rilevare e ribadire il principio, forse meglio di quanto si è fatto fin'ora, pel quale le simmetrie fisiche possono non esserci, non ostante le condizioni geometriche. Alcuni esempî chiariranno il pensiero. Dalle esperienze di Beckenkamp risulta che l’aragonite è o asimmetrica o dotata del centro di inversione: eppure essa è trimetrica, argomentando dalle sue figure. Le figure di corrosione nel gesso dimostrano che questo minerale ha le proprietà fisiche dei cristalli triclini; eppure, dato il suo sviluppo, non può figurare se non nel sistema monoclino. Anche l’ortoclasio, come il microclino, ha la simmetria del sistema triclino, eppure è monoclino. Dai quali esempî si rileva che nè le simmetrie nè l'equivalenza degli assi, come fece il Liebisch (‘), dovrebbero essere guida nella definizione dei sistemi. Mi pare, quindi, che riprendere in esame i sistemi cristallini. rilevarne i caratteri, prescindendo da qualsiasi principio di simmetria o di equivalenza, non sia un lavoro fuor di luogo, specialmente poi se le definizioni, a cui sì (1) V. Goldschmidt, UVeber Arystallsysteme. deren Definition und Erkennung. Zeitschr. f. Krystall. 1899, vol. 31, pag. 135. (£) R. Panebianco, Trattato di cristallografia morfologica, Padova 1904. (*) Q. Sella, Primi elementi di cristallografia, Torino 1877. (4) Th. Liebisch, Geometrische Krystallographie. Leipzig, 1881. — 682 — arriva per questa via, non scompongono l'attuale sistematica, che si è affer- mata e conservata nelle opere dei più insigni cristallografi. Il compito nostro è di far spiccare il carattere geometrico nella figura di un cristallo necessario perchè un elemento di simmetria, asse di simme- tria, asse speculare, piano di simmetria, sia possibile. Per ragioni di chia- rezza e semplicità potremo trattare questo problema dimostrando alcuni teoremi. 1° Teorema. n piano di simmetria è faccia ed è normale a sona. Questo teorema si dimostra graficamente con un tratto di penna. Sia E ed E', rispettivamente, il piano di simmetria (*) (fig. 1); P, e Py’ due facce Fic. 1. simmetriche per rispetto al detto piano, e così pure P, e Py". Le due zone P, Py e Ps Py si incontrano in E ed F', epperò il piano di simmetria è faccia. Di più, le due zone P, Py" e Py' P. si incontrano in R, come le zone P,' Ps e P, Ps sì incontrano in S, quindi il cerchio comune ad R, ed S è zona. 2° Teorema. Un asse di simmetria è zona ed è normale a faccia. Anche per questo teorema una dimostrazione grafica è da preferirsi. Sia l’asse di simmetria normale al piano del disegno e rappresentato dal cerchio fondamentale AA della proiezione stereografica. Se l'asse è binario, sì assu- mono due coppie di facce simmetriche come P, P,' e P, Py' (fig. 2). Le due zone P, P,' e P, Py' si incontrano nel centro 0, che quindi è faccia, nor- male all'asse di simmetria. D'altra parte, le due zone P, P.' e P, P; si ineon- trano nei poli R e R', come le due zone P. P,' e P, Py si incontrano nei (') Per ragioni di brevità, scambieremo i poli con faccie o piani, e i cerchi zonali con zone, 0 spigoli o assi. — 689 — poli S e S': onde il cerchio AA, comune ad R ed S, è cerchio zonale, e l’asse di simmetria è zona. Nella stessa guisa si procede se l'asse di simmetria è 4-rio o 6-rio. Fic. 2. Sia l’asse di simmetria di nuovo rappresentato dal cerchio fondamen- tale AA, 6 siano P, P:Pi..... (fig. 3), le facce simmetriche per rispetto al detto asse. 9 HRIGRS: Le zone P, P, e PP; si incontrano in O, che è perciò polo di faccia normale all'asse. Le due zone P, P, e P, P; si incontrano nei poli R ed R' come le due zone P, P; e P. P, si incontrano in S_ ed S'. Onde il cerchio - AA, comune ad S e R, è zona. — 684 — Se l’asse è 3-rio la dimostrazione geometrica non è possibile; con- viene in tal caso richiamare in aiuto la omogeneità fisica (!). Se la materia è omogenea in tutta la sua estensione, vi esisteranno non uno, ma innumeri assi di simmetria 3-ri paralleli ed uniformemente distribuiti nello spazio; ed un piano che contenga due di essi è luogo di facce, onde l’asse 3-rio è asse di zona, e, come conseguenza, il piano ad esso normale è faccia. Corollario. Zn asse speculare è asse di zona e normale a faccia. Infatti un asse speculare 4-rio e 6-rio è insieme asse di simmetria 2-rio e 3-rio. Fic. 4. 3° Teorema. Una sona normale a faceia è necessaria per l'esistenza di un piano di simmetria, 0 di un asse di simmetria 0 speculare. Benchè questo teorema sia dimostrabile direttamente, è anche l’imme- diata conseguenza del 1° teorema, del 2° teorema e del suo corollario, poichè, se l’asse di simmetria o speculare è sempre zona e normale a faccia, ne deriva che per l'esistenza di essi questa condizione è necessaria; altrettanto dicasi del piano di simmetria. Corollario. / cristalli del sistema triclino sono privi di zone nor- mali a facce; epperò essi sono o asimmetrici o dotati del centro di inver- sione. 4° Teorema. Due gone normali a facce, e inclinate fra loro, traggono con sè la presenzà di una sona ortogonale ad esse, e tante sone normali a facce, quante possono esserci nel loro piano comune. Le due zone 2, e 4» normali a facce P, e P, (fig. 4), faceiano fra loro l'angolo é diverso da 90°. (') C. Viola, Beweis der Rationalitàt einer Symmetricawe. Zeitschr. f. Krystall. 27, pag. 399. — 085 — Il cerchio P. P, P,' P.' è cerchio zonale; e il polo P., incontro delle zone 222, è polo di faccia. Con ciò si vede che la zona P, Py ...., nor- male a faccia è ortogonale alle zone date. Si possono assumere come assi di riferimento le due zone z, e P, P., € come faccia unitaria P. nella comune zona di Z, e P,. Se Qe Q' sono i poli di qualsiasi faccia nella stessa zona facente con Z, l'angolo «, saranno anche Q, e Q,' i poli di una faccia nella stessa zona facente con P,' l’an- golo @«, poichè nel quadrante P,' P3 Z, le relazioni fra i parametri della faccia unitaria Z, e quelli della faccia Q, saranno le stesse come nel qua- drante Z, P, P3, fra i parametri della faccia P, e quelli della faccia Q,; e poichè l'angolo fra Q, e Q: è 90°, si conclude che la qualsivoglia faccia Q, ha per zona normale la P;Q., come a sua volta la faccia Q: ha per zona normale la P; Q,; e così tutte le zone contenute nella faccia P; sono zone normali a facce, ed esse sole sono tali. Due zone normali a facce inclinate fra loro, possono dar luogo a tre casi distinti ed importanti, secondo che, fra le innumeri zone contenute nel loro piano comune, ci siano gli angoli di 45°, di 60° ovvero nessuno dei due. Infatti indiehiamo con 4,4 i parametri fondamentali determinati dalla faccia unitaria Ps sugli assi di riferimento P, P3 e z,. Il loro rapporto è essendo 4 langolo che P. fa con P,. La faccia Z, normale a P, nella zona principule deve avere per rap- porto dei suoi parametri a b, cotag salvo il segno; i due primi indici di Z, sono allora nel rapporto a, ao? sai Ja ag aa il quale, dovendo essere razionale, conduce a tagg=//N, 0 multiplo, essendo N razionale. Ed ecco ora i casì possibili e distinti: Posi =dessaintio —=459 ”» N = 5 ” P == 60° e » N=2,5,6, ecc. sarà diverso di 45° e 60°, ma prossimamente a questi. — 686 — I due primi casi possono essere trattati a parte; il terzo è oggetto di un problema speciale, che può entrare nel 5° teorema e nel 6°. RIGIDI Nel caso in cui si tratti di angoli di 45°, possiamo assumere quali assi di riferimento due zone normali, x, y (fig. 5), e come faccia unitaria quella che con x ed y fa 45°, i cui parametri stanno come 1:1. Sia A,B,, con la polare 0Q, , fig. 5, una qualsivoglia faccia i cui pa- rametri sono a, = 0A, , 0,= 0B, e co. I suoi due primi indici sono nel rapporto a (42 — 1757 C08$2:Sen a. h:k= va D'altra parte, essendo a’ =0Q,'=4dcos a, e 0' = 0Q,"=dsena, gli indici n ed della zona 0Q, normale alla faccia data, saranno nel rapporto r r min= +: = c0s a:sen a. a Vale a dire, essendo (7/0) il simbolo di una faccia contenuta nella zona principale, sarà [/AX0] il simbolo della zona ad essa normale. Fic. 6. Nel secondo caso, in cui si tratta di angoli di 60°, si assumono quali assì di riferimento tre spigoli (zone) 2, , #2, 23 facenti fra loro 120° (180-60) (fig. 6). — 687 — Una qualsiasi faccia A,B, dal simbolo (4770) contenuta nella zona principale, la cui normale 0Q, fa con x, l'angolo @, determina su x, e 23 i parametri CA i cos (60 — a) di == OÀ,; = cosa Ci sarà il rapporto fra i due primi indici h:k= cosa: —co8(60 — a). Gli indici della zona 0Q,, normale alla faccia data, si calcolano (’) col sus- sidio del piano normale alla zona e degli assi polari y, ed ys normali rispetti- vamente a x, e z,. Essendo i rispettivi parametri d d e (OI = bi Ss 0A, =i=fsee , sen(60 — a) sen si avrà il rapporto a_ 6 min=—,i7= Sen(60 — a) :sena. a, bh Questi due rapporti si riducono alle espressioni seguenti : 2 ES II, mpa _ 1/3 h Se n tag a 9 le quali, moltiplicate fra loro, dànno, dopo riduzioni, la equazione 2mk4nk+mh+ 2nh=0, e quindi no 24h ko 24m Dunque una qualsiasi faccia della zona principale data dal simbolo (hkio), ha per zona normale, il cui simbolo è [mw%g0], essendo natural- mente r-+-XkX+:=0 e n 2X4%h ( k—- h er ri kE m_ 2h-4 k (1) C. Viola, Relazione fra gli indici di facce e zone nel simboleggiamento a tre o quattro indici. Rivista di miner. e cristall. del prof. Panebianco, 1909, 20, 70; Id. Veder das in den Symbolen mit vier Indices enthaltene Zonengesetz, Leitschr. f. Krystall., 1909, 16, 345. RenpIcoONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. S7 — 688 — Si comprende che le condizioni date dal 4° teorema soddisfano ai sistemi dimetrico ed esagonale: al primo, se fra gli angoli di due facce nella zona principale ci siano 45°; al secondo, se ci siano 60°. Il terzo caso, quando cioè @ è diverso di 45° e 60°, entra nel 5° teo- rema per casì speciali come è facile rendersi conto. 5° Teorema. Due gone normali a facce fra loro ortogonali traggono con sè l'esistenza di una terza zona normale a faccia, ed una sola. Questo teorema non è che la conseguenza immediata del 4° teorema, poichè, se ivi l'angolo @ fra le due zone normali a facce è di 90°, per ogni e qualsiasi faccia contenuta nella zona principale non si ottiene la zona normale. Le tre zone 2, #2 0 23 sono ortogonali, e si assumono quali assi di riferimento. Tuttavia vi possono essere dei casi speciali, come è apparso nel 4° teorema, nei quali tutte le zone di una zona principale possono avere faccie normali, ma in tali casi sono esclusi gli angoli di 45° o 60°. 1° Corollario. Data l'esistenza di una sola sona normale a faccia, la zona non può essere che asse di simmetria 2-ri, nè mai asse spe- culare. Se infatti quest'asse fosse 3-70, 4-r%0, 6-rîo, ogni faccia in esso con- tenuta sarebbe normale a zona, contrariamente alla premessa. Altrettanto > dicasi di un asse speculare 4-720 0 6-70. I cristalli aventi una sola zona normale a faccia sono monoclini. 2° Corollario. Data l’esistenza di tre sole sone normali a facce, esse non possono essere che assi di simmetria 2-ri, nè mai assi spe- culari. Le tre zone devono essere ortogonali, come risulta dal 5° teorema. Se esse fossero assi di simmetria 3-77, 4-r/ 0 6-77, 0 assi speculari 4-70 0 6-r20, ciascuna faccia contenuta in una di esse, ove ciò ha luogo, sarebbe normale a faccia, contrariamente alla premessa. I cristalli dotati di tre sole zone normali a facce, appartengono al tri- metrico. 6° Teorema. Tre zone normali a facce inclinate fra loro sono con- dizione necessaria e sufficiente perchè ogni faccia sia normale a zona. Siano g, , 62, 23, le tre zone, fig. 7, non giacenti in un piano, con le facce rispettivamente normali P,, P., P:. Per semplicità si sono assunte due di esse zone, 2, @ #2, perpendicolari fra loro, senza che perciò scemi la genera- lità del problema, purchè la zona #3 non giaccia nè nel piano 4, > nè nelle facce P, o P.. Si osservi che la zona P30 determina con la zona P, P» la faccia N, N', ed essendo Pz ed O facce normali a zone ed inclinate fra loro, ne segue che N è faccia normale a zona in virtù del 4° teorema. Sia ora Q, una qualsivoglia faccia, di cui si vuol dimostrare che è nor- male a zona. Si conducono le due zone Q, P; e Qi P3', le quali determinano — 689 — sulla zona P, P. le due facce S, S;" e Ss Se", che sono normali a zone; onde anche le zone Q, P3 e Q, Py" sono normali a facce, e precisamente alle facce R, e, rispettivamente, R.; epperò si conclude che la zona 7,, ad esse comune, è normale a @,. Se con a, ,d,, Cc, si chiamino i parametri di una faccia sopra tre spi- goli di riferimento ortogonali, si sa che gli indici di essa faccia, h,7,/, sono inversamente proporzionali ai detti parametri; altrettanto gli indici della zona normale a detta faccia sono inversamente proporzionali agli stessi para- metri; d'onde segue che, se (#72) è il simbolo di una faccia nel monome- trico, dovrà essere [XX] il simbolo della zona ad essa normale, qualunque sia d'altronde la faccia unitaria. PIG. d. Se si considerano tutte le zone normali a facce determinate in questo teorema e che rispecchiano il carattere del sistema monometrico, tre specie di zone si mettono in evidenza come è rilevato nella dimostrazione del 4° teorema, vale a dire zone nelle quali vi sono angoli di 45°, zone nelle quali vi sono angoli di 60° e zone nelle quali non vi sono angoli nè di 45° nè di 60°. Le prime sono in numero di tre, le seconde in numero di quattro, le terze sono le rimanenti. Ed è facile distinguere queste tre specie di zone e di determinarle da un qualsiasi complesso di quattro facce date. Mi pare che nei sei teoremi qui esposti siano risultate le relazioni che possono esserci fra le simmetrie e i sistemi cristallini; mi pare, anzi, che spicchi chiaramente la condizione geometrica necessaria perchè in un cristallo possa verificarsi un qualsiasi grado di simmetria. Solamente la asimmetria e il centro di simmetria non sono subordinate a veruna condizione. La con- dizione geometrica necessaria perchè assi di simmetria o speculari, o piani di simmetria, dal punto di vista delle proprietà fisiche, siano possibili, è — 690 — dunque l'esistenza di zone normali a facce, ed è quindi naturale che i sistemi cristallini debbano essere fondati sulla presenza di zone normali a facce, dalla quale condizione si deducono le altre condizioni geometriche che usual- mente hanno servito per la definizione dei sistemi. Possiamo ora riassumere i caratteri dei sei sistemi cristallini nel modo seguente: 1°) sistema triclino. Mancanza di zone normali a facce; 2°) 7 monoclino. Presenza di una sola zona normale a faccia; 9°) ” trimetrico. Presenza di tre zone normali a facce; 4°) ’ dimetrico. Presenza di una zona normale a faccia, che è la principale; e tutte le facce in essa contenute sono normali a zone, fra le quali vi sono angoli di 45°; 0°) ” esagonale. Presenza di una zona normale a facce, che è la principale; e tutte le facce in essa contenute sono normali a zone, fra le quali vi sono angoli di 60°; OS) fe monometrico. Ogni zona è normale a faccia. Gli angoli di 45° sono in tre zone ortogonali e gli angoli di 60° in quattro. Il sistema trimetrico è assimilabile al dimetrico, all’esagonale e al mo- nometrico per casi speciali degli angoli, quando cioè nelle tre zone o in una sola di esse tutte le facce sono normali a zone senza la presenza di angoli di 45° o 60°, ossia quando i rapporti dei parametri fondamentali siano ; a — bd = î 5 DT 5 espressi da, = N, e -=]/N; essendo N, e N3 numeri razionali diversi c da quadrati e da 3. Anche il dimetrico e l’esagonale sono assimilabili al monometrico per le stesse ragioni. Ma queste speciali condizioni che forni- scono ì caratteri per i pseudodimetrici, pseudoesagonali, e pseudomonometrici non turbano i caratteri fondamentali dei sei sistemi. Sostituendo le zone normali a facce al criterio degli angoli fra gli assi con il rapporto dei parametri fondamentali, non si è alterato il primitivo con- cetto dei sistemi cristallini, ma all'opposto lo si è rinforzato togliendo nello . stesso tempo la subordinazione dell’equivalenza degli assi e della simmetria. Non sarà difticile di suddividere il sistema esagonale nel sistema esa- gonale propriamente detto e nel sistema trigonale con le limitazioni usual- mente accettate; basterà p. es. aggiungere, al carattere suesposto, che nel sistema esagonale non vi sono mai meno di 6 zone egualmente inclinate verso la zona principale, e nel sistema trigonale ve ne sono tre. Il criterio della zona normale a faccia come condizione geometrica neces- saria per il verificarsi di una data simmetria, può essere punto di origine per dimostrare elementarmente le 32 simmetrie possibili nei cristalli, e in ogni sistema. Ma io mi sono limitato qui esclusivamente ai sistemi cristallini; ed uscire dallo scopo, che mi sono prefisso nel pubblicare questa Nota, se volessi divagare in altri problemi, per quanto fra loro connessi. Essi potreb- bero, al più, formare oggetto di un'altra Nota. — 691 — Matematica. — / teorema del valor medio. Nota di GuIno FuBINI, presentata dal Socio C. SEGRE. Nella teoria degli integrali multipli manca, a quanto io so, una gene- ralizzazione del teorema del valor medio, che pure ha tanta importanza per la ricerca delle funzioni primitive di una funzione di una sola variabile. Cosiechè non è ancora dimostrato che una funzione additiva di insieme sia determinata dalla sua derivata. Queste domande mi sono state suggerite dalle esigenze dell’insegnamento per una esposizione elementare della teoria degli integrali multipli. Questi problemi diventano banali, nei casi che l’in- tegrale (inteso anche al modo del Lebesgue) della derivata esista, e sia uguale alla funzione primitiva. In una precedente Nota (') ho già trattato di tali questioni; nella presente ricerca do alcuni teoremi che, sotto certi riguardi, esauriscono la questione proposta. Per chiarezza ripeterò alcune definizioni. Sia J un dominio misurabile ad una, due o tre dimensioni. Con la lettera T indicherò sia un qualsiasi dominio parziale di J, sia la sua mi- sura (per es., lunghezza, area, volume, ecc.). Diremo che / è funzione di T, se per ogni tale dominio T è determinato uno e un solo valore /(T) della / (?). Se per ogni terna di dominii parziali T,T,,T: tali che T=T,+T, è {(T)=/(T,) + /(T:), la / si dirà funzione additiva. Se T è un campo /(T) parziale, e se esiste ed è tinito il limite (*) di q: quando la massima distanza tra un punto variabile in T, e un punto fisso A di J tende a zero, tale limite si indicherà con /"(A) e si chiamerà la derivata di /(T) nel punto A (*). (!) Esiste un corpo pesante a densità nulla?. Rendie. della R. Accad. delle Scienze di Torino, 1915. Il risultato di questa nota è ricordato più avanti; il suo titolo invece non è stato scelto bene, perchè se la derivata (densità) è nulla, ad essa si possono applicare i teoremi del Lebesgue. (*) Definizione e notazione atiatto simili a quelle usuali per le funzioni di una sola variabile. Valgono osservazioni critiche affatto analoghe a quelle che si possono svolgere in questo caso elementare. (3) Sul significato della parola limite in questo caso non possono sorgere ambiguità. (*) Se Jè un intervallo a =x =, T un intervallo 71 <= 2 2, con a =, = = x, =D, se (x) è una funzione della # definita in J, ed IT) = g(2,) — g(2,), allora la definizione qui data per /"(A) coincide con l’ordinaria per la derivata di @ nel punto A con questa sola differenza. Per calcolare la derivata di g nel punto A si suppone di solito che T sia un intervallo avente un estremo in A, mentre per calcolare la derivata di / secondo l’attuale definizione si suppone soltanto che è due estremi di T tendano al punto À. — 692 — Così, se J è una lamina, o un corpo pesante, ed /(T) è il peso del suo pezzo T, allora /"(A) vale la densità in A. Così, se /(T) è l'integrale esteso a T di una funzione continua g delle coordinate di A, allora /"(A) vale yg(A), cioè il valore dell'integrando nel punto A. Le domande più importanti sono le seguenti: Supposto /(T) deriva- bile in ogni punto 1°) è possibile estendere i teoremi di Rolle e del valore medio? 2°) la funzione f(T) è completamente determinata dalla conoscenza di f'(A)? A queste domande nella mia Nota citata ho dato risposta affermativa con questa ulteriore ipotesi. Se per es. J è un dominio del solito spazio (x,y) si suppone che il valore di /(T) corrispondente a un dominio parziale compreso tra due piani 7," paralleli a un piano coordinato tenda a zero, quando tende a zero la distanza dei due piani 7°, 7". Ma, anche per capire le ragioni intime del solito teorema del valor medio, è assai importante rispondere alle domande 1) e 2*) senza imporre alcuna ipotesi (oltre a quella che /(T) sia additiva e derivabile). Per giungere a tale risultato si osservi che l’ordinario teorema del valor medio si può enunciare nel modo seguente: A) Se g(x) è una funzione derivabile nell'intervallo a =x = b, 6) — g(a et, allora il numero ® — 90) ") sie) è un numero compreso tra € limi superiore L ed inferiore L della y'(x) nell'intervallo (a,b). Ed anzi, se L>!, allora proprio L>® >, cioè P non coincide nè con L, nè con LL. B) (Teorema di Darboux). Se ® è un tale numero compreso tra L ed l, esiste almeno un punto c dell'inervallo (a,b) tale che g'(c) =D. Dai due teoremi (A) e (B) segue l’ordinario teorema della media. Qui dimostreremo che il teorema della media enunciato nella forma A) vale proprio per le funzioni additive più generali (mentre % teorema della media, enunciato nella forma usuale, è stato dimostrato soltanto con l'ipo- tesi restrittiva su ricordata); e ne dedurremo la risposta alla domanda 2). Se f(T) è funzione additiva e derivabile dei dominii T parziali di un dominio finito e misurabile J, e se L,l sono i limiti superiore ed inferiore dei valori f'(A) della derivata f' nei punti A di J, allora i I (J n= >, Ed anzi, se L>lL, è proprio u>l0 5 (I) Supponiamo positiva la misura dei campi T. Indichiamo con e un numero positivo arbitrario. La derivata di g(T)=/(T) —(L+«)T vale (*) Si suppone f derivabile anche sul contorno di J (ipotesi inutile se J è un seg- mento ad una dimensione). Raggi f'—L—e ed è sempre negativa (!). Io dico che anche 9(T) può assumere soltanto valori negativi. Sia infatti T, un dominio parziale tale che g(T,) = 0. Scomponendo T, in due dominii parziali T, T3 tali che T=T,+ Ti; sarà g(T.)= g(T.) + 9(T:) => 0. Quindi almeno uno dei due addendi g(T%) , 9(Ts), non è negativo. Sia p. es. 9(T.) = 0. Scomposto T, in due campi parziali T;,T;, almeno uno degli addendi g(T3),g(T3) non è negativo. Sia p. es. g(T3) = 0. E così via. Possiamo facilmente determinare una legge di divisione in campi par- ziali, in guisa che i campi T,,T,T;, ecc., abbiano a comune un solo punto A, in altre parole in guisa che esista un punto A tale che la mas- sima distanza da A ad un punto di T,, tenda a zero per n= co. Allora g'(A) è anche il lim ia positiva o nulla. Sarebbe quindi g'(A)= 0 contro quanto abbiamo osservato. Î dunque 9(T)<0, cioè {(T) — (L+T<0, cioè (O Le. Fa- , cioè è il limite di una frazione cendo tendere e a zero, si trova (0) n. In modo analogo si trova LCD) ZI T Supponiamo ora L>/. Sostituendo, caso mai, lo studio della /(T) —LT a quello della /(T), possiamo supporre L= 0, e quindi / negativo. Da quanto abbiamo già provato segue che per ogni campo parziale T è (0 20 sì e quindi /(T) = 0. Sia, se possibile, O) _ , cioè /(J)=0. Sia T, un qualsiasi campo parziale, e T, il campo complementare J— T,. Sara /(L) = 0,7(D)=0. Poichè, 0-77) (1), sarà proprio /(T,)=0. Cioè la / sarà identicamente nulla. Altrettanto avverrà quindi di /' e di /. Sarebbe dunque, contro l'ipotesi, L= /. Se ne deduce tosto la risposta alla seconda domanda col seguente teo- rema : Se due funzioni additive e derivabili f(T),g9(T) hanno derivate (finite) uguali, esse sono uguali. Infatti, dalla //=g'" si deduce che /(T) — g(T) ha derivata nulla. I limiti superiore ed inferiore di tale derivata sono dunque nulli. Per il teorema precedente è dunque /(T) — g(T)= 0, cioè /(T)=g(T). Questo risultato si può riguardare come punto di partenza per la ricerca delle funzioni primitive di una funzione data: ricerca che ha così intimi contatti con la teoria degli integrali multipli. E resta in modo affatto elementare reso evidente il legame fra tale teoria, e quella degli ordinarii integrali definiti. (') Qui si suppone L finito. Se fosse L= -+ cv, ogni dimostrazione sarebbe eviden- temente superflua. Sii Fisica matematica. — Sulla propagazione di onde elettro magnetiche in un conduttore toroidale. Nota di A. SIGNORINI, presentata dal Socio T. LEevI-CIVITA, $ 1. In questa Nota, e in un'altra che le farà immediatamente seguito, mi occupo della propagazione di onde elettromagnetiche in un conduttore metallico toroidale, assumendo a caratterizzare la dipendenza dal tempo un fattore complesso del tipo e° (v cost. reale) e supponendo il campo elet- tromagnetico identico in tutti i piani meridiani del toro (*'). Subordinata- mente a tali ipotesi, riferisco la mia ricerca alla propagazione d'onde che ‘in corrispondenza ad un valore prefissato dell’intensità efficace della corrente, minimizza il valor medio (rispetto al tempo) del calore di Joule (relativo a un tratto qualunque del conduttore): cioè alla propagazione d'onde che al crescere indefinito del raggio della circonferenza direttrice del toro (?), si riduce alla propagazione che viene ordinariamente assunta come tipica nel caso di un conduttore cilindrico (a sezione circolare). Di una tale propagazione è facile provare l'unicità: della sua effettiva esi- stenza non do in questo lavoro una dimostrazione rigorosa altro che nel caso particolare dei campi stazionari, e ammettendola senz'altro pel caso generale, determino un'espressione del campo elettromagnetico che ha valore tutte le volte che il toro sia sottile, cioè sia piccolo il rapporto g va il raggio della sua sezione meridiana e il raggio della sua circonferenza direttrice. Per brevità non sto qui a riassumere i risultati cui così pervengo, e mi limito a rilevare che per la propagazione d’onde in questione il distacco dalle formole relative al caso cilindrico sì manifesta per quel che riguarda gli elementi locali del campo elettromagnetico (forza elettrica, magnetica, ecc.), appena si tenga conto di quantità dell’ordine di grandezza di g: per quel che riguarda gli elementi globali (calore di Joule, resistenza efficace, autoinduzione ecc.), solo quando si tenga conto anche di quantità dell'ordine di grandezza di g?. Aggiungerò infine, rimandando di questo la dimostrazione a un prossimo lavoro, che la teoria delle funzioni di linea dà modo di trasportare inalte- rate tutte le formole stabilite al caso generale di un tubo conduttore sot- tile (a sezione circolare, ma) a direttrice qualunque: colla sola avvertenza (') Ciò che dal lato matematico è perfettamente compatibile colla forma delle equa- zioni del campo, e fisicamente è giustificato tutte le volte che la lunghezza d’onda rela- tiva alla propagazione considerata sia grandissima rispetto alle dimensioni del conduttore. (*) V. A. Signorini, Sulla propagazione di onde elettromagnetiche in un condut- tore cilindrico. Questi Rend., vol. XXIII, serie 5*, 1° sem. — 695 — di sostituire in esse al raggio della circonferenza direttrice del toro. il raggio di curvatura della direttrice del conduttore, relativo alla sezione cui le for- mole stesse hanno da essere riferite. $ 2. Siano: C' la circonferenza direttrice del toro ; 4 il suo raggio ; e Varco di € contato da un'origine arbitraria; P_un punto qualunque del toro; C la sua proiezione su €; S la sezione normale del toro condotta per C; è il raggio di S; # la normale ad S orientata concordemente al verso posi- tivo di C. Riferito il piano di S ad un sistema di coordinate polari di origine C, assumendo il raggio di € (orientato verso il centro) come raggio polare, e contando le anomalie in verso destrorso rispetto al verso positivo di C, siano infine 7, 4 i valori di tali coordinate in P. Posto: riferiamo le equazioni dell’elettrodinamica al sistema di coordinate curvi- linee (2, 0, 3). Dentro il toro, supposto il campo elettromagnetico indi- pendente da # e trascurando le correnti di spostamento, le equazioni di Heaviside-Hertz assumono allora, con ovvio significato dei simboli, la forma seguente (‘) 4nob , _1(>d(eHz) 3) en dI | 4710 il (O) G ATE o(1— og cos 4) 33 (Bal — CADI) 470) —1 d i — a nl Sa). c i Taggia qa); __ Bb 9dH, 1 d(eEz) de) cdot el de I | ud dHo 1 d = Dal codÌ o(1— 0g cos d) dI i Pal (*) V. A. Signorini, esistenza effettiva e resistenza ohmica. Questi Rend., vol. XXV, ser. 52, 1° sem RenpiIcoNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 88 — 696 — Evidentemente si può sempre soddisfare a queste equazioni ponendo, qualunque siano P e {: (8) E,=E;=H,=0. S 3. Supposto il campo elettromagnetico non stazionario, assumiamo a caratterizzare la dipendenza dal tempo un fattore complesso del tipo ei (v cost. reale + 0) e poniamo eg E p=j/trinro ini kl. e V2 Nel toro si avrà così una propagazione di onde elettromagnetiche P, il cui studio quando valgono le (3) si ridurrà essenzialmente a quello del- l’unica equazione 1 dEn dE, 1 DE, 4 v—_ _ = n_1l n cos di ui DÀ be g° E E, -—-— w#1@1_—_— @ o 212 asi di 1— og cos d E pina Cla ottenuta eliminando (per derivazione rispetto a :) H, ed Hz tra la (1), e le (2)s, (2). ? $ 4. Siano E, H® ji valori di E e di H relativi ad una propaga- zione d'onde P, (supposta esistente) che in corrispondenza ad un determi- nato valore J dell'intensità efficace della corrente ('): NIN See pe o v >iyi 2 o eff = — Lt R. { 1, ds —=il Jan VS «| s i 2 minimizzi il valore medio rispetto a # del calore di Joule relativo a una qualunque sezione normale del conduttore. Siccome nel sistema di coordinate curvilinee (2,0, 4) l'elemento del volume è espresso da d7 de dd 0(1 — 0g cos d), avremo, come espressione di tale valore medio : |, ds] Oa sf î uf } R°(E,) + RI(Es) + R?(Es) { (1 — 0900089) ds = a 3), {[En|® + [Bs|? + [Bel®{ (1 — eg cos: 9) d$ (*) Adottiamo fin da ora i simboli consueti Re(a),Im(4) per rappresentare rispetti- vamente la parte reale e la parte immaginaria di una quantità complessa a: talvolta però ci sarà più comodo serivere 4’, a” al posto di Re(a),Im(a). — 697 — Evidentemente dovrà essere: boe — E! =(H —=)0. È poi facile con- vincersi che non può esistere più di una propagazione d’onde che soddisfi alla condizione voluta (*) (quando si considerino, naturalmente, come identici () Supposto invero che ne esistano due, Pl e P°9° siano E°, El i valori ad esse relativi di E,. In base alla condizione 0 Jade V2 Spies | = - I. riu SÌ vV2 |/s potremo sempre ammettere che sia i El as— f Eîd8, Ss J8 onde, stante la linearità della (4) rispetto ad Ex, qualunque sia la costante (complessa) y, si avrà una propagazione d’onde corrispondente al valore J dell’intensità efficace, assu- mendo Ep=Ey=0 Ey=E® Ly E), Per una tale propagazione, posto v=yV+iy" f E [EM _ E} (1 — ogpcos9) dS$=I1+-il” li m (ida aZA Le} 1) ( 2 ) + (92479) (em Em (— opcosa)dS. In conseguenza (al variare di y’ e y”) Q assumerà anche il valore (minimo): TESE Q=5} (IEP A — epersords — ) i RI — El (1 — egcos #)d8 J8 Non potendo, per ipotesi, essere mai o Q< 3 (Lr (1 — 0@cos9)dS, ciò porta di conseguenza I =1I”=0, e successivamente: KRSIA1—ep0089) ds = FATA pers) ds + ci (ee — El" |? (1— 0@cos#)dS. /S E questo è inconciliabile coll’ipotesi che Io e Doe corrispondano allo stesso valore del calore di Joule, se non è: il IE! — EI} (1— 0@cos8) dS=0, S cioè, (dal momento che essendo v+0 il campe elettrico individua il campom agnetico) 1 ) . & se peo e DE non coincidono, — 698 — due campi elettromagnetici che possano dedursi l'uno dall'altro moltiplicando E ed H solo per una costante complessa di modulo 1). $ 5. Ammettiamo che esista una /,, per ogni valore di (v,u,0,0,e)g: ammettiamo ulteriormente che sia possibile porre (5) Ei e) giace) pid encoslà, 0 (1) 0 ove le e;, (le e;) dipendono da @ (da 0 e 4) ma non da %, e, almeno dentro il toro, sono funzioni regolari dei loro argomenti. Il valore di Q corrispondente a P, sarà allora espresso da (!): (6) Qu = di | e0 È0 dS+9 | (co e14+er0, — 00089 0900) dS + 2(/s S 9 | (00 0 in Ci 0 + es e — 00089 [0 + e, 60]) dS + ni S Introducendo nella (4) l'espressione (5) di E, sviluppando il primo membro in serie ordinata per le potenze di ed eguagliando a zero i coeffi- cienti delle singole potenze di , sì trova: le otese ore Mido si k? 2 = () (4) o 39° de" o de Gea Li ratentinY diem a [aladaa PIANTI 1 des Ss R na diadstagi>. E NIS2: PAZZO, I sen Giga (3) o 39: 1 del A e ai AO 1 de» 0203 1 des O 3 + o + + ge db? C° == Na e° dI? de? e de ; n) 1 de — 0 008.9 | c0sI Se TSI 3g 10089 nat ecc. ecc. Vedremo nei prossimi paragrafi che queste equazioni forniscono per ciascuna delle e9,, €11, €27, ... un'espressione in cui resta indeterminata solo una costante d'integrazione di, (d(=0,1,2,..), da supporsi, come le eg, indipendente da g. La determinazione delle d dovrà, naturalmente, essere eseguita in base alle condizioni che detiniscono la Pm. A questo scopo osser- (') Si osservi che le e; sono necessariamente da supporre funzioni pari di #,, perchè, come è subito visto, la P,, in conseguenza della sua unicità, deve risultare simmetrica rispetto al piano della circonferenza direttrice del toro. Qui e nel seguito il soprassegno sta ad indicare, come è di consuetudine, il pas- saggio da una quantità complessa alla sua coniugata. — 699 — veremo in primo luogo che subordinatamente alla (5) si ha do Y.,g' | ew 08 ) Tr /S o 2° i IA o Sas eff ÎE ZE DO onde la condizione (10) Je= J sarà soddisfatta qualunque sia g, allora e allora soltanto che le d siano scelte in modo che risulti: (11) Di. f 1008 In corrispondenza a ciò, cercheremo di individuare le singole d con un procedimento d’'esclusione. Precisamente, scarteremo quei valori delle d pei quali si sia potuto riconoscere che, anche solo per uno speciale valore di @, non minimizzano Q subordinatamente alle (11) e (12): e quando accada che dagli scarti fatti non rimanga escluso per una delle d altro che un valore ben determinato e finito, riterremo senz'altro che esso sia il valore cercato di tale d. Questo procedimento, come vedremo, risulta sufficiente alla determinazione completa della E°, almeno nell'ordine d’approssimazione cui limiteremo la nostra ricerca: ma non è da tacere che le ipotesi già fatte riguardo all'esistenza e alla proprietà della Pm non sono sufficienti a giustificarlo rigorosamente. Del resto, fin da quando abbiamo ammessa senza dimostrazione l’esistenza della Pm, ci siamo posti da un punto di vista essenzialmente euristico, rinunziando a svolgere la ricerca in modo che non si prestasse ad alcuna obbiezione di carattere rigorista. $ 6. Dalla (7), posto ar =, segue (12) {d8=0 (f=1,2,.) /S devi 1 desi dx? CO, IZ +(1-G)e=0 USO) onde eo, dovendo anche per (0= 0, cioè) r= 0, mantenersi finita, risulta espressa, come è ben noto, da: lau = 9 Ji(x) (MESERO La (11) fornisce per la do: 2J i HE 9 c| {0 ds | — 700 — donde è per noi lecito dedurre (!)- (13) eee NS o (32) 1° 2robI(k5) IS D'altra parte (*) Q° non potrà per p= 0 assumere il minimo valore com- patibile colla (10) altro che quando sia do = 0 (2 =>. 1) . Sarà dunque da assumere JV2% (14) e0= 00 Jo(2) = 2770 bJi(k0) To(2) . S 7. Dalla (7) tenendo conto della (14), si ka d?en 1 den 1? (15) + +(1-Z)ao0 d+1) den 1de 1 a do) PRO EA a +(1-33) i) ove si è posto Dalla (15) risulta subito ea=d1I(x), e in conseguenza la (11) dà hb fr as= Elle (Ia) de = EI II) =, s k® o k cioè, la J,(x) non avendo mai radici complesse (*), div = 0. Dalle (16) si ottiene poi (*): (*) Cfr. $ 4 in fine. (2) Ved. loc. cit. (*) a pag. 1. (*) Cfr., ad es., Riemann-Weber, Die Partiellen differential-Gleichungen der Ma- thematischen-Physik, Bd. I, $ 74. (‘*) Fin da questo punto è forse utile rilevare che, qualunque sia n: 1°) valgono le ben note identità DI nni) ya(0) +In(e) SOLO. lia) Ino); 2°) l'equazione d’e(x) , 1 de(a) n? da? + Ge +e(1-7)=0 — 701 — RIN | CRE “Vi 4 I2/,M\ , NA n= fl Ida da ao Do I(@) jd ci i Du a 7 o ni Se ne conclude, la e, è del tipo: GSO a (EM) ce = c084 (0, — K)J(x) + i To(2) | + >_,01008/9 J(2). 2 $ 8. Dalla (9) in base alle (14), (17) segue d°*e% ib dex da* x da __L_ LAORE A ce a ii = zio de (MR) Me + PL), essendo soddisfatta da e(2) = Jn(v), l'integrale più generale dell'equazione d’e(a) | 1 de(2) da? a da n° +e(1- 2 )= 0) che si mantenga finito per 2 =0, è dato da e(2)=In(2) | 104 zi n) AS, e" F(a') In(x) da" 2°) dalla formola ben nota 2e (* 0In'(c0) de = In(@) In+1(@) + @ CI” n+1(0) Ja(a) — Ja(@) Jn+1(0)], Cu) segue jo e" J n° (a) d = Gi Jn(2)) Jeti(2) + x [I nta (2°) In(d) a In) Ins:(2)]! Dea L) — 702 — donde risulta LATP SO! n da' dr lo00 = Told) ) ds0 + 2kb. È 3 OSE ; To(x) XxX x | — E) I(a2+% 2° (1) | i I I =Io ta), 70% x Jai [os I(x") (6, +2K) — 3 Ka""Jy(a") YI ia" )] da''= da' TREN e) K 3K Da, @+75 (0, i+) + i ela). Per la (12) la d», dovrà essere determinata (in funzione di d,,) in modo da soddisfare l'equazione kb kb 1 K 0= l'omadr= (a S00I() + pz(n +3) 21M + ‘ 0 DI 0 hd / 3K +35 2° I2){ Siccome è kb Jola) x de = AbJ:(kd) IE Eee) fe Jo(x) de = 248° I(kb) + #bI:(45) (425° — 4), 0 ciò dà senza difficoltà Js(kD) 4J:(Xd) doo A 6) ds0 “Hr (1 K) assi 16 e in conseguenza _ SE du I(k0) _ 30) (18), dxo=dJo(£) ) 4 J,(Kd) 16 |) n aI(e) K\ _, 2°J(2)3K LEA) (+3) + 16%d SR Astronomia. — Sulla osservazione meridiana delle stelle quasi fondamentali. Nota di GrovANNI ZAPPA, presentata dal Cor- rispondente A. Di LEGGE. L'osservazione delle stelle fondamentali e delle quasi fondamentali, de- stinata alla determinazione delle loro posizioni assolute o quasi assolute, è eseguita in un numero straordinariamente piccolo di Osservatorî, perchè rarissimi sono gli strumenti meridiani di tal bontà ed in tali condizioni da poter essere usati per tale scopo. Per le quasi fondamentali soccorrono le osservazioni differenziali in zona quando siano eccellenti, e quindi eseguite con strumenti ottimi od ottimamente studiati: ma il procedimento fino ad ora tenuto per esse può venir oggi utilmente modificato in modo da aver non solo risultati migliori con gli strumenti buoni, ma altresì risultati preziosi anche con strumenti mediocri; cosicchè la maggior parte degli strumenti meridiani oggi in uso potrà contribuire alla costruzione del catalogo di fondamentali dell'avvenire immediato, vale a dire di quel catalogo che con- terrà, oltre alle attuali fondamentali con posizioni migliori, le stelle che oggi si devono considerare soltanto come quasi fondamentali. La base essen- ziale di questa modificazione è nel « Preliminar General Catalogue » di L. Boss, e in determinate particolarità di esso, non comuni a nessun catalogo precedente. Questo catalogo, pubblicato circa quattro anni or sono, contiene le posizioni normali, cioè le posizioni più probabili che si possono dedurre dalle osservazioni, fino ad ora eseguite, di oltre 6000 stelle sparse per i due emisferi, nelle quali sono comprese le fondamentali di Boss stesso, mentre le altre sono stelle con coordinate di poco inferiori in precisione quelle delle fondamentali, cioè sono, come si dicono, quasi fondamentali. Per ogni stella (e questa è la nuova caratteristica importante del catalogo) è dato l'errore probabile di ciascuna coordinata per il 1910.0 e gli elementi per ottenere lo stesso errore per gli anni precedenti e seguenti (errore pro- babile dei moti proprî), cioè sono dati i mezzi per una stima completa del- l'esattezza probabile di ciascuna posizione. Sulla base dell'errore probabile di Boss si possono distinguere le sue fondamentali dalle altre sue stelle, nel senso che quelle sono nel loro com- plesso le stelle le quali hanno un errore probabile per ciascuna coordinata =0"12 ed una buona parte di quelle che hanno un tale errore = 0”16. Questo limite non nitido dipende dal fatto che la scelta delle fondamentali fu fatta da L. Boss anche in base ad un concetto di uniforme distribuzione; ma questo criterio è pel momento un criterio di comodità per fornire punti di riferi- mento in tutte le regioni del cielo e per richiamare l’attenzione degli astro- RenpIcoNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 89 — 704 — nomi, che si dedicano a migliorare le posizioni delle fondamentali, su quelle stelle che più sono adatte ad esser tenute oggi e domani come fondamen - tali (domani potranno esser, più esattamente, fondamentali di prima classe). Ma se vogliamo dire, come ci occorre anche per quel che segue, che sì devono ritenere come fondamentali le stelle che hanno le coordinate d’una precisione determinata, possiamo stabilire di chiamar fondamentali le stelle che hanno un errore probabile per ciascuna coordinata < 0".15. Oltre queste stelle, il cui numero supera di poco il migliaio, sì hanno nel P. G. C. quasi cinquemila stelle che hanno l’errore probabile di ciascuna coordinata minore di 0”.30, ed altre poche che superano questo limite. Ora, per- quasi tutte queste cinquemila stelle valgono le osservazioni differenziali, e con esse è possibile, anche con mezzi modesti, quando si eseguiscano osservazioni appro- priate, ottenere posizioni che possano esser utilmente considerate nello studio di quelle stelle per la formazione del prossimo catalogo di fondamentali. La maggior parte dei cerchi meridiani. migliorata per alcuni la col- locazione, sono certo in condizione di dare buone osservazioni differenziali in una zona di ]O gradi in declinazione per regioni di 3% di ascensione retta, intendendosi, con questo, che anche gli errori strumentali possono esser determinati con la precisione sufficiente per riferire un astro della regione al baricentro di alcuni altri distribuiti abbastanza uniformemente nella regione stessa. Ora in una zona di 10 gradi si contano in media 300 stelle del P. G. C.; nelle zone vicine al polo il numero sarà molto minore; nelle regioni vicino all’equatore, un poco più forte. Se, per essere esatti, con- sideriamo le zone, anzichè di un numero eguale di gradi in declinazione, a intervalli uguali di sen d (zone di uguale superficie sulla sfera), per una distribuzione uniforme nel cielo dovremo avere un numero costante di stelle. Dividiamo dunque la mezza sfera in zone in cui send abbia un’ escursione di 0.10, e avremo le zone seguenti: da 0° a 6°, da 6° a.129 da 12°%3 189 dan18% a 2407124399024 ciascuna di 6° da 80° a 87°, di 7°,; da 37° a 45°, da 45° a 59°, ciascuna di 8°; da 53° a 64°, di 11°, e l’ultima da 64° a 90°. Queste zone contengono all'incirca 300 stelle del P. G. C. e sono tutte di tal larghezza da esser considerate non troppo ampie, fuorchè l’ultima, che escluderemo, anche perchè le nostre considerazioni non si applicano alle osservazioni troppo vicine ai poli. Ora, 300 stelle dànno, per ogni 3 ore, 38 stelle circa, vale a dire una stella ogni cinque minuti di ascensione retta : si ha dunque un materiale non scarso per una osservazione continuata, anche se ammettiamo che per la non uniforme distribuzione delle stelle il pro- gramma di osservazione possa comprendere solo 25 stelle. I coefficienti degli errori di orientamento per tali zone differiscono, a una latitudine di 46°, e, si può dire, a tutte le latitudini degli Osservatori Ml boreali, dal valore medio di ciascuna zona dell'importo della tabella seguente: azimut | inclin, | zona limite collim. | azimut | inclin. zona | limite | collim. 1a 0° + 6°| 0.00 | 0.04 | 0.04 | 62 |+30°+387°|0.05 | 0.06 | 0.06 det d (602ba19 | col) 040) 0478. | 87 445.08 | 09.|--08 gala deagi) coll 04%) 0488 4558) 12. 12 48 |4+18 +24] 02 | 04 | 04 | 9° |+53 +64) 31| 25 | 26 58. |424 +80] 08 | 05 | 05 Se poniamo la condizione di tener conto dell’ effetto degli errori che superino 05.005 cosd, si devono conoscere le costanti strumentali tenute costanti durante ciascuna sera, con l’approssimazione che segue: zona limite collim. | azimut | inclin. zona limite collim. | azimut | inclin. i* 0°-+ 6°| 2, | 0.1) os1] 62 |[+30°+37°| os1| 001| 0.1 pa DL Mi RR a i i i Ea a gl SR OR 05 OT O se 4558 (0.07 0.07] 0,07 48 |-4+184+24 | 0.8 | 01 | 01 | 9* |+53 +64 | 0.08) 0.04| 0.04 52 |+24480 | 02) 01] 0.1 e per le zone australi che possono esser osservate negli Osservatorî boreali valgono i numeri della zona 1. La precisione così determinata è tale che essa, ed anche una maggiore, può esser facilmente ottenuta col maggior nu- mero degli strumenti meridiani. E le eventuali variazioni delle costanti durante ciascuna sera, per le quali la precisione definita non basta, potranno venir scoperte o meglio determinate nel modo che vedremo da ultimo. Continuando a trattare della determinazione dell’ascensione retta, veniamo al punto più importante: la correzione dell'orologio. Si osservano, come si è detto, 25 stelle del P. G. C. ciascuna sera; di esse, !/s è di fondamentali, e il resto con un errore probabile variabile da 0”.15 a 07.30. L’errore del- l'orologio deve esser determinato con tutte le 25 stelle, tenuto conto del loro errore probabile, e non, come sinora si è fatto, con le sole fondamentali; in altre parole, ciascuna quasi fondamentale sia riferita al baricentro pesato delle 25 stelle, non al baricentro semplice delle sole fondamentali. Sia 0”.35 sec d l'errore probabile di un passaggio, osservato con uno degli stru- menti medii, di un passaggio osservato, intendiamo, non di una ascensione — 706 — retta conclusa, vale a dire, sia valutato tenendo conto dell’ errore di osser- vazione e dell'errore di riduzione per le costanti strumentali e non di quello del punto di riferimento, di modo che l’ osservazione di ciascuna stella darà luogo ad un valore del 47, uguale alla differenza tra l’ascensione retta di L. Boss e il tempo osservato e corretto, il cui errore probabile sarà 1/0".35°% + a? sec d se a è l'errore probabile dell'ascensione retta del P. G. C. Dividiamo ora, per semplicità, le stelle del P. G. C. in tre classi; nella prima poniamo quelle che abbiamo definito come fondamentali, e ad esse attribuiamo un errore probabile medio di 0”.12 sec d; in una seconda classe poniamo quelle con errore probabile da 07.15 a 07,24, alle quali attribuiamo un errore probabile medio di 0”.19 secd; e in una terza classe poniamo tutte le altre e diamo ad esse un errore pro- babile di 0".27 sec d. All'ingrosso, possiamo dire che ’/; delle stelle osservate sarà della prima classe, */; della seconda, e ?/; della terza. Allora i valori del 4 delle tre classi avranno un errore probabile rispettivo di 0.37 sec d, 0".40 sec 0, 0".45 sec d: vale a dire un peso di 1.00, di 0.87, di 0.67 rispettivamente ; e quindi la somma dei pesi sarà uguale a 20, e l'errore probabile del 47 finale sarà di 0”.37 4,5 sec d = 07.08 sec d, e, di conseguenza, le ascensioni rette concluse avranno un errore probabile di 1/0”.35* + 0.08? sec d = 0.36 sec d. Con quattro o sei osservazioni potremo concludere le ascensioni rette con un errore probabile non superiore a 0”.2 sec d, cioè paragonabile a quello della maggior parte delle posizioni del P. G. C. Gli stessi numeri che valgono per l’ascensione retta tolto il fattore sec d, valgono per la declinazione, sia per gli errori di osservazioni, sia per gli — 707 — errori del P. G. C., e quindi lo stesso risultato si ha per i valori finali di una o più osservazioni; solo per l’errore di osservazione occorre tener presente che il cerchio deve avere errori di divisione non grandi o cono- sciuti o eliminabili, e che le puntate sulla stella per ogni osservazione siano 3 o 4. E allora la stessa conclusione, alla quale siamo giunti per l’ascensione retta, vale per la declinazione: cioè con quattro o sei osserva- zioni potremo concludere le declinazioni con un errore probabile non supe- riore a 0”.2, valore comparabile a quello della maggior parte delle posizioni del P. G. C. Ma ancor di meglio si può fare, specialmente dal punto di vista degli errori sistematici, se sì riferisce ciascuna stella ad ambedue le regioni con- tigue, ricorrendo all'osservazione a catena con gli anelli formati da un nu- mero piccolissimo di stelle, nel modo che segue: Si consideri ad esempio la stella 25? della lista da osservare: essa sarà l’ultima della prima regione. che comprenderà le stelle da 1 a 25. Siccome ogni stella passa in meridiano ogni otto minuti all'incirca, tenendo fissa l’ora di tempo medio in cui si devono cominciare le osservazioni, si avranno ogni settimana tre o quattro stelle perdute in principio della serie; ebbene, il numero 25 venga reintegrato con altrettante stelle aggiunte alla serie, dimodochè la prima settimana si osservi da 1 a 25, la seconda da 4 a 28, la terza da 8 a 82, e così via. Se ogni zona viene osservata una volta la settimana, si hanno per ogni stella sei osservazioni, riferite a stelle in parte diverse ogni volta e più di frequente alle stelle più vicine, che son quelle che conducono a coor- dinate migliori. Si può quasi dire che in tal modo ogni stella è riferita alle stelle di 6" di ascensione retta, e si devono almeno allora escludere effetti di errori sistematici minimi del sistema di Boss secondo l’ascensione retta. Un altro, ma minore, perfezionamento di tali osservazioni vien dato dalle osservazioni a catena anche secondo la declinazione: vale a dire, dopo aver osservato ad esempio la zona 18°-24° di declinazione, si osservi non la zona da 24° a 30° ma la 20°-26° o la 19°-25° o la 21°-27°: si avrà così aumen- tato il numero delle stelle a cui ciascuna posizione finale vien riferita, e allar- gata, anzi quasi raddoppiata, la larghezza della zona di riferimento. Se, per giunta, anche il numero delle osservazioni su ogni stella viene così aumen- tato oltre il 6, come prima si è detto, fin verso il 12, si può sperare di riuscire a ridurre l'errore probabile della posizione finale, come effetto del collegamento di una singola quasi fondamentale al sistema di L. Boss, a non molto maggiore di 0”.10 sec d e 0.10 rispettivamente per l’ascensione retta e per la declinazione. Il materiale che si ottiene osservando nel modo descritto, permette un buono studio degli errori sistematici di osservazione, poichè da una parte il — 708 — grande numero di /% e di equatori strumentali che si ottengono in una sera [equivalenti a quelli di 20 fondamentali] permette di investigare se l'uno 0 l'altro varii col tempo durante la serata di osservazione o con la decli- nazione o con altra variabile (per variazioni delle costanti strumentali o per altra causa), e d'altra parte il non piccolo numero di posizioni che si hanno per ciascuna stella con riferimento a regioni diverse permette di investigare se vi sia andamento nelle posizioni concluse secondo la distanza della stella dal baricentro del sistema di riferimento, o secondo l'ora di tempo medio di osservazione, o se esistono altri errori sistematici. Abbiamo considerato sino ad ora il caso di uno strumento mediocre, ma tutto quello che precede, a parte l'ammontare degli errori probabili che sarà necessariamente minore, vale anche per uno strumento ottimo, cioè anche per esso il riferimento al baricentro pesato di tutta la zona e l'osservazione a catena ridurranno l’effetto degli errori accidentali e quello degli errori sistematici. Fisica matematica. — Sull'irraggiamento del corpo nero: osservazioni alla Nota di 0. PoLi. Nota di 0. M. CoRBINO, presen- tata dal Socio P. BLASERNA. Nel fascicolo 5° di questi Rendiconti è pubblicata una Nota del dot- tor Poli, il quale si è proposto di dimostrare che « non esiste incompatibi- lità tra la formola del Planck e i principî della dinamica classica ». L'A. intendeva con ciò sottrarre la formola del Planck alle difficoltà note, otte- nendola «senza ipotesi dei quanta, o altre che contraddicono ai principi classici » Sembra invece a me che quelle difficoltà siano eliminate solo in modo apparente, nella dimostrazione che l’A. dà della formola dell’irraggiamento. E invero egli introduce, in un certo punto della sua deduzione, la se- guente ipotesi. L'ampiezza 4 delle oscillazioni elettriche di ogni ione di- penderebbe dalla sua carica elettrica 0 in modo da essere costante il pro- dotto a? o. E poichè la carica 0 deve essere un multiplo, secondo un numero intero m, della carica elettronica e, ne deduce che l'energia di qualunque ione, costituito da m elettroni, e oscillante con la frequenza v, ha il valore E=mhv dove 4 è una costante universale perchè contiene il prodotto mm a? che si è supposto costante. Or ammettere ciò, senza giustificazione alcuna, significa ammettere che l'energia possa variare, da uno ione all'altro di egual periodo, solo per gra- 709 dini fissi, ciascuno eguale a Av, e perciò significa far capo al concetto es- senziale della teoria dei quarta. Invero il Planck fu condotto alla sua for- mola senza volere introdurre nessun concetto rivoluzionario, ma solo per avere ammesso che l'energia media di un complesso di risuonatori sì può ritenere distribuita fra loro, in qualunque istante, secondo multipli interi di un granulo di energia e. Sembra, così, che il modo di deduzione della formola del Planck pro- posto dal Poli, e che io non intendo discutere nelle altre ipotesi che com- porta, faccia capo implicitamente allo stesso concetto incomprensibile della teoria dei quanta: e cioè che da un risuonatore all'altro, nello stesso istante, o in uno stesso risuonatore da un istante ad un altro, l'energia debba va- riare per salti di quantità finite di energia eguali al quantum hv. Fisica. — Za verifica del principio di reciprocità di Vol- terra, nel caso generale (*). Nota di G. Tasca BoRDONARO, pre- sentata dal Socio V. VOLTERRA. In una Nota precedente (?) ho descritto un'esperienza la quale mi per- mise di verificare l’enunciato del prof. Volterra che estende ad una lamina ul Il JV TORRE metallica, percorsa da corrente elettrica e sottoposta all’azione di un campo magnetico, il principio di reciprocità. Completando la sua bella teoria del fenomeno di Hall, il prof. Volterra ha potuto stabilire che la reciprocità sussiste ancora quando il campo magnetico che agisce sulla lamina non è uniforme, purchè le linee di forza siano punto per punto normali alla lamina. Anche di questa estensione del principio di reciprocità ho voluto ottenere la conferma sperimentale. Mi son servito di un disco di bismuto con elettrodi dissimmetricamente saldati (fig. 1). Esso veniva posto fra le espansioni polari dell’elettroma- (*) Lavoro eseguito nell’Istituto fisico della R. Università di Roma. (*) G. Tasca Bordonaro, Rend. Liuc., vol. XXIV, 1° sem., fasc. 4°, an. 1915. — 710 —- gnete Weiss terminate da dischetti piani di 5 mm. di diametro. Tutta la disposizione elettrica per la misura era identica a quella descritta nella Nota precedente. È interessante di conoscere la distribuzione del campo in queste condizioni. Il prof. Corbino, utilizzando la birifrangenza del ferro Bravais di vecchia preparazione, potè studiare l'andamento della intensità del campo fra i poli d'un'elettrocalamita (egli adoperò per questo studio lo stesso elettromagnete di cui mi son servito in queste esperienze). Fia. 2. Una vaschetta, contenente il liquido attivo, viene illuminata, fra nicols incrociati, con luce monocromatica. Osservando l'immagine con un cannoc- chiale, questa appare solcata da numerose frangie; ad ognuna di queste cor- risponde una birifrangenza di una, due, tre lunghezze d'onda; si possono così osservare direttamente le isodinamiche che corrispondono ad una inten- sità del campo proporzionale a J/1, Y/2, y3 ... secondo il numero d'ordine della frangia. Riproduco una delle fotografie che il prof. Corbino ottenne adoperando le medesime espansioni polari terminate da dischetti di 5 mm. di diametro. Da questa si può dedurre la distribuzione del campo nella mia esperienza. Come si vede dalla figura, l'intensità del campo assume valori estremamente diversi nei varî punti del disco di bismuto: da qualche centinaio di unità a circa 15000; ma per la simmetria rispetto al piano equatoriale dell'elet- tromagnete si può ritenere soddisfatta la condizione che la lamina sia nor- male alle linee di forza, poichè essa era disposta nella regione media tra le facce popolari. I risultati ottenuti confermano ancora una volta la previsione teorica del prof. Volterra. Eccone i dati numerici: campo diretto campo invertito Elettrodi I-— III 256 21 ” II—- IV 20 256 — 711 — Si riconosce, dalle cifre, che le condizioni realizzate erano le più favo- revoli per verificare la validità del principio di reciprocità. Infatti il sem- plice scambio degli elettrodi produceva una variazione del potenziale da 256 a 20, ed occorreva l'inversione del campo per ristabilire il valore primitivo della differenza di potenziale. Fisica. — Azione delle onde hertziane su di un dielettrico sottoposto all'influenza di un campo elettrico rotante. Nota del- l’ing. GiruLio GIULIETTI, presentata dal Socio G. CoLomBo. Dopo gli studî di Naccari e Bellati (') riguardanti le perdite di energia nei condensatori sottoposti a differenze di potenziale variabili e le prove termometriche di Borgmann (?) dirette ad analoghe ricerche, il signor Pro- teus Steinmetz (5) nel 1892 impiegando, un condensatore in carta parafti- nata, trovò che, agendo con potenziali periodicamente variabili, l'energia dis- sipata nel dielettrico era sensibilmente proporzionale al quadrato del valore massimo della intensità di campo. Gli interessanti studî di Steinmetz for- mano argomento di molte sue pubblicazioni in cui l'autore, rilevando l’ana- logia coi fenomeni presentati dalla magnetizzazione periodica del ferro, estende ai dielettrici la definizione di isteresi. Nello stesso anno in cui Steinmetz iniziava le sue importanti ricerche, seguìto poi da un numero grandissimo di sperimentatori (4) attratti dall’in- teresse dell'argomento, il prof. Riccardo Arnò, riflettendo sopra una esperienza di Galileo Ferraris (*) riguardante lo studio della rotazione provocata dal- l’isteresi magnetica di un cilindro di ferro in un campo magnetico rotante, ebbe la geniale intuizione che fenomeni corrispondenti si dovessero verifi- care, sostituendo alle forze magnetiche le forze elettriche ed ai corpi ma- gnetici i corpi dielettrici. Il fenomeno posto in evidenza dal prof. Arnò (°), ed i risultati di nu- (1) Naccari e Bellati, Atti Accad. scienze di Torino, tom. XVII, 1882; Journal de phys., 2ème série, tom. I, 1882. . (*) J. Borgmann, Journal russe de la Soc. phys. et chim., tom. XVIII, 1886; Jour- nal de phys., 2ème série, tom. VII, 1888. (*) Stetnmetz, Electrotechn. Zeitschrift, avril 1892; Electr. Eingeneer, New York, 1892; Lumière electrique, tom. VLIV, avril 1882. (4) Ricordo: Kleiner, Veder die durch electrische Polarisation in Isolatoren erzeugte Warme Vierteljarschrift d. natf. Gesel.sehaft., Zurich, tom. XXXVII, 1898). — H. Fritz, Ueber Warmetonung bei electrischer Polarisation des Glases, Thèse, Zurich 1893. (5) Atti della R. Accademia delle scienze di Torino, vol. XXIII, pag. 360. (5) Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, fascicolo del 6 ottobre 1892: Campo elettrico rotante e rotazioni dovute all'isteresi elettrostatica. ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem, 90 — 712 — merose sue ricerche (*) sulla dissipazione di energia che avviene nel die- lettrico sottoposto all'azione di un campo elettrico rotante hanno dimostrato l'esistenza di un ritardo con cui la polarizzazione del dielettrico segue la rotazione del campo, e che inoltre la relazione tra l’energia dissipata W nel dielettrico e l'induzione elettrostatica B in un punto qualunque del campo rotante è della forma WEB ove x e % hanno valori che variano col variare dei limiti di B. Tale re- lazione è analoga a quella che Ewing e miss Klassen (?) stabilirono a pro- posito del lavoro consumato per isteresi magnetica nel ferro, quando B rap- presenti l’induzione magnetica. Gli studî del prof. Arnò vennero presi in speciale considerazione da P. Steinmetz (*), rappresentando una elegante con- ferma dell'analogia tra i fenomeni presentati dalla magnetizzazione periodica del ferro e quelli corrispondenti dovuti all’azione, sui dielettrici, di campi elettrici periodicamente variabili. Ricordo, infine, che gli studî di Gerosa e Finzi (‘), di Rutherford (5), miss Broaks (°), Wilson (*), Marconi (8), Maurain (°), Arnò (1°), Ewing e Walter (*'), hanno aimostrato che allorquando un materiale magnetico, sotto- posto a una variazione ciclica della forza magnetizzante, è influenzato da campi magnetici dovuti a correnti ad alta frequenza, sì verifica il fenomeno: della variazione del ciclo di isteresi anche se la corrente è straordinaria- mente piccola. quale per esempio può essere determinata da un sistema di onde hertziane. Tale fenomeno venne dal prof. Arnò messo in evidenza dimostrando che un materiale magnetico, il quale ruoti in un campo magnetico rotante (1) Rendiconti della R, Accademia dei Lincei, fascicoli del 30 aprile e 12. novem- bre 1893 ; 18 marzo, 17 giugno, 18 novembre 1894; 12 aprile 1896. (°) The eletrician, 13 aprile 1894, pag. 668: Magnetic qualities of. iron. (*) Dielectric and electrostatic phenomena (estratto dal Theory) and calculation of alternating current phenomena cy Charles Proteus Steiumetz. New York, 1897, pag. 144. (*) Rendiconti del R. Istituto lombardo di scienze e lettere, 1891, serie 22, pag. 677. (5) Proc. Roy. Soc. 1896, vol. 60, pag. 184; Philosoph. trans. of the Roy. Soc. 1897, vol. 189, pag. 1. (5) Philosophical magazine, agosto 1901. (?) Report of the British Association at Belfast, 1902. (8) Proc. Roy. Soc. 1902, vol. VII, pag. 8341. (9) Comptes rendus, 30 novembre 1903, pag. 914. (19) Rendiconti della R.fAccademia dei Lincei, 1° semestre 1914. pag. 272; Atti della Associaziene elettrotecnica italiana (comunicazione fatta alla sezione di Milano, 25 mag- gio 1904). ('!) The eletrician, 1914. — 713 — per isteresi magnetica, ha modificata la velocità di rotazione per effetto di un campo magnetico oscillante ad alta frequenza: dovuto alla corrente pro- dotta da un sistema di onde hertziane ed agente normalmente al primo. Ciò posto, si ponga mente ai fatti ora ricordati, e cioè: Al fenomeno della rotazione di un cilindro dielettrico in un campo elettrico rotante, in cui la polarizzazione del dielettrico segue con un certo ritardo la rotazione del campo. Al fenomeno dell’isteresi dielettrica, verificato da Steinmetz per un die- lettrico sottoposto a differenze di potenziale alternative. Al fenomeno della modificazione del ritardo di magnetizzazione in un cilindro magnetico posto in un campo magnetico rotante e simulta- neamente influenzato da campo magnetico alternativo, eventualmente prodotto da un sistema di onde hertziane. Ne viene allora, come naturale conseguenza, di pensare che, qualora l’e- sperimento interessante di un cilindro dielettrico mobile in un campo elet- trico rotante venisse così modificato da sottoporre contemporaneamente il cilindro anche all’azione di un campo elettrico alternativo che in particolare può essere oscillante di alta frequenza producibile per esempio con un si- stema di onde hertziane, il fenomeno della rotazione del cilindro dovrebbe esplicarsi in condizioni diverse da quelle in cui il fenomeno stesso si ottiene allorquando il cilindro è sottoposto alla sola azione del campo elettrico rotante. Seguendo questo ordine di idee e pensando alle disposizioni impiegate negli studî riguardanti le variazioni dell'isteresi magnetica prodotta in campi magnetici rotanti dall'azione di campi magnetici oscillanti ad alta frequenza, ho adottato per le mie esperienze una disposizione di apparecchio che ri- sponde alle seguenti caratteristiche : L'apparecchio consta essenzialmente di un equipaggio mobile costituito da due identici cilindri dell'uguale materiale dielettrico, resi solidali fra di loro mediante un asse comune di rotazione costituito pure da materiale coibente. L'equipaggio è sospeso ad un bifilare di seta ed è fissato al di sotto con un bifilare, oppure termina in un piccolo peso immerso in un li- quido ammortitore. I due cilindri sono situati in due campi elettrici rotanti. aventi senso contrario di rotazione ed intensità tali da equilibrare le loro azioni sull’e- quipaggio mobile. Per l’azione simultanea dei campi elettrici rotanti, l'equipaggio rimane a riposo. Uno dei cilindri, oltre che all'azione di un campo elettrico rotante, può essere contemporaneamente assoggettato a quella di un campo elettrico al- ternativo, determinato da una tensione alternativa agente fra due lastre me- talliche affacciate, disposte una superiormente, l’altra inferiormente al cilindro, — 714 — e normali al suo asse. In tal modo l’azione del campo elettrico alternativo sì esplica normalmente a quella del campo rotante, e può in particolare es- sere ad alta frequenza se il condensatore, costituito dalle due lastrine ed avente per dielettrico mobile uno dei due cilindri, fa parte di un circuito oscillante ad alta frequenza. Può ancora tale campo alternativo essere do- vuto ad un sistema di onde hertziane se il condensatore ora indicato rap- presenta una capacità aggiunta di un circuito a risonanza regolabile, accop- piato direttamente o indirettamente ad una antenna ricevitrice, non collegata con la terra ed influenzata dalle onde emesse da una piccola antenna trasmet- tente, pure isolata da terra e dipendente o direttamente o indirettamente da un circuito oscillante di elevata frequenza. Le mie esperienze sì riferiscono appunto all'azione simultanea, su uno dei cilindri, di un campo rotante e di un campo oscillante, di frequenza ele- vata, avente direzione normale al primo. Indicherò i dati principali degli apparecchi impiegati e dei circuiti stabiliti: CONDIZIONI DELL'APPARECCHIO. Campi rotanti. — Ciascuno dei campi rotanti si ottenne mediante tre lastrine metalliche a generatrici parallele a quelle dei cilindretti e simme- tricamente disposte rispetto all'asse del sistema, cioè equidistanti ed a 120°. Tra ogni coppia di lastre agisce una delle tre tensioni concatenate di un ordinario sistema trifase, ottenute ricorrendo ad un trasformatore trifase elevatore, alimentato dalla rete cittadina a bassa frequenza (Periodi 42). Il trasformatore è provvisto di varie prese sugli avvolgimenti secondarî allo scopo di poter variare opportunamente ed in ugual modo le tensioni di alimentazione. I valori delle tensioni concatenate di alimentazione, oscillarono, nelle esperienze, tra 500 e 3000 volts. Le lastrine impiegate per i campi rotanti hanno la stessa altezza dei cilindretti, sono di uguali dimensioni, ed i loro sostegni possono scorrere in tre scanalature normali all’asse di rotazione ed a 120 gradi, in modo da poter regolare opportunamente la distanza dall'equipaggio mobile per equi- librare l’azione dei due campi rotanti in senso opposto. Le due rotazioni contrarie si ottengono mediante un opportuno colle- gamento delle lastre ai morsetti secondarî del trasformatore, per il quale collegamento nei due campi rotanti due coppie di lastre corrispondenti ri- sultano alimentate da tensioni uguali ma invertite. Equipaggio mobile. — È costituito essenzialmente da due cilindretti identici C', C”, formati con una sottile striscia di carta paraffinata e mon- tati su una stessa asticina di vetro a cui è fissato lo specchietto nella parte — 715 — superiore. L'asticina è sospesa ad un bifilare di seta; e al disotto può ag- ganciarsi ad un corto bifilare, oppure termina in un piccolo peso immerso in un liquido ammortitore. Nella fig. 1 si è rappresentata schematicamente la disposizione gene- rale d’apparecchio ed il circuito di collegamento al trasformatore elevatore. IGO In tale rappresentazione /' e /" sono le lastrine impiegate per la produ- zione del: Campo oscillante di elevata frequenza. — Le lastrine destinate alla produzione di tale campo sono circolari, disposte l'una superiormente, l’altra inferiormente al cilindretto influenzato dal campo rotante inferiore. Ciascuna lastrina è anulare, ha il centro sull'asse di rotazione, è disposta normal- mente a tale asse ed è a piccolissima distanza dal cilindretto. L'azione delle lastrine si esplica mediante le disposizioni seguenti di : Circuiti di esperienza. — Nelle esperienze ricorsi a due inserzioni di- stinte dell'apparecchio: e precisamente, le lastrine /' e /” vennero collegate direttamente ad un circuito oscillante derivato su di uno scintillatore ali- mentato da un rocchetto di Ruhmkorff (fig. 2), oppure la loro inserzione venne fatta in un circuito oscillante a risonanza regolabile eccitato col mezzo di una piccola antenna ricevente influenzata dalle onde emesse da una an- — 716 — tenna trasmettente dipendente da un circuito oscillante alimentato con un rocchetto di Ruhmkorff ed opportuno scintillatore. Nelle esperienze eseguite le antenne non vennero collegate alla terra. Fi. 2. In fig. 3 si è indicata la connessione diretta delle antenne coi rispettivi circuiti oscillanti. _| La 0 Fis. è. In fig. 4 sì è rappresentato il collegamento indiretto per mezzo di jigger. Nelle figure L e C rappresentano l'induttanza e la capacità del circuito Tin Fic. 4. oscillante alimentato direttamente dal rocchetto di Ruhmkorff. L’ e C' l’in- duttanza e la capacità del circuito oscillante ricevitore. — 717 — Tutti e tre gli schemi indicati sono stati da me applicati, con conse- guimento di risultati sperimentali che hanno per caratteristica comune : una deviazione dell'equipaggio mobile, quando il ci- lindro inferiore è simultaneamente sottoposto all’influen- za del rispetttivo campo elettrico rotante e del campo oscillante di elevata frequenza. Eseguii esperienze, impiegando, per l'alimentazione del rocchetto sia la corrente continua sia l’alterna. In tale ultimo caso impiegai due frequenze distinte di alimentazione: 42 periodi al secondo e 50 periodi al secondo. Trattandosi di 42 periodi, ricorsi sia ad una corrente alternata di identica forma di quella utilizzata per il conseguimento dei campi elettrici rotanti (ricorrendo in tal caso ad una sorgente sincrona), sia ancora ad una corrente di forma molto dissimile, fornita da un alternatore posseduto dal laboratorio di elettrotecnica del R. I. T. S. di Milano. Nelle esperienze si ebbero i migliori risultati impiegando per l’alimen- tazione del rocchetto una sorgente sincrona a quella impiegata per l’ali- mentazione dei campi elettrici rotanti. Siccome le esperienze eseguite vennero dirette a ricerche di indole qua- litativa, aventi per scopo essenziale una semplice verifica di principio, ri- tengo inutile di farne un elenco completo. Mi limiterò pertanto ad indicare uno dei molti risultati sperimentali ottenuti in rapporto a determinate con- dizioni di alimentazione ed a condizioni speciali di circuito. Valore comune delle tensioni concatenate di alimentazione dei campi elettrici rotanti: volts 1500 Periodi 42. Distanza, dai cilindretti, delle lastrine utilizzate per la produzione dei campi elettrici rotanti: 5 mm. Distanza delle lastrine anulari dal cilindretto intluenzato dal campo elettrico rotante inferiore: circa 1 mm. Lunghezza bitilare: circa 45 cm. Distanza dello specchio applicato all’equipaggio della scala: 1 metro. Circuito ricevitore. — Il condensatore, avente per armature le lastrine anulari e per dielettrico mobile il cilindretto inferiore, rappresenta una ca- pacità aggiunte e collegata in derivazione alla capacità variabile di un cir- cuito a risonanza regolabile di cui fa parte una induttanza costituita da due spire di nastro di rame del diametro di 15 cm. e della larghezza di circa 15 mm. Tale circuito è collegato ad una piccola antenna ricevitrice situata a breve distanza (dai 20 ai 40 cm.) da una piccola antenna trasmettente. Circuito trasmettitore. — L'antenna trasmettente è collegata a un cir- cuito a capacità variabile (costituito da un gruppo di condensatori a vetro collegati in derivazione) ed avente una induttanza fornita da 6 spire quadre di 300 mm. di lato, formate con conduttore grosso multifilare. Tale circuito — 718 — è derivato su uno scintillatore ad elettrodi cilindrici, di zinco, dipendente da un rocchetto di Ruhmkorff alimentato da una sorgente sincrona a quella di alimentazione dei campi elettrici rotanti. Per l'alimentazione del rocchetto l'intensità utilizzata varia dai 10 ai 15 ampères. La distanza disruttiva nello scintillatore è di circa 5 mm. Mettendo in funzione il rocchetto, per l’azione delle onde emesse dal- l'antenna trasmettente, il campo oscillante che sì determina tra le lastrine anulari ha provocato una deviazione nell'equipaggio mobile che ha raggiunto anche i 20 mm. sulla scala ad 1 metro dallo specchio, regolando gli ele- menti del circuito ricevitore. La disposizione d'esperienza adottata è indicata in fig. 3. Per le disposizioni indicate è da osservare che basterebbe connettere a terra l'antenna trasmettente e l'antenna ricevitrice per portare l'apparecchio da me ideato nel campo radiotelegrafico. Stavo per eseguire esperienze secondo questo ordine di idee, appro- fittando dell'antenna ricevitrice posseduta dalla stazione radiotelegrafica del laboratorio Arnò nel R. I. T. S. di Milano, quando per gli avvenimenti po- litici attuali abbiamo ricevuto l'ordine di abbattere l'antenna. Le esperienze rimasero pertanto in sospeso; e quantunque non mi illuda di conseguire risultati speciali dalle esperienze stesse, tuttavia ritengo che meriti di fare qualche ricerca del genere. Venendo ad una interpretazione del risultato sperimentale da me ac- cennato, e tenendo presente che 1°) nella rotazione del cilindro dielettrico in un campo elettrico rotante, la polarizzazione del dielettrico segue con un certo ritardo la ro- tazione del campo; 2°) nell'elettrizzazione alternativa di un dielettrico sì verifica una isteresi dielettrica, ritengo che nel fenomeno da me riscontrato debba certamente concor- rere una variazione nel ritardo con cui la polarizzazione di un dielettrico segue la rotazione di un campo elettrico rotante: cioè nel fenomeno riscon- trato dovrebbe avvenire una vera e propria variazione di isteresi die- lettrica. In quest'ordine di idee, e seguendo analoghi criterî sperimentali, sto proseguendo nelle mie ricerche, riferendomi a dielettrici di varia natura, e spero che i risultati sperimentali che verrò conseguendo mi permetteranno di mettere bene in evidenza le caratteristiche del fenomeno da me previsto e la cui constatazione forma l'oggetto del presente lavoro. —. 19 — Fisica. — // fenomeno di Stark-Lo Surdo nell’elio (*). Nota di Rita BRUNETTI, presentata dal Corrispondente A. GAaRBASSO. Dopo le ricerche del professor Lo Surdo (?) sulla serie di Balmer, le quali portano un primo esempio di differenziazione qualitativa tra le varie righe d'una serie e ci danno la certezza che il concetto di scomposizione, come è stato desunto dal fenomeno di Zeeman, non possa applicarsi immu- tato ai nuovi fatti spettrali, appare opportuno di cominciare a raccogliere il materiale che servirà poi alla realizzazione di un modello o alla costruzione di una teoria del fenomeno. In particolare la differenza di risultati, che con metodi differenti raggiun- sero i professori Stark e Lo Surdo nei riguardi dell'idrogeno, additava sen- z'altro come primo gas da cimentare col metodo di Lo Surdo l’elio, già stu- diato con l'altro metodo da Stark (*). E le conclusioni a cui questa ricerca ha condotto sono riuscite lontane non solo da quelle ottenute per altra via, ma anche in parte da ogni previsione. Essa, per quanto poi riguarda la scelta del metodo di indagine, mette in particolare evidenza il valore del metodo dovuto al prof. Lo Surdo. Per le osservazioni dirette ho usato tubi di mm. 1,5....2 di diametro; e per fotografie tubi di circa mm. 4, secondo le indicazioni del prof. Lo Surdo (‘). () Lavoro eseguito nel Gabinetto di fisica del R. Istituto di studî superiori di Firenze. (*) In questi Rendiconti: serie 52, vol. XXII, 2° semestre, 1913; vol. XXIII, 1° e 2° semestre, 1914. Le varie Memorie si trovano riassunte nella monografia: L’analogo elettrico del fenomeno di Zeeman e la costituzione dell'atomo. (L’elettrotecnica, anno L n. 25, pag. 624). (*) J. Stark, Beobachtungen tiber den Effekt des elektrischen Feldes auf Spektral- linien. Sitzungsberichte der K. Preuss. Akademie der Wissenschaften, 47, pag. 932, 20 nov. 1913. — Id. id, #lektrische Spektralanalyse. Leipzig, 1914, pp. 67 seguenti. (4) A. Lo Surdo, Sul fenomeno analogo a quello di Zeeman nel campo elettrico. Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, vol. XXII, serie 52, fasc. 15, seduta del 21 di- cembre 1918. — Id, id., Oss:rvazione diretta della scomposizione delle righe spettrali davanti al catodo in un tubo molto sottile, Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, seduta del 15 febbraio 1914. *ENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem 91 — 720 — Ho preparato l’elio scaldando con un bruciatore di Bunsen cleveite (') mescolata a una quantità eguale di bisolfato potassico. L'ho purificato facendo passare ì gas, che si sviluppavano dalla cleveite, per un tubo di vetro conte- nente rame, ossido di rame e magnesio a strati successivi e immerso in un forno elettrico che lo portava alla temperatura di 500° circa. Con nitrato d'argento toglievo gli eventuali composti di zolfo ed asciugavo tutto con clo- ruro di calce e anidride fosforica. Il gas, così preparato e purificato una prima volta, entrava in un serbatoio passando attraverso a un tubo piegato ad U, contenente carbone di noce di cocco e immerso in aria liquida. Dal serbatoio un opportuno raccordo portava il gas nel tubo ove aveva luogo la scarica. Questo, secondo il caso, veniva staccato dal sistema di preparazione del gas dopo essere stato portato alla pressione opportuna, o era lasciato in comuni- cazione col sistema di preparazione e la pompa a mercurio di Gaede. Si aveva così un mezzo abbastanza facile per mantenere nel tubo la pressione, e però la corrente e il potenziale voluti, durante le pose necessarie per ottenere una fotografia (da 10 minuti a 1 ora). La prima riga di cui abbia osservato la scomposizione nel campo elet- trico è la 4922. Essa, con una differenza di potenziale agli estremi del tubo di scarica di 4000 volts e una corrente di circa 2 milliampères, presenta l'aspetto della figura 1. Vale a dire, è scissa in modo dissimmetrico rispetto alla posizione originale; e una delle componenti la figura di scomposizione è completamente staccata dalla riga principale al limite dello spazio di Hittorf-Crookes, presentandosi quasi un satellite di questa, sorto per effetto del campo elettrico dalla parte delle 4 brevi. Quando il campo elettrico dello spazio di Hittorf-Crookes è molto debole (agli estremi del tubo 2000 volts), esso è debol- mente visibile solo nella regione dello spettro che proviene dallo spazio immediatamente prossimo al catodo; man mano che il Fic 1. campo cresce, il satellite si allunga ed esce dalla regione corrì- spondente allo spazio di Hittorf-Crookes, disponendosi al di là con lieve inclinazione rispetto alla riga principale. L'aspetto e il comportamento del 4° elemento di scomposizione della 4922 inducono a credere che esso vada considerato con criterî differenti da quelli con cui si riguardano sinora gli altri: e però l'ho sottoposto ad alcune prove ulteriori, che, per quanto non siano decisive, credo opportuno riferire. (*) Ringrazio il professor A. Piutti che ha favorito a questo Istituto un primo campione di cleveite, col quale ho eseguito prove spettroscopiche preliminari. — 721 — Ho indebolito più che fosse possibile il campo dello spazio di Hittorf- Crookes, e però quello dello spazio oscuro di Faraday, ponendo agli estremi del tubo una differenza di potenziale di 2000 volts e mandando una corrente di 1 milliampère. i Quando l'attacco del satellite avesse avuto luogo più in alto delle altre componenti per effetto del campo esistente più su, in regione ove non poteva essere luminoso, esso avrebbe dovuto secondare il campo e abbassarsi fino a rientrare nello spazio di Hittorf-Crookes. Con simili osservazioni però non ho visto altro che: la intensità luminosa sparisce senza che il satellite si riattacchi alla sua riga. Per limitare l’azione di indebolimento del campo allo spazio di Faraday in tubi la cui pressione era regolata per modo che lo spazio di Crookes riuscisse di 2 mm., immergevo nel tubo di 5 cm. di diametro il capillare tagliato a due millimetri di distanza dall'elettrodo; oppure facevo allargare fino a 203 cm. il capillare a due mm. di distanza dall'elettrodo. Anche in questo modo non ho visto il satellite riattaccarsi all’inizio della prima lumi- nosità negativa alla riga principale, come le altre componenti. Infine, come lo scostamento del satellite dipende dalla variazione del campo elettrico ? Lo spostamento delle altre componenti della 4922 diminuisce al dimi- nuire del campo sino a diventare nullo per campo debole. Questo si vede, sia guardando il loro andamento dal catodo metallico al primo strato di luminosità negativa (vedi figura 1), sia quando si indebolisce effettivamente dall’esterno il campo dello spazio di Crookes. Sappiamo che per le righe d’idrogeno si è verificata la proporzionalità dello spostamento al campo. Ho allora ispezionato sopra fotografie, su cui era visibile anche la scomposizione delle righe dell'idrogeno, in quale rap- porto stessero fra loro gli scostamenti in unità Augstrom fra le componenti delle righe dell'elio, dato che quelle dell'idrogeno stavano fra loro rel rap- porto da 1 a 2. E ho trovato che per le componenti di tipo normale il rapporto degli scostamenti è il medesimo che per l'idrogeno. Le componenti di tipo normale subiscono dunque uno spostamento 44 dalla riga primitiva, che è proporzionale al campo. Pel satellite invece ho già notato come con campi deboli si annulli prima la intensità luminosa che non il suo scostamento dalla riga principale. Ho eseguito poi varie fotografie con campi differenti. Esse non portano il satellite se il campo era troppo debole (volts 3000, milliampères 1,3, in tubi di 4 mm. di diametro); lo portano a distanza che varia di poco quando il campo era sufficiente per renderlo luminoso (volts 4000, da 1 a 2 milli- ampères, in tubi da 2 a 4 mm. di diametro). — 722 — Forse l’ordine di grandezza delle variazioni di scostamento, per le va- riazioni del campo da me usate è tanto piccolo da non rendersi apprezzabile ai mezzi con cui si è compiuto questo studio. Infatti non è il caso di pen- sare che questo elemento sia indipendente dal campo, in quanto esso dimostra chiaramente di subirne l'effetto presentandosi fortemente inclinato e alquanto curvo nella regione precatodica. Presumibilmente è un elemento che, sensi- bilissimo all’azione del campo elettrico, diventa luminoso pei nostri mezzi d'osservazione solo quando il campo ha raggiunto un valore limite opportuno. Ma in tal caso bisogna escludere la proporzionalità tra l’effetto e il campo, poichè il satellite si presenta quasi rettilineo lontano dal catodo, e quindi colla stessa inclinazione dentro e fuori dello spazio oscuro, al limite del quale dovrebbe invece aver luogo una notevole variazione di inclinazione. Quello su cui non cade dubbio si è, però, che gli spostamenti degli elementi normali di scomposizione nel campo elettrico e lo spostamento del satellite non avvengono con la medesima legge. L'osservazione di un’altra riga appartenente alla serie della 4922 (III serie accessoria diffusa) ha portato a risultati analoghi. \ Fic. 2. raro: La 4388 si scinde in 5 componenti dissimmetriche, disposte come nella fisura 2, il cui disegno è stato dedotto da una fotografia. Quattro compo- nenti asimmetriche si partono dalla riga principale: una quinta componente, staccata dalla principale, è posta accanto ad essa dalla parte delle 4 brevi. Il satellite delle due righe, 4922 e 4388, pare presenti scostamento de- crescente dalla riga fissa, al diminuire della lunghezza d'onda. La 4144 della stessa serie conta sei componenti, disposte sempre in modo dissimmetrico intorno alla posizione di riposo della riga. Con campo molto intenso la 5048 presenta nitidamente un satellite dalla parte delle 4 brevi. Di altre righe dello spettro dell’elio noterò come la 4471, nelle con- dizioni in cui le altre righe dànno la scomposizione già notata, presenti due — 723 — componenti asimmetriche, come indica schematicamente il disegno (figura 3). A occhio e sulle fotografie i due rami di scomposizione appaiono assai grossi, il che fa sembrare probabile che sotto un'azione più intensa essi abbiano ad apparire sdoppiati. La 4026 si scinde in tre componenti asimmetriche di tipo normale. Quindi, per osservazioni col metodo di Lo Surdo, sì possono tirare le seguenti conclusioni : Sotto l’azione di un campo elettrico 1°) varîe righe dell’elio si scompongono, e la scomposizione è dis- simmetrica rispetto alla riga fondamentale; 2°) alcune righe presentano un satellite dalla purte delle À brevi: cioè un elemento di scomposizione staccato già all'inizio del campo elet- trico dalla riga principale, e a scostamento crescente man mano che si avvicina al catodo; 3°) agli spostamenti degli elementi di scomposizione e allo sposta- mento del satellite non appartiene la medesima legge; 4°) le righe della terza serie accessoria diffusa non si scompon- gono nello stesso numero di componenti. I risultati ottenuti differiscono dunque in generale quantitativamente e qualitativamente da quelli che sono stati trovati col metodo di Stark. Infatti, differente è per le righe, che presentano scomposizione, il numero delle componenti che sì possono contare coi due metodi; inoltre, per la natura del metodo dello Stark non era possibile fosse notata la anomalia di scom- posizione che appartiene ad alcune righe dell’elio. Questo era possibile solo col metodo di Lo Surdo, che mette in evidenza l'origine di ogni elemento delle righe dello spettro. Ulteriori osservazioni riguarderanno la polarizzazione degli elementi di scomposizione e il comportamento delle righe della stessa serie. = q2d- Chimica. — Sui complessi dell'acido vanadico con. l’acido citrico ("). Nota di G. A. BARBIERI, presentata dal Socio G. Cia- MICIAN. Nel trattato di chimica di Berzelius (*) si trova il primo accenno a composti dell'acido vanadico con acidi organici. Secondo Berzelius, l’acido vanadico si scioglie, con colorazione gialla, nelle soluzioni degli acidi ossa- lico, tartarico e citrico: se questi acidi sono in eccesso, la soluzione diventa rapidamente verde, poi bleu perchè si forma un sale di vanadile: se gli acidi organici non sono in eccesso, la loro unione con l'acido vanadico può divenir stabile. Berzelius descrisse anche un composto dell'acido vanadico con l'acido ossalico come un prodotto amorfo rossastro che ottenne ossidando con acido nitrico l'ossalato di vanadile, ma non ne diede la formula. Nel 1886 Ditte (5), sciogliendo l’acido vanadico in una soluzione concentrata di ossa- lato di ammonio, ottenne una sostanza cristallizzata in prismi trasparenti giallochiari, che conteneva acido vanadico, acido ossalico e ammoniaca, e alla quale attribuì la formula 8(NH,):0.3V:0;.8050;.20H;0. A. Rosenheim (4), cui sì devono le più estese e importanti ricerche sull'azione degli acidi metallici sugli acidi organici, ripetè l’esperienza di Ditte e ottenne con ogni probabilità lo stesso composto al quale, però, rico- nobbe competere la formula 3(NH.):0.V:0,.40,03.4H:0. Non venne descritto finora nessun composto dell'acido vanadico con gli acidi tartarico e citrico. Studiando i vanadiltartrati (*) io ebbi occasione di constatare l'esattezza dell'osservazione di Berzelius sulla solubilità dell'acido vanadico, tanto nelle soluzioni di acido tartarico quanto in quelle di acido citrico, e mi proposi d' iso- lare i composti complessi che probabilmente si formavano in tali soluzioni. Le ricerche con l'acido tartarico non mi hanno dato finora risultati soddisfa- centi. Sciogliendo il metavanadato di ammonio in presenza di acido tartarico, (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di chimica generale dell'Università di Ferrara. (2) Zraité de chimie, par I. I. Berzelius a. 1839, tomo II 19. (3) Compt. rend., 102 1021 (1886). (4) (5) DI Z. anorg. Ch., 4g69 (1898). 5) Rendiconti Acad. Lincei. XXIII, 2 ° sem., pag. 47. CETO si ha un liquido rosso-aranciato incristallizzabile. Per aggiunta di alcool, pre- cipita una polvere giallo verdastra che contiene acido tartarico, acido vana- dico e ammoniaca, ma all'analisi non risultò essere un composto definito. Risultati molto migliori ho ottenuto con l'acido citrico. Dalle soluzioni di metavanadato di ammonio e acido citrico si separa facilmente una bella sostanza cristallina bianco-giallognola che all'analisi mostrò avere la formula (NH,):0.V,0; 2060Hy.2H;0. Se, invece del metavanadato di ammonio, s'impiega quello di potassio o quello di sodio, si ottengono î composti analoghi I-.0%.:Va:0: «2.0, 0, Hs..2Hs0 Na,0. VAIO PEZICHO RHAS2 FICOR A un primo esame sommario questi composti sembrano prodotti di addi- zione di metavanadato con l’acido citrico NH, VO; . Ce 0, H3 KVO,; . C6 0, Hs Na VO, .C0, Hz. In realtà si tratta, invece, di composti complessi. L'acqua in essi con- tenuta viene eliminata facilmente sotto i 100°; quindi non fa parte dell'acido. citrico. Inoltre questi composti presentano alcune reazioni che sono interpre- tabili soltanto ammettendo in essi un anione complesso citro-vanadico, abba- stanza stabile anche in soluzione. Tali reazioni sono le seguenti. Il composto di ammonio, che è abbastanza solubile in acqua, lo è assai poco in presenza di cloruro o di solfato di ammonio. Dalle sue soluzioni concentrate esso cri- stallizza con buon rendimento, per aggiunta di cloruro di ammonio in sostanza. Analogamente si comportano il composto di sodio col cloruro di sodio e quello di potassio col cloruro di potassio. Dalla soluzione del composto di ammonio, per aggiunta di cloruro di potassio, cristallizza il composto di potassio. Infine, dalle soluzioni dei citrovanadati, per aggiunta di nitrato di argento, si ha un precipitato che contiene argento, acido vanadico e acido citrico, mentre è noto che l'acido citrico non viene precipitato dal nitrato di argento. Come si può ammettere costituito il complesso citrovanadico esistente in questi composti? A. Rosenhein cercò d'interpretare la costituzione dei composti risultanti dall'azione degli acidi metallici sugli acidi organici, mediante la teoria della valenza. Bisogna notare che la teoria della coordinazione di A. Werner era stata, allora (1893), appena enunciata. — 7260 — Secondo A. Rosenhein, gli ossalo vanadati avrebbero la costituzione espressa dalla formula RO\ = R= metallo alcalino PALUE (000 cia 000) o radicale ammonico RO = 4 o, più semplicemente, dalla formula RO —VO=(00C— C00R).. Studiando recentemente alcuni tartrati e salicilati complessi, io ho cer- cato d'interpretarne la costituzione mediante la teoria della coordinazione. A me sembra che, anche per gli ossalovanadati, la teoria della coordi- nazione possa fornire l’interpretazione più chiara con la formula (0) (0) Rs. [Va.o, In tal modo gli ossalovanadati appariscono analoghi al fluossivanadato di ammonio VO, Fl1.3 NH, FI descritto da A. Piccini. A questo composto la teoria della valenza è incapace di attribuire una formula di costituzione, mentre la teoria della cordinazione lo rappresenta assai bene con }a formula 0 | 0 (NH,): . FI, Se ora confrontiamo i citrovanadati cogli ossalovanadati e col fluossi- vanadato di ammonio vediamo, che in essi una molecola di acido citrico tiene il posto di due molecole di acido ossalico o di quattro atomi di fluoro. L'acido citrico possiede tre carbossili e un gruppo alcoolico terziario. Siccome l’acido vanadico è insolubile (come io ho constatato) nelle soluzioni di acido succinico, è molto probabile che la sua solubilità nelle soluzioni di acido tartarico e in quelle di acido citrico dipenda dalla presenza, in questi acidi di ossidrili alcoolici. È noto inoltre, per le ricerche recenti di Prandtl ('), che l'acido vanadico si scioglie in molti alcoli eterificandosi e che dà composti stabili specialmente cogli alcoli terziarî. Tutto ciò rende verosimile che il legame tra l'acido vanadico e l'acido citrico avvenga a spese dell’ossidrile alcoolico. (1) Z. anorg. Ch. 8203 (1913). — 727 — In alcune Note recenti (') io ho cercato di dimostrare che nei salici- lati e nei tartrati complessi esistono legami per valenza secondaria tra l'atomo metallico centrale e gruppi carbossilici. Nei citrovanadati le tre unità di coordinazione residue dell'atomo centrale si possono ritenere saturate dai tre carbossili dell'acido citrico. Ai citrovanadati competerebbe quindi la formula -0 -0 TO TRI to x n -00C ti -00C—CH, dalla quale risulta ch'essi sono sali acidi. Ciò mi ha indotto a tentare la preparazione dei sali neutri. Facendo reagire in opportune condizioni i citrovanadati alcalini col nitrato di argento, sì ottiene il composto L'esistenza di questo composto sta in accordo colla costituzione pro- posta. PARTE SPERIMENTALE Citrovanadato di ammonito. 0, NH, .- H,0 CHO H, In 100 ce. di acqua si sciolgono 20 gr. di acido citrico: si scalda a 60°-70° la soluzione; poi vi si aggiungono a poco a poco gr. 10 di metava- nadato di ammonio. Si ottiene un liquido giallo-verdastro, dal quale, per raffreddamento, si separa una sostanza bianco-giallognola in bei cristalli mo- noclini che vengono separati per filtrazione alla pompa e lavati con poca acqua fredda e con alcool metilico. All’analisi si ebbero i seguenti risultati : Calcolato Trovato V 16,49 16,44 N 4,53 4,72 C 235,28 23,58 H 3,91 3,76 (') Rendiconti Accad. Lincei XXIII, 2° sem., pp. 47 e 408; e vedi Nota precedente sull’acido cromisalicilico. RenpicontTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem, 92 — 728 — Il citrovanadato di ammonio è abbastanza solubile in acqua calda (60°-70°). Dalle sue soluzioni cristallizza per raffreddamento, per evaporazione o per aggiunta di cloruro di ammonio in sostanza. Le soluzioni di citrovanadato di ammonio, scaldate all'ebullizione, diven- tano verdi e poi azzurre, e svolgono vapori di acetone perchè il vanadio pen- tavalente viene ridotto a tetravalente a spese dell'acido citrico. Citrovanadato di potassio. 0, K \ . H,0 CsH.0g 6 Questo composto può venir preparato tanto sciogliendo il metavanadato di potassio (una mol.) in una soluzione concentrata di acido citrico (una mol.), quanto trattando il sale di ammonio, in soluzione concentrata, con una solu- zione satura di cloruro potassico. i Cristalli monoclini, trasparenti, incolori. Calcolato Trovato V 15,44 15,25 K 11,84 11,67 C 21,80 21,58 H 2,44 2,71 Il citrovanadato di potassio, a 100°, perdette 5,70 */, del suo peso. Cal- colato per 1 mol. di acqua: 5,44 °/o. Citrovanadalo di sodio. 0, Na i VI . H:0 C:E,0, |Hs A gr. 11,7 di metavanadato di ammonio, sospesi iu poca acqua, vengono aggiunti gr. 4 di soda caustica, e si scalda all'ebullizione finchè cessa lo sviluppo di ammoniaca. Alla soluzione di metavanadato sodico così ottenuta si aggiunge la soluzione di gr. 21 di acido citrico in poca acqua. Dopo alcune ore, si trova in fondo al liquido un abbondante deposito di citrovanadato sodico costituito da cristalli monoclini incolori. Calcolato ‘l'rovato V 16,24 16.31 Na 7,32 7,18 CC 22,92 23,02 H 2,56 2,59 — 729 — Citrovanadato di argento. Voano, |*8 Eno de gr. 5 di citrovanadato di potassio vengono introdotti nella soluzione di gr. 10 di nitrato di argento in 150 ce. di acqua, e vi si lasciano digerire per 12 ore. Polvere bianca microcristallina, insolubile in acqua. Dopo essicazione in stufa ad acqua fino a peso costante, diedo all'ana- lisi i seguenti risultati: Calcolato Trovato V 8,57 8,31 Ago 54,43 54,27 C 12,11 11,98 H 0,67 0,78 Chimica. — Prodotti di disidratazione dell'acido p-difenil- lattico ('). Nota di R. pe Fazi, presentata dal Socio E. PATERNÒ. In una Nota precedente (*), descrivendo alcune ricerche fatte sull’acido B-trifenil-lattico che Paternò e Chieffi avevano ottenuto per azione della luce su una mescolanza di benzofenone ed acido fenil-acetico, ho dimostrato che, per azione dell'anidride fosforica, questo acido si trasforma in a-B-difenil- indone, identico a quello descritto da Heyl e Meyer (5). Ho ora intrapreso lo studio dell’acido f#-difenil-lattico, per vedere se, sottoposto all'azione dell'anidride fosforica, dava origine al {-fenil-indone. Ma l'anidride fosforica con questo acido, nelle stesse condizioni nelle quali l'acido $-trifenil-lattico fornisce l'@-8-difenil-indone, dà luogo ad una reazione diversa. Il #-fenil-indone però ho potuto averlo per altra via, come esporrò in una prossima Nota. L'anidride fosforica, reagendo con l'acido -difenil-lattico, dà un acido della formula Cz0 Hs6 0;, per condensazione di due molecole di acido f-difeni]- lattico, meno una molecola di acqua. (!) Lavoro eseguito nell'Istituto chimico della R. Università di Roma. (*) Questi Rend. 24, (1), 439 (1915). (8) Heyl e Meyer, Ber. 28, 2787 (1895). — 730 — Questa eliminazione poteva essere avvenuta in vario modo; e, tra le formule più probabili, quelle da prendere in maggior considerazione erano le seguenti: CH; CsH; | /0H | I C CH C0—-—0—C— CH, - COOH | | (GOETE CsH; CH; CH | 0H | II C—CH—C— CH, — COOH | | | CH; COOH C,H; CsH; CoHs | III COOH — CH;—-CT—-0—-C— CH, — COOH | CH CsHs Però l’analisi del sale d'argento di questo acido, e la titolazione con Na OH N/», hanno escluso la formazione di un etere del tipo della for- mula I; questa esclusione è confermata anche dal fatto che ho potuto ot- tenere, per azione dell'anidride fosforica sull’etere etilico dell'acido 8-difenil- lattico, l'etere etilico, che saponificato con KOH alcoolica, dà lo stesso acido. E poichè con l'anidride acetica non reagisce, resta esclusa la presenza di un ossidrile, è resa quindi probabile la formula III. Chiamerò perciò questo acido deidro-di-B-difenil-lattico. Siccome in questa reazione si poteva prevedere anche la formazione dell'acido f-difenil-acrilico, ho voluto confrontare l’acido deidro-di-8-difenil- lattico con l’acido #-difenil-acrilico, che preparai seguendo le indicazioni di Rupe e Busolt ('), cioè per azione dell'anidride acetica e acetato sodico sul- l'acido 8-difenil-lattico. Mi accorsi, allora, che, variando di poco le condizioni di esperienza, sì forma, insieme coll’acido #-difenil-acrilico, un'altra sostanza la quale dà all'analisi risultati concordanti per la formula Cz6 Hss 03, cioè per la formula dell'anidride dell'acido -difenil-acrilico. Infatti ho potuto trasformarla nell’acido -difenil-acrilico; e facendo agire su questo acido l'anidride acetica e l’acetato sodico, ho ottenuto egualmente l'anidride del- l'acido 8-difenil-acrilico. Continuerò lo studio degli acidi fenil-lattici, con l'acido -fenil- lattico. ('*) Rupe e Busolt, Ber. 40, 4537 (1907). — 8B1— Asione dell'anidride fosforica sull'acido B-difenil-lattico. Acido deidro-di-B-difenil-lattico. Ho preparato l'acido f-difenil-lattico, secondo le indicazioni di Rupe e Busolt (*). Facendo agire il bromo acetato di etile sul benzofenone, in so- luzione nel benzolo, in presenza di zinco granulato, si ottiene l’etere etilico dell'acido f-difenil-lattico, il quale saponificato, dà l'acido. A 3 gr. di acido f-difenil-lattico, disciolto ed in parte sospeso in 300 ce. di cloroformio anidro, a freddo, ho aggiunto a poco a poco, circa 10 gr. di anidride fosforica. La soluzione, da incolora diviene prima gialla, poi di un brl colore verde erba. Riscaldando a b. m., la colorazione verde, dopo circa 1 ora, passa al giallo arancio, poi al colore rosso, mentre tutto l’acido va in soluzione. Nel fondo del recipiente si raccoglie l'anidride fosforica colorata in rosso bruno. Dopo 6 ore di riscaldamento, decanto il cloroformio e lo distillo. Rimane un olio rosso, che poco dopo si rapprende in una massa di aghi, colorati in giallo arancio, che così impuri fondono a 154- 156°. La cristallizzo da una mescolanza a parti eguali di acqua ed alcool etilico. Si ha così una sostanza in ciufti di aghi di color giallo crema, fu- sibili a 159-158°. Cristallizza molto bene dall'acqua: si presenta allora in lunghissimi e fini aghi bianchi lucenti. Si dissecca a 100° e si analizza : I sostanza gr. 0,2092: CO» gr. 0,5942; H. O gr. 0,1022 II» » 0,2593: CO; » 0,75327; H, 0. » 0,1286 Donde °/,: Trovato Calcolato per Cso Hss Og C 77,47-77,07 17,20 H 5,46-5,55 5,60 Ho titolato questo acido con una soluzione di Na OH N/yo: I sostanza gr. 0,3526 Na OH adoperata gr. 0,0651 per l'acido monobasico si calcola Na OH. . . » 0,0801 per l'acido bibasico si calcola Na OH. . . . . » 0,0603 II sostanza gr. 0,0987 Na OH adoperata —» 0,0184 per l'acido bibasico si calcola Na OH. . . . » 0,0170 Ho preparato il sale d'argento di questo acido deidro-di-8-difenil-lattico nel seguente modo: A gr. 0,50 del sale d'ammonio di questo composto ho aggiunto una soluzione di nitrato d'argento (la quantità teorica di nitrato d'argento) : pre- (') Rupe e Busolt, loc. cit. — 732 — cipita così una sostanza bianca, fioccosa. In istufa a 100°, dopo 2 ore, sem- bra si alteri. Se ne determina l’argento : I sostanza tenuta in essicatore, su anidride fosforica, gr. 0,1915: Ag gr. 0,0608. II sostanza gr. 0,1941: Ag gr. 0,0611. Donde °/,: Trovato Calcolato per Cso Hs4 Os Aga Ag 31,74-31,46 31,76 Su 1 gr. di acido deidro-di-8-difenil-lattico ho fatto agire, a caldo, per 2 ore l'anidride acetica e l’acetato sodico, ma ho ottenuto il prodotto inalterato. L'acido deidro-di-8-difenil-lattico è molto solubile in alcool etilico, metilico, in benzolo, in acetone e in cloroformio. Con H, SO, conc., a freddo, sì colora in verde smeraldo ; a caldo, in rosso. Azione dell'anidride fosforica sull’etere etilico dell'acido B-difenil-lattico. Etere etilico dell'acido deidro-di-B-difenil-lattico. CR ESSCoHC | | H;C,00C — CH, -C —0—U— CH: — C00C;H; | | CH; CoH; Si disciolgono 5 gr. di etere etilico dell'acido f-difenil-lattico, in 200 ce. di cloroformio anidro, e poi si aggiungono circa 10 gr. di anidride fosforica. Si fa bollire a b. m. per 8 ore. La soluzione, da incolora, diviene di color giallo pallido, poi giallo verdastro, passa quindi al colore arancio e al rosso intenso. Distillato il cloroformio, rimane un olio denso, di colore rosso, che si dissecca con Ca Cl», per due giorni; poi si distilla nel vuoto: a 3 cm. si raccolgono i prodotti tra 210-215°; e si analizzano: Sostanza gr. 0,3345: CO, gr. 0,9703; Hs 0 gr. 0,1929. Donde °/.: Trovato Calcolato per Css Hz4 Os C 79,10 CU 78,16 H 645 Hodc.si Questa quantità in più di carbonio e in meno di idrogeno non deve meravigliare, poichè è dovuta alla presenza di traccie di etere etilico del- l’acido #-difenil-acrilico, che si formano durante la distillazione. — 733 — Ho volnto provare se per saponificazione di questo etere potevo ottenere l'acido deidro-di-8-difenil-Jattico. Ho disciolto questo etere in una soluzione di KOH alcoolica al 30 °/, e ho fatto bollire per 2 ore. Poi ho distillato l'alcool, e, dopo aver aggiunto acqua ed estratto con etere, ho acidificato la soluzione con HCl diluito. Precipita una sostanza in fiocchi, di colore bianco sporco, che così impura fonde a 154-156°. Cristallizzata da una mescolanza di acqua ed alcool (1:1), si ha l'acido deidro-di-8-difenil-lattico, in lunghi aghi, incolori, trasparenti e lucenti, che fondono a 156-158°. Da 3 gr. di etere etilico dell'acido deidro-di-8-difenil-lattico si otten- gono circa gr. 2 di acido. Conviene quindi prepararlo saponificando l'etere etilico. Anche questo, con H; SO, cone. si colora in verde smeraldo; per ag- giunta di acqua, raffreddando la soluzione, precipita una sostanza in fiocchì, che fonde a 156-155° ed è acido deidro-di-$-difenil-lattico impuro. Azione dell'anidride acetica sull’acido f-difenit-lattico. Anidride dell'acido B-difenil-acrilico. Cos CeHs \C=CH—C0—-0—cC0—CH=C Li x CsH; *C3Ho Rupe e Busolt ('), facendo agire l'anidride acetica sull'acido -difenil- lattico, ottennero l’acido {-difenil-acrilico. Avendo voluto preparare di nuovo questo acido, come ho già detto, ho notato che si formano due sostanze, una è l'acido f-difenil-acrilico descritto da Rupe e Busolt:; l’altra è l'anidride dell’acido $-difenil-acrilico. Ho fatto agire per 3 ore, a caldo, gr. 10 di anidride acetica e gr. 10 di acetato sodico, su gr. 5 di acido f-difenil-lattico. Poi ho aggiunto acqua e riscaldato a bh. m. per mandare via l'eccesso di anidride acetica. Per raf- ffreddamento, solidifica la sostanza oleosa formatasi, che si era raccolta in fondo al recipiente; mentre nel liquido rimane sospesa una sostanza bianca, in piccole foglie lucenti. Si filtra e si discioglie poi tutto, in poco alcool bol- lente. Per raffreddamento si depositano dei pic coli aghi bianchi, che fondono a 120° circa. Se alle acque madri si aggiunge un po’ d'acqua e si fa bollire, quando la soluzione è fredda si depositano delle foglioline trasparenti, setacee, lu- centi, fusibili a 158-160°, che sono acido f-difenil-acrilico. (*) Rupe e Bulsolt, loc. cit. TOA La sostanza, fusibile a 120° circa, si ricristallizza dall'alcool. Si hanno così ciuffi di aghi bianchi, che fondono a 118-120°. Si disseccano a 100° e si analizzano : Sostanza gr. 0,2015: CO, gr. 0,6171; Hs 0 gr. 0,0939. Donde °/,: Trovato Calcolato per Cso Hss 03 C 83,53 C 833.82 H 5,21 DS RESTI I risultati dell'analisi concordano dunque con la formula dell'anidride dell'acido $-difenil-acrilico. Infatti la sostanza si discioglie a caldo negli idrati alcalini. Aggiungendo H» SO, diluito alla soluzione, e estraendo con etere, sì può avere l'acido f-difenil-acrilico fusibile a 158-160°. Si ottiene anche questa anidride facendo agire l'anidride acetica e l'acetato sodico, a caldo, per 3 ore, sull’acido 8-difenil-acrilico. Questa anidride, con H, SO, conc., a freddo, si colora in verde sme- raldo; a caldo, in rosso intenso. Chimica. — SuZle amalgame di magnesio (*). Nota di L. CAMBI e di G. SPERONI, presentata dal Socio R. NaAsINnI. Proseguendo nelle ricerche sulle amalgame dei metalli alcalino-terrosi, delle quali abbiamo già comunicate (*) quelle riguardanti le amalgame di calcio, esponiamo in questa Nota le esperienze da noi compiute sulle amal- game di magnesio. Applicammo allo studio di queste leghe il metodo stesso descritto nella nostra Nota precedente. Le amalgame vennero preparate nel modo ben noto, di disciogliere cioè il magnesio in pezzi ben tersi, con superficie di fresco rinnovata, nel mer- curio bollente (*). Facemmo avvenire la reazione in tubi di vetro Jena ed in atmosfera di azoto puro. Il mercurio adoperato era puro, ridistillato; il magnesio era quello del commercio, in lastre. L'analisi ci ha indicato in esso un contenuto di magnesio del 99 per cento; conteneva allumino e ferro, complessivamente per il 0.36 su cento. (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di elettrochimica del R. Istituto tecnico supe- riore di Milano, diretto dal prof. G. Carrara. (*) Questi Rendiconti 1914, II, 599. (#) Wanklin e Chapmann, Journal Chem. Soc. /9, pag. 144; Kerp, B5ttger, Iggena, Zeit. anorg. Chemie, 25 (1900), pag. 33. — 735 — Per le miscele ad un contenuto di magnesio superiore ai 20 atomi su cento, per avere una formazione completa dell’amalgama senza incorrere in troppo rilevanti variazioni nei rapporti fra magnesio e mercurio, preferimmo iniziare soltanto la formazione dell'amalgama in tubo aperto e riscaldare poi a 390°-400° in tubo chiuso: tale riscaldamento prolungammo per 36 o 48 ore a seconda dei casi. Tutte le varie miscele poi, indistintamente, prima di sottoporle all'analisi termica, vennero riscaldate per 48 ore circa, a 150°. Le ricerche che ora comunichiamo si arrestano alla miscela 1 Mg:1Hg, perchè già questa offerse notevole difficoltà ad assumere un aspetto uniforme: il magnesio in questi rapporti finisce per reagire assai lentamente, alle tem- perature alle quali operammo, con l’amalgama formatasi inizialmente. Occor- rerebbe agire a pressioni elevate per poter raggiungere la temperatura di fusione completa di queste leghe ad elevato tenore di magnesio. Si presenta dunque un caso analogo a quello osservato nelle amalgame di calcio. L'analisi termica venne compiuta con gli stessi apparecchi descritti a proposito delle amalgame di calcio. Durante l’analisi stessa, le amalgame vennero mantenute in atmosfera di anidride carbonica secca che anche in questo caso non aveva azione chimica sensibile su di esse, mentre invece le preservava assai bene dall'ossidazione e dall'umidità atmosferica. Eseguimmo due serie di analisi termiche, l'una con letture dirette, l’al- tra con un galvanometro registratore : usammo generalmente 30 gr. di lega, e a questa quantità si riferiscono le durate di arresto più oltre riportate. Le temperature di inizio di congelamento vennero determinate, per il tratto da 0 a 20 atomi su cento di magnesio, impiegando 70 grammi di ogni miscela ed agitando opportunamente la lega durante il raffreddamento. In numerosi casi controllammo, dopo l'analisi termica, la composizione della lega, trattando la massa totale di essa con acido solforico diluito e dosando il magnesio in un'aliquota della soluzione ottenuta: nella tabella che segue riportiamo questi dati analitici che dimostrano come durante l’ana- lisi termica le varie amalgame subissero variazioni pressochè trascurabili di composizione. Notiamo, infine, che il raffreddamento nelle nostre misure venne seguìto fino alla temperatura del miscuglio frigorifero anidride carbonica solida-acetone. ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 93 — 736 — I dati termici sono riassunti nella tabella e nel diagramma seguenti: Mg. atmosferica. ni ui °/o in gr oi Durata E ENI Num. | °/o in gr. | °/o in gr. era fd Arresto para: Eutettico | dell’eutet- na atomi preparato | analiticam.| zione tico ebullizione 1 0 0 0 399,6 _ = —_ - _ 2 1 0,12 0.12 ? _ — — 41° 120” _ 3 2,5 0,31 0,31 1E7/ — — — 41 100 _ 4 5 0,64 — 55 —_ — — 41 100 — 5 8 1,04 1,04 89 —_ = — 41 90 — 6 10 1,32 1,34 106 — —_ — 41 50 —_ T 12 1,62 — 119 —_ = — — i 8 14 1,93 1,94 145 - - — 4l 40 — 9 18 2,58 2,48 168 168° —_ — 41 50 _ 10 21 3,11 2,95 207 168 40” — 41 50 _ 11 09 3,48 — 230 168 40 — 4l 50 _ 12 25 3,88 3,64 277 169 80 — 41 20 — 13 27 4,27 4,21 335 169 110 — 41 20 - 14 29 4,71 4,25 370 169 150 — 41 10 — 15 80 4,94 5,08 ? 169 150 — 41 10 405° 16 32 5,97 5,64 —_ 169 170 — — 412 17 34 5,87 5,96 — 169 150 _— — 412 18 36 6,36 6,73 _ 169 130 — _ 415 19 98 6,86 - _ 169 100 _ —_ 415 . 20 40 7,40 7,56 _ 169 80 —_ — 415 21 45 9,02 _ — 169 40 — 415 22 50 10,81 _ - 169 10 _ — — L'analisi termica adunque indica nettamente la presenza del composto Mg Hg» che fonde, decomponendosi, a 168°. Indica pure la presenza del com- posto Mg Hg, per quanto questa non possa affermarsi in modo assoluto avendo appunto dovuto limitare lo studio del sistema alla lega avente il rapporto 1 Mg:1 Hg. Alla concentrazione di 30 atomi di magnesio, su cento, le amalgame raggiungono la temperatura d'ebollizione, a pressione ordinaria, di 415°: oltre questo rapporto, le miscele non fondono completamente alla pressione I nostri dati differiscono alquanto dalle osservazioni di Kerp, Bottger ed Iggena ('): questi autori dicono che la solubilità del magnesio a 300°, (*) Kerp, Béttger e Iygena, loc. cit., pag. 34. Rand todi ni sal AA FF 3195 o M3% nel mercurio, è di circa una parte su cento, mentre dalle nostre misure ri- sulta che già a 280° il magnesio ha una solubilità del 3,88 su cento. La diversità dei dati deve forse attribuirsi ad un incompleto stabilirsi dell’equi- librio, nelle esperienze di questi autori; d'altra parte non sappiamo come essi operassero in questa determinazione. Concorda invece col nostro dato la solubilità, che gli stessi autori indicano a temperatura ambiente, di 0,313 su cento; noi troviamo che tale soluzione è satura a 17°. I sistemi Ca-Hg e Mg-Hg, nei due tratti studiati presentano una certa analogia: le amalgame di magnesio si differenziano però per una maggiore solubilità del magnesio (Mg Hg»), rispetto al calcio (Ca Hg,). nel mercurio. A 109°, ad esempio, l’amalgama satura di calcio ha una concentrazione di 2,86 °/, atomi Ca (0,63 °/, grammi) (*), contro 10 °/, atomi Mg (1.34 9/, grammi), a 106°, dell'amalgama di magnesio. In accordo osserviamo che l'amalgama di calcio, satura, bolle, a pres- sione atmosferica, a 377° ed ha la composizione di 13-14 °/, atomi di calcio, mentre quella di magnesio, pure satura, bolle a 415° ed ha la composizione di 32-34 ° atomi. (1) Cambi e Speroni, loc. cit., pag. 604. SRTBRES. Finora erano stati descritti due composti fra magnesio e mercurio: Mg Hg separato per filtrazione da amalgame semifluide (*), ed Mg Hg, la cui esistenza era stata dedotta in base a misure di calori sperifici (*). L'analisi termica non conferma questi composti. Miscele Mg:6 Hg si conservano del resto semifluide, eterogenee. Rispetto poi al metodo con cui venne isolato il presunto composto MgHg,, rimandiamo alle osservazioni che noi abbiamo fatto a proposito dei composti delle amalgame di calcio. Il composto Mg Hg, trova l'analogo nel noto composto Mg Zn,, mentre il composto probabile Mg Hg avrebbe un riscontro nel composto Mg Cd. Conchiudendo infine sui rapporti fra le amalgame di calcio e quelle di magnesio, riportiamo le formole dei seguenti composti metallici che mostrano un'analogia di comportamento fra le due coppie omologhe sodio-potassio, magnesio-calcio : NaHg,, KHgy MgHg,, Ca Hgy NaCd; , KCd,, Mg Cd, Ca Cd; = —_ MgZn., CaZnio, CaZn,. Per un confronto sistematico sui varî composti metallici presentano inte- resse le ricerche che stiamo compiendo sulle amalgame di stronzio e di bario. Chimica-fisica. — Analisi termica delle miscele degli idrati alcalini cor corrispondenti alogenuri. I. Composti di potassio (?). Nota di GrusePPE SCARPA, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. È noto, da molto tempo, che gli ossidi di alcuni metalli possano combi- narsi coi rispettivi sali alogenati, dando luogo alla formazione di composti stabili ben definiti. Molti di questi composti, che vengono chiamati ossialo- genuri, sono stati preparati per via umida. W. Spring e M. Lucion (‘) studiarono il comportamento dell'idrato di rame nelle soluzioni dei rispettivi sali alogenati, e riuscirono ad isolare i tre ossialogenuri corrispondenti: Cus Cl, - CuO - 3H30 ; Cus Br: Cu0 - 3H,0 ; Cu, I, - Cu0 - 3H;0. Egualmente, per il mercurio, Cox (5) ottenne un ossifluoruro: Hg Fl, - Hg0-H,0; Millon e Thummel (°) riuscirono a preparare i quattro ossicloruri (*) Kerp, Bottger e Iggena, loc. cit., pag. 34. (®) Bachmetjeff e Wsharoff, Jahr. Ber., 1893, pag. 108. (8) Lavoro eseguito nell'Istituto di chimica generale della R. Università di Padova, diretto dal prof. G&G. Bruni. (*) Zeitschr. f. anorg. Chem., 2, 195 (1892). (5) Zeitschr. f. anorg. Chem., 40, 146 (1904). (5) Ann. Chem. Journ., 29, 319 (1908). — 739 — Hg Cl; - Hg0 , HgCl, - 2Hg0 , HgCl,- 8Hg0 , HgCl.- 4Hg0, e gli ossi- bromuri di analoga composizione; Rammelsberg (*) l’ossitoduro HgI, - 3Hg0. Uno studio accurato fece D. Stròombolm (?) sugli ossisali del piombo e riuscì ad isolare i seguenti composti ossialogenati: 6PbO - Pb Cl. -2H;0 ; 3PbO - PbCl: - 1/$H,0 ; 6PbO- PbBr:-2H:0 ; SPbO- PbBr:-?/4H,0 ;: PbDO- Pb Br:-H:0 ; 6PbO- PbI,-2H:0 ; 9PbO- PbIs-2H,0 ; 3PbO- PbI:-H30 : PbO - PbJ, - H30. Questa proprietà di formare composti ossialogenati si estende, oltre ai sopracitati, ad alcuni altri metalli, fra i quali il Ca, Mg, Zn, ei di cui com- posti sono descritti dettagliatamente nella letteratura. Mentre però le cognizioni sulla formazione di questi composti ossialo- genati per via umida sono estese, assai scarsi e limitati sono gli studî sul comportamento, ad alta temperatura, degli stessi ossidi metallici verso i cor- rispondenti sali alogenati. La ragione di questo deve attribuirsi alla facile alterabilità di molti ossidi e alla grandissima difficoltà che essi presentano alla fusione. Le ricerche, a quanto mi consta, si riducono a quelle di Ruer (5), il quale studiò il sistema PbO-PbCl,; di C. Sandonnini (4), il quale estese lo studio termico ai due sistemi PbO - PbBr, e PbO- PbFI],, e a quelle di W. Truthe (5) il quale prese in esame il sistema Cu:0 - Cus Cl. Dalle osperienze di questi autori risulta che, mentre per il sistema Cus0- Cus CL e PbO-PbFI, non si nota formazione di alcun composto, per ì sistemi fra l'ossido di piombo e i corrispondenti cloruro e bromuro si ha formazione di composti ossialogenati ben definiti. Data la scarsezza delle nostre cognizioni, mi parve interessante di esten- dere le ricerche in questo campo; e approfittando della facilità alla fusione e stabilità degli idrati alcalini, intrapresi a studiare il comportamento di questi sali nelle miscele dei corrispondenti sali alogenati, per vedere se anche per ì metalli alcalini era possibile la formazione di composti ossi- alogenati. Vennero perciò anzitutto sperimentati i quattro seguenti sistemi: KOH-KFl, KOH-KCl , KOH-KBr , KOH-KJ, i cui risultati sono esposti nella presente Nota. Lo studio di questi sistemi viene reso alquanto difficile : in primo luogo, perchè non si riesce a trovare un recipiente il quale sia completamente inat- taccabile dagli idrati alcalini: secondariamente, perchè questi ultimi sali ten- (1) Pogg. Ann., 48, 182; 2181, 524. (*) Zeitschr. f. anorg. Chem., 88, 429 (1904). (*) Zeitschr. f. anorg. Chem., 49, 365 (1906). (4) Rend. R. Accad. Lincei [5], 23, I, 959 (1914). (5) Zeitschr. f. anorg. Chem., 76, 165 (1912). — 740 — dono ad assorbire notevoli quantità di umidità e di anidride carbonica del- l’aria. Siccome dalle numerose esperienze di molti autori, fra i quali Scheuner- Kestner (*), Dittmar (*), Le Blanc e Brode (*), Liebenon e Strasser (‘), Lorenz e Sacher (°), Le Blanc e Bergmann (°), i quali studiarono l’attaccabilità dei metalli mediante gli idrati alcalini fusi, appare che l'argento, fra tutti i metalli, dopo l'oro, presenta la proprietà di esser attaccato il più legger- mente dagli idrati alcalini, specie quando la temperatura non sia troppo alta, e il sale fuso sia fuori del contatto dell’aria, mi servii, come recipiente per la fusione delle diverse miscele, di crogiuoli di argento. Il crogiuolo veniva messo entro un cilindro di ferro posto dentro un fornetto elettrico a resistenza di nichel, e ben chiuso superiormente con un coperchio di porcellana, attra- verso il quale si faceva arrivare una forte corrente di azoto, in modo da evitare l’azione dell'umidità e dell'anidride carbonica dell’aria sulla mi- scela fusa. Per la misura delle temperature, non potendo usare la pila termoelet- trica platino - platino rodio, poichè nella fusione il platino viene fortemente attaccato, dovetti ricorrere ad un termoelemento di argento-nichel. Questo termoelemento venne da me costruito in laboratorio con due fili calibrati, ciascuno dello spessore di 0,5 mm. Le curve di solidificazione vennero determinate immergendo direttamente la pila nella massa fusa, poichè, ponendo la pila dentro un piccolo cilindro pure di argento, si notavano sulle curve di solidificazione, in modo assai poco netto ed evidente, le variazioni di calore che avvengono nella massa durante il raffreddamento. Operando in questo modo, si osserva, però, che il filo di nichel si copre di uno strato sottilissimo nero, forse dovuto alla formazione di ossido di nichel, mentre il filo di argento, dopo un uso assai prolungato, viene intac- cato leggermente; tuttavia ho osservato che la forza elettromotrice dell’ele- mento si mantiene sensibilmente la stessa, portando quindi, sui risultati otte- nuti, delle alterazioni assai piccole e, praticamente, del tutto trascurabili. Con questo termoelemento vennero determinate le curve di solidifica- zione di tutte le miscele, le cui temperature di solidificazione non erano di molto superiori ai 900°; per un piccolo numero di miscele, quali quelle più ricche in fluoruro, dovetti servirmi di un crogiuolo di platino e di una pila (!) Bull. Soc. Chim. [8], 15, 1250. (2) Zeitschr. f. analyt. Chem., 24, 76 (1815). (*) Zeitschr. f. Elektr. Chem., 8, 719 (1902). (4) Zeitschr. f. Elektr. Chem., 3, 333 (1897). (5) Elektrolyse gesmolzener Salze III (°) Ber. d. d. chem. Ges., 42, 4728 (1909). — 741 — platino - platino rodio. Data però la povertà di queste miscele in idrato alca- lino, l’attacco sia del erogiuolo di platino sia della pila fu quasi nullo. Le curve di solidificazione eseguite coll’elemento Ag - Ni, vennero otte- nute seguendo le variazioni della forza elettromotrice, espressa in millivolts di un galvanometro Siemens ed Halske. Da questi dati espressi in millivolts, si passa alle temperature corri- spondenti esprimendo la forza elettromotrice come funzione della tempe- ratura, prendendo cioè un sistema di assi cartesiani e portandovi in esso come ascisse le temperature e come ordinate le forze elettromotrici espresse in millivolts. Per la graduazione degli strumenti furono presi i punti di ebollizione dell’acqua (100°), dell’anilina (183°), il punto di fusione dello stagno (232°), dello zinco (419°), dell’antimonio (624°), determinati colla pila Pt-Pt- Rh, e le forze elettromotrici espresse in millivolts corrispondenti a questi punti, eseguiti cola pila Ag-Niì. I prodotti adoperati provenivano tutti dalla ditta C. Erba di Milano, e alla fusione si mostrarono assai puri. Venne determinato, prima di iniziare le ricerche sperimentali, il conte- nuto in acqua e in carbonato dell’idrato potassico. Le analisi, eseguite sul prodotto preso da un vaso aperto per la prima volta, diedero i seguenti risultati: KOHscontiene ss KOH=:89/53%5 Ki 007T47% a H50=:99% Per eliminare completamente l’acqua contenuta nell’idrato alcalino, le quantità di esso di ciascuna miscela venivano da sole portate alla fusione e mantenute a questa temperatura per tre, quattro ore, in forte corrente di azoto. Durante questo riscaldamento la temperatura venne sempre tenuta alquanto al disotto di 500°, poichè al disopra di questa temperatura il crogiuolo di argento viene piuttosto fortemente intaccato. Dopo l'eliminazione completa dell’acqua, venivano aggiunte le quantità corrispondenti degli altri sali. Nel corso delle esperienze vennero usate sempre miscele di una massa costante eguale a trenta grammi. Sistema KOH-KFI. Il punto di fusione di KOH venne da me trovato a 380° e si discosta alquanto da quello dato da Hevesy (*) (360°), e maggiormente da quello dato da Neuman e Bergve (°) (345°). Il punto di trasformazione, secondo Hevesy (loc. cit.), giace a 248°; dalle mie misure risulta a 260°. () Zeitschr. f. physik. Ch., 73, 667 (1910). (*) Zeitschr. f. Elektroch., 20, 271 (1914). — 742 — Il fluoruro potassico solidifica a 857°. Questa temperatura è in buon accordo con quella trovata da Plato (') (859°.9) e da Karandezen (*) (867°); differisce alquanto da quelle date da Kurnakow e ZemeZuZny (*) (837°), da Puschin e Baskow (4) (885°). Le temperature di solidificazione di tutte le miscele stanno fra i punti di solidificazione dei due componenti, i quali sono completamente miscibili allo stato solido dando luogo alla formazione di cristalli misti di una sola specie. Conseguentemente al formarsi di soluzioni solide, il punto di trasfor- mazione di KOH, come risulta dalle curve di solidificazione, va gradata- mente abbassandosi coll’ aumentare, nelle miscele, della concentrazione del fluoruro potassico (vedi tabella 1* e fig. 1). Sistema KOH-KCI. Il cloruro potassico da me ‘adoperato fondeva a 776°. Il suo punto di fusione sta quindi in buon accordo con quello dato da Hittner e Tammann (*) (778°), da Menge (°) (776°), da Truthe (?) (775°), da Sandonnini (8) (7769); è d: alcuni gradi inferiore a quello trovato da Kurnakow e Zemezuzny (°) (790°) 6 da Ruff e Plato (!°) (790°). Come appare dal diagramma fig. 22, la curva di cristallizzazione pri- maria discende dal punto di solidificazione di KCl a quello di KOH, pre- sentando un evidente gomito alla temperatura di 430° e alla concéntrazione di circa 67 mol. °/, di idrato potassico. Le miscele da 36 a 67 mol. °/, di KOH presentano, oltre all'arresto di cristallizzazione primaria, un secondo arresto a 430°; le miscele da 0 a 25, e da 47 a 100 °/, mol. di KOH pre- sentano un intervallo di cristallizzazione, dovuto alla formazione di cristalli misti. Questi due sali presentano perciò il 4° tipo di Roozeboom: dànno cioè luogo a formazione di cristalli misti di due specie, con lacuna di miscibilità. Il punto di trasformazione di KOH viene notevolmente abbassato per aggiunta di KCl, tanto che a 82° mol. °/, di idrato potassico risulta già a circa 120°. A questa temperatura si nota nelle curve di raffreddamento un forte arresto. !) Zeitschr. f. phys. Chem. 58, 350 (1907). 2) Zbl. Min. Geol., 728 (1909). 3) Zeitschr. f. anorg. Chem., 74, 90 (1912). 4) Zeitschr. f. anorg. Chem., 8/, 350 (1913). 5) Zeitschr. f. anorg. Chem., 43, 224 (1905). °) Dissertation, Géttingen 1911. ?) Zeitschr. f. anorg. Chem., 76, 136 (1912). 8) Rend. R. Accad. dei Lincei (5), 20, I, 457 (1911). *) Zeitschr. f. anorg Chem., 52, 186 (1907). (1°) Ber. chem. Ges., 36, 2357 (1908). ( ( ( ( ( ( ( ( ( potassico. — 743 — Questo arresto, il quale assume un massimo di durata a circa 82 mol. °/o di KOH e si rende nullo rispettivamente a 20 e a 100 mol. °/, di idrato potassico, è un eutettico che si forma tra il punto di trasformazione di KOH e il limite dei cristalli misti che si formano dalla parte dell’ idrato Mentre però si potè seguire con ogni sicurezza l’abbassarsi della tras- formazione di KOH, e il formarsi dell’arresto eutettico, non fu possibile di cogliere con sicurezza alcun punto della curva di cristallizzazione discen- dente dal limite delle soluzioni solide di KCl in KOH (vedi tabella 28, fig. 2°). TABELLA I. Peso o Poo./o Mol. °/o Mol. °/o ROL LO Temperature SSL ai inizio fine trasformazione KOH KF1 KOH KFI cristallizzazione | cristallizzazione KOH 0.00 100.00 0.00 100.00 857 te —_ 10.00 90.00 10.40 89.60 835 790 — 20.00 80.00 20.34 79.66 795 750 —_ 30.00 70.00 30.63 69.37 750 700 138 40.00 60.00 40 80 59.20 710 660 142 50.00 50 00 51.14 48.86 665 615 155 60.00 40.00 61.14 38.86 625 560 170 70.00 30.00 71.02 28.93 570 505 188 80.00 20.00 80.79 19.21 505 460 200 90.00 10.00 90.39 09.61 | 450 415 220 95.00 5.00 95.15 4.85 | 420 395 259 100.00 0.00 100.00 0.00 | 380 _ 265 TaBercA II __ 7 = n Posv.O/e Paco °/o Mol. °/o Mol. °/o Tempera Tempera- | Temperature | Temper. | Temper. Durate i inizio ture fine trasforma- | arresto in KOH KOH KOH KC1 cristal!izzaz.| I arresto |cristallizzaz. [zione KOH| eutettico | secondi 00.00] 100.00| 0000 | 100.00 776 _ — = = "= 10.00 90.00] 12.94 87.06 734 - 660 = = = 20.00 80.00| 24.65 75.85 692 _ 560 = —_ = 30.00 70.00] 36.06 63.94 645 480 —_ — 125 80 40,00 60.00| 47.02 52.98 585 482 — _ 125 80 50.00 50.00| 57.05 42.95 475 430 410 = 128 120 60.00 4000) 66.87 93.13 480 430 400 — 130 140 70.00 30.00| 75.61 24.39 422 _ 395 — 128 170 80.00 20.00| 84.02 15.98 415 _ 390 150 122 100 90.00 10.00| 9248 7.52 402 —_ 385 215 120 50 95.00 5.00| 96.19 3.81 895 —_ 385 245 110 20 100.00 00.00 _ 00.00 380 _ — 265 _ = RennIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 94 800 700 600 500 -309 200 10 20 30 40 50 60 70 80 go 100 50 0 o 10 20 30 40 "60 70 80 90 100° K FI mol.% di KOH KOH KCI mol y di Ko KOH ETGossii RIGA Sistema KOH-KBr. Il punto di fusione del bromuro potassico da me usato giaceva a 760°, e concorda perciò con quello di Ruff e Plato (loc. cit.) (750°), di Kurnakow e Zemezuzny (loc. cit.) (757°); è alquanto superiore a quello dato da Hittner e Tammann (loc. cit.) (740°), da Amadori (*) (740°) e da De Cesaris (?) (730°). I dati termici di questo sistema sono raccolti nella tabella 3* e grafi- camente rappresentati nella fig. 32. Il diagramma di solidificazione mostra che i due componenti, se si eccettua la formazione di cristalli misti in rapporti piuttosto ristretti dalla parte di KOH, sono completamente miscibili allo stato liquido. L'arresto eutettico giace a 300° e assume un massimo di durata a 75 mol. °/, di KOH, mentre si annulla rispettivamente a 0 e a 85 circa mol. °/, di idrato potassico. (') Rend. R. Accad. Lincei [5], 20, II, 572 (1911). (2) Rend. R. Accad. Lincei [5], 20 (1911). — 745 — Dalle curve di raffreddamento appare che il punto di trasformazione di KOH si abbassa dapprima rapidamente, tanto che per la miscela a circa 90° mol. °/, di KOH giace a 205°; poi, per tutte le altre miscele rimane pressochè costante a questa temperatura. Sistema KOH-KJ. L'ioduro potassico da me adoperato solidificava a 695°. Questa tempe- ratura concorda pienamente coi punti di fusione dati dalla maggior parte degli autori sopracitati: Ruff e Plato (loc. cit.) (705°), Kurnakow e Zem- ezuzny (loc. cit.) (693°), Hittner e Tammann (loc. cit ) (680°). La curva di cristallizzazione primaria è costituita da due rami, i quali, scendendo dai punti di fusione dei due componenti s' intersecano in un punto eutettico a circa 73 mol. °/, di KOH e alla temperatura di 250°. La trasformazione dell’idrato potassico avviene a una temperatura di assai poco superiore a quella dell'arresto eutettico. Dalle curve di raffreddamento sì può tuttavia cogliere con sufficiente sicu- rezza l'inizio della trasformazione (vedi fig. 4%, tav. 48). Riassumendo, dai risultati termici ottenuti si conclude che l' idrato potassico dà : col fluoruro, soluzioni solide in ogni rapporto; col cloruro e col bromuro, soluzioni solide di due specie, con lacuna di miscibilità; coll'ioduro, formazione di un semplice eutettico. TaBeLLa III. mesa °/o La °/o Moi. °/o | sol °/o | TETpa o Tempe ne SOI i a inizio arresto in | trasformazione KOH KBr KOH Si cristallizzazione eutettico secondi | KOH 0.00| 100.00 0.00) 100.00 760 = CE = 2.50 97.50 6.94 98.06 680° 270 20 190 10.00 90,50 19.85 80.65 595 295 b) 190 20.00 80.00 34.81 65.69 520 300 50 195 30.00 70.00 47.74 02.26 440 305 80 205 40 00 60.00 58.67 41.33 355 305 90 205 50.00 50.00 67.94 32.06 310 300 120 195 60.00 40.00 76.43 23.57 340 300 100 195 70.00 30.00 83.33 16.67 365-325 280 30 195 80.00 20.00 89.37 10.63 370-350 _ — | 205 90.00 10.00 95.24 4.76 375 _ = I 23 100.00 0.00| 100.00 0.00 3S0 —_ = 265 — 746 — TABELLA IV. Paoli | Peso °/o | Moi. °/o | Mol. °/o SOTTO Temperature MERO emporaLure inizio arresto in trasformazione KHO | KJ KOH KJ cristallizzazione eutettico secondi KOH 0.00] 100.00 0.00| 100.00 695 — = —_ 2.50 97.50 6.94 93.07 665 245 20 10.00 90.00 25.00 75.00 580 250 45 20.00 80.00 42.17 57.88 485 255 60 30.00 70.00 05.79 44.21 365 255 90 40.00 60.00 6645 83.55 290 250 130 50.00 50.00 74.79 25.21 270 245 140 260 60.00 40.00 81.68 18.32 310 245 100 260 70.00 30.00 87.41 12.59 395 245 60 260 80.00 20.00 92.25 7.25 360 245 40 260 90.00 10.00) 96.88 3.62 875 245 20 265 100.00 0.00) 100.00 000 380 — = 265 0 10 20 20 40 50 60 70 80 90 7100 (0] 10 20 30 40 50 60 70 80 90 - -100 K Br mol % di KOH KOH KI mo!.% di KOH. KOH. Fic. 3. Fic. 4. Chimica-fisica. — Sul potere elettromotore delle amalgame di magnesio e ancora sul potere elettromotore delle amalgame di caleto. Nota di Livio CAMBI, presentata dal Socio R. NASINI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. — 747 — Chimica generale. — Azione dei sali neutri sulla costante dell'equilibrio chimico ('). Nota di G. Poma e di G. ALBONICO, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. L'intimo meccanismo secondo il quale si determina la singolare pro- prietà, posseduta dai sali neutri, di accelerare il decorso di alcune reazioni, è ancor oggi perfettamente oscuro; vi sono però elementi per ritenere che esso sia collegato con l'anomalia che gli elettroliti forti presentano nei ri- guardi della legge di azione di massa, e quindi anche col problema fonda- mentale che concerne l’essenza del processo di soluzione. Uno di noi (*) ebbe già occasione di concorrere a dimostrare sperimen- talmente: 1°) che l'intensità dell’azione spiegata dai sali neutri è in stretta relazione con la natura chimica dei loro anioni, e va ordinatamente dimi- nuendo passando dai cloruri ai bromuri e da questi ai nitrati ed agli ioduri; 2°) che essa è indipendente dalla natura chimica dei loro cationi; 3°) che essa sembra essere proporzionale, non già alla concentrazione salina complessiva della soluzione, ma solo alla sua concentrazione ionica. Questi risultati bastano a dimostrare che l'azione dei sali neutri sulla velocità di reazione non è dovuta, nè in modo esclusivo e neppure in modo prevalente, alla probabile formazione degli idrati in soluzione. Per venire ora rapidamente allo scopo della presente comunicazione, cì limitiamo a ricordare che uno di noi (*), al fine di chiarire questo argomento, ha cer- cato di realizzare un fatto omologo a quello dell’azione dei sali neutri sulla velocità di reazione, in un ordine di fenomeni completamente diverso da quello in cui tale influenza era stata fin allora studiata. Se si determina, misurando la forza elettromotrice di una pila convenientemente preparata ed impiegando la nota formola del Nernst, la concentrazione dello ione rameico in una serie di soluzioni acquose contenenti nitrato di rame ad una concen- trazione costante e quantità variabili di un nitrato alcalino od alcalino-ter- roso, si osserva che, in contrasto con la legge di azione di massa, la con- centrazione apparente dello ione rameico cresce col crescere di quella del sale (®) Lavoro eseguito nell’Istituto di chimica generale della R. Università di Parma. (@) G. Poma, Veber Neutralsalewirkung. Meddel. K. Vetens. Akad. Nobelinstitut. Bd. 2, n. 11. Uppsala, 1912. (*) G. Poma ed A. Patroni, Ein/luss der Neutralsalze auf den Zustand der Ionen in Lbsung, Erste Mitteilung-Ztschr. physk. Chemie, 87, 196 (1914); G. Poma, Neutralsalz- wirkung und Zustana der Ionen in Lòsung, Zweite Mitteil, Ztschr. physik. Chemie, 88, 678 (1914). — 743 — neutro. Altrettanto si verifica, ceteris paribus, per la concentrazione dello ione idrogenico, quando essa pure venga determinata col metodo elettrometrico nelle soluzioni acquose di un acido qualsiasi. L'azione esercitata dai sali neutri sulla concentrazione apparente degli ioni rameici ed idrogenici possiede le seguenti caratteristiche: 1°) la sua intensità è una funzione della natura chimica dei catz0m:; essa cresce al crescere dell’affinità per l’acqua dei sali che li contengono : infatti, ordinandoli secondo la loro crescente attività, si ottiene la serie Rb, K, Na, Li, Ca e Mg; 2°) essa non è una proprietà esclusiva degli elettroliti, poichè la pre- senza di sostanze non ionizzate, almeno in misura apprezzabile, ma forte- mente acquoaffini, come sono gli alcooli metilico ed etilico (!), esercita sulla concentrazione dello ione rameico una influenza analoga a quella dei sali deliquescenti ; 8°) al crescere della diluizione dello ione rameico, essa diminuisce for- temente. Per queste ragioni si può concludere che l'influenza dei sali neutri sulla concentrazione apparente degli ioni rameici ed idrogenici, a differenza di quanto abbiamo visto sussistere per quella che essi spiegano sulla velo- cità di reazione, può essere ritenuta, allo stato attuale della questione, la conseguenza della formazione degli idrati in soluzione. Allo scopo appunto di valutare l'attendibilità di una tale interpretazione, e, soprattutto, di esten- dere la cerchia delle nostre conoscenze sull’argomento, abbiamo pensato di studiare in modo sistematico e completo l'azione che i sali neutri esercitano sugli equilibrî chimici. Per ragioni evidenti di semplicità, abbiamo prescelto la reazione RCO.H + R'OH => RCO.R' + H:0 che, come è noto, venne studiata dal Berthelot (*). Per far raggiungere più rapidamente al sistema lo stato di equilibrio, lo abbiamo messo in presenza di un acido forte. La costante di questo equilibrio è quasi indipendente dalla temperatura e, come vuole la legge di Guldberg e Waage, dalle concentrazioni iniziali che le singole sostanze reagenti avevano nella miscela. Questi fatti appaiono ovvii ad un primo esame, ma lo sembrano meno, quando si tenga presente che l’acqua e l'alcool, essendo sostanze dissocianti ed ossidrilate, sono liquidi (') Uno di noi, in collaborazione con B. Tanzi, ha dimostrato che l'aggiunta di un non elettrolita esercita sulla velocità di una reazione un'influenza acceleratrice quando la sua costante dielettrica sia maggiore di quella del solvente in cui avviene la reazione; in caso contrario, l'influenza è o piccolissima o nulla. Gazz. chim., 42, I, 425. (?) Essai de mecanique chimique fondée sur la thermodynamique, tome second, pag. 69. — 749 — fortemente associati, nei quali sono presenti molecole semplici e molecole di varia complessità, tutte fra loro in equilibrio. Ora, siccome è da ritenere molto probabile, che al gioco immediato dell'equilibrio chimico, da noi con- siderato, partecipino esclusivamente le molecole semplici di ciascuna delle sostanze reagenti, così bisognerebbe anche ammettere che singole concentra- zioni delle speci monomolecolari dell'acqua e dell'alcool si mantenessero tra loro costantemente proporzionali, attraverso a qualsiasi variazione di tempe- ratura e di concentrazione delle sostanze costituenti il sistema. Su questo punto assai importante, ma oltremodo oscuro, del problema degli equilibrî omogenei, stiamo eseguendo una ricerca, sulla quale speriamo poter riferire tra breve. Data la natura essenzialmente dinamica dell'equilibrio chimico, dob- biamo ritenere che qualunque spostamento di esso, determinato dalla pre- senza di una sostanza estranea, sia la risultante di una azione esercitata in diversa misura sulla velocità delle due reazioni inverse che avvengono simul- taneamente nel sistema e che caratterizzano quell'equilibrio. Nel caso nostro, se la molecola indissociata dell'acido minerale idrolizzante, o lo ione idro- genico che esso mette in libertà, avesse un'azione puramente catalitica, e se l'influenza che i sali neutri esercitano sulla velocità di reazione interessasse soltanto questa attività, allora catalizzatore e sali neutri non dovrebbero spostare in alcun modo l'equilibrio, e quindi dovrebbero far variare propor- zionalmente la velocità delle due reazioni simultanee ed inverse di eterifi- cazione e d'idrolisi che ad esso conducono. Ma in realtà le cose non procedono in questo modo; ciò infatti ha dimo- strato per il primo O. Knoblauch (*) e confermarono in questi ultimi tempi W. J. Jones (*), F. P. Worley (*) ed altri. Allo scopo di meglio precisare l'oggetto della presente ricerca, diremo che abbiamo voluto studiare l’azione dei sali neutri sulla costante di equilibrio in rapporto con la concentrazione del catalizzatore, con la natura chimica dell'acido organico da eterificare, con quella dell’alcool eterificante, con la natura e la concentrazione dei sali neutri adoperati, e, finalmente. in funzione del rapporto molecolare tra le quantità di acqua e di alcool presenti nel sistema. Nelle diverse miscele che abbiamo impiegato, erano presenti, all’inizio di ciascuna esperienza, solo tre delle quattro sostanze partecipanti all'equilibrio; di esse due, erano date costantemente dall'acqua e dall'alcool, e la terza era, a seconda dei casi, l'etere salino ovvero l’acido libero corrispondente. Inoltre, in ciascuna mi- scela, sì trovava sempre un acido minerale energico, il catalizzatore e, (*) Ztschr. physik. Chemie, 22, 269 (1897). (°) Journ. chem. Soc. London, 99, 1427 (1911); /05, 1542 (1914). (*) Journ. chem. Soc. London, 99, 349 (1911); Proc. Royal Soc. London. 87, A, 604, dal Z, 1913-1-898. — 750 — quando ne era il caso, anche un sale neutro che aveva l’anione in comune con tale acido. Nel processo da noi ora considerato CH;C0,H + CH;0H —> H;0 + CH;C0,CH;, rappresentiamo rispettivamente con a, è, c, d, le concentrazioni iniziali espresse in mole delle quattro sostanze reagenti,; con £, e %s le costanti di eterificazione e d’ idrolisi, e con K la costante dell'equilibrio; con x con- veniamo di rappresentare le quantità di acido acetico e di alcool metilico scomparse dal sistema per effetto della reazione, e quindi anche quelle di acqua e di etere formatesi sino al momento della misura. Come ben sap- piamo, raggiunto nel sistema lo stato di equilibrio, deve sussistere la se- guente equazione: ko (a—-ax)(b—- 2) *=% (Fo) dro' D'altro lato, quando la reazione sia ancora in atto, deve essere verificata la seguente equazione differenziale: “2 lla —2)(b—2)—k+2) (44 2). Però, nel nostro caso, dicemmo già che una delle quattro concentra- zioni iniziali è stata fatta uguale a zero. Supponiamo che ciò sì sia verifi- cato per la concentrazione d dell’etere salino; allora, trasformando opportu- namente l'equazione soprascritta, in modo da facilitarne la integrazione, avremo : da ek — ka) — a(ak\ + bk, + ek) + abko ap= da cui può ottenersi, ricordando che il rapporto tra 4, e %s è uguale a K, quanto segue: da Cool i aki +blk, + cks a der% ALZA ki — ke dx Aaa ace ab e ae e Per ragioni di semplicità facciamo ora Via 3 cine ab i PETE TISK' — 751 — Sostituendo queste lettere ai loro valori, nella precedente equazione, sì ottiene : da da (kr — ka.) dt= x — ax + f -— (a - (x = aa in cui È e & sono le radici dell’equazione quadratica: x° — ax + 8 =0. Integriamo ora questa funzione e definiamo la costante d'integrazione fa- cendo /= 0, nel qual caso deve anche essere <= 0; in definitiva otter- remo così l'equazione: ; ; CN : n, È 1 ) che, associata con l'altra K =: ci permette di calcolare i singoli valori LI de (e 4a Le nostre determinazioni di equilibrio e, insieme, di velocità di rea- zione, vennero effettuate nelle ordinarie condizioni sperimentali. alla tempe- ratura di 25° + 0,01°, in bevute di vetro di Jena, munite del dispositivo Price, destinato a diminuire le inevitabili perdite per evaporazione dei più volatili componenti del sistema, e tenute immerse in un grande termostato ad acqua, della capacità di circa centocinquanta litri. Abbiamo preparato una serie di soluzioni acquose degli acidi organici da eterificare, di quelli minerali da usare come catalizzatori, dei sali neutri aventi con questi ultimi l'anione in comune; preparammo inoltre le soluzioni alcooliche (metiliche ed etiliche) degli eteri salini corrispondenti, e le miscele acquose alcooliche dei due alcooli adoperati (metilico ed etilico). Di ciascuna di queste solu- zioni determinammo, col massimo rigore possibile, la concentrazione e la densità alla temperatura di 15°. Mescolando volumi convenienti, esattissi- mamente misurati alla medesima temperatura, di aleune di queste soluzioni, e portandole al segno in matracci graduati, abbiamo ottenuto i sistemi omo- genei, a composizione perfettamente nota, che erano sede dei fenomeni da noi studiati; da queste miscele, poste in termostato nelle condizioni già accen- nate, abbiamo prelevato, di tempo in tempo, volumi noti, e in questi ab- biamo determinato l'acidità complessiva, con una soluzione titolata di barite. In tutte queste misure abbiamo usato matracci tarati e burette controllate dall'Istituto imperiale di Berlino. Le pipette vennero costruite su nostro disegno: esse erano a doppia parete, come sono i vasi Dewar; i loro tubi di efflusso e di aspirazione, sui quali erano incisi i segni limiti per la capa- cità, erano capillari e muniti di rubinetti. Queste pipette vennero da noi RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 95 LARAZE stessi tarate con acqua distillata a 25°. In tutte le esperienze descritte nelle sottostanti tabelle, abbiamo impiegato, come catalizzatore, l'acido clo- ridrico 0,20 normale. TABELLA 1A. In assenza di sali neutri. Numero di mole contenute in 100 cem? X “ein Letpo MRI dal ti10 fi=/00 a= 0,1200 | a, = 0,0329 82’ 55,70 0,0022 è =1,2620 | d,= 1,1750 207 44,40 0,0020 c=2,5260 | ce. = 2,6131 300 38,90 0,0020 ai=(0) di=0,0871 890 35,30 0,0020 rat a 775 28,55 0,0019 = 2,093 ; $=0,0870 valor medio 0,0020 K=-®# — 0,1700 WU ki = 0,00240 ; 4, = 0,00041 Nella quarta colonna di questa tabella figurano i volumi di una solu- zione di barite 0,2007 normale, necessarî per neutralizzare 10 cem? della miscela. Con le lettere a, 8, c, d abbiamo inteso rappresentare le quantità molari dell'acido CH.C0,H, dell'alcool CH30H, dell’acqua e dell'etere salino, contenute inizialmente in cento cem? della miscela stessa: con le lettere ax, bi, 1, d,, le quantità delle medesime sostanze che si trovavano nello stesso volume, dopo che il sistema aveva raggiunto il proprio stato di equi- librio. Come si vede, mentre, secondo le classiche esperienze del Berthelot, la costante di equilibrio possiede per alcooli ed acidi diversi il valore 0,25, nel nostro caso, invece, forse per la presenza del così detto catalizzatore, essa è uguale 0,17. — 753 — TABELLA 2A, TABELLA 88. Sale neutro: Li Cl 0,4315 norm. Sale neutro: Li Cl 0,863 norm. Numero di mole contenute Numero di mole contenute in 100 cem8 X in 100 cem8 X Tempo in fe ka Tempo in ki Z28/o all’inizio all'equilibrio cem$ ail’inizio all'equilibrio cem? (i =0) ti=(00 =0 (a —-100 i putà | a=0,1200 | a, = 0,0319 56° | 58,70| 0,0025 dA 0N200R2T=:00315 48’ | 59,66| 0,0027 b=1,2550 | 24= 11669 | 199 | 43,30] 0,0023 b=1,2470 | è,=1,1583 | 178 | 42,60| 0,0027 c=2,5100 | c. = 2,5981 | 289 | 37,45| 0,0023 c = 2,4940 | co = 2,5828 | 269 | 36,40] 0.0027 d=0 di=0,0881 | 380 | 33,70| 0,0028 ai=0) d.=0,0885 | 362 | 32,30| 0,0027 5 767 | 27,81] 0,0023 747 | 26,30| 0,0028 = 2,0390 ; € = 0,0877 valor medio 0,0023 t=2,0113 ; $=0,0885 valor medio 0,0027 CTR ke ne 6 > ka da —_—_—__—____________—_—_€É Sp e k, — 000274 si oo k, = 0,00321 ks = 0,00044. ka = 0,00051 TABELLA 48. Sale neutro: Li Cl 1,295 norm. a= 0,1200 a,= 0,0291 b = 1,2846 ba = 1437 co=2,47107 vi = 2,5616 d=0 d, = 0,0909 &=1,9008 ; £—0,0910 = _ 0,1428 hi Sale neutro: Li CI 2,589 norm. 172” | 40,71 259 | 34,60 352 | 80,64 759 | 25,24 0,0032 0,0031 0,0031 0,0030 valor medio _0,0031 ki = 0,00362 ka = 0,00052 TABELLA 62. a=0,1200 | a,= 0,0251 b=1,2039 | 6, = 1,1090 c=2,4095 | c, = 2,5044 ci=0) d,= 0,0949 CM RIIAEE00950 lo K = Ei 0,1170 51’ | 54,70 121 | 40,30 213 | 31,44 301 | 27,21 0,0045 0,0047 0,0046 0,0046 valor medio 0,0046 k, = 0,00521 ka = 0,0006L TABELLA 58. Sale neutro: Li Cl 2,000 norm. a=0,1200 | a, = 0,0270 59 | 53,50] 0,0041 = = 101245 129 | 41,82] 0,0040 c = 2,4355 ci = 2,495 220 33,53 | 0,0039 ai=0) d,=0,0930 | 309 29,20 | 0,0039 697 | 24,57| 0,0038 E ALS046,,: 500930 valor medio 0,0039 SÒ ka A ——T_______________ di ki ME k, = 0,00448 | ks = 0,00058 TABELLA 3. Sale neutro: Li Cl 3,020 norm. a = 0,1200 a, = 0,0237 47’ | 52,72] 0,0056 b=1,1904 b,= 1,0941 120 28,50 | 0,0054 CI=121989111 co= 2,4794 201 29,74 | 0,0053 d=0 d,=0,0963 | 304 | 25,41| 0,0051 -|° valor medio 0,0053 t=1,6609 ; È — 0,0965 E AA A 7 kx = 0,00594 i 01030 ta = 0,00064 — 754 — In tutte queste misure il rapporto molecolare tra le quantità iniziali di acqua e di alcool metilico era mantenuto rigorosamente costante ed uguale a due: ciò è stato fatto allo scopo di rendere più agevolmente paragonabili fra loro i risultati ottenuti impiegando diverse concentrazioni del sale neutro. È bensì vero che tale rapporto variava per effetto del procedere della rea- zione: ma, siccome l’acqua e l'alcool erano, nella nostra miscela, presenti in quantità assai superiori a quelle dell'acido acetico, così queste variazioni possono essere ritenute, con errore relativamente piccolo, irrilevanti per le conclusioni alle quali arriveremo. I risultati da noi ottenuti dimostrano che la presenza del Li Cl, anche in un solvente acquoso alcoolico, esercita un'azione acceleratrice tanto sulla velocità di eterificazione, quanto su quella d’idrolisi; però tale azione si esercita in misura diversa sulle due reazioni, poichè, mentre X,, la costante della prima, in presenza di tre mole di LiCl per litro, cresce da 0,00240 a 0,00594; 7», la costante della seconda, varia da 0,00041 a 0,00064; questo fatto corrisponde alla diminuzione della costante di equilibrio K, che, nelle stesse circostanze, discende da 0,170 a 0,108. Possiamo dunque concludere che la influenza, dal LiCl esercitata sul processo da noi considerato; non presenta la caratteristica fondamentale delle azioni catalitiche, ma che invece essa si determina come se il sale neutro sottraesse al giuoco immediato dell'equilibrio una parte dell'acqua presente nel sistema. In una prossima Nota, per la quale abbiamo già raccolto il materiale sperimentale, esporremo i nuovi risultati ottenuti nella continuazione della presente ricerca, Chimica fisica. — Sugli equilibri dell’idrogenazione. Nota di M. PApoA e di B. Foresti, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. — 755 — Fisiologia vegetale. — In/luenza del fosforo e del magnesio sulla formazione della clorofilla ('). Nota della dottoressa Eva MAMELI, presentata dal Socio GiovANNI BRIOSI. Nelle sue importanti ricerche sulla composizione chimica della cloro- filla, Willstatter (*) giunse alla conclusione che il pigmento verde delle piante, estratto, sia da foglie fresche, sia da foglie secche, non contiene to- sforo, o ne contiene solo minime traccie dovute ad impurezze. Queste traccie, riscontrabili nella clorofilla greggia ottenuta col vecchio metodo di estra- zione (Kraus e Sorby) generalmente adottato, non si riscontrano invece nella clorofilla purificata mediante il soluto colloidale acquoso (Willstétter). Na- turalmente, l’autore non esclude che qualche pianta contenga una sostanza verde fosforata, nè che possa formarsi un prodotto di addizione della cloro- tilla con composti fosforati; certo è che, secondo i risultati delle sue vaste ed accurate ricerche, sono da confutarsi tanto l'ipotesi della natura lecitinica della clorofilla, sostenuta da Hoppe-Seyler (*), quanto la tesi sostenuta da Stoklasa (‘), che cioè non sian possibili senza fosforo la produzione di cloro- filla e la formazione di cloroplasti. Nonostante che Stoklasa abbia ripetutamente confermato le sue ricerche (?), la teoria lecitinica della clorofilla è oggidì fortemente scossa, ed autori quali Marschlewski (9), Tswett (7), Czapek (*) l'hanno già definitivamente abban- donata. L'interessante rivista critica pubblicata recentemente da quest'ultimo (') Lavoro eseguito nell’Istituto botanico della R. Università di Pavia, aprile 1915. (2) Willstitter R. u. W. Mieg, Veder eine Methode der T'rennung und Bestimmung von Chiorophyllderivaten (Ann. d. Chemie, 320, 1), 1906. (3) Hoppe-Seyler, Veber das Chlorophy!l (Ber. d. deut. Chem. Ges. /2, 1555), 1879; Ueber das ChlorophyIl der Pflanzen (Zeitschr. f. physiol. Chem. 3, 399, an. 1879; 4, 1193, an. 1880; 5, 75, an. 1881). (4) Stoklasa J. (Sitzungsber. d. Kais. Akad. d. Wiss. Wien., /04, 1895); (Ber. d. deut. Chem. Ges. 29, 2761, an. 1896); (Bull. Soc. chim. /7, 520, 1897); (Ann. agron. 23, 79, an. 1897). Ved. auche Griffon: Rev. gén. d. bot. /4, 141, an, 1902. (5) Stoklasa J., Brdlik V. u. Just J., Ist der Phosphor an dem Auflau des Chloro- phylis beteiligt? (Ber. d. bot. Gesellsch. XXXI a) 1908. — Stoklasa, Beitrage zur Kenn- tniss der physiologischen Funktion des Kalis im Pflanzenorganismus (Zeitschr. f. landw. Versuchswesen, XI, 52), 1908. — Stoklasa, Brdlik u. Ernest, Zur /rage des Pposphorge- haltes des Chlorophylis (Ber. d. bot. Ges. XXVII), 1909. (5) Marschlewski, Studien in der ChlorophylIgruppe I. (Biochem. Zeitschr. 10, 131), 1908. ('*) Tswett M., /st der Phosphor an dem Aufbau der Chlorophylline beterligt ? (Ber. d. bot. Ges. XXVI a, 214) 1907. (8) Czapek I, Neuere Literatur iiber das Chlorophkyli (Zeitschr. f. Bot. III, 48), 1911. — 756 — sulle moderne ricerche riguardanti la clorofilla, mi esime dal riportare per esteso i dati sperimentali controversi e i particolari sull’importante di- battito. Mi soffermerò invece a considerare un altro ordine di ricerche riguar- danti i rapporti tra fosforo e clorofilla, e cioè quelle che direttamente o in- direttamente portarono un contributo alla questione se la nutrizione fosfatica abbia o no un'influenza sulla formazione del pigmento verde. Il Loew (') constatò che, coltivando delle alghe in soluzioni nutritizie ricche in ferro, ma prive di fosforo, esse assumono una colorazione gialla- stra. Inoltre, filamenti di Spzr09yra majuscula, coltivati in soluzione nutri- tizia contenente solo nitrato di calcio e solfato d’ammonio, diventarono da gialli, di un verde intenso, per aggiunta di solfato di ferro e di fosfato bi- sodico, mentre per la sola aggiunta di solfato di ferro l’'inverdimento non av- veniva. L'autore conelude, da ciò, che per le alghe l’acido fosforico è neces- sario alla formazione della clorofilla. Si noti, però, che le soluzioni nutritizie adoperate in queste esperienze (soluzioni ricche in ferro, o contenenti solo alcuni fra gli elementi neces- sarî alle sviluppo delle alghe) non sono le più adatte per ottenere risultati sicuri e conclusivi sulla questione dell'influenza che un dato elemento esercita sulla vita delle piante. Servettaz (?) coltivò recentemente l’Hypnum purum in soluzioni nutri- tizie sterili diverse. Egli non fa osservazione alcuna sul colore delle pian- tine nelle soluzioni esenti da fosforo, mentre osserva che, in capo a 15 giorni, tutti i protonemì in culture prive di magnesio avevano una tinta giallo-ver- dastra, poi morirono ; quelli coltivati senza calcio diedero segni di sofferenza dopo un mese, e ingiallirono solo dopo 72 giorni. Nessun altro lavoro venne pubblicato, almeno per quanto a me consta, nè sulle crittogame clorofilliane nè sulle fanerogame, sino a quello, recente, di Stoklasa, Sebor e Senft (*), che merita una speciale attenzione. Da culture di Zea Mais e di Polygonum Fagopyrum — a) in soluzione nutritizia completa; 2) in soluzione priva di fosforo ; c) in soluzione priva di magnesio — gli autori ottongono i seguenti risultati : Senza magnesio, le piante di Polygonum vivono 70-80 giorni; senza fosforo, 40-50. Dopo 20-30 giorni, le piante in soluzione priva di magnesio erano ben sviluppate; le foglie avevano un bel color verde, e, al microscopio, il tessuto a palizzata era ricco di cloroplasti dal colore verde normale. In (4) Loew O., Veder den Einfluss der Phosphorsàure auf die Chlorophyllbildung (Bot. Centralbl. 48, 37) 1891. (3) Servettaz C., Recherches expérimentales sur le développement et la nutrition des mousses en milieux stérilisés (Annales d. sciences nat. XVII, 111) 1913. (® Stoklasa, Sebor, e Senft, Beitrag cur Kenntnis der Zusammensetzung des Chlo- rophylls (Beitr. bot. Centralbl.,, XXX, 167) 1913. — 757 — assenza di fosforo, invece, lo sviluppo era più stentato. Le piante erano da principio verdi; ma, dopo 30 giorni, divennero bruno rossastre come se la clorofilla si scindesse per idrolisi, e morirono dopo 40-50 giorni di vege- tazione. L'esame microscopico delle foglie, fatto quando esse erano ancora verdi, indicò che le cellule del palizzata erano molto povere di cloroplasti. Le culture di Zea Mais durarono 125-128 giorni se in soluzione com- pleta o in soluzione esente di magnesio ; 40-65 giorni se in soluzione esente di fosforo. Nelle piante private del magnesio, il tessuto a palizzata (!) era svi- luppato normalmente e ricco di granuli clorofilliani, normalmente verdi; in quelle private del fosforo, il tessuto a palizzata (!) conteneva solo pochi clo- roplasti, e il verde delle foglie diventava presto bruno. Gli autori concludono (pag. 231) che il fosforo fa parte della molecola della clorofilla, e che i cloroplasti non possono formarsi senza di esso. I risultati suddetti sono, per ciò che riguarda le culture prive di ma- gnesio, in così palese contraddizione con le osservazioni da me fatte e pub- blicate sin dal 1911 (') (ma non citate dai suddetti autori), che mi parve utile, anzichè limitarmi al pubblicare una Nota puramente critica, ripetere fedelmente le esperienze fatte dagli autori. Mi confermò in questo proposito la considerazione che ben diversa dalla soluzione nutritizia da me usata era quella adoperata dai tre autori su citati. e che qui riporto. Soluzione com- pleta: nitrato di calcio gr. 1; cloruro potassico gr. 0,25; cloruro di sodio gr. 0,02; solfato di magnesio gr. 0,25; fosfato bipotassico gr. 0,50 : fosfato di ferro gr. 0,1; silicato di calcio gr. 0,25. Soluzione senza Mg: i sali precedenti, meno il solfato di magnesio, più solfato potassico gr. 0,25. Soluzione senza P: come nella soluzione completa, meno i due sali di fosforo, più solfato di ferro gr. 0,01. Per ragioni diverse, che esporrò in seguito, eseguii anche una seconda serie di culture con soluzioni nutritizie diverse da queste. Il metodo seguìto è lo stesso descritto a pagina 152 del mio precedente lavoro. Riporto da prima i risultati ottenuti dalle culture fatte con le solu- zioni di Stoklasa: Zea Mais: a) in soluzione completa le piante crescono stentate e pal- lide; — 4) in soluzione priva di magnesio le foglie appaiono leggermente ve- nate di verde, o pallide, o perfettamente gialle, pur restando erette e rigide. Dopo un mese, ogni pianta ha 5-6 foglie, ed è alta 35-40 cm. Alcune foglie presentano grandi macchie antocianiche, e piccole zone antocianiche sono anche sul fusto. Dopo 50 giorni, 1-2 foglie basali sono inaridite; tutte le (*) Mameli Eva, Sulla influenza del magnesio sopra la formazione della clorofilla (Atti della Soc. ital. per il progr. delle scienze, V, 93, an. 1911); e (Atti Ist. bot. di Pavia, XV, 251, an. 1912). — 758 — altre (5-8) sono pallidissime, largamente chiazzate di antocianina. L'osservazione microscopica, se non rivela la presenza di un tessuto a palizzata, scoperto dallo Stoklasa nelle foglie di Zea Mazs. rivela nel mesofillo la presenza di cloroplasti, in grandissima maggioranza gialli; pochi eccettuati, di un verde Dado, sono situati in vicinanza della nervatura mediana. Il loro diametro è di wu 2,22-250; — c) in soluzione priva di fosforo, dopo 14 giorni il color hr delle foglie appare normale, ed è ben netta la differenza tra queste piante e quelle prive di magnesio, aventi foglie assai pallide. Dopo un mese, la colorazione è in alcune foglie stazionaria, in altre è diventata più in- tensa; lo sviluppo. il vigore, l'altezza non sono differenti da quelli delle piante prive di magnesio. Pochissima antocianina si osserva sulle foglie; abbondante è sui fusti. Dopo 50 giorni, le foglie più giovani sono ancora verdi: alcune, anzi, sono veramente colorate in verde-scuro; ma ogni pianta ha 4-5 foglie basali inaridite. Tuttavia le restanti non accennano a impalli- dire neppure dopo un altro mese di soggiorno nello stesso liquido; le piante, naturalmente, non crescono più. L'osservazione delle foglie al microscopio, fatta dopo 50 giorni dalla nascita delle piantine, rivela la presenza di cloroplasti normali per forma e per colore. Dopo un mese, si nota che alcuni di essi appaiono in via di disgregazione: fatto, questo, più che naturale, data l’importanza che ha il fosforo nella costituzione delle sostanze pro- teiche. I cloroplasti che appaiono interi misurano w 4,44-6,6. Polygonum Fagopyrum: a) in soluzione completa. In generale le pian- tine muoiono dopo pochi giorni; quelle che sopravvivono hanno foglie di un verde oscuro e uno sviluppo buono in confronto a quelle senza magnesio. ma non rigoglioso. Altezza 18 cm.; — b) in soluzione priva di magnesio. Dopo 20 giorni le piante hanno foglie o pallidissime o di un verde chiaro; sono alte 14-17 cm. ed hanno 3-5 foglie e numerosi bocciuoli fiorali. Dopo un mese l'intensità del colore non è affatto aumentata. L'esame delle foglie al microscopio rivela la presenza di cloroplasti pallidissimi, molti dei quali lenticolari 0 quasi filiformi, addossati alle pareti cellulari; — e) in soluzione priva di fosforo. Le nove piante che formano questa serie di culture, hanno tutte, dopo 20 giorni, 2-8 foglie di un bel verde scuro, e qualcuna ha fiori sbocciati. Lo sviluppo è più stentato in confronto di quelle senza magnesio, ma l'intensità del colore non accenna a diminuire neppure dopo un mese. L'esame delle foglie al microscopio rivela la presenza di cloroplasti normali per colore e per forma. I risultati ottenuti, perfettamente opposti a quelli resi noti dallo Sto- klasa, e confermanti, per ciò che riguarda il magnesio, le mie esperienze precedenti, erano tuttavia poco soddisfacenti, dato lo scarso sviluppo che raggiungevano le piante nella soluzione nutritizia completa: fatto che, per la poca sicurezza degli elementi di controllo, toglieva efficacia alla dimo- strazione. — 759 — Già un semplice esame dell’elenco dei componenti le soluzioni nutri- tizie adoperate dallo Stoklasa e dai suoi collaboratori conduce alla consi- derazione che soluzioni siffatte non sono comparabili fra loro nè per la qualità nè per la quantità dei costituenti. La concentrazione delle due prime è infatti del 3,37 °/00; quella della terza, dell'1,78 °/co. Inoltre, la presenza del fosfato bipotassico e del nitrato di calcio, con- tenuti nelle due prime soluzioni, provoca la precipitazione di un fosfato di calcio insolubile, che insieme col silicato di calcio, anch'esso quasi inso- lubile, rende assai inadatte queste soluzioni allo sviluppo delle piante. L'uso del fosfato bipotassico nelle soluzioni nutritizie venne seguìto anche da Crone ('); ma Takeuchi (*) e Benecke (“) lo sconsigliano, perchè, nel caso da essi criticato, provocava la precipitazione di un fosfato di ferro insolu- bile. È sempre più opportuno, perciò, l’uso del fosfato monopotassico. Le soluzioni nutritizie adoperate dallo Stoklasa, e contenenti notevoli quantità di sali indisciolti, erano assai torbide, e nel fondo dei recipienti di cultura si aveva ben presto un accumulo di sali precipitati. Era neces- sario quindi fare un'altra serie di culture con soluzioni nutritizie più adatte e comparabili fra loro per la qualità e la quantità dei sali in esse conte- nuti. Scelsi a questo scopo le soluzioni seguenti, due delle quali avevo già adoperate nel mio precedente lavoro: Soluzione completa: H20 gr. 1000; Ca (NO3): gr. 1; KNO; gr. 0,25; K H. PO, gr. 0,25; (NH,)s SO, gr. 0,25; Mg SO, gr. 0,25; Fe SO, gr. 0,02. Soluzione esente da magnesio: come la precedente, meno Mg SO,. Soluzione esente da fosforo: come la soluzione completa, meno KH, P:0,. Queste soluzioni hanno, sopra quelle usate dallo Stoklasa, i seguenti vantaggi : 1°) quello di avere concentrazioni non eccessive e non troppo diverse da una soluzione all'altra (2,02 °/ nella prima; 1,77 °/ nelle altre due; 2°) quello di essere comparabili fra loro, poichè le soluzioni esenti da fosforo e da magnesio differiscono da quella completa solo per la man- canza di un sale. Ciò ho potuto ottenere mediante l'introduzione del sol- fato d'ammonio, che supplisce alla mancanza dello zolfo allorchè si esclude il solfato di magnesio, ed è un sale che contribuisce moltissimo allo svi- (*) Crone G., Ergebnisse von Untersuchungen ber die Wirkung der Phosphorsaure auf die hòhere Phlanze und eine neue Nahrlòsung. Diss., Bonn 1904; Just., 33, 3 A, 11, an. 1905. (3) Takeuchi T., Kònnen Phosphate Chlorose erzeugen?, The bull. of Coll. agric. Tokyo, VII, 425, an. 1907. (*) Benecke W., Die von der Cronesche Nahrsalzlòsung, Zeitschr. f. Bot., I, 235, an. 1909. RexpicontI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 96 — 760 — luppo degli organi verdi delle piante. Nè la soluzione di Knop, nè quella di Strasburger, presentano questo vantaggio ; 59) quello di non produrre precipitazioni di sali, la cui formazione è per varî aspetti dannosa alla vita delle piante coltivate in soluzioni nu- tritizie. Con queste soluzioni ottenni: 1°) sviluppo vigoroso e colorazione verde intensa delle piante in so- luzione completa; 2°) sviluppo discreto e foglie a colorazione pallida o quasi comple- tamente eziolate nella soluzione priva di magnesio; 3°) sviluppo ridotto, e colorazione verde intensa delle piante nella soluzione priva di fosforo. Anche questa serie di esperienze ha dato dunque risultati contrarî a quelli esposti nel recente lavoro dello Stoklasa. CONCLUSIONE. Da culture di Zea Mais e di Polygonum Fagopyrum in soluzioni nu- tritizie prive di magnesio ottenni, come già in esperienze precedentemente pubblicate ('), piante completamente eziolate o appena debolmente verdi e contenenti cloroplasti anormali per forma e per colore. Invece, da colture delle stesse specie in soluzioni mutritizie prive. di fosforo ottenni piante con intensa colorazione verde e contenenti cloroplasti normali per colore e per forma. Questi risultati, ripetutamente controllati, sono contrarî a quelli recen- temente ottenuti dallo Stoklasa, sostenitore della teoria lecitinica sulla costi- tuzione della clorofilla, e concordano invece con i risultati analitici ottenuti da WilIstitter e dai suoi collaboratori circa la presenza del magnesio e l’as- senza del fosforo nella molecola della clorofilla. (1) Mameli E, loc. cit. — 761 — Biologia. — Una ipotesi biologica sulla deposizione dello solfo durante l’epoca gessoso-solfifera. Nota II di G. BARGAGLI PrerRuccI, presentata dal Corrisp. P. BACCARINI. Per spiegare la struttura sorzata del minerale solfifero, il Mottura è costretto a ricorrere alla ipotesi che il materiale solfureo subisse delle al- ternative regolari annuali; sia che esso fosse rappresentato da idrogeno sol- forato, sia che esso consistesse in solfuro di calcio. Queste oscillazioni an- nuali sarebbero state in rapporto, secondo l’A., con i diversi periodi, pio- vosi od asciutti, dell'annata; ed a conforto di questa supposizione egli cita il caso delle macca/ube, che appunto vanno soggette ad oscillazioni nel corso dell'anno. Tale supposizione non sarebbe in contrasto con la ipotesi biolo- gica, perchè è naturale che, se mancasse per un certo tempo al lavoro mi- erobico il materiale primo sulfureo (che però non è necessario alla vita dei microorganismi), il processo di deposizione dello zolfo subirebbe una sosta; pronto a riprendere il suo andamento normale appena le condizioni ritor- nassero favorevoli. Dubito però assai che tali periodi di ricchezza e di scarsità del ma- teriale sulfureo avrebbero petuto essere così fortemente diversi fra loro e così nettamente distinti da far succedere, a straterelli ricchissimi in zolfo, altri straterelli che non ne contengono affatto, o ne contengono traccie insignifi- canti. Piuttosto è da pensare se, nella successione delle stagioni, non si sia verificato il caso che durante periodi invernali l’attività dei microorganismi non abbia dovuto essere sospesa. In questo caso l'idrogeno solforato — non più ossidato, come prima, dai microorganismi — si sarebbe disperso nel- l'atmosfera, mentre al fondo delle acque si sarebbe depositato il solo calcare. Il Mottura pensa che nella struttura soriata si possa leggere il numero di anni che il deposito ha impiegato a formarsi: « La struttura venosa », egli dice « si osserva meglio nello stesso giacimento della solfara (di Som- « matino) che costituisce la solfara di Riesi. In ogni caso, tuttavia, la media « dello spessore complessivo degli straterelli componenti un periodo non su- « pera i 7 millimetri. Tenendo calcolo di questo fatto, si può arguire che la « durata del tempo impiegato nella formazione di questa miniera non fu mi- « nore di 4000 anni. Alcune solfare si sarebbero formate in un tempo molto « minore, cioè da 500 a 1000 anni. « Se ora si osserva che in alcune località i depositi di zolfo comincia- «rono a formarsi allorchè in altre località i depositi erano già da lungo « tempo cessati, sì può arguire che la durata dell’epoca solfifera, propria- — 762 — « mente detta, nell'ipotesi ora espressa, non è probabilmente inferiore ai « 10.000 anni ». Nella ipotesi biologica questo rilievo sul significato delle piccole stra- tificazioni non cambia sostanzialmente di valore: solo, invece di vedere, in esse, dei periodi alternanti di pioggie e di siccità, o di maggiore o minore abbondanza di materiale sulfureo, si dovrebbero vedere le alternative di at- tività e di riposo della vita vegetativa microbica, e si conterebbero gli anni in questi depositi non altrimenti che nelle sezioni dei tronchi di alberi annosi. Il che viene poi ad essere, praticamente, lo stesso. Ma vi sono solfare nelle quali queste stratificazioni mancano, o sono poco marcate. Ciò potrebbe essere avvenuto in quei luoghi nei quali la tem- peratura delle acque si manteneva presso a poco costante, mantenendo così ininterrotta la vita microbica durante tutto l’anno. Vi sono luoghi nei quali lo zolfo ha aspetto pulverulento, amorfo, e questo aspetto concorda assai bene con il modo di deposizione che suppo- niamo, giacchè l’azione di microorganismi, agenti nella massa acquea, avrebbe determinato una continua formazione di minutissime particelle di zolfo. In altri luoghi invece lo zolfo non è così uniformemente distribuito ed invece è sparso in masse, spesso cristalline, in mezzo al calcare che serve da ma- trice. Questo modo di presentarsi corrisponderebbe piuttosto all'azione di germi filamentosi della famiglia delle Beggiatoacee, che si raggruppano o si intrecciano in ammassi più o meno importanti, e che lasciano poi lo zolfo in uno stato fisico favorevole alla sua cristallizzazione. Vi è poi una varietà della struttura soriata, nella quale, fra lo strate- rello di zolfo e quello sovrastante calcareo, sì osserva un piccolo spazio vuoto, guarnito, in alto, di cristalli di calcite con le punte rivalte in basso, e in basso, di cristalli di zolfo rivolti verso l'alto. L'’assettamento ed il consolidamento del deposito di zolfo ha determinato la formazione dello spazio vuoto, dove per azioni secondarie, del tutto inorganiche, la calcite e lo zolfo hanno potuto cristallizzare. I così detti par/imenti, che dividono in alte zone il deposito di zolfo, sono costituiti da marne o gessi, generalmente bituminosi, in strati di non grande spessore. Si può pensare che questi strati corrispondano a periodi di anni nei quali il processo biologico fu sospeso, ed il materiale inorganico fu abbandonato alle pure forze fisiche e chimiche; ma la causa di tali so- spensioni rimarrebbe in ogni modo un poco oscura, benchè si possano fare ipotesi anche a questo proposito. L> condizioni dell'ambiente, del materiale portato dalle acque, la temperatura, l'accumulo dei prodotti stessi della vita microbica, ecc. ecc., potrebbero avere determinato questi periodi di as- senza di attività vitale, durante i quali i residui della vita si andavano ac- cumulando al fondo insieme con le sostanze inorganiche, fino a che la vita dei microorganismi non divenne nuovamente possibile. — 763 — * x * Data la presenza costante di un banco di tripoli al disotto degli strati solfiferi, resta ancora da domandarsi: queste due formazioni rappresentano soltanto due successivi stadii biologici che si sono succeduti per le mutate condizioni di vita e per la comparsa di nuovi esseri che sì sono sostituiti agli antichi, oppure fra le due formazioni può essere esistito un legame anche più stretto, nel senso che le vegetazioni più antiche, ed i loro resti, possono essere stati la causa determinante dei fenomeni biologici successivi ? Parlando dell'origine della lagonite ('), e delle terre gialle e bolari (*), ho esposto l'opinione, basata sui fatti osservati, che un substrato algoso sia favorevolissimo allo sviluppo, almeno iniziale, di batteriacee del tipo del Bacillus ferrigenus, ed ho fatto osservare come anche nella regione boraci- fera toscana si trovi quasi sempre un substrato di alghe sotto le incrosta- zioni di ferro che per lo più sono dovute alla azione di microorganismi fer- rigeni. In quella regione, anche le incrostazioni di zolfo sono spesso accom- pagnate di un substrato algoso: e non è quindi inverosimile che le alghe siano appunto il luogo favorevole, almeno al primo inizio della attività bat- terica. Ciò che si osserva nella regione boracifera per i piccoli depositi at- tuali, sarebbe avvenuto nelle cave di terre gialle dell'Amniata e nelle cave di zolfo dell’epoca solfifera. Del resto, nella regione boracifera, spessissimo, sotto bianche incrosta- zioni calcaree, miste ad acido borico, sì incontra un rigoglioso sviluppo di alghe verdi. Ma sn questo punto sono ancora insufficienti i dati che ho po- tuto raccogliere. Dunque la vegetazione di diatomee che ha dato origine al tripoli sa- rebbe stato il substrato adatto allo sviluppo dei microorganismi ossidanti: quali siano i rapporti fra le due vegetazioni microscopiche, è argomento an- cora da studiare e che meriterebbe di esserlo. Per ora possiamo ritenere, in via generale, che la vegetazione algosa fornisca a quella batterica sostanze utili al suo sviluppo sia col suo metabolismo in vita, sia con la sua decom- posizione dopo la morte. In alcuni luoghi della formazione solfifera accade, benchè rarissimamente, di riscontrare l'assenza del banco di tripoli, che talvolta è rappresentato da calcare siliceo, altre volte non è rappresentato affatto. Così secondo il Mottura, nella solfara Trabonella, all'’est di Caltanissetta, si osserva che al disotto dello zolfo non si incontra che calcare siliceo e gessi, mentre manca il vero tripoli: e lo stesso fatto si riscontra anche al monte S. Cataldo, (!) L'origine biologica della lagonite, loc. cit. (*?) Sull’origine biologica della terra di Siena, loc. cit. — 764 — dove il tripoli esiste soltanto mescolato al calcare. In questi casi probabil- mente i resti delle diatomee non hanno formato un deposito di pura silice, ma hanno lasciato 1 loro resti mescolati al calcare che si andava depositando. E del resto non le sole diatomee possono fornire ai batterii un substrato favorevole, ma anche altre alghe verdi non silicee, come è dimostrato da quanto avviene attualmente a Larderello. Lo zolfo che si è depositato nei casì ora citati non forma dunque una ec- cezione alla regola. Se si esamina la sezione, tracciata dallo stesso Mottura, del monte Sabbuccino, attraverso la solfara Giordano all’Iuncio ed il monte Fico d'India sino al monte Fagaria, sì osserva che, mentre alla solfara Giordano esiste un forte banco di tripoli sovrapposto alle marne e sottostante al minerale di zolfo, verso il monte Fagaria invece alle stesse marne succede un calcare privo di zolfo, e mancano ugualmente il tripoli e lo zolfo. Probabilmente, in quel punto nou si riscontravano le condizioni necessarie allo sviluppo degli esseri microscopici, e manca affatto il prodotto del loro lavoro. Queste due formazioni appaiono sempre più legate fra loro da strettissimi rapporti che molto probabilmente sono di natura biologica. Della origine dell'idrogeno solforato, che a questi fenomeni avrebbe for- nito il materiale, non è mia intenzione di parlare. Che esso provenisse da emanazioni di natura vulcanica, o da riduzione di gessi o da altre cause ancora, non cambia valore alla ipotesi emessa, e non intendo affrontare an- che questo problema: solo osservo che non è da escludere che quelle non pic- cole quantità di sostanze organiche, che dovevano essere contenute nei grandi banchi di tripoli, possano essere state sottoposte ad un processo di fermen- tazione, probabilmente anaerobia; unc dei prodotti della quale avrebbe po- tuto essere l'idrogeno solforato, che più in alto sarebbe stato sottoposto ad un nuovo processo biologico, per opera dei microorganismi ossidanti. Così anche in questo senso la vegetazione di diatomee avrebbe potuto contribuire alla formazione dei depositi di zolfo. * x x Uno sguardo alla carta geologica, annessa alla « Descrizione geologica della Sicilia » di L. Baldacci, è molto istruttiva, perchè da essa si rileva facilmente quale è la posizione delle varie solfare più importanti, di fronte ai diversi terreni geologici che costituiscono l'isola. I depositi di zolfo sono generalmente presso ai confini fra i terreni miocenici e quelli pliocenici. Quelli che si trovano nella zona di Caltanissetta, quelli di Riesi, Cal- tagirone, Aidone, Valguarnera ecc., cireondano come una corona la zona plio- cenica verso il centro della quale si trova Piazza Armerina. Anche le sol- fare di Calascibetta, Castrogiovanni, Girgenti, Cattolica ecc., che non fanno — 765 — parte di questa corona, si trovavano tutte sui confini di altre aree di terreno pliocenico. Soltanto aleune solfare sembrano fare eccezione a questa regola. Quella di Lercara Friddi si trova sul confine tra la formazione miocenica e quella eocenica. Ciò può derivare da erosioni avvenute su vasta scala che abbiano asportato in gran parte il terreno pliocenico, come sembra ritenere il Bal- dacci; ma potrebbe anche derivare da una maggiore antichità del deposito solfifero. Tale possibilità è ammessa dallo stesso antore per un altro depo- sito, quello di Gibellina, nel quale si osservano le seguenti varianti nella disposizione degli strati: « Lo strato solfifero, che è a ganga calcarea, riposa su un banco di « veri tripoli, con scaglie di pesci, libellule, ecc. ; questo strato, avvicinan- « dosi alla superficie, cambia natura, e passa a tufo nero con banchi are- « nosi. Al disopra dello strato vi è una serie di banchi di argille bitumi- « nose, analoghe a quelle ora descritte, con straterelli venosi, e su questi riposa un potente strato di tripoli in perfetta concordanza con lo strato sol- fifero: la serie si termina in alto coi calcari silicei e coi trubi che for- mano la cima del monte del Sonno. Dall’accurato esame di questo gia- « cimento risulta che si deve rigettare qualunque ipotesi di una faglia che « abbia riportato in alto i tripoli; questi sono indubbiamente superiori allo « strato soltifero, e identici a quelli che ne formano il letto. Questo strato «appartiene, a mio credere, ad un'epoca anteriore a quella solfifera, e forse «è sarmatiano come i tripoli a cui è associato. Già vedemmo, più sopra, che « nei tripoli della galleria della Sinatra si trovano lenti di calcare solti- « fero intercalato; analoghi fatti si osservano a Contaceto presso Serradifalco «e a Monteduro, e del resto non vi è nessuna difficoltà a credere che le «manifestazioni endogene, che detlero origine alla formazione di solfo, « possano in circostanze speciali essere avvenute prima dell'e} oca solfifera « propriamente della ». Del resto in alcuni luoghi è stata osservata una vera alternanza fra strati di tripoli e strati solfiferi. Mettendo tali osservazioni in rapporto con la teoria biologica della for- mazione dello zolfo, si potrebbe pensare che quei depositi più antichi siano stati i luoghi nei quali per la prima volta si sono manifestati i complessi fenomeni biologici di ossidazione dell'idrogeno solforato e di deposizione dello zolfo in presenza di microorganismi; siano stati cioè, per così dire, i centri di infezione dai quali gli opportuni germi sarebbero poi passati negli altri bacini, lacustri o lagunari, fino ad invadere una gran parte della Si- cilia. Nè vi è nulla in contrario a ritenere che in nno stesso bacino si siano alternate più volte le condizioni necessarie per lo sviluppo dei due tipi di vegetazione, quella a diatomee e quella batterica, producendo negli strati una alternativa dei prodotti delle due diverse vegetazioni. LS LS R — 7660 — In Toscana, nella provincia di Siena, presso Lornano, esistono cave di zolfo, da non molto tempo sfruttate industrialmente e non ancora studiate in modo esauriente nella loro paleontologia ('). L’escavazione del materiale, relativamente superficiale, non ha ancora condotto al ritrovamento dei tripoli che quasi certamente esistono; lo zolfo si trova talvolta cristallizzato, più spesso in stato amorfo sotto forma di ammassi o di incrostazioni imprigionate nella ganga; abbondano residui vegetali lignitificati. Si ha l'impressione che questo deposito abbia avuto origine in ambiente paludoso fangoso che rammenterebbe le inerostazioni sulfuree dei fanghi della regiore boracifera. La materia organica sarebbe stata fornita dai de- triti di vegetali superiori. abbondantissimi, anche se mancasse, cosa che non credo, il sottostante tripoli, al quale penso si debba attribuire in ge- nevale una grande parte del fenomeno. Il deposito solfifero di Poggio Orlando (Lornano) è di origine lacustre, al contrario della massima parte dei depositi di zolfo che hanno origine sal- mastra, e si trova in terreno miocenico (?). Quanto ai depositi solfiferi della Romagna, essi si trovano in posizione geologica analoga a quelli della Sicilia, e ad essi sl possono applicare, senza eccezione, le considerazioni fatte per questi ultimi. * * x Ho più volte detto che durante il periodo di deposizione dello zolfo la vita algosa (specialmente a diatomee) sì rallentò e si spense, ma forse non giunse mai nella maggior parte dei casi ad estinguersi del tutto: e infatti lo Spezia (*) e principalmente lo Stella (‘) trovarono traccie di diatomee in molti calcari solfiferi della Sicilia e della Romagna, mentre il Manasse non ne trovò nei campioni del Senese da lui esaminati, senza però potere escludere che se ne possano trovare ad un esame più esteso ed accurato (5). L'importanza di questo fatto è dallo Stella rilevata con le seguenti pa- role: « Rispetto alla genesi dei giacimenti di zolfo possiamo già affermare « che si debba aggiungere un concetto nuovo, giacchè nelle roccie a z0//0 « noi non abbiamo soltanto elementi di origine meccanica e altri di depo- « sito chimico, ma anche una porzione di origine organica. Ora, se si pon (1) Manasse E., / minerali della cava di zolfo di Poggio Orlando presso Lornano in provincia di Siena. Atti della Soc. tosc. di sc. nat., vol. XXIII, Pisa 1907. — Pan- tanelli, Di alcuni giacimenti solfiferi della provincia di Siena. Boll. d. Soc. geol. ital. vol. XXII, Roma 1903. (8) Manasse, loc. cit. (3) Spezia, Sull'origine dello zolfo nei giacimenti solfiferi della Sicilia, Torino 1892. (4) Stella A.. Sulla presenza di fossili microscopici nelle roccie a zolfo della for- mazione gessoso-solfifera. Boll. d. Soc. geol. ital., vol. XIX, Roma 1900. (5) Manasse, loc. cit, — 767 — « mente all'insieme dei fossili macroscopici e microscopici della formazione « solfifera produttiva siciliana, e se si confrontano da un lato col complesso « dei fossili del sottostante tripoli e dei sovrastanti trubi, dall'altro coi fos- « sili delle restanti formazioni gessoso-solfifere in generale, non si può far «a meno di riflettere che dessa formazione solfifera produttiva, nonostante le « differenze importanti rispetto alle formazioni che la comprendono, mostra « una continuità di ambiente ben maggiore di quanto non si sospettasse; e ri- « spetto alle formazioni collaterali equivalenti, è lungi dal presentare quella « pronunciata anormalità che si suole generalmente supporre ». La differenza fondamentale fra la genesi degli strati solfiferi e quella degli strati equivalenti non solfiferi consisterebbe principalmente in questo: che la deposizione dei primi sarebbe avvenuta sotto l’azione di una speciale Flora microscopica, prevalentemente costituita da batteriacee ossidanti, men- tre quella dei secondi si sarebbe verificata per opera di sole forze fisico- chimiche, o in presenza di una Flora microbica diversa, non dotata delle stesse proprietà biochimiche. * xo x Al disopra del minerale di zolfo sta la formazione dei gessi che rico- prono non solo questi depositi, ma anche altri terreni. In questi strati più non si incontrano quelle sostanze che dànno un caratteristico aspetto bituminoso ai gessi che qua e là sono compresi nella formazione soltifera: essi sem- brano liberi di sostanza organica (Mottura). La loro estensione, maggiore di quella dei sedimenti solfiferi, mostra che i gessi costituiscono una formazione indipendente da questi. Non si trova dunque in essi, almeno finora, alcun indizio che possa far pensare ad una azione biologica qualunque. Il processo biologico deve essersi spento in coincidenza col cominciare della deposizione di questo composto; e qui non è dunque niente altro da notare se non il fatto che nelle soluzioni di solfuro sodico che venivano mantenute, sterili, in condizioni identiche a quelle delle culture di 3. /er- rigenus e che a tali culture servivano di controllo, la trasformazione del solfuro seguì la via normale di ossidazione passando successivamente a solfito e solfato. Siamo dunque, per quanto riguarda la formazione di depositi di solfato di calcio, nel puro campo dei fenomeni chimichi e fisici; e nulla ci autorizza ad invocare un intervento biologico. ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 97 Zoologia. — Alcune osservazioni morfologiche e biologiche sull’Aclerda Berlesei Buffa. Nota di Lipia LA Face, pre- sentata dal Socio B. GRASSI. Riprendendo in esame, per consiglio del prof. Grassi, l''Aclerda Berlesei Buffa, cocciniglia vivente sull’Arundo donax (*), ho cercato specialmente di chiarire meglio lo sviluppo postembrionale di quest’ insetto e la sua biologia ancora poco conosciuta (*). I. Osservazioni sullo sviluppo postembrionale. — Confermo le osser- vazioni del Buffa rispetto allo sviluppo postembrionale del maschio di questa specie. Esso attraversa quattro stadî, due larvali e due ninfali; dopo una quarta muta, si ha l’immagine. Nella Memoria in esteso descriverò minutamente i suddetti stadî, dei quali alcuni sono stati appena accennati dal Buffa. Per la femmina io ho potuto distinguere tre esuviamenti, e quindi essa attraversa tre stadî di sviluppo prima di arrivare alla forma adulta. Riassumerò brevemente i principali caratteri degli stadî femminili. 1° stadio £.— Nel primo stadio i caratteri della larva femminile corrispondono a quelli del primo stadio maschile, e tralascio perciò di farne qui la descrizione. Essa è dapprima mobile, ma, avvicinandosi alla prima muta, entra in un periodo d'immobilità che per la femmina di questa specie dura tutta la vita. 2° stadio $. — Compiuta la prima muta, la larva femminile assume dei caratteri che l’avvicinano moltissimo al secondo stadio maschile. Come in quest'ultimo, non sono evidenti i segmenti del corpo. Gli occhi sono atrofici; delle antenne sono visibili, dal lato ventrale, i rudimenti in forma di tubercoli appiattiti, forniti di brevi peli. Le zampe mancano comple- tamente. L'estremo posteriore del corpo, come nel secondo stadio maschile, è di- stinto in una porzione mediana liscia e in due porzioni laterali a margini induriti e striati per la presenza di numerose pieghe chitinose dirette dal- l’orlo del corpo verso la parte mediana di esso, tanto dal lato dorsale quanto dal ventrale. Si può distinguere questo stadio da quello maschile corrispon- dente, oltre che per altre minute particolarità, anche per il numero e la diversa disposizione delle spine e dei tubercoli ciripari. Queste appendici, mentre (1) P. Buffa, Sopra una cocciniglia nuova (Acl. Berlesei). Riv. di pat. veg., vo]. VI, 1898, fasc. I. (*) Ringrazio la signorina dott. Anna Foà che mi ha indirizzato nelle mie ricerche. — 769 — nel secondo stadio maschile si limitano all'orlo del corpo e solo al lato ventrale, nel secondo stadio femminile si trovano tanto nel lato ventrale, dove sono più numerose e formano una zona marginale continua, quanto nel lato dorsale dove sono più rare. All'estremo anteriore del corpo, nel lato dorsale, mancano quei tubuli ghiandolari che si osservano nel secondo stadio maschile. Un altro carattere che fa distinguere, ad un primo esame, questa forma dal secondo stadio maschile, è che attorno ad essa non si ha quel particolare follicolo di materia cerosa, consistente, nel quale il maschio di questa specie compie il suo sviluppo. Anche il colore del corpo, rosso più o meno vivo, differisce da quello del secondo stadio maschile, che è giallo ocraceo. 3° stadio $. — Mentre nel maschio il terzo stadio presenta una grande modificazione nei caratteri, cominciando un periodo di ninfa, nella femmina invece non si hanno notevoli differenze rispetto al secondo stadio. La forma generale del corpo è ovale, alquanto convessa dorsalmente, appiat- tita ventralmente. In corrispondenza all'orlo del corpo la chitina è più in- durita; e così pure all'estremo posteriore, che, tranne alcune particolarità, non è conformato in modo assai diverso dallo stadio precedente. Mancano le zampe, gli occhi, e si hanno rudimenti di antenne simili a quelli del secondo stadio. L'apparato boccale invece continua ad essere bene sviluppato e l’insetto, a differenza del maschio, seguita a nutrirsi. Gli organi ciripari non subiscono modificazioni nella forma e nella disposizione, ma aumentano considerevolmente di numero. Femmina adulta. — Dopo la terza muta, le dimensioni della femmina aumentano considerevolmente, raggiungendosi una lunghezza massima di circa 1 cm. ed una larghezza di 3-5 mm. La chitina del dorso diventa ancora più spessa e indurita, mentre al ventre si mantiene più sottile. Persiste la mancanza degli occhi e delle zampe: sono sempre visibili, dal lato ventrale, le traccie delle antenne, e l'apparato boccale non subisce modificazioni. L'estremo posteriore del corpo nella femmina adulta è alquanto modificato ed appare distiuto in una piastra mediana, di forma ovale arrotondata, e in due lobi che si prolungano all'indietro di essa. Si conservano gli organi ciripari che si osservano negli stadî precedenti ed appaiono numerosi e corti tubuli ghiandolari, diffusi tanto nella regione dorsale dell'insetto quanto nella ventrale. Paragonando in questa specie — dal Buffa considerata come un Lecanide, ma la cui posizione sistematica dovrà essere meglio definita — gli stadî di sviluppo del maschio con quelli della femmina, non si può giungere alla stessa conclusione a cui viene Bòrner per i Diaspini, a proposito dell'Aula- caspis rosae ('), che cioè lo sviluppo postembrionale della femmina sia in- (1) Bòrner, Parametabolie und Neotenie bei Cocciden (Sonderabdruck aus dem « Zoologischen Anzeiger n, Bd. XXXV, n. 18 vom 29 Màrz, 1910). — 770 — completo, abbreviato, ma corrispondente a quello del maschio. Secondo il Bòorner, nell’Aulacaspis rosae il maschio attraversa tre stadî larvali, e così pure la femmina; ma, mentre il primo passa in seguito per due stadî di ninfa, prima di arrivare all'immagine, la seconda diventa sessualmente ma- tura al terzo stadio larvale: perciò lo sviluppo della femmina è incompleto, abbreviato per la maturazione precoce degli organi sessuali, ma si svolge, per il periodo larvale, in modo simile a quello del maschio. Nell'Aclerda Berlesei si può stabilire una corrispondenza tra lo sviluppo postembrionale dei due sessi solo per ì due primi stadî, poichè dopo la seconda muta, mentre il maschio passa per due stadî ninfali, la femmina invece attraversa ancora uno stadio larvale e poi arriva alla forma adulta senza che i caratteri larvali subiscano profonde modificazioni e cambi il modo di vita. Quindi lo sviluppo della femmina si svolge in modo differente da quello del maschio: è più breve, compiendosi in tre stadî invece che in quattro, ed è evidente- mente emimetabolo, mentre a quello del maschio si può applicare il ter- mine di parametabolia, stabilito dal Bòrner per la metamorfosi dei maschi di alcuni Coccidî (*), avvicinandosi essa a quella degli insetti olometaboli. * * x% II. Dimorfismo del maschio. — Rispetto al maschio della Aclerda Berlesei, devo aggiungere che oltre ai maschi forniti di ali allo stadio adulto, già noti, vi è una altra sorta di maschi con ali atrofiche, i quali si possono considerare come individui giunti allo stadio d’ insetto perfetto. Infatti, come i maschi alati, essi percorrono, dopo i due stadî larvali, due stadî di ninfa che non differiscono in nulla dalle ninfe dei primi tranne che per la man- canza degli abbozzi delle ali: solo nello stadio d'immagine essi presentano dei rudimenti di ali, visibili all'esame microscopico. Questi maschi con ali atrotiche fecondano essi pure. Probabilmente vi saranno diverse condizioni che determinano l’apparire dell’una o dell'altra forma di maschi: io ho potuto solamente osservare che nei mesi estivi gli individui con ali atrofiche sono alquanto rari, mentre si rinvengono numerosi nei mesi invernali. È da notare inoltre che i maschi con ali sviluppate non volano: in numerose osserva- zioni fatte in proposito, non ho mai visto che essi si servano delle ali. X * x III. Osservazioni biologiche. — Quanto all'habitat dell’ Aclerda Ber- lesei, è da notare che essa non è solamente epigea, come già è stato affermato, ma vive anche sulla parte ipogea della pianta, cioè sul rizoma: sulle radici non si trovano mai individui di questa specie, e nemmeno sulle (') Bòrner, Die Verwandlungen der Insekten (vorl. Mitteilung). Sitzber. nat. Freunde. Berlin, 1909, S. 290-311. — 771. - foglie. Sulla porzione superiore del culmo si sviluppano a preferenza i maschi, mentre le femmine sono più numerose sulle porzioni media ed inferiore di esso. Sul rizoma non ho rinvenuto che femmine. Questa specie presenta una sola generazione all'anno. L'accoppiamento può avvenire tanto nei mesi estivi quanto nell'autunno e nell'inverno, per tutto il periodo cioè in cui si ha lo sviluppo dei maschi, che, a Roma, va dal- l'agosto a tutto febbraio. Anche le femmine sotterranee vengono fecondate : ho infatti notato in esse, in epoche diverse, la spermoteca piena di sper- matozoi. Perciò i maschi, quantunque si sviluppino e vivano esclusivamente sul culmo, debbono dirigersi sul rizoma per fecondare le suddette femmine, ma io non ho potuto ancora riscontrarli su di esso. È frequente in questa specie un accoppiamento precoce: le femmine, cioè, possono essere fecondate pa- recchio tempo prima di raggiungere la maturità sessuale. La femmina, come già è noto, è vivipara: ho potuto osservare che la larva, appena partorita, è racchiusa in un involucro bianco, trasparente, dal quale si libera dopo una mezz'ora o poco più, dalla nascita, rompendolo an- teriormente. Essa rimane sotto il corpo della madre per qualche tempo, dopo il quale comincia ad aggirarsi sulla pianta cercando il posto più adatto per fissarsi. La deposizione delle larve avviene in due epoche successive per le fem- mine epigee e quelle ipogee. Dalla fine di aprile sino a tutto il mese di giugno generano le fem- mine del culmo. Al principio di luglio, quando tutte le femmine epigee sono ormai morte, cominciano a prolificare le femmine sotterranee e così segui- tano sino all'autunno. Le neonate epigee possono dirigersi in basso verso il rizoma; quelle ipogee possono andare dal rizoma sulla parte aerea della pianta per compiere il loro sviluppo, e si fissano a preferenza sui giovani culmi dell'anno. Durante la stagione estiva le larve fissate sulla parte aerea della pianta compiono, dopo quindici, venti giorni dalla nascita, la prima muta. Già in agosto sì possono osservare in gran numero, sui culmi, maschi e femmine che hanno compiuto tutte le loro mute: i maschi cominciano ad uscire dai fol- licoli in cui si sviluppano e dopo aver fecondato le femmine, a quest'epoca ancora immature, muoiono, mentre le ultime rimangono sulla pianta, segui- tando sempre a nutrirsi e ad accrescersi, sino alla primavera successiva. Nell'inverno, oltre gli individui adulti d’ambo i sessi, si rinvengono numerosi sui culmi gli stadî giovanili maschili e femminili provenienti dalle ultime larve nate in autunno e che compiono lentamente il loro svi- luppo. impiegando un tempo che non ho potuto ben precisare, ma che cer- tamente è di maggior durata di quello impiegato dall’insetto a compiere tutte le sue mute in estate. TE __Chimica-fisica. — Sullo stato dell’acido carbonico nel sangue : III, Mobilità dello ione HCO, alla temperatura 37°C. Nota di G. QuacLiARIELLO ed E. D'Agostino, presentata dal Corrisp. Fi- LIPPO BoTTAZZI ('). Nella nostra Nota precedente abbiamo studiato la mobilità dello ione HCO; alla temperatura 18°C.; ora, per le applicazioni dirette ai liquidi del- l'organismo, ed in particolar modo al sangue, ci interessava estendere la ricerca anche alla temperatura 37°. Per tale nuova determinazione ci siamo senz'altro serviti di quello, fra i metodi, che la investigazione già fatta ci dimostrava il migliore. Il metodo consiste in ciò: che le misure di condut- tività vengono praticate in acqua fortemente carbonica, a cui vengono progres- sivamente aggiunte quantità note di Na OH. Per tali misure occorre la mas- sima precisione di titolo della soluzione di Na OH adoperata : bastano infatti errori minimi del titolo per causare errori rilevanti della mobilità dello ione. Occorre inoltre acqua distillata purissima, vaso ad elettrodi di grande capacità (circa 1 litro), ed elettrodi, abbastanza grandi, di platino non pla- tinati, abbastanza ravvicinati fra loro per escludere l'uso delle fortissime resistenze. Per la teoria ed il calcolo della influenza dell’idrolisi rimandiamo al nostro precedente lavoro (Nota II, loc. cit.). La relazione fra la conduttività ed il contenuto molecolare di una solu- zione di acido carbonico a 37° fu calcolata in base ai dati contenuti nella tabella 1. 1. Conduttività specifiche di soluzioni di acido carbonico a 37°. (Conduttività specifica dell’acqua = 0,075). Moli dr La stessa ai RE DI Conduttività | diminuita della VS ARABI SEC 3 specifica conduttività Ta) 1 bonico m na trovata dell’acqua per litro = m = % Ì 0,0026638 0,0,1697 0,0,1622 | LO 0,005438 0,0,2405 | 0,0,2330 0,316 | media 0,01108 0,0413359 | 0,0138284 | sai 0,314 0,02200 0,0,4717 | 0,0,4642 | ‘0,818 (1) Nota I: cfr. questi Rendic. (5), vol. XXIII, 1° sem., fasc. 10, pag. 844, an. 1914; e Nota II: cfr. questi Rendic. (5), vol. XXIV, 1° sem., fasc. 6°, pag. 638, an. 1915. — 773 — Abbiamo in conseguenza la relazione: x= 0.03314J/m che ci servirà a calcolare la conduttività di una soluzione nota di acido car- bonico alla temperatura 37°. La formola di correzione della conduttività specifica delle soluzioni H, CO; + Na OH esaminate, chiamando, come nella nostra precedente Nota, m la concentrazione dell'acido carbonico libero, z la concentrazione della soda aggiunta e quindi anche la concentrazione del bicarbonato di sodio che sì è formato, x la conduttività specifica ricavata direttamente dalla misura, x; la conduttività specifica corretta, e adottando per % (costante di dissocia- zione dell'acido carbonico) lo stesso valore adottato per la temp. 18° nella nostra Nota precedente, e cioè 0,0 36 (')_ — è la seguente: m xx =x— 0,0;1889-— . n Nella tabella 2* riportiamo i valori ottenuti e le relative correzioni. 2. Conduttività di una soluzione 0,022 15 mol. Hg €03, dopo aggiunte di quantità variabili di Na OH. Temperatura 3T°C. x dell’acqua = 0,03 75). : oi Conduttività Conduttimità Conduttività NaOH aggiunta ua trovata corretta molecolare moli per litro ; o meno la condut- del bicarbonato moli per litro Hvità del NORORTE m EEA ività del- a = %— 0,06188 — Di; = Li Re x Ri £ di n um = 1000 2 v n 003694 0,02146 0,04901 0,0484383 Ii25 \ 0,031385 0,02076 0,0 1704 0,0,1676 ui 0,0»2770 v,01938 0,0333837 0,033324 120,0| \ Si 9 0.0.5532 0,01662 0,0,6550 0,0,6544 = |118,3) 4 =122.0 0,0,8260 0,01389 0,0,9659 0,0,9656 116,9 0,01099 0,01116 0,0381270 0,081270 115,6 La conduttività molecolare limite del bicarbonato di sodio, mediante l'estrapolazione grafica, vien trovata eguale a 122,0. Dai dati di Kohlrausch sì rileva che la mobilità del sodioione a 37° è eguale a 63,8; perciò, sot- traendo questo valore dal precedente 122,0 — 63,8= 58,2, avremo che la mobilità dello ione HCO; alla temperatura 37° è eguale a 58,2. Questo è il valore che ci eravamo proposti di conoscere; la sua impor- tanza circa la valutazione dello stato dell'acido carbonico del sangue sarà apprezzata nelle nostre Note successive. (1) Le variazioni eventuali, anche assai forti, del valore assoluto di % influenzano solo assai poco 1l valore assoluto del termine di correzione ; per tal motivo non cì siamo preoccupati del fatto che tale valore può essere alquanto diverso dal vero. — 704 Patologia. — ricerche sperimentali sulle cause che determi- nano la refrattarietà ner trapianti. I. Trapianti di tumori e ipo- test atreptica \'). Nota di VirtoRIO SCAFFIDI, presentata dal Corri- spondente GINO GALEOTTI. Sono note le ricerche di Ehrlich sui trapianti di tumori tra animali di specie affini, ricerche che hanno dato luogo alla ipotesi della atrepsia. Ehrlich potè osservare che, se un tumore spontaneo del topo si innesta nel ratto, esso assume, in questo ultimo aninale, un decorso e presenta ca- ratteri di accrescimento, che differiscono profondamente dal decorso e dai caratteri di accrescimento che lo stesso tumore presenta nei trapianti nel topo. Mentre difatti il carcinoma 5 dell'Istituto di Francoforte, adoperato da Ehrlich nelle sue ricerche, dà, nei trapianti del topo, quasi il 100 per 100 di casi positivi, cioè di attecchimento, e il trapianto si può ripetere per un numero infinito di volte senza che il tumore perda le sue pro- prietà biologiche e i suoi caratteri istologici, lo stesso tumore trapiantato nei ratti dà luogo, nei primi 5-8 giorni, allo sviluppo e allo accrescimento progressivo di un nodulo in corrispondenza del punto in cui è stata deposta la poltiglia del tumore; ma dopo tale periodo di tempo, esso comincia a re- gredire, e scompare del tutto nei 10 giorni consecutivi. Se si prendono frammenti di questi noduli del sottocutaneo del ratto, nei primi 6-8 giorni consecutivi all'innesto, e si trapiantano in altri ratti, il tumore non attecchisce più; invece esso si riproduce se si innestano frammenti nei topi, nella specie animale cioè in cui il tumore sì era spon- taneamente sviluppato. Questo fatto si potrebbe provocare numerose volte, con successivi innesti del tumore del topo nel ratto, da questo di nuovo nel topo, quindi nel ratto; e così via si potrebbe riprodurre all'infinito questo passaggio del tumore a zig-zag nelle due specie animali: Mus musculus e Mus decumanus. Ehrlich ammise che la impossibilità di trapiantare stabilmente nel ratto il tumore del topo dipendesse dalla assenza, nell'organismo del ratto, del materiale necessario, della sostanza ‘indispensabile, che Ebrlich stesso chiama « sostanza X », alla nutrizione e allo sviluppo del tumore, sostanza che sarebbe invece presente nell'organismo del topo. Questa ipotesi, come è noto, porta il nome di ipotesi della « atrepsia ». (1) Dall’Istituto di patologia generale della R. Università di Palermo, diretto da. V. Scaffidi. — 775 — Le ricerche che direttamente sono state compiute su tale questione, e che si possono riferire ad essa, sono numerosissime e non hanno portato ad una soluzione della interessante questione. Io mi limito quindi alla esposi- zione di ricerche sperimentali da me compiute e che si riferiscono diretta- mente alla questione della atrepsia. In queste ricerche (!) sono stati adoperati un sarcoma e un carcinoma spontanei, del topo che nel laboratorio di Ehrlich si coltivano da molti anni e portano rispettivamente la denominazione di carcinoma 5 e sar- coma 7. Questi due tumori, nei trapianti successivi nel topo, dànno circa il 100 per 100 di attecchimento, e quando furono iniziate le ricerche, erano stati trapiantati, per la conservazione del ceppo, numerose volte: e precisamente il carcinoma 5 si trovava alla 2068 generazione, e il sarcoma 7 alla 3078. Partendo dal concetto di Ehrlich — che l'innesto di un tumore origi- nario di una determinata specie animale per attecchire in una specie ani- male diversa od affine, ha bisogno della presenza di una determinata « so- stanza X » che si trova nella prima specie animale e non nella seconda — ho studiato il comportamento degli innesti dei tumori del topo nel ratto, ag- giungendo alimateriale di innesto la poltiglia di un organo del topo, cioè la « sostanza X ». Furono così compiute 5 serie di ricerche, e cioè quattro col sarcoma 7 e una col carcinoma 5, che riassumo brevemente. Esperimento 1°. — Si trapianta il sarcoma 7 in 8 ratti e in 8 topi. In questi ultimi il tumore si sviluppa benissimo ; nei ratti si ha la produ- zione di un'nodulo sottocutaneo, che dopo 7 giorni viene asportato. ridotto in poltiglia e innestato sottocute a 8 topi e a 6 ratti, senza la aggiunta di altri tessuti, e ad altri 6 ratti con l'aggiunta, nella poltiglia di innesto, di poltiglia di embrione di topo. Nei topi si ottiene lo sviluppo del tumore in 7 esemplari su 8; nei ratti si ha la formazione di un nodulo sottocu- taneo identico, sia in quelli nei quali era stata inoculata la massa di in- nesto semplicemente, sia in quelli nei quali era stata trapiantata la massa di innesto con aggiunta di embrione di topo. Nel nodulo sottoentaneo svilup- patosi in questi due ultimi gruppi di ratti, più non esistono cellule del tu- more originario, come risulta, sia dall’esame microscopico, sia dai trapianti fatti nel sottocutaneo del topo. Esperimento 2°. — Il sarcoma 7 viene trapiantato contemporaneamente in 6 ratti e in 6 topi. In questi ultimi si ha lo sviluppc caratteristico del tumore; nei ratti lo sviluppo di noduli sottocutanei, che dopo 7 giorni ven- gono trapiantati a 8 topi e a 8 ratti. Ad altri 5 ratti si inocula la polti- (!) Queste ricerche sono state in gran parte compiute nel R. Istituto di terapia sperimentale di Francoforte. RenpIcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 93 — 776 — glia di milza di topo. Nei topi si ha lo sviluppo del tumore originario, in 5 esemplari su 8; nei ratti si ha lo sviluppo dei caratteristici noduli sot- tocutanei, che risultano privi di elementi neoplastici. In un ulteriore tra- pianto del tumore, prelevato dai topi di cui sopra, a due lotti di ratti, si hanno gli stessi risultati negativi, benchè nel secondo trapianto da ratto a ratto fosse stata aggiunta alla massa di innesto poltiglia di embrione di topo. . Esperimento 3°. — A 8 topi e a 8 ratti viene innestato contempo- raneamente il sarcoma 7, senza l'aggiunta di poltiglia di organi di topo. Ad altri 8 ratti si innesta lo stesso tumore, con l’aggiunta di poltiglia di milza di topo. Nei topi si ha lo sviluppo del tumore in 6 esemplari su 8, nei ratti lo sviluppo dei noduli caratteristici, che dopo 6 giorni di accresci- mento vengono trapiantati a 25 topi, in 12 dei quali si ha lo sviluppo del tumore. Contemporaneamente si trapianta lo stesso materiale in 28 ratti, in parte da solo, in parte con l'aggiunta di milza o di embrione di topo. In tutti si ottiene lo sviluppo di un nodulo sottocutaneo, nel quale però, al- l'esame istologico, non sì rinvengono elementi del tumore. I risultati del controllo biologico sono identici a quelli dell'esame istologico, giacchè, su 16 topi innestati con la poltiglia del nodulo sottocutaneo dei ratti, in nes- suno si ebbe lo sviluppo del tumore originario. Esperimento 4°. — Il sarcoma 7 viene innestato a 5 topi, nei quali si ha lo sviluppo del tumore, e a 14 ratti, in 12 dei quali si ottiene lo svi- luppo del caratteristico nodulo sottocutaneo. La poltiglia di questi 12 noduli si trapianta in 8 topi, nei quali si ha lo sviluppo del tumore ori- ginario. Con la stessa poltiglia. senza la aggiunta di organi di topo, sì in- nestano 8 ratti, nei quali si avvera lo sviluppo dei noduli sottocutanei, in cui più non esistono cellule del tumore. Ad una certa quantità della poltiglia di cui sopra sì aggiunge poltiglia di embrione di topo e si innesta a 10 ratti: in alcuni di questi si ha lo sviluppo del nodulo sottocutaneo caratteri. stico, che, trapiantato in 8 topi, dà luogo allo sviluppo, in uno di essi, del tumore originario. In questo caso quindi le cellule del sarcoma 7 hanno conservato la capacità di proliferare, dopo un doppio successivo passaggio nell'organismo del ratto. Esperimento 5°. — Il carcinoma 5 del topo si innesta contemporanea- mente in 8 topi, nei quali si ha la riproduzione del tumore; e in 12 ratti, nei quali si sviluppa il catatteristico nodulo sottocutaneo. Dopo 6 giorni, la poltiglia che si ottiene dalla triturazione del nodulo di ciascun ratto si innesta in $ topi, in sei dei quali si ha lo sviluppo del tumore originario, e a 8 ratti, nei quali si ha la formazione del caratteristico nodulo sottocutaneo. Trasportati questi, dopo ridotti in poltiglia, in 4 topi, si ottiene lo sviluppo del tumore in uno di essi. Questo tumore, trasportato ancora in 10 topi, dà — 771 — risultati positivi in 9. L'esame istologico di un frammento del tumore mette in evidenza la struttura caratteristica del tumore originario. La stessa poltiglia dei noduli del primo lotto di ratti trasportata in altri ratti, con l'aggiunta di poltiglia di embrione di topo, dà risultati ne- gativi, sia all'esame istologico, sia negli ulteriori trapianti nei topi. Dopo il secondo trapianto diretto nel ratto, le cellule del tumore non si riscon- trano più. Questi risultati dimostrano : 1°) È possibile di trapiantare numerose volte un tumore di una de- terminata specie animale (topo), in una specie animale affine (ratto), e da questa nella prima, e così successivamente per numerosi trapianti a zig-zag, purchè gli innesti si facciano su numerosi esemplari e con materiale preso da individui nei quali sì trovi in ottime condizioni di conservazione; giacchè le cellule del tumore, in questi continui passaggi a ‘zig-zag attraverso or- ganismi di specie diversa od affine alla specie portatrice del tumore, per- dono parzialmente la capacità di accrescimento, ciò che determina una di- minuzione della percentuale di attecchimento. 2°) Operando in tali condizioni ideali, è possibile eccezionalmente che il tumore persista ancora virulento, capace cioè di svilupparsi ancora nella specie animale in cui esso originariamente si è spontaneamente svi- luppato e nella quale esistono le migliori condizioni per il suo accrescimento, anche dopo che è stato trasportato per due volte consecutive nell'organismo di una specie animale affine alla precedente, ma naturalmente refrattaria allo attecchimento del tumore stesso. 3°) Questo fatto, la persistenza cioè della capacità proliferativa delle cellule del tumore, dopo questo doppio passaggio in un organismo refrattario, si può avverare, sia che alla massa di innesto del tumore si aggiunga polti- glia di organi appartenenti alla specie animale da cui il tumore proviene (esperimento 4°), cioè la « sostanza X » voluta da Ehrlich, sia che questa sostanza non sì aggiunga (esperimento 5°). 49) Sì deve quindi ritenere che. con ogni probabilità, la refratta- rietà di una specie animale verso un tumore spontaneamente sviluppatosi in una specie animale diversa od affine non è determinata dalla assenza, nell'organismo, di una « sostanza X » necessaria allo sviluppo delle cel- lule neoplastiche, ma da altri fattori che determinano lo stato refrattario con un meccanismo affatto diverso da quello voluto dalla ipotesi atreptica. — 778 —- Mineralogia. — Cenni su alcuni minerali dei tufi di Iser- nia (Campobasso) (*). Nota di E. QuUERCIGH, presentata dal Corrisp. E. ARTINI. Anni or sono, il prof. Ferruccio Zambonini ebbe in dono dal prof. Carlo Viola alcuni campioncini del tufo giallo dei dintorni di Isernia contenenti dei minerali nitidamente cristallizzati. Distratto da altre ricerche, il prof. Zambonini non potè mai occuparsi, come ne aveva in principio intenzione, del loro studio. Quando, qualche anno fa, cominciai ad iniziarmi nelle ricerche mineralogiche sotto la sua direzione nell'Istituto di mineralogia della R. Università di Palermo, il prof. Zam- bonini mi affidò quel materiale per istudio, del che lo ringrazio nuovamente nell’accingermi a riassumere i risultati di quelle mie ricerche. Dal tufo, che si presenta terroso, di color giallo chiaro, potei isolare dei netti cristallini di alcuni minerali; e benchè i dati che ho potuto sta- bilire, a causa della scarsezza del materiale disponibile, non sieno molti, pure, trattandosi di una regione mineralogicamente pochissimo conosciuta, credo non inutile il pubblicarli, se non altro per richiamare l’attenzione degli studiosi su un giacimento che sembra essere molto interessante. I minerali rinvenuti sono: sanzidino, magnetite, olivina, augite nera e verde, biotite, anfibolo. Più importante, in questi campioni, appare subito il saridizo, che si presenta quasi sempre in frammenti di cristalli rotolati e molto di rado in cristalli più netti. Le forme che in esso potei osservare sono le seguenti: }001}, {010 , {130}, {130}, {201}, 3111}, }021}. Molto frequenti sono i geminati di Baveno col loro caratteristico aspetto ; in essi, j130} è generalmente molto grande, e frequentissima è la {021} che sì presenta in faccette abbastanza estese; questa forma è invece molto rara nei cristalli unici. Questi sono, nella maggior parte dei casi, tabulari secondo }010}; più raramente, invece, sono prismatici ed allungati secondo l'asse c. Lo sviluppo delle varie forme è il solito: la {130} compare però sempre piccolissima, eccetto in alcuni cristalli nei quali presenta una faccia molto sviluppata, mentre le altre sono limitatissime; la }111{ è sempre assai sub- ordinata. (!) Istituto di mineralogia della R. Università di Torino, diretto dal prof. Ferruccio Zambonini. — 779 — Sarebbe stato assai interessante di poter misurare esattamente alcuni cristalli di questo minerale per poterne determinare le costanti che, com'è noto, variano considerevolmente da località a località; ma ciò non fu possi- bile, perchè i pochi cristalli semplici un po’ completi non dànno esatte misure, essendo assai spesso le immagini o multiple o pallidissime. Ciò è tanto più deplorevole, in quanto le misure che ho potuto prendere dimo- strano che le costanti di questo sanzdizo devono essere molto diverse da quelle degli altri giacimenti finora studiati. Mi limiterò a riportare alcuni valori angolari ottenuti da un cristallino che ha dato le migliori misure : n di (001):(110 ZTN ©» lm N _ SIAE SARTI ie - 0) Confrontando questi valori con quelli ottenuti in generale per il sani- dino di altre località, si può osservare come il minerale di Isernia si scosti, specialmente per quanto riguarda gli angoli (010):(110) e (001):(110), dai valori più comunemente trovati. Nel sanidino del Lazio, ad esempio, lo Striiver (') trovò in tre cristalli i seguenti valori: (010):(110) (001):(110) I 59° 23' — II 59° 22' 50” 67° 42’ 20" HI 59° 35° = mentre lo Zambonini, che studiò numerosi cristalli del minerale proveniente da varie località (*), trovò i valori seguenti: (010):(110) (001):(110) Monte Cimino. . . . . 59° 28' 47° 46’ (valori medî) Quartucciot, v. Il piano degli assi ottici è parallelo a {010}. Il più interessante minerale di questi tufi, benchè sia il più raro, è l’anfibolo nero. Esso si presenta in piccoli cristallini sempre allungati secondo l'asse €, i quali raggiungono in questa direzione anche i 5 mm.: sono aghiformi, ovvero maggiormente estesi nella direzione di d. Essi presentano le seguenti forme: }010},{100},j001}, {110}, }.31}, 3111} {021}, le quali formano le tre combinazioni : 1) 3010}, }100} , 3001} , }110{, {111} 2) 3010}, {100}, 3001}, {110 , {111}, {131} 3) {010}, {100}, }001}, 3110}, {021}. In aleuni cristalli, {010} e }100} sono sottilissimi; in altri, invece, più grandi, specialmente }100} ; {100} ha quasi sempre le sue facce di dimen- sioni molto diverse. (*) F. Zambonini, Mineralogia vesuviana. Memorie R. Accad. sc. fis. e mat., Napoli, 1910, pag. 149. — 782 — Nei cristalli delle combinazioni 1) e 2), la {001} è sempre piccolis- sima, mentre essa è più estesa nella combinazione 3); la {111} ha facce abbastanza grandi, ma quasi sempre disuguali. Nei cristalli in cui si rinvenne 021}, questa è abbastanza grande; ma in generale ha a ciascun estremo di c una faccia grande ed una piccolis- sima, quasi ridotta ad un punto. I cristalli di anfibolo nero dànno in generale misure molto precise. Le anomalie geometriche, constatate in altre località, sono, in alcuni di questi cristalli, assai più forti di quanto generalmente fu osservato in questo minerale, come risulta dalle misure eseguite su un cristallino terminato a tutte e due le estremità di e, e che credo non inutile il riportare qui: (100):(110) = 28° 24' (100):(110)=27 15 1/, (100):(110)=28 26 (100):(110)=27 10 (010):(110)= 62 21 ‘/ (010):(110)=62 04 (010):(110) = 62 09 (010):(110)=62 10 (111):(111) = 31 29% (111):(111)=31-433/, (010):(111) = 74 23/, (010):(I11);=74 11 (010):(111Y==74.03%); (010):(11I1)=74 09 (11Î):(110)= 09 16 10): (1ÎÎ)= 68 591/ Come si vede bene, tutte le zone sono molto disturbate, e più di tutte la zona [001]: gli angoli che dovrebbero essere uguali, differiscono persino di più di un grado. Nelle altre zone le differenze sono minori, ma si hanno sempre differenze considerevoli fra gli angoli omologhi. In ciò questi cristalli si avvicinano a quelli dei Cappuccini di Albano studiati dallo Zambonini (*), come pure a quelli dei blocchi rigettati dal (1) F. Zambonini, Amphibol von Cappuccini di Albano. Zeitschr. f. Kryst, XXXVII (1903), 369. — 783 — Vesuvio nell’ eruzione del 1906 (') descritti dallo stesso prof. Zambonini anche nella sua Mineralogia vesuviana. Non rari si presentano dei cristalli geminati secondo }100} : essi hanno generalmente }110} dominante, mentre {100} e {010} sono molto piccoli; 3111} è abbastanza estesa. Le misure eseguite su alcuni cristalli sono raccolte nella seguente tabella I: TABELLA I (000 =0(5465%1>0:2943) Numero Valori trovati Valori Angoli delle $ Differenze misure Limiti | Modie calcolati (e) , 0 , o , 0 , r (010:110) 4 62 4 -- 62 21!/, 62 11 62 12/5 — 1!/ (100:110) 6 27 10 — 28 26 27 48‘), DI AT, +10 *(110:110) 4 55 27!/, — 55 390/, ta) a aloe _ e *(001:110) 6 7615 — 76 88*/, 76 29 10 — = *(010:111) 4 74 31/2 74 23/1, 74 11 40 = na (I11:111) 2 31 29!/,—81 43’/a 31 36 1/, 81 36 2/, SH (010:131) 2 49 401/, — 49 49 49 45 49 392/, +5! (131:131) 1 80 34 ‘/, 80 34 1/5 80 40 1/, — 6 0” (131:111) 2 24 29!/,—-24 34!/, 24 32 DAN92 00 (001 :111) 2 34 281/, — 84 50 34 39 384 36 1/2 +25 (111: 110) 3 68 47 — 68 59°/a 68 54 68 541/, —:01/, (001: 021) 1 29 34 29 34 29 35 — 10 Dai valori ottenuti, dato che essì si allontanano sensibilmente da quelli trovati per altro giacimento, mi sembrò giustificato il calcolare le costanti per questo giacimento. Esse sarebbero: a:b:e = 0.5465:1:0.2948 Di MASAIE Di questi valori, l'angolo 8, come pure c, si avvicinano a quelli trovati dallo Zambonini in un anfibolo nero dei blocchi rigettati dal Vesuvio nel 1906, mentre a se ne differenzia alquanto; egli calcolò infatti, per quei cristalli, a:b:c=0.5502:1:0.2942 B= 74° 40' Maggiormente si scostano dalle costanti che servono per il minerale d'Isernia, quelle trovate dal prof. Zambonini per i cristalli di Albano e dal- l’Arzruni per quelli di Ponza (*). (*) F. Zambonini, Notizie mineralogiche sull’eruzione del Vesuvio dell'aprile 1906. Atti R. Accad. sc. fis. e mat. Napoli [2], 13 (1906), n. 8, pag. 24. (®) Arzrani, Arystallographische Untersuchungen an sublimirtem Titanit. und Amphibol. Zeitschr. f. Kryst. VIII (1884), 296. RenpICONTI. 1914, Vol. XXIII, 1° Sem. 99 — 784 — PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLOsEvICH presenta la pubblicazioni giunte in dono, e fa particolare menzione di quelle inviate dal Socio TARAMELLI e dai Corri- spondenti LusTI@, PASCAL, SILVESTRI. Lo stesso SEGRETARIO richiama inoltre l’attenzione della Classe su di una serie di importanti pubblicazioni del prof. A. BeGuINOT, che trattano della vegetazione nelle nostre Colonie e specialmente in Libia; e su due volumi della Specola Vaticana, di cui uno forma il vol. I del Catalogo astrografico 1900. 0, e l'altro contiene il Nuovo Catalogo di stelle colorate di F, KRUGER. Il Socio Dini presenta alla Classe il II volume delle Opere di LuIeI CRE- MONA; il primo è già stato da tempo pubblicato, e presto, si spera, apparirà il III ed ultimo. Il Socio Dini ricorda, fra le 46 Memorie dell’illustre geometra, le più importanti. Il Socio Grassi offre, a nome del Socio Brrosi, due volumi degli Att? dell'Istituto botanico della R. Università di Pavia, diretti dal Socio pre- dotto, i quali completano la collezione posseduta dall'Accademia degli Atti stessi. RELAZIONI DI COMMISSIONI Il Socio VoLTERRA, a nome anche del Socio BLASERNA, legge una Re- lazione fatta con la collaborazione del prof. Vacca, sulla Memoria del prof. Nicita: // metodo aritmetico nel caso irriducibile dell'equazione di terzo grado. La Relazione conclude col proporre l’invio di un ringrazia- mento all'autore per la sua comunicazione; e le conclusioni della Commis- sione, messe ai voti dal Presidente, risultano approvate dalla Classe. PERSONALE ACCADEMICO Il PRESIDENTE dà il triste annunzio della morte del Socio nazionale prof. sen. EMANUELE FERGOLA, mancato ai vivi il 5 aprile 1915; faceva parte il defunto dell’Accademia per l’Astronomia, sino dal 6 gennaio 1884. =780= + Il Segretario MiLLosevicH legge la seguente Commemorazione del Socio straniero ARTURO VON AUWERS. ARTURO von AuweRrs spegnevasi il 24 gennaio 1915 a Berlino nel suo settantaottesimo anno di vita, poichè era nato a Gottinga il 12 set- tembre 1838. L'attività soientifica del nostro socio straniero per la sezione d’astro- nomia si svolse, nella parte sua culminante, in un tempo nel quale l’astro- nomia di misura visuale tendeva a raggiungere un alto grado di precisione, sia perchè i classici strumenti dell'astronomia di posizione, cerchi meridiani, eliometri, ecc. ecc., uscivano dalle officine sommamente perfezionati in con- fronto dei tipi omonimi antiquati, sia perchè i metodi di discussione ricevevano una raffinatezza che in un passato remoto sarebbe parsa soverchia. D'altra parte, quando la fotografia celeste assurse a precisioni dapprima insperate e diventò lo strumento principe non solo dell’astro-fisica, ma anche dell’astro- nomia classica, Arturo Auwers stava ultimando le squisite sue elaborazioni di astronomia di osservazione visuale e di misura. L'astro-fisica moderna, per gli argomenti che tratta e per gli alti fini che si propone, apre mondi nuovi di disquisizioni filosofiche, alle quali, come osserva Seeliger (A. N. 4788), non era inclinato il talento eminentemente tecnico di Arturo Auwers. Questo grande elaboratore di numeri, che erano il risultato di atti di osservazione, seppe da questi offrire risultati di capitale importanza, specialmente in due altissimi problemi astronomici, la direzione del moto del sistema solare nello spazio e i moti proprî angolari delle stelle lucenti. Al tempo della sua piena energia, la parallasse solare — che i passaggi di Venere sul sole, oc- corsi nel secolo XVIII, avevano lasciata incerta per un quarantacinquesimo circa del suo valore, e sulla quale in ogni modo i risultati di quelli non permettevano una irreprensibile discussione — interessava vivamente, e ciò per l’importanza che ha quella costante, non tanto nella traduzione chilo- metrica delle dimensioni del sistema, quanto in alte questioni di meccanica celeste. Auwers s'interessò vivamente dei passaggi del 1874 e del 1882; e del frutto della sua opera, e di organizzatore e di efficacissimo cooperatore, di- remo fra breve qualche parola. Auwers, fino dalla prima età, sentì una decisa vocazione per l’astro- nomia. Compiuti gli studî universitarì a Gottinga e a Konigsberga, appena ventenne entrò, in qualità d’assistente, nell’Osservatorio di Kònigsberga, e qui conseguiva la laurea nel 1862. — 786 — Dopo essere stato volontario a Gotha, in quel piccolo Osservatorio di- venuto celebre nel nome di Hansen, nel 1866 entrava all'Accademia delle scienze di Berlino in qualità di socio e di astronomo; in tale posizione si può dire esser Auwers rimasto l'intera vita. I mezzi d'osservazione, che a lui occorsero, quando quelli di proprietà dell'Accademia non gli erano bastevoli, utilizzò egli all'Osservatorio univer- sitario, mentre poi, nelle condizioni favorevolissime nelle quali trovavasi, potè, sotto gli auspicii dell’Accademia, organizzare spedizioni scientifiche a scopo astronomico, ed essere ad un tempo l’anima della Società astronomica tedesca, dalla quale emersero imprese collettive, di cui egli fu uno degli ispiratori, quando non ne abbia preso attivissima parte. E qui spontaneo presentasi il ricordo del Catalogo stellare fra 14°50' e 20°10' (1855.0), frutto delle sue assidue osservazioni fra il 1869 e il 1874. Sono quasi 10000 stelle osservate in blocco almeno due volte e ridotte a Catalogo per il 1875.0 con una elaborazione così minuziosa e così coscien- ziosa da costituire un vero monumento di astronomia stellare, specialmente nella disamina e nella ricerca di moti proprî. Ricordo come ne parlasse con ammirazione il nostro Schiaparelli. Essendosi esplicata l’attività del nostro collega in alcune imprese scien- tifiche di eccezionale importanza, di una delle quali facemmo or ora appena un cenno, io non debbo abusare della vostra cortesia elencando le numero- sissime osservazioni occasionali da lui compiute, specialmente all’equatoriale, di posizioni di comete e di pianetini, oppure di passaggi di Mercurio, di eclissi luni-solari e di occultazioni, e neppure di qualche conteggio d'or- bite; cose tutte che rientrano in linea secondaria di fronte ad alcuni grandi lavori, di cui dobbiamo doverosamente far cenno; del resto, a giudicare del- l'attività di lui in questi campi di lavoro abituale, gioverà consultare il periodico Astronomische Nachrichten in un ampio intervallo di tempo fra il 1854, quando, di sedici anni, a Gottinga trovava la nebula, che oggi porta il numero 6503 del Catalogo generale di Dreyer, nebula sfuggita ai due grandi esploratori del cielo Guglielmo e Giovanni Herschel, e il 1910 ne suoi ultimi raffronti fra i Cataloghi della Società astronomica tedesca. Era noto, fino dalle osservazioni meridiane di Bradley, il grande moto proprio angolare di Sirio, così che dai tempi di Tolomeo a noi l'astro si è spostato a sud di quasi quattro diametri e mezzo solari e di oltre un raggio solare ad ovest. Devesi al grande Bessel la scoperta, intorno al 1844, che Sirio, in un periodo di circa mezzo secolo, descrive un'orbita di carattere ovale, e a Bessel devesi pure la divinazione dell'esistenza del noto satellite oscuro, che Alvan Clark scopriva in America il 31 gennaio 1862 (A. N. 1353). Auwers imprese un formidabile lavoro di discussione delle osservazioni me- ridiane di Sirio, col proposito di porre in luce la legge di variazione del — 787 — moto proprio relativo della stella, per pervenire al moto assoluto e di Sirio e del satellite, le osservazioni del quale, sempre difficili e richiedenti note- voli mezzi ottici, hanno periodi di discontinuità quando il satellite percorre gli archi intorno al periastro. L'orbita relativa del satellite intorno a Sirio, e, data la conoscenza della parallasse di questo, le masse dei due astri in funzione della massa del sole, erano il fine ultimo delle reiterate ricerche in un periodo di lavoro su un intervallo di quasi un trentennio. È oppor- tuno di ricordare che la scoperta visuale del satellite di Sirio precedette la pubblicazione delle prime grandi ricerche di Auwers; ma queste erano ve- nute a conchiusioni che l’atto osservativo pienamente confermò. A Bessel non isfuggirono le irregolarità del moto proprio di Procione, e divinò l’esistenza d'un satellite anche per questa stella. Auwers pubbli- cava nel n. 1371 del giornale Astronomiche Nachrichten la classica sua Nota Veber die Figenbewegung des Procyos, nella quale discute le osser- vazioni meridiane di Procione su un periodo d’oltre un secolo e assegna gli elementi orbitali del satellite. Trentaquattro anni dopo il lavoro di Auwers, l’astronomo Schaeberle scopriva il debole satellite di Procione all'Osserva- torio di Lick il 14 novembre 1896. I risultati teorici di Auwers collocavano l’astro, per questa data, in angolo di posizione 283°; l'osservazione lo accertò in circa 318° (A. N. 3390). Lo studio dei moti proprî delle stelle richiede inesorabilmente posi- zioni stellari a tempi diversi; ed il moto proprio tanto più accuratamente verrà conosciuto quanto più esatte saranno le posizioni, più ampi i frattempi e rigorose le costanti dei piani mobili di riferimento. Oggidì la fotografia celeste permette misure così rigorose che gl inter- valli di tempo possono essere ridotti con risultati pur sempre soddisfacenti ; ma non era così ancor trent'anni or sono; e però Auwers concepì e condusse a termine l’immane lavoro della nuova riduzione delle osservazioni, per la massima parte stellari, che Giacomo Bradley fece fra il 1750 e il 1762 a Greenwich. L’insigne opera è divisa in tre grandi volumi. Il 2° volume, primo uscito in ordine di tempo, contiene l’integra riduzione delle osserva- zioni di Bradley allo strumento del passaggi e al così detto nuovo qua- drante; la discussione deriva dallo studio diretto dei manoseritti di Green- wich. Il 3° volume, che è quello che contiene il finale risultato dello studio, ha 11 celebre catalogo ridotto a nuovo e riferito al 1755.0 coi moti proprì angolari in @ e d, che sono derivati dai confronti colle recenti osservazioni delle medesime stelle, fatte a Greenwich e a Berlino. Come si sa, le stelle sono circa 3300. Nessun astronomo trovavasi, 40 anni or sono, nella felice condizione scientifica di elaborare un catalogo fondamentale di stelle lucenti, come tro- vavasi, per la sua somma competenza, Arturo Auwers. Di qui una serie di — 788 — preziose pubblicazioni, che videro la luce in tempi diversi, o sotto gli au- spicî della Società astronomica tedesca (Pubbl. XIV-XVII) e nel giornale Astronomische Nachrichten (2890-91; 3481-32; 3927-29; 4019-20). Il ri- sultato finale è il così detto « Neuer Fundamentalkatalog des Berliner astro- nomischen Jahrbuch » che è la pubblicazione n. 33 dell'Ufficio di calcolo di Berlino. Le stelle fondamentali del Catalogo sono 905, coll’aggiunta di 20 polari boreali sopra 80° e 10 polari australi sopra — 80°. Il passaggio di Venere sul disco del sole nel 1874 non era osservabile in Europa; quello del 1882 era visibile in Europa solo nella prima parte del fenomeno. Una Commissione di astronomi tedeschi, sotto gli auspicî del- l'Accademia di Berlino, organizzò le due srandi spedizioni tedesche. Arturo Auwers fn l'anima delle imprese. Ai mezzi economici, all'equipaggiamento di personale e di strumenti, alle istruzioni tecniche nell’uso specialmente dell’eliometro, e, per il passaggio del 1874, ai procedimenti fotografici, ai programmi d'osservazione, alla scelta delle stazioni più opportune, a tutto egli sapientemente provvide; e tutto giustificò pubblicando un’opera colos- sale in sei grandi volumi, fra il 1874 e il 1898. Cinque furono le missioni scientifiche tedesche nel 1874, con stazione a Tschifu, all'isola Kerguelen, all'isola Auckland, all’ isola Mauritius e ad Ispahan. Quattro furono le mis- sioni nel 1882, con stazione ad Hartford. ad Aiken, a Bahia Blanca e a Punta Arenas; in quest'ultima si recò Auwers stesso. Nell'occasione del passaggio del 1874 egli osservò le uscite di Venere dal sole a Luxor in Egitto, Oggi noi sappiamo che la parallasse orizzontale equatoriale del sole all'unità di distanza è 8”, 80, ed è difficile che questa costante sia in er- rore per la millesima parte del suo valore. Il risultato conseguito dalla profonda discussione, fatta da Auwers sulle osservazioni e misure riportate dalle missioni tedesche, è intorno a 8". 88, tutto quanto di meglio il me- todo e l’astro potessero dare. Forse Auwers avrà sperato un risultato che dal vero si discostasse di meno; ma nelle scienze sperimentali e di osser- vazione la verità nei valori delle costanti sì raggiunge (e sempre soltanto in alta approssimazione), come direbbesi, a tappe. Nelle arti e nelle lettere, il monumento può riuscire di getto, e il creatore passa immortale attra- verso i secoli; nei nostri studî il caso è ben più raro: in essi, collo scorrer del tempo, il nome e l’opera dello scienziato rimangono in quanto la storia analizzi il valore degli strati che si sovrapposero per elevare l'edificio. TN valore angolare del diametro del sole e la figura del disco, così in istretta ragione colle misure eliometriche durante i passaggi. interessarono naturalmente il nostro astronomo; di qui un profondo studio sul valore di quella costante, il quale studio ci rese certi essere circolare la figura del — 789 — disco, 0, per lo meno, aberrante dal cerchio di quantità dell'ordine degli er- rori d'osservazione, mentre ricerche affètte da errori sistematici avevano la- sciato pensare che il diametro così detto fotosferico potesse subire variazioni, funzione della innegabile diversa attività fisica del sole in cicli abbastanza bene accertati. Alla media distanza della terra dal sole, la costante fissata da Auwers per il diametro solare, oggi accettata dalla scienza, è 1919".26, il che importa, per questo, 109,05 diametri equatoriali terrestri, usando il valore di 17,6 per il doppio della parallasse solare. Seeliger, nel necrologio di Auwers in A. N. n. 4788, ci insegna aver Arturo Auwers intrapreso un viaggio al Capo per osservare col suo amico David Gill il pianetino Vittoria per una determinazione della parallasse solare. L'amicizia che legava questi due insigni astronomi deve aver tro- vato cemento in simiglianza di attitudini e di gnstì scientifici: ambedue tecnici ed organizzatori ammirabili in imprese collettive, alle quali contri- buivano con un colossale loro lavoro personale; coscienziosi e pazienti ce- sellatori su numeri derivati da osservazioni e misure; autorevolissimi nella loro patria e all'estero per plebiscito conforme fra gli astronomi. In questo, forse, si differenziano i nostri due illustri colleghi, oggi entrambi defunti : che ad Auwers le immature condizioni tecniche della fotografia astronomica nel passaggio di Venere del 1874 influirono perchè egli non seguisse (come seguì e ne approfittò a vantaggio della scienza David Gill) i grandi pro- gressi di quella; ma, tirate le somme, sono ambedue veri benefattori del- l'astronomia tecnica e pratica dell'ultimo quarantennio. pera: QIN0S n ti MERI st tica CITE DO (IR II MIGLIA Ale Manu l : idr s)”i LI li Coi i PAPI (RO sep ALDO 6 Ul TAO K x ia a Pi i DIN TRO, hl Idi È mn N | i 4 gi ari feti i è si i a I % t é ll 1) î x 4 Va tth la > I = SLA ia E la - n i colli i * (e Di Lui 1% n DI 1a: 10) do cul OPERE PERVENUTE IN DONO ALL’ ACCADEMIA presentate nella seduta dell'11 aprile 1915. Annali del Laboratorio chimico centrale delle gabelle; vol. VI e VII. Roma, 1912. 8°, Atti dell’Istituto botanico dell’ Università di Pavia. II. ser., vol. 11,13. Milano, 1908-1913. Beeurnor A. — Secondo contributo alla flora di Rodi. (Estratto dalle « Me- morie della R. Acc, di scienze di Modena », ser. III, vol. XII). Modena, 1914, 8°. BeGuINOT A. — Quarto contributo alla flora della Libia. (Estr. dagli « Annali di botanica », vol. XIII). Roma, 1914. 8°. Beeuinor A. — Terzo contributo alla flora della Libia. (Estr. dagli « Annali di botanica », vol. XII). Roma, 1913. 8°. BeguInoT A. — Schedae ad floram Libycam exsiccatam ; fasc. I. Padova, 1915. 8°. Béauinor A. — Contribuzione alla flora di Rodi e di Stampalia. (« Estr. dagli Atti del R. Istituto veneto di scienze », tom. LXXII. p° 2*). Venezia, 1912. 8°, Beeuinor A. — Specie nuove o rare per la flora della Libia. Padova, 1912. 8°. Béauinor A. — Missione scientifica Ste- fanini-Paoli nella Somalia meridionale (1913). Frutti e semi della formazione delle Mangrovie raccolti lungo la costa somala. (Estr. dal « Boll. della Reale Società geografica », 1915). 1915. 8°. Bkeurnor A. — Le Romulea sin qui note per la: flora della Tripolitania e Cire naica. (Estr. dal « Bullettino della Società botanica italiana », 1912). Fi- renze, 1912. 8°. Béauinor A. — Intorno ad alcune Oronis della Tripolitania e Cirenaica. (Estr. dal « Bull. della Società botanica ita- liana », 1912). Firenze, 1912. 8°. Roma, BéuInoT A. — La flora, il paesaggio bota- nico e le piante utili della Tripolitania e Cirenaica. Padova, 1912, 8°. Beeurnor A. — La flora e la vita delle piante nella Libia litoranea ed in- terna. (Estr. dagli « Atti della Società italiana per il progresso delle Scienze », 1912). Roma, 1913. 8°. Bezzi M. — Ditteri raccolti nella Somalia italiana meridionale. (Estr. dal «Redia»n vol. X). Firenze, 1914. 8°. Brown E. H. — Cholera and ist treatment by preventive inoculation in the Bar- bhanga Jail. (Repr. from the « Indian Medical Gazette », vol. XXXI). s. 1. 1896. 8°. Catalogo astrografico 1900, 0 - Sezione Vati- cana Decl. da + 55° a + 65° sopra fotografie eseguite e misurate all’Os- servatorio Vaticano e calcolate all’Os- servatorio di Oxford. Vol. I. Coor- dinate rettilinee e diametri di imma- gini stellari su lastre il cui centro è in declinazione + 64°. Roma, 1914, 4°, Cremona L. — Opere matematiche: tomo II. Milano. (915. 8°. De FrLippr F. — Spedizione asiatica De Filippi. Rendiconto finanziario al 28 f febbraio 1915. (Estr. dal « Bollettino della R. Società geografica » 1915). Roma, 1915. 8°. Errice C. — Dal”noto” all’ignoto: saggio sui terremoti. Bari, 1915. 8°. _HareKINE W. M. — Note on the methods of mitigating the deathvate from cho- lera. Simla, 1910, f. v. HarrKINE W. M. — Protective inoculation against cholera. Calcutta, 1913, 8°. Harrgine W. M. — On prophylactie inocu- lation against plague and pneumonia. Calcutta, 1914, 8°. RenpIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 100 — 792 HarrKink W. M. — Les inoculations anti- pesteuses. 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SiLvestRI F. — Contributo alla conoscenza degli insetti dell’ olivo dell’ Eritrea e dell’Africa meridionale. (Estr. dal « Boll. del Laboratorio di zoologia generale e agraria della R. Scuola superiore d’agricoltura in Portici n, vol. IX). Portici, 1915. 8°. TARAMELLI T. — Sul significato geologico del canale di Leme nell’Istria. (Estr. dai « Rendiconti del R. Istituto lomb. di scienze », vol. XLVIII). Pavia, 1915. 9°, Vaccari A. — Specie muove o rare per la flora della Libia. Padova, 1912. 8°. Vaccari A. — Contribuzione alla flora di Rodi e di Stampalia. (Estr. dagli «Atti del R. Istituto veneto di scienze », t. LXXII. pe 22). Vaccari A. — Schedae ad floram Libycam exsiccatam: fasc. I. Padova, 1915. 8°. Vaccari A. — Terzo contributo alla flora della Libia. (Estr. dagli « Annali di botanica », vol. XII). Roma, 1913. 8°. Vaccari A. —- Quarto contributo alla flora della Libia. (Estr. dagli « Annali di botanica », vol. XIII). Roma, 1914. 8°. Vaccari A. — Secondo contributo alla flora di Rodi. (Estr. dalle « Memorie della R. Accademia di scienze di Modena », ser. III, vol. XII). Modena, 1914. 8°. La Face. Alcune osservazioni m orfologiche e ea sull’Aclerda Berlesei (pres, dal Socio Grassi) . . . . à . +. = Pag. 768 Quagliariello e d'Agostino. Sullo sr dell'acido SARA do] sangue: III ‘Mobilità dello ione HCO;" alla temperatura 37° C. (pres. dal Corrisp. Bottazzi) .c. . . ... » Scaffidi. Ricerche sperimentali sulle cause che determinano la refrattarietà nei trapianti (pres. dal Corrisp. Galeotti) . . . . Bratgto FS) Quercigh. Cenni su alcuni minerali dei tafi di Tseonia (CAibasso) (pres. dal Chie ‘Artini) ” PRESENTAZIONE DI LIBRI Millosevich (Segretario). Presenta le pubblicazioni giunte in dono segnalando quelle inviate dal Socio Zaramelli e dai Corrisp. Lustig, Pascal e Silvestri . . . 3A) Id. Richiama l’attenzione della Classe su alcune pubblicazioni del prof. A. RATA e su due volumi della Specola Vaticana . A TA Aa si I RE a) Dini. Presenta il II volume delle Opere di Lisi Cra CROCE ADlai IR n «Grassi. Offre, a nome del Socio Briosi, due volumi degli Atti dell’ Istituto botanico della R. Università di Pavia . . ” RELAZIONI DI COMMISSIONI Blaserna, Volterra (relatore) e Vacca. Relazione sulla Memoria del prof. MNicita, intitolata: « Il metodo aritmetico nel caso irriducibile dell'equazione di terzo grado » . . . » PERSONALE ACCADEMICO Blaserna (Presidente). Dà annuncio della morte del Socio nazionale prof. sen. Emanuele Gi FFergola . . DA Millosevich (Seorzianio), Como ct ‘Socio ni Hi von nta BULLETTINO BIBLIOGRAFICO . . tI) Ole ELMA TANO O N, LATTA A AE O MP PIO 772 RENDICONTI — Aprile 1915. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta dell’11 aprile 1915. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Somigliana. Sulla teoria delle distorsioni elastiche . . . . Pap Levi-Civita. Una proprietà di simmetria delle traiettorie io dia da co punti » Paternò. Trasformazione dell'acido butirrico in butirrato di propile, per azione della luce. » Grassi G. Osservazioni a proposito della Nota del professore G. Guglielmo, dal titolo « Sul- l’esperienza di Clément e Desormes e sulla determinazione dell’equivalente meccanico della caloria n. . - dica estrae (PARATE RAR AE SANS EROI RIT N TI Viola. Sulla sistematica dei cristalli 900 RR e Fubini. Il teorema del valor medio (pres. dal Socio IA CRSTA SRI Signorini. Sulla propagazione di onde elettro-magnetiche in un e torcia (pres. dal Socio Levi-Civita) . . +. . i p RE a DI Zappa. Sulla osservazione moritiga I6lo stelle quasi fon dinlnfai Gres sal Coi Di Legge) . AMO . SR CASONO DRECIIRIO » Corbino. Sull’ caglio der corpo nero: osservazioni 1 Nota, del UT o. Poli Da dal Socio Blaserna) . . . i S Tasca Bordonaro. La verifica del principio di STO di Wola 3 caso denettato (pres. dal Socio Volterra) . . . ò 3 pane Giulietti. Azione delle onde hertziane su di un Ao SSWA si di un campo elettrico rotante (pres. dal Socio Colombo) . . . . . . ot, INIZI, Brunetti. Il fenomeno di Stark — Lo Surdo nell’elio (pres. dal Corrisp. Gi ERO) Barbieri. Sui complessi dell'acido vanadico con l'acido citrico (pres. dal Socio Ciamician) » De Fazi. Prodotti di disidratazione dell'acido $-difenillattico (pres. dal Socio Paternò). . » Cambi e Speroni. Sulle amalgame di magnesio (pres. dal Socio Masini) . . . RESO) Scarpa. Analisi termica delie miscele degli idrati alcalini coi corrispondenti Mogentnii n Com- posti di potassio (pres. dal Socio Criamician) . . . . . . + ” Cambi. Sul potere elettromotore delle amalgame di magnesio e ancora sul ia cietfiometnt delle amalgame di calcio (pres. dal Socio Masini) (9) . |... ” Poma e Albonico. Azione dei sali neutri sulla costante n chitmico (otel “dia Socio Ciamician) . . REA ER I, Padoa e Foresti. Sugli equilibri i rariiaizioni na Ta) ©. SIL OLTRE ; ” Mameli. Influenza del fosforo e del magnesio sulla formazione della clorofilla (aa ‘el Socio Briosi). . - EIA nia SRO Bargagli-Petrucci. Una ipoteri biolodui su levi dello zolfo date india ges- soso-solfiferà (pres. ‘dal Corrisp. ‘BAcc4rmi) ERO e NE 655. 666 674 676 680 691 694 703 768 709 711 719 724 729 734 788 746 747 754 755 761 Segue in terza pagina. (*) Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. Roma 13 maggio 1915. SN ETIO LE ACCADEMIA | DEI LINORI | SURIHE QUINTA RENDICONTI | ‘Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 25 aprile 1915. Volume XXIV-. —_ Fascicolo sso ica SEMESTRE. ROMA | TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI 5 PROPRIETÀ DEL DOTT. PIO BEFANI lato ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti: 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle fdue sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota ‘per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indi cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz’altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. 8. Nei primi tre casi, previsti dall’art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. De Seduta del 25 aprile 1915. P. BLASERNA, Presidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Fisica matematica. — Su//a propagazione di onde elettro- magnetiche in un conduttore toroidale. Nota II di A. SIGNORINI, presentata dal Socio T. LEVvI-CIVITA. $ 9. Introducendo le espressioni (14), (17), (18) di e0, 61, 0% nella (6), e ponendo, in generale I = if Tie) Im() e" do, si trova D5 to) (2)\ (19) que — EEÙ doo Cha 218 + 9° Bb: lt) + dii — “i di — K Js(£8) 5a T ID__ MR, da e ID cv i ( do I.(k0) uni Ne risulta che dovremo: 1°) porre (20) d=0 ((=2,3,...); 2°) determinare R, a e Im (È doo A) (cioè d,;) in modo 00 da minimizzare l’espressione cui si riduce, in base alle (20), il coefficiente di gp?. ReEnDICcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 101 — 794 — Invero, se le d,, ((=1,2,3...) venissero scelte in modo differente, comunque si scegliessero poi le d,,, dz, ecc., sarebbe evidentemente impos- sibile che, almeno per valori comunque piccoli di pg, Q venisse ad avere il minimo valore che è compatibile colle (11) e (12). In base alla condizione di minimo sopra specificata, posto 3 118 I(E5) 20 J.(£0) si trova Oa Fas K 21 e ESA Dopo questo, risulta completamente determinata la e,;, ed anche la stessa E” tutte le volte che siano trascurabili le quantità dell’ordine di gran- dezza di g°. Precisamente, in base alle (14), (17), (18), (20), (21) — a meno di termini contenenti un fattore del tipo g" con 7 > 3, o del tipo gp* cosrd con 7 = 1 — si ha: ligiei LCr————_r_m D) or (22) E& Va mobI.(k8) È \I%(4) + 9.008 9 | dI (2) mE) (0) ]+ + | (TRL 1) +e (2+57) + | Se poi poniamo nre = resistenza effettiva per unità di lunghezza del conduttore, eff dalle (13), (19), (21) segue, a meno di un errore dell'ordine di ?: LAN (3 È Iù 3) a) 28) R= ME I, 3Be( 2) 710 ]9P1t Li (28) Arno J:(k0) J:(46) È vii PR), I® $ 10. Sarà bene di rilevare che gli integrali 10 , IN, Re (ca possono tutti quanti esprimersi per fanzioni di Bessel. Infatti (*), qualunque sia /, è: k i (24) In zi MICIO Jk). Di più, qualunque siano «,#,P, vale la formola (@* — 8°) (("Jo(c0) J:(0) e* de = aP*I:(«P) J.(8P) + 0 + pP3J,(eP) Js(8P) — 2F f Jolco) Ts(B0) e de (1) Ved. loc. cit. (*), a pag. 1 della Nota I, $ 8. onde in particolare è (25) R, (>) = STI J.(45) J.(£2). $ 11. Posto p_t 4 jp — 47r0 Poll se cos 9) LINO dalle (2), e (2)z segue (26) R.(H)= TG RA R.(H:)= al) Pi (1—0ogcos d) dI (1—g@gcos 3) de” ciò che prova che nel piano di S le linee &' = cost sono, istante per istante, le linee di forza magnetica. In base alla (22) tali linee, ed anche Hz ed Ho risultano determinate a meno di un errore dell'ordine di grandezza di 4? Senza insistere su ciò, avvertiamo che dalle (2); e (22) segue, per o= 1, l'eguaglianza (27) Hz(1— og cosd)= int = Li \rbI.(kb) + go cos 9 È J(£2) -; kbJ.(kb) — 00 TAI) |+ 4 g° i Tee 1 Jo(k0) — ù I.) ] i . colla stessa specificazione, relativamente all'ordine d’approssimazione, che vale per la (22). $S 12. Sia U il vettore complesso di Poynting (= EAH®} relativo alla P, e @® il valore (indipendente da #) del flusso entrante di U attraverso la superficie che racchiude un tratto di conduttore di lunghezza unitaria. Su tale superficie la componente di U secondo la nor- male interna sarà diversa da zero soltanto in quella sua parte che appa r- A 0 ia (a c — tiene anche alla superficie del toro, ed ivi avrà il valore Bal” Ho TT Avremo dunque 27 a (28) o 2 ET HM (1— go cos 9) dI: 0 invero nel sistema di coordinate curvilinee (4,0, 4) l'elemento di superficie del toro è espresso da 5.dzd49(1— gocosd). — 796 — D'altra parte, detto T il valor medio rispetto al tempo dell’energia magnetica per unità di lunghezza del conduttore, si ha, come è ben noto, Qu = R. (DM) Tm — d Ta) ; onde potremo servirci della (28) [per verificare l’esattezza dell'espressione (23) di R, e] per calcolare T©, e il coefficiente d'autoinduzione effettiva interna 90 TM) ge == J? Introducendo nella (28) i valori per e=1 di E° e di H©(1— og c089) dati dalle (22) e (27), si ha: 9) om= 200° deo doo) _ Ab Jk) IE) + 20 + g? LIA Ù J.(40) J(k6) — Dr) dò di Jo(42) JE2) + Had en iL SZ, i rsania He Ei J,(£b)3,(82) |}. Si ha poi (30) 39 ca J(k8)J:(#2) Ti — ie it) i3i Di 73 Jo(45) JK) = La SO, D Jo(X0) J.(#2) + d[J. (40) — KbI(£b)] I(E8)I.(45)) t T(k5) sa d kbJs(kb dl kb 2 +è la kb J n Oa | L° b? Jo(£0) J.(k2) + da kb) kb » TI MIDI Ji(k0) 4° hp? on Bi in) sn (46) J DI = (25) Re (1575 300) 1.060) — a kb = DI "( A) o: ng — 797 — Poniamo, qualunque sia / ('), to) kb J,(k6) JK0) Tr Te e teniamo presente la (24). Dalle (29) e (30) otterremo allora, senza difficoltà, m m r10b° deo doo f910 21 GIV_]O si (81) Qm — R.(pem) — TT otel i 21@ + g°| 3% MALL _3 xp 8 J(65) I,(E8) 4° . UL PNL i _ EOD® doo doo (0% a } L (82) Tm 7 In(bim) = EL en alp 4g 3310 — IU In i DE 9T:( *, ) 3 în Jo(45) Jo(k5) +ien (Fo) 40 iena unì ali La (31) [efr. anche la (25)] coincide sostanzialmente colla (23); la (32) fornisce come valore di L; e E o dIV IV 2) (33) Li Tan + g° [osi Ii Ito Im (3 + Ji(£0)J DIE: ur 1T(£2) To(E0) (1) dati I ora lan VARZI | ° 4 Ito $ 13. Studiamo il comportamento asintotico della P al crescere inde- finito di |K|, trascurando, secondo il solito, nel computo degli elementi locali del campo elettromagnetico le quantità dell'ordine di grandezza di ?, e nel computo degli elementi globali le quantità dell'ordine di grandezza di 3. Da formole ben note segue: i so Told) È 1°) (34) I RTED) ser) 2°) per 0<1, qualunque sia 7: (35) lim 4” = i | =o x Essendo = i, dalle (34) si deduce | Kb 3 \ lim ( ee) )L.A))=— oto Ji(£6) Ji(k0) Ad ll ko )- it; ] = 3 Ji(42 Ji( kb 5 | ne ai pepe Dk0) | |k|=® ri=o tas (*) Con ciò In verrà a rappresentare il valore dell’integrale TERRE f, edo }3 Melkbo) + [61 1860) [ved. loc. cit. (*), a pag. 1 della Nota I, $ 8]. — 798 — e, successivamente, ll 3) ( Li ‘ 1 lim ( cs-_lezl ati 2 = (UNI za IT ri=o \J,(40) Ji(k0) |” 1/2 d | i î lidi -=e pisa 2 Dopo tutto questo, le (22) e (35) permettono immediatamente di con- cludere che per 0 < 1, cioè nell'interno del conduttore, è lim E= 0. |k|=0 Alla stessa conclusione si perverrebbe per oo ed H ove se ne conside- rassero le espressioni effettive. Sempre dalla (22), come espressione asintotica di E! alla superficie del conduttore (0 = 1) si deduce m_(1+d I, /reuv l ir e E ulteriormente, dalla (27) si ha ivi /9 Ti DE (1-+ g cosd), ed è facile il provare che, anche per o = 1, è 1 (770) lim Hi —i0E Je]=® Infine, dalle (23) e (33), tenendo conto anche della (25), si ottengono (come estensione di ben note formole di Rayleigh-Stefan) le seguenti espres- sioni asintotiche di R ed L;: (36) | 14/20 g* | =iy/3tÉ (1- Di S 14. Nel caso che |X2| sia piccolo rispetto all'unità, il comportamento della P° può essere facilmente caratterizzato sostituendo, nelle formole generali già stabilite, le funzioni di Bessel coi loro sviluppi in serie ordi- nate per le potenze crescenti dell'argomento. Non insisteremo su questo perchè ci riserbiamo di trattare nei prossimi paragrafi il caso di un campo stazionario (vr == 0), caso che — come dimostreremo e come del resto è da aspettarsi — si riattacca con continuità al caso generale al decrescere indefinito di v. Ci limiteremo soltanto a scrivere le espressioni di R ed L; per piccoli valori di |X%) Tali espressioni, quando sì trascurino le potenze -— 199 — di |Xd| superiori alla 7* (e sempre a meno di un errore dell'ordine di ?) sono le seguenti: Se IL 4 CIATANAA ERETTA 1 TT 4608 DO Î TE ui i, _ [ft 67 217 k|t b' aan Dea 384 144 960 S 15. Per v=0 le (2). e (2); dànno }B,(1— eg cos 9) == }En(1 — eg cos 9){=0, È cioè i C 1—-ogcosv n ove C è una quantità (indipendente da 0 e 4) che è legata all’ intensità J® della corrente dalla relazione db __ 200° C Pr = f ode f ar J1-V1— gp?°}. In conseguenza (cfr. $ 4) fissato il valore di J la condizione di mi- nimo pel calore di Joule sarà soddisfatta da un campo elettromagnetico stazionario (E, H®) allora e allora soltanto che sia (38) Has) nr Beso ACE 0 st Lea p° JT A i 2r0b(1—-V1— g?)(1— go cos d) In base alle equazioni ino E©®© — rotH©© divH@@® = 0 A ciò individua il campo elettromagnetico a meno dell'aggiunta di un campo di forza newtoniano al campo magnetico. S 16. L'espressione ora ottenuta per E si può anche considerare come individuata per X= 0 dalla (4), in base alla condizione che, subor- dinatamente all’eguaglianza (39) J© = f E, d$ S — 800 — risulti minimo Qua ( E; (1— og cos 4) dS.. Invero: 1°) la (4), per la sua stessa origine, è soddisfatta, quando sia 4 =0, da Ef= E; 2°) per una qualunque E, che soddisfi alla (39) e non coincida con Em: si cha: SEL — 09 008.9) d8= | {9 + [En — RM0]}° (1 — ego cos 4) d8 = S /S = f, [E° (1 — og cos 9) dS + JI [E, — E P(1— og cos 9) ds + 8 SI PESO JE dS Sert as! dsl Taro 1 =g) 7 Hi [E]? (1 — og cos 9) d$ . DS Questa osservazione prova che al decrescere indefinito di v la E si riduce (0) alla E, purchè, s'intende, nel passaggio al limite si sostituisca J con SE. V2 e in conseguenza dà modo di togliere l’indeterminazione già rilevata per la H©®, permettendo di assumere (40) Ho — limH®, v=0 S 17. Per eseguire in base alla (39) il calcolo di HS*®, Hy"9, basta, in conformità alle (26) determinare il limite di W per v=0. Introducendo in & l'espressione (22) di E,, ove le funzioni di Bessel siano state sosti- tuite coi loro sviluppi in serie e si sia posto Jy/2=J®, sì trova senza difficoltà (pur di scegliere convenientemente la costante indeterminata che compare nell'espressione di &): (0) 9 (41) lima = 12 | ij pecont [e- A A0b7a +5 | E+se : +5 e |}. — 801 — Corrispondentemente si ha a ai cel | 5 24 3]+ Perp_ DÌ ch | pe 4J° s° send o[e- DI Da pi cb ove, come nella (41), per quello che riguarda l'ordine d'approssimazione è da mantenere la specificazione che vale per la (22). In particolare risulta dalle (42) che nel punto C H©®, è normale al piano della circonferenza (42) direttrice del toro e in grandezza = =— . Le (42) possono anche servire a determinare per v= 0 l'energia ma- gnetica e l’autoinduzione interna del conduttore. Eseguendo il calcolo si trova A O) n? ih 144 $° ciò che dà una verifica della (37).. Una verifica della (37), può aversi dalle (38), in quanto, eseguendo in base ad esse il calcolo di R per v=0, si trova — 2081 iso l gp IE | 4 Matematica. — Sulle soluzioni fondamentali delle equazioni integro-differenziali. Nota II di N. ZeILon, presentata dal Socio V. VOLTERRA. 6. L'espressione (IV) vale per i due tipi d'equazioni integrali, e evi- dentemente essa è un integrale che dovrebbe calcolarsi per mezzo del teorema del Cauchy. Il caso di un'equazione del tipo del Fredholm si complica, per la presenza dei poli della D e anche per la difficoltà di sviluppare questa funzione nella prossimità dei punti #,,f», radici dell'equazione (5) (TI) Lepi=o. Prendiamo il caso del Volterra; un residuo allora non può provenire che dalle radici #,,f,, e la D si sviluppa facilmente. Sia € >0, e (6) Ae utir Byte xe+iyr A AE TT) nata; RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 102 — 802 — abbiamo: 8 2ir © (BIT) Lepini no) nella prossimità di #,. Denotiamo con A l'operazione 0=S[(EE' 0.9+e96.9+469 Md, e sia R il polinomio (5); facendo uso delle potenze simboliche, troviamo: Au(t) | A°u(d) UO) OA onde (ferts) f(t,1) + P°g(t,7) +6, 9) (8) Ds, jd _r — 2 À [ (PETE + bp + v | ga nt serie uniformemente convergente, i cui termini si integrano separatamente. Nell'integrale (IV) abbiamo prima il termine 1 +° s(t,t) af «(t, t) (9) Cellar integrando attorno al mezzopiano superiore della variabile complessa f. I termini d'ordine superiore conterranno integrali della forma: P (fete) ) pnde Jr, kl hei “i 3 il cui calcolo non è difficile; si dimostra che: 10 J li qGiIHR+D MERCIA (O hi T (A PETD)I! data” i Per verificare questa relazione in modo rapido, se non rigoroso, osser- viamo che: 1 +% (C+% (+0 2% Tezli y?l eî a0+By+3) Taty A E i L (a? + B°+ Vi ora do dB dy "i 3ERH+T+1) (SE Ci eî (a0+BY+]2) agg agti Hi ci «ge pia de de dy= QEMHR+D) ai ELEVZEYI ' — 803 — ove »L PL HI E e l(d0+BY+]2) Arr? i ZA 3) = (ST cane lia Risolvendo questa ultima equazione, ritroviamo la (10). 7. Le formule del paragrafo precedente contengono la soluzione fonda- mentale del Volterra. Abbiamo costruita la serie seguente: gen pam_1l Faai(l, 7), (V) l E (n Ni 4n\ r Cere Pe! ove le funzioni F,,z, sono date dalle relazioni Prini (( i E = fc ’ d) Pong (È Ù t) =“ g(i ’ È) Fr (È ’ t) "n + (6, €) Faria ($, 7)] dé, Boa = la 5 Eo.io = ; Ho = 07 . Ora, per l'applicazione alla (I) del metodo del Green, invece di partire dalla definizione del $ 2, è naturale di cercare una soluzione che per O i Il l f=g=%w=0 si riduce alla funzione —. Sarà essa una soluzione che pi si deduce dalla (V) integrando rispetto a ©. Prendiamo l’equazione aggiunta del Volterra, in cui si integra fra e 09; scrivendo, secondo le notazioni della Memoria citata, /(©, 4), Fa,xu(7,5), invece di /(£,%), Fnxi(t, €), poniamo: : 8 Ve, yslt,0)=— 42 f E(x,y,8|t,t) de t e allora ritroviamo la soluzione fondamentale del Volterra, cioè la serie et m 2M n2Mm=1 =;(1+? ef ( 1) sd fa a + Fa,ea(t, 8) de) . (22m)! — 2g gm dy?” de! 8. Finiamo col ricordare l'applicazione del metodo dei nn. 2 e 3 a un caso più generale di equazioni integro-differenziali. Sia l'equazione IR) D) d D a Ò (vi) ARE yy” 2)+fo(È °3y Tir) =Au=o0(0,7,8;1), ove con f e ® denotiamo funzioni intere e razionali d'ordine qualunque dei simboli di derivazione, essendo / a coefficienti costanti e ® a coefficienti che dipendono da / e 7. Ritenendo la definizione del $ 2, l'integrale fon- — 804 — damentale della (VI) si forma facilmente. Consideriamo l'equazione integrale o(A,u,v;t) sil — 8n° f(ia, id, i) re i UT OI) Taj) Ple ir) (0) de 0) e sia D(a,#,y|t,) la funzione risolvente analoga alla D dell'equazione (2); l'integrale fondamentale della (VI) sarà 2 fol È 8 2 Die. P3 7039) icuas81+19 da ded, de f(ta,i8,17)) integrale che si saprebbe discutere cogli argomenti sviluppati nei diversi casi di equazioni differenziali. 9. La proprietà fondamentale dell'integrale (VII) può verificarsi più o meno direttamente. Trattandosi della formula del Green, conviene occuparsi delle derivate d'ordine n — 1. Ricordiamo un teorema della teoria delle equazioni differenziali (*). Sia d i o dI dY de un'equazione lineare, omogenea d'ordine 7, a coefficienti costanti, a carat- teristica imaginaria; e sia Pi =Wn ( SERA de’ dy' de una combinazione lineare delle derivate d'ordine x — 1 dell’integrale fon- damentale F corrispondente. Consideriamo l'integrale Jo= fol2, wu, )Prale—d.y—#,5—1) do, esteso a una superficie o qualunque. Siano È ,#,$ i coseni direttori della normale (presa in un senso determinato) in un punto A=#,u=7,v=5 della 0; allora attraversando la o in modo che il punto x,y, passante per 7,7,5, vada nella direzione secondo la quale cresce il trinomio fxrtny + le, si trova che J; è discontinua, è suoi valori alle due faccie di 0 presen- tando la differenza finita Pn5:7:5) (3.7.3 _ f(£,7,5) pri (1) Vedi Zeilon, Sur les dérivées d'ordre n—1 de l'integrale fondamentale d'une équation différentielle elliptique. Arkiv f. Matematik ecc., Stocolma 1913. — 805 — Nel caso presente, un risultato analogo si deduce cogli stessi ragiona- menti della Memoria citata. Supponiamo che F,-, contenga le derivate di ordine 2 — 1 rispetto a 4%, y,z della funzione (VII) nel caso di un’equa- zione (VI) omogenea; troviamo che l'integrale (11) L= | fear; Pod +)0,9) do da presenta fra le due faccie di o la diseontinuità (12) dy(£ 7,5; 1)=A4y()= VIE WPnals,7- 19) 1) ] __ Pnr(È, 55) PROB | DE nt t lE piva) de ERE ul, ove (4), la quale non dipende dai coefficienti della w, si trova, secondo la definizione di D, mediante l'equazione integrale (13) AE fee Sie (RIO 46 osservando che 7 e ® sono adesso omogenee dello stesso ordine. Abbiamo supposto l'equazione (VI) omogenea e a caratteristica non reale, cioè che la funzione /(@,f,y) non si annulli mai nel campo reale; ma si può estendere il risultato in modo da renderlo valido anche in casi più generali. Come esempio consideriamo la funzione V(<,%,z|t,9) del Volterra; prendendo g(2,y,4;t)= — 47, avremo da studiare gli integrali lol o dV IV dV — do , do, do o dX Se dY le dg ne troviamo le discontinuità ove (14) En ata i sa 4 Ppre+te io Fprto o ppi? 10+ pg / ++ A ee. Nella formula del Green, per l'equazione (I) occorre l'integrale V(t V(r (15) n + fl e (DE pi a dIV(T V “ ETA la cui singolarità si calcola per conseguenza, = 47. — 806 — Sia la o una superficie chiusa; la direzione che conviene scegliere per il passaggio attraverso o sarà quella della normale esterna. Ora, per un punto x ya, esterno rispetto a o, si prova facilmente che l’ integrale (15) è zero; se ne conclude che a un purto interno corrisponde il valore — 4. Ritroviamo così un risultato fondamentale nella teoria dell'equazione (I) (?). Ricordiamo, finalmente, che il metodo precedente si applica alle equa- zioni integro-differenziali a un numero qualunque di variabili, e che anche il simbolo si potrebbe intervenire nella / senza gravi complicazioni. Matematica. — teorema di Eulero per le funzioni di linea omogenee. Nota della dott. ELENA FREDA, presentata dal Socio V. VOLTERRA. Matematica. — Sopra un teorema d' unicità relativo alla equazione delle onde sferiche. Nota di S. ZAREMBA, presentata dal Socio E. LEVI-CIVITA. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Fisica. — Sulla resistenza elettrica di una lamina in un campo magnetico. Nota di 0. M. CorBIno e G. C. TRABACCHI, presentata dal Socio P. BLASERNA. In un precedente lavoro fu notato che la presenza di larghi elettrodi di rame, applicati al contorno di una lamina di metallo che rappresenti il feno- meno di Hall, deve dare origine ad un sistema di correnti interne, le quali, sovrapponendosi alla corrente primitiva, aumenteranno l'energia consumata, per l'effetto Joule, nella lamina. Ne risulterà un aumento della resistenza globale della lamina definita come il rapporto tra la differenza dei potenziali degli elettrodi e la corrente totale che traversa il circuito. Questo aumeuto è in- dipendente da quello dovuto alla variazione di resistenza specifica, quale si otterrebbe nel caso in cui le linee di corrente conservessero la forma pri- mitiva; indipendente cioè dallo aumento di cui la teoria elettronica di Riecke e di Drude non rende conto, e che viene utilizzato nella spirale di Lenard per la misura dei campi magnetici. (1) Vedi Volterra, Memoria precedentemente citata. — 807 — Che l'aumento dell’energia consumata per l'effetto Joule, proveniente dalle correnti parassite, non debba essere trascurabile, risulta dal fatto che quelle correnti possono acquistare un'intensità rilevante, così da deprimere notevolmente l’effetto Hall lungo gli orli della lamina. Per ricercare più fa- cilmente le variazioni di resistenza che ne derivano, conviene perciò ricorrere a una lamina di forma tale da accentuare quelle correnti parassite, come avviene, ad esempio, per un rettangolo con lati di lunghezza assai differente e nel quale gli elettrodi di rame siano saldati ai lati di maggiore lunghezza. Ma occorre, insieme, di poter misurare la variazione normale di resistenza della medesima lamina, in condizioni tali cioè da eliminare le perturbazioni nella forma della corrente causate dagli elettrodi. Per realizzare le condizioni sopra esposte abbiamo proceduto nel modo seguente : In una lamina rettangolare di bismuto, lunga 52, larga 24 e spessa 1,8 mil- limetri, erano saldate due lamine di rame lungo i lati maggiori. Al rame erano saldati i fili adduttori della corrente, e due fili-sonde per misurare con un galvanometro la differenza di potenziale corrispondente al passaggio di una nota intensità di corrente ; si poteva così dedurre la resistenza globale della lamina. Indicando con r la resistenza sotto l'azione del campo, e con ”, quella ottenuta a campo nullo, si ebbero i seguenti risultati : campo in Gauss rfro 3400 1.09 6600 1,41 10400 1,72 Furono poscia dissaldati gli elettrodi laminari, e applicati sugli orli rimasti liberi due elettrodi adduttori puntiformi, e nelle loro vicinanze due elettrodi-sonde per l'esplorazione dei potenziali, disponendoli in posizione simmetrica rispetto agli elettrodi adduttori, così da rendere trascurabile la differenza di potenziale per effetto Hall. E allo scopo di eliminare comple- tamente l’induenza di quest'ultimo, si prese come valore della differenza di potenziale fra le sonde la media delle due deviazioni, pochissimo differenti fra loro, ottenute con campo diretto e con campo invertito. In queste condi- zioni la forma delle linee di corrente rimane invariata, e la variazione di resistenza osservata è del tutto dovuta al mutamento delle proprietà specifiche del bismuto sotto l’azione del campo. Si ottenne così : campo riro 3400 1,07 6600 1,38 10400 1,69 — 808 — L'aver considerato i rapporti fra la resistenza sotto l’azione del campo e quella a campo nullo, rende indipendenti dal matamento nella forma degli elettrodi i numeri sopra riferiti, e permette di considerarli come rapporti normali fra le resistenze specifiche del metallo con e senza campo. Si può subito riconoscere che la stessa lamina, provvista di elettrodi larghi in rame, presenta una variazione di resistenza maggiore, conformemente alla pre- visione. La modificazione è nettamente superiore ai limiti entro cui possono essere garantite le misure; essa venne ritrovata con altre lamine anche di dimen- sioni diverse. I risultati di queste misure permettono che si definisca una questione di un certo interesse sulle relazioni che passano fra il decorso delle linee di corrente in una lamina e la sua resistenza elettrica. Supponiamo che una Fia. 1. corrente traversi un disco circolare fra due elettrodi circolari concentrici: le linee di corrente saranno radiali, ma diventeranno spirali logaritmiche sotto l’azione del campo. Si supponga di tagliare il disco lungo due di queste spirali: nessuna modificazione si produrrà nella distribuzione delle correnti, ‘e si potrà considerare, invece dell'intero disco, il settore ottenuto, a contorni spiraliformi (fig. 1). Se adesso si sopprime il campo, le linee di corrente subiranno una notevole deformazione nel settore medesimo: e se si inverte il campo, la deformazione sarà ancora più accentuata. In conseguenza, il tra- gitto della corrente a campo diretto e a campo invertito sarà profondamente diverso, mentre la resistenza specifica propria del metallo avrà lo stesso valore nei due casi. Ci si può dunque domandare: a questa profonda altera- zione nel decorso delle correnti, che si produce alla inversione del campo, corrisponderà una modificazione della resistenza apparente del settore? Se sì, la resistenza globale di esso deve mutarsi allo invertire del campo. Eseguita l'esperienza, abbiamo ottenuto un risultato assolutamente ne- gativo. Non è facile di dare del risultato una spiegazione intuitiva; sì può solo dimostrare che esso è conseguenza necessaria della teoria generale, e, più — 809 — precisamente, che esso deriva immediatamente dal principio di reciprocità enunciato dal prof. Volterra. Siano infatti, nel settore spiraliforme della figura, A e B i fili addut- tori; C e D gli elettrodi-sonde, applicati a coppie sugli elettrodi larghi di rame. Al sistema dei quattro punti A B C D può essere applicato il prin- cipio di reciprocità, che vale anche per elettrodi estesi di resistenza nulla. E allora, quando A e B sono adduttori, e il campo è in un certo senso, sì avrà fra Ce D una certa differenza di potenziale; ma se si inverte il campo, e si manda la corrente tra C e D, esplorando il potenziale fra A e B si deve avere lo stesso valore di prima. Ma lo scambio degli elettrodi A B con quelli C D non può produrre alcuna differenza nei potenziali, poichè tanto gli uni quanto gli altri hanno il potenziale dei grandi elettrodi a resistenza nulla; dunque la inversione del campo non deve neanche produrre alcuna variazione nei potenziali, ciò che appunto l’esperienza rivela. Resta così stabilito che in qualunque caso la variazione di resistenza di una lamina dovuta al campo sarà modificata per la presenza di larghi elet- trodi; ma la resistenza globale deverisultare immutata, qualora s’inverta il senso del campo. Il principio di reciprocità giustifica un risultato che per via intuitiva appare inesplicabile; poichè l'inversione del campo deve certa- mente mutare, nel caso realizzato, il percorso nelle correnti, e, ciò non ostante, rimane invariata la resistenza della lamina. Fisica. — L'effetto Hall nelle leghe di tellurio e bismuto ('). Nota di G. 0. TRABACCHI, presentata dal Socio P. BLASERNA. Fin dal 1896 Beattie (*), pur riconoscendo essere scarsi i dati delle sue esperienze e senza tentare di dare una legge generale, affermava potersi rite- nere che vi sia nei metalli e nelle loro leghe una stretta relazione fra le proprietà termoelettriche e l’effetto Hall. Solo nel 1910 A. Smith (*) riprende la interessante questione studiando le leghe bismuto-antimonio, antimonio- cadmio, antimonio-zinco; e conclude favorevolmente alle idee di Beattie. Nell’esaminare la curva della forza termoelettrica rispetto al rame, determinata recentemente da W. Haken (‘) per le leghe del sistema tellurio- bismuto (a parte la nota interessante relazione, tra questa curva e quella di fusione) (?) fig. 1, si riscontra facilmente che dal punto di vista della forza (*) Lavoro eseguito nell’ Istituto fisico della R. Università di Roma. ?) Proc. of The Roy. Soc. of Edinbourgh (21) pag. 146. *) Phis. Rew. 1910 (1). 4) Ann. der Ch. und. Phis. (32) pag. 291. (5) Monkemeyr Zeitschr. F. Anorg. chem. 46, an, 1905. RenDICONTI, 1915, Vol, XXIV, 1° Sem. 103 ( ( ( — 810 — termo-elettrica il sistema tellurio-bismuto è él più notevole di quanti st co- noscano finora. Come può rilevarsi dalla fig. 2, che ho tratto dal citato lavoro di Haken, la forza termoelettrica del tellurio per aggiunta del bismuto, da principio viene abbassata in misura considerevole. A_82°/, di tellurio la curva rag- giunge la linea «neutra » del rame e presenta, da questo punto sino al 58 °/o di tellurio, valori negativi sempre crescenti; poi la curva si piega, sì avvicina Curva di fusione /VMontermesger/ lo, 6, 20 30 40 50 60 0 &0 90 100 P " ‘0 Piedi di nuovo alla linea del rame, la taglia al 50°/, circa e raggiunge, con una salita oltremodo rapida, un elevato valore positivo in corrispondenza del composto Te, Bi.; al 40°/ corrispondono di nuovo valori negativi, e termina poi al valore corrispondente al bismuto puro. Ho creduto pertanto utile di prendere in esame dal punto di vista del fenomeno di Hall le leghe del sistema tellurio-bismuto, anche perchè questi due metalli sono quelli che si trovano ai due estremi opposti, sia dalla serie termoelettrica, sia dall'effetto Hall che è per tutti e due, in valore assoluto, assai rilevante. A questo scopo ne ho preparate dodici. I metalli puri provenivano da C. A. F. Kahlbaum. Dopo pesati, veni- vano messi in un crogiuolo di porcellana che veniva chiuso in un forno elettrico a resistenza riempito con un gas inerte per impedire la ossidazione. Dopo fusi, i metalli venivano mescolati bene con un opportuno agitatore e lasciati raffreddare. La lega fredda veniva estratta dal forno; e un pezzo di — 811 — essa, di grandezza conveniente, si poneva in uno stampo di grafite di forma circolare largo, mm. 22 e profondo mm. 2. Introdotto lo stampo nel forno (sempre ripieno di gas inerte), sì raggiun- geva la temperatura di fusione della lega e quindi si lasciava raffreddare il tutto sino alla temperatura dell'ambiente. In tal modo si otteneva per le diverse leghe una notevole costanza nel regime di raffreddamento. Cutve dellafT.c.m. (% Kake n) 010 20 30 0 So 60 +0 80 90 (00 Ge Fic. 2. Il dischetto di lega omogenea, così ottenuto, veniva con mezzi conve- nienti portato allo spessore costante di mm. 1,8 e al diametro di mm. 20. Agli estremi di due diametri ortogonali venivano saldati 4 fili di rame, che si connetterano, nel modo usuale, con una pila, ed un galvanometro per l'esame dell'effetto Hall. Il campo, nel quale il dischetto veniva introdotto, in modo che le linee di forza lo attraversassero normalmente, era uniforme e corrispondeva a circa 11000 unità C. G. S. L'uso di contatti puntiformi evita, come è stato recentemente dimo- strato dal Volterra, le gravi pertubazioni prodotte dagli elettrodi. Riportando come ascisse le percentuali di tellurio nella lega e per ordi- nate gli effetti osservati, ho ottenuta la curva della fig. 3. E evidente la concordanza di questa curva con quella trovata da Hahen per la forza termoelettrica. — 812 — Bisogna tener conto che la curva stessa può essere leggermente modifi- cata, per il fatto che, sebbene si sia lavorato con grande cura, non possono essere certo state evitate quelle cause di errore che rendono incerti i valori dell'effetto Hall nei metalli anche purissimi. Non è lecito dai soli fatti esposti trarre delle conclusioni sulla natura dell'effetto Hall; risulta però assai probabile una strettissima relazione di esso con il potere termoelettrico e con la struttura dei conduttori. Fisica. — rotazione, nel campo magnetico, di un cilindro di grafite e deduzione, per questa sostanza, del prodotto delle co- stanti caratteristiche di Drude. Nota di L. TIERI, presentata dal Socio V. VOLTERRA. 1. È noto (*) che un disco di bismuto, sospeso in un campo magnetico a 45° rispetto alle linee di forza di esso, riscaldato al centro con un pen- nello di luce, o in altro modo, tende a disporsi nella direzione delle linee di forza del campo. Invertendo il campo, l'azione non si inverte; se invece si scalda la periferia del disco, esso tende a disporsi in direzione normale alle linee di forza del campo. (') Corbino, Rend. Acc. Lincei, V, 20, ser. 5%, 1° sem. 1911, pag. 569. — 813 — Indicando con @ l'angolo che la normale al disco fa con le linee di forza del campo, con Q la quantità di calore che nel disco fluisce dal centro alla periferia, con H l'intensità del campo, con S la superficie totale del disco, come ha dimostrato il prof. Corbino, il momento della coppia agente sul disco è dato da: dr PRAIA M=- UQSH*sen2, in cui U è un coefficiente caratteristico della sostanza di cui il disco è formato. Per a= 45°: Cioè la coppia è massima quando il disco è a 45° rispetto alle linee di forza del campo. Il coefficiente U dipende dal prodotto dello scarto della legge di Wiedemann e Franz, del coefficiente del fenomeno galvano - magnetico di Ettingshausen e della conducibilità o della sostanza che costituisce il disco. Ne viene di conseguenza che, per due sostanze diverse, quando siano eguali le quantità di calore che fluiscono dal centro alla periferia, le aree, e il campo, si avrà, indicando con M e M, i momenti delle coppie che si esercitano sui dischi, e con U e U, i rispettivi coefficienti dello sostanze, (1) —= e perciò, conoscendo per l'una sostanza il prodotto 77 dello scarto della legge di Wiedemann e Franz, per il coefficiente del fenomeno galvanomagnetico di Fttingshausen (effetto termico) e per la conducibilità elettrica (dal quale prodotto dipende U), e determinando sperimentalmente M e M,, si potrà dalla (1) ricavare il valore di 77: e quindi, conoscendo due dei fattori da cui dipende U, si potrà indirettamente ricavare il terzo. — 814 — 2. In queste ricerche, invece di dare la forma di disco al materiale in esame, ho dato ad esso la forma di cilindro cavo. Il cilindro era sospeso fra le espansioni polari piatte E E, della grande elettrocalamita Weiss, per mezzo di un filo di bronzo fosforoso avente all’estremo inferiore una pinzetta con cui venivano afferrati 3 fili di bozzolo che reggevano il cilindro, avendo cura che il prolungamento del filo di sospensione passasse per l’asse del cilindro. Il cilindro e il filo di sospensione erano posti entro un tubo di vetro per preservare la sospensione dalle correnti di aria. L’ estremità superiore del filo era fissata ad un tamburo di una bilancia di Coulomb, il quale tamburo serviva per la misura degli angoli di torsione. Le letture di piccoli angoli di torsione venivano fatte per mezzo di un raggio luminoso riflesso da uno specchietto, S rigidamente connesso col cilindro sul prolungamento dell'asse. Un fascio di luce, proveniente da una lampada ad arco, veniva concentrato nel punto medio della generatrice del cilindro, appartenente al piano tan- gente al cilindro a 45° rispetto alle linee di forza del campo magnetico. La forma cilindrica è certamente quella che più si presta per le mie ricerche: sia perchè, essendo tutto simmetrico, quando si eccita il campo il cilindro non subisce rotazione; sia perchè, quando il cilindro ruota sotto l’azione del flusso di calore, la zona successivamente riscaldata conserva la stessa area e la stessa orientazione rispetto al fascio luminoso. 3. Le sostanze sperimentate furono il bismuto, la grafite artificiale della « Acheson Graphite C. Niagara », l'argento ed il rame. Tali sostanze furono tornite a forma di cilindro cavo delle seguenti dimensioni: diametro esterno cm. 2,98, diametro interno cm. 2,73, altezza cm. 3.3; e vennero ricoperte esternamente di un leggero strato di nerofumo. I cilindri di rame e di argento furono provati con un campo di 6850 gauss e concentrando sul punto medio della generatrice appartenente al piano tangente al cilindro a 45° dalle linee di forza del campo, un fascio di luce proveniente da una lampada ad arco da 20 amp. a corrente continua. Tanto per l'argento quanto per il rame non ottenni alcun effetto. Sostituendo un filo di bozzolo al filo di bronzo fosforoso, ottenni delle piccole e lente rotazioni dovute verosimilmente alla variazione di permeabilità magnetica delle sostanze in esame col variare della temperatura. Invece per la grafite l’effetto è ben netto; ed è per questa sostanza che ho paragonato l’effetto a quello del bismuto. Per un campo costante di 3400 gauss e con un pennello di luce pro- veniente da una lampada ad arco ed avente sempre la stessa intensità, si ottennero per i cilindri di bismuto e di grafite i seguenti risultati: — 815 — Retazioni in gradi del cilindro di bismuto || Rotazioni in gradi del cilindro di grafite Zona illuminata Zona illuminata A nre A B C Campo n 3 | | in RR, (1) |in senso sal (1) | ie) | (1) (2) (b | 13) 1122° 810° 900° | 764° 50/45” 53/34” D0i23% D6i204 lalylioo 800° 780° | 680° 59/84” 56/23” nOAL3% 5940, Ì Specialmente pel bismuto, le rotazioni che si ottengono invertendo il campo sono abbastanza diverse: riservandomi di esporre in seguito la causa principale a cui son dovute tali differenze, prenderò come rotazione del ci- lindro di bismuto la media fra le sei rotazioni ottenute: tale media è di 871°30'; la media per le sei rotazioni ottenute nelle identiche condizioni per la grafite è di 55'41"”. E perciò l’effetto nella grafite è 939 volte mi- nore che non nel bismuto. Indicando con D il valore della deviazione dalla legge di Wiedemann e Franz, con P il coefficiente del fenomeno galvanomagnetico di Ettingshausen e con o la conducibilità riferita all'argento (dando alla conducibilità di questo metallo il valore 60), si sa che, per il bismuto, DIL0ES08TPS10—= 508.00 0,8. Quindi pel bismuto: = 308 X 50 X 0,8 = 12320 E indicando con 77, il prodotto delle stesse costanti per la grafite, sarà: 2320 T,j=" A i n i 939 Li E quindi per la grafite: DI L0* l i T 2} RI Tx "i ù / | Lera caio aio dara * Doge TE A e) Fis. 1. posto ed il mercurio (*), si presenta come probabile l'ipotesi che la devia- zione su accennata si debba alla presenza di soluzioni solide. A 25° il campo delle concentrazioni, in cui l’amalgama risulterebbe costituita da cristalli misti, sarebbe più ristretto; e l'osservazione del primo flesso potrebbe sfug- gire all'osservazione, dato anche il comportamento poco costante degli elet- trodi ad amalgame più concentrate in calcio, che si osserva in piridina. Fenomeno consimile si verifica anche nelle amalgame di sodio: nella curva delle tensioni a — 80° in alcool metilico Haber e Sack (*), Sack (‘) osservarono un flesso a circa NaHg;,, mentre l'analisi termica presenta il composto NaHg, (*). Nel diagramma di Scholler vi è però un indizio della pre- senza di cristalli misti fra NaHg, e mercurio, ed è probabile che l’anda- mento delle tensioni sia dovuto a questo fatto. Si comprende, poi, come queste curve delle f. e. m. possano assumere un andamento poco netto e nella posi- zione e nella forma dei flessi, a causa dell'incompleto stabilirsi dell’equi- 1) loc. cit., pag. 160. ?) Cambi e Speroni, questi Rendiconti, 1914, II, 604-605. ®) Z. Elektroch. VIII (1902), 245. 4) Z. anorg. Chem. 34 (1903), 37. ) ( ( ( (5) Schéller, Z. anorg. Chem. 23 (1900), 439. — 822 — librio nella solidificazione delle amalgame stesse; a parte l incostanza delle tensioni di fenomeni di passività che spesso si verificano. Riassumendo, infine, dalla media delle f. e. m. dal 16 °/, al 20 °/, atomi di calcio abbiamo per il composto CaHg,, e per il calcio, in alcool me- tilico : — CaHgs|CaC1s 0,25 M | CaC130,25 M,HgsC1: | Hg a — 80° = — 1,810 V., da cui e4 = — 1,595 LA ” DI b) — 2,198 » — 1,983 In piridina: — Ca Hg, | Ca I: 0,0093 M | Ag NO; 0,1M | Ag a 25°9= — 1,825 V. — Ca ” | D) bi) = — 2,117 Tenendo conto dei dati in alcool metilico, per l’incostanza della ten- sione del calcio in piridina, a — 80° abbiamo una differenza, fra il calcio ed il composto CaHg,, di 0,388 Volta. Chimica. — Awidridi e amine da acidi a-amidati ('). Nota di F. GRAZIANI, presentata dal Corrispondente L. BALBIANO. In una recente Nota (*) il prof. L. Balbiano esponeva i risultati di ulteriori ricerche da lui compiute sull'anidrificazione della glicocolla, a com- plemento di quelle che già aveva fatte tino dal 1900. A ciò era stato con- dotto dalla pubblicazione, fatta nel 1913 dal prof. L. C. Maillard, di un vo- lume (*), in cui l’autore espone tutta una sua teoria a spiegazione della formazione di anidridi degli acidi @-amidati quando questi vengano riscal- dati con glicerina, e rimprovera al prof. Balbiano di non aver dato all'azione della glicerina quell’importanza che egli vi attribuisce. Nella sua Nota il prof. Balbiano esponeva i risultati ottenuti con la glicocolla eliminando, nel riscaldamento, la glicerina, ed impiegando invece idrocarburi aromatici. Per questa via egli potè « dimostrare la base poco solida dell’elegante edifizio costruito dal chimico francese », poichè, sia adope- rando la naftalina, sia usando il cimene come mezzi moderatori del calore, ottenne sempre l’anidrificazione della glicocolla. Per consiglio dello stesso prof. Balbiano, io mi sono occupato di stu- diare il comportamento di altri acidi @-amidati, quando essi vengano riscal- dati sia colla glicerina, sia in ambienti da essa differenti: ed in questa Nota espongo i risultati ottenuti coll’alanina, colla leucina, colla tirosina e colla cistina. (') Lavoro eseguito nel Laboratorio di chimica organica del R. Politecnico di Torino. (£) Rend. Acc. Lincei, 1914, I, 893. (*) Genèse des matières protéiques et des matières humiques : action de la glycé- rine et des sucres sur les acides a-aminés. Paris, Masson et C., éditeurs, 1913. Wp Dirò subito che, pur avendo riscontrato come la glicerina faciliti l’ani- drificazione, si può concludere che essa non è affatto necessaria alla forma- zione delle anidridi stesse. Basterebbe del resto il fatto che il prof. Balbiano è riuscito ad ottenere le anidridi della glicocolla col riscaldamento in nafta- lina e in cimene, e nelle stesse quantità che colla glicerina, per dedurne che tutta la bella ipotesi del Maillard è basata molto sul fantastico. Per conto mio ho potuto ottenere l'anidride dell’alanina riscaldandola con dife- nilmetano o con acenaftene; dalla leucina, riscaldata con difenilmetano, ho ottenuto in un caso piccole quantità di una sostanza, che dall'aspetto e dal punto di fusione mi sembrò di poter riconoscere per anidride; collo stesso mezzo moderatore del calore non mi è stato invece possibile ottenere le ani- dridi colla tirosina e colla cistina. Con quest'ultima, del resto, nemmeno riscaldando colla glicerina, sono riuscito ad isolare composti puri e definiti, la decomposizione essendo molto avanzata e profonda. Più in particolare dirò che, mentre l’alanina riscaldata con glicerina a 170-175° per 7 ore dà la ciclo-alanil-alanina col rendimento del 60 9/5. riscaldata con difenilmetano alla stessa temperatura anche per 26 ore, non dà affatto anidride, ma si osserva soltanto una lenta decomposizione in etila- mina e anidride carbonica: | ] CHENG SCA NE 00 LISEETTE COO: Innalzando la temperatura, aumenta la decomposizione in questo senso, tanto che nei casì più favorevoli il rendimento in etilamina può raggiungere fino 1'80 °/, del teorico: ma in pari tempo si può constatare anche la for- mazione della ciclo-alanil-alanina. Certo questa è in quantità assai inferiore a quella che si ottiene quando il riscaldamento si faccia con glicerina, non raggiungendo, nelle migliori condizioni, che appena il 9°/, del teorico. Ma tutto ciò mi sembra spiegabilissimo, quando si pensi che, nella glicerina, tanto l’alanina quanto l'anidride sono assai più solubili che in difenilme- tano: e ciò evidentemente facilita assai la reazione, permettendo di mante- nere più bassa la temperatura. Dovendo, col difenilmetano o coll'acenaftene, riscaldare maggiormente, si entra nella zona di temperatura in cui la decom- posizione dell'alanina va nel senso della formazione di etilamina con elimi- nazione di CO,: e ciò spiega l'alto rendimento in etilamina e il basso in anidride. Il caso è, del resto, assai analogo a ciò che avviene per la sarcosina. Il Mylius (*) ha potuto ottenere l'anidride della sarcosina riscaldando quest'acido (*) Ber. d. d. chem. Gesellsch., /7, 286 (1884). — 324 — alla sua temperatura di fusione, a 220°, senza l'intervento di alcun disidra- tante, e contemporaneamente ha osservato una parziale decomposizione in dimetilamina e CO; ;il Maillard ha ottenuto la ciclo-sarcosil-sarcosina riscal- dando l'acido a soli 170-175° con glicerina, « dont la présence », ammette l'A. a pag. 227 del suo volume, « a pour effet d’abaisser la température d’anhydrisation ». Anche nel riscaldamento colla glicerina, l’A. ha potuto constatare una leggerissima decomposizione in dimetilamina e CO,: ma la frazione di sarcosina che a 170-175° subisce tale decomposizione è addirit- tura minima, mentre è più notevole a 220°. Pel caso della leucina, come già ho accennato, non potei identificare in modo preciso, nel riscaldamento con difenilmetano, la formazione di anidride: ciò forse perchè la temperatura di decomposizione in amina e CO; è, per la leucina, più bassa che non per l'alanina. Infatti, mentre per questa, nel riscal- damento con glicerina a 170-175°, non ho potuto riscontrare sviluppo di vapori ammoniacali, ciò invece mi è accaduto colla leucina: oltre l’odore di cacao torrefatto indicato dal Maillard, ho potuto distintamente sentire (e l'ha notato anche il chimico francese) l'odore di isoamilamina, e durante tutto il riscaldamento si sono svolti vapori che reagiscono alcalino: e forse la piccola frazione di sostanza che il Maillard ha potuto raccogliere sulle pareti del tubo quando questo era abbastanza lungo, era carbonato di isoamilamina, che poi nei trattamenti successivi si eliminava, essendo l’amina assai vola- tile: dico questo, perchè a me non è stato possibile di verificare deposito di anidride fuori della glicerina, come ammetterebbe il chimico francese. La tirosina si comporta analogamente alla leucina: riscaldata colla gli- cerina dà in prevalenza l’anidrificazione, e solo in piccola quantità si forma lamina: mentre però questa è addirittura minima e svelabile solo dall'odore e dalla reazione alcalina dei vapori quando il riscaldamento si fa a 170-180°, aumenta sino a poterne isolare una piccola quantità quando si aumenti la temperatura. Adoperando poi il difenilmetano in luogo della glicerina, si ottiene l’'ossifenil-etilamina, nella quantità quasi teorica: HOC. H,.CH,.CH.COO0H — HoOC,H,.CH,.CH,NH, +C0,. NH, Infine, come ho già accennato, alcuni tentativi fatti colla cistina, riscal- dandola sia con glicerina, sia con difenilmetano, non mi hanno condotto ad alcun risultato positivo. In ambedue i casi la cistina subisce una profonda decomposizione, per cui si ha sviluppo di H,S, di NH3, di CO,, deposito di solfo, e un residuo carbonioso: ma ogni tentativo per isolare o un'anidride o un'amina solforata, è stato vano. Non posso però escludere assolutamente che si formino piccole quantità di queste sostanze, per quanto non possano essere che minime, dato che la maggior parte dello solfo sì riscontra o libero o svolto sotto forma di H.S: e d'altra parte sarebbe assai difficile l’ isolarle, e (0123) cer dato lo stato d'impurezza in cui si trovano alla fine della reazione, e le pic- cole quantità di sostanza con cui si è lavorato. Da quanto ho brevemente suesposto, mi sembra di poter confermare che per la formazione delle anidridi degli acidi «-amidati non è necessaria la presenza della glicerina. Essa, come mezzo moderatore di calore, per la sua avidità per l'acqua e pel fatto che un poco scioglie sia gli acidi amidati sia le loro anidridi, facilita maggiormente l’anidrificazione, permettendo di operare a temperature più basse: ma in realtà non si tratta che di tempe- ratura. Per ciascuno di questi acidi amidati esisterà una temperatura (più bassa) alla quale sarà massima l'anidrificazione, ed una (più elevata) alla quale sarà massima invece la formazione dell’amina: ad ogni temperatura intermedia saranno possibili le due reazioni insieme. È evidente che quando intervenga un altro agente a facilitare una delle reazioni, questa prevarrà anche in un intervallo di temperatura fuori della sua zona propria: tale è il caso della glicerina, che, avida di acqua e in parte solvente, facilita la formazione dell'anidride. PARTE SPERIMENTALE. Alanina. — L'a-alanina adoperata era sintetica, della Ditta C. A. F. Kahlbaum: si presentava in belle fogliette bianchissime, di sapore dolce, e fondeva a 283-284° con decomposizione. Innanzi tutto ho preparato della ciclo-alanil-alanina col procedimento del Maillard: l’ho ottenuta con rendimento presso a poco identico a quello del chimico francese: purificata per cristallizzazione dall'alcool, si presenta in begli aghetti bianchi, P. F. 279-280° (non corr.). Durante il riscaldamento dell'alanina con glicerina a 170-175° non ho constatato sviluppo di vapori ammoniacali. In seguito mi sono occupato di vedere quale fosse il comportamento dell’alanina, quando essa venga riscaldata con degli idrocarburi: e fra questi il difenilmetano si è mostrato il più conveniente. Il difenilmetano impiegato era della Ditta Th. Schuchardt: bolliva tra 256° e 262° a 735""; siccome fonde a 26°, si può facilmente averlo liquido, e così maneggiarlo più comodamente. Il riscaldamento si faceva in provette lunghe 30-32 cm., del diametro interno di 20-22 mm.,-e chiuse con tappo pel quale passava un tubo più stretto (circa 6 mm.) e altrettanto lungo, allo scopo di condensare i vapori di difenilmetano od altri prodotti volatili che eventualmente si formassero. Per mezzo poi di un altro tappo forato s'introduceva il tubo più largo nella stufa, per circa metà della sua lunghezza: per un altro foro del tappo stesso passava un termometro che indicava la temperatura di riscaldamento. Con un saggio preliminare, nel quale gr. 0,5 di alanina vennero riscal- dati per 3 ore con ce. 10 di difenilmetano, aumentando lentamente la tem- RENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 105 — 826 — peratura fino a 265°, ho potuto stabilire la sublimazione di carbonato di etilamina (') nella parte fredda del tubo, e la tormazione di un poco del- l'anidride, che cristallizza in aghetti dal difenilmetano raffreddato: inoltre durante tutto il riscaldamento si è avuto sviluppo di vapori ammoniacali, e nella parte media del tubo si è depositata una piccola quantità di alanina sublimata. Col variare le condizioni del riscaldamento, si ottengono risultati assai differenti. Così ad es., mantenendo anche per un tempo complessivo di 26 ore una miscela di gr. 1 di alanina con ce. 15 di difenilmetano ad una tempe- ratura di 170-175°, si nota continuamente un lento sviluppo di etilamina; ma quasi la metà dell'acido rimane inalterato, e non mi è riuscito di iso- lare nemmeno tracce di anidride. Risultati assai migliori si ottengono, qualora si riscaldi a temperature più elevate. Sempre con 1 gr. di alanina riscaldato rapidamente fino a 270° (in meno di 2 ore), si ottenne una soluzione completa; e per raffreddamento si formarono in seno al difenilmetano dei fiocchetti assai leggeri, costituiti da aghetti finissimi, che raccolti su filtro, liberati completamente dall’ idrocar- buro con ripetuti lavaggi con benzolo bollente, e poi seccati a 100°, ammon- tavano a gr. 0,07. Si sciolgono in acqua calda, lasciando un piccolissimo residuo (forse una polianidride); e la soluzione acquosa, bollita con ossido di rame precipitato, non dà affatto colorazione azzurra. Per evaporazione del solvente si riottengono degli aghetti bianchi, solubili in alcool bollente: come si vedrà fra breve, sono della ciclo-alanil-alanina. D'altra parte, sulle pareti della parte superiore del tubo si era deposi- tata una massa cristallina bianca, soffice, di odore pungente: ammontava a gr. 0,64: era solubilissima in acqua, e con HCl dava forte effervescenza con sviluppo di CO,. La soluzione cloridrica, concentrata e seccata nel vuoto su acido solforico e calce sodata, lascia come residuo dei begli aghi bianchi, che l'analisi ha mostrato essere cloridrato di etilamina. Durante il riscaldamento, avendo fatto gorgogliare i vapori in una solu- zione di acido cloridrico diluita e in acqua di barile, questa ha dato intor- bidamento indicandomi lo sviluppo di CO», e per evaporazione dell’altra lo potuto isolare gr. 0,02 di cloridrato di etilamina. Infine nella parte media del tubo erano sublimati gr. 0,03 di alanina inalterata. In altre condizioni di riscaldamento le quantità di anidride ottenuta variarono da gr. 0,015 a gr. 0,06, sempre lavorando con 1 gr. di alanina. Il miglior rendimento in carbonato dell'amina (gr. 0,80), l'ottenni introdu- cendo il tubo nella stufa a 140°, poi riscaldando lentamente (nello spazio (4) Limpricht u. Schwanert (Lieb. Ann. 102, 297) ottennero già, colla distillazione secca dell’alanina, la formazione di etilamina: ma non dicono con quale rendimento. — 827 — di 1 ora) fino a 260°, e per un’altra ora fra 260° e 267°, In queste condi- zioni si ebbero soltanto gr. 0,03 di anidride, e gr. 0,03 di alanina rima- sero inalterati. Risultati del tutto analoghi ottenni usando acenaftene in luogo del dife- nilmetano. Si ha però l'inconveniente che, nel raffreddamento, l’idrocarburo sì rapprende in una massa durissima, che poi più difficilmente sì riesce ad eliminare coi lavaggi con benzolo. Tutte le porzioni di ciclo-alanil-alanina ottenute nelle diverse prepara- zioni, furono riunite e cristallizzate dall'aleool: si ebbe l'anidride pura in aghetti bianchi, che fondevano a 277-278° (non corr.: il Maillard dà come P. F. 282-282°.5 corr) All’analisi, gr. 0,1850 di sostanza diedero gr. 0,3456 di CO» e gr. 0.1186 di H;0. Trovato Calcolato per Ce H100s N» © % 50,94 50,70 He 7,12 7,04 D'altra parte si riunirono tutte le porzioni di cloridrato di etilamina ottenuto sciogliendo il carbonato in acido cloridrico: dopo purificazione per cristallizzazione dall'acqua, si trasformò nel cloroplatinato, che si presenta in fogliette giallo-aranciate. gr. 0,1644, calcinati, lasciarono come residuo gr. 0,0640 di Pt. gr. 0,1706 diedero ce. 8.4 di N, letti su KOH a 19° e 734, Trovato Calcolato per (Cs H; . NHs. HC1)? Pt C1* LG 38,95 39,03 N09/ 5,44 5,60 In una prossima Nota riferirò i risultati sperimentali ottenuti colla leu- cina, colla tirosina e colla cistina. — 828 — Chimica-fisica. — Sulle velocità delle trasformazioni fototro- piche ed i loro coefficienti di temperatura con luci monocroma- tiche ('). Nota di M. PapboA e A. ZAZzaARONI, presentata del Socio G. CIAMICIAN. I. In una Nota precedente (?) si è potuto dimostrare, con sufficiente approssimazione, che i processi di coloramento, alla luce, di due sostanze foto- trope, la saliciliden-f-naftilamina ed il fenilidrazone della benzaldeide, se- guono la legge di massa come reazioni monomolecolari e che lo scoloramento per opera del calore ha luogo secondo quanto richiede una reazione bimole- colare. Ben lontani dal voler generalizzare tali conclusioni per altre sostanze fototrope. abbiamo creduto conveniente di esaminare sotto il medesimo punto di vista altri corpi appartenenti ad altro tipo, che nettamente si staccasse da quelli finora considerati. A tale scopo giunsero assai a proposito le osser- vazioni di Stobbe e Mallison (5) sopra una nuova serie di derivati fototropi provenienti dall'acido p.p.diamido-stilben-0.0.disolfonico : (4) (4) H:N\ UNE; SH, CH== Hi Hg H0,S7 di (1) \s0,H (2) (2) Basta trasformare quest'acido nei suoi derivati acetilici e benzoilici per ottenere composti fototropi, come lo sono i loro sali potassici, sodici ed altri. Sulla fototropia di queste sostanze ha un'azione determinante, secondo i detti autori, l’ossigeno; ma non si può vedere se trattasi di azione chimica, cioè se questo gas si combini oppure se agisca cataliticamente, perchè bastano delle traccie minime di ossigeno a far comparire la fototropia. Per le nostre esperienze abbiamo scelto il sale sodico del diacetilderi- vato, che si colora intensamente in rosso porpora. Ma prima di render conto delle misure di velocità, vogliamo dire della preparazione di queste sostanze, per la ragione che gli autori citati non hanno dato indicazioni. Siamo partiti dal p.nitrotoluolo, che venne trasformato iu (') Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica Generale della R. Università di Bo- logna. (*) M. Padoa e T. Minganti, questi Rendiconti, 1913, III, 500. (*) Berichte, 1913, pag. 1226. — 829 — acido p.nitrotoluolsolfonico trattandolo con acido solforico fumante, per qual- che giorno, a moderato calore. Per averlo puro, si diluisce con acqua, sì satura con carbonato di bario, si cristallizza il sale di bario dall'acqua, e si mette in libertà l'acido con acido solforico. Questa sostanza fonde, anidra, a 130°, e, idratata (2 H,0), a 1339; essa venne ossidata facilmente ad acido p.p.dinitrostilbendisolfonico con soda e ipoclorito sodico ('). Per la riduzione, si sarebbe potuto impiegare il metodo elettrolitico, ma abbiamo pensato di ricorrere al solfato ferroso in presenza di ammoniaca, che si presta bene per l’analoga riduzione dell'acido o.nitro- cinnamico (*). Questo metodo ci servì egregiamente: in una soluzione acquosa concentrata di ammoniaca sciogliemmo una parte di acido dinitrostilbendi- solfonico e versammo tale soluzione in una soluzione bollente di 10 parti di solfato ferroso cristallizzato satura di ammoniaca. Dopo un riscaldamento di mezz'ora, filtrammo, concentrammo e aciditicammo con acido cloridrico. Così precipita l'acido p.p.diamidostilbendisolfonico, che può essere purifi- cato sciogliendolo in ammoniaca e riprecipitandolo con acido cloridrico. Venne acetilato facendolo bollire molte ore con anidride acetica in presenza di acetato sodico anidro fuso. Il diacetilderivato si purifica sciogliendolo in carbonato sodico e riprecipitandolo con acido acetico. È una polvere cristallina gialla, insolubile in acqua, solubile negli alcali. Il sale sodico lo ottenem:no dall’acido salificandolo con carbonato sodico ; cristallizza bene dall'acqua calda. Non fonde; puro e seccato a 100°, questo sale aveva il contenuto d'azoto corrispondente alla composizione preveduta, come sì vede dall’analisi : N° calcolato 5,60. » trovato 5,76 Il sale sodico, come abbiamo detto, si colora intensamente alla luce; ma durante le nostre misure ci siamo accorti che l'intensità della colora- zione e la velocità di coloramento dipendono dallo stato d’idratazione del sale, il quale è notevolmente igroscopico. Quando, dopo averlo cristallizzato dall'acqua, lo si secca su acido solforico, non perde l’acqua di cristallizza- zione. Ciò risulta dalle analisi: N°/ calcolato 4,90 Sodio °/, calcolato 8,06 » trovato 4,80 ” trovato 7,86. I valori calcolati corrispondono ad un contenuto di 4 H,0 per una mol. del sale. Più che la quantità dell'acqua, a noi interessava di conoscerne l’ in- fluenza sulla fototropia; e per fissare la costanza della quantità d'acqua dal (*) Suppl. Beilstein, II, 118, Berichte, XXX, 3100. (*) Gabriel, Berichte, XV, 2294. — 330 — principio alla fine d'ogni misura, abbiamo veduto che il mezzo migliore era quello di chiudere il sale sodico in un tubetto fuso alla lampada. La scala colorimetrica necessaria per le misure non si potè preparare con la stessa sostanza, data la rapidità dello scoloramento che ha luogo a temperatura ordinaria; ricorremmo perciò a miscele di due polveri preparate in modo da rassomigliare perfettamente, per tono ed intensità di colorazione, al sale sodico illuminato e scolorato. Queste polveri erano costituite: la gialla, di carbonato di magnesio, e cromato potassico; la rossa, di carbonato di magnesio, rosa bengala A.T., eritrosina e vesuvina. Data la loro densità pressocchè identica, le pesate ave- vano lo stesso valore come se si fossero potute preparare le miscele col sale sodico illuminato e scolorato. Le esperienze di coloramento fatte a temperatura ordinaria, colla luce solare, diedero i seguenti risultati : Grado di trasformazione tempi in m” KI | 1/s rosso 8 0.0417 I Ro ” 23 0,0434 3, >» 67 0.0447 | 1, N 7 i 0,0477 lo, » 20 00500 | Sh ” 60 0.0500 \ 1/, ” 11 0,0303 He te ” 32 0.0312 13, > 98 0.0306 | Ha, ” 20 0,0166 IV (Ul ” 60 0,0166 | 8/4 ” 118 0,0169 Le costanti K"I sono calcolate ammettendo che il coloramento avvenga con la velocità di una reazione bimolecolare; in ogni serie la costanza è sod- disfacente: da una serie all'altra si hanno variazioni dovute alla diversa intensità della luce solare. Per il coefficiente di temperatura trovammo fra —10° e 20° un rapporto, per intervalli di colorazione uguali, di 1,21; per un intervallo di 10° il coefficiente è naturalmente K =/1,21 = 1,07. — 831 — Lo scoloramento segue con la velocità di una reazione monomolecolare, come si vede dalle esperienze seguenti: Grado di trasformazione tempo in m” K \'/ giallo 12 0,01082 LR 30 0,01004 sa Î 3Jj >» 60 0,01004 Hi ’ 8 0,01548 adi 18 0,01677 Sei 36 0,01677 de. 5 0,02477 Lo oe 12 0,02508 Ai i AO 23 0,02517 as, 7-8 0.01650 sà E 20 0,01505 i 40 0,01505 \ Aia ” 20 0.0619 se LC, 42-48 0,0706 i | 3/, : 94 0,0621 Da queste stesse esperienze si calcola il coefficiente di temperatura, che è circa 1,65; i valori di questi coefficienti, tanto per il coloramente quanto per lo scoloramento, sono simili a quelli ottenuti per altre sostanze foto- trope. In questo caso si potrebbe ammettere che il coloramento fosse dovuto ad una polimerizzazione provocata dalla luce ; il calore provocherebbe la depo- limerizzazione; e l'equilibrio sarebbe definito dalla Kx == dove I è l’intensità della luce. Con tutto questo non è risolta la questione se si combini ossigeno alla sostanza fototropa: ciò non è rilevabile dalle nostre misure, poichè noi abbiamo operato in presenza di un eccesso di ossì- geno, senza tener conto della sua concentrazione. II. In tal modo avevamo condotto l'esame delle sostanze di Stobbe e Mallison allo stesso punto di quanto si era fatto per altri corpi fototropi. Ma la straordinaria singolarità delle reazioni fotochimiche ci suggerì altre esperienze. Assai recentemente, in una interessante ricerca sulla reazione foto- chimica di Ciamician e Silber, N Cio am CH, — 832 — Weigert e Kummerer (*) (Berichte, 1913, pag. 1207), trovarono che in solu- zione acetonica tale reazione sembra avere un meccanismo diverso a seconda della lunghezza d’onda della luce agente, talchè, se il processo obbedisce, entro certi limiti di concentrazione, alla legge di massa come reazione del primo ordine, con luce violetta, sembra essere dell'ordine zero (velocità indi - pendente dalla concentrazione) con luce ultravioletta. Ora noi abbiamo voluto eseguire delle misure di velocità di coloramento con luci monocromatiche, o almeno limitando la luce agente ad un intervallo ristretto di lunghezze d’onda, per vedere se il processo seguiva con le mede- sime leggi cui obbedisce con la luce bianca. Ci servimmo di tre filtri (?): colore composizione zona luminosa (4) massimo d’intensità (4) | CuCl, verde K,Cr0, 540-505 583 cristalvioletto 4 bleu CuSO, 478-410 448 violetto metilvioletto 437-394 —_ Gli intervalli di lunghezze d'onda segnati nella terza colonna dipendono dalla concentrazione delle soluzioni, e furono da noi determinati per le con- centrazioni e gli spessori di liquido impiegati. Adoperando le usuali vaschette a faccie parallele, anche la luce solare era insufficiente per colorare le nostre sostanze; pensammo allora di riempire, coi liquidi filtranti, dei palloni sfe- rici di vetro che ci servivano al doppio scopo di filtrare e di concentrare la luce in fuochi intensissimi. Per le luci verde e bleu, in cui occorrevano due liquidi filtranti, impiegammo due palloni, uno dietro l’altro; con tale dispo- sitivo ci potevamo benissimo servire anche di una comune lampada ad arco a corrente alternata, a regolazione automatica. Col sale sodico dell'acido diacetildiaminostilbendisolfonico eseguimmo le seguenti misure con luce bleu: grado di trasformazione tempo in m” TSI bi rosso i) 0,0476 1/9 ” 20 0,0500 SA ” 513) 0,0555 I valori di KI sono calcolati per una reazione bimolecolare; la loro sufficiente costanza prova che tutto procede come per la luce bianca. (1) Che l'obbedienza alla lezge di massa sia messa in forse per reazioni fotochi- miche, è cosa nota per altri casi [vedi ad es. Inther e Forbes, Am Soc. XXXI (1909), pag. 777]. (*?) Plotnikow, Photochemische Versuchstechnik (1912), 56. — 833 — Assai più numerose sono le seguenti esperienze, eseguite sulla salicili- den-8-naftilamina: ritornammo a questa sostanza ('), per la maggior stabi- lità della sua forma rossa. Luce adoperata Grado Temper. Coeff. Tempo KI di trasform. di temper. in m” I Verde 1/, rosso 40° | 925 0,0028380 ” oe ” Î 1.80 415 0 00252 ” SPE, I pr 1580 0,00261 ” a I, 50° \ 180 —_ {--- 1,80 » l/,j n 60° 100 0.07489 È la > n | 165 230 0.07896 ” ad, È 254 455 0,0793839 i» 70° | 57 Di II Bleu SEO. 14° 120 0,061 ” 1/, n ” 285 0,0633 ” duale ” 570 0,0634 È ia 40° 92 De ” 3, n 50°%....1.45 61 -_ ” 3/,j, » 60° 43,5 —_ III Violetta !/, » 50° | 330 0,02270 - b/n ” 750 0,02408 ” 3/, » )....1,99 1495 0,02416 , i, 60° | 235 i ” tg ” 550 —_ Da queste misure si rileva che, per ognuna delle tre luci colorate, la colorazione procede come una reazione monomolecolare, essendo i valori K"I calcolati in base all'espressione relativa. Per ciò che riguarda l’azione della luce verde, notammo che, a temperatura ordinaria, essa è estremamente lenta, sicchè credemmo di dover rinunciare alle misure; fortunatamente ci siamo accorti che, elevando la temperatura a 50° e oltre, anche la luce verde agisce bene. Da questo fatto fummo condotti a supporre che il coefficiente di tem- peratura per la velocità di coloramento con luce verde fosse maggiore di quello già ottenuto per la luce bianca: questo, già determinato più volte in passato, ha, per temperature da 0° a 30°, il valore 1,42. Ora noi troviamo. con la luce verde, 1,80 da 40° a 70°, e (ciò che è più notevole), pel medesimo intervallo abbiamo 1,45 per la luce bleu, che (*) Padoa e Minganti, loc. cit. RenpIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 106 — 834 — è quella che agisce più rapidamente. e 1,39 per la luce violetta. Che le nostre esperienze siano affètte da errori tali da alterare sostanzialmente il carattere dei risultati, non è ammissibile, sia perchè questi dati sono con- fermati da altre misure qui non riportate, sia ancora perchè, con un coeffi- ciente di 1,45, in un intervallo di 30°, il tempo necessario per una data trasformazione risulta érplicato, mentre con un coefficiente di 1,8 detto tempo risulta sestuplicato: la differenza è così grande da togliere qualsiasi dubbio in proposito. Con questo si comprende perfettamente il valore otte- nuto con la luce bianca: infatti, l'incremento della velocità di coloramento colla temperatura assume qui il valore che compete alle lunghezze d'onda più attive. Si noti che i coefficienti di temperatura per le reazioni fotochi- miche sono in generale vicini all'unità, e che il valore 1,4 è dei più alti; ma occorre poi mettere in rilievo il fatto che le osservazioni fatte finora si riferiscono (almeno per quanto ci risulta dalla letteratura) alla luce bianca. Non sarebbe dunque da stupire se un più accurato esame delle reazioni fotochimiche ci rivelasse l’esistenza, per certe lunghezze d'onda, di coefficienti di temperatura piuttosto elevati. Della questione dei coefficienti di temperatura delle reazioni fotochi- miche si è occupato, dal punto di vista teoretico, il Trautz ('); ammettendo, con Wien (?), che, nel senso termodinamico, sia lecito di far corrispondere, ad ogni lunghezza d'onda, una temperatura; e precisamente ammettendo che, per le langhezze d'onda minori, le molecole reagenti siano portate alle tem- perature maggiori, e viceversa, Trautz crede di poter prevedere che i pro- cessi fotochimici attivati da luci di grande lunghezza d’onda debbono essere caratterizzati da coefficienti di temperatura elevati, mentre le reazioni sen- sibili alle brevi lunghezze d’onda debbono avere dei coefficienti vicini al- l'unità. Questo autore anzi cercò, fra varie reazioni, quelle sensibili alla luce rossa, e trovò che lo sono l'ossidazione del solfuro sodico e quella del piro- gallolo in soluzione alcalina. Senonchè, il fatto che queste non sono delle reazioni fotochimiche pure,. procedendo esse, sebbene più lentamente, anche al buio, rendeva assai incerti i dati sui coefficienti di temperatura, specialmente prima che Plotnikow (*) riuscisse a distinguere le velocità indipendenti dei due processi che si sovrappongono. Ciò che ora noi troviamo sarebbe la prima conferma sperimentale delle previsioni di Trautz, ottenuta in un processo puramente fotochimico. (*) Zeitschrift fir Wissenschaftliche Photographie und Photochemie (19: 6), IV. 351; (1908), VI. 168 e 331. (2) Wied. Annalen (1894), 52, 152. Vedi anche Warburg, Verh. der Deutschen Physikal. Gesellschaft (1907), 753: (1909), 654. (*) Zeitschrift fin Physikal. Chemie 64, 215. — 8959 — Su questo punto sorge una quantità di interessanti questioni riguardanti ì coefficienti di temperatura di reazioni fotochimiche con luci monocromatiche ; e noi ci proponiamo di esaminare da questo lato parecchie delle fotoreazioni già note, oltre ai casi di fototropia che si dimostreranno più adatti per questo genere di esperienze. Chimica-fisica. — Sull'entropia nei corpi solidi, e sue rela- zioni con altre grandezze fisiche. Nota del prof. STEFANO PA- GLIANI, presentata dal Corrispondente L. BALBIANO. In un recente studio sulla entropia dei corpi condensati (corpì solidi e liquidi) e sulle sue variazioni nei cambiamenti di stato di aggregazione, sono giunto ad alcuni risultati, relativi ai corpi solidi, che conducono a qualche nuova relazione fra la termodinamica classica e la moderna teoria cinetica dei calori specifici, nonchè a nuove espressioni per calcolare il nu- mero di oscillazioni nel moto vibratorio molecolare dei solidi. Ho calcolato i valori dell'entropia assoluta alla temperatura di fusione dei corpi solidi, semplici e composti, per i quali ho potuto trovare i dati sperimentali sui calori specifici occorrenti. Il calcolo è stato fatto mediante l’espressione data da M. Planck (') e fondata sul teorema di Nernst, enunciato nella forma che l'entropia di un corpo condensato, chimicamente omogeneo (so- lido o liquido), tende al valore zero alla temperatura dello zero assoluto. I valori di S, ottenuti per 26 corpi semplici alla temperatura di fu- sione, sono indicati nella quarta colonna (S,) della seguente tabella, mentre nella seconda (m) sono scritti i coefficienti atomici, e nella terza (T,) le tem- perature assolute di fusione. In detta tabella gli elementi sono ordinati in gruppi secondo la classificazione di Mendelejeff, colle moditicazioni del Branner, e nell’ordine crescente dei coefficienti atomici. Una relazione generale, che emerge subito dai valori della entropia alla temperatura di fusione, si è che essi, per i diversi elementi, tendono a diminuire col crescere dei coefficienti atomici. La detta relazione si veri- fica esattamente per i termini dei singoli gruppi del sistema di Mende- lejeff, quando si classificano separatamente i metalli dai metalloidi. Non si ottiene però un prodotto costante moltiplicando i valori dell’en- tropia per i corrispondenti coefficienti atomici, nemmeno nei singolì gruppi. (1) Veber neuere thermodynamischen Theorien, Deutsch. Chem. Ges, Berlin 1911. mn n | Sh | d n da So n Lib 6.94 453 1.824 | 0.576* 3.52 0.38 0.869 Na . 23.0 371 0.494 | 0.953* 1.88 0.36 0.399 K%. 39.1 35 0.290 | 0.852* 0.82 0.35 0.251 Za .. .| 65,8 688 0.240 | 6.896 1.58 0.16 0.144 Cd. Ii 594 0.122 | 8.366*% 0.97 0.13 0.077 Hg. . .| 200.6 234 0.067 | 14.193* 0.45 0.15 = e ROZA] 898 0.507 | 2.442 2 58 0.19 0.226 TI. . .| 204 563 0.105 | 11.540 0.64 0.16 0.074 SARE O 506 0.097 | 7.184* 0.81 0.12 0.062 Pb... .| 207.1 598 0.094 11.005* 0.60 0.16 0.069 Ph... .| 3104 317 0.302 | 1814* 1.25 0.24 0.267 Sb... .| 1202 905 0.121 6.490 1.21 0.10 0.086 Bi. . .| 208 540 0.058 | 9.673* 0.58 0.10 0.086 SER E007 388 0.291 2 046 1.89 0.21 0.228 Or. | ‘(520 1788 0.389 | 6.500 2.98 0.18 0 096 CI. ..| 38546 169.5 oder | = se sa de. Br... 7992 266 0.115 = i, ES I... .| 126.96 386 0.118 4.549 0.57 0.21 0.109 Fe .. .| 55.84 | 1808 0.397 | ‘7.973 2.56 0.15 0.124 Ni .. .| 58.68 | 1724 0.375 | 8.240 9.82 0.13 0.096 ta or.) 1763 0382 | 8.000 281 0.13 0.100 Ca...| 6857 | 1858 0.290 8.380 2.85” 0.12 0.117 Pd ...| 106.7 1778 0.215 | 10.877 1.90 011 0.078 Ag .. .| 107.88 | 1285 0.191 | 10.000 1.50 0.18 0.093 ro Ve 2052 | 0.125 | 20.274 1.52 0.08 0.044 Au. . .| 1972 335 | 0.087 | 18.452 1.18 0.07 0.035 Quindi non è esatto quanto afferma il Tammann ('), cioè che l'entropia per atomo-grammo nei metalli prima della fusione sia indipendente dal metallo. Questa conseguenza mi sembra trovi spiegazione nelle seguenti conside- razioni : Le moderne dottrine atomistiche hanno condotto, per diverse vie, alla determinazione del numero di particelle, di molecole, che possono essere monoatomiche o poliatomiche, contenute nella molecola-grammo di un corpo : il numero di Avogadro. D'altra parte, secondo Richarz, A. Magnus e F. Lin - demann (*), i metalli allo stato solido sarebbero monoatomici. Ora, il nu- mero di tali atomi, esistente nell’unità di massa di un elemento, varia in ragione inversa del coefficiente atomico. Si comprende quindi la diminuzione nel valore della entropia dell'unità di massa nello stesso stato fisico dei di- versi corpi semplici, al crescere dei loro coefficienti atomici. Inoltre, secondo (1) Zeitschr. f. phys. Chem. 85 (1918). (*) Zeitschr. f. Elektrochemie, /0 (1910). — 837 — la teoria elettronica, nei corpi solidi gli atomi, benchè occupino delle posi- zioni presso a poco invariabili, gli uni rispetto agli altri, tuttavia sono do- tati della possibilità di vibrare o di orientarsi attorno alle loro posizioni di equilibrio, e della proprietà di emettere dei corpuscoli, elettroni, che cir- colano negli interstizi esistenti fra atomi neutri e joni positivi. Ora la massa a natura chimica di questi atomi e joni è diversa per i diversi corpi; le forze, che si esercitano fra gli elettroni e gli atomi, variano da un corpo all’altro, ed infine l'energia cinetica media di ciascun corpuscolo varia con la temperatura. Di qui si deduce non potersi presumere che l'entropia della massa, rappresentata dalla molecola-grammo, sia eguale per tutti i corpi sem- plici, neppure ad una stessa temperatura. Ciò noi possiamo vedere dai nu- meri della ottava colonna (S,) della tabella, in cui sono dati i valori del- l'entropia alla temperatura di 273°. Inoltre noi vediamo che l'andamento dei valori della entropia S,, al variare dei coefficienti atomici, risulta meno regolare, ed anzi meno evidente, per la temperatura di 273° che non per quella di fusione. E ciò perchè una stessa temperatura esterna non corri- sponde ad uguali condizioni cinetiche interne per i diversi corpi. Invece la temperatura di fusione vi corrisponderebbe per tutti i corpi solidi; sarebbe, secondo Lindemann (°), caratterizzata per tutti dalla condizione che a quella temperatura le ampiezze delle oscillazioni degli atomi intorno alla loro posizione di equilibrio diventano dello stesso ordine di grandezza della distanza media fra gli atomi. Possiamo quindi concludere che in generale, ma specialmente nei metalli, costituenti uno stesso gruppo del sistema pe- riodico o gruppi affini, i valori dell’entropia alla temperatura di fusione diminuiscono col crescere dei coefficienti atomici, cioè col diminuire del nu- mero degli atomi nell'unità di massa. Possiamo arrivare ad un'espressione comprensiva delle relazioni fra l'en- tropia ed il coefficiente atomico, la distanza interatomica e le caratteristiche del moto vibratorio degli atomi, se mettiamo ì risultati precedenti in rap- porto con le deduzioni della teoria di Planck e di Einstein sulla energia di rotazione intramolecolare e di oscillazione dell'atomo. 1l Lindemann. partendo dal sopraenunciato concetto della condizione caratteristica della temperatura di fusione, arrivò alla seguente espressione della frequenza del moto vibratorio atomico : SVALLI mV ls in cui K è un coefficiente determinato empiricamente, T la temperatura as- soluta di fusione, # la massa atomica e V il volume atomico. Il detto ra- dicale, indicando con 4 la densità, si può anche porre sotto la forma T'/e ds 5 mM le (1) Berl. Ber. 12, (1910); 12, 22, (1911). Phys. Zeitschr. 11, (1910); 12, (1911). — 838 — Dì qui sì vede che i valori della frequenza per i diversi corpi devono anche diminuite col crescere dei coefficienti atomici: ciò che emerge del resto anche dalla definizione della frequenza. 7 Se si calcolano i valori n del detto termine per i diversi corpi, di cui ho dato sopra i valori dell’entropia, si trova, come si vede dai numeri della sesta colonna della tabella precedente, che essi vanno pure diminuendo se- condo l'ordine dei coefticienti atomici crescenti. Nella quinta colonna (d) sono indicati i pesi specifici, alcuni calcolati mediante i coefficienti di dilatazione noti, per la temperatura di fusione ; altri, i segnati con asterisco, sono quelli determinati direttamente a detta temperatura, e tolti dalle tabelle di Landolt e Boernstein, tranne quelli del Li, Na, K, che sono dovuti a Bernini e Cantoni (’). Nella settima colonna (3) sono scritti i rapporti fra ì valori di S, ed i corrispondenti di 7. Essi dimostrano che quel rapporto si può consi- derare come sufficientemente costante per i corpi costituenti uno stesso gruppo, ed anche gruppi affini, dovendosi fare la solita distinzione fra me- talli e metalloidi. Sotto questo punto di vista i metalli si possono distinguere in tre categorie : I) categoria costituita dal gruppo dei metalli alcalini, per i quali risulta x il valore medio i — 0,936; II) id. costituita dal 2°, 3°, 4°, 6° e 1 serie dell'8° gruppo del sistema periodico: medio 2 — 0,146; III) id. costituita dal 5°, e 2* serie dell’ 8° gruppo: medi È =0,10. I metalloidi formano una categoria a parte: medio Bi 022. Possiamo quindi conchiudere, da questi risultati e dalla formola di Lindemann, che l'entropia dei corpi solidi semplici alla temperatura di fu- sione è proporzionale alla frequenza del moto vibratorio atomico. Anche Grineisen (*) ha dimostrato che l'entropia è una funzione del rapporto fra v È frequenza e temperatura, T conseguenza che venne precisata da S. Rat- nowsky (*). Così noi potremo calcolare la frequenza dell'atomo nei diversi corpi moltiplicando l’entropia per un fattore di proporzionalità, che si ottiene di- (1) Nuovo Cimento VI, 8, (1914). (£)YCAmn.dSBhys.2999(1912). (*) Ber. Deuts. Phys. Gesells. 1914. — 839 — videndo il cofficiente della formola di Lindemann per il corrispondente va- lore medio di Di A quel coefficiente furono invero dati diversi valori; ho U assunto il valore 2,12 X 10??, che è il più generalmente adottato. In tal modo risultano quattro fattori di proporzionalità, corrispondenti alle quattro cate- gorie, in cui abbiamo diviso i corpi semplici studiati: per la I 6,0; per la II 14,5; per la III 21,2; per la IV 9,6. Nella tabella seguente si paragonano fra loro i diversi valori di v X 107!°, per uno stesso corpo, ottenuti con metodi diversi. Nella seconda colonna (E.1.) sono indicati i valori calcolati da A. Einstein (') dalla sua prima espressione del calore atomico a volume costante, dedotta applicando agli atomi vibranti di un corpo solido l'ipotesi di Planck sugli oscillatori. considerandoli come oscillatori lineari. E | Cala ia e | B G medio | P Ò MEI E em Li | 7.8 Na 2.9 K. TERA Zn = — 91 36 il: — — 35 3.5 Cd = —- do7 — di - — 24 1.8 Hg . — 1.0 AI 6.8 6.7 6.8 6.0 5.6 se Tel 6.6 7.3 SD) DU Su = DATI —_ —_ 1.8 _ — t07, 14 IR bere: —_ _ 12 14 14 107; QD, 1.6 1.4 Spes — = spal _ DIR) —_ = Def, 2.6 Bife 1.2 1.8 |piccolo| piccolo| 1.2 1.5 Tr 1.2 Crea: _ = 120, TC 5.9 = = 6.8 5.6 Fe — = — 8.5 _ 5.8 Ni — — —_ — — _ — - DA Co — —_ —_ — — _ _ 5.6 Cu 6.6 0 DIS 1.9 4.7 4.4 6.7 5.9 (OI Pd — = 5.8 — 4.6 Ag 9.3 41 DIO 353) 92 34 4.3 DI 4.0 ti - — 8.1 del Dal 9.1 4.8 3.4 Did Aut, _ — 4,6 SE — les; Ph — — _ - — - 2.9 Set 5.5 3.0 — _ 2,8 15 15) 1.4 _ = 1.4 Tal Nella terza colonna (E. 2.) sono scritti i valori calcolati pure da Ein- stein, mediante un'espressione di v, fondata sulla ipotesi che le forze ela- stiche, che mantengono gli atomi nella loro posizione di equilibrio, siano (') Ann. d. Physik. [4] 22 (1907); 35 (1911). Ved. pure ARapports et discussions sur la théorie du rayonnement et les « quenta », Bruxelles, 1911. —18408= quelle stesse che si oppongono ad una diminuzione di volume del solido com- presso, e che siano dovute alle azioni mutue di atomi vicini disposti in una rete cubica (1). Nella quarta colonna (M. 4.) i valori calcolati da Magnus e Linde- mann (°) mediante una loro espressione del calore atomico a pressione co- stante, che non è altro che un'estensione di quella di Einstein, coll'aggiunta di un termine, proporzionale a T°, determinato empiricamente. Nella quinta colonna (N.) i valori calcolati da Nernst (*) colla formola trovata empiricamente da Nernst e Lindemann (‘) per il calore atomico a volume costante, la quale completa quella di Einstein, inquantochè è fon- data sull'ipotesi che un solido si comporti come un miscuglio di oscillatori, di cui una metà possiede una frequenza », e l’altra metà la frequenza 5: Nella sesta colonna (L.) i valori calcolati con la formola originale di Lindemann (?), e col coefficiente 2,06 Xx 10??. Nella settima colonna (B.) i valori calcolati da Bernouilli (9) mediante la sua espressione del coefficiente di temperatura dello effetto Volta nei me- talli in funzione della frequenza ». Nella ottava colonna (G.) i valori calcolati da Grineisen (7). mediante una sua espressione della frequenza, dedotta dal rapporto-limite fra il ca- lore atomico ed il coefficiente di dilatazione. Questi valori sono tutti sen- bilmente più alti degli altri per uno stesso corpo, ciò dipendendo dalla grandezza dei fattori numerici introdotti e dalle ipotesi, più o meno con- formi alla realtà, fatte sulla costanza di certi coefficienti. Nella nona colonna (medii) i valori medii calcolati mediante i prece- denti; e nell'ultima colonna i valori da me calcolati dall'espressione v X 107° = a S,, coi valori di «, corrispondenti alle diverse categorie dei corpi semplici, sopraindicati. Come si vede dalle due ultime colonne, i valori da me calcolati della frequenza mediante l'entropia alla temperatura di fusione, presentano una soddisfacente concordanza coi valori medii, se si considerano le differenze, talora molto grandi, che si riscontrano fra valori singoli per uno stesso corpo. Due divergenze soltanto sono notevoli: l’una per platino e oro, e l’altra per lo zolfo. Quanto alla differenza fra i valori di Bernouilli e di Griineisen (1) Ann. d. Physik. 34 (1911). (?) Zeitschr. f. Elektrochemie /6 (1910. {*) Ivi, 77 (1911); Ann. d. Physik. 26 (1911). (*) Sitzungsber. preuss. Akad. d. Wiss. (1911), pag. 494. (9) i 63 (1) 2 5) Phys. Zeitschr. // (1910). Zeitschr. f. Rlektrochemie 7/7 (1911). lot. cit (6 Kg — s4l — per Pt e Au ed il mio, faccio notare, che mentre per tutti i gruppi di me- talli i valori di v dei diversi autori confermano quanto ho detto sopra (cioè che le frequenze vanno diminuendo col crescere dei coefficienti atomici), discor- dano soltanto da tale regola i valori di Bernouilli e di Grùneisen per Pt e Au. Sembra, poi, che dall'espressione di Bernouilli si possa giungere a ri- sultati molto differenti, poichè il valore di v, da lui dato per l'argento, è il medio dei tre, 4,2-4,3-1,8, di cui il terzo, molto discordante dai due primi. Inoltre, come già si osservò sopra, l’espressione di Griineisen da va- lori piuttosto alti. Non è però da escludersi che anche i miei valori per Pt, e Au, siano piuttosto bassi, in causa dei limiti alquanto estesi della estrapo lazione, che dovetti fare per dedurre i calori specifici alle tempera- ture più alte. Quanto alla differenza notevole, per lo zolfo, fra i valori di Lindemann e mio e quello di Nernst, osservo che per conciliare le divergenze, che si osservano fra i risultati sperimentali e quelli della teoria cinetica dei calori specifici, lo zolfo rombico e la grafite si devono considerare come poliato- mici, e nelle formole di Einstein e di Nernst e Lindemann si devono intro- durre, invece di una sola, due frequenze. Anche per il valore dell’entropia si potrebbe far rientrare lo zolfo nell'ordine degli altri elementi, suppo- nendo che ad esso spetti un coefficiente atomico doppio, cioè 64.14. Se noi di- vidiamo per metà il valore di Nernst, otteniamo v = 2,75 X 10!?, valore molto prossimo ai nostri. Questi riceverebbero poi ancora conferma da quelli ottenuti da Lindemann (') mediante un'espressione fondata su considerazioni dello stesso ordine di quelle, che lo condussero alla formola più volte ac- cennate, ma in cui è introdotta l’espressione della distanza fra le superficie di due atomi vicini in funzione della costante dielettrica. Da due valori di questa dedusse i due valori 1,55 X 10+!* e 3,40 X 102, medio 2,27 .10??, valori che si avvicinano ai nostri. Chimica generale. — Influenza esercitata dai sali neutri sull’equilibrio chimico. Nota di G. Poma e di G. ALBONICO, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (1) loc. cit, RenDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 107 — 842 — Chimica fisica. — Conduttività di miscele di sali solidi (*). Nota di C. SANDONNINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. C. Fritsch (?) osservò come la conduttività di sali solidi venga enor- mente aumentata per aggiunta di piccole quantità di altri sali; in seguito, Le Blanc (*) fece notare come tali risultati non siano da ritenersi decisivi specialmente in causa del dispositivo e dell’igroscopicità dei sali usati, e dimostrò che tracce di umidità possono fare aumentare enormemente la con- duttività dei sali solidi. Le conduttività di sistemi binarî completi di sali allo stato solido venne poi recentemente studiata da Benrath e Wainofî (‘)e dal Tubandt (5). Ben- 1ath nelle sue esperienze trovò che, per coppie di sali che dànno tra loro soluzioni solide, si hanno curve di conduttività che presentano un massimo, e generalizzando credette di potere concludere che per le miscele di sali si abbia il fenomeno opposto a quello che si ha perle leghe metaliche formate da soluzioni solide, deducendone così un nuovo carattere di differenziamento tra i conduttori di prima e di seconda specie. Risulta inoltre dalle stesse esperienze che, quando due sali non dànno tra loro nè soluzione nè composti, le conduttività delle loro miscele solide si lasciano all'incirca calcolare addi- tivamente, ma che tuttavia al punto eutettico (p. es., sistema K C1 — Ag Cl) sì nota una netta variazione nei valori di conduttività. Inoltre, secondo l'autore, anche nel caso di miscibilità parziale allo stato solido (sistema KCI1— K,Cr0,) la curva delle conduttività deve ancora passare per un punto di massimo, anzichè essere calcolabile dai valori ottenuti per le miscele corrispondenti ai limiti di solubilità allo stato solido, per l'intervallo corri- spondente alla lacuna di miscibilità. Considerando queste conclusioni, appare strano dato che non intervengano altri fenomeni, che per miscele solide di sali miscibili in ogni rapporto e aventi uno ione in comune, si abbia il fenomeno precisamente contrario a quanto avviene allo stato fuso, e cioè che i valori delle conduttività, anzichè essere, come sempre nei casi studiati allo stato fuso, inferiori più o meno a quelli calcolati colla regola dei miscugli, siano superiori e tanto da passare per un massimo. (') Lavoro eseguito nell'Istituto di chimica generale della R. Università di Padova diretto dal prof. G. Bruni. (?) Wied. Ann. 60 [5], 30 (1897). (3) Zeit. f. Elektroch. /8, 549, (1912). (4) Zeit. f. phys. Chem. 64, 695, (1908); 77, 260, (1911). (5) Zeit. f phys Chem. 87, 513, 5483, (1914). — 843 — Già Tubandt (loc. cit.) fece notare come, prima di potere generalizzare tale conclusione studiare si debbano, molti altri casi oltre a quelli già studiati. In una Nota precedente (') ho dato i valori di conduttività, allo stato fuso, di tre sistemi, Pb Cl, — Pb Bra; AgC1 — Ag Br; AgCI— TI CI; scopo di questa è di esporre i valori di conduttività allo stato solido degli stessi sistemi, che si adattano abbastanza bene per le loro costituzione e perchè i componenti puri hanno, anche a temperature relativamente basse, apprezzabili valori di conduttività. Mentrechè per la determinazione delle conduttività allo stato fuso trovai molto conveniente il dispositivo usato da Arndt (*), per le conduttività allo stato solido lo trovai molto meno adatto, a causa della difficoltà di un esatto riempimento della cella dopo la solidificazione, e preferii usare un metodo ana logo a quello già impiegato dal Benrath e da Le Blanc. La miscela, preven- tivamente fusa, veniva aspirata in un tubo di vetro di diametro noto ed il più che possibile riscaldato; ed entro a questo veviva fatta solidificare, come si usa fare per la preparazione di campioni di leghe che non si prestano ad essere trafilate. I cilindretti venivano ridotti a basi parallele e di lunghezza varia secon- dochè il materiale era più o meno buon conduttore. Alle basi di questi veniva fatta aderire, mediante compressione, una sottile foglia di argento o di pla- tino per assicurare un buon contatto tra le basi stesse e gli elettrodi. Questi erano costituiti di Jamina d'argento, e venivano tenuti a contatto col cilindretto mediante una pinza di Hoffmann opportunamente isolata con mica e dischi di amianto. Il riscaldamento si faceva come al solito con un forno elettrico a resi- stenza: la misura delle temperature si compieva con un termoelemento Pt — PtRh, la cui saldatura era posta senza rivestimento nell'immediata vicinanza dei cilindretti di sali. Siccome tutti i sali usati hanno un fortissimo coefficente di temperatura, si prese ogni cura per essere certi di una buona costanza per un tempo di 20 minuti almeno. In tutte queste esperienze i sali venivano fusi e riscaldati in atmosfera di azoto. Dati le temperature di esperienza, la non igroscopicità dei sali usati, ed il modo di preparazione dei campioncini, sono da escludere i dannosi effetti di tracce di umidità. Ricordo che daì diagrammi di solidificazione dei tre sistemi esperimentati, per il sistema cloruro-blomuro di piombo risulta formazione di cristalli misti del primo tipo; per il sistema cloruro-bromuro d’argento, cristalli misti del secondo tipo; e per il sistema cloruro talioso-cloruro d'argento, la formazione di un composto decomponibile alla fusione della composizione 2 TI CI. Ag CI. (1) Questi Rendiconti, 23, 1° sem. (*) Zeit. f. Elektroch. /?, 336, (1906). — 844 — Cloruro e bromuro di piombo. — I valori di conduttività del cloruro di piombo puro sono in sufficiente buon accordo con quelli dati da Graetz (*); invece non mi consta che siano già state fatte misure di conduttività del bromuro di piombo nell'intervallo di temperatura, in cui ho eseguito le mie esperienze. Vennero costruite isoterme di conduttività a 200°, 250°, 300°. Nella tabella 1* sono raccolti i valori relativi a varie miscele di questi . que sali. TABELLA lA. (Conduttività specifiche). Molecole 0/9 t= 200° t= 250° ==9008 Pb Bre 0.0 0.000050 0.000140 0.00060 15.0 0.000034 0.000090 0.00040 30.0 0.000022 0.000075 0.00025 40.0 0.000016 0.000054 0.00023 50.0 0.000012 0.000040 0.00021 60.0 0.000017 0.000067 0.00024 70.0 0.000038 0.000102 _0.00034 85.0 0.000046 0.000223 0.00058 100.0 0.000081 0.000274 0.00086 Tutte le isoterme mostrano un minimo, corrispondente approssimativa- mente alla miscela equimolecolare (vedi avanti, fig. 1). Cloruro e bromuro d’argento. — Le conduttività dei componenti puri sono in accordo con quelle date da Benrath e Tubandt (Il. cc.). Vennero eseguite misure di parecchie miscele a 200°, 250°, 300°, 350°, 400°. I valori delle conduttività delle miscele comprese tra 0 e 70 mol. °/, Ag Br sono inferiori a quelli calcolati con la regola dei miscugli; per le altre miscele si hanno valori leggermente superiori, cosicchè specialmente per le isoterme, alle temperature più basse si nota un brusco salto nei va- lori di conduttività alla miscela di 30 mol°/ AgCl, in corrispondenza cioè del minimo nelle temperature di cristallizzazione. (vedi avanti, fig. 2). (1) Graetz, Wiedemm. Ann. 40, 18, (1890). — 845 — TABELLA 28, (Conduttività specifiche). Molecole “% | .—g9000 | #=250° | #=800° = 350° | £=400° Ag Br 0.0 0.00005 0.00020 0.00109 0.00520 0.0240 10.0 0.00008 0.00035 0.00168 0.00549 0.0318 30.0 0.00013 0.00066 0.00350 0.0168 0.0570 40.0 0.00016 0.00092 0.00552 0.0220 0.0755 50.0 0.00020 0.00126 0.00701 0.0320 0.120 60.0 0.00023 0.00156 0.00817 0.0370 0.140 70.0 0.00032 0.00210 0.0108 0.0425 0.164 80.0 0.00038 0.00231 00119 0.0520 0.235 90.0 0.00042 0.00240 0.0129 0.0585 0.272 100.0 0.00046 0.00260 0.0140 0.0642 0.304 Cloruro d'argento e cloruro talloso. — Venne misurata la conduttività delle miscele dei due sali solamente a 200°, non essendo possibile di far mi- sure a temperature più alte perchè la miscela eutettica a 40 mol.°/; di TI C1 fonde a 210°, nè a temperature più basse perchè i valori delle conduttività sono troppo piccoli per ottenere, col metodo usato, risultati attendibili. Il riscaldamento dei cilindretti venne fatto molto lentamente, e non venne mai oltrepassata la temperatura di 200°, dimodochè dopo l'esperienza non si osservò mai alcnn principio di fusione nei cilindretti stessi. L'isoterma di conduttività passa per un massimo corrispondente alla concentrazione della miscela eutettica (vedi avanti fig. 3). TABELLA 8. (Conduttività specifiche). Molecole °/o TIC] 0.0 15.0 30.0 40.0 50.0 60.0 70.0 80.0 | 100.0 >> JESS a 0.000050 | 0.000065 | 0.000086 | 0.000104 | 0.C00092 | 0.00C075 | 0.006065 | 0.000032 | 0.000018 >_> Riesce ora interessante confrontare i risultati ottenuti allo stato solido con quelli ottenuti allo stato fuso: per i valori numerici rispetto a questi ultimi rimando alla prima Nota apparsa in questi Atti. Per rendere più compren- sivo questo confronto, nelle tig. 1*, 2%, 82 sono riportati i risultati ottenuti tanto da misure di conduttività allo stato fuso (curve in alto) dall'analisi termica (curve intermedie), quanto da misure di conduttività allo stato solido (in basso). — 846 — Consideriamo dapprima il sistema cloruro blomuro di piombo (fig. 1). I punti di solidificazione delle miscele sono intermedî a quelli dei compo- nenti, e l'intervallo di solidificazione ristrettissimo (*), cosicchè si può rite- nere che le masse solidificate siano perfettamente omogenee. La curva di conduttività allo stato solido, riportata nella fig. 12, è quella ottenuta alla temperatura di 250°, distante cioè ancora 76° dal minimo punto di fusione del sistema (Pb Br» puro). Da questa curva risulta chiaramente come tutti i valori di conduttività trovati siano inferiori a quelli calcola- bili colla regola dei miscugli, tanto che la curva stessa passa per un mi- nimo che giace all'incirca alla miscela equimolecolare. Questo ci dice che, in tale caso allo stato solido si ripetono quei fenomeni già osservati allo stato fuso; le isoterme a 200° e 300° hanno lo stesso andamento, e si può quindi concludere che per soluzioni solide di questo tipo si ha lo stesso anda- mento che si ha in generale per le soluzioni liquide: che cioè i valori di con- duttività sono inferiori a quelli calcolabili additivamente dai componenti, contrariamente a quanto il Benrath aveva creduto di potere concludere. Nella fig. 3 son riportati i valori riguardanti il sistema cloruro-bromuro d'argento (?). L'isoterma allo stato solido è quella ottenuta a 250°. Come ho fatto già notare, in corrispondenza del minimo di cristallizzazione si ha una brusca variazione di direzione, che risulta sempre meno spiccata per le isoterme a temperatura più alta. Tale brusca variazione di proprietà in una serie continua di soluzioni solide non è facilmente spiegabile. Si potrebbe pensare ad una piccola lacuna di miscibilità allo stato solido (tipo V° limite), o ad uno smistamento delle soluzioni solide a temperatura relativamente alta, per cui le soluzioni solide ricche in bromuro d'argento andrebbero rapidamente riducendosi ad un miscuglio meccanico, mentre quelle comprese tra il 30°/ e il cloruro d'argento puro rimarrebbero inalterate. Secondo questa ultima supposizione, alle temperature alle quali vennero mi- surate le conduttività, le miscele più ricche del 70 °/, di AgBr sarebbero costituite da un miscuglio meccanico, e quindi le loro conduttività dovreb- bero essere all'incirca calcolabili colla regola dei miscugli; al contrario, le miscele più ricche in cloruro d’argento rimarebbero ancora formate da solu- zioni solide, e quindi per esse si dovrebbero mantenere le regolarità trovate per gli altri casi, e cioè la loro conduttività dovrebbe risultare inferiore alla calcolata. Curve di raffreddamento, eseguite per chiarire questo punto, con- dussero a stabilire che, all'infuori di un intervallo assai ristretto non si ha nessun altro fenomeno attribuibile o a formazione di lacuna di miscibilità allo stato solido o a smistamento di soluzioni solide. Così pure all'esame mi- crografico le masse risultarono perfettamente omogenee, cosichè la brusca va- (') Monkemeyer, N. Jahrb. f. Min. G. u. P., 30, Bb. 1. (1906). (2) Monkemeyer, loc. citato. TIMORI ‘Z ‘DIA ‘€ DU “1094 “ig qd SITI */'[ow 10 Sy Ig Sy °/ pw Ig Sy 105y IOLL ° 10 IO IL 09 (17 08 001 OF 09 08 00I OF 09 08 00I 007 008 ° condutt. t = 250° 09 00I OSI 007 condutt. t = 250° _ (=) (=) condutt. t = 200° 006 a 4 (=] (=i ° (=) temperature oe temperature sa - (=, n (i [e] / temperature $ SI 5 o a ST ° o (>) (14 °° (Si (=, n = condutt. t = 500° — 848 — riazione di direzione osservata pare attribuibile a variazioni di attrito interno in vicinanza del minimo: variazioni che in questi casi debbono avere un effetto preponderante, come vedremo subito dopo. Consideriamo ora il sistema cloruro d'argento-cloruro di tallio. Dall’ana- lisi termica risulta un composto decomponibile alla fusione della formula 2TIC1. Ag CI (*); la miscela eutettica giace a 210°, e quindi dista dalle singole temperature di fusione dei componenti puri rispettivamente 240° e 220° gradi circa. La temperatura più alta sperimentabile per questo sistema allo stato solido con sicurezza è quindi 200°. A questa temperatura le conduttività dei due sali, e specialmente quella del cloruro talloso, è molto piccola, dimodochè non si possono avere valori esattissimi; in ogni modo, è certo, da una numerosa serie di esperienze, che l'andamento delle conduttività delle miscele allo stato solido è quello dato dalla relativa curva a fig. 2. Come si vede chiaramente, i valori ottenuti sono tutti superiori a quelli calcolati dalla regola dei miscugli, tantochè la curva passa per un massimo che coincide praticamente colla concentrazione eutettica. Trascuriamo per ora il fatto che nelle masse solidificate si formi un composto; ad ogni modo, in seno alla massa stessa i componenti si tro- vano uno accanto all'altro in miscuglio meccanico. In questo caso, evidente- mente, non si può ricorrere ad una analogia colle miscele di soluzioni acquose o colle stesse miscele di sali fusi; e realmente le conduttività, se nessun altro fenomeno intervenisse, dovrebbero essere calcolabili almeno approssimativa- mente colla regola dei miscugli. Il fatto che si ha formazione di un composto nelle masse solidificate, dovrebbe in ogni caso produrre una diminuzione, nei valori trovati, rispetto ai calcolati, e mai un aumento. Fra tutte le cause che possono avere una forte influenza sulle conduttività, tali da produrre l’au- mento osservato, resta quindi una possibile variazione di mobilità ioniche; e così si può pensare che alla miscela eutettica, come quella più vicina alla temperatura di fusione, l'attrito interno della miscela stessa raggiunga il suo valore più basso, e che quindi in dipendenza di questo gli ioni rag- giungano la loro massima mobilità, dimodochè i valori di conduttività ven- gono per questa causa aumentati molto più che non vengano diminuiti per le altre cause alle quali venne antecedentemente accennato. Dalle considerazioni esposte sui fatti osservati pare quindi potersi dedurre che, quando le miscele solidificate di sali sono costituite da ’soluzioni solide che si possano considerare perfettamente omogenee, e i loro punti di solidi- ficazione, come nel caso delle miscele di cloruro e bromuro di piombo, sono (') Questi Rendic. 20, 2° sem., 588 (1911) — 849 — intermedii a quelli dei componenti, si ripetono i fenomeni trovati in gene- rale per le miscele di soluzioni o masse fuse di sali con ione in comune: le conduttività sono inferiori a quelle calcolate additivamente. Quando invece le miscele sono costituite da miscugli meccanici dei com- ponenti, non si può invocare un’analogia colle miscele di soluzioni o di sali fusi e con i fenomeni loro peculiari; e se nessun altro fenomeno intervenisse, le loro conduttività dovrebbero essere calcolabili additivamente. È ora da notarsi che, nelle curve costruite dal Benrath che presentano un massimo, praticamente questo coincide colle miscele che hanno il più basso punto di fusione del sistema (punti eutettici, minimi di cristallizzazione di soluzioni solide). Anche dalle mie esperienze nel sistema cloruro talloso cloruro d’ar- gento risulta una curva a massimo che coincide colla concentrazione eutettica. In questo sistema è assolutamente da escludere la formazione di solu- zioni solide; la presenza di un sale doppio nelle masse solide dovrebbe pro- durre una diminuzione e non un aumento nei valori di conduttività. La causa di questo aumento non può essere ricercata se non in una diminuzione di attrito interno. Queste sarà man mano tanto più piccolo, quanto più la miscela per una data isoterma, è vicina alla temperatura di fusione; e così pure per 1 sistemi costituiti da soluzioni solide con minimo, le variazioni di condutti- vità sembrano ancora doversi a variazioni di attrito interno. che avrà il suo più basso valore in corrispondenza del minimo stesso di temperatura di cri- stallizzazione. Pare quindi che si possa concludere che le conduttività di miscele di sali solidi, oltre che dalla costituzione, dipendono in principal modo dall'at- trito interno delle miscele stesse: il quale sarà tanto minore, quanto più la miscela è vicina alla temperatura di fusione. GChimica-fisica. — Analisi termica di miscele di idrati e alogenuri alcalini. IT: Composti di sodio. Nota di GrusEPPE SCARPA, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. RenpIcoNTI. 1915. Vol. XXIV, 1° Sem. 108 — 850 — Chimica. — Autossidazioni alla luce nella serie dei terpeni (*). Nota di E. SERNAGIOTTO, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. I risultati ottenuti da Ciamician e Silber nello studio dei fenomeni di autossidazione che molte sostanze presentano alla luce, mi invogliarono ad esaminare il comportamento di qualcuno dei composti appartenenti alla serie dei terpeni, sotto l’azione direttva della luce solare, in presenza di ossigeno. Autossidazione del citronellale. In 10 palloni, della capacità di 3 litri, pieni di ossigeno, vennero esposti alla luce in ciascuno gr. 5 di citronellale, purificato attraverso al suo deri- vato bisolfitico, con 100 ce. di acqua, dal giugno all'ottobre. Il citronellale scomparve quasi completamente ed il liquido assunse una colorazione gial- lognola. All'apertura dei palloni si nota forte aspirazione; il liquido è fortemente acido (per neutralizzare il contenuto di uno di essi, occorrono 83 ce. di car- bonato sodico normale). Tutto il prodotto dell’ossidazione venne distillato in corrente di vapore, fino a reazione debolmente acida del distillato, dividen- dolo così in due parti. Parte volatile. Il distillato, che ha reazione acida ed odora di pule- gone, viene neutralizzato con carbonato sodico; indi, nuovamente sottoposta a distillazione, per separare gli acidi dalle sostanze neutre. Il residuo della distillazione, che contiene i sali sodici degli acidi vola- tili, concentrato a piccolo volume e precipitato frazionatamente con nitrato di argento, dà una serie di sali la cui composizione varia tra quelle dei sali argentici degli acidi acetico ed eptilico. Le ultime frazioni contenevano molto formiato sodico, che fu distrutto facendolo bollire fino al cessare dell’annerimento. Analisi: Sostanza 4,438 mgr. danno: argento 2,001 mgr. ” 5,021 mgr. ” ” 2,714 mgr. ” 4,096 mgr. » ” 2,169 mgr. ” 3,944 mgr. » ” 2,368 mgr. ” 4,291 mgr. » ” 2,789 mgr. Trovato Calcolato per I II III IV V C:H370sAg = C,H0sAg. Ag. 45,09 47,44 52,94 60,04 64,86 45,09 64,60 (*) Lavoro eseguito nell’Istitutò di chimica generale di Bologna. — 85] — La parte acquosa volatile, contenente le sostanze neutre, venne concen- trata a piccolo volume per distillazioni successive; alle ultime operazioni si separò, nel liquido condensato, un olio giallognolo, più leggero dell’acqua, di odore fortemente aromatico (gr. 3) che distillò fra 190 e 220°, a pres- sione ordinaria. Trattato, in soluzione idroalcoolica, con un eccesso di clori- drato di semicarbazide ed acetato potassico, si combinò per la maggior parte in una massa cristallina, bianca, la quale, separata alla pompa e cristalliz- zata molte volte dall'alcool metilico, si scisse in due corpi, diversi fra loro per solubilità. Il composto predominante, che è il meno solubile, cristallizza in aghi, i quali fondono a 184-85° e corrispondono al semicarbazone del mentone (*). Analisi: Sostanza 4,667 mgr.; CO, 10,49 mgr.; H:0 4,30; ” 5,964 mgr.; azoto, misurato a 9° e 765 mm. 0,975 ce. Trovato Calcolato per Ci, Ha N30 C 62,47 62,50 H 10,31 10,02 N 19,84 19,90 In quantità minore si ottiene un semicarbazone, notevolmente più solu- bile, il quale cristallizza dall'alcool metilico diluito in prismetti, fondenti a 206-07° e che è, per la sua composizione, corrispondente ad un chetone Cio Hig80, isomero quindi del mentone e del citronellale, ma non coinci- dente, a quanto mi consta, con alcuno dei chetoni di tale formola, conosciuti finora in questa serie. Analisi : Sostanza 4,725 mgr.; CO; 10,85 mgr.; H.0 4,34 mgr.; ” 3,922 mgr.; azoto, misurato a 10.° e 761 mm. 0,581 ce. Trovato Calcolato per Ci: Ha, N30 C 62,62 62,50 H 10,28 10,02 N 19795 19,90 Non tutto l’olio, messo a reagire colla semicarbazide, si combinò con questa; rimase inalterata una parte (gr. 0,5) che, ricuperata col vapor d’acqua, non sì combinò affatto, rimettendola ancora collo stesso reattivo e lascian- dovela per 8 giorni. Nella supposizione che si trattasse dell’ sopu/egolo, il quale può originarsi, per isomerizzazione, dal citronellale (*) l'olio fu, per essere meglio identificato, ossidato con acido cromico, in soluzione acetica (3). (!) Wallach. Berichte, 28 (1895), pag. 1968 e Beckmann, Ann. 229 (1896), pag. 366. (*) Tiemann. Berichte, 29 (1896), pag. 913. (8) loc. cit. — 852 — Il prodotto dell'ossidazione, distillato in corrente di vapore, è l’ 7sopu- legone e dà un semicarbazone il quale, purificato dall'alcool metilico diluito, fonde, come quello dell’ isopulegone, a 173° (1). Analisi: Sostanza 4,799 mgr.; CO, 11,14 mgr.; H,0 4,08 mgr.; ’ 2,920 mgr.; azoto, misurato a 9° e 766 mm. 0,482 ce. Trovato Calcolato per C11 His N30 C 63,31 63,13 H 9,51 Ob N 20,14 20,10 L'acqua, distillata con l'olio sopradescritto, dava fortemente la reazione di Lieben, dimostrando la presenza di una notevole quantità di acetone; questo fu poi identificato meglio, combinandolo con la p-bromofanilidrazina, con cui esso diede il caratteristico p-bromofenilidrazone, che si ebbe, dal- l'etere petrolico, in laminette gialle, lucenti, fondenti a 93-94° (?). Analisi: Sostanza 0,1344 gr.; azoto, misurato a 16° e 760 mm.; 14,44 ce. Trovato Calcolato per Cs Hi; BrN, N 12,47 12,94. Parte non volatile. La parte non volatile, residuo della distillazione col vapor d’acqua, del prodotto totale dell’ autossidazione, reagiva fortemente acida. Filtrata dalla piccola quantità di resina formatasi e scolorata con nero. animale, diede, per evaporazione a bagno-maria, un olio denso, il quale sì rapprese, lentamente, in piccola parte, in cristalli, che, separati alla pompa, dopo purificazione dall'acqua, fondevano a 84° ed avevano la composizione dell'acido B-metiladipico. Analisi: Sostanza 6,676 mgr.; CO, 12,88 mgr. H,0 4.52 mgr. Trovato Calcolato per C7H1s 04 C 52,62 52,47 H 1,94 7,55. La parte rimasta liquida venne ripresa con acqua, in cui non si scio- glieva però completamente e la soluzione acida, filtrata dall'olio rimasto indisciolto, fu precipitata, frazionando, con nitrato di argento. Dalla frazione mediana, presumibilmente la più pura, venne messo in libertà, con idrogeno solforato, l'acido, il quale è un olio giallognolo non cristallizzabile, e che (1) loc. cit., pag. 925. (*) Neufeld, ann. 248, pag. 95. — 853 — dà un sale argentino bianco, poco solubile in acqua, stabile alla luce, cor- rispondente, per tali proprietà e per la composizione, a quello dell'acido diossicitronellico (*). Analisi: Sostanza 4,954 mgr.; CO: 7,05 mgr.; H,0 2,78 mgr.; Ag 1,725 mgr. Trovato Calcolato per Cio His 04 Ag. C 38,81 38,59 H 6,16 6:15 Ag 34.82 34.69 I sali argentici, ottenuti dalle altre frazioni, hanno composizione ana- - loga. L'olio non solubile in acqua bolle tra 122 e 158° alla pressione di 32 mm. e dà intensamente la reaziono di Lieben. Non fu, per la sua pic- cola quantità, studiato ulteriormente. Il comportamento del citronellale nell’autossidazione alla luce è dunque piuttosto complesso. Da una parte si formano prodotti di isomerizzazione, che questa aldeide dà pure o per azione di alcuni acidi e dell'anidride ace- tica, come l’isopulegolo (*),o durante l'ossidazione con acido cromico, come il mentone (3). CH.,—C=CH. CH;,-C=CH,; | | CH, CH HOC \CH. (a0)AC7 \CH, FSE RS Ha CH; LEO EIAGIE CH CH | | CH; CH; Citronellale Isopulegolo CH;—-C—CH; CH;.—CHT—CH; CH;-CHT—CH; | CH(0H) CH HOC \CH, HOC \CH, 007 \cK, | Re e | H.C CH H,C H, 2 SIA 2 1 NO Hic 6Hx CH CH CH Î | | CH; . CH, CH; Forme intermedie Mentone (*) Semmler, Berichte, 26, pag. 2257. (*) Tiemann e Schmidt. Berichte, 29 (1896), pag. 913. (*) Gli stessi; Barbier e Bouveault, Compt. Rend., 122, pag. 787; Bouveault, BI. III, 23 (1900), pag. 463. — 354 — Fra i prodotti di isomerizzazione è pure presente, in piccola quantità, un altro corpo di formula C,6H,g0, non identificato per alcuno di quelli conosciuti. D'altra parte si producono i veri derivati di ossidazione, come l'acido diossicitronellico, preparato per la prima volta da Semmler, dal- l’aldeide, per azione del permanganato diluito e freddo (1), l'acetone e l'acido f-metiladipico, che furono ottenuti dallo stesso autore per ossidazione del- l’ossiacido, col miscuglio cromico in soluzione diluita (?). | I Acetone CH, CHOH COOH Hoc, \CH. H0oc, \CH, HOOC, \CE, e Re H H H;C° H Ven Tara van CH CH CH | | | CH3 CH3 CH; Citronellale Acido diossicitronellico Acido 8-metiladipico Per idrolisi ed ossidazione meno spinta del citronellale si origina poi l'acido eptilico, che, indubbiamente, è un acido f-metilesilico. CH,—C0—CH; CH, HOOC nai H.C_/0H; CH | CH, e gli altri acidi inferiori, fino all'acido acetico ed al formico, analogamente a quanto osservarono Ciamician e Silber (*) nell'autossidazione dell'acido oleico. In genere la resa con cui si ottengono alcuni dei corpi sudescritti è molto piccola e tale che, senza il prezioso aiuto della microanalisi del prof. Pregl e della sua tecnica di lavoro, sarebbe stato impossibile di se- guire questa autossidazione, senza dover partire da ingenti quantità di materiale. (°) Semmler. Berichte, 26, pag. 2257. (?) Idem. (3) Accad. Lincei, vol. 23, 1° semestre (1904), pag. 118. — 855 — Mineralogia. — Contributo alla mineralogia sarda: sopra alcuni interessanti cristalli d'argentite e di quarzo (*). Nota di E. GRILL, presentata dal Corrispondente FEDERICO MILLOSEVICH. Argentite. — È noto che la regione del Sarrabus in Sardegna, giu- stamente celebre per la ricchezza e varietà dei suoi minerali, ha fornito, talvolta, dell'argentite in grandi ed ottimi cristalli. Di alcuni di questi splendidi cristalli, G. D'Achiardi (*) ebbe già oc- casione di fare cenno nella relazione delle sue visite aì musei mineralogici di Cagliari e d’Iglesias. Ma nessuno, finora, fra i numerosi autori che ri- cordano l’argentite del Sarrabus, ne ha mai dato, per quanto mi consta, una descrizione cristallografica alquanto particolareggiata: credo perciò non affatto privo d'interesse, considerando anche la rarità con cui l’argentite si sì trova ben cristallizzata, di fare conoscere una bellissima cristallizzazione di tale minerale, proveniente, secondo le notizie avute, molto probabilmente dalla miniera Nicola Secci (Burcei S. Vito, distretto d'Iglesias). Detta cristallizzazione, per la grandezza e perfezione dei suoi cristalli, costituisce, senza dubbio, un esemplare poco comune. Basta dire che in tutta la ricca collezione Traverso del museo civico di Genova, che pure raochiude, come si sa, tante rare bellezze mineralogiche sarde, non mi fu dato di trovarne una eguale. Il campione avuto in esame è formato da 24 magnifici cristalli, ben proporzionati, d’abito cubico, assai grandi, i quali riposano sopra una ma- trice di calcite e fluorite nella cui massa si osserva ancora dell’argentite in lamette. Il maggiore dei 24 cristalli ha, parallelamente ad uno spigolo del cubo, una massima dimensione lineare di 17 mm. circa; gli altri sono tutti di mole non molto più piccola. I cristalli sono impiantati sulla ganga per un asse di simmetria ter- naria, e rivolgono quindi verso l'alto un vertice triedro. A questa speciale disposizione non si sottrae quasi nessuno dei 24 cristalli, e perciò essa mi è apparsa assai caratteristica. (') Lavoro eseguito nell'Istituto mineralogico di Firenze, diretto dal prof. Fede- rico Millosevich. (*) Museo di mineralogia della R. Università di Cagliari, Boll. soc. geol. ital., XV, pag. 472; Museo mineralogico d'Iglesias, ibid., pag. 484. — (8506 Esaminando attentamente con la lente i diversi cristalli ho notato in essi le seguenti 5 forme semplici: h 4100}; o {111}; d {110}; JA}: 3hkU le quali si presentano così associate : h {100} 0 {111} h}100j 0111} d}110} h}100} 04111} 43110} 34% h {100} 0j111f d3110} 4AZ$ }aZ4. Anche qui, come nella /aezes cristallografica più comune dell'argentite, il cubo è grandemente prevalente sulle altre forme. Le sue facce, nei cri- stalli maggiori specialmente, sono butterate e quindi rugose; e opache sono ancora negl’'individui più piccoli ove, però, si presentano abbastanza lisce. Quelle delle altre forme, sempre poco sviluppate, ad eccezione di oc {111}, ma sono assai piane e lucentissime. Per non danneggiare il campione in alcuno dei suoi cristalli e a causa della sua grossezza, non fu possibile di prendere le misure goniometriche necessarie alla identificazione dei simboli }#2/} e {24/}. Al primo corrispon- dono molto probabilmente indici già noti, poichè è stata già osservata sul- l'argentite dei varî giacimenti una discreta serie di icositetraedri. Invece l'esacisottaedro è sicuramente nuovo per la specie, non risultandomi che sia stato trovato finora questo tipo di forma. I miei cristalli sì presentano dunque anche più interessanti perchè, re- lativamente, essi sono abbastanza ricchi di forme. Quarzo. — Dalla miniera Piccalinna, comune Guspini (Iglesias), pro- viene un campione di quarzo, in cristalli, assai interessanti per il loro aspetto fisico e abito cristallografico molto diversi dal solito. Anzitutto la loro lucentezza, anzichè vitrea, è grassa, quasi sericea, per una leggera increspatura delle facce; il colore è bianco-grigiastro e risulta causato da una speciale nebulosità esistente nell'interno dei cristalli, i quali sono, per questo fatto anche, appena traslucidi. Le forme cristalline, poi, sono tutte fortemente distorte e addirittura irriconoscibili senza preliminare misura angolare. Neanche l'orientamento cristallografico riesce possibile, mancando qualsiasi traccia di strie sulle facce di }211{, che, per conseguenza, più non si distinguono da quelle delle altre forme. L’habitus, contrariamente a quel che si verifica nel quarzo, è spicca- tamente tabolare, poichè, per dimensioni di 7 X 7 mm., lo spessore è, in alcuni cristalli, di circa 2 mm. Le facce secondo le quali è avvenuto l’ap- piattimento si mostrano rugose e sono meno piane e meno lucenti delle — 857 — altre che limitano le lamine alla periferia. Queste lamine sono sovente so- vrapposte le une alle altre, e giammai finite tutt'intorno al loro margine. Oltre a questi cristalli, d'abito affatto speciale, se ne notano altri di forma tozza, bipiramidata, con esili faccette di prisma assai lucenti, che non presentano niente di notevole all'infuori della mancanza ancora di strie tanto sul prisma quanto sui rombaedri. All'esame goniometrico si riconosce agevolmente che le facce limitanti i cristalli tabulari sono ancora quelle del prisma 3211}, e dei due rom- baedri 7 }100}, 0 }221|. f - / \ Î / 212 100 }—_7 / i / n2 / pe Sv 37 21] 7A 7A SRO di Pd /00Î Li / gi / 3 Ù 122 121 pi 7 \ 010 n° EA Adattando l'orientazione cristallografica di Goldschmidt ho disegnato, nella figura qui unita, il cristallo che venne staccato per le misure. Come risulta chiaramente, la tabularità è avvenuta secondo una faccia del rom- baedro inverso 0 }221}, e precisamente, nell'orientazione suddetta, parallela- mente alla faccia (212) o alla sua opposta. A causa della non perfetta specularità delle facce, turbata dalla pre- senza della già ricordata increspatura, le immagini luminose non sono mai semplici, ma bensì in gruppi più o meno confusi e sbavati. Ciò spiega la no- tevole divergenza che passa fra i valori angolari misurati e quelli calcolati. La ragione di tale differenza va poi, forse, anche cercata nella speciale condi- zione genetica in cui si sono prodotti quei caratteristici cristalli. Le misure fatte per il riconoscimento delle singole facce sono le seguenti, messe a confronto coi valori calcolati dell'angolo (100):(221) = 46° 15° 52”, dato dal Kuppfer ed accettato dall’Hintze (?). (*) Handbuch der Mineralogie, vol. I, pag. 1266. RenpicoNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 109 — 858 — (100): (212) = mis. 47°.0" circa; cale. 46016" 3 :(91)= », 4542 nn ” (I) 66 30 n 66 52 » :(2ID))= > 3750 » 3818 (lo): s'e » 6652 (a); 4 6080 » 60 0 (ORE 67 30 » 6652 (132); » = » 3742 » 8818 0 65 d0iclrca: » 6652 » :(000)= » 4530 » 4616 (001):(212) — 47 0 circa; 7 ’ (22Î):(010) = » 4530 "a (121):(010) = » 8758 » 3818 Ho riportato questo quadro per far vedere che la maggior parte degli angoli misurati ha realmente un valore inferiore a quello voluto dal calcolo; e quindi rimane dimostrato che, durante la cristallogenesi, vi è stata una perturbazione anche rispetto alla posizione delle facce. Chimica fisica. — Sullo stato dell'acido carbonico nel sanque. Nota IV: Sulla dissociazione elettrolitica del bicarbonato di sodio, di E. p’AgostIno e G. QUAGLIARIELLO, presentata dal Corrispon- dente FILIPPO BOTTAZZI. Nelle nostre Note precedenti, II e III, mediante misure di conduttività di soluzioni assai diluite di bicarbonati alcalini, abbiamo determinato la mobilità dello ione HCO;' per la temperatura 18° (x 4co, = 39,3) e per la temperatura 37° (u_ucoy = 58,2). Profittando di questi valori, abbiamo voluto studiare la dissociazione del bicarbonato di sodio, eseguendo misure di conduttività su soluzioni più concentrate delle precedenti. I risultati delle nostre misure sono riportati nelle due tabelle seguenti (tab. 1*: soluzioni di bicarbonato di sodio a 18° C; tab. 2*: soluzioni di bicarbonato di sodio a 37° C): dai valori della nostra seconda Nota si è ricavata la conduttività limite a 18° (= 82,9) ed a 37° (= 122,0), e, d'altro lato, profittando del fatto, riconosciuto in questo nostro precedente lavoro, che, per soluzioni abba- stanza concentrate (e cioè per concentrazioni maggiori di 0,01 mol.), si può fare a meno di qualsiasi correzione della conduttività trovata, purchè la solu- — 859 — zione e le diluizioni del bicarbonato siano fatte in acqua che contenga una discreta quantità di acido carbonico, abbiamo preparato le nostre soluzioni adoperando acqua che conteneva sciolte circa 0,02 moli di acido carbonico. 1. — Dissociazione del bicarbonato di sodio a 18° C. Moli NaHCO; Conduttività specifica Conduttività Grado i trovata, molecolare di dissociazione per litro meno la condutt. propria 210002 RI =" dell’acqua = x n 0 0 — S2I0I_USS 1,0000 0,0093887 0,0,7278 77,54 0,9354 0,02347 0,031735 73,93 0,8918 0,04694 0,0233824 70,81 0,8542 0,09387 0,0,6383 68,00 0,8203 0,1877 0,0 1188 63,27 0,7632 2. — Dissociazione del bicarbonato di sodio a 37° C. | 0 _ IE _R05 1,0000 0,009387 0,0010983 116,4 0,9541 0,02347 0,0025938 110,5 0,9057 0,04694 0,004985 106,2 0,8705 0,09387 0,009454 100,7 0,8254 0,1877 0,01756 93,56 0,7669 Siccome nelle Note consecutive avremo spesso bisogno dei gradi di dissociazione di soluzioni determinate di bicarbonato di sodio, facciamo se- guire una tabella completa dei gradi di dissociazione del bicarbonato, otte- nuta a mezzo di interpolazioni dalle due tabelle precedenti. — 860 — 3. — Gradi di dissociasione del bicarbonato di sodio a 18° e a 37° C. Moli NaHCO, Temperatura 18° C. | Temperatura 37° C. per litro Grado di dissociazione Differenze Grado di dissociazione Differenze 0,005 0,957 0,972 0,010 0,933 23 0,952 20 0,015 0,915 Li 0,933 19 0,020 0,900 18 0,918 las 9 0,025 0,889 > 0,904 lo 0,030 0,879 1 0,893 « 0,035 0,870 i 0,885 ù 0,040 0,862 , 0,878 1 0,045 0,856 È 0,872 i 0,050 0,851 3 0,866 È 0,055 0,847 i 0,860 i 0,060 0,843 5 0,854 G 0,065 0,839 a 0,849 i 0,070 0,836 3 0,845 n 0,075 0,833 9 0,841 Gi 0,080 0,829 ù 0,837 Si 0,085 0,826 3 0,833 5 0,090 0,823 ; 0,829 5 0,095 0,820 i 0,825 È 0,100 0,817 i 0,822 ; 0,110 0,810 È 0,816 È 0,120 0,804 $ 0,809 Ù 0,130 0,798 6 0,803 È 0,140 0,792 6 0,796 1 0,150 | 0,786 ù 0,790 ù 0,160 0,780 6 0,784 9 0,170 0,774 6 0,778 o 0,180 0,768 $ 0,772 i 0,190 0,762 È 0,766 È 0,200 0,757 ù 0,760 È i _J Ora ci interessa molto di profittare dei dati precedenti per determinare il grado di dissociazione del bicarbonato di sodio del sangue; questo valore ci è indispensabile per le considerazioni che faremo nelle Note consecutive. Per ricavare il grado di dissociazione del bicarbonato di sodio del sangue, dobbiamo considerare specialmente le variazioni di tale valore per la presenza di quantità discrete di cloruro sodico, che può essere considerato, in via ap- prossimativa, come l’unico elettrolita del plasma al di fuori dello stesso bicar- — 861 — bonato: infatti la somma dei gr. equiv. di tutti gli altri sali del sangue è, generalmente, appena l'8°/, delle somme dei gr. equival. Na C1 + Na HCO; . Abbiamo calcolato innanzi tutto una tabella delle soluzioni di Na CI e di Na HCO; rispettivamente isoidriche alla temperatura 37°; per il calcolo dei gradi di dissociazione del Na Cl a 37° ci siamo serviti dei dati di Kohbraush a 18° e dei coefficienti di temperatura di Arrhenius (*), che abbiamo prescelti in mezzo a molti altri dati, per il fatto che tali coefficienti sono stati misurati fra le temperat. 18° e 52°, e sono quindi assai adatti per le correzioni alla temp. 37°C. Dai nostri calcoli risulta che il cloruro sodico è meno disso- ciato alla temperatura 37° che non alla temp. 18°; questo fatto può dedursi anche dalle ricerche di Noyes e Coolidge (*), i quali autori hanno dimostrato chiaramente l'influenza depressiva esercitata dalla temperatura sulla dissocia- zione elettrolitica del cloruro sodico. Segue la tabella delle soluzioni isoi- driche di Na Cl e di Na HCO;. 4. Soluzioni isotdriche di cloruro e bicarbonato sodico. Alla temperatura 18° C. Alla temperatura 37° C. Grado Mol NaCl |Mol NaHCO,; Grado Mol NaCl |Mol NaHCO,; di dissociazione per litro per litro di dissociazione per litro per litro = =N = = —iN Mi; 0,933 0,011 0,010 0,952 0,010 0,010 0,900 0,030 0,020 0,918 0,020 0,020 0,879 0,049 0,030 0,893 0,032 0,030 0,862 0,071 0,040 0,878 0,045 0,040 0,851 0,088 0,050 0,866 0,057 0,050 0,843 0,103 0,060 0,854 0,071 0,060 0,836 0,117 0,070 0,845 0,083 0,070 0,829 0,132 0,080” 0,837 0,097 0,080 0,828 0,147 0,090 0,829 0,110 0,090 0,817 0,163 0,100 0,822 0,125 0,100 0,810 0,182 0,110 0,816 0,140 0,110 0,804 | 0,203 0,120 0,809 0,156 0,120 0,798 0,227 0,130 0,803 0,173 0,130 0,792 0,250 0,140 0,796 0,195 0,140 0,786 0,277 0,150 0,790 0,216 0,150 0,780 0.300 0,160 0,784 0,238 0,160 0,774 0,329 0,170 0,778 0,261 0,170 0,768 0,356 0,180 0,772 0,287 0,180 0,762 0,386 0,190 0,766 0,315 0,190 0,757 | 0,414 0,200 0,760 0,340 0,200 (1) Zeitschr. f. physik. Ch., Bd. 9, S. 339 [1892]. (®) Zeitschr. f. physik. Ch., Bd. 46, S. 875 [1903]. — 862 — Per calcolare il grado di dissociazione @ di una soluzione, che con- tenga 2 moli Na HCO; e N moli Na Cl in un litro, è necessario di costruire una curva in base alla tabella precedente (tab. IV), segnando sulle ascisse i valori x;, e sulle ordinate i valori N;j; chiamando allora v; il volume in litri occupato dalla soluzione isoidrica Na HCO:, si dovrà calcolare una ; ; Ro? serie di valori — ed Vi b= Vi valori così ottenuti si costruìrà una seconda curva sovrapposta alla prima, se- , assumendo dei valori v; arbitrarii. Con i gnando sulle ascisse i valori —, e sulle ordinate i valori Te» Vi mio d'incrocio delle due curve darà le concentrazioni isoidriche desiderate, e dalle tabelle su riferite sarà possibile di ricavare senz'altro il grado di dis- sociazione che si voleva conoscere. In un dato plasma sanguigno siano ad esempio contenute 0.14 moli Na CI per litro (N= 0,14) ed 0,015 moli Na HCO; per litro (2 = 0,015) alla . Il punto temperatura 37°C. Per v;= 0,18, si ha > = 0,1158 ed + — 0161; per v;= 0,12 si ha & — 0,125 ed Vi 1—- Vi = 0,159; per v;:=0,11 si ha 2 — 0,1363 e Di 1 Vi crocia l’altra curva in corrispondenza dell’ordinata 0,159 e dell’ascissa 0,122 Dalla tabella 4% o 3 si ricava che il grado di dissociazione di una solu- zione contenente 0,122 moli Na HCO; per litro è eguale a 0,808. In con- seguenza di ciò il plasma sanguigno considerato contiene 0,808 X 0,015 = = 0,0121 HC03-grammoioni, 0,808 X 0,14 = 0,113 Cl'-grammoioni, 0,0150— 0,0121=0,0029 moli Na H CO; indissociato, e 0,140 — 0,113= = 0,027 moli. Na Cl indissociato. I dati precedenti possono dunque servire per il calcolo della dissocia- zione del bicarbonato del sangue; di essi faremo molteplici applicazioni nelle Note successive. — 0,1573. La curva ottenuta con questi valori in- — 863 — Chimica-fisiologica. — Sul metabolismo degli aminoacidi nel- l'organismo. VI: Sul destino degli aminoacidi contenuti nel lume o nella mucosa dell'intestino. Nota del dott. U6o LomBRoso e CamiLLO ARTOM, presentata dal Socio L. LUCIANI. Uno di noi studiando il comportamento degli aminoacidi circolanti col sangue nel tessuto intestinale, osservò che generalmente si ha un più o meno notevole aumento degli aminoacidi nel tessuto (inferiore però a quello che si era in altri tessuti riscontrato); in un caso invece constatò il feno- meno opposto (!). È da avvertirsi che quest’ultima esperienza era stata ese- guita, a differenza delle altre, con intestino di cane alimentato: ed in queste condizioni si ritrovò nella mucosa intestinale una notevolissima quantità di aminoacidi. Varie ipotesi si potevano formulare per spiegare il differente compor- tamento degli aminoacidi nel summenzionato caso: anzitutto sì poteva pen- sare ad una loro diversa distribuzione nei varî tratti dell'intestino; di modo che il contenuto del campione prelevato non corrispondesse esattamente allo esperimentato. Non avendo mai prima di allora osservato un simile fenomeno, non era stata adottata la precauzione di prendere per campione un segmento orale ed uno aborale prossimi al segmento esperimentato; ciò che in seguito fu fatto. Le altre ipotesi che si potevano ancora formulare per interpretare il ri- sultato ottenuto, corrispondono alle ipotesi che sono in discussione sul de- stino degli aminoacidi sviluppatisi durante la digestione: e cioè che essi vengano assorbiti come tali ed immessi inalterati nel torrente sanguigno, come tende ad ammettere la scuola di Van Slyke (*), Bottazzi ecc.; o che subi- scano prima di penetrare nel circolo sanguigno, un processo sintetico, come affermano Abderhalden e la sua scuola; o che finalmente gli aminoacidi vengano disaminati per opera di enzimi endo-cellulari dell'epitelio intestinale, come ritengono Pavlow, Nencki (*), ed altri autori, in base alle indagini sul contenuto in NH; del sangue portale. (*) Lombroso, Rend. R. Accad. Lincei, vol. XXIV, pag. 475, an. 1915. (?) Journ. of Biol. Chem., vol. XII, pag. 399, an. 1912. (*) Zeitschrift f. Physiol. Chem., vol. XXV, pag. 449, 1898; vol. XXXV, pag. 246, an. 1902. — 864 — A quest’ultima ipotesi fornirebbero argomento favorevole le indagini di G. Bostock (*), dalle quali risulta che, per azioni di estratti enterici, si possono distruggere n vitro gli aminoacidi con formazione di NH. Sarebbero invece contrarie a tale dottrina le ricerche di Folin e Denis (*), i quali, adottando un più delicato metodo di determinazione del lNH;, affermarono che il sangue delle vene mesenteriche non varia sensibil- mente nel suo contenuto ammoniacale a digiuno o durante l'assorbimento di sostanze proteiche. Dato il grande interesse del problema, abbiamo ritenuto fosse oppor- tuno di estendere le indagini già iniziate nella Nota precedente sul com- portamento degli aminoacidi sciolti nel liquido (sangue o Ringer) usato per la circolazione artificiale di segmenti intestinali. E cioè abbiamo allargato le ricerche ai fenomeni che si svolgono quando gli aminoacidi si trovano non nel liquido circolante, ma nell'epitelio o nel lume intestinale. Per lo studio del comportamenio degli aminoacidi già immedesimati nella mucosa intestinale, abbiamo adoperato intestino di canì in digestione. Si procedeva ad un rapido lavaggio dell'intestino che veniva quindi diviso in sei segmenti diversi. Di questi, alternativamente, uno veniva reso ina- datto alla circolazione con la legatura dei suoi vasi; e l’altro, immediata- mente confinante, veniva lasciato intatto. E così via, di modo che si avevano tre segmenti che servivano di campione per desumere con buona approssi- mazione il contenuto in aminoacidi del complessivo intestino, eludendo il pericolo di incorrere in una inesatta valutazione di essi per una loro ine- guale distribuzione. Queste esperienze sarebbero state, per la loro disposizione sperimentale, quelle che più corrispondevano alle condizioni normali in cui si trovano gli aminoacidi durante il loro assorbimento, sia rispetto alla qualità, sia ril- spetto alla mescolanza dei varî aminoacidi. Non sempre però abbiamo potuto, nelle nostre ricerche, esperimentare con intestini ricchi di aminoacidi in maniera tale da permetterci di ottenere un risultato ben netto. Abbiamo quindi anche eseguite le nostre indagini introducendo in un segmento intestinale di un cane digiunante una quan- tità nota di aminoacidi sciolti in liquido di Ringer. I° Cane maschio: peso kg. 12. — Peso dell'intestino (diviso in sei sezioni, alternati- vamente irrorate e non irrorate) = gr. 350. Dopo circolazione = gr. 380, liberato dal mesenterio gr. 230, di cui non circolati gr. 120. Sangue (leggermente diluito con Rin- (*) Biochemical Journ. vol. VI, pag. 48, an. 1911. (*) Journ. of Biol. Chem., vol. XI, pp. 87 e 162, a 1912. — 8659 — ger) = cm. 500. Pressione media Hg. mm. 110-150. Velocità media di circolazione al minuto cm.* 20. Durata della circolazione ore 1 e un quarto. Per 100 cm.8 sangue la formoltitolazione richiede . 1,75 cm.8 Na OH!t/wo ” ” ” dopo circolazione la formol- Utolazione michiede gie n 75 n » ” Per 120 gr. intestino la formoltitolazione richiede 21,6» ” » ” ” ” dopo circolazione la formolti- tolazione richiede . . . +°. «+... + 16,8» ” ” NH; per 100 cm.? sangue corrisponde a . . . . . 3,5 em.ì H, SO, !/s0 # ” ” ” ” dopo circolaz. corrisp.a 7 ” » » » per 120 gr. intestino corrisponde a... . . 40 ” ” ” ” ” n ” dopo circolaz. corrisp. a 35 ” ” ” Complessivamente si ritrovano in più nel sangue circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere = 23,75 cm.8 Na OH '/,0 n. Se ne trovano in meno nell’intestino da richiedere = 7,1 cm.3 Na NH /io n. Aumento assoluto: 21,6 cm.3 Na OH !/10 x. IL Cane maschio: peso kg. 6,7. — Peso dell'intestino = gr. 290. Dopo circolazione = gr. 350; liberato dal mesenterio = gr. 290, di cui 130 non circolati. Sangue cm. 400. Pressione media Hg. mm. = 80-120. Velocità media al minuto = em.* 11. Durata della circolazione ore 2 e mezzo. Per 100 cm.8 sangue la formoltitolazione richiede . 2,2 cm.8 Na OH !/,0 # ” ” ” dopo circolazione la formolti- tolazione richiede, Sea sn 8705 ” » Per 80 gr. intestino la formoltitolazione richiede . 41,25» ” » ” ” » dopo circolazione ia formolti- tolazione richiede... ........ 20,25» ” ” NH; per 100 cm.* sangue corrisponde a... . . SIDANCIMISMET SOLI » ” ” ” dop» circolaz. corrisp. a 3,8 ” ” ” » per 80 gr. intestino corrisponde a... . 26,1 ” ” ” ” ” ” ” dopo circolaz. corrisp. a 24,8 ” ” ” Acetone per 100 cm. sangue circolato . . . . . traccie Complessivamente si trovano in più nel sangue circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 4 cm.? Na OH '/10 n. Se ne trovano in meno nell’intestino da richiedere 42 cm.8 Na OH '/,0 n. Deficit assoluto = 38 cm.8 Na OH 1/0 n. II. Cane femmina: peso kg. 4. — Si introducono direttamente nel duodeno cm.8 70 di una soluzione di peptone all’8 °/, circa, e dopo ore 1 e mezza si inizia l’esperienza come le precedenti. Peso dell’intestino = gr. 160. Dopo circolazione = gr. 178; liberato dal mesenterio = gr. 135, di cui gr. 47 non circolati. Sangue (diluito com soluzione di Rin- ger) = cm. 400. Pressione Hg. mm. 120-160. Velocità media al minuto cm.* 12. Du- rata della circolazione ore 1 e mezza. Per 100 cm. sangue la formoltitolazione rivela solo traccie ” ” ” dopo circolazione la formolti- LOLAZIONESE CHIESA Rc NATO Per 44 gr. intestino la formoltitolazione richiede 7,9.» ” ” ” ” ” dopo circolazione la formolti- tolazionesrichiede e, 4 ” ” RenpicontTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 110 — 866 — NH; per 100 cm. sangue dopo circolaz. corrisp. a 4,5 cm.8 Ha SO '/so x » DIA TOTI ACE St DOMA, N O ” D) » n » 44 gr. ” dopo circolazione . . . 21 » ” » Complessivamente si trovano in più nel sangue circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere circa 11,5 cm.8 Na OH '/10 n. Se ne ritrovano in meno nel tessuto da richiedere 6,7 cm.* Na OH 1/10 x. Aumento assoluto = 4,8 cm.* Na NH 1/10 n. IV. Cane maschio : peso kg. 8. — Sacrificato 8 ore dopo abbondante pasto di carne. Peso dell’intestino = gr. 270. Dopo circolazione = gr. 300; liberato dal mesenterio = gr. 288, di cui non circolati gr. 94. Sangue cm.8 400. Pressione media Hg. mm. 120- 180. Velocità circolatoria per minuto = cm.? 4-6. Durata della circolazione ore 1 e un quarto. Per 100 cm.” sangue la formoltitolazione richiede . 2 cm. Na 0H!/j0%. ” ” ” dopo circolazione la formolti- tolazione richiede . . . . , ori 00:90 ” » Per 50 gr. intestino la fommicilivalazi ne rishicas . 14 O) ” ” ” ” » dopo circolazione la formolti- tolazione richiede . . . . FISRGIRUAO) ” ” ” NH; per 100 cm. sangue circolato cortisponto a . 3 cm. Ha S04 ‘/so n Complessivamente si ritrovano in più nel sangue circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 17,5 cm.8 Na OH !/,0 x. Se ne trovano in meno nell'intestino da richiedere 11,1 cm.8 Na OH !/10 n. Aumento assoluto = 6,4 Na OH 1/10 x. V. Cane maschio: peso kg. 10. — Digiuno da 24 ore. Peso dell’intestino posto a cir- colare gr. 95. Dopo circolazione gr. 100; liberato dal mesenterio gr. 65. Si introducono nel lume intestinale gr. 2 di a-alanina in liquido Ringer cm.*. 40. Sangue cm. 400. Pressione Hg. mm. 80-120. Velocità media al minuto cm.8 10. Durata della circolazione ore 3. Per 100 cm. sangue la formoltitolazione richiede . 2 cm. Na OH!/0% ” ” ” dopo circolazione la formolti- tolazione richiede... ...°. . 10,6 » » ” Per 65 gr. intestino la formoltitolazione ona . 38.2 » ” ” ” ” ” dopo circolazione la formolti- tolazione richiede . . . . COEN 8790 ” ”» NH; per 100 cm. sangue RR a ‘i. + 2,5 cm.* Ha SO, 11/500 ” ” ” ” dopo circolaz. corrisp. a 14 ” » ” n per 65 gr. intestino corrispondea . . .. 5 ” ” ” ” ” ” ” dopo circolaz. corrisp. a 11 ” ” ” Introdotta nel lume intestinale a-alanina pari a. . 280 cm.8 Na OH !/10 # Ritrovansi ”» » dopo circolazione . . 107,2 » D) ” NH; ” » ” ” +.» 13 cm. H, SOz */on Complessivamente si trovano in più nel sangue circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 34 cm.* Na OH !/.o n. Nella parete intestinale dopo circolazione — 867 — se ne ritrovano in più da richiedere 1 cm.8 Na OH !/,0 n. Nell’interno del lume intesti- nale ne sono scomparse durante la circolazione da richiedere 122,8 cm.* Na OH !/,0 n. Il deficit assoluto è dunque pari a 87,8 cm. Na OH !/10 n. VI Cane maschio: peso kg. 28. — Digiuno da 48 ore. Peso dell’intestino posto a cir- colare gr. 155. Dopo circolazione gr. 170: liberato dal mesenterio, grasso ecc. ; gr. 66. Si introducono nel lume intestinale e-alanina gr. 2 in Ringer = cm.* 80. Sangue = em.8 500. Pressione Hg. mm. 60-120. Velocità media per minuto cm. 35. Durata della circolazione = ore l e mezza. Per 100 cm. sangue la formoltitolazione richiede . 5,1 cm. Na OH !/uo # ” ” D) dopo circolazione la formolti- tolazione richiede. . ....... 0... 15,7» ” ” Per 66 gr. intestino la formoltitolazione richiede 14,3.» ” » ”» ” ” dopo circolazione la formolti- tolazione richiede... ... 0.0... 41,2 » DI) ” NHs per 100 cm.8 sangue corrisponde a... . 1,5 cm.8 Hi SO !/so n ” ” ” ” dopo circolaz. corrisp. a 4 ” ” ” » per 66 gr. intestino corrisponde a... . 16 ” ” ” ” ” ” ” dopo circolaz. corrisp. a 13,3. » ” ” Acetone per 100 cm. sangue circolato corrisp. a . 3, » I !/o n Introdotti nel lume intestinale 2 gr. di @-alanina che alla formoltitolazione richiedono . . . 230. cem.8 Na OH !/po0 n Ritrovansi nel lume intestinale tante sostanze tito- labili al formolo da richiedere . . ...... 97 ” ” ” Complessivamente si ritrovano in più nel sangue tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 49,1 cm.3 Na OH '/10 #. Se ne trovano in più nella parete intestinale da ri- chiedere 26,9 cm.8 Na OH !/10 n. Nell’interno del lume intestinale ne sono scomparse du- rante la circolazione tante da richiedere 133 cm.8 Na OH !/10 n. Deficit assoluto, 57 cm.3 Na OH 1/10 n. VII. Cane maschio: peso kg. 19. — Digiuno da 48 ore. Peso dell'intestino posto a cir- colare gr. 120. Dopo circolazione gr. 130; liberato dal mesenterio gr. 90. Si introducono nel lume intestinale gr. 2 glicocolla in liquido Ringer cm.8 50. Sangue cm.8 500. Pres- sione Hg. mm. 40-60. Velocità per minuto cm.3 18. Durata ore 1 e un quarto. Per 100 cm.3 sangue la formoltitolazione richiede . 4,3 cm.3 Na 0H!/,0 2 n » ” dopo circolazione la formolti- tolazione riehiede . ............ 7,2» ”» ” Per 90 gr. intestino la formoltitolazione richiede 23,4» ” ” » ” ” dopo circolazione la formolti- tolazione richiede... ..... 0... 58,2 » ” ” NH; per 100 cm. sangue corrisponde a... . 1,5 cm.8 Ha SO. 1/50 ” ” ” ” dopo circolaz. corrisp. a 3,5 » ” ” n per 90 gr. intestino corrisponde a _. . .. 12 ” ” » n D) ” ” dopo circolaz. corrisp. a 18 ” ” ” Acetone per 100 cm.3 sangue circolato . . . .. 6,8» I!/0n — 868 — 2 gr. glicocolla introdotti nel lume intestinale alla formoltitolazione richiedono . . . . + + 250. em.3 Na 0H'!/, %. Dopo circolazione il liquido nel lume n alla formoltitolazione richiede =... . .. . 175 ” ” ” NH, del liquido nel lume intestinale corrisp. a. 15 » Hs SO, !/so Cemplessivamente si ritrovano in più nel sangue circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 13,8 cm.3 Na OH '/10 n. Nella parete intestinale se ne ritrovano in più da richiedere 29,8 cm.8 Na OH !/,0 n. Nell’interno del lume intestinale durante la circolazione ne sono scomparse da richiedere 75 cm.3 Na OH !/10 n. Deficit assoluto 31,4 cm.3 Na 0H !/o n. VIII. Cane maschio: peso kg. 10. — Digiuno da 24 ore. Peso dell'intestino prima di cir- colare = gr. 105. Dopo circolazione = gr. 110; liberato dal mesenterio = gr. 62. Si introducono nel lume intestinale glicocolla gr. 2. Sangue (molto diluito con soluzione di Ringer) = cm.8 450. Pressione Hg. mm. 60-80. Velocità media per minuto cm. 18. Du- rata della circolazione ore 1 e un quarto. Per 100 cm.8 sangue la formoltitolazione richiede . 2,3 cm.8 Na OH !/10 # ” ” ” dopo circolazione la formolti- tolazione richiede... ..... ARIA FAO ” L) Per 62 gr. intestino la formoltitolazione richiede 14,6.» ” ” » ” ” dopo circolazione la (formolti- tolazione richiede Mitte 9 » ” ” NH; per 100 cm.8 sangue dopo circolaz. corrisp. a 4,5.» Hay S0y !/so n » per 62 gr. intestino corrisponde a... . 16,2. » ” ”» ” » ” » dopo circolaz. corrisp. a 17,4» ” ” 2 gr. glicocolla introdotti nell’intestino alla formol- titolazione richiedono . . . . . . 250) » Na OH '/1° % Dopo circolazione il liquido nel lume intestinale alla formoltitolazione richiede . . . .. . 120 ” ” ” Complessivamente si ritrovano in più nel sangue circolato tante sostanze titolabili al formolo da richiedere 54,5 cm.8 Na OH !/,0 n. Nella parete intestinale se ne ritrovano in più da richiedere 24,4 cm.8 Na-OH '/10 . Nell’interno del lume intestinale durante la circolazione ne sono scomparse tante da richiedere 130 cm3 Na OH !/,0 x. Deficit assoluto 51,1 cm.3 Na OH 1/0 2. Dalle nostre ricerche risulta che : I) La quantità di aminoacidi che si trovano nel sangue che ha ser- vito alla circolazione di un segmento intestinale è costantemente au- mentata ; II) Nelle esperienze eseguite senza l'introduzione di aminoacidi dal- l'esterno, si osservò quasi sempre che l'aumento di essi nel sangue è supe- riore alla quantità di aminoacidi scomparsi nella mucosa intestinale. Questo inatteso risultato ci dimostra che nelle nostre ricerche più fenomeni dove- vano fra di loro interferire in modo da non permettere una facile disamina — 869 — di essi. Anzitutto deve essersi certamente formata una notevole quantità di aminoacidi per opera di altre sostanze preesistenti nella mucosa intestinale: sulla natura e sull'origine delle quali non ci è facile ora formulare ipotesi, in difetto di indagini appropriate che in avvenire ci proponiamo di eseguire. Noi ci troviamo probabilmente di fronte a reazioni enzimatiche di carattere antagonista che si accavallano e si susseguono in forme complesse e svariate, e di esse non possiamo che constatare l’azione prevalente. Si svolge forse, per opera della mucosa intestinale, qualche cosa di si- mile a quello che già uno di noi aveva osservato în ricerche sulla reversi- bilità degli enzimi lipasici ('); nelle quali si dimostra che il secreto pancrea- tico è capace di compiere alternativamente le due opposte funzioni, idrolisi e sintesi del grasso, a seconda dell'ambiente in cui agisce e delle manipola- zioni a cui è stato sottoposto. 3 IIl) Nelle esperienze in cui erasi introdotta nell'intestino una quan- tità notevole di aminoacidi puri, si osservò che l'aumento del contenuto in aminoacidi del sangue, pur essendo molto notevole, fu sempre assai infe- riore alla diminuzione avvertita, dopo la circolazione, nel contenuto in ami- noacidi dell'intestino (nel suo complesso, tessuto e soluzione introdotta). Ed il deficit assoluto superò persino in queste ricerche il 80 °/o. In tutte le esperienze eseguite nelle varie disposizioni sperimentali si osservò che mai il contenuto di corpi acetonici veniva sensibilmente modificato. Il contenuto in NH; si elevò sempre, ma in misura limitata. Ma siccome si è pure costantemente notata una diminuzione nel con- tenuto in NH; nel tessuto intestinale dopo la circolazione, così ci sembra molto attendibile il sospetto che qui si tratti, più che altro, di un semplice riversarsi nel sangue (nel quale il contenuto in NH3 è lievissimo) dei sali ammoniacali che si trovano in assai cospicua misura nel tessuto intestinale. In ciò i nostri risultati coincidono con l'opinione del Folin, il quale so- steneva che gli aminoacidi vengano assorbiti senza che si svolga nell'inte- stino una loro disamidazione durante l'assorbimento. Per tutti gli argomenti accennati riteniamo che la maggior parte degli aminoacidi scomparsi in queste ultime esperienze, siano stati utilizzati per la sintesi di complessi più o meno elevati. Nun ci paiono quindi accettabili, rispetto alle ipotesi che si dibattono sulla forma nella quale le sostanze proteiche penetrano nella crasi sanguigna, quelle dottrine che vogliono limitarla ad una sola forma, ad esclusione di tutte le altre. (*) Lombroso, Arch. farm. e scienze affini, vol. XIV, pag. 429 (1912). — 370 — Fisiologia. — Sul metabolismo degli aminoacidi nell’organismo. V: Sul metabolismo degli aminoacidi circolanti nel muscolo in funzione. Nota del dott. Uco LomBRoso e Lupovico PATERNI, pre- sentata dal Socio LuIGI LUCIANI. In una precedente serie di ricerche uno di noi (') ha osservato che, facendo circolare nel tessuto muscolare di cane varî aminoacidi sciolti in liquido di Ringer, si avverte una più o meno notevole diminuzione del con- tenuto di aminoacidi del liquido circolante. Gli aminoacidi scomparsi ve- nivano però ritrovati nella loro totalità, o quasi, depositati nel tessuto musco- lare: e non potevasi quindi affermare che essi avessero preso una qualsiasi parte nel metabolismo del muscolo esperimentato. Se, invece che nel liquido di Ringer, gli aminoacidi si scioglievano nel sangue dell'animale, allora si avvertiva una loro diminuzione anche mag- giore; e soltanto una parte degli aminoacidi scomparsi si trovava depositata nel muscolo. Tali esperienze erano state eseguite su tessuto muscolare in riposo. Abbiamo creduto meritasse il prezzo dell’opera il ripetere queste esperienze su tessuto muscolare mantenuto in attività funzionale: e ciò abbiamo fatto, sia per estendere le nostre conoscenze sull'argomento, sia per tentare di chiarire alcuni problemi che si erano affacciati nelle indagini precedenti. Poco ci è noto del ricambio delle sostanze proteiche nel tessuto musco- lare funzionante, e per lo più le indagini sono state limitate al comporta- mento delle proteine del plasma. Interessanti a questo proposito sono i ri- sultati ottenuti dal Pugliese (?); facendo circolare sangue nei muscoli teta- nizzati, egli vide che si eleva notevolmente il quoziente delle sieroproteine non coagulabili al calore, le quali però si possono spontaneamente ripristi- nare, dimostrando quindi che il processo è di natura reversibile. Sul comportamento degli aminoacidi circolanti in muscolo funzionante non esistono che le osservazioni del Buglia (*) su cuore di coniglio, con esito totalmente negativo: e ciò probabilmente, come già si è detto nella Nota precedente, perchè le ricerche del Buglia erano state eseguite con aminoacidi sciolti in liquido di Ringer. Dato che a noi invece, nelle espe- rienze con sangue, risultò una effettiva scomparsa di aminoacidi circolanti, si presentava interessante l’indagare se tale scomparsa veniva ad elevarsi, ed in quale misura, per effetto del lavoro muscolare. (*\ Rendiconti R. Accad. Lincei, vol. XXIV, pp. 57-149 (1915). (*) Archives Italiennes de Biologie, vol. LV, pag. 359 (1901). (8) Arch. di Farm: sper. e scienze affini, vol. XVII, pag. 227 (1914). — S71 — Inoltre, nelle esperienze di cui è riferito nella Nota sopracitata, non avevamo potuto determinare l'esatto destino di una parte degli aminoacidi scomparsi: e precisamente di quella che non poteva essere giustificata dal- l'aumento di NH; nel sangue. Sorgeva il dubbio che questa parte non fosse stata distrutta, ma utilizzata invece per processi sintetici con formazioni di più o meno elevati complessi di aminoacidi. Ovvero si affacciava l’ ipotesi che gli aminoacidi scomparsi fossero stati realmente bruciati: ma che l NH3 liberatasi venisse in parte utilizzata alla formazione di altri corpi azotati. Sulla possibilità di utilizzare l' NH; per costituire sostanze azotate più com- ple»se, testimoniano le ricerche di Embden ed allievi (*), dalle quali risulta che, facendo circolare NH; nel fegato, si può ottenere la formazione di amino- acidi. Inoltre, da Abderhalden ed allievi (*) è stato affermato che con soli sali diNH; si può mantenere l'equilibrio azotato, ed anche aver ritenzione di N. Nelle presenti esperienze abbiamo sistematicamente determinato il quan- titativo di acetone che si rinveniva nel sangue, prima e dopo la circolazione nel muscolo funzionante. In quantochè, secondo le importanti ricerche del Flatow (*), l'acetone si forma costantemente nella disaminazione dei varî aminoacidi. ge Per l'esperimento si procedeva nel seguente modo: Ucciso l’animale per dissanguamento, si disarticolava l'arto destro, iso- lando un tratto del nervo sciatico: si applicava un peso di gr. 200 all’estre- mità dell'arto, e lo si innestava nell'apparecchio di circolazione Lind. Durante la circolazione si faceva contrarre l'arto ogni 3-5 secondi, con colpi di corrente indotta sullo sciatico; e quando questo appariva incapace di trasmettere l’eccitamento (dopo 20-30 minuti), si stimolava direttamente il tessuto muscolare. î I Cane maschio, kg. 7,100. — Circolazione con 410 cc. sangue e Ringer. Alanina gr. 3. Durata della circolazione 1 ora. Velocità tra 15 e 2 (*). Pressione 80-1830mm. Hg. Ecci- tabilità notevole. Si mantiene sino alla fine. Peso dell’arto prima della circolazione, gr. 415. Dopo gr. 440. Tessuto osseo gr. 115. 2 Amcidi (*)(p.(*) ce. 7,9Na0H!/02 NH, | IMMSIeeA (a Gg 00 TRO Corpi acet.ci(p- cc.0,81!/10% in 100 cc. la. A Sani £ Ameidi \P- ” 16,7 » » NH, (p.»55 » » S in gr. 50 ld. » 17 n» ingr.50/4.n75 » è, (1) Il numero di cc. di sangue che circolarono in m'. (2) abbr. : aminoacidi. (3) abbr.: prima della circo- lazione. (4) abr.: dopo la circolazione. (') Biochemische Zeitschrift, vol. XXXVIII, pag. 393 (1912). (*) Zeitschrift f. Physiol. Chem., vol. LXXVIII, pag. 1 (1912). (*) Zeitschrift f. Physiol. Chem., vol. LXIV, pag. 367 (1910). Lana Scompaiono nel sangue aminoacidi per cc. 44 NaOH !/10 x. Aumentano nel muscolo aminoacidi per cc. 10,8. Risulta un deficit per ce. 34,3 NaOH !/10 %. II. Cane maschio, kg. 6,500. — Circolazione con 500 ce. sangue e Ringer senza aggiunta di aminoacidi. Durata della circolazione ore 1 e mezza. Velocità tra 15 e 3. Pressione 70-110 mm. Hg. Eccitabilità discreta. Peso dell’arto prima della circolazione gr. 360. Dopo, gr. 385. Tessuto osseo gr. 90. Amcidi (p.cc.2,2 Na0H!/0% NH, | in 100 gr. fd. » 1,7 » » in100cc.) Corpi acet.ei d. co. 8,5 H.SO, "fon OOMIANEE "a 00, 1,81%/1vn Sangue Ameidi \p.» 7,5» » NALE (Pod ingr 50 lg 90 Sig I Organo Scompaiono nel sangue aminoacidi per cc. 3 Na0H!/,0n. Aumentano nel muscolo aminoacidi per cc. 12,5 Na0H!/102 . II. Cane maschio, kg. 4,100. — Circolazione con 500 cc. sangue e Ringer. Alanina gr. 4. Durata della circolazione 2 ore. Velocità tra 16 e 3. Pressione 70-100 mm. Hg. Eccita- bilità notevole. Si mantiene sino alla fine. Peso dell’arto prima della circolazione gr. 390. Dopo, gr. 425. Tessuto osseo gr. 115. Corpi acet.ci | p. (perduti) Ameidi |p.cc.11,6Na0H'/0% NH, | d. (perduta) In 1 00fcca ge in 15cc. (d. n 7,7 n n in100cc.| Saugue” Ameidi (p.» 18,5» » NH, (p.cc.7H,S0,'/n ingr.50 (d. » 172 » » ingr.50 (a. n4 n n» Organo Scompaiono nel sangue aminoacidi per cc. 147,9 NaOH !/10 x. Diminuiscono nell'or- gano per ce. 7,4 Na0H !/19w. Risulta un deficit per cc. 155,3 NaOH !/10 n. IV. Cane femmina, kg. 4. — Circolazione con 420 ce. di sangue e Ringer. Alanina Pr. 3. Durata della circolazione 20 minuti. Velocità tra 18 e 5. Pressione 80-110 mm. Hg. Ecci- tabilità notevolissima. Si mantiene fino alla fine. Peso dell’arto prima della circolazione gr. 270. Dopo gr. 275. Tessuto osseo gr. 70. Corpi acet.ci | p. ce. 3,21!/10% in 100 cc. fa. ».44 » Amcidi (p.cc-6,5Na0H'/10% NH, | In l0(cen gg (5 100 e. cc. 7,5 H3S04'/s0% Sangue Ameidi \P.» 6,2» » NH; ‘(pa 130 bi in gr. 50 ld.» 74 » > ingr.50 /d.n 94 » î Organo Scompaiono aminoacidi nel sangue per cc. 49 NaOH !/106 »n. Aumentano nel muscolo aminoacidi per cc. 5,7 Na0H!/10 2. Risulta un deficit per cc. 41,5 Na0H!/10 n. V. Cane maschio, kg. 4,800. — Circolazione con 400 cc. di sangue e Ringer senza aggiunta di aminoacidi. Durata della circolazione 50 minuti. Velocità tra 16 e 2. Pres- — 873 — sione 70-120 mm. Hg. Eccitabilità notevole. Si mantiene fino alla fine. Peso dell'arto prima della circolazione gr. 320. Dopo gr. 385. Tessuto osseo gr. 90. Corpi acet.ci\p. ce. 0,11'/10% Amecidi (p.cc.3,6Na0H'/io% NH, | " DEC 9,5 H,$0, '/50 4 in 100 ce. {d. » 4,4 ” in 100cc.(d. n 4 3; » in100ce.y Sangue Amcidi \p. ” 11 ” ” NH, (p.» 6,2» » in gr. 50 (d » 8 U) ” In gr. 50 (a. Ta) » ” Organo Aumentano nel sangue aminoacidi per cc. 1 Na0H!/109#. Diminuiscono nel muscolo aminoacidi per cc. 11,4 Na0H'/10 n. Risulta un deficit per ce. 10,4 NaOH !/10 n. VI. Cane maschio, kg. 5.500. '— Circolazione con 525 cc. sangue e Ringer. Glicocolla gr. 4. Durata della circolazione 2 ore. Velocità tra 15 e 2. Pressione 80-110 mm. Hg. Eccitabilità notevole. Si mantiene fino alla fine. Peso dell’arto prima della circolazione gr. 465. Dopo, gr. 500. Tessuto osseo gr. 120. Corpi acet.ci | p. (perduti) È . ce. 13,3 NaO0H! Ameidi |P. ce SEGA NE, ini cc. 45 H3$0, "/so# ‘in 100 cc. (d ”» in 15cc. (d, » 10,9 » n in100ce. | Sangue Ameidi (bp. 23,2» » NH; fp.» 37,5» » ingr.50 (d. » 22» n ingr.50 ld.» 185 n» Organo Scompaiono nel sangue aminoacidi per cc. 105,8 NaOH !/1y n. Diminuiscono nell’or- gano aminoacidi per cc. 5,1 NaOH ;/ipn. Risulta un deficit per cc. 110,9 NaOH !/10 n. VII. Cane femmina, kg. 4,500. — Circolazione con 420 ce. di sangue e Ringer. Alanina gr.5. Durata della circolazione 55 minuti. Velocità tra 16 e 6. Pressione 70-110mm. Hg. Eccitabilità notevole in principio; alla fine è nulla. Peso dell’arto prima della circola- zione gr. 450. Dopo, gr. 470. Tessuto osseo gr. 105. Corpi acet.ci(p. e. 3,61 !/10 Ameidi (p. cc. 8,1 NaOH '/sor NH, | RIN CIR Re in 15ccfd. n 75 n » in100 ce. ( Sangue Amcidi \p » 13,3» » NH, (p. » 6,5 » ” in50gr.(d. n 14,1 » n in100ce.fq, » 17,5 » » Organo Scompaiono nel sangue aminoacidi per ce. 26,8 NaOH !/10 x. Aumentano nel muscolo aminoacidi per cc. 12,9 Na0H !/10n. Risulta un deficit per cc. 18,9 NaOH !/10 n. VII. Cane maschio, kg. 4,200. — Circolazione con 350 ce. di sangue e Ringer senza aggiunta di aminoacidi. Durata della circolazione 40 minuti. Velocità tra 16 e 2. Pres- sione 90-120 mm. Hg. Eccitabilità discreta; alla fine è minima. Peso dell’arto prima della circolazione gr. 260. Dopo, gr. 275. Tessuto osseo gr. 92. Corpi acet.ci\P. cc. 0,4I 1/10 n Amcidi (p. ce. 4,2 Na0H !/107 NH, | 5 in 100 c0.}a, n» 4°» n in10060f0 %%35Ha806"of *in100c0. ]d n°11 » Amcidi (p »_ 9,7 » »” NH; (p. » 6 ”» ” ingr.50 {d. » 82 » n ingr.5004. » 95» » Sangue Organo ReNDpICONTI, 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 111 — 874 — Scompaiono nel sangue aminoacidi per cc. 1,3 Na0H'/,0. Diminuiscono nel muscolo aminoacidi per cc. 2,5 Na0H'/1,n. Risulta un deficit per cc. 3,8 Na0H!/10%. IX. Cane femmina, kg. 5,100. — Circolazione con 400 di sangue e Ringer. Alanina gr. 3. Durata della circolazione 55 minuti. Velocità tra 15 e 2. Pressione 70-190 mm. Hg. Eccitabilità notevole in principio; in fine è spenta. Peso dell’arto prima della circola- zione gr. 490. Dopo gr. 515. Tessuto osseo gr. 140. Corpi acet.ci\p. ce. 0,2 1/10 Amcidi \p. ce. 8,4 Na0H'/o% NH, | in 100cc. (a. » 24 » in 15cc. (a. RI 7,5 5 n in 100 ce.) CC. 6,2 HsS04'/50% Sangue Ameidi (p.» 9,8» » NH; fp.» 6,2» » in gr. 50 (d. » 12 n » ingr.50 (qa. » 12 SIR Organo Scompaiono nel sangue aminoacidi per cc. 37,5 NaOH !/10w. Aumentano nell’organo aminoacidi per cc. 9,8. Risulta un deficit per ce. 27,7 NaOH'/10%. X. Cane maschio, kg. 7,500. — Circolazione con 500 cc. di sangue e Ringer. Aspara- gina (neutralizzata) gr. 4. Durata della circolazione 2 ore e mezza. Velocità tra 16 e 4. Pressione 70-100 mm. Hg. Eccitabilità notevole; in fine è nulla. Peso dell’arto prima della circolazione gr. 425. Dopo, gr. 465. Tessuto osseo gr. 150. in 195 cc. | ( Ameidi (p-cc.5 Na0H'/ion NH, | «© 1) Corpi acet.i(p.c0.1,61I%/102 n 41 i e” 100 0.19: cc. 82,5 HaSO, 1/50 00000) ta. 2 805 Sangue Ameidi Sp.» 10,5» » NH, fp.» 15 » » ingr.50 (a. » 12 + n ingr.50d3. » 14 D) » Organo Scompaiono nel sangue aminoacidi per cc. 40,9 Na0H'/10 x. Aumentano nel muscolo aminoacidi per cc. 13,9 Na0H!/10n. Risulta un deficit per ce. 27 NaOH'/10n. XI. Cane femmina, kg. 4,700. — Circolazione con 500 ce. sangue e Ringer. Glicocolla gr.3. Durata della circolazione 1 ora e mezza. Velocità tra 12 e 3. Pressione 90-120 mm. Hg. Eccitabilità notevole in principio, nulla nella fine. Peso dell'arto prima della circolazione gr. 270. Dopo, gr. 310. Tessuto osseo gr. 70. Ameidi (|p- cc. 10,3 NaOH !/10# NH, in 15 ce. | d.» 9,1 » ” in 100 cc. d. ce. 19 HaSO4 !/s0 7 Sangue Amcidi (p-> 14,7» ” NH, (p.» 9 » ” ingr. 50 fd.» 16,1» ” in gr. 50 (d. n 10°» n Organo Scompaiono nel sangue aminoacidi per ce. 55,3 NaOH '/10n. Aumentano nell’organo aminoacidi per cc. 18,4 Na0H'/on. Risulta un deficit per ce. 36,9 NaOH!/10%. XII. Cane maschio, kg. 5,200. — Circolazione con 450cc. sangue e Ringer. Alanina gr. 3, Durata della circolazione 1 ora e 45 minuti. Velocità tra 14 e 2. Pressione 80- — 875 — 120 mm. Hg. Eccitabilità notevole in principio; in fine è nulla. Peso dell’arto prima della circolazione gr. 270. Dopo gr. 300. Tessuto osseo gr. 95. meidi (b- cc. 10 NaOH'/ion NH, | in 15 cc. ld.» 82» n in 100 ce. { 4) > 0 Corpi acet,°i Ù di ce.8 H3S0 teo “1006 Va. cc. 14 l'on S Amcidi (p. » 16,4 » » NH, P.” 87» » 5 (d. » 6,2 » in gr. 50 ld.» 15,1 » >» in gr. 50 Scompaiono nel sangue aminoacidi per ce. 70,4 Na0H!/,1n n. Diminuiscono nel mu- scolo per cc. 4,5 Na0H'/10n. Risulta un deficit per ce. 74,9 NaOH!/10 n. Dalle riferite esperienze risulta che: I) facendo circolare aminoacidi sciolti in sangue nel tessuto musco- lare funzionante, si avverte una loro diminuzione nel sangue in misura no- tevolmente superiore a quella osservata nelle analoghe esperienze eseguite sul muscolo in riposo ; II) il fenomeno dell'accumulo di aminoacidi nel tessuto muscolare, che, nelle esperienze con muscolo in riposo, era causa principale della scom- parsa degli aminoacidi del sangue, non si presenta nelle esperienze con muscolo funzionante: in alcuni casi, al contrario, sì ottenne persino una di- minuzione nel contenuto di aminoacidi preesistenti nel tessuto; III) nelle esperienze eseguite facendo circolare sangue senza aggiunta di aminoacidi in muscolo funzionante, si avvertì spesso una scomparsa per- centuale (scarsa in misura assoluta, data la loro quantità limitata) degli aminoacidi contenuti nel sangue e di quelli del tessuto muscolare; IV) la quantità di NH; che si rinviene nel sangue dopo la circo- lazione, è assai variabile nelle diverse esperienze, senza che però si possano tali oscillazioni mettere in rapporto con un corrispondente compor- tamento degli aminoacidi: nel senso che ad una maggiore scomparsa di aminoacidi corrisponda sempre, ed in eguale misura, una maggiore quantità di NH; V) ancor più variabile è il risultato ottenuto nelle nostre ricerche sulla formazione di corpi acetonici: nelle esperienze con aminoacidi circo- lanti essa si mantenne fra limiti assai larghi: nelle esperienze con solo sangue fu sempre scarsissima. Questo risultato merita una speciale menzione, perchè anzitutto ci dimo- stra che anche il tessuto muscolare, contrariamente all’ affermazione del- l’Embden, è capace di formare corpi acetonici ed in notevolissima misura. Ed ancora dimostra che anche l’alanina, la quale, secondo alcune ricerche dell’ Embden sul fegato, sarebbe inibitrice della produzione di acetone, può essere invece origine di tale sostanza, — 876 — Rispetto poi a quei casi nei quali, pur avendosi una notevole scomparsa di aminoacidi nel sangue, non si ritrova una corrispondente quantità di acetone, una spiegazione può essere data dal fatto che il tessuto muscolare distrugge l'acetone stesso, come fu dimostrato dalle ricerche dell’ Embden. Comparando le cifre dell’ NH; e quelle dell’acetone allo scopo di deter- minare il meccanesimo della scomparsa degli aminoacidi, si osserva, in qualche caso, che, di fronte ad una notevole quantità di acetone, la quantità rinvenuta di NH; è piuttosto scarsa, inferiore a quella che teoricamente era da attendersi, ammettendo che NH; ed acetone abbiano esclusivamente ori- gine della scomposizione degli aminoacidi mancanti. Tanto più saliente appare il deficit sull'NH; attesa, in quantochè la quantità di acetone, che abbiamo pur trovata superiore a quella dell’ NH;, era suscettibile, come già si è detto, di essere diminuita per processi di ossidazione. Ma il quesito è assai più complesso di quanto non appaia a prima vista: altri fattori possono intervenire a complicare la disamina del fenomeno. Come ad esempio la possibilità che l’acetone abbia avuto origine da altre sostanze preesistenti nel muscolo (glicogeno - acidi grassi), e che l’aminoacido agevoli la formazione dell’acetone per un’azione simile a quella dei catalizzatori. Lasciando che ulteriori ricerche chiariscano se effettivamente, come appare più probabile dai nostri risultati, la scomparsa degli aminoacidi sia dovuta, almeno per la maggior parte, ad un processo di combustione, è non a processi sintetici, un fenomeno molto importante emerge dalle pre- senti ricerche. Ed è, che, con l’attività funzionale il tessuto muscolare esalta profondamente la capacità di sottrarre gli aminoacidi circolanti nel sangue, allo scopo non di saturarsene, ma di utilizzarli per i processi del proprio metabolismo. Fenomeno questo, la cui importanza appare tanto più manifesta, allo stato in cui presentemente si trova lo studio del ricambio delle sostanze proteiche in rapporto alla funzione del tessuto muscolare. E. M. iL Pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. \ Serie 1a - —_ At dell Accademia pontificia dei Nuovi Lincei. Tomo I-XXIII .‘‘»’Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2° — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. II. RE 76) Parte 1% TRANSUNTI. | _°—‘’‘‘2% MEMORIE della Classe di scienze o Aaloia, matematiche e naturali. d adi 3* MEMORIE della Classe di seienze morali, storiche e filologiche. MV iVa Vi VI. VIL VII. s8erie 3 — TRANSUNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). 3 MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e Daserala: EA Vol. I. (15729: == JEC(h82): — III-XIX. MOI, i 3 MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e Alotogioni etto Vol. I-XIII. A0t; ‘Serie 48 — RenpicoNTI. Vol. I-VII. (1884-91). 1 MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali, Vol. I-VII. had: È «| _x;x__°{____MkmorIiE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche, -. Te, Vol. I-X. “Serie 52 — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e ‘naturali, Di Vol. I-XXIV. (1892-1915). Fase. 3°. Sem. 1°. eno RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. ta. Vol. I-XXIII. (1892- 1914). Fasc. 7°-10°. MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturuli Vol. I-X. Fasc. 18°. — MEMORIE della Classe di scienze iuaricta. storiche e filologiche. Vol. I-XII. “CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE CAI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI ci na ui I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche ._°‘’‘—e naturali della R Accademia dei Lincei si pubblicano due | volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispone denti ognuno ad un semestre. ee II prezzo di associazione. per ogni volume e per tutta Di Hi Italia è è di L. 10; per gli altri paesi le spese di posta in più. 31 “AN Le associazioni sì ricevono esclusivamente dai seguenti «editori-librai : i Ù - SANO “Ermanno. LoescHER & ce ° — Roma, Torino e Firenze. n ici Uraico Monet: _ Milano, Pisa e Napoh. à RENDICONTI — ‘Aprile 1915. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 25 aprile 1915. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Signorini. Sulla propagazione di onde Ano in un conduttore toroidale (pres. dal Socio Zevi-Civita) . . . . . . ; 3 . Pag. 793 Zeilon. Sulle soluzioni fondamentali delle equazioni Tnigne differenziali Ge dal Socio Volterra) . . . ; 0] Freda. Il teorema di Hulero per si ERO di Loi omogenee Ia 1a). INNI 0 Zaremba. Sopra un teorema d’unicità relativo alla equazione delle onde sferiche (pres. dal Socio Levi-Civita) (*) . . . . . RARE e e n Corbino e Trabacchi. Sulla resistenza Di di una ne in un campo magnetico (pres. dal Socio Blaserna). . . AMP AI cn) Trabacchi. L'effetto Hall nelle lege di tellurio e o free Id. ) RR OO a) Tieri. Rotazione, nel campo magnetico, di un cilindro di grafite e deduzione, per questa so- Ì stanza, del prodotto delle costanti caratteristiche di Drude (pres. dal Socio Volterra) n. 812 Cambi. Sul potere elettromotore delle amalgame di calcio (pres. dal Socio Nasiri) . . . » 817 Graziani. Anidridi e amine da acidi e-amidati (pres. dal Corrisp. Balbiano). . . .. n» 822 Padoa e Zazzaroni. Sulle velocità delle trasformazioni fototropiche ed i loro eoefficienti di temperatura con luci monocromatiche (pres. dal Socio Ciamician) . . . UD RnS 828; Pagliani. Sull’entropia nei corpi solidi, e sue relazioni con altre grandezze fisiche (ei dal Corrisp. Balbiano) . . . . SE NI n 0898 Poma e Albonico. Influenza STIRE dai sani eun sull'equilibrio chimico (ala dal Socio Ciamician)(*) . .... . . ON I Sandonnini. Conduttività di miscele di sali! solidi nni Ia) AN E » 842 Scarpa. Analisi termica di miscele di idrati e alogenuri alcalini. II: Combo di sonia (Presa) 0) CRE PRONTI DR gi ae arie Vl) Sernagiotto. Autossidazioni alla lito sola serie dei terpeni a 59; pa » 850 Grill. Contributo alla mineralogia sarda: sopra alcuni interessanti cristalli d'argentita è e di quarzo (pres: dal Corrisp. Millosevich). . . ... . . PROSE) D'Agostino e Quagliariello. Sullo stato dell’acido carbonico nel sangue. LIV: ‘Sulla dissocia- zione elettrolitica del bicarbonato di sodio (pres. dal Corrisp. Bottazzi) . . . . . » 858 Lombroso e Artom. Sul metabolismo degli aminoacidi nell'organismo. VI: Sul destino degli aminoacidi contenuti nel lume o nella mucosa dell’intestino (pres. dal Socio Luciani) » 863 Id. è Paterni. Sul metabolismo degli aminoacidi nell'organismo. V: Sul metabolismo degli aminoacidi circolanti nel muscolo in funzione (pres. Zd.). LL... ++.» 870 (*) Questa Nota sarà pubblicata. nel prossimo fascicolo. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. i QUINTA Ti LS RO STIRO EoOI TESO DEL DOTT. PIO BEFANI INDI Rei: Mg WS | ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti: 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle,due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 ‘agli estranei; qualora l'autore ne desideri un mumero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca» demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indi cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz’altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2: La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’autore. - d) Colla semplice pro posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall'art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au» — tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 5056 estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. “a RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali, ANNA Seduta del 2 maggio 1915. P. BLASERNA, Presidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Matematica. — Sulla classificazione delle curve algebriche e sul teorema d’esistenza di Riemann. Nota I del Corrispondente FRANCESCO SEVERI. Nel 1901 l'Accademia danese delle Scienze, per iniziativa dello Zeuthen, pose a concorso la questione di ricercare se in ogni famiglia di curve alge- briche gobbe, possano esistere forme limiti composte da rette. L'Accademia, nel proporre il tema, aveva di mira soprattutto i problemi numerativi, ine- renti alle curve algebriche. Si trattava di dare una base sicura e rigorosa alle formole che erano state ottenute da varî Autori, con spezzamenti delle curve algebriche in curve di ordini inferiori o in rette. Ma la risoluzione del problema proposto — come del resto accennava l'Accademia danese — avrebbe avuto una portata ben maggiore, giacchè, una volta ottenuta una risposta affermativa alla questione, si sarebbe potuto tentare di ricavarne una classificazione grandemente suggestiva delle curve gobbe, assegnando, come rappresentante tipico di ciascuna famiglia, un si- stema connesso di rette. La questione rimase però sinora senza risposta ('). Di essa io intendo occuparmi nel presente lavoro, ove considero il problema anche in relazione (') Tranne che per le curve di genere p = 2. Vedasi Brill, Veder algebraische Raumkurven (Math. Annalen, 64, 1907), pag. 322. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. RIO) — 878 — alle curve iperspaziali. In questa Nota e nella successiva, riassumo i risultati da me ottenuti in proposito, riserbandomi di tornarvi in seguito, con una Memoria più ampia. Tuttavia do fin d'ora notizia non soltanto dei risultati, ma anche dei procedimenti dimostrativi, per ciascun dei quali indico le argomentazioni essenziali. Dimostro anzitutto che, per n= p +7, le C7 (d'ordine x e genere p) di S,, formano una sola famiglia (varietà algebrica irriducibile) di dimen- stone regolare v=n(r +1) —(p—1)(r — 8) (*). La curva generica di questa famiglia, è non speciale, e la famiglia stessa dicesi perciò mon spe- ciale. Anche per p> nor=7 3? le C5 formano in S, una sola fa- miglia regolare, ma la curva generica è in tal caso speciale e normale. Questi teoremi son fondati essenzialmente sul fatto che la varietà alge- brica delle curve piane irriducibili d'ordine x e genere p, è irriducibile (5). Definito poi che cosa deve intendersi per n-latero (connesso) di genere virtuale (0 effettivo) p(= 0), ne deduco, mediante semplici considerazioni proiettive, che, dato in S,(r => 2) un w-latero L di genere effettivo p = 0, esistono sempre curve razionali (irriducibili) d'ordine n, infinitamente vi- cine ad L. | Ciò mi permette di concludere che alla varietà V delle curve piane irriducibili Cf, appartiene ogni -latero piano; e da questo, mediante una delicata analisi topologica, deduco quali sono tutti î possibili spezzamenti delle curve di V. | Una conseguenza notevolissima delle considerazioni svolte è 7l feorema d'esistenza delle funzioni algebriche d'una variabile, che viene così sta- bilito con mezzi semplici e luminosi, di carattere algebrico-geometrico, î quali son di certo più appropriati alla natura algebrica della questione, di quanto non lo sieno gli strumenti finora usati per la dimostrazione classica del teorema di Riemann (funzioni armoniche e problema di Di- richlet) (‘). E quando parlo del teorema di esistenza, intendo alludere non soltanto all’arbitrarietà nella scelta dei 2x 4 20 — 2 punti di diramazione della funzione algebrica ad x rami, di genere p, che si vuol costruire, ma anche alla possibilità di assegnare ad arbitrio le sostituzioni fra gli n rami, attorno ai singoli punti di diramazione. (2) Per r=3 il risultato trovasi in Halphen, Meémoire sur la classification des courbes gauches algébriques (premiata col premio Steiner 1882) (Journal de l’École polyt., 52, 1882). Ma l’A., non avendo precisato sufficientemente il concetto di « famiglia di curve gobbe », non si ferma a dimostrare che le Ch di Ss; pern=p+3, costitui scono una sola varietà algebrica 7rriducibile. (9) Cfr. Enriques, Sui moduli d'una classe di superficie algebriche, ecc. (Atti della è. Accad. delle Scienze di Torino, 47, 1912), n. 1. (4) Ved. ad es. Picard, 7'raité d’analyse (Paris, Gauthier-Villars, 1905, 2°me éd.), tom. II, chap. XVI. — 879 — Continuando (Nota II) lo studio delle curve di S,(7 => 3), distinguo i punti doppî che possono acquistare particolari curve di una data famiglia V, in propri ed impropri, secondo che abbassano o no il genere delle curve della famiglia che li acquistano (?). I primi importano lo spezzamento della sviluppabile osculatrice alla curva che li acquista, ma non lo spezzamento della congruenza delle corde; mentre per gli altri accade il contrario. Nel n. 6 (Nota II) sono finalmente in grado di dimostrare che ogni famiglia non speciale di Cî, (n =>p +7) possiede curve limiti così costi- tuite: un (n— p)-latero connesso attraverso ad n—p —1 nodi, insieme a p corde generiche di questo. Stabilisco quindi, nel n. 8, l’esistenza di infiniti n-lateri di genere p, în ogni famiglia, anche speciale, di curve irriducibili Ch di S., rispon- dendo così alla questione posta dall'Accademia danese. Cammin facendo, mi si offre il destro di contare in modo rigoroso l’infi- nità delle 97 speciali, esistenti sopra una curva di dato genere p, a moduli generali (n. 3). Questo computo veniva fatto, con Brill e Noether (5), am- mettendo implicitamente un postulato. Alla questione di decidere se un dato n-latero connesso di genere effet- tivo p, appartenente ad S,, si possa sempre considerare come il rappresen- tante tipico d'una famiglia di curve irriducibili di S,, rispondo in modo affermativo nel n. 9. Ma il risultato non è ancora così espressivo come avrei desiderato, perchè può darsi che la famiglia definita sia di genere 9 < p. A proposito delle condizioni complementari cui deve sottoporsi un n-latero di genere effettivo p, perchè esso definisca una famiglia di curve, senza punti doppî, di genere esattamente uguale a p, mi sono limitato a riferire le mie induzioni e ad indicare i mezzi per giungere al risultato definitivo, che spero di poter dimostrare in seguito (7). (5) Questa distinzione mi è già stata molto utile nella Nota, 7rasformazione bira- zionale di una superficie algebrica qualunque, in una priva di punti multipli (Questi Rendiconti, 23, 1914), pag. 527. (5) Brill Noether, Veder die algebraischen Funktionen, ecc. (Math. Annalen, 7, 1873), $$ 9-12; Noether, Zur Graudlegung der T'heorie der algebraischen Raumkurven (pre- miata col premio Steiner 1882) (Berlin. Abh. 1882), pag. 18. Ved. pure Picard, op. cit., pag. 570. (") Avrei potuto rinviare a più tardi la pubblicazione del presente lavoro, in modo da inserirvi anche la dimostrazione di questo risultato, se non avessi creduto che la situazione politica che si va maturando pel nostro Paese, non consentirà fra breve a molti di noi di poter attendere con tranquillità alla ricerca scientifica. Avendo comuni- cato al sig. Zeuthen, nel marzo scorso, i risultati delle mie ricerche, ne ebbi l’incitamento a pubblicarle subito. Lo Zeuthen anzi, in risposta alla mia comunicazione, mi scriveva in data 29 marzo 1915: « Je crois avoir aussi de mon còté trouvé le moyen de démontrer l’existence des courbes dégénérées... mais mes recherches sont encore loin d’ètre achevées ». — 880 — Termino la Nota II indicando i varî problemi a cui portan nuova luce i risultati precedenti (questioni di postulazione, problemi numerativi, que- stioni di realità delle curve algebriche). Quanto ai problemi numerativi, la conclusione è, come si prevedeva, che le formole ottenute mediante gli spez- zamenti delle curve, non soffrono eccezioni o limitazioni. 1. PRELIMINARI. — Parlando di /amiglia di curve di dato ordine x in S,, intendiamo di alludere, con Noether, ad una varietà algebrica V di curve, irriducibile, come insieme de’ suoi elementi (curve) e completa, cioè che non sia contenuta in una più ampia di curve dello stesso ordine. Una sottofamiglia è una varietà irriducibile V' di curve d'ordine 7, completa relativamente ad un'assegnata proprietà delle sue curve. Due famiglie di curve dello stesso ordine hanno generalmente in co- mune una o più sottofamiglie. Dalla definizione di famiglia di curve, segue subito che ogni sistema continuo, cui appartenga una curva scelta genericamente entro una fa- miglia V, giace interamente în V. 2. IRRIDUCIBILITÀ DELLA VARIETÀ DI TUTTE LE CURVE IRRIDUCIBILI DI DATO GENERE 7 E DELLA VARIETÀ DI TUTTE LE CURVE PIANE IRRIDU- i @=D@—-2) 2 curve piane di ordine n, con d punti doppî, formano una varietà 3 di dimensione 3x1 +p — 1, alla quale appartiene la varietà V delle curve irriducibili di ordine n e genere p. Oltre a questa, vi sono d'ordinario in X altre varietà 008"+2-!, di curve spezzate, con d punti doppî; ma quel che importa di osservare è che la varietà V, di dimensione 3n+-p— 1, è irriducibile. Questo fatto, come ho detto, è già stato segnalato da Enriques, il quale, trattando incidentalmente la questione, si è limitato ad esporre le linee essenziali del procedimento dimostrativo, che io mi propongo di sviluppare più ampiamente nella Memoria cui queste Note preludono. La semplice dimostrazione di Enriques, è strettamente geometrica. Da essa segue subito che /e curve di dato genere p, formano una varietà algebrica H irriducibile (avente per elementi le classi di curve di genere p birazionalmente identiche). A questo medesimo risultato si perviene d'altronde facilmente poggian- dosi sul teorema d'esistenza di Riemann (*). Basta all’uopo osservare: che ogni curva di genere p, può rappresentarsi sulla retta (sfera complessa) n-pla, con 2n + 2p —2 punti di diramazione semplici, sempre che sia p. es. 2 > 2p; che ordinati i cappî (o le sostituzioni) inerenti ai singoli CIBILI DI ORDINE % CON ( — p PUNTI poppî. — Le (8) La cosa trovasi già accennata in Klein, Veder Riemanns Theorie der algebrais- chen Funktionen (Leipzig, 1882), pag. 66; oppure, Riemannsche Flichen (Autogr. Vor- lesungen, Gottingen, 1894), I, pag. 117. — 881 — punti di diramazione, alla maniera di Liiroth-Clebsch, ne segue subito la possibilità di far circolare il gruppo di diramazione, a partire da una posi- zione iniziale e ritornandovi, per guisa da scambiare tra loro due diverse distribuzioni delle sostituzioni stesse. Le superficie di Riemann, birazional- mente distinte, costruite a partire da un dato gruppo di diramazione, si possono quindi, per una conveniente circolazione del gruppo, scambiare fra loro. E da ciò segue l’asserita irriducibilità di H. Ritengo probabile che la varietà H sia razionale o quanto meno che sia riferibile ad un’involuzione di gruppi di punti in uno spazio lineare S3p-3; 0, in altri termini, che nell'equazione di una curva piana di ge- nere p (e p. es. dell'ordine p+ 1) i moduli si possano far comparire razionalmente. La considerazione delle curve piane minime di dato genere p, mostra agevolmente che questo fatto è vero per p= 11 (per p=0,1 si vede anzi subito che la varietà H è addirittura razionale); la considerazione delle curve sghembe minime di genere p, definite come intersezioni parziali di superficie, permette di salire ad ulteriori valori di p; ecc. 8. CURVE CANONICHE. VALUTAZIONE RIGOROSA DELL'INFINITÀ DELLE SERIE LINEARI gf .SOPRA UNA CURVA DI DATO GENERE, A MODULI GENE- RALI. — La valutazione dell’infinità d delle 97 non speciali, sopra una curva di genere p, si fa notoriamente, in modo completo, colla massima facilità (°), e si trova: (1) d=(r-+1)(a_-r)— rp. Si vede anche subito che, sopra una data curva di genere p, le 97 non speciali formano una varietà irriducibile (che è l'insieme delle coppie di elementi d'una varietà di Jacobi del genere p e della varietà degli S,, appartenenti ad un Sn-,). Quanto alla valutazione dell’intfinità d delle 97 speciali, la cosa è assai più delicata. Brill e Noether ragionano in un modo che è sostanzialmente equivalente a questo: Sopra la curva canonica I di Sp-1, ì gruppi G, spe- ciali, individuanti serie complete di dimensione 7, sono staccati su I° da spazî Sn-,-1. Ora, poichè per un S,-,-1 di S,-, l’appoggiarsi ad una data curva è condizione (p—x+r—1)-pla, gli Sn-,-, #-secanti di T, dipen- deranno generalmente da (2) @—--2)(p—n+r)—n(p_n+rT_1l)=n—-r(p—_n+7) parametri; e siccome gli spazî stessi si distribuiscono in sistemi co”, cor- (°) Ved. per es. le mie Lezioni di geometria algebrica (Padova, Draghi, 1908), pag. 197. Di qneste Zezioni era quasi pronta una traduzione tedesca ampliata (edita da Teubner), quando scoppiò la guerra europea. Ora è tutto sospeso. — 882 — rispondenti ciascuno ad una g7 completa, d risulterà anche in tal caso espresso da (1) ('°). Ma tutto ciò è subordinato all'ipotesi che le condizioni contate siano fra di loro indipendenti; e quest indipendenza non può affatto a priori giustificarsi colla gereraliztà dei moduli di T. Per completare in questo punto delicato la valutazione dell’infinità 4, io procedo così: Le curve canoniche Z°, in virtù di quanto s'è detto al n. 2, formano nello Sp-, una sola famiglia, dipendente da X=(p — 1)(p+ 4) parametri. Entro questa famiglia vi sono c0% curve irriducibili 7), di genere p— 1, con un punto doppio, costituenti una sola sottofamiglia, giacchè ognuna delle T, è ima- gine proiettiva della serie staccata sopra una curva piana d'ordine p + 1, con 3p(p—3) +1 punti doppî, dalle curve d'ordine p — 2 passanti per +p(p—3) di questi punti. Una T, si proietta dal suo punto doppio, sopra un S,-2, secondo una curva canonica del genere p—1. Viceversa, ogni tal curva canonica può considerarsi come proiezione di una (anzi di infinite) T\,. Supposto dimostrata la formola (1) pel genere p — 1. si assuma una 7, a moduli generali, col punto doppio O, e si contino i suoi spazî plurisecanti, desumendoli da quelli di una curva canonica del genere p — 1, e tenendo conto che, quando una T va in Ty, la varietà delle corde di Y° ha per limite la varietà delle corde di 7, (perchè O è un punto doppio proprio, ved. n. 5), e che inoltre le sole corde improprie di T,, sono le sue tangenti e le rette del fascio individuato dalle due tangenti in O. Così ad es. la curva canonica T°* del genere 5 (in S,) non può avere alcuna trisecante, perchè il gruppo G3 relativo, individuerebbe una 93, cioè T possiederebbe infinite trisecanti, e quando T° tendesse verso una TY, generica col punto doppio O, si avrebbero, come limiti delle co! trisecanti di 7, o! trisecanti effettive di T, e per un punto generico M di T, ne passe- rebbe un numero finito. Facendo avvicinare M ad O, se ne trarrebbe che la più generale curva canonica del genere 4 (in S3) possiede punti doppî. Similmente T° non può possedere più che 00° piani quadrisecanti, perchè altrimenti la curva canonica del genere 4 possiederebbe più che oo’ trise- canti, ecc. ("’). ('°) Se i moduli son generali, l’ordine e la dimensione di una 97 speciale completa, soddisfaranno quindi alla d = 0, la quale, introducendo l'indice di specialità i=p—n+r della 97, può seriversi sotto la forma n 2 (2 + 1)r. Si ha così un'estensione del teorema di Clifford, valida sulle curve a moduli generali. A quali condizioni particolari deve soddisfare la curva, perchè una 97, speciale completa abbia n <(i+1)r? Per 1=2, n aa + 7, dipendono da (3) v=n(r+1)—p—D(5—-3) costanti. Per n =p-|-r (e = 2) un generico gruppo di % punti sopra una 7) (a moduli anche particolari) è non speciale, e individua pertanto una 977” di dimensione # — p => r, cosicchè le C} di S,, birazionalmente identiche a T,, formano una varietà irriducibile di curve generalmente non speciali. Se ne deduce (n. 2) che: Per n =p+r, le curve C$ di S, (r > 2) formano una sola famiglia di dimensione (3), la cui curva generica è non speciale (e normale in Sp-p). U na tale Sa si chiamerà una famiglia non speciale di curve di S,. Per dan qpsr n—r = le Cp di S, formano una sola famiglia, di dimensione (3), la cui curva generica è speciale e normale. 4. SISTEMI CONNESSI DI RETTE. DIMOSTRAZIONE GEOMETRICA DEL TEO- REMA DI ESISTENZA DI RIEMANN. — Un sistema commesso di n rette con n4+p—1 (p=0) intersezioni semplici (nodi), si chiamerà brevemente un n-latero di genere effettivo p. Gli n-+p — 1 nodi si considerano come punti in cui si può passare da un lato (ramo) all’altro; si riguardano cioè piuttosto come « punti di diramazione » che come punti doppî. Si dice perciò che essi si considerano come vir/ualmente inesistenti, rispetto alle loro qua- lità di punti doppî, che non permetterebbe il salto da un ramo all’altro. Se dei suddetti nodi effettivi, se ne possono considerare come inesistenti soltanto n +9 — 1 (9< p), sensa che per questo lo n-latero divenga (!°) Si pensi p. es. alle due 93 distinte esistenti sopra la curva canonica del genere 4. — 884 — sconnesso, sì dirà che q è il genere virtuale dello - PR in quanto sì considerino come assegnati ì p— q nodi rimanenti. Abbiasi un -latero di genere effettivo o virtuale p > 0. Se assegnando uno de' suoi nodi, che prima si consideravano inesistenti, si rompe la con- nessione, lo n-latero non potrà scindersi che in due soli pezzi connessi. Se ne deduce facilmente che « si posson sempre scegliere p nodi convenienti, « fra quelli che prima stabilivano la connessione, per guisa da ottenere, « assegnandoli, un x-latero (si sottintende connesso) di genere virtuale zero ». Ciò posto, mediante elementari considerazioni geometriche, si prova, col processo d’induzione, che « un n-latero di genere effettivo p = 0, appar- « tenente ad S, (7 => 2), è sempre proiezione di un %-latero di genere « effettivo zero, appartenente ad S, ». La generazione proiettiva delle curve razionali normali mediante stelle omografiche, permette inoltre di provare agevolmente, sempre per induzione, che « esistono curve razionali (irriducibili) di ordine 7, infinitamente vicine «ad un x-latero di genere effettivo zero, dato in S, ». Donde poi, a cagione della proposizione precedente, segue che esiste sempre qualche curva razio- nale (irriducibile) d’ordine n, infinitamente vicina ad un n-latero L, di genere effettivo p= 0, dato in S,. Un nodo P di L può essere di tre specie, rispetto ad una curva razio- nale C, infinitamente vicina ad L: a) P può essere un « punto di diramazione », per guisa che î due lati incrociantisi in P, sieno sostituiti in C da wr sol ramo. Di tali punti ne esistono n — 1 e possono essere scelti a priori, purchè sufficienti a sta- bilire la connessione; 5) oppure P può essere infinitamente vicino ad un nodo di C; c) o infine i due rami incrociantisi in P possono essere sostituiti in C da due rami, colle origini distinte, ma infinitamente prossime a P. I punti di ua delle ultime due specie possono anche mancare; man- cano simultaneamente solo quando p= 0. Consideriamo. in particolare, il caso di 7» = 2. Assegnando allora (-1)(n_- 2) ital ann 1) } 2 2 in modo che gli n—1 punti residui bastino a stabilire la connessione), si (a—-1)(n_-2) 2 punti doppî infinitamente prossimi ai prefissati. Vuol dire che alla varietà (irriducibile, n. 2) delle curve piane razionali d'ordine », appartengono tutti i possibili n-lateri piani: il che si sarebbe potuto stabilire anche usufruendo della rappresentazione parametrica. E poichè la varietà di tutte le curve piane irriducibili d'ordine n con d punti doppî, contiene la varietà delle curve con d-+1,d+2,..., punti doppî, così si conclude che: nodi dello x-latero piano L (sempre però avranno curve razionali infinitamente vicine ad L e cogli — 885 — La varietà delle curve piane irriducibili d'ordine n con (_-1)(a_-2) dI punti doppi, contiene tutti i possibili n-lateri piani. Un'altra conseguenza notevole, la quale del resto potrebbe dimostrarsi anche profittando del teorema riemanniano d’esistenza, è la seguente: (n — 1) (— 2) D fd Avendosi un n-latero piano L, si assegnino d <= dei n(n_- 1) 2 possa stabilire la connessione fra gli n lati. Esiste allora sempre qualche curva irriducibile d'ordine n, infinitamente vicina ad L, la quale pos- siede d, e soltanto d, nodi, infinitamente vicini agli assegnati. Ecco la semplice dimostrazione geometrica di questo teorema. (a_-1)(a—- 2) 2 gliono considerare inesistenti, se ne potranno assegnare p, in modo che lo n-latero resti connesso (e di genere virtuale zero). Dopo ciò si potrà costruire una curva razionale D, infinitamente vicina ad L, e con p+-d nodi infi- nitamente vicini ad altrettanti vertici di L, tra i quali vi sono ì d primi- tivamente assegnati. Nella varieta V delle curve piane irriducibili C} esistono dunque curve infinitamente vicine ad L, e coi d nodi infinitamente vicini agli assegnati : p. es. la curva D. Queste curve non possono tutte in conseguenza avere d-+4-1 (0 più) punti doppî, perchè entro V gli elementi (curve), infinita- mente vicini ad un elemento dato (L), son più numerosi che gli elementi infinitamente vicini ad L, entro una varietà subordinata a V, qual'è quella delle curve irriducibili d'ordine n con d + 1 nodi. Dal teorema precedente segue quest'altro : Alla famiglia V delle curve piane irriducibili d'ordine n e ge- nere p, appartiene ogni curva composta da una curva irriducibile di ordine n—1 e genere p— 1 e da una retta. Prese infatti rette generiche a, , 4: ,..., @n del piano, sì « assegnino » do 1398 (2 = anll@e0) 2) vertici dello (2 — 1)-latero a, 43 suoi punti doppi, per modo che coi rimanenti —d nodi si Posto p= —d, fra gli n -+-p —1 nodi, che sì vo- se An-r1, per guisa che esso resti connesso, e si chiami K la curva d'ordine n-—1 e genere virtuale p — 1, così ottenuta. Aggiungendo a K la retta 4,, se sì assegnano gli x — 1 punti ove a, sega K, si ottiene una curva scor- nessa Do, d'ordine n e di genere virtuale p—2; se invece si assegnano soltanto n — 3 delle suddette intersezioni, e si considerano come inesistenti le altre due P,Q, si ottiene una curva commessa C, d'ordine n e di genere RENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 113 — 886 — virtuale p. Ora, pel teorema precedente, vi sono curve irriducibili di V, infinitamente vicine a Co e coî d nodi infinitamente prossimi agli asse- gnati; e poichè esistono co” (h=3n-+p —3) curve di V passanti per P,Q, e tra esse v'è Co, così esisteranno co” curve di V, passanti per P,Q, infinitamente prossime a C, e coi 4 nodi infinitamente vicini agli assegnati. Ciascuna di queste curve, in quanto passa per P,Q ed è infini- tamente vicina a C,, ha un nodo infinitamente prossimo a ciascuno dei punti P,Q (**), sicchè è una curva infinitamente prossima alla Di, coi suoi d/-+-2 punti doppî assegnati. Ne consegue che D, appartiene a V, e precisamente alla totalità X delle curve di V con d + 2 nodi, la qual tota- lità ha dimensione non inferiore ad %. La X potrà ben essere riducibile (anzi, come vedremo, lo è effettivamente); ma comunque D, giacerà in una parte irriducibile W di X, di dimensione almeno uguale ad %. Poichè una particolare curva, Do, di W, è sconnessa, lo saranno tutte (4): la curva generica D di W risulterà cioè composta da una parte E, d'ordine 2 — 1 e genere virtuale p—1 e da una retta a. Dico che E è irriducibile. Invero, se E fosse spezzata in 4 curve E,,E.,..., E di ordini 2: ,%2,...,% @ di generi p,,P»,..,, con # punti d'intersezione da considerarsi come inesistenti, sarebbe p —1= Xp, 4-#—4-++1, e poichè E è connessa, do- vrebbe essere f > 0. Ora, una curva irriducibile, d'ordine x; e genere pi, dipende da 3, + pi —1 costanti; sicchè E dipenderebbe al più da 33 x; + + 2p, — 4 costanti, e quindi D=E+ a, al più da 3x+pT—3—t parametri, mentre prima abbiamo trovato che la dimensione di W è almeno Sn+p—3. Si conclude che la generica E è irriducibile. D'altra parte la varietà W' di /uzze le curve spezzate in una curva irriducibile d'ordine n—1 e genere p—1 ed in una retta, è irriducibile e dipende precisamente da 3n4+p—3 costanti: dunque W coincide con W' e resta così stabilito il teorema enunciato. Più in generale si prova in modo analogo, col processo d'induzione, che la condizione necessaria e sufficiente affinchè una curva spezzata C d’ordine n, appartengo alla varietà delle curve irriducibili d'ordine n e genere p, è che si possano scegliere alcuni nodi di C, in tal numero ed in tal posizione, che considerandoli come virtualmente inesistenti, st ottenga da C una curva connessa di genere virtuale p. Così p. es. alla varietà delle quartiche ellittiche irriducibili apparten- gono tutte le curve spezzate in una cubica ellittica ed in una retta, mentre (15) Cfr. Severi, Intorno alla costruzione dei sistemi completi non lineari, ecc. (Rend. del Circolo mat. di Palermo, 20, 1905), n. 1, 2°). a (**) Questa considerazione equivale in sostanza ad un ben noto principio di Enriques, che cioè una curva variabile con continuità, non può spezzarsi senza acquistare nuovi punti doppî. Ved. Enriques, Sulla proprietà caratteristica delle superficie irregolari (Rend. della R. Accad. delle Scienze di Bologna, dicembre 1904). — 887 — queste curve non appartengono alla varietà delle quartiche razionali irridu- cibili, perchè non possono considerarsi in alcun modo come curve connesse di genere virtuale zero. Da quanto precede risulta che, se in una generica D=E-| a di W, sì assegnano i d —x +3 nodi di E ed x —3 soltanto delle intersezioni di E con a, considerando come inesistenti le altre due P,Q, si ottiene una curva « totale » di V ed alla D sono pertanto infinitamente vicine curve irriducibili di V, che hanno i loro d nodi infinitamente vicini agli assegnati. Queste considerazioni sono importanti, perchè, come ho già detto, da esse si trae una dimostrazione algebrico-geometrica del teorema di esi- stenza di Riemann. Si prova, infatti, anzitutto geometricamente, premettendo il computo del numero dei moduli di una curva di genere p ('*), che il gruppo di diramazione G2,+sp-.» di una funzione algebrica ad 7 rami, %,, Uz , +. Un, di genere p, può assumersi ad arbitrio sulla retta z-pla (sfera complessa) « (15). Ciò posto, per dimostrare che si possono scegliere arbitrariamente anche le sostituzioni in G (purchè beninteso mediante esse la costruenda funzione risulti connessa), si distribuiscano i punti di G in o=%nx+p—1 coppie A;,B; (6(=1,...,0) permutanti ciascuna gli stessi due rami. Avendo dimo- strato la possibilità dell'arbitraria scelta di G, è chiaro che basterà stabilir l’esistenza della funzione algebrica richiesta, quando i punti di due coppie, per es. A,,B1; As, Bs, tendono rispettivamente alle medesime posizioni limiti H,, Hs, trascinandosi dietro le relative sostituzioni. Nè a cagione dei risultati topologici di Liroth-Clebsch, i quali sono indipendenti da ogni questione di esistenza, è restrittivo il supporre, finchè p > 0, che le coppie A.,B, ed A»,B: permutino entrambe gli stessi rami %,,%:, e che questi quattro punti di diramazione sieno anzi i soli operanti su v,. Astraendo allora da questi punti, i rami w»,...,%, restano connessi, e, ammesso dimo- strato il teorema per le funzioni di genere p—1 ad n —1 rami, appena sia n=>p-+2, si potrà costruire, in un piano per v, una curva E d'ordine a—-1, la quale si proietti da un centro O, sulla retta (n — 1)-plau= = (%2,%3,..-n), diramata nel modo assegnato nei punti A:,B3.... , Ag,Bs. Conducasi la retta OH,, e fra gli 27 —1 punti ov'essa taglia E, scel- gasi quello, P, che si proietta sul ramo v:; e similmente su OH; si scelga quel punto Q di E, che corrisponde ad ws. Posto a= PQ, la curva composta E + a proiettasi da O su % secondo la retta n-pla (1, %2,...,%n) — Ove %; è la proiezione di a — ed è dira- (!5) Cfr. ad es. le mie citate Zezioni, pag. 196. Nell'edizione tedesca ho colmato una lacuna esistente in questo punto e che nelle Zezioni non avevo mancato di segna- lare in modo esplicito. (1°) Cfr. Enriques, Sui moduli d'una classe ecc. (citata), n. 1. — 388 — mata secondo il convenuto nei punti H,, H:,A43,B:,...,Ac, Bs. Una curva irriducibile C, d'ordine x e genere p, infinitamente prossima alla E + (nella quale i nodi P,Q si riguardino come inesistenti), proiettata da O su v, risolve la proposta questione di esistenza. Si ha così un processo di riduzione da p a p—1, mediante il quale, avendo supposto che sia n =>p +2, ci si riduce a dimostrare il teorema per le curve razionali. E per queste poi lo si stabilisce usufruendo del fatto che, assegnati su x x —1 punti di diramazione doppî H, ,H.,...,Hn_, e le sostituzioni permutanti in essi i rami %1,%2,...,%n, @siste sempre, in un piano per «, un n-latero L= a; 42... 4, che si proietta dal centro O su x secondo la retta x-pla (u, 2, ...,%n) diramata nel modo prefissato. Una curva razionale irriducibile, d'ordine x, infinitamente vicina ad L, ove si riguardino come inesistenti i nodi di L, che danno per proiezioni i punti H, risponde allora alla questione di esistenza. Chimica. — // quinto trinitrotoluene, (€), e prodotti dinitro- alogeno-sostituiti corrispondenti. Nota del Socio G. KORNER e del dott. A. CONTARDI. Continuando le nostre ricerche intorno ai trinitrotolueni isomeri, per giungere alla preparazione dei due termini ancora ignoti, abbiamo voluto applicare ancora la reazione di sostituzione del gruppo nitrosilico a quello amidico in binitrotoluidine, convenientemente scelte, collo stesso procedimento da noi precedentemente usato (*'). Oggetto di questa Nota è lo studio del nuovo trinitrotoluene: e di alcuni dinitroalogenotolueni corrispondenti. Le dinitrotoluidine che per sostituzione del gruppo amidico col nitrosile possono dare il trinitrotoluene cercato, sono le seguenti: CH, CH; CH; I \NH, De dr NONO. NO\_NH; NH, No; (1) Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, vol. XXIII, ser. 5%, 1° sem., fasc. 5°; fasc. 9°; 2° sem. fasc. 10°. ene epperò le nostre precedenti esperienze ci hanno dimostrato ehe la sostituzione di un amido-gruppo con un nitrosile in un'amina aromatica nitrosostituita avviene assai facilmente quando il nitro-gruppo od i gruppi nitrici si trovano in posizione orto- o para- rispetto al gruppo amidico; difficilmente e con rese basse quando i nitro-gruppi si trovano nella posizione meta: era quindi naturale che si scegliesse come prodotto di partenza la prima di queste dinitro-toluidine; e ciò anche perchè già nota e facilmente ottenibile. La binitrotoluidina 1.2.3.5 (CHz in 1, NH: in 2) era stata preparata da tempo (') trattando l’etere etilico del dinitro-orto-cresolo con ammoniaca alcoolica. Allo scopo di poter disporre di quantità piuttosto grandi di questa binitrotoluidina, ne abbiamo studiati altri modi di preparazione. Era noto, dai lavori del Lellmann e del Wiirthner (?), che. se si tratta l'acetil-derivato dell’ortotoluidina con una miscela di acido nitrico ed acetico, si ottengono le due mononitroacetotoluididi isomere : CH, CH, TH PARTO I | |< .CH, | 300 CH, NO\ ANO: La miscela di queste due toluididi veniva fino ad ora lavorata, sapo- nificando parzialmente con potassa caustica in soluzione alcoolica la miscela stessa, di modo che rimaneva inalterata, come più stabile, la nitrotoluidide: CH, A H | [-00 .CH, 280: che si separava dall'altra toluidina formatasi, per cristallizzazione dall'alcool, in granelli duri. Noi abbiamo seguìto lo stesso processo di nitrazione, ma abbiamo separato le due toluididi per cristallizzazione frazionata dall'alcool. Le porzioni meno solubili in questo solvente, ripetutamente ricristallizzate, dànno la toluidide CH; NES N<00 . CH, DIA NO; (*) Stadel, Liebios Annalen, 277, pp. 183-184. (?) Liebigs Annalen, 228, pag. 240. — 390 — in brevi aghi bianchi, solubili a caldo in 15 parti di alcool e fusibili a 201°,6 gradi. Dalle acque madri, per ripetute cristallizzazioni da soluzioni assai di- luite, si ottiene la seconda nitroacetotoluidide cristallizzata in grossi prismi a tavole splendenti fusibili a 158°. Se queste due acetotoluididi separatamente, o la loro miscela, si trat- tano con sei volte il loro peso di acido nitrico della densità 1,52 alla tem- peratura di 0°, versando dopo qualche ora il prodotto della reazione in ghiaccio finamente diviso, si ottiene la binitrotoluidide nuova: Cristallizzata dall'alcool, sì presenta in sottilissimi e brevi aghetti bianchi fusibili a 205°,2. La determinazione quantitativa dell'azoto ha dato: Sostanza impiegata gr. 0,364. AZOLO (CC OA (SIM RRI Azoto trovato 17,86 °/, » calcolato per C$H30;N3z 17,69 °/,. Dalla dinitroacetotoluidide si può facilmente ottenere la corrispon- dente toluidina, riscaldando per 10 minuti a 105° con acido solforico con- centrato preso nella proporzione di circa 6 volte il peso, e versando in acqua. La binitrotoluidina così preparata è purissima e fonde a 213°. È da no- tarsi che con anidride acetica non sì era potuta trasformare mai la binitro- toluidina nel corrispondente acetilderivato. Si può giungere anche direttamente alla dinitroacetotoluidide sopra de- scritta partendo dalla ortoacetotoluidina, introducendola, in piccole porzioni, in sei volte il suo peso di acido nitrico della densità 1,52, mantenendo costantemente a 0° la miscela. Il prodotto della reazione, dopo qualche ora, viene versato in ghiaccio, e il precipitato vien raccolto su filtro; si purifica cristallizzando dall'alcool. La resa è però assai scarsa. Molto più convenientemente si arriva alla dinitrotoluidina cercata ni- trando l'etere metilico od etilico dell’ortocresolo, e riscaldando questi eteri con ammoniaca alcoolica. In un bicchiere di ferro smaltato, raffreddato con una miscela frigorifera, venivano introdotti 500 grammi di acido nitrico della densità 1,5. Il liquido era violentissimamente agitato mediante un'elica di vetro mossa da un mo- torino elettrico, e, goccia a goccia, veniva aggiunto l'etere etilico dell’orto- CR RON cresolo, purissimo, bollente a 184°-184°,5; ogni goccia fa, in contatto collo acido nitrico, una piccola esplosione. A reazione finita, versato in acqua il prodotto e lavatolo, lo si cristalliz- zava da alcool. Si ottennero, così, piccoli aghetti bianchi fusibili a 589,4, estre- mamente sensibili alla luce, che li rende subito brunicci. In modo perfettamente analogo, sostituendo l'etere metilico dell’orto- cresolo a quello etilico, si preparò il dinitro-ortocresolato metilico, affatto simile nell'aspetto al precedente, meno sensibile alla luce e fusibile a 669,5. Preparammo ancora i due eteri del dinitro-cresolo sopra descritti, trat- tando con lo ioduro metilico od etilico il sale di argento del dinitro-orto- cresolo; anche così sì ottengono i due eteri, identici nelle proprietà a quelli avuti per nitrazione diretta. In questa preparazione ultima si deve però notare che la reazione tra lo ioduro alcoolico ed il sale di argento può diventare così violenta da pro- durre l'esplosione della massa; nè si può diluire lo ioduro alcoolico con un solvente inerte (alcool metilico assoluto, etere o benzolo), perchè in tal caso la reazione non si effettua più a temperatura ordinaria ed il riscaldamento produce profonda alterazione delle sostanze. Per raggiungere lo scopo, bisogna impiegare un grande eccesso di ioduro metilico, tanto, cioè, quanto basta per bagnare tutta la massa del sale di argento, trasformandola in una molle poltiglia. Comunque ottenuti, i due eteri del dinitroortocresolo, per trattamento con ammoniaca alcoolica a freddo, dopo qualche giorno, o a 100° dopo qualche ora, dànno quantitativamente la dinitrotoluidina CH; NE, NOVENO: Essa si presenta, se cristallizzata dall'alcool in cui è pochissimo solu- bile, in piccoli aghi piatti di color giallo-limone chiaro, fusibili a 213°; è poco solubile in tutti i solventi organici generalmente usati. Trinitrotoluene (8) Si sospesero or. 19 della dinitrotoluidina sopra deseritta, finmamente pol- verizzata, in gr. 35 di acido nitrico della densità 1,40, raffreddato il tutto — 3892 — a 0°; la poltiglia ottenuta si fece attraversare da una corrente di vapori nitrosi, fino a che tutto si sciolse nel liquido verde formatosi. Fatta attra- versare indi la soluzione da una rapida corrente d’aria, si scacciò l'eccesso dei vapori nitrosi; la soluzione di nuovo si intorbida, e precipita il nitrato del diazodinitrotoluene. La poltiglia si versò allora sopra ghiaccio pestato (5-4 chilogrammi) e si trattò con una soluzione di nitrito sodico (gr. 60 di nitrito sodico in gr. 500 di acqua). Immediatamente si svolgeva azoto e precipitava il trinitrotoluene formatosi. Dopo circa dodici ore di riposo in ambiente tiepido, si raccoglie il precipitato su filtro, lo si lava con acqua e si tratta il prodotto greggio con quattro volte il suo peso di acido nitrico della densità 1,40 a bagnomaria per qualche tempo, e cioè fino a quando non più si svolgono vapori rossi. Per raffreddamento della soluzione nitrica, sì otten- gono bellissimi cristalli quasi bianchi; aspirati, lavati con acqua, ricristal- lizzati due volte dall'alcool, sono chimicamente purì e fondono costantemente a 97°,2. La resa è del 90 °/,. Sottoposti alla determinazione dell’azoto gr. 0,123 di sostanza diedero: Azoto ce. 19 a = 8° h4= TOSI, Azoto trovato = 18,53 °/ » calcolato per CH; N306= 18,50 0/0. Da una miscela di etere ed alcool il nuovo trinitrotoluene cristallizza in grossi prismi ben sviluppati, leggiermente giallognoli. Le costanti cristallografiche forniteci dal prof. Artini sono le seguenti: Sistema rombico classe bipiramidale a:b:e=0,6363:1:0,3725. Forme osservate [100], 3001, {110}, }101}, {201{, {121}, }241| 100.110 = 329,28" 001.101= 30,21". Piano degli assi ottici }010}. Bisettrice acuta positiva normale a }001|. Dispersione degli assi ottici appena sensibile: 0 < v. Per il trinitrotoluene (d) da noi descritto nella Nota precedente (!), avente la costituzione i dati cristallografici ottenuti dal prof. Artini sono i seguenti: (!) Korner e Contardi, loc. cit. — 893 — Sistema monoclino classe prismatica ade ROIO pi==‘982965, Forme osservate : 100} , {110}, {001}, {111} 3 1000 ==502:3458 1000018 %30, 111 .110= 549,7”. Sfaldatura perfetta, abbastanza facile, secondo j001{. Piani degli assi ottici normali al piano di simmetria. Dalla faccia di sfaldatura escono, al. quanto obliquamente, le bisettrici acute negative. Dispersione orizzontale per- cettibile ma debole. Dispersione degli assi ottici piuttosto forte: 0 > v. Il trinitrotoluene sciolto in acetone, per aggiunta di qualche goccia di ammoniaca, dà una colorazione rosea da prima, poi rossa, poi bruna fino al nero. Reagisce colla massima facilità cogli alcali. Coll'ammoniaca alcoolica a freddo elimina un nitrosile sostituendola con un gruppo amidico e rigenerando così la dinitrotoluidina dalla quale si era partiti. Sottoposto all’ossidazione, dà l'acido trinitrobenzoico corrispondente: COOH \wNo, vol ho Si sospesero gr. 10 di trinitrotoluene in gr. 500 di acido solforico della densità 1,8; indi, scaldindo la massa a 50°, sì aggiunsero a poco a poco gr. 14 d acido cromico e si mantenne il tutto caldo a questa temperatura fino a scomparsa dei cristalli dell'ossidante. Si versò indi in ghiaccio evitando ogni riscaldamento e la soluzione acquosa risultante si estrasse con etere. Il liquido etereo, lavato con poca acqua ed evaporato, dà un residuo oleoso che in breve solidifica in una massa cristallina e quasi bianca. Cristallizzato dall’ acqua a 65°-70°, si separa sotto forma di lamine rombe splendenti, larghissime, che all'aria sfioriscono perdendo acqua di cristallizzazione. RenpiconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 114 — 894 — I cristalli laminari fondono a 82° e contengono due molecole di acqua di cristallizzazione. Disidratato completamente riscaldando da principio a 60° in una corrente di aria secca, poi a 100°, l'acido fonde a 171°. Sottoposti gr. 0,198 di sostanza alla determinazione dell’azoto, si ebbe: Azoto ce. 29 a {= 17° h= 758", Azoto trovato 16.28 °/,; » calcolato per C,H3N303= 16,3 °/. Bollito con acqua, l'acido trinitrobenzoico si altera sostituendo con un ossidrile, il nitro- gruppo in posizione orto rispetto al carbossile e si ottiene così l'acido dinitrosalicilico identificato per il punto di fusione, trovato a 166° (Salkowski dà 165°), la colorazione rossa che fornisce coi sali ferrici, e le proprietà dei sali di Bario. L'acido trinitrobenzoico scaldato con alcool metilico assoluto in tubi chiusi per alcune ore a 125° perde un gruppo NO» sostituendolo con 0CH; in modo da trasformarsi nell’acido vol NESS non ancor descritto che si ottiene in splendentissimi cristalli tabulari che fondono a 132°. L'acido trinitrobenzoico trattato con ammoniaca alcoolica genera il sale ammonico dell'acido binitro antranilico, sale che cristallizza anidro dalla soluzione alcoolica sotto forma di cristalli aghiformi arranciati, mentre d1- l’acqua lo si ottiene di color più chiaro con una molecola di acqua di cri- stallizzazione. Gr. 1,361 di sostanza perdettero a 100° gr. 0,091 di acqua corrispon- dente a 6,7°/ di acqua, mentre per 1 mol. si calcolano 6,86 °/. Se in questa reazione invece dell'ammoniaca alcoolica si impiega quella acquosa si ottiene lo stesso sale misto a molto dinitro salicilato ammonico. — 895 — Dal primo, facilmente si può acidificando con un acido minerale giungere all’acido metadinitroortoacidobenzoico fusibile a 256°. Si ottenne trattando il nitrato del diazodinitrotoluene CH, /NN:NNO, vol ho. preparato nel modo sopra descritto con cloruro RAMICcO in soluzione acquosa in presenza di molto ghiaccio. Dopo cessato lo sviluppo dell'azoto, si rac- coglie su filtro il precipitato, si lava, si distilla in corrente di vapore, indi il prodotto ottenuto si cristallizza dall'alcool (3 di sostanza in 10 di alcool). Per raffreddamento da questo solvente si hanno sottili aghetti leggiermente paglierini; per evaporazione lenta di miscela di alcool ed etere, si hanno grossi prismi fusibili a 65°. Sottoposti gr. 0,1804 alla determinazione dell'azoto, diedero: Amovo rice 20/00 = == de Azoto trovato 12,99 °/,. ” calcolato per C-H; N30, CI 12,90 °/. Bromodinitrotoluene. CH; ARI iO, N NO: 0, Si ottiene in modo analogo al precedente, sostituendo il cloruro col dro- muro ramico. — 890 — Distilla facilmente in corrente di vapore e si scioglie nell’alcool sol- tanto nelle proporzioni di 1 a 4. Puro, si presenta, se cristallizzato da etere ed alcool, in grossi prismi giallo-chiari fusibili a 95°. Sottoposti alla determinazione dell'azoto gr. 0,227 di sostanza, diedero : Azoto ce S2la li 1208, 525 Azoto trovato 10,88 °/,. » calcolato per C,H;N0,Br 10,72 °/. IJododinitrotoluene. CH, AN ac DA NI i Na i SV} (ELE) 0» Si preparò in modo analogo ai precedenti; solo, in questo caso occorre separare per filtrazione il nitrato del diazodinitrotoluene dall'eecesso di acido nitrico. Il sale, sospeso in acqua e ghiaccio, venne trattato con ioduro di potassio in soluzione acquosa. Il precipitato formatosi, raccolto su filtro e lavato, fu distillato in corrente di vapore e cristallizzato da alcool. Dall'alcool ed etere sì ottengono piccole tavole raggruppate, di color giallo-limone arico ; se nella miscela solvente prevale l'etere, allora si separa in prismi isolati, lunghi, fusibili va; 51905. Sottoposti alla determinazione di azoto, si ebbe: Sostanza impiegata gr. 0,378. A z0ob0cent28.20an 5° 061 Azoto trovato = 9,10 0/5. » calcolato per C_HsN:0,I= 9,12 °/,. Questi tre binitroalogenotolueni, e quelli da noi già descritti e corri- spondenti al trinitrotoluene 1.3.4.5 (CH; in 1), sono studiati cristallo- graficamente dal prof. Artini, e dettagliatamente saranno quanto prima da lui descritti. Un'altra nostra Nota tratterà del sesto trinitrotoluene, che abbiamo otte- nuto in modo analogo partendo da altri materiali convenientemente scelti. 997 — Botanica. — Un caso interessante di variazione nel fiore di una Iris. Nota del Socio R. PiRoTTA. Da molti anni seguo il modo di comportarsi di alcune forme di /ris a fiore bianco allo scopo di trovarne l'origine, che è molto discussa. Le osservazioni hanno dato modo di rilevare non pochi fatti interes- santi, tra i quali la comparsa più o meno frequente di striature, macchio- line, e macchio più o meno vistose di color più o meno violaceo sui tepali e sugli stili ('). Dalle osservazioni continuate fino ad oggi colla massima cura ho potuto stabilire: 1°) che i medesimi individui producono ora fiori di color bianco puro, ora fiori con macchioline, lineette, linee o macchie più grandi e anche vistose; 2°) che le piante che in un dato anno portarono fiori macchiati, li produssero di color bianco puro nel successivo o nei successivi periodi vege- tativi; 3°) che la forma, l'ampiezza, la posizione e il numero delle macchie varia anche nella medesima infiorescenza e nei successivi periodi vegetativi. Quest'anno però ho potuto osservare nelle mie /77s un caso di varia- zione del colore dei fiori molto differente da tutti gli altri fino ad ora osser- vati, il quale per questo suo interesse merita di essere particolarmente fatto conoscere. Una piccola ceppaia proveniente da un pezzo unico di rizoma che lo scorso anno aveva portati fiori tutti uniformemente colorati, cioè bianchi, ha prodotto quest'anno nel mese di aprile due germogli fiorali, dei quali uno portò quattro fiori uniformemente colorati come quelli dello scorso anno, l’altro portò pure quattro fiori, ma colorati di bianco e di violetto. Di questi quattro fiori, due, fioriti per i primi e cioè, il terminale e quello mediano per posizione fra i tre laterali, si mostravano divisi da un piano parallelo all'asse fiorale in due metà simmetriche, una bianca, l'altra vio- lacea. E precisamente la metà bianca comprendeva metà di un tepalo bar- bato e metà del corrispondente stilo, un tepalo eretto, un tepalo barbato e il corrispondente stilo, e metà di un tepalo eretto; la metà violacea compren- deva metà di questo tepalo eretto, un tepalo barbato col corrispondente stilo e metà di un tepalo eretto. Cosiechè, considerato l'intero fiore nella posizione normale delle sue parti, dei cicli trimeri fiorali, quello costi- (') Di questo fatto è data notizia fin dal 1909, nella Nota inserita in questi stessi Kendiconti, vol. XVIII, ser. 5%, pag. 481. — 898 — tuito dai tepali barbati, ne presentava successivamente uno bianco, un altro viola e il terzo per metà bianco, e per metà viola; lo stesso, ma in senso opposto, offriva il ciclo fatto dai tepali eretti; e così ma disposti come le parti del giro esterno, il cielo fatto dagli stili, colle relative appendici. Lo stesso modo di distribuzione della colorazione, offre il ciclo dei tre stami, benchè meno marcatamente. La barba è però simile in tutti e tre i tepali; mentre la reticolatura della parte inferiore dei tepali è violacea su fondo bianchiccio nei tepali o parti violacee, verde, giallognola nei tepali o parti bianche. Gli altri due fiori deviano più o meno dal tipo dei due precedenti. Uno infatti, quello più vicino al terminale, ha un tepalo eretto bianco, un altro violaceo, il terzo per metà bianco, per l’altra metà soltanto in parte e leggermente violaceo, con una striscia cioè che da un lato va verso la base del disco e per tutta l'unghia; degli stili uno è bianco, l'altro violaceo, il terzo metà bianco e metà violaceo. Dei tepali barbati uno è bianco, l'altro violaceo, il terzo metà bianco, metà violaceo. Il quarto fiore, il più basso di tutti, presenta due dei tepali barbati bianchi ed uno violaceo, e degli eretti uno è bianco, l’altro quasi metà bianco e metà violaceo, prolungandosi il colore violaceo sulla estremità superiore dell'altra metà del disco, l’ultimo bianco per circa due terzi violaceo nel resto. Dei tre stili, due sono bianchi, il terzo violaceo. Diverse sono le spiegazioni che si possono proporre del caso or ora illustrato, secondochè si voglia considerare una variazione individuale o una variazione da incrocio. Ma poichè la questione è legata ad altri fatti osser- vati, mi riservo di discutere il significato ed il valore di questo caso di variazione del colore del fiore in un lavoro di prossima pubblicazione intorno alle diverse sorta di variazioni osservate in queste /7/s. Fisica. — Sul processo per rendere stabile il funzionamento dei tubi Rontgen mediante l'assorbimento dell'anidride carbo nica (*). Nota del Corrispondente P. CARDANI. Nella mia ultima Nota (?), nella quale ho reso conto dei fenomeni che sì osservano nei tubi Rontgen quali provengono dalle fabbriche, quando, dopo averli aperti e collegati subito con un manometro ed una pompa, sì sotto- pongono al riscaldamento e al passaggio delle correnti di un rocchetto di induzione, ho dimostrato come dagli elettrodi si svolga una notevolissima quantità di gas, che, col proseguire del processo, va da prima diminuendo con sufficiente rapidità fino a ridursi, dopo parecchi giorni, sensibilmente nulla; (') Lavoro eseguito nell'Istituto di fisica della R. Università di Parma. (*) Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, vol. XXIV, 1° semestre, fascicolo II. Seduta del 17 gennaio 1915. — 399 — ma ho altresì fatto notare che, anche quando gli elettrodi sembrano esauriti, col riposo l'emissione del gas per il passaggio delle scariche riprende, così che la pressione aumenta e conseguentemente cessa anche l'emissione dei raggi X. D'altra parte ho dimostrato che il gas che veniva emesso dagli elettrodi non era costituito nè dall'aria, nè dalle combinazioni dei gas che si trovano nell'aria. Sebbene mi sembrasse molto strano che i tubi provenienti dalle migliori fabbriche, e che presentano così notevole stabilità di funzionamento, doves- sero dar luogo ad una così considerevole emissione di gas da parte degli elettrodi, qualora fossero stati precedentemente esauriti, per il solo fatto di esser questi rimasti per qualche tempo in presenza dell'aria atmosferica, tuttavia ho creduto conveniente di procedere fino in fondo e vedere se col processo finora seguìto mi riusciva di riottenere la loro perfetta stabilità di funzionamento. Per questo ho portato la temperatura del tubo col quale avevo fatto le precedenti esperienze fino a 400°, ed ho cercato di accelerare l'emissione del gas residuo, sia col passaggio delle scariche, sia col funzionamento della pompa Gaede spingendo la rarefazione al massimo limite. Ma dopo parecchi giorni di lavoro mi accorsi che pochissimo si era guadagnato: lasciando il tubo in riposo per alcune ore, riprendeva sempre l'emissione del gas da parte degli elettrodi e presso u poco nella stessa misura. Siccome questo gas non veniva riassorbito, gli aumenti di pressione si andavano sommando: così, non ostante il lunghissimo processo di esaurimento fatto subire agli elettrodi, mandando per alcuni minuti le scariche del rocchetto ad intervalli di alcune ore, la pressione in quattro giorni era salita dal valore di 625 (pari a 0,052 mm. di mercurio) al valore di 2714 (pari a 0,226 mm. di mercurio), nè l'aumento accennava ad arrestarsi. Tuttavia l'aspetto, che presentava ora il tubo al passaggio delle scariche, era assolutamente diverso da quello che presentava all'inizio del processo al quale lo aveva sottoposto. Mentre, da principio, a questa stessa pressione di 0,226 mm. di mercurio, la luce che invadeva tutto il tubo era di un colore bianco-azzurrognolo ed il fiocco sul catodo quasi bianco, ora la luce diffusa nel tubo era di un magnifico colore verde-mare ed il fiocco sul catodo era di un colore rosso vivo. L'analisi spettroscopica mi dimostrò che parecchie di quelle righe, che avevo riferite nella mia precedente Nota, erano scomparse, ed erano rimaste tre sole righe, quelle precisamente appartenenti all'idrogeno. Dunque gli elettrodi, da principio, emettono un altro gas che poi col riscaldamento, con le scariche e col funzionamento della pompa, si va eliminando; e alla fine il gas che viene emesso è soltanto idrogeno. Tutti questi fatti mi convinsero che il processo seguìto nella costru- zione dei tubi Roòntgen per ottenerne la stabilità non era quello che gene- — 900 — ralmente sì ritiene ('): non era possibile che per costruire un tubo Rontgen si dovesse seguire un processo di esaurimento degli elettrodi di alluminio così lungo e penoso. Ho quindi pensato che questo processo potesse esser melto diverso e potesse consistere nel saturare gli elettrodi con qualche altro gas che impedisse la emissione dell'idrogeno. Questa idea veniva avvalorata dai risultati che io aveva ottenuti, e di cui renderò prossimamente conto, sull'autorarefazione che si produce nei tubi per l'assorbimento di varî gas da parte degli elettrodi di alluminio per il passaggio delle scariche, auto- rarefazione che può raggiungere vuoti molto spinti, da oltrepassare anche quella pressione per la quale avviene il massimo di emissione dei raggi X. Tra questi gas, uno di quelli maggiormente assorbiti era l'anidride carbonica, la quale si dissocia rapidamente per il passaggio delle scariche, come vedremo in seguito, in ossigeno ed ossido di carbonio: di questi due gas, l'ossigeno viene assorbito per primo, poi l'ossido di carbonio: e l'aspetto del tubo al passaggio delle scariche, quando conteneva l’ossido di carbonio, era del tutto simile a quello che si aveva col gas emesso dagli elettrodi nei primi giorni del processo da me seguìto per ottenerne l'esaurimento dai gas occlusi. L'analisi spettroscopica avrebbe potuto assicurarmi se realmente la sta- bilità di funzionamento dei tubi Réontgen fosse dovuta all'assorbimento del- l'anidride carbonica 0, meglio, dell’ossido di carbonio: infatti, se nella costru- zione dei tubi Rontgen l'emissione dell'idrogeno da parte degli elettrodi di alluminio venisse eliminata saturando gli elettrodi stessi con l'ossido di car- bonio, è chiaro che sottoponendo i tubi, che così fossero stati preparati, al riscaldamento e al passaggio delle scariche a temperature elevate, il gas, che da prima doveva svolgersi, doveva esser evidentemente l'ossido di car- bonio, e quindi esser visibili allo spettroscopio le sole righe di questo gas; in seguito, proseguendo l'esaurimento degli elettrodi dall'ossido di carbonio, doveva cominciare anche l'emissione dell'idrogeno ed aversi nello spettro- scopio lo spettro sovrapposto dell'ossido di carbonio e dell'idrogeno; infine, quando tutto l’ossido di carbonio fosse stato eliminato, il gas emesso dagli elettrodi doveva ridursi soltanto all'idrogeno, e allo spettroscopio doveva osservarsi il solo spettro di questo gas. A quest'ultimo risultato, come già dissi, ero pervenuto: si trattava dunque di seguire con l'analisi spettrosco- pica le modificazioni dello spettro del gas emesso dagli elettrodi prima di arrivare alla sola emissione dell’ idrogeno. Ho cominciato col mandare nel tube, col quale aveva fatte le precedenti esperienze dell'anidride carbonica. Dopo aver ottenuto la dissociazione per il passaggio delle scariche e l'assorbimento dell'ossigeno, ho esaminato con cura lo spettro del gas rimasto, cioè dell'ossido di carbonio: esso era costituito da sei righe, delle quali quattro molto brillanti e due più larghe e più (*) Vedi, per esempio, I. Stark, Dic Elektrisitàt in Gasen, 1902, pag. 17. — 901 — deboli verso il violetto, e di uno spettro a colonnato nella regione meno rifrangibile; delle sei righe fissai la posizione. Indi ho staccato il tubo finora adoperato; ne apersi un nuovo, saldan- dolo subito al manometro ed alla pompa, ed ho ricominciato il processo già descritto nella precedente Nota, riscaldandolo successivamente, progressiva- mente e per diversi giorni di seguito, alle temperature di 100°, 200°, 300° e 400° ed aiutando colle scariche l'emissione del gas. I risultati dell’analisi spettroscopica furono quelli che avevo preveduti; e, cioè, da principio, eliminata l’aria che era rimasta aderente alle superfici degli elettrodi, il gas emesso presentava il sole spettro dell'ossido di car- bonio; in seguito si aggiunsero allo spettro dell'ossido di carbonio le righe dell'idrogeno; alla fine scomparve lo spettro dell'ossido di carbonio e rimase solo quello dell'idrogeno. Come prova definitiva, ho collocato un ettimo tubo Réontgen in una sca- tola di amianto, e lo portai a 200° per fare uscire col semplice riscaldamento un po’ del gas contenuto negli eiettrodi; dopo un'ora di riscaldamento, lo lasciai raffreddare e vi mandai la corrente del rocchetto. La luce, che inva- deva tutto il tubo, presentava il solito aspetto bianco-azzurrognolo ; e l’analisi spettroscopica mi confermò che il gas emesso era ossido di carbonio. Da tutto quanto precede, risulta dunque manifesto che la stabilità nel funzionamento dei tubi Rontgen per l'emissione dei raggi X sì doveva otte- nere facendo assorbire dagli elettrodi una sufticiente quantità di ossido di carbonio: non mi restava quindi che sottoporre queste conclusioni al con- trollo dell'esperienza. Ho fatto la massima rarefazione possibile nel tubo; indi, escluso il tubo e il manometro, ho mandato per diverse volte, nella pompa, dell’anidride car- bonica ben secca; finalmente, ridotta convenientemente la pressione, ho rista- bilito la comunicazione tra la pompa e il rimanente dell'apparecchio. Pre- parate così le cose, ho di nuovo esclusa la pompa ed ho mandato le scariche nel tubo, avendo sempre cura, mentre funzionava il rocchetto, di tener chiuso il rubinetto di comunicazione tra il tubo ed il manometro per evitare che la scarica potesse qualche volta propagarsi, non ostante le precauzioni prese e riferite nella precedente Nota, al mercurio del manometro, Nel seguente prospetto sono riportati: nella prima colonna, indicata con la lettera T, la durata, in minuti primi, di funzionamento del rocchetto ; nella seconda, indicata con 4T, il numero dei minuti primi trascorsi tra due let- ture consecutive della pressione: nella terza, il numero w delle divisioni lette nella provetta di Mach-Leod (ricorderò che il livello del mercurio veniva sempre condotto nel ramo esterno sul piano orizzontale passante per lo zero della graduazione); nella quarta colonna i valori di w? proporzionali alla pressione P, il cui vero valore in mm. di mercurio si otterrebbe divi- dendo w? per 12,000, come è indicato nella mia Nota precedente; nella RenpICcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 115 — 902 — quinta colonna le differenze 4P della pressione tra due letture consecutive; Ad nella sesta il valore del rapporto di, per vedere l'andamento dell’assor- bimento. 4Pp : AP Il 4 w P 4P — RAZR iO P 4P == dl 4T È Da 20002 enna — 02L1|— 81 PMR PO eo 21 gi TO OO eis gp o 1 100,0 | 10000 ; Zali È 72,0 {5184 SEE DI ERI gi Legio 20 | o '— 6950/85 2 104,0 | 10816 n i 251 67,0 | 4489 1 + 420|+ 420 20 ra i 520,|2296 3 106,0 |11236 271 63,0 | 3969 pi r918 L#918 20 3 — 488 |— 24 4 107,0 | 11449 291 59,0 | 3481 2 0 0 20 — 565 |— 28 6 107,0 | 11449 81] 54,0 | 2916 5 sog 218|— 42 S 20 — 416/21 11 106,0 | 11236 : 35 50,0 | 2500 10 — 420|—. 42 È 20 — 4380 |— 22 21 104,0 | 10816 301 45.5 2070 SLA ; 10 — 249 — 25 = 20 — 373 |— 19 S1 10 102,8 | 10567 0 0 371 20 41,2| 1697 953 13 41 102,8 | 10567 391 38,0 | 1444 È; fe 10 — 300|T— 30 200/05 — 162|— 8 51 101,3 | 10267 ; 411 55,8 | 1282 10 — 2607|—- 27 , 20 — 140|— 7 61 100,0 | 10000 431 33,8 | 1142 Solo OO 00 20.22 29:26 71 99,0| 9801 451 32,0 | 1024 20 — 547). 27 40 — 154|— 4 91 96,2| 9254 491 29,5| 870 20 4 — 568/|— 28 60 È ; — 184|— 3 111 93,2) 8686 5 551 26,2| 686 20 — 586 — 29 R 45 |< s 71 | 22156 131 90,0| 8100 596 24,8| 615 20 di din 5 Ri RE e Ao) OTO 151 87,4) 7639 616 24,0| 576 20 — 617|T— 831 120 — 114|— 0,9 171 20 83,8| 7022 622 31 736 20 21,5] 462 21 10 191 80,0| 6400 756 21,0| 441 7 Dallo specchio sì vede che la pressione nei primi minuti è aumentata 11449 7310 sociata in ossigeno ed ossido di carbonio. L’assorbimento, da prima più rapido per la presenza dell'ossigeno, si mantiene poi sensibilmente proporzionale al tempo, quando il gas che viene assorbito è quasi del tutto costituito dal- l’ossido di carbonio, e soltanto a pressioni relativamente basse esso dimi- nuisce, finchè cessa del tutto e la pressione diventa costante. Dopo questo primo assorbimento di anidride carbonica, il tubo appariva già molto più stabile di prima: lasciati, cioè, gli elettrodi in riposo per molte ore, riprese bensì l'emissione dell'idrogeno (la cui presenza sì rive- lava per una leggera colorazione rosea del fiocco aderente al catodo), ma in quantità molto minore di quella che si aveva precedentemente. Ciò dimo- strava che la quantità di ossido di carbonio assorbita dagli elettrodi non era ancora sufficiente per impedire del tutto l'emissione dell'idrogeno: ho quindi proseguito per parecchie volte di seguito a mandare, con lo stesso procedi- mento prima descritto, anidride carbonica nel tubo provocandone poi l’assor- bimento col passaggio delle scariche: ho così potuto ottenere finalmente il tubo stabile per molte ore a quella pressione per la quale era anche massima la emissione dei raggi X. Trovato in tal modo il processo per ottenere la stabilità di funziona- mento dei tubi Réòntgen, ho creduto opportuno di esaminare se fosse proprio nel rapporto di = 1,5, indicando che l'anidride carbonica sì è dis- — 905 — necessario, per avere l'assorbimento dell'anidride carbonica, di riscaldare pre- ventivamento i tubi ed esaurirne gli elettrodi, ovvero se il processo avve- nisse egualmente anche senza alcun preventivo trattamento. Ho per ciò stac- cato il tubo, col quale avevo fatto tutte le esperienze prima riportate, e ne ho saldato un altro nuovo di 12 cm. di diametro, che non aveva mai subìto alcun trattamento speciale e nel quale per ciò gli elettrodi erano sempre rimasti in contatto con l’aria atmosferica. Fatta la massima rarefazione possibile, ho mandato nel tubo anidride carbonica a pressione piuttosto elevata; ed ho quindi fatto funzionare il roc- chetto, mantenendo, al solito, l’anticatodo isolato. I fenomeni si presentarono in modo analogo a quelli osservati nel tubo precedente, dove gli elettrodi erano stati così lungamente esauriti: soltanto l’aumento iniziale della pres- sione fu molto superiore di quello che si avrebbe dovuto avere per la disso- ciazione dell'anidride carbonica, indicando che per il passaggio delle correnti del rocchetto sì sprigionavano da principio quei gas che erano rimasti ade- renti agli elettrodi per la loro lunga permanenza in contatto con l’aria atmo- sferica. Dopo cominciò il solito assorbimento che si protrasse fino al prin- cipio dei raggi X. Siccome però il tubo non si presenta del tutto stabile, ho mandato una seconda volta l'anidride carbonica. Nel seguente prospetto è riportata intera questa seconda serie: le lettere poste in testa alle varie colonne hanno lo stesso significato che nei quadri precedenti. 4P 4P ig ario Ep A o PI e AT AT 9 Q a ds fe AO E, E a 0 50 101,0 | 10201 100 | 37»: — 418/— 42 50 — 101|— 20 1800 31,2 | 973 100 100,5 | 10100 I 100 | 31 — 465 |— 2,6 100 — 496|— 49 1900 26,6| 708| — 46: 200 98,0 | 9604 Si -122|-12 200! 100 — 484|— 48 2000 242| 586| 12: 300 95,5 | 9120] — © sO | 100 62 |— 06 100 ao 49 13100 22,9| 524] — 02/706 100 929 | 8630 FOO. — 4905 100 RE ee gn) 21,8| 475 500 90,1 | 8118 : 0 21 | 02 A ia Sert 1,3] 454|— 2 600 87,2 | 7604 5 ci fesa Mer Bo 100 ; al— 5605] — 6 2400 - [20,5] 420 700 839 | 7039| — > 100 |: — 20-02 100 D|— 527|— 58 2500 20,0 | 400 ; 800 80,7 | 6512 È SOURIOO i 100 9912 | 506|— 51 2600 ae 900 77,5 | 6006 100 E 100 006 500|— 50 2700 18,7 | 350 : 1000 74,2 | 5506 o 6 5 100 de sel— lo /—0,15 100 — 522|— 52 2800 18,3| 33 - 1100 70,6 | 4984|_ ? 100 Fi: 015 100] CO0| FIStl— 548/— 55 2900|100 179) 820 1200 66,6 | 4436 2 lio 2a00 | 100 La 100: St io sso 4 L53000 173| 299 1300 624 | 3894 È AR IL Ei, 100 Dog |— 488|— 49 3100 168| 282 s 1400 57,5 | 3306 100 | 100 cei 100 a sel 700) lS3000 16,5 | 272 e e al 008 1600 13,5 | 1892 i SI Dopo altre 5 ore di funzionamento del rocchetto, la pressione da 256 (pari a 0,011 mm. di mercurio), è discesa, a 246 (pari a 0,020 mm. di mer- curio); e a questo valore rimase stazionaria nei due giorni successivi, non ostante che le scariche avessero attraversato il tubo per oltre 12 ore. — 904 — Il tubo presentava l'aspetto dei soliti tubi Ròontgen: l'emissione dei raggi X cominciò a rivelarsi, all'elettrometro, alla pressione di 392, pari a 0,033 mm. di mercurio, e alla pressione di 246 (pari a 0,020 mm. di mercurio) era già molto abbondante, così che, lasciando l'ago dell’elettro- metro isolato per 5 secondi mentre le correnti del rocchetto passavano nel tubo, si aveva una deviazione di 80 divisioni per la carica portata dagli ioni prodotti dalla radiazione X. Anche coi tubi provenienti dalle fabbriche si ottennero, nelle stesse condizioni di corrente, deviazioni dello stesso ordine di grandezza : ma per quauto riguarda Ja relazione tra l'emissione dei raggi X e la pressione, riferirò in un’altra Nota, influendo molte circostanze sulla pressione corrispondente alla massima emissione dei raggi X. Come ho già detto, altri gas vengono rapidamente assorbiti dagli elet- trodi, oltre l'anidride carbonica; ma se con questi altri gas si possa otte- nere Ja stabilità di funzionamento dei tubi Rontgen, è argomento di cui mi occuperò in seguito. Matematica. — Sopra un teorema d’ unicità relativo alla equazione delle onde sferiche. Nota di S. ZAREMBA, presentata dal Socio T. Levi-CIvITA. 1. Allargando un po’ il significato d'un termine comunemente usato, chiameremo equazione delle onde sferiche l'equazione alle derivate parziali seguente : TEU d°U 1 »L—-—;=0. (o) £r dai DI Ci proponiamo di dimostrare un teorema fondamentale nella teoria di quegli integrali della (1), i quali si presentano nella fisica-matematica. Considereremo le variabili (2) XCiyT2,0.0Un,0 come le coordinate cartesiane ortogonali d'un punto in uno spazio euclideo (E) di #-+ 1 dimensioni. 2. Siano (3) Ai, As;o Ag n+1 funzioni delle variabili (2), ben definite nell'interno e sul contorno ($) di un campo limitato (D), situato nello spazie (E). gna Quando il contorno (S) di (D) e le funzioni (3) soddisfano a certe con- dizioni di regolarità, che sembra superfluo di enunciare, sì ha, secondo un teerema note, la relazione: ERRO f a ) 4 Sa medico e È (4) i VEDE, ii e ie designando con 47 l'elemento di volume dello spazio (E), con ds l'elemento di superficie del contorno (S) e con (5) A€,,@2, uva i coseni-direttori della normale a (S), diretta verso l'interno del campo (D). Le funzioni (5) sono legate fra loro dalla nota equazione: n (6) Va+p=1. (Sil Sia x una funzione continua, ben definita nell'interno e sul contorno (S) del campo (D), avendo, nell'interno del campo (D), delle derivate con- tinue dei due primi ordini. Supponiamo inoltre che le derivate del primo ordine della funzione w siano limitate e godano della proprietà seguente: quando un punto (11,2, €n30), situato neil’interno del campo (D), tende verso un punto M del contorno (S) di codesto campo, le derivate du WU du dd T ” O : (7) dX, dA don di tendono verso limiti determinati, eccettuato al più, per M, un certo insieme di misura superficiale eguale a zero. Ciò posto, è lecito di convenire che, per un punto M situato in (S), i simboli (7) rappresentano i limiti delle derivate corrispondenti quando il punto (x, 2, x,.4) tende verso il punto M, rimanendo nell'interno del campo (D). Posto dU WU * ig = A ie logo (8) dai ae i a Il ( LP Ù (9) ) me = SI ALIA | 2 ( =D E sr : i \ i si avrà: È dA; __ du ( n du du ) 9 RL (9) = Da oi — 906 — Ora ammettiamo che la funzione «, pur soddisfacendo alle suddette ipotesi, verifichi inoltre l'equazione (1) nell'interno del campo (D). Dalle (4), (8) e (9) si avrà 1) Sf [E fatta (RY+(EV ono. 3. Consideriamo il caso particolare in cui una parte (S,) di (S) è una caratteristica (') della (1) e designamo con (S') il resto del contorno del campo (D). Per la proprietà specilica delle caratteristiche della (1), si avrà (11) Da—-p=0 in ogni punto regolare della parte (S,) di (S); quindi, in ciascuno di tali punti, si avrà dalla (6): (12) p=3i. Tenendo conto delle (11) e (12) si vede subito che sia: US gt gl CA) CAN 19) ia UDI o) Non è forse inutile di far notare che dalla (12) m07 segue che su (Sì) la funzione # sia necessariamente costante: in fatti può darsi che su una parte di S, si abbia aa AS e sul resto — 1 P 3 V2 7 ma noi considereremo soltanto il caso nel quale la funzione 8 ammette su (S,) un solo dei due valori precedenti. Ciò posto, basta tener conto della (13) per ricavare dalla (10) la seguente : do) 85.2 PA nà 036) ds = MIETSE o (1) Per la teoria delle caratteristiche si può consultare l’opera di J. Hadamard, Legons sur la propagation des ondes et les équations de l hydrodynamique (Paris, 1903, A. Hermann). — 907 — Ecco perchè codesta equazione è interessante: se /’ integrale esteso alla parte (S') di (S) è eguale a sero, ne segue che, su (Sì), sì ha (15) ati gi 0, @=a02000 donde risulta che, su (S,), la funzione u è costante. 4. Dal risultato testè ottenuto si possono dedurre varie importanti con- seguenze, ma, per ora, considereremo soltanto il caso particolare che la (S') si componga di due parti (S,) e (S») tali, che su (5) la funzione f sia sempre eguale al numero + 1, o sempre al numero — 1, e che su (So) si abbia #=0. Designando allora con e un numero reale in valore assoluto eguale alla unità e di segno convenientemente scelto, si potrà scrivere la (14) nel modo seguente: (16) £ D(a det) (81) ET di RETE ie Da cotesta equazione si può dedurre il teorema seguente, che forma l'oggetto principale di questa nota : Esiste al più una sola funzione continua u, che soddisfi nell'interno del campo (D) alla (1) e che goda delle proprietà seguenti : 1) Su (So) la funzione u stessa e la sua derivata normale si ri- ducono a delle funzioni date. 2) Su (Sa) la funzione stessa u 0 la sua derivata normale si riduce ad una funzione data. In fatti, basta dimostrare che la funzione v è eguale a zero in tutto il campo (D) nel caso particolare in cui le funzioni date, considerate nel teorema, sono nulle. Ma in tal caso il secondo membro della (16) si riduce a zero. Quindi, su (S,) sì verificheranno le (15). Ciò posto, sia (£,, £2, .. £n,t) un punto qualsiasi dell'interno del campo (D) e (D') la parte del campo (D) separata mediante il piano (17) DU dalla parte (S,) del contorno del campo (D). Il teorema espresso dalla (16) è applicabile al campo (D'). Quindi, tenendo conto delle (15), si ricava ai +(#) \4_o, — 908 — dove l'integrazione deve essere estesa alla parte del piano (17) che contri- buisce a limitare il campo (D'). Ne segue che in ogni punto (E; , € ,... én, 1) dell'interno del campo (D) le derivate parziali del primo ordine della fun- zione x sono eguali a zero. Quindi, la funzione v è costante nel campo (D). Ma questa funzione, essendo eguale a zero su (So), non può essere che nulla in tutto il campo (D), come avevamo annunziato. In un altra Nota spero di mettere in rilievo l’importanza del teerema che è stato dimostrato. Fisica matematica. — Sulla distribuzione della massa nel- l'interno d'un corpo in corrispondenza a un’assegnata azione esterna. Nota di CorrapINo MINEO, presentata dal Socio P. PIZZETTI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Fisica. — Persistenza delle correnti futoelettriche nelle cel- lule di Ester e lreitel dopo la soppressione della luce eccita- trice. Nota I di 0. M. Corrino e G. 0. TRABACCHI, presentata dal Socio P. BLASERNA. Le correnti fotoelettriche, dovute a forti illuminazioni, possono raggiun- gere una notevole intensità qualora si ricorra alle cellule di Elster e Geitel, nelle quali l'elettrodo negativo, di potassio o di sodio, è ricoperto da uno strato sottile costituito da una modificazione allotropica del metallo mede - simo. Nella cellula è presente un gas inerte, argon o elio, alla pressione di circa 1 millimetro di mercurio; facendo agire fra gli elettrodi un campo acceleratore di sufficiente intensità. gli elettroni strappati dalla luce al ca- todo vengono lanciati con velocità grande verso l'anodo, determinando una abbondante ionizzazione per urto nel gas. I muovi ioni creati dall'urto diven- gono alla loro volta produttori di altri ioni; alla produzione di questi par- tecipano, con campi intensi, anche gli ioni positivi creati dagli urti,, pur non raggiungendosi, se il campo non è troppo intenso, le condizioni che de- terminano la scarica permanente al cessare della luce. SOA) piish Con illuminazioni molto intense, e con differenze di potenziale agli elet- trodi solo di poco inferiori a quelle cui corrisponde la scarica permanente, le correnti ottenute con una cellula di Elster e Geitel possono raggiungere l'intensità di quasi un milliampere, prestandosi. così a diverse e notevoli applicazioni. — 909 — In vista delle applicazioni medesime, e per illustrare ancor meglio il meccanismo di funzionamento di un apparecchio così interessante, ci è sem- brato opportuno istituire delle esperienze destinate a stabilire se e quale parte della corrente normale sussiste ancora dopo la soppressione della luce eccitatrice, e precisamente dopo intervalli di tempo assai brevi dalla sua brusca soppressione. E avendoci l’esperienza rivelato che la corrente sussiste in realtà, decrescendo rapidamente, dopo aver interrotto la illuminazione, abbiamo voluto ricercare se questo effetto di ritardo sia dovuto ad una po- stuma emissione di elettroni da parte del catodo, o ad altre cause. Non era infatti da escludere, senza prove, l'ipotesi che alla eccitazione della luce seguisse nel metallo anche dopo l'estinzione una ulteriore emis- sione di elettroni per un brevissimo tempo e in numero anche assai tenue, ma sufficienti (a causa della esaltazione degli effetti dovuta alla ionizzazione per urto) per produrre le correnti postume osservate. Forma oggetto di queste Note l’esporre i risultati delle nostre ricerche, le quali permettono di risolvere, in modo che crediamo soddisfacente, le que- stioni che ci eravamo proposte. v.5 Sue Sarà bene anzitutto discutere un lavoro di E. Marx e K. Lichtenecker che, pur avendo un obbiettivo diverso, può sembrare che si riferisca anche al problema di cui noi ci siamo occupati. I due autori citati, in una Memoria molto ampia e dettagliata ('), si proposero di esaminare se inviando su una cellula una certa quantità di luce costante, e poi la stessa quantità media di luce, ma costituita da un fascio periodicamente interrotto, si ottenesse la stessa corrente fotoelettrica nei due casi. Più esattamente diremo che sulla cellula veniva rinviato per mezzo di uno specchio rotante un fascio di luce, e si faceva variare dentro larghissimi limiti la velocità di rotazione dello specchio, con che la stessa quantità media di luce cadente sulla cella veniva frazionata in un insieme di bru- sche illuminazioni, delle quali variava in senso inverso la durata di cia- scuna e l'intervallo fra due luci successive. La ricerca aveva uno scopo teorico di importanza notevole, e condusse al risultato che la corrente fotoelettrica rimaneva invariata riducendo la durata delle illuminazioni fino a 1,46 X 1077 secondi. Questa conclusione potrebbe far credere a prima vista che la corrente segua istantaneamente le vicissitudini della intensità della luce eccitatrice. Ma chi volesse trarre dalle esperienze citate questa conseguenza, che gli Autori del resto non ebbero motivo di esaminare, poichè sì proponevano (') E. Marx e K. Lichtenecker, Ann. d. phys., 4/, pag. 124 (1913). RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 116 — 910 — altro e più elevato obbiettivo, cadrebbe in errore, così come a torto conclu- sero Bellati e Romanese che l'effetto della luce sul selenio sia istantaneo, deducendo ciò dal fatto osservato che la variazione di resistenza del selenio illuminato dalla luce interrotta con un disco forato rotante non mutava al variare della velocità del disco. La costanza della corrente fotoelettrica constatata da Marx e Lichte- necker, può invero essere spiegata anche se sussiste un effetto di ritardo fra l'azione della luce e la corrente che ne deriva, così come la deviazione di un galvanometro balistico per una corrente istantanea che trasporti una de- terminata quantità totale di elettricità è sempre la stessa, qualunque sia la legge di variazione della corrente, senza che perciò si possa dedurne che il galvanometro segue istantaneamente con le sue deviazioni le vicissitudini della corrente variabile. Noteremo infine che con il fenomeno da noi preso in esame non hanno nulla da fare le cosiddette « Nachwirkungen » constatate da alcuni con le cellule fotoelettriche, che si manifestano come effetti di assai lunga persi- stenza di lievi residui nell'impiego delle cellule con la disposizione elettro- metrica, e che hanno per origine la distribuzione di lievi cariche statiche sul vetro della cellula, cosicchè sono quasi del tutto evitate con opportuni accorgimenti nelle cellule messe in commercio negli ultimi tempi. Effetti simili non hanno nulla da fare con le correnti residue, misurate galvanome- tricamente, che noi abbiamo potuto osservare. * x *% La cellula da noi adoperata in queste esperienze fa parte di un foto- metro di Elster e Geitel fornitoci da Gunther e Tegetmeyer di Braunschweig. Cominciammo con la ricerca della sua curva caratteristica (curva delle correnti per tensioni crescenti) sotto l’azione di forti intensità luminose: o quella di un fascio di luce solare, o quella di un fascio proveniente da una lampada ad arco per correnti continue, reso parallelo con opportuni disposi- tivi ottici, atti a conservare quanto più fosse possibile la tinta bianca, senza ridurne di troppo l'intensità. Con luce non troppo intensa si ottengono le note forme della curva caratteristica, le quali presentano un flesso corrispon- dente, secondo la teoria di Townsend, all’inizio della ionizzazione per urto da parte degli ioni negativi. Quando si aumenti l'intensità della luce eccitatrice, si osserva però un andamento singolare della curva nella vicinanza del flesso, andamento che per quanto ci risulta non è stato finora reso noto da altri. Come si vede dalla fig. 1 la curva delle correnti presenta un brusco salto a 19,6 volt, poichè per il minimo aumento in questo valore della ten- sione applicata agli elettrodi, la corrente aumenta bruscamente fino oltre al doppio dell’intensità primitiva. — 911 — In un’altra esperienza fatta in una giornata di febbraio con un cielo di magnifica trasparenza, si ebbero per diversi valori della tensione le se- guenti intensità di corrente: tensione in volt corrente (unità arbitraie) 19,3 35 19,4 39 19,6 42 19,8 120 25 130 ® 4 8 2 6 20 1% re 37 36 Ero. t27 45 Volla Fi. 1. Il salto della corrente si produsse perciò entro il campo di variazione di qualche decimo di volt, dando luogo quasi a una triplicazione della cor- rente primitiva; mentre ad ulteriori aumenti della tensione, anche notevoli, corrisposero lievi aumenti della corrente. Questa esperienza sembra a noi che fornisca come una dimostrazione tangibile, e della maggiore efficacia, circa la giustezza dell’interpretazione data dal Townsend al flesso delle curve caratteristiche normali; poichè si è potuto in certa guisa sorprendere l’inizio improvviso e tumultuoso della fase di ionizzazione per urto da parte degli elettroni provenienti dal catodo, i quali per tensioni inferiori costituiscono l’unico veicolo al passaggio della corrente. Hilf La tensione minima capace di produrre la scarica autonoma permanente, e perciò la tensione minima cui si può sottoporre la cella senza timore di danneggiarla, dipende anch'essa dalla intensità della luce eccitatrice. Nelle nostre esperienze cercammo di non superare questo valore critico del campo, e ci limitammo perciò all'impiego di tensioni non superiori a 75 volt. ar La prima disposizione da noi adoperata per constatare eventuali feno- meni di ritardo, ci fu suggerita dalla necessità che l'apparecchio rivelatore — 912 — della corrente fornisse indicazioni assolutamente istantanee; solo così po- teva sicuramente esser riconosciuto se al cessare brusco della luce eccita- trice si annullasse istantaneamente la corrente fotoelettrica. Si pensò quindi, anzitutto, alla deviabilità istantanea del fascio catodico nel tubo di Braun. Ma la corrente era troppo piccola per dare effetti sensibili di deviazione sul fascio ricorrendo all'azione magnetica di un rocchetto ordinario; nè poteva accrescersì l’azione ricorrendo a un rocchetto con grandissimo numero di spire e con nucleo di ferro, poichè l'autoinduzione del rocchetto avrebbe per- turbato la fase di cessazione della corrente, e l’'isteresi del ferro avrebbe potuto da sè produrre effetti analoghi a quello ricercato. ie War ' ADIEISZII (e) | Fia. 2. Tenendo presente la elevatissima resistenza elettrica equivalente alla cella, e la tensione elevata agente nel circuito parve perciò preferibile ri- correre alla deviazione elettrostatica del fascio catodico, secondo la disposi- zione rappresentata nella fig. 2. In questa € denota la cella, B la batteria di accumulatori, ed 7 una elevatissima resistenza, capace di assorbire sotto la corrente di regime che corrisponde a una grande illuminazione costante, circa metà della tensione della batteria. Agli estremi di 7 erano connesse le due laminette di un tubo di Braun atto alla misura delle tensioni. La deviazione elettrostatica, proporzionale alla differenza di potenziale fra le laminette e quindi alla corrente fotoelettrica 7, avrebbe dovuto seguire istan- taneamente le variazioni di 7, e permettere così di riconoscere, con illumi- nazioni intermittenti, se nelle pause brevissime della illuminazione la cor- rente assumesse bruscamente il valore zero. Per rendere rapidamente intermittente la illuminazione fu proiettato su un disco rotante, provvisto di una serie fitta di piccolissimi fori, una imma- gine molto piccola e luminosa del cratere d'un arco voltaico; la luce emer- gente dai fori, resa parallela con un buon obbiettivo, cadeva sulla cella. In queste condizioni, lasciando permanentemente libero il passaggio alla luce, il cerchietto luminoso del fascio catodico si spostava di un paio di centi- metri sul disco fluorescente del tubo di Braun. Questo era alimentato da una macchina elettrostatica a 36 dischi, e il fascio catodico era concentrato — 913 — in modo da dare un cerchietto piccolissimo, servendosi del solito artificio e cioè di far agire sul fascio una bobina percorsa da corrente continua e coassiale col tubo. Facendo rotare il disco molto lentamente, il cerchietto di fluorescenza si spostava periodicamente tra la posizione di riposo e la posizione di mas- sima deviazione, corrispondente al passaggio continuo della luce. Ma facendo crescere progressivamente la velocità di rotazione del disco, l'escursione del cerchietto si andava limitando sempre più fra i due estremi, in modo da non toccare nè la posizione di zero, nè quella di massima deviazione. Pareva cioè che la corrente oscillasse periodicamente fra due limiti diversi da zero e dal valore massimo, come se la cella manifestasse un vero effetto di inerzia. Un esame più attento della disposizione sperimentale rivelò, d'altra parte, che il risultato ottenuto non era esente da dubbî, poichè consentiva una interpretazione diversa, senza che fosse possibile procedere a prove di- scriminative. Supponiamo trascurabile la corrente derivata per conduzione tonica fra le laminette sottoposte alla differenza di potenziale variabile fra 0 e 7 7. Bisognerà sempre tener presente la corrente di capacità destinata a fornire e dissipare le cariche che occorrono per portare le laminette a quella differenza di potenziale. Ora se pure la corrente fotoelettrica si annullasse istantaneamente al cessare della luce, potrebbe ancora sopravvivere per qualche tempo una diffe- renza di potenziale fra le lamine, che richiederanno un tempo diverso da zero per scaricarsi nell'unica via consentita: la resistenza 7. Questa resi- stenza era molto elevata per le ragioni sopra indicate. Ciò non ostante il tempo di scarica delle laminette potrebbe essere considerato come trascura - bile, data la piccolezza estrema della capacità elettrostatica geometrica del condensatore da loro formato. Ma alcune prove ci convinsero, invece, che quella capacità non è così piccola come apparirebbe a prima vista, data la piccola superficie e la notevole distanza (circa 1 centimetro) delle lamine. Per giustificare il valore assai più elevato che misura la capacità vera delle laminette, basta pensare al gas ionizzato dalla scarica che è fra loro inter- posto; e invero il funzionamento del tubo, per le sue particolarità costrut- tive, era regolare solo quando la pressione nell'interno non era estremamente bassa; poichè, a pressioni bassissime, si creava nell'interno del vetro una distribuzione abbondante e mutevole di cariche elettrostaticle, che impediva la proiezione di un cerchietto ben luminoso e fisso sullo schermo. Occorreva adunque tenere il tubo a una pressione non troppo piccola e allora la pre- senza di ioni numerosi nello spazio fra le lamine, doveva appunto equiva- lere a un aumento notevole della loro capacità. — 914 — Nell'impossibilità di sceverare in modo sicuro fra l’effetto dovuto alla capacità delle lamine e quello eventualmente prodotto dal ritardo della cella, credemmo opportuno abbandonare il tubo di Braun, e ricorrere a una dispo- sizione completamente diversa, della quale esponiamo adesso il principio. Nel circuito della cella C e della batteria 8 (fig. 8) è permanente- mente inserita una resistenza R +7; e sulla parte 7 di questa è derivato, a traverso un contatto periodicamente intermittente, un galvanometro G. La luce che cade sulla cella è periodicamente interrotta per virtù di un disco rotante munito di settori vuoti e pieni; la interruzione è assolutamente istantanea, poichè l'orlo tagliente del settore vuoto incontra un fascio di luce di forma rettangolare a contorni nettissimi e paralleli all’orlo. Disco e con- Î Aaa Fia. 3. tatto intermittente sono meccanicamente solidali, in modo che il contatto può essere stabilito dopo l’ interruzione della luce e con un ritardo regolabile a volontà; il contatto dura anch'esso per un tempo regolabile, ma cessa in ogni caso prima che la luce sia ristabilita. In tal modo il circuito batteria- cella è permanentemente chiuso; finchè passa la luce il circuito del gal- vanometro è interrotto in 7, ma se la corrente fotoelettrica sussiste anche dopo un certo tempo dalla soppressione della luce, poichè viene allora sta- bilito il contatto 7, una frazione della corrente residua viene a traversare il galvanometro. Poiche il processo si ripete identicamente a ogni giro del disco e del contatto, il galvanometro assumerà una deviazione costante e sì potrà dedurne il valore della corrente residua dopo diversi intervalli di tempo dalla cessazione della luce. Volendo constatare la possibile permanenza della corrente anche dopo intervalli di tempo assai brevi, era necessario che la parte meccanica del dispositivo funzionasse con la maggiore precisione. Il nostro compito è stato grandemente facilitato dal fatto che ci siam potuti servire dell’ interruttore differenziale del prof. Blaserna, ideato e costruito in modo da rispondere mirabilmente alle esigenze sovraindicate. Sui particolari della disposizione sperimentale, sui risultati e sulla inter- pretazione di questi riferiremo in una Nota successiva. — 915 — Fisica. — Sull irraggiamento nero; risposta alle osservazioni del prof. Corbino. Nota di Cino Poli, presentata dal Socio C. SomI- GLIANA. Il prof. Corbino fa ad una mia recente Nota alcune critiche che, se esatte, la svaluterebbero completamente. Ora io mi ero proposto di dimostrare la compatibilità della formula di Planck colla dinamica classica; e, per far ciò, ho costruito un sistema di risonatori tale che per esso vale la detta formula. Siccome nessuna delle ipotesi che fo nella costruzione di quei riso- natori è in contradizione colla dinamica classica, mi pare di aver raggiunto lo scopo prefissomi. Il prof. Corbino invece osserva che ammettere l'ipotesi a°o = cost senza giustificazione equivale ad introdurre il concetto essenziale dei quanta, e quindi gli pare che la mia deduzione della formula di Planck « faccia capo implicitamente allo stesso concetto incomprensibile della teoria dei quanta >. Anzitutto l'ipotesi 40 = cost non ha bisogno di giustificazione. Siccome 4 comparisce come costante arbitraria nell’integrazione dell'equazione differen- ziale del moto di un’ione, posso ad essa attribuire per ogni ione un valore tale da soddisfare alla condizione posta. In secondo luogo, il mio metodo conduce sì al concetto di quantum, ma non più « incomprensibile » come afferma il Corbino, perchè il quantum è spiegato appunto dalla particolare costituzione del sistema di risonatori nel quale esso si presenta. Precisamente è chiaro che se in questo sistema l'energia di due risonatori diversi non può differire che per multipli interi di un quantum, ciò è esclusivamente conseguenza: dell'aver determinato le ampiezze delle oscillazioni dei singoli ioni nel modo detto; del fatto che ciascun ione oscillante è un gruppo di elettroni; del fatto che per ipotesi l'energia di ogni ione resta costante. Concludendo: il Planck pone a priori la variazione dell'energia per quanta in qualunque risonatore; io invece la trovo in un particolare insieme di risonatori come conseguenza di certe ipotesi nella sua costituzione: e quindi il concetto di quarium, che nella teoria di Planck resta incompren- sibile, nel mio modello ideale è spiegato e reso compatibile coi principi classici. — 916 — Ghimica. — Nuove ricerche sulle metalli-uree (*). Nota di G. A. BARBIERI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. In due Note (*) precedenti ho descritto i composti di ferri- e di vanadi- urea che corrispondono alle formule generali [ Fe (OCN, Hj)gé] X3z e [V” (OCN» Hi)s] X3 e, come i composti di cromi-urea {Cr(OCN:Hy)ge] X3, scoperti da Sell (*) e studiati da A. Werner (‘), sono da considerarsi quali derivati dagli aquosali [Me"(0Hs);] X3 per sostituzione delle molecole di acqua con molecole di urea. Altri elementi, capaci di dare sali esaidrati analoghi a quelli del cromo, del ferro e del vanadio trivalente, sono l'alluminio e il titanio trivalente. Ciò mi ha indotto a ricercare se, anche questi elementi, potevano formare complessi con l'urea. Con l'alluminio ho ottenuto i seguenti composti : [A1(OCN.H,)c](010,)3; [Al (OCN3H,);](Mn0,):; [A1(OCN:H,)e]e (01303): [AI(OCN:H,)]I:; —[AI(OCN:H,)o] I .3L; LAL(OUN-H)e] {xo ae 372 [A1(0CN,H, mu I )e] SO, Non sono riuscito a preparare il cloruro, il bromuro e il nitrato per la loro eccessiva solubilità. Come risulta dalle formule su riportate, i sali di alluminio-urea hanuo composizione del tutto analoga a quella dei corrispondenti sali di cromi-, ferri- e vanadi-urea. Molto probabilmente l'analogia chimica è accompa- gnata da isomorfismo. Effettivamente ho constatato che il perclorato di al- luminio-urea forma cristalli misti col perclorato di vanadi-urea. Col titanio trivalente, in causa della grande instabilità e solubilità dei suoi sali, le ricerche furono meno facili che con l'alluminio. Il solo com- posto che potei isolare allo stato di purezza fu il perclorato di titani-urea che ha la formula [Ti" (OCN,H,);](C104); e s1 presenta in cristalli prisma- tici di color lilla, stabili all'aria. Il fatto abbastanza singolare che il re- siduo dell'acido perclorico, che è un forte ossidante, possa coesistere in un (') Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della Università di Ferrara. (8) Rendiconti Accad. Lincei, vol. XXII, 1° sem., pag. 867 (1913); vol. XXIV, 1° se- mestre, pag. 435 (1915). (*) Proc. Roy. Soc., 383267 (1882); 45321 (1889). (4) Ann. 322396 (1902). — 9a —- composto col titanio trivalente, che è un riducente energico, è una novella . prova che, nelle metalli-uree, l'atomo metallico forma un complesso colle molecole di urea: da esse viene circondato e, per così dire, protetto. Nella presente Nota sono anche descritti il persolfato di cromi-urea e il persolfato di ferri-urea. Da ricerche precedenti (') venne mostrato che ì persolfati idrati di magnesio, manganese, cobalto e nickel, che non è possi- bile ottenere allo stato solido, perchè eccessivamente solubili e instabili, si ottengono facilmente e ben cristallizzati in combinazione con l'esametilen- tetrammina. Questa base non può servire all'isolamento di sali idrati di cromo e di ferro, perchè reagisce con essi formando sali basici. Io ho pen- sato di preparare i composti dell'acido persolforico col cromo e col ferro trivalente, sostituendo all'acqua l'urea, e ho ottenuto i seguenti composti: [Cr (OCN; Hi)e]e (Sa Og)s [Fe'” (OCN; H.)e]: (Sa 08): che si presentano in bei cristalli prismatici, abbastanza stabili allo stato di secchezza. Non mi fu possibile di isolare il persolfato di alluminio-urea. PARTE SPERIMENTALE. Perclorato di alluminio-urea. [AI (OCN» H.)e] (Cl 0,)3 A una soluzione concentrata di perclorato di alluminio (*) si aggiunge urea in sostanza fino quasi a saturazione; si separa tosto il perclorato di alluminio-urea sotto forma di una polvere bianca, cristallina, non igrosco- pica, che, esaminata al microscopio, risulta costituita da prismi trasparenti. È poco solubile in alcool, solubilissima in acqua: la sua solubilità dimi- nuisce in presenza di un eccesso di urea e di perclorato di sodio. Calcolato Trovato Al 3,95 3,79 N 24,52 24,47 Cl 15,52 15,50 Aggiungendo urea e perclorato sodico ad una soluzione contenente sol- fato di alluminio e so]fato di vanadio trivalente, si ottiene una sostanza cristallina, omogenea, colorata in azzurro pallido, che è la soluzione solida del perclorato di alluminio-urea col perclorato di vanadi-urea. (*) G. A. Barbieri, F. Calzolari, Z. anorg. Chem. 71,53 (1911). (?) R. F. Weinland, Fr. Ensgraber, Z. anorg. Chem., 8436s (1913). RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 117 — 918 — Permanganato di alluminio-urea. [AI (OCN, H,)e] (Mn 0,)3 Si ottiene facendo reagire, in soluzione concentrata, nitrato di allu- minio, urea e un permanganato molto solubile; per esempio, quello di ma- gnesio. Cristalli neri, solubili in acqua con colorazione violetta. Calcolato Yrovato Mn 22,15 22,39 N 22,60 22,21 Il permanganato di alluminio-urea è solubile allo stato solido in ogni rapporto nel perclorato di alluminio-urea. Infatti, facendo reagire una solu- zione concentrata di perclorato sodico, resa violetta per aggiunta di un po’ di permanganato sodico, con una soluzione concentrata di urea e nitrato di alluminio, si forma un precipitato cristallino omogeneo tanto più colo- rato in violetto, quanto più forte è stata l'aggiunta di permanganato sodico. Bicromato di alluminio-urea. [AI (OCN, H,)6]:(Crs 0, )a Da una soluzione concentrata di urea, nitrato di alluminio e biero- mato sodico si separa sotto forme di cristalli aranciati. Calcolato Trovato Al, 0; + Creo (07 39,25 39 47 N 23,66 Doro Joduro di alluminio-urea. [A!(OCN: H4)e]I3 Si ottiene aggiungendo joduro sodico in eccesso ad una soluzione di urea e nitrato di alluminio. Polvere cristallina bianca, molto solubile. Calcolato Trovato AI 3a 3,71 N 21,90 21,45 I 49,60 43,90 — 919 — Perjoduro di alluminio-urea. [Al(OCN3H,)6]I3z . 3I3 Si ha dal eomposto precedente sciogliendolo in una soluzione concen- trara di joduro sodico saturata con Jodio. Cristalli color grafite, solubili in acqua e in alcool. Calcolato Trovato 1 totale 74,70 74,25 1 addizionato 49,80 49,54 Perjoduro-solfato di alluminio-urea. I [AI(OCN:H,)e] so, * I, Da una soluzione contenente solfato di alluminio, urea (in eccesso) jo- duro sodico e jodo sì separa sotto forma di cristalli rosso-aranciati, poco solubili. Calcolato Trovato Al 3,14 3,22 N 19,46 18.94 S og 3,92 I totale 44,07 43,76 I addizionato 29,39 28,96 Perjoduro-nitrato di alluminio-urea. l [AI(OCN: Ha)e] (yo,), © È Si prepara come il composto precedente impiegando nitrato di allu- minio. Polvere cristallina rossastra poco solubile. Calcolato Trovato Al 3,03 3:09 I totale 42,69 42,20 Perclorato di titani-urea. [Ti” (OCN: H,)e] (C10,)z 5 gr. di solfato acido di titanio trivalente 3 Ti, (S0,); . H2S0, . 25H:0 preparato secondo A. Stàhler (') mediante riduzione elettrolitica di una so- (1) Ber. 392631 (1905). — 920 — luzione di acido titanico in acido solforico concentrato, vennero mescolati con gr. 20 di urea, e poi si aggiunse acqua goccia a goccia, e agitando fin- chè la poltiglia si trasformò in un liquido turchino-violetto. Da questo, per aggiunta di perclorato sodico (gr. 30) in soluzione concentrata, si ottenne il perclorato di titani-urea, polvere cristallina violetta costituita da prismi trasparenti. Il liquido soprastante diventa incoloro. La sostanza venne spremuta alla pompa, lavata con alcool, e seccata all'aria su carta da filtro. Si dosò il titanio come Ti O, per calcinazione, previo trattamento della sostanza con acido solforico concentrato ; l'acido perelorico col metodo indiretto già de- seritto ('); l'azoto come ammoniaca. Calcolato Trovato Ti 6,71 6,80 (031 15,06 14,88 N 23,70 23,50 Il perclorato di titani-urea allo stato di secchezza è una polvere color lilla, stabile all'aria. Nell'acqua si scioglie con colorazione violetta che presto scompare, Trattando la soluzione concentrata di urea e solfato acido di titanio trivalente con un eccesso di joduro sodico, precipita una sostanza in cristalli violetti che contiene titanio, urea e Jodio e che probabilmente è il joduro di titani-urea. Non sono riuscito a ottenerlo allo stato di pu- rezza, cioè esente da solfato e joduro di sodio in causa della sua grande so- lubilità. Persolfato di cromi-urea. [ Cr(OCN3 H,)c]: (S2 08)3 Il persolfato di ammonio precipita, dalle soluzioni concentrate di clo- ruro di cromi-urea, una polvere cristallina bianco-verdognola che, dopo alcun tempo, si trasforma in cristalli verdi ben formati. Per l’analisi la sostanza venne trattata in soluzione con cloridrato di idrossilammina a caldo, poi il cromo venne precipitato con ammoniaca e nel filtrato si determinò lo zolfo come solfato di bario. Calcolato Trovato Cr 7,43 (DA S 154 13,59 Persolfato di ferri-urea. [Fe (OCN3 H)s]: (S» 08)3 A una soluzione concentrata di cloruro ferrico, si aggiunge tanta urea in sostanza finchè il colore della soluzione comincia a diventar verde, poi, (*) G. A. Barbieri, Rendiconti Accad. Lincei, vol. XXIV, 1° sem., pag. 487 (1915). PEtgojN una soluzione concentrata di persolfato di ammonio: sì forma tosto il per- solfato di ferri-urea che è una polvere cristallina verde-azzurrognola. In acqua si scioglie con colorazione gialla. Calcolato Trovato Fe 7,95 7,84 S 13,70 13,82 N 23,95 23,56 Chimica. — Contributo alla conoscenza dei tetrationati (1). Nota di F. CALZOLARI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Se si confronta la formula dell'acido persolforico Hs S: Og con la for- mula dell’acido tetrationico Hs Sy Og si vede che quest’ultima si può far derivare dalla prima per sostituzione di due atomi di ossigeno con due atomi di zolfo. E se all’acido tetrationico si attribuisce la costituzione proposta da Blomstrand e da Mendeleeff, la sua analogia con l'acido persolforico ap- parisce evidente: una coppia bivalente di zolfo —S—S— tiene il posto di una coppia bivalente di ossigeno —0—0—. S— SO, OH O — SO; OH | | S— SO. 0H O — SO, 0H Effettivamente fra i tetrationati e i persolfati si riscontrano alcune analogie. Il tetrationato di potassio cristallizza anidro ed è poco solubile come il persolfato di potassio. Il tetrationato di sodio e il persolfato di sodio sono anidri e molto solubili. Il tetrationato di bario cristallizza con tre molecole di acqua ed è solubile: il persolfato di bario è pure molto solubile e la sua idratazione sta fra tre e quattro molecole di acqua. Bi- sogna notare che è quasi impossibile ottenere il persolfato di bario allo stato di purezza. Lo stesso va ripetuto per il persolfato di piombo che è stato descritto con tre molecole di acqua ed è molto solubile come il te- trationato di piombo che cristallizza con due molecole di acqua. Il confronto non si può estendere più oltre perchè le conoscenze che sì hanno sui tetrationati sono scarse. G. A. Barbieri e F. Calzolari (*) hanno descritto numerosi perso]fati di metalli bivalenti in combinazione con l'ammoniaca, con la piridina e (*) Lavoro eseguito nell’ Istituto chimico dell’Università di Ferrara diretto dal prof. G. A. Barbieri. (*) Z. anorg. Chem. 7/,358 (1911). — 922 — con l'esametilentetrammina. Io ho tentato la preparazione dei composti cor- rispondenti dell'acido tetrationico, per verificare se l'analogia tra persolfati e tetrationati potesse rivelarsi in tali composti d'ordine superiore. I risul- tati hanno confermato pienamente le mie previsioni. Riferisco qui sotto le formule dei tetrationati da me ottenuti, mettendo di fronte ad esse quelle dei corrispondenti persolfati. Tetrationati Persolfati ZnS,0; . 4NH3 ZnS,03 . 4NH3 NiS, 0 . 6NH3z NiS,0; . 6NH; ZnS,0 . 4C;Hs N ZnS20g . 4C;Hs N CdS, 0 . 40;HgN CdS, 03 . 4C5Hs N CuS, 0g . 4C5Hs N CuSs0; . 4C5Hs N NiS,06 . 4C5HsN Ni$.0g . 4C;Hy N CoS, 0; . 4C; Hg N — _ MgS, 0, .8H,.0 . 2CNHi» MgS.0; .8H,0 . 2C,N,H Co 5,0, .8H,0 . 20,NH Co S.0, .8H,0. 2CN.Hi: Ni $,0, .8H,0 . 2C.NjHy Ni $:03. 8H.0. 2CGNjHi L'analogia tra i tetrationati e i persolfati è notevole specialmente nei composti con l’esametilentetrammina che hanno lo stesso grado d’idratazione. Anche nell'aspetto esterno e nella solubilità v'è somiglianza tra i composti di addizione dei persolfati e quelli dei tetrationati. Non posso affermare che tra questi composti esista anche somiglianza cristallografica perchè non ho ancora potuto ottenere i composti di addizione dei persolfati in cristalli misurabili. PARTE SPERIMENTALE. Ho preparato, dapprima, per doppio scambio tra iposolfito di sodio e cloruro di bario, l’iposolfito di bario che, essendo poco solubile, si separa allo stato cristallino dalla miscela delle due soluzioni sature a caldo. L'iposolfito di bario, sospeso in poca acqua, venne trattato colla quan- tità calcolata di jodio e dalla soluzione limpida così ottenuta, e che con- teneva joduro e tetrationato di bario, venne precipitato quest'ultimo me- diante aggiunta di alcool assoluto. Le soluzioni dei tetrationati di magnesio, zinco, calmio, cobalto, nikel, rame vennero preparate facendo reagire il tetrationato di bario, in quan- tità calcolata, sui rispettivi solfati. — 923 — PRODOTTI DI ADDIZIONE CON L' AMMONIACA. Tetrationato di zinco ammoniaca. ZnS,0 . 4NH3 Si ottiene dalle soluzioni fortemente ammoniacali di tetrationato di zinco, in cristalli trasparenti, incolori. Lo zolfo ‘in questo composto e nei seguenti venne determinato come solfato di bario, previa ossidazione della sostanza con ipobromito. Calcolato Trovato Zn 18,27 18,19 SS 35,85 35,21 N 15,66 15,46 Tetrationato di nickel-ammoniaca. NiS, 0g . 6 NH; Cristallizza in prismi microscopici di color lilla da una soluzione di tetrationato di nickel saturata a freddo con ammoniaca gazosa. Calcolato Trovato Ni 15,24 15,10 S 33,92 33,02 N 21,84 21,58 PRODOTTI DI ADDIZIONE CON LA PIRIDINA. Tetrationato di zinco-piridina. Zn S, 0 . 4C Hs N Si separa aggiungendo piridina in eccesso a una soluzione al 10 °/, di tetrationato di zinco. Cristallini prismatici incolori. Calcolato Trovato Zn 10,79 10,65 S 27 20,92 N 9,25 9,02 Tetrationato di cadmio-piridina. CdS, 06 . 4C6Hs N Si separa come il composto precedente al quale rassomiglia anche nel- l'aspetto. Calcolato Trovato Cd 417,20 LZ15 S 19,65 19,43 N 8,58 8,39 — 924 — Tetralionato di rame-piridina. CuS, 0. £C, Hg N Questo prodotto si separa, dalle soluzioni concentrate di tetrationato di rame per aggiunta di piridina, sotto forma di un precipitato microcristal- lino. Per ottenerlo in cristalli ben formati, bisogna impiegare soluzioni di tetrationato di rame di concentrazione non superiore all'1 °/ e aggiungere la piridina in soluzione acquosa e non in forte eccesso. In tali condizioni il prodotto si separa lentamente in cristalli aghiformi di color bleu-cupo che sono abbastanza stabili all'aria e quasi insolubili in acqua a freddo, mentre a caldo si decompongono perdendo piridina. Calcolato Trovato Cui cro,52 105% S 21,28 21,45 N 9.27 9,22 Tetralionato di nickel-piridina. NiS, 0; . 4C;Hs N Cristalli aghiformi azzurri. Calcolato Trovato Ni 9,79 9,85 N 9,95 9,17 Tetrationato di cobalto-piridina. CoS, 0g . 4C5H3 N Cristallini microscopici aghiformi di color rosso-violaceo. Calcolato Trovato Co 9,384 9,87 N 9,34 9,04 PRODOTTI DI ADDIZIONE CON L'ESAMETILENTETRAMMINA. Si ottengono facendo reagire, in soluzione, l’esametilentetrammina sui tetrationati. Sono composti ben cristallizzati, inalterabili all'aria, solubili nell'acqua a freddo. Tetrationato idrato di magnesio-esametilentetrammina. MgS0,.8H:0.2CNHxe Prismi trasparenti incolori. — 925 — Calcolato Trovato Mg 3,61 3,69 S 19,06 18,92 N 16,65 16,86 Tetrationato idrato di nickel-esametilentetrammina. NiS, N . 8H, (0) . 2 Ce INGUEIPA Prismi trasparenti di color verde-chiaro. Calcolato Trovato Ni 8,30 8,22 S 18,14 18,24 N 15,85 15,70 Tetrationato idrato di cobalto-esametilentetrammina. C0SL0 RES Ho0e 26 Nidi, Prismi rosei. Questo composto è solubile allo stato solido nei due com- posti precedenti. Calcolato Trovato Co 8,33 8,31 S 18,12 18,45 N 15,84 To,z1 Chimica. — Sugli alogenomercurati (*). Nota di F. CALZOLARI e U. TAGLIAVINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Lo studio dei complessi che il mercurio bivalente forma in soluzione con gli ioni-alogeni fu oggetto di numerose ricerche fisico-chimiche. Si ese- guirono, a tal uopo, determinazioni crioscopiche ed gine misure di conducibilità, di forza elettromotrice, di solubilità ecc. I risultati ottenuti da tali ricerche non sono ancora decisivi, nè del tutto concordanti. In base ad essi si può soltanto affermare che i tipi degli alogenomercurati esistenti in soluzione sono in generale molto semplici. Sembra che su di essi abbia influenza la natura dell’alogenuro alcalino sciolto con l’alogenuro mercurico. Le Blanc e Noyes (*) riconobbero che nelle soluzioni di NaCl e HgCl» esiste il composto [HgCl,] Nas, mentre nelle soluzioni (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di chimica dell’Università di Ferrara diretto dal prof. G. A. Barbieri. (°) Z. Physik. Chem., 6 (1890), 390. RenpicontI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 118 — 926 — corrispondenti di KCl e HgCl, sarebbero legati al mercurio più di quattro atomi di cloro. Secondo Benrath (') si formerebbe il composto [HgCl,] K,. Iander (?) ammette nelle soluzioni degli alogenomercurati l’esistenza di anioni HgX3 e Sherrill (*) ritiene probabile, nelle soluzioni concentrate, l'esistenza di alogenomercurati contenenti più molecole di alogenuro mercurico. Noi abbiamo pensato che qualche indicazione, sullo stato in soluzione degli alogenomercurati, si sarebbe potuto avere, isolando alcuni di questi sali, dalle loro soluzioni, sotto forma di composti di addizione con l’esameti- lentetrammina, cioè applicando ad essi il metodo trovato da G. A. Barbieri (‘) per i polisolfuri di calcio. Abbiamo eseguito in proposito alcune esperienze orientatrici, e i risultati che abbiamo ottenuto e che esponiamo in questa Nota ci sembrano non senza interesse. Gli alogenomercurati che si prestarono per le nostre ricerche furono quelli di litio, di magnesio, di manganese, di cobalto e di nickel. I loro composti di addizione con l’esametilentetrammina si ottengono con grande facilità; sono poco solubili, magnificamente cristallizzati, stabili all’aria. Essi differiscono quindi notevolmente dai sali idrati corrispondenti, i quali. sono tutti di preparazione difficile, perchè estremamente solubili ed igroscopici. Dalle soluzioni di cloruro mercurico e cloruro di litio, e da quelle di bromuro mercurico e bromuro di litio non è possibile ottenere, per evapo- razione, composti cristallizzati, mentre da esse, con l’esametilentetrammina, sì ottengono facilmente ì seguenti composti di addizione: 2 LiCl . HgCl, .8H;0.2CN,H: 2 LiBr. HgBrs.8H:0.2 HH» Da una soluzione contenente joduro mercurico e joduro di litio e avente la densità 3,28, Duboin (*) ha ottenuto, dopo tre mesi, una sostanza cristal- lina fortemente igroscopica avente la formula 2 Lil . HgI,.8H:0. Noi abbiamo trovato che il composto di addizione del jodomereurato di litio con l’esametilentetrammina corrisponde perfettamente a quello del cloro- e a quello del bromo-mercurato, perchè ha la formula Zini. Hgl, .8 H.0 192 CeN His . (*) Z. Anorg. Chem., 58 (1908), 258. (?) Z. Elektrochem., 8 (1902), 688. (*) Z. Physik. Chem., 43 (1903), 705. (4) Rendiconti Accad. Lineei, 1914, II, 8 (1914). (5) Ann. Chim. Phys., 16 (1909), pag. 258. Nella letteratura sono descritti i seguenti alogenomercurati di magnesio: MgCl. .3HgCl, .6 H:0 MgCl.. HgCl,.6H:0 MgI. . Hgl: .9H,0 MgI, .2HgI, .7H.0 Con l’esametilentetrammina gli alogenomercurati di magnesio dànno i seguenti composti MgCl. .2HgCl, .10H,0.2CN,H: MgBr. . 2 HgBr:. 10H:0.2C;NH: MgI. .2HgI, .10H:;0.2CNHs Mgl. . Hgl, .10H,0.2GNH» Secondo Bonsdorff (') il cloruro mercurico si combina col cloruro di man- ganese, e il bromuro mercurico col bromuro di manganese, ma non si cono- scono le formule di tali composti. Dal Duboin (?) sono stati preparati i seguenti jodomercurati di manganese MnI;.2HgI,. 6H,0 3 MnI, .5 HgI.. 20H,0 Noi abbiamo trovato che i composti di addizione degli alogenomercu- rati di manganese con l'esametilentetrammina corrispondono perfettamente a quelli di magnesio, come risulta dalle formule MnCl, .2 HgCl, .10H:0.2CN,Ha MnBr, .2HgBr,.10H:0.2CNH> Mnl, .2HgI, .10H,0.2GN,H,; Mnl, . Hgl, .10H,0.2CN;jH,; Degli alogenomereurati di nickel e di cobalto si conoscono con sicurezza soltanto i seguenti jodomercurati descritti da Dobrosserdoff (*) Nil,.2Hgl, .6H.0 Nil;. Hgl, .6H,0 Col, .2HgI, .6H;0 Col,. HgI, .6H.0 (1) Pogg. Ann. /7 (1829), 133. (*) Comptes rendus, 142 (1906), 1339. (*) Z. russ. phys. Ges. 23, pag. 303. — C. Blatt (1901), II, 332. — 928 — L'esametilentetrammina dà cogli alogenomercurati di nickel e di cobalto i seguenti composti di addizione: NiCl, .2 HgCl; .10HE,0 .2CGNHg CoCl, . 2 HgCl, . 10H,0 .2CN,Hs NiBr, .2 HgBr, . 10H:0 .2C0N4Hi: CoBrs. 2 HgBr» .10H0.2CgNjHs Nil, . Hgl, .10H,0.2CN,H Col, . Hgl, .10H:0.2C6NjHs Nei composti di addizione da noi finora ottenuti ci sembra degno di rilievo: 1° la loro regolarità di composizione; tutti contengono due molecole di esametilentetrammina e dieci molecole di acqua, ad eccezione dei composti dal litio che ne contengono otto. 2° gli alogenomercurati isolati sotto forma di composti di addizione appartengono ai tipi più semplici [HgX; ]Me! [HgX,]Me} Nei cloro- e nei bromo-mercurati di magnesio, manganese, cobalto e nickel si riscontra, con l’esametilentetrammina, soltanto il primo tipo: negli iodomercurati di nickel e cobalto e negli alogenomercurati di litio soltanto il secondo: negli iodomercurati di magnesio e manganese tanto il primo che il secondo tipo. Parte sperimentale. ALOGENOMERCURATI DI LITIO-ESAMETILENTETRAMMINA. Cloromercurato di litio-esametilentetrammina. 2 LiCl . HgCl,.8Hs0.20NHs. A una soluzione molto concentrata di cloruro di litio (8 mol.) e cloruro mercurico (1 mol.) venne aggiunta una soluzione pure concentratissima di esametilentetrammina (4 mol.). Dopo alcune ore cominciarono a depositarsi cri- stalli incolori, trasparenti, inalterabili all'aria. Dall'acqua vengono decomposti con formazione del composto di addizione insolubile 2 HgC1,. CsN4H1».H30 (!). Caleolato Li 1,77 CI) LAT N 14,36 Trovato i Io ” 17,90 » 14,47 (!) Grutzner, Archiv. d. Pharm., 236, 370. (3) In tutti gli alogenomercurati gli alogeni vennero determinati col metodo Volhard, previa eliminazione del mercurio, con alluminio, in soluzione alcalina per potassa caustica. — 929 — Bromomercurato di litio-esametilentetrammina. 2L1iBr. HgBr; O 8H.0 2, CeN His : ‘ Si ottennero cristalli ben formati lasciando evaporare lentamente una soluzione contenente HgBr, (1 mol.), LiBr (4 mol.), CsN4H1s (4 mol.). Grossi cristalli prismatici incolori, inalterabili all'aria. Dall'acqua vengono decomposti. Calcolato Li: 1,44 Bi 833195 N 11,68 Trovato » 1646 » 33,60 n 11,60 Iodomercurato di litio-esametilentetrammina. 2 Lil . HgI,.8H:0.2CN;His.. Venne preparato come il precedente composto di bromo. Cristalli tra- sparenti, lievissimamente giallognoli, inalterabili all'aria, non deliquescenti. Con acqua si comportano come i precedenti composti di bromo e cloro. Calcolato Li 1,21 I 44.28 N 9,76 Trovato » 1,20 » 43,84 » 9,73 ALOGENOMERCURATI DI MAGNESIO-ESAMETILENTETRAMMINA. Cloromercurato di magnesio-esametilentetrammina. MgCl, .2HgCl,.10H,0.2C;NH:. Si deposita da una soluzione concentrata contenente MgCl, (1 mol.), KCI (8 mol.), HgCl; (2 mol.), CoN,H» (2 mol.) in forma di cristalli pris- matici incolori, trasparenti, stabili all'aria. È solubile senza alterazione nelle soluzioni concentrate dei cloruri alcalini; dall'acqua pura viene decomposto. Calcolato Mg 2,21 Cl 19,38 N 10,21 Trovato » 2,23 n 19,32 2 Bromomercurato di magnesio-esametilentetrammina. MgBr. 2, HgBr» .10 H:0 .2 CEN» . Si ottenne da una soluzione concentrata di MgSO, (1 mol.), NaBr (8 mol.), HgBr. (2 mol.) alla quale si aggiunse CsN4H,: (2 mol.) pure in soluzione concentrata. Cristalli prismatici incolori del tutto simili a quelli del com- posto precedente. Calcolato Mg 1,78 Br 35,15 Ni (9,21 Trovato ” 1,96 » 35,09 » 7,94 — 930 — IJodomercurati di magnesio-esametilentetrammina. In 140cc. di acqua si sciolsero 5 gr. di MgS0,.7H:0, gr. 9,0 di Hg! e gr. 12 di Nal; poi sì aggiunsero gr. 5,6 di CoN4Hi» sciolti in 60 cc. di acqua; si depositò subito una polvere cristallina lievissimamente gialla che venne tosto separata per filtrazione e seccata tra carta da filtro. All’ana- lisi diede risultati concordanti colla formula MgI,.HgI,.10H:0.2CN,H.. Calcolato Mg 2,03 I 42,55 N 9,38 Trovato » 1,96 » 42,95 x 013% Dall'acqua madre per lenta evaporazione si depositò in cristalli prisma- tici, incolori, splendenti il composto MgI..2HgI,.10H,0.2CN;H,; ana- logo al cloro- e bromo-mercurato su descritti. Calcolato Mg 1,47 I 45,94 N 6,76 Trovato » 1,48 » 45,80 200 00 ALOGENOMERCURATI DI MANGANESE-ESAMETILENTETRAMMINA. Vennero ottenuti in modo perfettamente analogo a quello descritto per i composti di magnesio ai quali rassomigliano nell'aspetto e nelle proprietà. Cloromercurato di manganese-esametilentetrammina. MnCl . 2 HgCl, .10 H,0 IO, CeN.His DI Cristalli prismatici incolori trasparenti. Calcolato Mn 4,87 Cl 18,88 N 9,93 Trovato ” 4,91 ». 193 » 9,69 Bromomercurato di manganese-esametilentetrammina. MnBry 2 HgBr» .10 H.0 S02, CoN4Hi: . Calcolato Mn 3,94 Br 34,40 N 8,03 Trovato , 3,90 » 34,64 » 7,95 Iodomercurati di manganese-esametilentetrammina. MoI, . HgI, .10H:0.2C;NH,». Calcolato Mn 4,49 I 41,51 N 9,15 Trovato » 4,98 » 41,71 » 9,20 MnI, .2HgI,.10H,0.2CNH. — 931 — Prismi incolori trasparenti, che però si alterano lentamente all'aria diventando bruni. Calcolato Mn 3,27 I 45,88 N 6,68 Trovato » 3,30 » 45,16 » 6,57 ALOGENOMERCURATI DI COBALTO-ESAMETILENTETRAMMINA. Anche questi composti vennero preparati come quelli di magnesio. Mentre tanto col magnesio che col manganese si ottennero due jodomercu- rati, col cobalto se ne ottenne sempre uno solo anche variando molto le condizioni di preparazione. Cloromercurato di cobalto-esametilentetrammina. CoCl, .2HgCl,.10H:0.2CNH. Prismi rosei che si possono ottenere della lunghezza di qualche centi- metro. Calcolato Co 5,20 Cl 18,79 N 9,90 Trovato » 5,23 » 18,43 » 9,74 Bromomercurato di cobalto-esametilentetrammina. CoBr» «d HgBr: .10 H:0 .2 CeN,H;» . Cristalli simili a quelli del composto precedente. Calcolato Co 4,21 Br 34,26 N 8,01 Trovato » 4,15 » 34,14 » 7,99 IJodomercurato di cobalto-esametzilentetrammina. Col. . HgI,.10H,0.2CN,H.. Cristalli rossi, stabili all’aria. Calcolato Co 4,80 I 41,88 N 9,13 Trovato » 4,88 » 41,40 » 9,04 ALOGENO MERCURATI DI NICKEL-ESAMETILENTETRAMMINA. Le condizioni di preparazione, le proprietà di questi composti sono ana- loghe a quelle dei composti di cobalto dai quali non ne differiscono che nel colore. — 932 — Cloromercurato di nickel-esametilentetrammina. NiC]l,.2HgCl,.10H.0.2CN,Hs. Prismi verdi. Calcolato Ni 5,18 Cl 18,78 N 9,89 Trovato » 5,26 » 18,50 » 9,72 Bromomercurato di nickel-esametilentetrammina. NiBr, 12 HgBrs .10 H,0 ..8 CsN4His . Calcolato Ni 4,19 Br 34,27 N 8,01 Trovato » 4,19 231055 » 7,88 Iodomercurato di nickel-esametilentetrammina. Nil, . HgI;.10H,0.2CNjH. Cristallini verdi, trasparenti, inalterabili all'aria. Calcolato Ni 4,78 I 41,38 N 9,12 Trovato » 4,92 ’ 41,47 » 9,06 Chimica-fisica. — Sul potere elettromotore delle amalgame di magnesio ('). Nota di Livio CAMBI, presentata dal Socio R. NASINI. Per le amalgame di magnesio ho compiuto ricerche analoghe a quelle descritte precedentemente per il calcio. I solventi adoperati erano gli stessi delle coppie ad amalgame di calcio. Il cloruro di magnesio anidro venne preparato col metodo di Hempel (?). Ottenni lo ioduro anidro dal composto con l'etere, preparato seguendo B.N. Meu- schutkin (*). I dispositivi usati per le misure in questo caso erano in tutto simili a quelli descritti per le amalgame di calcio. Le amalgame di magnesio vennero preparate e trattate, prima della mi- sura, nel modo già esposto a proposito delle ricerche termiche (*). (') Lavoro eseguito nel Laboratorio di Elettrochimica del R. Istituto tecnico supe- riore di Milano. (?) Berichte, 1888, pag. 260. (3) Zeit. anorg. Chemie, 49 (1906), 207. (4) Cambi e Speroni, questi Rendiconti, 1915, I, 734. — 933 — III. Forze elettromotrici in alcool metilico. — Mg, Hguoo-n | Mg C1, 0,35 M | Mg Cl, 0,35 M, Hge Cl, | Hg — 80° | Mg °/ | Mg°/ | Mg°/ | Mg°/o N. in in E. M. En N. in in F. E. M. EN peso atomi | peso atomi TRONI 1 — 1,224 | — 1,007 | 10 | 4,71, 29 — 1,895 | — 1,678 | | 2) 0,64 5 — 1,722 | — 1,505 | 11 | 4,94 30 — 1,898 | — 1,681 3 | 1,32 10 — 1,774 | —1,557 | 12 | 5,37 32 — 1,939 | — 1,722 4 | 1,93 14 — 1,782; — 1,565 | 13 | 5,87 34 — 1,988 | — 1,721 5 | 2,58 18. | — 1,864 | —1,647 | 14 6,36 | 36 — 1,910 | — 1,693 6 | 3,11 21 — 1,825 | — 1,608 | 15 | 6,86 ! 88 — 1,930 | — 1,713 Tal \0:3548 23 — 1,826 | — 1,609 | 16 | 7,40 40 — 1,982 | — 1,715 8 | 3,88 25 — 1,860 | —1,643 | 17 | 9,02 | 45 — 1,950 | — 1,733 9 | 4,27 2 fr: OLO 01,608 E _ _ Tensione del magnesio: — Mg ' Mg Cl, 0,35 M | Mg C1. 0,35 M, Hg. Cl. | Hg temp. | F. E M. | En Magnesio in lastra, non amalgamato —- 80°| — 1,702 _ ” ” AMMALO AMEALO MRI N ” — 2,048 | — 1881 ” in cilindro N ri. SIA: ” — 2,023 | — 1 806 ” ” O i e a + 15°] — 2,056 | — 1,802 I valori «a vennero calcolati analogamente a quelli delle amalgame di calcio, in base alle determinazioni seguenti : \ F. E. M. 25° 0,0335 V. 757 0,0710 » Le amalgame dal n. 5 in avanti della tabella III mostrarono un com- portamento fra loro consimile. Durante le misure della tensione, questa sì ele- vava gradatamente fino a raggiungere il massimo valore riportato, che in generale si mantenne costante per 6-10 ore. Andamento analogo si ebbe per il magnesio: il valore riportato si man- tenne quasi costante per 4-5 ore. Nella coppia a magnesio misurata a 15°, si notava un rapido sviluppo di idrogeno e formazione di alcoolato.I valori + Hg | Hgo Cla 3 — Hg | Hgs Cla, Mg CI, 0,35 M | KC10,0269M, Mg Ci, 065 Ml Hgs Cl» | Hg + 25° —-80° &n (25°) = + 0,254 En ( = 80).=+0,217 RexDpICONTI. 1915, Vol. XXIV. 1° Sem. 119 — 934 — massimi e più costanti li ottenni con magnesio amalgamato, preparato ri- scaldando al rosso il metallo in presenza di vapori di mercurio. Il magnesio amalgamato è assai più attivo a reagire, a temperatura ambiente, del ma- gnesio non amalgamato; ed è probabile che la tensione più bassa, presentata da quest’ultimo, si debba ad un fenomeno di passività. IV. Forze elettromotrici în piridina. — Mg, Hguoo-n | Mg I: 0,038 M | AgN0 0,1 M | Ag 25° Mg % | Mg°/ | N. in atomi Tdi, | N. in atomi To ak 1 5 | — 1,684 7 25 — 1,848 2 10 — 1,672 8 27 — 1,858 3 14 —- 1,690 9 29 — 1,826 4 18 — 1,720 10 32 — 1,758 5) 21 — 1,704 10 34 — 1,578 6 8 — 1,845 12 8 — 1,584 Tensione del magnesio: — Mg | Mg Is 0,088 M | Ag NO, 0,1 M : Ag a 25°: Magnesio non amalgamato F.E.M=— 1,474 dopo 8 ore 1,320 ” amalgamato ” = — 1,440 Il contegno delle amalgame di magnesio nella soluzione piridica di ioduro di magnesio si mostrò assai anormale. Le amalgame fino a circa 30 atomi si mostrarono simili, nel comportamento, a quelle di calcio; le ten- sioni variarono soltanto lentamente. Invece le amalgame oltre questa con- centrazione, contrariamente a quanto doveva osservarsi, mostrarono una ten- sione inferiore ed incostante al massimo grado, fenomeno che si accentua nel magnesio che mi fornì in molteplici prove sempre tensioni inferiori a quelle delle amalgame. Questo fenomeno sembra dovuto ad una passività del magnesio in piri- dina. È da notarsi che, come le amalgame di calcio, le amalgame di ma- gnesio si ricoprivano, a lungo, di uno strato bruno di sostanza insolubile in piridina. Nel seguente diagramma la curva III è data dai valori s1 a — 80° delle amalgame di magnesio in alcool metilico; la curva IV segue le f. e. m. delle coppie in piridiua. La curva [III mostra un gomito a circa 30 °/, atomi di magnesio; ciò si accorda con l’analisi termica che ha condotto al solo composto MgHg.. Lo spostamento da 33 °/ a 30 °/, atomi del flesso è forse dovuto ad una incom- pleta formazione del composto MgHg: (a 169°). — 935 — Nella curva delle tensioni in piridina si rende nuovamente manifesta l'influenza dei fenomeni di passività cui ho più sopra accennato; dal suo andamento appare come questi fenomeni siano in relazione con la costitu- zione della lega. VW = SI 70 20 29 07) 4o doo Ng Riassumendo, dalla media delle f. e. m. delle coppie ad amalgame di magnesio dai 18°/, ai 30 °/ atomi di magnesio, per il composto MgHg, e per il magnesio abbiamo, in alcool metilico a — 80°, — Mg Hg; | Mg C1, 0,35 M | MgCl20,85 M, Hg» CI, | Hg=— 1,851 V.; da cui en = — 1,684 —Mg ” ” » = — 2,035 ” — 1,818 In piridina a 25°: Msg Hg, | Mg 10,038 M | Ag NO, 0,1M | Ag= — 1,844 V. Fra magnesio ed MgHgs sussisterebbe quindi, a — 80°, una differenza di 0,184 Volta. Debbo osservare, a proposito della tensione del magnesio in alcool me- tilico, quale risulta dalle mie esperienze, — 1,82 (sx), che questo valore è assai superiore a quello finora adottato, — 1,59 ('). Quest'ultimo dato, del resto, appariva assai basso rispetto al calore di formazione dei composti alo- genati del magnesio. E giova tener presente poi che nell'acqua e nei solventi ossidrilati si hanno fenomeni di depolarizzazione con i metalli fortemente elet- troaffini, dovuta alla decomposizione, operata da essi, del solvente. CONCLUSIONI. 1) Dalle ricerche su esposte risulta l'influenza del solvente sulla ten- sione dei metalli puri non solo, ma anche delle loro amalgame. Specialmente nel magnesio e per le sue amalgame in piridina si presentano fenomeni di (1) Kistiakowsky, Z. Elektr. 19 (1908). Tensione in soluzione acquosa di solfato di magnesio : — Mg | MgS0,0,5.M; e4=— 1,59 (18°). Ricordo che a 15° in alcool metilico ho determinato il potenziale (eu) dell’elettrodo — Mg | MgCla 0,85 M =— 1,802. — 936 — passività che non si manifestano, o si manifestano in grado minore, nell'alcool metilico. 2) Dal confronto delle tensioni delle amalgame di magnesio con quelle di calcio, e dei due metalli, risulta: Mg — 1,82 V; Ca — 1,98 (en a — 80° in alcool metilico: Mg C1» 0,35 M ; Ca Cl, 0,25 M) Mg Hg. 1,63; Ca Hgst 1,60 ” ” Mg Hg: — 1,84; Ca Hg. 1,82 (e 25° in piridina: MgI: 0,038 M; Ca I: 0,0093 M. Rispetto all’elettrodo, in piridina, Ag | AgNO; 0,1 M). La tensione del composto di magnesio è superiore, per quanto in piccolo grado, a quella del composto del calcio, pure essendo le due soluzioni dei sali di magnesio più concentrate delle due corrispondenti di calcio. Vi sa- rebbe quindi un'inversione nell’ordine delle tensioni, passando dai due me- talli ai loro composti che l'analisi termica ci indica come i più ricchi in mercurio che ci presentano rispettivamente i due metalli. Questo fatto ri- chiama quanto altri autori avevano osservato sulla tensione di alcune amal- game in rapporto alle tensioni dei metalli corrispondenti (*). Da quanto precede si giustificano le ricerche che sto compiendo, sia sul calore di formazione delle amalgame di cui mi sono occupato, sia sulle ten- sioni dei composti presentati da altre leghe dei metalli alcalini ed alcalino- terrosi. Chimica. — Anidridi e amine da acidi a amidati (*). Nota II di F. GRAZIANI, presentata dal Corrispondente L. BALBIANO. In una Nota precedente (3) ho riferito i risultati ottenuti dallo studio del comportamento di alcuni acidi e-amidati, riscaldati con glicerina o con idrocarburi : ed ho dimostrato come sia valida la tesi del prof. Balbiano, che cioè per l’anidrificazione non è necessario l'intervento della glicerina. Espongo qui i dati sperimentali ottenuti colla leucina, colla tirosina e colla cistina, dati che mi hanno permesso di trarre le conclusioni già esposte. Leucina. — La leucina usata per queste ricerche era un prodotto sin- tetico della Ditta C. A. F. Kablbaum: ben cristallizzata in fogliette bianche, fondeva a 287°. Avendo fatto, come il Maillard, il riscaldamento colla glicerina, osservai durante tutta la reazione sviluppo di vapori ammoniacali. Dalla massa glicerica (') Cohen e Kettemteil, Z. anorg. Ch. 38 (1904), 198; Kettemteil, ibidem. 213. (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica organica del R. Politecnico di ‘l'orino. (#) Questi Rendiconti, 1915, I, pag. 822. — 937 — raffreddata si possono raccogliere degli aghetti colorati in bruniccio. nella quan- tità di gr. 0,34 (invece di gr. 0 86, quale sarebbe il calcolato per la ciclo-leucil- leucina: si ha cioè un rendimento, in prodotto greggio, di solo il 89 °/, del teo- rico, assai inferiore quindi a quello ottenuto coll'alanina. Il Maillard non porta alcun dato in proposito). Cristallizzati dall'alcool, si hanno dei begli aghetti bianchi, lucenti, che fondono a 268° (non corr.; il Maillard dà come P. F. Ide toorh.): In una prima prova di riscaldamento con difenilmetano, gr. 1 di leu- cina e cc. 15 dell'idrocarburo vennero portati alla temperatura di 172° in mezz'ora, e tra 172° e 180° mantenuti per 8 ore: dopo questo tempo il liquido è giallo carico, e contiene ancora circa la metà (gr. 0,44) di leu- cina inalterata, che si libera dal difenilmetano lavando con benzolo bollente. Avendo però estratto 3 volte questo residuo solido con piccole quantità di alcool perfettamente anidro, per evaporazione del solvente ho avuto un re- siduo di aghetti bianchi, finissimi, all'aspetto identici a quelli dell'anidride, e fondenti a 262°-263°: la quantità però è minima (gr. 0,01), e nelle prove successive non sono più riuscito ad ottenerne nemmeno tracce: non ho po- tuto perciò accertare la formazione di ciclo-leucil-leucina. Durante il riscaldamento, nella parte del tubo esterna alla stufa si è andato formando un deposito bianco cristallino, in gr. 0,52: è solubilissimo nell’acqua, e dà forte effervescenza con acido cloridrico; non è altro che car- bonato di isoamilamina: (') CHa CH, CHi CH-CH,-CH, NH, + €03 . 3 CH-CH,CH-COOH — | NH; Avendo in un’altra prova introdotto il tubo nella stufa già portata a 100°, e poi riscaldato per 40 minuti fino a raggiungere i 245°, la rendita in carbonato dell’amina fu di gr. 0,85. In altre prove successive ho sperimen- tato a temperature meno elevate, per vedere se ciò eventualmente favorisse la formazione dell'anidride: ma il risultato fu negativo, e non ho ottenuto che un minore rendimento in amina: e ciò pel fatto che, prolungandosi assai il tempo di reazione, il carbonato di isoamilamina si decompone, ed essa volatilizza. Così ad es. avendo riscaldato per circa 9 ore senza oltrepassare i 190°, si ottennero gr. 0,70 di carbonato di isoamilamina; questo si ridusse a gr. 0,36 in un’altra prova, in cui avevo mantenuto il tubo per 14 ore a 160°-165°; e infine in un riscaldamento complessivo di 45 ore a 150°-160°, non si ha affatto deposito di carbonato dell'amina, che man mano che si forma si decompone e volatilizza: alla fine della reazione vi sono ancora gr. 0,18 di leucina indecomposta. (*) Quest’amina fu ottenuta dallo Schwanert (Lieb. Ann. 102, 225) per distillazione secca della leucina: ma l’ Autore non dà il rendimento della reazione, — 933 — Tutte le porzioni di carbonato di isoamilamina vengono trasformate in cloridrato, e questo purificato per cristallizzazione dall'acqua: si presenta in mammelloncini bianchi, costituiti da minutissimi aghi. Viene poi trasfor- mato nel cloroplatinato, che cristallizza in fogliette giallo-oro. gr. 0,1700 del cloroplatinato, calcinati, diedero gr. 0,0570 di Pt. gr. 0,3060 » ’ diedero ce. 12,9 di N, letti su KOH a 18° e 732mm, Trovato Calcolato per (Cs Kane NH:.HC])) 2iPT (O) Pro 069355 33,41 N°/ 4,67 4,79 Tirosina. (!) — La tirosina adoperata proveniva dall’ idrolisi dello scudo della tartaruga: il prodotto era ben cristallizzato, e all’analisi s'era dimostrato assai puro. Per mezzo del riscaldamento colla glicerina mi è stato possibile iso- ‘lare e identificare un'anidride della tirosina: e l'intervallo di temperatura a ciò più favorevole è quello fra 180° e 185°. Gr. 1 di tirosina sospesi in cc. 15 di glicerina, furono riscaldati per 8 ore a 170°180°. Il liquido è assai imbrunito, ma perfettamente limpido: anche mantenuto per 24 ore a 0°, non sì separa nulla di solido: si diluisce allora con 3-4 volumi di acqua, si lascia in riposo per 24 ore, poi si raccoglie su filtro il precipitato bruno formatosi: lavato ripetutamente con acqua fredda e seccato a 100°, il residuo è di gr. 0,43. In una seconda prova il riscaldamento si fece per 4 ore a 175°-185°; il prodotto secco, ottenuto collo stesso trattamento del precedente, è di gr. 0,61. I prodotti delle due preparazioni (totale gr. 0,94) vengono riuniti ed esauriti per ebollizione con alcool assoluto: rimane indisciolto un residuo polverulento, dell'aspetto dell'anidride cornea della glicocolla, costituito forse da un'anidride complessa della tirosina; ammonta a gr. 0,27 (circa il 29 °/, del prodotto totale di anidrificazione); nell’alcool si sono sciolti gr. 0,67 (circa il 71°/,), che ripetutamente cristallizzati dall'alcool si presentano in (') Prendo occasione di questa pubblicazione del dott. Graziani per comunicare che da tre anni in questo laboratorio si stanno facendo colla sua collaborazione studî d'idro- lisi di tessuti animali organizzati, mediante acidi diluiti. Abbiamo intrapreso lo studio dello scudo della tartaruga, della lana e delle scaglie di alcune varietà di pesci. Dalla tartaruga si è avuto notevoli quantità di tirosina, di glicocolla, di valina e di altri acidi amidati. Dalla lana il prodotto principale finora isolato è la cistina in quantità notevole (7,2°/o). Speriamo di potere nel prossimo anno pubblicare nelle Memorie di questa Acca- demia i risultati dettagliati delle nostre ricerche. L. BALBIANO. — 939 — begli aghi bianchi disposti a rosette: sono costituiti da un'anidride della tirosina (*), (COOH 1 03N — H.0)x. Durante il riscaldamento della tirosina colla glicerina i vapori reagi- vano costantemente alcalino, ed era distintissimo l'odore ammoniacale e fem- cale proprio dell’ossifenil-etilamina: aumentando la temperatura di riscal- damento aumenta la loro formazione. Avendo riscaldato gr. 2 di tirosina con cc. 20 di glicerina per 2 ore a 185°-195°. si svolsero abbondanti vapori di amina: e per distillazione a pressione ridotta (16-18 mm.) a circa 210° del prodotto solido separato, si ottenne nel tubo adduttore un lieve deposito solido dell'amina. Questa aumentò ancora introducendo il tubo nella stufa a 200°, e man- tenendovelo per mezz'ora fino a raggiungere i 230°; il prodotto solido fu di soli gr. 0,35, ma maggiore fu la quantità di ossifenil-etilamina. Le diverse porzioni di anidride, riunite e ricristallizzate dall’alcool, si presentano in aghetti bianchi disposti a rosette, di lucentezza sericea: il prodotto fonde a 278°-279° (non corr.) senza decomposizione, con leggero imbrunimento che incomincia già verso i 260°. gr. 0,1858 diedero gr. 0,4506 di CO, e gr. 0,0937 di H,0. Trovato Calcolato per (Cs Hs Os N)e C °/o 66,14 66,22 H iS 5,60 5,56 Se come mezzo moderatore del calore si adopera difenilmetano invece di glicerina, la reazione va nel senso della formazione di ossifenil-etilamina : ma per ottenere un buon rendimento occorre che la temperatura sia superiore ai 210°. Infatti in una prima prova, in cuì si riscaldò per più di 40 ore . raggiungendo solo i 210°, si ebbe decomposizione della tirosina con abbon- dante residuo carbonioso, e non si potè raccogliere che pochissima amina. In prove successive, riscaldando a temperature più elevate, si è sempre formato nella parte fredda del tubo un piccolo deposito cristallino, solubile in acqua, che sviluppa CO. se trattato con acido cloridrico, e che l’analisi dimostrò essere carbonato di ossifenil-etilamina. Ma questa cristallizza in grande quantità, dal difenilmetano, nel raffreddamento: sì presenta in fogliette lucenti, di aspetto micaceo, assai soffici. Il miglior rendimento in amina (gr. 0,72, cioè il 96°/, del teorico, che col poco sublimato come car- (') Anidridi della tirosina non sono finora note. Soltanto il Lòw (Ber. d. d. chem. Gesell. /5, 1483), da un latte conservato per 8 anni, ottenne un deposito solido, in glo- betti duri, insolubili in acqua bollente e in alcool, e che bolliti con potassa caustica davano tirosina: l’autore suppone si tratti di un’anidride della tirosina. Per l’aspetto e pel comportamento è diverso dal composto da me ottenuto puro: se mai potrà essere lo stesso prodotto che ho constatato formarsi accanto a quello analizzato, e che è precisa- mente insolubile in alcool e in acqua. — 940 — bonato sale al 97 °/,) l'ottenni introducendo il tubo nella stufa già riscal- data a 245°, e a questa temperatura mantenendovelo per 2 ore e !/,. A tem- perature più basse la rendita è assai minore: riscaldato per 10 ore a 215°- 225° si ebbero solo gr. 0,45 di amina. L'ossifenil-etilamina non si riesce a purificarla per cristallizzazione dal- l’aleool: anche dopo 5 operazioni, sempre con ebollizione con carbone ani- male, era leggermente colorata e fondeva a 158°-159°. Si purifica invece bene per distillazione a pressione ridotta: a 55"" bolle a 210°-212°, e il distillato perfettamente incoloro si rapprende nel tubo collettore in una massa cristallina bianchissima. Avendo dovuto di nuovo fonderlo per raccoglierlo, è leggermente im- brunito: è tuttavia abbastanza puro, e fonde senza decomposizione a 161° (1). gr. 0,2062 di sostanza, diedero gr. 0,5312 di CO; e gr. 0,1474 di H, 0. gr. 0,1848 ” , » cc. 16,2diN, lettisu KOHa 17° e 748mm, Trovato Calcolato per HOCH,.CHs.CHs NHs C°/ 70,25 70,02 H°/, 7,94 8,08 N94 9590 10,21 I piccoli errori di analisi sono da attribuirsi alla leggera decomposizione avvenuta nella fusione del composto. Come ho detto, in tutte le preparazioni si aveva un piccolo sublimato di carbonato dell'amina: si sciolse in acido cloridrico, e si fece il cloropla- tinato che cristallizza in fogliette giallo aranciate. gr. 0,1586, calcinati, lasciarono un residuo di gr. 0,0448 di Pt. Trovato Calcolato per (HOC; Ha 3 CHs ò CHs NH; ò HC1) ?Pt C14 Pt°/, 28,84 28,53 Cistina. — La cistina adoperata, prodotto dell’idrolisi della lana, sì presentava in polvere, cristallina bianca, che a 250°-255° imbrunisce senza fondere: all'analisi si mostrava assai pura: il potere rotatorio è di [a] = — 213°, 62. Gr. 0,5 di cistina, sospesi in ce. 10 di glicerina, vengono riscaldati len- tamente: a 130° incomincia già la decomposizione con sviluppo di idrogeno solforato: a 165° è intensamente colorato in bruno; mantenuto mezz’ora & 165°-170°, si lascia poi raffreddare. (1) L'ossifenil-etilamina fu ottenuta da Schmitt u. Nasse (Lieb. Ann. 133, 214), ri- scaldando la tirosina, in piccolissime quantità (pochi cgr.) a 270°: la base sublimava sulle pareti fredde del tubo in una crosta bianca cristallina: P. F. 161°-163°. — 9l — Sulle pareti fredde del tubo si è formato un deposito cristallino non molto abbondante, bianco-giallastro, solubile in parte nell'acqua, con residuo gialio che ho potuto identificare per solfo (è solubile in solfuro di carbonio; brucia con fiamma azzurrognola e formazione di SO»): la parte sciolta dà con acido cloridrico sviluppo di CO, e formazione di cloruro di ammonio, nella quantità di gr. 0,06. La parte glicerica, liberata per filtrazione dal residuo carbonioso, fu sottoposta a diversissimi trattamenti: ma ogni tentativo per isolare qualche composto definito è riuscito vano. In altre prove, variando qualche poco le condizioni di temperatura, si ottennero sempre risultati analoghi. Adoperando il difenilmetano, occorre una temperatura più elevata (sopra i 180°) e un maggior tempo di riscaldamento, perchè avvenga la decompo- sizione: ma in queste condizioni essa è assai completa. Come colla glice- rina, nelle parti fredde del tubo si ha sempre deposito di solfo e di car- bonato di ammonio (fino a gr. 0,11 da gr. 0,5 di cistina). Inoltre si ha abbondante sviluppo di acido solfidrico: avendo fatto gorsogliare i vapori in una soluzione di acetato di piombo, ho potuto verificare che fino il 42 °/y dello solfo totale della cistina si elimina sotto forma di HyS. Dal difenil- metano si è sempre separata una polvere nero-bruna, nella quantità di gr. 0,06-0,07 da gr. 0,5 di cistina, che in parte si scieglie in ammoniaca riprecipitando con acido acetico: è una piccola quantità di cistina inalterata. Il residuo, ripetutamente lavato con ammoniaca, contiene ancora in grande quantità azoto e solfo: ma in alcun modo mi è riuscito di purificarlo, pure essendo in parte solubile in alcool. Il cloruro d'ammonio, ottenuto per soluzione in acido cloridrico del car- bonato sublimato, viene purificato per cristallizzazione dall'acqua: determi- nato il cloro col metodo di Volhard, gr. 0,1436 di sostanza richiesero ce. 26,5 di soluzione N/,1g di AgNO,. Trovato Calcolato per NH, CI C1°/, 65,39 66,28 L'errore piuttosto rimarchevole è dovuto probabilmente a piccole quan- tità di un'amina che sì trova mescolata al eloruro d'ammonio: il composto ha infatti permanentemente un odore caratteristico, e trattato con potassa caustica dà un lievissimo precipitato: ma per la poca sostanza a disposi- zione non mi è stato possibile isolarla. RenpicontI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 120 — 942 — Chimica. — Azzone della luce su benzofenone ed acido butir- rico (*). Nota di R. pe Fazi, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Il prof. Paternò, come ha accennato in questi Rendiconti (*), ha dato a me l’incarico di studiare i prodotti che si formano, per azione della luce, su una mescolanza di benzofenone ed acido butirrico normale. Il 10 febbraio 1915, fu aperto un tubo che era stato esposto alla luce dal 28 giugno 1909 al 10 aprile 1910, contenente 80 gr. di acido butir- rico normale e 50 gr. di benzofenone. Nell'aprire il tubo si è notato svolgimento di gas, che ha continuato per qualche minuto, e che si è riconosciuto per anidride carbonica. Il liquido è di colore giallo arancio intenso; la sostanza solida depo- sitatasi al fondo del tubo è di colore giallo sporco; filtrata alla pompa e disseccata, pesa gr. 19, e così impura fonde a 170-176°. Dall’alcool bol- lente si deposita cristallizzata in prismi, che fondono a 184-186°: si tratta quindi di benzopinacone. Il liquido, dopo aggiunta di una soluzione di carbonato di potassio, fino a reazione alcalina (si è inteso un forte odore di frutta) si è estratto con etere. Distillato, il solvente rimane un olio leggero, di odore caratteri- stico, che il prof. Paternò ha riconosciuto per butirrato di propile (5). Le acque, dopo estratte con etere, si acidificano con HCl diluito. In fondo al recipiente si deposita una sostanza rossa vischiosa (gr. 11). Le acque madri, dopo un giorno, sono ancora lattiginose, ma estratte con etere lasciano poche gocce di residuo oleoso. Con una piccola porzione di questo acido così impuro, si fa il sale d’argento, e si analizza: sostanza gr. 0,0473 Ag gr. 0,0133 Ag °/, 28,11. Per il butirrato d'argento (C4H,0: Ag) si calcola Ag °/, 55,38. Per un composto di 1 mol. di butirrato d'argento + 1 molec. di ben- zofenone (C,,1H703 Ag) si calcola Ag °/ 28,65. Circa 5 gr. di questo acido, così oleoso, si fa bollire con acqua di barite, ma non si discioglie che una piccolissima porzione. La soluzione acidificata con HCI. diluito, deposita poche gocce oleose, che hanno odore di acido butirrico. (') Lavoro eseguito nell'Istituto chimico della R. Università di Roma. (2) Paternò, questi Rendiconti. 24 (1), 674 (1915). (3) Paternò, loc. cit. — 943 — La parte indisciolta si fa bollire con pochissimo alcool, ma soltanto una piccola parte si discioglie. La porzione indisciolta in acqua di barite e in alcool, si tratta con carbonato sodico. La soluzione filtrata si acidifica con HCl diluito. Precipita una sostanza di colore giallo mattone, che sì rac- coglie su filtro e si lava molto bene con acqua. Dopo averla disseccata in essiccatore per due giorni, se ne determina il punto di fusione: a 120° inco- mineia a diventare rossa e a 130° circa si. fonde in una goccia oleosa rossa. Questo acido si analizza : Sostanza gr. 0,2044 , CO, gr. 0,5531 , Hs0 gr. 0,1196 Donde °/, : Trovato Calcolato per 1 molec. di ac. butirrico + 1 molec. di benzofenone (C,7 H180;) C 73,44 75,6 H 6,66 6,51 Con una porzione dell'acido così purificato sì fa il sale d’argento; si fa disseccare e si analizza : sostanza gr. 0,0955 Ag gr. 0,0276. Donde °/;: Trovato Calcolato per Ci7H1: 03 Ag Ag 28,90 28,065 Il rimanente degli 11 gr. di acido greggio si discioglie in acqua con qualche goccia d'ammoniaca. Quindi si aggiunge nitrato d'argento. Precipita così il sale d’argento in fiocchi gelatinosi di colore giallo bruno. Si lascia in essiccatore, nel vuoto, per 5 giorni. Una determinazione d’argento, non avendo dato buoni risultati, si puri- fica questo sale lasciandolo per 1 giorno in presenza di alcool etilico a freddo. Si filtra e si lava bene con alcool; questo passa colorato in giallo pallido; e distillato rimangono poche gocce di un olio di colore rosso bruno, con odore di acido butirrico. Il sale d’argento, così purificato, si dissecca nel vuoto, in presenza di acido solforico, poi a 100° fino a peso costante e si analizza: sostanza gr. 0,18548 Ag gr. 0,0552 sostanza gr. 0,2361 CO» gr. 0,4681 H.0 gr. 0,0937 Donde °/,: Trovato Calcolato per C,:H1:0; Ag Ag 28,79 28,65 C 54,07 54,10 H 4,44 4,50 — 944 — Il medesimo sale d'argento (circa gr. 1,22), si tiene in sospensione in pochi c. c. di alcool e si aggiungono poi c. c. 7 di HC1 N/2. Dopo aver riscaldato a b. m. per 1 ora circa, si deposita il cloruro di argento. Si lascia ancora a b. m. per 1 ora, poi si filtra. Tl liquido filtrato è di colore giallo bruno, e per aggiunta di acqua precipita una sostanza del medesimo colore. Le acque madri anche dopo 8 giorni sono lattiginose. Si estrae tutto con etere, e si distilla poi il solvente: rimane allora un olio di colore rosso bruno, che dopo qualche giorno è ancora semi-solido. Si discioglie tutto in poca ammoniaca e si estrae nuovamente con etere. La soluzione ammoniacale, dopo aver scacciato l'etere, si acidifica con HC] diluito. Pre- cipita una sostanza di colore giallo mattone, che si filtra e si lava bene con acqua. Sono dei cristalli non ben definiti e frantumati, che a 75° incomin- eiano a colorarsi in giallo arancio, e a 125-180° fondono in un liquido di colore rosso. L'acido, così purificato, è solubile in alcol etilico e metilico, benzolo e cloroformio. In H, SO, concentrato si discioglie colorando la soluzione in rosso. Dai risultati analitici ottenuti e dai fatti osservati posso concludere che il benzofenone e l'acido butirrico normale, hanno dato luogo a due reazioni ben distinte: 1°) formazione di butirrato di propile, con la quale si spiega la pre- senza di anidride carbonica e la formazione di benzopinacone; 2°) sintesi di un acido per addizione di una molecola di benzofenone con una di acido butirrico. Già Paternò e Chieffi (') avevano avuto formazione di un ossiacido da una reazione analoga; e cioè da benzofenone ced acido fenil-acetico avevano ottenuto l'acido f#-trifenil-lattico, secondo lo schema seguente: CeH; (G20f CeHy CeHs | | 708 |. CONICA, ep | | | | CH; COOH CsH; COOH È molto probabile quindi che tra acido butirrico e benzofenone sia avve- nuta una reazione simile. In questo caso però è possibile la formazione di tre composti a seconda che il legame tra il CO del benzofenone ed un carbonio dell'acido butirrico, è in posizione @, f 0 y, rispetto al carbossile, secondo lo schema seguente: (') Paternò e Chieffl, Gazz. Chim. Ital., 40 (2), 323 (1910). C:H5 (GETS | CO CH; | > OSH (HB COOH CH; CH; | | OMR. CH; C,H; 708 | Conai | 0Ho0 i Ì : —>l0—_-CH C————_—__C 0_—_C,-CH,_CH,_C00H | | CoH: COOH | CH CH; La formazione del primo poteva sembrare la più probabile, ma essendo riuscito in questi giorni a fare la sintesi appunto dell'acido « etil-8-difenil- lattico, posso affermare fin da ora che non è identico a questo, poichè ha punto di fusione e proprietà diverse: presto renderò noti i risultati di queste esperienze che ho ancora in corso. La formula terza non è da escludersi completamente, ma è difficile che si sia formato un acido di questo tipo, perchè in queste sintesi il gruppo CH; reagisce molto difficilmente, così, per es., se si espongono alla luce ben- zofenone ed acido acetico, si ottengono i prodotti inalterati ('). È quindi molto probabile che l'acido che ho descritto, ottenuto per azione della luce sopra una mescolanza di benzofenone e acido butirrico nor- male, abbia la formula II, sia cioè l'acido p-metil-y-ossi-y-difenil-bu- tirrico. (1) Paternò © Chieffi, Gazz. Chim. Ital., 40 (2), 322 (1910). — 946 — Chimica-fisica. — Sugli equilibriù dell’idrogenazione. Nota di M. Papoa e B. Foresti, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. In una nostra Nota precedente (*) abbiamo studiato i due equilibri 3CH; CHOH CH; +4- C Hg = CsH;s + 3CH3 CO CH; CH; CHOH CH; + C, H; CO C:Hy- = CH; CHOH C, H; 4 CH; CO CH; in presenza di catalizzatori, ne abbiamo determinate le costanti e le ab- biamo confrontate con i valori ricavati teoricamente, applicando il teorema di Nernst. i Per il calcolo delle costanti chimiche delle sostanze che costituivano i nostri equilibrii, ci siamo limitati ad adoperare la formula in funzione del rapporto di Trouton e proposta dallo stesso Nernst. Con tal metodo risultò l'accordo fra l’esperienza e la teoria. Le costanti chimiche si sarebbero potute calcolare anche in altre ma- niere con opportuna combinazione di queste due formule proposte da Nernst: ào n ST (1) lgp=— qg7jg 15 b8Tt qa tl (2) 2=(A,4+3.5T—- 6719) (1-2) 0 dove & è la differenza dei calori molecolari del gas e del condensato allo zero assoluto; p è la tensione di vapore della sostanza considerata alla tem- peratura assoluta T; 4, il calore di vaporizzaziane allo zero assoluto; 770 la pressione critica; 4 il calore di vaporizzazione alla temperatura T. (1) Questi Rendiconti, XXIII (1914), 2° sem., pag. 84. Approfittiamo dell’occasione per correggere alcuni errori sfuggiti nella stampa: errato corretto pag. 85, 2% equazione ga DI mihi lopli= I. Sai e; 4,571T 2 4,571T 3 RE e H 8 Se H » 6, ultima equazione K—= da isopr. Cel K—= Pane tenia isopr. Peet Pacet. Pogtg Pacet. Peg g » 89, riga 12 Q=107 Q= — 0,7 ” ” » 18 log Ire=V0c log Ne 000 » n» 20 loe.K = 0,832 e K,.= 2,15 log K,=0,3226 e K1=2,10 — 947 — Ma, non conoscendosi le pressioni critiche e i calori di vaporizzazione di alcune delle nostre sostanze, non abbiamo potuto calcolare le costanti anche in questa seconda maniera. Il confronto non sarebbe stato privo d'interesse, date le divergenze già messe in rilievo da C. F. Miindel ('), tra i valori delle costanti che sì ottengono adoperando l'uno o l'altro metodo di calcolo. Ora, in un lavoro di U. Grassi (*), resosi noto alcun tempo dopo la nostra pubblicazione citata, nel quale egli si occupa di queste stesse diver- genze fra i valori delle costanti chimiche, troviamo determinati sperimen- talmente i calori dî vaporizzazione e le pressioni critiche di alcune sostanze : fra queste, il dietilchetone e l’alcool isopropilico. Ma se con questo abbiamo il valore delle costanti chimiche del dietil- chetone e dell'alcool isopropilico, manca ancora il modo di calcolare le co- stanti chimiche dei nostri equilibri, mancando le costanti che si riferiscono al cicloesano e al dietilcarbinolo. Tuttavia abbiamo creduto di poter calcolare, con sufficiente approssimazione per i nostri scopi, le costanti ancora ignote, ammettendo l’uguaglianza del rapporto fra le due costanti di due sostanze analoghe, calcolate secondo la formula di Trouton, al rapporto fra le costanti delle stesse sostanze, calcolate con le formule (1) e (2). Così, essendo 3,39:3,71 il rapporto delle costanti del dietilcarbinolo e dell'alcool isopro- pilico (dalla formula di Trouton), abbiamo creduto di poterlo uguagliare al rapporto fra la costante incognita del dietilcarbinolo e quella dell’alcool isopropilico, dedotta dalle formule (1) e (2). Così abbiamo potuto raccogliere nella seguente tabella le costanti cal- colate nei due modi; abbiamo inoltre creduto bene calcolare le costanti anche per mezzo della formula di Trouton corretta in funzione della tem- peratura assoluta di ebollizione (C=1,331 log T—0,00098 T, dove T è la temperatura assoluta di ebollizione) (*). SOSTANZE COSTANTI CHIMICHE dalle for. (1) e (2) dalla cost. dalla cost. di Trouton di Trouton corretta Alcool isopropilico . 4,94 3,71 3,044 Acetone. +. + +. +. 9,74 3,08 3,025 Dietilcarbinolo . . . 4,51 3,59 (4) 3,068 Dietilchetone. . . . 4,54 2,92 3,056 Benzolo. ie ha 4,37 2,9 3,043 Cicloesano. . . . . 4,30 2,85 3,043 In base ai dati di questa tabella si possono così calcolare le costanti di equilibrio, ottenendo tre serie di valori a seconda che risulta la somma- (') Zeitschr. fiir Physik. Chemie, 1914, pag. 435. (?) Nuovo Cimento (6), VII, 1, 313. (3) Nernst, l'heoretische Chemie (1912), 279. (4) Media delle due costanti già calcolate nella Nota precedente. — 948 — toria delle costanti dell'una o dell'altra colonna. In questa seconda tabella raccogliamo le XvC con le costanti di equilibrio corrispondenti calcolate e trovate. xyC 20 xyC EQUILIBRIO dalle for. K cale. dal rapp. K cale. dal rapp. K cale. K trov. (1) e (2) di Trouton di Trout. cor. Alc. isoprop., benzolo, cicloesano, acetone . 3,67 21,13 1,94 0,394 1,057 0,0515 0,28 Ale. isoprop., dietilchet., 38,3 | 3,26 I 2,30 Î 3,45 dietilcarb., acetone. . 1,23 na (') 0,012 ii Da un confronto dei varî valori di K, appare subito come il calcolo di questi in base a ZvC ricavata dalle formule (1) e (2) porti a risultati discordanti da quelli sperimentali. Anche in questo caso (*) eli errori do- vuti all'esperienza non sembrano poter esser causa di discordanze così notevoli. Queste divengono assai più piccole quando le XvC sì calcolano in base al rapporto di Trouton, o in base all’equazione in funzione della tem- peratura assoluta di ebollizione. Queste nostre osservazioni ci confermano nell’idea che il calcolo delle costanti chimiche non permetta colle formule finora proposte di giungere a risultati molto precisi, massime quando si tratti di processi a bassa tonalità termica. Chimica-fisica. — Sopra alcune nuove relazioni che servono a calcolare la frequenza nel moto vibratorio molecolare dei solidi. Nota del prof. STEFANO PAGLIANI, presentata dal Corrispondente IL. BALBIANO. In una Nota precedente (*) ho dimostrato come si possa calcolare la fre- quenza nel moto vibratorio molecolare di un elemento allo stato solido me- diante il valore dell'entropia alla sua temperatura di fusione, ed ho calcolato i valori di v per 26 corpi semplici. Si potrà quindi, mediante le relazioni ed i coefficienti indicati nella detta Nota, dedurre v per corpi, di cui ho calcolata l'entropia, ma non si hanno i dati sperimentali richiesti dalla formola di Lindemann sf mV ls (') Le coppie di questi valori si ottengono a seconda che si consideri l’effetto ter- mico = — 0,7, oppure = — 0,5. (8) Nuovo Cimento, loc. cit. (3) Questi Rendiconti, pag. 855, — 949 — Così, applicando il coefficiente dei metalleidi, si ottiene per il cloro v= 1,6 X 10°? e per il bromo v= 1,1 X10°?. I valori da me calcolati per il cloro 1,6 X 10"? e per il potassio 1,7 X 10!* trovano una prima conferma in quello dell'argo, per il quale O. Sackur (') avrebbe calcolato il valore 1,3 X 10"?. D'altra parte Ramsay e Travers dimo- strarono doversi collocare l’argo fra CI e K nel sistema periodico. Difatti abbiamo : Cloro. . . . m=85,46 v=1,6X10!? ATTO > . e 39,88 Leo 055 Potassio . . . 39,1 1,7 X 10"! Confrontando le frequenze dei componenti di un composto binario con quella di questo, ho trovato che per composti binari di analoga costituzione come KCL,KBr, NaCl, KI, il rapporto fra la frequenza del composto e la somma delle frequenze specifiche dei componenti è pressochè costante, cosicchè (Ges si può calcolare la frequenza di un eomposto binario moltiplicando per la somma delle frequenze dei suoi componenti. Ho potuto verificare detta relazione valendomi dei valori delle frequenze dei detti quattro sali. le sole state finora determinate direttamente mediante misure ottiche. Sono quelli stessi valori, che hanno servito al Nernst per la verifica della formola dei calori specifici di Nernst e Lindemann, in cui ha trovato in generale valori così concordanti da non lasciar dubbio sulla iden- tità completa delle frequenze termiche e ottiche (*). Rubens e Hollnagel (*) trovarono per il cloruro di potassio due valori delle lunghezze d'onda dei raggi residui, cui corrispondono i due valori di vX 107°: 4,78 e 4,18 medio 4,48. Dai miei valori delle frequenze 1,7 X 10° per il K, e 16 X10"'* per il Cl, si calcola colla suenunciata relazione per KC1 v= 4,4 X 10"'?, risultato quasi coincidente con quello determinato diret- tamente. Colla suddetta formola di Lindemann (‘), assumendo il coefficiente = 4,23 X 10°?, quale risultò dalle misure ottiche per la silvina, si calcole- rebbe 4,7 X 10!*, coll’altra, contenente la costante dielettrica 5,3 X 10"? Così pure Rubens e Hollnagel ottennero per il bromuro di potassio il valor medio: 3,6 X 10"?. Dai miei valori 1,7 X 10!* per K e 1,1 X 10"? per Br si calcola per KBr: 3,7 X 10"*; valore pure quasi coincidente con quello trovato sperimentalmente. Colla prima formola di Lindemann si calcolerebbe MAO (1) Ann. d. Physik, 40 (1913). (3) W. Nernst, Application de la théorie des quanta à divers problèmes physico- chimiques. Nei Rapports et Discussions di Bruxelles (1911). (#) Phil. Mag. Mai (1910). Sitzungsber. Preuss. Akad., 26 (1910). (*) Physik. Zeits., // (1910). RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 121 — 950 — Per il joduro di potassio colle misure ottiche si è trovato: v = 3,10 X 10??. Dai miei valori 1,7 X 10°° per il K, e 1,1X10!° peril J, si cal- cola per KI 3,7 X 10'?, valore pure concordante con quello trovato. Per il cloruro di sodio le stesse misure ottiche hanno dato i due valori 5,4 X 101° e 6,3 X 104, medio 5,9 X 10"?. Dai miei valori 2,9 X 10!* per il Na e 1,6 X10!° per il CI, si calcola per NaCl 6,1 X 10!?, valore con- cordante col medio trovato. Colla prima delle formole di Lindemann si calcolerebbe 6,0 X 10°, colla seconda 9,7 X 10??, L'accordo fra i valori calcolati e quelli sperimentali è così soddisfa- cente che non si può cousiderare come dovuto soltanto al ‘caso. Potremo quindi usare, almeno per i sali aloidi, la seguente espressione per calcolare la frequenza v di un composto binario mediante le frequenze dei compo- nenti rv) e vy: v vb ve edo: ni Credo interessante far notare che la somma delle due frequenze v, e ve dei componenti risulta così essere la media aritmetica fra la frequenza del composto e quella che ne differisce di un'ottava. Secondo il Nernst si dovrebbe ammettere in KCI ed in NaCl la stessa frequenza per l'atomo metallico e per l'atomo alogeno, e cioè ugual fre- quenza per Na, K e CI. In realtà solo le frequenze specifiche di K e Cl si possono considerare come ugnali. Si verifica piuttosto che il rapporto fra il valore medio delle frequenze specifiche dei componenti e la frequenza del composto, in ciascuno dei sali omologhi KC1,KBr, KI, NaCl è pressochè Vate, ; . 4° costante, ed uguale al rapporto medio 2 per i metalli alcalini. Non si possono stabilire dei raffronti per altri composti posti perchè mancano i dati sperimentali, nè posso farlo per i sali, per i quali Nernst ha verificato le formole dei calori specifici, poichè, come egli stesso afferma (), per i corpi composti e specialmente per quelli polimeri le formole da lui impiegate per il calcolo, come anche quelle di Pollitzer, devono essere con- siderate soltanto come formole di interpolazione; e le frequenze, che in esse sono assunte, non hanno significato fisico. Per talune sostanze poi, come i cloruri e ioduri di argento, di piombo, è stato necessario introdurre più frequenze. Potremo confrontare i valori medii dai calcolati dalle diverse espres- sioni date nella Nota precedente, con quelli assunti dal Nernst per i me- talli nella sua verifica della formola di Nernst e Lindemann, supponendo (*) Ann. d. Physik., 36 (1911). — 951 — come fa l' Einstein ('), che il vero valore della frequenza specifica di un corpo sia dato dalla media aritmetica dei valori della frequenza dedotta dalla formola di Nernst e Lindemann e di quella che ne differisce di un'ottava, cioè da i Il raffronto è fatto nello specchietto seguente : VENA ta SA ei medio dalla formola di N. L. ° Ame e eso BI 3,6 Aldi a 1 89 6,3 6,7 Cie e E6:6 DÒ 5,5 Paget: ac sca 4 9 1,4 1,5 Jibggio oso #2,0 15 [es Dio 3 1 48 3,6 3,5 Aggiungiamo che Einstein, mediante la sua espressione della frequenza in funzione del coefficiente atomico, della densità e del coefficiente di com- pressibilità, ha calcolato per la frequenza del rame v= 5,7 X 10"°, concor- dante col suddetto valore medio. Come si vede abbiamo un accordo soddisfacente fra i valori delle ultime due colonne. Il Nernst poi nello stabilire le frequenze da assumere fece talune ipo- tesi solo in parte confermate dai valori delle frequenze, sopra ottenuti. Così nel HgCl suppone che le frequenze dei due atomi siano molto differenti; ciò non è confermato dai valori delle frequenze di Hg e di Cl, che stanno nel ) 1,6 come l'atomo di piombo, ed il jone cloro come l'atomo di rame; invero rapporto Suppone invece che il jone mercurio oscilli presso a poco abbiamo per i due primi corpi il rapporto fra le frequenze Ti poco dif- ferente dall'unità, ed invece per gli altri due °, molto differente dalla unità. | Del resto risulta che in generale l’applicazione delle formole di Einstein e di Nernst e Lindemann è alquanto arbitraria. Difatti Nernst e Lindemann stessi (*), volendo venire a qualche conclusione sulla costituzione dei corpi solidi, li distinguono in due categorie; quelli i cui calori atomici si possono calcolare bene colla loro formola o anche meglio con quella di Debye (3), e quelli per i quali si deve applicare una somma di espressioni di quella forma, ma con diversi valori della frequenza, in modo che si verifichi la (1) Ivi, 35 (1911). (*) Sitzungsber. Preuss. Akad., 1912, pag. 1160. (3) Ann. d. Phys., 392 (1912). — 952 — condizione che ad alte temperature sia soddisfatta la legge di Dulong e Petit. Nella prima categoria entrerebbero i corpi semplici, i metalli special- mente, ma anche il carbonio allo stato di diamante; nella seconda i metal- loidi, come zolfo ed il carbonio allo stato di grafite, ed i corpi composti. Per cui si ammette che nel primo caso si abbia a fare con corpi mono- atomici, nel secondo con corpi poliatomici. La stessa formola di Debye è fondata sopra un concetto, che differisce da quello originale di Einstein in ciò che, invece di un unico numero di vibrazioni dell'atomo, si ammette tutto uno spettro di vibrazioni specifiche, il quale però è costituito da un numero finito di linee. Ma anche l' Einstein (?) venne nel concetto che le oscillazioni termiche degli atomi siano molto lungi dall'essere monocromatiche. Nelle premesse della teoria del Debye entra una sola costante neces- saria; la frequenza limite vm, la quale entra nella definizione di una tem- peratura caratteristica 0, rilegata col calore specifico di ciascun corpo dalla legge seguente. Se si considera la temperatura T come un multiplo della detta temperatura caratteristica 0, il calore specifico per tutti i eorpi mono- LÀ MELI: : ; T atomici è una funzione universale del rapporto di La detta temperatura Ton SE. h i , caratteristica sarebbe definita da 0 = cn Pm, in cui, secondo Paschen- L Gerlach h, quanto di azione = 7,10 X 107? erg sec. k, costante di Boltzmann = 1,47 X 107° erg. e quindi f = 4,83 X 107. S. Ratnowsky (*), appoggiandosi sulla detta teoria giunse per via ana- litica alla conseguenza che l'entropia è una funzione universale del rap- porto 3 ossia di TE Ora se si confronta il valore di v, per ciascuro dei 16 metalli, per i quali Debye e Ratnowsky hanno dato la temperatura 0, col valpre di v, medio dei valori dedotti dalle diverse espressioni, indicate nella mia prece- dente Nota, nelle quali si ammetteva una sola frequenza od al più due fre- quenze, differenti fra loro di un’ottava, si trova che il rapporto —* non è v costante per tutti i corpi. Però per metalli affini si trovano valori molto prossimi. Così per Fe, Ni, 1,65 e 1,66; per Na e K 1,38 e 1,47; per Cu, Ag, Au rispettivamente 1,23, 1,22, 1,26, e medio dei 16 rapporti, 1,34. Cosicchè, se non sì tratta di un caso, vm = ‘/3 v. Cosicchè, siccome da 0= 76 (') Rapports et discussions, Bruxelles, 1911. (*) Ber. Deuts. Phys. Gesells., 1914, — 953 — pet il rubidio si deduce v,= 1,5, così ne risulta v= 1,0, valore che sta in ordine cogli altri dei metalli alcalini, essendo per Rb, m=85,4. Infine nel dedurre il calore atomico a pressione costante da quello a volume costante, come nella formola di Magnus e Lindemann. si introduce un coefficiente della temperatura determinato, empiricamente, che rende anche più arbitraria l'applicazione delle formole relative. Quindi anche piuttosto arbitraria si presenta l'applicazione delle for- mole, nelle quali la frequenza nei corpi composti si deduce dalla relazione indicata da Lindemann ('), che la frequenza di un elemento in una combi- i i T, nazione si possa calcolare coll'espressione v, = ” | T.° dove v, è la fre- quenza nota sia allo stato elementare, sia in un'altra combinazione, e T, e T, sarebbero le temperature di fusione dello elemento libero e dell'uno o del- l’altro composto. A tale proposito faccio notare che la espressione data dal Planck (*), della entropia di un corpo solido, la quale conduce alla stessa conseguenza, cui sono sopra arrivato, che cioè l'entropia varia nei diversi corpi nello stesso senso che la frequenza, è fondata sulla ipotesi, ammessa dalla teoria di Einstein, che la frequenza delle vibrazioni degli atomi di un solido sia indipendente dalla temperatura e dal volume. e che la loro energia sia un multiplo intero di un quanto elementare di energia, come si è già sopra accennato. D'altra parte il principio stesso, su cui è fondata la espres- sione fondamentale del Lindemann, porta ad ammettere che esso non sia applicabile a rigore che ad una sola temperatura, quella di fusione del corpo, caratterizzata dalla condizione che le ampiezze di oscillazione degli atomi raggiungano l'ordine di grandezza delle distanze interatomiche. L. Rolla (*) ha tentato di applicare la suddetta relazione fra le fre- quenze e le temperature di fusione per calcolare approssimativamente la affinità del zolfo per alcuni metalli, però ha dovuto introdurre una frequenza atomica media per lo zolfo del tutto arbitraria: 8,8 X 10!*; che corrisponde- rebbe ad una molecola triatomica, stando alla frequenza specifica, sopra tro- vata per l'atomo di zolfo. Ora tutti i risultati sperimentali ed anche i re- centi studî dl Beckmann (‘) tendono a dimostrare che le molecole poliato- miche di zolfo contengono sempre un numero pari di atomi di zolfo, per qualunque intervallo di temperatura. | Si può d'altronde dimostrare che anche per i composti la frequenza del moto vibratorio molecolare è proporzionale alla entropia dell'unità di massa (*) Discussione sul Rapporto di Nernst, loc. cit. (*) Planck, Warmestrahlung-Vorles. uber Thermodynamik, 1911; 0. Sackur, Lehr- buch der Thermochemie u. Thermodynamik, 1912. (?) Gazz. Chim. ital., 43 (1913); / Quanti di energia ed il principio di Nernst. Pisa, 1914. (4) Sitzungsber. Preuss. Akad., 1913, pag. 886. — 954 — alia temperatura di fusione, e che il coefficiente di proporzionalità per sali omologhi, come KC1l, KBr, NaCl si può considerare come costante e si può dedurre analogamente a quanto abbiamo fatto per i corpi semplici, mediante ; S 1 SE bps il rapporto a ed il coefficiente della formola di Lindemann per detti sali. Esponiamo nello specchietto seguente i dati sperimentali introdotti nei calcoli ed i risultati ottenuti. M Ta d Si n E NaCl 98,4 LO7:ia 2,170 0,687 1,43 0,48 KCI 74,5 1045 1,984 0,493 1,12 0,44 KBr 119,0 1023 2,756 0,340 0,84 0,41 Si Vediamo subito come anche per questi sali tanto i valori dell’entropia, quanto quelli del termine 2, vanno diminuendo col crescere dei coefficienti aj ) S : molecolari, mentre il rapporto = è pressochè costante, e si può assumere il valor medio 0,44. Ora Lindemann, come si è già accennato sopra, par- tendo dalla frequenza specifica della silvina, dedotta dalle misure ottiche di Rubens e Hollnagel, trovò per il coefficiente della sua nota formola 4,23 X 10!° per i detti sali. Adottando questo coefficiente si ottiene come fattore di proporzionalità nella mia relazione v= a S; il valore a= 9,6 X 10". Nello specchietto seguente sono posti a confronto i valori di vw X 107?, dedotti dalle misure ottiche di Rubens e OI quelli calcolati colla formola di Lindemann v = 4,23. 10!? VEL , quelli assunti nella ve- rifica della formola dei calori specifici di e) e Lindemann, e quelli dedotti dalle mie espressioni : v 4 —- —9,6X 10? 1) n 3 e DI gi 045S8 at JBL L. N.L. Bi 1 2 NaCl. . 5,9 6,0 5,9 6,1 6,6 KO 4,7 4,4 4,4 4,8 KBr 3,6 DÒ 3,6 ST LO Anche per questi sali, come per i corpi semplici, si verifica la relazione che i valori della frequenza vanno diminuendo col crescere del coefficiente molecolare, come per l'entropia. Si fa notare che il coefficiente di propor- zionalità nella relazione fra frequenza ed entropia è uguale a quello trovato per gli alogeni. Si osserva una buona concordanza anche fra i valori della frequenza, calcolati mediante l’entropia, e quelli determinati direttamente colle misure ottiche. I risultati esposti in questa e nella precedente mia Nota mi sembrano presentare il particolare interesse di far intravedere delle nuove relazioni fra la teoria atomistica e la termodinamica classica da una parte, e la moderna teoria cinetica dei calori specifici e ipotesi dei quanti d'energia dall'altra. — ‘955 — Chimica-fisica. — Analisi termica di miscele di idrati e alogenuri alcalini. IIL:. Composti di sodio (*). Nota di GrusEPPE SCARPA, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. In continuazione alle ricerche sperimentali intraprese sullo studio ter- mico delle miscele di idrati e alogenuri alcalini, riferisco in questa Nota i risultati tecnici ottenuti, studiando il comportamento ad alta temperatura dei seguenti sistemi: Na OH-Na FI, Na OH-Na CI, Na OH-Na Br, Na 0H- Na J, formati dall’idrato di sodio e dai corrispondenti sali alogenati. Il modo di operare fu identico a quello descritto nella Nota precedente (?) : la fusione delle miscele veniva fatta in corrente di azoto e in crogiolo di argento, e la misura dello temperature con una pila argento-nichel. Ri- guardo l’attaccabilità verso l'argento dell'idrato sodico, si deve notare che essa è alquanto minore del corrispondente idrato potassico; e l'idrato sodico, inoltre, è assai stabile alla fusione, cosicchè può venire riscaldato a tempe- ratura piuttosto elevata, senza subir la minima scomposizione. I prodotti adoperati provenivano tutti dalla ditta C. Erba di Milano. Per l’idrato so- dico venne determinata la quantità di carbonato e di acqua che esso conte- neva. L'analisi eseguita su un prodotto preso da un vaso aperto per la prima volta, dette i seguenti risultati: Na OH contiene Na OH = 97,46 °/, NAMCO SI 01 Ho 010901 Nel corso delle esperienze il peso delle varie miscele venne tenuto co- stantemente eguale a grammi trenta. Sistema Na OH-Na FI. Sul punto di fusione e di solidificazione dell’idrato sodico si hanno dati assai scarsi. Hevesy (*), il quale studiò il comportamento termico degli idrati alcalini, dà questi punti rispettivamente a 318°,4 e a 2999,5. Neumann e Bergve (‘) trovavano il punto di solidificazione a 300°. Dalle mie esperienze questi due punti risultarono rispettivamente a 310° e a 290°. Per il fluoruro potassico il punto di fusione da me trovato a 1005° è in ottimo accordo con quello dato da Plato (°) (992°), da Kurnakow e (®) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Padova, diretto dal prof. G. Bruni. (?) Rend. Accad. Lincei, XXIV, 1° sem., pag. 788. (*) Zeitschrift f. ph. Chem., 73, 667 (1910). (4) Zeitschrift f. Elektroch., 9, 271 (1914). (5) Zeitschr. f. phys. Chem. 58, 364 (1907). — 956 — Zemezuzny (*) (997°), differisce da quello trovato da Ruff e Plato (*) (980°), e da Puschin e Baskow (*) (1040°). Questi due sali dànno luogo a formazione di cristalli misti con lacuna di miscibilità. Si ha quindi, a differenza del sistema KOH-KFL, formazione di due specie di soluzioni solide. La curva delle temperature di cristallizzazione primaria si trova in- termedia ai punti di solidificazione dei due componenti, e presenta un leggerissimo gomito alla concentrazione di 90 mol. °/, di Na OH. Per le miscele da 29 a circa 90 mol. °/ di idrato sodico si nota, oltre al primo, un secondo arresto alla temperatura di 360° circa. Il punto di trasforma- zione di Na OH, che per l'aggiunta di Na Fl viene leggermente abbassato, forma col limite delle soluzioni solide di Na FI in KOH, un eutettico, il quale presenta un massimo di durata a circa 80 mol. °/, di idrato sodico e si annulla rispettivamente a circa 5 e a 10 mol. °/, di Na OH. Mentre per le miscele da 5 a 80 mol. °/ di Na OH fu possibile co- gliere con ogui esattezza la temperatura e la durata dell'arresto eutettico, per le miscele da 80 a 100 mol, °/, di idrato sodico questo non è possi- bile, poichè l'arresto dovuto alla trasformazione si confonde con quello eu. tettico (Vedi tabella I e fig. 1). TaBELLA I. pass °/, | Pes °/o Mol. °/o Mol. °/o ATI Tempera- Rerapsra ture Temper. | Temper. Durate inizio ture fine trasforma-| arresto in NaOH | NuFI Na0H NaFI cristallizzaz.| I arresto |eristallizzaz. [zione NaOH| eutettico | secondi 00.00] 100.00 | 0000 | 100.00 1005 — — — — _ 10.00] 90.00] 10.64 89.54 960 —_ 850 _ — — 20.00 80.00] 20.83 79.17 922 360 — — 260 20 30.00 70.00] 31.12 68.88 885 360 _ _ 260 40 40,00 60.00) 41.)5 58.85 8145 360 — — 263 70 50.00 50.00 |. 51.23 48.77 800 360 — — 263 90 60.00 40.00| 6122 38.72 685 365 340 — 265 120 70.00 30.00] 71.14 28.86 580 565 330 — 265 140 80.00 20.00] 8225 Iiao 430 305 320 270 == = 90.00 10.00| 9036 9.64 365 365 318 280 _ a 95.00 5.00| 95.56 4.44 340 _ 315 285 ssi — 100.00] 00.00 | 100.00 00.00 310 — = 290 —- _ (1) Zeitschr. f. Anorg. Chem. 52, 186 (1907). (£) Ber. 36, 2363 (1908). (5) Zeitschr. f. Anorg. Chem. 8/, 849 (1913). — 957 — U 10 20 30 49 59 60 70 80 90 100 Db) 10 20 30 40 so 60 70 80 90 109 Na FI. mol.% di Na OH NaOH Ma Cl mol%, di Na OH Na OH Fic. 1. Fre. 2. Sistema Na OH-Na CI, Il punto di fusione di Na Cl giace, secondo le mie esperienze, a 806°. Esso è in buon accordo con quello dato da White (*) (800°), da Arndt (?) (805°), da Ruff e Plato (*) (820°), da Hiittner e Tammann (‘) (810°), da Menge (°?) (803°), da Truthe (°), da Sandonnini (") (806°). Questo sistema è analogo al precedente: si ha formazione di soluzioni solide di due specie con lacuna di miscibilità. La curva di cristallizzazione primaria discende dal punto di fusione del cloruro di sodio a quello del- l'idrato corrispondente, presentando un gomito assai accentuato alla tempe- ratura di 350° e alle concentrazione di circa 75 mol. °/, di Na OH. (*) Zeitschr. f. Anorg. Chem. 69, 305. (2) Zeitschr. f. Elektroch. 72, 337 (1906). (3) Ber. deutsch. Ges. 26, 2357 (1903). (*) Zeitschr. f. Anorg. Chem. 52, 191 (1907). (5) Zeitschr. Anorg. Ch. 72, 162 (1911). (5) Zeitschr. Anorg. Ch. 76, 137 (1912). (*) Rend. Accad. Lincei [5], 20, I, 457 (1911). RenpIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem 192 — 958 — Il punto di trasformazione dell'idrato sodico viene considerevolmente abbassato per aggiunta anche di piccole quantità di cloruro sodico e dà luogo, col limite delle soluzioni di Na Cl in Na OH, alla formazione di un ar- resto euttico. Questo arresto presenta un massimo di durata a 73 circa mol. °/, di Na OH, e si annulla rispettivamente a circa 5 e a 100 mol. °/ di idrato sodico. Dalle curve di raffreddamento non fu possibile cogliere alcun punto della curva di cristallizzazione che discende dal limite delle soluzioni so- lide di Na Cl in Na OH. Con ogni probabilità la mancanza di questi ar- resti è dovuta ad uno sviluppo troppo debole di calore non apprezzabile praticamente (Vedi fig. 2 e tab. II). TABELLA II. Temperature | 1° a-|T t Ti È T . | Durati ara °/o Peso 9/0 Mok °/o Mol. °/o GUT re empera supera ure emper emper a e inizio ture fine trasforma-| arresto in Na0H NaCl Na0H NaCl cristallizzaz. | I arresto |cristallizzaz.|zioneNaOH| eutettico | secondi " | 00.00) 100.00) 00.00) 100.00 806 - _ 2 — —- 5.00| 95.00| 767) 92.83] 790 — 722 — _ - 10.00 90.00 13.96 86.04 770 948 — _ 145 10 20.00 80.00 26.73 73.27 | 720 350 = -- 150 80 30,00 70.00 38.66 61.34 675 950 -- _ 160 40 40.00 6000|. 49.50 50.50 580 398 _ — 150 70 50.00 50.00) 59.52 40.48) 505 360 985 — | 160 100 60.00 40.00 68.80 81.20 |A 18 360 320 . _ 150 140 70.00 30.00 77.43 22.57) 360 360 318 185 160 80 80.00 20.00 85.10 14.90| 345 945 315 240 | 160 50 90.00 10.00 92.96 07.04| 33 330 DIO 270 155 20 100.00 00.00| 100.00 00.00 810 310 _ 290 _- — Sistema Na OH-Na Br. La temperatura di solidificazione di Na Br da me trovato (776°) è in buon accordo con quella data da molti autori, come Ruff e Plato (loc. cit.) (775°); Kurnakow Zemezuzny (loc. cit.) (768°); Crae (') (761°). Come appare dal diagramma di solidificazione questi due sali sono com- pletamente miscibili allo stato liquido. La curva di cristallizzazione pri- maria consiste di due rami, i quali dipendono rispettivamente dai punti di solidificazione di Na Br e di Na OH, e s'intersecano in un punto eutettico alla temperatura di 260° circa. Dalia curve di raffreddamento si può dedurre con ogni sicurezza che non si ha formazione, nemmeno in rapporti assai ristretti, di soluzioni so- lide, giacchè si osserva in modo evidente l'arresto eutettico anche per le (1) Ann. phys. (3), 55 (1895). — 959 — miscele più ricche di ciascuno dei due componenti. Il punto di trasforma- zione dell’ idrato sodico si osserva solo per la miscela a 95,74 mol. °/, di Na OH e si mantiene costante a 290° (Vedi fig. 3 e tab. III). Sistema Na OH-Na J. Sul punto di fusione dell’ioduro sodico si trovano dati di diversi au- tori. Ruff e Plato (loc. cit.) dànno questo punto a 650°, Hiittner e Tam- mann (loc. cit.) a 664°, Kurnakow e ZemeZuZny (loc. cit.) a 660°. Dalle mie esperienze esso risulta a 665°. I dati termici di questi due sali sono raccolti nella tabella IV e nella fig. 4. Come appare dal diagramma di solidificazione questi due sali dànno luogo alla formazione di un composto decomponibile. Dal punto di fusione di Na I, la curva di cristallizzazione primaria discende regolarmente fino a 65 mol. °/, di idrato sodico dove presenta un evidente gomito; poi ridiscende e s'interseca col ramo di curva discendente dal punto di solidificazione di Na OH in un punto eutettico a 220° e a circa 82° mol. °/, di idrato sodico. Per le miscele sino a 65 mol. °/ di Na OH, si nota, nelle curve di raffreddamento, oltre al primo, un secondo arresto alla temperatura di 300°, il quale assume un massimo di durata a 40 mol. °/ di Na OH. Questo arresto coincide con la formazione di un composto decomponibile alla fusione, al quale, con ogni probabilità spetta la formola 2 Na OH . 3 Na J. L'arresto eutettico, si nota benissimo sulle curve di raffreddamento, an- che per alcune miscele di concentrazione in ioduro sodico superiore a quelle corrispondenti al composto. Questo è un caso anormale già spiegato da Tam- mann (') e già trovato da Sandonnini (?) nei due sistemi Pb I.-Pb Fl, e KCl-Cu Cl. Esso è dovuto al fatto che la reazione che dà luogo al com- posto non accade completamente durante il tempo in cui avviene il raf- freddamento. Il punto di trasformazione di Na OH si presenta per la miscela a 3 mol. °/, di Na J, praticamente alla stessa temperatura che per l’idrato sodico puro. Questo e il netto arresto eutettico anche per le miscele le più ricche dei due componenti, fanno supporre l'assenza di cristalli misti, o la forma- zione di essi in limiti assai ristretti. Concludendo l’idrato di sodio dà: col flnoruro e col cloruro soluzioni solide di due specie con lacuna di miscibilità ; col bromuro formazione di un semplice eutettico ; coll'ioduro formazione di un composto decomponibile alla \fusione della probabile formola 2 Na OH . 3 Na J. (') Zeitschr f. Anorg. Chem. 45 (1905), 24. (*) Rend. Accad. Lincei [5], 20, I, 172 (1911); [5], 20, I, 457 (1011). — 960 — Dal comportamento termico di queste coppie di sali sodici e dai sali potassici già descritti in una Nota precedente, apparisce chiaramente, che se si eccettuano i fluoruri i quali, avvicinandosi nel comportamento agli idrati corrispondenti, sì staccano dagli altri alogenuri, la solubilità allo stato solido, va gradatamente diminuendo passando dai cloruri, ai bromuri ed agli ioduri, ossia col diminuire dell'elettroaffinità dell’anione. Il formarsi poi per i sali di sodio di un semplice entettico per il si- stema Na OH-Na Br, e di un composto per il sistema Na OH-Na J, a dif- ferenza dei corrispondenti sali potassici, i quali dànno luogo per il sistema KOH-KBr, a formazione di soluzioni solide con lacuna di miscibilità, e per il sistema KOH-KJ a un semplice entettico, è da attribuirsi, con ogni ve- rosimiglianza, ella minore elettroaffinità del Na+ rispetto a quella del K +. TABELLA III. Peso °/o | Peso °/o I Mol. °/o | Mot. °/o Lompprasuzo Temperature USI LORO inizio arresto in trasformazione Na0H NaBr Na0H NaBr cristallizzazione eutettico secondi Na0H 00.00) 100.00 0.00) 100.00 765 = SA EI 2.50| 97.50 619 93.81 750 260 20 = 10.00 90.50 22.32 77.68 675 260 40 = 20.00 80.00 40.00 60.00 575 260 70 _ 30.00 70.00 52.44 47.56 | 475 260 90 — 40.00 60.00 63.29 36.71 | 395 262 110 _ 50.00) 50.00 71.84 28.16? 320 260 lo Dt — 60.00} 40.00] 79.36| 20.64| 260 260 150 | — 70.00 30.00 85.78 14.22 | 275 260 120. | = 80.00 | 20 00) 9091] 9.09 | 290 255 703 21 - 90.00] 10.00 95.74 426! 302 250 20. | 290 100.00; 0.00| 100.00| 00.00; 310 — SEUrA 290 TaBELLA IV. Temperature| Tempera- | Durate Temper. Durate | Temperature Peso °/o | Peso °/o | Moi. °/o | Mot. °/o Ni ture in | arresto | in trasforma- NaHU NaJ Na0H NaJ cristallizzaz.| 1 arresto | secondi | eutettico | secondi | zione Na0H 0.001. ‘100.00| "10,00% 00.001 665 i = E 5.00 95.00 16.8 83.66 615 290 20 — sa DE 10.00 90.00 29.41| 70.59 560 290 40 220 20 — 12.00 85.00 33.77| 66.23 540 295 50 220 30 = 15 00 88.00 40.10) 59.90 505 295 70 220 40 _ 20.00 80.00 48.54| 51.46). 480 300 40 220 70 = “30.00 70.00 61.98) 38.02) 320 300 20 35.00 65.00 67.05) 32.95| 290 — — 225 100 40.00 60.00) 71.45 28.57| 289 = — 225 120 45.00 55.00 75.75 24.25) 260 = — 225 140 50.00 50.00 1951 209] 2835 = — 225 150 60.00 40.00 84.74 15.26 245 = —_ 225 120 70.00 30.00 89.74 10.26 270 = — 220 90 80.00 20.00 93.89 6.1) ‘290 — _ 215 40 90.00 10.00 96.98 8.02 305 = —_ 210 20 285 100.00 00.00 00.00 00.00 | 310 — _ _ — 290 — 961 — 700 600 500 400 300° 200 | Si pot o 10 20 30 40 50 60 70 80 go 100 o 10 20 30 TTà 50 60 70 so 90 100 Na Br. m%,di Na OH. Na0H. Na È mol.% di Na OH. Na CH. Fia. 3. Fis. 4 Mineralogia. — Contributo alla mineralogia sarda. Sopra alcuni interessanti cristalli di baritina. Nota di E. GRILL, pre- sentata dal Corrisp. FEDERICO MILLOSEVICH. I campioni di baritina sarda da me studiati provengono da due loca- lità: dal Piolanas Sud (Iglesias) e dalla miniera Piccalinus (Guspini) già ricordata per il quarzo studiato in una precedente Nota. Di quest'ultima località ebbi nn solo esemplare. ma assai interessante, perchè costituito da cristalli con facce e spigoli arrotondati. Tali cristalli, assai grandi, translucidi, incolori, sono disposti subparallelamente fra lorv (senza però dar luogo al fenomeno della « haifung ») sopra una matrice di quarzo e di pirite. Nelle parti arrotondate essi hanno assunto una lucentezza speciale, tendente alla lucentezza grassa, che contrasta con quella vitrea-adamantina delle facce o porzioni di facce rimaste intatte. La perfetta specularità di talune facce, nonchè la striatura abbastanza regolare delle zone arcuate, induce a credere che la causa della curvatura non sia dovuta a corrosione chimica o meccanica, ma sia piuttosto congenita. Nonostante la poca perfezione dei cristalli, è ancora possibile ricono- scere le forme, le quali sono fra le più comuni della baritina e vi costi- — 962 — tuiscono la combinazione: c {001}, m {110}, 4 {102}, 0011}, 5 {010}; ove il pinacoide orizzontale c {001} è il più sviluppato e conferisce quindi ai cristalli un abito tabulare, assai meno marcato, però, di quello della bari- tina che passo ora a descrivere. Gli esemplari provenienti da Piolanas sud sono in numero di quattro; uno dei quali è costituito da baritina quasi opaca, biancastra, su diaspro ocraceo, compatto. I suoi cristalli presentano le caratteristiche zonature di accrescimento, e sono così fortemente appiattiti secondo c {001} da dar luogo a vere e proprie lamine, che vanno ancora assottigliandosi ai bordi. In mezzo alle lamine, disposte come stecche di un ventaglio chiuso, sì osservano nu- merosissimi altri cristallini, dello stesso minerale, irregolarmente distribuiti, più lucenti, trasparenti e sempre spiccatamente lamellari. Le facce limitanti questi due tipi d’individui sono quelle delle forme più comuni già ricordate, e, nei cristalli maggiori esse sono tanto imperfette, e rugose da non permettere più le misure angolari. I tre altri campioni di Piolanas sud sono invece in cristalli perfetti, assai adatti per le misure goniometriche, più o meno trasparenti, con un colore giallino dovuto ad ossido di ferro. In due di questi campioni ì cristalli sono molto grandi e si presen- tano attaccati alla matrice per l’asse [y] (*), precisamente come quelli di Vassera (Varese) studiati dall'Artini. Secondo questa direzione essi assumono la maggiore grandezza lineare che, in taluni, non è meno di 10 mm. L'ha- bitus è perfettamente tabulare e così marcato che per delle dimensioni oriz- zontali, medie, di millimetri 5 x 7 si ha sempre uno spessore inferiore ai 2 millimetri. Il terzo campione è costituito invece da cristalli assai più piccoli, più chiari, meno appiattiti, ma per contro ancora più marcatamente allun- gati secondo l'asse []. Essi si presentano fittamente aggruppati fra loro sopra una matrice baritico-ocracea. Per quel che riguarda le forme cristalline della baritina di Piolanas sud, mi limiterò a riportarne l'elenco e le combinazioni, poi che, com'è noto, la baritina sarda è omai ben conosciuta dal lato" cristallografico dopo gli (1) Nora. — Seguo l’orientazione cristallografica, più generalmente accettata, ossia quella di Hauy adottata da Miller, Dana, Striiver, Goldschmidt, secondo la quale la di- rezione di sfaldatura perfetta coincide con |001} e quella di sfaldatura quasi perfetta col prisma }110}. Nell’altra orientazione seguìta presentemente ancora dallo Tschermak (Lehrbuch der Mineralogie, siebente Auf., pag. 660, Wien., 1915) il piano di sfalda- tura perfetta ha il simbolo {010} e il diametro corrispondente al nostro asse [y] è di- sposto verticalmente e quindi i cristalli appaiono allungati in quel senso. — 963 — studii di G. B. Negri ('), C. Riva (*), F. Millosevich (*), G. D'Achiardi (4) e.G, Limeio.(°). Le forme da me osservate sono le seguenti: a }100f = m }110f = 4 {102} 0 f011} « {111} bolo == 2 {210} y }122} ce 100.} = 8 4310} Il prisma verticale 8 310} è nuovo per i giacimenti sardi ; le altre 9 forme sono tutte note e assai comuni. Queste 10 forme sono associate come segue : o: a m od 9a ” I PI » % 3° nn » » db 48 "nn * » @ ga > nn » À 6É » n nno n» 4 72 a vo nonno n Te) La combinazione di gran lunga più comune, e caratteristica per i cri- stalli più grossi, è la 3* con 4 sempre assai subordinato. La baritina di Piolanas sud è quindi poco ricca di forme, relativa- mente a quella dei filoni di Montevecchio, studiata dal Negri, il quale vi osservò 22 forme sicuramente determinate, con una bella serie di piramidi (10). Anche sulla baritina di Piolanas sud ho potuto constatare che le pi- ramidi < {111} e y 122} compaiono sempre con facce piccolissime, sovente appena percettibili, ma perfette, piane e lucentissime. Questo fatto è assai notevole data la discreta frequenza di tali forme e la semplicità del loro simbolo. Del resto, se si prescinde dalle quattro forme e {001}, 72 }110}, o }011}, d }012}, sempre presenti, si può ben dire che tutte le altre sono pochissimo sviluppate e sfuggono assai facilmente ad un primo esame. Anche le facce delle quattro forme predominanti sì presentano sui cristalli da me studiati molto piane. Non tutte però sono lucenti e quindi (*) Sopra le forme cristalline della Baritina di Montevecchio (Sardegna) Pane- bianco. Rivista di mineralogia e cristallog. ital., vol. XII, pag. 3, Padova, an. 1892. (3) Sopra alcuni minerali di Nebida. Rend. R. Acc. Lincei, vol. XI, 1° sem., Roma, an. 1897. (3) Zolfo ed altri minerali di Malfidano presso Buggerru (Sardegna), ibid.; Ap- punti di mineralogia sarda (baritina dell’isola di S. Pietro); ibid., vol. IX, 1° sem., Roma, an. 1900. (4) Minerali del Sarrabus (Sardegna), Atti d. Soc. tosc. sc. naturali. Memorie, vol. XVII, Pisa, an. 1900. (*) Sulla baritina dello scavo Cungiaus. Miniera di Monteponi (Sardegna), Atti d. R. Accad, d. sc., vol. XLIV, Torino, an. 1909. — 964 — particolarmente appropriate per buone misure goniometriche. Quelle del prisma fondamentale 7 {110} sono, benchè piane, quasi sempre opache o su tutta la loro estensione, o almeno parzialmente; quelle del pinacoide c }001} sono invece abbastanza lucenti, ma, specie nei grandi cristalli, leg- germente screziate. Di gran lunga più perfette, piane e speculari sono le facce dei due prismi 0 {011} e 4120}, le quali sono perciò particolarmente indicate per la determinazione delle costanti. Prendendo tutte le misure, di egual peso, ricavate dagli angoli (102): (102) e (011):(011) dei vari cristalli misurati, ho notato, che, mentre quelle del primo angolo subiscono piccole variazioni e vanno quasi perfetta- mente d'accordo con il valore calcolato dalle costanti di Negri per la bha- ritina di Levico [adottate anche per i cristalli di Montevecchio (Sardegna)], i valori angolari di (011):(011) variano invece a seconda della grandezza dei cristalli. E precisamente detto angolo aumenta e si discosta assai dal valore teorico nei cristalli più grossi, mentre esso si mantiene molto vicino al valore teorico nei cristalli piccoli. Delle due facce (011), (011), una, dà sovente immagini luminose mul- tiple (due o tre), mentre l’altra fornisce sempre una immagine unica, net- tissima. Ma anche in questo caso puntando l’immagine più vicina a quella data dalla seconda faccia, si ha ancora, quasi sempre, nei cristalli più grandi un valore angolare maggiore di quello teorico. Però per eliminare qualsiasi ombra di dubbio ho, naturalmente, scelto le sole misure ottenute da facce che davano immagini semplici e nettis- sime. Le misure sono le seguenti: 74°40° 74 40 74 42 74 42 74 46 74 48 74 48 74 50 74 52 74 52 74 46; calcolato (Negri)= 74°38" (011): (011) {ATEO HI * Media Dalla media di questi 10 angoli si ricava per il parametro ec il va- lore 1,3087 che è (prescindendo da quelli dati da Mohs e da Beudant, perchè assai antichi) assieme a quello calcolato da Beckenkamp, uno dei più bassi, come risulta anche dal quadro seguente, in cui è riportato pure — 965 — il valore teorico dell'angolo (011):(011) corrispondente alle varie co- stanti. a:b:c = 0,81509:1:1,30992 Beckenkamp (011):(011) = cale. 74942’ » =0,81263:1:1,31156 Artini ’ SM) » = 0,81404:1:1,31189 Negri ” = n» 7437 » = 0,81286:1:1,31252 Repossi ” = » 7436 ” - 0,81461:1:1,31269 Fenyés (!) 7 = » 7430 » = 0,81520:1:1,31359 Helmacker ’ = n. 7434 Il valore teorico dell'angolo (011):(011) che si avvicina, più di tutti, a 74°46' è quello ottenuto dalle costanti di Beckenkamp, nelle quali, però, 3 è diverso da quello dato da Negri che pure si conviene bene alla baritina di Piolanas sud. Nei cristalli di questo giacimento sardo bisogna dunque ammettere che, il rapporto i ; N l durante l'accrescimento, il rapporto parametrico — aumenta, ossia le facce c di o }011}, soltanto, non si mantengono parallele a quelle primitiue. Questo fenomeno che ha luogo anche in alcuni altri minerali deve avvenire, a più forte ragione, nella baritina, la quale presenta, com'è noto da tempo, la cosiddetta da Kopp « doppelter bildung » cioè il cambiamento completo di forma durante il suo accrescimento. Non riporterò gli altri valori angolari ottenuti nella determinazione delle singole forme, o nella verifica degli altri angoli, poichè essi concor- cordano, in modo soddisfacentissimo, con i valori teorici ricavati sia dalle costanti di Negri, o anche di Helmacker (adottate da Dana, Riva e Mil- losevich). Osserverò ancora che anche la baritina di Piolanas sud presenta, non raramente, il già ricordato fenomeno della « Haifung » cioè la spiccata tendenza a formare degli aggruppamenti ipoparalleli, che per i loro angoli rientranti hanno tutta l'apparenza di veri e propri geminati. Teratologia. — Di alcune anomalie nella Beta vulgaris L. Nota di 0. MuNERATI e T. V. ZAPPAROLI, presentata dal Socio R. PIROTTA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (!) Queste costanti sono state adottate da Gonnard, Ungemach e anche da Lacroix nella sna Mineralogie de la France et de ses colonies. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 123 220060 Fisiologia vegetale. — Ancora sull’assimilazione diretta del l'azoto atmosferico libero nei vegetali (*). Nota dei dott. Eva MA- MELI e Gino POLLACCI, presentata dal Socio GrovANNI BRIOSI. In una Nota preliminare sull’assimilazione dell'azoto pubblicata nel 1909 e nella successiva Memoria completa (*), noi riferimmo i risultati di nume- rose ricerche sperimentali il cui scopo era quello di studiare l’assimilazione dell'azoto libero dell'aria in piante appartenenti a ordini diversi (dalle alghe alle fanerogame superiori). In tali esperienze erano da noi state evitate le cause d’errore dovute: 1° all’incompleta sterilizzazione delle culture; 2° alla presenza dei com- posti azotati dell’aria; 3° allo sviluppo incompleto delle piante; 4° ai me- todi analitici di dosaggio dell'azoto totale; cause d'errore che complessiva- mente non erano state evitate da nessuno degli autori che ci avevano pre- ceduto nello studio di quest'importante problema. Le culture vennero fatte, parte in mezzo liquido, parte in sabbia di quarzo puro. Le soluzioni nutritizie adoperate furono: la soluzione completa Knop e una soluzione nutritizia priva di composti azotati, così costituita: H.0 gr. 1000 ; Ca HPO, gr. 0,50 ; KH, PO, gr. 0,25 ; MgS0, gr. 0,25 ; Caso, gr. 0,25 ; Fes(PO,): gr. 0,02. I metodi d'analisi adoperati furono: 1°) L'analisi indiretta, consistente nella ricerca dell’azoto contenuto nei semi e nel substrato, e di quello rimasto nel terreno e contenuto nella pianta. La ditferenza tra le due somme ci dava la quantità di azoto gua- dagnata o perduta. 2°) L'analisi diretta, consistente nell'analisi dell’aria confinata in cui alcune piante avevano vissuto per qualche mese. Per confronto con l’ana- lisi dell'aria esterna, riportata a pressione e a temperatura eguale, si notava se le piante avevano o no sottratto azoto all'atmosfera. I risultati ottenuti dalle culture e dalle analisi, concordi nella quasi totalità, ci permisero di concludere che la proprietà di assimilare l'azoto libero dell’aria, dalla maggioranza degli autori attribuita al solo plasma (') Lavoro eseguito nell'Istituto botanico di Pavia, aprile 1915. (?) Mameli E. e Pollacci G., Sull'assimilazione diretta dell'azoto atmosferico libero nei vegetali (Atti Ist. botanico di Pavia, XIV, pp. 159-257), 1911 con 3 tavole. — 967 — dei bacteri, e fortemente discussa per le alghe, potesse estendersi « anche alle Crittogame vascolari e alle Fanerogame, in generale al plasma vege- tale, lenendo ben presente tuttavia, che le condizioni di cultura, sia chi- miche che fisiologiche, influiscono potentemente sul fenomeno ». È appunto per quest'ultima ragione che. in piante ottenute da culture fatte in labora- torio noi riuscimmo a constatare l'assimilazione di quantità d'azoto libero relativamente tenui, ciò tuttavia non diminuisce l'importanza del fenomeno e non esclude che in determinate condizioni di sviluppo — a noi per ora ignote — i vegetali possano usufruire con grande attività dell'azoto libero atmosferico. Fra i principali risultati da noi ottenuti erano i seguenti, che ripor- tiamo integralmente, perchè necessarî agli scopi critici che si prefigge la seguente Nota: « Tra le Hydropteridee: l'Azolla caroliniana e la Salvinia natans si dimostrarono straordinariamente atte all’assimilazione dell'azoto libero atmo- sferico. Se per la prima specie la sterilizzazione non poteva effettuarsi com- pletamente causa la sua nota simbiosi con l'Anabdaena, la seconda specie invece venne resa completamente sterile per mezzo dell’acqua ossigenata, che si dimostrò un disinfettante utilissimo per tal genere di esperienze. Le analisi, sia delle piante, sia dell’aria in cui esse avevano vissuto, conferma- rono i risultati che già dallo sviluppo apparente delle piante si potevano prevedere ; « La Zemna major e la L. minor, rese sterili e coltivate in soluzione sterile esente d'azoto combinato, si svilupparono abbondantemente e diedero all'analisi notevoli aumenti d'azoto; « Culture di Raphanus sativus, di Acer Negundo, di Cucurbita Pepo. di ”olygonum Fagopyrum, ottenute in substrati sterili. ed in ambiente esente di composti azotati, diedero all'analisi notevoli aumenti di azoto, pienamente giustificati dalla completa astinenza di azoto combinato a cui queste piante erano state costrette. . Il loro sviluppo, relativamente alle condizioni in cui le piante cresce- vano, era notevole, e dimostrava anche 4 przori che esse assimilavano lo azoto libero atmosferico; « Culture delle stesse piante, ottenute in substrato contenente una quan- tità nota di azoto combinato e in aria priva di composti azotati, diedero anch'esse all'analisi aumenti d'azoto notevoli, e variabili a seconda della quantità d'azoto somministrato. Si osserva cioè che ad una maggiore quan- tità di azoto ricevuta dalla pianta, corrisponde una minore attività assimi- latrice dell'azoto libero, e che, mentre la pianta che ha assimilato tutto l'azoto combinato che le è stato fornito, dà la maggiore percentuale di azoto libero assorbito; il contrario avviene per quelle piante che, al momento dell'analisi, non avevano assorbito che una parte dell'azoto del terreno ». — 968 — Due brevi Note (*) apparse su quest'argomento dopo la pubblicazione del nostro lavoro, ci porgono l'occasione di confermare pienamente i risul- tati delle nostre esperienze, che non sono per nulla infirmati da quelli di Oes e di Molliard, date le condizioni specialissime nelle quali questi autori hanno posto a vegetare le piante sottoposte ad esperienza, invece di atte- nersì al metodo da noi seguìto. Oes conferma anzitutto le nostre ricerche per ciò che riguarda l'assi- milazione dell'azoto libero dell'aria per parte dell'Az0//a, concludendo anche egli che quando la pianta manca di nitrati nel substrato si contenta di un’altra sorgente di azoto; e che questa mancanza di azoto combinato può, in buone condizioni di cultura, agire come stimolo d'accrescimento. Che nel caso dell'Azo//a l'assimilazione dell'azoto libero sia facilitata dall’associazione simbiotica di questa pianta con alghe del genere Arabdaera, non è una scoperta dell'Oes, come sembrerebbe da alcune parole della Nota di Molliard, ma è un fatto che era stato già da noi constatato (vedi pag. 62 della nostra Memoria), tanto che dichiarammo che la sterilizzazione di queste piante non era possibile, data la presenza di endofiti nei loro tessuti. Tut- tavia, che la presenza dell'alga sia indispensabile per l'assimilazione del- l'azoto libero da parte dell'Azo//a, neanche l’Oes ha dimostrato, nè poteva farlo, dato che questa simbiosi è largamente diffusa in tutte le Azo/la, e data l'impossibilità di privare la pianta del suo ospite. Con tutta pro- babilità la consociazione favorisce e rende più copiosa l'assimilazione del- l'azoto libero, dato che, come diversi autori dimostrarono, e noì confermammo, vi sono alghe capaci di tale assimilazione. Contrariamente a ciò che avviene nell’ Az0//a, Oes afferma che Salvinia auriculata, Lemna trisulca, L. gibba e L. polyrrhiza, coltivate in solu- zioni nutritizie esenti d'azoto, non assimilano l'azoto libero dell'aria. Osser- viamo anzitutto che la soluzione nutritizia priva d'azoto somministrata dal- l'autore a queste delicate piante acquatiche, doveva necessariamente essere inadatta al loro sviluppo se non addirittura nociva, e che essa è ben di- versa da quella da noi usata. Infatti, la soluzione usata da Oes è così co- stituita: Hs0 dist. gr. 1000 ; Mg SO, gr. 0,25 ; CaCl gr. 1 oppure gr. 0,62 ; KH:;PO, gr. 0,50 ; KCL gr. 0,12 ; Fe. Cl; traccie. È noto che i sali di cloro più adatti per la nutrizione vegetale sono quelli di potassio e di sodio; Wypfel (*) inoltre trovò che soluzioni di clo- ruri (di magnesio, calcio, potassio e alluminio), in concentrazioni varie dal (*) Oes A., Ve!er die Assimilation des freien Stickstoffs durch Azolla (Zeitschr. f. Bot., V, 145), 1913; Molliard M., L’azote libre et les plantes supérieures (Comptes rendus de l’Ac. d. Sciences, 160, 310), 1915. (*) Wypfel M., Weitere Versuche uber den Einfluss der Chloride auf das Wachs- thum der Pflanze (Jahresher. d. Niederéster. Landes-Realgymn, 23, 1892). — 969 — 0,5 al 2°/,, sono nocive per piantine di Zea, Phaseolus. Pisum, Cucur- bita ecc. Nella soluzione adoperata da Oes il tenore in cloruri è del 0,074-0,112°/, percentuale rappresentata in massima parte da cloruro di calcio ch'è tra i sali di cloro uno fra i più nocivi alle piante; non si capisce quindi perchè egli abbia scelto tale sale e l'abbia somministrato in dosi tanto elevate. Inoltre, il trasporto delle piantine dall'acqua dolce del fossato o della vasca nella quale vivevano, ad una soluzione siffatta non può essere avvenuto senza che il loro sistema radicale ne abbia in qualche modo sofferto. Un altro appunto che dobbiamo fare alla Nota di Oes è quello della assoluta mancanza di analisi per ciò che riguarda le Sa/vinia e le Zemna. Mentre le analisi riportate dall'autore per le Az0//a sono numerose, per le altre piante non v'è parola, nè di analisi dell'aria dalla quale l'azoto libero potesse o no essere stato sottratto, nè delle piante stesse. È bensì vero che lo scarso sviluppo delle culture ottenute dall’Oes, data la soluzione nutri- tizia ch'egli usò, doveva essere poco incoraggiante per intraprendere la ri- cerca analitica, ma non è men vero che in questioni così delicate e precise di chimica fisiologica solo l'analisi rigorosamente condotta può dire l’ultima parola. Le esperienze del Molliard riguardano esclusivamente dieci culture di Raphanus sativus, ottenute in soluzione nutritiva contenente l'azoto sotto forma di cloruro ammonico. Dalle analisi fatte egli ottiene, in quattro casì, un aumento d'azoto, e precisamente di mg. 0,19 ; 0,09 ; 0,12; 0,17 (risultati che, nonostante siano stati ottenuti da piante poste in condizioni di cultura inadatte al loro buon sviluppo, sono conformi a quelli da noi ottenuti); in sei casì, invece, una diminuzione di mg. 0,02 ; 0.13 ; 0,16: 0,15;0,08; OST03 Dopo ciò l’autore conclude che il Raphanus salzvus non ha la proprietà di utilizzare l'azoto libero dell’aria. Che questa deduzione sia, più che affrettata, illogica, noi possiamo affer- marlo riportando integralmente le seguenti parole dello stesso Molliard, che ne fanno fede: « À la verité, je me suis placé, pour ces premières expériences, dans des conditions un peu spéciales; les plantes ont toujours eu à leur dispo- sition de l’azote combiné et, d'après Mameli et. Pollacci, l’ assimilation de l’azote de l’air serait favorisée par la faim de la plante en azote combiné; d’autre part, les plantes ont eu è leur disposition du glucose et, de ce fait, leur nutrition a été en grande partie saprophytique ». Noi aggiungiamo che non solo per queste due ragioni la soluzione nu- tritizia adoperata dall'autore era la meno adatta per la dimostrazione in parola, ma che essa doveva necessariamente essere di ostacolo allo sviluppo delle piantine, data l'eccessiva quantità di glucosio (50 gr. per 1 litro!) in essa contenuta. Infatti, osservando al microscopio tessuti di piantine di — 970 — Raphanus sativus coltivate in una soluzione nutritizia contenente glucosio nella proporzione di gr. 50 per un litro, come ha usato Molliard, si nota un’accentuata plasmolisi nelle cellule dell’apice radicale. Oltre a ciò, lo sviluppo delle piantine è evidentemente ostacolato e quasi arrestato, quindi, piante in condizioni così anormali non sono certo adatte per controllare le nostre ricerche. L'autore non descrive l'aspetto delle piante al termine delle culture, che vennero fatte su pomice granulare, imbevuta della ‘soluzione nutritizia. Per ciò che riguarda le analisi fatte da Molliard osserviamo che varie sono in esse le cause d'errore, e cioè: 1°) L'analisi del liquido nutritizio dopo la cultura. L'autore dice di aver constatato che « si può spostare tutta l'’ammoniaca dei liquidi in pre- senza della pomice. a condizione di polverizzare questa e di raccogliere alla dîstillazione in presenza di potassa un volume di liquido considerevole ». Ora, è inevitabile che perdita d'azoto vi sia stata e nella polverizzazione della pietra pomice e nella susseguente distillazione « di un volume di liquido considerevole », che si rese necessario per trascinare nel distillato tutti i composti azotati residuali. Un'analisi siffatta, applicata al solo residuo rimasto nel substrato dopo le culture, è tanto più una causa d'errore, perchè ad essa non fa riscontro un'analisi fatta in eguali condizioni e che avrebbe potuto compensarlo, e cioè l'analisi del substrato prima della cultura, poichè, supponendo purissima la pietra pomice, la quantità d'azoto contenuta nel liquido nutritizio somministrato era nota, data la composizione fissa di esso. Da questo diverso metodo di apprezzamento deriva che nella disegua- glianza : N del seme + N della soluzione — N della soluzione al principio della alla fine della + N della pianta cultura. < cultura. sì ottiene nella seconda somma una quantità d'azoto minore di quella real- mente presente. i 2°) L'uso del semplice metodo Kjeldahl per il dosaggio dell’azoto totale delle piante. Noi, infatti, facemmo osservare nel nostro lavoro che « il metodo Kjeldah], eseguito col semplice procedimento dettato dall'autore, permette di dosare solo l’azoto organico e l'azoto amidico, ma non è neppur certo che con questo metodo sì riesca ad intaccare qualunque sostanza orga- nica azotata, poichè, ad esempio, gli alcaloidi e le nucleine vegetali hanno una costituzione così complessa che il loro azoto offre una grande resistenza alla riduzione in ammoniaca ». Applicammo quindi in tutte le nostre analisi il metodo Kjeldahl modificato da Jodlbauer, che permette di dosare l'azoto. organico, più l’azoto nitrico, anche in dosi minime, quali sono quelle che si trovano di solito nei vegetali. Si ottiene, infatti, con questo metodo la. — 971 — scomposizione completa di tutte le sostanze azotate, come dimostrano le analisi di prova fatte dall'autore stesso con sostanze diverse, e da noi ri- petute con quantità note di nitrato e nitrito potassico e di asparagina. Sono dunque certamente andate perdute nelle analisi del Molliard fatte col semplice metodo Kjeldahl quelle piccole quantità d’azoto provenienti dalla decomposizione dei composti nitrici, degli alcaloidi e delle nucleine vegetali, e questo, tanto nelle analisi dei semi e delle piante, quanto in quelle del liquido nutritizio dopo la cultura; poichè, per quanto la soluzione contenesse l'azoto esclusivamente sotto forma di composto ammoniacale, pure non è da escludere che, in presenza delle secrezioni radicali delle piante e della pietra pomice granulare che potè anche esercitare un'azione catalitica, fossero presenti in questo liquido, alla fine della cultura, piccole quantità di nitrati o di nitriti. 8°) L'incostanza dei risultati ottenuti dall'autore, nelle sue poche analisi: aumento d'azoto in quattro casi, diminuzione negli altri sei. Aggiungiamo in fine che causa d'errore non trascurabile in esperienze siffatte deve essere stata la piccolissima quantità di liquido nutritizio (60 cm.*) somministrata a ciascuna cultura, per una durata di 7 settimane. Non è da meravigliarsi quindi se tante diverse cause d'errore insieme unite: 1) soluzione nutritizia inadatta; 2) somministrazione di essa alle piante in quantità insufficiente; 3) metodi analitici poco precisi; abbiano condotto a risultati incostanti, alcuni dei quali tuttavia in accordo coi nostri, ed abbiano ostacolata la constatazione dei piccoli aumenti di azoto, quali sono quelli che possono verificarsi in una pianta di Raphanus sativus col- tivata in tali condizioni in laboratorio. Non v ha dubbio che la scelta di mezzi nutritizi più adatti e l’esclu- sione delle cause d'errore delle quali abbiamo fatto cenno al principio della presente Nota, confermeranno quanto è risultato dalle nostre numerose espe- rienze rigorosamente condotte, e che ci occuparono per più di due anni, e cioè che « la facoltà di assimilare l’azoto libero atmosferico è proprietà assai più diffusa di quanto fino ad ora si ammetteva, e che è presumibile che anche tutti i vegetali clorofilliani, dalle alghe alle fanerogame, possano, in condizioni speciali, far uso, con maggiore 0 minore attività, di questo potere. — 972 — Chimica fisiologica. — Contributo allo studio dell’azione dei fermenti peptolici sui polipeptidi (*). Nota del dott. ANTONINO CLE- MENTI, presentata dal Socio L. LUCIANI. La sintesi artificiale dei polipeptidi e lo studio del loro comportamento biologico formano uno dei capitoli più brillanti della fisiologia dell'ultimo ventennio, che è valso a versare un fascio di luce nuova sul problema, così arduo e oscuro, della costituzione chimica della molecola proteica e delle trasformazioni, a cui essa va incontro durante i fenomeni della digestione nel tubo intestinale e durante il metabolismo cellulare. Dopo che mediante l’ap- plicazione del metodo di Kossel e di Kutscher (*), per la determinazione quan- titativa dei diaminoacidi (basi esoniche), e del metodo di Emilio Fischer (5), per la determinazione dei monoaminoacidi, una lunga schiera di illustri chimici tisiologi, sottoponendo alla analisi la molecola delle più svariate proteine, dimostrarono, che queste ultime sono costituite fondamentalmente dalle stesse pietre strutturali (gli aminoacidi), e che la differenza consiste in genere (tranne alcune eccezioni) nelle diverse proporzioni in cui esse sono presenti, alla attenzione dei fisiologi si è imposto il problema della ricom- posizione sintetica del complesso edificio molecolare dell’albumina. Le ricerche di Schaal (4) sulla anidride dell'acido asparaginico e sulla trasformazione di questo in poliasparaginurea (Grimaux) (5) e in acido poliaspartico (Schiff) (5) e le ricerche di Schutzenberger (*) sulla unione di diversi aminoacidi (leucine e leuceine) coll'urea mediante riscaldamento con anidride fosforica, e le ricerche di Lilienfeld (5), eseguite nel laboratorio di Kossel, e di Balbiano e Frasciatti (°), rappresentano ricerche iniziali in questo senso, le quali portarono alla sintesi di prodotti non ben definiti nè ben caratterizzabili, di cui rimangono sconosciuti la struttura e il grado di parentela con le proteine. (!) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica Fisiologica della R. Università di Roma. - (®) Kossel e Kutscher, Beitrdge zur Kenntniss der Eiweisskòrpern. Zeitschrift f. physiol. Chemie, XXXI, 165, an. 1900. (3) Emil Fischer, Veder die Ester der Aminosatre. Berichte der deutsche che- mische Gesellschaft, 34, 4381, an. 1901. (4) Schaal, Ann. d. Chem., 157, 24, an. 1871. (5) Grimaux, Sur des colloides azotés. Bull. Société chim., 28, 64, an. 1882. (5) Schiff, Veber Poliaspartsatre. Ann. der Chemie, 203, 183, an. 1898. (7) Schutzenberger, Recherches sur la synthèse des matières albuminoides et pro- teîque. Comptes rendus, /06, 1407, an. 1888. (®) Lilienfeld, Veder protenihnliche Substanzen. Dubois Archiv., pag. 383, 1894. (®) Balbiano e Frasciatti, Veber ein neues Derivat des Glykokolls. Berichte der deutsch. chemische Gesellschaft, 23, 2323, an. 1900; 34, 150, an. 1901. — 973 — È ad Emilio Fischer (') che spetta il merito immortale di essere riu- scito per il primo a trovare dei metodi chimici esatti per legare fra loro le molecole degli aminoacidi stabilendo legami amidici tra il gruppo car- bossilico e il gruppo aminico di distinte molecole, e ad ottenere, così, nuovi corpi chimicamente ben definiti e individualizzabili, che egli chiamò col nome generico di Polipeptidi e con quello speciale di Di-, Tri-, Tetra- peptidi a seconda del numero di aminoacidi, che prendono parte alla costi- tuzione della loro molecola. Emilio Fischer ha voluto così adoperare una nomenclatura, che mentre da una parte ricorda la nomenclatura attualmente adoperata per la classe dei saccaridi, dall'altra indica, che questi corpi, artificialmente ottenuti per sintesi, sono molto affini ai peptoni naturali, i quali risulterebbero dall'unione di molte molecole di polipeptidi. I polipeptidi infatti hanno comuni con i peptoni molte reazioni colorate, come ad esempio la reazione del biureto, e reazioni colorate specifiche a secondo la presenza o la assenza di speciali aminoacidi nella loro molecola: così ad esempio i polipeptidi, in cui è presente il triptofano, dànno positiva la reazione del- l'acido gliossalico e negativa la reazione dell’acqua di bromo. La ebollizione dei polipeptidi di alto peso molecolare dà luogo a fenomeni, che ricordano la coagulazione delle proteine; d’altra parte poi i polipeptidi ad alto peso molecolare tendono a perdere la proprietà di cristallizzare e acquistano la tendenza a formare prodotti amorfi. La dimostrazione biologica, che gli aminoacidi si trovano effettivamente legati fra loro nella molecola proteica in modo analogo a quello in cui lo sono nella molecola dei polipeptidi, è di doppia natura: 1°) l'isolamento chimico dai prodotti di idrolizzazione delle sostanze proteiche di polipeptidi, di cui precedentemente era stata compiuta la sintesi chimica artificiale (Fischer e Abderhalden) (°); 2°) l'analogia esistente tra il modo in cuì i fermenti peptolitici agi- scono sulla molecola dei polipeptidi e il modo in cui agiscono sulla mole- cola delle proteine (Fischer e Bergell) (*). Il metodo, seguìto per la prima volta da Fischer e Bergell e da Fischer e Abderhalden (*), per studiare l’azione dei fermenti peptolitici sui polipeptidi, (*) E. Fischer und Fourneau, ZVeder einige Derivate des Glykokolls, Berichte der deutsche chemisch. Gesellschaft, 34, 2868, an. 1908; E. Fischer, Aminosaure, Polipeptide und Proteine, pag. 23, Springer, Berlin, 1906. (*) E. Fischer und Abderhalden, Bildung eines Dipeptides bei der Hydrolise des Seidenfibroins. Berichte der deutsch. Gesellschaft, 23, 752, an. 1996. (3) E. Fischer und Bergell, Veder die Derivate einiger Dipeptide und Ihr Ver- halten gegen Pankreasferment, Berich. der deutsche chem. Gesell., 20, 2592, an. 1903; E. Fischer und Bergell, Spaltung einiger Dipeptide durch Pankreasferment, Berichte der deutsch. Chem. Gesell., 27, 2103, an. 1904. (4) E. Fischer und Abderhalden, Veber das Verhalten verschiedener Poliptide gegen Pankreassaft, Zeitschr. f. Physiol. Chemie, XLVI, 52, an. 1915; E. Fischer und Ab- derha!den, Veber das Verhalten einiger Polipeptide gegen Pankreassaft, LI, 264, an. 1907. RenpiconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 124 — 974 — è un metodo essenzialmente chimico e ponderale consistente nell’isolamento e nella individualizzazione chimica, mediante la eterificazione, degli aminoacidi, in cui essi vengono o dovrebbero essere scissi per azione dei fermenti. Abderhalden e Koerker (') hanno elaborato in seguito un metodo ottico per lo studio dell’azione dei fermenti proteolitici sui polipeptidi, traendo profitto dal fatto osservato prima da Fischer, che molti polipeptidi sono otticamente attivi e posseggono un potere rotatorio più forte dei loro pro- dotti-di scissione, donde la possibilità di constatare e seguire mediante deter- minazioni polarimetriche la scissione dei polipeptidi operata dagli enzimi. Hans Euler(*) ha elaborato un metodo elettrometrico per riconoscere e studiare la scissione dei polipeptidi operata dai fermenti. I metodi finora in uso non sono dei metodi quantitativi, in senso asso- luto ed io mi sono proposto di colmare tale lacuna. Poichè gli aminoacidi sono legati fra loro nella molecola dei polipeptidi in catena amidica, e poichè la loro scomposizione fermentativa dà luogo essenzialmente alla rigenerazione, da una parte, dei gruppi carbossilici e, dall'altra, dei gruppi amidici degli aminoacidi, secondo lo schema generale seguente: . RT_—C0—NH—-R+H—T—-0H=R—CO0—-0H-#+NH,— R, è evidente che, determinando quantitativamente i gruppi aminici liberi dei polipeptidi prima e dopo l’azione dei fermenti peptolitici, possiamo ricono- scere l’azione da questi esercitata sulla loro molecola. Il metodo che si può adoperare per la determinazione volumetrica dei gruppi aminici liberi è il metodo della titolazione al formolo di Sorensen. Lo stesso Sorensen (*), de- scrivendo il suo metodo, scrisse: « Nello studio della scomposizione di poli- peptidi o di miscele di polipeptidi, per cui manca finora un metodo general- mente pratico, la titolazione al formolo potrà essere di grande utilità ». Egli stesso, pur avendo adoperato il metodo della titolazione al formolo per lo studio della scissione di miscele di polipeptidi a costituzione chimica poco definita, non lo applicò per lo studio della scomposizione fermentativa dei polipeptidi allo stato chimicamente puro. Ricerche invece sulla determinazione quanti- tativa dei gruppi aminici liberi dei polipeptidi non mancano: Abderhalden e van Slyke (‘), Abderhalden e Haslian (*) hanno studiato il comportamento di tutta una serie di polipeptidi rispetto al metodo di van Slyke della de- (1) Abderhalden und Koerker, Die Verwendung optisch activer Polipeptide zur Pri- fung der Wirksamkeit proteolitischer Fermente. Zeitschr. f. Physiol. Chemie, LI, 294, an. 1905. (?) Hans Euler, Fermentative Spaltung von Dipeptiden. Zeitschr. f. physiol. Chemie LI, an. 1905. (8) Sorensen, Enzimstudien. Biochemische Zeitsckrift, 7, 38, an. 1907. (4) Abderhalden und van Slyke, Die Bestimmung des Aminostickstoffs in cinigen Polypeptiden. Zeitschr. f. physiol. Chemie, 74. (9) Abderhalden und Haslian, Veder die Verwendung der Estermethode sim Nachweis von Aminosaùren neben Polypeptide. Zeitschr. f. physiol. Chemie, 77. — 975 — terminazione dei gruppi aminici liberi: Sérensen studiò il comportamento rispetto alla titolazione al formolo della anidride della glicocolla e della gli- cilglicina, e trovò, che l'anidride della glicocolla si comporta come un corpo neutrale e la glicilglicina come un acido monobasico. Teoricamente noi dobbiamo ammettere, che il comportamento di un po- lipeptide rispetto al formolo resterà invariato nel caso in cui il polipeptide non viene scisso dal fermento proteolitico e invece cambierà nel caso in cui viene scisso dal fermento negli aminoacidi suoi componenti, data la rigene- razione dei gruppi aminici e carbossilici liberi di questi ultimi. La leucilglicina è il dipeptide, che io ho scelto per le presenti espe- rienze. La d-l-leucilglicina risulta costituita dalla unione in catena amidica di una molecola di leucina e di una molecola di glicocolla, secondo la se- guente formola di costituzione NH; CH; | > CH — CH. — CH — CO — NH — CH; CH; CO — OH. Ho preparato la leucilglicina racemica, secondo il procedimento usato da Emil Fischer e Brunner ('), cioè per trasformazione della glicocolla in bromi- socapronilglicina e di questa in leucilglicina. La molecola della leucilglicina contiene un gruppo carbossilico e un gruppo:aminico: quindi essa presenterà nella titolazione al formolo il comportamento di un acido monobasico. Per ricercare se tale comportamento rimanga inalterato, quando il dipeptide non viene scomposto dai fermenti peptolitici, e come esso varia, quando il di- peptide viene idrolizzato per azione fermentativa, ho sottoposto la leucilglicina all’azione del succo panercatico e all’azione dell'estratto acquoso di fegato. Azione del sueco pancreatico sulla d-l-leucilglicina. — Per studiare il comportamento della leucilglicina verso il succo pancreatico, 10 ce. di soluzione 1/40 x. di leucilglicina furono mescolati a ce. 0,5 di succo pan- cretico ricavato da un cane portante una fistola permanente pancreatica alla Pawlow, e dopo aggiunta di toluolo furono posti in termostato a 37 gradi per la durata di 25 giorni. Le cifre ottenute nella titolazione alla formaldeide di 10 ce. di soluzione di leucilglicina, di soluzione di leucilglicina più succo pancreatico, e di succo pancreatico più acqua, sono riportati nella seguente tabella: (*) Fischer und Brunner, Sintese von Polipeptide, XI, Liebigs'annalen der Chemie, 340, 123, an. 1905; Fischer und Abderhalden, loc. cit., Zeitschr. f. physiol, Chemie, 46, an. 1905. — 976 — 1 marzo 1915 (in termostato Quantità adoperata di NaOH 1/5 x 27» ” ao) in cem. in °/ del calcolato d-l-Leucilglicina 1/40 n. cc. 10 1,25 100 d-l-Leucilglicina 1/40 n. » 10 Î È 1,30 Succo pancreatico » 0.5 Succo pancreatico » 0,5 0,10 Acqua distillata » 10 Come leucina | calcolato 2,50 + glicocolla ( trovato 1,20 in mgr. in °/o PRESSO | aggiunta 42 100 d-1-leucilglicina E 0 0 Risulta, da questa esperienza, che 10 cc. di leucilglicina 1/40 x. richie- devano, sia prima sia dopo un'azione della durata di 25 giorni, dei fermenti del succo pancreatico, la stessa quantità di cc. di NaOH n/5: èl risultato di questa esperienza dimostra, che la leucilglicina, non viene idrolizzata dal succo pancreatico. Un analogo risultato ebbero Fischer e Brunner (loc. cit.) servendosi del metodo chimico: essi sciolsero un grammo di leucilglicina in 35 ce. di acqua e 3 cc. di succo pancreatico, e lo lasciarono a digerire in termostato per 14 giorni: trovarono, che il liquido non era diventato otticamente attivo, e riot- tennero il dipeptide aggiunto: nella soluzione madre non poterono riscon- trare col metodo della eterificazione la presenza di glicocolla e di leucinia; in una seconda e in una terza ricerca il risultato fu eguale. Gli autori ne dedussero che il succo pancreatico non è capace di idrolizzare la leucilglicina racemica. Azione dell'estratto acquoso di fegato sulla d-l-leucilglicina. — L'estratto acquoso di fegato di cane adoperato fu preparato pestando al mor- taio con polvere di quarzo frammenti di fegato di cane da poco ucciso, diluendo con acqua e filtrando: 5 cc. dell'estratto acquoso così preparato furono mescolati con 10 cc. di una soluzione di leucilglicina racemica 1/20 n. e messì a digerire in termostato a 37 gradi per la durata di 7 giorni. Le cifre ricavate dalla titolazione al formolo di 10 ce. di soluzione 1/20 n. di leucilglicina dalla titolazione al formolo di estratto acquoso di fegato più la soluzione del dipeptide e dell'estratto acquoso più acqua sono ripor- tate nella seguente tabella: — 977 — 10 febbraio 1915 (in termostato Quantità adoperata di NaO0Hr/5 1 ” ” a 179) in cem. in °/o del calcolato d-l-Leucilglicina 1/20 n. ce. 10 2,30 92 d-l(-Leucilglicina 1/20 n. » 10 70: Estr. acq. di fegato di cane » 5 0 Acqua » 10 ; È 0,60 Estr. acq. di fegato di cane » 5 Come leucina —( calcolato 5.00 + glicocolla l trovato 3,70 in mgr. in °/o i PESO: | aggiunta 94 100 d-l-Leucilglina RIA 49 59 Da questa esperienza risulta che, dopo un'azione della durata di 7 giorni dell'estratto acquoso di fegato dì cane sulla leucilglicina racemica, per la ti- tolazione al formolo erano necessarî cem. 3,7 di idrato di sodio 1/5 n.; come si vede, si ebbe un aumento rispetto al numero di cem. di idrato di sodio necessarî per titolare 10 cc. di soluzione 1/20 x. di lewcilglicina prima dell'azione dell'estratto acquoso di fegato. Questo risultato dimostra che una scissione della leucilglicina in leucina e glicocolla avviene per opera dei fermenti epatici; però questa scissione non è estesa a tutta la quantità di dipeptide presente nella soluzione, poichè, teoricamente, se tutta la leucilgli- cina fosse stata scissa in leucina e glicocolla, sarebbero stati necessarî, per la titolazione al formolo, ce. 5 di NaOH n/5. In base al calcolo dell’ N aminico, risulta che dei 94 mmgr. di d-/-leu- cilglicina aggiunta so/o 49 furono scissi per azione dell'estratto acquoso del fegato: cioè esattamente la metà della quantità totale di d-l-leucilgli- cina sottoposta all’azione dell'estratto di fegato venne scomposta in lew- cina e glicocolla. Questi risultati concordano porfettamente con quelli ottenuti dagli autori che studiarono precedentemente l’azione dei fermenti proteolitici sui polipeptidi con altri metodi di ricerca, specialmente per ciò che riguarda il modo in cui agiscono i fermenti peptolitici sui polipeptidi racemici: infatti, mentre da una parte confermano, che la leucilglicina viene scissa dall'estratto di fegato (Abderhalden e Teruchi) ('), e non dal succo pancreatico (Fischer (‘) Abderhalden und V. Terunchi, Das Verhalten einiger Peptide gegen Organ- extrakte, Zeitschr. f. physiol. Chemie, 47, 466, 1906; Abderhalden und V. Terunchi, Stu- dien ber die proteolitische Wirkung der Pressàfte einiger tierischen Organe sowie des Darmsaftes, Zeitschr. f, physiol. Chemie, 49, 1, 1906. — .978 — e Brunner, loc. cit.), rappresentano il primo dato di indole quantitativa finora noto a favore del principio di E. Fischer, che i polipeptidi race- mici vengono scissi dai fermenti peptolitici in modo asimmetrico, cioè che delle due forme otticamente attive, di cui risulta costituito il polipeptide racemico, ne viene idrolizzata dai fermenti peptolitici solo una metà. Furono Fischer e Bergell (loc. cit.) che per i primi osservarono che la pancreatina, agendo sulla carbetoxilglicil-dl-leucina, mette in libertà della leucina sinistrogira; subito dopo, essi osservarono che la pancreatina, agendo sulla leucilalanina racemica, mette in libertà leucina sinistrogira e lascia intatta una parte del dipeptide. Per ciò che riguarda la leucilglicina, Abderhalden e Teruchi (loc. cit.), facendo agire estratto acquoso di fegato di vitello su 5 grammi di leucilglicina racemica, poterono isolare dai prodotti di scissione gr. 1,3 di leucina sinistrogira, e in una seconda esperienza, in cui sottoposero all’azione dell'estratto di fegato 4 grammi di leucilglicina, riottennero gr. 0,7 di leucina sinistrogira e gr. 0,5 di cloridrato di etere di glicocolla e gr. 0,7 di anidride di leucilglicina; così finora, poichè il metodo adoperato, non può essere strettamente quantitativo, /u dimostrato solo qualitativamente che la scomposizione fermentativa dei polipeptidi race- mici decorre in modo asimmetrico. La esperienza surriferita dimostra per la prima volta quantitativamente, che della quantità to/ale del dipeptide sotto- posto all’azione dei fermenti peptolitici epatici, solo la metà viene scissa nei suoi componenti. Riserbandomi di estendere le presenti ricerche, io credo frattanto di potere venire alle seguenti conclusioni sintetiche: 1°) Per lo studio della azione dei fermenti peptolitici sui polipe- ptidi, un metodo praticamente assai adatto è il metodo volumetrico della titolazione alla formaldeide dei gruppi aminici liberi dei polipeptidi e dei loro prodotti di scissione. 2° Questo metodo presenta rispetto al metodo chimico di E. Fischer, il vantaggio di poter adoperare per ogni esperienza quantità piccole di polipeplidi; rispetto al metodo ottico di Abderhalden, il vantaggio di poter esperimentare anche con polipeptidi di aminoacidi otticamente inattivi; rispetto al metodo elettrometrico di Euler, il vantaggio della rapidità delle determinazioni; rispetto a tutti questi metodi insieme, il vantaggio di potere eseguire determinazioni rigorosamente quantitative. 3°) Applicando îl metodo volumetrico della titolazione al formolo si rileva che per azione del succo pancreatico la d-l-leucilglicina non viene scissa, mentre per azione dei fermenti peptotitici del tessuto epatico, solo metà della quantità totale di d-l-leucilglicina aggiunta viene idrolizzata; questo risultato rappresenta il primo dato sperimentale di natura quan- titativa, finora assodato, a favore del principio dell'azione asimmetrica dei fermenti peptolitici dell'organismo sui polipeptidi racemict. — 979 — Chimica generale. — /n/lvenza esercitata dai sali neutri sull'equilibrio chimico ('). Nota di G. Poma e di G. ALBONICO, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. In una Nota che pubblicammo di recente su questi stessi Rendiconti (?), abbiamo iniziato lo studio dell’azione esercitata dai sali neutri sulle costanti delle due reazioni inverse di eterificazione e di idrolisi che, avvenendo si- multaneamente nel medesimo sistema, conducono all'equilibrio seguente: CH;C0,H + CH:0H => H.0 + CH;00;CH;. E nostro intendimento riferire nella presente comunicazione, i risultati cho abbiamo ottenuti nell’ulteriore svolgimento di questa ricerca: nelle nostre nuove esperienze mantenemmo invariati il metodo d’indagine e le condizioni sperimentali che già avemmo occasione di descrivere. Così la tem- peratura, alla quale vennero mantenute le nostre soluzioni, era di 25° * 0,019, il valore iniziale del rapporto molecolare tra l’acqua e l'alcool metilico venne conservato, per le seguenti tredici prime tabelle, uguale a due, i sali neutri adoperati erano cloruri di cationi fortemente elettroaffini, ma dotati di di- versa avidità per l'acqua. Le quantità di acido cloridrico, che introducemmo nel nostro sistema, per rendere cataliticamente più rapido lo svolgimento del processo, erano di 0,2 mole per litro. TABELLA 1. In assenza di sale neutro. Sale neutro: TABELLA 24. Ca CI, 0,5 norm. eq. Numero di mole contenute Numero di mole contenute in 100 em8 die in 100 ecin® X l'empo in (= (05 Tempo in he ks all’inizio all'equilibrio cem all’inizio all'equilibrio cem A=t0) i ="'"00 t=0 t= 0 a=0,1200 | a, = 0,0329 82" | 55,70) 0,0022 Ai 012.0008| 070328 54’ | 61.70| 0,0026 i=si 26200 ie, = IN7500 22077) «4.40 (00020 DE 111210) MELO 6 54745: M0:0025 a 526000 ie. =2/60131 30007) 88/900) 0:0020 c=2,4183 | co = 2,5055| 158 | 48.90] 0,0025 di di=0,0871| 390 | 35.30| 0,0020 de=0 di =0.0872| 264 | 40,75]. 0,0025 775 | 28,55] 0,0019 358 | 36,30) 0,0025 «È 87 F È P C = %058 E — 08792 È E 2309007; e — 0,0370 valor medio 0,0020 SI AI valor medio 0,0025 L= 170 le, — 0,00240 K=f- 0,169 k,— 0,00301 ki les = 0,00041 ! ky = 0,00051 Per tutto ciò che si riferisce alle nostre tabelle ed al procedimento matematico che permette di calcolare i valori delle costanti K, 4, e /s rin- viamo senz'altro il lettore alla nostra precedente comunicazione; vogliamo (') Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Parma, (*) Rend. Ace. Lincei, anno 1915, 1° sem, pag, 747. — 980 — soltanto ricordare che con le lettere a, d, c, d intendiamo rispettivamente rappresentare l'acido acetico, l'alcool metilico, l'acqua e l'etere metilico allo stato iniziale, e con le lettere @,, 21, c1, di le stesse sostanze allo stato di equilibrio, dopo trascorso un tempo infinito dalla preparazione della mi- scela. TABELLA 832. TABELLA 42. Sale neutro: Ca CI, 1 norm. eq. Sale neutro: Ca Cl, 1,41 norm. eq. Numero di mole contenute Numero di mole contenute in 100 cem? de in 100 cem8 ‘l'empo in = Tempo in |ki—-ky all’inizio all'equilibrio cem' all’inizio all'equilibrio cem? (e=0) ===100) di==10 \i==l(0.0) a=0,1200 | a, =0,0822| 55’ | 60,50] 0,0030 =a=0,1200 | a,=0,0317| 58 | 59,50| 0,0033 b5=1,1803 | è,=1,0925| 154 | 46,61] 0,0030 =—4=1,0846 | d,=0,9964| 108 |51,80| 0.003 c=2,8555 | c = 2,4483| 221 | 41,03] 0,0029 = c=2,2526 | ec, =2,2526| 185 | 43,20) 0,0033 d=0 d,=0,0878| 341 | 34,40| 0,0029 d=0 d,=0,0883 | 257 | 38,00| 0,0033 438 | 32,16| 0,0028 354 | 33,50] 0,0033 t=1,9277 ; £=0,0878/ valor medio 0,0029 = 5=1754! ; *=0,0888 | valor medio 0,0033 K= 2 0163 k, = 0,00346 K="2— 0,159 k, = 0,00392 ki ka = 0,00056 ki ky = 0,00059 TABELLA 58. TABELLA 6°. Sale neutro: Ca CI, 2 norm. eq. Sale neutro: Mg Cl, 0,5 norm eq. a=0,1200 | a, =0,0312| 57 | 58,10] 00039 @=0,1200 | a. =0,0321| 45’ | 63,72| 0,0025 b=1,0845 | 6,=0,9958| 109 | 49,40| 0,0089 b=1,2353 | 6, = 1,1474| 160 | 48,61| 0,0024 c=2,1650 |c, =2,2538| 188 | 40,60] 0,0038 €=2,4650 | ci =2,5529 | 228 | 43,40| 0,0024 d=0 d,=0.0888 | 244 | 36,65] 00088 4d=0 di=0,0879 | 347 | 36,58] 0,0024 343 | 32,20| 0,0037 444 | 33,30 0,0023 DA ai = 2,0181 ; E= 0,0879 =1,7354 ; #=0,0888 | valor medio 0,0038 © : valor medio 0,00047 K=%— 0,155 k, = 0,00461 K=7° = 0,164 ki = 0,00287 ki ka = 0,00071 ha = 0,00047 TABFLLA 78. TABELLA 88. Sale neutro: Mg Cl, 1 norm. eq. Sale neutro: Mg Cl; 1,41 norm. eq. a=0,1200 | a,=0,0814| 42’ | 63,00| 0,0029 = 4=0,1200 | a, =0,0308| 39’ | 62,70! 0,0035 = 1,1975 | ,=1,1089]| 154 | 46,61| 00029 = è=1,1720 | 0,=10828| 151 | 45,10] 0,0033 c=2,8894 | c,=2,4780| 221 | 41.03] 0,0029 e=2,3411 | ci =2,4803| 220 | 39,00| 0,0033 d=0 di=0,0886 | 841 | 34,40] 0,0029 d=0 di=0,0392 | 306 | 34,50) 0,0033 488 | 32,16| 0.0027 403 | 31,10| 0,0082 T=1,9278 ; #=0,0886 | valor medio 0,0029 © 1:9936 3 #=0,0912 | valor medio 0,0082 ka REG ea x LPESESS — eV k, = 0,0034: K= <= 0,154 ki = 0,00390 Sr lio es 0,00055 ki fra = 0,00060 TABELLA 9. TapeLLa 10°. Sale neutro: Mg Cl, 2 norm. eq. Sale neutro: Li Cl 1,41 norm. a=0,1200 | a. = 0,0300 | 144’ | 43,04] 0,0041 a=0,1200 | a =0,0288| 40’ | 62,05| 0,0035 b5=1,1175 | è3,=1,0275| 214 | 36,75| 00041 &=1,2243 | 2,=1,1881| 78 | 51.70| 0,0034 c=2,2307 | c,=23205| 285 | 32,68] 0,0041 c—2,4444 | c0=2,5255| 120 | 4840| 0,00383 d=0 d,= 0,0900 | 382 | 29,65] 0,0040 d=0 d,= 0,0912 | 167 | 42,82| 0,0033 i i tan 210 | 39,10| 0,0033 e ae valor medio 0), a ESE t=1,7469 ; E=0,0900 veti; i t=1,8758 ; £=0,0912| valor medio 0,0034 FS “idr ki = 0,00450 II 0,140 hi = 0,00395 lt, lea = 0,00070 fi lea = 0,00055 — 981 — La normalità equivalente della soluzione di barite impiegata nelle espe- rienze che corrispondono alle prime quattordici tabelle, era 0,1913. Dai risultati che abbiamo esposti fin qui, appare che anche i cloruri di calcio e di magnesio esercitano, sia sulla velocità di eterificazione, come su quella di idrolisi, un'azione acceleratrice, e che questa è subita, propor- zionalmente, in misura assai maggiore dalla prima che non dalla seconda, in conseguenza di ciò la costante di equilibrio K = %,:%, diminuisce. Se confrontiamo ora i risultati avuti impiegando soluzioni contenenti, per litro, lo stesso numero di mole (non grammo equivalenti) di sale neutro, vediamo che lo spostamento dell’equilibrio cresce passando dal cloruro di litio a quello di calcio e da questo al cloruro di magnesio. Abbiamo già visto, nella Nota precedente, che la costante di equilibrio determinata in assenza di sale neutro, ma in presenza di 0,2 mole di HCl per litro, risulta TaBeLLa 11. TABELLA 122: H CI= 0,4 norm. H CI 0,6 norm. Numero di mole contenute Numero di mole contenute in 100 cem3 XI in 100 cem® x ‘l'empo in ki— ka n ">" Tempo in ki— ka all’inizio allequilibrio cem all’inizio all'equilibrio cem se=V L==100) 0 i =‘ a=0,1200 | a, = 0,0328 24" | 74,60] 0,9044 a 0:12000 Ka ‘(0:0928 42” | 73,40] 0,0069 6 =1,2610 | 6,:=1,1740| 74 | 61,95| 0,0043 b=1.2550 | 5,=1,1673| 91 | 61,40) 0,0068 c=2,5190 | cr = 2,6050| 140 | 51,80] 0,0043 c = 2,5070 | cc, =2,5947 | 146 | 54,90] .0,0067 di 0 di=0,0872| 273 |44,30| 0,0042 d=0 d,=0,0877 | 205 | 51,85] 0,0067 = 2,0899 ; È = 0,0871 valor medio 0,0048 té =2,0589 ; éE=0,0887 valor medio 0,006S a ka a 4 K= ka = 0,1695 ki = 0,00517 K= a 0,1658 li = 0.00S15 fi ly = 000087 ti lia = 0,00135 TABELLA 18?. TABELLA 14à. H CI= 08 norm. HCI-=1 norm. a=0,1200 | a. =0,0319| 39 | 79,55] 0,0098 a=0,1200 | a,=0,0816| 35’ | 87,70] 0,0129 O 12600 |: d, = 1.179 72 | 69,90] 0.0097 9I— 15236010) 0 111:82 60 | 78,83] 0,0180 CAVO e = 2,6051 97 | 65.90] 0@096 co=254600 |a = 29950 | (105. 72,30) /0;0128 di0 d,=0,0881| 202 | 5945| 0.0095 Gi=10) di = 0,0884 valor medio 0,0129 &= 2,0475 ; E=0,0881 valor medio 0,0097 t=1,9988 ; E—0,0884 ka x: È k,= 0.01537 K= = 0,1629 ki = 0,01158 K= 2 — 0,1606 ha = 0,00247 Ri ly = 000188 È, uguale a 0,17, numero notevolmente inferiore a quello che si può calcolare Rknpiconti. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 125 bero (*). — 982 — in base alle celebri esperienze del Berthelot e del Péan de Saint-Gilles (*) e che oscilla, per acidi ed alcooli diversi, intorno a 0,25. Siccome questo fatto legittimava la ipotesi che l'acido cloridrico non esercitasse sul nostro processo una azione esclusivamente catalitica, ci è sembrato opportuno ese- guire alcune delle nostre esperienze operando in guisa da far variare le con- centrazioni dell'acido cloridrico, senza far variare, in modo apprezzabile, nessuno dei fattori dell'equilibrio. I risultati ottenuti in queste esperienze sono raccolti nelle tabelle 1, 11, 12, 13 e 14; da essi appare evidente che la presenza di quantità crescenti di HCI determina sulla costante di equilibrio K variazioni nello stesso senso e del medesimo ordine di grandezza di quelle dovute ai sali neutri prima sperimentati, come è naturale invece, tale presenza fa crescere assai più rapidamente le singole costanti di eterificazione X, e d'idrolisi %»: è inte- ressante notare che ciascuna di queste due costanti cresce più rapidamente delle corrispondenti concentrazioni dell’acido cloridrico; infatti, mentre la normalità di quest’ultimo varia tra 0,2 ed uno, X, varia tra 0,00240 e 0,01537, e /» tra 0,00041 e 0,00247. Ciò evidentemente conferma le vedute di coloro che ritengono essere l'attività catalitica delle molecole indissociate degli acidi forti, più intensa di quella spiegata dallo ione idrogenico li- Allo scopo di conoscere l'influenza esercitata dalla natura chimica del- l'alcool TABEIITA RA: [Hs0]:[C,H;0H]= 2; in assenza di sale neutro. TABELLA 16*. [Hs0]:[C:H;0H]=2; sale neutro: LiCl 2 norm. Numero di mole contenute in 100 cem8 all’inizio t=0 all'equilibrio {= 0% a 0,1200 b=1,0213 a, = 0,0492 di SI 0,9505 c=2,0423 | e =2,1131 d=0 d, = 0,0708 t=2,5460 ; E—= 0,0705 K= fa — 0,817 (') Ann. de chim. et de physique, 65 e 06 (1862) e 68 (1863). (*) H. Goldschmidt, Zetschr. f. Elektrochem., /7, 684 (1911); G Numero di mole contenute X in 100 cem X ‘l'empo in FRI Tempo in a=/ ccm3 > all’inizio all'equilibrio cem? = i=10 48” | 68,15 | 0.00072 a=0,1200 | a' = 0,0364 52” | 64,70| 0,0018 94 | 65,65|0,00071 b=0,9700 | è, = 0,9336 94 | 60,50] 0,0018 2539 59,75 | 0,00065 è = 1,9720 ci =2,0550 | 221 51,05) 0,0018 335 | 56,60|0,00064 d=0 di=0,0836 | 318 | 45,78 | .0,0017 ver estrapo- È 5 7 valor medio 0,0018 Plazione. , + 0,00062 = £=1,7630 ; £=0,083 ki = 0.00092 lia = 0 00050 K=? — 0,198 k,=0,00224 ka = 0,00044 . Bredig, Ztschr. f. Rlektrochem., /8, 535 (1912); C. S. Snethlage, Ztschr. f. Elektrochem., 8, 539 (1912) e Ztsehr. physik. chem., 85, 211 (1913); H. S. Taylor, Ztschr. f. Elektrochem., 20, 201 (1914); J, W. Mae Bain, Journ. chem. Soc. London, /05, 1517 (1914), — 9853 — e, sopra tutto del suo peso molecolare, sul fenomeno che c’ interessa, abbiamo sostituito all’alcool metilico l'alcool etilico. Nelle tabelle 15 e 16 abbiamo appunto raccolto i dati numerici ottenuti in tali esperienze, la normalità del catalizzatore era ancora 0,2; nelle tabelle che seguono abbiamo fatto variare il rapporto molecolare iniziale tra l’acqua e l'alcool, ma abbiamo mantenuto costanti tutte le altre condizioni. A questo punto è necessario avvertire che siccome la differenza /, — #» nella tabella 14 e in tutte quelle che seguono e che corrispondono a misure fatte in assenza di sali neutri, diminuisce TABRILANIN: TABELLA 188. [H,0]:[G.Hs0H]=3; in assenza di sale neutro. [H:0]:[C,H;0H]= 3; sale neutro: LiCi 2 norm. Numero di mole contenute Numero di mole contenute in 100 cem? X in 100 cem8 Da Tempo in EZIo > 7 Tempo in ki ks all’inizio all'equilibrio cem? all’inizio all'equilibrio , CEMS E=0 (=C3 A=HM0) i-=100 Mi=20RI 2009 Ma =(0:0589 583/ | 68,15] 0,00076 A 020002 =10:0458 59’ | 65,10| 0,0017 b=0,8625 | 4, =0,8014| 108 | 65,75 |0,00075 AIDS 075259 OS M6E401 MI0:0 07 e=2,5875 | ci =2,6486| 265 | 60,60|0.00066 CA 8000 Re: 5422465 53100007 di= 0,0611 | 359 | 58,15|0,00065 dE=0 d,=0,0742 | 348 | 48,90] 0,0016 I] coca per estrapo- valor medio 0,0017 2,3937 ; = 0,0611 | lazione... 0,00063 = $=1,6346 ; $=0,0742 k="— 0.292 ki = 000089 K=È - 0182 l, = 0,00208 li leg = 0,00026 lei la = 0,0090038 TaBELLA 19?. TABELLA 20. [Hs0]:[C:H;0H]=4; in assenza di sale neutro. [H,0:C:H;0H]= 4; sale neutro: Li Cl 2 norm. ,1200 | a=0,0662 | 121’ | 66,15|0,00073 = a=0,1200 | a =0,0536 | 57’ | 66,00| 0,018 37447 | dba =0,6909 | 228 | 62,80|0,00071 b=0,7110 | 5:=0,6446 | 132 | 61,25 0,0)17 LO 760 |ai=303188/331 60,15. 0100068 c=2,8430 | ci = 2,9094 | 288 | 55,50 0,0017 d,=0,0588 | 452 | 57,40|0,00067 d=0 d,=0,0664 | 341 | F1,50| 0,0017 ; 474 | 47,60) 0,0017 per estrapo- - mi TSE. sa 3049 ; £=0,0540 | ‘lazione... 0.00066 = T=1,5648 ; £=0,0664 | valor medio 0,0017 lea REISEN ZERI CSR ee — n — K-° — 0280 k,=0 00092 RESSE] ki = 0,00207 k, ka = 0,00026 ki ls — 0,00037 rapidamente, abbiamo calcolato il valore finale da attribuirsi ad essa per estrapolazione; a ciò siamo stati indotti dal fatto che al crescere del tempo essa sembra tendere verso un limite. Non avendo però elementi per mettere in luce la causa di tale diminuzione, così, al valore calcolato per questa via non assegnamo che un significato provvisorio. La normalità della solu- zione di barite impiegata per tutte le misure che seguono alla tabella 15 era 0,1906. — 984 — TaBeLLA 218. [H.0:C,B;0H]= 5; in assenza di sale neutre, TABELLA 222. [O:H]:[CsH;30H]= 5; sale neutro: CaCl, 2 norm. eq. Numero di mole contenute Numero di mole contenute in 100 cem8 X in 100 cem? X Tempo in Te Tempo in a] all’inizio all'equilibrio cems ail’inizio all'equilibrio cem8 =(0) ==.00 ipe=10) fi ="00 a=0.1200 | a, = 0,0724 65’ | 68,50 |0,00079 a=0,1200 | a, = 0,0605 71° | 65.90) 0,0017 = 0,6510 | 24 = 0,6084 | 115 | 66,70 | 0,00078 b=-0,6248 | dj =0,5653 | 122 | 62,61] 0,0017 c = 952560 | er =3:3096 || 292 |62:30:10/00070, c=38;1242 | co = 3.1837.| 24 |\|MA6/30)/20(0017 di=0 d,= 0,0476 | 386 | 60,45 | 0,00068 10 di= 0,0595 | 8371 | 53,20| 0,0016 Der estrapo- A T=2,2724; E=0,0476 | Piazione E. 000068. 5=1,5381 ; £=0,0595 | __ *2l0r medio 0,0017 K-= 0279 k, = 0,00090 Kohai k = 0,00207 ki ks = 0 00025 ka le, = 0,00037 TABELLA 243. TABELLA 28°. [H:0:C,H;0H]= 5; sale neutro: A=107120098MaT=050659 b= 0,5543 b, = 0,5002 Ci-2237200 I c42:82.61 d=0 di= 0,0541 O-1;01s1l 3 E=10/0541 e= di = 0,215 [HCI]= 0.2 norm.; Temperatura 25°; [GH,CO3H]= 0.12 per t=0. Li Cl 2 norm. 77’ | 66.10| 0,0018 128 | 63,25| 0,0018 292 | 56,96| 9.0018 387 | 54,20] 0,0018 valor medio 0 0018 ki, = 0,€0229 k, = 0,00049 [OsH]:[C:Hs0H]= 5; sale neutro: MgCl, 2 norm eq. a=0,1200 | a, = 0,0639 b=0,5698 | d,=0.5187 c = 2,8190 ci = 2,9061 d=0 d,= 0,0561 $ = 1,5236 = 0,0562 k K=-:=-02 K 7 0,201 TABELLA 25àA, 82° | 65,50| 0,0018 182 | 62.58| 9,00183 309 | 55,60| 0,0018 404 | 58,10) 0.0017 valor medio 0 0018 k1= 0,00 225 ka = 0,00045 Concentrazione molari di equilibrio Normalità SO =] à n° [S01:(C,Hx0H]] Ha: DE ka Denti ci bi c, di Li CI i CH,Co.H | C.H,0H| H,0 |CH,C0,C,H; 1 9 0,0492 0,9505 | 2,1131 0,0708 0 0,317 9 2 0,0364 09336 | 2/0550 00836 9 0198 3 3 0,0589 08014 | 26486 00611 0 0.292 4 3 00458 0,7528 | 25542 00742 2 0182 5 4 0,0662 06909 | 300318 00538 0 0.280 6 4 00536 06446 | 279094 00664 2 0,.79 7 5 00724 06034 | 33056 00476 0 0279 8 5 0,0605 05653 | 31837 00595 9 0181 9 7 0,0817 04871 | 877163 0,0383 0 0,280 10 7 00703 04521 | 35692 (0497 9 0,179 1l 8 0,0848 04337 | 378162 00352 0 0,278 12 8 00747 04115 | 377003 00453 9 0183 3 10 00909 03721 | 40410 00291 0 0,288 14 10 00815 03475 | 3’8985 00385 9 0,189 — 985 — Nella tabella che segue sono raccolti i valori che la costante di equi- librio assume sia in assenza di sale neutro che in presenza di una quantità costante di LiCl, quando il rapporto molecolare iniziale tra l'acqua e l'al- cool etilico vada crescendo. Gli altri fattori dell'equilibrio, come pure la concentrazione del catalizzatore, vennero mantenuti invariati. In una prossima Nota, dopo aver esposti nuovi fatti che abbiamo già potuto accertare e che sono necessarî per chiudere la presente ricerca, trar- remo, dalla discussione di tutti gli elementi dei quali saremo così venuti in possesso, la opportuna conclusione. Fisiologia. — /cerche sulla secrezione spermatica. IV: In- fiuenza del riposo sulla secrezione spermatica del cane. Nota del dott. G. AMANTEA ('), presentata dal Socio LUCcIANI. Un argomento fondamentale di studio, all’inizio delle indagini che mi sono proposto di eseguire sulla secrezione spermatica, mi è sembrato quello del rapporto tra quest'ultimo e il riposo sessuale più o meno prolungato. Tenendo conto del numero di spermatozoi eliminato in ciascuna ejaculazione, della quantità totale di sperma raccolto e della durata del coito fittizio, se‘ondo la tecnica da me proposta e descritta precedentemente (*), mi si presentava facile una tale serie di ricerche sul cane. Siccome poi il numero di spermatozoi eliminati rappresenta, entro certi limiti, un criterio di misura del lavoro testicolare; la quantità di liquido ejaculato un criterio di misura del lavoro prostatico soprattutto nel cane, in cui mancano vescichette semi- nali e glandole del Cowper, e intine la durata del coito fittizio un criterio di misura specialmente del lavoro dei centri nervosi per l'erezione e l’eja- culazione; così lo studio dell'argomento accennato mi sarebbe appunto servito a dimostrare il modo come può variare la funzione di tutto il complesso degli organi suddetti col variare del ritmo della loro attività e del loro riposo. Qui mi limiterò solo a riassumere i fatti osservati riportando, a titolo di esempio, sotto forma di tabelle o quadri, alcuni dei protocolli, che ad essi si riferiscono. La discussione e le considerazioni che ne deriverebbero costituiranno l'oggetto di una Nota a parte, che mi propongo di far seguire alla pubblicazione di altra serie analoga di osservazioni sull’ uomo. (') Lavoro eseguito nel Laboratorio di fisiologia della R. Università di Roma, diretto dal prof. L. Luciani. (2) G. Amantea, Atti della R. Acc. dei Lincei, vol. XXIII, ser. 5%, 1° sem., fase. V. au. 1914; ibd., vol. XXIII, ser, 5*, 1° sem., fasc. VI, 1914; Arch. ital. de biol., tom. LXII, pag. 34, an 1914. — 986 — Già ho avuto occasione (') di mettere in rilievo il fatto, che, se si rac- coglie lo sperma di un cane normale dopo un lungo e sicuro periodo di riposo sessuale, e poi si fa una seconda raccolta con un intervallo di tempo oppor- tuno, si può in questa seconda ottenere un numero di spermatozoi di molto superiore a quello della prima; e ho fatto notare come evidentemente la prima ejaculazione deve avere esercitato in tali condizioni un'azione eccitante e trofica sulla funzione del testicolo. In altri termini dopo una spece di asso- pimento funzionale dell'organo per il lungo riposo sessuale, si ha una spece di risveglio funzionale, per l'impulso impresso all'attività spermatogenetica dalla prima ejaculazione. Di questo fatto che era stato in precedenza dal Lode (*), più che dimostrato, intuito, giacchè le sue poche osservazioni e la sua tecnica non rigorosa (come si desume anche dalle cifre troppo basse che egli riferisce, relativamente al volume dello sperma raccolto e al numero degli spermatozoi) non potevano permettere una sicura e vera dimostrazione; di questo fatto, ripeto, ho già dato chiari esempî. Qui ora credo opportuno integrarli con altri ancora in una tabella più completa (vedi Tabella I), dalla quale risulta anche come all'aumento del numero degli spermatozoi può accompagnarsi aumento, o, più spesso, diminuzione della quantità di sperma eliminato; mentre la durata del coito fittizio generalmente si pro- lunga alquanto. Una sufficiente esperienza mi ha tuttavia oramai insegnato, che il fenomeno da me prima ritenuto costante, tale non si può affermare in modo assoluto; non si può essere sempre sicuri di sorprendere il testi- colo in quel grado di assopimento funzionale, quale può avvenire solo dopo un periodo sufficientemente lungo di riposo sessuale completo, e quale è neces- sario per osservare netto il fenomeno dell’accennato risveglio funzionale con- secutivo. Se invece di tener conto, come sopra, solo delle due prime raccolte di sperma, si considerano più ejaculazioni successive, provocate in uno stesso cane mantenuto in condizioni presso a poco uniformi, e distanziate l’ una dall'altra da intervalli di riposo variabili, i risultati variano soprattutto a seconda dell'animale, e a seconda del restauro più o meno completo, che si concede agli organi funzionanti tra le varie ejaculazioni. (1) G. Amantea, loc. cit. (*) Lode, Pfliger*s Archif. Bd. L., pag. 278, an. 1891. — 987 — TABELLA I. Durata = Quantità Cane Data della ricerca | del ua fittizio dello sperma Numero l minuti primi in cc. degli spermatozoi 1 15 novembre 1913 - ore 19,45 1ò 4,4 208.080.000 ” DOT ” ” MiA 14 Dio 572 400 000 (dopo ser g‘orni) 2 18 novembre 1913 - ore 16,30 8 TESI 93 170.000 D) 20 » D) » 16,30 DI 15 825.500.000 (dopo due giorni) 3 10 novembre 1918 - ore 11 O) 83 444.00.000 » 29 » D) » 10 10 4,9 189.200.000 (dopo dodici giorni) 4 3 gennaio 1914 - ore 16,10 ll 6,3 211.680.000 D) 5 » D) » 12,10 12 4,3 450.210.000 (dopo dod:ci giorni) 5) 18 gennaio 1914 - ore 12 11 5 110.000.000 b) Dl ” D) Slo 19 5,8 263.320 000 (dopo fre giorni) 6 28 febbraio 1914 - ore 18 16 16 164.800.000 ” 4 Marzo ”» » 16.34 S 12,9 260.580.000 (dopo quattro giorni) 7 23 maggio 1914 - ore 9,30 7 1,8 190.800.000 ” Db » ” a it 1,2 199.200 000 (dopo due giorni) 8 29 maggio 1914 - ore 10,20 18 64 217.600.000 ù 3 giugno Ù » 15 17 6,1 252.060.000 (dopo eaigque giorni) 9 9 novembre 1914 - ore 18 ( 12,4 23.560.000 ” 14 ” ” ee iZAlo D9 9,8 49.294.000 (dopo cingue giorni) 10 16 gennaio 1915 - ore 14 7 1,7 94.690.000 » 23 ” ” » 19 7 1,7 356.520.000 (dopo sel/e giorni) ul 6 febbraio 1915 - ore 11,45 7 REI 385.280.000 D) 17 » ”» » 10 ti 8,8 1.210.920.000 (dopo undici giorni) 12 23 febbraio 1915 - ore 12,30 14 7 26.950.000 » 26 ” ”» » 13 IL; 6,9 112.470.000 (dopo (re giorni) ‘Esempî del modo come può aumentare il numero degli spermatozoi, quando si ese- guono due raccolte successive di sperma, partendo da un riposo sessuale prolungato, e intercalando tra la prima e la seconda un intervallo da due a dodici giorni. — 988 — In qualsiasi esperienza si voglia istituire sulla secrezione spermatica del cane, è necessario tener conto anzitutto dell'eventuale influenza del fattore individuale: una stessa esperienza non decorre perfettamente nella stessa maniera su animali diversi; e ciò per un complesso di motivi che non è possibile considerare in modo esatto, e che, dovuti in parte all'età, in parte alle precedenti e attuali condizioni di vita, in parte a variabili rapporti o correlazioni nervose e umorali, ecc., si sommano in quello che con espres- sione unica si può indicare come fattore individuale. Fissata dunque l'importanza di quest'ultimo, ecco in breve ciò che è possibile in generale osservare, quando sì eseguano, come ho detto, su uno stesso animale più raccolte successive di sperma a varî iutervalli: Quando lo sperma si raccoglie parecchie volle successivamente in una stessa giornata a intervalli regolari, il numero di spermatozoi eliminati si vede degradare, in maniera più o meno rapida a seconda dell'animale, fino ad arrivarsi anche a una perfetta azo0ospermia; parallelamente, ma non nella stessa misura, si vede pure diminuire il volume del liquido ejaculato (talora si può persino giungere all'aspermatismo), e accorciarsi la durata del coito fittizio, il quale l’animale compie sempre meno attivamente. In altri termini si ha un progressivo esaurimento delle attività sessuali, centrali e perife- riche. Quando poi in una stessa giornata si fanno più raccolte a 7r/ervalli ‘irregolari, allora, pur avendosi anche qui un esaurimento progressivo, tut- tavia si vede che esso non precipita rapidamente verso il massimo grado, ma si stabilisce attraversando talora qualche pausa o ripresa, in coincidenza con i periodi, in cui si concede un più lungo restauro. La Tabella II for- nisce appunto un esempio del modo come può decorrere la secrezione sper- matica in un cane, in cui si facciano più raccolte successive nella stessa giornata. TaBELLA II. Durata Quantità È Data gl ricerca del Sono fittizio dell Seperma Numero i minuti primi in cc. degli spermatozoi 23 maggio 1914 - ore 9,80 TI 1,8 190.800.000 25 ” n° 12 7 | 1,2 199.200.000 ” ” ” 13 4 0,4 86.400.000 ” ”» ” n 14 2 Una goccia Scarsi da non potersi contare 206 ” » » 11 7 ] 104.000.000 » » » »” 12,90 Di 0,2 36 800 000 ” » ” SALLI5 . 21 0,2 49.800.000 ” » » » 16,9 2 0,2 10.720.000 27 ” ” ”» 9,30 6 0,6 88.000.000 » ”» DI) neli3:30 d 0,2 8.320.000 » » ”» » L5 3) 0,1 Assenti Esempio del modo come può variare la secrezione spermatica, qualora si provochino più ejaculazioni successive in uno stesso cane e nella stessa giornata. — 989 — Provocando ejaculazioni quotidiane, oppure a giorni alterni, di regola il numero di spermatozoi, dopo una diminuzione iniziale più o meno mar- cata, presenta oscillazioni più o meno ampie intorno ad una cifra media sempre inferiore a quella iniziale, ossia a quella media delle due o tre prime raccolte; un comportamento analogo può presentare anche la quantità di liquido ejaculato, mentre la durata del coito fittizio presenta in genere una costanza relativamente maggiore. L'animale inoltre compie il coito fit- tizio sempre meno attivamente. Qualche volta si può arrivare a un vero esaurimento. Dopo una serie di raccolte quotidiane o a giorni alterni, facendo va- riare il riposo nel senso di prolungarlo, si può osservare un aumento nel- l'eliminazione di spermatozoi, che oscilla allora intorno ad una cifra media più alta della precedente. Le Tabelle III e V dànno un esempio vrispetti- vamente del decorso della secrezione spermatica per raccolte quotidiane o per raccolte a giorni alterni. Eccezionalmente però può osservarsi anche per cinque o sei raccolte successive costanza, ovvero addirittura aumento della quantità di sperma, come risulta dal caso riferito nella Tabella IV. Se le raccolte quotidiane o più specialmente quelle a giorni alternati, si iniziano partendo da un periodo di riposo sessuale sufficientemente lungo dell'animale, si può anche osservare un aumento iniziale più o meno rile- vante nell’eliminazione degli spermatozoi, al quale poi succede diminuzione con oscillazione delle cifre successive intorno a una cifra media variabile sopratutto col variare dell'animale e del restauro (di uno, rispettivamente di due giorni). lenpIcoNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 126 — ‘990°= TABELLA III. gilivih nh tali ie 7 del io SUanta Numero Data della ricerca in dello sperma n Ù minuti primi in cc. Corteno too] 4 dicembre 1914 - ore 15 18 11,6 135 720.000 5 ” ” » 15 18 10 128.000.000 6 È) ” » 16 15 9,4 52.640.000 7 ” ” gallo 19 10,5 66.150.000 8 ” ” » 17,30 16 10,8 55.080.000 4) ” ” n 16 18 10,5 84.000.000 10 ” ” » 18,30 AIA 12,1 59 290.000 TIME TAGTOTASTE 17 10,1 29.290.000 12 ” ) » 13,45 17 8,1 15.390 000 13 È) 9 » 18 20 8,4 51.240.000 14 ” ” » 12 20 6,5 39 000.000 15 ” ” » 18 16 5,8 5.800.000 16 ” ” » 18,30 ig 9,7 21.340.000 17 ” D) » 16,15 18 10,4 6.240 000 18 ” » 16 20 8,3 83.830.000 Esempio del modo come può decorrere la secrezione spermatica qualora si esegua su uno stesso cane una raccolta di sperma quotidianamente. TABELLA IV. 15 febbraio 1915 - ore 15,30 9 4,9 660.480.000 16 ” ” » 17,45 8 4,3 650.740.000 147} ” ” » 15 7 44 454.080.000 18 ” D) » 20.15 8 6 690.000.000 19 ” ” » 18,45 8 4,9 309.680.000 20 ” ” 9 4,6 388.560.000 » 17,50 | Altro esempio di ejaculazione quotidiana dello sperma in uno stesso cane. TABELLA V. 15 gennaio 1914 - ore 12,10 12 4,9 450.210.000 J » D) » 12,30 12 4,1 126.280.000 19 » ” mi 12190 11 DZ 208.320.000 21 b) ” » 12 16) 9,2 102.080.000 23 ” È) » 12,15 11 3.3 147.180.000 25 » ” » 13 12 | 2,6 125.840.000 27 ” D) » 14,30 10 | 2,6 124 580.000 29 » ” » 12,30 14 2,7 155.340.000 Sl È) ” » 15,90 15 1;7 52.870.000 2 febbraio » n 15,50 14 2;1 189.840 000 4 ” ” CO 6 9 2 133.200.000 6 ” Dj sii 1l 1,9 40.660.000 8 » » ” 3 9 1,8 288.000 000 10 ” ” » 18 12 2.7 132.030.000 12 ” D) 3 5 0,7 52.500.000 Si continua intercalando due giorni di riposo: 15 febbraio 1914 - ore 12,80 8 i 253.640.000 $ ‘ 237.400.000 18 ” ”» » 183,15 12 2 i 170.040.000 21 ” ” Net 2515 8 2,6 È o 279.840 000 24 n » » 13,10 9 24 178.800.000 CART. ITA 9 dé 212 100.000 2 marzo ” n LIB) | 9 3 .100. Esempio di raccolta dello sperma a giorni alterni, e poi con intervalli di tre giorni, su uno stesso cane. — 991 — Se si intercala fra l'una raccolta e l’altra un drtervallo di tre giorni (ved. Tabella VI) si può assistere a un aumento progressivo del numero totale degli spermatozoi eliminati in ciascuna ejaculazione, fino a un limite variabile da cane a cane e che può essere anche il limite massimo rag- giungibile, intorno al quale poi oscillano le cifre successive; la quantità di sperma e la durata del coito fittizio si comportano presso a poco come nei casi precedenti (raccolta quotidiana e a giorni alterni). Un risultato analogo a questo si ottiene di solito entercalando un riposo di 4, di 5 e di 6 giorni. Con intervalli di sette a dieci giorni ho potuto osservare in generale spiccata tendenza a una minore variabilità sia della quantità di liquido eli- minato, sia della durata del coito fittizio, mentre per il numero di sperma- tozoì si può osservare ancora l'aumento progressivo come sopra. Raccolte eseguite con intervalli superiori ai 10 giorni fanno rilevare non solo una relativa costanza nella quantità di sperma e nella durata del coito fittizio, ma anche una variabilità sempre minore nell'eliminazione degli spermatozoi. TABELLA VI. 3 del nin Ì Quantita Numero Data della ricerca în | dello sperma o: 3 | minuti primi in ce. Ton 18 gennaio 1914 - ore 12 bl 5 110.000.000 21 ” ” n 12,50 19 5,8 265 320.000 24 ” » » 13 16 5,2 432.640.000 27 ” ” RIO 15 4,1 354.240.000 30 “ ” » 13,50 15 4,6 361.560.000 2 febbraio > » 15 20 2,7 122.750.000 5 È) È) » 11,45 15, id 515.240.000 8 ” n 13,30 12 3,6 486.000.000 1l ” 13 16 2,8 211.960.000 14 ” ” 18 19 3,9 807.450 000 17 » ” 13:90 16 2,5 266.500.000 20 ” » » 13,45 16 1,6 345.600.000 Esempio di raccolta dello sperma con intervalli di tre giorni su uno stesso cane. In fine si può ammettere che un riposo sessuale di oltre 15 giorni sia capace per solito di avviare il testicolo verso quello stato di assopimento funzionale, su cui sopra ho insistito. Sempre però qualora si sia avuta cura di tenere l’animale in esperimento lontano da ogni sorgente di eccitamenti sessuali, e possibilmente addirittura isolato. Riassumendo si può dire quindi, che, dopo un previo riposo sessuale sufficientemente lungo, è possibile, provocando una serie di ejaculazioni suc- cessive, o mantenere l'eliminazione degli spermatozoi nel cane pressochè uni- — 992 — forme (ejaculazioni con intervalli di oltre dieci giorni), oppure modificarla, nel senso di avviarla a un rapido esaurimento (più ejaculazioni successive nella stessa giornata), o nel senso di un esaurimento graduale e assai ritar- dato, o di una semplice diminuzione (ejaculazioni quotidiane o a giorni al- terni), ovvero nel senso di esaltarla fino ad ottenere anche il massimo di attività (ejaculazioni ogni 3-10 giorni); e ciò facendo variare una sola con- dizione: il periodo concesso al restauro testicolare. Nella stessa maniera può diminuire più o meno la quantità complessiva dell’ejaculato, o mantenersi pressochè costante, col corrispondente variare del restauro concesso alla pro- stata. In fine può anche diminuire più o meno la durata del coito fittizio, e quindi dell'erezione e dell'ejaculazione, o mantenersi pressochè costante, & seconda che si concede un riposo e un restauro più o meno lungo ai centri sessuali. Fin qui l'esposizione dei fenomeni osservati: la discussione di essi, come ho detto, mi propongo di farla in una prossima Nota, dopo avere esposto altre osservazioni eseguite sulla secrezione spermatica dell’uomo. Dirò allora, come in base al complesso dei fatti trovati possa intendersi il normale decorso della funzione del testicolo, come la capacità del testicolo al lavoro e il suo esaurimento, tenendo anche conto della funzione delle glandole accessorie (prostata soprattutto), e dell'attività dei centri nervosi. Fisiologia. — Sull’adattamento degli anfibi all'ambiente liquido esterno mediante la regolazione della pressione osmotica dei loro liquidi interni. VI: Importanza dei sacchi linfatici. Nota di BruNO BRUNACCI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Nelle esperienze riferite precedentemente ho sempre fatto notare la presenza o l'assenza della linfa nei sacchi linfatici delle rane esculente estive immerse per un periodo di tempo più o meno lungo nelle varie soluzioni Ringer o tenute in acqua dolce. Si è visto infatti che, mentre nelle rane tenute in acqua dolce corrente o in acqua distillata non si notava alcun accumulo di linfa nei sacchi linfatici; in quelle, invece, che erano state nelle soluzioni Ringer diversamente concentrate se ne poteva constatare una quan- tità più o meno abbondante. Si è inoltre rilevato come tale accumulo di linfa avvenga sino ‘dalle prime ore, si mantenga in notevole quantità durante i primi otto dieci giorni per andare poi gradatamente diminuendo sino a scomparire del tutto. Con la diminuzione della linfa, accumulata nell'interno dei sacchi coin- cide, come si è visto, l'accumulo dell'orina nell'interno della vescica e l'inizio dell’eliminazione della medesima nel liquido ambiente. SERGI Da tutte queste osservazioni risultava già evidente la importanza dei sacchi linfatici nella regolazione osmotica delle rane esculente estive. Ho creduto perciò opportuno eseguire delle esperienze per constatare quei fenomeni che si sarebbero verificati, dopo l'apertura dei più estesi sacchi linfatici del tronco, sia nelle rane immerse in soluzione Ringer ipertonica (A), sia in quelle immerse in acqua dolce corrente, dopo essersi adattate all'am- biente salino ipertonico (B). Relativamente al primo ordine di esperienze, cioè a quelle, che si rife - rivano allo studio dell'importanza dei sacchi linfatici per l'adattamento alle soluzioni concentrate, esse furono divise in due serie: In primo luogo (I) cioè, si sono aperti i sacchi linfatici a rane, che avevano già soggiornato per alcuni giorni nel liquido ipertonico e che vi si erano quindi adattate, lasciandole poi in detto liquido. In secondo luogo (II) sono stati aperti i sacchi linfatici a rane, che avevano prima soggiornato in acqua dolce, nel momento nel quale veni- vano immerse nella soluzione salina concentrata. Tanto la prima serie di esperienze quanto la seconda sono state inoltre suddivise in fre gruppi; e precisamente in un primo gruppo (a) nel quale venivano aperti soltanto i sacchi linfatici laterali ; in un secondo gruppo (b) nel quale si aprivano soltanto ì sacchi cranio-dorsale e addominale: in un terzo gruppo (c), intine, nel quale venivano aperti tutti i suddetti sacchi linfatici. La divisione del primo ordine di esperienze nelle serie su riferite, è stata fatta per vedere se l'adattamento già avvenuto alle soluzioni saline ipertoniche avesse conferito all'animale una maggiore resistenza di fronte alle soluzioni medesime allorchè fossero stati aperti ad esso i sacchi linfatici. In tutte le esperienze l'apertura di questi ultimi fu poi, come si disse, parziale o totale, per constatare quali tra essi avessero avuto maggiore im- portanza tanto più in quanto si era sempre osservato come l'accumulo di linfa avesse luogo sopra tutto in quelli laterali. Tuttavia si comprende come ai risultati sperimentali non si dovesse assegnare sotto questo riguardo un valore assoluto, date le comunicazioni esistenti tra il sacco cranio-dorsale e quelli laterali e tra questi ultimi e quello addominale, attraverso i rispettivi ostia septi dorsalis et abdominalis, e considerate anche le comunicazioni esistenti tra ì varî sacchi linfatici. L'apertura dei sacchi linfatici era fatta per mezzo di un paio di for- bici a punte sottili con le quali si praticava una piccola asola nelle corri- spettive regioni della cute. — 994 — I risultati sperimentali sono stati i seguenti: TABELLA I. A. I) Rane esculente estive adattate all'ambiente ipertonico aperti i sacchi linfatici e rimesse nell'ambiente ipertonico. Dig. Sacchi lin- x Numero | Sacchi iin- | fatici eranio- Pala Fr Numero e data Rane fatici dorsalele Durata in vita Osservazioni laterali addominale | 1 Agosto 1911 5 aperti — quattro giorni Soluzione Ringer contenente ) »| 5 — aperti |quattordici giorni il 10°/00 di NaCl + gli altri 7) 5 aperti aperti quattro giorni sali in proporzione. Temp. | ambiente 12°-13° C. ) » 15 —_ _ —_ Dopo 336 ore tutte vive. 2 Settem. » | 7 aperti - tre giorni ” ” 7 — aperti sette giorni | ” ) 7 aperti aperti tre giorni ” ) 21 —_ _ = Dopo 7 giorni tutte vive. A. II) Rane esculente estive normali messe in ambiente ipertonico subito dopo avere aperti i sacchi linfatici. 1 Asosto 1911 5) ” ” 5 ; ” 5 L) » | 15 2 Settem. » T{ | i Di 7 ” D) 7A ” DI) 2] aperti aperti — due giorni aperti tre giorni aperti due giorni _ tre giorni aperti quattro giorni aperti tre giorni TABELLA II. | Soluzione Ringer contenente il 10°/00 di NaCl + gli altri sali in proporzione. Temp. ambiente 12°13° C. Dopo 3 giorni tutte vive. Dopo 4 giorni tutte vive. B. Rane esculente estive adattate all'ambiente ipertonico (sacchi linfatici pieni di linfa): apertura dei sacchi e immersione in acqua dolce corrente. 1 Agosto 1911 5 bo) DD) 5) ” ” DI ” ” 15 2 Settem. » 5 b} ” 1) ”» ” 5 ” ” 15 aperti aperti aperti aperti aperti aperti Dopo 20 giorni tutte vive. Dopo 15 giorni tutte vive. » » »” Tanto nelle rane morte in seguito all'apertura degli uni o degli altri sacchi linfatici, quanto in quelle che ancora resistevano in vita, si nota- — 995 — vano emorragie cutanee così diffuse che la pelle in alcuni punti ne era dive- nuta rossa, soprattutto quella delimitante all’esterno i sacchi linfatici laterali. All’autopsia si osservavano sempre oltre alle emorragie cutanee, emorragie diffuse anche nei muscoli; nella muccosa della cavità orale, in quelle dello stomaco e dell'intestino; e più o meno accentuate anche nel rene e negli altri organi interni. Il cuore poi si trovava sempre arrestato in diastole. Dai risultati ottenuti si può dunque concludere che l'integrità di tutti i sacchi linfatici esaminati è necessaria perchè le rane immerse in soluzioni saline ipertoniche si mantengano in vita. Si è constatato pertanto che quelli laterali sono più importanti di quelli cranio-dorsale e addominale; infatti le rane alle quali erano stati aperti i primi vivevano meno di quelle alle quali sì erano aperti i secondi. Ciò coincideva col fenomeno già notato che durante l'adattamento sono precisamente i sacchi linfatici laterali quelli, che più degli altri, si riempiono di linfa. La loro importanza si rende più manifesta negli animali che dall am- biente normale passano all’ipertonico anzichè in quelli già adattati a que- st ultimo ambiente. Per quanto riguarda le rane. che dall'ambiente salino venivano immerse nell'acqua dolce si è osservato che l'apertura dei sacchi linfatici non recava alcun danno, almeno nei limiti di durata delle osservazioni (20 giorni). Volendo ricercare le ragioni per le quali i sacchi linfatici laterali si mostrino più importanti degli altri, devesi in primo luogo escludere che ciò sia in rapporto con una maggiore superficie sottocutanea assorbente, poichè i due sacchi linfatici laterali sono certo meno estesi del cranio-dorsale e del- l’addominale uniti insieme. La vicinanza di spazi linfatici più importanti (spatium inquinale?), o una maggiore vascolarizzazione (arteria e vena cutanea magna), o forse anche un'attività secretoria maggiore dell’endotelio dei sacchi stessi potrebbero fornirci la ragione di ciò. Patologia. — Su: trapianti del timo. Nota preventiva per il dott. FRANCESCO FuLciI, presentata dal Socio E. MARCHIAFAVA. La possibilità di ottenere, mediante trapianti, l’attecchimento e la so- pravvivenza del tessuto timico, ha determinato, nel volgere di pochi anni, una serie di ricerche, le quali sono state soprattutto guidate dalla speranza di poter riuscire, con esiti fortunati, ad evitare i danni di una mancante o insufficiente funzione specifica od a studiare gli effetti di una ipertimizza- zione sperimentale. Già sin dal 1896 Abelous e Billard avevano fatto tentativi d’ innesto. Essi avevano osservato che, impiantando nelle rane sotto la pelle del dorso il timo « aussitòt après l’ablation » non si otteneva già un prolungamento — 996 — della vita, ma solo una più lenta decolorazione della loro pelle, rispetto ai controlli. Inoltre Abelous e Billard affermavano che in una rana, la quale cominciava a decolorarsi, per effetto della timectomia, si può far ricompa- rire la colorazione primitiva, introducendo sotto la sua pelle del dorso « le thymus qu'on vient d’enlever ». Però questi autori aggiungono che « au bout de quelques jours l’animal se redécolore; une nouvelle insertion de thymus fait reparaître la couleur primitive ». Non risulta che Abelous e Billard abbiano fatto delle ricerche istolo- giche; ma già da questa loro esposizione apparrebbe la transitorietà del trapianto stesso. Parecchi anni trascorsero senza che di trapianti timici si fosse più parlato. i Solo nel 1903 il Sinnhuber riprende lo studio della questione, con una serie, molto limitata, di ricerche (2 cani soltanto), nelle quali manca anche il sussidio dell'esame istologico. Le successive indagini di Fischl (1904), Mitniskaia (1905), Grimani (1905). Sommer e Floerken (1908), Charrin e Ostrowski (1908), Valtorta (1909), Ranzi e Tandler (1909), Hart e Nordmann (1910), Klose e Vogt (1910), Scalone(1910), Gebele (191061911), Dustin (1911), von Basch (1912), Birscher (1912), Bayer (1912), Nordmann (1914), Klose (1914) ete. hanno determinato notevole differenza di risultati e quindi di opinioni, le quali, in gran parte almeno, possono stare anche in rapporto con la relativa defi- cienza 0 la mancanza completa dei singoli esami istologici. Spinto da queste considerazioni, ho voluto perciò anch'io occuparmi dei trapianti del timo, sia per formarmi un'idea chiara della biologia di essi, sia per avere in queste esperienze (nel caso di esito positivo di esse) quasi un mezzo di controllo alle esperienze, da me già fatte, sulla rigenerazione del timo stesso. Gli animali da me adoperati furono sempre i conigli, del peso varia- bile da 1200 a 2000 gr. ed anche di più. L'esito fortunato in questi anì- mali adulti avrebbe avuto certamente significato anche per quelli più gio- vani. L'esperienze furono anzitutto distinte in quattro gruppi, a seconda che furono praticati reimpianti, auto-, omo - o eterotrapianti. Ogni gruppo di ricerche venne suddiviso in varie serie, a seconda delle modalità dell'esperienza stessa, della durata in vita degli animali etc. * IO Stabilito con le esperienze fatte nella prima serie del primo gruppo, gli effetti della disturbata nutrizione per trazione meccanica (senza interru- zione dei grossi vasi) sul tessuto timico, si passò con l'esperienze della seconda serie a studiare gli effetti del reimpianto del timo nella regione — 997 — del mediastino anteriore stesso. Queste esperienze, ed in parte anche le pre- cedenti, permisero anzitutto di rilevare la presenza di masse di cromatina, le quali erano passate dall'interno dei lobuli, in via di necrosi, negli spazi linfatici del connettivo interlobulare ed in parte anche nei vasi linfatici peri- vascolari, quasi cromatina fluida, che poteva, in certo modo, servirci ad indicare le vie normali di efflusso del tessuto timico stesso. Già da queste prime esperienze la possibilità della coesistenza di processi necrotici e rige- nerativi del tessuto timico veniva assodata, Nella terza serie furono ripetute, a maggior conferma, l’esperienze pre- cedenti, che dimostrarono, in maniera indiscutibile, il possibile esito fortu- nato di queste indagini, anche in animali già adulti. Il meccanismo rige- nerativo del timo non differiva nei suoi quattro stati fondamentali (epiteliale, invertito, linfoide e normale) da quello da me in altri lavori precedenti osservato e descritto, per cui ogni ripetizione ne sarebbe superflua. Anche in queste esperienze è stato confermato il procedere relativamente rapido del processo rigenerativo, per cui ad. es. un periodo di tempo esteso dal 18 luglio all'8 settembre 1913 è stato sufficiente, perchè tutti gli stati fon- damentali descritti nella rigenerazione si succedessero sino alla ricostituzione completa dell’organo. * x x Non meno fortunate riuscirono, in genere, le esperienze del 2° gruppo (auto-trapianti), le quali furono distinte in tre serie, a seconda della durata in esperimento degli animali stessi, ai quali si tentò costantemente di estir- pare completamente il proprio timo, per rendere più facile l'attecchimento dell'innesto. Questo venne fatto nel connettivo lasso sottocutaneo del dorso. La rigenerazione del timo, che si verifica in questi animali, malgrado che in qualcuno di essi (ad es. N. 146 di proto collo) la timectomia fosse stata incompleta, s’ inizia fondalmente con gli stessi elementi e prosegue con le stesse modalità già note. Essa sembra tuttavia svolgersi con una certa difficoltà nel tessuto lasso sottocutaneo della regione laterale del dorso. Pur non di meno. sì è arrivati sovente a constatare l'organo relativamente bene sviluppato, con corpi di Hassal neoformati, sebbene la sostanza midollare fosse relativamente poco ampia. All’intorno delle trabecole epiteliali rigeneratrici dell'organo, non è raro constatare la presenza di qualche cellula gigante del tipo di quelle da corpi estranei. Piuttosto abbondante è stata la quantità di P/asmazellen osservate, e specialmente attorno ai vasi sanguigni; relativamente scarsa è stata quella degli elementi eosinofili. La presenza di tipiche Degenerationszellen è stato alquanto difficile ad osservarsi; in questi casi si notò piuttosto la presenza di carat- teristiche cellule fagocitarie, cariche di lipoidi ed anche di eteri colesteri- nici, le quali ricordavano ie così dette Schaumzellen, o Pseudoxrantomaellen (Aschoff). RenpIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. IIZITA — 998 — Le Mutterzellen timiche stesse avevano sovente nucleo più piccolo dell’or- dinario, più scuro, nucleolo poco distinto e protoplasma più stretto, poco più intensamente colorato. Con la rigenerazione, l'organo trapiantato sembra riacquistare la sua funzione specifica ed in parte anche i rapporti biologici con i vari altri organi a secrezione interna, come dimostra lo stato di questi in rapporto a quelli dei controlli ('). Solo in qualche caso l’autoinnesto ha avuto risultato negativo (ad esempio coniglio N. 212 di protocollo). * x x Esito completamente negativo ebbero le esperienze del terzo gruppo (omotrapianti), sia che gli innesti fossero stati fatti su animali già timecto- mizzati, e con timi provenienti da coniglio morto gia da 24 ore (14 serie); o con timi freschissimi di animali della stessa cucciolata (serie 2* e 34). Nella 4* serie, malgrado gl'insuccessi precedenti. volli estirpare a due animali (N. 137 e 138 di protocollo) completamente il proprio timo, ed innestai loro nel sottocutaneo della regione laterale del dorso rispettivamente parte del timo, già ridotto con le forbici in piccoli frammenti, il quale pro- veniva da un altro coniglio, che da sette giorni era stato trattato con inie- zioni endovenose di carminio litio, per ottenerne una buona colorazione vitale. Nel caso di esito fortunato queste ricerche avrebbero avuto importanza, per la determinazione della genesi dei singoli elementi, che contribuiscono alla costituzione dei lobuli timici. Partendo inoltre dal concetto che negli autotrapianti lo sviluppo di essi era più rigoglioso e più rapido nei reimpianti dell'organo nel mediastino che negli auto-trapianti di esso nella regione del dorso, ho tentato nella 54 serie di esperienze di praticare omotrapianti, innestando il timo nella regione del mediastino anteriore stesso, dopo di aver operato l’animale di timectomia completa. Per potere in questi casi nettamente differenziare una eventuale proliferazione del timo innestato (omotimo) da quella di qualche frammento timico, involontariamente lasciato nella timectomia preventiva, mi sono servito in questi casi per i trapianti di timi di animali della stessa cucciolata, precedentemente colorati vitalmente con. carminio. In questi casi la presenza dei granuli del carminio nei frammenti ti- mici trapiantati, sarebbe bastata a differenziare questi da quelli incidental- mente rimasti, e quindi rigeneratisi, nel mediastino stesso dell'animale. Ad uno di questi animali ho inoltre innestato, sotto la pelle del dorso, parte del proprio timo, per potermene servire come di controllo rispetto all’omotimo. (*) Su ciò mi riserbo in seguito di discutere. — 999 — L'esame macro e microscopico ha permesso in questi casi di rilevare che l’omotrapianto cadeva costantemente in necrosi (la quale era più o meno estesa a seconda del tempo decorso dall'atto operativo) senza mani- festare attivita rigenerativa alcuna; mentre l’autotrapianto invece nel caso speciale (serie 5) aveva attecchito e progredito nel suo sviluppo. Attorno a questi omotrapianti si è, con notevole frequenza, constatato, oltre alla presenza di plamacellule, situate specialmente in vicinanza dei vasi sanguigni, la presenza di tipiche cellule giganti da corpi estranei, di volume talora anche notevole e con nuclei numerosi (20-30 ed anche più). Non sì notarono mai vere e proprie Degenerationszellen: le cellule eosino- file furono piuttosto scarse. Dopo circa un mese la necrosi ed il riassorbi- mento dell'organo innestato erano quasi complete e solo poche tracce di esso residuavano. Pupi Malgrado gli esiti costantemente negativi, ottenuti negli omotrapianti, anche se tentati tra animali della stessa cucciolata, volli tuttavia nel 4° gruppo provare gli eterotrapianti, servendomi del timo di due cagnolini che, fre. schissimo, fu innestato, dopo essere stato ridotto in piccoli frammenti, nel cellulare sottocutaneo della regione lalerale destra del dorso di quattro co- nigli, del peso variabile dai 1200 ai 1450 gr. Questi animali. erano stati, precedentemente all'innesto, completamente timectomizzati, nella speranza di potere con ciò influire sulla migliore riuscita dell'esperimento stesso. Di questi quattro animali uno fu ucciso dopo dieci giorni, gli altri furono man- tenuti in vita sino ad un massimo di 50 giorni. In tutti furono costanti i processi regressivi dell'organo innestato, nel quale mai sì constatarono feno- meni rigenerativi. Nell'’animale ucciso per ultimo il tessuto timico trapiantato era quasi completamente scomparso e solo il residuo di una vivace reazione organica con cellule giganti ancora numerose, Plasmazellen abbondanti, vasi sanguigni neoformati etc. rendeva evidente il punto in cui l'innesto era stato prati- cato. Ritenni inutile ripetere l’esperienze, data la concordanza dei risultati ottenuti, che non ammettevano dubbi e la loro coincidenza con quelli. nel gruppo precedente, osservati e descritti. gi Io mi riserbo di parlare in seguito più estesamente di queste esperienze, specialmente dal punto di vista del loro significato biologico generale, ma intanto, volendo riassumere quanto essenzialmente risulta dalla serie delle mie indagini, si può dire che: 7 reimpianto del tessuto timico nel media- stino anteriore dei conigli dà risultato positivo e la rigenerazione com- pleta dell’organo, la quale segue alla necrosi di esso, può verificarsi anche in animali adulti ed in un periodo di tempo relativamente breve, secondo — 1000 — il meccanismo da me già indicato e percorrendo i quattro stadi fon- damentali già descritti. Anche l’autotrapianto può dare risultati positivi, sebbene la rigenerazione dell'organo, nel connettivo lasso sottocutaneo della regione laterale del dorso, sembri compiersi con una certa difficoltà. Tut- tavia in qualche caso può anche aversi esito negativo. Dai numerosi risultati positivi ottenuti vengono essenzialmente confer- mati i fatti, già da me affermati, che cioè ta comparsa delle piccole cel- lule rotonde del timo, è affatto indipendente da una eventuale immigrazione di elementi linfoidi dall'esterno. Essa avviene indubbiamente per successive modificazioni delle cellule epitelliali, che prime compaiono nella rigene- razione dell'organo, le cosidette Mutterzellen. La produzione dei timolin- fociti si compie quindi, în situ, per una fisiologica differenziazione delle Mutterzellen stesse. La formazione del midollo e quindi dei corpi di Hassal segue alla comparsa delle piccole cellule rotonde e quindi allo stadio linfoide;essasi verifica per ulteriori modificazioni delle piccole cellule rotonde stesse. La formazione del reticolo, che è di natura connettivale, avviene contemporaneamente, ma indipendentemente, da quella del parenchima. Il timo rigeneratosi nel trapianto é un organo funzionante. L'omotrapianto è seguito da risultati negativi e la rigenerazione dell'organo non avviene, anche negli animali che in precedenza erano stati completamente timectomizzati, anche se si adoperano, per l' innesto, timi freschissimi di animali della stessa cucciolata e se si fa l'innesto nella regione del mediastino anteriore stesso. L’eterotrapianto dà anch'esso risultati negativi. La comparsa di grossi elementi mononucleati fagocitarii, del tipo delle così dette Schaumzellen e di numerose cellule giganti da corpi estranei accompagna, quasi costantemente, il riassorbimento del tessuto timico, omogeo 0 eterogeneo, trapiantato. LAVORI RICORDATI. Abelous et Billard, Compt. rend. de la Soc. de biologie. Paris, 1896, pag. 808. Bayor, Beitrige z. Klin. Chirurg. 1912. Bd. 82. S. 408. Birscher, Zentralbl. f. Chirurgie, 1912, S. 138. Bompiani, Centralbl. f. allgem. Patholog. u. pathol. Anatomie. Bd. 25, S. 929, 1914. Dustin, Compt. rend. de l’Assoc. des anatom. 1911, pag. 10. Fischl, Zeitsch, f. experim. Patholog-und Therapie. Bd. 1. S. 388, 1905. Fulci, Pathologica, 1913, pag. 259, n. 108. Fulci, Deut. med. Wochen, 1913, n. 37. Fulci, Centralbl. f. allg. Patholog-und pathol. Anatom. 1913. Bd. 24. S. 968. Fulci, Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. Vol. 23, fasc. 9. Seduta del 3 mag- gio 1914. Gebele, Beitrige f. Klin. Chirurg. Bd. 70. S_20, 1910. —- 1001 — Gebele, Beitràge f. Klin. Chirurg, 1911, S. 823, Bd. 76. Grimani, Archivio di anatomia patologica e scienze affini, 1905. pag. 351 Hart und Nordmann. Berlin. Klin. Wochen. 1910, S. 815; Centralbl f. Physiolog. Bd. 14, 1910. Klose und Vogt, Klinik und Biologie der Thymusdriise. Tiibingen, 1910. Klose, Chirurgie der Thymusdrise. Berlin. Verlag. Springer, 1914. Mitniskaia, Thèse de Genève, 1905. Nordmann, Miinch. med. Wochen, 1914, S. 1312. Ranzi und Tandler, Wien. Klin. Wochen, 1909, S. 980, n. 27. Scealone, il Tommasi, 1908, nn. 80, 31. Scalone, il Tommasi, 1909, nn. 22, 23, 24. Scalone, Gazzetta internaz. di medic.. chirurgia ed igiene. Napoli, 1910, nn. 5, 6. Sinnhuber, Zeitsch. f. Klin. Mediz. Bd. 54, S_38, 1904. Sommer und Floerchen, Physiolog. med. Gesellsch im Wirzburg, 1908; Deut. med. Wochen, 1908, Valtorta, Annali di ostetricia e ginecologia, 1909, pag. 63. Patologia. — Ulteriori ricerche sulla Leishmamosi. Nota del dott. C. BasiLe, presentata dal Socio B. Grassi. Fisiologia. — icerche sulla secrezione spermatica. — VI. Osservazioni sulla secrezione spermatica nell’uomo. Nota di _G. AMANTEA e T. RINALDINI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Fisiologia. — vcerehe sulla secrezione spermatica. — VII. Considerazioni yenerali sul decorso normale della secre- zione spermatica nel cane e nell'uomo. — VIII. Alcune osser- vazioni su cani castrati e su cani sottoposti a escissione parziale dei deferenti. Note di G. AMANTEA, presentate dal Socio L. LUCIANI. Chimica. — Sul metabolismo degli aminoacidi nell’orga- nismo. — VII. Azione del fegato sugli aminoacidi aggiunti al liquido di Ringer circolante. Nota di U. LomBROso e U. LUCCHETTI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Chimica. — Sul metabolismo degli aminoacidi nell’organi- smo. — VIII Azione del fegato sugli aminoacidi aggiunti al sangue circolante. Nota di U. LomBRoso e C. ARTOM, presentata dal Socio L. LUCIANI. Fisiologia. — £cerehe sugli effetti dell’alimentazione maidica. Valore nutritivo delle farine di grano, di mais e dell'uovo nei ratti albini. Nota VI di S. BAGLIONI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Le Note precedenti saranno pubblicate in un prossimo fascicolo. — 1002 — PERSONALE ACCADEMICO Il Corrispondente FepeRIcCo MiLLosEvicH legge la seguente Comme- morazione del Socio prof. GIOVANNI STRUVER. Quando Giovanni Striiver laureato di fresco nell'Università di Gottinga giunse a Torino nel 1864. le condizioni della mineralogia in Italia erano tut- t'altro che liete. Questa scienza, che nella prima metà del secolo XIX aveva fatto fuori d'Italia grandi e brillanti progressi, era presso di noi vappresen- tata si può dire unicamente da due scienziati. Affrettiamoci ad aggiungere per conforto del nostro orgoglio nazionale, che questi si chiamavano Arcan- gelo Scacchi e Quintino Sella. Il primo lavorava da più di un ventennio ad un'opera non peritura, ma non aveva avuto, nè il tempo, nè i mezzi per creare una scuola; il secondo pur allora aveva brillato nella scienza di luce intensa, ma passeggera, perchè troppo presto rapito dalla più gravi cure della vita politica alle severe indagini scientifiche. Mancava nella giovane Italia nel campo mineralogico, come in tanti altri, una organizzazione e una, scuola e, forse per ovviare a un tale inconveniente che doveva apparirgli manifesto, Quintino Sella si rivolse all'università tedesca e precisamente al suo illustre amico Sartorius von Walthershausen, perchè gli inviasse un gio- vane che fosse adatto a coprire l'ufficio di coadiutore del geologe B. Ga- staldi nella cattedra di mineralogia e geologia del Valentino. tenuta già dal Sella. E lo scolaro prescelto dall’insigne mineralista di Gottinga per tale missione di fiducia fu appunto Giovanni Striiver, che in tal modo sotto gli auspici del Sella entrava nell'arringo scientifico italiano, dove doveva im- primere orma così profonda. Egli nacque il 23 gennaio 1842 nella città di Braunschweig, dove compì gli studi secondari inscrivendosi a 19 anni nella Facoltà di filosofia di Got- tinga. Questa Università aveva raggiunto in quel tempo il suo massimo splendore e nel periodo in cui il giovane Striiver ne frequentò i corsi ebbe la ventura di trovarvi a maestri uomini come il chimico Wòhler, il geo- logo Seebach, il zoologo Keferstein, il mineralista e petrografo Sartorius von Walthershausen celebre per il suo magistrale studio sull'Etna. Di Walthershausen fu assistente volontario fin dal secondo anno di Università e sotto la direzione di Keferstein pubblicò le sue prime ricerche scientifiche sopra pesci fossili, che gli servirono come argomento per la sua disserta- zione di laurea da lui conseguita nell'agosto 1864. Dopo pochi mesi egli era in Italia, di dove non doveva più muoversi tranne per qualche breve ritorno in patria. — 1003 — A Torino la sua attività trovò un vasto campo per molteplici applica- zioni: l'insegnamento, la collaborazione col Gastaldi alla compilazione della carta geologica delle Alpi occidentali, la ricerca scientifica. La quale gli procurò in breve volger d’anni sì larga e meritata fama da farlo conside- rare il degno continuatore dell'opera del Sella, che lo ebbe carissimo. Nel 1871 era già professore straordinario dell’ Università di Torino e nel 1873, dovendosi istituire una cattedra autonoma di mineralogia nell'Uni- versità della nuova capitale, fu chiamato a coprirla per le disposizioni del- l'articolo 69 della legge Casati. In Roma in quel Museo della Sapienza che era per lui senza famiglia il più gradito soggiorno, continuò per più di 40 anni nella sua mirabile operosità di scienziato e di maestro, compiendo le più importanti delle sue indagini scientifiche, fondando e ordinando la più completa collezione di minerali che esista in Italia, guidando i giovami nel difficile cammino degli studi, impartendo le sue lezioni a generazioni intere di giovani ingegneri, di chimici, di naturalisti. E nel pieno esercizio di quest'opera, continuata anche nella sua felice e sana vecchiezza con ininterrotto e non stanco fervore, serenamente si spense per malattia improvvisa il 21 febbraio scorso. Dopo alcune pubblicazioni di minore importanza il nome dello Striiver divenne celebre di un tratto fra gli studiosi di mineralogia per la monografia sulla Pirite del Piemonte è dell’ Elba che, pubblicata nel 1869, rimane an- cora oggidì un modello classico e difficilmente superabile fra le ricerche di mineralogia descrittiva che furono da lui predilette. Per compiere il suo studio durato più di 4 anni, fu necessario allo Striiver l'esame accurato di più di 5000 cristalli, nei quali osservò ben 47 forme semplici diverse ed un numero assai più grande di combinazioni, da lui raffigurate in una serie di tavole, che sono considerate dai tecnici quanto di più perfetto si sia prodotto in fatto di disegno cristallografico. Delle osservazioni assai acute, che sono anche esposte in detta Memoria e che riguardano l’aggruppamento delle forme in certe determinate combinazioni e la frequenza di queste, re- cano un interessante contributo alla soluzione di questioni di cristallografia teorica. Questo pregio di sapere assurgere dalla pura e semplice descrizione a considerazioni concernenti problemi più elevati di indole generale o teorica, è comune del resto a tutti o a quasi tutti i lavori mineralogici dello Striiver e ne accresce l’importanza per la scienza. Sotto un tal punto di vista sono da considerarsi ben più che semplici monografie locali, quelle sui minerali del Lazio e dei Sabatini e quelle sul celebre giacimento di Val d'Ala. Anche in esse, dovunque gli si presentò l'occasione, l’insigne mineralista fece rile- vare fatti attinenti a importanti questioni teoriche di cristallografia, come le anomalie dei valori angolari contro la simmetria apparente in taluni mi- nerali e l’importanza del cosidetto abito dei cristalli, o affrontò con solida — 1004 — coltura e spirito critico elevato le eleganti ed ardue questioni di genesi dei minerali in relazione alla loro paragenesi ed al loro giacimento Nè vanno taciute fra le tantissime benemerenze dello Striver nel campo della mine- ralogia descrittiva la scoperta di due minerali nuovi, cioè la sellaite e la gastaldite e il ritrovamento per primo in Italia di specie rare, come la pe- rowskite, la columbite, la brookite, l'axinite, ecc. Il procedere delle nostre esatte nozioni scientifiche sul polimortismo e sull’isomorfismo ha sempre più cresciuto interesse alle ricerche cristallo- grafiche su composti artificiali inorganici e organici, le quali, più che un utile, ma modesto contributo alla conoscenza di una delle proprietà di detti composti, rappresentano un passo tendente a raggiungere una meta lontana, ma assal seducente: l'esatta definizione dei rapporti che intercedono fra co- stituzione chimica e forma cristallina di una sostanza. Quando poi nel 1870 il Groth colie sue ricerche cristallografiche sui derivati del benzolo fece conoscere quella serie di fenomeni cui dava il nome di morfotropia, parve che una nuova via verso questa meta si aprisse agli studiosi di cristallo- grafia chimica, via che secondo le apparenze avrebbe dovuto menar più di- ritta allo scopo, dappoichè sembrava possibile di riuscire a determinare per così dire quantitativamente l'influenza che la sostituzione di un atomo o di uno speciale gruppo di atomi con altri esercita sulla forma cristallina di una molecola. kra ben naturale che in quel tempo lo Striver fosse attratto ad occuparsi di tali ricerche così promettenti e profittasse della felice occa- sione di avere a collega Stanislao Cannizzaro, che giusto in quegli anni si dedicava ai suoi mirabill studi sulla santonina preparandone tanti nuovi derivati. Lo studio cristallografico di questi (1876-1878) permise allo Striver di portare in una questione allora palpitante il contributo del suo ingegno e della sua rara sagacia scientifica, giovando a smorzare i troppo facili entusiasmi per la novella dottrina della morfotropia con la dimostrazione dell’inesistenza di rapporti morfotropici che sarebbero stati prevedibili, sve- lando le relazioni cristallografiche che intercedono fra i vari isomeri della sautonina, e soprattutto additando il metodo rigoroso da eseguire senza sover- chie illusioni, ma con serena fiducia, per giungere allo scopo desiderato. Oggi, a tanti anni di distanza, e tenuto il debito conto del solo reale per- fezionamento portato in seguito al metodo di tali ricerche, che è l' intro- duzione degli assi topici, dei parametri cioè riferiti al volume molecolare, lo studio cristallografico dei derivati della santonina può reggere il con- fronto con i più recenti lavori dei moderni cristallograti chimici. Cossa e Strilver furono i primi in Italia a coltivare seriamente e scien- titicamente la Petrografia: il primo con indirizzo prevalentemente chimico, il secondo applicando in modo speciale quei metodi ottici di ricerca, che andavano allora mano a mano sviluppandosi nella scienza straniera. — 1005 — Non predilesse la petrografia alla quale contribuì con non molti lavori ; tuttavia, anche in questo campo, con quel finissimo senso di naturalista, che era una delle sue migliori qualità, seppe indicare le giuste direttive, così da valutare la petrografia per quel che deve realmente essere, una branca cioè della geologia coltivata con metodi propri della mineralogia e quindi in possesso più dei mineralisti che dei geologi: perehè il perfezionamento sempre maggiore della tecnica ottica e la più larga applicazione della ana- lisi chimica non sono sufficienti per le ricerche petrografiche, se queste non sieno guidate da un criterio geologico: senza di questo anzi hanno prodotto più male che bene col complicare artificiosamente la materia di per sè assai complessa. Ricordo che questa opinione il compianto maestro soleva riassu- mere col dire che la petrografia, come fine a sè stessa, e non in sussidio di un problema geologico, è una mineralogia inesatta, perchè fatta in cattive condizioni. Dopo il primo lavoro su rocce alpine e sulla Peridotite di Bal- dissero del 1871 e del 1874 egli pubblicò nel 1876 i suoi Studi petrogra- fici sul Lazio, in cui è chiarita la genesi e la natura della lava sperone ed è fatto conoscere per la prima volta un interessantissimo tipo di roccia con hauyna; e dopo molti anni rese noti i risultati dello studio dei graniti della bassa Val Sesia con un importante lavoro di indole geologica che ce lo rivela sotto un aspetto che egli, per la sua innata gentilezza d'animo, ben rare volte volle assumere: quello del critico. Anche in questo del resto riu- sciva a meraviglia: con spirito e garbatezza, ma anche con una logica così stringente e così tagliente da annichilire l'avversario. L'opera scientifica di Giovanni Striver, che in questo breve discorso sono costretto a trattessiare soltanto nelle sue linee principalissime, eccelle in sense assoluto per alcune sue qualità particolari, che sono: la felice scelta dell'argomento, il metodo rigoroso ed esatto, l'ordine e la chiarezza della esposizione, la quale generalmente egli sapeva ridurre nei più brevi termini possibili e ai soli fatti nuovi e scientificamente importanti. Come nella im- postazione del lavoro non vi è una osservazione superflua o un esperimento mal condotto o inutile, così non vi è una parola inutile o superflua nella esposi- zione dei risultati. In senso relativo poi, cioè riferita agli anni in cui fu prodotta quest'opera, acquista un'importanza veramente superiore, perchè nel quarantennio dal 1860 al 1900, che fu quello dell'attività dello Striver, i suoi lavori rappresentano l’espressione della evoluzione massima della sua scienza in quel tempo. Lo Strilver fu mineralista completo; derivò dal Sella la pratica esat- tissima della cristallografia ed il gusto per le questioni teoriche, dai suoi maestri di Gottinga e specialmente dal Wénhler il pieno possesso della teoria e dei metodi di ricerca della fisica e della chimica, ed ebbe oltre a ciò il vantaggio di una straordinaria inclinazione allo studio delle scienze natu- rali, anche biologiche, che egli coltivò con profitto e con grande passione - ReNDICONTI. 1915, Vol, XXIV, 1° Sem, 128 CL0O0EE fin da giovanetto; il che gli permise di mantenere alla Mineralogia l’indi- rizzo naturalistico che questa scienza deve avere, pur perfezionandone i me- todi alla stregua delle novelle conquiste della scienza. Per tale fortunata coincidenza di felici qualità dell'uomo in un tempo propizio era a lui destinato l'onore di fondare la prima scuola di minera- logia esatta nel nostro paese. Scuola intendo non nel senso particolare e forse un po' gretto della parola, ma nel senso più nobile e più elevato, perchè egli mostrò il giusto indirizzo della scienza, ne insegnò il vero me- todo e fornì con i suoi lavori dei mirabili modelli da imitare. Sotto questo punto di vista tutti i cultori della mineralogia in Italia, anche coloro che non gli vissero più da vicino, sono suoi scolari, tutti avendo derivato dalla sua opera qualcosa della loro. Non coltivò espressamente la mineralogia chimica forse perchè gli man- carono mezzi sperimentali adeguati: ma alla sua mente aperta a tutte le nuove correnti di idee non sfuggì l'importanza sempre crescente di questo campo, del quale lo sviluppo della chimica fisica ha allargato insperata- mente gli orizzonti. E non è senza significazione il fatto che l'ultimo dei suoi lavori sia appunto di mineralogia chimica e riguardi certi fenomeni curiosissimi di reazione fra minerali per semplice contatto e a temperatura ordinaria, che potrebbero essere il punto di partenza per tutta una serie di ricerche nuove ed originalissime. Si direbbe quasi che, giunto sulla soglia della vecchiaia e stanco di una vita operosa, abbia voluto additare ai gio- vani il nuovo cammino da seguire. | Da parecchi anni la sua attività scientifica pareva diminuita e la sua partecipazione, del resto mai molto attiva, alla vita diremo così esteriore cessata del tutto. Non per questo si sarebbe stati autorizzati a credere che egli riposasse sui meritati allori. Era invece tutto dedito ad un'opera lunga, tenace, paziente, opera che l’'ininterrotto contributo giornaliero di anni ed anni di lavoro rese addirittura colossale: la creazione dapprima, il riordina- mento poi del Museo Mineralogico della Sapienza. Il Museo specie negli ultimi tempi era l’unica sua passione, la meta dei suoi pensieri, lo scopo quasi della sua esistenza. E l’opera era riuscita degna del grande amore che l'aveva generata. Nel 1873 lo Striver trovò nell'Università di Roma un discreto Museo di cui facevano parte essenziale le collezioni Riccioli e Spada; quest'ultima di grandissima importanza, perchè messa insieme da un conoscitore profondo dei minerali, che per le sue estese e cospicue relazioni in ogni paese del mondo si era potuto procurare dei campioni ricchi o rari, taluni anzi di un valore eccezionale. Intorno a questo nucleo, da lui con somma cura riordinato e descritto, lo Striiver nei 40 anni della sua permanenza alla Sapienza venne raggruppando una ricchissima e sceltissima raccolta, con materiale acquistato con ì fondi della dotazione ed anche, e non in piccola parte di sua borsa, — 1007 — o donatogli, o inviatogli in cambio, o raccolto nelle sue escursioni estive in diverse regioni mineralogicamente importanti, escursioni che soltanto da uua diecina di anni avea interrotte. I suoi intimi sapevano di non potergli fare cosa più gradita di un dono di materiale interessante al Museo, i colleghi d'Italia e dell’Estero gli inviavano o gli offrivano in cambio splendidi o rari campioni, ai negozianti di minerali era ben noto che gli oggetti di mag- gior interesse scientifico o più cospicui per mole e bellezza avrebbero tro- vato in lui un generoso acquirente, pronto anche a spender di suo, ove non bastassero le risorse del bilancio. Il Museo di Roma può stare a confronto con i migliori dell’ Estero se non per il numero, per la qualità degli esemplari, perchè un alto concetto scientifico ne ha guidato l’ordinamento, perchè vi sono rappresentate tutte le specie veramente degne di questo nome e per ogni singola specie i gia- cimenti più importanti. Tutto in esso è opera dello Strilver: dal catalogo, che è molto più di un elenco inventariale, e contiene particolari e osser- vazioni di un alto interesse scientifico, al disegno del mobilio appropriatis- simo e scelto dopo innumerevoli prove e confronti, dalla distribuzione degli esemplari, all'opera stessa calligrafica delle etichette. Tedesco di nascita, Giovanni Striiver amò di vero cuore la sua patria di adozione. Venuto in Italia cinquanta anni fa aveva avuto campo di con- statare ì progressi da essa compiuti in ogni campo, e sinceramente se ne compiaceva, augurandole sempre migliori destini. Alla pubblica amministra- zione portò il contributo della sua esperienza e della sua sagacia collabo- rando come capo di gabinetto di Guido Baccelli al progetto di riforma uni- versitaria e partecipando per circa un ventennio ai lavori del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. Ma modesto, come egli era, di una modestia addirittura eccezionale, preferì la vita tranquilla del Laboratorio a tutte le cariche che, pur che avesse voluto, gli sarebbero state di buon grado affidate; così delle onorificenze e degli attestati di riconoscimento del suo merito conferitogli da corpi scientifici italiani e stranieri non menava vanto, pur compiacendosene intimamente; ed una sola volta in tanti anni di rela- zione con lui accadde che mi mostrasse con legittimo orgoglio e con grande compiàcenza uno dei contrassegni della estimazione, nella quale era tenuto dal mondo delle scienze, il diploma cioè che l’' Università di Gottinga suol rilasciare dopo cinquanta anni dalla laurea ai suoi allievi resisi illustri nel campo del sapere o della attività umana. Si era nell'ottobre scorso e l'omaggio tributatogli dalla patria lontana impegnata in una tragica lotta doveva certo destare nell'animo suo una folla di sentimenti diversi, lieti e tristi insieme, che egli, così poco espansivo, anche con i suoi intimi, non poteva o non voleva manifestare, pur non riuscendo completamente a celare. Poteva sembrare un misantropo, ma chiunque avesse avuto occasione di avvicinarlo lo trovava invece affabilissimo e di cuore generoso. Severissimo con — 1008 — sè stesso nell'adempimento dei propri doveri, era invece indulgente con gli altri: diligentissimo insegnante, e le sue lezioni erano un modello di pre- cisione e di chiarezza, era all'opposto un esaminatore fin troppo benevolo, cosicchè gli studenti che non avessero voluto trar profitto dalla sua dot- trina trovavano sempre modo di profittare della sua bontà. I suoi allievi amava senza ostentazione ed aiutava nella carriera senza parzialità, perchè la moderazione e lo spirito di equità erano le note fondamentali del suo carattere franco e sincero. Così quest'uomo che avrebbe potuto raggiungere agevolmente i fastigi della carriera scientifica e trarre profitto della grande autorità di cui godeva, visse una vita operosamente modesta, facendo larga- mente il bene, ritraendone pochi vantaggi, pago più che di altro di intime soddisfazioni spirituali e dell’affetto formato di ammirazione e di ricono- scenza di coloro, come me, ai quali aveva generosamente prodigato i tesori della sua dottrina e della sua bontà. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosevicH presenta le pubblicazioni giunte in dono segnalando quella del Socio Bassani intitolata: L'Ittiofauna della pietra Leccese (Terra d’' Otranto). Fa inoltre menzione di due fascicoli del prof. A. FA- varo: Corrispondenti di Galileo Galilei. XXX1: Bonaventura Cavalieri. XXXII: Francesco di Noailles; di una Commemorazione del prof. E. Fer- gola, del prof. Pinto; e del volume del prof. A. D'AcHIaRDI: Guida al corso di Mineralogia. Mineralogia Generale. Finalmente annuncia che per mezzo del Corrisp. Di Legge, il P. Lars, della Specola Vaticana, ha fatto dono all'Accademia di una bella serie di carte fotografiche del cielo, per la zona affidata alla Specola sopraricordata nel lavoro astronomico internazionale, del quale parla nei riguardi di detta zona. E. M. — 1009 — OPERE PERVENUTE IN DONO ALL’ACCADEMIA presentate nella seduta del 2 maggio 1915. Bassani FR. — La ittiofauna della pietra leccese. (Terra d'Otravto). Con 4 tavole, Napoli, 1915. 4°. D'AckiarpI A. — Guida al corso di mi- neralogia. Mineralogia generale. 2% edizione. Pisa, 1915. 8°. Favaro A. — Amici e corrispondenti di Galileo Galilei. XXXI. Bonaventura Cavalieri. (Estr. dagli « Atti del R. Istituto Veneto di scien. lett. ed arti ». t. LXXIV). Venezia, 1915. 8°. Favaro A. — Amici e corrispondenti di Galileo Galilei. XXXII. Francesco di Noailles. (Estr. dagli « Atti e Memorie della R. Accad. di sc. lett. ed arti di Padova », vol. XXXI). Padova, 1915. 8°. GuerRIERI E. — Sulla curva di luce e sulla variazione del periodo di Y Cygni. (Estr. dalle « Memorie delle Soc. degli Spettroscopisti italiani », vol. III). Ca- tania, 1914. 8°. Pinto .L. — Emanuele Fergola. Comme- morazione. (Estr. dal « Rend. della R. Accad., delle Scienze fis. e matem. di Napoli 1915 »). Napoli, 1915. 8°. Royal Society Club. — Foundation, objects, rules, by-Laws, List of Membres, London, 1914. 8°. Luo i i dita _Amantea. Ricerche sulla secrezione spermatica, IV: Influenza del riposo sulla secrezione sper» matica del cane (pres. dai Socio Luciani). . +... . + n EA TAI Brunacci. Sull’adattamento degli anfibi all'ambiente liquido o niente la regolazione della pressione osmotica dei loro liquidi interni. VI: Importanza dei sacchi linfatici (pres. dal Socio Luciani) . . + MESSE Fulci. Sui trapianti. del timo (pres. dal Socio ociafacay: BO A EDI RR AITINA] Basile. Ulteriori ricerche sulla Leishmaniosi (pres. dal Socio Grassi) (*) . See 1001 "Amantea e Rinaldini. Ricerche sulla secrezione spermatica. — VI. Osservazioni sulla secrezione spermatica nell’uomo (pres. dal Socio Luciani) (). . ..... SN VI Id. Ricerche sulla secrezione spermatica. — VII. Considerazioni generali sal econo normale della secrezione spermatica nel ‘cane e nell'uomo. — VIII. Alcune osservazioni su capi castrati e su cani sottoposti a escissione parziale dei deferenti (pres. /d.) (®) . . . » n Lombroso e Lucchetti. Sul metabolismo degli aminoacidi nell'organismo. — VII. Azione del fegato sugli aminoacidi aggiunti al liquido di Ringer circolante (pres. 14.) (®). . . n» Id. e Artom. Sul metabolismo degli aminoacidi nell'organismo. — VIII. Azione del fegato sugli aminoacidi aggiunti al sangue circolante (pres. Id.) (®) .}. . . . MaI DI Baglioni. Ricerche sugli effetti dell’ alimentazione maidica. Valore nutritivo della RI di grano, di mais e dell'uovo nei ratti albini (pres. /4.) (LL... PERSONALE ACCADEMICO Millosevich Federico. Commemorazione del Socio prof. Giovanni Strùver. . . . + + » 1002 PRESENTAZIONE DI LIBRI Millosevich E. (Segretario). Presenta le pubblicazioni giunte in dono segnalando quelle del Socio Bassani, dei proff. A. Favaro, Pinto, A. D'Achiardi e del P. Lais . + . n 1008 RBUELETTINOWBIBLIOGRABRI CON asia Net np e ee n cere ARITTV00 (*) Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. RENDICONTI — Maggio 1915. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 2 maggio 1915. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Severi. Sulla classificazione delle curve algebriche e sul teorema d’esistenza di Riemann. Pagi (B770 Kbrner e Contardi. Il quinto trinitrotoluene, (e), e prodotti dinitro-alogeno-sostituiti cor- LISPONdENtI on N RT AEREE pa SV e O O Pirotta. Un caso interessante di variazione Lo da di una Iris... .. SVEEIIIBITA Cardani. Sul processo per rendere stabile il funzionamento dei tubi Rontgen mediante l’as- sorbimento dell’anidride carbonica . .. : Sg nr +. . n 898 Zaremba. Sopra un teorema d’unicità relativo ala equazione delle onde sferiche a dal Socio Levi-Civita) . . . . E e ea A O E Mineo. Sulla distribuzione della massa nta d un corpo in corrispondenza a un'as» segnata azione esterna (pres. dal Socio Pizzetti) (#) . .... ROGIOLA «+.» 908 Corbino e Trabacchi. Persistenza delle correnti fotoelettriche nelle colate di Flster e Geitel dopo la soppressione della luce eccitatrice (pres. dal Socio Blaserna) . : ERICA Poli. Sull’irraggiamento nero; risposta alle osservazioni del prof. Corbino (nes dal Socio Somigliana) . . . . . | SEE LITRI Aa VA CI Barbieri. Nuove ricerche sulle Lon -uree Us dal Soia. Gissi RIGUAR n Calzolari. Contributo alla conoscenza dei tetrationati (pres. /d.) . . Dan D) Id. e Tagliavini. Sugli alogenomercurati (pres. /d.) . » Cambi. Sul potere elettromotore delle amalgame di magnesio RS: sal Socio Wai) . ». 932 Graziani. Anidridi e amine da acidi «-amidati (pres. dal Corrisp. Balbiano) . . . . . n De Fazi. Azione della luce su benzofenone ed acido butirrico (pres. dal Socio Paternò). » Padoa e Foresti. Sugli equilibri dell’idrogenazione (pres. dal Socio Ciamician). . . . » 946 Pagliani. Sopra alcune nuove relazioni che servono a calcolare la frequenza nel moto vibra- torio molecolare dei solidi (pres. dal Corrisp. Balbiano). . . PASLINTRCO ;, » 948 Scarpa. Analisi termica di miscele di idrati e alogenuri alcalini, I: Co di gadio (pres. dal Socio Ciamician). . . LIRE NOMECA ; RO » 955 Grill. Contributo alla mineralogia sarda. Sapia alcnni ni cristalli di baia Ga dal Corrisp. /. MaiMlosevich). . . . seni 061 Munerati e Zapparoli. Di alcune anomalie ino 0 ii CI o dal Socio Pirotta) (*). . . . . Rea » 965 Mameli e Pollacci. Ancora 2). Si dice che una curva C della famiglia, ha acquistato un (nuovo) punto doppio proprio P, quando “l’acquisto di tal punto singolare trae seco l'abbassamento di un'unità nel genere effettivo p di C; il nuovo punto doppio P dicesi invece ‘mproprio, quando la C, che lo ha acquistato, ha ancora il genere p. Se la particolar curva C appartiene ad un’altra famiglia W, rispetto a questa il punto doppio acquistato da C può esser di specie diversa, che non rispetto a V. Un esempio espressivo in proposito, vien dato dalle quar- tiche sghembe razionali con un punto doppio, in quanto si considerino come forme limiti delle quartiche sghembe ellittiche, o delle quartiche razionali, senza punti doppî. Rispetto alla varietà delle corde e alla sviluppabile osculatrice della curva variabile nella famiglia V, i punti proprî ed improprî si comportano in modo essenzialmente diverso. Quando C acquista il punto doppio proprio P, la congruenza delle corde della curva variabile ha per limite la so/a varietà delle corde della curva limite, e la sviluppabile osculatrice ha per limite la sviluppabile oscula- RenpIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 129 — 1012 — trice alla curva limite, insieme al fascio di raggi individuato dalle due tan- genti in P, contato doppiamente. Mentre, allorchè C acquista il punto doppio improprio P, la varietà delle corde della curva variabile ha per limite una congruenza spezzata nella varietà delle corde della curva limite ed in una stella di raggi, di centro P, situata in un Sz, la cui posizione dipende dalla legge colla quale la curva variabile si avvicina alla curva limite. La sviluppabile osculatrice ha invece per limite la so/a sviluppabile osculatrice della curva limite. Quando la curva C, variabile in V, si spezza in 2 parti Cp, Cp.» aventi d punti comuni, questi punti saranno proprî rispetto a V ogni volta sia p=pP,+p.+9—1. Che se p 3) delle relative Cs_1. Nulla di assurdo ci sarebbe in ciò. perchè in tal caso fra questi 2 punti d'appoggio, è — 2 dovrebbero esser punti doppî improprî rispetto alle curve di V. Per provare che effettivamente V contiene ogni curva spezzata in una Ci}; ed in una corda di questa, procediamo così: L'imposizione di 2 punti doppî proprî alle curve di V, equivale a 2 condizioni (al più), sicchè si avranno in V co” curve siffatte, ove k=>A4i(A=n(r+1)—(r-3)(p—1)—2). La varietà X di queste curve, può essere riducibile, e può anche darsi che qualcuna delle sue parti sia di dimensione 4, e qualche altra di dimen- sione 4 + 1. Comunque è certo che una, D, delle curve di V composte con una €27) e con una corda « di questa (la quale sia eventualmente :-secante), in quarto è appunto una C$ con 2 punti doppî proprî (e forse # — 2 im- SELE proprî) appartiene ad una varietà irriducibile W co* contenuta in X. Ora è facile vedere che ogni curva di W è spezzata. di Infatti le proiezioni piane della D e di una D di W ad essa infinita- mente vicina, hanno lo stesso numero %#-+2 di punti doppi, sicchè anche la proiezione della D, e perciò la D stessa, pel principio già ricordato di Enriques, è spezzata. Ed è poi chiaro che lo spezzamento di D non può aver luogo che in una Cf-1 ed in una sua corda. Le curve di W sono dunque spezzate tutte come D, e quindi W è contenuta nella varietà W, delle curve composte da una qualsiasi (771 e da una qualsiasi corda di questa. Ma poichè anche W, è irriducibile e di dimensione Z, si conclude che W coincide con W,. Ricordiamoci ora che un qualunque (n — p)-latero di genere effettivo zero in Sy, è contenuto nella varietà delle curve razionali d'ordine n — p. Siccome ogni tal curva, insieme ad una sua corda, dà una curva apparte- nente alla varietà delle curve ellittiche di S,, se ne trae che a questa va- rietà appartiene ogni (n — p)-latero di genere effettivo zero, insieme ad una sua corda; e così risalendo dal genere 1 al genere 2, ed in generale da p—l a p, si arriva al teorema fondamentale: Alla famiglia non speciale V delle Ci, di S, (n=>p+ 1), appartiene ogni n-latero composto mediante un (n — p)-latero di genere effettivo zero, insieme a p corde generiche di questo. In particolare si possono prendere n — p rette 41, 42,..., @n-p, di cui ciascuna sia appoggiata alla successiva, ma l’ultima sia sghemba colla prima, e p corde generiche dell'(n — p)-latero @, 42... Gn-p; oppure n—-p—1l rette generiche 42, ... , 4n-p, appoggiate ad 4,, e p corde generiche di questo (n — p)-latero. Si osserverà che così si ottiene un n-latero rappresentante tipico della famiglia V, nel quale mai tre lati giacciono in un piano. Per ottenere gli %-lateri contenuti in V, si può anche imporre alle curve di V di acquistare #4 p —1 punti doppî proprî, perchè in tal modo la sviluppabile osculatrice di C$, che è d'ordine 2(2 4 p— 1), viene a spezzarsi in #-+-p—1 fasci di raggi contati doppiamente, e quindi la curva riducesì ad un sistema connesso di rette. Così s' impongono n + p — —1—s (e£=0) condizioni, per guisa che l'infinità degli -lateri conte- nuti in V risulta espressa da: kiny=a(+1)—(—8)—1)—(+p—1-9= =nrT—-(r_-2)(p—_1l)+s. D'altronde, che %,, non sia inferiore ad 27 — (r — 2)(p—1), risulta pur da ciò che gli w-lateri di genere effettivo p in S,, dipendono almeno da tante costanti, perchè la condizione d'incidenza di due rette è di dimen- sione 7 — 2. Vedremo al n. 8 che la varietà degli n-lateri contenuti in V è spezzata e che in essa vi sono generalmente parti di diverse dimensioni; -— 1014 — ma possiamo subito provare che /uliavia în V vi è sempre una famiglia completa di n-lateri, che ha la dimensione regolare nr — (r — 2)(p— 1). La cosa si dimostra per induzione, a partire da un (2 — p)-latero di genere effettivo zero, costituito da 7 —p —1 rette incidenti ad una medesima ed osservando che l'aggiunta di una corda generica ad un (x — p + ?)-latero (i=0,1,..,p — 1), aumenta l’ordine ed il genere effettivo di un’ unità ed il numero dei parametri di 2 unità. 7. COME UNA FAMIGLIA SPECIALE Sl POSSA CONSIDERARE PARZIALMENTE CONTENUTA IN UNA NON SPECIALE. — Abbiasi in S, una famiglia speciale (o p+r, qualora si consideri come inesistente, per ogni retta aggiunta, uno dei punti ov'essa incontra C', appartiene alla famiglia delle curve piane irriducibili d'ordine n+d e genere p. E poichè ognuna di queste curve è proiezione di qualche C5+° di S,, se ne trae agevolmente che la curva speciale Cr di S, insieme a è sue rette secanti, ove d >p+r — n, può considerarsi con un ele- mento della famiglia non speciale delle C3+ò irriducibili di S,. Alla stessa conclusione si perviene nel modo seguente, dal quale risulta di più che le d secanti, da aggiungersi a C7, non secano altrove la curva. Si consideri un S) sghembo con S,, e pongasi un’omografia fra S,,S/. La curva C2 viene mutata in una Cy° di S., e le congiungenti delle coppie di punti omologhi di C,C", generano una rigata F, di genere p e ordine 2x, rispetto alle cui generatrici le C, C' sono unisecanti. Si prova, senza difficoltà, che su F le C,C' appartengono ad un medesimo fascio |C|, di grado 0. Se pertanto s'aggiunge a |C| una serie lineare gt (0 >0) di generatrici di F, il sistema lineare somma, di curve unisecanti, d'ordine n + d e ge- nere p, sarà irriducibile. Proiettando in S,, e tenendo conto dell’osservazione con cui si chiude il n. 1, si conclude col teorema enunciato. Un'analisi ulteriore provereloo anzi che le d rette secanti possono sce- gliersi ad arbitrio. 8. IL TEOREMA FONDAMENIALE PER LE Cp DI UNA FAMIGLIA QUA- È - i? + r, le curve di questa famiglia sono a moduli particolari (n. 3). Per valutare la dimensione x di V, si può ripetere il ragionamento svolto da Noether per le curve gobbe (1°), e si trova così per x il limite inferiore (8) (n. 3). Dunque: Una famiglia qualunque di Cf}, nello S., ha dimensione non minore di n(r +1) —(r—-3)(p— 1). LUNQUE. — Sia in S, una famiglia V di C$. Se n < (1?) Noether, loc. cit., pag. 19. Trattandosi"qui di trovare un limite inferiore per %, non occorre alcuna considerazione del tipo di quelle esposte al n. 3, ove si voleva per- venire ad un’uguaglianza (valida per le famiglie di curve a moduli generali). — 1015 — L'eccesso e di questa dimensione, sul limite inferiore (3), lo chiame- r rt 1 remo l'irregolarità di V. Per n= p+r la famiglia è di certo re- golare. Sia ora d un intero per cui sia soddisfatto il teorema del num. prec.; e sia inoltre W la famiglia non speciale delle C2+° di S,. Con un ragio- namento analogo a quello esposto nel n. 6, si prova che le curve composte mediante una 05 di V, alla quale vengono aggiunte d rette secanti gene- riche, costituiscono una parte della varietà formata dalle curve di W dotate di d punti doppî proprî. Si perviene così alla relazione a+rd=(n+0)(+1)—(r-3)(p—_1)—-d+e (e=>0), donde si trae di nuovo a=n(r +1) —(r—-3)(p—1)+e. Imponiamo ora alle curve di V di acquistare 7 -+p —1 punti doppî proprî, cioè di spezzarsi in % rette. Si può subito osservare che queste con- dizioni son compatibili colla definizione di V. Infatti il cono T° che pro- ietta una generica C% da un punto O, fuori di S,. contiene un sistema li- neare 0co”*! di sezioni iperpiane, fra cui c'è la C} data ed i gruppi di x generatrici staccati su Z° dagl'iperpiani (di $,+,) uscenti dal vertice O. Proiettando tutto sullo S, primitivo, da un generico punto P di S,,,, si ha in $, un sistema irriducibile c0"+!, di curve Cg, cui appartengono la curva data ed oo” n-lateri. Poichè questo sistema è contenuto in V (n. 1), sì conclude che V contiene effettivamente curve degenerate in gruppi di % rette distinte. Gli #-4-p—1 punti doppî proprî imposti, equivalgono ad n+p—1—e (e = 0) condizioni, cosicchè esistono in V infiniti n-lateri dipendenti da nrT—-(rT-2)(p—1)+e+ parametri. Ciascuno di questi punti n-lateri, insieme a d sue rette secanti, fornisce un (2 + d)-latero di W. Si ottiene in tal modo in W una varietà di (2 4 d)-lateri, di dimensione (n 4 d) 7 — — (_-2)(p—1)+e-+, e si prova così che ad una famiglia non speciale W, la quale contenga parzialmente una famiglia irregolare di curve, appartengono due 0 più varietà irriducibili di n-lateri, di cuî alcune di dimensione regolare e le altre di dimensione irregolare. Ci resterebbe da mostrare che gli n-lateri esistenti in V son privi di punti doppî improprî, cioè che il loro genere effettivo coincide col genere virtuale p. Rimandiamo al n. 9 per talune induzioni in proposito, riservan- doci di completare questo punto nel lavoro più esteso. Enunceremo conclu- dendo che: In ogni famiglia V di curve C$ dello S,, esistono almeno ao-YTYAPL n-lateri di genere p. L’irregolarità di V non supera la massima irrego- larità d'una famiglia completa di n-laterî di genere p in Sy. — 1016 — Un'altra disuguaglianza cui soddisfa e, è la seguente, che si ottiene con semplici considerazioni di geometria sopra una curva: L'irregolarità di V non supera (r — 2)i, i essendo l'indice di spe- cialità della generica O - 9. SULL'INVERSIONE DEL TEOREMA FONDAMENTALE. — Dato in S, un n-latero (connesso) L=, 4»... @n, di genere effettivo p = 0, è possibile costruire una famiglia di curve irriducibili C} di $,, cui appartenga L? Per rispondere a questa domanda, osserviamo anzitutto che tutti gli n-lateri aventi lo stesso schema di connessione, formano una varietà irriducibile. Dicendo che due x-lateri hanno lo stesso schema di connessione 0 che sono isomorfi, intendiamo che si possa porre fra i loro lati una corrispon- denza biunivoca tale, che a due lati incidenti dell'uno rispondano due lati incidenti dell'altro, e viceversa. Per dimostrare la proposizione enunciata, si può profittare ad esempio del fatto che, dato un -latero L di genere p = 0, è sempre possibile di scegliere 2 —1 vertici, i quali bastino a stabilire la connessione fra i lati di L, per guisa che, dopo ciò, L possa considerarsi come proiezione di un n-latero Lo di genere effettivo zero, appartenente ad S,, ed avente p corde appoggiate al centro di proiezione (n. 4). L'affermazione enunciata, sì ricon- duce allora all'altra, pressochè evidente, che in S, gli #-lateri isomorfi fra loro, costituiscono una sola varietà. Premesso questo, ricordiamoci (n. 4) che, dato in S, lo x-latero L, esiste sempre qualche curva razionale C, ad esso infinitamente vicina, la quale possiede 9g = p nodi infinitamente prossimi ad altrettanti vertici di L. Ne deriva che esiste una sottofamiglia V di curve razionali con 9g punti doppî, alla quale appartengono tutti gli x-lateri isomorfi con L. Proiettiamo genericamente la C sopra un piano. Poichè la proiezione C' appartiene alla famiglia delle curve piane irriducibili, d'ordine 7 e genere 9, se ne deduce, se 27 =>%9-+7, che C appartiene alla famiglia W delle C7 di S,. La sottofamiglia V è pertanto contenuta in W, ed a W apparten- gono perciò tutti gli w-lateri isomorfi con L. Rispetto a W, n+g—1 nodi di L son proprî, e gli altri p— q impropri. Se poi r È 1 Va Lo A Ale Quindi : FILu:/(@]=# FICA]. Condizione necessaria e sufficiente perchè una funzione di linea Il F|[/(x)]| sia omogenea di grado r è che sostituendo nel suo differenziale 0 a df(x) f(x) si ottenga la funzione stessa moltiplicata per r. Per una funzione senza punti eccezionali, tale condizione è equivalente all'altra di essere un integrale dell'equazione alle derivate funzionali: SEITE = FINI ( 4. Dalla definizione stessa di funzione di linea omogenea, segue imme- diatamente che la più generale funzione di linea omogenea di grado 7 può ottenersi moltiplicando la più generale funzione di linea omogenea di grado zero per una particolare funzione di linea omogenea di grado 7. La più generale funzione di linea omogenea di grado zero è data da: 1 02) ® | (D funzione arbitraria) (*). | /(8) ae vo (!) Per il caso r=0, cfr. Volterra, Sulle equazioni alle derivate funzionali, $ 2, Rend. della R. Accad, dei Lincei, 15 marzo 1914. (8) Volterra, loc. cit., $ 2 — 1038 — Possiamo dunque prendere come espressione generale di una funzione di linea omogenea di grado 7 la seguente: ra) DD FII/I=® INCL l FS er 1) de de Vo 0 vo (® funzione arbitraria; rr +72 +-+ 7=7). Da quanto si è detto nei paragrafi precedenti, segue che, se ® non ha alcun punto eccezionale nell'intervallo 01, la (I) ci dà l'integrale generale dall'equazione alle derivate funzionali: mm [PITON FAAI. Tutto quanto si è dimostrato per le funzioni di una sola linea si estende immediatamente alle funzioni di più linee. 5. L'equazione alle derivate funzionali (tI) STO 190) = Fs (F funzione incognita di linea, senza punti eccezionali; 0 funzione ordinaria, nota) si può ricondurre alla (II) ponendo: ge) dyw Mo La (I) del paragrafo precedente (nell'ipotesi che ® non abbia punti eccezionali) ci dà dunque, tenendo conto della (IV), l'integrale generale della (III). Consideriamo ora l'equazione: (IV) f(a)= e v een an = FICA) (2 funzione ordinaria). 1 Poniamo F'|[/( © ) €] ii Sostituiamo alle variabili /($) le variabili p(E), e alla funzione F|[/(x 0) la funzione W|Lp() || definita dalla rela- zione: ; Ì (B) FICA = f 0/04 — #10] 0) (*) Questa trasformazione corrisponde a quella di Legendre per le funzioni di x variabili. — 1039 — Se F non ha punti eccezionali, il suo differenziale è dato da ae= ( p@) 9/8) dx. e per la (B) si ha: dd = ( f(£) Op(E) de . Dunque: PP) =/8). Poniamo: r PE) — (P(E)) = 0( p(£)). La (V) si riduce allora, mediante la detta trasformazione, all'equazione: l 1 1 S2'To(2) 5020) de = 81210) Questa equazione è del tipo (III): di essa sappiamo dunque costruire, ap- plicando il teorema di Eulero, l'integrale generale. Costruito questo integrale, se si risolve rispetto a (2) l'equazione 1 (di tipo integrale) /() = d'|[p(x) #]| e si sostituisce nella (B) a p la sua (0) espressione in funzione di /, si ha l'integrale generale della (V). 6. Si può anche ricondurre alla (II) (in cuì sia posto 7 = 1) ogni equazione del tipo: Mo f FIA 0] ae = #91] (F funzione incognita senza punti eccezionali; © , 4 funzioni note) quando di essa si conosca un'infinità continua d'integrali, ossia un integrale cone tenente un parametro che possa assumere tutti i valori compresi, per es., nell’ intervallo 01. 1 Se Fo|[g(x)n]| è il detto integrale, basta porre: 0 1 (VII) fm) =Fe|Cy(2)]]- La più generale funzione omogenea di primo grado, e senza punti ecce- zionali, dipendente da tutti i valori di /(#) nell'intervallo 01 ci dà dunque, tenendo conto della (VII), l'integrale generale della (VI), Questo risultato corrisponde all'altro, valido per le funzioni di x varia- bili: noti x integrali particolari di un'equazione alle derivate parziali del primo ordine, lineare ed omogenea rispetto alla funzione incognita e alle sue derivate, l'integrale generale è dato da un'arbitraria funzione omogenea di primo grado di quei n integrali. — 1040 — Matematica. — Sulle equazioni integrali. Nota del dott. Lu- CIANO ORLANDO, presentata del Corrispondente A. DI LEGGE. Sia O) g9=I+f Mt + "+ pa) In(È)] p(£) dé un'equazione integrale del tipo di Volterra; la funzione g è incognita, e le altre sono funzioni note. Noi vogliamo qui far vedere come si possa risolvere quest’equazione, adoperando un mio metodo, che ho largamente applicato, in numerosi altri miei lavori, alle equazioni del tipo di Fredholm. Supponiamo di voler esplorare le vicinanze di un punto regolare 4, e che ® sia un numero positivo non superato da |g| in tali vicinanze. Scriviamo l'equazione (1) come segue: 2) 9(A=F+ f TO nO+- + (0) 189) dE + (8) +-+ pa(@) qn(8)] P(3) dé. Se poniamo (8) Tia Î 10(8) PE) dé. dove v rappresenta i numeri 1,2,...,7%, e chiamiamo K(x,&) il nucleo Pi(2) (€) + pel) go(8) +-+ Pn(2) an(È), noi potremo scrivere (4) (x) =p(2) mm + psx) mo +-+ pul2) Mn +f K(x,É) g(£) dé. Le costanti my sono incognite. Ed ora, secondo il metodo d’approssimazioni successive, al quale ho prima alluso, scriviamo gp+e =F+ pm o+o=F+>pm+ f K (9 + a1);d8 g+es=FP+3pm+ | K-(y+e)dé,... . — 1041 — Noi verremo così a fare i successivi errori = f Kgds A = (Kar de ’ = | Kad, té Se riteniamo fissato un numero positivo 0, tale da superare |K| nelle vicinanze di a, e chiamiamo M il numero positivo fisso 0 ®. allora noi sceglieremo l’ampiezza (a,x) tale, per esempio, da non superare 0,1M; e perverremo ad una serie convergentissima, che esprimerà y contenendo linearmente le incognite my. La (3) ci darà allora il modo di avere 7 equa- zioni di primo grado fra le n incognite my; queste si potranno ricavare da tale sistema. Il metodo si estende agevolmente al caso che il nucleo non sia Pr(2) (8) + peo(®) d(Î) +-+ pal2) qa(È), ma ne differisca per una funzione @(x,&), la quale oscilli in limiti suffi- cientemente ristretti. Lo svolgimento di ciò che qui abbiamo molto sinteticamente esposto, e l'estensione a casi alquanto più generali di quelli consentiti dalle nostre implicite ipotesi, costituiscono un facile lavoro, sul quale non vogliamo insi- stere. Mi preme soltanto stabilire che il mio metodo si estende benissimo anche alle equazioni con limiti variabili, e conduce ad una serie di agevole algoritmo, e convergente con rapidità che si può subito prestabilire. Matematica. — Sopra un'operazione funzionale atta a tras- formare è potenziali logaritmici in simmetrici. Nota della signo- rina Lina BIANCHINI, presentata dal Socio T. LeviI-CIVITA. Fra i potenziali binari (quelli cioè che si possono far dipendere da due sole coordinate) i logaritmici occupano un posto speciale, per le molteplici e semplici applicazioni di cui sono suscettibili, in quanto vi si può impiegare il metodo delle funzioni di variabile complessa, e trar partito dall’agile sussidio della rappresentazione conforme. Per gli altri tipi, in particolare pei potenziali simmetrici, che sono altrettanto e forse più importanti dal punto di vista applicativo, pur poten- dosi definire le funzioni associate, come nel caso logaritmico, manca un analogo sussidio, onde è assai più ristretta la categoria di questioni che, per essi, si sanno risolvere in modo esauriente. Stando così le cose, si presenta interessante indagare il legame fra le dette due specie di potenziali, nella mira di valersene per trasportare ai potenziali simmetrici alcuni dei risultati già conseguiti pei logaritmici. — 1042 — In due Note (la presente e un'altra che le farà tosto seguito) sorte da un suggerimento del prof. Levi-Civita, mi propongo di far vedere come vi sia corrispondenza biunivoca fra le coppie (reali e regolari) di funzioni asso- ciate simmetriche (v,v) e le coppie (pure reali) di funzioni associate loga- ritmiche (g,v), vincolate alla condizione w=0 sulla retta, che è asse di simmetria per (w, v). In altri termini ogni funzione di variabile complessa @ + ww, reale sull’asse reale, dà luogo ad una coppia (w,v), e reciprocamente. L'espressione analitica di tale corrispondenza (funzionale lineare) è fornita da integrali detiniti semplici, e invertibili in modo semplice, mercè il teorema di Abel. A ciò si perviene combinando opportunamente la for- mula di Whittaker, che dà l'integrale generale dell'equazione di Laplace (!), con altre già rilevate dal Beltrami (*). Immediato corollario della corrispon- denza funzionale, or ora specificata, è l’esistenza, per i potenziali simmetrici, di un gruppo di trasformazioni che ha la stessa generalità del gruppo con- forme. La sua natura funzionale ne rende però assai meno efficace l’im- piego di quel che non avvenga nel caso logaritmico. Per la stessa ragione i problemi al contorno, relativi ad una specie di potenziali, non sì trasfor- mano, almeno in generale, per effetto delle formule di corrispondenza, in problemi analoghi relativi all'altra specie. Così l'obbiettivo, di portare, me- diante trasformazioni, la teoria dei potenziali simmetrici allo stesso grado di sviluppo consentito dai logaritmici, non sarà completamente raggiunto, ma qualche caso, come, ad es., il problema del disco, di cui mi occuperò in Note successive, offrirà una facile e vantaggiosa applicazione. 1. — RICHIAMO E NUOVA DIMOSTRAZIONE DELLA FORMULA ‘ DI WHITTAKER. La più generale soluzione (regolare in un certo campo $S) dell'equazione di Laplace Ele ou SG PACO 0 Id aghe Ceo può essere rappresentata con una espressione del tipo or RT (1) do | f(a + ix cos4 + iy sen 4, 4) di = (i L(CRAVAAE 20 0 (1) Whittaker, On the partial differential equations of math. physics, Mathematische Annalen, 57 Band, 1903. (*) Beltrami, Opere matematiche, tomo 3°, Sulla teoria delle funzioni potenziali simmetriche. È ibid., Intorno ad un teorema di Abel e ad alcune sue applicazioni. Debbo notare che già il prof. Burgatti nella sua Nota, Sui potenziali binarii (Rend. della R. Accad. di Bologna, 1909), aveva ricavato un’espressione dei potenziali simme- trici dalla formula di Whittaker, senza però trattare la questione che forma oggetto del presente scritto. — 1043 — dove / è una funzione generica dei due argomenti I=z+tixco84-+iysen4Z e 4, periodica rispetto a 4 col periodo 277 e regolare per valori reali di 4. La dimostrazione di questo importante risultato può darsi, in modo alquanto diverso da quello indicato da Whittaker, ricorrendo alla rappresen- tazione di una qualsivoglia funzione armonica v, regolare entro un campo $, mediante la formula nu 1 _ du 1 (2) uc,y = (Ti) dove o designa il contorno di S, x la sua normale in un punto generico È ,n,6$ del contorno stesso, ed 7 la distanza fra il punto potenziato (2, 7,8), e il punto potenziante ($,7,%). Basta all’uopo osservare con Whittaker che si ha identicamente: 1 TA (8) iS Mr dove, come s'è detto, I=<+ixco84+zysen4; A=$+iEcos4+in8en4, talchè in primo luogo il potenziale elementare - rimane effettivamente de- finito dalla (1), prendendovi per / Ne consegue, chiamando @,f#.y i coseni direttori della normale x, al - nl Di AED RA IO dan dE dn dÙÒ VT za ra)? . Tale derivata risulta pure nel tipo (1), essendo QRL N I a (=1=57 EST RenDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 133 — 1044 — gl Sostituendo nella (2) in luogo di - e di Ì i loro valori, e invertendo le integrazioni rispetto a 4 e a o, risulta senz'altro che, per la « gene- A 1 i du = Se). quindi essa è rappresentabile sotto la forma (1), rica, sì ha c. d. d. 2. — COROLLARIO RELATIVO AI POTENZIALI SIMMETRICI. La dimostrazione testè esposta ha il vantaggio di fornire, con metodo analogo, anche la più generale espressione di un potenziale simmetrico, attorno all’asse delle #, sotto la forma (4) 3yee li "ad 72 0084 Lry con 2) dd Y "Dda, che non differisce dalla (1) se non per il fatto che / va ritenuto indipen- dente da 4. Per rendersene conto conviene riprendere la (2), nell'ipotesi che vi sia simmetria rispetto all'asse Oz: ben s'intende sia per il potenziale x, che per la superficie o, entro la quale lo si suppone regolare. Si indichi con s un generico meridiano di o, con ds il relativo ele- mento (circostante al generico punto potenziante È , 7,6) e si ponga = 080. ,\y== 0.800, È = 0, 00890, , N)=0,SN%0,. Manifestamente u(x ,y,z) dovrà risultare funzione dei soli argomenti ; . i ; oez;e del pari uE,7,Î), cn) dipenderanno dai soli argomenti 0, e È. Con ciò (essendo indipendente da ©, anche il simbolo di derivazione rapporto ad x), l'integrale che sta nel secondo membro della (2) potrà essere scritto: NI RR i A da (TI ) (5) TANI 7 dar di A 2T 1 Ora se nell f 7 dr (potenziale d'una circonferenza omogenea) sostituiamo ; per h il valore dato dalla (3), e invertiamo le integrazioni rispetto a 4 e — 1045 — 27 1 1 CRT ar dw gii 1 Ln i n ma a feaeg A=0,}1 + cos(o — 4)}. ad ©,, si ha: ove In luogo di ©,, assumiamo come variabile di integrazione t= @—. Verrà pio de, na 27+4 di = (" da A t—o(1+icost) hl —o(1+icost)” 277 da cui risulta che vf 2 dor; è rappresentabile sotto la forma (1) senza 0 che / dipenda esplicitamente da 2. Se ne inferisce che anche l’espressione (5) di « appartiene in definitiva allo stesso tipo (4), Cc. di di Rimane pertanto acquisito (posto, nella (4), = 0c0s® , y=08en %, e assunta XA —©= + al posto di 4 come variabile corrente d'integrazione) che ogni potenziale simmetrico u(2,0) può porsi sotto la forma: ui f(6+i0c089) dd. Scrivendo materialmente x al posto di z, e y al posto di @, con che, nel piano rapresentativo (x,y), Ox funge da asse di simmetria, si ha per i potenziali in questione, cioè per un qualsiasi integrale regolare dell'equazione EE du x RSI Xda dx, dy° 0, l'espressione 727 u =| f(e + iy cos 4) dd. 0 L'integrale del secondo membro può essere ridotto all'intervallo 0,7. Infatti: 27 T 2r una { fas= f fado +/ f(&d + iy cos 9) dd, 0 0 Te e, posto nel secondo integrale 9" = 27 — è, è u= ("09 — (le+ iy cos 9) dd' . Ossia u = ("+ sy cos d) dd, 0 qualora s' indichi ancora con / la funzione, a prior? arbitraria, 2/. — 1046 — 5. — LA FUNZIONE CONIUGATA ®. Dalle equazioni di coniugio relative alle funzioni associate simmetriche (do du \ dwy da° CURRENT) da 9 dwy si ricava in primo luogo È =— if cos ds, f' designando la derivata di / rispetto al suo argomento x + 7 cos &. Ne consegue (6) v=—i {/y cos + d3 + Y, dove Y è costante rispetto ad x, e quindi a prioré una funzione della sola y. Vedremo ora che Y risulta costante anche rispetto ad y. Infatti, dalla (6) si ha CCA dl co89d9+ f y cosd f'd9+V', dY 0) o e siccome, per la prima equazione di coniugio, dv nie _ "dg, >y i yÎ così (scrivendo 1 — sen*& al posto di cos*3) si ricava if fcos9dt— ( y sen?3 f'di +Y=0. 0 o Ma — Î usent9/'d9=—i f SL sndd= 0 (o) =[—i/sen9] +i f7/0089 dg = i {"/coss dg9, 0 D) per conseguenza rL'=0; c. dtd: La costante additiva Y è inessenziale. Potremo quindi assumerla sen- z'altro eguale a zero, e avremo complessivamente le cercate espressioni funzionali d'ogni coppia di associate simmetriche sotto la forma: = {fl + iy c08 4) dd, (7) È o=—if f(x + îy c089)ycos.d dè. — 1047 — Fisica matematica. — Sulla distribuzione della massa nel- l’ interno d’un corpo in corrispondenza |a un’assegnata *azione esterna. Nota di CorrADINO MINEO, presentata dal Socio P. PIZZETTI. 1. Il chio prof. Pizzetti, in una sua fondamentale Memoria /ntorno alle possibili distribuzioni della massa nell'interno della Terra (*), ha stabilito parecchi metodi per costruire corpi d’attrazione esterna nulla, re- lativi allo spazio © limitato da una superficie chiusa S. Uno si fonda su questa semplicissima considerazione. Sia /(x,y,<) una funzione continua in 7, insieme con le sue derivate prime, e dotata inoltre di derivate seconde atte all'integrazione in 7: allora condizione necessaria e sufficiente affinchè la / sia la funzione potenziale érferna d'un corpo situato dentro 7, che non esercita azione newtoniana all’esterno, è che essa si annulli insieme con la sua derivata normale in ogni punto del contorno S; e la densità del corpo sarà data da A:f:— 4r. In particolare, se (1) s=0 è l'equazione della S, e % una funzione arbitraria dei punti di 7, saranno corpi d'attrazione esterna nulla quelli dentro 7 la cui densità è espressa dalla funzione As(us?) (?). Nel caso che il corpo situato in 7 eserciti un'azione esterna non nulla, il compianto prof. Lauricella — che anch'egli, dopo il Pizzetti, s’ebbe a occupare della questione — mostrò come, prestabilita l’azione esterna, si possa costruire la più generale funzione potenziale interna del corpo, e quindi la più generale densità, servendosi della seconda funzione del Green (*). Ora noi vogliamo mostrare come, modificando in modo molto semplice la fondamentale considerazione del Pizzetti, sì possano per altra via ottenere quante si vogliano distribuzioni della massa, corrispondenti a un'assegnata azione esterna non nulla. (1) Annali di matematica pura ed applicata, tomo XVII, 1910, pp. 225-258. (*) Per un'estensione di questo risultato, vedi Crudeli, / corpi d'attrazione nulla, questi Rendiconti, vol. XXI, 1912, fasc. 7°. Noi qui ci limitiamo al caso che w e s sieno funzioni continue, insieme con le derivate prime, in tutto il dominio 7, compresa la frontiera S, e che inoltre ammettano derivate seconde atte all'integrazione in 7. (*) Lauricella, Sulla funzione potenziale di spazio corrispondente ad una assegnata azione esterna, questi Rendiconti, vol. XX, 1911, fasc. 2°, —- 1048 — 2. Sia (2) iMIP la distanza tra un punto qualunque M della S e un punto P del dominio 7 (non esclusa la frontiera). Sia sempre (1) l'equazione della S e % una fun- zione dei punti di 7. Applicando alla funzione ws la seconda formola del Green, risulta facilmente I Aa(08) i ((g L(N_12 i) f A da =/, (1 dn (E) —rdn (1) de; dove il verso positivo della normale è quello della semiretta penetrante in 7. Ma sulla S è us= 0; poi potremo supporre (cambiando eventualmente di segno la s) che i coseni della fissata direzione positiva della normale siano dati da x —1 ds LAS — 1 ds Las —1 ds (4) conse ===. (00874 = == asi i VA1s d8 ritenendo presa la determinazione positiva del radicale ed essendo ds \° ds \° ds \° 0) sam (35) +35) +2) Allora la (8) sì scrive. (6) SA a (ELA gg. Questa mostra che una massa distribuita în © con densità As(us) esercita la stessa azione esterna che se distesa în semplice strato sul contorno S con densità uVA.s - Nota dunque in superficie la funzione potenziale V del corpo, cioè nota la sua azione esterna, se riesciamo a risolvere l'equazione integrale di prima specie del tipo Fredholm (7) J, È) dSs= V(M), avremo la densità @ del semplice strato superficiale, che esercita l’assegnata azione esterna; poi, posto Q 8) UsE=ETr= i TUTASO — 1049 — non avremo che a prolungare in «, con legge qualunque, la funzione «s dei punti della S: se w è un tal prolungamento, cioè una funzione continua dei punti di 7, che sul contorno coincide con «;, allora (9) h= As(us) è la densità d'un corpo situato in 7, che esercita l’assegnata azione esterna. 8. La questione è dunque ricondotta a risolvere l'equazione integrale (7). Poniamo (10) wan= f O - e) dg, dove intenderemo ora che M sia un punto qualunque dello spazio, e P_ un punto variabile della S. Distingueremo, poi, al solito, con l'indice e i valori d’una funzione in punti esterni alla S; con l'indice è, i valori della funzione in punti interni della S. Essendo V la funzione potenziale del nostro corpo, dalle (7) e (10) segue subito (11) W.=V,. Per le note proprietà delle funzioni potenziali di semplice strato, abbiamo dW, dW; Res \ dn = du AE (12) Î dW, CrACALE 2( (P) SL ds \ dn di — dove M è un determinato punto della S, nel quale s'intendono calcolate le due derivate normali, e w è l'angolo della retta MP con la seminormale positiva (n. 2) in M alla S. Dalle (11) e (12) segue (18) dle _ 2reg(M See nd Se dunque si suppone nota l’azione esterna del corpo, e quindi la de- rivata normale Da , la ricerca di @ si può anco far dipendere dalla (13), vale a dire da un'equazione integrale di Fredholm di seconda specie. Essa ammette sempre un'unica soluzione continua, giacchè l'equazione omogenea relativa, per le note proprietà delle funzioni potenziali, non può ammettere che la soluzione identicamente nulla. E la soluzione di (183) è soluzione di (7): anzi ne è l’unica, giacchè il nucleo della (7) è chiuso. 4. Notiamo due casi particolari semplicissimi. Se la S è di livello per il corpo, allora, essendo M un punto qualunque disse W(M)= V(M)= costante, — 1050 — e quindi W è pure costante (perchè armonica in ©); sicchè dalla prima delle (12) segue subito, badando alla (11): come è risaputo. 5. Supponiamo in secondo luogo che la S sia una sfera di raggio « col centro nell'origine delle coordinate. Allora (e Cosi e la (18) diviene dV, _ Vi dn 2440 ’ che non è altro se non l'equazione di Lagrangia. Se ne deduce IMG da (an): sicchè il nostro problema è per la sfera interamente risoluto. 6. Ma possiamo anco risolvere col nostro metodo un caso importante per la Geodesia, già altrimenti risoluto dal prof. Pizzetti; cioè quello d'un pianeta, che ammetta come superficie d’equilibrio esteriore un ellissoide a tre assi d’equazione > b* 7 Ysia inoltre dotato d'un moto rotatorio uniforme, di velocità angolare @, intorno a uno dei tre assi, per es. intorno all'asse 2, e abbia una massa totale M conosciuta. In questo caso, infatti, si deve avere in superficie (15) V+ E +9) =0, dove / è la costante dell’attrazione, e C un'altra costante, che, per le ipotesi fatte, resta univocamente determinata (teorema di Stokes). Ne segue che la risoluzione della (7) è ridotta in questo caso a quella d'un doppio problema di Dirichlet, esterno e interno, rispetto all'ellissoide (15): cioè alla ricerca di due funzioni armoniche W, e W;, la prima all'esterno, e la seconda all’interno dell’ellissoide, e che in superficie si riducano a LI 2(0-T+y)): — 1051 — dopo di che, la prima delle (12) dà @, e si può applicare il procedimento del n. 2. Questo doppio problema si risolve elegantemente per mezzo delle fun- zioni armoniche ellissoidali del Morera ('). Allora la funzione W, è quella già costruita dal Pizzetti, cioè (17) e ila, (9 essendo K ,v,,v, tre determinate funzioni armoniche nello spazio esterno all’ellissoide, e %,,%: due certe costanti (*). Quanto alla W;, essa è data dalla formola (18) wa 04 7100 + 400 + [o +00 +20), dove K°, 0%, %, 2 sono quel che diventano K,v,,0, e l’analoga 3, quando in esse, invece della maggior radice della nota equazione cubica, si metta lo zero; mentre la costante e è data così ___— 6°(41b° + 420°) (19) 7 bee + eta + ab? o Se si calcola ora la differenza delle derivate normali delle due funzioni (17) e (18) e si bada alla prima delle (12), si ottiene senza difficoltà 14 4rrabe | x° CA (20) pe (ded) Dee essendo p la distanza dal centro del piano tangente all'ellissoide in un suo punto. La (8) diventa nel caso della (15): «pre MEL Cai L A ) 21) = a) (I dio — dee )p— del. Si tratta ora di prolungare la vs all’interno dell’ellissoide. Per avere (*) Vedi Morera, Alcune considerazioni relative alla Nota del prof. Pizzetti ecc., questi Rendiconti, vol. III, 1894, fasc. 8°; e per una teoria autonoma di queste importanti funzioni del Morera, vedi una Nota del prof. Somigliana, nel Circ. mat. di Palermo, tom. XXXI, 1911, fasc. 3°. (3) Cfr. Pizzetti, Principii della teoria meccanica della figura dei pianeti. Pisa, Spoerri, 1913, pp. 69-71. RENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 134 — 1052 — densità spaziali finite in tutto 7, notiamo che p°, tenuto conto della (15), sì può scrivere così a*b*c* ala ro _ rr rr i (22) pre albi — (a? Ces. e?) bix? |— (5° ea e?) a'y* ? e questa è una funzione continua in tutto ©. Si può allora prendere in 7: i Be (29) “1 orrabe ( 4 DE e) o essendo 2 2 (24) DEM d(6 +47). In conseguenza si potrà avere una distribuzione di massa nell'interno dell’ellissoide — e quindi infinite (n. 1) — compatibilmente all'assegnata azione esterna, prendendo come densità la funzione 7% = A°(w1s). Si trova al Li pp (7 +0)- Ho s(È i+) A ea Pal )+ +2P°(£+f)+ppe(£24 28), D 1 1 1 kia? ky? 00 mer) (43) essendo al— e? he Le? (26) Gt aio ia Se l’ellissoide è di rotazione intorno a #, non c'è che da fare a=d e k1= ks; la V., data dalla (17), si riduce a quella calcolata dal prof. Piz- zetti; la legge di distribuzione della massa, in questo caso, è abbastanza semplice, ecc. Il caso della sfera si ottiene facendo, in tutte le formole, a=b=c: peraltro si ottiene più immediatamente partendo dalla (14) del n. 5. — 1053 — Fisica. — Sulla variazione di resistenza del bismuto nel campo magnetico ('). Nota di G. C. TRABACCHI, presentata dal Socio P. BLASERNA. La variazione di resistenza che alcuni metalli subiscono nel campo magnetico assume, come è noto, un valore assai rilevante per il bismuto, cosicchè se ne trae vantaggio per la misura della intensità dei campi come fu proposto da Lenard. Sulle cause di questa variazione di resistenza, che la teoria elettronica non permette di spiegare, regna ancora grande oscurità ed assumono perciò un certo interesse tutti i fatti che possono portare un po' di luce sull’argo- mento. Se si prendono in esame i risultati dei varî sperimentatori che hanno determinato la variazione di resistenza del bismuto nel campo magnetico si riscontra che per uno stesso campo i valori trovati sono discordi; poichè per i varî campioni sperimentati era costante il grado di purezza, la discordanza dei risultati dipende evidentemente dal modo di preparazione: è infatti nota la grande influenza del regime di raffreddamento sulla struttura del bismuto. È inoltre degno di nota, come ho trovato Patterson (?), che la varia- zione di resistenza è assai piccola per le lamine infinitamente sottili che possono essere ottenute coi depositi dati dai raggi catodici. Questi fatti fanno pensare ad una relazione fra il fenomeno e la struttura del metallo. Questa ipotesi è avvalorata dai risultati delle esperienze che mi accingo a descrivere. Ho preso del bismuto puro fornito da C. A. F. Kahlbaum; l'ho ridotto, con mezzi meccanici, in polvere sottilissima, e quindi ne ho fatta una lamina comprimendo la polvere in un apposito stampo costruito in modo analogo alle ordinarie macchine da pastiglie; le dimensioni erano però più grandi delle ordinarie e la pressione rilevatissima essendo esercitata da una robusta pressa. Una lamina così ottenuta presenta un aspetto esterno molto simile a quello del bismuto fuso; anche le sue proprietà meccaniche differiscono di poco: la resistenza specifica elettrica è di poco superiore. La struttura interna però di queste lamine è certo assai differente da quella del bismuto fuso, perchè mancano assolutamente i grossi cristalli. (!) Lavoro eseguito nell'Istituto fisico della R. Università di Roma. (*) Cambr. Proc. (2) 9, 118 (1901). — 1054 — La misura della resistenza è stata fatta col metodo già adoperato in altre esperienze analoghe eseguite con il prof. Corbino (*). In due punti della lamina erano applicati due elettrodi puntiformi che funzionavano da addut- tori della corrente e nelle loro vicinanze due elettrodi sonde per la esplo- razione di potenziali, disponendoli in posizione tale da rendere trascurabile la differenza di potenziale per effetto Hall. Allo scopo di eliminare completamente l’ influenza di quest’ultimo veniva preso come valore della differenza di potenziale fra le sonde la media dei valori, poco differenti, ottenuti col campo diretto e col campo invertito. In tal modo la variazione di resistenza, che si deduce dalla variazione di diffe- renza di potenziale osservata, è del tutto dovuta alla variazione delle pro- prietà specifiche del bismuto sotto l’azione del campo. Essendomi messo in condizione di evitare tutte le possibili cause di errore ho proceduto alla misura del rapporto fra la resistenza specifica del bismuto col campo a quella senza campo, prendendo come termine di confronto una lamina di bismuto fuso della stessa qualità di quello usato per preparare la polvere. Le lamine avevano tutte le stesse dimensioni e cioè erano dei dischi dello spessore di 1nm. 1,8 e del diametro di mm. 20. Chiamando con 7 la resistenza specifica della lamina nel campo ed 7 quella fuori, ho trovato i seguenti risultati: Campo n USCEGISE To Bismuto< 1030 (SR, 0 100) 1,20 Bismuto in polvere compresso . . . . . . 0400 1,04 Come si vede la variazione di resistenza si riduce per queste lamine di polveri compresse ad un valore assai piccolo. Ho in seguito sperimentato delle lamine di polvere di bismuto com- presso ottenute in modo del tutto analogo a quelle precedentemente descritte, ma usando della polvere preparata riducendo con mezzi chimici un sale di bismnto. La polvere sottilissima così ottenuta ben lavata ed asciugata con cura mi ha permesso d’ottenere delle lamine di aspetto analogo alle precedenti, ma solo un po’ più fragili. La struttura interna era però molto più fine. Per tali lamine la variazione di resistenza per campi anche di 10,000 unità C. G. S. è praticamente nulla. Ho voluto poi studiare per le stesse lamine un fenomeno che non pare, nella sua parte più essenziale, legato alla struttura grossolana del metallo; (*) Rend. R. Accad. Lincei, XXIV, pag. 806. — 1055 — ho perciò determinato per esse la costante dell'effetto Hall. Per questo scopo mi sono servito della solita disposizione con i quattro elettrodi puntiformi, prendendo le dovute precauzioni, per evitare le cause di errore che così for- temente possono influire sulla determinazione quantitativa di detta costante. Ho sperimentato insieme con le lamine di polveri compresse la lamina di bismuto fuso ed ho trovato valori uguali per tutte se sì escludono delle piccole divergenze che possono essere giustificate da inevitabili errori di osservazione. I valori ottenuti per le lamine di polveri compresse, sono in ogni caso nei limiti di quelli trovati per la costante dell'effetto Hall per il bismuto fuso dai varî sperimentatori. Si può concludere che, poichè una lamina di bismuto fuso, che presenta insieme l’effetto Hall e la variazione di resistenza nel campo, polverizzata e ricomposta per compressione conserva inalterato il primo effetto e perde il secondo, non pare vi sia relazione alcuna fra i due effetti. Ciò spiega perchè la teoria che dà ragione dell'effetto Hall ed analoghi, non lascia prevedere la variazione di resistenza dei metalli nel campo magne- tico che apparisce forse dipendente da alterazioni transitorie prodotte dal campo sulla struttura dei metalli stessi. Fisica. — Sull’attrito interno del nickel in campo magne- tico variabile. Nota preliminare del prof. ERNEsTo DRAGO, presen- tata dal Corrispondente A. BATTELLI. Fisica. — Determinazione indiretta dello spettro solare. Nota del prof. A. AMERIO, presentata dal Socio P. BLASERNA. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. — 1056 — Chimica-fisica. — Determinazione sperimentale delle costanti critiche dell'azoto, dell’ossido di carbonio, dell'ossigeno, e del me- tano ('). Nota di EttoRE CARDOSO, presentata dal Socio E. PATERNÒ. 1. Ho già pubblicato i risultati sperimentali delle mie ricerche sullo stato critico d'una diecina di gas le cui temperature critiche erano comprese fra + 9° e + 157° (*). Lo scopo di queste misure è di riunire il più grande numero di dati precisi assolutamente indispensabili per lo studio dell'equazione di stato dei fluidi reali. Allargando il campo delle mie inve- stigazioni fui portato a studiare i gas comunemente chiamati permanenti. Questi gas, che sono stati poco o mai studiati (forse a causa delle dif- ficoltà sperimentali che si presentano nel loro studio) offrono fra varie par- ticolarità quella interessantissima, al punto di vista dello studio degli stati corrispondenti, di dare delle temperature ridotte, i cui valori decrescono ra- pidamente a una piccola distanza dal punto critico. 2. La più grossa difficoltà da superare nello studio delle costanti cri- tiche dei gas dei quali mi sono occupato, risiede nella costruzione di un criostato semplice e preciso, capace di mantenere costante la temperatura a 0°10 (o ciò che è ancor meglio a 0°05) fra — 80° et — 160°. Ho trovato una soluzione di questo problema senza ricorrere all'ebullizione dei gas sotto pressione ridotta, perchè questo metodo, che può essere molto preciso (3), è in ogni caso di prezzo elevatissimo e richiede un personale tecnico. Ho dato altrove (‘) una descrizione molto sommaria del criostato semplicissimo che ho costruito e che ha corrisposto perfettamente allo scopo per il quale fu studiato. Questo apparecchio è stato alquanto perfezionato e ne darò una descrizione molto completa a tempo debito. 8. La temperatura era misurata per mezzo di un termometro di vetro duro francese graduato da Baudin e riempito da me con dell'isopentano purissimo che debbo alla cortesia del mio amico prof. J. Timmermans di Bruxelles. (1) Lavoro eseguito nell’Istituto di fisica della Università di Ginevra, maggio 1913- ottobre 1914. (*) J. chim. phys. (1912), X, 479. (5) Esistono, a mia conoscenza, solo due o tre di questi impianti. Il più perfetto e più completo di essi è quello giustamente celebre dell’ Università di Leida che ha per- messo al suo ideatore prof. Kammerlingh-Onnes di realizzare le temperature più basse possibili nello stato attuale delle nostre conoscenze. (4) Archives des. Sc. phys. et nat. (1913), XXXVI, 97. — 1057 — Lo studio di questo istrumento mi ha dimostrato che prendendo certe precauzioni forniva dei risultati sicuri e precisi; senza voler insistere per adesso sulla questione dei termometri dirò soltanto che dovetti ricorrere al suddetto apparecchio perchè i termometri di Baudin, che dànno sempre degli ottimi risultati, non davano più risultati sicuri nelle mie condizioni speri- mentali. 4. Gli apparecchi di compressione e di misura delle pressioni erano, salvo qualche leggera variante, gli stessi che utilizzai nelle nostre prece- denti ricerche sui gas facilmente coercibili ('). Il tubo laboratorio però, in- vece di essere dritto, era ricurvo due volte ad angolo retto in modo da pe- scare nel criostato. 5. Il controllo della purezza dei campioni di gas era fatto per com- pressione isoterma, facendo variare largamente il volume rispettivo delle due fasi. Ho considerato il campione puro quando la differenza di pressione fra il principio e la fine della liquefazione non sorpassava 0,05 atmosfere. 6. Coi suddetti metodi di ricerca ho determinato la temperatura e la pressione critica dei quattro gas seguenti. I risultati pubblicati qui sotto (arrotondati a 0,05 atmosfere e 0°05)(*) sono la media di numerose misure concordanti. Gas pressione critica temperatura critica (atmosfere) (centigrada) N; 38,65 — 144,7 (0,0) 34,60 — 158,7 0, 49,30 — 118,0 CH, 45,60 — 82,85 In una Memoria generale che pubblicherò prossimamente farò conoscere tutti i particolari sperimentali e descriverò altresì certe prove, rimaste senza risultato, fatte collo scopo di provocare il fenomeno dell'opalescenza critica coi gas studiati. (1) J. chim. phys., loc. cit. (*) Lo scarto si è mantenuto sempre inferiore a questo valore nelle mie esperienze ; . dig qualche volta non arrivava a 100 di atmosfera. — 1058 — Chimica. — Sopra alcuni derivati dell'acido lapacico (1). Nota di LypiaA MONTI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. L'acido lapacico è una sostanza gialla, contenuta nel legno di lapacho o taigu (una bigoniacea che cresce nel sud-America) ed in altre varietà di legni. Il prof. Paternò (*), nel 1882, determinò la sua composizione, che trovò corrispondente alla formula C,3H,4 03, ed in seguito ad un accurato studio gli attribuì la formula di costituzione seguente: (0) | N Y-0H=0A—CA v e l'angolo assiale decrescente con il salire del tenore in ferro. Meroxeno e Hogopite di 2° specie (PA pa- rallelo a 010) mostrano @ > v e l'angolo assiale crescente con il tenore in ferro('‘). Essendo dunque la lepidolite Elbana una mica di 1° specie ed avendo un contenuto in ferro relativamente alto, dovrà avere anche l'angolo assiale minimo. Anzi posso qui aggiungere che prove qualitative mi farebbero presupporre in certi campioni una ricchezza in ferro anche superiore a quella data dall'analisi qualitativa completa. * + x Per ultimo aggiungo le notizie poco importanti che posso partecipare suì caratteri cristallogratici del minerale. Essi erano già tanto scarsi che non è stato possibile mai calcolare nemmeno un rapporto assiale, ed io non sono stato più fortunato. Macroscopicamente il minerale è ben definito « In cristalli laminari, e in aggregati sferoidali a rosette o in lamine estese » (?). Al microscopio sì presenta come sottili lamine a contorni esagonali; gli an- goli piani misurati oscillano intorno ai 60°, piuttosto al disotto che al di- sopra. Raramente si vedono facce laterali, forse di prisma, forse anche di piramide. Le lamine estese differiscono un poco per il colore che è piuttosto bianco argenteo, talvolta fino grigio. Su un campione di queste varietà ho fatto la seguente analisi parziale: SiO, 45,58 A1:03 29,68 Fe.0, 1,89 TiO, 0,20 Mn0 1,65 Risulta che anche queste lamine mantengono le caratteristiche del mi- nerale cioè manganesifere, titanifere e ferriferte. Del resto lamine con il dia- metro, come queste, anche di 5 cm., non sono più una rarità dal momento che Lacroix parla di lamine lepidolitiche con il diametro di 15 cm. nel giacimento di Mont Bity (Maharitra, Madagascar). Di questo giacimento il citato autore dà una dettagliata notizia (*) e possiamo osservare che consiste in un granito pegmatitico ricco di tormalina della varietà rubellite, ove si trovano anche trifano e bityite, nuovo mine- vale litinifero pseudoesagonale specifico di questa località. Fa perfettamente ('*) Panichi, Ace. Lincei (1906) pp. 14 e 18. (8) Millosevich F., 5000, Elbani, Firenze (1914). (3) Bull. Soc. min. France. (1908) 218. — 1073 — riscontro il giacimento Elbano pure in granito tormalinifero, ma con torma- line in prevalenza nere, ed accompagnato da altro minerale litinifero, la petalite. Ma l'analisi di lepidoliti di Antsangambato (4) e Antaboka (è) (*) che si trovano nelle stesse condizioni di giacimento di Maharitra dimostrano trat- tarsi di miche molto più silicee, meno alluminifere e ferrifere, inoltre meno dense. L'angolo degli assi ottici, come è prevedibile dalla composizione, è molto più grande. Le condizioni dunque di genesi avevano differenze parti- colari spiccate. Eccone i dati relativi: A) d) Si0, 55.97 57,25 Al:03 17,70 173605 Fes0, 0,68 0,51 Mg0O 0,09 017 Mn0 0,58 0,24 K:0 10,14 10,11 Na:0 0.82 0,78 Li0 4,71 5,42 F 1012 6.28 H,0 2,24 1,58 100,05 99.79 Densità 2,799 2,804 2E 74°26 74 Riassumendo, la lepidolite dell'Elba è una vera lepidolite di 1° specie litinifera e fluorifera: ma ha un contenuto superiore in ferro e specialmente un angolo assiale molto piccolo. Sento il dovere di ringraziare pubblicamente il mio maestro, prof. Mil- losevich, per gli aiuti e i consigli, di cui mi è stato largo in questa ed in altre occasioni. (1) Dupare, Wunder, Sabot, op. cit. — 1074 — Patologia. — Vteriori ricerche sulla leishmaniosi interna del Mediterraneo. Nota del dott. CARLO BASILE (!), presentata dal Socio B. GRASSI. Trasmissione della leishmaniosi interna per via gastrica. Le ricerche sulla trasmissione della leishmaniosi interna per via gastrica sono state da me eseguite dal marzo al maggio dell’anno 1914; io ho tar- dato a pubblicarle, perchè mi proponevo riferire tutta una nuova serie di ricerche originali nel mio lavoro definitivo sulla leishmaniosi interna del mediterraneo, che sarebbe stato di già certamente pubblicato se, in seguito ai ripetuti esperimenti di Laveran e Franchini, sull’infezione dei topi per mezzo di flagellati di invertebrati, anche per consiglio del mio Maestro prof. B. Grassi, non avessi ritenuto più opportuno, nell'interesse scientifico, dif- ferirne la pubblicazione e vagliare, con nuove ricerche originali, le con- clusioni di questi autori. Tuttavia, avendo letto nel Tropical Diseases Bullettin (15 aprile 1915) alcune ricerche dell’Archibald sulla trasmissione della leishmaniosi interna per via gastrica, io mi propongo in questa Nota riferire alcune mie ricerche simili a quelle dell'Archibald. Questo autore ha ottenuto la trasmissione i leishmaniosi (virus del Soudan) in due scimmie, facendo mangiare ad una di esse materiale di una scimmia sperimentalmente infetta, ed all'altra materiale di un caso mortale di leishmaniosi. L'Archibald ha tentato anche di infettare un cucciolo per via gastrica e sebbene il cucciolo presentasse, dopo qualche tempo, segni di dimagrimento e di anemia, tuttavia sacrificato dopo 162 giorni, non è stata mai rinvenuta alcuna /eishmania nei suoi organi emopoietici; soltanto nel fegato l’autore avrebbe osservato taluni corpi cocciformi che, dopo un'accurata disamina dei lavori di Smallman e Wenyon, egli ritiene che sieno di origine protozoica e che debbano associarsi alle lesshmania. Le mie ricerche sono state eseguite su due cuccioli; ambedue dell'età di un mese, nati ed allevati in laboratorio con tali cautele da poter assi- curare che non sono stati mai in contatto con insetti ematofagi. Essi cuc- cioli il giorno 7 marzo dell'anno 1914 mangiarono il fegato e la milza di un cane intensamente infetto di leishmaniosi naturale; dopo qualche tempo presentarono segni di dimagrimento. Al 60° giorno dall'aver mangiato il (*) Dall’istituto di Anatomia Comparata della R. Università di Roma. LS materiale infetto, uno di essi, il più dimagrito, fu sacrificato; l’altro fu sa- crificato al 67° giorno. Nei preparati per strisciamento (fissati e coloriti al Giemsa) eseguiti dalla milza, dal midollo osseo e con maggior frequenza in quelli eseguiti dal fegato, io ho osservato delle forme, le quali presentavano un plasma roseo o bleu-chiaro contenente nel suo interno uno o più corpicciuoli dall’apparenza di cromatina; in questi stessi preparati, provenienti dagli organi emopoietici dell'uno e dell'altro cucciolo, io ho anche osservato, sebbene molto raramente, altre forme ancora le quali presentavano la morfologia tipica delle /esshmania; esse mostravano un plasma roseo o bleu-chiaro, nel cui interno distinguevasi un macronucleo ed un micronucleo. Io ritengo che le suddette forme costituite da un plasma contenente nel suo interno uno o più corpicciuoli di cromatina appartengono a stadî evolutivi di /ezshmania; infatti io ho potuto riscontrare forme del tutto iden- tiche nel fegato e nella milza di giovani conigli, ripetute volte inoculati con virus culturale di /esshmanza di origine infantile e di origine canina, senza che li avessi mai osservati nel fegato e nella milza di numerosi altri giovani conigli sani tenuti per controllo. Come è costante metodo in tutte le mie ricerche sperimentali, anche in questi miei esperimenti di trasmissione della leishmaniosi interna per via gastrica io ho tenuti per controllo altri due cuccioli nati nello stesso parto ed allevati nelle stesse condizioni dei due cuccioli che hanno mangiato materiale infetto di /ezshmania. Questi due cuccioli di controllo si sono mantenuti sempre sani. Anche essi furono sacrificati come i precedenti, e per quante minuziose ricerche avessi eseguito, non ho mai osservato nei loro organi alcuna delle forme surriferite. Risulta per ciò dalle mie ricerche che io sin dal maggio dell’anno 1914 ho ottenuto in cuccioli, per via gastrica, la trasmissione della leishmaniosi interna di origine canina. Concomitanza di infezione da Leishmania e da Piroplasma nel cane. Un'altra osservazione fatta dall’Archibald sulla concomitanza di infe- zione nell'uomo da /ezshmania e da filaria mi induce a riferire in questa Nota un mio esperimento eseguito anche esso nei mesi di aprile e maggio dell’anno 1914 e che è stato da me oralmente comunicato all'Associazione fra i liberi cultori di scienze mediche e naturali dell’ Università di Roma nella seduta dell'11 giugno 1914. Si tratta, per quanto a me consta, del primo caso di concomitanza della leishmaniosi con altra infezione protozoica. Un cane anemico e dimagrito intensamente infetto di leishmaniosi fu tenuto in osservazione per 15 giorni; l'esame microscopico del midollo osseo RenpICcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem JI304 — 1076 — tibiale rivelò soltanto la presenza di numerosissime /eishmarzia ; non furono riscontrati altri parassiti; l'esame microscopico del sangue periferico ripetuto quotidianamente non rilevò mai nè /eishmania, nè altri parassiti di sorta. Al 15° giorno di osservazione questo cane fu portato in un canile di uno degli istituti scientifici dell’ Università ove, era a mia conoscenza, che sì trovavano cani con numerose zecche e che alcuni di essi erano infetti di piroplasmosi. Il cane infetto di leishmaniosi dopo 38 giorni da quando era stato posto. a convivere con i cani infetti di piroplasmosi fu da me riveduto ; esso pre- sentava dimagrimento ancor più notevole, impossibilità assoluta di reggersi. sul treno posteriore, notevoli edemi alle estremità; ancora due ulcere appa- rivauo presso l'articolazione tibio tarsica; esse si approfondivano notevol- mente e con uno specillo io ho potuto accertare che esse erano in continuità: l'una dell'altra e che i tessuti extra articolari erano stati distrutti. L'esame microscopico del materiale tolto da queste ulcere rivelò la presenza non solo di tipiche /eishmania ma anche di piroplasma; il sangue periferico esaminato successivamente era ricco delle varie forme tipiche di piroplasma. L'animale dopo altri pochi giorni è morto e dai suoi organi emopoietici,. ma specialmente dal midollo costale, io ho potuto ottenere dei preparati in cui è veramente notevole la quantità dei due protozoi, leishmania e piro- plasma, associati l'uno all’altro. L’infezione sperimentale da leishmania nelle pulci. Il dott. Pereira Da Silva ha pubblicato recentemente negli Arquivos do Instituto Camara Pestana (tomo IV, fasc. III, Lisbona, 1915) alcuni suoi tentativi di infezione sperimentale di pulci di uomo (Pulex Irritans) con virus di leishmaniosi interna infantile, eseguiti per un periodo di 75 giorni dal 26 maggio all’8 agosto 1914. Le pulci adoperate dall'autore sono state soltanto 25, le quali, legate col metodo del Noeller, erano poste a succhiare ogni due giorni sulla cute di un bambino infetto. Dai protocolli riferiti dall'autore, risulta che esse sono state divise in tre gruppi: un primo gruppo, di 8 pulci (26 maggio - 8 agosto 1914): un secondo di 9 pulci (11 giugno - 8 agosto 1914); un terzo di 8 pulci (21 lugllo - 8 agosto 1914). Soltanto 2 pulci appartenenti al primo gruppo han succhiato sul bambino infetto un massimo di 38 volte; tutte le altre han succhiato un numero di volte sempre più decrescente fino ad un minimo di due. L'autore assicura di aver nutrito sulla propria cute per 15 giorni ogni pulce prima di sottoporla all'esperimento, per accertare che non fosse natu- ralmente infetta di Rerpetomonas o crithidia; e tenendo presente quanta influenza abbia la temperatura sul ciclo evolutivo dei protozoi patogeni nei loro ospiti trasmissori, egli assicura anche che le pulci, subito dopo il pasto, erano trasportate dall'ospedale di s. Josè, ove degeva il bambino infermo, — 1077 — EI all'istituto Camara Pestana, e quivi eran poste in una stufa alla tempera- tura di 22° ctgr.; questa temperatura, come io ho dimostrato. è molto oppor- tuna all ulteriore sviluppo delle /ezshmania. Il Pereira ha esaminato le deiezioni delle 25 pulci sia all'atto del succhiamento, sia negli intervalli, ma non ha mai riscontrato in esse /ezshmania; egli perciò conclude l’'espo- sizione delle sue ricerche scrivendo, in modo obbiettivamente scientifico, che « se esse non possono dimostrare in modo assoluto che le pulci non sì in- fettano, dimostrano tuttavia che questa infezione è molto difficile ». Che la infezione di pulci con virus di /ezshmania sia difficile, è stato anche da me osservato in talune ricerche fin oggi non pubblicate; del resto tale difficoltà è stata anche da me rilevata in natura sin dal 1910, quando io, in base ad estesissime ricerche nelle pulci raccattate sui bambini e sui cani infetti di /eishmania, ho potuto osservare ed ho pubblicato che sol- tanto il 4 per mille di esse erano infette di protozoi « tipo /esshmania »; i quali protozoi, inoculati in cuccioli ed in topi (mus musculus) hanno de- terminato in questi animali un'infezione caratterizzata dagli stessi sintomi e dallo stesso reperto parassitario che si osservano nello leishmaniosi natu- rale o sperimentale. Una tale difficoltà di infezione naturale e sperimentale delle pulci con virus di /ezshmania risiede certamente nella grande rarità con cui si rin- vengono i parassiti nel sangue circolante e dei quali taluni forse non sono neppure adatti all ulteriore sviluppo; più particolarmente nelle ricerche del Pereira, condotte con attenzione, noi ci sentiamo autorizzati a ritenere che nessuna delle pulci in esperimento ingerì mai /e;shmanzia, perchè questi protozoi come ci assicura l'Autore, mai sono apparsi all'esame il più minuzioso di tutte le deiezioni raccolte, sia durante il pasto, sia negli intervalli; evidentemente se le /eishmaria non erano state ingerite, non potevano svilupparsi!!! Io non mi sarei fermato su tali ricerche del Pereira se questo autore non avesse tentato una generalizzazzione delle idee del Brumpt sulla weno- diagnostica, e non avesse ricordato le ricerche del Wenyon e del Patton sull’infezione sperimentale delle pulci con virus di /eishmania tropica e leishmania donovani per giungere ad affermare, inaspettatamente, che le sue ricerche fin oggi dimostrano che « le pulci (del cane e dell’uomo) non sono gli agenti di trasmissione della leishmaniosi umana e canina ». Tale affermazione del Pereira è in evidente contrasto non solo colle sue stesse ricerche che, come egli scrive in precedenza nella sua stessa Nota « non possono dimostrare in modo assoluto che le pulci non si infettano », ma è anche in contrasto con le altre sue simili ricerche da lui precedente- mente pubblicate e nelle quali ha ottenuto reperto positivo di infezione spe- rimentale delle pulci (del cane) ponendole a succhiare su un cane speri- mentalmente infetto di leishmaniosi di origine infantile; ricerche queste che — 1078 — sono state già da me esaminate in una mia precedente pubblicazione (Rendic. Accad. Lincei, 1914) e che per brevità di spazio io qui non ripeto. Rispetto alla zezodiagnostica proposta dal Brumpt per la diagnosi della tiroidite parassitaria (quando gli altri mezzi diagnostici non sono applicabili o sono negativi) io osservo al Pereira che lo stesso Brumpt, che riferisce di aver ottenuto il 100 °/, di successi sperimentando con 7riatoma o Rhodnius e soggetti infetti di tiroidite parassitaria scrive a tal proposito « questa per- centuale distingue questi meravigliosi ospiti trasmissori dalle G/ossine che nella malattia del sonno ed in altre tripanosomiasi animali si infettano in una proporzione minima ». È stato infatti osservato che molti protozoi patogeni ingeriti dai loro ospiti trasmissori naturali non compiono in essì l’ ulteriore sviluppo, ma in- vece degenerano e scompaiono; le cause di questi fenomeni non sono fino oggi note. Il Grassi, studiando lo sviluppo dei parassiti malarici nell’ intestino del- l'Anopheles, ha potuto osservare in taluni Aropheles la degenerazione e la scomparsa dei parassiti malarici; egli ha interpretato questo fenomeno con un fenomeno di immunità congenita che presentano taluni Anopheles e ne ha dato la dimostrazione sperimentando con Azopheles allevati in laboratorio. Il Minchin e Thomson studiando recentemente il ciclo evolutivo del Tripanosoma Lewis nella pulce del topo (Ceratophillus fasciatus) hanno potuto accertare che nelle numerosissime pulci poste a succhiare su topi intensamente infetti di 777p. lewisî soltanto in alcune di esse si è com- piuto l'ulteriore sviluppo del tripanosoma nel tubo digerente: in una per- centuale approssimativa del 25°/,: nelle altre pulci il parassita ingerito è ben tosto degenerato e scomparso. Nella malaria e nelle tripanosomiasi i parassiti sono talora frequentissimi nel sangue periferico; mentre nella leishmaniosi interna nelle regioni mediter- ranee è ormai definitivamente accertata la loro costante rarità. Al lume quindi delle suddette osservazioni sulla frequenza o meno dei protozoi patogeni nel sangue periferico, sulla loro capacità o no all’ ulteriore sviluppo e sulla recettività o refrattarietà dei loro ospiti trasmissori naturali si può oggi dedurre che nessun valore scientifico hanno gli esperimenti del Pereira, e che è per lo meno prematura la conclusione che il Wenyon ed il Patton hanno voluto trarre dalle loro ricerche di infezione sperimentale delle pulci con virus di /eishmania tropica e leishmania donovani. — 1079 — Matematica. — A/cune questioni di geometria sopra una curva algebrica. Nota I di RuaGIERO TORELLI, presentata dal Socio E. BERTINI. In questo lavoro, dopo avere brevemente ricordata la rappresentazione analitica di una corrispondenza algebrica fra due curve ($ 1), scrivo certe relazioni cui soddisfano i periodi normali degli integrali normali di prima specie relativi a due curve C, C, di genere p, allorquando esse sono bira- zionale identiche (teorema I); e mostro poi come parte di queste relazioni siano sufficienti per dedurre l'identità birazionale di C, C, (teorema II). Ciò getta qualche luce sulle incognite relazioni di Riemann che legano i periodi normali relativi a una curva. Enuncio poi una condizione necessaria e sufficiente, relativa sempre ai periodi di C,C,, perchè queste due curve abbiano la stessa varietà di Jacobi (teorema III); e ciò mi dà occasione di ritrovare un teorema del | Severi in proposito. Per esporre gli altri risultati, premetto qualche spiegazione. A) Siano Vp, Vp le varietà delle o-ple di punti di due curve C, C, (o = p). Dicendo ciò, intendiamo che siano state fissate le corrispondenze fra i punti di V; V; e le o-ple di punti di C, Cp; e che, se C, è sovrap- posta a C,, sia Vp sovrapposta a V,, e le due dette corrispondenze coin- cidano. Se fra Cp Gi intercede una corrispondenza biunivoca, questa fa corri- spondere biunivocamente le o-ple di punti di C, a quelle di da inducendo così una ben determinata corrispondenza biunivoca fra Vo Voi Quest'ultima, e quelle da essa dedotte moltiplicandola per trasformazioni ordinarie (*) in sè di V; Ve, si diranno assoczate alla data corrispondenza biunivoca fra le due curve. B) Consideriamo nella varietà di Jacobi V,, relativa a nna curva C,, la varietà co? imagine delle p-ple di punti di C, con p—@ punti fissi arbitrarî. Applicando a tal varietà tutte le trasformazioni ordinarie di V, in sè, si hanno co? varietà che chiameremo brevemente varzetà We. Le Wo (*) Una corrispondenza biunivoca fra le o-ple di punti di una curva C, di genere p= 0 si dice ordinaria di 1% 0 22 specie, quando la differenza o la somma di o-ple omologhe varia in una serie lineare. Se o=p — 1, ovvero se C, è iperellittica, esiste una corr. ordinaria (che è di 2° specie); se o

Gil Tri i | D sn an=Hn t DD» Gi Tri, Y Y (2) gli 49 HG essendo numeri interi (intieri caratteristici di S). (') Le sole corrispondenze biunivoche non singolari, su curve di genere p> 1, sono quelle date dalle 9} delle curve iperellittiche. (°) In tutte le formule, quando non sia esplicitamente notato il contrario, gli indici. di sommazione variano da 1 a p. — 1082 — Da queste si traggono le p° relazioni (21) 2 Gji txj ti È DI hri di — DI Gata — Hu="0. Se la corrispondenza S non è a valenza zero, i numeri 77 non sono tutti nulli: e viceversa. E si noti che, com'è facile vedere, i numeri 77, sono tutti nulli se, e solo se, lo sono i numeri 49HG. 2. Per l'operazione S7! (inversa della S), che porta da un punto y di 5 ai suoi omologhi x'«"... x*, avremo similmente u(d')+---+ (0) = DI Tri Vi(y) 4 tx, rt = hm + I Gai Ori i Dama = Hm + D_ Ga ani. i} Ora, i numeri 419HG si determinano facilmente, imitando il procedi- mento che segue l’ Hurwitz nel caso che le curve C,C, siano sovrapposte e si rappresentino a//0 stesso modo su un'unica ciambella (talchè 7,7 = 4). Si trova così hu= Ga, Ga = — It è Hu=—Hx,; Gu=lm- 3. Vediamo adesso facilmente che Se p>1 e il determinante Il dei numeri rin è diverso da zero, non possono esistere su Cp, nè su Cp, infinite coppie di punti i cui gruppi omologhi siano equivalenti 0 coincidano. Infatti, se ogni gruppo (y'y"... y"”) fosse equivalente a qualche altro gruppo analogo, i y integrali di C, d Itri Ui(x) non potrebbero essere linearmente indipendenti ('); quindi seguirebbe ZZ= 0, contro il supposto. Se poi si verificasse qualcun altro dei casi che vogliamo dimostrare assurdi, la serie descritta su C, dal gruppo (y' y"... y”) dovrebbe godere di una delle due proprietà: 1) essere birazionale identica a una involuzione di C, (loc. cit., n. 1); 2) essere nella stessa classe (?) con (1) R. Torelli, Sulle serie algebriche ecc. [Rend. Palermo, tomo XXXVII (1914)], n. 16, III. (2) Si dice che due serie (di egual dimensione) appartengono alla stessa classe, quando esse possono mettersi fra loro in corrispondenza biunivoca le che la somma o la differenza di due gruppi omologhi varii in una serie lineare. — 1083 — una serie composta con una involuzione (loc. cit., n. 21, teorema IV). Ma allora si arriverebbe daccapo alla deduzione che gli integrali sopra scritti non sono linearmente indipendenti. Dalla precedente proposizione segue subito che Se p>1l e D+0, le serie yi, y degli ordini n, v, indotte dalla corrispondenza S su Cp Cp, hanno gli indici rispettivi v,n, e sono bira- zionali identiche rispettivamente a Cp Op » Si potrebbe anche facilmente vedere che Se è IÎ1+ 0, è anche diverso da zero il determinante degli intieri caratteristici (scritto al n. 9). 4. Supponiamo p>1 e Z/+0. Chiamando omologhi su C, due punti quando sono in uno stesso gruppo della serie y,, si ottiene su C, una cor- rispondenza simmetrica T, di indice v(2 — 1). In modo analogo si ottiene su C, una corrispondenza simmetrica T, di indici 2(v — 1). Si ottengono facilmente le rappresentazioni analitiche delle cor- rispondenze T, T . Basta osservare che, per es., la T non è altro che il prodotto S_ $, diminuito dell'identità contata v volte. Con che, detti yy"... gli omologhi di y nella T, si hanno le formule ly) + aly) += rog) + I vl + rt (I ag = ht + D_ gi tn ‘ Daga = H+ D_ Gi ca (1) | ha, = Gi= S (ln Gu — Hai 9) (3) I Gr = — 9 = D (9ni Gu — Gri Yi) | Ha= TH = > (Hr hu — hu Hu) - Analogamente si potrebbero scrivere le formule relative a T. È anche facile di calcolare il comune difetto di equivalenza 3 delle due serie yy}. (') Le espressioni delle costanti #* non hanno per noi alcun interesse. Avverto che le considerazioni di questo numero subiscono qualche lievissima mo- dificazione, quando si tolga l'ipotesi p> 1,10. RenpiconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 138 — 1084 — Basta osservare che il numero dei punti doppî di y,, ossia dei punti uniti di T (*), è dato notoriamente da 2n+p_1)—- 2; e anche, per una importante formula di Hurwitz, da dla -1)—2() ha — rp). k Dal paragone delle due espressioni segue (4) e=D hi= D_ (lai Gui — Hai 9w) - k ki 5. Le considerazioni del n. 1 si invertono così: Se due sistemi di pe- riodi normali cx @x delle due curve C, Cp soddisfano alle relazioni (2'), esistono fra C, C, infinite corrispondenze, cui competono gli intieri carat- teristici 29 HG ovvero —% —g9 —H —G. Tutte queste corrispondenze formano, come diremo, una classe, nel senso che le serie da esse indotte su C, e su C, formano una classe. In una classe di corrispondenze (che non sia quella delle corrispondenze a valenza zero) esistono infinite corrispondenze aventi uno degli indici eguale a p. Basta osservare che, supposte verificate le (2), il sistema di equazioni abeliane ot: + le) =D nuit, colle costanti 77, genericamente scelte, individua, per ogni punto x di C, un gruppo (y'...y?) di p punti su C,. In tal senso diremo che il prece- dente sistema rappresenta una y, di Cp. Notiamo che le cose dette in questo $ 1, eccettuato naturalmente il n. 3, si estendono subito al caso di due curve di generi diversz. $ 2. — CONDIZIONI PER L'IDENTITÀ BIRAZIONALE DI DUE CURVE. 6. Dalle considerazioni del $ 1 deduciamo facilmente le condizioni necessarie cui debbono soddisfare le 7;n n perchè le due curve C, C, siano birazionalmente identiche. Basta pensare che, se fra C, C, intercede una corri- spondenza biunivoca S, il prodotto S_ S, la cui rappresentazione analitica si deduce subito da quella di S (n. 4), è l'identità. Tenendo dunque pre- senti le formule (2') (3), abbiamo il (') Se tali punti fossero infiniti, si ricorrerebbe a un’altra corrispondenza S’, avente gli stessi intieri caratteristici di S (cfr. n. 5), e non presentante questa particolarità. — 1085 — TrorEMA I. — Se due curve C,C, sono birazionalmente identiche, fra due loro qualunque sistemi di periodi normali ti di intercedono certe p* relazioni DI Gii Trj da T DI hri da — DE Gita —Hm=0, ji i i dove gli intieri hg HG (dipendenti dalla scelta dei tx ax) soddisfano alle p(2p — 1) eguaglianze D (kai Gri — Hai gu) = 1 U 3 Da (Hri Gu — Hr; gui) =00 Î \ O î D (gu Gu — Gui gu) = 0 | k-EL, DI (Hi hi — hx Hi) = 0 | e alla condizione che il determinante dei numeri ra= hab S gGiatu è i diverso da zero. 7. Le condizioni sufficienti per l'identità birazionale delle curve C, Cp si deducono dal $ 1 e da un teorema da me dimostrato tempo fa (!): teo- rema il quale afferma, in sostanza, che se per la corrispondenza S, di cui si è parlato nel S 1, sì verificano le due circostanze che il determinante dei numeri 777, è diverso da zero, e il difetto d’equivalenza # delle serie y} yi ha il valore p, allora nella classe individuata da S vi è una corri- spondenza biunivoca. Otteniamo così il TrorEMA II. — Per affermare che due curve C, Cp sono birazio- nali identiche, basta sapere che esse posseggono due sistemi di periodi normali tx dix verificanti le p° relazioni D giant D ma — D_ Gar — Hn=0, Îi i i dove gli intieri h9 HG soddisfano alla condizione DI (Rui Gui — Hui Gui) =P; ik e all'altra che il determinante formato coi numeri mu=lm+ D_ gi tri î sta diverso da sero. (') R. Torelli, Sulle varietà di Jacobi [questi Rend., vol. XXII, agosto 1913], teorema I. — 1086 — 8. Dal paragone dei teoremi I e II viene il seguente CoRoLLARIO. — Supposto che î numeri tir di siano due sistemi di periodi normali di due curve Cp Cp, il sistema delle p> +1 equazioni nelle hg HG: (5) I trj du gi + I Ga ri — I tn Ga — Hn = 0 Îi i i (6) > (Poni Gui — Hui Gui) = P , ki gode della seguente proprietà: se esso ammette una soluzione intera che non annulli il determinante II dei numeri rta = han + DI Gi Tri, questa s0- luzione necessariamente soddisfa alle p(2p —1) relazioni S (ln Gui — Hai Ju) = 1 ‘ [si noti che da queste segue la (6)] Da (Ari Gi — Hun gu) = 0 D (9ri Gi — Grgu=0 ) A+. 0 > (Hr lu — lu Hu) =0 | Orbene: questa proprietà del sistema (5) (6) implica delle relazioni fra i coefficienti tir dix: essa è cioè equivalente alle relazioni riemanniane, ricordate in prefazione, fra le tin e fra le am (0 a parte di esse). Per giustificare questa affermazione osserviamo, che, scelti degli intieri hgHG colla sola condizione che soddisfino alla (6), si può sempre risolvere, in oo? modi almeno, il sistema (5) rispetto alle p(p + 1) dneognite tina (convenendo che debba essere zx = xi , dix = xi). E la generica di queste soluzioni non annulla certo il determinante 77; perchè ciò non avviene par- ticolarizzando ancor più gli intieri 19 H G: basta, per convincersene, pren- dere due curve C, Co birazionalmente identiche, e scrivere le relazioni di cui parla il teorema I. E. M. | Pubblicazioni della R. Accademia dei ua Serio 1 — Atti dell’ Ardito pontificia dei Nuovi Lincei. Tomo I-XXII] «Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2° — Vol. I. (1873-74). i «Vol. II. (1874-75). Re di Ds Vol. 1II. (1875- so) Parte 1% TRANSUNTI. 2 MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. n. i 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, daga storiche e filologiche.' ul IV. V. VI. VII. VII. “Serio ga TRANSUNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II. (1, 2). — III-XIX. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. - Serie 4° — RenpicontI. Vol. I-VII. (1884-91). i nica MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali Vol. I-VII. i MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. | Serio na — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. i Vol. I-XXIV. (1892-1915). Fase. 10°. Sem. 1°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XXIII. (1892-1914). dd MemoRIE della Classe. di scienze fisiche, matematiche e naturali o. — Vol. I-X. I MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. * Re. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE |A’ RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI o. DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI 1 Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R Accademia dei Lincei si pubblicano due - volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, CONTISBOT: denti ognuno ad un semestre, Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta | Italia è e di L. £0; per gli altri paesi le spese di posta in più. S Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti - editori- librai: Ermanno LorscHer & C.° — Rovio. Torino e Firenze. © UrrIco Horprr. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Maggio 1915. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 16 maggio 1915. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Severi. Sulla classificazione delle curve algebriche e sul teorema d'esistenza di Riemann. Pag. Bianchi. Sopra una classe di sistemi tripli di superficie ortogonali . . . . SO Borzì e Catalano. La dottrina dei moti delle sensitive. Note anatomo- "agiotazione o) e Freda. Il teorema di Eulero per le funzioni di linea omogenee (pres. dal Socio Voiterra) » Orlando. Sulle equazioni integrali (pres. dal Corrisp. Di Legge). . .. . . BT Bianchini. Sopra un’operazione funzionale atta a trasformare i potenziali opa in sim- metrici (pres. dal Socio Levi-Cwvita) . . . Connie AE RO) Mineo. Sulla distribuzione della massa ici pieno di un corpo in ara a un’as- segnata azione esterna (pres. dal Socio Pizzetti) . . . . . RIEN 1) Trabacchi. Sulla variazione di resistenza del bismuto nel campo Ma gpblito uu dal Socio Blaserna) . . . posse ; GIS a Mani) Drago. Sull’attrito ihiono del pilone in campo magutico “Gariglio o dal Corrisp. ben MARA Malo) Amerio. Determinazione indi. dello i Sata o Saal Socio Blason e». d-02 Cardoso. Determinazione sperimentale delle costanti critiche dell'azoto, dell’ossido di carbonio, dell'ossigeno e del metano (pres. dal Socio Paternò). . /. LL... Monti. Sopra alcuni derivati dell'acido lapacico (pres. Id.) . . . .. . ” Sernagiotto. Autossidazioni alla luce nella serie dei terpeni (pres. dal Socio fo, n Comucci. Studio mineralogico della Lepidolite Elbana (pres. dal Corrisp. Millosevich) . » Basile. Ulteriori ricerche sulla leishmaniosi interna del Mediterraneo (pres. dal Socio Grass) a Dito PRA Lo PAGO n Torelli. Alcune A di A sopra una curva iaacbuica (pres. dal Socio Birkin (*) Questo lavoro sarà pubblicato nei volumi delle Memorze. (**) Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. 1011 1020 1034 1035, 1040 1041 1047 1058 1055 ” 1056 1058 1065 1068 1074 1079 E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. Pi Tea CALO ea VALI GE DELLA ANNO/COCCXII SIE. SRIRITH QUIEN TA RENDICONTI | Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 5 5 I i Seduta del 6 giugno A915. Volume XXIV°. — Fascicolo 11° © POLIA 1° SEMESTRE. ; re) i O Mea TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI o LO PROPRIETÀ DEL DOTT. PIO BEFANI o a FL 1915 gi PD REALE ACCADEMIA DEI LINORI | ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti: 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l’Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità sono portate a 6 pagine. 3, L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. j 4.I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che. si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia sei Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indi cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz’altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- © ziamento all’autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. : 3. Nei primi tre casi, previsti dall’art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti ; 50.36 estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. sii RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 6 giugno 1915. Presidenza del Socio anziano F. Toparo. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Fisica. — Sulla distribuzione della corrente in un elettro- lita posto nel campo magnetico. Nota del Socio prof. Augusto RIGHI. 1. Anteriori ricerche sperimentali e teoriche (!), rivolte allo studio degli effetti prodotti dal campo magnetico sul movimento dei ioni e degli elettroni in un gas percorso dalla corrente elettrica, mi hanno condotto a dimostrare, che gli urti di essi sulle pareti del tubo che contiene il gas dànno una risultante tendente a spostare il tubo medesimo, precisamente come accadrebbe se, invece del gas, la corrente percorresse un conduttore metallico di identica forma e dimensione. La forza ponderomotrice che agisce sul tubo non è dunque altro che la risultante delle pressioni dovute agli urti effettuati dagli elettroni e dai ioni, sia sulle molecole gassose. sia di- rettamente sulle pareti. L'analogia porta così alla ipotesi, che l’ordinaria forza ponderomotrice prodotta dal campo su di un filo percorso dalla cor- rente sia la risultante degli urti degli elettroni, al moto dei quali si attri- buisce principalmente la propagazione dell'elettricità nei metalli. Anche in tal caso il cambiamento di forma delle traiettorie delle particelle elettriz- zate prodotte dal campo fa sì che la pressione sulle molecole e sulla su- perfice che limita il conduttore (la quale, non permettendo l’uscita degli elettroni, si comporta eome la parete del tubo) risulti diversa da zero. Questa nuova teoria delle forze ponderomotrici elettromagnetiche deve evidentemente applicarsi anche al caso dei liquidi. Esperienze, tanto sem- (1) Mem. Ace. Bologna, 16 febb. 1913; N. Cimento, luglio 1913. RenDICONTI 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 159 — 1088 — plici e intuitive che neppur giudico necessario descrivere, permettono di mettere in evidenza gli effetti facili a prevedersi, producentisi su lamine mobili immerse in un elettrolito; e le note correnti liquide, che in certi casi ben conosciuti si producono nella massa di un liquido percorso dalla corrente elettrica e posto in un campo magnetico, possono essere in tal modo interpretate. La teoria or ora richiamata conduce ad una conseguenza suscettibile di verificazioni sperimentali. Per giungere a queste, furono istituite le espe- rienze qui descritte. 2. Si supponga di avere un elettrolita, nel quale siano immersi due elettrodi piani verticali AB, CD (fig. 1), il primo dei quali sia il positivo. In assenza di campo magnetico uno ione positivo P acquista, dopo un urto, una componente di velocità, per opera della forza elettrica, diretta secondo A Cc ,S pria RS>N D BE Frs. 1. PQ, mentre uno ione negativo N l'acquista nella direzione NR. Ma se agisce un campo magnetico diretto perpendicolarmente al piano di figura, per esempio nel senso indicato dalle freccie F (direzione della corrente circo- lare a cui il campo può essere attribuito), il ione positivo P, astrazione fatta dalla velocità ad esso rimasta dopo l’ultimo urto, tende a muoversi secondo un arco di cerchio PS, e il ione negativo N secondo l’arco di cerchio NT. Entrambi i ioni risultano dunque spostati nel senso da BD verso AC per opera del campo. La naturale diffusione dei ioni tenderà naturalmente a far sparire la variazione di densità in ioni (numero di ioni per cc.), che ten- derebbe ad aumentare in modo continuo; ma si raggiungerà presto una condizione permanente, con densità in ioni crescente da BD andando verso AC. Naturalmente, se si supponesse invertita o la direzione del campo o quella della corrente, la detta densità risulterebbe invece crescente da AC verso BD. Siccome poi i ioni, colle direzioni supposte nella figura, eser- citano, in virtù dei loro urti, una pressione sulle molecole più grande nel sesso da BD verso AC, che nel senso contrario, così si produrrà un leggiero dislivello del liquido. La variata distribuzione dei ioni liberi avrà per immediata conseguenza una corrispondente variazione della densità di corrente, tanto che per una — 1089 — data porzione di area d'un elettrodo passerà nell'unità di tempo più elet- tricità se quell'area è presa presso A o C che quando è presa presso B o D. In altre parole, deve manifestarsi quell’effetto di spostamento dei filetti di corrente per opera del campo, identico a quello che si produrrebbe su fili metallici percorsi dalle stesse correnti, che il sign. Hall si era proposto di mettere in evidenza, allorchè fu invece condotto a scoprire il fenomeno che porta il suo nome. La teoria fa dunque. prevedere uno spostamento della corrente entro il conduttore, che fino ad ora si è ritenuto non esista Le esperienze seguenti ne dimostrano l'esistenza nel caso degli elettroliti. Fia. 2. 3. Temendo varie cause di errore (effetti termoelettrici, galvanomagne- tici, ecc.) nell'impiego di sonde collocate secondo le linee di corrente, tentai dapprima di riconoscere se l'intensità di corrente fosse realmente maggiore fra A e C che non fra Be D, pesando, dopo il passaggio della corrente, delle porzioni di area nota tolte dagli elettrodi o presso A e C, o presso B e D. Tali elettrodi erano di rame, ed erano immersi in solfato di rame. Ma, avendo riconosciuto che tale metodo non era suscettibile di sufficiente pre- cisione, son ricorso poscia alla polarizzazione degli elettrodi. Se questi sono di platino ed immersi in acqua acidulata, si prevede una più intensa pola- rizzazione presso le estremità A e C che non presso B e D. Ecco la disposi- zione sperimentale adottata : Esperienza a). Sul polo inferiore della elettrocalamita di Weiss, disposta col suo asse magnetico verticale, è posta una vaschetta rettangolare di vetro WXZY (fig. 2), contenente acqua col 0,5 per cento di acido solforico, nella quale sono immersi gli elettrodi ABC e DEF. Ciascuno di essi è costituito — 1090 — da una lastra di platino fissata con gomma lacca contro una lastra di vetro, ed è diviso in tre parti mediante sottili tagli verticali. Le parti mediane B ed E sono larghe circa 6 cm., mentre quelle estreme A, C, D, F hanno la larghezza di 1.2 cm ; la distanza fra AC e DF è 0,8 cm., e l'altezza del li- quido è di circa un centimetro. Le sei lastrine, che risultano così separate, sono messe in comunicazione coi pozzetti a mercurio A', B', C', D', E’, F‘, che servono per stabilire le necessarie comunicazioni. L'esperienza consiste nel far passare per un.certo tempo la corrente nel liquido, e nel constatare poscia che si ottiene una corrente di polariz- zazione più intensa dagli elettrodi A, D, che non dagli elettrodi C, F, o vice- versa, secondo la direzione del campo e quella della corrente principale. A tale scopo, si mettono dapprima i tre pozzetti A’, B', C', in comunicazione con un polo di una batteria (due elementi) di accumulatori, e i tre altri D', E, F' coll'altro polo: e ciò per un tempo determinato, 30 oppure 60 se- condi. Subito dopo, tolte quelle comunicazioni, se ne stabiliscono delle nuove, che sono quelle indicate nella figura. E cioè C', F' sono messi in comuni cazione coi serrafili di un galvanometro G (modello Siemens a campo fisso, coll'opportuna derivazione per regolarne la sensibilità); ed altrettanto si fa con A' e D', coll’avvertenza, però, che la corrente raccolta da A e D cir- coli nel galvanometro con direzione opposta a quella della corrente ricavata da CeF. Il risultato è conforme alle previsioni; giacchè, se non esiste campo magnetico, non si osserva deviazione sensibile, mentre questa si produce quando v'è il campo. Per esempio, con campo di circa 6700 gauss e con corrente nel liquido di 0,2 ampère ho osservato una deviazione corrispon- dente a circa 0,0003 ampère. I valori numerici sono naturalmente diversi secondo le circostanze. In particolare esiste per ogni dato valore dell'inten- sità della corrente una durata di essa, per la quale l'effetto presenta la mas- sima evidenza. Molte esperienze si possono fare in successione, senza badare alla po- larizzazione che rimane dopo ciascuna; ma sì ottengono risultati più rego- lari lasciando dissipare la polarizzazione stessa dopo ogni esperienza, col tenere per qualche mezz'ora le sei lastrine in reciproca comunicazione me- tallica. 4. L'esperionza è resa più facile e rapida modificandola come segue: Esperienza b). Si mantengano stabilmente i pozzetti B', E' in comuni- cazione coi poli della batteria, conservando le altre comunicazioni della fi- gura 2. L'istrumento non darà generalmente che una piccola deviazione, di cui non si deve tener conto; ma, eccitando il campo si ha una deviazione che cangia segno invertendo il campo magnetico. La corrente principale ha qui per elettrodi B ed E, mentre A, D F, C, fanno da sonde, le quali, per la simmetria della loro situazione, non — 1091 — tendono a produrre deviazione. Ma sotto l’azione del campo, che per chia- rezza continuerò a supporre diretto in modo che i ioni tendano ad adden- sarsi verso A e D, le comunicazioni attraverso il liquido di A con B e di D con E divengono più perfette, mentre l'inverso accade per le lastre C ed F. Di qui la deviazione. A rigore, dovrà divenire migliore anche la comu- nicazione fra A e D, ciò che tenderà ad attenuare l’effetto il quale però resta evidentissimo. Siccome, per questa seconda esperienza, la polarizzazione degli elettrodi non serve, si possono adoperare elettrodi di rame, e come liquido un qua- lunque elettrolita, per esempio, solfato di rame. Una particolarità degna di nota è la seguente. Anche astrazion fatta dalla momentanea deviazione dovuta ad induzione, che accompagna ogni variazione di intensità del campo magnetico (che è facile di evitare chiudendo Fia. 3. la corrente nel liquido soltanto dopo aver stabilito il campo), si osservano dapprincipio irregolari deviazioni, generalmente in senso opposto a quello che si prevede, le quali con una certa lentezza dànno poi luogo ad una de- viazione stabile corrispondente alle spiegazioni date. Sembra, cioè, che occorra un certo tempo prima che si stabilisca un regime permanente. Ciò non può sorprendere se si pensi all'intervento della diffusione, sia rispetto ai ioni liberi, sia eventualmente rispetto a regioni di variata concentrazione o di variata temperatura. Inoltre possono intervenire delle azioni magnetiche in seguito a variazioni locali della permeabilità magnetica del liquido. o. L'esperienza precedente me ne ha suggerita un’altra, che ne è in certo qual modo, una semplificazione. Esperienza c). La vaschetta WXYZ (tig. 3), collocata al posto della precedente, contiene una soluzione salina ed elettrodi, per esempio, di rame. Uno di essi, AB, non ha tagli; l’altro ne ha uno a metà, di modo che esso è in realtà l'insieme di due elettrodi eguali CD, EF. La corrente della sor- gente M entra nel liquido dall’elettodo AB e ne esce divisa in due dagli — 1092 — elettrodi CD, EF. Di qui le due correnti parziali vanno a percorrere in sensi inversi i due circuiti di un galvanometro differenziale (tipo Siemens a campo fisso, il cui equipaggio mobile contiene due avvolgimenti uguali, a ciascuno dei quali si può applicare la necessaria derivazione per regolare la sensi- bilità). Regolando, mediante reostati a corsoio R ed S, le due correnti parziali (a rigore, un solo reostata può bastare), in modo che il galvanometro non mostri deviazione quando non esiste il campo magnetico, se ne osserva una se il campo è eccitato. Se, per esempio, AB è l’anodo, e la direzione del campo è quella indicata dalle freccie curve, la densità in ioni entro il li- quido sarà crescente andando da BF verso AC (secondo una legge esponen- ziale), e la corrente uscente da CD sarà più intensa di quella uscente da EF. I seguenti risultati numerici potranno fornire una nozione sulla entità dei risultati ottenuti. La lastra AB era larga 53 mm.; le due CD ed EF 26 mm., e l'altezza del liquido era 5 mm. Indicando con I l'intensità della corrente totale fornita da M, e con 7, ed 7 quelle delle correnti parziali da CD a G e da EF a G, ho avuto, con campo magnetico di circa 8500 gauss, Iin ampères (ii—i2) in ampères (ita): I 0,005 0,000017 0,0037 10 50 00 20 170 89 30 350 117 L'effetto prodotto dal campo magnetico diviene grandissimo se sì riduce piccolissima l’altezza del liquido; il che è soprattutto dovuto al dislivello del liquido, di cui si è fatto cenno nel n. 2. Il risultato di questa terza esperienza non muta, se si ricopre con guttaperca la parte superiore degli elettrodi, in modo che la parte nuda inferiore sia interamente sommersa. Se ne deduce che il fenomeno constatato non può essere attribuito alle lievi variazioni di livello provocate dal campo magnetico. D'altra parte, siccome il fenomeno Hall è sensibilmente nullo negli elettroliti, così esso non può avere parte alcuna nella produzione delle deviazioni osservate. 6. Un'ultima esperienza indico qui sommariamente, riservandomi di farne più tardi un esame più completo. Se nell'esperienza c) s'inverte il senso della corrente, non muta perciò il senso della deviazione; il che si spiega riflettendo che, così facendo, s'in- verte la direzione delle correnti in ogni parte del circuito, ma in pari tempo diviene più intensa la corrente parziale in quello di due tratti di circuito derivato ove prima passava la corrente parziale più debole; e viceversa. Al- trettanto accade per l'esperienza 2). Ne consegue che le esperienze 2) e c) — 1093 — devono riuscire, anche se, invece della corrente continna s’impieghi una cor- rente alternata. E ciò si è verificato. Così, lasciate le comunicazioni col galvanometro come nella figura 2, e messi i pozzetti B', E' in comunicazione con una presa della corrente al- ternata di città (frequenza 42). ho ottenuto una deviazione, la quale cam- biava segno invertendo il campo. Del pari ho ottenuto analogo risultato sostituendo la corrente alternata alla continna nella esperienza della figura 3. Ma esaminato il fenomeno da presso, mi sono accorto che le deviazioni erano, a parità d'intensità di corrente, assai più piccole nel caso della cor- rente alternata, ed inoltre che esse erano sempre di senso opposto. Si di- rebbe dunque che il regime stabile, di cui si è parlato alla fine del n. 4, non faccia a tempo a prodursi. Ma la spiegazione di questo inaspettato fe- nomeno richiederà ulteriori e, forse, non brevi ricerche. Intanto ho constatato il passaggio graduale tra il fenomeno ottenuto colla corrente continua e quello prodottosi mercè la corrente alternata a 42 periodi. Infatti, avendo disposto i necessarî apparecchi per la produzione di correnti alternate di pe- riodo variabile a piacere, ho riconosciuto che avveniva l'inversione dell’ef- fetto allorchè la frequenza era di circa 2,5 per secondo. Chimica. — Sopra le scissioni di alcuni composti dell’azoto (‘). Nota preliminare del Socio A. ANGELI. Ancora molti anni or sono ho dimostrato che la nitroidressilammina, sotto forma di sale sodico, subisce facilmente la scissione (°) NOH | A='OVESCNOR NO.H e che in modo perfettamente simile si comportano i sali dell'acido idrossi- lamminsolfonico e dell'acido benzolsolfoidrossamico NOH (HO)SO,H NOH | =0NH+C;}H;.S0.H CsH;.SO,.H (') Lavoro eseguito nel R. Istituto di studi superiori in Firenze. (?) Memorie Lincei, 1905, p. 83; vedi anche H. Wieland, die HYydrazine (Stuttgart, 1918), pag. 7. — 1094 — Tutti questi acidi sono derivati dell'idrossilammina, nella quale un atomo di idrogeno è sostituito da un residuo dell'acido nitrico e, rispettivamente, degli acidi solforico e benzolsolfonico: invece nella scissione compariscono al loro posto gli acidi nitroso, solforoso e benzolsolfinico. Scissioni analoghe saranno quindi da aspettarsi dai derivati di quegli acidi che rappresentano due gradi di ossidazione di uno stesso elemento, quali p. es. gli acidi nitrico e nitroso. Naturalmente, questo è il modo più semplice per rappresentare queste scissioni; ma con tutta probabilità si tratta di processi di idrolisi, CH; . SO, . NE(0H) + H:0 = CH; . SO;H + NH(0H),, giacchè anche i derivati bisostituiti dell’ idrossilammina subiscono nelle iden- tiche condizioni una decomposizione perfettamente analoga, che si può rap- presentare solamente nel seguente modo: (CH; . 803)» = N(0H) + H.0 = 2C,H;. S0;H+NO,H. In questo caso insieme con l’acido benzolsolfonico si forma acido nitroso, che si può considerare come triossiammoniaca; e che in entrambi i casì le scissioni avvengano in questo modo, viene anche confermato dal fatto che gli a-derivati della naftalina, Co . (a) . SO, . NH . OH e [CioNir (a) . SO» ] == NOH (1), (1) Come è noto, l'acido benzolsolfoidrossamico viene facilmente ossidato nei due prodotti (C5Hs.S0g)» = NOH e (C;Hs.S0);=N=0. Finora non mi fu possibile di limitare l'ossidazione in modo da ottenere il termine contenente l’azoto tetravalente (CsHs È SO), = N treni (0) analogo alla porfiressina di Piloty (Beriehte, 34, 1884, pag. 2354) ed all’ossido di difenil- azoto di Wieland) Berichte, 47, 2111): (CeHs)a = N = (0) . Wieland però dimentica che un prodotto perfettamente analogo, e del pari fortemente colorato, è stato preparato da Fremy ancora nel 1845, e che si ottiene in modo simile a quanto ha fatto Wieland, ossidando cioè i sali dell’acido idrossilammindisolfonico. Ancora 20 anni or sono, Hantzsch e Semple (Beriche, 28, 2744) lo avevano considerato come un derivato dell’ipoazotide, come la quale può presentarsi nelle due forme molecolari (SO;Kala =N=0 e {(S$0;Ka)a =N= 0». Anche il comportamento rispetto all’acido iodidrico è identico a quello che Wieland ha riscontrato per il suo prodotto. — 1095 — per azione degli alcali e successivo trattamento con acidi minerali dilmiti. forniscono entrambi gli acidi #-naftalinsolfinici isomeri. Queste trasformazioni sono tanto più notevoli in quanto avvengono a temperatura ordinaria anche in sosuzione acquosa diluitissima. Date le grandi analogie di comportamento che si riscontrano fra i derivati dell'idrossilammina e dell’idrazina (ed acqua ossigenata), e sulle quali ho richiamato l'attenzione in una Nota pubblicata alcuni anni or sono ('), era prevedibile che una scissione analoga venisse presentata anche da derivati dell’idrazina; e già a suo tempo io aveva studiato l’azione degli alcali sopra la benzolsolfonidrazina CsH; .S0O,. NH. NH;. Ma a freddo la reazione non si compie; solamente più tardi F. Raschig, operando a temperatura più elevata, assieme con acido benzolsolfinico, ebbe sviluppo di azoto e di idrogeno (*). In modo analogo a quanto io aveva ammesso per il caso dell’acido benzolsolfoidrossamico, in cui si ha formazione di biossiammoniaca, Raschig suppone che dalla benzolsolfonidrazina si formi dapprima ossiidrazina, CH; . S0.. NH. NH} + H:0=C;H; .S0:H+ NH,. NH(OH), la quale, perdendo acqua, fornisce la diimmide HN'-NH che successivamente si scinde in azoto ed idrogeno. A questo proposito dirò che già Thiele (*) aveva tentato di preparare la diimmide per decomposizione, in soluzione alcalina, dell'acido azodicarbonico COOH.N=N.C00H=2C0; +4- N:H3; ma non ne ottenne che i prodotti di decomposizione che in questo caso sono azoto e idrazina: 2 N.H.; = N, + N.H, . Operando invece la decomposizione dello stesso acido in presenza di acidi minerati diluiti, io ho notato (‘) che la reazione procede in modo del tutto diverso: si ottengono cioè acido azotidrico ed ammoniaca, ed ho altresì posto in rilievo che questo modo di formazione dell'acido azotidrico è perfettamente (1) Questi Rendiconti (1910), 2° sem., pag. 94. (3) Zeit. far angew. Chemie (1910), 972. (*) Liebig's Annalen 27/, 180. (4) Questi Rendiconti (1910), 2° sem., pag. 99. RenpIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem, 140 — 1096 — analogo alla formazione dell’acido iponitroso e. del protossido di azoto dalla biossiammoniaca : HN=NH N.NH, N si | ai Il + NH HN= NH N.NH; N=-NH HN=0 ‘N.OH N 7 > | -—- | + H.0 HN=0 N.OH i N=0 Tale interpretazione è stata subito accettata da Diels (') il quale se ne è giovato per spiegare anche altre interessanti scissioni che presentano alcuni composti azotati da lui scoperti. Riassumendo dunque, la diimmide non fu ancora possibile di ottenerla allo stato libero, giacchè tosto si scinde in modi differenti a seconda delle condizioni di esperienza: 2HN=NH=N, +N.H, (Thiele) 2HN=NH=N;H+NH; (Angeli) HN=NH=N, +H. (Raschig), Come ho fatto vedere alcuni anni addietro (*), anche la benzolsolfonfe- nilidrazina perde, per azione degli alcali, acido benzolsolfinico ; e la fenildiim- mide, che in tal modo si libera, reagisce immediatamente p. es. con l'aldeide benzoica: CH;.N=NH +CH;.COH=CH;.NH.NH.C0.CHs;. Se, invece di operare in presenza di aldeide benzoica, si agita il liquido alcalino con etere, essa reagisce sopra il composto solfonico primitivo ancora inalterato, per dare fenilidrazina assieme con un prodotto che si mostrò iden- tico al benzoldiazosolfone ottenuto la prima volta da Koenigs (*): CHE è SO,.NH . NH . (GRES + C6H; . N-=NH =C5Hs. N=N. SO, . CsHy + +C,H;.NH.NH; (*). (*) Berliner Berichte, 46 (1913), 2002. (2) Questi Rendiconti (1909), 1° sem., pag. 322. (3) Berliner Berichte, /0 (1877), 1252. (4) Secondo W. Vaubel (Berichte, 33, 1711), la fenildiimmide si può preparare per riduzione del diazoamminobenzolo. A mio avviso, però, le proprietà del composto che così si ottiene non stanno affatto in buon accordo con tale struttura; sarebbe più verosimile la formola \CH=CH pati ovvero l’altra î CH=CH Ho4 N Neg \CH=CH che meglio spiegherebbe per quale ragione il prodotto non presenta la reazione dei diazo- composti alifatici. Vedi anche S. Goldschmidt, B. Berichte 46, 1530. — 1097 — Dati questi risultati, era da aspettarsi che la reazione procedesse in modo analogo anche con i derivati dell'idrazina che contengono due residui solfonici uniti a due atomi d’idrogeno diversi; il caso più semplice è rap- presentato dalla dibenzolsolfonidrazina NH .SO;. CH; | NH . SO» . CH; che venne preparata parecchi anni or sono da Hinsberg ('), il quale aveva anche notato che il prodotto può fornire un sale di potassio che per riscal- damento si decompone con formazione di acido benzolsolfinico e sviluppo di azoto. Evidentemente, anche questa reazionejentra fra quelle che prima ho esaminate: e, con tutta probabilità, come termine intermedio si forma la biossiidrazina, la quale, perdendo acqua, fornisce azoto: NH.OH NH.OH e perciò la reazione finale si potrà esprimere nel seguente modo: NH. S0,. CsH; I == N, + 2, CSS . SO.H (3) NH .S0.. CH; È però chiaro che la decomposizione potrà avvenire anche in modo graduale: vale a dire che in una prima fase venga eliminato un solo residuo solfonico, NH.S0,. CH; NH.OH | zig NH. SO». CsH; NH. SO0..CsH;, e che il prodotto intermedio così formatosi, per ulteriore azione degli alcali, perda ancora acido benzolsoltinico per dare acqua ed azoto. Per dimostrare questo, mi sono giovato dello stesso artifizio che a suo tempo mi ha permesso di studiare la decomposizione dell'acido benzolsolfoidrossamico. In questo ultimo caso si forma, come ho già più volte detto, acido benzolsolfinico e biossiammoniaca, la quale può fissarsi, p. es., alle aldeidi (*) oppure anche (') Berliner Berichte, 27 (1894), 601. (*) Ho già iniziato alcune esperienze per vedere se la reazione è anche invertibile, cioè se azoto ed acido benzolsolfinico possono formare dibenzolsolfonidrazina. (8) Come è noto, 0. Baudisch (Berichte, 46, 115) ha spiegato ingegnosamente, per mezzo di questa stessa reazione, il processo di assimilazione dei nitrati che si compie nelle piante sotto l’influenza dei raggi luminosi. — 1098 — al nitrosobenzolo, per dare la cosiddetta nitrosofenilidrossilammina: C.H;. NO + NH(0H))= CH;.N=N.0H LI + H;0. Ed una reazione perfettamente analoga avviene anche quando, nelle opportune condizioni, si faccia reagire il nitrosobenzolo sopra la dibenzol- solfonidrazina, in presenza di alcali: il termine intermedio prima accennato si somma nettamente al nitrosobenzolo e si ottiene il prodotto CeH;.SO..NH,N=N. CeHs | 0 costituito da aghi incolori brillanti. Riscaldato in tubicino, si decompone improvvisamente a 102°; riscaldato invece su lamina di platino, esplode con grande violenza, ed esplode pure per percussione. La sostanza ha carattere acido, ed i sali, molto probabilmente, derivano dalla forma tautomera: CsH; . SO=N—N=N. CeH; | I (OH) 0 Con i sali ferrici e di rame fornisce sali complessi che presentano una grande rassomiglianza con quelli che dà la nitrosofenilidrossilammina (cupferon). Per ulteriore azione degli alcali perde anche la seconda molecola di acido benzolsolfinico e si forma un prodotto che facilmente si scinde in nitrosobenzolo ed azoto, molto probabilmente l'ossido della fenilazide: CH;,.N=N=N | = CGHs.NO+N.. Continuerò lo studio di queste reazioni. Patologia. — £tologia del gozzo. Nota del Socio B. Grassi. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. — 1099 — Fisica matematica. — Su/l’azione dinamica di una corrente fluida sopra pareti rigide. Nota del dott. ing. CARLO LuIci Ricci, presentata dal Socio C. SEGRE. La spinta che un fluido in moto non permanente esercita contro le pareti del vaso nel quale si muove, supposto che nelle superficie piane limi- tanti la massa fluida all'ingresso (0,) ed all'uscita (03) la pressione media sia eguale a quella dell'ambiente esterno, e la velocità del fluido sia nor- male a dette superficie e costante in tutti i punti di ciascuna di esse (= rispettivamente a Vi e Vv»), è espressa da d : R = ( of4s _- 2 ( VAS + Q(Vi — Va), essendo 0 la densità del fluido, F il vettore della forza di massa, S lo spazio occupato dal liquido, e Q la portata istantanea espressa in unità di massa. di Questa espressione fu stabilita dal prof. T. Boggio nel suo lavoro: Calcolo delle azioni dinamiche esercitate da correnti fluide sopra pareti rigide [Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, 1911, Nota II, pag. 908, formula (18)]. Mi propongo di dimostrare in questo breve studio, come il secondo ter- mine dell’espressione di R, nel caso di 0 = costante (liquido omogeneo), si possa trasformare, e ricondurre alla forma ad esso data dal Masoni, il quale nel suo Corso di idraulica (3* edizione, Napoli 1908. pag. 167), trattando per altra via la questione, aveva già dato agli altri due termini un'espres- sione identica a quella sopra indicata. Possiamo immaginare l'intero spazio S come scomposto in tubi di flusso (o di velocità) elementari. — 1100 — Consideriamo uno di questi tubi: sia dw l'area della sezione trasver- sale infinitesima del tubo in un punto qualunque interno; siano inoltre do, e do, le due sezioni estreme del tubo, ossia i due elementi delle superficie o, e 0, compresi entro il tubo. Potremo assumere come elemento di volume quello compreso nel tubo tra due sezioni trasversali infinitamente vicine. ossia porre: dS= do . ds se indichiamo con ds l'elemento d'arco dell'asse del tubo, cioè la distanza delle due sezioni. Se @ è costante, nel secondo termine suddetto dovremo calcolare l’ (vas. x/S Ora si ha: vdS$S= vdo ds; dP d'altra parte se diciamo P la particella fluida la cui velocità è Vegan GI nere vds= VdaP, ove V è il modulo della velocità, ed il vettore 4P è diretto secondo l’asse del tubo; perciò si potrà porre: vdods= Vado dP . Ora, Vdw è la portata istantanea, in volume, del tubo elementare, la quale è costante lungo tutto il tubo stesso ed uguale a Vi do, = Vo dos Ù Quindi il contributo che detto tubo porta all ( vas è V.do, far, Ss n ovvero anche Vi do, (ar, essendo l' far esteso a tutta lunghezza del tubo. Tale contributo vale quindi: É Va dos.(P°.— Pi), ove P, e P, sono i due punti estremi dell'asse del tubo elementare, ossia i centri delle due sezioni estreme do, e do, . Quindi si avrà: vas= ( Vi Po dos— | V, P: de, -S —RV0 | P. do, — Vi f Pi d0; . Vig3 VOI — 110] — Ora se diciamo G, e G. i baricentri delle sezioni 0, e 0,, si ha, com'è noto, 06,= ( P.do, ; Guidi P,d0,, ion «0 2 e quindi fvas=v.s:0:— 0,0, -/S = VE, 62(Go == G.) . Perciò il secondo termine dell'espressione di R è: d dVa —e | vdas=— o0(G— G,)0, —, S PI; e si ritrova così l'espressione ad esso data dal Masoni, conforme a ciò che sì era più sopra enunciato. Giova osservare come nella citata espressione di R, mentre il primo termine rappresenta l’effetto delle forze di massa, ossia l’azione statica del campo di forze, gli altri due termini rappresentano la vera azione dinamica del fluido in moto, espressa come la variazione dell’ unità di tempo (deri- RS A ; QI vata rispetto al tempo) della quantità di moto; il termine — dd oV dS S rappresenta di questa variazione la parte dovuta al variare della velocità in funzione del tempo (ossia alla non permanenza del moto); ed il termine Q(vi — V:) — che si ha pure quando il moto è permanente — rappre- senta la parte dovuta al passaggio della massa tluida defluente nell'unità di tempo (portata di massa), dalla sezione 0, a monte, alla sezione 0, a valle. Matematica. — Alcune questioni di geometria sopra una curva algebrica. Nota II di RuocreRo TORELLI, presentata dal Socio E. BERTINI ('). $ 3. — CONDIZIONI PER L'IDENTITÀ BIRAZIONALE DI DUE VARIETÀ DI JACOBI. 9. Passiamo adesso a cercare le condizioni necessarie e sufficienti affinchè le due curve C,C, (per le quali adoperiamo le solite notazioni del n. 1) ab- biano le varietà di Jacobi V, V, birazionalmente identiche. Perciò, detti Y X i punti di V, V, immagini delle p-ple (y"y"...y2) (2'2”... 22) di punti di C,C,, poniamo Va(Y)= 0x4) +-+ 099) Ux(X) = wua(2) +-+ u(22); (*) In questa Nota II continua la numerazione della Nota I. — 1102 — saranno Vx(Y), Ux(X) [£=1,...,p] due p-ple di integrali di 1* specie, linearmente indipendenti, di V, Wo Se tra V, V, intercede una corrispondenza biunivoca, questa sarà rap- presentata da relazioni analoghe alle (1), e cioè del tipo (7) Vi(Y)= D rw U;(X) + ma; e si avrà i (8) rta = han + DI Gutri > Da Tri = Ha + DI Gi Chi; (9) 1+0; hgHG essendo numeri intieri, e ZZ indicando il determinante dei numeri 77. Ma se supponiamo viceversa soddisfatte le (8) e (9), le equazioni abe- liane (7) definiranno tra V, V, una corrispondenza che sarà, generalmente, solo unirazionale (*). Noi ci proponiamo appunto di vedere quand'è che le (7) definiscono una corrispondenza birazionale. Perciò cominciamo a osservare che, se nella corrispondenza (7) i punti NEXTdi Ve hanno uno stesso omologo, anche due qualunque punti X, Xi omologhi nella trasformazione di 1 specie definita da X X', tali cioè che U,(X1) — Ux(X{) = U(X) — Ux(X) modd. 4%, avranno, com'è facile vedere, uno stesso omologo. Segue che la detta tras- formazione di 1 specie è ciclica, e quindi esiste un intiero e > 1 tale che Ux(X)= sU(X') . modd. am. Il problema di vedere se la corrispondenza (7) è plurivoca è quindi ricondotto a quello di vedere se è possibile trovare un intiero « > 1 e altri 2p intieri m;n;, non tutti divisibili per «, tali che, presi su V, due punti X X' soddisfacenti alle relazioni (10) Ux(X) n Ux(X') = Mk + SI Ni Aki > si abbia I Fini U;(X)= DI reni U;(X') modd. tx. Y Ora dalle (8) (10) segue e Dori [U;(X) — U;(X)] = D (Rai mi + Hi n) + D (gim+ Gin) cy, i i gi Ul (1) L'indice > 1 sarà però certamente finito per l'ipotesi I 0. — 1103 — e quindi il nostro problema si riconduce facilmente a quello di vedere se sì possono determinare un intiero £ > 1 e altri 2p intieri m;»; (non tutti divisibili per «), in guisa da avere \ SA (lixi mi + Hx na) =0 (11) ; mod. «. Î 2( (Gri mi + Gri n)=0 Orbene, si vede subito che tal determinazione è possibile se, e solo se, il determinante del sistema (11) è, in valore assoluto, + 1. Abbiamo così il Trorema III. — Condizione necessaria e sufficiente perchè due curve Cp Cp di genere p abbiano la stessa varietà di Jacobi, è che fra due loro (*) sistemi di periodi normali tx din intercedano p® relazioni > gitagan td hac — S Gay — Hy=0, si i i dove gli interi hg HG soddisfano alla condizione che il determinante lors hip Hi Hi Ypr 0 lipp Ho CISCO Hop < (12) ì Que Pap Gia Gp <<< Ipp Gpr--. Gpp è uguale a 1, e all'altra che il determinante dei numeri - ren= han + dg tri i i é diverso da zero. 10. Da questo teorema deduciamo subito il seguente CoroLLarIo. — Se le due curve CC, hanno la stessa varietà di Jacobi, e una di esse, p. es. Ch, è priva di corrispondenze simmetriche singolari, allora le due curve sono birazionalmente identiche (*). Supponiamo, infatti, che siano soddisfatte le relazioni di cui parla il teorema III. Allora, presa una corrispondenza S (fra C,C,) cui competano (*) Per ciò che riguarda la necessità della condizione, si intenda sistemi qualunque (e allora gli intieri 49HG, di cui a momenti si parlerà, dipenderanno da essi); per ciò che riguarda la sufficienza, si intenda sistemi particolari: cfr. gli enunciati dei teo- remi I e II (2) Questa proprietà è dovuta a Severi. Cfr. la Nota di Comessatti, citata in pre- fazione. RenDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 141 — 1104 — gli intieri caratteristici 49 HG, dovrà la corrispondenza S_2S essere a valenza; detta —y(<0 (*)) questa valenza. dovremo avere, causa le for- mule (3) del num. 4, (13) DI (’ni Gri — Hyi Gr) = Y td S (xi Gui — Hi dad A < (14) ( (Qri Gi — Gaga = O) kA!. ld DI (Ha hi hp Hg) =0) Ma da queste segue facilmente che il determinante (12) ha (?) il va- lore y??: e poichè esso ha, per ipotesi, il valore — 1 (e y>0), segue y= 1. Le (13) (14) allora, in virtù del teorema Il, portano alla identità bira- zionale di C, Cp; c. v. d. $S 4. — QUESTIONI AUSILIARIE. 11. Consideriamo la varietà Vo delle o-ple di punti di una curva Co Tra le sue varietà canoniche vi sono quelle aventi per imagine le serie di gruppi di @ punti estratti dai gruppi delle 9852, canoniche di C, (9). Pertanto, prese, su C,, 0 —1 serie Gio canoniche, la serie Ys costituita dagli co! gruppi di @ punti ad esse comuni, è imagine di una curva co- mune a @— 1 varietà canoniche di NG Proponiamoci di calcolare l'indice e il difetto di equivalenza della serie yg. Per questo osserviamo che, preso un punto P di C,, i gruppi della Vo per esso passanti si ottengono così: si considerino le 0 — 1 serie I7i: subordinate da P nelle date gf7:»; esse hanno a comune un certo numero u di gruppi di o—1 punti G, G»... Gy: saranno P+ G,,P+ Gi, ..3P + Gy i gruppi richiesti, e quindi w l'indice di yy. Ora sì ha (Comes- satti) (‘) (15) | p=a@—8) +0 277, (1) R. Torelli, Sulle varietà di Jacobi, Nota II [questi Rend., vol. XXII, nov. 1918], DOO). (*) Krazer, Zehrbuch der Thetafunktionen (Leipzig, 1913), V Kapitel, $ 2. (3) Severi, Sulle superficie e varietà algebriche irregolari ecc. [ Questi Rendiconti, vol. XX, aprile 1911], n. 5. (4) Determinazione dei gruppi di r +1 punti ecc. [Atti Istit. Ven., tom. LXIX, an. 1909-10]. — 1105 — dove e 79 n (° PI )-e+ bet (p—D(p—-2- (1-5. k=0 b=— (eo Do 1) S (CI) net 2 ki 1 X(p_—_2)(p—3)...(p— k): abbiamo così trovato l'indice di y}. Si osservi, poi, che (sempre secondo Comessatti, loc. cit.) si ha G,+4 Go + ---+Gu=(a+2)K—a(e—1)P. K essendo un gruppo canonico. Adunque Ja corrispondenza simmetrica che a P fa corrispondere il gruppo G, +-+ Gu ha la valenza (16) i y=au(0— 1). Ne segue (') che il difetto d’equivalenza È di y, è dato da (17) = pla— (e-Da=pS @p—e—2 (°°) X(p—teT—1)}?*(p—1)(p—2)...(p—%). e (15) e (17) sono appunto le formule cercate. 12. Dalla precedente considerazione deduciamo una proprietà di cuì faremo uso in fine del n. 15. Si osservi che la serie costituita dalle o-ple di punti di C,, resa di ordine p coll’aggiunta di p — @ punti fissi, ha per imagine, entro la varietà jacobiana V, di Co: una varietà Wo (vedi pre- fazione). Se poi teniamo presente che le W,_, di V, sono imagini delle serie costituite dalle p-ple di punti estratti dai gruppi delle 98 di Cp, vediamo che il difetto d'equivalenza della serie Tri di cui al n°. prece- dente. rappresenta il carattere di immersione (vedi prefazione) delle va- rietà oof7! segate su Wo dalle W,_1. Possiamo perciò enunciare il seguente LEMMA. — £ntro una varietà di Jacobi V,, le varietà W,_, segano, su una Wy varietà x! aventi il carattere d'immersione — 3 Ong, “\p—e— DX k=0 AIR Questo lemma è, in fondo, l'inversa del teorema IV. (1) Torelli, loc. cit., a pag. 4. — 1106 — 13. Questione II. Riprendiamo a considerare le due curve C,C,, e la corrispondenza S, di indici x, v, di cui si parlava nel n. 1. Supponiamo, poi, che su O; si abbia una serie y},, di ordine m e indice n, tale che, chiamando omologhi due punti quando sono in uno stesso suo gruppo, si abbia una corrispondenza simmetrica 4 a valenza y. La corrispondenza S, che intercede fra Ch; C,, muterà tal y}, in una serie Yin, di indice wr, su C,. Quale sarà il difetto d’equivalenza di questa Yin? Tale questione si risolve subito. Infatti la corrispondenza simmetrica, di indici vu(mz — 1), in cui si corrispondono due punti quando sono in uno stesso gruppo della yl,,, è data dal simbolo S19IS+uS"S— wl, I indicando l'identità su C,; se ne calcolano quindi facilmente gli intieri caratteristici in funzione di quelli di S e di y; e, con ragionamento ana- logo a quello fatto in fine al n. 4, si trova che il difetto d'equivalenza © della yi,, è dato da (18) Cé=(u—y) S (lx Gri — Hai Qui) è hi che è la formula cercata. S 5. — SULLE SERIE ALGEBRICHE PIÙ VOLTE INFINITE. 14. Dimostriamo infine il seguente Trorema IV*. — Sopra una curva C, abbiasi una serie Y& (anche dotata di punti fissi), birazionalmente identica alla varietà delle o-ple di punti di un’altra curva Cp, e tale che nessun integrale di 1° specie di Cp dia somma costante lungo i suoi gruppi. Se la totalità dei gruppi di p punti, tolti dai gruppi di una gene- rica gi di Cp, sega sulla yi una yi} avente il carattere di immersione o— 2 (17) PS 2p—-e—2— è) ( )@-e=nrx SI Ok X(P_1)(po2)V9E allora le due curve Cp G, sono birazionalmente identiche, e la yi appar- tiene alla classe individuata dalla serie delle o-ple di punti di Cp. Adoperiamo per C, C, le solite notazioni stabilite al n. 1. La nostra serie sarà rappresentata (analogamente a quanto avviene per le serie 00!) — 1107 — da un sistema di equazioni del tipo (19) v(/) +-+ 0,9) = DI tri Lux(0) + + ux(e9)] + 2a. 0 (2'...2?) essendo un gruppo di @ punti variabili su C,. Avremo le solite relazioni rem = hm + D ga tri DI tri dn = Han + DI Gir Tri , L e il determinante dei numeri 77, sarà, per ipotesi, diverso da zero. Se al gruppo (2'...x?) facciamo descrivere la serie to di cui sì è parlato al n. 11, il corrispondente gruppo di p punti su C, [individuato dalle (19)] descrive una serie 7, il cui difetto di equivalenza È è appunto il carattere di immersione delle y7' di cui parla l’enunciato. D'altronde si pensi che la detta y appartiene alla stessa classe che la serie y,,, descritta dagli omologhi dei punti del gruppo variabile di Vo nella corrispondenza S definita, fra C, e C,, dalle equazioni abeliane ox4Y) +-+ va(y?) = DI Ttzi Ui(a) Ptr. U Allora il numero $, essendo anche il difetto della serie Yo» Può calcolarsi mediante la considerazione del n. 13 e le formule (15) (16); e si trova pe? po {=D (505 — Hg) Do—e—2—2( )x dij h=d _K SOSTIENI) Se dunque & ha il valore (17’), dal confronto di (17°) e dall’ ultima espressione scritta risulta > (hi; G— Hi gi) =P, ij e quindi (n. 7) nella classe definita dalla corrispondenza S vi è una cor- rispondenza biunivoca. Questa indurrà, fra le o-ple di punti di C,C,, una corrispondenza biunivoca, rappresentata o dalle va) + + og) =D milui(e9) + +9] +, — 1108 — oppure dalle vry) + + og) = — D rn [u(0) ++ di (09) + 7 (le 77, essendo opportunamente scelte); e ciò dimostra il nostro teorema. Questo teorema è manifestamente equivalerte al teorema IV della pre- fazione. 15. La deduzione dei teoremi V e VI (enunciati in prefazione) dal IV non offre alcuna difficoltà. Infatti: A) Se fra le varietà di Jacobi V, V, di due curve C, Cp intercede una corrispondenza biunivoca che muti una Wp di V, in una W, di V,, 2 quest ultima W, si può, in virtù del lemma del n. 12, applicare il teo- rema IV; e ne viene il teorema V. B) Se la serie yÉ, costituita dalle o-ple di punti di una curva C,, O) 0-p p p è birazionalmente identica alla serie analoga di un'altra curva Cy, alla y}, resa di ordine p coll'aggiunta di p — @ punti fissi, si può, pel lemma del n. 12, applicare il teorema IV*; e ne risulta il teorema VI. Matematica. — Sopra un'operazione funzionale atta a tras- formare i potenziali logaritmici in simmetrici. Nota II della signo- rina LinA BIANCHINI, presentata del Socio T. LEvI-CIVITA. 4. — CONDIZIONE DI REALTÀ. LEGAME CON POTENZIALI ASSOCIATI LOGARITMICI. Nelle (7) (*) non è tenuto conto della condizione che «,v risultino reali. Vediamo come debba specificarsi la funzione / affinchè questo abbia luogo, supponendo che la /, considerata come funzione del suo argomento 2-+y c083, si comporti regolarmente in una certa regione I° del piano rappresentativo (x,y) (per tutti i valori di 4 compresi nell'intervallo 0,7). Questo im - plica manifestamente che la Y° comprenda, insieme con ogni punto (x , g), tutto il segmento (4, y cos 4) che lo congiunge col suo simmetrico (x, —y). Ciò premesso, ove si scinda in / la parte reale dall'immaginaria, ponendo ET e più precisamente f(a + ty c08.9)= g(2,y 0089) + iW(x,y cos d), (1) Della Nota precedente. Cir. pp. 1041-1046 di questo volume dei Rendiconti. — 1109 — dalla prima delle (7) si ha Tm u= f gia, 0089) +i ( “p(0,y 008 9) dd. / Il coefficiente 8 di 7, scindendo l'intervallo di integrazione nei due tratti (0,5) 5 (5.2) (e cambiando in quest ultimo, d in 7 — d), può essere scritto T p= {we y 0089) dd = l'ho, y cos I) + w(x, —y c08 9} dd. La condizione che « sia reale, equivale a #=0; e questa implica, a sua volta, che si annulli identicamente la funzione sotto il segno ('), ossia, in sostanza, che (x,y) sia funzione dispari dell’argomento y. Viceversa è evidente che, sotto tale ipotesi, f = 0. Notiamo, d’altra parte, che, se w è funzione dispari di y, essa s'annulla sull'asse reale 0x; la nostra /(x + ‘y) è quindi vincolata alla condizione di essere reale sull'asse reale (o più precisamente in quella parte di esso che cade entro il campo TY, cui si riferiscono queste considerazioni). Con ciò, non solo risulta w funzione dispari di y, ma altresì 9 pari [g(x,y)= (x, —y)], e subito si verifica che anche la seconda delle (7) definisce una funzione reale n D v= Î y 089 y(x,y 069) di = 2 f ycosd y(x,ycos9) dd. /0 0 Possiamo quindi concludere: Condizione necessaria e sufficiente per la realtà delle due coniugate w,v, è che / sia reale sull'asse reale. Comples- sivamente le dette %,v rimangono definite da 2 \u=2 f 9(0,y0089) d9, () | “ n VD RE Î y cost we, yc089) dd, A) (1) Questa affermazione è giustificata dal teorema di Abel, che richiamiamo più innanzi, al n. 5. Dalle due relazioni reciproche ivi esplicitate, appare manifesto che, per B=0, « risulta identicamente nullo. Ora la B(@,Y) "I i [u(2,y 0859) + (4, — y cos 9)} da è precisamente un caso particolare della prima delle due relazioni suddette, m cui (trat- tando 2 come parametro costante) si scriva y al posto di r, e si ponga 2a(ycos9) = w(2,ycos8) + (2, — y cos$). — 1110 — nelle quali le funzioni sotto il segno, g e w, costituiscono manifestamente due funzioni associate logaritmiche provenienti da un'arbitraria / reale sul- l'asse reale. Tale / si dirà l'assiale della coppia simmetrica associata (,v). Dalla nostra indagine risulta altresì che 4uite le coppie simmetriche si pos- sono pensare generate in questo modo. 5. — FORMULE INVERSE. Secondo una proposizione scoperta da Abel si equivalgono (*) le due relazioni \ y(7) = ("sw sen9) dg, |, a f'urs 3) send dd P( nima J(7 sen +) sen ; \ che, chiamando % e w rispettivamente @ e 8, e ponendo s=3 — &, si possono anche serivere come segue : \ die Je cosd) dd, ] va (za | B(r cos 4) così dd. In base a ciò, le due ultime espressioni trovate per le vu e v equivarranno rispettivamente alle T (2,4) d Y DG cos 4) cos.d dd XL, ESTONE? s i cr sile Ù (Il) L yYW(x n=t2 (oe y cosd) così dd . | 2 dy IT ( t) 6. — INTRODUZIONE DI ARGOMENTI COMPLESSI E RIDUZIONE AD ON’ UNICA RELAZIONE FUNZIONALE. Poniamo (8) w=u+| dd, (*) Circa tale equivalenza, veggasi Beltrami, loc. cit. — llll — riprendendo anche la combinazione (morogena, a differenza della w che, in generale, non lo è) (AA Sostituiti per u e v i loro valori forniti dalle (7), la (8) assume l’aspetto w=u+iv= f (1+ y c0osd) f(a + 74 c089) dd. () Indicheremo brevemente con A l’operazione funzionale definita dal se- . condo membro dell'equazione testè scritta, la quale fa passare dalla funzione monogena / dell'argomento x + ?y (reale sull'asse reale) alla w= + iv, funzione in generale non monogena, ma regolare nello stesso campo in cui tale si suppone /, e reale, al pari di /, sull'asse reale. Le (II) ci mostrano che, ammesso per w,v il comportamento qualita- tivo suddetto, rimane univocamente definita anche un’operazione inversa A-, che fa passare da w ad una funzione monogena f. 7. — GRUPPO DI TRASFORMAZIONI CHE CONSERVA LE FUNZIONI ASSOCIATE SIMMETRICHE. Le funzioni /(<), reali sull'asse reale, ammettono un gruppo puntuale infinito di trasformazioni in sè, che si ottiene ovviamente ponendo (9) no), con F funzione (monogena) arbitraria, perchè anch'essa reale sull'asse reale. È facile riconoscere che questo gruppo ne subordina uno altrettanto ampio (disgraziatamente però funzionale, anzichè locale) nei potenziali sim- metrici. Sia infatti w =w+ iv il rappresentante complesso di una coppia ge- nerica, e sia / l’assiale relativo. Ove si indichi con T una trasformazione del tipo (9), e con w' la coppia simmetrica che corrisponde ad /’, avremo manifestamente VA e AI da cui w = Af'=ATf=(ATA)w. Apparisce, di qui, che i potenziali associati simmetrici ammettono il gruppo la cui operazione generica è ATA, gruppo manifestamente simile a quello delle T, ossia al gruppo conforme. ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem, 142 — 1112 — Matematica. — Una condizione necessaria e sufficiente per l’esistenza di soluzioni nell'equazione integrale di prima specie. Nota di A. VERGERIO, presentata dal Socio V. VOLTERRA: Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Meccanica. — Sulla deformazione di un suolo elastico piano indefinito, omogeneo ed isotropo, nel caso dell'eredità lineare, per dati spostamenti in superficie. Nota del prof. R. SERINI, presentata dal Socio V. VOLTERRA. 1. Nel problema elastico con eredità lineare le equazioni indefinite dell'equilibrio (in assenza di forze di massa, al qual caso ci si può sempre ridurre) sono: 9 il Ai a ea A*'w= — , do dove x,v,w sono le componenti dello spostamento. La funzione 9 è legata alla dilatazione cubica 0 dalla rela zione (2) I=(1—- AD A.) 0, nella quale A/0)=K/0+f 60/0 As/()=(6+2k)/) + f Colt .1) H2wt, ©] /() de (1): L'operazione A;'/ si ottiene invertendo A,/, risolvendo un'equazione inte- grale di Volterra di seconda specie. Dalle (1) e (2) si deduce (3) AGG. Per risolvere il problema che forma l'oggetto della presente Nota. mi servo del teorema dovuto all'Almansi (*), secondo il quale la soluzione del sistema (1), quando @ è armonica, si può porre sotto la forma dP dp dg 4 uz —-+U veg —+V w= 8 W, (4) SE % sla OE () V. Volterra, Legons sur les fonctions des lignes, cap. VIII; Acta mathematica, Sur le équations intégrales ecc., vol. 359, articoli 4-7. (*) E. Almansi, Sull'integrazione dell'equazione A?*=0, Annali di matematica. — 1113 — dove le quattro funzioni U, V, W, g sono armoniche, e inoltre 4 soddisfa alla relazione (5) 2 _ 2. Le equazioni (4) e (5) si applicano al problema del suolo elastico omogeneo ed isotropo nel caso della eredità lineare. Prendiamo per piano xy il piano delimitante il suolo elastico il quale occupi la regione per cui < >0. Essendo dati gli spostamenti in superficie, saranno determinati i valori di w,v,w per z=0, e quindi, per le (4), i valori di U,V, W che indi- cheremo con Use Was La teoria delle funzioni armoniche cì dà subito U,V,W sotto la forma (1) U; do A IVO do (6) du — 2rr Dè fl — 2 a fe Made, > A e Me dove l'integrazione va estesa al piano xy, ed 7 rappresenta la distanza del punto xyz dal punto x'y'o del piano. Posto (7) Lei Vede =, Si oo x addi le (4), in virtù delle (6) e (7), diventano @ uns 42h deli ee Per determinare ora la , calcoliamo dalle (8) la dilatazione cubica @. Essendo A’*gp=0, avremo du | O dw__P 09 ve "vv “He dY dE (1) E. Cesàro, Introduzione alla teoria matematica della elasticità, IX, ‘7. — 1114 — Da quest’ultima e dalle (2) e (5) ricavo d l Ò Ò V W Bi egli Aria)[ Se+ (4 ian], dx dy da . : i d ossia, risolvendo rispetto a auf (e $ Po + Arta) (Ars) (4) o) Ma i simboli A,/,As/, e quelli composti con essi, sono permutabili col segno di derivata; quindi, ponendo (14 ASA) avremo PI”, ? Gg 90, dA a) dE da È cai dx dY de Quest'ultima equazione varrà in particolare pei punti del piano xy; ed allora le due funzioni armoniche RR P, co fasano E dY d& avendo superficie derivata normale eguale, non possono differire che per una costante la quale non ci interessa in quanto che nelle (4) entrano solo le derivate della gp. Potremo quindi porre 2dU, g=0( + pi). da dY da Avendo così determinate le quattro funzioni U,V,W,g, il problema è risolto. Per ottenere la soluzione nel caso ordinario, basta porre eguali a zero i coefficienti di eredità g(t, 1) Y(t, 1) e prendere Ax=K Ag=L+2K. (*) Secondo la convenzione solita delle due operazioni indicate, quella a destra è da intendersi come eseguita per prima. — 1115 —- I simboli operatori A, As, e le loro composizioni, si considerino come mol- tiplicazioni. Allora G = (1 + AGLA) (1 Ss AA) = = (IL sa udine Se introduciamo, invece delle due costanti d’isotropia L,K, il coefficiente di contrazione definito dalla relazione lb _ 2L+K° ritroviamo i 1 ia era che è il risultato cui giunge l'Almansi (1). Astronomia. — Za latitudine di Roma negli anni 1912-13, e l'ipotesi dell’Hirajama. Nota di E. BrancHI, presentata dal Socio E. MILLOSEVICH. 1. In un breve appunto da me pubblicato nella « Rivista d’astro- nomia (*) » esprimevo il voto che anche in Italia. con osservazioni indipen- denti da quelle del servizio internazionale, si portasse un qualche contributo alla questione del così detto terzo termine del Kimura nel problema gene- rale della variazione delle latitudini. Ricordavo che, essendo noi posti al- l’incirca sullo stesso parallelo delle Stazioni internazionali, in nulla pote- vamo concorrere per la decisione se, o meno, detto termine dovesse affermarsi come dipendente dalla latitudine e quindi esprimente un moto oscillatorio annuo del centro di gravità terrestre. Dicevo però ancora che, se in nulla potevamo contribuire allo studio della questione da questo punto di vista (da ritenersi riservato a misure fatte in stazioni equatoriali e boreali alte), ben potevamo invece cooperare per decidere dell’attendibilità o meno della ipotesi dell’ Hirajama; per decidere cioè se o meno detto termine fosse la manifestazione di un vizio insito nelle osservazioni internazionali in causa del tipo di programma che colà si svolge nelle misure di latitudine. Riportandomi poi ad una Nota sull'argomento pubblicata da me nei Rendiconti di quest Accademia (5), ripetevo che un contributo in questo senso doveva attendersi da osservazioni fatte su zenitali assolute, opportunamente (1) Nella citata Memoria dell’Almansi è sfuggito un errore nel calcolo di G [ for- mula (58)]. Rettificando il risultato, si trova per G il valore da me dato. (3) Volume VI, 1912, pag. 801-804. (3) Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, I semestre, 1909, n. 3. — 1116 — concatenate fra loro in modo da rendere possibile l'attenta sorveglianza del moto del polo nel corso dell'anno, con programma cioè obbediente in tutto alle conclusioni dell’ Hirajama per giungere eventualmente ad un termine £ nullo nel corso dell’intiero anno. Avendo ultimati il calcolo e la discussione di una lunga serie di osser- vazioni di latitudine da me fatte all’ Osservatorio al Collegio romano secondo le direttive ora specificate, riporto qui i risultati ottenuti poichè parmi che essì possano considerarsi come un modesto ma coscienzioso e forse non inu- tile contributo allo studio della questione. Tutti i particolari del lavoro appariranno nel prossimo volume delle Memorie dell’ Osservatorio. 2. L'ipotesi dell’ Hirajama, sopra ricordata, dice sostanzialmente che il termine 4 dovrebbe risultare nullo nel corso dell’anno per osservazioni fatte col metodo di Talcott su coppie così costituite che: a) sia nulla la distanza zenitale media della coppia; b) sia nulla la differenza d'ascensione retta delle due stelle costituenti la coppia; c) sia intorno alla 7* la grandezza delle due stelle. Dipendentemente da tali premesse, il programma d'osservazione fu co- stituito da zenitali assolute, in numero di 50, divise in 12 gruppi; ciascuna di esse forniva un valore della latitudine, osservata com'era, invertendo du- rante il suo passaggio; ci si trovava così nel caso di coppie 2deali in tutto obbedienti alle condizioni volute dall’ Hirajama iper la nullità del termine del Kimura. I 12 gruppi furono osservati in catena dal 1 dicembre 1911 al 24 otto- bre 1913. Lascio da parte tutto il lato strettamente tecnico del lavoro, sia per quanto riguarda la discussione delle declinazioni delle stelle e del loro moto proprio, sia per quanto riguarda lo studio dello strumento usato (un ottimo Bamberg dei passaggi), sia infine per quanto riguarda la compensazione delle declinazioni e la conseguente deduzione dei valori definitivi della latitudine. Questo dirò soltanto: che un primo risultato assai confortante lo si ebbe al momento di concludere l'errore di chiusura della compensazione dei gruppi stellari; esso infatti risultò di appena : — 0”.08.. Noterò, ancora, che il numero delle osservazioni concluse risultò note- volmente inferiore a quanto sarebbe stato desiderabile, in causa sopratutto delle poco felici vicende atmosferiche durante il periodo delle osservazioni ed in causa anche della natura stessa del programma di zenitali assolute. 3. Ecco senz’ altro i valori medî conclusi per la latitudine istan- tanea: — 1117 — TABELLA I. Epoca v n oss. 41° 58° 1911.95 537.749 47 1912.04 .-137 30 Lr; .482 18 24 .879 24 32 .268 38 46 .841 17 50 .377 20 67 471 56 78 498 69 .90 .551 39 1913.03 597 39 .13 .536 43 38 .499 29 .63 .590 25 BU) 490 27 1913 80 93.466 82 Se dei precedenti valori si fa una perequazione grafica, si ottengono di decimo in decimo d’anno le latitudini istantanee della colonna 2* della tabella II. TABELLA II. Epoca ca mal Po Gi Costrvita inter.® media 1911.95 537.75 — 07.29 59/46 | 1912.0 -73 28001 45 | Al 62 Po 43 2 46 = 208 .88 3 30 Za EMIR .88 a 4 di ESE 47 \ | 58.468 5 187 + .18 490) psi 6 43 + 09 52 7 48 » x Accennato all'origine ibrida delle specie elementari rustica e di quelle petunioides; passo a rilevare la differenza. la distanza che corre fra rustica e petunioides, per venire alla conclusione che rustica rappresenta Micotzana, e petunioides una specie vicina ma diversa da Nicotiana. Dalla lontana unione fra quelle due specie primitive sarebbero derivate, attraverso il tempo e lo spazio, le forme conosciute di ruslica, tabacum e petunioides. Come già sè detto, tutte le rustica contengono elementi pelunio?des; tutte le pesunzotdes contengono energia rustica; tabacum non è che un miscuglio di rustica e di petuniordes. Quindi le specie linneane, che, giustamente, il De Vries ritiene forme complesse, dovrebbero la loro complessità a incroci fra specie elementari pri- — 1150 — mitive. I descrittori non avrebbero avuto davanti che una prole multiforme e impura. E la mutazione, questa forza cieca, ignota, che istantaneamente fa variare i vegetali, troverebbe la sua spiegazione nella fecondazione incrociata, dalla quale penso anche debba dipendere la produzione delle nuove forme vegetali. Teratologia. — Di alcune anomalie nella Beta vulgaris L. Nota di 0. MunERATI @ T. V. ZAPPAROLI, presentata dal Socio R. PIROTTA. La necessità di seguire, in linee distinte, i discendenti di diverse cen- tinaia di individui autofecondati ci portava ad osservare, in un certo numero di soggetti appartenenti ad alcune famiglie, delle deviazioni di natura mor- fologica non riscontrate, o almeno non segnalate sino ad oggi, dai botanici e dai selezionatori. La Beta vulgaris L., nella sua pur grande e sorpren- dente facilità alle variazioni, non è annoverata che fra le specie poco suscet- tibili di dare delle forme teratologiche: all'infuori della fasciazione e tor- sione degli steli (*), anomalia comune ad un grandissimo numero di specie erbacee e legnose, e di anomalie nei fiori (da noi non presi sinora in con- siderazione), nessun accenno abbiamo trovato, nelle opere speciali o in appo- (!) Da citarsi, oltrechè quelli elencati da Penzig (Pflanzenteratologie, II, pag. 260) i seguenti lavori: Briem H., Die Verbinderung beim Ribensamenstengel, Oe. U. Zeitschrift fiir Zucker- industrie und Landwirtschaft, XXXIII Jahrg., 1894, Heft II, pag. 223; Hoffmann M., Teratologische und korrelative Beobachtungen an landw. Kulturpflanzen; die Fascia- tion., Deut., Landw. Presse, XXX Jahrg. (19083), n. 3, pag. 17; Horecki, Verdinderung bei Samenriben. Deut. Landw. Presse, XXXIII Jahrg. (1906) n. 91, pag. 720; Hoffinann M., Ueber Verbinderung (Fasciation) bei Ribensamen. Deut. Landw. Presse, XXXIII Jahrg. (1906), n. 95, pag. 749; Gutzeit E., Zur Verbdinderung der Runkelriben. Naturwiss. Zeitschrift fiir Forst-und Landwirtschaft, V Jahrg. (1907), Heft I, pag. 75; Kajanus B., Ueber Verbinderung bei Beta vulgaris L. Bot. Notiser, III Jahrg. (1912), n. 3, pag. 145 (Ref. in Bot. Centralblatt, Band 120, 1912, n. 5, pag. 118); Schubart P., /ascration, Blatter fiur Zuckerribenbau, XIX Jahrg (1912), n. 16, pag. 249. Nel 1912, anno nel quale apparvero le comunicazioni di Kajanus e Schubart, nelle culture di bietola porta seme della media Europa fu segnalata una vera « epidemia» di fasciazioni: nella provincia Sassone, lo Schubart notò in certe zone fino all’8,6 per cento di piante fasciate. Avrebbe osservato lo Schubart una più forte comparsa di fascie in bietole che, già erose da insetti o da arvicole più o meno profondamente nella zona del colletto lungo il loro primo anno di vita, avevano inoltre sofferto durante la loro conservazione in silos. Aggiunge l'A. che quella del 1911 era stata un’annata di eccezio- nale siccità che ingenerò una sofferenza d'ordine fisiologico nelle piante. La fasciazione avrebbe dunque costituito, in questo caso, la conseguenza di uno stato patologico. Anche lo Schubart, come la maggior parte degli studiosi che si occuparono del fenomeno, am- — 1151 — site comunicazioni, sulla gran parte delle deviazioni da noi riscontrate sia nella parte aerea, sia nelle radici. Riservandoci di riferire in una prossima Nota intorno alle anomalie della parte ipogea, nella odierna comunicazione prendiamo in esame le diverse manifestazioni teratologiche che nel 1914 ci occorse di rilevare nelle foglie. Anomalie nelle foglie cotiledonari. — Osservazioni puramente casuali e incidentali sulla comparsa di tricotili, sincotili, emisincotili ed emitricotili ha compiuto Janasz ('); de Vries non aveva invece precedentemente anno- verato la barbabietola tra le specie che possono presentare anomalie nel numero e nella eventuale sinfisi dei cotiledoni. Un po in tutte le razze di bietola, e soprattutto tra i discendenti di molte madri autofecondate, occorse a noi di riscontrare l'anomalia con le varie gradazioni figurate da de Vries per la Oenothera hirtella e per le altre numerose specie considerate dall'eminente botanico olandese (?). In aggiunta alle forme riscontrate da Janasz, noi osservammo in qualche caso i cotiledoni fusi ad ascidio ed altre non meno strane deviazioni morfolo- giche anche nelle prime foglie vere: di esse ci occuperemo in apposita Nota. Saldatura. — I fenomeni «di sutura dei picciuoli, interessanti anche una maggiore o minore parte dei lembi (fig. 1), sono relativamente abba- stanza frequenti. Noi abbiamo anche notato un caso di sola sinfisi dei lembi. Formazioni ascidiali. — Le riscontrammo in alcuni soggetti di una sola famiglia (0-213) e con degradazioni da soggetto a soggetto. In uno degli individui tutte le foglie della rosetta formavano un ascidio unico, di aspetto singolarissimo (fig. 2): la pianta offriva una stretta rassomiglianza con quella di Dipsacus sé!vestris Mill. raffigurata da de Vries nel 1899 (*); in altri, invece, ciascuna foglia formava un ascidio a sè (fig. 3 e 4). Le radici corrispondenti erano di limitato sviluppo in confronto con quelle di soggetti normali, certo per una minore superficie complessiva assi- milante; quanto alla composizione, non ne facemmo un'analisi per non sciu- pare i soggetti stessi. Le radici normali della stessa famiglia presentavano un peso e un tenore zuccherino non scostantisi dal consueto, come risulta dal seguente specchietto (an. Mezzadroli): mette che la fasciazione si abbia in una maggior copia di individui quando le piante siano intensamente alimentate. Mancano, però, per la barbabietola, osservazioni sulla trasmissione della anomalia desunte da indagini metodiche, come quelle compiute, su specie diverse, da de Vries, Blaringhem, Pirotta e Puglisi, ecc. (') Janasz S., Beschreibung einiger Zuckerribenrassen. Mitteilungen der Landwirt- schaftlichen Institute der Kéniglichen Universitàt Breslau, Zweiter Band, 1904, pag. 913. (*) de Vries H., Die Mutationstheorie. Zweiter Band, pag. 212 e segg. Leipzig, 1900. (3) de VriesH., Veber die Erblichkeit der Zwangsdrehung. Berichte der Deutschen botanischen Gesellschaft, VII (1899), 37, pag. 291 (confr. tav. XI, figg. 3 e 4). RexpIcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 147 FIG. 1. — Bietola a foglie saldate per gruppi; di fianco, la rosetta delle stesse foglie staccate. Fie. 2. — Unico grande ascidio. Fio. 3. — Foglie ascidiali (veggasi nella fig. 5 la sezione del picciuolo in A B). — 1153 — Esame 19 Agosto 1914. Numero Peso gr. Saccarosio °/0(2) 0-213-1 1070 13.6 2 950 12.2 3 770 12.4 4 890 13.0 6) 790 13.0 6 670 13.2 Fio. 4. — Sezione in AB del picciuolo di 7 940 13.2 una delle foglie ascidiali della bietola 8 620 12.0 fig. 4. Dissociazione del nervo mediano. Neurochorisis. — Così i maestri Penzig e Pirotta suggeriscono di chiamare questa strana anomalia, che noi rilevammo in diverse piante di due famiglie (B-2013, B-2179). Il fenomeno presenta una lontana affinità con quelli di biforcazione della nervatura mediana segnalati tra gli altri anche da Massalongo (*) e da Abbado (*) per il Buxus sempervirens L., da Massalongo per l’EAvonimus japonicus L. (*), da Puglisi per la Bunias orientalis L. (*), ecc. Dobbiamo riferire che ad uno di noi, in occasione di una sua visita, nell'autunno del 19183, delle culture sperimentali dei produttori di seme bie- tola Buszezynski e C. di Gorka Narodowa, presso Cracovia, veniva mostrata dal direttore dello stabilimento, ing. Zaleski, una famiglia che presentava appunto in molti individui il carattere della disgiunzione del nervo mediano. Le foglie erano più allungate delle normali e strette all'apice e alla base sì da rassomigliare in distanza a foglie di P/antago lanceolata L.: l'ing. Za- leski chiamava appunto la nuova forma col nome di Beta plantaginifolia, dichiarando che in un paio di generazioni egli ne aveva fatto una razza ricca, con percentuale ereditaria che si aggirava tra il 30 e il 40. Non sappiamo se l’egregio direttore delle culture della Casa Buszezynski, favorevolmente noto nel mondo scientifico della media Europa, abbia fatto ulteriormente una comunicazione in proposito. Era ad ogni modo doveroso per noi di attribuire a lui la priorità della osservazione. (1) Nel 1914 le bietole palesarono un titolo relativamente molto basso in agosto, ma il titolo si accrebbe in seguito, contrariamente a quanto si verifica normalmente in Italia. (2) Massalongo C., Contribuzione alla teratologia vegetale. Nuovo Giornale Bota- nico Italiano, vol. XX (1888), pag. 283 (Tav. XVI, figg. 3, 4 e 5); Note teratologiche, ibidem, vol. XXII (1890), pag. 13 (Tav. I, fig. 13). (*) Abbado M., Divisione della nervatura e della lamina in alcune foglie di Burus sempervirens L. Bullettino della Società Botanica Italiana, 1895, pag. 179. (*) Massalongo C., Mem, cit., vol. XX, pag. 283 (Tav. XVI, fig. 1). (5) Puglisi, M., Contributo alla teratologia vegetale. Annali di Botanica, vol. IV (1906), pag. 347. Fic, 5. — Foglie con disgiunzione del nervo mediano. Fia. 6. — Foglie con enazioni. Fi. 7. — Piccoli lembi derivati da enazioni, F16.8. — Bietola portante insieme una foglia docciforme e piccole foglie derivate da enazioni, con- servatesi dopo la caduta del lembo. Frs. 11. — Altro tipo di enazioni. Fre. 10. — Enazioni a cornetto. — 1156 — Gli individui con foglie presentanti disgiunzione del nervo mediano (fig. 5) non palesarono, nei nostri saggi, una ricchezza diversa da quelli not- mali delle rispettive famiglie e per brevità non riporteremo prospetti ana- litici. Enazioni. — Questa forma di anomalia fu da noi riscontrata in nume- rose famiglie, ma con manifestazioni molto diverse da famiglia a famiglia. Nei soggetti anomali delle famiglie B-43, B-295, B-812, 0-140. M-324, le foglie nel loro stadio iniziale si presentavano con i lembi forte- mente increspati e bollosi, foggiati a doccia o a ventaglio, mentre, dopo qualche tempo, in corrispondenza al punto d'inserzione del picciuolo con la lamina. apparvero delle appendici filamentose, (fig. 6), che in parte, più tardi, si trasformarono in altrxttante piccole foglie (fig. 7) (fillocollia). Col proce- dere del tempo, o il lembo propriamente detto perdette la sua turgescenza sino ad appassire e scomparire, rimanendo all'estremità del picciuolo le appendici fogliari più o meno sviluppate (fig. 8), oppure, scomparse le vec- chie foglie, ne apparvero altre caratteristicamenie docciformi (fig. 9). Nei soggetti anomali delle famiglie B-304 e B-1861 si ebbe l’appa- rizione di escrescenze allungate a cornetti (fig. 10), curvi in alto, presentanti quasi sempre la sommità un po clavata, rosea, e secernente un liquido leg- germente attaccaticcio; nelle famiglie B-427, B-1009, B-1682, B-1748, intine, le escrescenze tozze, raccorciate, schiacciate lateralmente, terminanti a punta rivolta in alto, uscivano non solo nella zona ingrossata di inserzione del piccinolo col lembo, ma ancora da varî punti della nervatura principale e delle secondarie (fig. 11). Anche per queste famiglie con enazioni, la ricchezza in zucchero poteva ritenersi normale. Nematofiltia. — In una sola famiglia (B-2069) alcuni soggetti pre- sentavano foglie lineari. allungatissime, nastriformi, da spiccare nettamente tra le altre normali della medesima famiglia. Penzig, per il fenomeno in parola, suggerisce il termine rematofillia (0 stenofillia secondo Béguinot). La fotografia qui riprodotta (fig. 12), fatta su una pianta tolta dal terreno nell'autunno, non dà però una idea esatta della vera fisonomia dei soggetti anomali così come apparivano sul terreno in estate. L'aspetto loro sì ravvi- serebbe piuttosto nella forma a foglie lineari tra piante normali della Capsella descritta e raffigurata recentemente da Hus ('). OSSERVAZIONI GENERALI. — Come appare dalle riproduzioni fotogra- tiche, alcune delle anomalie da noi registrate (saldatura dei picciuoli con tendenza alla torsione, forme ascidiali, dissociazione del nervo mediano) per quanto similari negli individui di una data famiglia e nettamente diverse (1) Hus H., Z'he origin of X Capsella Bursa pastoris arachnoidea. The American Naturalist, vol. XLVIII (1914), n. 568, April, pag. 193. — 1157 — negli individui di altre famiglie, presentavano però fra loro un evidente le- game, apparivano come termini di passaggio o progressivi di un'unica ten- denza: varie delle produzioni teratologiche da noi segnalate dovrebbero, in altre parole, ritenersi forme collegate e graduali di fasciazione, interpreta- zione questa che sarebbe avvalorata dalle osservazioni di varî studiosi, e tra esse dalle recenti di Kajanus sul 7r/;folium pratense L. (2). Fic. 12. — Bietola nematofilla. Quali cause possono avere comunque concorso alla produzione dei feno- meni qui registrati? Noi crediamo di potere escludere, o riteniamo poco pro- babile, che le manifestazioni teratologiche apparse nelle nostre « linee » siano da riferirsi alla categoria delle anomalie per traumatismi, secondo la concezione di Blaringhem (?). Infatti è presumibile ammettere che per le numerose circostanze casuali o colturali che portano ad una perdita graduale, oppure brusca, della parte aerea delle piante (distruzione parziale o totale del fogliame e lesioni più o meno profonde della testa per opera di insetti, (1) Kajanus B., Polyphyllie und Fasziation bei Trifolium pratense L. Zeitschrift fiir Induktive Abstammungs- und Vererbungslehre, Bd. VII, Heft I, pag. 63; Ueber einige vegetative Anomalien bei Trifolium pratense, ibidem, Bd. IX, Heft 1-2, pag. 111. (8) Confrontisi: Comunicazioni varie in « Compt. Rend. Académie Sciences », anni 1905 e 1906; Wutation et (raumatismes, Etude sur l’évolution des formes végétales, Paris, 1908; Les transformations brusques des étres vivants. Paris, 1911; L’hérédité des maladies des plantes et le Mendélisme. Rapport au premier Congrès international de Pathologie comparée. Paris, 1912, tome premier, pag. 259. aio 08 di grandinate, di lavori culturali, ecc.), i fenomeni di cui sopra avrebbero dovuto apparire con una certa frequenza ‘e conseguentemente richiamare per la loro grande singolarità l'attenzione di qualcuno degli studiosi che da oltre un secolo si occupano dei problemi bieticoli. Oppure il trauma può provocare, in un limitato numero di bietole, un perturbamento, cui corrisponda l’originarsi di una tendenza capace di rendersi manifesta in conseguenza del processo di autofecondazione alla quale siano sottoposte, come nel caso nostro, le bietole stesse? Certo è, ad ogni modo, che l'autofecondazione induce frequentemente nelle bietole la comparsa di caratteri, che dalla maggioranza dei botanici vanno considerati come dei ritorni atavici. Sarebbe inutile il dire che è nostro intendimento di seguire i varî sog- getti teratologici del 1914 per accertare: i a) se con l'allevamento in culture separate le anomalie si trasmet- tano con una certa fissità, se se ne ottengano cioè delle varietà costanti 0 si abbia invece, com'è presumibile per quel che è apparso nello studio della discendenza di soggetti anomali di altre specie, una trasmissione solo par- ziale (varietà instabili o intermedie o eversporting varteties secondo la pit- torica definizione di de Vries); b) se la brusca comparsa di individui aberranti possa trovare la sua determinante in traumatismi ; c) se in ambiente scostantesi dal normale (per eccesso o difetto di alimentazione, natura del terreno, abbondanza o scarsità- d’acqua, ecc.) vada a ridursi o ad accrescersi la percentuale dei soggetti teratologici derivanti da uno stesso stipite; d) se con l’ibridazione con individui normali il fattore determinante l'anomalia appaia dominante o recessivo. e) se e come vari la composizione delle bietole anomale rispetto ai soggetti normali delle rispettive famiglie. Fisiologia. — ricerche sugli effetti dell’alimentazione maidica. Valore nutritivo delle farine di grano, di mais e dell’uovo nei ratti albini. Nota VII di S. BagLIONI ('), presentata dal Socio L. LUCIANI. Gli esperimenti furono eseguiti dai dott. G. Amantea e M. Maurizi per stabilire se le differenze, dimostrate nella precedente Nota VI (?), tra i valori nutritivi della zeina, gliadina e ovoalbumina, fossero specifiche di questé proteine, oppure si estendessero anche alle rispettive sorgenti (farine di mais, di frumento e uova), in cui si trovano mescolate ad altre proteine. Anche per queste ricerche servirono ratti albini adulti o in via di sviluppo, tenuti nelle gabbie di cui è cenno nella precedente Memoria. (') Ricerche eseguite nel Laboratorio fisiologico di Roma. (2) Questi Rendiconti, vol. XXVI, 2° sem., 1918, pp. 721-728. na I In una prima serie di ricerche si studiarono le variazioni di peso del corpo e del ricambio azotato di un ratto adulto alimentato per sei settimane (26 gennaio-9 marzo 1914) con una miscela di farine di mais o di frumento, seccate previamente a 100° C., o di polvere d'uovo (albume e tuorlo uni- formemente mescolati e disseccati pure a 100° C), cui si aggiungevano quan- tità opportune di grasso di maiale, di cellulosa (carta da filtro) e d’idrati di carbonio. Nelle seguenti tabelle I-VI sono riassunti i risultati ottenuti. TageLLa I. — Mais. Alimento: farina di mais gr. 40; grasso di maiale gr. 19; cellulosa gr. 1. Totale gr. 60. Tempe- i | N SPADE 9 E tao | ia | ratura (RIA di | emesso | À .,. | emesso bilancio a 3 s | media |assunto| ingerito | colle assorbito | colle x RunnN I) Osservazioni &% ambiente LI . fecce | urine | giornaliero male OI gr | Br. gr. | Bi: | gr. | gr. gr. ] | 1| 10 | 12.63|0.1742| 0.0376| 0.1866| 0.0888| + 0.0478| 228.90 2 12 12.65 | 0.1745| 0.0462| 0.1883| 0.1120 | + 0.0263 3 11 14.10 | 0.1945 | 0.0334| 0.1611| 0.118! | +0.0430 4| 10 | 19.95|0.2753| 0.0462| 0.2291| 0.1000| + 0.1291 | 5) 10 12.05 | 0.1662| 0.0459| 0.1203| 6.0938 | + 0.0265 | 6 10 10.15 | 0.1400| 0.0176| 0.1224| 0.0819 | + 0.0405 7 10 10.30 | 0.1421| 0.0526| 0.0895 | 0.0844|+ 0.005] | 218.00 ToraLe...| 91.83 1.2668 | 0.2797 | 0.9973 | 0.6890 | + 0.3183 | — 10.90] Media pro diel 18.11|0.1809| 0.0399 | 0.1596| 0.0984| + 0.0454 | I TaseLLa Il. — Frumento. Alimento: farina di frumento gr. 40; grasso di maiale gr. 19; cellulosa gr. 1. Totale er. 60. 10 13.10 | 0.1545 | 0.0070 | 0.1475 | 0.0658 | + 0.0817 | 218.00 10 11.60 |0.1368| 0.0277| 0.1091| 0.0916 | + 0.0175 10 10 11.10|0.1309| 0.0149| 0.1160 | 0.1014 | + 0.0146 11 10 11.60 |0.1368! 0.0218 | 0.1170) 0.0926 | + 0.0244 12 To 9.90 | 0.1168| 0.0114) 0.1054 | 0.1048 | + 0.0011 13 11 10.75 | 0.1268 | 0.0184| 0.1084 | 0.0776 | + 0.0508 14 12 | 13.15|0.1541| 0.0219| 0.1322| 0.0895 | + 0.0427 | 215.50 ToraLe...| 81.20 |0.9567| 0.1231 0.8356 | 0.6228 +0.2128 | — 2.50 Media pro diel 11.60 |0.1366| 0.0175 | 0.1193| 0.0889 | + 0.0304 RENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 148 — 1160 — TapeLLA III — Uovo. Alimento: polvere d'uovo gr. 34; grasso di maiale gr. 28; amido gr. 40; zucchero gr. 16; cellulosa gr. 2. Totale gr. 120. Tempe- |, N N | l'empe- |Alimento| N ° N È | N Peso ‘z| ratura emesso | emesso | ERA Aellianio Gi p 7 a A bilancio ell’ani AO z media | assunto | ingerito colle assorbito colle e È Osservazioni & [ambiente si PE fecce | DI | urine giornaliero male °C. 5 Pr | gr. gr. gr. 15| 12 14.00|0.3738 | 0.0261 | 0.3477 | 0.1047 | +4 0.2430| 215.50 16| 12 | 14.20|0.8811]| 0.0686| 0.3125| 0.1043 | + 0.2082 Jr O] 12.30 | 0.3284 | 0.0692 | 0.2592| 0.1031 | + 0.1561 18| 12 12.25 | 0.3270 | 0.0304 | 0.2966| 0.1008 | + 0.1958 19|] 10 15.85 | 0.4281 | 0.0566| 0.3665 | 0.1359 | + 0.2306 20| 15 14.15|03780]| 0.0525 | 0.8255 | 0.1109 | + 0.2146 3 12.20 | 0.3257 | 0.0661 | 0.2596| 00878|401718| 228.10 ToraLe...|94.95 |2.5871 | 0.3695 | 2.1676 | 0.7475 | + 14201 |+- 12.60 Media pro die | 13.56 | 0,3624 | 0.0527 | 0.3096| 0.1067 | + 0.2028 TapeLLa IV. — Frumento. Alimento: farina di frumento gr. 40; grasso di maiale gr. 19; cellulosa gr. I. Totale gr. 60. 22) 18 12.40|0.1463| 0.0283| 0.1180| 0.1003| +0 0177| 228.10 perdita di pelo 23 5) 11.90|0.1404 | 0.0301| 0.1103| 0.0846 | + 0.0257 » 24| 12 13.40|0.1581| 0.0208| 0.1873| 0.0912| + 0.0461 ” 25| 14 11.40|0.1545 | 0.0170| 0.1174| 0.0986 | +0.0188 ” 26| 18 11.50 | 0.1357 | 0.0285| 0.1072| 0.1153| — 0.0081 ” 27) 14 12.25 |0.1445| 0.0170| 0.1275| 0.0679| + 0.059€ ” 28| 13 11.50|0.1357| 0.0298| 0.1059| 0.0983|+0.0076| 229.10 ” Torace. ..| 84.35)0.9952 | 0.1715 |0.8256 | 0.6562 | +0.1574| + 1.00 Media pro die| 12.05 | 0.1421| 0.0245| 01176| 0.0937 | 4 0.0224 Ù — 1161 — TaBELLA V. — Mais. Alimento: farina di mais gr. 40; grasso di maiale gr. 19; cellulosa gr. 1. T'otale gr. 60. = I —___] T SA | N N N È, ‘E ia I ABIOntO N emesso N emesso bilancio | i 3 | media |assunto | ingerito colle assorbito colle n . Osservazioni © [ambiente] .,, È fecce 5 urine | giornaliero male O i 80° gr. | gr. gr. gr. | gr. 29| 12 | 12.85|0.1773]| 0.0256| 0.1517| 0.1176|+-0.0341| 229.10| continua la perdita di pelo 30| 12 | 11.50/0.1587| 0.0277| 0.1310 _ _ ” 31| 13 8.25 | 0.1138 | 0.0049 | 0.1089 | 0.0734 | + 0.0355 ” 32| 18 | 15.65|0.2159| 0.0385| 0.1774| 0.0942 | + 0.0302 ” 33/13 | 12.00/0.1656| 0.0489 | 0.1217 | 0.0909 | + 0.0308 ” 34| 12 10.90 | 0.1414 | 0.0128 | 0.1286 | 0.0504 | + 0.0782 » 35 13 10.00 | 0.1380 | 0.0236 | 0.1144 | 0.0477|4+-0.0667| 222 90! ” ToraLe...| 81.15 | 1.1107| 0.1170 | 0.9337 |0.4743 | + 0.3285| — 6.20 Media,pro die 11.59 | 0.1586 | 0.0252 | 0.1333 | 0.0677 | + 0.0469 TaBELLA VI. — Uovo. Alimento: polvere di uovo gr. 16; grasso di maiale gr. 37; amido gr. 75; cellulosa gr. 2. Totale gr. 120. | 36 | 12.50 | 10.00 | 0.1500| 0.0128 | 0.1872 | 0.0725 | + 0.0775| 222.90) continua la perdita di pelo 37 | 13 10.10 | 0.1515| 0.0486 | 0.1029| 0.0561 | + 0.0468 ” 38 | 18 10.60 | 0.1590 | 0.0327 | 0.1263 | 0.0683 | +- 0.0580 » 39 | 13 10.75 | 0.1612 | 0.0224| 0.1388 | 0.0693 | 4+- 0.0695 ” 40| 14 11.70|0.1755| 0.0397| 01358| 0.0948 | + 0.0410 ” 41| 13 10.75 | 0.1612 | 0.0374| 0.1238 | 0.0530 | + 0.0708 ” 42 | 18.50 | 11.60|0.1740| 0.0092| 0.1648 | 0.0843 | + 0.0805 | 212.10 ” ToraLe...| "5.50 [11324 |0.2028 | 0.9296 | 0.4983 | + 0.4441|—10.80 Media pro die | 10.78 | 0.1617 | 0.0289| 0.1328 | 0.0711 | + 0.0634 Ù Per una successiva settimana (10-17 marzo 1914) si somministrò alimento: polvere d’uovo gr. 84; grasso di maiale gr. 28; amido gr. 56; cellulosa gr. 2 (totale gr. 120). Ne consumò in media gr. 9,57 al giorno. Alla fine della settimana il peso era cresciuto di gr. 1.20. — 1162 — Da queste tabelle risulta : a) Tanto la farina di mais quanto quella di frumento e la polvere di uovo sono capaci non solo di mantenere l'equilibrio, ma puranche di produrre un apparente immagazzinamento di azoto. Questo, tuttavia, fu massimo nella terza settimana (gr. 1.4201) di alimentazione coll'uovo, in cui però fu massima anche la quantità di azoto ingerito (gr. 2.5371); minimo nella quarta set- timana (gr. 0,1574) di alimentazione con farina di frumento, in cui fu pure molto piccola la quantità di azoto ingerito (gr. 0,9952). L'introito di azoto, che apparentemente si verificò in tutti i periodi spe- rimentali, non significa, però, che esso si sia totalmente immagazzinato nel corpo in forma di sostanze proteiche. Una gran parte di esso fuoriuscì dall'organismo per vie diverse dal rene. Infatti, specialmente nelle tre ultime settimane, l’animale perdeva continuamente pelo. Anche nelle ricerche di ricambio ma- teriale azotato negli animali superiori (l'uomo compreso) è stato recentemente ben dimostrato che una non trascurabile quantità di azoto abbandona l'orga- nismo per le vie cutanee. b) Ben diverso fu il comportamento del peso del corpo; diminuì sempre, e fortemente, nelle due settimane di alimentazione maidica (rispettiv. di gr. 10,9 e 6,20); diminuì molto meno (di gr. 2,50) e, rispettivamente, aumentò lievemente (di gr. 1) nelle due settimane di alimentazione frumen- taria. Aumentò fortemente nella prima settimana (di gr. 12,60), mentre diminuì fortemente nella seconda settimana di alimentazione con uovo (di gr. 10.80), per tornare ad aumentare lievemente nella terza settimana (di gr. 1.20). La diminuzione di peso nella seconda settimana di alimentazione con uovo fu probabilmente conseguenza del fatto che minore fu la quantità per- centuale della polvere d’uovo nell'alimento. e del fatto che l’animale ingerì una minore quantità di cibo. Forse vi contribuì anche, come effetto postumo, l’azione della precedente alimentazione maidica. II. In una seconda serie di ricerche si alimentarono sette ratti adulti e quattro in via di sviluppo, dei due sessi, per parecchie settimane con alimento a base di polvere di uovo, di farine di mais o di frumento, disseccate a 100° C., tenendo conto delle variazioni del loro peso corporeo e della quan- tità di cibo assunto giornalmente. Le miscele alimentari erano: — 1163 — polvere d'uovo . . . . gr. 17.00 | grasso di maiale » 32.50 a) amido » 68.00 NaCl . n 0.50 | cellulosa . . .... » 2.00 totale . . . gr. 120.00 farina di'mals., .. 4 gr. (80.00 sa) grasso di maiale . . . » 37.00 } ui NE Clio. ita, Sn 1,00 Laicollulopar i ela 09 2.00 totale . . . gr. 120.00 \ farina di frumento . . gr. 80.00 grasso di maiale . . . » 37.00 DI NEO n 100 aatosa Rate I 2.00 totale . . . gr. 120.00 Per brevità riassumo i risultati complessivi ottenuti. Coll’alimentazione 4) si osservò sempre un forte aumento del peso del corpo; con le alimentazioni b) e e) si osservò in alcuni animali lieve aumento, in altri diminuzione del peso del corpo. Risulta pertanto, così dalla prima come dalla seconda serie di ricerche, che l'inferiorità del valore nutritivo della zeina e della gliadina rispetto a quello dell'ovoalbumina, dimostrata dalle precedenti ricerche, si mani- festa anche quando si usano le farine di mais e di frumento in confronto colla polvere d’uovo. Si nota tuttavia una diversità di comportamento. nel senso, che 7 valore nutritivo azotato della sola zeina 0 della sola glia- dina è relativamente minore di quello delle farine in « toto ». Ciò deve attri- buirsi probabilmente al fatto che in queste esistono altre proteine di valore nutritivo maggiore di quello della zeina e della gliadina. Zoologia. — Correlazione e differenziazione. Ricerche sullo sviluppo degli Anfibi Anuri. Nota di GIULIO COTRONEI, presentata dal Socio B. GRASSI. (Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Parassitologia. — /icerche sperimentali su Lamblia inte stinalis. Nota del dott. CARLO BASILE ('), presentata dal Socio B. GRASSI. Il fatto che l'Entamoeba dysenteriae (Councilman e Lafleur, 1893) può invadere il fegato e determinarvi degli ascessi mi aveva già da gran tempo indotto a ricercare se anche altri protozoi, frequenti anche essi nel- l'intestino dei vertebrati, possano comportarsi nello stesso modo. In questa Nota mi occuperò particolarmente di Zamblia intestinalis. Il Grassi (1881) segnalò nelle feci umane, in tre casi di diarrea stu- diati in Italia ed anche nello intestino di topi e di gatti un protozoo di cui diede i caratteri e che denominò Megastoma entericum (°). Successivamente il Biitschli trovò che con le forme di Megastoma ente- ricum studiato dal Grassi si potevano identificare certe forme accennate e figurate dal Lambl (1859) e da questo autore non affatto distinte dal Cer- comonas (Trichomonas) intestinalis insieme al quale le aveva trovate nel muco intestinale di bambini; di queste forme il Lambl non aveva notati neppure i flagelli. È da notare che lo stesso Lambl più tardi trovava i Cercomonas (Trichomonas) intestinalis anche in una cisti di echinococco del fegato senza più ritornare sulle forme sudette; del resto i dati di questo autore intorno ad esse erano così insufficienti che competentissimi ricercatori che a lui seguirono quali lo Stein, il Leiickart, il Davaine non vi avevano dato alcun valore e le attribuivano a inesatte osservazioni. Ciò nonostante il Blanchard (1888) propose. in onore del Lamb], per questo protozoo, deno- minato dal Grassi Megastoma entericum, la denominazione di Zamblia intestinalis; questa denominazione è ormai adottata dalla maggior parte degli autori, ed il nome e gli studî del Grassi, al quale in realtà si deve la vera scoperta di questo parassita, sono ormai dimenticati nella lettera- tura contemporanea. Io, sin dal 1912, con ricerche sistematiche, ho esaminato il fegato di molti cani, gatti, topi, naturalmente infetti nel loro intestino da Lamblia intestinalis. Ma il più minuzioso esame dei preparati per strisciamento del fegato di questi animali, è stato sempre negativo. Soltanto recentemente, eseguendo l'autopsia di un topo (Mus musculus). notai che il fegato era ingrandito e (*) Dall’Istituto di anatomia comparata della R. Università di Roma. (*) Grassi B., Intorno ad alcuni protisti endoparassitici. Memoria di Parassitologia comparata, in Atti della Società Italiana di scienze naturali, vol. XXIV. — 1165 — che mostrava delle cisti delle dimensioni di un piccolo cece contenenti un liquido chiaro. Mediante una pipetta Pasteur, ho aspirato il liquido in esse contenuto e l'ho inoculato per via peritoneale, in modo asettico, in un secondo topolino (Mus musculus). Dal materiale raccolto dalle pareti delle stesse cisti epatiche ho eseguito dei preparati a fresco nei quali ho osservato dei protozoi mobilissimi che però, data la loro notevole rarità, non ho potuto specificare. Il topolino, inoculato per via peritoneale col liquido contenuto nelle cisti epatiche suddette, è vissuto per 16 giorni dopo la inoculazione; in questo periodo di tempo esso non ha dimostrato alcun sintomo morboso. La sera del 16° giorno dall’inoculazione, esso fu trovato molto soffe- rente; dopo qualche ora, essendo ancor più aggravato, venne da me sacri- ficato. Nulla di rilevante al cuore ed ai polmoni. Aperta la cavità peritoneale, ho notato subito un notevole ingrandimento delle glandole linfatiche mesen- teriche e del fegato; anche la milza era lievemente ingrossata e di colorito rosso-cupo; nulla di rilevante a carico della sierosa peritoneale. L'esame dei polmoni, della milza e del midollo osseo tibiale non rivelò alcun parassita; però nei preparati eseguiti per strisciamento del fegato ed in quelli eseguiti dalle glandole linfatiche mesenteriche, io ho osservato dei protozoi, che, per le loro caratteristiche morfologiche, ho identificato colla Lamblia intestinalis. Il parassita sì presenta o con flagelli più o meno visibili (forme a pera), o in via di incistamento (forme ovali o rotondeggianti). Le forme incistate sono state segnalate dal Perroncito (*); esse in natura sono eliminate colle feci e per come ha dimostrato sperimentalmente lo stesso Perroncito servono a mantenere viva e diffondere la specie. L'esame microscopico del sangue aspirato dal cuore mostrò la presenza di forme, che possono ritenersi protozoi. Per accertare la loro natura ed il loro significato, io ho inoculato un cme. di sangue, aspirato dal cuore, in un terzo topolino che è tuttora in osservazione. La questione della patogeneità della Lamblia intestinalis è tutt'oggi controversa. Il Perroncito ebbe più volte occasione di assicurarsi dell’azione (‘) Perroncito E., Regia Accademia di Medicina di Torino, anno 1887. — 1166 — patogena di questo protozoo nell'uomo. Tutt'oggi tale questione può riassu- mersì nelle seguenti parole scritte dal Grassi sin dal 1888 (1): « Se certe diarree croniche accompagnate da anemia appaiono indubitatamente riferibili al Megastoma, vi sono per contrario individui, e non pochi, i quali pur ospi- tando questo parassita, anche in gran numero, godono di salute perfetta ». Io ho voluto comunicare la mia osservazione ed il mio esperimento sopracennati, certamente non privi di interesse, perchè essi dimostrano che la Zamblia intestinalis può trovare nel fegato e nelle glandole linfatiche mesenteriche un ambiente adatto alla sua vitalità ed è probabile che in questo ambiente sia patogena. Fisiologia. — Su! metabolismo degli aminoacidi nell’orga- nismo : Azione del tessuto epatico sugli aminoacidi aggiunti al san- que circolante. Nota VII del dott. Uso LomBRoso e di CAMILLO Artom, presentata dal Socio prof. L. LUCIANI. Numerose ricerche sono state eseguite per determinare l’azione del fe- gato sugli aminoacidi. Ma la maggior parte di esse furono limitate alla indagine di alcune sostanze (corpi acetonici, acido lattico, urea, ammoniaca ecc.) che si supponeva avessero origine dagli aminoacidi; e gli autori appog- giavano o escludevano questa ipotesi, a seconda che tali sostanze aumen- tavano o no nel liquido circolante. : A noi sembra, per altro, che un giudizio, basato unicamente sull'esame del liquido circolante, non sia sufficientemente attendibile, trattandosi di sostanze che si trovano depositate, in copia più o meno notevole, nel tessuto epatico, e vengono facilmente riversate da questo nel liquido circolante. Ma, astraendo da questa obbiezione, dalla lettura° dei precedenti au- tori emerge che nessuno ancora si è proposto lo studio ex-professo del comportamento degli aminoacidi circolanti nel fegato, e del loro definitivo destino: determinando a questo scopo le percentuali che vengono semplice- mente depositate nel tessuto, le percentuali che vengono utilizzate per pro- cessi sintetici, e finalmente quelle che vengono effettivamente disaminate. Frazionatamente si può ritrovare qualche indicazione, nei precedenti lavori, sui quesiti ora enunciati: ma per l'incompiutezza delle indagini, non si può giungere neppure ad una sicura interpretazione dei dati ottenuti. Come potrebbesi, ad esempio, interpretare la scomparsa, anche eleva- tissima, di aminoacidi circolanti nel fegato, senza determinare almeno il loro quantitativo nell’organo, prima e dopo l'esperimento, dato che proprio il fegato è atto a trattenerli in grande quantità? (1) Grassi, Significato patologico dei protozoi parassiti dell'uomo. R. Ace. Lincei, Classe di scienze morali, storiche, filologiche, 1888, 22 gennaio. — 1167 — Van Slyke (*) ed allievi, studiando il destino degli aminoacidi iniet- tati direttamente nel sangue, affermarono che essi scompaiono perchè si de- positano nei varii tessuti e prevalentemente nel fegato: ma mentre negli altri tessuti rimangono inalterati, nel fegato sono rapidamente scomposti dando luogo ad urea ed ammoniaca. Il fegato inoltre distrugge successivamente gli aminoacidi depositati negli altri tessuti, man mano che si riversano nel torrente sanguigno. Le osservazioni del van Slyke sono state però eseguite 27 vivo, nel qual caso troppi fattori si intersecano e si sovrappongono, rendendo difficile il localizzare i varî fenomeni nell’uno o nell'altro tessuto. Diveniva quindi necessaria, prima di accettare le conclusioni di van Slyke, una più diretta indagine. Tanto più che le ricerche di Fiske e Sumner (?) non paiono confermare le affermazioni di van Slyke. Infatti questi autori, occupandosi del comportamento della glicocolla nel fegato, constatarono che non vi era aumento di urea dopo circolazione di Ringer con glicocolla nel fegato isolato. In base ad esperienze eseguite con estratti epatici, G. Bostock (*) con- cluse per la presenza, nel fegato, di enzimi disaminanti ; ma le sue afferma- zioni vennero contraddette da Levene e Meyer (‘) in ricerche di controllo eseguite con una disposizione analoga. Così pure dalle indagini di Buglia e Costantino (*) sull'azione del fe- gato di scellius catulus in purea di fronte alla glicocolla, risulterebbe la mancanza di enzimi disamidanti nel fegato. Infatti essi osservarono che non sì moditicava il quantitativo di aminoacidi in una mescolanza di purea di fegato con glicocolla, nel senso di una loro distruzione, facendo gorgogliare o no l'ossigeno. Embden (°) ed allievi hanno dimostrato che condizionatamente alla presenza di alcuni aminoacidi (tirosina, leucina, fenilalanina, ecc.) si poteva ottenere, nella circolazione di fegato di cane. la produzione di corpi ace- tonici. Altri aminoacidi, ad esempio l'alanitra, darebbero invece luogo alla produzione di acido lattico. Riconosciamo attendibile la presunzione che tali corpi abbiano origine dagli aminoacidi. Però, mancando in queste ricerche il diretto controllo sul comportamento dell’aminoacido nel sangue e nel fegato, rimane sempre il dubbio che esso abbia agito semplicemente da catalizzatore per un processo che si compia a spese di altre sostanze che si trovano nel fegato stesso e sono capaci di compiere tale funzione. (5) Journ. of. biol. chem., XVI, 187, an. 1913. (2) Journ. of Biol. Chem, XVIII, 285, an. 1914. (3) Biochem. Journ. VI, pag. 48, an. 1912. (4) Journ. of biol. chem., XV, pag. 475, an. 1915. ) ) (5) Zentralbl. Physiol. 26, H. 24, 1178, an. 1913. (6) Biochem, Zeitschr, 38, 393, an. 1912; 55, 801, an. 19183 ece. 6 ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 149 —- 1163 — SA. NG. Ul 2 AMINOACIDI Hi © AMINOACIDI AMMONIACA UREA CORPI ACETONICI z aggiunti z Na0H'/10 x cm3 | HaS04!/;0 2 cm8 | mmgr. N-ureico I'/1on cm? E al 25 - î % sangue 25 & Diff y è S È S a S i di 5 || a ed) al |a n 5) Assol. | °/o co E È È A È n A È A A A I —_ 600] 21 | 49,4H- 28,4/135,2| 11,5112,5/+ 1 |117 |200,3/4+ 83,3] 28 |12,5|— 15, JI —_ 450] 16,2|111,8|4- 95.6|590,1| 13 | 42,8 [+ 29,8|264,5/335,4|+ 70,9 13,5| 5,7|— 74 III e-alanina gr. 3. |£00|211 |142,8|— 68,7] 32,520 |21 |4- 1 | 95.4j106 |[#+-10,6| 8 |12,8]|4+- 4; IV a-alanina gr. 3° [400|194,7|130,7/— 64,0] 32,910 | 8,8|— 1,2] 57,8) 80 |[4-22,2) 4 |14 |#+-10 V e alanina gr. 2,1 |350|182 |156,8|— 25,7| 14,1]11,6| 9 |— 2,6|102,8|158,3]+ 55,5 VI glicocolla gr. 2,5 |350|198,6|147 |— 51,6] 26 |11 7,9 |— 4,1) 85,°| 40,1|+ 4,8) .. VII glicocolla gr. 2,5 |300/187,5|152,6|_ 34,9] 18,61 ..| ..| .. |43 |83 [+40 VIII| leucina gr. 2,5. |400| 92 | 88,5/— 3,5) 3,8). 8 61,8) 75,5|+- 13,7) 8 8,8|4+ 0% IX leucina gr. 2,5 400|104 |114 |4- 10 9,7|12,5| 57,8 |4- 45,8] 91.1|117,2|4- 26,1| 6,7] 7,7/4+ 1 X asparagina gr. 8 |400|118,4| 72,8|- 45,6| 38,51 16 |74 [4-48 | 31,8] 42,5|+11,2|. neutralizzata XI asparagina gr. 3,5 [400/177,6| 98,9|— 78.7] 44,2) 14 [112 [4-98 | 33,2] 50,2/+-17,0| . . neutralizzata (*) Cane maschio kg. 19,5. Pressione Hg mm. 40-60. Velocità di circolazione cm? 42 al minuto. (?) Cane maschio kg. 18. Pressione Hg mm. 10-20. Velocità cm 60 per minuto. Durata della (*) Cane maschio kg. 7. Pressione Hg mm. 10-20. Velocità cm? 45 per minuto. Durata della (4) Cane maschio kg. 8,9. Pressione Hg mm. 30-50. Velocità cm? 838. Durata della circolazione (5) Cane maschio kg. 28. Pressione Hg mm. 20-30. Velocità cm? 64. Durata della circolazione (5) Cane maschio kg. 3,4 digiuno da 47 ore. Pressione Hg mm. 15-20. Velocità media 45 cm? al (*) Cane femmina kg. 3 digiuno da 48 ore. Pressione Hg mm. 20-40. Velocità media cm? 40 al (8) Cane femmina kg. 3,2 digiuno da 96 ore. Sangue diluito !/; con Ringer. Pressione Hg mm. (*) Cane maschio kg. 4,2 digiuno da 6 giorni. Pressione media Hg mm. 20-30. Velocità 40 cm? al (2°) Cane maschio kg. 5,5 digiuno da 6 giorni. Pressione Hg mm. 25-40. Velocità cm8 50 al minuto. (11) Cane maschio kg. 9,1 digiuno da 6 giorni. Pressione Hg mm. 20-80. Velocità cm8 60 al minuto. — — = — 1169 — IERI RAZNEO. AMINOACIDI AMMONIACA CORPI ACETONICI Na 0H!/,07 cm8 HsS04!/;0 n cm8 To ma S S © | Differenza & ° = S ° 3 D Sì = = E ® si [SP D 5 da 2 seen E 2 7 a 0 5 È & | 9 ass], ||| È Pai fi 55 450 | 580|4- 130/248 |150,8|— 92,2) 37,9) 90 |109,3|+ 19,8 81 |23,2| — 7,8 330 | 350| + 20|/206,8/182 |— 24,8] 12 |121 | 70 |— 51 | 46,2] 28 — 18,2 170] 220|+ 50) 12,2) 14,5|+- 2,3] 18,8| 68 | 11 |- 57 |156,4|28,6| —127,8 210] 260/+4 50) 16 | 18,414 24| 15 |245 80] 95/4 15) 40,8] 36,1|+ 4,7] 11,5) 34,0] 57,51+ 23,5 | 95 | 180|+ 35] 39,9 90,7|+ 50,8/127,5| 26,6| 42,614 16,0 | | |. 75] 105|+ 80) 28,5] 59,3|+ 30,8|108 | 110| 125] + 15) 44 | 50 |+ 6 | 13,6) 22 56,3. + 34,3) 33 DST 95 | 110|+4 15) 38 | 39,614 1,6] 4,2) 64,3|105,6|+- 41,3) 2,7 18,9] + 16,2 130 | 150|+ 20) 58,3] 69 |+-15,7] 29.4 195 | 305 | 4 110) 84,5/113,8|+ 29,3] 34,6| 65 |160 |--95 | Durata della circolazione 1 ora. BILANCIO COMPLESSIVO AMINOACIDI (nel sangue e nell’organo) Na 0H!/0o% emi circolazione 1 ora. circolazione 50’. 1 ora e 10° lors. minuto. Durata della circolazione 1 ora. minuto. Durata della circolazione 1 ora. 40-50. Velocità cm 55 al minuto. Durata della circolazione 1 ora. minuto. Durata della circolazione 1 ora. Durata della circolazione 50’. Durata della circolazione 1 ora e 3. Diminuzione Aumento Diminuzione Diminuzione Diminuzione Diminuzione Diminuzione Aumento Aumento Diminuzione Diminuzione 70,8 66,4 61.6 21,0 0,8 4.l 494 OSSERVAZIONI —- 1168 — Ss A IN Ep 1 33) a | £ AMINOACIDI AMINOACIDI AMMONIACA UREA CORPI ACETONICI £ aggiunti (a Na0H!/;on cm8 Hy80!/:0 em? | mmgr. N-ureico I'/1o nem È al Er s & = È sangue SE E G) Differenza z 2 È È 2, 5 È Gi È o |-#| £ sere eslela|a| gi IAA Assol. | °/, | a) 53) fa al fa b=| [ei - A I = 600) 21 | 49,4|+-28,4/135,2| 11,5|12,5/4+ 1 |117 |200,3/+ 83,3] 28 |12,5|— 15,5 JI si 450) 16,2/111,8|4+- 95.6/590,1| 13 |42,8 [+ 29,8|264,5|335,4|+ 70,9] 13,5| 5,7|— 7,8 III a-alanina gr. 8 |400|211 |142,3)— 68,7 32,5|20 |21 + 1 | 95,4|106 |4-10,6| 8 |12,8]+ 48 IV c-alanina gr. 3 |400|194,7|130,7.— 64,0| 32,9|10 | 8,8/— 1,2) 57,8| 80 ({-22,2) 4 |14 |410 V «alanina gr. 2,1 |350]182 |156,3|— 25,7| 14,1|11,6| 9 |— 2,6|102,8|158,314- 55,5 VI glicocolla gr. 2,5 [350|198.6/147 |— 51,6| 26 |11 7,9|— 4,1) 35,5) 40,1|+- 4,3 VII glicocolla gr. 2,5 |300|187,5|152,6| — 34,9] 18,6 43 | 88 |4-40 VILL| leucina gr. 25 [400] 92 | 88,5|— 3,5] 3,8 8 61,8] 75,51+-137| 8 | 88|+ 08 IX | leucina gr. 2,5 [400104 [114 [4-10 | 9,7|12,5|57,8|-45,8| o11/117,2|4+-261| 67] 77|4+ 1 Xx asparagina gr. 3 |400|118,4| 72,8|- 45,6| 38,5|16 |74 |{-48 | 31,3] 42,5|+11,2|.. neutralizzata | XI asparagina gr. 3,5 |400|177,6| 98,9/— 78.7| 44,2| 14 [112 |4+-98 | 33,2] 50,2|4-17,0 | nentralizzata È (1) Cane (®) Cane (#) Cane (4) Cane (5) Cane (5) Cane (7) Cane (8) Cane (9) Cane maschio maschio maschio maschio femmina kg. 3,2 digiuno da 96 ore. maschio kg. 4,2 digiuno da 6 giorni. (1°) Cane maschio kg. 5,5 digiuno da 6 giorni. (1) Cane maschio kg. 9,1 digiuno da 6 giorni. maschio kg. 19,5. Pressione Hg mm. 40-60. Velocità di circolazione cm? 42 al minuto. maschio kg. 18. Pressione Hg mm. 10-20. Velocità cm? 60 per minuto. Durata della kg. 7. Pressione Hg mm. 10-20. Velocità cm? 45 per minuto. Durata della kg. 8,9. Pressione Hg mm. 30-50. Velocità cm? 38. Durata della circolazione kg. 28. Pressione Hg mm. 20-30. Velocità cm? 64. Durata della circolazione kg. 3,4 digiuno da 47 ore. Pressione Hg mm. 15-20. Velocità media 45 em° al femmina kg. 3 digiuno da 48 ore. Pressione Hg mm. 20-40. Velocità media em? 40 al Sangue diluito !/s con Ringer. Pressione Hg mm. Pressione media Hg mm. 20-30. Velocità 40 em? al Pressione Hg mm. 25-40. Velocità em? 50 al minuto. Pressione Hg mm. 20-80. Velocità cm9 60 al minuto. — 1169 — ©) 53 (Er /A INT © BILANCIO. COMPLESSIVO Durata della circolazione 1 ora. circolazione 1 ora. circolazione 50°. lora e 10°, lora, minuto. Durata della circolazione 1 ora. minuto. Durata della circolazione 1 ora. 40:50. Velocità em? 55 al minuto. Durata della circolazione 1 ora. muto. Durata della circolazione 1 ora. Durata della circolazione 50”. Durata della circolazione 1 ora e “to AMINOACIDI AMMONIACA CORPI ACKTONICI I ETROIon S Na 0H!/102 cm H2804!/so n cm I!/10n cm? (Geli sangue E Z n Fi E e nell'organo) 3 È £ e | Differenza | £ ° = È 2 È i È £| 8 S| È E| 5 È Na0H'/jon em È pe A Assol | °/o A E pra RS bal [e] (=) A + 130|243 |150,8j— 92,2] 37,9) 90 |109,3|4-19,3| 31 |23,2| — 7,8 | Diminuzione 63, 8| (') + 20|206,8/182 |— 24,8] 12 |121 | 70 |— 51 | 46,228 — 18,2) Aumento 70,8 | (*) + 50| 12,2| 14,5|+ 2,3] 18,8| 68 | 11 |- 57 |156,4|28,6| —127,8 | Diminuzione 66,4 | (*) + 50| 16 | 18,4/{- 24| 15 |245 Diminuzione 61,6 | (*) + 15) 40,8) 36,1/4- 4,7| 11,5] 34,0| 57,514 23,5 | Diminuzione 21,0 | (5) + 35| 39,9| 90,7|4+- 50,8|127,5] 26,6| 42,6|+- 16,0 | Diminuzione 0,8 | (9) | + 30) 28,5] 59,3|+ 30,8/108 | Diminuzione 4,1 | (7) | + 15| 44 | 50 [+ 6 | 13,6] 22 | 56,314 34,3) 33 5 | — 28 | Aumento 2,5. || (8) | + 15) 38 | 396|+ 1,6 42) 64,3|105,64+-41,8| 2,7|189| + 162) Aumento 116 | (0) | | + 20) 53,3] 69 [415,7] 29.4 Diminuzione 29,9 | (!°) + 110| 84,5|113,8|+ 29,3] 34,6| 65 |160 |4-95 | Diminuzione 49,4 | ("!) — 1170 — Le presenti ricerche sono state iniziate per giungere ad una più esatta valutazione dei risultati ottenuti dai precedenti autori, risultati in alcuni casi contradditorî, e per contribuire allo studio dell’azione del fegato sugli ami- noacidi. Studio tanto più interessante, data la grande importanza che « priori si può supporre abbia il fegato nel ricambio intermedio delle sostanze pro- teiche, in analogia all'importanza che ad esso è già riconosciuta a proposito delle altre sostanze alimentari. Bisognava determinare anzitutto se gli aminoacidi giunti al fegato ven- gano distrutti e quindi resi inutilizzabili dagli altri tessuti, oppure se, per opera del fegato, si inizii una ricostruzione di più complesse sostanze, si- milmente a quanto avviene per il glucosio ecc. ecc. Il cane veniva ucciso per dissanguamento rapido dalla carotide: quindi, dopo abbondante lavaggio del sistema vasale con soluzione fisiologica, si asportava il fegato e lo si poneva a circolare nell'apparecchio di Lind, ad eccezione di uno o due lobi che venivano separati per servire come cam- pioni dell'organo prima della circolazione. Il sangue defibrinato dello stesso animale, in quantità variabile da 300 a 600 cm.? secondo il volume del- l’organo, entrava per la vena porta e fuoriusciva per le vene sovraepatiche : il coledoco e l'arteria epatica venivano legati. Dopo la circolazione, della durata di 1 ora circa, il fegato era aumentato di peso ; e l'aumento in peso sì assumeva come indice della quantità di sangue che rimaneva nell’organo, e che quindi doveva sottrarsi dalla quantità iniziale di sangue, nei calcoli sopra il sangue residuante dopo la circolazione. Il dosaggio degli aminoa- cidi nel sangue era eseguito col metodo del Sorensen, dopo eliminazione dell'’NH} e precipitazione con ferro colloidale ; il dosaggio dell'ammoniaca si eseguiva col metodo di Folin della corrente d’aria; quello dell'acetone, col metodo di Messinger Huppert; quello dell’urea, col metodo dell’ ipo- bromito. Nell’organo i dosaggi si eseguivano con gli stessi metodi sulla poltiglia fresca per l'acetone e l'ammoniaca, e sull'estratto idroalcoolico per gli ami- noacidi. RIASSUNTO E CONCLUSIONI. Dalle presenti ricerche risulta che: 1°) facendo circolare nel fegato isolato di cane aminoacidi sciolti nel sangue, si avverte sempre una loro notevole diminuzione, ad eccezione delle esperienze eseguite colla leucina; 2°) la diminuzione degli aminoacidi nel sangue circolante non è giustificata da un corrispondente aumento del loro contenuto nell'organo. — 1171 — In qualche caso si avverte che gli aminoacidi nell’organo sono rimasti pres- sochè invariati quantitativamente ; 3°) facendo circolare nel fegato sangue senza aggiunta di aminoacidi, si avverte un loro aumento nel sangue: aumento tanto più notevole, se si considera da un punto di vista comparativo e non assoluto, perchè supera di molto il 1%9/,00; 4°) sia facendo circolare sangue con aminoacidi, sia facendo circolare sangue senza aggiunta di aminoacidi, si osserva talora un aumento nel con- tenuto dell'NH; nel sangue e sempre nell’organo circolato. Ma tale aumento fu assai inferiore a quello che potevasi attendere considerando il quantita- tivo di aminoacidi scomparsi, ad eccezione delle esperienze con asparagina, nelle quali l'aumento nel sangue fu assai notevole. A_ somiglianza dell'NH; sì comporta l’urea del sangue, che aumenta però sempre considerevolmente in confronto all'aumento dell’NH,; 5°) il contenuto in corpi acetonici nel sangue aumentò in quasi tutte le esperienze; in tutte poi diminuì notevolmente il contenuto di detti corpi nel tessuto epatico. Non si può quindi escludere che l'aumento dei corpi acetonici nel sangue non dipenda da un semplice riversamento. Ma d'altra parte, data l'attitudine del fegato di consumare rapidamente tali sostanze, non sì può nemmeno escludere ch’esse sì wiano formate, ed in copia note- vole, senza essere rilevabili all'esame perchè man mano bruciate. Il maggior aumento in corpi acetonici si ottenne nelle esperienze con leucina, in una delle quali si avvertì pure un aumento nel tessuto epatico. x SN Se prendiamo in esame il complesso dei risultati ottenuti, si rileva anzitutto che due opposti processi si svolgono simultaneamente, mascheran- dosi a vicenda. E cioè da un lato la diminuzione degli aminoacidi aggiunti al sangue; e d'altro lato la formazione di aminoacidi nel fegato stesso. Nelle indagini da noi eseguite si è potuto determinare soltanto il pro- cesso preponderante nella limitata misura con cui oltrepassa l’altro: una più esatta valutazione dei due processi sarebbe soltanto possibile di ottenere con ricerche di ordine qualitativo oltre che quantitativo : ricerche che non abbiamo eseguite, per le difficoltà tecniche che presentano. Nelle esperienze eseguite con leucina i due opposti processi tendono ad equilibrarsi, e solo l'aumento specifico delle sostanze cetogene permette di affermare la distruzione di leucina. Nei casi nei quali la diminuzione degli aminoacidi si dimostrò prepon- derante, essa non può spiegarsi come dovuta esclusivamente ad una combu- stione, poichè l'aumento di urea e di NH; è proporzionalmente scarso ed un loro aumento eguale, ed anche superiore, si riscontrò pure senza l'aggiunta di aminoacidi. Perciò devesi ammettere che una parte degli ami- — 1172 — noacidi scomparsi abbia servito alla formazione di complessi più o meno elevati. Il fegato si comporterebbe con gli aminoacidi assai similmente, sotto un certo aspetto, a come si comporta con gli idrati di carbonio, che ad esso giungono sotto forma di glucosio; una parte brucia direttamente, un’altra sintetizza per riversarla poi di nuovo successivamente nel sangue, in forma di glucosio. Sull'intimo meccanesimo di queste due opposte funzioni del fegato, sintesi e liberazione di aminoacidi, non è ancor possibile di formulare alcuna ipotesi. Ci troviamo forse di fronte a quella singolare attitudine, che già in altri campi abbiamo studiato ('), per cui un tessuto, un secreto dell’or- ganismo, compie due opposti fenomeni, o per opera di due enzimi di fun- zione antagonista. o per la modificazione dell'attività di uno stesso enzima, a seconda delle differenti condizioni iniziali in vui vien posto ad agire. Comunque sia. nel valutare l’azione del fegato nel ricambio delle sostanze proteiche si deve attribuire una grande importanza al fatto che esso non esplica soltanto un'azione distruggitrice sugli aminoacidi, con produzione di di NH; ed urea, come affermavano Van Slyke ed allievi: ma, come ab- biamo dimostrato, esso è pure capace, ed in grado notevole, di sintetizzare e di produrre nuovi aminoacidi. Ed è probabilmente con l'intrecciarsi di queste varie attitudini che il fegato riesce a compiere quelle complesse ed ancora oscure funzioni, che permettono di raggiungere l’equilibrio azotato, anche nelle più disparate condizioni iniziali. Chimica fisiologica. — JMicrotitolazione alla formaldeide per la determinazione quantitativa degli aminoacidi e le sue appli cazioni in fistologia. Nota I. Generalità sulla microtitolazione alla formaldeide e sua prima applicazione nello studio dei fermenti peptidolitici. Nota di ANTONINO CLEMENTI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (1) U. Lombroso, Archivio di farmacologia e scienze affini, vol. XIV, pag. 429, 1912. — 1173 — Fisica. — Persistenza delle correnti nelle cellule futoelettriche dopo la soppressione della luce eccitatrice. Nota II di 0. M. CorBINO e G. U. TRABACCHI, presentata dal Socio P. BLASERNA. Come annunziammo nella Nota I, procediamo alla descrizione dei par - ticolari della disposizione sperimentale adottata. Parte elettrica — Essendo in giuoco resistenze elettriche molto grandi e tensioni piuttosto alte, fino a 70 volts, si imponeva la maggior cura per garen- tire lo isolamento delle varie parti del circuito, specialmente nei casi in cui, atilizzandosi un galvanometro ad alta resistenza interna, le minime correnti di dispersione avrebbero determinato deviazioni notevoli e incostanti. Fu perciò necessario di ricorrere, come sorgente, a una batteria di piccole pile a secco affondate in una scatola contenente paraffina; evitare, lungo lo intero. AMA L Fis. l. circuito (connessioni, resistenze, apparecchi di misura), ogni possibile deri- vazione di corrente a terra; e tenere in buona connessione permanente col suolo la sola parte che non poteva essere bene isolata: l'interruttore rotante. In tal modo correnti di dispersione si producevano solo quando nelle manovre preparatorie qualche parte del circuito veniva toccata dalla mano dell’opera- tore; ma ogni disturbo cessava durante le esperienze per le quali, come ve- dremo, la manovra si riduceva solo alla interposizione di uno schermo nel tragitto della luce. Lo schema dei circuiti, già descritto nella prima Nota, è riprodotto nella fig. 1. Interruttore rotante — Come abbiamo detto, ci siamo serviti dell’appa- recchio del prof. Blaserna, esistente in questo Istituto, e che consente la realizzazione delle combinazioni più svariate. Su un unico asse robusto (fig. 2), messo in rotazione da un sistema di ruote a ingranaggi, sono disposti, l’uno dopo l’altro, due tamburi T T', cilin- drici, identici, di materia isolante: di essi il primo è stabilmente solidale con l'albero; l’altro, pur girando solidalmente col primo, può subire rispetto. — 1174 — ad esso spostamenti arbitrarî e misurabili per mezzo di un cerchio graduato, disposto dove i due tamburi si toccano. Sulla superficie cilindrica dei tamburi trovasi una parte metallica, esat- tamente tornita col cilindro isolante; davanti alla parte metallica può por- tarsi un contatto a molla (B, B') sostenuto da una guida laterale, di avorio; se ne può regolare la pressione sul cilindro in modo da assicurare il contatto crac SS AO GTI get ni AG (Rasa sp | È | == (messa) eni do dla (ale dle Fic. 2 periodico, senza attriti eccessivi col cilindro mobile. La parte metallica, avente la forma di una gradinata, occupa porzioni angolari differenti della intera superficie cilindrica, cosicchè, portando il contatto in presenza dei diversì gra- dini, si può ottenere che la frazione di giro, durante la quale permane il con- tatto fra la molla e il metallo, sia modificabile entro ampî limiti. Agli estremi di ciascun tamburo si trova un altro contatto a molla (A, A’) su un cilin- dretto continuo conduttore, che comunica col metallo della superficie. È chiaro, adunque, che ciascun tamburo consente che si stabilisca una comunicazione metallica fra le due molle di contatto A B, o A'B', per una frazione di giro variabile entro ampî limiti, e con un ritardo in fase dal contatto fra A e B a quello fra A' e B' che si può anch'esso modificare ad arbitrio con conti- nuità e in modo misurabile. ®) mi 4 Sb Fia. 3. Nella prima parte delle esperienze che ci apprestiamo a descrivere ci siamo serviti di un solo contatto mobile, quello del tamburo T', mentre la fase angolare del contatto poteva modificarsi e leggersi sul centro graduato rispetto al tamburo fisso T. La parte ottica. — All'estremità M dell’albero trovasi una ruota D (fig. 3) a tre settori in alluminio. Noi ci siamo serviti di uno dei settori metal- lici del disco, per operare l'intercettamento periodico del fascio luminoso. — 1175 — La disposizione ottica era la seguente: Un fascio intenso, proveniente dal sole o da una lampada ad arco a corrente continua, era concentrato (fig. 4) su una fenditura rettangolare Fa contorni netti, e poi raccolto da un grande obbiettivo Zeiss O che ne produceva una piccola immagine nel piano del disco a settori D. La luce si propaga liberamente finchè il fascio non incontra uno dei tre settori; e traversa al di là un secondo obbiettivo Zeiss O’ che rende parallelo il fascio e lo fa cadere sulla cella. In una certa posizione del disco, Ja immagine della fenditura è inter- cettata dal settore opaco, e si dipinge su di esso; è facile allora dare ai bordi della fenditura tale orientazione che la loro immagine risulti esattamente parallela all'orlo del settore nella posizione in cui ha luogo l’ intercettamento. Così la estinzione si produce, durante il moto del disco, per riduzione pro- gressiva della larghezza del fascio di luce fino a zero, con che del fascio di luce parallela emergente dal secondo obbiettivo si modifica progressivamente fino a zero la intensità, senza che se ne alteri la forma. =SA ,, Va A Î een vrà: 291 / | de 0 EE DA nl si {Z| 1\ c \ pe | pel \ ti Î 1 re | Î | VV li IA D F Se‘ (AEREI Fic. 4. Essendo il disco solidale con l'albero, si può modificare opportunamente la fase del contatto sul tamburo T' in modo che esso abbia luogo o snbito dopo l'estinzione della luce, o dopo un intervallo angolare variabile a volontà, che si può leggere con riferimento al cerchio graduato. La durata del con- tatto, scegliendo opportunamente il gradino sul tamburo, si regolava in modo che esso cessasse un po’ prima che la luce tornasse a cadere sulla cella; e poichè fra i gradini ce n'è alcuni di minima apertura angolare, si poteva, quando parve opportuno, far sì che il contatto durasse per una minima fra- zione del giro, e dopo intervalli di tempo variabili dall'istante in cui era stata interamente intercettata la luce. Andamento di una esperienza. — Trovata la posizione del tamburo T" por cui il contatto avvenisse ‘mmediatamente dopo l'intercettamento totale della luce da parte del settore, sì spostava ulteriormente il tamburo, di un certo numero « di gradi. Chiuso allora il circuito principale, si sopprimeva permanentemente la luce con uno schermo a mano, sì apriva Jo schermo della cella, e si osser- vava l'andamento del galvanometro. Questo era, secondo i casi, un Hartmann e Braun, a bobina mobile da 100 ohms, o un Siemens e Halske, pure a bobina mobile, di alta resistenza. Messo in rapida rotazione il tamburo (la velocità comunemente adoperata era di circa 20 giri al secondo), si ebbe a consta- ReNDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 150 — 1176 — tare una deviazione al galvanometro, pur essendo permanentemente intercet- tata la luce. Questa deviazione era dovuta al fatto che il contatto strisciante sul tamburo si riscaldava sensibilmente, non ostante le disposizioni prese per lubrificare le superfici: e quando a ogni giro, per l'avvenuto contatto. si schiu- deva il circuito formato dal galvanometro e della resistenza 7 (fig. 1), una corrente termoelettrica passava periodicamente nel galvanometro. Si poteva anche ritenere che, essendo aperta la cella, e perciò esposta alla luce diffusa della camera, una corrente fotoelettrica permanente traversasse il circuito, e il galvanometro la rivelasse per la parte derivata in esso, sulla resistenza 7, nei successivi contatti periodici. Ma fu facile di riconoscere, occultando, durante la rotazione, la cella, che questa causa produceva una deviazione minima, appena di qualche millimetro della scala. La deviazione galvanometrica dovuta al movimento del tamburo dive- niva stabile dopo che si era raggiunta una specie di regime nel riscalda- mento del contatto strisciante ; si poteva allora abbassare lo schermo a mano e mandare il fascio di luce sulla cella. Una nuova deviazione venne allora constatata, che corrispondeva evidentemente alla corrente fotoelettrica residua. Questa traversava ancora la resistenza 7; e una sua derivazione, attra- verso al contatto periodico, prendeva la via del galvanometro. La deviazione ottenuta, per una data velocità di rotazione del disco, poteva, così, facilmente esser misurata per diversi valori dello sfasamento « fra l'interruzione della luce e lo stabilirsi del contatto, e quindi poteva determinarsi la corrente residua dopo intervalli di tempo diversi da quando era cessata la causa. Per potere mettere a confronto la corrente residua osservata, con la cor- rente fotoelettrica normale che traversa la cella durante lo illuminamento, bastava dare una tale posizione angolare al tamburo T’ rispetto al disco, da far avvenire il contatto, durante la rotazione, ìn piena luce, quando cioè la, immagine della fenditura poteva passare liberamente attraverso a uno dei settori vuoti del disco. La deviazione ottenuta al galvanometro, mentre il tamburo girava alla stessa velocità di prima, e ricorrendo sempre alla manovra di sopprimere o ristabilisce con lo schermo a mano il fascio luminoso, forniva appunto la misura della corrente totale. Occorre tener presente che la deviazione galvanometrica misura la totale corrente fotoelettrica (sia la normale, sia la residua), con un forte coefficiente di riduzione. Questo dipende da tre cause: anzitutto, anche per un contatto permanente a tamburo fermo, il galvanometro è traversato solo da una deri- vazione della corrente principale, dipendentemente dal rapporto fra le resi- stenze delle due branche derivate. Ma una ulteriore e più forte riduzione è apportata dal fatto che la chiusura nel ramo galvanometrico avviene solo du- rante una breve frazione del giro del tamburo, ciò che arreca un'altra causa — 1177 — di riduzione poichè a questi bruschi passaggi di elettricità la bobina del gal- vanometro oppone, per la sua autoinduzione elevata, un ostacolo rilevante. In alcuni casi abbiamo trovato opportuno, per attenuare quest’ultima causa di riduzione, shuntare la bobina del galvanometro o con una resistenza ohmica o con una capacità. Ma fu in ogni caso ritenuto necessario di dare alla resistenza 7, su cui era derivato il circuito galvanometrico, un valore piccolo rispetto a R; e ciò allo scopo di evitare che la chiusura periodica del circuito derivato modificasse periodicamente in modo sensibile la resistenza totale. A questo proposito sarà anzi utile di osservare che se la resistenza R è anch'essa troppo elevata, poichè la corrente fotoelettrica dovuta alla luce intermittente si annulla, o quasi, periodicamente, e si modifica in conseguenza la perdita di tensione ohmica lungo la resistenza R, sì determinano forti oscillazioni di tensione, ai poli della cella, che è bene evitare. In conside- razione di ciò, abbiamo cercato di dare a R valori piuttosto piccoli rispetto alla resistenza interna della cella: riducendola ai valori appena necessarii per garentire questa dalle eventuali correnti di corto circuito. Risultati delle esperienze. — Fra le molte esperienze eseguite, che ci permisero fin da principio di assodare la esistenza delle correnti di isteresi, e che ci suggerirono i perfezionamenti da introdurre nella disposizione speri- mentale, riferiamo i risultati di quelle fatte nelle migliori condizioni. L’istante più prossimo a quello d’interruzione della luce per cui fu potuta misurare la corrente residua, corrisponde a una chiusura del circuito galvanometrico dopo 1.6 X 1074 secondi dalla totale occultazione del fascio da parte del settore mobile. Alla velocilà di 10 giri al secondo del disco, ogni grado di ulteriore spostamento del tamburo corrisponde a un ritardo di 2.8 millesimi di secondo nella chiusura del contatto. A titolo di esempio riferiamo anzitutto i dati della esperienza eseguita a 54,5 volts. Si aveva R= 3000 ohms: 7= 10000; resistenza totale del ramo galva- nometrico 10000; le deviazioni osservate furono le seguenti: Tempi dopo la cessazione Deviazioni totale della luce galvanometriche 1,6 X 1074 sec. 50 14 X 10733 » 24 20 X l09=* a 12 42 X1073 > E) 56 X1078 » 5) Nel modo sopra indicato si potè stabilire che la corrente che si sarebbe ottenuta lasciando sussistere la luce durante il contatto rotante, era misu- — 1178 — rata da circa 2000 divisioni; se ne deduce che la corrente residua dopo 1,6x 104 sec., è circa il 25 °/ della corrente durante la illuminazione; e sì riduce al 2,5 °/ dopo 56 millesimi di secondo. La corrente residua è molto più intensa applicando alla cella una ten- sione più alta; ma è allora anche assai maggiore la corrente in piena luce; è però da notare che la legge di decrescimento della corrente residua, col tempo, è molto più rapida con le tensioni più alte. Così, con 82 volts di tensione, R= 13000 ohms, 7= 1000 ohms, e resi- stenza totale del ramo galvanometrico eguale a 10000 ohms si ebbe: Tempi in millesimi di secondo Corrente 0,16 435 2,8 330 5,6 260 8,4 190 DZ 150 14.0 95 16,8 73 19,6 42 22,4 18 28,0 11 36,4 7 E si riconosce immediatamente che la corrente residua, dopo 28 mil- lesimi di secondo, è appena il 2,5 per cento della residua dopo 1,6 X 1074 sec.; mentre con 54 volts, nello stesso tempo, la corrente residua si era ri- dotta solo al 24 per cento. Questi, e altri risultati che ci dispensiamo dal riferire, ci permettono di trarre la seguente conclusione: Dopo l'interruzione della luce che colpisce una cella fotoelettrica sot- toposta a tensione, sussiste una corrente residua: essa è ancora constatabile dopo tempi dell'ordine di grandezza del centesimo di secondo; e decresce col tempo, tanto più rapidamente quanto più è alta la tensione applicata. Interpretazione dei risultati. — Stabilita così l'esistenza di correnti dopo brevissimi intervalli di tempo da quando è cessata la luce, esami- niamo le possibili spiegazioni del fenomeno. Potrebbe ammettersi, come prima ipotesi, che il metallo del catodo, irradiato da luce intensa, continui a emettere elettroni anche dopo cessata l'azione della luce; i pochi elettroni emessi, accelerati dal campo esterno, provocherebbero, come prima, la produzione di nuovi ioni, e quindi la cor- rente postuma osservata. Ma può anche farsi una seconda ipotesi: si potrebbe cioè attribuire questa corrente residua agli ioni già esistenti fra gli elettrodi, e che conti- — 1179 — nuerebbero a produrne dei nuovi sotto l’azione del campo, finchè, mancando la sorgente continua di produzione di elettroni al catodo, la corrente torne- rebbe al valore zero. Si riconosce, da quanto si è detto, l'interesse notevole di decidere fra le due spiegazioni: poichè la prima farebbe intervenire una tardiva emis- sione elettronica, da parte del metallo, come se questo possedesse una fa- coltà di accumulo della energia ricevuta; mentre la seconda, e cioè l’esau- rimento degli ioni rimasti per via e capaci di produrne dei nuovi, darebbe una valida conferma della teoria del Townsend sulla ionizzazione per urto nei suoi particolari più delicati. Si noti, invero, che, se la seconda ipotesi è la vera, la corrente residua non può essere spiegata se non ammettendo che anche gli ioni positivi pren- dano parte al processo di ionizzazione per urti, ciò che appunto suppone il Townsend nel caso in cui il campo sia abbastanza intenso. Non potrebbe, invero, la corrente residua essere spiegata se solo gli ioni negativi prendono parte al processo di rigenerazione degli ioni; poichè, se eosì fosse, data la loro grandissima mobilità (corrispondente al fatto che essi sono costituiti, a basse pressioni, da elettroni puri), e dato il campo intenso che è in azione, la corrente residua dovrebbe annullarsi dopo un tempo estremamente breve, di gran lunga inferiore a quello dopo il quale essa si rivela ancora sen- sibilissima. Un primo tentativo per dilucidare la questione fu fatto ricorrendo a tensioni piuttosto basse, tali cioè da rendere molto tenue il processo di ionizzazione per urto. E fu così osservato che anche con 18 volts applicati ai poli della cella, e perciò con tensioni inferiori a quelle che nella carat- teristica segnano la prima brusca salita, indice della intensa ionizzazione per urti, c'è una traccia del fenomeno. Il risultato però non è sufficiente a giustificare la ipotesi che si tratti di una emissione postuma di elettroni da parte del metallo: e ciò sia per la piccolezza dell'effetto ottenuto, in quanto che non è assolutamente da escludere che esso possa esser dovuto a cause perturbatrici non riconoscibili ; sia perchè anche a tensioni basse possono alcuni ioni assumere la velocità necessaria per funzionare da riproduttori, come del resto risulta dalla stessa teoria del Townsend. Siamo quindi passati a una disposizione del tutto diversa, che, a nostro parere, permette di decidere fra le due spiegazioni. Nel circuito principale della batteria B (fig. 5) si trovano una resi- stenza R, un galvanometro G,, la cella C e un interruttore a mano A. Agli estremi del tratto galvanometro-cella è derivato un secondo circuito che comprende l'interruttore rotante D e una resistenza 7, nella quale, per mezzo di un terzo circuito, una pila P invia in permanenza una cor- rente regolabile con la resistenza C. Quando l'interruttore D è aperto (ciò — 1180 — che avviene mentre il disco rotante connesso con l’interruttore intercetta la luce) ai poli della cella agisce l'intera f. e. m. della batteria (circa 75 volts) ma non vi passa corrente poichè la cella non è illuminata Quando invece l'interruttore D è chiuso la f. e. m. ai poli della cella e del galvanometro sì riduce solo a circa 4 volt, poichè la resistenza derivata 7 è traversata da una corrente notevole, e quindi ha luogo una forte caduta di tensione nella resistenza R assai più elevata. La stessa tensione agisce nella cella interrompendo il circuito principale in A, poichè 7 viene allora traversata dalla stessa corrente, prodotta dalla pila P; la resistenza g, su cui è deri- vata la tensione che agisce ai poli 7, è appunto regolata in modo che, aprendo o chiudendo il circuito principale in A, non sia per nulla modificata quella tensione; ciò che può constatarsi, con metodo di zero, ricorrendo al galvanometro G,. 21] pet |] —m=—-'Mm_-, | | crt D) LAS emma VAVAVAVAVATNAAA ea Ca JD \GE NM p Ta uil INESE Supponiamo che la illuminazione intermittente della cella avvenga du- rante la chiusura dell’interruttore D, e cessi poco prima che il contatto si interrompa. Si avrà allora nel galvanometro G, una lieve corrente, dovuta alla tensione di circa 4 volts che agisce mentre la cella è illuminata; ma questa tensione non è sufficiente per imprimere agli elettroni la velocità necessaria a trasformarli in generatori di nuovi ioni: ed essi saranno perciò esauriti senza crearne altri per via, nel breve tempo che passa fra la ces- sazione della luce e quella del contatto. Interviene, subito dopo l’interru- zione in D, la grande tensione di 75 volts della batteria B; e se il metallo continuasse ad emettere elettroni dopo la cessazione della luce, essi sareb- bero accelerati dal campo producendo una corrente di ionizzazione per urto. Se così fosse, il fare agire o no la batteria B (ciò che può ottenersi chiu- dendo o aprendo il circuito principale in A) dovrebbe modificare la corrente che traversa G,. Perchè la messa in azione della batteria B non modifichi la tensione che agisce sulla cella (4 volts) durante il contatto D è la illu- minazione, occorre che siano molto accuratamente regolate le resistenze R e — 1181 — 0. Basta per questo, come si è detto, ottenere che la chiusura in A sia senza effetto, mentre D è chiuso, sul galvanometro G,. Raggiunte queste condizioni furono messi in moto il disco e l’ interruttore rotante D; la deviazione nel galvanometro G, non subiva che una lievis- sima variazione aprendo e chiudendo in A. Quella lieve variazione si rese impercettibile regolando le cose in modo che la tensione applicata alla cella durante il contatto D fosse di 8, anzichè di 4 volts. E poichè il tempo in- tercedente fra la cessazione della luce e l’azione della batteria B era di soli 5 centomillesimi di secondo, ciò dimostra, per quanto si è detto, che dopo questo intervallo di tempo non esiste ulteriore emissione di elettroni da parte del metallo. Si può anche dire che quel tempo è sufficiente per eliminare gli elet- troni moventisi nella cella sotto l’azione di soli 8 volts; senza di che, quelli rimasti per via sarebbero accelerati dal campo intenso sopravveniente, e ne creerebbero dei nuovi. Possiamo quindi concludere che le correnti residue osservate nell'altra esperienza, sotto l’azione di permanenti tensioni elevate, son dovute non a una emissione postuma di elettroni da parte del metallo, ma bensì alla pre- senza postuma, nella cella, di ioni creati per urto, e che prima, di trasferirsi agli elettrodi, ne creano dei nuovi determinando come uno strascico nel pro- cesso di eliminazione. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosevicH presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando una Memoria a stampa del Socio TARAMELLI, avente per titolo: La traspirazione tellurica ed i terremoti nell’ Appennino centrale e meri- dionale; un opuscolo contenente il resoconto della Commemorazione di CesaRE ARZELÀ, fatta all’ Università di Bologna il 2 maggio 1915; ed una Relazione di perizia geoidrologica sul disastro del Tritone in Roma (con atlante), del prof. DE ANGELIS D'OSssAT. Il Socio VoLTERRA fa omaggio di un volume contenente le lezioni da lui impartite all’ Università di Princeton sulla teoria delle funzioni permu- tabili; e fa menzione di un’opera recentemente pubblicata dal dott. PERÉS, la quale tratta, con grande competenza, analogo soggetto. Il Socio PATERNÒ presenta una pubblicazione del prof. C. A. GARUFI, accompagnandola colle seguenti parole: Per incarico dell'autore prof. C. A. GaRrUFI della Università di Palermo, ho l’onore di presentare all'Accademia un volume di oltre 600 pagine pub- — 1182 — blicato dalla Società siciliana di Storia Patria, e relativo ai rapporti diplo- matici tra Filippo V e Vittorio Amedeo II in occasione della cessione del Regno di Sicilia. Questo volume contiene 267 documenti, in gran parte ine- diti, raccolti dal Garufi negli Archivi di Madrid, Barcellona e Simancas, che sì riferiscono al periodo che corre dal Trattato di Utrecht alla pace dell'Aja (1712-1720). Dai documenti pubblicati ora, emerge chiaro il pen- siero di Vittorio Amedeo di riunire in federazione i varî Stati d'Italia e renderla indipendente da ogni straniero. CORRISPONDENZA Il Segretario MiLLosevicH dà comunicazione dei seguenti telegrammi augurali scambiati tra l'Accademia delle scienze dell'Istituto di Francia e la R. Accademia dei Lincei; telegrammi la cui lettura è accolta con vivis- simi applausi dall'Assemblea. Presidente Accademia dei Lincei — Rome. L’Académie des sciences de l’Institut de France adresse è l'Accademia dei Lincei un salut fraternel avec ses souhaits chaleureux pour le succès des armées italiennes. Les Secrétaires perpétuels: DaRBOUX, LACROIX. Darboux, Lacroix, segretari perpetui dell’Accademia delle Scienze — PARIGI. L'Accademia dei Lincei ricambia commossa il fraterno saluto dell’Accademia delle Scienze dell'Istituto di Francia, augurando che gli sforzi dei popoli latini concorrano al successo ed al bene della umanità. Il Presidente: BLASERNA. Il Socio TopaRro, il quale presiede in assenza del Senatore BLASERNA indisposto, ricorda che nella ricorrenza dello Statuto la solenne seduta acca- demica era onorata dalla presenza dell’Augusto nostro Sovrano; e fa la pro- posta, fra le acclamazioni dei presenti, che si mandi a S. M. il Re un te- legramma di devozione dell'Accademia e bene auspicante alla vittoria del- l’esercito nostro. I Socî LucranI, NAsINI, PATERNÒ, PIZZETTI, VOLTERRA e RòITI pro- pongono, con calde parole, che l'Accademia invii telegrammi di augurio per le armi alleate, all'Accademia delle scienze dell'Istituto di Francia, alla Società Reale di Londra, alla Imperiale Accademia di Pietrogrado, alla Reale Accademia del Belgio e alla Reale Accademia di Belgrado. La pro- posta dei Socî predetti è accolta con grande compiacimento dall’intiera Classe; come pure questa accoglie con vivissimo plauso la proposta del Socio Vol- — 1183 — terra che si mandi un fraterno saluto a S. E. il Presidente del Consiglio, membro dell'Accademia. Il testo dei telegrammi sopra mentovati, dei quali si affida la redazione al Segretario MiLLosevicH, è il seguente: A S. E. il Ministro della Real Casa. V. E. compiacciasi comunicare a S. M. il Re che la R. Accademia dei Lincei, adu- natasi nel giorno nel quale festeggiasi il ricordo del vincolo sacro che lega la Casa di Savoia al popolo italiano, mentre pugnano i nostri soldati per liberare i fratelli irredenti incoraggiati dalla presenza di Lui, fa fervidi voti per la vittoria e per il raggiungimento degli ideali dell’intera nazione. Per il Presidente: Toparo. A S. E. il Presidente del Consiglio dei Ministri. Fiera l'Accademia dei Lincei di annoverare fra i suoi membri Antonio Salandra, che la storia registrerà fra i più grandi benefattori dell’Italia, oggi nell’odierna seduta di Classe, delibera di mandare un grato e riverente saluto. Alla Società Reale di Londra. La R. Accademia dei Lincei nella Sua prima adunanza dopo che l’Italia scese in campo a rivendicare i suoi diritti, manda un saluto alla Società Reale di Londra, augu- rando che il poderoso e nobile aiuto dato dall'Inghilterra alla causa degli oppressi con- segua in breve ora il fine altamente umano propostosi. Académie Sciences Institut de France — PARIS. La R. Accademia dei Lincei, adunatasi per la prima volta dopo che l’Italia scese in campo a rivendicare i suoi diritti, manda un fraterno saluto all'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Francia, augurando che la vittoria delle armi Francesi doni nuove glorie alla Francia pugnante per la difesa degli oppressi. A S. E. l’Ambasciatore di Russia — Roma. La Reale Accademia dei Lincei adunatasi per la prima volta dopo che l’Italia prese le armi per un'alta idealità, manda un saluto all’Imperiale Accademia delle Scienze di Pietrogrado, augurando che presto la grande Russia completi colla finale vittoria, la funzione altissima propostasi di tutelare i diritti delle nazioni. A S. E. il conte van den Steen de Jehay — Roma. La Reale Accademia dei Lincei oggi riunitasi dopo che l’Italia scese in campo al riscatto dei suoi figli irredenti, saluta commossa la Reale Accademia di Bruxelles, augu- rando che nel più breve tempo possibile possa tenere una solenne seduta festeggiando riacquistata integrità territorio per valore dei suoi soldati e per plebiscito del mondo. A S. E. il Ministro di Serbia — Roma. La Reale Accademia dei Lincei oggi riunitasi dopo che l’Italia prese le armi a rivendicazione dei suoi diritti, manda un saluto ai colleghi dell'Accademia di Belgrado, augurando che la Serbia, già vittoriosa, vegga realizzati gli ideali de’ suoi figli. Per il Presidente: TopaARO. E. M. RenpiconTi. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 151 — 1184 — OPERE PERVENUTE IN DONO ALL’ACCADEMIA presentate nella seduta del 6 gennaio 1915. Azzini F. — Filone diabasico negli scisti di Edolo. (Estr. dagli « Atti della So- cietà toscana di scienze naturali : me- morie », vol. XXX). Pisa. 1915. 8°. De Angelis D’'Ossat G. — Applicazioni della geologia. XIX : Relazione di perizia geo-idrologica sul disastro del Tritone (8 gennaio 1918) in Roma. La teoria della spinta delle terre e la geologia. (Con atlante). Roma, 1915. 8°. De Angelis D’Ossat G. — Gli studî e le ricerche geo-idrologiche in Italia, con speciale riguardo all’agricoltura. (Estr. dal « Bollettino mensile di in- formazioni agrarie e di patologia vege- tale », anno VI). Roma, 1915. 8°. Favaro G. A. -- Esame del cerchio gra- duato e dei due microscopi microme- trici nella posizione occidentale del circolo meridiano di Ertel del R. Os- servatorio di Catania: correzioni di Run. (Estr. dalle « Memorie della So- cietà degli spettroscopisti italiani », vol. IV). Catania, 1915. 8°. GiurrrIipa-RuegGeRrI V. — Alcuni dati re- trospettivi e attuali sulla antropologia della Libia. (Estr. dall’ « Archivio per l'antropologia e la etnologia », vol. XLIV). Firenze, 1915. 89. MAIRE A. — L’oeuvre scientifique de Blaise Pascal: bibliographie critique e analyse de tous les travaux qui s°y rapportent. Préface par Pierre DuHEM, Paris 1912. (Estr. dal « Bolleltino di bibliografia e storia delle scienze matematiche », 1915). Pavia, 1915. 8°. PasseRINI N. — L’ « anchilostomiasi » fra i contadini dei dintorni di Firenze. (Estr. dagli « Atti della R. Accademia dei géorgofili », 52 ser., vol. XII). Fi- renze, 1915. 8°. RoncueTTI V. — Piastrinopenia da ben- zolo. (Estr. dalla rivista « Pathologica » 1915). Genova, 1915. 89. TARAMELLI T. —- La traspirazione tellu- rica ed i terremoti nell’Appennino cen- trale e meridionale. (Estr. dai « Ren- diconti del R. Istituto lombardo di scienze e lettere », vol. XLVIII). Pa- via, 1915. 8°. VoLterRA V. — The theory of permuta- ble functions. Princeton, 1915. 8°. Mvnerati e Zapparoli. Di alcune anomalie nella Beta vulgaris L. s(prea: dal Socio OZIrona) n reina. PP ego © Pag, Baglioni. Ricerche sugli effetti dell alfa maidica. Valore Aimtritivo delle farine di grano, di mais e dell’uovo nei ratti albini (pres. dal Socio Luciani). SME, Cotronei. Correlazione e differenziazione. Ricerche sullo sviluppo degli. Anfibi Anuri (pres. dal'Socio Grass) ot. + PRA i CI IN SE ESA, Basile. Ricerche I crimentali su Mimi fmsbe TE (pres. Id.) Maria pa i Lombroso e Artom. Sul metabolismo degli aminoacidi nell'organismo: Azione del tessuto epatico sugli aminoacidi aggiunti al sangue circolante (pres. dal Socio Luciani) . » Clementi. Microtitolazione alla formaldeide per la determinazione quantitativa degli aminoacidi e le sue applicazioni in fisiologia. Nota I. Generalità sulla mierotitolazione alla formal. deide e sua prima applicazione nello studio dei fermenti peptidolitici. (pres. /d.)(*). » Corbino e Trabacchi. Persistenza delle correnti nelle cellule fotoelettriche dopo la soppres- i sione della luce eccitatrice (pres'dal‘Socio Blast) RR Jc PRESENTAZIONE DI LIBRI Ra Millosevich (Fezicigtrio), Presenta le pubblicazioni giunte in dono segnalando quelle del Socio Taramelli, del prof. De Angelis d'Ossat ece.. . . ERE epc IVI CONI | SARA Volterra. Fa omaggio di un volume contenente le e da lui te all’Università di ee o Princeton. \.. . Ri Aa ARRE RI CORANA: Lasa Paternò. Presenta una iatibiicazione! del Lio c. A. Garufi e ne dicono ENI IT) SA CORRISPONDENZA i | scienze. dell'Istituto di Francia e la R. Accademia dei Lincei — Deliberazione dell’Ac- pan cademia per l'invio di telesrammi a S. M. il Re, all’on. Salandra, alla Società Reale ButLetmINO BIBLIOGRAFIGOMER ee: ie le NZ NEO CINI &- — Millosevich (Segretario). Dà lettura dei telegrammi d’augurio scambiati tra l'Accademia delle i di Londra, all'Accademia delle scienze di Francia, all’Imp. Accademia delle scienze di Pietrogrado, alla R. Accademia di Bruxelles, e all Accademia di Belerador gi coni 1150 1158 1168 1164 1166 1172 1178 Di ; SRI 1 (€) Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. RENDICONTI — Giugno 1915. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 6 giugno 1915. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Righi. Sulla distribuzione della corrente in un elettrolita posto nel campo magnetico. Pag. Angeli. Sopra le scissioni di alcuni composti dell'azoto .. . . TRN AAA. . n Grassi. Etiologia del gozzo (*). . . SENI Picci. Sull’azione.dinamica di una CSR foi e sopra pigli sii nr dal Socio SI ”» Torelli. Alcune questioni di geometria sopra una curva algebrica (pres. dal Socio Bertini) » Bianchini. Sopra un’operazione funzionale atta a trasformare i potenziali logaritmici in sim- metrici (pres. dal Socio Levi-Civita) . . . : " BA) Vergerio. Una condizione necessaria e sufficiente per v bsistenta di Da nell'equazione integrale di prima specie (pres. dal Socio Volterra) (*). . . .. . DEAL Serini. Sulla deformazione di un suolo elastico piano indefinito, omogeneo di i nel caso dell'eredità lineare, per dati spostamenti in superficie (pres. /d.) . . . .. » Bianchi. La latitudine di Roma negli anni 1912-13, e e dell'Hirajama (pres. dal Socio Millosevich). . . . SEO, Li PRIA Lun Id. Sui valori del termine 2 nel protoni della. variazione delle latitudini i Td) (#) » Vercelli. Analisi armonica dei barogrammi, e previsione della pressione barometrica (pres. dal Socio Somigliana) . . . LU è “NIRO Azzi. Sul valore dei composti di Iosgi con (umalitiacio per il ion sil degli animali (pres. dal Corrisp. Galeotti) . . . . ARRE SET Cicconardi. Sulla formazione di acido ippurico dal TRO di Hina con Sin (PIERO) e CATS fini) Cardoso. Densità delle fasi n del SI e to di FE (pres. Gi Socio Pareto O A È È SPETT Marino. Nuove ricerche Lo iombiaii inferiori di Aa Jamal e dal Socio NGI O i SLI, Poccianti. Sulle ossime SOEORRE, Ga d co fenil- ohio (re dal SUR Ungola! ” Sborgie Mecacci. Sui borati: sistema (NH: 0—Bs0; .H:0 a 60° (pres. dal Socio SEL si ” Colomba. Sopra una reazione del diamante (pres. dal Socio Viola) . . . . .., ” Comucci. Sopra la petalite elbana (pres. dal Corrisp. Millosevich) . .- . . ” Anastasia. Nuove ricerche intorno alla filogenesi della N. Tabacum (pres. dal Socio Pao ” 1087 1093 1098 1099 1101 1108 1112 1125 1130 1133. 1134 1135 1137 n 1141 1146 Segue in terza pagina (*) Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. KE. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. licazione bimensile. Roma 10 luglio 1915. N19, MESE | DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CCCXII. 1915 SHRIH QUINTA | ‘0‘’RENDICONTI | Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. — Seduta del 20 giugno 1945. Volume XXIV-. — Fascicolo IÈ? e Indice del volume. 1° SEMESTRE. | TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI STO RT PROPRIETÀ DEL DOTT. PIO BEFANI E, ‘Agia ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta perciascuna delle due Classi. Peri Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche, matematiche e naturali si pubblicano re- . golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume; due volumi formato un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei; qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discuse sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca» demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indi cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro» priamente dette, sono senz’altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o_ da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei,-la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade-. mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all'autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. È 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti; 50.86 estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messo a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Ua(Bast_-_n Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. ANNANNN Seduta del 20 giugno 1915. :F. p'Ovipio Vicepresidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Chimica. — Ossidazione di azochetoni e di azonitrili (*). Nota del Socio A. ANGELI. Allo scopo di estendere e completare i miei studî sull’azione dell'acido peracetico sopra gli azoderivati ed i prodotti azotati in genere, ho sottoposto all'azione di questo reattivo alcuni composti della forma R.N=N.G;H,..CO.CHy R.N-=N.CH,.CN ReaN=N.C7H=:CHs CN R.N=N.C:H,.N(CHx), R.N=N CN R.N=N=N dove R rappresentano, per ora, residui aromatici. I risultati delle varie esperienze formeranno oggetto di successive co- municazioni, limitandomi, in questa breve Nota, alle ricerche che si riferi- scono ai chetoni ed ai nitrili, che sono state intraprese per vedere anche se queste due classi di azoderivati subiscono l'ossidazione normale ad azossi- composti, senza che l'ossidazione si estenda anche alle catene laterali. Sono noti infatti anche i perossidi dei chetoni e gli ossidi dei nitrili. Allo scopo (') Lavoro eseguito nel R. Istituto di studî superiori in Firenze. RENDICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 152 — 1186 — quindi di limitare l'ossidazione all’azogruppo, si è incominciato dall’operare in soluzione acetica piuttosto diluita ed a temperature non elevate. In tal modo il chetone CHs.N=N.GH,.C0.CH; (p) ed il nitrile CoH;.N=N.CH,.CH,.CN (p) hanno fornito con tutta facilità le due coppie di azossicomposti CH, N20 iBX2SCOSCHS (p. f. 92°) Il 10) CHs.N=N.CH,.C0.CH; (p. 16 132°) [ - 0 e, rispettivamente ('), CoHs.N=N.CH,.CH..CN (p. f. 94°) CH, .N=NaC;HeCHGN (p. It 132°) | 0 La loro struttura venne determinata con tutta facilità, giacchè tutti vengono nettamente ossidati dal permanganato in soluzione alcalina; le ca- tene laterali vengono trasformate in carbossili, ed in entrambi i casi si per- viene agli acidi CHs.N=N.CH,. COOH | (0) CHEN=NSCIH4C008 | 0 (1) In una recente pubblicazione il prof. Eugenio Bamberger (Berl. Berichte 48 (1915), 547] asserisce che la formazione delle cosiddette nitrosoidrossilammine, partendo da fenil- idrossilammina ed acido nitroso, si può meglio spiegare ammettendo che questa reagisca sotto forma di ossido: R.NH} +ON.O0H=R.N=N.0OH Il a I de H,0 . O (0) È però strano che il prof. Bamberger — che da quanto ha pubblicato, e da quanto ha scritto a me privatamente, dimostra di conoscere molto bene quel poco che io ho fatto in proposito — non rammenta, 0 fa di non ricordare, che queste stesse considerazioni le ho fatte io qualche anno prima di lui (Angeli, Veder die Konstitution der Azoxyverbin- dungen, Stuttgart, 1913, pag. 26), quando appunto ho dimostrato che le formole da lui proposte più non possono reggere alla stregua dei nuovi fatti da me scoperti. — 1187 — che si mostrarono identici a quelli che preparammo tempo addietro (') per diretta ossidazione dell’azoacido: CoHys.N=N.C;H,. COOH. PARTE SPERIMENTALE. L'azochetone CeHs. N=N. CH, CÒ . CH, venne preparato per condensazione in soluzione acetica di quantità equimo- lecolari di nitrosobenzolo e p-amminoacetofenone. Purificato dall’alcool, si presenta in laminette rosse, splendenti, che fondono a 115°. gr. 0,1832 diedero cc. 18.5 di azoto a 10°.3 e 755 mm. Trovato Calcolato per C,4 His N30 N 12,67 12,50 Con idrossilammina fornisce un’'ossima CsHy.N..C,H,. C(NOH).CH; che, ricristallizzata da benzolo, fonde a 169°. gr. 0.1498 diedero cc. 22 di azoto a 9°.4 e 753 mm. Trovato Calcolato per C14 His N30 N 17,63 17,57 L'azochetone, ossidato in soluzione acetica con acqua ossigenata (peridrol M erck), si trasforma in un miscuglio di due azossicomposti isomeri, che si separano per la loro diversa solubilità in alcool. La forma meno solubile venne in seguito ricristallizzata da benzolo, e fonde a 132°. gr. 0.1399 diedero cc. 14 di azoto a 11°. 5 e 764 mm. Trovato Calcolato per C5H;(N30).C:H,.C0.CHx N 11,98 11,66 L'azossiderivato isomero, purificato da ligroina, fonde a 92°. gr. 0.2435 diedero cc. 28.2 di azoto a 89.3 e 760 mm. Trovato Calcolato N 11,50 11,66 (') Angeli e Valori, in questi Rendiconti (1918), 1° sem., pag. 132. p — 1188 — Dall'azossichetone p. f. 132° venne anche preparata una ossima, alla quale non può spettare che la seguente configurazione: CoHs.N=N.CH,.C.CH; Il Il O (HO)N Purificata dall’alcool, fonde a 181°. gr. 0.1162 diedero ce. 16 di azoto a 9°.8 e 753 mm. Trovato Calcolato per Cs His N30, N 16,36 16,34 L'azossichetone p. f. 132° venne ossidato con soluzione acquosa di: per- manganato, in presenza di poca potassa; si ottiene così un liquido giallo- gnolo, dal quale, per trattamento con acido solforico diluito, si separa l'acido ii CH, . COOH che presenta tutti i caratteri di quello che descrivemmo due anni or sono. Allo scopo di meglio identificarlo, venne trattato con bromo; in tal modo Asi ottiene il p bromoacido: Br.CH.N=N.CH,.C00H l 0 che a sua volta è eguale a quello che già a suo tempo proparammo. sr. 0.1730 diedero cc. 12.8 di azoto a 10° e 747 mm. Trovato Calcolato per C,3HgN30;Br N 8,71 8,72 Entrambi gli azossichetoni, per azione dell'acido solforico, forniscono lo stesso p-ossiazochetone, CeHs . (N30) . Bison .CO ° CHs = (HO) ° CH ° N, . CRE (010) . CH; , colorato in rosso, solubile negli alcali e che fonde a 134°. gr. 0.1775 diedoro ce. 17.4 di azoto a 10° e 737 mm. Trovato Calcolato per C,4Hig N30, N 11,40 11,66 — 1189 — In modo analogo, per condensazione del nitrosobenzolo con il p-ammino- benzofenone, si prepara l'azochetone: CoH;.N=N.CsH,. CO. C,Hy che, purificato dall'alcool, fonde a 106°. gr. 0.1834 diedero cc. 15,4 di azoto a 89.5 e 736 mm. Trovato Calcolato per Cis Hi4 N30 N 9,78 9,77 Anche questo prodotto, per azione dell’acqua ossigenata, fornisce un azossicomposto che fonde a 72°. Data la piccola quantità di sostanza che avevamo a nostra disposizione, non ci fu possibile di fissarne la struttura. gr. 0.1458 diedero cc. 11.5 di azoto a 8° e 748 mm. Trovato Calcolato per Cis Hi4 N08 N 9,40 9,27 L'agonitrile, CH;.N=N.CH,.CH..CN, si prepara nello stesso modo condensando il nitrosobenzolo con il p-ammi- nonitrile. Lamine rosso-aranciate che fondono a 127°. gr. 0.2009 diedero ce. 32 di azoto a 9°.3 e 751 mm. Trovato Calcolato N 18,93 19,00 Ossidato con acqua ossigenata, esso pure fornisce a sua volta due azossi- composti isomeri, CsHs.(N:0).CH,.CH;.CN, che vennero separati per successive ricristallizzazioni dal benzolo. La forma più solubile fonde a 94°. gr. 0.2056 diedero cc. 30,6 di azoto a 10° e 759 mm. Trovato Calcolato N INASII Lira L’isomero meno solubile fonde a 132°. gr. 0.1644 diedero cc. 24.2 di azoto a 10° e 766 mm. Trovato Calcolato N 17,78 We — 1190 — L'azossinitrile che fonde a 132° per ossidazione con permanganato fornisce a sua volta l'acido: CeHs Ni=NF CH, . COOH | e così rimane fissata anche la struttura di questi due isomeri. Ringrazio il dott. Pietro Saccardi per l’aiuto che mi ha prestato nella esecuzione di queste ricerche. Chimica. — Sopra l'ossidazione del dimetilamminoazoben- zolo ('). Nota del Socio A. ANGELI. i Come tutte le numerose esperienze finora eseguite hanno dimostrato, le sostanze che contengono un azogruppo, RENNFRS per azione dell'acido peracetico assumono solamente un atomo di ossigeno per trasformarsi in azossicomposti : RONNIE | 0 Operando in condizioni più energiche, sarà anche possibile di pervenire a prodotti di ossidazione più profonda; ma certamente non al derivato perchè esso rappresenta la forma bimolecolare dei nitrosoderivati R.NO i quali, come è noto, con tutta facilità, in presenza di ossidanti anche deboli, si trasformano nei corrispondenti nitroderivati : IR NO3% Le cose procedono invece in modo diverso quando il prodotto azoico con- tenga un terzo atomo di azoto trivalente; se questo atomo si trova sotto forma di amminogruppo, esso subisce le solite trasformazioni degli ammino- -(*) Lavoro eseguito nel R. Istituto di studî superiori in Firenze. — 1191 — derivati aromatici, e l’idrossilammina, che con tutta probabilità in una prima fase si forma, viene successivamente ossidata a nitroso- e nitroderivato ed in parte anche trasformata in sostanze che contengono nuovi azo- ed azossigruppi. Molto più semplice è il caso di una ammina bisostituita, giacchè l'atomo di azoto assume nettamente un atomo di ossigeno per dare il corrispondente ossido. Per le mie esperienze ho scelto il p-dimetilamminoazobenzolo CoHs.N=N.CGH..N(CH;), che venne sospeso in acido acetico glaciale, ed al liquido, intensamente colo- rato in rosso venne aggiunto peridrol Merck, in eccesso. Riscaldando a b. m. la reazione procede molto rapida; ma in tal modo il rendimento non è sod- disfacente, e perciò è preferibile di lasciare che l'ossidazione si compia a tem- peratura ordinaria. Dopo qualche giorno, quando il liquido è diventato giallo- bruno, si diluisce con acqua e poi si aggiunge acido solforico diluito; si separa così un abbondante precipitato costituito da laminette splendenti giallo- aranciato. Riscaldato a 156°, fonde decomponendosi; esso è il solfato della nuova base, per mettere in libertà la quale si stempra il prodotto in acqua e si aggiunge carbonato sodico in lieve eccesso. Si raccoglie quindi su filtro; poi si ricristallizza da acqua bollente. Per raffreddamento, si separano lamine dorate, che possiedono uno vivo splendore. È molto solubile nella maggior parte dei solventi, e per l'analisi venne ricristallizzato un'ultima volta da benzolo. Fonde a 127° con decomposizione: gr. 0,1697 diedero ce. 23,8 di azoto a 17° e 748 mm. Trovato Calcolato per C14H;3 N30a N 16,25 16,34 La soluzione acquosa viene ridotta a caldo dall’idrogeno solforato, e così si rigenera il dimetilamminoazobenzolo di partenza; la riduzione invece non sì compie operando in soluzione acida. La soluzione acquosa viene ridotta a caldo anche dal cloridrato di idrossilammina, oppure dal solfato di idrazina. Con acido solforico diluito fornisce il solfato cui prima si è accennato. gr. 0,1611 diedero ce. 19,2 di azoto a 16°,7 e 751 mm: Trovato Calcolato per (C,4H15 N3 02)3 Hs SO, N 13,88 13,72 Il dimetilamminoazobenzolo, per azione dell'acqua ossigenata, ha quindi assunto due atomi di ossigeno; le possibilità sono due sole: (OE » N = N . Ce H, î N(CH,), | | (0) (0) CaHgiN=N3: in tal caso è possibile di deformarla lasciando inalterati e gli elementi lineari e la prima curvatura delle curve tracciate su di essa. Basta adagiare, con successive rotazioni infinitesime intorno ai piani osculatori, gli Ss osculatori allo spigolo di regresso sopra un Ss fisso. Siccome ciascuno di quegli S; con- tiene due elementi lineari successivi di una qualsiasi curva tracciata sulla (*) Cfr. la mia Nota: Forma geometrica delle condizioni per la deformabilità delle ipersuperficie (Atti R. Ace. dei Lincei, vol. XVIII, 1914), n. 5. (*) Intendiamo parlare sempre di spazî euclidei. RenpIcoNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 158 — 1194 — sviluppabile, ogni coppia rimane inalterata nella rotazione; e l'elemento li- neare comune a due coppie successive, appartenendo al piano-asse di rota- zione, rimane fisso. In questa operazione non mutano perciò nè gli elementi lineari nè gli angoli di contingenza di una qualsiasi curva della superficie: quindi non muta neppure la sua prima curvatura. Concludiamo senz’ altro con l'osservazione : I. Una superficie sviluppabile può applicarsi sopra un Sr conser- vando l'elemento lineare e le prime h—-2 curvature di ogni curva trac- ciata sulla superficie, e la (h —1)-esima dello spigolo di regresso. 2. L'osservazione precedente è strettamente legata al fatto che due ge- neratrici successive della rigata sono linearmente dipendenti (di carattere proiettivo), cioè che la rigata ha indice di sviluppabilità 1. Ricerchiamo il significato metrico del primo indice di sviluppabilità in generale. Ho denominato (') primo indice di sviluppabilità di una rigata il mas- simo numero di generatrici consecutive linearmente indipendenti di essa. Una rigata d'indice di sviluppabilità v appartiene ad uno spazio di dimen- sione => 2v — 1; però la rigata dello Sy, non è di tipo generale, e poichè appartiene di già allo spazio di minima dimensione possibile (compatibil- mente col suo indice di sviluppabilità), non va considerata nella presente ricerca (di applicabilità sopra uno spazio di dimensione inferiore). Siccome lo spazio di dimensione minima per una rigata di tipo generale è un Sw, bisognerà prendere in esame quelle appartenenti a spazii di dimensione > 2v i Siccome v + 1 generatrici consecutive sono linearmente dipendenti, esse individuano un Sw; gli Sey-1, contenenti v generatrici successive, riescono perciò osculatori ad una curva o (*) (non appartenente in generale alla ri- gata); il punto d'intersezione di una generatrice con lo spazio delle v pre- cedenti descrive una curva, y, appartenente alla rigata. Ciò premesso, consideriamo due Sy consecutivi e lo Ssy-, loro interse- zione; possiamo far rotare uno dei due Sy intorno allo Ssy-, sino a farlo coincidere con l’altro. Vediamo che cosa rimane invariato in questa opera- zione: evidentemente gli elementi contenuti nello Ssy, cioè gli elementi di ordine v, E, (*), di tutte le curve tracciate sulla rigata. Gli elementi di una curva fino a quello d'ordine v ne definiscono le prime v — 1 curvature: queste dunque rimangono invariate insieme coll’elemento lineare nella tras- formazione fatta. La curva y, com'era prevedibile per analogia col caso v=l, si comporta in modo eccezionale. Infatti essa gode della proprietà (') Nella mia Memoria: Alcune proprietà protiettivo-differenziali dei sistemi di rette negli iperspazî (Rend. Circ. matem. di Palermo, tom. XXXVII, 1914), $ 3. (*) Alcune proprietà ecc., loc. cit., $ 2. (®) Sopra alcune estensioni dei teoremi di Meusnier e di Eulero (Atti R. Accad. delle scienze di Torino, vol. XLVIII, 1912-1918), n. 2. — 1195 — caratteristica seguente (!): i suoi Sy osculatori sono immersi negli Ssy-, sopra nominati, e quindi un S,y contiene un S,+, osculatore a y; perciò nell’ ap- plicare nel modo indicato la rigata sopra un Ss, la curva mantiene inal- terate le sue prime v curvature. S' intende che la curva o, che ha per Say osculatori quelli nominati, mantiene inalterate nella deformazione tutte le 2v — 1 prime curvature. Ora si può ragionare più in generale come s'è fatto nel caso delle sviluppabili ordinarie; si giunge con ciò al resultato : II. Una rigata d’indice di sviluppabilità v, immersa in uno spasto qualsiasi S, (n > 2v), può sempre applicarsi sopra un S, (n >h= 2v) mantenendo inalterati gli elementi lineari e tutte le curvature, fino alla (h—v — 1)-esima inclusa, di ogni curva tracciata sulla superficie. Esiste su di essa una curva (la y) che mantiene inalterata anche la (h— v)- esima curvatura. La deformazione si opera facendo ruotare gli Sr, indi- viduati da h—v+ 1 generatrici successive, intorno agli Sn-, în essi con- tenuti e individuati da h—v generatrici: la rotazione dev’esser tale da portare tutti gli Sn a coincidere. 8. Cerchiamo d’invertire la proprietà ora trovata per le rigate di indice di sviluppabilità v: il caso v= 1 ci avverte in che modo dovrà farsi quest'inversione. Infatti in tal caso si dimostra (ciò che Monge riteneva su- perfluo) che. se una superficie di S, è applicabile sul piano, essa è rigata con indice di sviluppabilità 1. Qui si vede comparire una limitazione nella dimensione dell'ambiente, a cui la superficie deve appartenere, che non figura nel teorema diretto: e questa limitazione è essenziale, perchè una superficie di S, applicabile sul piano può anche non esser rigata (*). Si prevede dunque che il teorema che abbiamo in vista, posto che sia vero, potrà enunciarsi così: III. Ze superficie rigate di Ssy+: applicabili sopra un Sy in modo che si conservino gli elementi lineari e le prime v —1 curvature di qualsiasi curva tracciata su di esse, hanno necessariamente il primo in- dice di sviluppabilità v. S'è dovuta enunciare esplicitamente anche la condizione che la super- ficie sia rigata, perchè essa non è conseguenza della dimensione dello spazio d'immersione e delle condizioni d'applicabilità (al contrario di ciò che ac- cade nello spazio ordinario); vale infatti il teorema (del quale il precedente è un corollario immediato): IV. Condizione necessaria e sufficiente perchè una superficie di Sgy+i sia applicabile sopra un Sx în modo da conservare gli elementi lineari e le prime v— 1 curvature di qualsiasi curva tracciata su di essa, è che (!) Per v=2, cfr. Alcune proprietà .., loc. cit., n. 3; e poi ibidem n. 7. (*) Cfr. Killing: Nicht-Euklidische Geometrie in analytischer Behandlung. — 1196 — la superficie possegga co! sezioni negli S, osculatori ad una curva (coi casi degeneri). È appunto ciò che ora vogliamo provare. 4. Per rendere più chiara la dimostrazione, riprendiamo quella per lo spazio ordinario ('): nel corso del ragionamento vedremo quali sono le no- zioni da estendere per trasportare la dimostrazione al caso generale, negli iperspazî. Fra, 1. Sia dunque una superficie in S3: tracciamo su di essa un sistema sem- plicemente infinito di linee (curve c) e costruiamo il sistema coniugato (curve C). Consideriamo la curva c passante per un punto P: la striscia infinitesima di superficie compresa fra la c e la curva infinitamente vicina c' può applicarsi sopra un piano che rotoli sulla sviluppabile circoscritta alla superficie lungo c. Supponiamo, ora, che tutta la superficie sia applica- bile sul piano: consideriamo gli elementi di superficie vicini a P e com- presi fra le curve e, e, e", e C,0°,C", denotiamoli, come in figura, con a,8,y,9. Se l'intersezione dei due elementi superficiali y ed non coincide con quella dei piani di @ e # (cioè se y e d non appartengono alla svilup- (1) Non conosco una dimostrazione sintetica semplice di questo teorema; l’averlo Monge ritenuto evidente, ha forse distolto i geometri della sua scuola dall’occuparsene. Quanto alle dimostrazioni analitiche, invece, esse abbondano. — 1197 — pabile anzidetta), non è possibile far ruotare questi due piani fino a sovrap- porli, senza alterare gli elementi lineari, se non sì staccano gli elementi”, yed lungo la loro linea d'’intersezione. Si facciano ora ruotare y e d in modo da portarli sullo stesso ‘piano sn cui si sono adagiati @ e f: i lembi del taglio eseguito per staccare y da d ruotano anch'essi e, data l’arbitrarietà delle linee c (0, se si vuole, delle C), non vengono a sovrapporsi di nuovo sul piano: sicchè si avrà 0 una duplicatura o uno strappo della superficie [nelle adiacenze di P. Ciò si evita solo se gli elementi superficiali y e d appartengono alla sviluppabile detta, cioè se la nostra superficie coincide con essa. c. d. d. Per questa dimostrazione è essenziale di notare : 1) che una superficie di S3 è divisibile in elementi (infinitesimi) piani mediante un doppio sistema coniugato; 2) come devono esser saldati questi diversi elementi lungo le linee di un sistema perchè possa farsi l'applicazione richiesta. 5. Per estendere questa dimostrazione al caso che abbiamo, in vista, occorre trovare sulle superficie di S.,,, un sistema di curve definito da una proprietà analoga a quella che serve a definire i sistemi coniugati in Sg. Consideriamo a tal fine una curva tracciata regolarmente sulla super- ficie e i piani tangenti a questa in v +1 punti infinitamente vicini della curva. Siccome ciascun piano tangente contiene il punto di contatto del suc- cessivo, lo spazio di v piani tangenti consecutivi è un Se, che taglia il (v 4+-1)-esimo piano tangente lungo una retta passante per il punto di contatto di questo piano: questa tangente può considerarsi come coniugata all'elemento d'ordine v, E, (individuato da v 4-1 punti successivi) di curva assegnato. Sicchè, dato sulla superticie un sistema semplicemente infinito di curve c, rimane definito un sistema semplicemente infinito di curve C (inviluppate dalle tangenti costruite) che potrà dirsi coniugato d'ordine v col precedente; però, appena v superì l’unità, non c'è reciprocità fra i due sistemi di curve ce O. Si estende invece quella proprietà dei sistemi coniugati che ci è servita nella dimostrazione: Le tangenti coniugate agli elementi d'ordine v di una curva formano una rigata d’indice di sviluppabilità v('); il che è incluso nella defini- zione stessa di quelle tangenti. 6. Ciò posto, è facile di estendere la dimostrazione; supponiamo, per sem- plificare il linguaggio, v=2. Si ha dunque in S; una superficie che si sa essere applicabile sopra un Sy in modo da conservare inalterata la prima curvatura di tutte le sue curve. Tracciamo ad arbitrio, su di essa, un si- stema co! di curve e, e le loro coniugate di second'ordine, C. Si conside- (1) Mentre la rigata generale dello Say+1 ha il primo indice di sviluppabilità =v+1. Lay — 1198 — rino gli elementi superficiali contigui disposti come in figura. Si fa presto ad applicare la striscia di superficie e e’ sopra un S, in modo da soddis- fare alle condizioni volute. Infatti basta applicare sopra un S, la rigata 'd'indice di sviluppabi- lità 2 circoscritta alla superficie lungo c (ciò è possibile nelle condizioni richieste, per il teor. II): in questa deformazione le coppie di elementi su- perficiali contigui si muovono come se fossero rigidamente connessi, e quindi sì conserva la prima curvatura di ogni curva della striscia. Ora pensiamo alle striscie successive. Per la stessa ragione la deformazione precedente dev esser tale da lasciar rigide le coppie di elementi superficiali (d , £), (£, È)....; ciò non è possibile se non quando gli Sz, come (91 92) e (9193), coincidono. Si consideri infatti l’ elemento lineare comune a $ ed «, che indiche- remo con 8/8: quando si fa rotare lo Sy (919293) intorno allo Ss (91 92), l'elemento #/e assume co’ posizioni, e altrettanto accade se si fa rotare lo S, (9193 93) intorno allo Ss (91 93); se questi due Ss non coincidono le due serie di co! posizioni assunte da #/e non hanno in comune se non la posizione iniziale: ciò che porta di necessità uno strappamento della superficie nella — 1199 — deformazione da eseguire. Sicchè intanto si ricava come condizione neces- saria per l'applicabilità nel senso definito, che siano coincidenti gli Ss (91 92) e (9143), ecc.: da ciò segue che le curve C debbono essere nei piani oscu- latori ad una curva (e casì proiettivamente degeneri), altrimenti la super- ficie starebbe tutta in Ss. La condizione trovata è anche sufficiente. Infatti si consideri la curva alla quale quegli S3 sono osculatori, e gli S, ad essa osculatori: con oppor- tuna rotazione di questi S, intorno agli Sz in essi contenuti si possono por- tare tutti gli S, a coincidere; e poichè ogni S, contiene almeno due ele- menti successivi di qualsiasi curva della superficie, il teorema IV è dimo- strato (per v= 2). Analogamente si procede per v qualsiasi. 7. Se la superficie è rigata le sue generatrici (curve C) sono immerse negli S, osculatori ad una curva: è questa una proprietà caratteristica delle rigate d'indice di sviluppabilità v (*). È così provato anche il teorema III. Matematica. — Una condizione necessaria e sufficiente per l’esistenza di soluzioni nell’equazione integrale di 1° specie. Nota di ATTILIO VERGERIO, presentata dal Socio V. VOLTERRA. 1. In una mia Nota, apparsa recentemente in questi Rendiconti (*), ho dimostrato che, data l'equazione, a nucleo simmetrico, b (1) e f K(sz) h(t) di, posto b N | CAINE Sor CAS sì ha lim C4= €, dove C è una quantità finita, positiva e diversa da zero; ed inoltre che l'essere le costanti C, (2=0,1,2,...) tutte eguali tra loro, ovvero (ciò Y8) Co sufficiente perchè la (1) ammetta soluzioni; in tale caso, una di queste. è data da che è lo stesso) l'essere soddisfatta l'eguaglianza g(s) = è condizione (6) Cl x) = (1) Alcune proprietà ecc., loc. cit., n. 5. (®) Sull'equazione integrale di 1% specie (seduta dell’8 nov. 1914). — 1200 — In questa breve Nota, mi propongo di esporre una condizione necessaria e sufficiente, in un caso particolare abbastanza esteso, dalla quale verrà anche messo in luce il legame esistente tra le costanti C,, da me intro- dotte nella Nota citata, e le costanti y, di cui lo Schmidt si è valso per dimostrare l’esistenza degli autovalori e delle corrispondenti autofunzioni. 2. Richiamo anzitutto alcuni risultati dello Schmidt ('). Supposto che il nucleo K(s7) sia simmetrico, si ponga b 10G = Î K,.(55) ds 5 Ne segue: b (Ob Una = f f K,.(s7) Ky(s7) dr ds Usy Fi FT r)}? dr ds. Applicando la disuguaglianza dello Schwarz alla prima delle due pre- cedenti uguaglianze, dopo aver fatto in essa u=x+1,v=x—1, si ha: Un = Us,t \DPrao ’ da cui Uan Usnie Uan: Uan Posto ora Were peer aa sarà Vani == Yin Lo Schmidt dimostra, poi, che lim y»= y, n= dove y è una quantità finita positiva e diversa da zero; ed inoltre che (2) lim So = H(st), n= dove H(st) rappresenta una funzione finita, continua e positiva, che non può essere identicamente nulla, in s ed in £. (1) Math. Ann., Bd. LXIII. — 1201 — 3. Ciò premesso, si supponga che la K(sz), oltre ad essere simmetrica, sia tale che tutte le costanti y, ad essa relative siano tutte eguali tra loro; sia y il loro valore comune. Si dimostra allora facilmente che dovrà essere, qualunque sia x, Kon+1(88) K(st)= p (2) Si ha infatti si 2 b Cb ei 2f al K(s Kan+1(88) 1 (50) ) dedi +ff in gl, vole. E poichè sì ha identicamente, qualunque sia %, WES ci Usne+o ll Ussts UÙU "i fr i —- 2,4 Y YViYa ee Yn Usnts U, ed ancora ff t6or ds di=U;, o ail ds di = Uta = ava hi Usnes » LE 9, b Cb | d - vi (6) K(st) ds dt f K,(57) Kn41(r6) de = ‘ b f Ke Wadi Î K(ts) K,(s7e)ds= 92 Dro => Î f K,ns1(76) Knei(67) dr di = Ma 2 f È [Kn (07 dr dé =2 Dex ot, sarà b b È 2 INMECE-SI dsdi=0, —2U,4-U;=0. La (2) rimane quindi, con ciò, dimostrata. RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 154 — 1202 — 4. Dalla (2) si ha l'eguaglianza Y Kon-1(86) = Kan+1(54) la quale, moltiplicata per g(f) ed integrata, dà YGon-1(8) = Gensa(8) - Si moltiplichino ambo i membri di quest'ultima per g1(s), e si integri nuo- vamente. Ricordando che (ved. mia Nota cit., n. 3) fod ds = fo Quer(®) ds, si ottiene © , vr} Ttd= f Ty ds, e quindi y = vi ; cioè (3) Cn =y (= 20000 Si osservi che la (3) sarà sempre verificata, ammetta 0 no la (1) soluzione. Dalla (2) si ha ancora yK(st)= K:(88) la quale, se la (1) ammette soluzione, moltiplicata per 4(4) di ed integrata, dà l'eguaglianza r9(s)= 92(8), dalla quale, mediante moltiplicazione per %(s) ed integrazione, si ottiene b l’altra (ricordando che i [o (ds) (4) tia vwess Co - La condizione C, = y è quindi necessaria. Essa è anche sufficiente; infatti dalle (3) e (4) si deduce, allora, che le costanti C, (#=0,1,2,...) saranno tutte eguali tra loro; il che è condizione sufficiente, come venne ricordato al num. 1. Evidentemente la condizione C,="y equivale all'altra Co = €,, che talora può tornare più comoda nella pratica. Possiamo quindi affermare che Se le costanti Yn, relative al nucleo simmetrico dell'equazione inte- grale di 1° specie, sono tutte eguali ad una quantità y, condizione neces- saria e sufficiente affinchè la (1) ammetta soluzioni è che sia soddisfatta l'uguaglianza Co ="y, ovvero (ciò che è lo stesso) l'altra Co= 01. — 1203 — Possiamo anche aggiungere: în ogni caso, sotto le stesse ipotesi, sarà valida l'uguaglianza (3) (!). 5. Uno dei casi, in cui la condizione relativa alle costanti y, è sod- disfatta, si presenta quando il nucleo ha la seguente forma: K(st) = «@g(5) g(£), dove « è una costante qualunque. Infatti, in tal caso, si ha b b Ka(st) = a f P(8) P(7) - 9(7) p(1) dr = a*g(s) s0) { [g(7)]? dr K(0) = e" 915) g() i | Este arl e così via. Da queste uguaglianze si vede subito che y, è indipendente da n, e che inoltre è = i {'Ipepart. Naturalmente, l'essere tutte eguali tra loro le costanti y, dipende dalla natura della funzione K(s/); però dipende anche dai limiti tra cui si integra. Per es., per la funzione K(s)=s +, le costanti y, non sono eguali tra loro, se si integra tra 0 ed « (a qualunque); mentre lo sono, se l’integra- zione viene eseguita tra — a e + a. 6. Nel caso che il nucleo K(s7) non sia simmetrico, si ponga l'x69) g(r) dr = 9'(8) b f Kirk = si ottiene così l'equazione a nucleo simmetrico l) Di Î K'(st) h(t) de, alla quale saranno applicabili i risultati suesposti, nel caso che le costanti relative al nuovo nucleo siano tutte eguali tra loro. 7. Voglio da ultimo mostrare la relazione che lega tra loro le costanti Ca=limC, e y=limy,, nel caso generale. n=% n= (*) Si noti che, se è vero che l’uguaglianza della y, richiede quella delle C,,, non è per questo detto che debba verificarsi l'inverso; cioè che, se le costanti C, sono eguali tra loro, lo debbano essere di conseguenza anche le y,: la (5) del n. 7 ne offre un esempio. — 1204 — Presa una funzione qualunque integrabile g(s), se ne cerchino le fun- zioni iterate 9,(5), operando col nucleo simmetrico K(s?). Si ha così la successione n.9 = f K60 90) di o = f Ky60 900) di In(5) = (ks) g(t) di va Indichiamo con y, le costanti relative alla K(s?), e sia limy,=y. n= Si divida per y" la 2r”° uguaglianza; si ottiene Yan(8) I Kan(88) —= a IUS y" GONG 0) Passando al limite per n= 00 (supposto che siano verificate le con- dizioni volute per l'inversione dei due simboli di limite e d’'integrale), avremo, ricordando la (@) del n. 2, ir Ban): PR lim s" 2 H(st)g(t) dt. n= E poichè il secondo membro è una funzione determinata e finita di s, tale dovrà essere anche il primo; potremo perciò porre tim 20 la. n=zo Si osservi che la g(s), arbitraria, può sempre essere scelta in modo che si abbia G(s) +0; infatti, perchè ciò accada, è sufficiente che la g(s) non sia soluzione dell'equazione b ii H(st) 0(t) dt=0. Si consideri ora l'equazione (5) G()= fK(SO h(4) de, — 1205 — e si cerchino le funzioni iterate G,(s) di G(s), operando col nucleo K(st). Si ha G, (8) = Sia n fr) s G3(8) = lim are ; ’ 9000 n=0%0 Indichiamo con T, le costanti, relative alle G,(s), e con C, quelle relative alle 9,(s); abbiamo frena St va _________ttt@ = lim rei n ar SIC, [G(s)]? ds 7” f [92.:(5) 7? ds cei b °b Ji [G+(s)J?ds Î Cgones(0))? ds Wi: e — <——__=lim ———————_="lim === lim Con+1= © i [G, (s)]? ds si e [G2n+1(8) 8)]? ds n= Venti ia e così via; sarà quindi Z,=C, qualunque sia 7. Per quanto venne ricordato al n. 1, sarà allora necessariamente E poichè Ge(8) _ 1 Yan+3(5) Van Gon+e(8) DA ceglie rac SU potremo dire che dovrà essere Osa Naturalmente, questo risultato è affatto indipendente dall’esistenza di solu- zioni nell'equazione (1). Riassumendo : Il limite per n= delle costanti yn, relative ad una funzione simmetrica K(st), e quello delle costanti C,, relative ad una funzione g(s) b [non soddisfacente all'equazione J H(st) 6(t) dé =] ed alle sue funzioni iterate, ottenute operando con K(st), sono eguali tra loro. — 1206 — Astronomia. — Sui valori del termine 2 nel problema della variazione delle latitudini. Nota di E. BrANCHI, presentata dal Socio E. MILLOSEVICH. 1. Nella precedente mia Nota (') sulla latitudine di Roma negli anni 1912-13 e l'ipotesi di Hirajama, dopo aver riportato i valori del terzo termine z quali risultano da un biennio di osservazioni fatte su zenitali assolute, ne concludevo la inattendibilità di quella ipotesi. Dicevo, poi, che dal paragone dei valori 2 osservati con quelli forniti dal Servizio internazionale delle latitudini, mi ripromettevo di concludere un secondo risultato del lavoro riassunto nella precedente Nota, risultato che, parmi, prospetta ormai secondo direttive diverse il problema in parola. Di ciò appunto mi occupo nella presente comunicazione. Nella seguente tabella I sono riportati, di decimo in decimo d'anno, i valori 2 osservati; accanto ad essi (colonna 3*) i corrispondenti 4 interna- zionali ; infine nell'ultima colonna le differenze oss: — &int: TABELLA I. Epoca dl Zoggl e2int osservati | internaz. 1911.95 + 070.4 + 0”.05 — 0”.01 1912.0 + .04 + .06 — 02 pui .00 + .04 — .04 2 — .06 + 03 — 09 83 — .10 — .01 — .09 4 — 04 — .03 — .01 5 + .04 .00 + .04 6 + .09 + .03 + .06 7 + .11 + .05 + .06 8 + .11 + .04 + .07 +9 + .07 + .02 + .05 1913.0 + 08 + .08 .00 1 - .01 + .04 — .05 2 — .04 + .03 — 07 3 — .06 .00 — .06 4 — 05 — .01 — .04 5 — .01 .00 — .01 6 + .04 + .08 + .01 .7 + .07 + 05 + .02 1913.8 + 0.10 + 0.07 + 0.03 (1) Rendiconti Accademia Lincei, 1° semestre del 1915, n. 11. — 1207 — Mentre adunque i dati delie colonne 2* e 3 confermano la conclu- sione tratta nella precedente Nota, dell’inattendibilità cioè dell'ipotesi del Hirajama, in quanta gli z osservati col noto programma di zenitali asso- lute risultano d'ammontare e d'andamento all'incirca eguali a quelli degli 2 internazionali, i dati della colonna ultima dimostrano che le differenze fra i valori dei due sistemi di z non hanno carattere accidentale ma pe- riodico, con periodo annuo, e con ammontare dello stesso ordine, fors'anche superiore, di quello degli stessi 2. 2. Questo fatto — che naturalmente coincide in sostanza con l’altro, già messo in luce, del non soddisfaciente accordo fra le latitudini medie otte- nute dalle istantanee osservate applicando a queste le riduzioni internazio- nali al polo medio — può pur concludersi con un terzo procedimento, concet- tualmente identico ai precedenti e che è riassunto nella tabella II. Si applichino, cioè, al valore concluso per la latitudine media (53”,47), le riduzioni internazionali al polo istantaneo complete : x cosà + y sin 4+ 2; se ne hanno ie latitudini istantanee calcolate della colonna 2%; queste, paragonate colle latitudini osservate e perequate, dànno luogo al sistema di residui della colonna 4, naturalmente identici a quelli esprimenti le differenze soss: — Zint. di tabella I. TABELLA II. Po + Epoca (2 .cos4à + y.sin4+ 2) Poss Poss — Peale = @Pceale 1911.95 DIUAO 587.75 — 07.01 19120 SS) .78 — .02 .J] .66 .62 — .04 19 .54 .45 — 09 Si .39 .80 — .09 4 190 .80 — .091 Î5 .88 .87 + .04 .6 .88 A4 + 06 St] 41 .47 + .06 .8 45 .52 + .07 .9 .50 .55 + .05 1913.0 .56 .56 .00 .1 .61 .56 — .05 .2 .63 .56 — .07 .3 .61 .55 — .06 4 .57 .53 — 04 TD .54 .58 — .01 .6 al .52 + 01 0 48 .50 + .02 .8 53.45 53.48 + 0.03 — 1208 — Vale a dire: La Le osservazioni di Roma non sono soddisfacentemente rappresen- tate dai valori x, Yy, a del Servizio internazionale, în quanto presentano, rispetto a questi, scarti che, già per il loro ammontare, e tanto più poi per il loro regolarissimo andamento, non sono assolutamente spiegabili, nè con eventuali incertezze residue nelle latitudini osservate e perequate, nè con quelle ascrivibili ai valori x, y, « di riduzione usati. 3. Diciamo subito che, se questo fatto risultasse insito nelle sole os- servazioni di Roma, ben basterebbe ad infirmarle tanto radicalmente, da togliere ogni validità ad una qualunque conclusione tratta dai risultati del presente lavoro. Ma invece la cosa trova sicura e decisiva conferma anzitutto da parte di altre serie di osservazioni di latitudine indipendenti da quelle internazionali ; non solo, ma pur anche, come del resto è noto, da parte delle osservazioni di alcune delle stazioni internazionali stesse, di osservazioni cioè che proprio concorsero direttamente alla conclusione dei valori x, y, s che si dimostrano impotenti ad una rigorosa rappresentazione (entro limiti logici) delle osser- vazioni stesse. Le serie di misure da me compulsate, da questo punto di vista, sono: 1°) le osservazioni fatte con coppie alla stazione internazionale au- strale di Qncativo da 1906,4 a 1909,0 (e che nor concorsero alla dedu - zione dei corrispondenti 4, y, 2) (*); 2°) le osservazioni fatte con coppie a PulZkova da 1908,3 e 1911,3 (riduzione definitiva del Semenow) (?); 3°) le osservazioni di Pulkova fatte sulla zenitale d Cassiopeiae da 1905,8 a 1908,0 (3); 4°) le osservazioni internazionali di Carloforte da 1901,5 a 1906,0 (*). Se per le serie d’osservazioni di Oncativo e Pulkova si fa la dedu- zione delle latitudini istantanee calcolate e il paragone con le osservate, si hanno i dati poss. — gcale. della tabella III, che contiene pure i valori analoghi per Carloforte, riportati dalle pubbiicazioni citate dell'Ufficio cen- trale della Commissione geodetica internazionale. 1) Resultate des int. Breitendienstes, Band IV. (1) (8) Publications de l'Observatoire Nicolas, vol. XVIII, 1911. (8) Mitteilungen Pulkowo. Band III, pag. 178. (*) 4 Resultate des int. Bretendienstes, Band. III — 1209 — TABELLA III. OncaTIVvO | PULKOVA - COPPIE PuLKova-D. Cass. CARLOFORTE Epoca |qposs — Pealie| Epoca |poss — Pealef Epoca |qoss — Peaief Epoca {oss — Pèale 1906.40 | -+ 07.02 | 1908.35 | +07.01 | 1905.85 | —- 07.01 1901.5 077.00 550 | — .02 .55 | + .09 | 1906.05 | + .04 | + 03 1) — .04 Z5| + .13 .25| + .07 .9 | + .04 .87| — .08 .95 .00 45 | — .03 1902.1 | — .01 1907.02 | — .03 | 1909.15| — .06 .65| — .04 8 | — .03 .20| + .02 .85| — .08 .85| — .03 5 | 01 .89 | + 04 .55 | — .02 | 1907.05| — .02 .7| + 02 .56| — .03 .75| — .01 .25| + Il sd) .00 71) — 05 .95| — .08 45 | + .03 1908.1 | — .04 .87| — .01 | 1910.15| — .06 .65 | — .04 | — .06 1908.02 | +. .05 .359 |] — .10 .85| — .01 5 | — 01 .20 + .04 .55 — .07 1908.05 — .02 7 .00 40) + .03 .75 .00 da | .01 56 + .03 100 017 1904.1 | — .08 71) — 05 | 191115] — .13 3 | + .02 80 IRON IO 1]95 i. BN 08 1908.97 | + .02 7 4 .08 .9 — .01 1905.1 | + .01 Mt Ri I 106 sn SAI: 1905.9 | + 0.05 Quando non si dimentichino le per ora inesplicabili variazioni delle latitudini medie annue già messe in luce dalle osservazioni delle stazioni internazionali, dai dati della precedente tabella III, da quelli analoghi che porgono altre serie di osservazioni qui per brevità non trattate, e da tutto quanto abbiamo sopra succintamente detto, appare ben giustificata la se- guente conclusione: Le osservazioni di latitudine, tanto del tipo internazionale come d'altro tipo, dimostrano, in generale, l’esistenza di residui di rappresen- tazione con andamento annuo tali da doverne dedurre che, indipendente- mente dagli errori accidentali d'osservazione, gli x, y, & internazionali hanno la sola potenzialità di rappresentare le osservazioni in modo ap- prossimato, nel senso di lasciare incertezze rispetto alla realtà osservata RenpICONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 155 — 1210 — dell'ordine del decimo di secondo d'arco (0",10), mentre il grado di loro esattezza, puramente formale, è dell’ordine del centesimo di secondo d’arco e fors'anche meno. 4. È questa conclusione appunto che, a parer nostro, consiglia di pro- spettare ormai il problema generale della variazione delle latitudini secondo nuove direttive, specie se si ponga mente a quelle fra le ipotesi avanzate per spiegare il termine 4 che dobbiamo ancora ritenere come degne di at- tendibilità. Messa da parte l'ipotesi del Hirajama; esclusa quella dello Chandler riflettente le parallassi stellari; ritenuta come ancora non provata quella del Courvoisier sulla refrazione cosmica, possiamo dire che non restano ormai in campo se non due sole ipotesi, e cioè: 1°) il termine 4 esprime l’effetto della componente, lungo l’asse ter- restre, di un eventuale spostamento periodico annno del centro di gravità della terra (Kimura-Schumann); 2°) il termine < null'altro esprime se non l’effetto di anomalie refra- zionali atmosferiche vizianti con periodo annuo le osservazioni (Bakhuyzen). Ma non ci pare, dopo quanto abbiamo messo in luce, che il problema in parola debba prospettarsi nel senso di dover decidere fra l’una o l’altra delle due ipotesi precedenti. Ci pare invece che, nel suo complesso, il problema generale della va- riazione delle latitudini debba ormai affrontarsi secondo direttive tendenti a stabilire se il fenomeno che esso studia sia l’espressione dell'uno o piut- tosto dell'altro di questi due sistemi di fatti: I) Una variazione di latitudine osservata, 4g, esprime l’effetto com- plessivo di due fenomeni diversi concomitanti; precisamente : a) di una oscillazione dell'asse terrestre, parte preponderante, espressa analiticamente dal noto binomio x.c084+ y.sin4; 5) di anomalie refrazionali locali rappresentate dai residui dg —(x.c084-+y.sin 4). In tal caso il così detto termine =, fornito dalle stazioni internazionali, è l’espressione so/ianto di ciò che v'ha di comune per le & stazioni stesse nelle anzidette anomalie, mentre la parte residua dp—(x.c00944y.sin4+ 2) sta a rappresentare ciò di cui, per ciascuna stazione, le anomalie refrazio- nali locali si differenziano dall'anzidetto valore medio comune. — 1211 — Oppure: II) Una variazione di latitudine osservata, 4g, esprime l’effetto com- plessivo di #re fenomeni diversi concomitanti; precisamente: a) di una oscillazione dell'asse terrestre, parte preponderante, espressa analiticamente dal binomio x.c064+4+y.sin4; 5) di uno spostamento annuo del centro di gravità terrestre; e di esso misuriamo l'effetto locale 4 della componente & lungo l’asse, essendo si SSCOsg c) di anomalie refrazionali locali d'ammontare all'incirca eguale e fors'anche superiore a quello dello stesso termine 4, con grande probabilità diverse da luogo a luogo, con carattere però generale di periodicità annua. 5. E se così s'imposta il problema, occorre vedere se valga o meno la pena di tentarne la soluzione. Se non vogliamo andar più oltre, se ci accontentiamo cioè dello stato attuale di approsimazione che gli x, y, 4 internazionali lasciano nelle la- titudini con essi ridotte da medie ad istantanee o viceversa, a che mai man- tenere qual’è l’attuale Servizio internazionale che, non ostante l'enorme mole di lavoro d'osservazione e di calcolo ch’esso richiede, conduce a risultati sì di un elevatissimo grado di precisione, ma puramente formale rispetto alla realtà altrove osservata ? I fatti hanno ormai esuberantemente dimostrato che, con buoni osser- vatori, buoni strumenti e buon programma, un numero di stazioni molto minore dell'attuale ha la potenzialità indubbia di seguire il moto del polo e l'eventuale moto del centro di gravità terrestre con tutta la sicurezza e precisione che sono consentite dalla natura del problema e che le esigenze pratiche richiedono. Che, se, invece, come l’ansia scientifica domanda, vogliamo tentare la soluzione del problema, allora non è chi non veda che una modificazione dell’attuale Servizio delle latitudini s'impone, e per l’indagine di una even- tuale effettiva esistenza del termine 2 quale espressione dell’accennato moto di va e vieni del centro di gravità terrestre, e per la contemporanea inda- gine sulle cause e manifestazioni di eventuali anomalie refrazionali locali. Per l'un scopo s'impone, cioè, l'attuazione di stazioni equatoriali e boreali alte. Quanto poi all'indagine sulie anomalie refrazionali, trattasi, è vero, di questione anch'essa delicata, ma che devesi affrontare con la se- rena fiducia che inspirano appunto quei problemi dei quali è stata dimostrata la probabile genesi fisica ed è pur stata posta almeno una prima elabora- — 1212 — zione teorica. Chè devesi ricordare qui una Memoria del dott. Shinzo (?) nella quale appunto è sottoposta a disamina teorica (appunto per spiegare il termine <) l'influenza che, sotto forma di anomalia refrazionale, sulle os- servazioni possono avere anche tenui gradienti di temperatura e pressione nei pressi del luogo d'osservazione. L'autore conchiude appunto questa parte del suo lavoro emettendo il voto che si instituiscano minute e rigorose ri- cerche sulla distribuzione della temperatura nei dintorni della stanza d'os- servazione, mentre vi si effettuano le misure di latitudine. Tutto quanto abbiamo detto intorno alle stazioni internazionali non deve naturalmente suonare come una critica di esse. Ben ricordando tutto il mirabile lavoro che si è fatto e si fa in questi Istituti davvero benemeriti della scienza, noi abbiamo voluto soltanto mettere in luce dei fatti .che s'impongono all'attenzione dello studioso e fors'anche impongono nuove di- rettive; queste, come dissi altrove (*), vanno serenamente affrontate senza preoccuparsi del quanto di lavoro e di pensiero siano costate le precedenti ricerche, ma solo ricordando che il meglio da fare non deve mai farci rim- piangere il bene fatto. Fisica. — Altre ricerche sul fenomeno di Stark- Lo Surdo nell’elio. Nota di Rita BRUNETTI, presentata dal Corrispondente A. GARBASSO. Chimica. — Influenza del nucleo pirrolico sulla formazione della clorofilla. Nota preliminare di Gino PoLLacci e BERNARDO Oppo, presentata dal Socio GrovannNI BRIOSI. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. (') Memoirs of the College of science ecc. ecc. Kyoto University, vol. IV, n. 2, 1912. (2) Bollettino della Mathesis anno V, 1913. — 1213 — Fisica. — Determinazione indiretta dello spettro solare. Nota del prof. A. AMERIO, presentata dal Socio P. BLASERNA. Le mie ricerche Sullo spettro e sulla temperatura della fotosfera solare (*), sono in parte fondate sulla determinazione degli spettri di alcuni punti del disco solare, convenientemente scelti. Precisamente gli spettri, che ho determinati sperimentalmente, sono quelli che corrispondono al centro del disco solare e ai punti che ne distano angolarmente di 15°, 30°, 45°, 60°, 75°. Sono così complessivamente sei spettri determinati in ognuna delle quattro stazioni nelle quali feci le osservazioni. Da essi si possono dedurre gli spettri zenitali per le quattro località e, infine, gli spettri normali fuori dell'atmosfera terrestre. Nelle ricerche sopracitate la tavola V contiene gli spettri zenitali del centro del disco solare, dedotti nelle singole stazioni e lo spettro fuori del- l'atmosfera terrestre, dedotto per extrapolazione, e avrei potuto anche dise- gnare gli spettri degli altri punti, in modo analogo a quanto è contenuto nella fig. B della tav. III, che dà gli spettri dei varî punti del disco solare, alla Capanna Regina Margherita, se ciò non fosse stato esuberante, dato lo scopo della ricerca. La tabella seguente contiene gli spettri dei sei punti sopra detti, fuori dell'atmosfera terrestre. Distribuzione dell’energia negli spettri di alcuni punti del disco solare. (con gli errori dovuti alle riflessioni) pI centro 15° 30° 45° i 60° 75° 0,400 94,0 89,0 80,0 69,0 55,0 37,0 0,430 129,0 123,5 112,0 98,0 79,5 95,0 0,497 148,5 143,2 134,0 118,2 97,2 70,2 0,537 149,5 145,0 136,4 122,4 102,2 74,0 0,589 © 146,0 142,8 135,2 123,0 104,8 80,6 0,710 130,0 127,5 122,0 112,4 98,6 80,0 0,785 117,6 115,2 111,0 103,0 92,0 75,4 1,035 73,0 71,7 69,5 65,3 60,0 51,5 1,24 47,0 46,3 44,9 42,8 39,4 89,0 1,72 19,0 18,7 18,3 17,6 16,4 14,7 2,14 9,5 i dee 8,9 i 7,6 2,91 3,0 vee A - tt Eat 2,4 :(*) Memorie della Reale Accademia dei Lincei, 1914 (9). — 1214 — Essi sono legati tra loro in modo che i rapporti tra i numeri di una stessa riga, che sono proporzionali alle energie corrispondenti a una data lunghezza d'onda, per ognuno di detti spettri, con il valore che si ha nello spettro del centro per la stessa lunghezza d'onda, sono i numeri contenuti nella tabella della pag. 60 della citata Memoria. Questi numeri, infatti, dànno i rapporti tra l'energia emergente da uno dei punti studiati del disco con quella proveniente dal centro. Sia ora 0 la distanza del punto che sì considera dal centro, espressa in frazione del raggio del disco preso come unità, e sia go l'energia irradiata in questo punto dall'unità di superfice. Se si fa un ragionamento già esposto nella Memoria citata, e che mi ha servito, sia per dedurre la costante solare dalle costanti relative ai varî punti del disco, sia gli assorbimenti dell'atmosfera solare, si avrà che la corona circolare di raggi 0 e 0 + do irradierà l'energia: 2770 Jo de e tutto il disco: pal f 27r0gYodo . 0 In media quindi il disco, poichè la sua area è 77, irradierà 1 n 209540. () Se quindi si costruiscono le curve che hanno per ascisse i valori di @ e per ordinate quelli di 20%, le aree elementari comprese tra le ordinate corrispondenti ai raggi o e 0 + do, l'asse delle ascisse e la curva, hanno precisamente il valore 209540. Per conseguenza le aree comprese tra le curve (che passano per l'origine), l’asse delle ascisse e l'ordinata corri- spondente al bordo del disco solare (0 = 1), sono proporzionali alle quantità di energia che il disco solare irradia complessivamente per le singole onde. Le curve che si ottengono sono simili alle A della tavola III della Memoria. Non sto quindi a riprodurle. Le loro aree, misurate col planimetro di Amsler, hanno dato per le energie irradiate i valori seguenti, espressi in unità arbitrarie: A= 0400 0.480 0.497 0.537 0.589 0.710 0.785 1.035 1.24 171 2.14 2.91 55.9 78.7 94.3 98.0 98.3 910 83.4 53.9 38.9 14.7 7.7 2.5. Se si prendono i valori di queste aree come ordinate, mentre per ascisse si prendono le lunghezze d’onda, si ha la curva I della fig. I, che rap- presenta lo spettro solare fuori dell'atmosfera terrestre, quale sarebbe dato da un apparecchio spettrobolometrico nel quale, come nel mio, si aves- sero cinque riflessioni su argento, due su salgemma e due su fluorina. — 1215 — A questi dati, applicando le correzioni relative a queste riflessioni, e già determinate mediante la curva A della tav. I della Memoria, si ottiene lo spettro normale solare fuori dell'atmosfera terrestre, che è rappresen- tato dalla curva 2 della fig. I e dalla tabella seguente: 4= 0.400 0.430 0.497 0.537 0.589 0.710 0.785 1.035 1.24 1.71 2.14 2.91 q= 153 177 183 181 171° 144 127 75.5 493 193 99 31 ‘250 esi | Z SPETTRO SOLARE FUORI DELL'ATMOSFERA TERRESTRE. CON GLI ERRORI DOVUTI A RIFLESSIONI 2/00 z A s CORRETTO ARFTERERE sea ade 150 100 $0 BIG Si osservi che il massimo di questo spettro si ha per 74 = 0,49 w. Il Lanyley (') assegna questo massimo a 0,51 w. C'è dunque una notevole concordanza. Si pensi, infatti, quanto ardue siano le extrapolazioni che servono ad eliminare gli effetti dell'assorbimento dell'atmosfera terrestre; che inoltre le correzioni sono numerose e notevoli, e che io ho pure tenuto conto delle riflessioni sul salgemma costituente il prisma. Una certa differenza collo spettro normale solare di Langley c' è in quanto quello da me dedotto scende dalla parte delle onde maggiori dap- prima un po' meno rapidamente. (1) Researches on solar Heat, 1884. — 1216 — Dal lato del Langley sta l'autorità grande del nome; ma bisogna pur tener conto che non avendo egli potuto fare misure bolometriche alle grandi altezze, le sue extrapolazioni sono assai più incerte; dal lato mio sta il grande numero di misure fatte durante tre anni, anche su una delle più alte vette del M. Rosa. D'altra parte se si tien conto dello spettro che, dalle misure stesse del Langley, deduce il Rizzo (*) con un'extrapolazione più rigorosa, la coinci- denza è notevolmente migliore, non solo in quanto che il massimo si ha per A= 0,50 u, ma anche perchè le differenze nelle altre parti dello spettro sono pure inferiori a quanto si sarebbe potuto attendere. 2. Se si applicano ai sei spettri della prima tabella le correzioni dovute alle riflessioni, come si è fatto per passare dallo spettro 1 allo spettro 2 della fig. I, si ottengono le curve della fig. 2. Esse rappresentano gli spettri dei sei punti studiati del disco solare, fuori dell'atmosfera terrestre e cor- retti da ogni errore. (') Sopra le recenti misure della costante solare. Acc. Torino, 1898. — 1217 — I loro massimi si hanno rispettivamente a —= 0.45 w per lo spettro del centro, 0.46» ” dei punti a 15° dal centro, 0.47 ” ”» ” 30° ” 0.48» ” ” 45° ” 0.51» ” ” 60° ” 0.56» ” ” 75° ” Se le emissioni dei punti del disco solare seguissero le leggi del corpo nero, ai sei punti corrisponderebbero rispettivamente le temperature di 6500°, 6370°, 6230°, 6100° , 5750°, 5230°. Queste sarebbero le temperature apparenti dei punti studiati dedotte dalle posizioni dei massimi (legge di Wien). Analogamente, il corpo nero il cui spettro presentasse il massimo a 0.49, come lo spettro solare della curva II della fig. I, avrebbe la temperatura di 6000° che sarebbe la temperatura apparente del sole. D'altra parte, ammesso che la costante solare abbia il valore 2.09 da me trovato, si può calcolare un’altra temperatura apparente: quella che si può dedurre applicando la legge di Stefan, nell'ipotesi che la radiazione complessiva del sole la segua. Ne risultano 5900°. Se poi si tien conto che le costanti solari relative ai varî punti esa- minati sono: pel centro 2.51 pei punti a 15° dal » 2.48 ” ” 30°» , 2.37 » n 45° n pan DT ” ” 60°» ” 1.89 » n YA) » 1.45 se ne deducono per gli stessi le seguenti rispettive temperature apparenti: 6170°, 6150°, 6080°, 5950° , 5750° , 5370°. Le notevoli differenze che si hanno tra queste due serie dipendono ap- punto dal fatto che le emissioni delle varie regioni del disco solare non sono nere, in seguito agli assorbimenti esercitati dall'atmosfera solare. È poichè le emissioni sono tanto più ricche di radiazioni molto rifran- gibili, quanto più prossime al centro del disco solare sono le loro sor- genti, così le temperature apparenti, dedotte dalle posizioni dei massimi, devono superare quelle dedotte dalla legge di Stefan, verso il centro, e de- vono esserne inferiori verso il bordo, conformemente ai risultati ottenuti e alle previsioni fatte nelle mie ricerche precedenti. Queste previsioni si possono riassumere dicendo che mentre alla radiazione della fotosfera sono applicabili le leggi dei corpi neri, ciò non è possibile per le radiazioni dei singoli punti del disco solare. RenpIcoNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem, 156 AO Fisica terrestre. — La frequenza nelle repliche del terremoto italiano (13 gennaio 1915) ('). Nota di G. MARTINELLI, presentata dal Socio E. MILLOSEVICH. Colla presente Nota mi propongo soltanto di fare conoscere l'andamento. della frequenza nelle repliche del terremoto italiano del 13 gennaio, regi- strate da un sismografo a pendoli orizzontali in funzione al pianoterra del nostro Istituto (?). Lo studio dell'andamento, sotto ogni riguardo, delle così dette repliche di un grande terremoto e la determinazione di leggi in proposito sono, per universale consenso, di massima importanza e implicano questioni non meno urgenti di altre, in quanto toccano da vicino il problema fondamentale delle cause prossime determinanti il fenomeno sismico. Premetterò quindi alle notizie qualche considerazione di indole generica. Poco sappiamo sull'argomento, intorno al quale, di veramente notevoli, si hanno solo i ben conosciuti lavori dell’Omori, dell'Enya, del Kusakabe e quello recente dell'Oddone (*). Il problema delle repliche presenta una singolare difficoltà, dovuta, credo, in grande parte, ad una specie di indeterminazione del problema stesso che si vuole risolvere. La difficoltà è invero comune a molte fra le questioni ine- renti alla geofisica, ove spesso uno stesso fenomeno può essere prodotto da cause immediate diversissime, donde mancanza, al ripetersi del fenomeno, di quella costanza nell'andamento necessaria per risalire dalle osservazioni ad una legge. Nel caso particolare delle repliche sismiche vi è indeterminazione non solo circa la causa immediata di ciascuna scossa, ma anche circa la causa generale che dà luogo al fenomeno delle repliche. Per gli autori ricordati e per altri molti, quali lo Knott ed il Kovesli- gethy, le repliche non devono considerarsi come un fenomeno distinto dalla scossa principale e dalle, così dette, scosse premonitorie. Nello stesso modo. come ad es., noi consideriamo quale unico processo fenomenico i cambiamenti di stato di una sostanza al variare della temperatura, così, analogamente in qualche senso, la grande scossa, le premonitorie e le repliche sono da ri- guardarsi come manifestazioni successive dello stato di tensione assunto dalla (') Lavoro eseguito nell'Istituto centrale di Meteor. e Geod. di Roma, giugno 1915. (?) Vedi per la descrizione del sismografo: Boll. Soc. Sismol. ital., vol. XII, pag. 345. (3) Boll. Soc. Sismol. ital., vol. XVIII, pag. 356. — 1219 — materia in un unico processo. Il Kusakabe esprime con ogni chiarezza tale concetto quando vuole sia dato il nome di « aftershocks » solo alle scosse dovute ad un disturbo residuo dello stato di tensione dei materiali (!), ten- sione, le cui variazioni vanno quindi riguardate quale causa unica ed imme- diata di tutte le manifestazioni precedenti e seguenti la scossa principale, e di questa stessa. L’Oddone, nel lavoro sopra citato, aderendo completa- mente alla teoria che riunisce in un solo fenomeno tutte le scosse di un periodo sismico, cerca la spiegazione del fatto in una causa plutonica, illu- strando le leggi del Kusakabe, coll’attribuire le repliche ad azione diretta di gas interni in tensione decrescente per processi esplosivi. Se male non interpreto i concetti degli autori citati, la spiegazione pro» posta consiste quindi nel considerare una porzione della crosta terrestre (quella circostante la regione geografica sede del fenomeno sismico) come un sistema limitato, nel cui interno le variazioni della tensione si trasforme- rebbero in fenomeni di moto. Naturalmente la limitazione del sistema, la cui tensione vien presa in considerazione, non vieta di ricercare le cause, che hanno prodotto lo stato di tensione, esternamente al sistema stesso. Ho detto un sistema limitato, chè altrimenti non avrebbe significato parlare di variazioni di tensione e di fenomeni d'’isteresi, mentre la limita- zione permette la discussione analitica di quelle variazioni, nel sistema stesso in funzione del tempo, e ha reso possibili i lavori teorici del Kéovesligethy e dell’Oddone. Ora a me sembra che il fenomeno delle repliche potrebbe apparire ad altri come avente origine diversa da quella così generalmente accettata 0, se non diversa, almeno più complessa, nel senso che, ammesso anche che una certa scossa si verifichi quando in una limitata porzione della crosta i limiti di elasticità sono superati, a partire da questo istante, è probabile che nelle repliche (o, meglio, nelle successive scosse) siano interessate altre porzioni della crosta esterna a quella le cui variazioni di tensione originarono il fe- nomeno. La possibilità, o, secondo me, la probabilità, che porzioni di crosta, dapprima non affatto interessate nel giuoco delle tensioni, entrino ora in azione, rende meno solido il fondamento delle ricerche teoriche, cui sopra accennavo. Mi si permetta chiarire il mio concetto. Allorchè i limiti di elasticità sono superati, avviene nel materiale una rottura che implica evidentemente un più o meno grande spostamento di masse. Tali spostamenti, per piccoli che siano, è estremamente probabile che generino compressioni e deformazioni nelle porzioni della crosta vicina ed esterna al sistema ove il sisma ha maturato, dando origine a stati di (*) The Journal of the Coll. of Sc., Tokio, vol. XXI, pag. 4. — 1220 — tensione del tutto nuovi e che non possono considerarsi come valori assunti dalla /unzione tensione già sottoposta a calcolo. Si pensi al doppio scorrimento verificatosi nel terremoto di S. Francisco, e sì dica se non è probabile che un tale spostamento di massa abbia gene- rato stati di nuove tensioni in porzioni della crosta vicina, tensioni quindi solo accidentalmente collegate con le preesistenti. Sotto tale punto di vista, le scosse che seguono anche immediatamente una scossa notevole saranno secondo ogni probabilità fenomeni legati al primo solo come effetti di una causa occasionale ; sarebbe difficile di ve- dervi un unico processo fenomenico, nel senso da principio accennato. L'Omori ha ricercato in fenomeni meteorologici e cosmici la causa delle deformazioni a carattere periodico che si riscontrano sulla iperbole delle repliche; e il Kéovesligethy riconosce la sovrapposizione, sulla iperbole, di una altra curva spesso indeterminabile e contenente la storia della tensione nel sistema considerato. Secondo l'opinione sopra accennata, per la quale è da spezzare l’unità fenomenica fra una grande scossa e le seguenti, la irregolarità della curva delle repliche troverebbe una possibile spiegazione nella sovrapposizione, al fenomeno principale, di fenomeni secondarî verificantisi fuori del sistema ori- ginalmente considerato, nel senso che, ammesso anche come assolutamente dimostrato che una grande scossa debba essere seguìta da altre con fre- quenza iperbolica, a questa iperbole principale se ne sovrapporranno altre a causa delle nuove tensioni originatesi nelle porzioni circostanti della crosta, non interessate prima al fenomeno. La ipotesi emessa, e che, pure se non così esplicitamente, fu forse anche da altri accennata, complica certamente lo studio del fenomeno delle repliche e rende difficile la discussione di esso in forma analitica, introducendo nel problema dati imprecisabili, quali sarebbero le nuove tensioni eventualmente ‘ originate dagli spostamenti di massa concomitanti alla prima scossa, ma mi sembra che ci avvicini, più’ che l’altra, alla realtà e che ci offra almeno una giustificazione delle molte deviazioni fra gli andamenti osservati e quelli teorici. Il problema si complica, ma tale complicazione è in natura, e la semplicità dell'altra ipotesi è forse un po’ artificiosa e quindi troppo lontana dalla realtà dei fenomeni. La statistica delle repliche, desunta sia da informazioni di scosse av- vertite, sia da istrumenti, mette solo in evidenza quelle deviazioni, ma non ‘offre la dimostrazione assoluta della ipotesi sopra formulata. Può farsi questione se in ricerche di questo genere sia più utile di rile- vare il numero delle repliche assumendo informazioni sulle scosse avvertite da persone, o rilevandole dalle registrazioni di un sismografo. Non esito a giudicare preferibile quest'ultimo procedimento, che (a parità di altre con- dizioni) esclude il coefficiente personale dei varii informatori e prescinde dalle inevitabili omissioni di questi; che se poi non si abbia nella zona — 1221 — maggiormeute colpita un assai bene organizzato servizio di informazioni e ci si debba limitare a utilizzare solo le scosse, delle quali si ha notizia con gli ordinarii mezzi, la ricerca perde ogni valore. Penso che le discordanze che hanno indotto in alcuni casi a negare ogni generalità all'andamento iperbolico, trovato dall’Omori, devono appunto attribuirsi, almeno in parte, all’avere fondato i calcoli su notizie assolutamente deficienti. Anche per le scosse ricavate dai sismografi sorgono le questioni della sensibilità degli apparecchi e della distanza dal centro del terremoto; ma tali difficoltà devono, penso, incoraggiare e non distogliere dall’analisi dei dati di un determinato istrumento, chè i risultati ottenuti in una stazione, di limitata importanza se isolati, possono essere utilizzati nel confronto con quelli altrove ottenuti. Esporrò ora quanto ho potuto ricavare dalle registrazioni del nostro sismografo. Dopo il terremoto a 7° 58" e. del 13, il sismografo registrò numerosissime scosse di vicina origine, molte delle quali coincidenti con moti sismici avvertiti dalle persone in Roma e nella Marsica. L'esame di tali registrazioni di aspetto caratteristico e costante ha dato ben presto il mezzo (anche a pre- scindere dalla durata della fase preliminare) di riconoscere con buona pro- babilità le registrazioni di origine marsicana. Ciò non vuol dire che nel conto di tali repliche non si possa essere incorsi in qualche errore (assu- mendo come repliche del terremoto del 13 registrazioni di altra pure vicina origine); ma è da pensare che, escluse quelle di origine lontana, e quelle di origine vicina, ma notoriamente diversa, pochi e trascurabili, nel com- puto generale, possono essere gli errori. È solo da osservare come la prima replica rilevata (dopo la scossa principale a 7% 52" 535) fu intorno a 8. 4", essendo le precedenti irricono- scibili nel lungo sismogramma della scossa principale, costituito al certo dalle registrazioni di questa e delle prime repliche, la cui completa perdita sarebbe in parte almeno evitata, con l’uso di razionali sistemi di smorza- mento applicati ai sismografi, che, è necessario riconoscerlo, presentano, sotto tal punto di vista, una dannosa deficienza. Nella tabella I, nelle tre linee orizzontali è indicato il numero delle scosse verificatesi nei successivi intervalli di 1 ora, dalle 8® di ciascun giorno alle 8% del giorno successivo, e ciò per i primi tre giorni. Nella tabella II è dato il numero delle scosse registrate nei successivi intervalli di 24 ore, da 8° del giorno 13 gennaio a 8° del 1° febbraio (). (1) Il numero delle scosse fu rilevato, sui sismogrammi originali, dai sigg. F. Ca- striota e L. Taffara calcolatori nel nostro Istituto. In tale rilievo si è tenuto conto delle registrazioni ben certe e non di quelle rilevabili solo perchè coincidenti con registrazioni altrove ottenute. Dato il carattere della ricerca mi è sembrato che ciò fosse opportuno per dare al computo una certa omogeneità. — 1222 — TABELLA I. hh h h h h h h h h h h Sch h h h h h h h hh 8-9 | 9-10 | 10-11 | 11-12 | 12-18 | 18-14 | 14-15 | 15-16 | 16-17 | 17-18 | 18-19 | 19-20 13-14 | 12 10 9 5 2 4 5 3 1 4 6 3 14-15 5 2 2 2 1 1 3 1 1 9 1 3 15-16 2 2 0 1 0 2 1 1 0 0 0 0 h h h h h h hh h h hh hh hh hh h h hh h h 20-21 | 21-22 | 22-23 | 23-0 | 01 | 1-2 | 2-8 | 3-4 | 45 | 5-6 | 6-7 | 7-8 13-14 8) 4 6 4 2 9 5 2 3 5 1 1 14-15 1 5 0 1 1 2 6 2 3 D 2 0 15-16 0 ] 0 1 1 0 1 0 1 2 2 3 TABELLA IÌ. 3 (e[s/s/s|a]a|s]a[a|a]a[8]8|8|8/8|=]|z Ei > = 90 E A 8h-8h | 108] 49 | 21| 13 | 18 | 10 | 18 I7 11|12|14| 2 3 3 4 b) b) t] 7 Adoperando i 19 valori della tabella II, ho calcolato col metodo minimi quadrati le costanti x ed y della nota formula ed ho ottenuto x= 77,03 dei Nella tabella III sono riportati nella colonna / i valori delle frequenze osservate in corrispondenza ai tempi t; nella colonna /' le frequenze cal- colate con la formula citata. — 1228 — TABELLA III. (Sh - Sb) t | f | f | ff (Sh - Sh) t | f | f | FOA | 13-14 0 VLct:} 120.9 +79 23-24 10 14 72 — 6.8 14-15 1 49 47.0 — 2.9 24-25 1l 2 6.6 + 4.6 15-16 2 21 29.2 +82 25-26 12 3 6.0 +30 16-17 3 13 21.1 +81 26-27 13 3 5.6 +26 17-18 4 18 16.6 — 1.4 27-23 14 4 5.2 +12 18-19 D 10 13.6 + 3.6 28-29 15 5 4.9 — 0.1 19-20 6 13 11.6 — 14 29-30 16 5 4.6 — 0.4 20-21 } 7 10.0 + 3.0 30-31 17 7 4.3 — 2.7 21-22 8 1l 8.9 — 2.1 31.1 18 7 4.1 — 2.9 22-23 9 12 1,9 — 4.1 3 d Figglos Fig dela 120 ] 4 L L 5) 5) 3 3 3 CZ zz yo IL, DD STIA 110 = 12:24 A : ; Ù } 100 104] I 90 ' 80 = 70 i ] : 60 \ so ani TARE PAAMmOMeNDAI 40 di ae 2 II H L I Ì | st ini | 20 7 AN i f- 10 a è È Li |] sali al =} Î T ] : T T t=0 1 2 3 L 5 6 Vv 8 9 10 14 12 13 iL 15 16 7 18 La curva della figura 18 rappresenta l’iperbole equilatera 73,03 Ù = 740,6371° e i punti contrassegnati (») i valori della frequenza (/) osservati. — 1224 — Gli scostamenti dei valori osservati, da quelli calcolati, sono notevoli. In alcuni punti la differenza /'-/ è, in valore assoluto, superiore ad /; risulta quindi evidente che l'iperbole disegnata non può assumersi quale curva della frequenza, nel senso di indicatrice del numero delle scosse veri- ficatesi nei singoli intervalli di 24°, nè tanto meno può servire per estra- polare i valori corrispondenti agli intervalli seguenti. Un tale risultato era prevedibile dal semplice esame dei numeri della tabella II che rivelavano la mancanza di un andamento regolarmente assin- totico al crescere dei tempi. Il tentativo quindi di rappresentare con una iperbole l'andamento della frequenza giornaliera, tendeva solo a verificare se una iperbole poteva rap- presentare la curva media nel diagramma delle frequenze. €3 Il diagramma della tig. 2, tracciato utilizzando i dati delle due prime linee della tabella I, mette in evidenza la complessità del fenomeno e suf- fraga ai concetti sopra esposti, rispetto alla forse eccessiva semplicità delle ipotesi poste a base delle ricerche teoriche sulle repliche dei terremoti. Nel diagramma sì nota spiccatissimo un andamento a periodo decre- scente (i massimi si osservano dapprima ad ogni quattro intervalli orarî, poi ad ogni tre ed infine ad ogni due), che è da ritenersi però del tutto casuale. Chimica generale. — £quilibrio chimico ed azione dei sali neutri. Nota di G. Poma e di G. ALBONICO, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. — 1225 — Chimica. — Sui dorati: sistema (NH,);0 — B,0;} — H,0 a 60° ('). Nota III di U. SBoraI e F. MEcaCCI, presentata dal Socio R. NASINI. Lo studio del sistema (NH,);0 — B,0; — H:0 dal punto di vista della regola delle fasi fu iniziato per la temperatura di 30° da uno di noi (*), e fu detto allora come questo sistema sarebbe stato studiato anche a tempe- rature diverse da 30° non solo, ma anche sarebbe stato completato per alcuni punti non bene chiari del diagramma ottenuto a 30° dopochè gli studi a temperature diverse ci avessero messo in grado di procedere con maggior speditezza là dove erano state trovate alcune difficoltà. Nella presente Nota pubblichiamo i resultati a 60°, resultati che ab- biamo ottenuti completi, e cioè tali da fornire un diagramma senza discon- tinuità. Stiamo frattanto completando con ricerche in corso il diagramma a 30°; dopodichè inizieremo le esperienze a temperature diverse da 30° e 60°, perchè è nostra intenzione studiare a fondo questo sistema. Non crediamo opportuno di ritornare ancora sui metodi sperimentali adot- tati, poichè abbiamo avuto luogo di parlarne diffusamente e ripetutamente in tutte le precedenti Note sui borati (*), ed in particolare poi per i borati di ammonio nelle due Note prima citate: i metodi furono qui esattamente gli stessi allora descritti. Riportiamo perciò senz'altro nella seguente tabella i resultati ottenuti, i quali non hanno bisogno di altre delucidazioni oltre quelle altre volte date: ricordiamo solo che ìe notazioni numeriche dell'ultima colonna si riferiscono, come al solito, al numero delle molecole successivamente di (NH,);0, B:0; , H30. (!*) Lavoro eseguito nell'Istituto di chimica generale della R. Università di Pisa. (*) U. Sborgi, Sui dorati. Questi Rendiconti, vol. XXI, serie 5, 2° sem., fasc. 12, pag. 855; vol. XXII, serie 5°, 1° sem., fasc. 2, pag. 90. (3) Confronta questi Rendiconti dall'anno 1912 all'anno 1915. RenpIcoONTI 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 157 — 1226 — 24.32 | 69.27| 9.21| 4118] 49.61 ” TABELLA. È È SOLUZIONE RESTO 3 SOSTANZE 3UR S * E A = ° lai o| O oc E © lai oO È poste a reagire E 5 = = ST ue H# a Seta giorni 1 Acido borico + acqua 6 —_ 7.89| 92.61] — _ — HsB0; 2 | Idem + NH,0H + acqua 8 0.78 | 12.12| 87.10] 0.32| 38.14| 61.54 ” 8 idem 7 1.39 | 15.09| 83.52] 0.73] 40.83| 58.44 ” 4 idem 6 | 140 | 15.05] 83.55| 2.57] 3925| 58.18| H;B0s+1-5-8 5 idem 2. | 141 | 15.58] 83.01| 4.54] 46.98| 48.48 ” 6 idem Yi 1.42 | 15,29| 83.29) LI1| 43.70| 55.19 ” (7 idem 6 1.44 | 16.08] 82.48| 1.77] 44.83| 53.90 ” 8 idem 4 1.70 | 1529| 83.01] 5.71| 40.91| 53.38 1-5-8 9 idem 15 | 1.95 | 15.14] 82.91] 6.80| 47.37| 45.83 ” 100) 1-5-8 + acqua 9 1270 | 1641:|80:89f /—.| Vis 0) 6 2.51 | 16.36| 81.13| 7.43] 50.29] 33.28 » 11a)\Ac. bor. +-NH,0H+-acqua| 3 3.19 | 18.02| 78.79 — = _ db) 6 3.20 | 18.41| 78.89] — —_ —_ c) 8 3.28 | 18.60| 78.17] 6.52| 43.29| 50.19 ” (4)12 idem i EI CO it SSA CSAR RT 134) idem 9 50499 | 20468 75150 CSR ORE d) 5 | 4.02 | 2088] 75.60] 7.29] 43.22] 49.49| 1-58 +1-4-6 (*)14 idem 5 3.95 | 19.86| 76.19| — —_ — 1-4-6 15a) 1-4-6 + acqua 2 4.03 | 20.41| 75.56| — = _ db) 5) 4.12 | 21°14| 74.74| 9.30| 46.08| 44.62 » 16 |Ac. bor -+NH,0H+acqua| 3 | 4.21 | 20.68| 7551| 9.28| 46.96] 43.76 n (9 idem 2 4.33 | 20.56 | 75 11| 12.68| 62.94| 24.38 18 idem 2 4.45 | 2120] 74.84| 7.49] 37.85 | 55 16 ” 19a) idem 11 4.88 | 21.72] 73.40| — — = db) 20 4.95 | 2194| 73.11] 8.71] 41.02| 50.27 ” 200) idem 4 9.2 22.21| 7252| — _ _ db) 6 5.26 | 22.03 | 72.71] 849] 39.03] 52.48 ” 21a) idem 3 5.40 | 23.24| 713 — — —_ 5) 16 | 5.44 | 23.68| 70.88| — _ — c) 24 5.41 | 2263| 71.96| 9.21| 43.71] 47.08 ” 22a) idem d 5.86 | 23.56 | 70.58] — _ si db) 7 5.90 | 23.02] 71.08| 9.18] 45.89| 44.98 ” 23 idem 12 6.01 | 23.92] 70.07] 10.68] 57.19| 32.13 » 24a) idem 3 6.48 | 24.49| 69.03] — — _ — 1227 — (segue TABELLA). è S SOLUZIONE ReEsTO nei SOSTANZE IIS = e ERE È poste a reagire i S za a ui “a > Hier giorni 25a)| Ac. bor +NH.0H+ acqua] 4 6.69 | 24.90| 68.41) — — _ db) 6 6.63 | 25.42| 67.95| 9.51| 43.07| 47.42 26 idem 7 670| 25.59| 67.71] 7.83| 32.86| 59.531 27 idem 6 7.05 | 26.41| 66.54| 9.11) 39.17| 51.72 28a) idem 5 7.83 | 26.87| 65.30) — — _ 1) 6 7.90| 27.81] 64.79] 11.01] 41.58| 47.11 29a) idem 4 7.89] 2809] 64.02] — — _ b) 21 7.97| 27.97| 64.06| 11.40| 43.79] 44.61 30 idem 2 7.83| 26.76] 65.41| 13.40] 40.47| 46.13 31 idem 5 7.66| 25.44| 66.90) 14.08| 48.76 | 42.16 32 idem 7 7.74| 25.21] 67.05] 15.12| 43.05 | 41.83 33 idem 2 7.50| 22.84| 60.66| 14.80] 41.65 | 43.55 34a) 1-2-4 + acqua 3 7.83| 21.81| 70.86) — _ = db) 4 7.82| 21.67| 70.51] 12.08| 39.27 | 48.65 35 |Ac.bor -+NHOH+-acqua| 4 7.24| 20.66) 72.10| — — —_ 36 idem 3 7.91| 17.57| 7452) 1521| 40.19] 44.60 (*) 37 idem 2 7.63| 17.17] 75.20] — _ —_ 38 idem 2 8.73 | 14.73| 76.54| 15.10| 36.38 | 48.52 39 idem 3 9.80| 13.68| 77 02| 16.20| 40.20| 43.60 40 idem 5) 9.57 | 13.56| 76.87| 17.52] 46.01] 36 47 41 idem 2 | 10.54| 12.45| 77.01| 16.08| 36 04| 47.88 42 idem 5. | 10.80] 12.03| 77.17| 16.63] 36.80| 46.57 43 idem 4 | 11.10| 11.58| 77.32| 16.61] 35.88| 47.51 44 idem 4 | 15.48| 8.38| 76.24| 19.02 | 35.56 | 45.42 45 idem 5 | 15.68) 7.46) 7686) 19.20] 33.22| 47.58 46 idem 2 | 1641) 7.62| 75.95] 19.20| 3852] 42.28 47 idem 9 | 18.76) 7.11) 74.13| 20.39| 33.83 | 45.72 48 idem 2 | 19.47| 5.92] 74.61] 21.14] 37.19 | 41.49 49 idem 5 | 20.51] 5.58| 73.91| 21.74] 33 92| 44.34 50 idem 2 | 21.00) 5.85] 7365) — —_ — (*)51 1-2-4 + NH,OH 2 | 21.34) 481] 73.85] 21.01] 53.07| 25.92 {*)52 |Ac.bor. + NH,sOH+acqua| 3 |22.57| 447| 72.96| — — — 1-4-6 Nelle esperienze segnate di asterisco il corpo di fondo fu analizzato direttamente, cioè dopo separato ed asciugato. — 1228 — Esprimendo i risultati di questa tabella coi soliti metodi grafici, si ottiene il diagramma della figura (') seguente, nella quale « è è la curva di solubilità dell'acido borico, è e quella del composto 1-5-8 (pentaborato ottoidrato), c d quella del composto 1-4-6 (tetraborato esaidrato), d e quella del com- posto 1-2-4 (diborato tetraidrato). E il diagramma termina nel punto e che è il punto di massima concentrazione in ammoniaca che si possa ottenere, comunque si saturi la soluzione in presenza di qualunque quantità di acido borico. (NH40 30 20 n 10, Le linee tratteggiate sono le divergenti rispondenti a dati sperimentali che si trovano nella tabella: Come si vede, i composti stabili a 60° sono tre. L'1-5-8 fu già trovato a 30° ed è un composto ben noto (*). Secondo quanto si trova nella lette- ratura, sembra che sia la forma di combinazione più frequente che si ottiene quando reagisce molto acido borico con poca ammoniaca. Si ottiene anche quando si trattano con acqua altri borati, per esempio la larderellite (*). Il composto 1-4-6 non fu trovato a 30°, nè furono trovati a 30° altri tetraborati. Ma il diagramma a 30° nella zona di passaggio dal pentaborato al diborato rimase incompleto perchè le esperienze presentavano alcune difficoltà che, come si disse nella Nota sopra citata, si preferì di risolvere dopo effet- tuato lo studio del sistema ad altre temperature; quindi non è escluso che tetraborati esistano anche a 30°. (1) La figura riproduce soltanto quella parte del triangolo che contiene tutto il dia- gramma. (*) Atterberg [Bull. soc. chim. (2), 22, 351]; Rammelsberg Poggendorf's Ann., R. IV, Bd. V, pag. 199 ete.; D'Achiardi, Annali delle Università toscane, tomo XXIII. (3) D'Achiardi, loc. cit. CAL Il terzo composto stabile a 60° è il diborato tetraidrato. Un diborato fu trovato anche a 30° e ne fu fissata la curva di solubilità; ma a 80° fu trovato un diborato diversamente idratato, e su questo fatto torneremo tra poco. Tutti e tre i composti ora indicati possono esistere inalterati a 60° in pre- senza di acqua pura: ciò resulta colle solite indagini grafiche dal diagramma e dai resultati della tabella. Ma il punto di soluzione dell'1-4 in acqua pura sì trova (sulla curva ed) vicinissimo al punto c invariante, cioè vicinissimo al punto in cui l'1-4 verrebbe decomposto dall'acqua per dare un miscuglio di due borati; sicchè può darsi che non sia lontana da 60° la temperatura in cui questo si verifica. Frattanto la solubilità dei 3 composti in acqua pura è la seguente: | La solubilità del composto 1-5 è data da 23,25 di sale anidro in 100 parti di acqua; quella del composto 1-4 da 33,79, e quella dell'1-2 da 41,81, sempre riferendosi ai sali anidri ed a 100 parti di acqua: questi valori, ottenuti spe- rimentalmente, concordano con quelli che si possono ricavare colle note regole dal diagramma. Per quanto riguarda la composizione dei corpi di fondo essa fu non sol- tanto individuata graficamente osservando l'intersezione delle varie linee di coniugazione, ma — come questo metodo praticamente è in certi casi fallace specialmente per quanto concerne il grado di idratazione — si cercò di sepa- , rare il corpo di fondo ed analizzarlo dopo lavato ed asciugato rapidamente. (L'esame delle curve ci aveva fatto conoscere che era possibile lavare con acqua pura, senza pericolo di decomposizione del corpo di fondo). Prepa- ravamo di solito una grande quantità di borato in termostato a 60°; aspor- tavamo la soluzione, e, con o senza preliminare lavaggio con acqua, asciuga- vamo tra carta da filtro. Quindi analizzavamo. In generale ottenevamo resul- tati vicini ai teorici soltanto dopo lavato con acqua, cosa prevedibile, ma che notiamo espressamente per quei casì in cui occorra analizzare senza lavare, per quanto in questi casi si tenti con ogni mezzo di asportare tutta la solu- zione che imbeve il precipitato asciugandolo e comprimendolo tra carta da filtri. Per il composto 1-5-8 trovammo come media di diverse analisi: (NH,),0 9,68 °/ B:03 64,97 °/ H:0 25,35 9/0 Teoricamente ” 9,52 °/o » 64,10 » » 26,989/ Per il composto 1-4-6: (NH,):0 12,19% B.03 63,96 °/ H,0 23,85 °/, Teoricamente ” 11,82 » » 63,64 » » 24,54 » Per il composto 1-2-4 dobbiamo fare una distinzione. Analizzando il composto ottenuto in presenza di una soluzione ad alto contenuto in ammo- niaca, cioè nel ramo di curva in vicinanza di e, ottenevamo resultati ad alta — 1230 — percentuale in ammoniaca rispetto ai teorici; se il composto era ottenuto in presenza di una soluzione posta nel ramo di curva vicino a 4, ottenevamo valori vicini ai teorici per 1’1-2-4. E così nel 1° caso: (NH,)30 21,58%/, B0; 54,32%, Hs0 24,10°/ (Esper. A) Nel 2° caso: (NH,).0 19,54°/ B.0; 53,17 °/ H30 27,29°/, (Esper. B) Teoricamente ” 19,70% >» 53,03 » n 2720006 Anche le linee di coniugazione, che si ottenevano in alto, indicavano sempre un alto contenato in ammoniaca ; ed il fascio di linee di coniugazione alte e quello più basso, partenti tutte dalla curva e d, si riunivano non nel punto rispondente all'1-2-4, ma nel punto rispondente all’1-2-2 1/5 (2-4-5) come fu trovato a 30°: tantochè per questa via indiretta si dovrebbe conclu- dere per l’esistenza del composto 1-2-2 '/», sia a 30° sia a 60°. Invece l’ana- lisi diretta, come si è visto sopra, dava, per 60°, o resultati quasi teorici per l’1-2-4 (Esperienze B), o resultati distanti un po' dall'1-2-4 (Esperienze A); ma, in ogni caso, nemmeno coincidenti con quelli teorici per 1°1-2-2 !/, che sarebbero 21,94 °/ (NH,):0, 59,07 °/, Bs03, 18,98 °/0 Ho.0 Si poteva pen- sare che, essendo il corpo di fondo l'1-2-2 1/3, esso rimanesse commisto colla soluzione da cuì sì era separato, ricchissima in ammoniaca, e da questo si originassero le divergenze osservate; ma per avvicinarsi ai valori trovati nelle esperienze A, sarebbe occorso, per quanto riguarda il Bs0; e l’acqua, che fosse rimasto nei cristalli il 10 °/, circa di soluzione, mentre noi ottenevamo una polvere cristallina finissima e secca. Provammo anche a prendere dei cristalli della composizione trovata nelle esperienze B, cioè cristalli di 1-2-4, ed a tenerli in termostato in presenza di soluzioni sature di ammoniaca. Analiz- zando allora direttamente il corpo di fondo (cioè dopo separato ed asciugato), ottenemmo i resultati della esperienza 51 della tabella, in cui l’ammoniaca è aumentata, ma in cui il B,03 è rimasto 53,07 °/,, cioè quanto se ne ha nel composto 1-2-4, e 6°/ meno di quanto se ne ha nel composto 1-2-2 1/». Tutti questi fatti si spiegherebbero ammettendo che il composto della curva de fosse l'1-2-4 e che ad esso rimanesse aderente, quando si forma da soluzioni fortemente ammoniacali, una certa quantità di ammoniaca. Noi propendiamo per questa interpretazione, ed in base a questo abbiamo notato l'1-2-4 nella tabella e nella figura. Ma questo affermiamo colle riserve deri- vanti dalle cose ora esposte, mentre ci ripromettiamo di indagare la questione attraverso lo studio del sistema ad altre temperature. Comunque, non si ha dubbio che si tratta qui di un diborato: la que- stione verte tutta sulla sua acqua di cristallizzazione (o che si ammette essere di cristallizzazione), rimanendo del resto inalterati tutti gli altri resultati — 1231 — ricavabili da queste ricerche (tipo del composto formantesi, sua curva di solu- bilità, etc. etc.). Anche rimandiamo a quando siano compiute altre ricerche a tempera- ture diverse tutto quanto concerne la relazione tra i borati di ammonio pre- parati in laboratorio ed esistenti come composti ben definiti, ed un borato di ammonio naturale, la larderellite. Mineralogia. — Su di una modificazione alla reazione dif- -ferenziale di Meigen fra calcite ed aragonite ('). Nota di E. QuER- CIGH, presentata dal Corrispondente E. ARTINI. È ben conosciuta la semplice reazione che W. Meigen suggerì per distinguere rapidamente la calcite dall’aragonite (?), traendo partito dal fatto che l’aragonite, in polvere, per breve ebollizione con una soluzione acquosa e diluita di nitrato di cobalto, assume una decisa colorazione lilla, mentre la polvere di calcite, a parità di trattamento, rimane inalterata, diventando più o meno azzurrastra solo col prolunguarsi dell’ebollizione, come avvertì il dott. Gino Panebianco (*). Queste colorazioni sarebbero prodotte, secondo ulteriori ricerche di Meigen a questo proposito (‘), dalla formazione di diversi carbonati basici di cobalto alla superficie dei granuli dei due minerali: sull’aragonite, in seno a soluzioni concentrate di nitrato di cobalto, si formerebbe un lieve depo- sito lilla avente la composizione 2 Co CO; + 8 Co (OH); +H: 0, mentre il precipitato azzurrastro che si forma sulla calcite, avrebbe la com- posizione CoC03; + 3 Co (OH). Qualunque possa essere la costituzione, ignota finora, di questi pro- dotti di reazione, la cui stessa composizione bruta è con tutta probabilità (*) Lavoro eseguito nell'Istituto di mineralogia della R. Università di Torino, di- retto dal prof. Ferruccio Zambonini. (*) W. Meigen, Fine einfache Reaktion zur Unterscheidung von Aragonit und Kalk- spath, Centralbl. f. Min. Geol. u. Pal. (1901) 577. (3) Gino Panebianco, Sopra una reazione cromatica della calcite e della arago- nite, Riv. di min. e crist. italiana, 28 (1902), 5. (4) W. Meigen, Beitràge zur Kenntnis des kohlensauren Kalkes IT und III, Ber. d. Narturf. Gesellschaft zu Freiburg i. Br., /5 (1905), 38; Ref. Zeitschr. f. Kryst. 44 (1908) 312. — 1232 — influenzata dalle condizioni di esperienza, era interessante verificare il fatto messo in evidenza da Kreutz (!), secondo cui essi si comporterebbero di- versamente rispetto alle soluzioni di cloruro ammonico. Infatti, secondo Kreutz, mentre il carbonato azzurrastro depositatosi sulla calcite sarebbe facilmente solubile in questo reattivo, quello lilla dell’aragonite vi rimar- rebbe quasi insolubile. Se ciò si avverasse realmente, sarebbe in nostro possesso un vantag- gioso mezzo per rendere più netta la distinzione fra aragonite e calcite, modificando opportunamente la reazione primitiva di Meigen. Esperienze eseguite a questo proposito mi hanno però convinto che se una differenza, fra la velocità di soluzione dei due carbonati basici di co- balto, esiste, essa è troppo poco sensibile e troppo influenzabile dalle mo- dalità con cui i composti si formarono, per permettere una utilizzazione pratica del fenomeno. Infatti, io presi della polvere di spato d'islanda che feci bollire per cirea mezz'ora con una soluzione di nitrato di cobalto al 5 °/ (in peso), e, d'altra parte, sottoposi della polvere di aragonite di Sicilia ad una breve ebollizione con un’'identica soluzione. Lavai accuratamente queste due so- stanze; quindi varie porzioni di esse furono sottoposte all'azione di solu- zioni di cloruro ammonico a varie concentrazioni, da quella comune (2 N) dei reattivi a quella satura a temperatura ordinaria. La velocità di soluzione fu seguita colorimetricamente prelevando a determinati intervalli di tempo, dei campioncini di liquido e aggiungendovi poche gocce di solfuro ammonico: l'intensità della colorazione nera, ottenuta per le varie concentrazioni e le varie durate di azione, fu poco sensibilmente diversa per le due fasi cristalline del carbonato di calcio. Da ciò mi dovetti persuadere che le esperienze di Kreutz, se hanno valore conclusivo per i sali basici che lui ebbe tra mano, non ne hanno uno accettabile per il caso generale, e, ad ogni modo, la differenza di com- portamento verso il cloruro ammonico non può essere utilizzata con risultati pratici in queste condizioni. A caldo la solubilità è molto più rapida e completa per i due preci- pitati; e su questo punto i miei risultati concordano con quelli di Kreutz. Dato l’interesse che, senza dubbio, presenta la distinzione rapida dei due minerali in parola, è ben naturale che molti sperimentatori si sieno occupati della ricerca di reazioni cromatiche differenziali a tale proposito; ma un esame accurato dei risultati ottenuti porta inevitabilmente alla con- clusione che, fra tutte, le sole consigliabili, al presente, sieno quella ac- (1) Stephan Kreutz, Veder die Reaktion von Meigen, Tschermak min, Mitt., N. F., 28 (1909) 487. — 1233 — cennata, di Meigen, e quella, proposta ultimamente da St. J. Thugutt ('), che utilizza un'osservazione di Lemberg (*), correggendone l’errata interpre- tazione ad essa data da quest'ultimo: essa consiste nel trattare la polvere dei minerali con soluzione 10 di nitrato d’argento, e successivamente con solu- zione di hicromato potassico; nel caso dell’aragonite la polvere assume il colore rosso intenso caratteristico del cromato d'argento, mentre la calcite resta inalterata. Anche qui, come nella reazione di Meigen,la differenziazione si fonda sulla maggiore velocità di soluzione, e quindi di reazione, della fase meno stabile. Non credo perciò superfluo esporre qui un miglioramento di cui è su- scettibile la reazione di Meigen, miglioramento a cui pervenni in occasione di alcune ricerche sulle fasi cristalline del carbonato di calcio, che renderò note tra breve. I lati deboli della reazione di Meigen sono principalmente due: 1°) di non essere efficace quando si tratta di miscele di aragonite e di calcite; nel qual caso, come ebbe a notare Gino Panebianco (*), anche le miscele di una sola parte di aragonite con 19 di calcite potrebbero ve- nire scambiate, per la tinta lilla assunta dall'insieme, senz'altro per pura aragonite ; 2°) di riuscire evidente solo quando i minerali sono incolori o de- bolmente colorati, in modo da non mascherare la colorazione lilla, essendo, com'è ovvio, assai problematica la constatazione di tale mutamento di colore su materiali colorati abbastanza intensamente in giallo od in bruno, come spesso accade di molti calcari. Questi fatti, mentre da un lato limitano l'applicazione del metodo di Meigen, dall'altro rendono conclusivi soltanto i risultati affermativi per la calcite, poichè sarà sempre possibile dubitare che, nei casi in cui si ottiene la reazione dell’aragonite, questa, anzichè sola, si trovi commista a più o meno rilevanti quantità di calcite. In realtà io ho sottoposto alla reazione di Meigen la polvere di cri- stalli di aragonite di Sicilia più o meno parzialmente trasformata in cal- cite, ottenendo sempre nettissima la reazione dell’aragonite; ed ho constatato l'impossibilità di accorgersi, con tale metodo, che la sostanza impiegata con- tenesse della calcite, anche quando quest'ultima si trovava in discreta pro- porzione. (*) St. J. Thugutt, ZVeder chromatische Reaktionen auf Calcit und Aragonit, Cen- tralblatt f. Min. Geol. u. Pal. (1910) 786. (*) J. Lemberg, Zur mikrochemischen Untersuchung einiger Minerale, Zeitschr. d. deutsch. Geol. Ges. 44 (1892) 224. (3) Gino Panebianco, loc. cit., pag. 8. RenpicontTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 158 — 1234 — Se, d'altra parte, si considera che una reazione cromatica differenziale Sarebbe particolarmente utile appunto nei casi in cui i due minerali, an- zichè presentarsi incolori e ben cristallizzati, sono gialli, od in altro modo fortemente colorati, e compatti, devono sembrare maggiormente opportuni i tentativi di estendere anche a questi casi l'efficacia della reazione di Meigen. Il mio, rivolto ad ovviare ai due inconvenienti sopra esposti, consiste nel trasformare in solfuro il carbonato basico di cobalto che si deposita sul minerale in esame; con ciò si ottiene una colorazione decisamente nera nel caso dell’aragonite, che avendo una notevole velocità di reazione, fa preci- pitare alla sua superficie una forte quantità di sale basico; mentre nel caso della calcite questa rimarrà quasi invariata assumendo solo un tono leg- germente grigiastro o cinereo, poichè, per la sua velocità di reazione molto minore, si troverà ricoperta, a parità di condizioni sperimentali, soltanto da piccolissime quantità di carbonato di cobalto. Nelle miscele delle due fasi i granuli dell'una sono facilmente distin- guibili da quelli dell'altra, sia ad occhio nudo, sia per mezzo di lente. La riuscita della reazione dipende dalle condizioni d'esperienza, che de- vono essere le seguenti: La quantità di sostanza da impiegarsi è evidentemente arbitraria; si può consigliare l’uso di un decigrammo o due, ma, occorrendo, qualche mil- ligrammo ed anche un solo granuletto sono sufficienti. La grossezza della polvere non deve essere superiore a 0,2-0,4 mm.; si deve parimenti evitare una troppo spinta suddivisione, il che si raggiunge facilmente avendo cura di decantare, nei lavaggi, le porzioni che sì depo- sitano per ultime, appunto perchè sono le più piccole. La concentrazione della soluzione di nitrato di cobalto deve essere al 5°/, in peso del sale ordinario esaidrato; l’ebullizione, in provetta ordinaria, deve durare mezzo minuto, e non più. La concentrazione della soluzione di solfuro sodico, o, in sua mancanza, di quella di solfuro ammonico, è arbitraria : perciò si possono impiegare le soluzioni solite dei reagentarî. Operando in questo modo, io ho potuto ottenere indubbia reazione da molte varietà di calcare che, per la colorazione propria, non permettevano di trarre alcuna conclusione col metodo originario di Meigen. Ho potuto altresì rapidamente decidere della natura di varii campioni esistenti nel Museo di mineralogia della R. Università di Torino. Così, ad es., il campione n. 1716 che porta l'indicazione « ca/cite di Karlsbad », si manifesta nettamente per aragonzze con la reazione di Meigen modificata, mentre la reazione di Meigen primitiva non dà, per la forte co- lorazione gialla del campione, alcun risultato. La determinazione del peso specifico col metodo dei liquidi pesanti confermò la mia conclusione. — 1235 — Analogamente trovai che il campione n. 13337, classificato come « ara- gonite stalattitica del Laurion (dono Ponzio) », è invece costituita da cal- cite, come dimostra anche la determinazione del peso specifico. Così pure il campione n. 1735, indicato come calcite, è costituito, al contrario, da aragonite; anche qui la densità conferma questa conclusione, e la reazione di Meigen (primitiva) sarebbe insufficiente a dare un’indica- zione precisa. Il Meigen aveva eseguito numerose esperienze per determinare se varî calcari di origine animale e vegetale fossero costituiti da aragonite o, non piuttosto, da calcite; le sue conclusioni sono, però, come è ovvio, sicure sol- tanto nei casi in cui egli ebbe nettamente la reazione della calcite; negli altri non si può escludere, @ priori, la presenza anche della calcite assieme con l'aragonite. Io ho fatto alcune esperienze con poche specie di conchiglie che ho a mia disposizione: ma siccome sarebbe opportuno uno studio sistematico, possibilmente completo dei carbonati di calcio di origine biologica, per po- terne mettere in evidenza anche le eventuali relazioni fra la loro natura e le condizioni di formazione, attendo di avere a mia disposizione un ricco materiale di studio. Per mettere in evidenza come sia facile il differenziare l’aragonite dalla calcite quando si trovano commiste, ho eseguito la reazione su una faccia di }110} previamente levigata e pulita, di un grosso cristallo poligeminato di aragonite di Sicilia, parzialmente trasformato in calcite. Con tale proce- dimento, prolungando però l’azione del nitrato di cobalto, in essa si distin- guono nettamente le porzioni già trasformate nella fase trigonale, che si presentano molto chiare, da quelle rimaste ancora costituite dalla fase rombica, che sono molto più scure. Noto che la reazione riesce meno evidente su cristalli o frammenti di dimensioni notevoli, per il fatto che l'aumento dì superficie influisce direttamente sulla quantità di solfuro di cobalto originatosi e, quindi, sulla forza del tono nero che esso conferisce al minerale. Inoltre la velocità di reazione è diversa nelle varie direzioni, e precisamente in quella di }110} è molto minore che in altre. Per queste ragioni si deve sempre adoperare il materiale polverizzato, poichè dei cristallini intieri, nel tempo indicato, darebbero la reazione sol- tanto su alcune facce appartenenti a determinate forme, come esporrò det- tagliatamente in altro lavoro. Il trattamento con solfuro sodico si può, evidentemente, adottare come modificazione anche alla reazione di '[hugutt ove il caso consigli preferibile questo reattivo al cromato potassico, rendendo cioè, per la natura del ma- teriale in esame, al color nero maggior risalto che non al rosso del cromato d'argento. — 1236 — Teratologia. — Di alcune anomalie nella Beta vulgaris L. Nota II di 0. MUuNERATI e T. V. ZAPPAROLI, presentata dal Socio R. PIROTTA. In questa breve esposizione (') segnaliamo le deviazioni da noi riscon- trate nelle radici. Radici degeneri. — Un numero maggiore o minore di bietole comple- tamente staccantisi dal tipo normale per la forma caratteristica prismatica, Fic. 1. — Radici a forma prismatica, bitorzolute, degeneri. a coste o a bitorzoli, con testa più o meno sporgente (l'unita riproduzione fotografica ne dà un'idea sufficientemente esatta), ci occorse di trovare fra i di- * scendenti di parecchie famiglie (0-10; 0-38; 0-49; 0-50; 0-98; 0-104; 0-206 ; 0-209 ; B-13; B-22; B-56; B-63; B-66; B-88; B-94; B-159; B-357; B-359; B-906; B-1122; B-1946). Assai di frequente i soggetti te- ratologici in parola, senz’essere legnosi e pur provvisti di fogliame abbon- (*) Ved. prima Nota sulle anomalie della parte aerea in questi Rendiconti, vol. XXXIV, 1° sem., fase. 11°, pag. 1150. — 1237 — dante, presentavano un contenuto zuccherino molto più basso di quello delle bietole normali appartenenti alle rispettive famiglie. Nelle diverse famiglie il numero di bietole presentanti le sopra de- scritte caratteristiche era assai variabile: mentre nella maggior parte si riscontrarono pochi soggetti, in alcune famiglie se ne ebbe una percentuale ele- vata (nella 0-88 il 2 °/,; nella 0-98 1'8 °/; nella 0-209 il 15 °/,; nella B-22 il 25 °/,). Per quanto dal contesto non appaia ben chiaro, presumiamo che radici di forma simile, tra i discendenti di autofecondate, abbiano trovato Andrlik, Fre. 2.— Caso di rizomania. Bartos e Urban ('), ma gli AA. vi accennano solo per incidenza, e senza offrire dati analitici. Da escludere, ad ogni modo, ogni e qualsiasi correlazione tra la ma- nifestazione teratologica in parola e le varie note deformazioni di natura batterica (crown-gall, tubercolosi, ece.). Risomania. — Fenomeni di rizomania ci vennero offerti da tre sog- getti di una famiglia di bietole selvagge in selezione (A-IV-24). Sopra tutto una delle tre radici presentava l'anomalia in forma singolarissima, come appare dalla fotografia qui riprodotta (fig. 2). Questa radice e un’altra (1) Der Einfluss der Selbstbefruchtung auf Degenerierung der Zuckerriibe, Zeitschrift fir Zuekerindustrie in B6hmen, XXXIII Jahrgang (1908-1909), Heft 7, pag. 409. — 1238 — ad essa molto simile non furono analizzate per non sciuparle, data anche la loro piccolezza: la terza, in cui l'anomalia si presentava però in forma meno evidente, aveva una ricchezza in zucchero non diversa da quella degli individui normali della stessa famiglia. Melanismo corticale. — Alcune radici a pelle scura, bluastra, riscon- trammo nelle famiglie M-130, B-999 (*). Come risulta dall'unito specchietto, il melanismo corticale non ha influito notevolmente sulla ricchezza zucche- rina: in generale però le radici presentanti l'anomalia erano meno svilup- pate di quelle normali. Esame 2 settembre 1914 (An. Mezzadroli). Numero Peso Sace. °/o a pelle bianca 1 650 9,9 2 600 12,8 3 575 11 Famiglia M-130. a pelle nera 4 475 12,2 5) 320 11,3 6 350 10 a pelle bianca \ 2 550 15 | 3 480 14 Famiglia B-999. .. .._. . € 4 510 12,5 a pelle nera 1 439 12,8 Radici tristiche e tetrastiche. — Radici a tre solchi notammo nelle famiglie 0-38, 0-40, 0-98, 0-196. Nella famiglia B-350 abbiamo riscon- trato una radice a quattro solchi bene evidenti. Neppure queste radici ano- male mostravano sensibili e nette differenze. sia per la ricchezza, sia per il peso, da quelle normali delle medesime famiglie. Come avremo modo di dimostrare in una Nota ulteriore, le radici a tre solchi derivano da soggetti tricotili; non siamo ancora in grado di af- fermare se le tetrastiche derivino da tetracotili o, non piuttosto, da emite- tracotili. (1) de Vries (Die Mutationstheorie, II, pag. 664) parla di bietole di color bruno riscontrate dal dott. Raatz a Kleinwanzlcben. Si tratterà della stessa manifestazione ? Ci riserbiamo di accertarcene. — 1239 — Altre anomalie. — Fenomeni di nanismo e di gigantismo, di soggetti a testa sporgentissima e sottile (da non confondersi con le così dette « ro- sette »), a doppia testa e a testa multipla ecc., vennero da noi registrati per parecchie famiglie. [i ce Fic. 3. — Radice a tre solchi, scollettata. Anche varii di detti soggetti abbiamo conservato per studiare il com- portamento dei loro discendenti. Fisiologia vegetale. — Su//a presenza, nelle piante, di composti ematoidi di ferro ('). Nota I del dott. G. GoLA, presentata dal Socio 0. MATTIROLO. Alcune esperienze di Petit (*) hanno dimostrato la possibilità di estrarre dall'orzo geminante un composto organico di ferro contenente azoto; tale com- posto fu ritenuto un nucleoproteide. Pure un composto di ferro organico, da ritenersi analogo all’ematogene, studiato da Bunge nell'uovo di gallina, fu trovato da Stoklasa nella cipolla (*); infine un composto organico di ferro, so- lubile nell’alcool acido per HC/ fu estratto da Tarbouriech (‘) e Saget dal Rumex obtusifolius. (') Lavoro eseguito nel R. Orto botanico di Torino, (*) Distribution et état du fer dans l’orge. Compt. rend. 2/15, 1892, pag. 246. (3) Fonction physiologique du fer dans l’organisme de la plante. Compt. rend., 27, 898, pag. 282. (4) Sur une variété de fer organique végétal. Compt. rend., /48, 1909, pag. 1517. — 1240 — Come si vede, non sono mancate le esperienze vòlte a ricercare quale fosse la natura dei composti di ferro nelle piante. Io stesso, in ricerche di alcuni annì or sono ('), potei dimostrare l’esistenza in moltissime piante acqua- tiche, di composti organici di ferro, associati ad altri nettamente inorganici, o aventi caratteri di composti col ferro lassamente legato alla molecola or- ganica. Ho voluto estendere questo indirizzo di ricerca, e sono riuscito ad estrarre, da molti vegetali, dei composti organici di ferro aventi tutti delle spiccate affinità fra loro, e la cui diffusione nei tessuti e negli organismi più svariati mi ha permesso di arrivare a delle ipotesi, per ora appena abbozzate, sulla funzione fisiologica e sulla natura dei composti organici di ferro. Le ricerche finora compiute, ed i relativi risultati, si possono coordinare in tre fasi distinte. IL Per evitare gli inconvenienti che avrebbero potuto eventualmente essere determinati dalla presenza di clorofilla, ho dapprima trattato dei tessuti privi di tale pigmento; poi, avendo potuto constatare come, operando nel modo se- guìto nella prima fase, non si abbiano inconvenienti di sorta, ho trattato anche organi vegetali verdi. Si pone a macerare con idrato sodico al 3 °/,, alquanta segatura di legno di abete, di pioppo; si separa per spostamento l'estratto ottenuto, si aggiunge acqua al materiale residuo, si mescolano i due estratti e poi, per acidifica- zione con acido acetico, si separa un precipitato, nel quale, previa incine- razione, si può constatare la presenza di molto ferro. Risultati migliori ho ottenuto adoperando come liquido per l'estrazione una soluzione di carbonato, invece che di idrato sodico; in tal modo si disciolgono sostanze estranee in misura assai minore, e il precipitato, per acidificazione, diventa assai meno impuro. La concentrazione della solazione alcalina da usarsi varia secondo l'acidità della sostanza da estrarre. Con questo metodo ho potuto estrarre non solo dalla segatura di legno, ma anche dalla corteccia di pioppo e di ontano, dalle foglie di Parzetarzia 0ffi- cinalis, dall’erba di prato essiccata e non fermentata, dal lievito di birra, dal Lactarius controversus, dal Penicillum glaucum, una sostanza bruna amorfa, ricca di ferro. e questo riconoscibile solo previa incinerazione. Tale sostanza, evidentemente impura, contiene la parte ferrifera che è solubile in soluzioni di bicarbonato sodico, di borato sodico, cioè negli alcali deboli, e che da questi riprecipita per acidificazione; onde è possibile di ria- verla meno impura. Il riscaldamento con soluzioni alcaline acquose ne stacca (1) Studii sulla funzione respiratoria nelle piante aquatiche e palustri. Annali di botanica. Roma 1907, vol. V, pag. 441. — 1241 — facilmente il ferro, e così pure le alterne e ripetute acidificazioni e alcali- nizzazioni. Nell’alcool, etere, cloroformio, e nei solventi organici neutri, la parte ferrifera è insolubile; l'alcool acido etilico o amilico ne scioglie in misura piccolissima; è pure poco solubile, e con alterazione parziale, nell’acido ace- tico bollente; una alterazione un po’ più profonda sembra si abbia quando si diluisce con acqua la soluzione acetica. In piridina è molto, ma non totalmente solubile, ciò che dimostra essere la sostanza ferrifera non omogenea. Affatto caratteristica è la proprietà di dare, colle soluzioni alcooliche 0 eteree di acido pirico, una combinazione bruna solubilissima nei solventi organici neutri, insolubile in acqua. Scaldata per 3-5 ore con soluzione alcoolica di potassa, la sostanza si decompone mettendo in libertà ammoniaca; ma tale sviluppo è da attribuirsi, con tutta probabilità, anche alle sostanze proteiche frammiste. Anche elevando la temperatura, adoperando alcol amilico (verso i 130°), sì può constatare che la stabilità del composto di ferro non rimane gran che alterata; e una parte del composto ferrifero passa nella soluzione alcoolica. Avrei voluto intensiticare le ricerche su questo indirizzo, valendomi delle soluzioni alcoliche di potassa a temperatura e pressioni molto elevate, come ha operato Willstàtter per la clorofilla, e come, contemporaneamente alle mie ricerche, ha operato sull’'emina (!). Ma non avendo a disposizione i mezzi adatti a ciò, mi sono limitato a far agire a 200°-240° la potassa snl ma- teriale di studio, operando in crogiuolo d'argento in bagno d'aria. Per evi- tare l'eventuale azione dell'ossigeno atmosferico, ricoprivo di un alto strato di petrolio purificato la massa in fusione; il periodo di riscaldamento du- rava 5-7 ore. Dopo raffreddamento, la massa alcalina veniva estratta con alcool assoluto a caldo, con che la maggior parte del composto di ferro passava in soluzione ; della porzione residua, solo una minima parte conteneva ferro riconoscibile agli ordinarii reattivi. La soluzione alcoolica, addizionata di un pò di glicerina anidra, veniva mescolata con 1 */, vol. di etere; si aveva allora la separazione di uno strato prevalentemente glicerico, di colore intensamente bruno, e relativamente po- vero di potassa; mediante centrifugazione si completava la separazione, e si aveva così nella soluzione glicerica la maggior parte del composto ferrifero. Questo veniva acidificato con acido acetico glaciale, e addizionato con due vol. di etere; mediante centrifugazione si asportava con l'etere la maggior parte dell'acido in eccesso; con nuovo etere si eliminava tutto l'acido, e si aveva così un composto bruno amorfo, quasi insolubile nei solventi neutri, e solubile solo in piridina. (*) Zeitschr. f. Physiol. Chemie 1913. RenpIcontTiI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 159 — 1242 — Anche questo corpo amorfo dà con le soluzioni di acido picrico un pi- crato solubilissimo, e questo serve assai utilmente per separare il composto ferrifero dalle traccie di combinazioni potassiche che potessero trovarvisi; l'eccesso di acido picrico può poi venire lentamente eliminato con etere di petrolio saturato di alcool, nella quale miscela l'acido è un pò solubile, mentre il picrato non lo è. Anche il picrato si ha come una massa bruna amorfa, che fonde facil- mente, e brucia con lieve deflagrazione dando una fiamma luminosa. Il picrato può venire decomposto, sia per azione dell'acqua, dalla quale è facilissimamente idrolizzabile, sia, meglio ancora, per azione della piridina. Questa scioglie il picrato, ma ne sposta l'acido; allora, per aggiunta di etere, si precipita il composto di ferro; con successive dissoluzioni in’ piridina e riprecipitazioni con etere sì può eliminare l'acido pirico, ed avere una sostanza bruna amorfa, solubile in piridina con colorazione rosso-bruna, e che contiene ferro in grande quantità; scaldata su lamina di platino, lascia un residuo costituito unicamente da ossido di ferro. Scaldato in tubo con zinco, svolge vapori alcalini, probabilmente ammo- niacali, nonchè vapori pirrolici riconoscibili alla nota reazione della scheggia di pino. L'azione degli alcali acquosi stacca rapidamente il ferro dalla molecola organica; così pure gli acidi un pò forti, come l'acido acetico (non l'acido picrico), in presenza di acqua, staccano lentamente il ferro dando luogo, in capo a 4-5 giorni, alla separazione di un deposito violaceo-porporino ricchis- simo di ferro, solubile nell’alcool che però, trattato con HC/ dilutissimo, dà la reazione col prussiato giallo. La porzione rimasta insolubile in alcool dopo la fusione con potassa, veniva estratta con acido acetico glaciale nel quale la massima parte si scioglie; è da osservare che rapidamente però questa porzione solubile subisce una trasformazione, che la rende parzialmente insolubile nell’acido stesso. La soluzione acetica viene trattata con etere per eliminare l'acido; poi picratata, come si disse più sopra; e si ha così un residuo analogo a quello ottenuto trattando la parte solubile in alcool. Anche la porzione insolubile in acido acetico glaciale, o divenuta in- solubile, come si è testè accennato, dà col solito trattamento con etere, poi con acido picrico, ecc., una terza porzione di ferro organico avente gli stessi caratteri dei due composti sopra descritti. Rimangono poi traccie di composti anorganici di ferro. Non so se questi composti di ferro (quello solubile in alcool alcalino, quello in acido acetico glaciale, quello insolubile e quello anorganico) deb- bano ritenersi corrispondenti a quattro diversi composti esistenti originaria- mente nella pianta, o siano invece il risultato di una incompleta azione della fusione con potassa. Spero di chiarire il quesito nelle ulteriori ricerche. — 1243 — I caratteri dei composti così ottenuti, la tecnica che ha dato questi ri- sultati, fanno subito pensare che il metallo si trovi legato in questi composti in modo assai analogo, se non identico, a quello che costituisce il nucleo fon- damentale dell'ematina del sangue. Alcune obbiezioni possono essere fatte contro l'accettazione, senz'altro, di tale ipotesi. Anzitutto la reazione del pirrolo mediante la scheggia di pino non è sola dei composti pirrolici, ma altresì p. es. dell’indolo; e l’indolo poteva trovarsi nelle impurezze frammisto alla sostanza messa a reagire colla po- tassa in fusione. La presenza di questo corpo, o di triptofano, e conseguen- temente la possibilità di avere del pirrolo, si poteva anche arguire a priori dall'odore che si svolgeva dalla sostanza, quando la si lasciava a sè in so- luzione acquosa acida. Inoltre i caratteri spettroscopici non erano affatto netti, quantunque fosse evidente un assorbimento nella zona del giallo-verde. La non cristallizzabilità non costituisce un argomento contrario, perchè anche Willstàtter ottenne sempre composti amorfi dall'emina, finchè non ag- giunse alla soluzione alcolica, agente in autoclave, della piridina, colla quale ottenne una idrogenazione del composto ferrifero; i miei mezzi di lavoro non mì permisero di eseguire tale idrogenazione. Ulteriori esperienze, delle quali spero di poter rendere conto prossima- mente, mi hanno fornito nuovi argomenti a conferma dell'ipotesi emessa. Le esperienze da me sopra riferite, frutto di numerosissimi saggi, furono eseguite di confronto con sangue di bue. Anche il composto di ferro del sangue venne estratto dapprima con soluzioni alcaline, e reso quindi di tipo ematinico; poi trattato come per gli estratti vegetali. Operando a bassa temperatura (120°-130°), la combinazione ferrica conserva ancora caratteri spettroscopici spiccati, ed ha una spiccata solubilità nei solventi organici neutri; ma, operando a temperatura elevata, queste differenze dal composto ferruginoso vegetale si fanno meno evidenti. La massima parte del materiale, che mì servì per dette esperienze, fu tratto dalla segatura di pioppo, della quale lavorai un quintale estraendone 170 gr. di composto di ferro grezzo: e dall'erba secca, un quintale della quale mi fornì gr. 430 di prodotto grezzo. — 1244 — Botanica. — Sull’embriologia di Senecio vulgaris L.('). Nota del dott. E. CARANO, presentata dal Socio R. PIROTTA. Nel 1913 il Winge pubblicò in una breve Nota i risultati, a prima giunta molto interessanti, di alcune sue osservazioni sulla megasporogenesi e sulla costituzione del gametofito femmineo di Senecio vulgaris e di una varietà di questo, S. v. var. radiatus (?). In verità il genere Senecio non era fino allora sfuggito alle ricerche embriologiche, chè già si possedevano i dati dello Strasburger (*) e del Mot- tier (©), nonchè quelli un po' meno esatti, come vedremo, del Warming (*) e del Vesque (5). Però l’interpretazione data dal Winge alle cose da lui osservate non poteva non richiamare la mia attenzione, occupandomi proprio allora del- l'embriogenesi delle Asteracee. E benchè fra le piante da me esaminate non vi fosse nessuna specie appartenente al genere Sereczo, mi convinsi tuttavia, sia per l'esperienza personale acquistata nello studio di altri generi, sia per l'evidente contrasto fra le affermazioni dello Strasburger e del Mottier e quelle del Winge, che quest’ultimo autore fosse involontariamente caduto in errore, interpretando per megaspore sterili quelle cellule che in realtà non erano che le antipodi del gametofito maturo. Questa convinzione espressi in una nota a piè di pagina in un mio lavoro pubblicato or sono pochi mesi (”). Senonchè in seguito mi sorprendeva la lettura di due recentissime Memo- rie del Palm, nelle quali l'opinione del Winge veniva non solo accettata senza controllo, ma anche sostenuta per altri generi di Asteracee (*). (*) Lavoro eseguito nel R. Istituto botanico di Roma. (*) Winge O., Qogenesis hos Senecio. Botanisk Tidsskrift, Bd. 33, 1913, pag. 245. (*) Strasburger E., Die Angiospermen und die Gymnospermen. Jena, 1879, pag. 9. (4) Mottier D. M., Ox the embryo-sac and embryo of « Senecio aureus L. ». Bot. Gazette, vol. XVIII, 1893, pag. 245. (9) Warming E., De l'ovule. Annales des sciences naturelles, bot., série VI, tom. V. 1878, pag. 177. (5) Vesque J., Développement du sac embryonnaire des Phanérogames angiospermes. Annales des sciences naturelles, bot., VI série, tom. VI, 1879, pag. 246. (?) Carano E., Zicerche sull’embriogenesi delle Asteracee. Annali di botanica, vol. XIII, 1915, pag. 251. (*) Palm B., Zur Embryologie der Gattungen Aster und Solidago (Acta Horti Ber- giani, tom. V, n. 4, 1914); id, Veber die Embryosackentwicklung einiger Kompositen (Vorlaufige Mitteilung) [Svensk Botanisk Tidskrift, Bd. 8, 1915, pag. 447]. — 1245 — In vista di tale disparità di pareri mi è sembrata cosa utile di stabilire il vero stato delle cose, almeno per ciò che riguarda il Sezeczo vulgaris. Per questa pianta dunque il Winge sostiene che delle quattro megaspore provenienti dalla doppia divisione della cellula madre, contrariamente alla regola, non sia l’inferiore o calazale quella fertile, bensì la superiore o micro- pilare, ed inoltre che le altre tre megaspore non si distruggano subito, come succede in generale, ma persistano alla base della megaspora fertile, mostrando anzi un certo incremento, rilevabile dal fatto che spesso esse dividono il loro nucleo e non di rado anche il citoplasma, per cui al posto di una primitiva megaspora si possono in taluni casi formare due nuove cellule. La megaspora fertile, sempre secondo il Winge, germina e produce, mediante le consuete tre divisioni successive del suo nucleo, un gametofito femmineo, nel quale, a differenza della grandissima maggioranza delle Asteracee, le antipodi, anzichè costituirsi in cellule ben individualizzate e fornite ciascuna di propria mem- brana, con una posizione determinata in fondo al sacco embrionale, andreb- bero più o meno presto a male e sarebbero rappresentate, prima di scompa- rire definitivamente, da tre masse vaganti nella cavità del sacco, di solito rintracciabili in prossimità del nucleo secondario. Un comportamento presso a poco conforme a quello di Senecio vulgaris mostrerebbero, secondo le osservazioni del Palm, Solidago serotina e altre specie, in cui cioè vi sarebbe una speciale tendenza allo sviluppo ulteriore di più di una megaspora. Tenendo anche conto delle conferme del Palm, rimane il fatto che le osservazioni del Winge urtano contro quelle dello Strasburger, le quali, benchè eseguite con metodi primitivi in confronto di quelli, molto più perfezionati, di oggidì, sanno ancora, dopo circa quarant'anni, di tale serupolosità ed esat- tezza da meritare tutta la nostra attenzione. Lo Strasburger dice che la mega- spora inferiore prende il sopravvento e schiaccia le altre, generando un game- tofito con tre antipodi rivestite di membrana e sovente binucleate, di cui la più interna è anche la più grande. Ponendo a confronto le figure dello Strasburger con quelle del Winge, la corrispondenza è perfetta, tranne che le cellule indi- cate come antipodi dall'uno sono le megaspore sterili dell'altro. Il Mottier ha studiato Senecio avureus, una specie molto diffusa nel- l'America settentrionale ; però, come egli stesso afferma, non si è occupato dei primi stadî di sviluppo, bensì a cominciare dal sacco embrionale quasi maturo; tuttavia egli concorda con lo Strasburger circa quanto ha attinenza con le antipodi. Le brevi indicazioni del Warming rispetto a Senecio vulgaris hanno per noi un valore molto limitato, non accennando se non alla divisione della cellula madre delle megaspore in cinque (?) cellule figlie, le più interne delle quali, a giudicare da quanto è riferito nel testo a pagina 249 e dalle figure 11 e 12 (tav. 12), costituirebbero la parte inferiore del sacco (!). Nè maggior — 1246 — valore hanno le indicazioni del Vesque, facendo egli derivare il sacco embrio- nale maturo dal concorso di tutte e quattro od anche talora cinque (?) « cel- lule madri speciali », di cui la superiore produrrebbe una sinergide ed un'oosfera, mentre le altre diverrebbero le « cellue anticline ». Curioso il fatto che anche il Vesque dice di non aver visto « vere antipodi ». Il materiale di Sezecio vulgaris è molto facile ad allestirsi ed a stu- diarsi, sicchè non ho durato fatica a procurarmi tutti gli stadî necessarî ed a stabilire la verità dei fatti. 8 La cellula madrisporigena, che occupa l’intera cavità della nucella, attra- versando gli stadî caratteristici della divisione riduzionale, si scinde prima in due, dopo in quattro cellule, le megaspore, sempre disposte in pila, e da principio ad un dipresso delle medesime dimensioni (fig. 1). Ben presto però la più interna incomincia ad ingrandire a detrimento delle altre (fig. 2), che man mano vengono schiacciate e ridotte, prima di essere completamente riassorbite, a tre masse informi (fig. 3). Fra i numerosi casi osservati di tetradi di megaspore, due sole eccezioni mi si sono offerte, una delle quali è riportata nella figura 4: come vedesi, le due megaspore inferiori sono pres- sochè schiacciate, ed accenna ad andare a male anche la terza, mentre la — 1247 — superiore, col suo aspetto perfettamente normale, mostra di voler continuare a svilupparsi (fig. 4). Epperò, sia nel caso generale in cui la megaspora fertile è l’inferiore, sìa nei casì eccezionali in cui sembra sia la superiore. quel che sempre si constata sì è che una sola megaspora persiste e non tutte e quattro come ammette il Winge. La megaspora fertile, continuando ad ingrandire, digerisce, oltre che le megaspore sterili, anche le cellule epidermiche della nucella (fig. 5), e in tal modo viene a contatto con lo strato più interno del tegumento. In questo stadio essa germina per produrre il gametofito femmineo; perciò divide il suo nucleo in due nuclei figli, i quali non si portano subito alle estremità della cellula, come succede generalmente, ma si trovano per un po di tempo più o meno avvicinati verso il centro (fig. 6). Questo stadio corrisponderebbe a quello illustrato dal Winge nella figura 4; però, mentre nella mia figura non si scorge più alcuna traccia delle altre megaspore, in quella del Winge, invece, al disotto dal sacco binucleato le altre tre megaspore persistono intatte. In seguito i due nuclei si slontanano, andando l’uno all'estremità micro- pilare, e l’altro rimanendo presso a poco a metà della lunghezza del sacco, mentre l'estremità inferiore è occupata da un grosso vacuolo (fig. 7). Ciascuno dei due nuclei, intanto che il sacco embrionale aumenta di dimensioni, torna a dividersi, sicchè se ne formano quattro, dei quali i due inferiori, come nello stadio precedente, rimangono separati dall'estremità del sacco per mezzo del grosso vacuolo che persiste tuttora (fig. 8). I quattro nuclei si dividono un'ultima volta; ed io ho avuto l'opportu- nità di sorprenderli proprio in una fase della loro divisione (fig. 9). Come con- seguenza sì ha la formazione di otto nuclei, due dei quali muovono verso il centro del sacco per fondersi e originare il nucleo secondario (77, fig. 10), mentre gli altri sei, dominando ciascuno una porzione di citoplasma, sì costi- tuiscono in sei cellule, ossia le due sinergidi s e l’oosfera o all'estremità micropilare, le tre antipodi @ all’estremità calazale. Di queste ultime, l' in- feriore è la più grande perchè include il primitivo vacuolo dell'estremità del sacco. La figura 10 rappresenta un gametofito che non ha ancora raggiunto il suo aspetto e le sue dimensioni definitive; esso infatti è capace di crescere ulteriormente e di assumere la forma indicata nelle figure 5-7 del Winge e 37-38 (tav. III) dello Strasburger. Le antipodi, appena costituite, posseggono un unico nucleo; ma possono in seguito, per divisione di questo, divenire binucleate; anzi, talvolta, alla divisione nucleare segue quella cellulare, ed allora il numero delle antipodi aumenta, divenendo di quattro ed anche di cinque, come ho constatato in qualche caso. — 1248 — Non ho mai scorto nei miei preparati, per quanto ne abbia fatto ricerca accurata, i tre corpicciuoli indicati dal Winge come le tre antipodi. Concludendo, da quanto ho riferito risulta che in Senecio vulgaris le cose procedono in modo perfettamente normale e che realmente il Winge ha interpretato per megaspore le antipodi del sacco maturo. Perciò l'ipotesi da lui formulata, di un accenno a polisporia in Sezecio, non ha alcun fonda- mento. Botanica. — Di alcune anomalie della Beta vulgaris. Nota del dott. E. CARANO, presentata dal Socio PIROTTA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Biologia. — Correlazioni e differenziazioni: ricerche sullo sviluppo degli Anfibit Anuri ('). Nota I di GiuLIo CoTRONEI, presentata dal Socio B. GRASSI. Introduzione. Formulazione dei quesiti. Il metodo. È dai primi tentativi di morfologia causale che è stato posto il pro- blema dei rapporti tra correlazioni e differenziazioni: e non è raro di trovare nella letteratura scientifica degli ultimi anni, come le ulteriori ricerche sperimentali dimostrarono, che le dipendenze prima affermate della differen- ziazione di un organo dallo stimolo esercitato da un altro organo non erano esatte. A questo proposito è assai istruttivo di ricordare il problema della dif- ferenziazione del cristallino. Posto sperimentalmente nel 1891 dall'italiano Colucci (*), il quale dimostrava che si può rigenerare una nuova lente da altre parti dell'occhio, la differenziazione del cristallino venne poi conside- rata nella sua vera essenza causale. Secondo lo Speman (*) (1901) e secondo l’Herbst (*), la lente cristal- lina si origina dall'ectoderma soltanto quando si verifica uno stimolo di contatto da parte della vescicola ottica. (!) Lavoro eseguito nell'Istituto d’anatomia comparata della R. Università di Roma. (2) Colucci V. I, Rigenerazione parziale nell'occhio dei tritoni, Memorie Accad. Bologna, serie 5%, vol. I, 1891. (3) Speman H., Veber Correlationen in der Entwickelung des Auges. Verhand. der Anat. Gesellsch., 1901. (4) Herbst C., Formalive Reize in der thiereschen Ontogenese. Leipiz, H. Georg., 1901. — 1249 — Pareva che il fatto messo in luce dallo Speman, ampliato e rafforzato dalle ricerche di Lewis (') (1904), dovesse essere per sempre accettato e considerato come fondamentale, quando, pochi anni dopo, gli esperimenti della King (*) (1905) dimostrarono che le osservazioni dello Speman non potevano considerarsi di valore generale; perchè essa aveva ottenuto lo sviluppo della lente indipendentemente da ogni contatto della vescicola ottica. Ancora prima della King, in un embrione mostruoso di Salmo salar, il Mencl (*) (1903) aveva descritto nella testa da un lato il cristallino di- viso da mesenchima dal cervello, mentre dall'altro lato la lente era in rap- porto con la parete del cervello, senza che vi fosse nessuna traccia di vescicole ottiche: veniva quindi a delinearsi il quesito dell'indipendenza di sviluppo del cristallino. In ulteriori lavori Speman (4) (1905), Le Cron (5) (1907), Lewis (9) (1907) ammisero ancora il concetto di correlazione. Speman affermava che era necesario il contatto durevole della vescicola ottica per la formazione delle fibre deNa lente. Le ricerche di Barfurth ("), del 1902, risentono evidentemente dell’in- fluenza teorica esercitata dal primo lavoro di Speman. Per quanto Barfurth trovasse fra i suoì reperti un cristallino in contatto soltanto con l’ectoderma e non con la vescicola ottica, egli tuttavia cercò di spiegare tale fatto am- mettendo che v'era stato un momento in cui la vescicola ottica, avvicina- tasi all’ectoderma, aveva prodotto la differenziazione del cristallino : in se- guito tale contatto era sparito, ed il reperto non era dunque in contrasto con la dottrina di Speman. Ma nel 1907 lo stesso Speman (*), operando su embrioni di Rana esculenta in modo da asportare l’area dell’abbozzo ottico, riuscì a trovare un reperto nel quale, pur mancando la vescicola ottica, esisteva un cristallino (') Lewis W. H., Experimental studies on the development of the eye in Am- phibia. I. On the origin of the lens. « Rana palustris », Am. Journ, anat., vol. III, 1904. (* King. H. D., Zrperimental studies on the eye of the frog. Arch. f. Entw. Mec., Bd. XIX, 1905. (3) Mencl E., Fin Fall von berderseitiger Augenlinsen ausbildung wihrend der Abwesenheit von Augenblasen. Arch. f. Entw. Mec., Bd. XVI, 1903. (4) Speman H., Veder Linsenbildung nach experimenteller Entferung der primiren Linsebildungsellen. Zool. Anz., Bd. XXXI, 1905. (5) Le Cron W. L., Zusperiments on the origin and differentiation of the lens in Amblystoma. Am. Journ. anat., vol. VI, 1907. (9) Lewis W. H., £rperimental studies on the development of the eye in Amphi- dia, III. Am. Journ. anat., vol. VI, 1907. (*) Barfurth D. und Dragendorff, Versuche ueder Regeneration des Auges und der Linse beim Hubner-embryo. Werh. d. Anat. Gesellsch., Halle 190%. (8) Speman H., Neue Tatsachen sum Linsen problem., Zool. Anz., Bd. XXXI, 1907. RenpICcONTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 160 — 1250 — con le fibre ben formate ; perciò Speman dovette concludere che nella Rana esculenta la formazione e la differenziazione del cristallino erano indipendenti dal contatto della vescicola ottica. Subito dopo, le ricerche dello Stockard (') sull'azione dei sali nello sviluppo dei pesci convalidavano, in modo che pare oramai definitivo, il con- cetto dell'indipendenza di sviluppo del cristallino. Tra i tanti casi ai quali avrei potuto accennare, io non senza ragione ho voluto scegliere quello dianzi riportato, perchè ci mostra, con un chiaro esempio, come i varii metodi di ricerca (esame di una mostruosità, aggres- sioni meccaniche, azioni dei sali) abbiano tutti servito alla analisi causale di un fatto morfologico. Non bisogna tuttavia credere che, perchè questo e infiniti altri casi (anche per opera di altri moderni mezzi di ricerca) hanno la- sciato scorgere tanti esempî di differenziazioni indipendenti, il problema delle armonie correlative di sviluppo, anche dal punto di vista morfologico, possa considerarsi come meno importante nella valutazione dei fatti che si presentano al biologo. Già il Roux aveva distinto lo sviluppo organogenetico dell'auto-dif- ferenziazione da quello successivo funzionale, nel quale predomina la corre- lazione. E Giardina (*), a tal proposito, fa notare come questo passaggio deve essere stabilito caso per caso con ricerche apposite. Si può anzi ritenere, senza tema che io esprima un concetto azzardato, che in molti casi non esista una distinzione assoluta. Ma è nello stesso caso del problema, o, meglio dei problemi inerenti alla differenziazione del cristallino, che io credo si possa valutare dal punto di vista morfologico l'importanza dei fattori correlativi. Da reperti brevemente riferiti da Stockard (*) (1910), e da reperti spe- rimentali molto istruttivi da me ottenuti, si rileva che bastano (secondo la mia interpretazione) modificate condizioni spaziali perchè l'occhio non di- venti armonicamente completo, con l'adattamento opportuno dei differenti abbozzi oculari. Nei reperti ora accennati si tratta, in ultima analisi, di vescicole oculari nelle quali non si riscontra il cristallino; ma la valutazione teorica del fatto, dopo i sopra riferiti risultati sull'indipendenza di sviluppo del cristallino, dev'essere considerata secondo un altro punto di vista. Il cristallino può (1) Stockard C. R., Z'he artificial production of a single median cyclopean eye in the fish embryo by means. of sea water solution of magnesium chloridr. Arch. f. Entw. Mec., Bd. XXIII, 1907. (Segue dello stesso autore tutta una serie di interessanti lavori). (3) Giardina A., / muscoli metamerici delle larve di anuri e la teoria segmentale di Loeb. Arch. f. Entw. Mec., Bd. XXIII, 1907. (8) Stockard C. R., Z'he indipendent origin and development of the crystalline lens. Amer. Journ. of. anat., vol. X, 1910. — 1251 — potenzialmente differenziarsi indipendentemente (auto-differenziazione): ma, se si verificano modificazioni spaziali nella regione cefalica, vengono a mo- dificarsi anche quelle condizioni per le quali è soltanto possibile l’armonica produzione dell'occhio con tutte le sne parti. Secondo i risultati sperimentali ottenuti dallo Stockard nei pesci, in casi nei quali la cupola ottica non raggiunge la parete del corpo, non si riscontra la produzione della lente, per quanto possa ottenersi la differenzia- zione degli strati retinici e di altre parti dell'occhio (1910, pag. 45). Anche io ho ottenuto casi (Bu/o vulgaris) nei quali i due occhi, per quanto distinti, si trovano migrati medialmente, e lontani dall'ectoderma : essi non si completano col cristallino. Se il cristallino è, per il suo sviluppo, indipendente, bisogna ritenere, nei casi ora ricordati, che intervengano altri fattori inibitori per cui l'occhio è disarmonico. A suo tempo illustrerò meglio questi interessanti casi. Quanto precede serve, in ultima analisi, alla formulazione di un primo quesito dell'argomento fondamentale che ci occupa e che è scaturito dal- l'esame storico e logico dei reperti che si ottengono nella sola regione del- l'occhio; ma tutta una serie di quesiti si presentano al biologo che in condi- zioni sperimentali studii la regione cefalica degli Anfibii. Fino a che punto lo sviluppo della regione boccale e nasale è correlato con tutto l'insieme cefalico? Di quale natura sono queste correlazioni? Perchè certe regioni risentono meno determinate azioni modificatrici? In tutti questi quesiti di studio bisognerà sempre tener presenti le proprietà potenziali dei varî organi studiati in relazione coi fattori correlativi. Vale assai poco l’asserire genericamente che esistono delle correlazioni. Le affermazioni di tal genere possono essere vane. Bisogna illustrare con opportune condizioni speri- mentali o comparative, con metodo analitico, tutta una serie di reperti che si possono realizzare: è dall'analisi delle graduali modificazioni della forma, fino ai casi di inibizioni di sviluppo, che si può sperare di contribuire a stu- diare i problemi di correlazione e di differenziazione. Lo studio da me compiuto si rivolge ancora e in relazione a quanto precede a ricercare le direzioni di accrescimento, e quindi le condizioni di sviluppo nelle quali determinati organi compiono la loro evoluzione: le di- rezioni di accrescimento, alle quali io in altre ricerche ho cercato di ricon- durre in gran parte le condizioni meccaniche delle masse organiche, sono naturalmente esse stesse il riflesso di altre condizioni; ma tuttavia rappre- sentano, quando sono studiate, il modo di illustrare tanti fenomeni il cui esame ci sfuggirebbe. Non si tratta dunque, come una critica superficiale potrebbe asserire, di volere aridamente spostare i problemi, ma bensì di metterli in una luce tale da trovare e da realizzare nuove cognizioni. — 1252 — Alle ricerche di morfologia causale eseguite con metodi di aggressioni meccaniche è stata spesso mossa l’obbiezione che il metodo poteva essere criticabile perchè riesce difficile in molti casi a esperimentare in maniera da aggredire soltanto i punti desiderati: così, ad es., si può intaccare l’ecto- derma soprastante, quando si vorrebbe estirpare soltanto la vescicola ottica (Stockard 1910, pag. 396). Usando altri metodi, cioè determinate sostanze in soluzioni, come sali di magnesio e di litio, molti anestetici ecc., è riu- scito allo Stockard di realizzare, nei pesci, importanti risultati nello studio soprattutto dei problemi inerenti allo sviluppo dell’occhio: ma già dai suoi numerosi lavori si scorge, per quanto egli non ne abbia fatto oggetto di ana- lisi, che altre modificazioni in concomitanza con quelle dell'occhio avvengono in altre parti della testa. Il Leplat (*) ha recentemente usato negli Anfibii anuri il cloruro di litio, ottenendo la produzione di occhi ciclopici, il cui studio ha formato l'oggetto diretto delle sue ricerche. Anche io, per le mie ricerche con indirizzo più vasto, ho utilizzato l’azione dei sali nello sviluppo degli Anfibii anuri. Certo, su tale azione esiste una letteratura molto estesa; ma non è il caso di ricor- dare tutti i lavori che riguardano problemi delle prime fasi di sviluppo, della gastrulazione, dell'influenza della pressione osmotica, dell’azione chimica ‘ dei vari ioni. Questi argomenti non formano oggetto dei miei studî: io, invece come ho dianzi accennato, mi son servito dell’azione dei sali come metodo sperimentale di ricerca morfologica. Le mie ricerche sono state compiute su due specie di Anuri: il Bu/o vulgaris e la Rana esculenta. I sali da me adoperati in soluzione sono stati: il cloruro di sodio, il cloruro di litio, il cloruro di potassio, il cloruro di magnesio, il solfato di litio. Il cloruro di litio, per le mie ricerche, si è mostrato il più energico. Anche il solfato dello stesso sale dà buoni risultati. Dopo molti tentativi, una sol volta il cloruro di sodio ha prodotto risultati notevoli per il mio scopo; tuttavia io credo che, ripetendo ancora gli esperimenti, modificando la concentrazione molecolare, da molti sali differenti sì potranno ottenere risultati della stessa natura. Per la titolazione delle soluzioni madri son lieto di ringraziare, per la gentile collaborazione, il prof. Plate e la dott.55° B. Divizia. Per il cloruro di litio la soluzione (da riferisi sempre a soluzioni mo- lecolari) più spesso adoperata era 10° Gli stadî, nei quali bisogna speri- (!) Leplat G., Localisation des premidres ébauches oculaires chea les vertébrés. pathogenie de la ceyclopie. Anat. Anz., Bd. 46, 1914. — 1258 — mentare per ottenere i resultati che saranno descritti nelle successive Note, vanno dai primi stadî di segmentazione alla riduzione del tappo vitellino. Il tempo d’esperimento varia in relazione con lo stadio e, quindi, con la velocità di sviluppo delle uova. Fisiologia. — Sul metabolismo degli aminoacidi nell’orga- nismo. Nota VIII. Azzone del tessuto epatico sugli aminoacidi aggiunti al liquido di Ringer circolante. Nota del dott. Ugo Lom- BROso e di CorraDO LUCHETTI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Nelle ricerche eseguite da uno di noi (') sull'azione di varî tessuti di fronte agli aminoacidi, fu dato di osservare che essa è assai differente a seconda che gli aminoacidi siano sciolti in sangue od in liquido di Ringer. Riusciva quindi interessante di completare le osservazioni fatte nella precedente Nota sull'azione del fegato di fronte agli aminoacidi sciolti nel sangue, con corrispondenti indagini di fronte ad amino-acidi sciolti in liquido di Ringer. Ciò appariva tanto più necessario, se si considera che alcune discordanze nelle ricerche di precedenti autori potevano appunto venir giustificate da questa differenza nella disposizione sperimentale. Così, ad esempio, van Slyche (?) sostiene che il fegato distrugge rapida- mente i varî aminoacidi che ad esso giungono col circolo sanguigno. Invece Buglia e Costantino (*), esperimentando con poltiglia di fegato e liquido di Ringer, affermano che gli aminoacidi esperimentati non si modificano. G. Bostok (*), nelle sue ricerche su varî aminoacidi ed estratti di fegato, giunse alla conclusione che alcuni di essi erano disamidati e profondamente, altri meno. Buona parte delle presenti ricerche furono eseguite su cani digiunanti da più giorni (avendo interesse a seguire il comportamento del glicogeno): altre, invece, su cani alimentati. Il che è probabilmente la causa delle variazioni grandi constatate nel contenuto iniziale di aminoacidi e di NH3 nel fegato. Le presenti ricerche furono eseguite con la stessa tecnica usata nelle precedenti per la determinazione degli aminoacidi, NH; , corpi acetonici. Non sempre però questi ultimi vennero dosati; e così pure venne abbandonata l'indagine dell’urea nel liquido circolante, dopo che le prime determinazioni ci dimostrarono che l’azoto liberato dall’ipobromito era, nella quasi totalità, ammoniacale. (') Lombroso, Rend. Reale Acc. Lincei, vol. XXIV, pag. 57, 149. (?) Journ. of biol. chem. vol. XVI, pag. 187. (*) Zentralbl. Physiol. vol. XXVI, pag. 1178, 1913. (4) Biochem. Journ. vol. VI, pag. 48, 1912. — 1254 — JE Cane maschio, kg. 4. — Fegato posto a circolare gr. 110. Dopo circolazione gr. 185. a-alanina gr. 3 in 500 ce. soluzione di Ringer. Durata 50 minuti. Velocità 30-50 cm.? al minuto. Pressione 30-40 mm. Hg. Campione fegato gr. 32. Campione soluzione cc. 65. = Aminoacidi \} orima = È 2 ce. Na On io © s TR5. PE : RG pa opa: = zigiy 9 NH: per 485 ce.: dopo = 13,5 ce. H,S04'/50 Si RI \ DEIA = 22 cc. Na 0H!/% NH, per tutto \ prima = 19,6 cc. HsS0, !/s0 # È hi j pa opo = 56 » » l'organo ì dopo = 68,6 » » organo Urea ed acetone non vengono determinati. Complessivamente sono scomparsi dal liquido circolante aminoacidi per cc. 55,4 Na OH !/10 2. Aumentano nel fegato per 34 cc. Na OH ‘/10 x. Aumento complessivo dell’ NH, = 62,5 cc. Ha S04!/;0 2. II Cane femmina, kg. 4,500. Fegato posto a circolare gr. 60. Dopo circolazione 81. a-alanina gr. 3 in 500 ce. soluzione Ringer. Durata 2 ore. Velocità 40-50 cc. al minuto. Pressione 40-50 mm. Hg. Campione fegato gr. 24. Campione soluzione cc. 60. E SAREI i I wi A 0 né SR pra “NH; per 440 ce.: dopo =9 ce. Ha $04'/so n = Sai \ prima = 14 cc. Na 0H!/,wn NH; per tutto | prima = 30,4 cc. H, SL SITO E È ‘dopo = 388,8» ” l'organo {dopo =40,5 » l’organo ; ra 1 Acetone per tutto l’organo a sE Ho Ea i sf Acetone per il liquido: dopo = 5,4 » ” Non viene determinata l’urea. Complessivamente sono scomparsi dal liquido circolante aminoacidi per 47,8 cc. Na 0H '/1nn. Deficit assoluto per 28 ce. Na 0H!/,0n. Aumento complessivo deli’ NH, = n 19,1 ce. H, SO, 1/50 De II. Cane maschio, kg. 4,100. Fegato posto a circolare gr. 135. Dopo circolazione 190 gr. Asparagina gr. 8 neutralizzata con 20 cc. Na OH '/10 in 500 ec. soluzione Ringer. Durata 1 ora. Velocità 50-60 cc. al minuto. Pressione 40-50 mm. Hg. Campione fegato gr. 382. Campione soluzione ce. 60. © . “3° ( . T E dt ra =ig: 2 c Na Hi "lio n NH; per 440 ce. : dopo =44 ce. Hs S04'/50 7 S AMIBORc i \ prima = 80. ce. Na OR lion NH; per tutto \ prima = 88 ce. H, So, 1/50 5 o { dopo = 70,3 » l'organo (dopo =4l1l » (prima= 155 cce.1'/10% Acetone per tutto l’organo dopo = 29,8 » A Acetone per il liquido: dopo = 10,1. ce. I'/10% Complessivamente sono scomparsi dal liquido circolante aminoacidi per 56,8 cc. Na 0H'/,ox. Aumentano nel fegato per 40,3 cc. Na 0H!/10 n. Deficit assoluto per 16,3 ce. Na OH '/1n x. Aumento complessivo dell’ NH, = 47 cc. Ha S04'/s0 n. — 1255 — IV. Cane maschio, kg. 20. Fegato posto a circolare gr. 380. Dopo circolazione gr. 450. Asparagina gr. 6 neutralizzata con 30 ce. Na OH !/19w, in 800 ce. soluzione Ringer. Du- rata 1 ora. Velocità 50 ce. al minuto. Pressione 30-4 mm. Hg. Campione fegato gr. 120. Campione soluzione 100 cc. ® Aminoacidi \ prima = 8,2 cc. Na 0H !/10% in 15 cc. | dopo = 5,9 » ” Liquido si ia \prima = 96 cc. Na0H'/\n NH; per tutto (prima = —i100}S:cc. Ha Dogo n S l'organo {dopo =108,9 » ” l'organo (dopo =150 » , SON $ prima = 84,2 cc. 1!/10% Acetone per tutto l'organo e C Acetone per il liquido: dopo = 4,1 » ” Complessivamente sono scomparsi dal liquido circolante aminoacidi per 166,9 cc. Na 0H'!/10%. Aumentano nel fegato per 12,9 ce. Na 0H!/10n. Deficit assoluto per 154 cc: Na OH 1/10. V. Cane femmina kg. 6. Fegato posto a circolare gr. 175. Dopo circolazione gr. 220. Leucina gr. 2,5 in 350 cc. soluzione Ringer. Durata 30 minuti. Velocità 15-20 cc. al minuto. Pressione 50-70 mm. Hg. Campione fegato gr. 45. Campione soluzione 50 cc. E Aminoacidi {prima — poco. Na OH Vo, per 900 c,; dopo = 50 ce. H, 80/1 Si TIT \ prima = 52,2 cc. Na0H'/102NH3 per tutto | prima= 63,8 cc. H, SO, 1/50 7 S sno | dopo = 81,7 » l'organo {dopo =87,6 » ” Daan ( prima = 54,2 ce. 1!/10% Acetone per tutto l’organo REST È Acetone per il liquido: dopo = 5,1 » D Complessivamente sono scomparsi dal liquido circolante aminoacidi per 13,8 cc. Na OH '/ion. Aumentano nel fegato per 29,5 ce. Na OH '‘/107. Rimane quindi un eccesso per 15,7 cc. Na 0H!/107. Aumento complessivo dell' NH, = 88,8 ce. Ha SO, !/50 n. VI. Cane maschio, kg. 10. Fegato posto a circolare gr. 150. Dopo circolazione gr. 215. Glicocolla gr. 2 in 500 ce. soluzione Ringer. Durata 1 ora. Velocità 30-40 ce. al minuto. Pressione 40-50 mm. Hg. Campione fegato gr. 45. Campione soluzione cc. 50. E ia i son = i Da SL Lio, NH; per 450 cc. : dopo = 7,7 ce. H2S01 1/50 2 S pa \ prima = 91,5 cc. Na0H'/10n NH; per tutto | prima = 45 ce. Ha SO !/s0 5 l'organo | dopo = 122,5 » ” l'organo {dopo =46 » ” Complessivamente sono scomparsi dal liquido circolante aminoacidi per 79,1 cc. Na 0H!/1w n. Aumentano nel fegato per 31 cc. Na 0H !/10n. Deficit assoluto per 48,1 cc. Na 0H ‘/10n. Aumento complessivo dell’ NH; = 8,7 cc, Hs SO, 1/50 2. — 1256 — VII. Cane maschio, kg. 5. Fegato posto a circolare gr. 135. Dopo circolazione gr. 185. Asparagina gr. 3 neutralizzata con 14 ce. Na 0H!/;ow, in 500 cc. soluzione Ringer. Durata 1 ora. Velocità 30-40 cc. al minuto. Pressione 30-50 mm. Hg. Campione fegato gr. 45. Campione soluzione cc. 50. = Aminoacidi ima= 5 SCARED n E in a 1 TRE ia È Io NH,; per 450 ce.: dopo = 197 ce. H,S0,!/50 # S II \ prima = 28,6 ce. Na 0H '/s1nn NH; per tutto | prima = 95 cc. H,80,!/s0 # È ui | dopo = 43,7 » ” l’organo { dopo =187 » » Complessivamente sono scomparsi dal liquido circolante aminoacidi per 44,3 cc. Na0H!/,0 n. Aumentano nel fegato per 15,1 cc. Na 0H '/1on. Deficit assoluto per 29,2 cc. Na 0H '/in n. Aumento complessivo dell’ NH; = 199 ce. H,S0, 1/50 2. pVIIL Cane maschio, kg. 5,500. Fegato posto a circolare gr. 165. Dopo circolazione gr. 220. Soluzione Ringer cc. 500. Durata 1 ora. Velocità 50-60 cc . al minuto. Pressione 20-30 mm. Hg. a )aopo = 14,5 cc. Na 0H'/;y2 NH; per 500 cc.: dopo = 5 ce. H,SO, !/s03 E Reina \ prima = = 19.8 cc. Na i !/;jm NH; per tutto ( prima = 36,8 cc. HsS0,!/50% 5 Torgnio ) dopo = 10,4.» l'organo {dopo =22,0 » ” j ni 1 Acetone per tutto l’organo ia) SE 5) i Acetone per il liquido: dopo = 22,5 » ” Complessivamente sono scomparsi dal fegato aminoacidi per 9.4cc. Na 0H!/10 x. Aumenta nel liquido per 14,5 cc. Na 0H!/109 7. Aumento assoluto per 5,1 cc. Na OH !/10 #.. Diminuzione dell’ NHs nel fegato = 14,3. Aumento dell’ NH; nel liquido = 25 cc. HsS0, !/son. Aumento assoluto dell’ NH, = 10,7 cc. H,$0,!/50 7. IX. Cane maschio, kg. 5,200. Fegato posto a circolare gr. 115. Dopo circolazione gr. 170. Glucosio gr. 2 in 500 cc. soluzione di Ringer. Durata 1/4 ora. Velocità 40 ce. al minuto. Pressione 20-40 mm. Hg. Campione fegato gr. 40. Campione soluzione ce. 50. E Aminoacidi dopo = 16,1 cc. Na 0H!/jyn NH; per 450 ce.: dopo =37,4 cc. H,S0 1/50 Ei a liosoii prima = 15,0 cc. NaOH 1/10 # NH, per tutto ( prima = 28 cc. HsS0, '/50% È Fa | dopo = 27,6 » ” l’organo {dopo =41 » ” 3 rima = 25,3 cc. 1"/10% Acetone per tutto l’organo SR Bigi Do Acetone per il liquido: dopo = 3,1 » ” Complessivamente sono aumentati nel liquido e nel fegato aminoacidi per 27,8 cc. Na 0H!/10n. Aumento totale dell’ NH, = 41,4 cc. H250, 1/50 n. — 1257 — Dalle riferite esperienze emerge che : I. Facendo circolare nel fegato isolato di cane varî aminoacidi sciolti in liquido di Ringer. si avverte una loro diminuzione nel liquido circolante, in misura assai differente a seconda dell’aminoacido usato. Essa è massima nelle esperienze con asparagina; minima in quella con leucina; media con glicocolla ed alanina. Nel caso della leucina l'aumento nel contenuto in aminoacidi del tessuto è superiore a quanto bastava per giustificare la lieve scomparsa di leucina; nel caso, invece, dell’asparagina, l’aumento di amino- acidi nel tessuto è minimo: così chè risulta sempre più manifesta la diffe- rente attività del fegato di fronte ai varî aminoacidi. II. In tutte queste ricerche la quantità di NH; rinvenuta nel liquido circolante e nel tessuto dopo la circolazione fu assai elevata; tale da giusti- ficare in gran parte, se non completamente, il deficét di aminoacidi. Sotto questo punto di vista il risultato ottenuto nelle esperienze con sangue, si differenzia notevolmente da quello ottenuto con liquido di Ringer: infatti, nelle prime ricerche, l'aumento di NH; , pure essendo rilevante, non era così cospicuo, anche quando il defici! assoluto di aminoacidi, essendo superiore, poteva farci attendere una assai maggiore produzione di ammoniaca. Inoltre esso si differenzia dal risultato ottenuto nelle esperienze su altri organi, nelle quali per lo più il contenuto di NH; nel tessuto dopo la circolazione era in diminuzione e non in aumento. III. Facendo circolare nel fegato isolato di cane soluzione di Ringer senza aminoacidi, una certa quantità di aminoacidi viene dal tessuto versata nel liquido circolante. In una esperienza diminuì nel contempo la quantità di aminoacidi nel tessuto; nell'altra (nella quale al liquido circolante si era aggiunto glucosio) si ottenne pure un aumento notevolissimo degli amino- acidi nel tessuto. IV. In tutte le esperienze eseguite, sia in quelle con aminoacidi 0 senza, sia in quelle col fegato di animali da lungo tempo digiunanti od ali- mentati, sempre si osservò che il contenuto in sostanze cetogene (assai vario a seconda delle condizioni sperimentali) del tessuto epatico, diminuisce pro- fondamente. Tale diminuzione non può giustificarsi semplicemente col river- sarsi dei corpi cetogeni nel liquido circolante, dato chè in questo se ne ritro- vano sempre piccole quantità. Emerge quindi la capacità del tessuto epatico di consumare detti corpi anche quando non coopera l’azione ossidante del sangue. Dal complesso delle presenti ricerche si rileva che il tessuto epatico è capace di distruggere, ed in notevole quantità, aminoacidi sciolti nel liquido di Ringer circolante: a differenza di quanto avviene per gli altri tessuti (muscolo-intestino) nei quali o non si distruggono affatto o soltanto in misura assai lieve, molto minore che non nelle corrispondenti esperienze con amino- RanpicontI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 161 — 1258 — acidi sciolti nel sangue. Mentre poi nelle esperienze con circolazione sanguigna nel fegato prevalgono, a carico degli aminoacidi aggiunti, i fenomeni sintetici, nelle esperienze con liquido di Ringer invece, prevalgono i fenomeni disinte- grativi con produzione di NH;. CORRISPONDENZA Il Presidente BLASERNA presenta un piego suggellato inviato dall'ing. SaBINO CILENTI, perchè sia conservato negli archivi accademici. — 1259 — OPERE PERVENUTE IN DONO ALL’ACCADEMIA presentate nella seduta del 20 giugno 1915. Annuario dell’ Istituto di storia del diritto romano, voll. XIII-XIV. Catania, 1914- 1915. 8°. AsuBy Tu. — Le diverse edizioni dei « Ve- stigi dell’antichità di Roma » di Ste- fano Du Pérac ». (Estr. dalla « Biblio- filia », vol. XVI). Firenze, 1915. 8°. BLancHI A. — Su un possibile nuovo mezzo di estinzione degli incendi. (Estr. dal « Politecnico », 1914). Milano, 1914. 8°. Commissione reale per il personale delle ferrovie dello Stato. Relazione del pre- sidente a S. E. il Ministro dei LL. PP. sui lavori della Commissione (dicembre 1914; con appendice, gennaio 1915). Roma, 1915. 8°. Commissione reale per il personale delle ferrovie dello Stato : seconda Relazione del presidente a S. E. il ministro dei LL. PP. sui lavori della Commissione (aprile 1915). Roma, 1915. 8°. D’Ovipio F. — Benvenuto da Imola e la leggenda virgiliana. (Estr. dagli « Atti della R. Accad. di arch., lett. e belle arti », vol. IV). Napoli, 1915. 8°. D'Ovipio F. — L'origine della presente guerra (discorso), Roma, 1915. 8°. FrEGNI G. — Della legge X delle dodici tavole De iure sacro. Modena, 1915. 8°, FrEGNI G. — Su la razza slava e su le terre irredente. Modena, 1915. 8°. Loncàs P. — Vida religiosa de los Mo- riscos. Madrid, 1915. 8°. MaRtTI P. — Pagine di propaganda civile. Lecce, 1915. 8°. Mazzini U. — L'anfiteatro romano di Luni illustrato e descritto. (Estr. dalle « Me- morie della R. Accad. delle scienze di Torino », ser. II, vol. LXV). Torino, 1015208 MERLANI A.— In memoria di Cesare Arzelà. Bologna, 1915. 8°. Notiziario archeologico: anno I, fasc. 1°-2°. Roma, 1915. 8°, Papers of the british School at Rome; vol. VIII. London, 1914. 8°, — 1261 — INDICE DEL VOLUME XXIV, SERIE 5°. — RENDICONTI 1915 — 1° SEMESTRE. INDICE PER AUTORI A AGAMENNONE. « Il recente terremoto nella Marsica e gli strumenti sismici ». 240. — « Velocità di propagazione del terre- moto marsicano del 13 gennaio 1915 ». 429. ALBonico. V. Poma. ALESSANDRI. « Nuove ricerche intorno al- l’azione dei nitroso-derivati sui com- posti non saturi ». 62. AMANTEA. « Sul rapporto fra centri corti- cali del giro sigmoideo e sensibilità cutanea nel cane ». 268, — « Ricerche sulla secrezione spermatica. Nota IV : Influenza del riposo sulla se- crezione spermatica del cane ». 483; 985. — « Ricerche sulla secrezione spermatica. Nota VII: Considerazioni generali sul decorso normale della secrezione sper- matica nel cane e nell'uomo. — Nota VIII: Alcune osservazioni su cani ca- strati e su cani sottoposti a escissione parziale dei deferenti ». 1001, — e RinaLpInI. « Ricerche sulla secrezione spermatica. Nota V: Osservazioni sulla secrezione spermatica dell’uomo». 483. — — «Ricerche ecc. Nota VI: Osservazioni sulla secrezione spermatica dell’uomo ». 1001. AmERIO. « Determinazione indiretta dello spettro solare ». 1055; 1213. ANASTASIA, « Nuove ricerche intorno alla fi- logenesi della N. Tabacum, L.». 1146. AnGELI. « Sopra le scissioni di alcuni com- posti dell'azoto ». 1093. — « Ossidazione di azochetoni e di azoni- trili ». 1185. — « Sopra l’ossidazione del dimetilammi- noazobenzolo ». 1190. ARMELLINI. « Estensione della soluzione del Sundman dal caso di corpi ideali, alcaso di sferette elastiche omogenee ». 184. — « Ricerche sopra le perturbazioni del satellite di Nettuno ». 569. ArtINI. « Due minerali di Baveno conte- nenti terre rare: weibyeite e bazzite ». 313. — « Sulla presenza della monazite nelle sabbie e nelle arenarie della Somalia meridionale ». 555. Artom A. « Nuove ricerche sulla dirigi- bilità delle onde elettriche n. 42. Artom ©. « Azione dell'intestino sugli aminoacidi. Azione del rene sugli ami- noacidi ». 68; 468. — « Sul metabolismo degli aminoacidi nel- l’organismo. Nota III: Azione del rene sugli aminoacidi aggiunti al sangue od al liquido di Ringer circolante ». 468, — V. Lombroso. Auwers. Annuncio della sua morte. 277; sua Commemorazione, 785. — 1262 — Azzi. « Sul valore dei composti di amino- acidi con formaldeide per il ricambio azotato degli animali ». 1125. B BageLIONI. « Ricerche sugli effetti dell’ali- mentazione maidica. Valore nutritivo delle farine di grano, di mais e del- l’uovo nei ratti albini ». 1001; 1158. BaLBIANO. « Sull’impiego della soluzione acquosa di acetato mercurico nell’a- nalisi della parte terpenica delle es- senze n. 165. BARBIERI. « Sui composti di vanadiurea ». 435. — « L’acido cromisalicilico e i suoi deri- vati ammoniacali ». 605. — «Sui complessi dell'acido vanadico con l’acido citrico ». 724. — « Nuovericerche sulle metalli-uree ».916. BargaGLI-PETRUCCI. « Una ipotesi biolo- gica sulla deposizione dello zolfo du- rante l’epoca gessoso-solfifera ». 250; 631; 761. BasrLe. « Ricerche sperimentali su Lam- blia intestinalis ». 1164. — « Ulteriori ricerche sulla Leishmaniosi interna del Mediterraneo », 1001;1074. BecaRELLI. V. Marino. BrancHI L. « Sopra una proprietà caratte- ristica delle congruenze rettilinee di rotolamento ». 3. — « Sulle superficie isoterme come super- ficie di rotolamento ». 303. — « Sulle superficie a rappresentazione iso- terma delle linee di curvatura come inviluppi di rotolamento ». 367. — « Sopra una classe di sistemi tripli di superficie ortogonali ». 1020. BiancHI E. « La latitudine di Roma negli anni 1912-13 el’ipotesi dell’ Hirajama». 1115. — « Sui valori del termine < nel problema della variazione delle latitudini». 1120; 1206. BrAaNcHINI. « Sopra un’operazione funzio- nale atta a trasformare in simmetrici i potenziali logaritmici ». 1041; 1108. BLASERNA (Presidente). Presenta l’Annua- rio accademico pel 1915. 79. BLASERNA (Presidente). Fa omaggio di una pubblicazione del prof, Caldarera e ne parla. 504. — Dà annuncio della morte dei Socî: Ven- turi. 79; Auwers e Murray. 277; Striver. 505; Fergola. 784. — Presenta un piego suggellato inviato dall'ing. S. Cilenti, perchè sia con- servato negli archivî accademici. 1258. — VoLTERRA (relatore) e Vacca. Relazione sulla Memoria del prof. MNicita, inti- tolata: « Il metodo aritmetico nel caso irriducibile dell’ equazione di terzo grado ». 784. i BompianI. « Risoluzione geometrica del problema di Moutard sulla costruzione delle equazioni di Laplace ad integrale esplicito ». 190. — « Problemi nuovi di geometria metrico- differenziale ». 1193. Borzi e CarALANO. « La dottrina dei moti delle sensitive. Note anatomo-fisiolo- giche ». 1034. BorTAsso. « Sistemi astatici equivalenti a due forze astatiche irriducibili n. 34; 197. Bortazzi. « Nuove ricerche sui muscoli striati e lisci di animali omeotermi. Nota III, p. 28: La fatica studiata nel preparato frenico-diaframmatico ». 27. — «Nuove ricerche ecc. Nota V: Le con- trazioni del preparato diaframmatico provocate da stimoli unici». 172. — « Nuove ricerche ecc. Nota VI: Il feno- meno dell’addizione di due contrazioni successive indagato nel preparato dia- frammatico.». 404; 559. BrescranI. V. /Vasini. BrIiosi e FARNETI. « Il mal dell'inchiostro nelle giovani pianticelle dei castagneti e dei semenzai ». 98. Brunacci. «Sull’adattamento degli anfibî al- l’ambiente liquido esterno, mediante la regolazione della pressione osmotica dei loro liquidi interni. Nota IV: Il tempo entro il quale avviene la regolazione osmotica ». 272. — «Sull’adattamento ecc. Nota VII: Im- portanza della vescica urinaria. Nota VIII: I fenomeni dell'adattamento nelle rane escul. ibernanti ». 277. — 1263 — Brunacct. « Sull’adattamento ecc. Nota VI: Importanza dei sacchi linfatici ». 992. BruNETTI. « Il fenomeno di Stark - Lo Surdo nell’elio ». 719; 1212. BuraLI-FortI. «Inumeri reali definiti come operatori per le grandezze ». 330; 489. C CaLzoLARI. « Contributo alla conoscenza dei tetrationati ». 921. — e Tagtiavini. « Sugli alogenomercu- rati ». 925. Cami. « Sul potere elettromotore delle amalgame di calcio ». 817. — «Sul potere elettromotore delle amal- game di magnesio n. 746; 952. — e Speroni. « Sulle amalgame di ma- gnesio ». 734. CampBELL. « Sulla biologia fiorale del pesco ». 68. — « Salla biologia fiorale del mandorlo ». 163; 256. Carano. « Contribuzione all’embriologia delle Euphorbiaceae ». 449. — «Sull’embriologia di Senecio vulgaris L.». 1244, — « Di alcune anomalie della Beta vul- garis». 1248. CARDANI. « Emissione ed assorbimento del gas residuo nei tubi del Rontgen, ed emissione dei raggi X ». 22; 105. — «Sul processo per rendere stabile il funzionamento dei tubi Roòntgen me- diante l’assorbimento dell’anidride car- bonica ». 898. Carposo. « Determinazione sperimentale delle costanti critiche dell’azoto, del- l’ossido di carbonio, dell’ossigeno e del metano ». 1056. — « Densità delle fasi coesistenti del me- tano e dell’ossido di carbonio ». 1133. CataLano. V. Borzì. Cecconi. « Sopra un sistema di equazioni algebriche ». 119. CHiaRAVIGLIO e CorBIno. « Il sistema ‘ ni- troglicerina - cotone nitrato *. Conden- sazione dci vapori di nitroglicerina sul cotone nitrato in un ambiente vuoto a temperatura uniforme ». 247. — — « Il sistema nitroglicerina - cotone nitrato. Estrazione della nitroglicerina dalla balistite per distillazione nel vuoto a temperatura costante ordina- ria ». 361. Cuisini. « Sulle superficie di Riemann multiple, prive di punti di dirama- zione ». 153. Cramician e SiLBER. « Azioni chimiche della luce ». 17; 90; 96. CicconarpI. « Sulla formazione di acido ippurico dal composto di glicocolla con formaldeide ». 1130, CisortI. « Nuovi tipi di onde periodiche permanenti e rotazionali ». 42; 129. CLEMENTI. « Introduzione del nucleo gua- nidinico nella molecola dei polipeptidi, e sua importanza fisiologica ». 55. — « Sulla possibilità di titolare al formolo l'azoto aminico monosostituito n. 277; 352. — « Ricerche suli’arginasi: intorno all’a- zione dell’arginasi sulla creatina ». 483. — « Contributo allo studio dell’azione dei fermenti proteolitici sui polipeptidi ». 489; 972. —- « Microtitolazione alla formaldeide per la determinazione quantitativa degli aminoacidi e le sue applicazioni in fisiologia. Nota I: Generalità sulla microtitolazione alla formaldeide, e sua prima applicazione nello studio dei fermenti peptidolitici ». 1172, CoLomBa. « Sopra una reazione del dia- mante ». 1137. CoLoNNETTI. « Su di una reciprocità tra deformazioni e distorsioni ». 404. — «Sulle distorsioni dei sistemi elastici piani più volte connessi », 575. Comucet. « Studio mineralogico della le- pidolite elbana ». 1068. — « Sopra la petalite elbana ». 1141. ContarpI. V. Aoerner. CorsIno. « Il movimento della elettricità in una lamina metallica sottoposta all’azione di un campo magnetico n. 213. — « Sull’irraggiamento del corpo nero: osservazione alla Nota di C. Poli ». 708. — e TraBAccHI. « Un indotto per correnti continue senza collettore nè contatti — 1264 — striscianti, fondato sulle azioni elettro- magnetiche di seconda specie ». 418. CorBIno e TRABACCHI. « Un generatore in- vertibile per correnti continue, senza collettore nè contatti striscianti ». 588. — — «Sulla resistenza elettrica di una lamina in un campo magnetico ». 806. — — « Persistenza delle correnti fotoelet- triche nelle cellule di Elster e Geitel dopo la soppressione della luce ecci- tatrice ». 908; 1173. — V. Chiaraviglio. CoTtRONEI. « Correlazione e differenziazione. Ricerche sullo sviluppo degli Anfibi Anuri ». 1163; 1248. D D’AGOostINO e QUAGLIARIELLO. « Sullo stato dell'acido carbonico nel sangue. Nota II: Mobilità dell’ione HCO; alla tem- peratura 18° C. ». 468; 638. — — « Sullo stato dell’acido carbonico nel sangue. Nota IV: Sulla dissocia- zione elettrolitica del bicarbonato di sodio ». 858. — V. Quagliariello. DANIELE. « Formole di derivazione funzio- nale ». 204; 319; 496. Dr Fazi. « Sopra alcuni derivati dell'acido B-trifenil-lattico ». 439. — « Azione della luce su benzofenone ed acido butirrico n. 942. — « Prodotti di disidratazione dell’acido B-difenil-lattico ». 729. De Fiippi. « Quarta relazione della spe- dizione scientifica nel Karakoram orien- tale». 47; 134. DE STEFANI. « Ambiente geologico del ter- remoto della Marsica (13 genn. 1915) ». 891. Dini. Presenta il 2° volume delle Opere di Luigi Cremona, e ne parla. 784. Drago. « Sull’attrito interno del nickel in campo magnetico variabile ». 1055. |; F FARNETI. V. Briosi. FergoLA. Annuncio della sua morte. 784. ForestI. V. Padoa. FreDpA. «Il teorema di Eulero per le fun- zioni di linea omogenee », 806; 1085. FuginI. « Sulla definizione di arco di una curva e dell’integrale di Weierstrass, che si presenta nel calcolo delle varia- zioni ». 42; 127. — «Sulla derivazione per serie ». 204. — «Ilteorema del valor medio ». 588; 691. FuLci. « Sui trapianti del timo ». 995. G GIULIETTI. « Azione delle onde hertziane su di un dielettrico sottoposto all’in- fluenza di un campo elettrico rotante ». CBR Gora. «Sulla presenza, nelle piante, di com- posti ematoidi di ferro ». 1239. GraBLOvITZ. «Sul terremoto del 13 gen- naio 1915». 597. Grassi B. (Segretario). Offre, a nome del Socio Briosi, alcuni volumi degli Atti dell’Istituto botanico della R. Univer- sità di Pavia. 504; 784. — «Etiologia del gozzo ». 1098. Grassi G. « Osservazioni a proposito della Nota del professore G. Guglielmo, dal titolo ‘Sull’esperienza di Clément e Desormes e sulla determinazione del- l’equivalente meccanico della caloria*». 676. GrazIaNI. « Anidridi e amine da acidi a-amidati n. 822; 986. Grill. « Ricerche mineralogiche e petro- grafiche sulla valle del Chisone (Alpi Cozie): sopra un'interessante varietà di gneiss di Prali». 251. — «Contributo alla mineralogia sarda: sopra alcuni interessanti cristalli d’ar- gentite e di quarzo ». 855. — «Contributo alla mineralogia sarda. Sopra alcuni interessanti cristalli di baritina ». 961. K KorNER e ConTARDI. « Il quinto trinitro- toluene, (8), e prodotti dinitro-alogeno- sostituiti corrispondenti ». 888. — 1265 — L La Face. « Alcune osservazioni morfolo- giche e biologiche sull’Aclerda Ber- lesei Buffa». 768. La Rosa. « Arco e scintilla. (Rilievi sopra una Nota del prof. A. Occhialini)». 234. - Levi-Crvita. «Una proprietà di simmetria delle traiettorie dinamiche spiccate da due punti ». 666. LomBroso. « Sul metabolismo degli amino- acidi nell'organismo. Nota I: Azione del tessuto muscolare sugli aminoacidi aggiunti al sangue circolante ». 57. — «Sul metabolismo ecc. Nota II: Azione del tessuto muscolare sugli aminoacidi aggiunti al liquido di Ringer circo- lante ». 148. — « Sul metabolismo ecc. Nota IV : Azione dell’intestino sugli aminoacidi aggiunti al sangue o al liquido di Ringer cir- colante ». 475. — e ARTOM. « Sul metabolismo degli amino- acidi nell'organismo. Nota VI: Sul destino degli aminoacidi contenuti nel lume o nella mucosa dell’intestino ». 483; 863. — — «Sul metabolismo ecc. Nota VII: Azione del fegato sugli aminoacidi aggiunti al sangue circolante ». 1001; 1166. — e LucHETTI. «Sul metabolismo degli aminoacidi nell'organismo. Nota VIII : Azione del tessuto epatico sugli amino- acidi aggiunti al liquido di Ringer circolante ». 1001; 1253. — e ParernI. «Sul metabolismo degli aminoacidi nell’organismo. Nota V: Azione del tessuto muscolare funzio- nante sugli aminoacidi aggiunti al sangue circolante n. 483; 870. Loria. Commemorazione del Socio 7'ardy. 505. LucHetTI. V. Lombroso. M MAMELI « Il magnesio nelle piante albicate e clorotiche n. 262. MameLI, « Influenza del fosforo e del ma- gnesio sulla formazione della cloro- filla». 755. — e PoLtacci. « Ancora sull’assimilazione diretta dell’azoto atmosferico libero. nei vegetali n. 966. MaRcacci. Annuncio della sua morte. 277. MarIno. « Nuove ricerche sulle combina- zioni inferiori di alcuni elementi ». 1134. — e BECARELLI. « Ricerche sulle combi- nazioni subalogenate di alcuni ele- menti. Nota III: Sul cosiddetto sot- tocloruro di bismuto ». 246. MARTINELLI. « La frequenza nelle repliche del terremoto italiano (13 gennaio 1915) ». 1218. MazzuccHELLI. « Influenza delle basi orga- niche sul potenziale dell’elettrodo a idrogeno ». 139. MecaccI. V. Svorgi. MezzapROLI. V. Munerati. MitLosevicH E. (Segretario). Presenta le pubblicazioni giunte in dono, segna- lando quelle dei Socî: Bassani. 1008; Berlese, Canavari. 284; Di Stefano, Goebel. 79; Lustig. 784; Pascal. 79, 784; Silvestri. 79,784; Taramelli. 79, 284, 784, 1181; — e dei signori: Bé- quinot. 784; D'Achiardi. 1008; De Angelis d’Ossat. 79; 1181; Favaro. 1008; ZHayata. 504; P. Lais. 1008; Lovisato. 284, 504; Meli. 504; Pinto. 1008; Stieltjes. 284; — della Specola. vaticana. 784; Villani. 79. — Comunica l’elenco dei concorrenti al premio Reale per l’Astronomia e al premio Carpi, scaduti il 81 dicembre 1914. 80; — id. pel concorso ai premi del Ministero della pubblica istruzione, del 1914, perle Scienze fisiche e chi- miche. 284. — Dà lettura dei telegrammi d’augurio scambiati tra l'Accademia delle scienze dell'Istituto di Francia e la R. Acca- demia dei Lincei. — Deliberazione dell’Accademia per l’invio di tele- grammi a S, M. il Re, all’on. Salan- dra, alla Società Reale di Londra, all’Accademia delle scienze di Francia. RenpIcoNTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. 162 — 1266 — all’Imp. Accademia delle scienze di Pietrogrado, alla R. Accademia di Bru- xelles e all'Accademia di Belgrado. 1182. MirLosevica E. (Segretario). Presenta a nome della Presidenza un voto per la pubblicazione dei risultati della spe- dizione De Filippi al Karakoram. 286. — « Commemorazione del Socio straniero von Auwers ». 785. MiLLosevica F. « Commemorazione del Socio prof. Strver ». 1002. — « Su alcune rocce della Terra del Fuoco. NotaI:« Rocce eruttive ». 22. — Nota II: « Scisti cristallini n. 398. Mingo. « Sulla distribuzione della massa nell'interno d’un corpo in corrispon- denza a un’assegnata azione esterna ». 908; 1047. MontI. « Sulla costituzione del trifenil- ammino-etil-alcool ottenuto per azione della luce ». 143. — « Sopra alcuni derivati dell'acido lapa- cico ». 1058. | Mortara. « A proposito delle spermatofore di Carybditeuthis maculata ri- tenute spugne parassite ». 359. MuneraATI e MezzaDROLI. « Sui procedi- menti culturali suscettibili di provo- care un aumento di zucchero negli steli del Mais. 450. — eZapPAROLI. « Di alcune anomalie nella Beta vulgaris L.». 965; 1150; 1236. Murray. Annuncio della sua morte. 277. N Nasini, BRESCIANI e ZaccHini. « La ma- teria allo stato sopraffuso. Nota III: Viscosità e conducibilità elettrica delle sostanze sopraffuse ». 183. Nicrta. Invia per esame la sua Memoria. «Il metodo aritmetico nel caso irri- ducibile dell'equazione di 8° grado ». 504. (0) ‘OccHIaLINI. « Arco e scintilla ». 425. Oppo. V. Pollacci. OrLanpo. « Sulle equazioni integrali ». 1040. P PapoA e Foresti. « Sugli equilibrî del- l’idrogenazione «. 754; 946. — e Zazzaroni. « Sulle velocità delle tras- formazioni fototropiche ed i loro coef- ficienti di temperatura con luci mo- nocromatiche ». 828. PaAGLIANI. « Sull’entropia nei corpi solidi, e. sue relazioni con altre grandezze fisiche ». 835. — « Sopra alcune nuove relazioni che ser- vono a calcolare la frequenza nel moto vibratorio molecolare dei solidi ». 948. PaLazzo. « La distribuzione della forza ma- gnetica terrestre nella media Eritrea ». 48. PATERNI. V. Lombroso. PATERNÒ. « Trasformazione dell'acido bu- tirrico in butirrato di propile, per azione della luce ». 674. — Presenta un lavoro del prof. Garuf e ne parla. 1181. PeERRIER. « Sopra alcuni cristalli di gesso artificiale ». 159. — « Sullo zolfo di Zonda-S. Juan (Repub- blica Argentina) n. 443; 622. PiroTTA. « Un caso interessante di varia- zione nel fiore di una Iris». 897. PLATE. « Ancora sull’azione degli ammo- nio-composti sul germogliamento del- l’Avena sativa ». 146. PocciantI. « Sulle ossime stereoisomere del B-naftil-fenil-chetone ». 1135. PoLi. « Nuove osservazioni teoriche sul- l'irraggiamento nero ». 498. — «Sull’irraggiamento nero; risposta alle osservazioni del prof. Corbino ». 915. PoLLacci e Oppo. « Influenza del nucleo pirrolico sulla formazione della cloro- filla ». 1212. PoLLacci. V. Mameli. Poma e ALBonico. « Azione dei sali neutri sulla costante dell’equilibrio chimico ». 747. — — « Influenza esercitata dai sali neutri sull’equilibrio chimico ». 841; 979. — — «Equilibrio chimico ed azione dei sali neutri». 1224. — 1267 — PrINnciPI « Spugne perforanti fossili della Patagonia e di altre località del ter- ritorio argentino ». 341. Q QUAGLIARIELLO. « Proprietà chimiche e chimico-fisiche dei muscoli e dei succhi muscolari. Nota VI: Sul contenuto in fosforo dei muscoli striati bianchi e rossi n. 267; 348. — e D'Agostino. «Sullo stato dell’acido carbonico nel sangue. Nota III: Mobi- lità dell’ ione HCOy alla tempera- tura 37° C. » 772. QuagLiarIELLO. V. D'Agostino. QuercIGH. « Lo zolfo dell’antimonite alte- rata di Selva presso Casal di Pari (Grosseto) ». 73 — « À proposito dell’azione della hauerite sull’argento e sul rame ». 626. — « Cenni su alcuni minerali dei tufi di Isernia (Campobasso) ». 778. — « Su di una modificazione alla reazione differenziale di Meigen fra calcite ed aragonite ». 1231. R Reina. Fa omaggio di una pubblicazione Cenemparlase,0: — Commemorazione del Corrisp. Venturi. 277. Riccr. « Sull’azione dinamica di una corrente fluida sopra pareti rigide ». 1099. Riccò. « Eclisse totale di sole, del 21 ago- sto 1914 ». 17; 83. — «La nuova zona rossa coronale, foto- grafata dalla Missione italiana nel- l’eclisse solare del 1914». 1192. RinaLpInI. V. Amantea. RieHr. « Sulla distribuzione della corrente in un elettrolita posto nel campo ma- gnetico ». 1087. S SANDONNINI. « Conduttività elettrica di mi- scele di sali fusi ». 616. — « Condauttività di miscele di sali solidi». 842. Sanzo. « Contributo alla conoscenza dello sviluppo embrionale e post-embrionale degli Scopelini Muller (Saurus gri- seus Lowe, Chlorophthalmus Agassizii Bp., Aulopus fila- mentosus Cuv.)». 460. Ssorsr e MEcacor. « Sui borati. Siste- ma Na?0, B*0*, H?°0 a 60° ». 250; 443, — — «Sui borati. Sistema (NH.),0 Bs0; H,0 a 60° ». 250; 1137; 1225. SBrana. « Sulle vibrazioni di una corda ela- stica in un mezzo resistente». 207; 409. ScAFFIDI. « Ricerche sperimentali sulle cause che determinano la refrattarietà nei trapianti. I: Trapianti di tumori e ipotesi atreptica ». 774. ScaRrPA. « Analisi termica delle miscele degli idrati alcalini coi corrispondenti alogenuri. Nota I: Composti di po- tassio ». 621; 738. —- « Analisi termica ecc. Nota II: Compo- sti di sodio ». 849; 955. Scorza. « Sugli integrali abeliani riduci- bili ». 412; 645. SeRrNAGIOTTO. « Autossidazioni alla luce nella serie dei terpeni ». 850; 1065. SERINI. « Sulla deformazione di un suolo elastico piano indefinito, omogeneo ed isotropo, nel caso dell’eredità lineare, per dati spostamenti in superficie ». JNETiDÌ Severi. « Sulla classificazione delle curve algebriche e sul teorema d’esistenza di Riemann ». 877; 1011. SienoRrINI. « Resistenza effettiva e resi- stenza ohmica ». 418; 577. — « Sulla propagazione di onde elettro- magnetiche in un conduttore toroi- dale n. 694; 793. SiLper. V. Ciamician. SINIGALLIA. « Sopra una equazione integro» differenziale del tipo ellittico ». 206; 820: SoMIGLIANA, « Sulla teoria delle distorsioni elastiche ». 398; 655. SPERONI. V. Cambi. STRUEVER. Annuncio della sua morte. 505; sua Commemorazione. 1002, — 12638 — T TaeLiavinI. V. Calzolari. Tarpy. Sua Commemorazione. 505. Tasca Borponaro. « Su alcune conseguenze della teoria generale del fenomeno di Hall ». 386. — «La verifica del principio di reciprocità di Volterra, nel caso generale ». 596; 709. TeponE. «Sulla risoluzione di certe equa- zioni integrali di Volterra ». 398; 544. Tieri. « Variazioni della birifrangenza magnetica del ferro colloidale con la temperatura ». 330. — « Motore termico fondato sulla rota- zione che subisce un disco di bismuto riscaldato al centro o alla periferia nel campo magnetico ». 594. — «Rotazione, nel campo magnetico, di un cilindro di grafite e deduzione, per questa sostanza, del prodotto delle costanti caretteristiche di Drude ». 812. Toparo. Propone l'invio di un telegramma a S. M. il Re. 1182. Topi. « Ricerche sulle tignuole della vite ». 464. TorELLI. « Alcune questioni di geometria sopra una curva algebrica». 1079; 1101. TraBAccHI. « L'effetto Hall nelle leghe di tellurio e bismuto». 809. — «Sulla variazione di resistenza del bismuto nel campo magnetico ». 1053. — V. Corbino. Traverso. « Sulla bacteriosi del cetriolo in Italia ». 456. V Vacca. V. Blaserna. VANZETTI. « Elettrolisi di acidi organici bicarbossilici: acido acetilenbicarbo- nico ». 611. VENTURI. Annuncio della sua morte. 79. VERCELLI. Analisi armonica dei baro- grammi, e previsione della pressione barometrica. 1120. VERGERIO. « Una condizione necessaria e sufficiente per l’esistenza di soluzioni nell’ equazione integrale di prima specie ». 1112; 1199. VioLa. « Sulla sistematica dei cristalli ». 680. VoLtERRA. Fa omaggio di una relazione del sig. Zebon, e ne parla; e offre una pubblicazione della Facoltà di scienze della R. Università di Roma. 284. — Presenta un volume contenente le le- zioni da lui impartite all’ Università di Princeton. 1181. — «Sulle correnti elettriche in una la- mina metallica sotto l’azione di un campo magnetico ». 220; 289; 378; 998 i — V. Blaserna. Z Zaccuini. V. Nasini. Zappa. « Sulla osservazione meridiana delle stelle quasi fondamentali ». 703. ZappaRroLI. V. Munerati. ZAREMBA. « Sopra un teorema d’unicità relativo alla equazione delle onde sfe- riche n. 806; 904. Zazzaroni. V. Padoa. ZeiLon. « Sulle soluzioni fondamentali delle equazioni integro-differenziali ». 418; 584; 801. — 1269 — INDICE PER MATERIE A AccapeMIAa. Delibera l'invio di telegrammi a S. M. il Re, all’on. Salandra, alla Società Reale di Londra, all'Accademia delle scienze di Pietrogrado, alla R. Ac- cademia di Bruxelles e all'Accademia di Belgrado. 1182. AnaTtoMIA FISIOLOGICA. « La dottrina dei moti delle sensitive. Note anatomo- fisiologiche ». A. Borzì e G. Cata- lano. 1034. AstRonoMIa. « La latitudine di Roma negli anni 1912-13, e l'ipotesi dell’ Hira- jama ». £. Bianchi. 1115. — « Sui valori del termine 2 nel problema della variazione delle latitudini n. /d. 1120; 1206. — « Eclisse totale di sole, del 21 agosto 1914 ». A. Riccò. 17; 83. — « La nuova zona rossa coronale, foto- grafata dalla Missione italiana nel- l'eclissi solare del 1914 ». A Picco. — «Sulla osservazione meridiana delle stelle quasi fondamentali ». G. Zappa. 703. B BroLogia. « Una ipotesi biologica sulla deposizione dello zolfo durante l’epoca gessoso-solfifera n. G. Bargagli-Pe- trucci. 250; 631; 761. — « Contributo alla conoscenza dello svi- luppo embrionale e post-embrionale degli Scopelini Miller (Saurus gri- seus Lowe, Chlorophthalmus Agassizii Bp., Aulopus fila- mentosus Cuv.). Z. Sanzo. 460. BioLoGIA vEGETALE. « Sulla biologia fio- rale del pesco n. C. Campbell. 68. — « Sulla biologia fiorale del mandorlo ». Id. 163; 256. BoranIca. « Nuove ricerche intorno alla filogenesi della N. Tabacum L.». G. E. Anastasia. 1146. — « Sull’embriologia di Senecio vul- garis L. ». £. Carano. 1244. — Di alcune anomalie della Beta vul- garis» /d. 1248. — « Un caso interessante di variazione nel fiore di una Iris». A. Pirotta. 897. Bullettino bibliografico. 79; 287; 9982; 791; 1009; 1184. Cc Chimica. « Nuove ricerche intorno all’a- zione dei nitroso-derivati sui composti non saturi n. ZL. Alessandri. 62. — « Sopra le scissioni di alcuni composti dell’azoto ». A. Angeli. 1093. — « Ossidazione di azochetoni e di azoni- trili ». /d. 1185. — « Sopra l’ossidazione del dimetilammi- noazobenzolo ». /d. 1190, — « Sull’impiego della soluzione acquosa di acetato mercurico nell’analisi della parte terpenica delle essenze n. ZL. Bal- biano. 165. — « Sui composti di vanadiurea n, G. A. Barbieri. 435. — « L’acido cromisalicilico e i suoi deri- vati ammoniacali ». /d. 605. — «Sui complessi dell’acido vanadico con l’acido citrico n. /d. 724. — « Nuove ricerche sulle metalli-uree ». Id. 916. — «Il sistema ‘nitroglicerina - cotone ni- trato’. Condensazione dei vapori di nitroglicerina sul cotone nitrato in un ambiente vuoto a temperatura uni- forme ». D. Chiaraviglio e 0. M. Cor- dino. 247, — «Il sistema nitroglicerina - cotone ni- — 1270 — trato. Estrazione della nitroglicerina dalla balistite per distillazione nel vuoto a temperatara ordinaria ». D. Chiaraviglio e O. M. Corbino. 361. Caimica. « Contributo alla conoscenza dei tetrationati ». Y. Calzolari. 921. « Sulle amalgame di magnesio ». £. Cambi e G. Speroni. 734. « Azioni chimiche della luce ». G. Cia- mician e P. Silber. 17; 90; 96. « Sopra alcuni derivati dell'acido f-tri- fenil-lattico ». A. De Fazi. 439. « Prodotti di disidratazione dell’acido B-difenil-lattico ». /d. 729. « Azione della luce su benzofenone ed acido butirrico n. /d. 942. « Anidridi e amine da acidi e-amidati ». PF. Graziani. 822; 936. «Il quinto trinitrotoluene, (8), e pro- dotti dinitro-alogeno-sostituiti corri- spondenti ». G. Xùrner e A. Contardi. 888. « Nuove ricerche sulle combinazioni inferiori di alcuni elementi ». ZL. Ma- rino. 1134. « Ricerche sulle combinazioni subaloge- nate di alcuni elementi. Nota III: Sul cosiddetto sottocloruro di bismuto ». 1d. e R. Becarelli. 246. « Sulla costituzione del trifenil-ammino- etil-alcool ottenuto per azione della luce ». ZL. Monti. 143. « Sopra alcuni derivati dell’acido lapa- cico ». /d. 1058. « Trasformazione dell’acido butirrico in butirrato di propile, per azione della luce ». E. Paternò. 674. - « Sulle ossime stereoisomere del f-naf- til-fenil-chetone ». P. Poccianti. 1135. « Influenza del nucleo pirrolico sulla formazione della clorofilla ». G. Pol- lacci e B. Oddo. 1212. « Azione dei sali neutri sulla costante dell'equilibrio chimico ». G. Poma e G. Albonico. 747. « Influenza esercitata dai sali neutri sull'equilibrio chimico ». /d. id. 841; 979. « Equilibrio chimico ed azione dei sali neutri ». /d. id. 1224. Caimica. «Sui borati. Sistema Na?0 , B°0® H?0 a 60° ». U. Sborgi e F. Mecacci. 250; 443. — «Sui borati. Sistema (NH.)a O — B,0s H,0 a 60°». /d. id. 250; 1225. — « Autossidazioni alla luce nella serie dei terpeni». E. Sernagiotto. 850; 1065. — « Sugli alogenomercurati ». F. Calzolari e U. Tagliavini. 925. CHimica-FISIcA. « La materia allo stato so- praffuso. Nota III : Viscosità e conduci- bilità elettrica delle sostanze sopra- fuse ». AR. Nasini, A. Bresciani e F. Zacchini. 183. — «Sul potere elettromotore delle amal- game di calcio ». ZL. Cambi. 817. — «Sul potere elettromotore delle amal- game di magnesio n. /d. 746; 932. — « Determinazione sperimentale delle costanti critiche dell'azoto, dell’ossido di carbonio, dell’ossigeno e del me- tano n. E. Cardoso. 1056. — «Densità delle fasi coesistenti del meta- no e dell’ossido di carbonio ». /d. 1133. — «Sullo stato dell’acido carbonico nel sangue. Nota II: Mobilità dell’ ione HCO", alla temperatura 18° 0». £. D'A- gostino e G. Quagliariello. 468; 688. — «Sullo stato dell’acido carbonico nel sangue. Nota IV: Sulla dissociazione elettrolitica del bicarbonato di sodio ». Id. id. 858. — « Influenza delle basi organiche sul potenziale dell’elettrodo a idrogeno ». A. Mazzucchelli. 139. — «Sugli equilibrii dell'idrogenazione ». M. Padoa e B. Foresti. 754; 946. — « Sulle velocità delle trasformazioni fototropiche ed i loro coefficienti di temperatura con luci monocromati- che ». /d. e A. Zazzaroni. 828. — «Sull’entropia nei corpi solidi, e sue relazioni con altre grandezze fisiche ». S. Pagliani. 835. — « Sopra alcune nuove relazioni che ser- vono a calcolare la frequenza nel moto vibratorio molecolare dei solidi ». /d. 948. — «Proprietà chimiche e chimico-fisiche dei muscoli e dei succhi muscolari. — 1271 — Nota VI: Sul contenuto in fosforo dei muscoli striati bianchi e rossi n. G. Quagliariello. 267; 348. CHimica-FISICA. «Sullo stato dell'acido car- bonico del sangue. Nota III: Mobilità dell’ione HCO’; alla temperatura 37° C. ». G. Quagliariello ed E. D'Ago- stino. 772. — «Conduttività elettrica di miscele di sali fusi». G. Sandonnini. 616. — « Conduttività di miscele di sali solidi ». IO. 842. — «Analisi termica delle miscele degli idrati alcalini coi corrispondenti alo- genuri. Nota I: Composti di potassio ». G. Scarpa. 621; 738. — « Analisi termica ecc. Nota II: Composti di sodio». /d. 849; 955. — «Elettrolisi di acidi organici bicar- bossilici: acido acetilenbicarbonico ». B. L. Vanzetti. 611. CHImica-FIsIOLOGICA. « Introduzione del nucleo guanidinico nella molecola dei polipeptidi, e sua importanza fisiolo- gica ». A. Clementi. 55. — «Sulla possibilità di titolare al for- molo l'azoto aminico monosostituito ». Id. 277; 352. — «Ricerche sull’arginasi:intorno all’azione dell’arginasi sulla creatina». /d. e 7. Rinaldini. 483. — «Contributo allo studio dell’azione dei fermenti proteolitici sui polipeptidi ». Id. 489; 972. — «Microtitolazione alla formaldeide per la determinazione quantitativa degli aminoacidi e le sue applicazioni in fisiologia, Nota I: Generalità sulla microtitolazione alla formaldeide, e sua prima applicazione nello studio dei fermenti peptidolitici. /d. 1172. — «Sul metabolismo degli aminoacidi nell'organismo. Nota I: Azione del tessuto muscolare sugli aminoacidi aggiunti al sangne circolante». Y/. Lom- broso. 57. — «Sul metabolismo ece. Nota II: Azione del tessuto muscolare sugli aminoacidi aggiunti al liquido di Ringer circo- lante ». /0. 148. CHImIca-FISIOLOGICA. « Sul metabolismo ecc. Nota V: Azione del tessuto mu- scolare funzionante sugli aminoacidi aggiunti al sangue circolante ». Lom- broso e Paterni 483; 870. — «Sul metabolismo ecc. Nota VI: Sul destino degli aminoacidi contenuti nel lume o nella mucosa dell'intestino ». Id. e C. Artom. 483; 863. — « Sul metabolismo ecc. Nota VII: Azione del fegato sugli aminoacidi ag- giunti al sangue circolante ». /d. Id. 1001; 1166. Commemorazioni dei Socî: Venturi. 79; Tardy. 505; von Auwers. 785; Struever. 1002. CRISTALLOGRAFIA. « Sopra alcuni cristalli di gesso artificiale ». C. Perrier. 159. — «Sullo zolfo di Zonda-S. Juan (Repub- blica Argentina). /d. 443; 622. — « Sulla sistematica dei cristalli ». C. Viola. 680. Concorsi a premî. Elenco dei concor- renti al premio Reale per l’ Astronomia e al premio Carpi, scaduti il 381 di- cembre 1914. 80. — Id. dei lavori presentati al concorso ai premî del Ministero dell'Istruzione per le Scienze fisiche e chimiche, del 1914. 284. E EMBRIOLOGIA vEGETALE. « Contributo alla embriologia delle Euphorbiaceae ». E. Carano. 449. F Fisica. « Determinazione indiretta dello spettro solare ». A. Amerio.1055 ;1213. -—- « Nuove ricerche sulla dirigibilità delle onde elettriche ». A. Artom. 42. — «Il fenomeno di Stark-Lo Surdo nel l’elio ». R. Brunetti. 719; 1212. — « Emissione ed assorbimento del gas re- siduo nei tubi di Rontgen, ed emissione dei raggi X ». P. Cardani. 22; 105. — « Sul processo per rendere stabile il funzionamento dei tubi Réntgen me- diante l'assorbimento dell’anidride carbonica ». /d. 898. — «Il movimento della elettricità in una — 1272 — lamina metallica sottoposta all’azione di un campo magnetico ». 0. M. Cor- bino. 213. Fisica. « Un indotto per correnti continue senza collettore nè contatti striscianti, fondato sulle azioni elettromagnetiche di seconda specie n. /d e G. C. Tra- bacchi. 418. — « Un generatore invertibile per correnti continue, senza collettore nè contatti striscianti ». Id. id. 588. — «Sulla resistenza elettrica di una lamina in uncampo magnetico ». /d. id. 806. — « Persistenza delle correnti fotoelettri- che nelle cellule di Elster e Geitel dopo la soppressione della luce ecci- tatrice n. /d. id. 908; 1173. — «Sull’attrito interno del nickel in campo magnetico variabile». E. Drago. 1055. — « Azione delle onde hertziane su di un dielettrico sottoposto all'influenza di un campo elettrico rotante ». G. Giu- eis Tail, — « Osservazioni a proposito della Nota del professore G. Guglielmo, dal titolo ‘ Sull’esperienza di Clément e Desor- mes e sulla determinazione dell’equi- valente meccanico della caloria' ». G. Grassi. 676. — « Arco e scintilla (Rilievi sopra una Nota del prof. A. Occhialini)». I. Za Rosa. 234. — « Arco e scintilla ». A Occhialini. 425. — « Sulla distribuziune della corrente in un elettrolita posto nel campo magne- tico n. A. Righi. 1087. — «Su alcune conseguenze della teoria generale del fenomeno di Hall». G. Tasca Bordonaro. 336. — « Variazioni della birifrangenza magne- tica del ferro colloidale con la tempe- ratura ». ZL. Zieri. 380. — « Motore termico fondato sulla rota- zione che subisce un disco di bismuto riscaldato al centro o alla periferia nel campo magnetico ». /d. 594. — « Rotazione, nel campo magnetico, di un cilindro di grafite e deduzione, per quella sostanza, del prodotto delle costanti caratteristiche di Drude ». /d. 812. Fisica. « L'effetto Hall nelle leghe di tel- lurio e bismuto ». G. C. Trabacchi. 809. — « Sulla variazione di resistenza del bis- muto nel campo magnetico ». /d. 1053. Fisica MATEMATICA. « Sulla distribuzione della massa nell'interno d’un corpo in corrispondenza a un’assegnata a- zione esterna ». C. Mineo. 908; 1047. — « Nuove osservazioni teoriche sull’ir- raggiamento nero n. C. Poli. 498. — « Sull’irraggiamento nero: risposta alle osservazioni del prof. Corbino ». /d. 915. — « Sull’irraggiamento del corpo nero: osservazioni alla Nota di C. Poli ». O. M. Corbino. 708. — « Sull’azione dinamica di una corrente fluida sopra pareti rigide ». C. L. Ricci. 1099. — «Sulla propagazione di onde elettro- magnetiche in un conduttore toroi- dale ». A. Signorini. 694; 793. — «La verifica del principio di recipro- cità di Volterra, nel caso generale ». G. Tasca Bordonaro. 596; 709. — «Sulle correnti elettriche in una la- mina metallica sotto l’azione di un campo magnetico ». V. Volterra. 220; 289; 378; 583. Fisica TERRESTRE. « Il recente terremoto nella Marsica e gli strumenti sismici ». G. Agamennone. 240. — « Velocità di propagazione del terre- moto marsicano del 13 gennaio 1915 ». Id. 429. — « Sul terremoto del 13 gennaio 1915 ». G. Grablovita. 597. — «La frequenza nelle repliche del ter- remoto italiano (13 gennaio 1915)». G. Martinelli. 1218. — « La distribuzione della forza magne- tica terrestre nella media Eritrea ». L. Palazzo. 48. FisroLogra. « Sul rapporto fra centri cor- ticali del giro sigmoideo e sensibilità cutanea nel cane ». G. Amantea. 268. — « Ricerche sulla secrezione spermatica. Nota IV: Influenza del riposo sulla se- erezione spermatica del cane». 24.483; 985. FISIOLOGIA. — « Sull’adattamento degli — 1273 — « Ricerche sulla secrezione spermatica. Nota VII: Considerazioni generali sul decorso normale della se- crezione spermatica nel cane e nel- l’uomo. — VIII: Alcune osservazioni su cani castrati e su cani sottoposti a escissione parziale dei deferenti ». G. Amantea. 1001. « Ricerche sulla secrezione spermatica. Nota V e VI: Osservazioni sulla se- crezione spermatica dell’uomo ». /d. e T. Rinaldini. 483; 1001. « Azione dell’intestino sugli aminoacidi. Azione del rene sugli aminoacidi ». C. Artom. 68; 468. « Sul metabolismo degli aminoacidi nell’organismo. Nota III: Azione del rene aggiunti al sangue od al liquido di Ringer cir- colante ». /d. 468. « Ricerche sugli effetti dell’alimenta- zione maidica. Valore nutritivo delle sugli aminoacidi farine di grano, di mais e dell’uovo nei ratti albini ». S. Baglioni. 100]; 1158. « Nuove ricerche sui muscoli striati e lisci di animali omeotermi. Nota III (part. 28): La fatica studiata nel pre- parato frenico-diaframmatico ». F. Bot- tazzi. 27. « Nuove ricerche ecc. Nota V: Le con- trazioni del preparato diaframmatico provocate da stimoli unici ». /d. 172. « Nuove ricerche ecc. Nota VI: Il fe- nomeno dell’addizione di due contra- zioni successive indagato nel preparato diaframmatico ». /d. 404; 559. « Sull’adattamento degli anfibii all’am- biente liquido esterno, mediante la regolazione della pressione osmotica. dei loro liquidi interni. Nota IV: Il tempo entro il quale avviene la rego- lazione osmotica ». B. Brunacci. 272. anfibii ecc. Nota VII: Importanza della vescica urinaria. Nota VIII: I fenomeni del- l'adattamento nelle rane escul. iber- nanti ». /d. 277. « Sull’adattamento ecc. Nota VI: Im- portanza dei sacchi linfatici ». /d. 992. RenpIconTI. 1915, Vol. XXIV, 1° Sem. FisroLogIa. « Sul metabolismo degli amino- acidi nell'organismo, Nota IV: Azione dell’intestino sugli aminoacidi aggiunti al sangue o al liquido di Ringer cir- colante ». U. Lombroso. 475. — «Sul metabolismo degli aminoacidi ecc. Nota VIII: Azione del tessuto epatico sugli aminoacidi aggiunti al liquido di Ringer circolante ». Id. e C. Lu- chetti. 1001; 1253. FISIOLOGIA VEGETALE. « Sulla presenza, nelle piante, di composti ematoidi di ferro ». G. Gola. 1239. «Il magnesio nelle piante albicate e clorotiche n. Eva Mameli. 262. « Influenza del fosforo e del magnesio sulla formazione della clorofilla ». /d. 755. « Ancora sull’assimilazione diretta del- l'azoto atmosferico libero nei vege- tali ». /d. e G. Pollacci. 966. « Sui procedimenti culturali suscettibili di provocare un aumento di zucchero negli steli del Mais ». O. Munerati e G. Mezzadroli. 450. « Ancora sull’azione degli ammonio- composti sul germogliamento del- l'Avena sativa». /. Plate. 146. G GEOGRAFIA FISICA. « Quarta relazione della spedizione scientifica nel Karakoram orientale ». MY. De Filippi. 47; 134. GroLoGIA. « Ambiente geologico del terre- moto della Marsica (13 gennaio 1915) ». C. De Stefani. 391. 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Chisini. 153. — « Formole di derivazione funzionale ». E. Daniele. 204; 319; 496. — «Il teorema di Eulero per le funzioni di linea omogenee ». £. Freda. 806; 1035. — « Sulla definizione di arco di una curva e dell’integrale dl Weierstrass, che si presenta nel calcolo delle variazioni ». G. Fubini. 42; 127. — « Sulla derivazione per serie ». /d. 204. — « Il teorema del valor medio ». /d. 588; 691. — «Sulle equazioni integrali », Z. Orlando. 1040. — «Sugli integrali abeliani riducibili ». G. Scorza. 412; 645. — « Sulla classificazione delle curve alge- briche e sul teorema d'esistenza di Riemann ». F. Severi. 877; 1011. — « Sopra una equazione integro-differen- ziale del tipo ellittico ». L. Sinigallia. 206; 325. — « Sulla risoluzione di certe equazioni integrali di Volterra ». 0. Z'edone. 398; 544. — « Alcune questioni di geometria sopra una curva algebrica ». A. Torelli. 1079; 1101. — « Una condizione necessaria e suffi- ciente per l’esistenza di soluzioni nel- l'equazione integrale di prima specie ». A. Vergerio. 1112; 1199. — « Sopra un teorema d’unicità relativo ‘alla equazione delle onde sferiche ». S. Zaremba. 806; 904. MATEMATICA. « Sulle soluzioni fondamen- tali delle equazioni integro - differen- ziali ». N. Zeilon. 418; 584; 801. MeccanIcA. « Estensione della soluzione del Sundman dal caso di corpi ideali, al caso di sferette elastiche omo- genee n. G. Armellini. 184. — « Sistemi astatici equivalenti a due forze astatiche irriducibili n. M. Bot- tasso. 34; 197. — « Nuovi tipi di onde periodiche perma- nenti e rotazionali ». N. Cisotti.42;129. — «Su di una reciprocità tra deforma- zionie distorsioni». G. Colonnetti. 404. — « Sulle distorsioni dei sistemi elastici piani più volte connessi ». /d. 575. — « Una proprietà di simmetria delle traiettorie dinamiche spiccate da due punti n. 7. Zevi-Civita. 666. — «Sulle vibrazioni di una corda elastica in un mezzo resistente n. Y. Sbrana. 207; 409. — « Sulla deformazione di un suolo ela- stico piano indefinito, omogeneo ed isotropo, nel caso dell’eredità lineare, per dati spostamenti in superficie ». R. Serina. 1112. — « Resistenza . effettiva e resistenza ohmica ». A. Signorini. 418; 577. — « Nuove osservazioni teoriche sull’irrag- giamento nero ». C. Poli. 498. — «Sulla teoria delle distorsioni ela» stiche ». 0. Somigliana. 398; 655. MeccaNIcA cELESTE. « Ricerche sopra le perturbazioni del satellite di Nettuno ». G. Armellini. 569. MeTtEoROoLOGIA. « Analisi armonica dei ba- rogrammi, e previsione della pressione barometrica ». NM. Vercelli. 1120. MineraLOGIA. « Due minerali di Baveno contenenti terre rare: weibyeite e baz- zite ». E. Artini. 313. — «Sulla presenza della monazite nelle sabbie e nelle arenarie della Somalia meridionale ». /d. 555. — «Sopra una reazione del diamante ». L. Colomba. 1137. — «Studio mineralogico della lepidolite elbana ». P. Comucci. 1068. PARASSITOLOGIA. — 1275 — « MiveraLoGIA. « Sopra la petalite elbana ». P. Comucci. 1141. « Ricerche mineralogiche e petrogra= fiche sulla valle del Chisone (Alpi Cozie): sopra un'interessante varietà di gneiss di Prali ». 4. Grill. 251. « Contributo alla mineralogia sarda. Sopra alcuni interessanti cristalli di argentite e di quarzo ». /d. 855. « Contributo alla mineralogia sarda. Sopra alcuni interessanti cristalli di baritina ». /d. 961. « Lo zolfo dell’antimonite alterata di Selva presso Casal di Pari (Gros- seto) ». E. Quercigh. 73. « A proposito dell’azione della hauerite sull’argento e sul rame ». /d. 626. « Cenni su alcuni minerali dei tufi di Isernia (Campobasso) ». /d. 778. « Su di una modificazione alla reazione differenziale di Meigen fra calcite ed aragonite n. /d. 1231. N Necrologie. Annuncio della morte dei Socî: Venturi, 79, 277; Marcacci, v. Auwers e Murray, 277; Struever, 505; Fergola, 784. Commemorazione del Socio Struever. 1002. p PALEONTOLOGIA. « Spugne perforanti fos- sili della Patagonia e di altre località del territorio argentino ». P. Principi. 341. « Ricerche sperimentali su Lamblia C. Basile. 1164. intestinalis». — « Ricerche sulle tignuole della vite ». M. Topi. 464. ParoLogia. « Sul valore dei composti di aminoacidi con formaldeide per il ri- cambio azotato degli animali». A. Azzi. 1125. PatoLOGIA. « Ulteriori ricerche sulla Leish- maniosi interna del Mediterraneo ». C. Basile. 1074. « Sulla formazione di acido ippurico dal composto di glicocolla con formal- deide ». G. Cicconardi. 1130. « Sui trapianti del timo n. FP. Fulci. 995. « Etiologia del gozzo ». B. Grassi. 1098. « Ricerche sperimentali sulle cause che determinano la refrattarietà nei tra- pianti. Nota I: Trapianti di tumori e ipotesi atreptica ». V. Scaffidi. 774. 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ERRATA-CORRIGE A pag. 241, ultima riga dell’annotazione: » 248, intestazione della tabella: » 245, tabella: giunge giunse veloci velocità Graz 54 30 Graz 53 59 UN \ URISIOTN ;î Ly % Lilo { CA! si \ ChE; } ; SITI i fi GUAI Ù MERI) o. (TTEST RONLA VaEEA op: Ù | Pa AVIRA SIOE (Es ien ; MIE II: bll ASINO doll ini ste MIA {0010 * tu % È Gi STRU ero VSSRDITo] ALITO CA STITRRI RIINLUÈ Pell sat oli “A (03) AAA ERE CI ui x +33 RI PAltt i Mit PRATT LTT FIGO) “ii HOVRESOCIAI: b3 î du “BOT: Dl Pres tha

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