RIVISTA

/h

DI FILOLOGIA

D'ISTRUZIONE CLASSICA

"DIUETTO'KI

G. MiJLLER e D. PEZZI

j^lsTlsrO IPIEòin^LO

i^y^A

ROM\ TORINO FIRENZE

ERMANNO LOESCHER

18713.

Torino - Tipografia Bona

PA

9 •RS5

v.i

irs"r>IOB OELLE ]VtATI±lT^IEJ

I Direttori. Proemio pag. \

Linguistica

I. Linguistica in genere e linguistica greco-latina in ispecie.

GoRREsio G. Lettera ai Direttori della 1(jvista intorno al signi- ficato del nome drrds . . . . . . . pag. 5

Inama V. Osservazioni sulla teoria della coniugazione greca 149

Oliva G. Grammatica greca per le scuole di Vigilio Inama » 76 Id. Dizionario italiano-greco compilato per le scuole da

F, Brunetti » 268

Id. Cenni sulla sintasiii della lingua greca. » 3o(

id. id. . . .. 341

id. id. . » 480

id. id. . .. 5i8 Id. Grammatica elementare della lingua greca secondo

il metodo di G. L. Burnouf, nuova edizione rifusa ed am- pliata per opera di O. Berrini " 594

Pezzi D. La déclinaison latine en Gauleà l'epoque Mérovingienne, étude sur les origines de la langue fran9aise par D'Arbois de Jubainville .35

Id. I pretesi genitivi singolari dei temi latini in -0- . >. loi Id. Die ergebnisse dei- sprachwissenschaft von Braun. Aperfu general de la science comparative des langues (2«» ed.) par Benloew. Instructions pour l'étude élémentaire dela linguistique indo-européenne par Hovelacque » 17$

II. Linguistica neo-latina.

D'Ovidio F. Glottologia neolatina, lettem al sig. prof. Flechia » «54

id. Lingua e dialetto ■> 564

Flechia G, Sull'origine dell'unica forma flessionale del nome

italiano, studio di Francesco D'Ovidio . . . . » 8q

IV

Flechia G. Osservazioni alla lettera del signor F. D'Ovidio (Glot- tologia neolatina) al prof. Flechia .... pag. 260 Id. Saggio della storia della lingua e dei dialetti d'Italia con un'introduzione sopra l'origine delle lingue neolatine del dottore Napoleone Caix. Rivista di filologia romanza, diretta da L. Manzoni, E. Monaci, E. Stengel . . » 38o Pezzi D. Dell'origine della voce sarda Nuraghe, congetture eti- mologiche di G. Flechia » 145

Vegezzi Ruscalla G. Rettificazione di un'erronea asserzione di

A. G. Schlegel >. a8

Id. Di un articolo pleonastico dell'antico provenzale . •> ii5 Id. Traité de versification francaise par G. Weigand » 201

Filologia classica

I. Filologia greca.

Bertini G. M. Saggio sul Clitofonte, dialogo attribuito a Platone » 457 Coen A. Osservazioni sopra un passo dell'Anabasi di Senofonte » 2o5 CoMPARETTi D. Aristofane, Le à^ubi, con note italiane e intro- duzione di Achille Coen » 72

Giacomino C. Studien zu Aeschylus von N. Wecklein . » 366 MuLLER G. Die Strafe des Tantalus nach Pindar von profess.

D. Comparetti "30

Id. 'OXoqpiXou '€pttiTeXo; xal '€pacT)n{a, storia greca trovata

e volgarizzata da Innocente Demaria . ...» 32 Id. Aus dem Reiche des Tantalus und Croesus von Dr.

K. Bernard Stark "129

Id. Kurzgefasste Geographie von Altgriechenland von A.

Buttmann > i83

Id. Elementi di grammatica greca ad uso delle scuole. EevoqpufVToq Kùpou traiòela. Adnotationibus et iilustrationibus auxit Angelus Tummolo, presb. Neapol. Biblioteca utile alla interpretazione dei Classici greci e latini, versione dal- l'originale tedesco con aggiunte del prof. B. Zandonella e

F. nob. Cipolla » 273

Id. Godofredo Hermann - 297

Peyron B. Notizia di un antico Evangeliario Bobbiese, che in alcuni fogli palirapsesti contiene frammenti d'un greco trat- tato di filosofia "53

Thomas G. M. L'influsso continuo dello spirito greco sul pro- gresso del genere umano » 210

II. Filologia latina.

Rarco G. Frammenti d'iscrizioni etrusche scoperte a Nizza.

Nota del prof. A. Fabretti .• 100

BooT I. e. G. Restaurazione di un epitafio romano . , ]pag. 557 Carutti D, Due varianti alla satira di Sulpicia . . . >. i25 Id. Nicolai Heinsii Italica. E poematum editione Elzevi- riana a poeta passim correcta edidit I. C. G, Boot . » 142 Id. Della distinzione tra i Britarmi o Brittoni dell'isola e i Britanni o Brittoni del continente e della sede di questi ultimi nelle provincie dell'impero romano. Dissertazioni tre

di Vincenzo De-Vit » 282

CoMPARETTi D. Nonii Marcelli peripatetici turbursicensis de compendiosa doctrinaad filium, collatis quinque pervetustis codicibus nondum adhibitis cum ceterorum librorum editio- numque leciionibus et doctorum suisque notis edidit Lud.

Quicherat » i38

Flechia G. Primo supplemento alla raccolta delle antichissime iscrizioni italiche con l'aggiunta di alcune osservazioni pa- leografiche e grammaticali di A. Fabretti ..." 33 Id, Sulpiciae Caleni Satira. Recensuit Dominicus Carutti » 41 Id. Ephemeris epigraphica, corporis inscriptionum lati- narum supplementum, edita iussu Instituti Archaeologici

Romani » i35

Gandino G. B. Osservazioni critiche intorno all'Argomento acro- stico del Miles Gloriosus di Plauto . . . » 415 Grion G. Ad Alexandri Magni itinerarium coniecturae . 553 Jeep L. L'autore del poema Laudes Herculis . . . »> 405 Id. Aurelii Victoris de Caesaribus Historia e l'Epitome de

Caesaribus » 5o5

Id. Quaestiones onomatologicae, scripsit Otto Sievers. De actorum in fàbulis Terentianis numero et distributionc,

diss. Curtius Steflen » 600

MoMMSEN T. Di un'iscrizione graffita nel Museo d'antichità del- l'Ateneo torinese . . . . . » 122

Id. Su alcuni punti della geografia del Piemonte antico, lettera a Carlo Promis . . .... » 249

Pezzi D. Histoire de l'éloquence latine depuis l'origine de Rome jusqu'à Cicéron, d'après les notes de M. Adolphe Berger, réunies et publiées par Victor Cucheval . » 39

Id. Grundriss der romischen Litteratur von Bernhardy. Geschichie der romischen Literatur von Teuffel. Storia critica della letteratura romana di Errico . » 191

Id. DieAnnalendesTacituskritischbeleuchtetvonPfitzncr » 247 Vitelli G. Studi su Claudiano di Lud. Jeep ...» 33o Id. Acta societatis philologae lipsiensis ed. Fr. Ritschelius » 334

Pedagogica

Commissione d'inchiesta sull'istruzione secondaria a Torino. Risposte della Facoltà torinese di filosofia e lettere ad alcuni dei quesiti da si fatta Commissione proposti . . » 614

VI

CoNESTAEiLE G. C. SuU'insegnamento della Scienza delle An- tichità in Italia paf^. 541

pEzzr D. Consideraziorc. sull'istruzione, soprattutta classica, in Italia, a proposito ciel recentissimo libro di M. Bréal sul- l'istruzione pubblica in Francia '9

id. id. » 225 id. id. u 3 IO

id. id. » 432 _ id. id. » 584 id. La grammatica storico-comparativa e l'insegnamento gin- nasiale delle lingue classiche giusta M. Bréal . . » 552

Thomas G. M. Parte presa nel Consiglio de' Pregadi in Venezia

intorno agli sludii delle belle lettere . . . ■> 126

Zambalbi F. La Commissione d'inchiesta sulla istruzione secon- daria a Roma » 498

Varietà

Bertini G. M. Alcuni appunti in servigio dei futuri editori di

traduzioni italiane di prosatori greci ....>■ 24 Id. Aristotelcs oder iiber das Gesetz der Geschichtc von

H Doergens . .338

Fi-ECHiA G. Reliquie celtiche raccolte da Costantino Nigra . » 47 LuMBROso G. Carlo Promis (necrologia) . . . » 604 Oliva. G. Die Cultur der Renaissance in Italien von J. Burc- khardt > 286

Notizie . . ' » 49

Id » 204

ìd. " 3oo

Id. . ..504

DEGLI SCRITTORI DELLA RIVISTA

BARCO Giovanni Battista, professore nel Ginnasio Monviso in Torino.

BERTINI Giovanni Maria, professore nell'Università di Torino.

BOOT I. C. G., segretario dell'Accademia delle Scien,Te ad Amsterdam.

CARUTTI Domenico, deputato al Parlamento.

COEN Achille, professore nel Liceo di Livorno.

GOMPARETTI Domenico, professore nell'Istituto di studii superiori

a Firenze. CONESTABILE Gian Cario, professore dellUnìversità di Perugia. D'OVIDIO Francesco, professore nel Liceo di Bologna. F LEGHI A Giovanni, professore nell'Università di Torino. GANDINO Giovanni Battista, professore nell'Università di Bologna. GIACOMINO Claudio, professore nel Liceo di Sondrio. GORRESIO Gaspare, prefetto della Biblioteca dell'Università di Torino. GRION Giusto, preside del Liceo di Verona. IISAMA Vigilio, professore nell'Accademia scientifico-letteraria di

Milano. JEEP Ludovico, professore nel Collegio Tommaso in Lipsia. LUMBROSO Giacomo, membro dell'Accademia delle Scienze di

Torino. MOMMSEN Teodoro, professore nell'Università di Berlino. MÙLLER Giuseppe, professore nell'Università di Torino. OLIVA Gaetano, professore nel Liceo di Rovigo. PEYRON Bernardino, bibliotecario onorario della Biblioteca dell'Uni- versità di Torino. PEZZI Domenico, dottore aggregato alla Facoltà di filosofia e lettere

dell'Università di Torino. THOMAS Martino, bibliotecario della Biblioteca di Corte e Stato in

Monaco di Baviera. VEGEZZI RU5CALLA Giovenale, dottore aggregato alla Facoltà

di filosofia e lettere dell'Università di Torino. VITELLI Girolamo, dottore in lettere. ZAMBALDI Francesco, professore nel Liceo e nell'Università di Roma.

PROEMIO

Rinata ad indipendenza ed a libertà, Tltalia, profonda- mente conscia del proprio dovere, sente e comprende quanto manchi ancora alla sua perfetta redenzione, e, anelando a risorgere intellettualmente, deplora la decadenza di quegli studi che la onorarono cotanto nei secoli della sventura. Le nobili parole, che intorno a si grave argomento testé si udi- rono nell'assemblea rappresentante il popolo italiano, non furono se non Teco delle lagnanze e dei voti delfltalia che medita, che ricorda, che teme un avvenire nell'ordine eccelso della scienza e dell'arte troppo da meno che il suo grande passato. Ed a temere ci costringe in fatti la rarità e per lo più eziandio la sterilità del vero sapere classico, già fre- quente, sì vasto e profondo e gloriosamente operoso fra noi-, e la poca fecondità dello insegnamento delle lingue e delle lettere greche e latine ne'ginnasii, ne' licei e nelle università italiane: che rade volte la scienza discende alla scuola e questa a quella si eleva. E siccome lo studio filologico è presso i popoli più colti, e debb^essere, il principalissimo fra gli eser- cizii con cui negl'istituti didattici si svolgono le facoltà intel- lettuali delle nuove generazioni, così si scorge quanto lo sca- dimento di esso sia funesto airintera educazione della gio- ventù. Fiera minaccia alla vita intellettuale di qualsiasi nazione

lijvist4 di Jìlologia ecc , I.

- 2

civile sarebbe pertanto la crescente trascuranza delle disci- pline classiche : pili fiera ancora all'Italia, a Roma. F'orsechè occorre rammentare a questo paese ricco di tradizioni e di monumenti, a questo paese segnato ancora dalle orme del- l'antica civiltà greco-latina, quanto numerosi e stretti siano i legami che con questa l'avvincono, e quanto più che in ogni altra contrada qui e sul sacro suolo dell'Eliade la scienza della vita greca e latina sia parte importante del sapere storico ed il culto dei linguaggi e delle letterature classiche neces- sario strumento di educazione intellettuale e morale? La co- scienza di ciò ch'ella è e di ciò che fu impone all'Italia, civil- mente e politicamente risorta, di ridestare ne'suoi figli l'amore della bellezza e della sapienza immortale ch'ebbero a tempii non perituri Atene e Roma. Ma non la illuda l'orgoglio colla folle speranza di bastare a stessa e collo spregio, stolta- mente superbo, dell'opera altrui. Fra il lungo e vario volgersi delle sorti umane, genti, che un giorno ella chiamò barbare e nemiche, le divennero maestre e sorelle : confessi con socra- tico candore la propria inferiorità ed impari da loro ; impari con libera mente e senza ossequio servile (come si addice a lei che insegnò al mondo due volte), ma senza miserabili in- vidie e col puro amore del vero; impari e produrrà maestri pari ai più insigni fra gli odierni stranieri, ne è pegno il suo passato e lo splendido esempio di qualche italiano nostro contemporaneo. Emuli la Germania nell'ardire magnanimo delle nuove investigazioni scientifiche e delle riforme didat- tiche : ma si ricordi ognora che indarno tende al vero chi non ha, scorta sicura, l'arte del metodo, e chi non prende le mosse dai risultati delle più recenti indagini ed esperienze. Quest'arte, questi risultati sono già abbastanza noti in Italia ? Noi non crediamo: io stato odierno della scienza e dello in- segnamento classico m questo paese ci è quanto triste altret- tanto valida prova che non erriamo m questo nostro giudizio.

~ 3

Ma crediamo, e fermamente crediamo, che l'Italia possiede intelligenze potenti per gagliarda natura ed efficace educa- zione, capaci non solo d'iniziarla alla filologia ed alla peda- gogica straniera, ma eziandio di esaminarne con sicuro criterio i processi e le conclusioni, di trarne il meglio, di adattarlo airindole speciale dello ingegno italiano e di concorrere anche esse al progresso di queste due scienze. Stimolare fatte in- telligenze a lavoro veramente proficuo, che la loro virtiì non resti infeconda (come troppo spesso avvenne nei tempi trascorsi) ed i loro sforzi convergano ad unico centro (il per- fezionamento del sapere e della istruzione classica in Italia) è lo scopo che ci proponemmo fondando questa Rivista ed al quale rimarremo sempre religiosamente fedeli finché avremo l'onore di poterla dirigere. E che non indarno noi abbiamo confidato nel buon volere di parecchi valenti italiani (fra cui alcuno è tale che il suo nome basterebbe ad illustrare una rivista scientifica) ci è prova il modo cortese e generoso con cui risposero al nostro invito, e questo stesso primo fascicolo attesta la sollecita cooperazione di alcuni fra essi : prova ci è ancora l'applauso che fecero a questa nostra impresa i di- rettori di parecchi giornali italiani, fra i quali basti citare l'autorevole e gentile Rivista Europea {i). A tutti questi fau- tori dell'opera nostra rendiamo grazie dal profondo del cuore. Forte di cotanto aiuto e di quello eziandio che le promise qualche illustre straniero, la nostra ^vista tenderà vigoro- samente e liberamente al suo fine, al progresso della filologia e della istruzione classica in Italia. E, per ciò che attiensi in ispecial guisa alla scienza, ella si sforzerà di rendere sempre più noti i più certi ed utili risultati delle compiute investiga- zioni e di spingere gli animosi a nuove indagini intorno alla

(i) V. il fascicolo dello scorso giugno, p. ìjZ.

4 vita greco-latina, considerandola nei varii ordini delle rive- lazioni ch'essa ci diede di sé, e con metodo storico e compa- rativo, ossia nelle epoche successive per cui passò trasfor- mandosi e nei molteplici ed intimi rapporti esistenti fra il popolo greco ed il latino, fra questi e quanti altri apparten- gono alla grande famiglia degli Arii. Ci daremo pensiero di quegli studi che sono necessaria preparazione alle ricerche filologiche. Ci sarà oggetto in ispecial guisa gradito di analisi scientifiche la parola ellenica e latina, e questa eziandio tal- volta nelle forme moderne o neo-latine in cui si continua la sua vita tante volte secolare. Non meno ci cureremo dello svolgimento estetico del pensiero e del sentimento greco e ro- mano e delPartistìca espressione di essi negli scritti di quegli antichi, pubblicando testi inediti e nuove lezioni , lavori di ermeneutica, critica e di storia letteraria. Verranno poscia i miti ed i sistemi filosofici : indi le opere delle arti plastiche, gli usi, le istituzioni e gli avvenimenti sociali della Grecia e del Lazio. Dei nuovi libri che appariranno intorno a questi argomenti daremo, giusta la varia loro importanza ed atti- nenza colla natura della nostra 'Rivista, od un semplice an- nunzio od una esposizione un po' particolareggiata od eziandio un esame critico. In ordine alla pedagogica che concerne gli studi classici sarà compito nostro descrivere colla maggior possibile esattezza le istituzioni didattiche in Italia e presso gli altri popoli civili, notando delle medesime i più insigni pregi e difetti*, far menzione delle riforme che dai singoli governi verranno proposte e delle opinioni dei piìi dotti ed esperti, scrutandone diligentemente il valore; accennare le più importanti novità accademiche italiane e straniere; volgere la attenzione dei nostri lettori alle opere ed ai giornali didattici di maggiore utilità che verranno dati alla luce. E così ci sia prospero il successo come noi siamo volonterosi di attenere fedelmente le fatte promesse. Ma quand'anche queste nostre

- 5- speranze avessero ad essere illusioni ed unico premio a questa nostra non ingenerosa ostinazione Tamaro disinganno, noi non ci pentiremmo mai di esserci accinti a questa impresa e continueremmo a promuovere con tutte le nostre forze il risorgimento della filologia e la riforma dell'istruzione classica in questa bella contrada, che all'uno di noi è patria carissima, all'altro terra ospitale, e, come seconda patria, pregiata e diietta.

luglio 1872.

I DIRETTORI.

LETTERA

DI GASPARE GORRESIO AI DIRETTORI DELLA ^KJVISTA intomo al significato del nome àryàs.

Onorevoli Signori Direttori,

Eglino, signori, m'han fatto la cortesia e Tonore di ma- nifestarmi il loro desiderio che questo primo fascicolo della loro l^ivìsta, che ora s'inizia, uscisse in luce con qualche mio scritto. Compiaccio volentieri e senza esitanza al gentile loro desiderio. Comincio dal congratularmi che con nobile intento e fermo volere egli abbiano posto mano ad un'opera che riuscirà, ne son certo, di grande utilità agli studi in Italia*, e quanto posso efficacemente li esorto a condurla in- nanzi con costanza ed amore. Gli studi filologici e linguistici non sono ancora in Italia pervenuti a quella universalità e pienezza di diffusione a cui son giunti in altre contrade e che si richiede perchè possano essere ben conosciuti , merita-

- 6 mente apprezzati e coltivati e portare tutti i lor frutti. La loro ^vista gioverà efficacemente, non ne dubito, ad otte- nere questo scopo esponendo a mano a mano le idee ed i Drincipii che informano questi vasti studi ed innestando con senno e giudizio i nuovi e fecondi trovati scientifici nei vecchio e robusto tronco della scienza italiana, rinfrescan- dolo e ravvivandolo con nuovo succo viiaie. E per mostrar loro quant'io apprezzi l'opera da loro nobilmente iniziata, quanta speranza io fondi sulla loro ^vista e quanto ne desideri il buon successo, mi induco a stendere qui alcune mie linee, forse per mancanza di tempo non abbastanza elaborate, ed a proporre una mia congettura che si rannoda appunto a quegli studi che la ^I{ìvista si propone di trattare. 1 nomi propri tribi, genti o popoli amichi hanno tutti generalmente una significazione loro particolare geografica, storica, od etnografica, che sovente si connette colle memorie di quei popoli, con qualche fatto della lor vita ; ed il deter- minarne il vero e proprio valore non è senza importanza per le indagini e lo studio delle origini. Il nome delle genti e dei popoli Aryi [àryàs) che sono i nostri antenati etno- grafici, l'alto stipite in cui mettono capo le origini nostre, ebbe dai dotti filologi Indo-Europei differenti interpretazioni. Alcuni io tradussero per onorandi, eccellenti, nobili, e pen- sarono che gli Aryi qualificassero stessi in tale modo per distinguersi da altre genti di diversa origine e di sel- vaggia condizione che essi trovarono sulla lor via durante le lunghe loro migrazioni. Altri han creduto che il vocabolo àryi dovesse indicare la condizione agricola delie genti che si chiamarono anticamente Arye; ed in prova di tale giu- dizio raffrontarono la radice ar d'onde deriva il noEne di àrya col radicale ar da cui ha origine il verbo arare '^ secondo questa opinione il nome àryàs verrebbe a dire popoli agricoltori.

_-7-

Altri cercarono di spiegare altramente il nome di àrfi, ed attribuirono al vocabolo àrya la significazione di uomo della propria stirpe {der manti des eigenen stammes) o d'uomo fedele al culto degli Dei della sua schiatta [der den volks- giyttern des stammes treue). Senza volere in nulla dimi- nuire il valore di questi vari giudizi, penso che rimanga tuttora aperta la via ad altre interpretazioni del nome àrya ; ed una, che non credo punto inverosimile, ne propongo ora qui al critico esame dei dotti di questi studi.

Fra i popoU dell'antichità più o meno remota molti sono quelli che presero nome di erranti , migranti , fuggenti. Turani, Pelasgi, Slavi -Uscochi ecc. son tutti nomi che ìndìcdino fuggi tipi y migranti, erranti; non parlerò dei po- poli Semiti, presso cui si trova pure frequente tale deno- minazione. Or non potrebbe il nome di àryi {àrySs) avere questo stesso valore e significare migranti, erranti?!^ radice sanscrita ar da cui si deduce il vocabolo àry-i, ha come molte altre radici del sanscrito, la significazione generale di moto, dalla quale nacquero i significati piiì concreti di muoversi, amarsi, andare. Ad un vocabolo derivato da quella radice e formato in un^età antichissima da genti che avevano il senso intuitivo, profondo della parola, della natura e della forma del vocabolo, parmi meglio si convenga il significato di migranti, erranti che alcun altro di quelli esposti più sopra. 1 popoli Arji furono nell'antichità come nei tempi moderni i ini- graiti per eccellenza. Dall'Himàlaya fino alPAdantico ei si diffusero migrando per ogni dove ed occuparono quasi tutto Toccidente. L'India e Tlran, la Scandinavia e la Germania, leGalie e la Bretagna, la Grecia, Tltalia, riUirio furono le sedi d verse e successive dei popoli Aryi. Or non par egli probabile che il nome preso da quei popoli dovesse signi- ficare nigranti, massime se si consideri che tal nome fu comune a molti popoli dell'antichità, per le frequenti loro

_ 8 - migrazioni e che la radice ar donde si deriva significa muoversi, andare?

11 significato di onorandi, eccellenti, attribuito general- mente dai filologi al nome di Aryi, molto bene si comprende- rebbe se quel nome fosse stato preso dagli Aryi in quell'età in cui trovandosi essi a fronte di popoli avversi e rozzi, dif- ferenti d'origine, di favella e di culto, e volendo distinguersi da loro con uti nome che indicasse ad un tempo la loro ec- cellenza sopra i barbari Dasyu e la differenza che era tra loro ed essi, si fossero chiamati àryi, gli eccellenti, i nobili. Ma quel nome è anteriore alle loro lotte coi Dasyu, coi sel- vaggi aborigeni che essi trovarono stanziati nelle regioni che si disponevano ad occupare. Quel nome ei già l'avevanc preso in una delle loro sedi primitive, nell'Airyana-Vaega, così denominata appunto da dry a, ed era comune agl'In- diani, ai Persiani, ai Medi. Un'altra ragione dunque gli ir- dusse ad assumerlo, e non è punto improbabile che qusl nome alludesse al possente loro istinto di migrazione.

Ecco, egregi signori Direttori, le poche linee forse non prive di qualche importanza che essi m'invitarono a scrivere e che io loro indirizzo con sentimento di stima e con lieti

augurii per la loro Rivista.

ì ^ /

Torino, il 26 di giugno 1872.

Gaspare Gorresio.

~ 9

COV^SI'DEIiAZlOV^I

SULL'ISTRUZIONE, SOPRATTUTTO CLASSICA, IN ITALIA

a proposito del recentissimo libro di M. BREAL suir istrupone pubblica in Francia (i).

Se le più belle e seduttrici parvenze non fossero spesso le più fallaci, noi dovremmo indubbiamente credere che tutti gl'Italiani intellettualmente educati sentono e comprendono perfettamente tutta la suprema importanza del problema didattico. Quanti fra loro non sarebbero disposti ad affer- mare con E. Renan che « de tous les problèmes de notre temps, c'est le plus important » (2)? Quanti non asseri- rebbero coU'Huxley che lo insegnamento può essere a buon

(i) Bréal, Queìques moissur Vinsiruction publique enFrance, Paris, Hachette, X872. Renan, Questions contemporaines, Paris. 1868. Id., La ré/orme intellectuelle et morale y Paris, £871 (p. qS-iot). Bois- siER, Les ré/ormes de l'enseignement [Revue des deux mondes, t.82, p. 904- 984,6 t. 75, p. 863-884). Blanchard, Uinstruction generale en France {Revue des deux mondes, t. 95, p. 81 5-843). Duruy, La liberté de l'enseignement supérieur {Revue des deux mondes, t. 85, p. 736-757). Htllebrand, L'enseignement supérieur en France {Revue moderne, t. 46, p. 589-610). Leger, L'enseignement supérieur et la Sorbonne (Revuc moderne , t. 5o, p. 259-277). Rapport sur l'organisation et les prò- grès de Vinsiruction publique, Paris, 1867; Rapport sur les éludes de langue et littérature grecque en France, Paris, 1868; Rapport sur Vétude des lettres lalines ecc. ^ Paris, 1868.

(2) Questions contemporaines, p. V.

- 10 - diritto considerato come l'opera piià grande onde abbia a darsi pensiero Tepoca odierna (i)? Quanti finalmente non esclamerebbero, come il deputato francese signor V. de Tracy nel i835, che « l'instruction publique est tout))(2)? E senza fallo imprenderebbero a confermare fatte iper- boli, osservando quale e quanta sia l'azione della mente sulla volontà e come i saggi pensieri siano di utili opere ispiratori : come dall' istruzione in gran parte dipenda lo avvenire dell'individuo e della società (3). Ma intanto i molti, paghi di avere offerto a questo grande problema lo inutile tributo di qualche frase sonora, non gli fanno nem- meno l'onore di una discussione veramente seria e lo pos- pongono alle questioni politiche, economiche, militari, talora eziandio alle personali: altri ne tentano 1 ardua soluzione*, ma, o troppo assuefatti a nebulose astrazioni o troppo ines- perti ed impazienti di minute indagini, per lo piiì non rie- scono a scoprire le profonde radici dei mali, onde per con- senso di tutti è travagliata l'istruzione italiana, e non val- gono pertanto ad indicarne i pìij sicuri e pronti rimedii. Indi segue che, tra colpevoli negligenze e vane declama-

li) Blànchard, art. cit., p. 828.

(2) Id., art. cit., p. 845.

(3) « C'est sur ce terrain que se livrent les batailles les plus achar- nées entre Jes partis qui divìsent la France. Et corament s'en étonner? Dans cette lutte, ce n'est pas seuìement l'amour de la vérité et le désir de la voir triompher qui passionnent les combattans, c'est aussi pour chaque parti le désir de se voir perpétuer dans les genérations qui se lèvent et qui ont l'avenir dans les mains. » Saint-René Taillandìer, Les réformes de l'enseigmment primaire [Revue des deux mondes, t. 87, p. 636). '.« Une expérience vieille comme l'humanité nous apprend que le succès ici-bas n'appartieni ni aux àmes les plus aimantes, ni aux coeurs les plus généreux: c'est aux intelligences les plus aiguìsées et les plus actives qu'est dévolu l'empire du monde. » Bréal, op. cit., p. 73-74.

- 11 -

zioni, gli studi italiani cercano troppo spesso indarno ie vie benedette del vero progresso: che, fra molti ciechi, pochi e non sempre creduti sono i veggenti. Noi vorremmo che alcuni almeno fra questi, ed i più autorevoli, facessero udire alF Italia, loro patria, una parola severa e libera come quella che volse alla sua Francia Michele Bréal.

Lo illustre professore del collegio di Francia c'insegna col suo esempio come si possa e si debba discorrere intorno a fatto argomento in guisa veramente utile al proprio paese. L'amore deìle idee generali non io distrae dall'esame particolareggiato dei fatti; la disamina di questi non gli toglie, non gli scema la tendenza, l'attitudine ad assorgere a concetti sintetici. Egli si rivela ardilo innovatore, ardito tanto che osa, iii questi tempi, dopo le sconfitte dei 1870 e la perdita di due provincie, proporre non di rado alla vinta Francia come modello la vincitrice Germania : ma pari a nobile coraggio ha la prudenza, la moderazione. Il suo libro ha un vero valore, teoretico e pratico; molte idee giuste ed opportune ; vivo , profondo ed intelligente amore della patria; forme esatte, chiare, facili, talvolta condite di sale veramente francese. E s'intende facilmente come acconcie osservazioni e consigli siano opera dell'uomo, che, iniziato a tutti i misteri della linguistica e della filologia tedesca, diede alla Francia la prima versione della grammatica comparativa di Francesco Bopp con utili introduzioni e cooperò con eccellenti monografie alla forma- zione di una nuova scienza, la mitologia comparativa. Così prima di lui, un altro rinomato filologo, E. Renan, aveva gravemente e liberamente discorso della istruzione francese: non pochi scritti di ahri rispettabili cultori della scienza erano apparsi nelle più importanti riviste. Per le molteplici e strette attinenze che esistono tra gli studi francesi e gl'i- taliani la lettura di simili lavori ci destò nella mente buon

-12- numero di osservazioni intorno allo stato dello insegnamento in Italia, osservazioni che ci accingiamo ad esporre, e con quella assoluta indipendenza e franchezza, da cui, special- mente su questo campo, noi non sapemmo e non sapremo mai dipartirci. « Nous apporterons», diremo col Bréal, «à catte étude la plus sincère franchise. Les précautions de langage, outre qu'elles seraient superflues, seraient comme une sorte d'offense dans une matière il importe avant tout de rechercher et de dire la vérité » (i). E soggiunge- remo colTHillebrand che « les bons médecins sont ceux qui accusent le mal, non ceux qui le cachent et le pallient » (2). E questa libera e schietta esposizione gioverà eziandio a far conoscere chiaramente quali siano in ordine a parecchie ed importantissime questioni didattiche la fede e le aspira- zioni di questa nuova rivista, di cui sarà tanta parte lo studio dei problemi che concernono lo insegnamento, in ispecie il classico ed in Italia.

Il Bréal si mantiene, in tutto il suo libro, fedele alla fatta promessa e vergine di adulazioni codarde. Prendendo le mosse dairistruzione primaria od elementare (che è la sola onde i più possano essere forniti) ne accenna liberamente i difetti e le tristi loro conseguenze. « Une des choses », egli scrive, " dont l'Europe, pendant la dernière guerre, a été le plus étonnée, c'est de voir combien la raison du peuple francais était peu mùrie et peu ferme. Le courage de la nation s'est montr.é tei qu'on l'avait connu en tous les temps; mais on a été effrayé de trouver une telle inexpérience de pensée, un si grand désarroi intellectuel. Il est pénible de dire, mais il faut avoir le courage de dire que les AUe-

(i) Op. cii., p. 159-160. (2) Art. cit., p. 590.

- 13 mands nous trouvaient naifs» (i). E discorrendo dei fan- ciulli francesi nota che, giusta i chiari e vivi avvertimenti della storia degli ultimi cinquant'anni, tutto resta a fare per l'educazione della loro ragione (2). E giunge sino ad affermare che « jusqu'à présent il semble que Tinstruction publique, en France, ait pris à tàche de nourrir nos tra- vers et de culti ver nos faiblesses » (3), Per ciò che spetta agli studi secondarli basti citare le parole seguenti: « Au milieu d'une société qui est ou qui se croit renouvelée, nous avons donc conserve une organisation des études qui, dès le dernier siede, paraissait aux meilleurs esprits étroite et arriérée » (4). Alle quali parole potremmo aggiungere altre non meno gravi che leggiamo verso la fine del libro: « rélève de rhétorique et de philosophie, une fois sortì du collège, ne va pas chercher la science, car on ne lui en a pas inspiré le désìr, ni mème donne l'idée » (5). guari men severo giudizio è recato dello insegnamento superiore, in ispecie delle facoltà di lettere: che l'istruzione, la quale da esse si comparte, ci viene ritratta dal professore francese come affatto remota dallo scopo che dovrebb'essere suo,- quello cioè di preparare nuovi ed utili lavoratori alla scienza. Il Bréal conchiude asserendo che « l'enseignement, à ses trois degrés, est à réparer et à reconstruire » (6). Per ciò che attiensi particolarmente alle discipline classiche sono molte le amare verità dette francamente dal nostro autore

(1) Op. cit., p. 122.

(2) Op. cit,, p. 118.

(3) Op. cit., p. 116.

(4) Op. cit., p. 324.

(5) Op. cit., p. 390.

(6) Op. cit., p. 401.

14 intorno ai risultati finali degli studi latini e greci (i). più mite è la sentenza che intorno alla istruzione francese in genere pronunziava E. Renan: e. Tintelligence francaise

s'est affaiblie; il faut la fortifier Notre système d'in-

struction a besoin de réformes radicales » (2). Conforme ai parere di questi due dotti è quello di parecchi altri fran- cesi: come poi certi intelligenti stranieri abbiano giudicato gli studi dei nostri vicini apparirà a chi legga le pagine che il R.enan consecrava a questo non troppo lieto argo- mento (3). Ed ora vuoisi osservare che molte fra le accuse mosse alla istruzione francese si potrebbero eziandio, senza calunnia, muovere alla italiana. Che lo stato di questa sia ben lungi dair essere ciò che dovrebbe e ciò che tutti quanti ci conosciamo un po' queste cose vorremmo che fosse, è ormai tanto noto che non occorre nemmeno ripe- terlo. E se Torgogiio e la pigrizia c'inducessero a dimenti- care si fatta nostra miseria, la parola di qualche straniero basterebbe a rammentarcela. Così, per appagarci di un solo esempio, nell'anno 1869 il signor Blerzy, in un rinomato e diffuso giornale francese, dopo aver discorso dello inse-

ji) Intorno a fatti studi non vuoisi ommeitere quanto si legge nell'autorevole Revue critique dliistoire et de littérature, anno 4", n. 5": « Ne craignons pas de le dire tout haut: cet état (degli studi di lin- gua e di letteratura greca in Francia) est déplorable. Nous sommes au- dessous, non seulement de l'AUemagne contemporaine, mais peui-étre méme de l'érudition francaise au XVI1I« siècle. Sans doute les élèves de l'ancienne Université n'apprenaient pas le grec ; mais ceux d'au- jourd'hui n'ont que l'air de l'apprendre; au fond, à la fin deleurs éiudes ils ne savent quel'épeler. Quant auxtravaux d'érudition, il y avait, sera- ble-t-il, à la fin du XVI li» siècle un plus grand nombre de gens ayant la capacité et le goùi d'en exécuter, et sans la Revolution le nombre en

aurait augmenté encore Il est triste de penser que le grec est

florissant chez nous en comparaison du latin.»

(2) Laréforme ecc., p. 95.

(3) Questioni contemporaines, p. aSS-apS.

16

gnamento secondario in Inghilterra e Scozia, in Germania e Svizzera, dedicava alcune non troppo lusinghiere osser- vazioni alla istruzione pubblica in Italia. « S'étonne-

ra-t-on qu'en Italie, oìi les trois quarts des adultes ne sa- vcnt ni lire ni écrire, les études élevées soient dans un

déplorable état d'abandon? La loi Casati, promulguée

en 1859, est une imitation un peu trop servile des institu-

tions scolaires de la France Le pian d'ensemble de

cette organisation scolaire est bon; mais dans la réalité on n'a

pas été capable de le suivre avec constance Le corps

enseignant est trop nombreux, mal rétribué, et partant peu instruit. Le niveau moyen des études est si faible que les examinateurs som souvent forcés d'etra trop induigens, d'où

il résulte que les diplómes sont illusoires L'Italie ne

peut montrer que de louables efforts de réforme » (i). Fac- ciamoci a scrutare con analisi efficace la intima natura dei mali che corrodono la istruzione in Francia ed in Italia : scoprire le cause dei morbi è, spesse volte, trovarne i più possenti rimedii.

I.

Il primo vizio scolastico, di cui ci sembra opportuno far cenno ragionando degli studi presso queste due nazioni neo- latine, è la tendenza soverchiamente pratica dei medesimi : vizio che ci appare sempre maggiore, quanto piià ci avvez- ziamo a paragonare l'istruzione francese ed italiana colla ger- manica. Mentre in Allemagna la scienza è generalmente con- siderata come degna di essere coltivata per se stessa e come mezzo efficacissimo di alta educazione intellettuale, suolsi

(i) Blerzy, De l'enseignement secondaire en Europe (Revue des deux mondesyi. 80, p. 125-127)

~ 16 - per lo contrario in Francia ed in Italia proporre allo studio un fine straniero alla scienza, il conseguimento di un grado accademico, T apprendimento di una nobile professione. <( C'est une chose étonnante »y nota il Bréal, «combien, mème chez Ics plus instruits et les meilleurs d'entre nos jeunes gens, Tamour de la science est rare. On veut ètre ingénieur, avocat, professeur, médecin : mais irès-peu se proposent d'étudier les mathématiques, le droit, Pantiquité, la physiologie » (i). E, prendendo a discorrere, delle facoltà universitarie del suo paese, osserva che « dans la pensée de celui qui les a ìnstituées, la collation des grades était la partie la plus importante de leurs fonctions. Napoléon, chez qui invincibiement toutes les conceptions se presenta ient sous la forme hiérarchique et administrative, n'aurait probable- ment jaraais créé de Facuités des lettres et des sciences, s'il n^avait faliu quelques personnes pour délivrer les dipló- mes » (2). Quanto volgo di menti, che pretendono essere e farsi credere coite, fa eco in Italia a quest'errore francese e considera gli atenei come fabbriche privilegiate d'avvocati e di medici, d'ingegneri e di professori! Il dotto a che vale? Indi la suprema importanza data agli esami. In ordine ai quali sono degnissime di attenzione le parole del nostro au- tore: « On perd dès les premières années de la jeunesse la notion du travail désintéressé; on associe l'idée d'examen si étroitement à celle de travail, qu'une fois que les derniers examens sont franchis, le travail ne parait plus avoir de raison d'etre» (3). E di certi esami italiani ben potremmo ripetere ciò ch'egli dice dei francesi corrispondenti : « Les ^togrammes des examens, d'abord foft modestes, se sont

(0 Op. cit., p. 362.

(2) Op. cìt-, p. 327-328.

(3) Op. cit., p. 361-362.

17

peu a peu grossis de matìères nouvelles Il faut donc,

à un moment donne, ctre prét à répondre sur la matière de plusieurs enseignemems, prolongés chacun pendant un ou deux ans. Il faut surcharger sa mémoire en prévision d'un court examen qui décide du sort de la vie entière. Les con- naissances ainsi acquises ne resteront pas dans Tesprit-, elles ne iaisseront mème pas après elles ce profit general que pro- cure à rintelligence un travail librement entrepris et pour- suivi avec goùt et mesure. Le plus souvent, le seul resultai de cette préparation hàtive et outrée, c'est la fatigue precoce et le dégoOt du travail» (i). Chi, ledendo queste parole, non pensa ai nostri esami di licenza liceale ?

Con questi principii, con questi istinti si connette stretta- mente l'avversione dei più a tutti quegli studi, di cui essi non veggono attinenze palesi, numerose, importanti colla vita pratica. Vogliono la scienza non già per essa, ma per quelle ch'essi chiamano le applicazioni all'agricoltura, all'in- dustria, al commercio. Di costoro giusto giudizio profferiva

(i) Op. cit., p. 359-360. Il Bréal si mostra eziandio poco propizio ai premii. « Pourexciter nos coUégiens à bien faìre, on n'a rien trouvé de mjeux que de les classer et de les reclasser sans fin : places, notes, ta- bleau d'honneur, l'amour-propre est le grand levier. Mais il n'est pas difficile de voir que ce levier n'a rien qui le rattache spécialement à l'é- tude : ces moyens d'émulation pourraient ètra appliqués à obtenir des enfants un tout autre emploi de leur zèle ei de leurs facultés... Amener les enfants à faire avec passion des exercices qui ne les intéressent poìnt par eux-mémes, c'est la gageure que les Pères Jésuites paraissent s'étre donnée et qu'ils ont transmise à l'Université, L'enfant s'babitue de la sorte à chercher la récompense de ses actes en dehors des actes eux- mémes... >• (p. 3i8-3i9), n On dit quelepursentimentdudevoir n'existe pas chez les enfants, et que c'est une notion trop haute pour des na- tures encore si légères. Je crois, au contraire, qu'il est plus facile d'ha- bituer des enfants à travaillerpour se contenter eux-mémes et pour satis- faire leurs mattres et leurs parents, que de ramener au désintéressement rhomme qui a grandi dans le désir des récompenses, et qui n'a jamais séparé dans sa pensée un acte de bonne conduite ou un effort de travail du signe extérieur qui doit le constater aux yeux du monde *> (p. 1 19).

7(1 vista di Jilologia ecc., 1. a

18 in Francia il Bìot : « Depuis cinquante ans, les sciences phy- siques et chimiques ont rempli le monde de leurs merveil-

les Alors, la ibule irréfìéchie, ignorante des causes, n'a

plus vu des sciences que leur resultai, et, comme le sauvage, elle aurait volontiers trouvé bon qu'on coupàt Tarbre pour avoir le ^ruit w (i).

A questa irrompente volgarità plebea di concetti e di aspi- razioni dovrebbe, per la dignità della scienza iialica, opporsi almeno Talto insegnamento dei nostri atenei e la gioventù che lo riceve, onorando, non solo in teorica ma eziandio praticamente, la generosa investigazione del vero per Tamor puro del vero. Di essa ci sono nobilissimi modelli le uni- versità germaniche. Lo insegnamento che vi si comparte è, scrive lo Hillebrand, « purement scientifique, désintéressé , j'allais dire inutile, dans le scns vulgaire du mot; car il ne prépare qu'indirectement aux carrières, et souvent il n'est qu'un moyen pour arriver à un but plus general et plus élevé, celui d'enrichir et de faire avancer la science. Tous les Allemands, à quelque école qu'ils appartiennent , sont d'accord sur cette manière de voir. « L'enseignement de rUniversité, dit M. R. de Mofal, doit toujours èrre a la hauteur de la science; celle ci doit etre cultivée et estimée pour eile-mème et non-seulement pour son application di- recte au service public. C'est une opinion bien inintelligente et vulgaire que celle qui abaìsse l'Université au point d'en faire une riunion fortuite d'établissements destinés au dres- sage nécessaire des ouvriers de metier...... L'application

servile et mécanique ne se fera que trop d'elle-méme chez un grand nombre d*éièves, et l'exercice qui leur manque au sortir de l'Université, ils i'acquerront bien assez vite

(s) Renan, Qiiestioìis cantcì-^Tporaine:;, p, no.

- 19 - dans la vìe pratique. Les choses iraient bien mal chez un peuple dont la plus haute culture intellectuelle consisterait en une simple aptitude aux affaires, dans un état dont les fonctionnaires dirigeants ne seraient pas cn mème temps les esprits les plus cultivés de la nation y> (i).

Le idee e le tendenze soverchiamente pratiche dell'età nostra più ancora che T insegnamento superiore tentano invadere con istolta prepotenza T istruzione secondaria. Non pochi, né, apparentemente almeno, sforniti affatto di una mediocre educazione intellettuale sono coloro che vorrebbero fatta istruzione ridurre ad una prosaica pre- parazione del fanciullo alla vita pratica, escludendo spie- tatamente quei nobilissimi studi, i quali, come i più atti a svolgere convenientemente le più alte facoltà dello spirito umano, sono e debbono essere, e, speriamo per l'onore delle future generazioni, saranno sempre la solida base della istru- zione secondaria» Compito della quale, più assai che infon- dere nelle menti giovanili le nozioni letterarie e scientifiche

(i) HiLLKBRAND, L'enseigtiement supérieur en Allemagne CRevue ma' deme^ t. 45, p,. 193-220; v. in ispecie p, 214 e 21 5). Quindi « l'Uni- versité allemande ne prépare point directement aux carrièresr elle se contente de donner à l'étudiant une base scientifique, c'est-à-dire la méthode et l'ensemble des principes qui régissent les diverses sciences »> (p. 211). E quando si osserva che fatto insegnamento, essenzial- mente teoretico, tende per av\'emura a produrre maggior numero di scienziati che non d'uomini atti all'esercizio di una professione libe- rale, allora, soggiunge l'Hillebrand, i Tedeschi rispondono « qu'après tout ce n*est jamais que la mìnorité qui a le feu sacre, que l'on peut parfaitement concilier d'ailleurs l'accomplissement de ses devoirs pro- fessionnels sans renoncer à cultiver la science, que tous lessavants ne som pas nécessairement des hommes incapables dans la vie pratique, qu'cnfin la science a aussi bien le droìt de revendiquer pour elle sa pan de chaque generation que lesautres intéréts de la vie nationale, et que des hellénistes et des astronomes sont aussi nécessaires que des pro- fesseurs de collège et des médecins. D'un autre coté, les Allemands soutiennent que la science pure est la meilleure préparation à la pra- tique... » (p. 31 5).

- 20 - costituenti quella che ora appellano coltura delle classi supe- riori della società, è, per consenso di tutti i meglio pensanti ed esperti, educare Tuomo intellettuale e morale ; svolgerne una nobile e potente personalità, come l'artista trae fuori dal marmo la statua (i); rafforzare e raffinare, con molteplice opportuno esercizio, sentimento, immaginativa, intelligenza, memoria , volontà -, rendere sempre più gagliarda e squisita Taspirazione delTanima umana al bello, al bene ed al vero.

fi) Esagerando questo concetto profondamente vero, THiUebrand scrive: « L'insiruction secondaire... ne se propose ou ne dcvrait se proposer aucuiie utili pratique. En supposani qu'une intelligence pùt oublier tous les faits, dates, mots et règics qu'elle à appris au collège, sans toutefois que cet oubli fùt la suite d'un affaiblissement maladif des forces mentales, le. but de l'enseigriement secondaire n'en serait pas moins atieint, puisque cetie intelligence ainsi cultivée serait de- venue ce qu'on voulait qu'elle devini... On comprend aisément dès lors que l'esprit general et la méthode de l'en-^^eignement prennent la première place dans cet ordre, et que les connaissances eiles-mémes ne difTèient de valeur qu'autant qu'elies se prétent plus ou moins à appliquer cette méthode et cet esprit general. Donhez-nous, vous dira tout professeur de lycée qui prendra sa roission au sérieux, donnez- nou5un meilleur instrument que le grec, le latin, les mathématiques, l'histoire et la histoire naturelle, pour habituer nos jeunes gens à analyscr et è jjger, à penser avec logique et à observer avec exactitude., à cias- serieurs connaissances et à généraliser leurs observations, à sentir enfen les nuances et à deviner les rapports des choses ; donnez-noMS-le, e»^ nous voas abandonnerons, avec regret assurément, mais ^aiis hésiter, et Sciences et histoire, et mathématiques et latin, tout cet ensemble, en un mot, éprouvé et traditionnel, dont nous nous servons depuis trois cente ans pour former les jeunes esprits » (p, 194). E toccando di certi padri di famiglia, i quali considerano questi stuui come poco utilJ praticamente, soggiunge che « l'expérience seulc pourra leur ou- vrir les yeux et leur prouver qu'il n'y a rien de plus utile, méme au point de vue pratique, que ces belles inutilités. Cette expérience, il tàudri, bien que nous la fassions tout comme nos voisins qui, après avoir priitiqué pendant trente ans le système tant vanté des Realschulen, reviennent enfin à la bonne vieille coutume d'envoyer leurs enfants apprendre au collège le grec et le latin, méme quand ils se proposent d'en faire des industriels ou des négociants, des chimistes ou des in- génieurs » (p. 195).

-21 - Strumento fra gli altri tutti efficacissimo di questa educazione armonica delle potenze estetiche, intellettuali e morali del- i^uomo furono, dallo splendido evo del rinnovato culto della civiltà greco-latina alla età nostra, reputati gli studi classici. E la guerra che loro si mosse per lo passato ed in ispecie presentemente si muove non altronde procedette procede che da un'erronea confusione dell'abuso coll'uso o da un falso concetto dello scopo supremo che all'insegnamento ginnasiale e liceale vuol essere proposto (i).

Indi segue che non si potrà mai, senza gravissimo danno del perfezionamento umano, sostituire nelle nostre scuole secondarie agli studi classici una istruzione esclusivamente tecnica, o, come si direbbe in Francia, un'istruzione mera- mente professionale: questa, checché ne pensino certi dottori dalla vista corta, potrà mai staccarsi affatto dalla scienza pura senza nuocere grandemente a stessa. Atto- nito ammiratore dei grandi risultati pratici , di quelle che soglionsi ora chiamare applicazioni di scoperte scientifiche, il volgo degl'inetti a riflettere dimentica, troppo presto dav- vero, li lungo ed arduo lavorfo puramente teoretico a cui quelle per lo più si debbono: e intanto non si pensa, e sa- rebbe pur facile, che, negletta la generosa indagine del vero, sarà stoltezza l'attenderne i benefici effetti (2).

Ed anche lo stesso insegnamento primario dipende , più che i molti non credano, dalla istruzione superiore ed il perfezionamiento di quello col progresso di questa è stretta- mente connesso. Ed in fatti che cosa è l'insegnamento pri- mario se non l'esposizione elementare di quelle verità che debbono essere il patrimonio intellettuale di tutti ? E non

(i) FiCKER, Guida allo studio della letteratura classica antica, trad. da V. De Castro, 2* ed., Milano, 4844, p. 6-29. (a) Blanchard, art. cit., p. 818-823.

22 sono forse queste verità parte del sapere più alto, e non ispetta forse a questo darne le prove e determinarne esatta- mente il concetto? E d'onde, se non dalle scuole superiori, trarremo uomini veramente atti a dirigere l'educazione intel- lettuale del popolo? Quindi a ragione scrive il Bréal: «L'U- niversité est un centre d'où rayonne continuellement sur la nation Tesprit de réflexion et d'examen: car il ne faudrait point croire que ces grands corps restent sans action sur les couches popuiaires. Gomme ce sont les anciens élèves des universités qui remplissent les fonctions publiques et qui exercent les professions les plus considérées, la société tout entière adopte, moyennant le grossissement exigé par Tintel- ligence et par Téducation de chacun , les mèmes facons de raisonner et de juger. Le journal que lit Thonime du peupie a pour rédacteur. un homme qui a étudié Thistoire avec Waitz ou l'economie politique avec Roscher. Le maitre d'école qui parie aux enfants a recu sa part du courant scientifique par l'intermédiaire du Directeur de son Ecole normale, ancien éiève des Universités, et il entretient ce pre- mier fonds gràce à la lecture des journaux pédagogiques » (i). Ed a certi signori, i quali sembrano non d'altro mai darsi il minimo pensiero, quando si tratta di studi, che della istru- zione elementare, sarebbe proprio opportuno il rammentare, con E. Renan, che « l'enseignement supérieur est la source de Tenseignement primaire. Sacrifier le premier au second, c'est commettre une fante, c'est aller contre le but qu'on se propose,.., L'instruction primaire n'est solide dans un pays que quand la partie éclairée de la nation la veut, la com- prend, en voit Tutilité et la justice. Travaillez à produire des classes supérieures qui soient animées d' un esprit

(i) Op. cit., p. 396.

-23

liberal; sans cela, vous bàtissez sur ie. sable La force

de rinstruction populaire en rAllemagne vient de la force de renseignement supérieur en ce pays. C'est Puniversité

qui fair Fècole L'instruction du peuple est un effet de

la haute culture de certaines ciasses. Les pays qui, comme les États-Urxis, ont créé un enseignement populaire con- sidérable sans instruciion supérieure sérieuse expieront longtemps encore cette faute par leur médiocrité intellec- tueile, leur grossièreté de moeurs, leur esprit superSciel, leur manque d'intelligence generale » (i). Conchiudiamo pertanto col Bréal: « C'est par Tinstruction supérieure que doit débuter une réforme de Tenseignement qui veut étre approfondie et durable, puisqu'un nouvel esprit ne pourra pénétrer dans les iycées que si le savoìr des professeurs s'élargit et se transforme, et puisque Tenseignement primaire ne deviendra ce qu'il doit ètre que si les Écoles Normales empruntent leurs directeurs et leurs professeurs à Tinstruc- tion secondai re. Ainsi nos Facultés des lettres et des sciences, qu"'on regarde ordinairement comme une sorte de luxe, sont les organes nécessaires pour le renouvellement de notre vie intellectuelle » (3). Alle quali considerazioni noi aggiungiamo essere assai più facile attuare una pronta e radicale riforma nei pochi istituti d'istruzione superiore, che non nelle molte scuole liceali e ginnasiali e nelle elementari, le quali ultime sono e debbono essere per la propria natura presso un popolo inciviUto numerosissime.

(Continua)

D, Pezzi.

(1) Questions contemporaines, p. VI -VII.

(2) Op. cit., p. 327.

24

IN SERVIGIO DEI FUTURI EDìTORI DI TRADUZIONI ITALIANE DI PROSATORI GRECI.

Ammesso come un vero incontrastabile che nelle due let- terature greca e latina si trovino le sorgenti da cui è deri- vata e da cui si alimenta la cultura letteraria e scientifica delle nazioni moderne, ne segue manifesta la necessità di non trascurare alcuna delle vie per cui quei tesori di sa- pienza possano rendersi accessibili al massimo numero. Una, e la principale di queste è Tistruzione classica che si nelle scuole con tanto dispendio di tempo per parte della gioventij, e di denaro per parte del governo. Se i frutti che se ne ottengono rispondano adequatamente alla grandezza dei sacrifizi, è questione ch'io non voglio ora toccare. La seconda via sarebbe l'incoraggiare con concorsi e con premii la produzione di buone versioni italiane di autori greci e latini, le quali sarebbero tanto più utili, inquantochè nella nostra letteratura non sono in gran numero i prosatori leg- gibili con facilità, con diletto, e con vantaggio educativo dalle persone di qualche cultura. Le due vie accennate di promuovere la cognizione delle lettere classiche si connet- tono intimamente l'una colPaltra. La prima intende a ren- derla forte e profonda, la seconda a diffonderla e renderla popolare, il quale secondo scopo non si ottiene in modo soddisfacente se non a condizione che sia conseguito il primo, posciachè solo da valenti filologi sono da aspettarsi buone

-25-

traduzioni ed illustrazioni di autori antichi. Tuttavia al ve- dere la deplorabile condizione in cui trovasi la nostra let- teratura sotto il rispetto di questo genere di lavori, si di- rebbe che il grande sviluppo dato al primo dei detti mezzi sia stato cagione che il secondo venisse trascurato, e che sui classici volgarizzati si diffondesse quell'uggia che suole ac- compagnarsi ad ogni cosa prettamente scolastica. E un fatto che gli autori latini, tanto rimasticati nella scuola, fuori di questa non si leggono più guari nel testo. Si leggeranno nelle traduzioni? Neppure, perchè si sa che una traduzione non può mai equivalere all'originale, e chi ha compiuto il corso liceale crede che potrà, quando il voglia, leggersi il suo Tito Livio nel testo. Il male è che egli si contenterà in per- petuo di poterlo leggere, se pure lo pub, ma in fatti non lo leggerà mai. Di maniera che quel lungo tempestare sul la- tino nelle nostre scuole riesce a questo curioso risultato che le opere degli scrittori latini sono di tutte le men comprate e le meno lette, vuoi nella loro lingua originale, vuoi nella nostra. La causa però del non leggersi i classici, neppur tra- dotti, non istà tutta qui : conviene riconoscerla in grandis- sima parte anche nelle qualità delle traduzioni che se ne posseggono, le quali, poche eccettuate, sono tali da attutare ogni rammarico che non siano lette. Le traduzioni di pro- satori greci sono alquanto più comprate e forse più lette, essendo minore il numero di quelli che potrebbero leggerli nel testo : perciò, e per l'intrinseco valore delle opere origi- nali, è ancor più deplorabile che esse siano, salvo qualche rara eccezione, eguali a quelle degli autori latini. Noi siamo, sotto questo rispetto, in condizione inferiore di gran lunga alla Germania ed anche alla Francia, l'una e l'altra delle quali possiede tradotti in modo leggibile nella propria lingua gli autori greci e latini, mentre noi ne abbiamo pochissimi che siano tradotti con qualche accuratezza.

-me- lina traduzione di opera classica lunga lena si do- vrebbe considerare come un lavoro progressivo, capace di successivi miglioramenti, man mano che si vien facendo più corretta la lezione dei testo, e che si progredisce nella intel- ligenza del pensiero antico. Perchè ricominciar sempre da capo, quando le basi siano state ben poste, e si possa colla minuta disamina ed emendazione dei particolari avvicinare sempre più l'opera alia perfezione? Perchè prima di por mano alla ristampa di tali traduzioni, specialmente se dal greco, non se ne procura una qualche revisione, la quale ne elimini almeno i più notabili errori? Se così si facesse, si riuscirebbe col tempo ad avere gii scrittori greci leggibili con facilità e con diletto nella nostra lingua, e a possedere così un molto desiderato supplemento alla scarsità di pro- satori italiani.

A dare un saggio di quello che io desidero in questo ge- nere, mi propongo di pubblicare alcuni appunti sulle più note e più spesso ristampate traduzioni dal greco. Comin- cierò da quella delle Vite parallele di Plutarco, fatta da Gi- rolamo Pompei.

Pericle I,

Testo secondo Bekher, \

Eévoui; Tivà(; èv 'Pti^iur)

TiXouoiou^ kuviIjv T^Kva

KOl TtlOrìKUJV èv TO'iC, KÓ\-

ttok; nepiqpépovTa? koì àToirOùvra^ ìbùiv ó Kat-

Oap, (fai; l01K€V, ^ptÙTT)-

acv, €Ì ivaiMa rrap' aÙTOì? TiKTOuaiv d YuvaìKÉ?, i^Y€^oviKÙJ(; acpóbpa vo\)- Q€xi\aa(; toù<; cpùoei 9i\riTiKÒv èv i^ulv Kal qpi- XòcTTopYov elq Qr]p{a Kax cevaX((JKOvaa(; àvepiOnoi<; ò<p€tXó|aevov.

Traduz. letterale.

Visti in Roma alcuni stranieri ricchi, portanti in seno cagnolini e ber- tuccini, e ponenti in essi, a quanto pareva, ogni loro affezione, Cesare do- mandò se presso loro le donne non partorissero bambini , ammonendo cosi in modo veramente degno di principe coloro che spendono verso gli animali bruti queir a- more ed affezione che la natura ha in noi posto, e che è dovuto agli uomini.

Traduz. Pompei.

Cesare veggen do ia Roma certi ricchi fo- restieri girar dattorno con in seno cagnolini e bertuccini, acquali fa- ceano affettuose carezze, gì' interrogò non fuor di proposito, se fosse che le donne appo ioix) non parto risser figliuoli; ammaestrando c03Ì,ve- l'amente da sovrano, co- loro che consumano in versoi bruti quell'amore e quegli affetti che in noi posti ha la natura, e che noi dobbiamo agli oo-

- 27-

In questo primo periodo non c'è altro da notare se non : i*> il congiungere che fece il Pompei T uj? ^oikev coir lìpiu- TTìcTev, mentrechè, secondo il mio parere , deve congiungersi coir àtaTrujvTa(;, che si deve intendere per contentarsi, com- piacersi, restringere tutto il suo amore ad un oggetto, la qual disposizione d'animo non essendo visibile all'occhio corporeo, ma solo congetrarabile , si capisce il perchè Plutarco vi abbia soggiunto V<h% Ioikcv; 2" il vov;9eTr!(Taq tradotto da Pompei per amjnaestrando , mentre significa piuttosto assennare, ammonire. Proseguiamo :

Testo secondo Behker. j Tradus. letterale. Tradus. Pompei.

fip' ouv, ètcel qpiXo|na9é^' Sarebbe mai vero adua- Avendo pertaato anche TI KéKTnTCì Kol (piXoOèa-'que che (posciachè l'a- e i cagnolini e i bertuc-

, . . 7 , Inima nostra possiede per Cini un Qualche desme- Mov fi\XMtv ■f\y]^x^ 'P'J^^f'! natura l'amor dell' im- rio di apparare e di os- XÓYov lx« véfeiv toò? parai-e e dell'osservare) servare, l'animo nostro KOTaxpiUjnévou? TouTUJ si abbia ragione di ri- ha bea ragione per la irpò<; nn&euia^ ggia prendere coloro che a- natura sua di biasimar

., > ' ,'busivamente rivolgono quelli che si abusano di.

anouòf^? àKoua^iaTa Kali^^^gp,^ .^^^^^ ^^ ^^j^.^ ^^^ t^^l desiderio, tratte-

Sedfiaxa, tùjv òè KaXuùv j mirar cose degne di nes- uendosi ad ascoltare ed Kol U)qpeXi|itjuv irapafie- suno studio, e. trascurano osservar cose che non XoOvrac- '^® cose belle e giovevoli? meritano cura veruna, e

AouvTus» j trascurando quelle che

I eono utili ed oneste.

La traduzione del Pompei non qui il senso espresso da Plutarco, alcun altro senso ragionevole. Il pensiero Plutarco si può compendiare nel seguente modo. Come sono degni di biasimo coloro che esauriscono verso gli ani- mali bruti quel bisogno di amare con cui la natura ha vo- luto congiungere gli uomini cogli uomini, così sono degni di biasimo coloro che in cose imitili cercano la soddisfa- zione di quel bisogno di sapere che la natura ha posto in noi per condurci alla cognizione di cose utili e belle. Pen- siero sottile che pel lettore della sola traduzione pompe- iana va intieramente perduto senza alcun compenso.

[Continua)

G. M. Bertini.

_ 28

qiETTFFICAZIOV^E m UN'ERRONEA ASSERZIONE DI A.G.SCHLEGEL

L'illustre storico e filologo Cesare Gantù, nella sua ela- boratissima Disserta:{ione sull'origine della lingua italiana stata premiata dall'Accademia pomaniana di Napoli, a pa- gina 69 in nota riferisce, a prova delle avvenute surroga- zioni di vocaboli da un significato ad altro nel loro trapasso dal latino all'italiano, l'osservazione fatta sino dal 1818 dal chiarissimo filologo A. G. de Schlegel nel suo opuscolo Observations sur la langue et la littérature provengale: che non una delle lingue neo-latine ritenne il vocabolo verbum, ma vi sostituì parola (italiano), parole (francese), palabra (spagnuolo), palavra (portoghese), paratila (pro- venzale) (i), tratta dal greco TrapapoXrj, che, quando con- servato ìntegro nei suddetti idiomi, dinota racconto allego- rico, attribuendo tale scambio alla peculiare significazione teologica datagli di Cristo, attalchè l'illustre autore del Ma- nuale dei dogmi cattolici, il reverendo dottor Klee, osserva che in S. Giustino Cristo e Verbo sono pretti sinonimi.

Senza qui riferire quanto dice a proposito di siffatto vo- cabolo il celebre indianista M. Mùller nel suo opuscolo Uber deuische schattirung rotnanischer worte, mi per- metterò di notare essere erronea l'asserzione che nessun idioma neo-latino abbia conservato il vocabolo verbum.

(i) Ecco come alcuni dialetti italiani alterano questo vocabolo: in Sicilia ed in Terra d'Otranto dicesi palora, in Marebbe parora, nel Friuli peraule, in Genova, Milano e Bergamo parolla, in Zicavo (Cor- sica) parodra.

-29 ~ giacché il rumano, tuttoché abbia cuvìnt per parola, adopera non di meno con maggior frequenza e più estesamente vorba; inoltre ha il verbo a vorbì {parlare) che non è nel latino classico, ma forse era nel latino plebeio, perchè in Apultio riscontrasi verbigerare nell'accezione di ciaramellare.

Rispetto alla anormale permutazione della e tematica in o, farò osservare che neiridioma rumano ne^ vocaboli di ge- nere femminile spesso succede lo scambio della tonica latina con altra e più spesso ancora con dittongo; ma il verna- colo di Montalto (circondario di Pistoia) offre pure esempi di eguale permutazione, dicendosi propoten:{ia, proten\ione (Vedi Nerucci, Saggio sopra i vernacoli della Toscana). Il francese poi scambia dell'etimo latino nel dittongo oi, che suona oa; esempligrazia avena, avoine; tela, toile, ecc. Il vocabolo verbum, dirò per ultimo, nel dialetto della Borgogna, in cui è adoperato nel solo significato teologico, è trasmutato in varòe leggendosi in uno dei deliziosi Noels di queirantica provincia raccolti da La-Monnaye (27* edi- zione) il verso seguente :

* L'imaige da Varbe fai char ».

Lo scambio adunque d'una in altra vocale è cosa comune e mi basti citare la Teorica dei suoni e delle forme della lingua latina di Schweizer Sidler (traduzione di D. Pezzi), nella quale al § 6 si riferiscono le forme assunte successi- vamente dal vocabolo piede, cioè: pAdas , pMós , pédUs, pèdès, pédis , che, nella finale, percorse tutta quanta la gamma fonetica.

Soggiungerò ancora non essere il rumano la sola favella neo-latina che non abbia accolto parola per verbum^ giac- ché la sarda meridionale, cioè la campidanese, dice faedda t faeddai (parlare), derivante, per sincope, da favella, sapendosi che i volgari della Sardegna, eccettuato quello di Sassari, della Sicilia, di Lecce e di Ghisoni in Corsica

- 30 - scambiano la doppia // in doppia dd , cioè, giusta la classazione seguita dal mio giovane amico D*" Pezzi, nella sua Grammatica storico-comparativa della lingua latina, mutano nella dentale esplosiva sonora la dentale tremola. Il romancio del Cantone dei Griggioni adopera alla sua volta, per significare parola, plaid e plaider (parlare) -, questo verbo è omofono a quello francese per dinotare le disputazioni nanti i tribunali ed in Coirà mi fu dal ch»mo filologo Conradi, or fanno molti anni , segnato qual etimo del verbo francese, a vece del placitum, basso latino, come pretendono gli etimologisti da Du-Cange a Brachet, ed avvalorava siffatta derivazione dallo avere l'egregio Fauriel {Dante et Ics origines de la langue et de la littérature italienne) asserito che il romancio dei Griggioni deriva in gran parte dal latino rustico. Non entrerò in disamina di tale opinione, sto pago al riferirla.

Reputai non disutile il far avvertiti con queste poche pa- role ì giovani indagatori delP origine e formazione degli idiomi romanzi dello sbaglio preso da A. G. Schlegel, perchè la di lui grande autorità in filologia, se già potè trarre un Cesare Cantij in errore, altri meno di lui dotti e saputi potrebbero esserlo assai più facilmente.

VeGEZZI - RUSCALLA .

CE^V^I "BmLIOG^AFICI

Die strofe des Tantatus nach Pindar von Prof. Domenico Comparettì.

li ch"^ Professore di letteratura greca nella R. Università di Pisa, autore della dissertazione qui annunciata, consi-

31 aerando che Tesegesi del più grande dei lirici greci non fu di gran lunga argomento di profondi e minuti studii, quanto la critica del suo testo, si propone di discutere, con tutta la minutezza che Todierna scienza filologica richiede, una serie di luoghi che alla interpretazione presentano le maggiori difficoltà e per i quali quelle che furono proposte finora meno possono soddisfare.

Il passo del quale si occupa nel presente suo lavoro è uno dei più controversi della prima ode Olimpiaca (v. 56 e seg.), in cui è parola della punizione di Tantalo e che a parer mio, per la prima volta, dal prof. Comparetti è stato interpretato in un modo veramente soddisfacente. Mediante un finissimo ragionamento e con grande corredo di classica erudizione viene nella conclusione che il senso del passo sia il seguente: Tantalo ha abusato dei doni, co'quali gU Dei lo hanno reso immor- tale, e per ciò lo hanno punito convertendo i loro doni in altrettanti tormenti. Gli hanno sospeso una rupe sul capo facendogli porre innanzi nettare ed ambrosia. Fra Teterna paura che questa rupe gli si precipiti addosso e la fame e la sete che non può appagare, il dono delV immortalità e un quarto tormento (la maggior difficoltà del passo sta appunio nelle parole « jiexà ipiuiv Téiapiov nóvov »), a cui senza riposo e senza fine è sottoposto nel cielo.

Dopo un lavoro che un bel risultato non possiamo che desiderare che presto sia pubblicata la continuazione di queste profonde e minutissime ricerche, le quali spargeranno grande luce su molti punti ancor contrastati. È vero che vi hanno degli studiosi di filologia, che facilmente s'acquietano alle in- terpretazioni antiche, ma studii cow «minuti e fecondi di bei risultati come quello del prof. Comparetti r^ia^leranno sem- pre più impossibile il pronunciarsi intorno aUuoghi dei più celebri classici scrittori come a proposito del p?sso m di- scorso fa il Flores nelle sue « Odi Oliifpichc di Pindaro

32 volgarizzate » (Vercelli 1 866), che a pag. 98, not. 1 7 crede di poter dire : « I tre altri tormenti sarebbero la fame, la sete, e il disagio di star ritto in mezzo del lago. Ma sieno questi o altri tormenti, è cosa di poco rilievo, come a me sembra. Anzi questo luogo e quelli moltissimi che s'incontrano presso tutti i poeti, dovrebber render persuasi alcuni filologi della grande verità delle tradizioni locali, intorno alle quali si può affermare che appena ne conosciamo la minima parte. Onde deriva dunque la boria di quella scienza, che si fonda sopra notizie imperfette? a Forse io studio delio scritto di Gom- paretti e l'altro sullo stesso autore (inserito ugualmente nel Philologus^ voi. 28, p. 385 e seg.), potranno insegnare a molti che ii serio lavoro ben giunge a sciogliere delie aiificoltà che incontriamo nei grandi scrittori e quale sia ii metodo da seguire in simili ricerche, non dovendo il filologo senz'altro neir interpretazione dei grandi scrittori così facilmente di- spensarsi delle minute riceixhe ed acquietarsi con un non liquet per mancanza di notizie.

G, MiJLLER.

'OXocpiXou '€patTeXo? Kaì '€pao,ula {Gli amori di Erogelo e di Erasmià). Storia greca trovata e volgari^ata da Innocente Demaria, Torino^ 1872.

Ghi vede il titolo del presente libro s'aspetta un avanzo della letteratura greca, fosse anche dei tempi della decadenza, finora sconosciuto, e l'aprirà forse con una certa avidità. Ma tosto si vedrà stranamente disingannato, perchè invece d'uno scritto d'autore greco non troverà nemmeno un abile tentativo d'impostura letteraria, ma il fascicolo d'uno studioso di lingua greca, che prima d'avere bene imparata la grammatica e stu- diato le regole più elementari di sintassi greca, s'è preso lo

- 33 - strano divertimento di tradurre un insipido racconto italiano in greco y o dMnventarsene uno per esporlo in lingua macche- ronica, che non franca la spesa d'indagare ora. Non dubitiamo menomamente che il giovane editore abbia trovato lo scarta- faccio, che diede alle stampe, in un vecchio armadio tra l'as- sito e la parete, ci maravigliamo, atteso il triste stato in cui si trova lo studio del greco ne' nostri licei, ch'egli non si sia accorto come quello, che a lui parve cosa bella e meri- tevole della diffusione, sia il più strano sproposito da capo a fondo. Ma dobbiamo davvero esprimere il nostro stupore, che queir « uomo distintissimo, ottimo intendente delle let- tere greche ed italiane » da cui prese consiglio, secondo la prefazione, e che difiicilmente può essere altri che un suo professore, sia tanto ignorante o tanto maligno da esporre un allievo, che è certamente di ottima volontà, ad un meritato severo biasimo. Noi per nostra parte lo consigliamo a leggere con accuratezza il suo Senofonte, dopo aver studiato per bene la sua grammatica , e fra breve conoscerà egli stesso qual cosa ha stampato, credendola greco del buon tempo.

G. MiJI.LER.

Primo supplemento alla raccolta delle antichissime iscrizioni italiche coni aggiunta di alcune osservazioni paleografiche e grammaticali di A. Fabretti. Torino, Stamperia Reale, 1872, in-4°, p. 142 (Dalle Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino, S. Il, T. XXVII).

Sono ben oltre 5oo iscrizioni aggiunte al Corpus inscriptio- num antiquioris aevi che, come ognun sa, il prof. Fabretti finiva di pubblicare circa quattro anni sono insieme col Glossarium italicum. Di queste iscrizioni circa 35o sono etrusche, il resto latine, umbriche, sabelliche, messapiche.

Hivista di filologia ecc., 1. 3

- 34 - falische, e qualcuna, tra quelle dell'Italia Superiore, fors'anco celtica o retica. Sono, buona parte, od inedite o ad ogni modo scoperte in questi ultimi anni, disposte, come quelle del Corpus, per ordine geografico , le più importanti accom- pagnate da dichiarazioni e commenti. Seguono correzioni e osservazioni intorno alle epigrafi già pubblicate, principal- mente tra quelle che il Fabretti potè di poi, massime per le mutate condizioni politiche dell'agro romano, visitare ed esaminare più attentamente sul luogo e così più sicuramente fermarne la vera lezione. Viene in ultimo un indice di tutte le parole contenute nelle iscrizioni, ricco di circa un migliaio di vocaboli, la maggior parte consistenti, già s'intende, in nomi proprii di persone, taluni affatto nuovi ; specie di sup- plemento al Glossarium , se non che nell'indice è maggiore parsimonia di dichiarazioni. Aggiungonsi alla fine nove tavole presentanti principalmente i fac- simili delle iscrizioni più notevoli per singolarità di caratteri.

Si riserva il Fabretti di pubblicare in appresso alcune os- servazioni paleografiche e grammaticali che verseranno, le prime, sugli alfabeti italici, le seconde, principalmente sulla lingua etrusca; sicché è da sperare che mercè i lavori del Fabretti e di altri , come dire del Gonestabile , del Lattes e segnatamente di quel gran maestro di antica dialettologia italica che è Guglielmo Corssen, del quale viene annunziata come prossima la pubblicazione di una grammatica etrusca, questa tanto importante fra le antiche favelle d'Itaha, rimasta, si può dir quasi in sino al giorno d'oggi, una specie di eninima glottologico, cesserà non solo di essere tale, ma si chiarirà, secondo che da qualche anno si viene congetturando, ancor essa per ramo indubitato dello stipite indo-europeo e lascerà pur vedere finalmente qualcosa di quella sua struttura gram- maticale, finora non intravveduta pur troppo se non per qualche lontano ed incerto barlume.

- :35 - Questo lavoro del prof. Fabretti , mentre viene a darci novella prova della dottrina ed operosità dell'autore, attesta eziandio d'altra parte quel maggior fervore che pare essersi racceso da qualche tempo in Italia per quanto si riferisce all'illustrazione dei suoi antichi monumenti, secondo che si raccoglie principalmente dalle notizie che il Fabretti ci viene qui occasionalmente porgendo di scavi, scoperte e monografie connesse colle nuove iscrizioni da lui pubblicate.

G. Flechia.

D'Arbois de JuBAiNviLLE, La déclinaison latine en Caule à l'epoque Mérovingìenne, étude sur les origines de la langue fran^aìse, Paris, .1872, i voi. di p. i65.

« G'est avec intention», scrive l'autore, «que nous nous sommes restreint à l'étude de documents qui appartiennent exclusivement à la Caule ou à l'empire frane. Nous croyons qu'en Gaule le latin vulgaire a eu certains caractères profon - dément distincts de ceux qu'il mentre hors de la Gaule, spé- cialement en Italie » (i). Da questi documenti, che cita sem- pre accuratamente, egli trae gli esempii opportuni a determi- nare le forme della flessione nominale e pronominale del latino in Gallia nella epoca dei Merovingi. Espone prima- mente le cinque declinazioni nominali, giusta l'ordine della grammatica empirica comune, ma comprendendo nelle tre prime quelle degli aggettivi e quei casi della declinazione pro- nominale dei quali la desinenza è identica a quella dei me- desimi casi nella declinazione dei nomi: le forme speciali della flessione pronominale vengono dopo. Gompendieremo

(1) Prefazione, p. 7.

- 36

i risultali a cui l'autore si crede giunto colle sue stesse pa- role : « Trois manières de declinar les noms, les adjectifs et les participes sont usitées dans les documents rnérovingiens. La première est identique à la déclinaison ciassique. La seconde n'en diifère que par un phénomène phonétique, par une modification dans la prononciation des voyelies, quelquefois, mais rarement, dans la prononciation des con- sonnes; nous appellerons ce système: déclinaison vulgairedu premier degré. La troisième manière de décliner est le résultat de l'introduction d'une syntaxe nouvelle. Les cas sont employés autrement qu'autrefois : une partie d'entre eux remplit concurremment la mème fonction, plusieurs de- viennent inutiles, et le nombre des cas tend à se réduire à quatre ou à deux. A ce troisième système, qui a servi de transition entre ia langue latine et le francais archaique, nous donnerons le nom de déclinaison vulgaire du second degré... Le francais commence du jour les flexions des cas obli- ques disparaissent ou se confondent en une seule. On trouve peu de traces de cette forme nouvelle dans les documents mérovingiens » (i). E conchiude: « A l'epoque mérovingienne, un principe nouveau régnait dans la déclinaison latine où, par la puissance de ce principe, une revolution considérable

s'était accomplie Dans le latin classique une fonction

speciale est attribuée à chacune des formes si variées que l'on désigne par diverses combinaisons des termes de cas, de genre et de nombre. Dans le latin des temps mérovingiens ces formes si nombreuses subsistent. Bien plus, une partie de ces formes nous apparait doublée ou meme triplée. A coté de la forme classique on trouve souvent une, quelquefois deux formes secondaires, ordinairement issues de la forme classique, mais qui, parfois, conservent un son archa'ique

(T/ Prefazione, p. 5-6.

37 ->

antérieur à la forme classique Mais à l'epoque méro-

vingienne , malgré ce nombre considérable de formes , le nombre des fonctions que la pensée concoit et demande à la parole est considérablement réduit. Dès Tépoque méro- vingienne, au lieu des six fonctions casuelles distinguées par la grammaire classique, la syntaxe ne semble distinguer pour les noms, les pronoms et les adjectifs, que deux fon- ctions casuelles, sujet et regime : de l'emploi si fréquent des cas régimes Tun pour Tautre. En fait de genres, le mas- culin et le féminin seuls vivent encore come fonction; du neutre la forme seule subsiste cependant les for- mes grammaticales inutiles subsistèrent pendant les trois siè- cles que dura la période mérovingienne. Ce fut seulement pendant la période carlovingienne que la simplifìcation des formes mit le matèrie! grammatical en harmonie avec la sim- plifìcation des idées. Alors le francais naquit» (i).

11 signor D'Arbois de Joubainville ci permetta di osservare che, se dagli esempii addotti nel suo libro bassi a trarre un giudizio intorno alla sintassi del latino gallico nell'età dei Merovingi, non si può credere nemmeno ben conservata la distinzione capitalissima tra il caso esprimente il soggetto e quello che indica Toggetto. E veramente egli stesso confessa che « la première déclinaison mentre une tendance evidente à réduire les formes latines a deux, l'une pour le singulier, l'autre pour le pluriel .... » e che nella terza « la distinc- tion entre le cas sujet et les cas régimes du singulier et du pluriel, à l'aide de Vs final, ne peut s'y ctablir aussi nette- ment (che nella prima e nella seconda) » (2). Ora sarebbe

(i) P. 160-161.

(2) Vedi le osservazioni generali sulle declinazioni nominali (p. 148- 149). Cosi nella i* declinazione troviamo esempii di acc. sing. per nom. sing. (p. io), di acc. plur. e di ahi. plur. per nom. plur. (p. 20, 21, 22); nella di acc. sing. per nom. sing (p. 79) e di nom. sing. per

- 38 assurdo e contrario al maggior numero degli esempii addotti dal nostro autore il supporre che nel latino della Calila sotto i Merovingi si fossero confusi insieme i due distinti con- cetti del soggetto e dell'oggetto. Ancor più di noi sarebbe certamente avversa a questa ipotesi ed a quella del nostro autore la scuola d^illustri filologi francesi la quale, seguendo A. G- Schlegel, credette scorgere nella trasformazione del latino antico nei volgari neo-latini Tefifetto di una « tendenza analitica » (i). Noi pertanto piiì che la teorica del signor D'Arbois di Joubainville siamo inclinati ad ammettere, come già altrove facemmo(2), quella dello Schuchardt e del Corssen, i quali considerano la confusione dei casi come un risultato di fenomeni meramente fonetici , ossia del graduato dileguo delle desinenze s, ?«, e del progressivo aftievolimento delle vocali diventate finali dopo Taccennato dileguo (3).

Ma la nostra diversa opinione intorno a questo argomento non ci distoglie dal riconoscere i pregi di questo lavoro : la- voro serio ed utile per la ricca raccolta di farti , concernenti

acc. sing. (p. 98), di abl. sing. per nom. sing. (p. 82) e viceversa (p, 104I, di gen. sing. per nom. sing. (p. 83) e di questo per quello (p. 92). di abl. plur. per nom. plur. (p. 107); nella di acc. sing. per nom. sing. (p, 'liS): e nella flessione pronominale ci appare un acc. sing. in luogo del nom. sing. (p. i53).

(i) E. BuRNouFCt Lassen, Essai sur le pali ecc., Paris. 1S26, p. 140- 141. ViLLEMAiN, Lìttérature du moyen dge ecc., Paris, i83o, v. i». p. 49-54. Fauriel, Dante et les origines de la langue et de la littérature italienne, Paris, 1854, v. 2»,' P- 1-29» 3o-44, 45-78, 270-293. Renan, De Vorigine du langage, ed., Paris, i858, p. i5i-i68. Id.y Histoire generale etsystème compare des langues sémitiques, Paris, i855, p. 402-414.

(2) V. la nostra Grammatica storico-comparativa della lingua latina ecc., Torino, 1872. p. 393.

(3) Schuchardt, Der vokalismus des vulg'àrlateins , Leipzig, 1866, V. 1°, p. 47. Corssen, Uber aussprache, vokalismus utid betonung der lateinischen sprache, ed., Leipzig 1868, v. i", p. 293.

- 39

un problema importantissimo (e sinora troppo negletto) di

linguistica, per la diligente indicazione dei fonti, e finalmente

pel tentativo di notare l'azione del celto sul latino della

Gallia (i).

D. Pezzi.

i

Histoire de l'éloquence latine depids l'origine de Rome

jusqu'à Cicéron, d'après les notes de M. Adolphe Berger professeur à la faculté des lettres de Paris, réunies et pubbliées par M. Victor Cucheval docteur ès lettres^ pro- fesseur de rhétorique au lycée Saint- Louis^ Paris, Ha- chette, 1872, 2 voi. di pag. xv-333 e SyS.

Il signor Cucheval onorò, nella più nobile guisa che gli fosse possibile, la memoria del suo compianto amico, ricom- ponendo, per mezzo dei sommarli e delle note che questi aveva lasciate e dei quaderni degli allievi, le applaudite le- zioni del dotto professore intorno alle origini della letteratura romana, colmandone le rare lacune colle proprie ricerche per- sonali ed aggiungendo a ciascun volume un'appendice, in cui si contengono i principali fra i documenti citati nel libro. Abbiamo detto « intorno alle origini della letteratura ro- mana », e veramente si farebbe un concetto inadeguato di quest'opera chi, ingannato dal titolo, la credesse una mera storia dell'eloquenza latina dai primi tempi di Roma a Ci- cerone. L'autore, dopo avere fatto oggetto de' suoi studi le prime prove ed originali dell'ingegno romano, descrive la graduata ed inevitabile azione esercitata dalla bellezza e dalla sapienza greca sulla rozzezza latina ed i progressi dell'arte

(i) V. p. 16-17, 22-24, 3i-33, 64-65, 117-121.

- 40

Storica ed oratoria presso i Romani sino al grande rivale e vincitore di Ortensio. Lo svolgimento letterario del gran po- polo ci appare continuamente ritratto nelle sue molteplici ed intime attinenze cogli altri elementi della civiltà di esso, giusta i principi! supremi della critica odierna. L^accurata e viva esposizione di fatti, numerosi ed appartenenti ad un periodo in Francia ed in Italia non troppo studiato della letteratura latina, ci rende utile e caro questo libro, di cui, senza esage- rarne la importanza (certo non più che mediocre), puossi ben dire che è lontano dalle sterili fantasie e dalle vane de- clamazioni come dalla noiosa aridità. Dopo queste nostre modeste lodi ci sia lecito osservare che, fra parecchie altre su cui il dovere della brevità ci consiglia il silenzio, certe opi- nioni etnografiche destarono la nostra meraviglia. E, per ci- tarne una sola, è forse lecito affermare presentemente che «les Ombriens sont des Celtes» ?(i). Saremmo assai grati al signor Cucheval s'egli avesse, almeno con una breve nota, esposto su questo e qualche altro argomento li risultato degli studi pili recenti, in ispecie germanici. E vorremmo ezian- dio ch'egli, facendo menzione delle famose tavole Eugubine, avesse almeno accennato il notevolissimo lavoro di Aufrecht e Kirchhoff, e che in ordine alle iscrizioni italiche antiche da lui citate avesse avuto ricorso alla insigne opera del nostro Fabretti. E vi avrebbe trovata a pag. ccliiì-iv, giusta la lezione di Corssen e dal medesimo interpretata, queiriscri- zione che si legge a pag. 299-301 del primo volume della Histoire, nell'appendice, colla spiegazione di alcuni vocaboli

data dallo Schoell !

D. Pezzi.

(r) Op. cit., p. i3 e 16.

u

Sulpiciae Calent Satira. Hecensuìt Dominicus Carutti. Augustae Taurinorum, MDCCCLXXIl, in -4°, pag. 26 (Dalle memorie della R. Accademia delle Scienze di To- rino, S. Il, T. XXVIII).

Due Sulpicie ricorda la storia della letteratura latina : dell'una cantano gli amori con Gerinto alcune elegie attri- buite a Tibullo -, dell'altra , moglie di Galeno , vissuta al tempo deir imperatore Domiziano, parlano principalmente due epigrammi di Marziale , in cui se n'esalta la felicità coniugale e se ne lodano i versi amorosi improntati di te- nero e pudico affetto. Questi versi per mala ventura non giunsero insino a noi •, ma corre sotto il nome di Sulpiciae Satira un componimento di settanta esametri, in forma di una specie di dialogo tra la poetessa e la musa, in cui si lamentano le tristizie del tempo e l'inettezza di chi governa.

La satira di Sulpicia fu primamente pubblicata a Ve- nezia nel 1498 insieme coi versi latini di alcuni poeti ita- liani del secolo XV, e datavi come cosa procedente da un testo scoperto da Giorgio Merula alessandrino, morto circa quattro anni addietro, letterato di quei tempi assai noto e primo editore di Plauto, di Marziale e d'altri scrittori latini. Se ne fecero dipoi varie edizioni e fu ristampata prima colle opere d'Ausonio, a cui fu da taluni anche attribuita, talvolta col Satirico di Petronio e più spesso colle satire di Giove- nale e di Persio, come anche coi poeti minori e separata- mente. Fu commentata e cercata di ridurre a migliore le- zione da molti valenti critici , quali il Barth-, il Dousa , il Boxhorn, il Burmann, il Gannegieter, il Bouher, il Werns- dorf, lo Schwarz, lo Schlager, ecc.; giudicata variamente dai critici, fu da taluni lodata come nobile componimento, da altri detta cosa piiì che mediocre. La satira di Sulpicia

42 -

fu inoltre tradotta in italiano, nello scorso secolo da Marco Aurelio Soranzo, e in questo da Ludovico Canal, come pure in francese da G. Monnard e in svedese da C. A. F. Moller.

Nel 1869, il Boot, dotto olandese, già noto per alcuni lavori di critica letteraria, stampava nelle memorie di quella Accademia delle Scienze (V. Verhandelingen der Kon. Aka- demie van Wetenschappen. Afdeeling- Letterkunde, Vierde Deel. Amsterdam, 1869, in-4°), sotto il titolo di Commen- tatio de Sulpiciae quae fertur satira, una sua dissertazione, nella quale egli nega ricisamente che una tale satira possa essere stata scritta sul finire del primo secolo dell'era volgare, pur sapendo, com''egli nota, che questa sua opinione viene ad essere contraria a quella di quanti presero a pubblicarla e che critici di gran valore, quali un Hofmann, un Peerl- kamp , un Lachmann , un Haupt la tennero per genuina ; la qual cosa, dice egli, non avrebbero però essi fatto se più attentamente l'avessero considerata. Egli osserva inoltre, come già nel secolo XVI L. Gregorio Giraldi (De poetarum hist. Dial. IV) avesse mosso qualche dubbio circa la sin- cerità di questo componimento e come ai tempi nostri il Bernhardy nella sua storia della letteratura latina dicesse quella satira parergli cosa al tutto indegna di Sulpicia.

Messo innanzi un doppio testo della satira , Tuno colla forma scorretta dell'edizione principe del 1498, l'altro con quella che ne risulta dalla recensione dell'Hermann, il Boot, dopo di averne notato la sproporziojie delle parti e il mal collegamento de' luoghi, passa in rassegna parecchi esempi di quelle cose che egli crede doversi qualificare difetti di prosodia, errori storici, similitudini improprie, barbarismi, novità di locuzioni e oscurità, quasi enigmatica, di concetti. Aggiugne quindi, a corroboramento della sua opinione, non esistere, per quanto sappiasi, alcun codice ms.; nessun edi- tore aver mai fatto cenno di testi a penna; ed essere al tutto

- 43 - infondato il sospetto del Burmann e d'altri che questo carme provenga da un qualche codice del monastero di Bobbio. Doversi pertanto tener per favola lo scoprimento che di questa satira il veneto editore dice essere stato fatto da Giorgio Menila-, smentito anche da ciò, che l'edizione d'Ausonio, fattasi in Milano dallo Scinzenzeller nel 1497, con prefazione di esso Merula, non contiene la satira di Sulpicia, come a- vrebbe verisimilmente fatto, se il Merula ne fosse proprio stato lo scopritore. E conchiude doversi tenere per lavorio di qualche ignoto italiano dei XV secolo, il quale, per meglio coprir la sua frode, ne presentò messi insieme con qualche disordine i versi e vi sparse qua e colà errate lezioni, quasi volesse accennare a codice di pessima scrittura.

A cotesta opinione del Boot, che nega la sincerità della satira sulpiciana, si accosta senza alcuna esitanza G. S. Teuffel, affermando nella sua storia della letteratura romana (p. 645), che il critico olandese ebbe al tutto ragione di qua- lificarne i versi misera compilazione del secolo XV, e aggiu- gnendo, tra le altre cose, non trovarsi nulla in questa satira che già non sappiasi da altri libri; solo per necessità di metro la svetoniana obesitas ventris di Domiziano cambiarsi in un gozzo {ingluvies)\ e lui di rubicondo farsi pallido; l'arditezza delle allusioni essere stata certamente più facile al compilatore che non a Sulpicia; il tono e le espressioni accusar general- mente il semidotto che vuol far versi e non sa farne di buoni; quindi le molte rabberciature, le sconcezze di costruzione, ecc.

La pubblicazione del Carutti si propone principalmente due cose : restituire la satira alla poetessa romana e il testo a forma più corretta. Confessa il Carutti che le ragioni con tanto acume di critica accampate dal Boot contro la sincerità del componimento per poco non l'avevano tratto nella di lui sentenza; ma ponderata più attentamente la cosa, si persuase del contrario; non avendo egli trovato nella satira sulpiciana

44

nulla che faccia contro la storia e i costumi de' Romani , locuzioni che sappiano di troppo moderna foresteria; conget- turar quindi che le mende imputatele dal Boot e da altri siano piuttosto da recarsi allo scrittore del codice, che non ad inetto ciurmadore , il quale cerchi darla ad intendere a suoi coetanei; d'altra parte le pecche dello scrivere latino non essere proprie solo de' poeti del secolo XV", ma risalire a' tempi d*Augusto; e i ponderosi volumi delPantologia la- tina attestare largamente come non tutti i poeti latini abbiano fatto versi destinati airimmortalità.

Quanto agli altri argomenti estrinseci, coi quali il Boot si studia di provare la frode, il Carutti, non potendo negare la disparizione del codice bobbiese, afferma che lo scopri- mento fattone dal Merula alessandrino sarebbe attestato dall'unanime consenso de'contemporanei; qualifica supposta l'edizione milanese del 1497 che nissun bibliografo avrebbe visto; e conchiude che il punto più essenziale della quistione starebbe in questo : vale a dire se dal non più trovarsi il codice ms. della satira si possa fondatamente inferire un contraffaci- mento letterario; cosa che niuno, dic'egli, vorrebbe affermare.

11 Carutti si fa debito di notare e raccogliere molti luoghi che accennano a reminiscenze ed imitazioni di antichi poeti; sicché al poema ne verrebbe quasi cert'aria di lavoro a mo- saico, la quale, come ognun vede, non che aiutare a met- terne in sodo la genuinità, servirebbe anzi ad accrescere il sospetto della frode; ma egli avverte come siffatte imitazioni di modi e concetti non siano punto rare negli antichi poeti latini. Non si dissimula però la gravità di due luoghi, dove una coincidenza di espressioni, che non parrebbe fortuita, tra lo scrittore della satira e lo storico Giulio Floro, suscite- rebbe naturalmente la quistione, se si debba credere che questi, vissuto dopo Sulpicia, abbia voluto contigiar la sua prosa di qualche fronzolo tolto alla poetessa romana o non

45 - piuttosto il moderno impostore siasi dimenticato che Sul- picia era vissuta prima di Floro. Circa il che si rimette nei critici, i quali giudicheranno pure se la poetessa e lo sto- rico non avessero per avventura potuto accidentalmente in- contrarsi negli stessi concetti.

Non dirò delie minuzie relative alle varianti che il Ca- rutti presenta a pie di pagina sotto il testo, delle osser- vazioni che gli tengon dietro; nel che tutto egli porge no- vella prova di quella critica letteraria e di quella dimesti- chezza co'poeti latini, di cui già aveva dato bel saggio nella sua edizione di Properzio. Per cinque o sei luoghi della Sa- tira propone egli nuove lezioni; e così al verso 5: trime- tro jactor per trimetro jambo {iambo); v, 24: celerà qua imperium per ceteraque imperia; v. 82: stabat et his ptr stabat in his; v. 35 : aestuat per inferat; v. 53 : apium domus arce moventur per quariun domiis arce mot-ente. Non ragionerò del merito di tali varianti, essendo queste qui- stioni troppo subordinate al vario giudizio degli individui ; noterò solo come in domus fatto plurale s'avrebbero, s'io non prendo errore, una breve e una lunga contro le ragioni del metro che qui ricercherebbe due brevi.

Sebbene non si possa negare che il Carutti in questo suo lavoro abbia degnamente soddisfatto al proprio assunto, vuoisi però riconoscere come la quistione della sincerità della satira sulpiciana, si valorosamente da luì propugnata , non possa ancora tenersi per risolta perentoriamente in confor- mità della sua sentenza. È indubitato che, come coloro i quali stanno per la genuinità, alle obbiezioni contrarie de- sunte da intrinseci argomenti potranno rispondere con alle- gare la corruzione del testo, così, d'altra parte, i non credenti ad essa genuinità aggiugneranno agli intrinseci anco argo- menti estrinseci, come a dire la nissuna traccia di codici mss. e la scinzenzeileriana del 1497, ^^ quale, come con-

46 tenente una prefazione del creduto scopritore della satira, ma non essa satira, ne per avventura alcun cenno di quella, renderebbe men verosimile che il testo ne fosse stato tratto a luce da) Merula, come s'afferma neiredizione principe dei 1498; asserzione dalla quale sola forse potrebbe avere a- vuto origine la testimonianza di Raffaello da Volterra citata dal Boot (p.i8) e dal Carutti (p.8). Ned è probabile che gli avversari della satira sulpiciana siano per prestare maggior fede a cotesto scoprimento del Merula pel negare che fa il Carutti l'edizione del 1497; poiché, quando pure possa essere assai malagevole il rinvenirne un qualche esem- plare, non è gran fatto verisimile, che sia immaginaria una tale edizione, citata non solo dall'Ernesto nella Biblioiheca latina del Fabrizio, ma da qualche bibliografo anche con maggior precisione di data, come f)er es. dall'Hain {Reperì, bibliogr.)^ il quale, registratola come contenente la prefa- zione di Giorgio Merula, alla data dell'anno 1497 soggiugne pridie nonas februarii. Ben dee far maraviglia che l'errore di un3i prefa:{ione di Giorgio Merula data alla veneta edizione di Ausonio del 1496 in cambio di un'epistola di Bartolomeo Merula^ del quale errore Boot (p. 2, n. 3) fa colpevole r Ernesto, e Carutti (p.25) il Fabricio, ma nel quale già era incorso una decina d'anni prima il Beughem {Inc. typ.)y a quanto pare ciecamente seguito dal Fabrizio e dall'Ernesto, siasi mantenuto nell'edizione della Bibl. lat. curata da que- st'ultimo, che dice di possedere la veneta del 1496, della quale afferma non essere altro che una ripetizione la milanese del 1497. Parrebbe adunque che sopra questa scinzenzelle- riana del 1497 debba pur sem.pre cadere una qualche incer- tezza; e io credo che s'egli è da sperare qualche decisivo argo- mento circa la questione della genuinità della satira sulpiciana, esso ci sarà più probabilmente somministrato da ulteriori ricerche intorno a quelle antiche edizioni e a quanto si col-

47 -

leghi colla storia de' codici bobbiesi trovati e usufruttuati

principalmente sullo scorcio del secolo XV.

^ ^ G. Flechia.

Reliquie celtiche raccolte da Costantino Nigra I. // manoscritto irlandese diS. Gallo, Torino, Loescher, 1872, in-4°, p. 60.

Com'è noto, Tidioma celtico forma uno de'grandi rami dello stipite indo-europeo ed è la lingua parlata anticamente dai popoli che, sotto la denominazione generica di Celti, erano stanziati principalmente nella Francia, nel Belgio, nell'Italia Superiore, nelle Isole Britanniche, nella Spagna orientale e nelle provincie renane e danubiane. Se si eccettuano al- cune iscrizioni galliche e britanniche trovatesi in Francia, nell'Italia Superiore e in Inghilterra, e parecchi nomi, spe- cialmente proprii, trasmessici dagji scrittori greci e romani, noi non possediamo monumento alcuno della lingua parlata un tempo dai popoli celtici. Questa lingua che sul continente venne, per così dire, assorbita in massima parte dal romano volgare e dai dialetti germanici, e che nelle isole britanniche, fusasi per lo più coll'elemento sassonico e normannico, si mutò in quella forma d'idioma che or dicesi inglese, viene ancora oggidì specialmente rappresentata da alcuni dialetti di fondo essenzialmente cehico, ciò sono dell'Irlanda , delle montagne scozzesi, del paese di Galles, e della Bassa Bre- tagna. Dell'irlandese si conservano documenti che vanno fino al principio del nono e anche dell'ottavo secolo dell'era vol- gare, preziosissimi per la linguistica, che in essi principal- mente può studiare l'affinità del celtico colle lingue dello stesso stipite, sotto l'aspetto così etimologico, come morfo- logico. Questi documenti sono codici generalmente d'origine monacale, contenenti per lo più scritture latine, accompa-

- 48- gnate da glosse scritte in antico irlandese; e tale è appunto il manoscritto di S. Gallo, di cui tratta l'annunziata pub- blicazione di Costantino Nigra.

Il codice di S. Gallo è un manoscritto del secolo IX, con- tenente i primi i6 libri e il principio del 17° della gram- matica latina di Prisciano, sparsi di glosse interlineari o mar- ginali, alcune in latino, ma la più parte in antico irlandese. Questo codice è pregevole per V antichità e l'abbondanza delle glosse e per la correttezza e nitidezza della scrittura e pare sia il solo fra i codici continentali, che contenga qualche iscrizione in caratteri ogmici, che sono una specie d'alfabeto assai semplice, ma pur singolare (i), adoperato fin dal V se- colo nell'Irlanda e nel paese di Galles per iscrizioni, che colà furono trovate, stese in una lingua molto analoga a quella delle iscrizioni galliche.

Le glosse irlandesi del manoscritto di S. Gallo erano già state pubblicate buona parte dallo Zeuss nella sua Gram- matica Celtica; ma il Nigra trovò che ve n'erano ancora molte e di notevoli assai da spigolare, e raccolse quindi, an- notò e interpretò le glosse inedite, come anche talune fra le già pubblicate, di cui credesse doversi correggere la lezione o propor nuova interpretazione. Alla sposizione delle glosse tengono dietro quattro tavole che contengono /ac-simz7/ della scrittura del codice, della quale si distinguono sette od otto maniere, procedenti tutte, a quanto pare, da mani diverse,

(i) Questo alfabeto consiste quasi tutto in asticciuole generalmente ritte, aventi valor vario di lettere secondo il numero (da una a cinque), secondo che sono intiere o dimezzate, le intiere poi con un valore se ritte, con un altro se inclinate superiormente a destra, ledimezzaie sempre ritte, ma varianti anche di valore, secondo che sono poste sopra o sotto una linea trasversale, che taglia nel mezzo tutta la riga, infilzando, per così dire, le intiere; e cosi per es. unasticciuola sola, intiera e ritta, rappre- senta a, dimezzata e sottoposta alla linea trasversale, by ecc. Solo i dit- tonghi e ;? e f sono espressi da segni particolari.

49 - come pure alcune delle iniziali, cui s^adorna il nnanoscritto, assai leggiadramente e bizzarramente figurate.

Annunziando questa pubblicazione non dubitiamo di affer- mare che sarà lietamente accolta dai celtologi, i quali già conoscono il Nigra come valoroso cultore di questi studi, principalmente per le Glossae hibernicae veteres da lui pub- blicate in Parigi nel 1869; nel qual lavoro TEbel (Bettr. z. verg-L spr., VI, 284), uno dei più competenti giudici di tali materie, dice essersi il Nigra mostrato del tutto pari al- l'altezza dell'odierna filologia celtica.

Noteremo in ultimo come questo libro, pregevole anche

per somma leggiadria di forma, nitidezza ed eleganza di

caratteri, bontà e finezza di carta, attesti come la tipografia

del torinese Bona debba dirsi probabilmente non seconda ad

alcuna in Italia fuori.

G. Flechia.

V^OTI Z I E

Italia. Non parleremo dei nuovo regolamento per gli esami di licenza liceale, perché (ci si perdoni la schietta confessione) noi confi- diamo pochissimo tìQÌ regolamenti e le nostre speranze si fondano non sopra i medesimi {di cui l'esperienza mostrò la troppo frequente ineffi- cacia), ma sulla libera e sapiente attività d'insegnanti veramente pari al loro altissimo ufficio. faremo menzione dell'aumento degli stipendii finalmente concesso ai direttori ed ai maestri delle scuole secondarie: la tenuità, la insufficienza deplorabile di si fatto aumento, la spropor- zione esistente fra esso e quello che dopo langa aspettazione propria e tante chiacchere altrui e per le inesorabili esigenze economiche dei tempi nostri poteva ben ripromettersi una fra le più benemerite classi di cittadini, tutte queste ragioni ci consigliano il silenzio e non ci jiermet- tono di porgere le nostre congratulazioni a chi fece a chi ricevette questo che alcuni chiameranno per avventura nn favore. Ci arresteremo piuttosto, reverenti e commossi, innanzi alle due tombe che si aprirono nello scorso giugno per accogliere Cesare Tamagni e Gregorio Ugdulena.

Cesare Tamagrà studiò eoa onimc successo lilologia greca e latina a Pavia; insegnò lingue e letterature classiche nel ginnasio di questa cittù,

liiyisla di Jilologia ecc., I. 4

50 -

nel liceo Cavour della nostra Torino e lìnalmenie lettere lettine nell'Ac- cademia scientifico-letteraria di Milano, E non solo colla parola fu tra i più animosi iniziatori della gioventù italiana alla scienza tedesca, ma eziandio cogli scritti; fra 1 quali, ommettendo per brevità di menzionare gli articoli pubblicati nel Tolitccnico e nella Terseveran^a, non accen- neremo se non la Storia della letteratura romana^ la quale, parte im- portantissima HqW Italia diX Vallardi, è una critica esposizione dei risul- tati a cui giunsero i recenti studi germanici, e, sebbene incompiuta per l'immatura morte dello autore, nondimeno si potrebbe con grande uti- lità, o, meglio, si dovrebbe sostituire a qualche magro compendio, af- fatto indegno della filologia odierna, col quale, senza svolgerne la intel- ligenza, si opprime la memoria e si consuma in deplorabile esercizio meccanico il tempo preziosissimo di molti giovani studiosi delle lettere latine, ai quali raccomandiamo l'opera citata del professore lombardo. Si scorge quindi come da molti e da insigni uomini ne sia stata com- pianta la sorte, fra i quali ricorderemo il veramente egregio G. 1. Ascoli, che con eloquenti parole diede l'ultimo addio al collega ed amico diletto.

Pochi giorni dopo la morte del Tamagni venne meno alla Italia ed alla scienza anche Gregorio Ugdulena, il quale insegnava lettere ebraiche e greche nella università di Roma. Cultore degli studi biblici, egli imprese a pubblicare La Santa Scrittura in volgare, riscontrata nuovamente con gli originali ed illustrata con breve comento , Palermo, iSSg: di tale opera ci stanno innanzi i due primi volumi, spettanti al vecchio testamento.

Prima che da tali perdite, l'Italia che pensa fu profondamente com- mossa dalla rinunzia di Cesare Correnti, il quale cessò di essere mi- nistro mentre appunto stava per attuare ciò ch'egli credeva parte ira- portantissima del proprio compito, e mentre altre riforme si atten- devano da esso, cui chi scrive ebbe occasione di conoscere uomo di nobile cuore, sincero fautore del progresso e della gioventù che tenta cooperarvi, sfidando le prepotenze e gl'intrighi vilissimi di certi così detti apostoli del passato che muovono stolta guerra all'avvenire. Se dobbiamo credere ad un annunzio recentissimo della. 'jijf or ma, a. Cesare Correnti succederà probabilmente Domenico Berti, a cui certamente nessuno, qualunque opinione religiosa o politica professi, oserà negare l'amore della scienza e il generoso proposito di promuoverne il culto in Italia.

Germania. Un avvenimento della massima importanza per gli studii germanici è l'apertura dell'Università di Strassburgo che ebbe luogo con la massima solennità il primo giorno di maggio. Strassburgo fu sempre , ed anco sotto il dominio francese che aveva dovuto subire per due secoli, sede di cultura tedesca, e soltanto la rivoluzione francese distrusse gli studi germanici in essa: ma la Germania nutre speranza che presto rifioriranno, professati come sono nella novella

51 -

Università da valentissimi uomini, e con essi tutti quelli della filologia classica. Koehler e Sludemund continueranno le gloriose tradizioni di Schweigh'duser , il celebre editore ed interprete di Erodoto ed Ateneo, mentre la linguistica è rappresentata da uno de' più rinomati uomini in questa disciplina, che è Massimiliano Miiller, venuto da Oxford, che negli ultimi di maggio aprì il suo corso con una pro- lusione sui risultamenti dell'odierna linguistica testé resa di ragione pubblica colle stampe.

I primi giorni dello stesso mese di maggio recarono alla filologia classica in Germania una grave perdita per la morte di Carlo Lodovico Kayser, avvenuta in Eidelberga, sua patria, nella cui Università fu professore delle lettere classiche e direttore del Seminario filologico. Poco sarebbe a dire della vita esterna dell'uomo, la quale scorse tutta tranquilla e laboriosa. Nacque da onesta famiglia nel 1808 - suo padre fu insegnante al liceo di Eidelberga - percorse i suoi studi ginnasiali in questa città ed in Francoforte sul Meno (1822-23), e studiò poscia (dal 1825) filologia e teologia sotto Creuzer e Daub, col primo dei quali visitò Parigi nel 1826; insegnò privatamente in un istituto di- retto da sua madre, riportò nel 1827 un premio proposto dall'Uni- versità per il migliore Elogium Jani Gruteri, nel i83o si laureò. Pic- colo e debole di corpo, aveva grande forza d'animo ed una quasi erculea forza di lavoro, da potere, secondo il programma de' suoi lavori, studiare geneticamente la cultura del mondo antico. Valen- tissimo professore ed amantissimo de' giovani , a cui insegnò con vero entusiasmo, non fece già una rapida carriera , perchè troppo modesto, e solo nel i8ó3 venne nominato professore ordinario, dopo avere professato molti anni come straordinario, e malgrado gl'im- portanti lavori filologici che rimangono qual monumento della sua attività. Scelse egli come autore, a cui rivolgeva massimamente i suoi studii, il mostrato^ senza trascurare veruna parte delle filologiche di- scipline, e ci lasciò per non parlare de' suoi piccoli scritti le seguenti opere: Dissertatio de diversa origine carminum quae Odys- seae corpore continentur, Heidelberga, i832. Lectiones Pindaricae, ivi, 1840. Abhandhing ^um Homer, ivi, 1842. Philostratus^ de gymnastica, ivi, 1840. Flavii Philostrati quae siipersunt; Philostrati iunioris ima- gines, Callistrati descriptiones , Turici, 1844 " l'opera capitale delia sua vita ed insieme la prova essere egli una de' maestri della filologia - Cornifica Rhetoricorum ad C. Herennium , libri IV, Lipsiae, 1S54; le opere di Cicerone pubblicate insieme a J. G. Baìter a Lipsia, 1S60-69, e finalmente una nuova edizione di Filostrato nell'edizione de' classici di Teubner sotto il titolo: Philostrati opera auctiora, acced. Apollinis epislolae^ Lipsiae, 1870-71.

Pietro Ussili.o, gerente responsabile.

BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO

DELLE PRINCIPALI PUBBLICAZIONI FILOLOGICHE

AVVISO. La Libreria Ermanno Loescher s'incarioa. di ^rovvadera tutte le opere annunziate

in questo oollettino, come pure quelle che sono oggetto d'articoli nella Rivista filologica. S'incarica inoltre di fornire colla massima sollecitudine e senza spese tutte le opere che le saranno richieste, e che non ritenesse in magazzino.

Edizione di F. A. Brockhaas in Lipsia.

Recentissima pdbblicazione.

Aloisii Chrysostomi FERRUCCI civis Romani. Electa Carmina ingenua- rum arti-um studiosis dicaia. la 8" L. 6

Edizione di Richard Miihlmann in Halle.

BERGK Theodor. Beitraege sur lateinischen Grammatik, I. gr. 8' ,br. L. 4 50 MUFF Christian. Ueher den Yortrag der chorischen Partieen bei Ari-

stophanes. Gr. 8°, br. . » 4 50

PFITZNER Wilhelm. Die Annalen dee Tacitus kritisch beleuchtet. I.

Buch. I-YI, gr. 8», br » 6

Di PR03SI.VÀ PUBBLIC&ZIONE :

BENICKEN H. K., Basz fùnfte lied., vom Zorne des Achilleus, nach Karl Lachmann und Moritz Haupt, aus A und E der Ilias recon- struirt. Gr. 8*, br » 3

Edizione di Reimer in Berlino.

Ephemeris Epigraphica corporis inscriptionum laiìnarum supplemenium edita iuBSU Instituti Archaeologici Romani.

La fondazione di un giornale destinato appositamente airepigrafìa latina, di cui i primi 2 fascicoli ora -vengono esposti al pubblico, è giustificata dalla necessità di far seguire al Corpus inscriptionum latinarum pubblicato sotto l'autorità dall'Accadamia delle Sciense di Bsrlino, le iscrizioni ritrovate posteriormente. Affinchè i dotti sieno sempre all'ordine del giorno delle scoperte epigrafiche, si imprende di pubblicarne subito per questo giornale almeno le più im- portanti, cosicché chi unisce ai Corpus questa Effemeride, abbia sempre a sua disposizione le iscrizioni di qualche pregio finora conosciute.

Ogni a-nno se ne pubblicheranno quattro fascicoli di quattro o cinque fogli ognuno, i quali formeranno un 'olume provvisto pure d'Indici.

Siccome probabilmente le iscrizioni da pubblicarsi nell'Effemeride non richiederanno tutto questo .spazio, ciò che ne avanza si destina a ricerche ed osservazioni d'epigrafìa latina.

Le associazioni si ricevono presso la Libreria Brinannu Loescher. Il prezzo annuale per il Regno d'Italia è di L. 9, pagabili anticipatamente.

- 53 - NOTIZIA

D'UN ANTICO EVANGELIARIO BOBBIESE

che in alcuin fogli palimpsesti contiene frammenti d'un greco trattato di filosofìa.

Fra i codici, che dalla famosa biblioteca di Bobbio pas- sarono nell'universitaria di Torino, questo, di cui intendiamo dare un cenno , è notevole per antichità , la quale risale senza dubbio al sesto secolo, notevole per l'argomento, che si raccomanda così ai dotti , che attendono agli studi dei testi latini biblici, come ai cultori della greca paleografia, e specialmente della greca filosofia. Perocché contiene i quattro Vangeli in latino, ed ha alcuni fogli rescritti, nei quali si rinvennero frammenti d'un trattato greco di filosofia, fra cui un'intera pagina è occupata da un brano del Parmenide. Quest'antica scrittura può appartenere al quinto secolo.

Mancando delle prime carte , il codice manca altresì , seppure l'ebbe, del numero arabico d'ordine, e della nota di spettanza al monastero di S. Colombano, da cui è con- trassegnata la maggior parte dei manoscritti, che di pro- vengono. Ma ha tutti gli altri caratteri d'un codice Bobbiese , e ad assicurarci, che sia tale, una mano abbastanza antica, perchè debba aversi per autorevole, scrisse nella carta di guardia: Codex Monasteri] Bobiensis.

Convien dire , che questo volume o emigrasse dalla li- breria Bobbiese prima della metà del secolo XV, siccome accadde d'altri suoi consorti, o vi rimanesse ad uso privato

Tiivista di filologia ecc., I. 5

- 54 - di qualche monaco, dacché non trovasi neirinventario, che redatto in quel tempo venne a' nostri scoperto e pubblicato dall'abate Amedeo Peyron, non potendosi credere che sia il codice ivi accennato sotto il 8. E veramente Tillustre editore deirinventario non fece nelle note a quel numero alcuna menzione di questo codice.

Bensì lo conobbe. Che anzi fu l'abate Peyron che ne scoperse i fogli palimpsesti, e fece in essi rivivere Tantica scrit- tura greca con quel suo felice preparato chimico, per mezzo di cui ridonò alla letteratura latina i frammenti di Cicerone, ed alle scienze giuridiche i frammenti Teodosiani. Ma egh, preoccupato da altri lavori , non giudicò di farne tema di speciale dissertazione. I pochissimi poi, che furono avvertiti della sua esistenza o dall'indice privato della biblioteca To- rinese, o da' suoi impiegati, per quanto io sappia, nulla scrissero di lui, essendo forse argomento estraneo alle loro ricerche, per modo che il prezioso documento, sebbene meriti per ogni riguardo d'essere conosciuto, non lo fu per annuncio dell'edito inventario, ne per illustrazione di moderni bibliografi. E però il darne almeno succinta notizia nelle colonne di questo giornale, è, credo, pregio dell'opera. I. Il codice è in pergamena, di carte novantaquattro, e di forma quadrata, in piccolo, scritto in caratteri maiu- scoli senza distinzione di parole, a linee intere, mancante in principio. Si compone dei frammenti di tre codici , cui tre amanuensi, ma tutti appartenenti al secolo VI, diedero opera a trascrivere. Porta ora la segnatura F. vi, i .

Dalla carta i alla 24 è il Vangelo di S. Matteo. Per l'ac- cennata lacuna dei primi fogli esso incomincia dal capo XIII, V. 35. Senza dubbio insieme coi primi fogli andò perduta una prefazione al Vangelo stesso.

Dalla carta 24 alla 39, capitoli , prefazione d'anonimo, e Vangelo di S. Marco.

- 55 -

Dalla carta Sg alla 60, prefazione d'anonimo, e Vangelo di S. Luca.

Dalla carta 60 alla 92, prefazione d'anonimo. Vangelo di S.Giovanni, lezioni tratte dai profeti sulla natività di S. Gio- vanni, dei Ss. Pietro e Paolo, ecc.

Nel margine sono i numeri della concordanza degli Evan- geli secondo i canoni Eusebiani.

Le carte 64, 67, 90, 91 e la massima parte della carta 92 sono rescritte. L'abate Amedeo PejTon, come dissi, ritrasse con mezzi chimici l'antica scrittura, la quale ricomparve in un bellissimo carattere greco unciale, ma sovente oppresso, e talora seppellito dalle grosse lettere latine soprastanti. Le due ultime carte 98 e 94 non sono più rescritte, ma debbono stimarsi due intatti brani dell'antico manoscritto greco-, se non che sono logore dal fregamento, perchè ultime, di modo che fu necessario sottoporre anch'esse al chimico apparato, affinchè le lettere ricomparissero, e neppure nel rovescio del- l'ultima carta esse ricomparvero affatto.

IL 11 testo degli Evangeli è l'Itala vetiis, e s'accosta moltissimo a quello, che il Bianchini pubblicava nel suo Evangeliariiim qiiadniplex. I copisti, ai quali la lingua la- tina sembra essere stata poco famigliare, commettono molti errori nello scrivere-, ma niun errore trovai, il quale accu- sasse un copista Longobardo. Nell'ortografia si scambiano facilmente le lettere e ed i, in ed eu, specialmente poi il b e V.

Ho accennato, che in capo ad ogni Vangelo sta una pre- fazione, tranne al Vangelo di S. Matteo, poiché quella, che certamente v'era premessa, andò perduta. Or bene, queste prefazioni stesse, oltre la quarta, che a noi manca, scopriva in un codice della Laurenziana Ferdinando Fleck, e le pub- blicava nei suoi scritti aneddoti, in Lipsia iSSy, in 8°, chiamandole nel titolo Opus prctiosissimum et in Europa

- 56 - unicum. Ornai il codice Laurenziano non può dirsi intiera- mente unico, dacché tre di quelle prefazioni si contengono pure nel codice Torinese. Anzi, se delle quattro prefazioni una manca al nostro codice, per compenso la prefazione al Vangelo di S. Giovanni, che in quello è mutila, è in questo compiuta e si legge al foglio 80, verso. L'antichità, la rarità, e il pregio dello scritto incompleto nel codice di Firenze consigliano a ripubblicarlo intiero dal codice di Torino.

INC. PRAEFATIO SECUNDUM JOANNEM

Johannes evangelista unus ex discifulis dei qui virgo electus a Deo est quem de nubtiis voleìitem nubere vocavit Deus cui virginitas (sic) in hoc duplex testimonium in evan- gelio datur, quod et prae ceteris dilectus a domino dicitur et huic matrem suam iens ad crucem conmendavit Deus, ut virginem virgo servarci, denique manifestans in evangelio, quod erat ipse incorruptibilis, verbi opus inchoans solus verbum caro factum esse nec lumen a tenebris conpraehensum fuisse testatur.primum signum ponens quod in nubtiis fecit dominus et ostendens quod erat ipse legentibus demonstrarei. quod ubi dominus invitatus deficere nuptiarum vinum debeat, ut et veteribus inmutatis noba omnia quae a Christo insti- tuuntur appareant. hoc autem evangelium scribsit in Asia, posteaquam in Pathmos insula apocalypsin scribserat. ut cui in principio canonis incorruptibile principium in genesi et incorruptibilis finis per virginem in apocalypsin redde- retur. dicente Christo ego sum A et Q. et hi e' est Johannes qui sciens supervenisse diem recessus sui convocaiis disci- pulis suis in Epheso per multa signorum experimenta p?'o- mens Christum descendens in defossum sepulturae suae locum. facta oratione positus est ad patres suos. tam extra- neus a dolore mortis, quam a corruptione carmis invenitur alienus. tamen post omnes evangelium scribsit. et hoc vir- gini debebatur quorum tamen vel scribturarum tempore dispositio vel librorum ordinatio. ideo per singula nobis non exponitur, ut scienti desiderio conlocata et quaerentibus fructus laboris. et deo magisterii doctrina servetur. Amen. Explicit.

III. La parte più leggibile dei frammenti greci contiene

la confutazione d'una teoria sulla trinità, che non è certa-

- 57 mente quella di Platone, bensì un''altra , in cui principale attributo di Dio è la forza (buvajuic), ed in cui sembra man- care Tunità, Tev platonico. L'ignoto autore dei frammenti ne confuta la teoria. Del rimanente, egli conchiude, questa dottrina può benissimo essere vera , seppur è vero , che gli Dei l'abbiano rivelata, ma è affatto inintelligibile. Così accade, che può essere vero un discorso sulla diversità dei colori fatto a ciechi di nascita , ma è ad essi incom- prensibile, mancando loro T idea dei colori. Imprende poscia a provare, che coloro i quali insegnarono ciò che Dio non è, sono più saggi di quelli che insegnarono ciò che è. In altri frammenti si parla della conoscenza, che ha Dio di tutte cose, in altri della connessione deìVimo e dQÌV esserle . Ma i vari squarci paiono appartenere ad un'opera sola. L'intiera facciata del foglio 67, verso, contiene un brano del Parmenide.

L'autore cita più volte Platone, e colla sua autorità cerca combattere quella teoria, che sembra appartenere agli Stoici. E veramente egli li nomina (fog. 92 verso, Hn. 12) in modo da cui appare, che intorno ad essi aggirasi il discorso: 01 juèv CUV àiTÒ TTÌc CToac oùk óttotitvuOckouciv ìk Xóyou Tevéc9ai ctv tivoc KaidXrmJiv irpaYMaTUJV, tòv èm Trecci òè 6eòv àjurixavov elvai KaiaXapeiv oiik òti ék Xóyou, àXX' oùbè òià voriceujc.

La grecità ricorda gli scritti de' Neoplatonici. Onde è , che il primo sospetto , sorto riguardo all'autore di questi frammenti, si fu, che essi dovessero attribuirsi a qualche fi- losofo della scuola Alessandrina, e forse a Proclo. Ma oltre le vane ricerche fatte fra le opere di Proclo e d'altri, le pa- role, che spesso occorrono, àvouciov, èvoùciov, npooiiciov sembrano invece accennare a qualche antico padre della Chiesa.

Comunque siasi, siccome qui s'intende dare una notizia di

- 58 - un codice bobbiese, e non l'illustrazione di un brano di greca filosofia , noi pubblicheremo senza note i frammenti del co- dice, affinchè veggano i dotti a quale autore debbano riferirsi.

Sarebbe certamente ventura, se il codice potesse sommi- nistrare qualche inedito argomento ai loro studi. Che se invece essi trovassero già stampati questi brani filosofici fra opere conosciute, un merito rimarrebbe forse alla nostra pubblicazione, quello d'essere fatta da un codice antichissimo a mo' di saggio paleografico e adorno d'un piccolo fac- simile della scrittura. Non fu possibile per ragioni tipogra- fiche riprodurre sempre la stessa ortografia e gli errori dell'amanuense del codice, che suole segnare superiormente con un punto le lettere, che vanno tolte, abbreviare in fine di linea alcune parole, notare fra la linea parole o lettere ommesse. Parimente si è creduto di tralasciare le poche parole ancor leggibili sul retto del foglio 64. Si sarebbero pur volentieri tralasciate le poche linee, che non senza dif- ficoltà si leggono nel retto del foglio 90, dacché non danno un senso; ma si stimò bene riprodurle, per rendere meno imperfetta la edizione, e per agevolare una più diligente lettura a chi , riconosciuto il pregio dello scritto , volesse tentarla nuovamente. Notasi poi , che nei due fogli ( o carte) 64 o 67 la parte greca è scritta a rovescio della latina, cosicché la parte retta del latino è la parte versa del greco.

Riguardo al brano del Parmenide, se si confronta colla edizione del Bekker, e dello Stallbaum, non reca certo varianti d'importanza, ma tali, che e per l'antichità del co- dice e per il classico autore, a cui si riferiscono, meritano d'essere notate da chi intraprendesse un'edizione del testo.

Bernardino Peyron.

ci.

G <

i

<5^

<5^

^

^

O

- L. o >;

^ '^ Z "^ s- ^ L

^ /^ ^ < ^ "^ ^y f"

U- L. -fc ^J

h ^'^ e ^ - <

o . ^

r- ^ e* v-*

-59 -

(Foglio 64 verso).

uaGri eie eKeivov avaTteiiTTeiv tuj . . . . r\}xac eivai tuui ovti to ply\ò^v ei . . ... €1 uri avTi\a)npavoi)ae0a Tr|C coi

TTIPIOU . . TT . . TÌITOC aUTOU . . . TIU eiVttl

5 OTTuuc ouv .... |nev eri auTOu iravia

xa aXXa ecxiv cpiu

TI Tou riXiou Ta eneiTeia ap ouv tiTvujc

CKei 0 9eoc to rrav Kai tocou fiYVuucKei

ouc Yvujciv .... ouK e

10 CTI TToXuc OTi qpniLii eivtti Tvujc .... eHuj Yvujceuuv Ktti aYVOiac qpr) . . yvujcic . . . 7TUUC flTVUJCUJV ou TI

YVUJCKUJV OUK 6V ttYVOia ecTiv . . . . ou YIYVUJCK61 oux . ev evoc

15 aXXuuc TT ... rie uTtepexujv yv ou

Yap TTOTe voricai ouk eireYiYV v aX

\ auTtt Tri ^^"JC

eaYV ... ri YiYV CTe

POTATI auTri ecTiv n yvuuciv ri . . u . . . ouc exe

20 pOTriTtt eincpaivouca òu eirivoia

evujceujc xai yit

Xuupic Tov ov eauT ... Ka .... , vev . . 0|iOu YiYVUJCKei . ou jun vo Kai iroiei

25 aXriOric Tpoirov Tiva \a\ji

Pavri etrauTou |uri Triv

Kai CTepn

Gevei lari e . . . . €1 yiYVujckéi koi tou TO Yvuuceujc Kai aYVOiac

30 . . ujv Ktti iravTUJV yvujctiv .... rrep

luc Ttt aXXa t VTa

YiYVUucKei r\ yvuj

eie eexiv oux YiYVUJC ... x .... xa yvuj exa . aXX . auxai cu Yap €cxi

35 qpujc cpujxiilojaevov

10

15

20

25

30

35

60

(Foglio 67 verso). TOUTOV TOV TpOTTOV « ap OUV OUÒ GV XPO

vuu TO TiapaTTav òuvaiT av eivai to ev ei toi ouTOV eiri ouk ava-fKìi eav ti ri ev xpovoi aei TO auTOu irpecpuTepov 'fiTvecGai : a vttYKti ouKouv TOYe TTpecpuTepov aei veuuTepou TrpecpuTepov: ti |utiv to TtpecpuTepov apa eauTOu Yevo)iievov Ktti veujTepov a)aa eauTou Y^TveTai ei Trep jLieWei exeiv otou TTpec^uTepov ti ti YVCTai: TTuuc XeYeic: uuòe òiaqpopov cte pov eTepou ouòev òei YiTvecBai riti] ovToc òiacpopou aWa tov |iev ovtoc nòli eivar tou òe y^TOVOtoc Y^TOvevai tou òe (aeWovToc jueWeiv . tou be YiTVOjue vou ou YCTOvevai ouTe jueWeiv ouTe eivai TTUJ TO òmcpopov . aXXa YiTvecBai Kai aXXuuc OUK eivai: avaYKr] y«P : ctXXa |uriv TOYe TTpec^uTepov biacpopoTriTOC veuu TCpou ecTiv Kai ouòevoc aXXou : ecTiv YCip: TO apa TTpec^uTepov auTou YiTVO)aevov avaYKti Kai veuuTepov ajaa eauTou yi YvecGai : eoiKev : aXXa |Lir|v Kai firiTe ttXc uu eauTOu xpovov YiYvecGai jurife eXaT Tuuv aXXa tov icov xPOVOV Kai YiTvecGai eauTuui Kai eivai Kai Y^TOvevai Kai jaeX Xeiv ececGai: avaYKri YCip ouv Kai TauTa: avaYKr) apa ecTiv uuc eoiKe oca ye ev xpo viui ecTiv Kai jueTex^i tou toioutou e KacTOv auTuuv Trjv auTrjv Te auTO auTUj riXiKiav exeiv Kai Tipec^uTepov Te au TOU afia Kai veujTepov YiYvecGai : kiv buveuei; aXXa |ar|v tuoi yc evi tuuv toi ouTujv irpaYiLiaTuuv oubev jtieTriv: ou Yotp lueTriv oube apa xpovou auTuu |ue TecTiv oube ecTiv ev tivi xpovuji: oukouv

61

(Foglio 67 retto).

« òri uuc 0 XoTOC epei : » aKoXouGiav XajLi

Pavri ovToc auiriv : ei imiie irpec

Puiepov linfe veujTepov ri inv autriv r|\iKiav TO ev exov eir) ouò av ev xpovuui

5 . . . Tttu T av eivai to tocoutov

€V exei ai òiacpopav . eie to ^irire

Ttpecpuiepov r| veuuiepov r\ iriv auiriv

nXiKiav exov

Trpo . . ov . . TO irapaTtav auTo òuvacGai ei . .

10 . . . avTiCTpeqpeir) ouk avaTKricav ti r) e . . Xpovuui ò . . . auTou auTO TtpoecpuTepov YiTve c9ai XaKuuv .... ou ... oti to Ttpec^u . . pov Kai veiuTepou TrpecpuTepov ecTi aXXa TTpec^uTepov XeyeTai |aev xa

15 Ka . . . . TTpec^uTepou Ka . tocoutou ovtoc XeteTtti .... Kai o Yep*JJV TTpec^uTepoc aTtoXu

Tuu . OTav òe TipecpuTepou

iaaivo|u uuc irpoc veiwTepov XeYO|ue

vov uucTrep euuTepov uuc Ttpoc ève

20 CTepov auTOu ouv utto aXX

Tou veuuTepou e . XiKia . . .

ou Tepov auTOu yitvo)li€vov xai

Ttpec^uTepov eauTou YiTveTai . npecpu Tepov |aev auT . . . TiTvecGai tuu

25 tou piou auTOu tov xpovov rrXeiova YiTve CTai TO be auT . Kai veuuTepov eauTOu yi

YvecTai ,

. . . evujc YiTveTai |iiri cv TrpoTepov iva veuuTepov YevriTai . aXXou òe KaTa thv

30 . . . inai av civ eiri tov

Tepov YiTVilT . .

7rpo(; òr) TauTa aXX . . . u ev airriv tuuv oti cocp .... Koc 0 Xofoc Ktti YUMvacTiKOC ve ujTep K TipeapuTepou YiTveTai aX

35 Xo . ov aTTOYiYveTtti uuctc OTav priBn oti

62

(Foglio 90 retto)

€ic . . . ajuevrjc eauTOV eiepa a jaev .... vo)aev Kai tou voouinevou

OU|Ll

5 evov Ktti au

Ktti aWo

TOU evoc òiacpepovToc

10 Ttt ou exepov ouk arrXouv ev jiev ouv

ecTiv KaT airXouv Kaia

Kai au bu

vaiai oTi Ktti xpn ovo)iaZ;eiv ev Xi

. . . uuc

15 TOV

ouv Kttl

voou)a .

20 e . TO VOTITOV Kttl CttUTOV

r{\ òio apiCTioc Kaia

oucuuv evepTÉi

evepTeia Ka

Ttt òe iriv vouv e

25 vepTeia Km Tap

auTO

ecTìiKcv a|aa au

Kai

30 Kaia be . . . . aurou

TO

OUT€ K€IV ou

T6 CTepov ouTe €V eauTOV ecTiv outé

35 auTo

63

(Foglio 90 verso).

ILievov eie eauTOV eiceXGeiv . Ti|iii fap pXe Tieic cauTOV tov eiceXGeiv lun buvajue vov 61 (ir) Tiui evi . Kai tivi cauTOV . . . ov eicepxecGai aòuvaiei . tic ecTiv outoc o a|bi 5 90Tepoic eq)aKTO|Li£VOC Ka9a to auto ev

Tiui |Lie|aepic|Lievuji T^JV eiepov

eivai TO voouv Kai to voou)ievov . pXeiraiv uoTe evouTai to voouv tuui vooujLievuu

Kttl TI TT0T6 OU ÒUVaTttl OUV 0 TI ttU

10 Tri r\ evepTeia Tiap €K€ivac ri enava^e^r] Kuia iracaic Kai xP<JU|iievr| auTaic iracaic

tue opYavo .... av tuuv eqparrTO

Ktti KttTa TO auTO Kai ev ouòeviouca . eKa CTr| ixev ouv TUUV aWujv upoTOTreTTri

15 Ktti KaTtt TO eiòoc ira ... . TauTr|i Kai KttTa TO ovojaa te Ta Kai auTri òe ovòe voc ecTiv òio cube eiòoc ouòe ovo|ua exeiv ouòe ouTi av ev ouòev . . . Yap KpaTeiTai aX X ouòe luopqpouTai urro tivoc ovtoc ou

20 ca arraGnc Kai ovtoc axuupicToc eauTrjc ou vor|cic ouca ou voriTOV ouk oucia aX

X eneKeiva airav avTuuv aiTi

a cu^uYoc oiCTtep ^evToi vuv opacic ^ev Tou aKoucTou ouk ecpanTeTai ou

25 b aiacpoTepai tou y^uctou ouòe oibev €KacTr| OTi eTepa ecTiv Trjc eTepac ou b oTi aKOucTov eTepov tou opaTou . aX Xn b ecTiv buvaiuiic .... avapeprjxui a TOUTUJV r\ TauTa biaKpivei Kai to Tau

30 TOV auTUJV YiYvuucKei Kai to eTepov

aaiTrjv ouciav Kai ira aTai

Tracuiv ecpaTTTecGai xpncOai be auTOic

ujc opYavoic bla to kpittov eivai Kai eira

vapePnxevai auTUJV outuuc Kai n ^iJ

35 vajuiic Ka opaov ouc j^ri buvaiaevoc

- 64

(Foglio 91 retto).

aTTO TttUTriC ouv op|Liuj)uievov outoi touc Xo

Youc TTpoc arr . . . obe rauia Ka9 utto

larìc Tric op9ric aiuapiavei appriTOu y«P xai «Ka TuuvojuacTOu òia noWa tou e .... a cuvovtoc

5 Geou onwc, ouò au eWri .... qpuc . . . au

TOU TUYX«veiv ujc ti tou evoc evvoia . iKavuuc Yap acpiCTr|civ aTT auTOu rrav ttXiiGoc Kai cuv9e civ Y oiK . . av Ktti TO arrXouv e . . . iiv òiòot CI . Ktti TO lariòev irpoc auTou . Kai to apxriv eivai

10 Tuuv aWuuv TO ev r| ^c . ibiai tqtou

acp eauTuuv Kai òiapTe . . . evTa .... aXXa TrXri 9oc el evoc Y£VO|ueva Kai to eivai orrep TLUcrjv arropepXriKev . ouk av ouòe irXriGoc ovTa eiv .

TOUTO YOUV aUTO UTTCp TIVOC

15 Xrimuevov art auTuuv eTUYxave ju ov a

Treipa . . vop . o Ta ouòajuuj(; ovTa TauTa òe e

CTiv OUK av

ciuvTO . v aX irpoc uj tuui etti ira

CI 9euji Kai Tuj . . . n irep eauTOu cu|u

20 qp e . . . . jurjTe bia CjuiKpoTriTa uk; irepi ttéu

Ci ... OC Kai TI òiaXice av ov t bi

a TI . . . . u . . . . Ke ov Kai . . . . |Li . . . . eivai

Kai acpepoiTO erri irpaYiuaTa aTpiuiTa

Geou aKOucaiTO ei

25 eK .... UJ .... IT ... . oTttv biavori9e

ireipov buvajuiv Kai TiavTUJV tuj

aiTiav Kai tuuv fieTauTUJV Tau

tuj auTHV TUUV

EKeivuuv eTTi ju . . . . Kai bia Triv tou KaTaXei

30 ireiv Kai thv tou evoc enivoiav ou bia cpn

KpoTJiTa ouTe . Xtiv e^nX

XaYiuevoc . . . . rjc . . . eirivori tou urrocTace uu? . r\v |ur|Te |ueTa itXriGouc |ur|Te |LieTa e V€pYeia(; )ar|Te jueTa voriceuuc lariTe |u.e

35 Ta aTeXoTiiTOc |ur|Te |iieT aXXrjc tuuv erri

65

(Foglio 91 verso).

YiTVOjuevouv evvoiuuv òia to uTteptepov auToic eivai Kai iraviiuv eu9u)Lieic9ai . ti . . TTOu òia cjLiiKpoTriTOc tivoc òiaqpeu-foucric riiLiujv òi oXiTOTiita inv eirivoiav rravra 5 ouv aipeiv bei Kai inri ò ... ev TtpocGeivai Travia Ò€ aipeiv ouK ev tuui eKTrmieiv eie io larii òa|iirii iLiriòajuujc ov . ev òe tuj exec9ai |uev Kai voeiv Travia la Ttap auiou Kai bia auiov riYei c6ai Oli aiTioc )iiev auioc Kai lou ttXtiOouc Kai

10 lOu eivai auiuuv auioc òe ouie ev ouie TtXrii 0OC . aWa Ttaviujv uTiep ouciac luuv bi auiouv oviuuv uucie ou TiXriGouc inovouc uTtepavuu aXXa Kai iric lOu evoc eTtivoiac bi auiov t«P Kai IO ev Kai juovac . Kai ouiuuc ouie eKTrmieiv eie

15 KevuujLia eveciai ouie loXfiav ii eKeivuui irpocaTTieiv . lueveiv b ev aKaiaXriTTio) Ka laXrmjei . Kai |ur|bev evvooucn voricei . aqp rjc ILieXeiric cu|upriceiai coi Troie Kai aTtociavii luuv bi auiov UTTO luuv .... vorjceujc cirii

20 vai eTTi iriv auiou appr|iov Tipoc evvoiav inv eviKOViZ;o|uevr|v auiov bia ciyìic ou be CTI . . . . TiTvujcKoucav oub eTti eveiKOvi Zieiai auiov TtapaKoXoucav oube oii KaGaTiaH . eibuiav aXXouc av laovov iKOva appiiiou io

25 apprjiov appriiuuc oucav aXX oux ujc titviwi CKOucav . ei |lioi uuc x^Jupuu Xeyeiv . bouvai o Kav cpaviaciiKuuc T:apaKoXou9r|vai . aXXa iXe uu jLiev YevoijLieGa auioi auioic bioKeiv ou iva Ttpoc lov ev9ouciac|aov ipaTteviec lou

30 epavou o ouk ic|Lxev aXXa Yva)C0)ne9a Troie au IO xiJ^P^c ama yvuìciov aHioi T£V0|ue9a . 0 be TrXaiuuv cujaTrXripuucac lauia eTTi louc ipo TTOuc eTTaveicev ouc eHe9eio ir|c TU)Livaci ac )Lie|uvr||Lie9a ^ap .... TiapiivYeXXev utto

35 Gefievoc eivai io TTpopXn9ev CK0TTeic9ai

- 66 -

(Foglio 92 retto).

\xr] oucac TiKtei ev eauTuu : oi òe ap-rracai eauTOV CK iravTuuv tudv eauTOu emov ree òuvajLiiv te auTuui òiòoaci Kai vouv ev TTii anXoTriTi auTou evriviucGai . Kai 5 aXXov iraXi vouv . Kai ttic Tpmòoc auxov ouK eHeXoviec avaipeiv api6|aov aEiou civ . tue Kai TO ev Xeteiv aurov eivai irav reXaic TrapaixeicGai . rauia be ttujc |Liev Xe Yciai opGuuc te Kai aXriGuuc ei ye ©eoi ujc epa

10 civ 01 TTapapeptiKOtec tauia eHriYTrXav (sic) cpGavei be rracav ttiv avGpuuTTivnv Kara Xrjvpiv Ka9 . Kev ujc ei tic toic eK Yevvn Tr|c TucpXoic Ttepi xpiAJ|Li«fuuv òiacpopac eXaXei . XoTiKac uTrovoiac eicatuuv auTiuv

15 TUJV TravTOc Xoyou eie Trapactaciv urrep xepuuv . uuc exeiv |nev Xotouc aXriGivouc Touc aKOucaviac Trepi xP>JUM«tujv . a^vo eiv be TI TTOTe ecTiv to xP^M" . tuui |iir| exeiv eKeivo uj TtecpuKe KaxaXTiTrTOV eivai to

20 XPUJ^ci XeiTteiv ouv rmac buvajuic eie empoXriv tou Seou Kav oi ottuucouv auTov eviKOViZ;o|iievoi epiurjveuujciv rniiiv XiuTuui UJC buvttTov aKoueiv iiepi auTOu . eKeivou unep iravTa Xotov Kai rracav vo

25 rjciv ev tx] auTOu irepi ri^ac aTVUJCiai KttTa^evovTOC . ei bei Tau9 outuj? exei ajLiivouc 01 TO TI OUK ccTi TtepecpeucavTec ev TTii Tvujci auTOu tujv ti ecTi . Kav XeTti Tal aXriGujc |iir| oiujv Te ovtujv aKoueiv

30 UJC XeTCTai . eiri Kav aKOuuj)aev ti irepi au TOu Toiv UJC qpaci irpocovTUJV Kai bia pabiTiuaTUJV ujv evTeuGev Xaiupavou civ eie Triv evvoiav auTOu fjeTaXapovtec Kai aXXujc eKbeEajuevoi aviujiuiev . aXXa

35 Ktti auTOi ouToi uaXiv avacTpenjavTec a

- 67 -

(Foglio 92 verso).

Hiouciv |Lir| Trpocexeiv toic eipr||uevoic eH eu9iac aqpicTac9ai be Kai toutuuv kqi TTic Kaia TTiv TOUTUUV vor|civ cuvece ujc Tou 6eou . uucTe TeXeuTa Kai toutujv 5 r\ òibacKaXia toiv te ujc tujv Ttpoceivai TrapaòiÒ0|Li£ViJuv . exoi ò av oi)Liai irepiTTOv TI ec Triv KaGapciv Tr|c evvoiac r) incTa Tr|v

ttKpoaClV TUJV UJC TtpOCOVTUJV aUTUJ ttTTO

CTaceic . Kai toutujv to ex tujv ineticTUiv 10 Triv aTTOCTaciv TiTvec0ai Kai tujv irpoc exujcav jutT auTOv voriGevTujv oi |uev

OUV aTTO TTIC CTOaC OUK aTTOTlTVUlCKOUClV

EK XoTou YCvecGai av tivoc KaTaXrmJiv TrpaYlnaTUJV tov erri Traci òe 9eov aiarixa

15 vov eivai KttTaXa^eiv . oux oti €k Xoyou aX X 0UÒ6 òia vorjceujc . Kai Yotp aXXuj? qpriciv THC vpuxric ou TO ttoiov €cti ZiriTOucrjc fvu) vai . aXXa to ti ecTi . Kai ttic qpuceouc Tnc oucric TOU eivai Kai thc ouciac auTOu yvuj

20 civ KTticacGai . iracai ai YVujcTiKai òuva )Liic TOU TTOIOV TI ecTiv avaYTcXTiKai ou X 0 Z:riTOU|Liev KaT ecpeciv aXX o inri ZiriTOu )Liev avaTTeXXouciv . ouk ecTiv òe toiov be 0 0eoc aXXa Kai tou eivai Kai tou ecTiv

25 eHrjXXaKTai auTou to Tipoouciov : ouk e Xei be KpiTHpiov eie Trjv yvujciv auTou aXXa auTapKec auTri to thc aYvujciac au TOU eiKOVicjLia . TrapaiTOuinevov rrav eiboc OTUJi TVUJpiZiovTi Huviciv . ouTe ouv au

30 TOV buvaTai Yvujvai ouTe tov tpottov Ttic TUJV beuTepujv aTt auTou Kai bi au TOV Y\ UTT auTOu Tiapobujv . aXXa Tteipujv Tal jiev eSriT€ic6ai Kai toutov ocoi Ta ko T auTOV iLirivueiv ujc ecTiv eToX|ar|cav.

35 TieipujvTai be exojuevoi tujv Tiepi auTov

68

(Foglio 93 retto).

eTTi Tou òeuTcpou Kamep inerapac em TO ov . Ktti ou fietexov rric ouciac . aWov ttoi citai Tov \oYOV uuc eTTi|ueTexovToc . ouci ac |Liev ouv to ev uTioGecic ^etexeiv auro 5 ouciac eXetev aioiTOC av r\v o Xotoc . em òe TO €V uTTopaXXuuv )LieT€xeiv auTO ouciac qpriciv . òei YiTVuucKeiv . uuc eireiòri ouòe TO ev ecTiv to aKpaicpvec cuvriXXoiuuTai òe auTiu ri tou eivai iòiothc . òia touto ixe

10 Texeiv ouciac cpriciv . aie ei tic ev tuu egri YnTiKuu TOU avGpuuTTOu XoYUJi Xapuuv to Z^uuiov jueTexeiv auTO ecpacKe Xoyikou . KaiTOi TOU avGpuuTTOu uuc evoc ovtoc lu) ou Xoyikou Kai tou Te Z^uuiou cuvrjXXoiuu

15 luevou Kai tou Xoyikou tuui Zuuiuui, outoic Yap Ktti erri touto Te ev rr\ oucia cuvriX XoiuuTai . ri Te oucia tuui evi Kai ouk ecTiv TtapaGecic evoc Kai ovtoc ri uTTOKei|uevov jLiev TO ev . uuc cuju^epriKOC òe to eivai aX

20 Xa Tic ibiOTHC urrocTaceuuc eviKoviZ;o|ue vri )iiev Triv arrXoTrjTa tou evoc oux icTa luevri òe eiricTric aKpaiqpvoTriToc auTou . aXX eie TO eivai cuvTrepiaYOuca auTO . eirei Yap ou TO irpuuTOV riv ev to òeuTepov ou

25 òi aXXo aXXa òia to ttpuutov . ouTe |ur]v to au TO Tuui TrpuuiTuui Euei ouò av y\v eTepov ouò air eKeivou . out CK^epriKoc air CKeivou Ktti air aXXou Tric uapoòou Trjv aiTiav exov aXXo Ti |uev air CKeivou ev òritrou Kai au

30 TO . oTi òe OUK eKeivo ev ov to oXov touto eKeivou evjuevovToc . rruuc Ycip ctv ev ^e TttpaXXoi ev ei |uri to |Liev t^v aKpaicpvec ov TO òe OUK aKpaicpvec . òio ou juct cKeivo Ktti OUK eKeivo . oti to jueTa ti Kai to ano tou

35 eKeivo Te tpoTiov Tiva ecTiv aqp ou . Kai jue9 o

69

(Foglio 93 versoj.

ecTiv . Ktti aWo ti ou juovov ouk €ctiv eKCi vo aqp ou auto ecTiv. aWa Kai ev toic avri Kei,uevoic cujiipepriKoci 9eujpou)uevov au TiKa eKeivo ev luovov touto he ev Travia . 5 KaKeivo luev ev avouciov touto òe ev e vouciov TO ò evouciov eivai Kai ouciujc9ai l^eTexeiv ouciac eipriKe irXaTujv ou to ov uTToQeic . Kai to ov ye lueiexeiv ouciac emujv aXXa TO ev urroGeic . ouciiu^evov òe ev ^e

10 Texeiv ouciac ecpri luriiroTe òe arro tou TipuuTOu to òeuTepov . òia touto jneGeEei tou TTpuuTOu TO ÒEUTcpov XefeTai TOU eivai tou oXou tou ev eivai eK laeToxric t^TO VOTOC TOU evoc Kai enei |ur| tcTOvev Ttpoi

15 Tov . eiia incTecxe tou evoc . aXX^airo tou evoc YCTOVOC uqpifievov ouk eppeGn laeiacxo l^evoc aXXa ev jiieTacxov tou ovtoc . oux oti TO TTpuuTOv riv OV . aXXo ti ano tou evoc e TepOTtic nepiriYCiTev auTO eie to ev eivai

20 TO oXov TOUTO . eH auTOu yap ttujc tou òeu Tepujc Y^TOvevai ev npoceiXriqpe to eivai ev opa òe |ur| Kai aivicco)aevuji eomev o TrXaTUJV . OTi to ev to eneKeiva ouciac Kai OVTOC . ov }xev OUK ecTiv . ouòe oucia . ouòe

25 evepTeia . evepTH òe laaXXov Kai auTO to e vepTeiv KaGapov . ojctc Kai auio to eivai to npo TOU ovtoc ou lueiacxov to ov aXXo eS au TOU exei eKKXeivo)uievov to eivai orrep ecTi iLicTexeiv ovtoc uucTe òittov to ei

30 vai TO )Liev irpouTrapxei tou ovtoc . to òe o enaTeTai ck tou ovtoc tou eneKeiva evoc TOU eivai OVTOC to anoXuTOV . Kai lucTrep i òea TOU OVTOC ou laeiacxov aXXo ti ev Ttfo vev . uui cu^uTOV to air auiou emcpepoine

35 vov eivai . ujc ei voriceiac XeuKov eivai

Tifvista di filologia ecc., I.

70

{Foglio 91 retto).

ovTi ap ouv avo)aoioc o 9eoc xuui voii Kai ere poc . Kai 61 lar) eiepotric ^etoucia aXX auTUJ Ye Tuui juri eivai o vovq . iiprjTai ov ori ou Te o|aoioTr|Toc ouie avo|aoioTriToc irei 5 pav ex^i to ev oxi ovtujv re Kai ixx] ovtujv Tuuv air auTOu Kai òi auTOV uTTOCxavTujv aei auTOC triv acu|LxpXr|TOV ex"JV uirepo Xnv rrpoc rrav otiouv Kai xo irav ouxuuc lu cav ei |uri<5ev nv ycTovoc xudv |H6x aux . .

10 ou òiecxncev auxov exepoxric air auxuj. acuvKpixxov ovxa xoic |aex auxov Kai arrepiXriTTxov. o t^P o^k «v irepiXeicpGeiTì TTUJC av eiri xouxo exepov aXXou . ujCTrep ouv ei TTepi òuceuuv r|Xiou Zirixoi^ev . lefei

15 he xic |Liri eivai ri^^iou buciv emep n bu

eie CKOXIC^OC eCXlV CpUJXOC Kttl VUKTOC

eTTaYUJYn n^ioc òe ouberroxe CKOXiZ:exai oube vuKxa opai aXXoi eni Tnc eiLiirecov xec eie xo cKiac|ua . Xeyoi av op9ajc TraGiii

20 XeTuuv xujv eiri t^c triv buciv . uJCTrep oub avaxoXn .Xeyoix av riXiou . Kai Totp n avaxoXri cpuuxiC|noc ecxiv xou irepiTei ou aepoc . oubev be rrpoc xov aei cpuuc ovxa xo TToxe cpujxiZiecGai xov -rrepiTeiov a

25 epa . auxou be TraBouc ovxoc xouxuuv Kai aneipou buceuuc Kai avaxoXric Ka6 oxi ouxe (puuxi^exai ouxe CKOxiZ^exai aXX eKaxe pov XUJV erri thc ecxiv TTa6r|)na Kai xo rrepi eauxouc eie eKeivov laexacpepouciv

30 ayvoouvxec xo Euju^aivov KaGarcep Kai 01 ixapa YHV rrXeovxec auxoi Keivou)ae VOI auxTiv KeiveicGai oiovxai ouxuu Kai eTTi xou 0eou -naca |uev exepoxr|C Kai xau xoxr|c Kai o)uoioxr|c eK^e^Xiixai Kai avo

35 iLioioxrjC acxexou auxou ovxoc aei rrpoc

- 71

(Foglio 94 verso).

Ttt jnet auTov tabe urroctavia aura Kai avo|uoiou)aeva Kai Ttpoc eauTOV aura cu vapiav CTteubovia xac irepi aura cxeceic avTicTpecpeiv Kai irpoc eKeivov oieiai 5 ouòev Tctp 0 0€oc eireKTncaTO eTiei iiv npo Tepov eWemric ini eniKTricei p\ai|jac Trjv auTOu TeXeioTiiia aWujc av Kai axoj piCTOV exujv To eivai )uovov . . . urrep io . av TT\TipuL)|ua ujv auioc autou òia xric

10 auTou evaòoc Kai |liovul)C eoic e^ei Kai tou TO acxexov . . la luev e . -npoc . a jiev auiov Kai òi auTOV uTTOCiavia ouv la laet au Tov auTUJC aKOueiv XP'I "J^ct ev eauTuu )l16V urrapxovTuuv r| to . . . ouciac

15 uTTOCTacei Trji auTin . . ouòe Ta TrXripuu TiKa exovToc Kai tuuv oXujv Ta òeuTe

pa aXX ouTuuc ri evvai l^ieT auTov

uuc aTTopepXìiiLievuuv ov Kai to

. . evov fxev irpoc .... YCtp auxoc

20 TO |aev ov Kai aua tou to yvuj

vai pouXojLiev OTe aXXo ti . . . Kai iravTa Ta ovTa CTI . . r|v eciaev irpoc auTOV . òi iiv

b V ouK exujpei to Yvuuvai auTOV oti

]ir\ ov ecTiv rravTa Ta aXXa Tipoc auTOv

25 ai òe Yvuuceic xuui 0)lioiuji aipouci to o luoiov . jLieicouvTO oubev uuc TTpoceKei V ovTOC be TO i^ovov ovTUJC ov . ei aKouceic ujca ÉT'JU Trpoc Travia la luexa Tauxa oube jiiav exoiv irpoc auia napapoXriv n ti

30 va cxeciv oubev TpOTreicaio ttic auTOu Itiovujceuuc eie neipav cxeceujc Kai TrXri Gouc iLiovov OTi |Lir|bev ayvoia |Liev ei TTOTe TUUV eco)aevuuv YiTvo)aeva be e ■fvuupicev 0 iLinbcTTOTe ev a-fvoia -fevo

35 laevoc aXX rnneic eoiKainev Ta nM^Tepa

72 -

CECXICX:^ 'BI'BLIOG^AFICI

Aristofane, Le Nubi, con note italiane e introduzione di Achille Coen. Prato, Aldina editrice, 1871.

Questo volume fa parte della Raccolta di classici greci per uso deirinsegnamento già da più anni iniziata a Prato dalPAlberghetti. Al testo delle Nubi è premessa una dotta introduzione nella quale si espone criticamente la storia delle due principali questioni sollevate da questo dramma, quella cioè della doppia edizione di esso, e Taltra più ardua e più importante circa il fine che si propose Fautore nello scriverlo. Il testo è riprodotto dall'edizione del Teuffel -, è accompagnato dalle varianti di maggiore importanza, e cor- redato di osservazioni sui principali motivi critici delle varie lezioni e di numerose note esegetiche ed illustrative. Segue lo schema metrico della commedia, ed infine il prof. Ferrai aggiunge di suo un'appendice nella quale offre pel testo di questa commedia una nuova collazione dei codici Raven- nate e Veneto.

Proporzionatamente allo scopo di queste pubblicazioni il signor Coen non ha inteso di fare un'opera che fosse di ragione scientifica \ d'altro lato però egli ha veduto che Aristofane non essendo un autore da porre nelle mani dei principianti richiedeva anche per lo scopo a cui mira questa edizione una maniera d'illustrazione superiore assai all'ele- mentare. Noi crediamo che in generale egli abbia colto il segno nel cercare quella giusta misura che è tanto diffìcile trovare in lavori di questa natura. Certo, per altri paesi sarebbe stato necessario seguire altra norma*, ma il sig. Coen

- -73

ha giustamente valutato le condizioni dello studioso italiano il quale non può disporre di un corredo di libri sussidiari come può farlo lo studioso d'altra nazione. Per supplire a tale mancanza nelle annotazioni fatte per uso delle nostre scuole si è costretti ad esser men parchi e pili diffusi di quello si possa e debba esserlo altrove.

Tutto questo lavoro è prodotto di ben molta fatica gui- data da una serietà e da una coscienziosità pur troppo rara fra noi in opere siffatte. Le Nubi sono la commedia di Aristofane su di cui più si è scritto in edizioni, in mono- grafìe, in opere di storia e di filosofìa. Questa vasta lette- ratura il sig. Coen ha voluto conoscerla e studiarla tutta e utilizzarla pel suo lavoro. Chi sa quali sono le risorse di cui il cultore degli studi filologici può disporre in Livorno, è in grado di misurare le difficoltà che deve avere incon- trato il signor Coen, per mostrarsi così informato di ogni lavoro relativo al suo soggetto e quanta forza di volontà ci sia voluta per lottare con quella e vincerla così felicemente. Certo la storia delle due questioni sopra rammentata non era stata esposta fin qui in Italia, altrove tanto com- pletamente. Delle conseguenze alle quali arriva per Tuna e per Taltra Tautore, non istaremo qui a dire, poiché egli nel suo libro non ha inteso di offrire risultati nuovi, ma di rap- presentare adeguatamente ciò che la scienza ora stabilisce; quindi per quelle questioni, come per altre, egli si attiene alla opinione nella quale più volontieri sogliono accordarsi i dotti oggidì. Non però ch'egli registri meccanicamente le varie vedute; di ciascuna definisce con giusta intelligenza le ra- gioni e il valore. Questo stesso procedere tiene nelle note dove trattasi di luoghi controversi. Invero, quantunque molto siasi scritto su Aristofane, l'esegesi critica di questo autore lascia tuttora assai da desiderare; Aristofane è il solo poeta greco per cui ciò avviene. Per questo lato ci

74 sembra che correggere alcune interpretazioni accreditate nria erronee avrebbe potuto farsi anche in una edizione d'uso puramente scolastico. Rechiamo alcuni esempi : V. i37 Ktti qppovTiò' èSriMPXuJKa(; èHeupr|,uévriv

a II Kock (riferisce il Coen) considerando che il discepolo di Socrate espone poi per intiero la sua meditazione, e che perciò Strepsiade non gliePha fatta abortire^ avanza il dubbio, che nelle prime Nubi prima della misura del salto della pulce fosse narrata un'altra storia ». L'osservazione del Kock non è giusta. La qppovxiq del discepolo di Socrate abortita per l'interruzione di Strepsiade, non può esser quella che poi viene esposta dal discepolo, per la semplice ragione che questa non era cosa sua o trovata da lui, ma era un trovato di altri e non era neppur più qppovric; ma (ppóvTicTiua (v. i55). Era bensì divenuta soggetto della cppovti^ di quel discepolo il quale avrà cominciato a meditarvi o a sofisticarvi sopra e s'avviava (parevagli) a qualche risultato quando Strepsiade l'interruppe.

V. 248 TUJ YÒp Ò)livut' ; r\

aibapéoiaiv, ujCTTrep èv BuZavriiu ;

Il Kock troppo facilmente crede spuria le parole tu> yàp ò\xvvie a causa di quel dativo che non si usa per la cosa per cui si giura. La sola conseguenza legittima di tale osserva- zione è, che in quel tuj non trattasi della cosa per cui si giura. Tuj si riferisce a vó)iiicr|ua che precede, ed è chiaro che qui abbiamo un gioco di parola basato sul doppio significato di quel vocabolo. Il dativo sta bene, perchè vuol dire secondo quale usanza ; poi Strepsiade motteggia alla sua maniera al- ludendo all'altro significato e mantenendo il dativo, come richiede il gioco di parola.

V, 32 1 éxépuj XÓYUJ a torto viene considerato come retto da àvTiXofficJai. É un dativo d'istrumento e trattasi di quel XÓYoq che Sticpsiade vuole imparare da Socrate (cfr. v. 244).

lo

V. 337 àepiac,, òiepoK; ad onta delle difficoltà che sono andati immaginando più critici, sta benissimo, si richiede concordanza con oIuuvolk;. Trattasi di una rivista comica dei vari epiteti e modi perifrastici che poeticamente si usavano parlando delle nubi. Ciascuno di questi sta da ^ àepia*;, òiepd<;, dipendono anch'essi da ènoiouv e lasciano facilmente sottinteso veq)éXa(;.

V. 485 alia domanda di Socrate :

eveati ónta aoi XéTeiv èv ix) cpùcrei;

Strepsiade risponde :

Xéfeiv }Àev oùk è'veati, àTToatepeiv ò'è'vi.

Si è dubitato della genuinità di questa lezione perchè, come dice il Coen, non si capisce bene in che àTTOcnepeiv sia op- posto a Xéfeiv; talché la risposta di Strepsiade riesce una freddura. Ma il poeta fa parlare Strepsiade secondo Tidea fìssa che questi ha in capo:, unica ragione per cui desidera rinsegnamento di Socrate, e quella idea si traduce in mente sua nella semplice formola dmocTTepeTv Xéfujv ; secondo questa dunque ei risponde a Socrate e la sua risposta è perfetta- mente consentanea al carattere e alla situazione.

V. 700 accetterei la vulgata àTToaiepriTiòa. L'idea di Brunck il quale preferisce àjrocTTepriTpiòa secondo la formazione di aùXritpi?, òpxncTTpiq ecc., non può essere giusta. Qui Ari- stofane forma quel vocabolo comico coerentemente alla im- magine del vestire, di cui si serve in questo luogo, e quindi usa una desinenza assai comune nei nomi di vestiti, come Hucttìi;, xkavi<;, itMjiic, ecc.

Ma bastino questi esempi. Qualche svista in un lavoro tale può essere scusabile : ne noteremo una. Nella nota al v. 591 viene rammentato un verso dei Cavalieri secondo il quale, dice il sig. Coen, sul suggello di Cleone era scritto: Xdpo^ Kexnvùjq èm néipa^ òrmriTOpiJÙv. E chiaro che queste parole non possono costituire la scritta di un suggello. Esse

76 descrivono un cTTHiieTov, come il comico dice apertamente, cioè la imagine emblematica scolpita su quel suggello.

Il piano della introduzione ci lascia da desiderare. Pare a noi che per introdurre lo studioso alla lettura delle Nubi il sig. Coen non avrebbe dovuto limitarsi ad esporre la storia di quelle due questioni, ma questa storia avrebbe dovuto incastrare in un lavoro piiì generale in cui si considerasse anche la ragione artistica di quella composizione. Il lettore odierno che per la prima volta apre il libro di Aristofane trovasi dinanzi una forma di arte che gli riesce intieramente nuova, per intender la quale ha pur bisogno di schiarimenti e preparazioni. 11 signor Coen pensando allo scopo pratico del suo lavoro, doveva rammentarsi, che anche per questo lato quei libri che potrebbero supplire altrove, mancano agli Italiani.

Ma questi appunti non iscemano gran fatto il merito del lavoro che è degno di molti elogi e certamente utile anche per Tinsegnamento superiore, come abbiamo potuto speri- mentare facendolo adottare per la lezione del decorso anno scolastico ai nostri allievi della scuola normale superiore di Pisa.

Pisa, luglio, 1872.

D. COMPARETTl

Grammatica greca per le scuole di Vigilio Inama. Parte i": Etimologia - Parte 2": Sintassi. Milano, 1869-70.

Non è la prima volta questa, che la stampa italiana prende in rassegna questa importante pubblicazione del sig. Inama, poiché, se non andiamo errati, e V Antologia di Firenze nel Bollettino bibliografico, e la Perseveranza di Milano tennero

-li- gia, ragione di essa. Ma lo fecero con molta brevità, e quasi di passata, come del resto voleva l'indole de' succitati perio- dici; mentre invece è lavoro degno di più largo esame, in parte per lo scopo immediato cui mira, cioè la scuola, e in parte anche perchè è il primo tentativo di questo genere, che si presenti con una certa indipendenza di criteri e di mezzi nel difficile arringo della letteratura grammaticale della lingua greca nel nostro paese. A vero dire è cosa poco con- fortevole il vedere o poco curati o non abbastanza largamente esaminati lavori di qualche mole e di molto studio e grande diligenza da' maestri, che pure vantano oggimai chiarissimi gli Atenei d'Italia, anche nel campo de' studi di grammatica com- parativa, o di lingua greca -, a noi, tenendo ragione un po' distesamente della Grammatica greca dell'Ina ma, è ve- nuto certo in mente di sostituire la nessuna autorità nostra a quella dei maestri valenti e provetti-, bensì ci è parso buono di cogliere il destro, che ne porse la Rivista, per manife- stare il nostro avviso intorno ad un libro, che, non foss'altro, è segno non dubbio, che la coscienza dell'alta importanza degli studi greci si va ridestando anche da noi.

È noto, come nelle nostre scuole, e, certo, nell'opinione, più o meno cosciente, di molti insegnanti, la grammatica del Curtius tenga indisputato il campo. Questo fatto , per noi almeno, che dell'uso, qualunque esso sia, che abbiamo della lingua greca, ci sentiamo debitori a quel libro, torna di non lieve conforto. Per quanto si voglia concedere all'autorità del nome, o anche della moda, che non ha guari, tentava di ap- plicare il sistema del Curtius persino all'insegnamento della lingua italiana-, bisogna pur credere, che in questa oggimai celebre grammatica il segreto di farsi comprendere e quasi amare dagli studiosi ci sia*, bisogna dire, che essa risponda a qualche sentita necessità del tempo. Tanto ne parve mera- vigliosa la sua diffusione nelle nostre scuole, e la fama grande

78 - in che è venuta fra noi quasi d\m subito! Le cagioni della non comune fortuna di questa grammatica sono, a nostro giudizio, due : la prima è da ricercare nell'immenso slancio, preso dalla linguistica negli ultimi decenni di questo secolo, così che il tradizionale empirismo nelFinsegnamento della grammatica elementare del greco fu scosso dalle fonda- menta-, intanto che la convenienza di una trattazione più conforme alle norme della scienza facevasi strada via via; Taltra cagione ne sembra riposta in quel giusto e corretto criterio, col quale il Curtius ha saputo contenere dentro ai termini strettamente necessari a spiegare il fenomeno lingui- stico, il nuovo organamento della grammatica greca, destinata all'uso della scuola. Che alcuni fenomeni della lingua possano venire raggruppati d'un modo più sinottico, e dietro criteri più generali, come ad esempio le varie classi de' verbi, in riguardo alla formazione de' temi; che qui e colà sia lecito alzare qualche lembo del velo, che ricuopre il nesso interiore, che unisce la lingua greca de' tempi storici, col periodo an- teriore, preistorico, italo-greco o ario, e porgere qualche notizia più estesa sull'influsso che le semivocali V o. J hanno esercitato sull'alterazioni fonetiche, avvenute nel trapasso dal periodo più antico all'altro, nel quale il greco si ebbe un'esi- stenza sua propria, non negheremo noi. Allo stato attuale però degli studi greci in Italia, ne pare, che, come farebbe opera vana e ridevole chi volesse ritornare all'empirismo antico, così grave ostacolo porrebbe ad una sicura compren- sione della etimologia greca, chi varcasse senza bisogno quella giusta misura segnata dal Curtius. Queste cose abbiamo creduto opportuno di mandare innanzi, perchè il lettore veda senz'altro il nostro punto di partenza, dal quale muovendo terremo ragione della grammatica dell'Inama. S'intende da sé, che per ora non ci occupiamo che della parte P della medesima (etimologia). E badi l'egregio autore, che noi

- 79 ci siamo proposti di esaminare il suo lavoro unicamente dal punto di vista pratico, della scuola cioè. Certamente anche il lato scientifico cadrà di necessità nella sfera della nostra indagine *, ma ciò sarà solo in parte, e, subordinatamente a quello, più particolare e più vicino allo scopo del libro.

Siamo lieti anzi tutto di poter attestare, che la Gramma- tica Greca del signor Inama non è un plagio, un compendio, o travestimento delle più note fra le gramma- tiche greche, scritte dai Tedeschi; mentre essa invece ne porge sicura prova di profondi e diligenti studi fatti dal- l'autore sui migliori fonti-, ne mostra lodevole indipendenza di giudizio, criterio proprio e cosciente. Il Compendio dello Schleicher, e la Grammatica comparativa della lingua Greca e Latina di Leone Meyer, per tacere d'altre scrit- ture, furono dall'autore in qualche parte eccellentemente usufruiti, il primo massime nella teorica della formazione dei temi verbali, il secondo nell'uso ed influsso delle semi- vocali (J-V). Uno studio accurato dei lavori del Curtius, massime del Commento alla grammatica greca, si rivela chiaramente in quelle parti del lavoro dell'Inama, che più si scostano dalla via tracciata da quel chiaro maestro, mas- sime nella trattazione del Tema verbale. Le stesse esitanze, manifestate dal Curtius rispetto alla vocale di congiun-{ione {Bindevocal), che poi egli inclinò a chiamare vocale tematica {Commento, § 23o) sembrano aver indotto il nostro autore a mettersi diritto diritto per questa via, accettando e ten- tando di svolgere anche nella grammatica particolare della lingua greca tutte le conseguenze, che discendono dal modo diverso di considerare l'ufiicio di quella vocale. La parte nella quale il signor Inama si discosta maggiormente dai sistemi delle grammatiche greche più frequenti nell'uso delle scuole, è la Coniugar{ione del verbo; e in tre punti princi- palmente : I" Egli non ammette la vocale di modo del

80 - Kiihner, la vocale di congiunzione del Curtius. Allo studio del presente e deirimperfetto dei verbi in uu fa se- guire immediatamente lo studio del presente e deirimper- fetto dei verbi in fii, contrariamente all'uso invalso nelle grammatiche greche per uso delle scuole. Rimessa in onore Tantica denominazione di aoristo primo e aoristo secondo, egli chiama aoristo ter\o quello che il Curtius chiama aoristo forte {aoristo secondo) dei verbi in -MI (per esempio ècririv).

L'autore ragione di queste innovazioni, introdotte nella grammatica greca per le scuole, nella prefazioncella che egli fa precedere alla sua Grammatica greca (pag. vii-xii). La questione, dal lato scientifico, è piià ardua, che non possa sembrare di primo tratto •, essa involge tutta l'ampia e complessa teorica delle radici, del verbo e dei tempi, come l'ha posta Francesco Bopp dapprima, nell'immortale Grammatica comparativa del Sanscrito, Zendo, Greco, Latino, Lituano, Gotico e Tedesco (vedi voi. 1, part. I', § 109=^^ voi. II, part. r^, §§ 426 segg; part. IP, §§ 675 segg.) (i)-, e Augusto Schleicher dappoi nel suo Compendio (vedi §§ 169 segg. della traduzione del Pezzi) (2).

Vediamo ora, ristrettamente, quale sia il punto di veduta della scienza, e quali le necessità della scuola rispetto a questa materia. Con ciò resterà chiarito di per il nostro pensiero intorno al valore scientifico e pratico della gram- matica del signor Inama.

a) Vocale di modo Vocale di congiunzione Vocale tematica. Il modo diverso di considerare questa vocale (0, e per l'indicativo; uj, ri pel congiuntivo-, i per l'ottativo) involge un'essenziale differenza nel modo di trattare la di-

fi) III» edizione. Berlin, 1870. (2) Torino. Loescher, 1869.

81 visione dei verbi nelle due coniugazioni principali, rispetto all'uscita dei medesimi nella prima persona singolare del tempo presente (Verbi in -w e verbi in -m). Nel Sanscrito la questione è molto più semplice, che nel Greco:, poiché in quella lingua essendo quella vocale sempre a (che varia soltanto nella quantità), è facile il riguardarla addirittura come parte integrante del tema del presente: bhaì^à-mi, (pépiu-|Lii*, bhara-si-, cpépe-crr, bhara-jnasi-, (pépo-\ie<; (|iev)-(V. Schleicher, Comp. § i8o-, Bopp, Gramm. §§ 484, 439; Cur- tius, Comment. al § 23o). Perciò è ovvia la repartizione, che suol farsi delle coniugazioni dei verbi della lingua Sanscrita, secondo che essi formano i tempi speciali aggiungendo -a, oppure sillabe uscenti per a ( -ya, -ayci ) alla radice (e sono le classi i, 4, 6, io del Bopp, v. § 109^)', ovvero uniscono le desinenze personali alle radici, senza quella vo- cale (class. 2, 3, 7 del Bopp, § 109^). Esempi di verbi della prima specie sarebbero: bhara-, (pepo-, rad. bhar-\ nah-ya (ted. naehen, cucire), rad. nah-, e della seconda da-dà-mi-, òibo-|LU-.

Nel Greco invece questa vocale è nel fatto mutevole, essendo ora o, ora uj, ora e. E' parrebbe quindi meno si- curo il fondare su di essa, come sopra una nota distintiva molto spiccata, Tessenziale differenza fra le due coniugazioni. Più razionale e più rigorosamente scientifica sembra quindi al signor Inama la partizione delle coniugazioni de' verbi secondo la diversa uscita del tema del presente (Prefazione pag. vili); e in ciò s'accosta allo Schleicher {Comp. §§ 184 segg.). Secondo noi però l'egregio autore s'è lasciato se- durre dall'indole puramente comparativa, e, per ciò stesso, altamente astratta del Compendio dello Schleicher, e, con- seguentemente a ciò, scambiò i caratteri della classifica-{ione con quelli della coniugazione. Certamente il concetto di sintetizzare l'organismo della coniugazione del verbo greco

- 82 - è assai lodevole, e accenna a forza comprensiva d' intel- letto, ed è assai conforme alandole degli studi comparativi. Ma ciò nulla meno noi crediamo che la differenza fra le due coniugazioni, biella scuola, debb'essere ben più accen- tuata, a così dire, che non sembri forse all'egregio nostro autore. Comunque si consideri quella vocale (o, e), nel greco, egli è certo che fra le due forme òiòo-|Liev (rad. òo-) e \uo-|a6v (rad. Xu-) e più ancora fra òiòo-t€ (rad. òo-) e Xue-te (rad. Xu-) il divario è notevole, e tale che allo scolare si mostra con tutta la forza delF evidenza. Noi teniamo adunque fermo ancora alla divisione, già in parte antica e quasi tradizionale, accettata anche dal Curtius, di due con- iugazioni principali , fondata sulla presenza o meno di quella vocale, che noi pure collo Schleicher chiamiamo te- matica. Il signor Inama, guidato sempre dall'unico criterio della classificazione, inclinando per ciò a fare una posi- zione speciale ai verbi in -MI, relega questi in una classe (la settima - v. § 214). Ma noi non vi possiamo assentire. Prima di tutto non ci sembra corretto il criterio della classificazione, avendo questa per base il suffisso del presente, mentre invece tra i verbi colla vocale tematica e quelli che di essa vanno privi c'è differenza organica e di flessione nei tempi speciali. In secondo luogo , se i suffissi -vu e -va po- tranno per poco indurci a classificarne le rispettive formazioni accanto agli altri suffissi speciali del presente; laddove si consideri la inflessione dei tempi speciali, si parrà chiara la differenza che corre tra Xue-ie, presente Xuo-, suffisso -0-, ra- dice Xu-, TÙTT-Te-TC, pres. tutt-tg-, sufi', -to-, rad. tutt- e òeiK-vu-ie, pres. òeiK-vu-)ni, suff. -vu-, rad. beiK-; nella quale ultima forma vediamo un suffisso, ma la vocale tematica manca al tutto nei tempi speciali -, ciò che conduce a diversità d'infles- sione. Per ciò diciamo bibuuini e òeÌKvu|ui appartenere oWistessa coniugazione, ma a classi diverse. Insomma il criterio della

83 classificazione per suffissi, che chiameremmo tematico, deve, secondo noi, tenersi distinto dal criterio della divisione per coniugazioni , che chiameremmo morfologico-organico o di inflessione.

La divisione del verbo greco per coniugazioni, noi lo rico- nosciamo perfettamente, presenta molti inconvenienti, e dal lato strettamente scientifico non va esente da censure. La ragione scientifica sarebbe disposta a riconoscere una repar- tizione delle inflessioni per temi temporali. Ma nella pratica v'ha qualche sconcio; che molti verbi, nel giro del loro pa- radigma compiuto., presentano tali anomalie, che costringe- rebbero il grammatico a moltiplicare quasi alT infinito gli schemi temporali , e a ripetere Tistesso verbo in più luo- ghi, smembrandone Tunità del concetto tematico, a spese della chiarezza. A questo guaio non ha saputo sfuggire neppure il Curtius-, e chi ha qualche uso dell'insegnamento sa che i paragrafi 3 1 6 e 3 1 7 della sua grammatica greca sono fuori di posto. Nella scuola e nella pratica, è all'unità organica , alla quale ei si vuole aver occhio sopra tutto , raggruppando insieme i fenomeni linguistici, giusta la legge delle maggiori analogie, e dividendo secondo larghi e ben marcati criteri. A questa necessità della scuola ne pare che sino ad ora il solo Curtius abbia saputo soddisfare maestre- volmente; e la sua grammatica in questo riguardo resterà lungo tempo ancora un modello sempre imitabile della ra- gione scientifica, accoppiata alla pratica della scuola. Ciò non toglie che il materiale di quella eccellente grammatica non presenti delle lacune, e possa anche venir raggruppato secondo un più rigoroso criterio scientifico, senza danno della chiarezza.

Quella parte massime, che tratta dei temi verbali, avrebbe bisogno di una completa revisione, specialmente dacché egli, il Curtius, abbandonando il concetto della vocale congiuntiva^

84

combattuto già dal Bopp {Grani, comp., § 494) e abbando- nato affatto dallo Schleicher, fa costretto a mantenere un certo equivoco, non modificando la teorica dei rapporti fra il teìna verbale puro, o radice, e il tema del presente in analogia al concetto della vocale tematica, a cui s'è accostato dappoi. Così ad es, la formazione del futuro e dell'ao- risto (sigmatici), ammessa la vocale tematica, apparisce sotto un punto di vista affatto diverso. Vero è che nel Commento (ai §§ 2 58 e seg.) il Curtius si accosta all'idea dello Schlei- cher {Tempi e modi, pag. 3 17), il quale nello sigma del fu- turo riconosce una composizione col futuro del verbo sostan- tivo (è<;) ; e parimente per Taoristo debole ammette la stessa origine, cioè la radice è^ 267). Ma per lui e Po del fu- turo e Va dell'aoristo è sempre qualche cosa di aggiunto per rendere piii facile l'inflessione. Ciò che non pare che sia. Nella Grammatica però non v'ha traccia di questo fenomeno fonetico. Il signor Inama invece, più conseguente, lo accolse (V. Grani. §§ 226, 4-, 233, 6).

b) La 5eco«i(i innovazione introdotta dal signor Inama nella grammatica greca per le scuole è questa, che egli cioè allo studio del presente e dell'imperfetto dei verbi in -00 fa seguire immediatamente lo studio del presente e dell'imperfetto dei verbi in -]x\. « Così, egli dice, richiede l'ordine rigoroso e della grammatica, si ritarda di troppo lo studio di « questi verbi importantissimi, e non nasce l'opinione, che '< facilmente s'ingenera nella mente dei giovani coi sistemi '( sinora tenuti, che questi verbi siano in tutto e affatto di- '( versi dagli altri » (Pref., pag. ix). Noi crediamo che a questo modo di trattare la grammatica speciale della lingua greca si oppongano ragioni di scienza e altre più di opportunità e di pratica. Dal punto di vista della scienza noi crediamo che le ragioni di tener distinte le due coniugazioni sovrab- bondino. — Ne allegheremo qualcuna, mentre di altre ab-

85 biamo già toccato quassopra. Noi insistiamo anzi tutto sulla differenza fra radice {ivuriel), tema verbale {verbal- stamm) e tema del presente {praesensstatnm) e sul modo di comportarsi di questi elementi verbali rispetto alle desinenze personali. La grammatica indiana ne mostra al pari della greca una notevole diversità in questo riguardo fra i verbi (Bopp, Gramm. comp.,^ 49^)- Questa diversità è molto an- tica e risale probabilmente al periodo anteriore alla esi- stenza del greco come lingua particolare. Noi conce- diamo, che To dei verbi in -uu sia un vero carattere di classe, e che il diverso comportamento delle desinenze personali nelle due coniugazioni dipenda dall'influsso che esse le desinenze personali hanno esercitato indubbiamente sulla quantità e intensità delle vocali tematiche. Noi concediamo anche che parallelo all'-^ del verbo sanscrito nella desinenza -à-mi si possa pensare un primitivo greco -oi-iiii (confr, l'omer. èeé\-uj-|ui), ammettendo che Tabbreviamento delP-uu in o (e) nei duale e plurale sia da ascrivere al maggior peso quasi delle desinenze personali -tov, -\x^c, (|nev) -re, -ovti (Bopp., Gramjn. comp., §434). Mae che per ciò? Non sarà sempre un fenomeno degno di nota, che circa 200 verbi greci uni- scano le desinenze personali al tema verbale senza Tinter- mezzo della 0 alternante con e, ovvero con suffissi ancor più lunghi? Noi crediamo che la ricostruzione della probabile originaria unità di coniugazione ci porti troppo air in- fuori dei termini della grammatica greca, e ci conduca nelle astrattezze della tematologia, nel cui campo non tutto per ancora è luce. Certo è e il dialetto epico antico è per attestarlo che nell'organismo della coniugazione greca note- voli alterazioni sono avvenute in tempi remoti :, e la desi- nenza-vai (om. -)Lievai) dell'inf. pres., e il -61 della 2" pers. imperativo, e Tabbreviazione della vocale radicale o anche di suffisso (-VU, -VÌ5) nel duale e plurale, messa a riscontro collo

Kivisla di filologia ecc., I. 7

86 affievolimento della vocale tematica o in e, costituiscono una cotal somma di differenze non trascurabili neppure scientifi- camente. — Molto meno vi può passar sopra indifferente la pratica e Tuso della scuola. Anche a questo rispetto adunque noi crediamo che nulla sia da innovare nell'uso antico.

e) Ma veniamo alla tej^:{a notevole innovazione, messa in- nanzi dal signor Inama, a quello cioè che egli chiama ao- y-isto tcì\o. Con questa denominazione si designa dallo autore quella forma di flessione che il Curtius chiama aorislo forte (aoristo 2°) dei verbi in -MI. È noto che la grammatica della lingua sanscrita registra sette maniere di formazione deiraoristo (Bopp, Gramm. comp., II, § 542 e segg.). Al nostro autore quindi potè sembrare abbastanza ovvio di se- gnalare con un nuovo numero progressivo una specie di forma d'inflessione, la quale, contrariamente alle altre due, unisce le desinenze personali immediatamente alla radice o tema verbale, senza l'aggiunta del verbo sostantivo (ic,-) (aor. I o debole), o della semplice vocale tematica, o di classe (aor. II o forte). A noi però sembra che l'analogia che corre fra queste forme e le altre renda superflua questa terza cate- goria d'aoristi. A quella guisa infatti che nella coniuga- zione dei verbi in -uj abbiamo due forme d'aoristo, Tuna che chiameremo sig-matica, -aa (ècra), l'altra sen-a sigma, derivata dalla radice pura, col semplice suffisso o vocale te- matica (o-e); COSI anche nella coniugazione dei verbi in -MI ab- biamo due forme, l'una composta col verbo sostantivo (èc,) e l'altra senza nessun segno , perchè le desinenze personali si affiggono immediatemente al tema verbale, in analogia al carattere di questa coniugazione.

Il signor Inama rigetta la denominazione aoristo dei verbi in -MI, perchè questo aoristo non è proprio di questi verbi più di quello, che lo sia di quelli in-uj. Questo mo- tivo è soltanto specioso. L'egregio autore sa, che nella for-

- 87 mologia greca, allo stato attuale della scienza, v'ha buon dato di forme, o fenomeni formologici così irrazionali, che mal s'apporrebbe chi da essi volesse trarre rigorose conse- guenze. Certamente le forme è'Pnv, lòpciv, ctvuuv, eòUv, èqpuv, ecc., dai presenti paivoi, òiòpdaKuu, YiTvuuaKUj, òuuj, qjuuj par- rebbero giustificare il suo asserto-, ma nell'incertezza, che regna ancora intorno a questi fenomeni della lingua, il più sicuro spediente sembra quello di appigliarsi alle analogie. L'utilità pratica che ne ridonda alla scuola è immensa; e parmi, che questa non sia da disprezzare, quando non si tratti addirittura di una bestemmia scientifica, di fare omag- gio al puro empirismo.

Ora il sistema della coniugazione dei verbi in -MI, preso nell'insieme de' suoi tratti più generali, ci offre buon dato di analogie, appunto per la classificazione di quelle forme. E, a proposito di certe anomalie d'inflessione, che presen- tano alcune forme verbali, si compiaccia il signor Inama di leggere, ciò che scrive Jacopo Grimm in un passo della sua Grammatica Tedesca (2' Edizione , Parte I , pag. 967). H Quando considero certe anomalie nella coniu- gazione del verbo, egli dice, io sono tratto a credere, che la coniugazione nel processo del tempo sia come a dire uscita di carreggiata, ed abbia smarrita la coscienza del suo pieno e legittimo svolgimento, così che si presentano certe incoe- renze e quasi a dire mescolanze d'inflessione » . Certamente questi lenti adattamenti alla lenta opera di detrito e scadi- mento, hanno scampata la coniugazione dalla rovina. Si pensi soltanto alle forme verbali del tedesco moderno: ìveiss, kanu, mag, begann; si vedrà come la significazione d'azione prete- rita, che s'è depositata in queste forme, ha cacciato di posto il presente, e poi coU'aiuto della coniuga\ione debole^ v'ha sovrapposta una nuova forma di perfetto (confr. nnisste, konnte).

88

Nel greco invece il procedimento avvenne in senso op- posto, cioè l'alterazione nel significato ha spinto la forma di presente verso la coniugazione debole (in-uj). Così che l'analogia ne pare che regga.

Il signor Inama si chiarisce contrario alla appellazione di aoristo debole e forte^ introdotta dal Curtius nella gram- matica greca-, e ne qualche ragione al § 220 segg. Lo Schleicher invece chiama semplici e composte queste forme. {Comp., §§ i83, 188). E ciò è conforme alla scienza. Questo solo dovrebbe mostrarne, che qualche grossa questione v' è sotto, e da non saltarsi a pie pari. È noto che il Curtius ha foggiato que' due appellativi sull'analogia della gramma- tica tedesca, come l'ha fondata il Grimm :, e ne porge le ra- gioni ne' prolegom^eni alla teorica della flessione del verbo. {Comm.^ pag. 90-91 della versione del Miiller). Il concetto di forte e debole nasce di qua, che certe radici verbali, cioè, sembrano avere in tanto di vigorìa e quasi di forza inte- riore da produrre un cambiamento fonetico nella vocale ra- dicale. [Ablaiit - deflessione - passaggio da un suono ad un altro, ha chiamata il Grimm codesta legge). Deboli per lo contrario si addimandano quelle forme, nelle quali non ha luogo mutamento nel suono vocale della radice, ma che nascono per aggiungimento esterno di sillabe.

Questa delle forme forti è tal virtù della lingua tedesca, che ne attesta l'alta antichità, ed è fenomeno strettamente connesso all'organismo interiore della medesima. Evidente è pure che la coniugazione forte tedesca è l'originaria, dalle movenze libere e quasi coscienti. L'inflessione forte scade via via, e si dilegua, lasciando il posto alla debole. Questo è il procedimento storico della lingua tedesca. Che qualche cosa di analogo ci presenti l'insieme dell'organismo della coniugazione greca, non è chi non veda. Per ciò saremmo anche noi inclinati a seguire il Curtius. Nella pratica certo

quella denominazione à\ forte e debole non presenta gravi inconvenienti, ed ha il vantaggio di avvezzare il ragazzo ad un modo serio e razionale di considerare l'involuto proce- dimento dei suoni vocali e di raccostargli la conoscenza di una legge, che può essere facilmente dimostrata anche senza uscire del campo dell'Ellenismo.

E qui facciamo punto con questa parte. Riassumendo di- ciamo, che il libro del signor Inama offre largo campo alla meditazione ed allo studio-, e perciò lo giudichiamo assai com- mendevole.

Rovigo, luglio 1872.

Gaetano Oliva.

SulV origine dell' unica forma Jlessionale del nome italiano, studio di Fra.nces,co D'Ovidio, Pisa, 1872.

Come tutti sanno, il nome neolatino sotto l'aspetto gram- maticale si ditferenzia dal latino principalmente in quanto questo presenta varietà di forme dette casi, così al singolare come al plurale, e quello una sola forma così nell'uno come nell'altro numero. Ora una delle quistioni della grammatica storica delle lingue romanze sta nell'origine di questa unica forma del nome, cioè stabilire se vi sia caso, e quale sia quel caso, che nel deperimento della lingua latina abbia, per così dire, sopravissuto agli altri e dato forma al nome neolatino così al singolare come al plurale.

Questa materia è stata variamente trattata da vari, e la dottrina ora prevalente circa l'origine della forma nominale è quella del Diez, il fondatore della linguistica neolatina, che vede generalmente nel singolare una forma risultante da quella dell'accusativo, e nel plurale una forma che per l'italiano s'im- pronta essenzialmente dal nominativo della i* e 2'' declina- zione, nel francese e nelle altre lingue dell'Europa occidentale dall'accusativo. Il D'Ovidio prendendo a trattare questa qui- stione, principalmente in quanto riguarda il nome italiano,

- 90 -

dopo passate in rassegna le varie opinioni e segnatamente gli argomenti allegati dal Diez per la propria tesi, finisce per dichiararsi partigiano di quella dottrina la quale, professata fra gli altri dal Pott, dal Gorssen e dallo Schuchardt, con- sidera la forma unica del nome singolare delle lingue neolatine come risultante generalmente dalP unificazione de' casi se- guita per logoramenti fonetici delle forme latine che, perdendo la 5 e la m finali del nominativo e dell'accusativo, vennero a confondersi in una, onde, per esempio, da lupus e lupum ne venne lupu (lupo), esteso poi anco agli altri casi. Questa sa- rebbe in sostanza la teoria del D'Ovidio circa l'origine della forma del nome al singolare, ad eccezione, ben s'intende, di quei casi particolari, in cui la forma procede manifestamente dal nominativo, come per es. in ladro da latro, sarto da sartor, moglie da mulier, uomo da homo tcc.^ o da forma comune al nominativo ed accusativo, in quanto il nome è neutro, come per es. in cece da cicer, pepe da piper, uopo da opus, corpo da corpus ecc.

Quanto al plurale, il D'Ovidio deduce la forma nominale di 1*^ e 2^ declinazione dall'ablativo, che perdendo la s finale avrebbe dato per es. da coronis, asinis coroni, asini. L'z finale dei nomi di prima sarebbe passato e fissatosi in e, perchè il nominativo era in e {ce), quindi da coroni corone \ dove che Vi di quelli di seconda sarebbesi mantenuto, perchè il nomi- nativo finiva in i. Veramente noi non sappiamo compren- dere perchè il nome plurale della i^ e della 2% potendo prendere immediate la sua forma dal nominativo, dovesse ricorrere all'ablativo per riuscire in fine a quella del nomina- tivo. A noi pare molto più probabile che il nominativo abbia dato senza più la sua forma al plurale di i'^ e 2% perchè terminando in vocale già per ciò solo veniva a dare una forma la meglio rispondente al genio fonetico del nuovo vol- gare, sì perchè le due forme in e ed /, già verisimilmente sim- boleggianti pel plurale i due generi come pel singolare a ed 0 (m), dovevano contenere in un elemento di vitalità estra- neo alle altre forme, finalmente perchè se fra tutti i casi ve ne era alcuno in cui più che negli altri dovesse per così dire conservarsi un avanzo quasi postumo di funzione ca-

~ 91 -

suale, questi non potevano essere se non il nominativo e Taccusativo.

Nei plurali maschili e femminili della 3*^ il D'Ovidio nega l'estensione della forma dei nomi di 2% ma vede un risul- tato naturale e diretto di quella forma in isy che il nomi- nativo e l'accusativo vengono non di rado ad avere presso gli scrittori latini insieme colFaltra più comune in es'^ onde per es. insieme con fontes, montes anche fontis, montis, che, preferiti dalla lingua popolare, diedero poi, colla per- dita della s, fonti, monti.

Le forme spagnolesche, quali per es. montes, naves, proprie anche di qualche altro volgare neolatino, come verbigrazia del logudorese, rendono inverisimile la popolarità di questa forma in is. D'altra parte il plurale della quarta, di cui il D'Ovidio non fa parola, adottando come fa il finimento dei nomi della seconda, rende probabile che questa forma sia pure stata estesa ai nomi della terza -, se non che nel plurale Vi finale, simboleggiando, come essenzialmente proprio dei nomi di seconda, il genere maschile, finì per essere più o meno ripugnante ai femminili di terza, i quali, acconciatisi in gran parte ad assumere, come i maschili, il finimento e pel sin- golare, come quello che sessualmente in tal numero può dirsi neutrale , di mala voglia al plurale pigliano 1'/ , che per questo numero simboleggia il maschile-, quindi la gran tendenza che nel parlare popolare cosiffatti nomi, pur atte- nendosi nel singolare alla terza, hanno di passare alla prima pel plurale, come verbigrazia in : le parte, cose importante, grande opere., le mia ragione, le loro orazione, isvenevole carene , le migliore stan:{e, ecc. ; esempi tolti dal Cellini, e che si potrebbero moltiplicare all'infinito, desunti da scrit- tori più o meno popolari d'ogni tempo e d'ogni volgare italiano. Questa specie di simbolismo sessuale, inerente og- gidì nella forma del nome italiano, era verisimilmente già incoato nella coscienza linguistica del deperente latino (1), e

(i) L'appendicista a Probo, dicendo uurus non mira, socrus non socra {An.gr., Eich. et Endl., p. 4i5j, ci fa intendere come questo simbolismo avesse già cominciato a operare sulla forma popolare del nome fin dai primi secoli almeno dell'era volgare.

- 92 -

non dovette essere senza una qualche influenza nel fermar le forme delle due prime declinazioni, che vennero poscia assunte non solo da nomi della quarta (cf. nuora, nap. socra, sardo sogra [soci^us], tose. pop. maria, ecc.) e della quinta (cf. rabbia, faccia, reqiiia, sardo mer. sangia [sanies]), ma anche da molti della terza in ambo i numeri {la dota, la tossa, la ghianda, la pasciona \_pastionem'], Agnesa ecc., lavoro, con- fesserò, comuno, dogio [duce], consorto, sorcio, ghiro ecc.) e tra' femminili da moki più anche solo al plurale, come s'è visto dagli esempi riportati sopra dal Cellini.

Come crediamo si possa ammettere in sostanza per assai verisimile la teoria propugnata dall'autore per la forma del nome al singolare, così reputiamo improbabile quella che egli professa in ordine al plurale.

Veniamo ora ad alcuni particolari, circa i quali avremmo qualche osservazione da contrapporre.

A pagina 44 leggesi : « I maschili della i" declinazione che pochi erano in latino e pochissimi rimasero nell'italiano, mentre pel singolare conservarono la terminazione in a, al plurale, come maschili che erano, assunsero la forma d'un plurale di seconda {poeta-poeti) o almeno finirono per as- sumerla, giacché in verità qualche traccia di più genuina- mente etimologico plurale rimase nella lingua arcaica (cfr. omicide, in Dante, Inf. xi, Sy ecc.) ». Si può dubitare se i nomi veramente popolari conservassero l'^^ finale, peroc- ché trovinsi , massime negli antichi, le iovmo. pi aneto, aii- rigo, idioto, ipocrito, eremito, romito, pirato, geometro ecc. Quanto al plurale, se la forma nasce secondo il D'Ovidio dall'ablativo in is, sarebbe stato, parmi, più naturale per questi maschiU ristringersi all'abbandono della s, e per es. dOi poeti -s iar poeti. Quella traccia poi di piii genuinamente etimologico plurale, oltre al far contro la teoria stessa della forma procedente dall'ablativo , male s'appoggerebbe sul- Vomicide della Divina Commedia, perché questa é lezione assai dubbia, incontrandosi variamente ne'^testi omicida, omicide, omicidi, omicidii, micidii, perchè, quando pure si fosse certi che Dante avesse scritto omicide, potrebbe es- sere un latinismo di forma usato arbitrariamente dal poeta

93

e provante nulla in ordine alla storia dello svolgimento lin- guistico del romano volgare. Il vero riflesso popolare del latino homicidae non avrebbe più potuto essere al tempo di Dante se non micidi ; ma il popolo usava piuttosto in quella vece micidiali o micidiari, derivazioni romanze da micidio (omicidio).

A pagina 47 , dopo di avere esposta la sua teoria del plurale della terza nato da forme in is , adoperate , come si è detto sopra, pel nominativo e accusativo in es ^ egli soggiunge: « Deve però anche il nominativo accusativo in es avere avuto qualche succedaneo, trovandosi per es. in Dante (Pz^r^., xx, 100) /?rece per j!?rea ecc. )). Quantunque qui la lezione sia più che mai certa per far rima con fece e vece^ pure anche qui non crediamo che questa voce abbia qualche valore per la storia del parlare popolare, perocché essa non possa essere altro fuorché od un ritiramento di forma al latino, come Dante fa non di rado, massime per la rima, ovvero, come credo più verisimile, una forma di un femminile plurale della terza dovuta a questo stesso principio, a cui sono da recarsi quelle altre già citate dal Cellini, cioè a quel simbolismo sessuale, per cui Dante stesso usava leno invece del maschile lene {Par.^ xxvni, 81), turpa in luogo del femminino tiirpe[Par.^ xv, 145), e le force ^qv le forci {Pai\^ xvi, 9), sincopamento di forbici^ il quale ultimo esempio verrebbe ad essere perfettamente analogo a prece per preci.

A pag. 41 in nota ha: « imbolo (dim. da nubes) passa a nuvolo, indi a nugolo ». Credo che qui non s'abbia a far con un diminutivo di nubes (che sarebbe nubecula)^ ma coll'aggettivo nubiliis che adoperato, com'era, sostantiva- mente al plurale nubila in senso di nubes ha dato il popo- lare nuvola e con cui si connette pure il maschile nuvolo e nugolo. L'o per i dinanzi a / in questo caso é, si può dire, regolare, come si può vedere per es. in nespolo mespilo, semola simila,. debole debile, fievole flebile, (ice.

A pag. 53 leggesi: « Vipistrello o pipistrello. Non può risalire a j'e5'jt7er/z7/o, che ilio avrebbe dato iglio. È piuttosto da un vespertillus (Diez) ». Mettendosi qui innanzi, come

- 9-1 -

fanno il Diez e il D'Ovidio, un ipotetico vespertilhis^ si viene naturalmente ad escludere come tipo del nome italiano la forma nominativale di vespertilio che in pipistrello avreb- bero dato un analogo per es. di ladro = latro ^ strambo —-. strabo ecc. La ragione di questa esclusione la dice il D'Ovi- dio : « ilio avrebbe dato iglio » ; che vuol dire da vesperti- lio sarebbe nato pipistriglio, non pipistrello. Confesso che non so acconciarmi a questa cdsì risoluta sostituzione di Inesperti II US a vespertilio., determinata solo da ragioni fono- logiche. Se si rimuove vespertilio come forma donde non sia possibile il venire per mere alterazioni fonetiche vipistrello, pipistrello, per ispiegarci /a/y^/Zi^ noi dovremo anche dis- farci di parpalio procedente da papilio e sostituirgli parpal- liis; il che non vedo essersi fatto dal Diez dal D'Ovidio, sebbene anche cotesto nome si connetta colla storia della forma del nome neolatino. Io credo pertanto assai probabile che ve- spertilio sia col tempo soggiaciuto ad un'assimilazione di j (J) colla / precedente, onde vespertilio., vespertiljo., vespertillo, vespertello., vipistrello., pipistrello (cfr. fringuello da frin- guilla). Dell'esistenza volgare di vespertilio fa testimonianza, oltre lo sporiiglione napolitano, forma aferetica dell'obliquo vespertilione , anche il veneziano barbastregio , che quanto al finimento sta a vespertilio come consegio a Consilio, fa- megia di famiglia, e aggiugnerò, come facente doppiamente al nostro proposito, pavegio a papilio. Il fenomeno di ve- spertillo:=.vespertilio, cioè llozuljo (assai comune nella storia del greco, e in qualche dialetto sardo, ecc.) è, per vero dire, sporadico nell'ambiente toscano e nell'Italia media e meridionale, ma non lo credo isolato^ giacché per es. in assillo da asilus, piuttosto che un raddoppiamento di /, possiamo scorgere un risultato di asiljus per asilus (cfr. Diez., R. Gr., IF, p. 3oi), reso pur verisimile dall'emiliano asej (boi., romagn.), asij (ferr., mod.), che metton capo ad asilius, donde per via di un dim, asiliolus ne vennero poi le forme contratte d'asiol (boi., ferr. ecc.), asieul (parm., mant.), e per via di asilione il parm. e romagn. asion con senso d'assillo nel primo, d'a :{onio nel secondo. Ho toccato del ven. pavegio e del tose, farfalla, l'uno direttamente e Taltro

95 -

indirettamente procedenti dal nominativo papilio. Questo nome e le altre varietà di forme che esso venne a prendere nel romano volgare, cioè papalio, paryilio e parpalio, hanno rappresentanze che pure attestano a loro tipo il nominativo e presentano risultati analogi a pipistrello nato da vesper- tilio, cioè forme originariamente nominative, in cui piuttosto che ricorrere ad ipotetici papalliis, parpillus, parpallus, amiamo di vedere semplicemente il fenomeno di // r= Ij. Quindi mentre da un Iato abbiamo dal nom. papilio il ven. papegio, friul. papei e con trapasso al femminile ven. papegia, friul. papée (papeje), dal nom. parpalio il lomb. parpai, cant. tic. barbai, e, con trapasso al femm., lomb. ed emil. barbaja e, con s prostetica, sparpaja; d'altra parte, mediante il fenomeno di // = Ij, vedo nascere da parpilio il bresc. barbell (^=: parpilio), da papalio la forma vallanza- schese pavalla che pvesupponQ papalio -^zpapaljo e il sardo mer. pappagallii {pa-papalio) (i), farfalla, e da parpalio il pur femm. tose, farfalla per parpalla (dal nom. parpalio zizparpaljo). NqWsl f di farfalla, piuttosto che un'influenza dell'antico alto tedesco fifaltra , secondo che congettura il Diez., (E/. W., P, 172), si può vedere un'aspirazione della labiale determinata da r, lettera notoriamente aspira- tiva, secondo che avrebbe avuto per es. luogo vafarabolano, farabolone, pev parabolano, parabolone. Tutte queste forme, insieme colle procedenti dal tema obliquo, c^udM padiglione, parpaglione, pabilloni (sard. mer.), mentre attestano la pre- esistenza del nome romano volgare colla forma propria della terza declinazione, avvalorano anche, parmi, la ve-

(i) Senza negare la possibilità dell'essere qui applicato il nome dell'uccello a significare farfalla ( cf. nap. palomma, farfalla), credo non improbabile che questo j^appagallu presenti una forma rigeminata da papalio in pa-papalio (et. mer. pabassa = pa-passa da passa, uva passola, chighiristaz=chichirista, chicrista, crista, cresta), che fattosi papapallii , papaballu diede poi, mediante la conversione b in g (cf. mer. ao-uri = buris; guraoni per burdoni, budroni da pórput;; v. log. budrone), la forma di papagallu, che, perduto del tutto il sentimento del valore etimologico, si potè con etimologia popolare, idest erronea, confondere con quello di pappagallu , nome di uccello. 11 fenorneno lluz=ljo, Ho qui sarebbe proprio a casa sua (cf. Picchia, Dell'origine della voce sarda nuraghe, p. 17).

- 90

risimiglianza di un vespertilio, riflesso non solo dal ven. barbastregio, ma pur da pipistrello, e, pel tema obliquo, da sportiglione.

A pagina 55, a proposito di suora, nato dal nomina- tivo soror, egli dice, che la vocale finale di suora « essendo un a non etimologica ma analogica, si può trovar tron- cata al contrario delle altre a {Suor Maria continuazione di soror Maria, ove Vor finale è venuto a poco a poco affie- volendosi e dileguandosi))). Non credo si possa dire che suor siasi troncato perdendo Va, perchè questa vocale non è, come dice Tautore, etimologica ma analogica, cioè perchè è uvVa non originaria, ma sostituita ad o come rappresen- tante tipicamente il femminile. Suora o suoro non si tronca generalmente in suor, se non quando è seguita dal nome della suora, come in suor Pulcheria, suor Appellagia, e in alcuni altri pochissimi casi, come in suor mia, suorsa (per suor sua; ci. signorso qcc). Ora in tutti questi casi suor viene a trovarsi in condizione di voce, direi quasi, proclitica, e si tronca per quello stesso principio per cui verbigrazia fra si tronca da frate in fra Martino , san da santo in san Giuseppe, don da donno in don Silvano tee. Del resto il troncamento di suor non presenta sempre il dileguo di un a non etimologico , giacché negli antichi pi- sano e sanese, dove la forma intiera è suoro e non suora, suor avrebbe fatto getto di o, vocale originaria od etimo- logica che dir si voglia. Noterò ancora come Va di suora, venuto ad essere parte costitutiva del tema nomi- nale e improntante al nome la forma tipica del femminile, debba trovarsi nella coscienza linguistica equiparato del tutto ad un a etimologico, quale sarebbe quello per es. di donna, di figlia, , ecc. E se questa perdita dell'^ di suora viene ad - esser caso, se non unico, assai raro per un femminile, si deve alla confusione che da siffatti troncamenti ne verrebbe del femminile col maschile, essendo la più parte di siffatti nomi etimologicamente identici nei due generi e il tronca- mento riserbandosi naturalmente pel maschile; sicché più non si possa dire don Berta per donna Berta, san Mar- tina per santa Martina. Suor Maria poi, detto deirautore

- 97

continuazione di soror Maria, importerebbe contraddizione a quello che egli dice innanzi, che cioè suor sia tronca- mento di suora\ di fatti lo svolgimento delle varie forme non può essere che questo: soror, soro, suoro, sora, siioj\i. Soro sta a soror, come sarto a sartor, marfno a marmor, vampo a vapor ecc. Da soro è venuto suoro come da foco fuoco, e da suoro suora^ come da nurus mira, iiora, nuora. Finalmente suor, per le variazioni sopraddette, potè venir così da suora come da suoro, la quale ultima forma, già propria, come si disse, del pisano e del sanese, che Tadopera anche al plurale (onde per es. suoro carnali per sorelle e., St. San., I, 2i3j e rappresentata pur oggi dal sic, sor^u, potè in antico essere stata propria di dialetti che ebbero di poi suora, giù fino ai tempi che ne nacque il tronco suor; sicché questa forma potrebbe considerarsi come generalmente pro- cedente piuttosto da suoro che non da suora.

A pag. 37 dice, parmi, troppo assolutamente, che alveare mantenutosi popolare sarebbe diventato alviare o agliare. Pure ammettendo la possibilità di queste forme, credo che una delle più verisimili sarebbe stata pel toscano e quindi per l'italiano quella di albiare. Alveus, donde alveare, per quanto ci si riflette volgarmente in toscano, si presenta sotto la forma à^ albioni), proprio anche del veneziano. Ho detto una delle forme più verisimili, avuto solo riguardo alla tras- formazione di -Ivea {Ivja), che è la parte più naturalmente mutabile d'alveare romano pigliante forma romanza, così neirambiente italiano come, in genere, nel neolatino. Della verisimiglianza d'albiare farebbero anche testimonianza le fórme albi (ferr., boi.), elbi (mod., regg.), aib (boi., ferr.) arbi (piem.), originati da alveus, come pure albiol (ferr.), albiceu, arbioeu, elbiceu (mil.), arbieul (berg.), ecc. da al-

(i) Albio non è registrato nel Vocabolario Italiano e neppure in quello dell'uso toscano del Fanfani , nonostantechè questa voce sia la sola che più legittimamente rappresenti sotto forma popolare il latino alveus e giCi si trovi ncW Amalthea Onomastica del Laurenti lucchese in senso di abbeveratoio da porci (Ven.,1708, On. it.-lat., p. 77). Oltrecchè nel lucchese, si usa pure dai contadini d'altre parti della Toscana. È pressoché superfluo il notare che alveo ò forma letterariij, e foneticamente ibrida come volgare.

- 98 -

veoliis ; significanti tutti qualche sorta di recipiente, segna- tamente truogolo^ abbevei^atojo. Tra le varie forme derivate che potrei ancora citare, noterò il boi. aibarola (truogolo), come accennante a un prototipo alveariola e così confon- dentesi quasi di organismo con alveare^ dal quale però non è verisimile che si derivi, venendo più probabilmente da alreus per via del suffisso complesso -ariolo {ario-olo). Bastano, parmi, questi cenni per dimostrare le varie foggie che avrebbe potuto assumere popolarmente alveare {alvjare)^ anche solo considerato nella sua interna trasformazione *, perocché, insieme con alveare^ avendo il latino anche al- vearium^ non avvertito dal D'Ovidio, che pure fa cenno di cochlearium sostituito a cochlear^ di sarebbe anche po- tuta venire una forma toscana di albiajo. Si confronti a questo proposito la forma volgare di milvius e di qualche nome locale derivato dai gentilizi Fulvius e Molviiis [nibbio^ Fiibbiano^ Mobbiano) e bisognerà anche riconoscere la veri- simiglianza di forme ipotetiche quali abbiare^ abbialo rispet- tivamente procedenti da alveare^ alvearium.

Non porrei come letterario e non popolare, secondo che fece Fautore a pag. 69, il nome Tebro insieme con Dido^ Giiino^ margo^ temo (per timone)^ imago &cc. Tutti questi nomi sono non solo di forma letteraria, ma hanno il loro tipo nel nominativo latino, mentre Tebro viene da caso obliquo (che altrimenti bisognerebbe dedurlo da un Tibei'o^ Tiberonis che non c'è), e presenta fenomeni (cioè mutazione d'/ in e, sincope e trapasso, come di m.aschile , alla se- conda), solo proprii delle forme popolari. L'unica impopo- larità, che sarebbe da notarsi in Tebro dirimpetto alla forma volgare, è il ^ per v; ma non è improbabile che ciò devasi a una quasi nobilitazione voluta farsi dai letterati di una popolar forma Tevro , che io , per vero dire , non conosco, ma che mi pare assai verisimile, e che, pur pre- sentando alterazioni varie dinanzi a Tiberini o Tibrim , darebbe una forma regolarissima e a un tempo somma- mente popolare. Quanto alFo finale si confronti con Tevero fior, e Tevaro san., aret., tee. * A pag. 2 5, egli dice che in latino serbarono più a lungo

- 99 -

Vo nel nom. e acc. sing. soltanto ì temi in -vo. Sarebbe stato più esatto il dire i temi in -vo^ -no e -quo^ onde p. es. servos^ servom^ perpeiiios^ perpetuom ^ reliquos, reliquom.

A pag. 53, parlando di quelle doppie forme di nomi, di cui l'una muove dal nominativo, l'altra da caso obliquo, egli cita ad esempio « sage-sdpiens ^ savant-sapiénte(tn] », Sage non può staccarsi dalFit. savio^ saggio^ sp. e port. sabio^ prov. sabi^ che sono il risultato di un antico sapius^ proprio del romano volgare, come si rende anche assai verisimile dal nesapius {qui non sapit) di Petronio (confr. Diez, Et/m. Wórt.^ P, 362).

In fine della sua dissertazione il D'Ovidio reca una lista ch'egli dice di aver procurato di fare quanto più completa gli è stato possibile, non solo dei nomi aventi una forma sola procedente dal nominativo, quali per. es. sangue = sangui s^ icomo=liomo^ prete = pvesbytey^ strUyio=struthio^ vieto^= vetiis^ ecc. •, ma anche di quelli che oltre una forma deri- vata dal nominativo ne hanno pure una connessa coi casi obliqui, come per es. sarto {sartor)^ sartore; ladro ^ la- drone; ti\:{0 ^ ti'iione^ orafo [aurifex)^ orefice {aurijìce)\ moglie^ mogliera\ cespo^ cespite, qcc. Noterò come alla ca- tegoria di questa sorta di nomi, che il D'Ovidio chiama doppioni, si potrebbero anche aggiugnere ^e/o(i) o. fetore^ ventavolo (yentus aquilo) e aquilone^ erro e errore (se pure il primo non viene da errare^ come per es. grido, niego da gridare [quiì^itai^e] negare)^ nievo {nepos){;i) e nipote; e come in cambio di cespite , forma letteraria anziché no , sarebbe stato meglio porre cesto^ che la forma popolare procedente dal caso obliquo, e presenta una sincope analoga a quella di oste = hospitem.

(i) Il Fanfani nel Voc. dell'uso tose, reca fleto come voce sanese, e in quello della lingua italiana come usata dal Caporali; ma questa parola è non solo sanese ed umbrica , ma anche aretina, romanesca e napolitana, e appartien pure sotto la forma f etti al siciliano.

(2) Nievo è usato dal Pulci e nevo vive in dialetti della Liguria. Il Voc. It. del Tramaier fa venir nievo dal fr, neveu; ma nievo è risul- tato italiano di nepos, cosi bello e regolare, che non può esser caso di una tale stiracchiatura.

100

Queste sono le osservazioni che ci parve di fare al lavoro del signor D'Ovidio; ma riconosciamo di buon grado come generalmente in esso il giovane autore non solo siasi mostrato peritissimo della sua materia, ma abbia dato bella prova di quel criterio storico delle lingue che pur troppo in Italia è an- cora una dote assai rara, anche tra coloro che fan professione di lettere e filologia; e ci rallegriamo pertanto che la linguistica venga ad avere in questo egregio professore un valente cul- tore, che coirinsegnamento e cogli scritti potrà certo giovar grandemente a promuover questa sorta di studi nel nostro paese.

G. Flechia.

Frammenti d' iscri'{ioni etrusche scoperte a Ni^^a. Nota del prof. A. Fabretti, inserita negli Atti della R. Ac- cademia delle scienze di Torino. Voi. VII, 1872.

Prima il Mommsen, poscia Carlo Promis sollevarono dubbii sulla sincerità della lapide etrusca che si conserva nell'atrio dell'università di Torino , l'unica leggenda che appartenga alle provincie Subalpine scritta coi caratteri proprii dell'Etruria centrale ; il Promis si fonda specialmente sulla considerazione, che la presenza di gente Etrusca in queste regioni non è avvalorata da ricordi storici.

Il prof. Ariod. Fabretti, così diligente nel raccogliere gli antichi monumenti e cosi acuto nel dichiararli, dal con- fronto che fa di questa lapide con altre scoperte recente- mente a Sondrio ed a Nizza, pensa si debba affermare la autenticità della medesima.

G. Barco.

Avvertenza. Delle opere filologiche inviate finora alla Direzione della Tiivista dai signori autori od editori, sarà fatto cenno nel fa- scicolo terzo e nei seguenti.

Pietro Ussello, gerente responsabile.

101

7 "PRETESI GEV^ITIVI SI^G0LA1{I DEI TEMI LATINI IN -0-.

I.

Quale sia la vera natura ed origine di quelle numero- sissime forme latine, che la grammatica empirica (sempre ^ossequiosamente fedele alle sue antiche tradizioni) ci avvezzò a considerare come genitivi singolari della declinazione se- conda, non si è potuto ancora dalla nuova linguistica sto- rico-comparativa mostrare con tale evidenza che non sia più possibile il dubbio, la contestazione, la varietà delle sentenze. E siccome è questo un problema glottologico non poco im- portante sì in ordine alla morfologia, ancora per ciò che concerne la sintassi, così osiamo confidare che gli studiosi lettori di questa nostra 'Rivista faranno buona accoglienza alle osservazioni, sebbene per avventura Vl giudizio di alcuno troppo lunghe e minute, che noi ora ci proponiamo di esporre intorno alle diverse soluzioni che del preaccennato problema vennero date da parecchi insigni linguisti, fra i quali ci av- verrà di trovare taluno che meritamente ha nome di maestro. Le quali soluzioni ben distinte fra loro sono tre e la prima di esse si contrappone nettamente alle due altre : che, giusta quella, i menzionati genitivi furono così appellati impropria- mente e voglionsi considerare come schietti locativi; mentre, secondo le altre due, noi dovremmo reputarli veri genitivi formati col suffisso ariano -as se crediamo agli uni, o colla primitiva desinenza -sja se agli altri diamo fede.

TUvista di filologia ecc., I. 8

102 -

IL

Lo scopo a cui tende questo nostro lavoro ci consiglia a prendere le mosse dall'ultima fra le esposte opinioni, giusta la quale il genitivo latino onde discorriamo sarebbe stato a buon diritto così denominato, essendo costituito da un tema nominale e da -sja, elemento formatore dei genitivi singo- lari in parecchi idiomi ariani (i). È questo il parere di Leone Meyer(2). Lo -sja^ egli scrive, « trovasi esclusivamente nell^ forme fondamentali onde il tema è terminato nel primi- tivo a\ lo antico indiano <i^'?'^- - campo-, p. es., forma il genitivo dg'rasja - del campo -, e, con esso si accorda esat- tamente l'arcaico àrpoio di pari significazione, nel quale il s cadde fra le vocali, e senza dubbio , sebbene molti lo ne- ghino ancora, altresì il latino agri: qui il più antico oi , formatosi mediante espulsione del s dal precedente osj , venne affievolito prima in ei e poscia in i (come nel nomi- nativo plurale agrì=à-i90\ - i campi-) e questa vocale lunga assorbì la breve seguente, del tutto come avvenne, v. g., in fili - o figfio -, per/F/ze, ed in aiidl - odi - per audie, audieì). Questa spiegazione sembra vera anche al Clark (3).

E qui si noti in primo luogo che, come rettamente os-

(i) ScHLEicHER, Cotnpendium der vergleichenden grammatik der indogermanischen sprachen, 2^ ed., Weimar, i866, § 252, p. 554-56i 143, p. 3o8-3io della nostra versione).

(2) Gedr'dngte vergleichung der griechischen iind laleinischen de- clination, Berlin, 1862, p. 26-27.

(3) The studente s handbook of comparative grammar ecc., London, 1862, p. I 14-115.

103 servò G. Corssen (i), il 5 del primigenio -sja^ secondo una delle leggi che governarono lo svolgimento fonico del latino, non sarebbe svanito in questo idioma tra vocali (come suole nel greco), ma si sarebbe trasformato in r, proprio nella mede- sima guisa e per la medesima causa che vediamo essersi mu- tata la sibilante nella tremola accennata in er-o per *es-Jo^ in e?^ìi p. esil ecc. (2) e nelle parole meliorem, plurima, lares, feriasy aras, arena, Spiirius, Fiiriiis, dari, forme classiche derivate dalle arcaiche meliosem, plusima, lases, fesias, asas, asena e fasena, Spusiiis, Fusiiis, dasi ecc., ed in ultimo in qiiaero da. quaeso che si conservò anche nel latino letterario (3). E vuoisi eziandio por mente a ciò che non il s, ma i\J sa- rebbe scomparso, come appare dal primo degli esempi citati, conforme alle tendenze fonetiche del latino. E finalmente dichiariamo di non conoscere forma latina, nella quale un 0, veramente finale (come nel caso di cui ci diamo pensiero), vale a dire non seguito da alcuna consonante (v. g. da s), siasi fuso coir 2 precedente in F (4).

Crediamo pertanto avere il diritto di respingere questa teorica, come quella che non solo ci si presenta sfornita di prove, ma eziandio non regge ad un critico esame.

(1) Uebcr aiissprache , vocalismus iind betoming der lateinischen sprache, 2* ed., Leipzig, 1868-1870, voi. 1°, p. 768.

(2) V. la Dissertatone storico-comparativa che publicammo intorno alla Formatone del futuro attivo uegl' idiomi italici ed ellenici, To- rino, 1872, p. 28-3o.

(3) V. la nostra Grammatica storico-comparativa della lingua la- tina, ecc., Torino, i872,§36, p. 156-57. V. anche Meyer, Vergleichendc grammatik der griechischen und lateinischen sprache, Berlin. i86i-65, voi. 1°, p. 55-6o.

(4) V. la nostra Grammatica precitata, § 5i, IV, 2°, p. 283.

104

III.

Ritschl (i), Corssen (2), Schleicher (3), Grassman (4), Biicheler (5) ed altri (6) scorgono nelle forme latine delle quali si tratta veri genitivi , onde la terminazione sarebbe stata anticamente -is, che Corssen considera come un rap- presentante affievolito d''un primordiale -as ed affatto identico col suffisso formatore del genitivo singolare nella terza de- clinazione. La verisimiglianza apparente di questa dottrina, gli argomenti speciosi che si adducono a sostenerla, T atti- tudine sua a conciliare la vecchia colla giovane scuola di grammatici latini, e, soprattutto, il nome chiarissimo degli uomini che se ne fecero strenui propugnatori la rendono degnissima della più accurata disamina, mentre Tarnore del vero esige che questa si compia colla più assoluta indipen- denza di spirito.

Vuoisi innanzi tratto osservare, che l'esistenza di antichi genitivi singolari latini della 2* declinazione desinenti in

(i) Passim ed ancora nei Neue plaiitinische excurse, sprachgeschicht- lìche iintersuchungen, Leipzig, 1869, p. 117.

(2) Op. cit., l'acci., i858-59, voi., 1°, p. 2o3 e 118; 2'' ed., 1S68-70, voi. I», p. 768-773 ecc.

(3) Op. cit., 1. e, voi. 2°, p. 452 (i» ed., 1861-62), p. 558 (2» ed., 1866).

(4) Ueber die casusbildung im indo-germanischen (nella Zeitschrift di Kuhn, voi. 120, p. 252).

(5) Grundriss der lateinischen declination. Leipzig, 1866, p. 36.

(6) V., ad es., le grammatiche scolastiche del Vanicek [Lateinische schidgrammatik, parte, Prag, i856, p. 40), del Bauer {Die elemente der lateinischen formenlehre , Nordlingen, i865, parte V, p. 3i) ed anche quella del Giuffrida (Grammatica della lingua latina, Sciacca, 1870, parte 1% p. 24).

105 -is è meramente ipotetica: niuno di essi ci pervenne a dimostrare con prova di fatto la realtà storica di questa supposta terminazione. Questo s finale è « svanito assolu- tamente », scrive Ritschl (i), e Corssen confessa che « le più antiche iscrizioni latine a noi pervenute non conoscono se non forme del genitivo singolare in -i di temi in -o-» (2). La più solida base su cui si possa fondare fatta ipotesi è la comparazione di questo preteso genitivo latino col ge- nitivo osco ed umbro terminato in sibilante. Siano esempi le forme osche senateìs, sakarakleis, Pumpaiianeìs ecc. (3); le umbre Marties e Martièr, katlés e katlè ecc. (4). Corssen reputa « impossibile il separare forme osche del genitivo singolare come sùveis, minstreis dalle forme latine come suei, ministri^ forme umbre quali sono katlès, katlè dalle latine a mo' di catidi ». Ma non è punto pro- vato che le forme latine onde qui si favella appartengano al medesimo caso cui spettano le osche e le umbre che si citano come loro corrispondenti : già Bopp notava che Tosco e Tumbro non danno mai senso di locativo al loro genitivo, mentre in latino i così detti genitivi singolari delle due prime declinazioni sono spesso adoperati per significare stato in luogo, come sogliono insegnare i grammatici (5). Del resto le differenze fonetiche e morfologiche le quali distinguono lo idioma antico della Italia media occidentale dai dialetti

(i) Op. ciu, 1. e.

(2) Op. cit., 2^ ed., voi. 1", p. 765.

(3) Enderis, Versuch einer formenlehre der oskischen sprache ecc., Zurich, 1871, p. LI.

(4) AuFRECHT e KiRCHHOFF, Die timbrischen sprachdenkmaler, Berlin, 1849, P- ii8. HuscHKE, Die iguvischen tafeln ecc., Leipzig, 1859, p. 614-15. Enderis, Op. cit., 1. e.

(5) Bopp, Grammaire comparée des langiies indo-eiiropéennes, trad. par Bréal, Paris, 1806-69, § 2,00, voi. 1°, p. 434.

106 orientali (i) non ci consentono di ammettere fra il primo ed i secondi un' affinità così intima come farebbe d^ uopo riconoscerla per non dissentire dal grande investigatore della pronunzia, del vocalismo e delF accentuazione latina. E , come osservò opportunamente Ebel , gli stessi temi in -0- ci presentano in latino nominativi plurali formati ben altramente che in osco ed in umbro, come appare evidente a chi paragoni T -i finale di essi in latino (v. g. in equi) coir ùs, -ds osco (p. es. Nùvlanùs) e coli' umbro -us, -z/r, -or (p. es. Ikuvinus, lovimir^ screihtor) (2).

E non sapremmo davvero comprendere per qual cagione sia andato perduto un s finale nella desinenza di questi pretesi genitivi singolari dei temi in -0-, mentre si conservò

(i) Basti rammentare ai nostri lettori le tre seguenti: la corri- spondenza del e, qii latino a\p osco-umbro (lat. quis ^= osco ed umbro pis, lat. quattiior:^ osco petora=umhro petiir-=^eo\. ed om. mavpec,); l'infinito latino in -re formato ben altramente che l'osco in -u-m e l'umbro in -u-m, -o-m (lat. dice-re , osco deicii-m\ lat. es-se , umbro er-u(m) ); il futuro, alla cui formazione concorre in la- tino la radice /?<, nell'osco e nell'umbro la radice es (lat. da-bi-t, osco dide-s-t; lat. habe-bi-t , umbro habie-s-t). V. la nostra cit. Dissert. sulla Formazione del futuro attivo, p. 33-35.

(2) Non ignoriamo che alcuni credettero primitive le forme latine arcaiche in -es, -eis, -is, di nominativi plurali latini come duoìn-vires, vireis , magistris. Ma fatti nominativi plurali dei temi in -0- non possono essere i primitivi, dai quali mediante il dileguo del s finale siano provenuti gli altri : che i terminati in oe, e, ei sono più antichi di essi, mai il s della desinenza -es del nominativo plurale andò altrove perduto in latino. Vuoisi dunque ammettere che le preaccennate forme con s si svolsero dopo altre sfornite di questa finale. Fra le ipotesi escogitate a spiegare simile posteriore formazione basti accennare quella di Bopp [Gramm. comp. ecc., § 228b, voi. 2°^ p. 40 della vers. fr.) e di GoRssEN [Ueber ausspr. ecc., voi. 1°, p. ySG), la quale ci sembra di tutte la più semplice e verosimile : che, giusta la medesima, i nominativi plurali onde discorriamo derivano da temi in -i-, nei quali sonosi mu- tali temi in -0- corrispondenti. V. la nostra Gramm. st.-comp., § 102, p. 379-80.

107 quello dei veri genitivi appartenenti ai temi in consonante ed in -II-. la teorica della declinazione latina ci sommi- nistra esempii atti a difendere questa ipotesi. Già vedemmo come nessuna sibilante siasi dileguata in fine dei nominativi plurali della seconda declinazione: per ciò che spetta ai singolari noteremo che alle forme arcaiche Cornelio , He- renio, Sexto, che appariscono in iscrizioni anteriori alla se- conda guerra punica, subentrarono più tardi le forme piià antiche ancora con s. A tutti è nota Topera di Ennio e dei suoi seguaci, i quali riacquistarono al latino quanto esso non aveva ancora interamente perduto sotto l'azione funesta di certe tendenze foniche (i). Indarno ci si opporrebbe il preteso genitivo singolare in -ae, -à-ì dei temi in -a- (i* deci.), forma che Ritschl (2) ed altri considerano come provenuta, per dileguo di un 5 finale, da una più antica in -àis. Questa supposta provenienza non ci sembra ancora dimostrata scien- tificamente. Che non ne sono valide prove i genitivi in -aes (v. g. Heraes , Valeriaes , Dominaes , liinaes) che irovansi solo in iscrizioni dall'epoca di Siila alla età impe- riale più tarda ed appariscono evidentemente foggiati ad imitazione dei greci in -r\c, (3)-, i genitivi arcaici in -às (p. es. terràs, aquàs , familiàs i7ionetàs), i quali vedremo tosto essere veri genitivi che non si possono connettere coi pretesi in -ae, à-t\ né, finalmente, la stessa forma Prosepnais^ la quale, malgrado dell' opposto parere di Ritschl (4), ci pare non primitiva , ma rivelante l' influenza del genitivo

(i) Brambach, Die neiigestaltung der lateinischen orthographie in ihrem verhaltniss ^xir schule, Leipzig, 1868, p. i2-i3.

(2) Op. cit., p. 1 14-7.

(3) V. la nostra Gramm. st.-comp., § 19, p. 68. Corssen, Op. cit., voi. 1", p. 684.

(4) Op. cit.. p. 1 15.

108 greco, come opinano Mommsen (i) e Corssen (2). Oltracciò non potrebbesi spiegare la lunghezza della vocale ì in -à-ì considerando quest'z come un avanzo del suffisso latino -is =gr. -og=ant. ind. ed ar. -as , che sempre ci si presenta in latino colla vocale breve {-ós, -ils, is [nelle forme arcaiche domu-'òs, domu-us, domii-is\ -ès,'is | nell'are. Apolon-cs, nel class. Apollin-h] (3) ): ma sarebbe affatto necessario ammet- tere con G. Curtius (4) e Schleicher (5) la origine di questo genitivo latino da una forma fondamentale in -à-j-as, ipotesi alla quale noi non possiamo credere , soprattutto perchè i temi latini in -a- non ci appariscono mai in alcun altro caso

(1) « Declinatio haec videtur hybrida esse et ex genetivo Latino Pro- serpinae GraecoqueTTepae(póvri(;quodammodo mixta ; nec raro similem genetivum declinationis primae in es et aes offendimus in titulis grae- cissantibus maxime aetatis labentis. » V. Inscriptiones latinae antiquis- simae ad C Caesaris mortem, Berolini, i863, 7). 25 e 554.

(2) «.... Neil' -^/S di questo genitivo si volle riconoscere un avanzo sporadico della più antica forma in -d-is del genitivo dei temi fem- minili in -A- Ma si consideri, che tranne questo caso, ci si

presentano nel latino arcaico solo le forme in -d-i, -ai dei genitivi di questi temi, non mai quelle in -d-is; che la forma Prosepnais ha perduto il r avanti al jc, mentre fatta questa sola eccezione, il r si con- servò nella voce Proserpina in ogni tempo ; che questa forma {Pro- sepnais) non appare se non sopra uno specchio trovato in Etruria con immagini di maniera greca ; che queste iscrizioni su specchi ci offrono in buon numero nomi non latini e stranieri; e sarà forza conchiudere, che V-AIS in questa forma non indica una primitiva desinenza del genitivo latino più che in Eiitkhiais, Al rappresenta il primitivo dittongo latino ai più che nelle forme arcaiche Aisclapi, scaina, ma che in quel luogo Prosepnais è una forma mista, derivata dalla latina *Proserpinai, Proserpinae e dalla greca TTepaeqpóvri^, giusta il parere di Mommsen, » CoRssEN, Op. cit., voi. i", p. 683.

(3) V. Neue, Formenlehre der lateinischen sprache, voi. i", p. 190-2, 36i-2.

(4) Y.Miscellen (nella Zeitschrift di Kuhn, voi. y, p. i56), ed il Commento alla grammatica greca, Xvsid. da G. Muller, Torino, 1868, p. 55-56.

(5) Op. cit., § 252, p. 558.

- 109 - ampliati con un /. E, prima di dar termine a questa ormai troppo lunga digressione, noteremo ancora che ai così detti genitivi latini in -à-ì, -ae rispondono perfettamente locativi oschi colla medesima terminazione. da questi pretesi genitivi si possono separare i locativi in -ae^ v. g. Romae - in Roma-, domi militiaeqiie, terrae mariqiie (cfr. gr. xcMa-i). E da queste osservazioni crediamo potersi sicuramente con- chiudere, che non genitivi, ma locativi singolari hanno a dirsi le forme latine onde abbiamo discorso e pertanto da esse non si può trarre verun argomento in favore della teorica di Ritschl, Corssen e Schleicher, giusta la quale le forme sin- golari in -i dei temi in -o-, denominati genitivi dalP antica grammatica empirica, dovrebbero veramente reputarsi tali. fatta teorica non essendo fondata sui fatti, anzi ripugnando a parecchi tra i fatti stessi, non corrisponde alle inesorabili esigenze della linguistica odierna, positiva per eccellenza, e non può essere accolta da noi, che perciò ci scostiamo, sebbene a malincuore e reverenti, dalle orme di quei tre in- signi maestri.

IV.

Resta ora a discutere la opinione di Bopp (i), il quale, seguendo F. Rosen, insegnò non altro essere i pretesi ge- nitivi singolari dei temi in -o- (come di quelli in -a-), che veri locativi, costrutti col suffisso primitivo -/ che in latino si allunga (2). Si accordano in ciò col padre venerando della linguistica storico-comparativa indo-europea Ebel (3) , De

(i) Grammaire comparée des langues indo-enropéeivies ecc., trad. par Bréal, Paris, 1866-69, § -00, voi. 1", p. 434-35.

(2) V. Schleicher, Op. cit., § 254, p. 565-570.

(3) Ein griechischer genetiv locaiiv (nella Zeitschrift di Kuhn, voi. 1 3",

p. 446-48).

no Caix de Saint- Aymour (i), Merguet (-z), Schweizer-Sidler (3) ed altri minori. Come i genitivi osco-umbri non siano punto una ragione per respingere questa dottrina boppiana già ci sembra avere abbastanza dimostrato nella parte precedente di questa nostra trattazione. V'ha un'altra cagione che per avventura distoglie parecchi cultori di si fatti studi dallo adottare la teorica del grande tedesco : è, giusta la sottile os- servazione di Ebel, il nostro essenzialmente moderno senso glottico, al quale ripugna lo ammettere nelle due prime de- clinazioni latine la mancanza del genitivo singolare (caso che siamo usi di considerare come affatto necessario) e la sur- rogazione al medesimo di un locativo (caso onde la gram- matica empirica delle scuole non ci avvezzò nemmeno a supporre l'esistenza). Ciò parrà strano a taluno, ma la evi- denza dei fatti è ben superiore a tutti i pregiudizi che si debbono ad una educazione intellettuale troppo impari all'altezza della scienza odierna. Ed a dileguare ogni dubbio addurremo piià sotto forme di locativi singolari greci e cel- tici, le quali hanno evidentemente valore di genitivi, e fa- remo con alcuni chiarissimi e certissimi esempii palese la affinità esistente fra questi due casi, per la quale vediamo eziandio spesse volte il genitivo adoperato in luogo del loca- tivo in lingue di stipite ario (4).

(1) La langiie latine étudiée dans V unite indo-eiiropéenne, Paris, 1868, p. 170.

(2) Die entyvickehmg der lateinischen fonnenbildimg , Berlin, 1870, p. 77-82.

(3) Teorica dei suoni e delle forme della lingua latina ad uso delle scuole, da noi tradotta in italiano, Torino, 1871, p. 25-27. In due altri lavori didattici di fatto genere ci sembra scorgere la medesima opinione, vale a dire nel libro di Dorschel, Die clemente der lateini- schen formenlehre ecc., Jena, 1871, p. 5, e nella Grammatica latina ecc. del Pozzetti, Napoli, 1871, p. 36.

(4) Deleruck, Ablativ localis instnimentalis in altindischen lateini- schen griechischen und deutschen, Berlin, 1867, p. 27-50.

- Ili Passando sotto silenzio il locativo singolare sanscrito dei temi in -/, considerato da Bopp come un genitivo (i), perchè questa forma è da altri in altro modo illustrata (2), ci ba- sterà addurre a prove della nostra asserzione il fenòmeno che ci presenta lo antico battriano, in cui il luogo del lo- cativo singolare si adopera per i temi in ii la desinenza del genitivo (3) , e certi costrutti greci, nei quali il locativo di spazio e di tempo ci appare espresso per mezzo del geni- tivo (4) , costrutti che non sono tutti stranieri allo antico indiano, in cui troviamo, v. gr., genitivi assoluti con signi- ficazione di locativi. E lo stesso latino ci porge, come bene osserva il Delbriick, jm^is e Jin'e considtus o pevitiis, vale a dire tasati promiscuamente il genitivo e l'ablativo, ond'è per lo pili in latino sintatticamente rappresentato il locativo ariano. Notisi ancora che in parecchie lingue arie v' ha una forma

(i) Op. cit.,§ 198, voi. i", p. 432-33 della vers. fr.

(2) Benfey, Kìlr^e sanskrit-grammatick, Leipzig, i855, §489, p. 296.

(3) Spiegel , Grammatik der altbaktrischen sprache ecc., Leipzig,

1867, p. 141. HovELACQUE, Grammaìre de la langne ^fetide. Paris,

1868, p. 85.

(4) Scegliamo alcuni fra i molti esempii che il Delbriick Op. cit., I. e.) trasse da Omero, offrendoli ai nostri lettori giusta la edizione di Bekker (Bonn, i858):

f) oÙK "Apyeoi; rjev 'AxauKoO

(Od.,T, 25i). oiVi vOv OÙK èOTi YuvìT kot' 'Axaiòa Tcitav, oìjTe TTuXou \ipf\c, oOt' "Apyeoc; ouxe MuKrivri<; [out' aÙTr|c; 'IGókìic; oùt' riTreipoio ueXaiviiq] (Od., q?, 107).

XeXou.u€vo(; 'fìKeavolo

(II., e, 6). xdujv oì) TTOTe KapiTÒt; àiTÓWuTai oOb' ÓTroXernei

xeijuaxoQ oOòè eépeuq

(Od., il, 117). Si noti ancora V ini usato assai spesso in Omero col genitivo (v. Kruger, Griechische sprachlehre , parte 2*, capo 2", §68, 40, i-3, p. 168-69), nientrc lo zendo aipi regge il locativo.

- 112 sola pel genitivo e pel locativo duale (i). Dello scambio che vedemmo essere avvenuto in latino non è guari difficile comprendere la natura e la origine. Già De-Caix de Saint- Aymour notò l'affinità esistente fra il senso di posi:[ione fssa in un luogo, indicata dal locativo, ed il concetto di proprietà espresso dal genitivo (2): e Merguet osservò che, essendo col tempo diventata sempre piiì generale la signi- ficazione e r uso del locativo, fu adoperato prima soltanto alcune volte e poi sempre piiì spesso anche in luogo del genitivo, che in ultimo ebbe aspetto di una seconda forma di-questo caso e come tale fu usato-, ma siccome due forme col medesimo valore erano superflue, così il linguaggio ri- nunziò ad una di esse od almeno la lasciò in disparte tras- curata , e quindi prevalse il locativo in -J presso i temi in -a-, -e-, -0- (1% 5" e 2=* deci.), il genitivo in -ts, presso quelli in -z-, -u- ed in consonante (3^ e 4" deci.) (3). Così Merguet : noi per altro ricordiamo ai nostri lettori che i temi in -0-, non porgono in latino alcun esempio di un arcaico genitivo in -h (4).

Ed ora, parendoci di avere coi fatti ragionamenti a suf- ficienza dimostrata non impossibile improbabile strana la sostituzione del locativo singolare al genitivo di questo numero nella flessione latina dei temi nominali in -0-, ci accingiamo ad esporre altri argomenti dai quali, confidiamo, apparirà provata ai nostri lettori la realtà di tale sostituzione e la necessità di ammetterla ove si voglia spiegare scienti- ficamente il preaccennato genitivo latino.

(1) SCHLEICHER, Op. cit.. § 257, P- ^l^'l

(2) Op. cit., p. 170.

(3) Op. cit., p. 81.

(4) Intorno al valore dei casi in genere v. Heyse , Sistema della scienza delle lingue, vers. del Leone, Torino, 1864, § 2i5, p. 410-14.

- 113 - Non faremo più menzione dei già citati pretesi genitivi singolari in -à-i, -ae della prima declinazione, i quali, es- sendo (come abbiamo teste veduto) veri locativi, già sareb- bero per soli una non lieve ragione di credere tali anche quelli della seconda, per la stretta connessione che tra queste due forme della flessione nominale latina ci si manifesta. Ma la comparazione del latino col greco e col ceho ci porge indizi più validi ancora. Ebel(i) consegna che le iscrizioni tessale ci offrono, fatta una sola eccezione ("6p)Liao xQoviou), dappertutto forme di genitivi singolari in -oi, corrispondenti alle latine onde investighiamo la generazione, e, come queste, costrutte col suffisso del locativo singolare (2). voglionsi ommettere i locativi Foìkoi, Ttéboi (Eschilo, Prometeo, 272), TTuXoi- in 7TuXoi-Tevr|(; (II., p, 64, e vp, 3o3), irav-oiKei, a\Xu-i. A questi esempii greci si possono aggiungere ancora quelli che ci porgono alcuni avanzi degli antichi idiomi parlati nell'Irlanda e nella Gallia dai Celti (3). E senza punto var- care i limiti del campo latino, noi chiederemo ai nostri let- tori se i pretesi genitivi in -J onde si tratta possano venire disgiunti dalle forme con pari desinenza e derivate anche

(i) Art. cìt.

(2) V. Ahrens , De graecae linguae dialectis , Gottingae, 1839-43, lib. i", p. 221 ; lib. 2°, p. 529. Non a ragione, giusta il parere di Ebel ed il nostro, l'insigne ellenista si mostrò inclinato a considerare queste forme in -01 come genitivi in -010, i quali avrebbero perduto l'-o finale: che non sapremmo davvero quali esempii si potrebbero addurre a sostegno di questa ipotesi (v. Gruger, Griechische sprachlehre, 4' ed., Berlin, 1861-71, parte, capo i", § 16, i, e § (2, 3, 3, p. 37 e 21). E crediamo essersi apposto in fallo anche Duntzer {Die iirspriingUchen casus im griechischen iind lateinischen , nella ZeitscJirift di Kuhn, voi. 17, p. 47) nel voler scorgere come fece nell' -01 finale di queste forme un rappresentante tessalico del dittongo ou: della quale opinione manca evidentemente ogni prova, che nessuno certamente ammette- rebbe come tale il tess. ui per ou nella declinazione.

(3) V. Stokes nei Beitrage ::fur vcì'gleichenden sprachforschimg ecc., voi. 1°, p. 334. Schleicher, Op. cit., § 252, p. 5Go.

- lU - esse da temi in -o-, le quali sono veri locativi, come lo stesso Corssen confessa (i): v. g. Corinihì, supposto genitivo (col senso -di Corinto-), da Corinthi^ locativo {- in Corinto-) (2) ;, quinti^ così detto genitivo (-del quinto-), da quinti che il dotto glottologo riconosce essere locativo in die quinti , tee. (3). Indi appare chiaramente quanto sia assurdo quel precetto della grammatica empirica, secondo il quale i nomi singolari appartenenti alla prima ed alla seconda declinazione si debbono, quando vuoisi con essi esprimere stato in luogo, adoperare nel caso genitivo^ mentre s^ insegna ad usare in ablativo quelli della terza e della quarta (4): indi appare

(i) Op. cit., voi. i", p. 775. '

(2) Aggiungi humi, domi, belli domlque. V. Meyer , Vergleichende darstellung ecc., p. 45.

(3) A questi locativi in i {quinti, nomi, crastini,proximi, prìstini con die), usati come avverbii di tempo futuro, giusta il Bergk {Beitr'dge ^iir lateinischen grammatik, capo i", Halle, 1870, exc. 1", p. 143-46), se ne potrebbero aggiungere altri in -e, v. g., quarte , quinte (in die quarte , die quinte) , i quali hanno comune l'origine coi precedenti. Che tutte le varie forme del locativo singolare latino dei temi in -0- traggono origine da una fondamentale in -o-T (=gr. -0-1= ant. ind.

-è=z ar. -a-i) che divenne -ce (v. gr. in poploe pilumnoe) ed -ei, dittongo, onde provennero -7 {populi ecc.) ed -ei, suono intermedio tra i ed é {quarte, quinte cit.). In senso di locativo può forse essere stata adoperata anche la voce animi nel lucreziano nec me animi fallii {De rerum natura, I, iSy, 922, e V., 97). V. per altro Holtze, Sj^ntaxis luci'etianae lineamenta, Lipsiae, 1868, p. 46-9.

(4) « Ablativus habitus {Locativus). Pertinent huc primum reliquiae formae locativi, genitivos dico, qui esse videntur, sed non sunt, nomi- num urbium et insularum, deinde domi, ruri, adverbia hic, illic, istig peregri. Quod autem ad illos genitivos attinet, impugnandum est hoc loco praeceptum illud obsoletum antiquiorum grammaticorum, quod comparatione demum linguarum nostris temporibus deligentissime insti- tutatam luculentis argumentis expulsum est, ut redire numquam possit, hoc dico, urbium nomina, si primae vel secundae declinationis sint numero singulari, in genitivo, sin sint tertiae declinationis vel pluralis numeri, in ablativo poni. Cuius praecepti si quaerimus quae causa ex ratione petita esse possit, frustra anquires et circumspicies nullam in- venies. Immo prò ablativo loci geniyvus harum vocum poni nusquam

115 - quanto sia urgente mondare i nostri ginnasii e licei da certi pregiudizi troppo indegni della scienza contemporanea , affinchè non si continui a violare i sacri diritti delle intel- ligenze giovanili e più non avvenga che Tuomo di scienza, allorquando entra in certe scuole, si senta spinto a piangere di compassione od a sogghignare di sprezzo.

Torino, agosto 1872.

Domenico Pezzi.

"DI C7C^C qARTICOLO "PLEONASTICO

DELL'ANTICO PROVENZALE

Se le favelle romaniche, dette dal Littré alla dantesca novo-latine , non conservarono tutta la ricchezza gramma- ticale del latino da cui si svolsero , nulla meno assunsero alcune nuove forme assai importanti, e precipua è quella dell'articolo, ad imitazione del greco e del celtico, ma al cui proposito disse Quintiliano : noster sermo articulos non desiderai [De istitiit. orator., I. 4).

Però Tutilità dell'articolo, e specialmente delPariicolo defi- nito, dirò coll'egregio filologo inglese Cornvall-Lewis (i), è

potuit, sed fuit antiquissimis temporibus in lingua latina harum vocum in singulari casus locativus in i desinens ab ablativo diversus (ut videmus etiamnum ex formis, quales sunt ////, Sicyoni, Carthagini, Acheruitti, niri, peregri) qui casus in nominibus, quae sequuntur primam et se- cundam declinationem, forma a genitivo non fuit diversus (velut/^o??2ai, Ephesi) et postca quoque permansit, quum in tertiac declinationis nominibus posterioribus temporibus prò eo ablativus poneretur ». HoLTZE, Syntaxis priscorum scriptoriim latinarum usque ad Teren- tium, Lipsiae, 1861-62, voi. i", p. 66-7.

(i) An essay on the origin and formation of the romance languages, London, 1862, p.54.

iminile

la

id.

la

id.

la.

il

id.

la

id.

a

id.

a

- 116 - così ovvia da non recar maraviglia se s'introdusse gradata- mente nelle lingue -, quindi tutti gl'idiomi novo-latini, senza eccezione veruna, lo accolsero, traendolo dai pronomi ille, illa, ed ipse, ipsa (i), il primo de' quali era già stato ado- perato ad uso d'articolo dallo stesso Cicerone qualche rara volta, ma di frequente poi negli atti dei primi secoli del medio-evo.

Giovi metterci sott' occhio il quadro delle trasformazioni fonetiche patite da que' pronomi nel diventare articoli delle lingue romaniche :

il, lo

eh lo (2)

el, lo

le

0 (3)

ul, le (4)

(i) Anche il tedesco e l'olandese trassero l'articolo dal pronome personale gotico, come l'inglese dall' anglo-sassone ed il bulgaro dal paleoslavo.

(2) Lo nello spagnuolo è adoperato solo per la declinazione degli aggettivi quando non accompagnati da sostantivi.

(3) Il portoghese adopera l'articolo el, castellano, soltanto innanzi al nome Re.

(4) La nuova grafia rumana sostituita alla cirillica diede origine a due sistemi, l'uno alquanto fonetico in grazia di molti segni posti sotto o sopra alle lettere; l'altro strettamente etimologico senza verun segno ed è quello ammesso in Transilvania per ordine della commissione professionale del 2 ottobre 1860, e premiato dall'Accademia di Bucu- resci il 27 settembre 1867; sistema che raddoppia le difficoltà per imparare a leggere. Secondo il primo l'articolo scrivesi Iti , la breve indicando che la 11 è muta; secondo l'altro bisogna sapere che la ic in lu non si pronunzia.

Io, a vece, colle grammatiche di Klein (1780), Molnar (1810), Mar- chi (1828), Alexi (1826), Blazewitz (1844), Mircescu (i865) ri- conosco III per articolo , e ciò perchè tutti i nomi maschili rumani, (eccetto quelli che nell'ultima sillaba hanno le consonanti geminate cr, gr, tr,fl, e la vocale i) non escono in u, e se oggi lo si scrive non si

Italiano

maschile

Spagnuolo

id.

Provenzale

id.

Francese

id.

Portoghese

id.

Rumano

id.

117 -

Le cinque romaniche occidentali antepongono, ma stac- cato, r articolo al nome -, la sesta, orientale, lo suffigge, al modo stesso dell'albanese e del bulgaro.

Dal pronome ipse , ipsa trassero T articolo soltanto due dialetti, cioè quello della Sardegna meridionale e quello delle isole Baleari, il quale per altro ha anche gli articoli e/, es e lo maschili, e la femminile.

Sardo maschile su femminile sa

Mallorquino id. » 50 id. sa

Ma il provenzale, limosino, occitanico, catalano o idioma dei Trovatori che dir si voglia, ebbe ancora un altro tutto speciale articolo, di soventi pleonastico, limitato al singolare, che fu , a parer mio , malamente interpretato da quanti si occuparono di questa lingua dal Barbieri nel secolo XVI al Nannucci nostro contemporaneo.

Se ai più ciò si può condonare, non lo si può al celebre Raynouard , che spese tutta la sua vita ad illustrare la storia, la lessigrafia e la grammatica della lingua dei tro- vatori. Nobili fatiche che pubblicò in dodici grossi volumi editi in Parigi dal 1816 al 1844.

Egli, al pari del catalano Basterò {Crusca Proveuiale ^ Roma 1724), trovando di soventissimo preposto ai nomi proprii maschili il monosillabo en , ed ai femminili na , li registrò come significanti una qualità gentilizia e nel suo Di'^ionario occitanico vi pose a riscontro k Signore e Si- gnora ». Prima di lui il teste citato Basterò e dopo di lui

pronunzia e non se ne tien conto nella misura del verso ; quell' iti adunque è il vero articolo, ed ha 1'» sonora. Nelle voci finienti in 11 sonoro si riduce al mero/ come in italiano lo innanzi a vocale, quindi ochiid, non ochiulu.

Il Cihac, nel suo bel vocabolario etimologico del Daco-Rumano (Francoforte 1870), sfidando l'ultralatinismo dei suoi concittadini, re- gistra i vocaboli senza quella u finale muta, dando così ottimo esempio. Notisi che l'articolo le si suffigge ai soli nomi maschili uscenti in e.

'Rivista di filologia ecc., I 9

- 118 - Honnorat e Cenac-Moncaut (i) asserirono essere na aferesi di Dona, titolo in uso anche ot^gidi nelP aristocrazia spa- gnuola, e quanto allVw, dal Perticari e dal Galvani tradotto sire e ser, V Honnorat lo pretende una stranissima aferesi di mosseti , che in occitanico e catalano vale il francese monsienr, essendo composto del pronome possessivo tìios e dal nome senh (signore) colla perdita dell' h afona finale.

Il più grande investigatore degl'idiomi romanici, il sommo Dìez nel suo Eiymologisches wórierbuch (Bonn, 1869, 3' ediz.) alla voce Donno riconosce en per abbreviazione di dom-en per dom-in e na per quella di dom-na. Malgrado tutto il mio ossequio per quel gran filologo , io credo che gli sia sfuggito il passo del libro che citerò qui appresso, ed ho fiducia che non se ne adonterà, ricordevole come sono di quanto scrisse al sig. Gaston Paris e che questi stampò nell'in- troduzione alla sua versione francese del primo libro della stupenda grammatica comparata delle lingue romaniche.

Che quellV;/ e quella na non siano titoli onorifici, il Ra}^- nouard poteva arguirlo da questo solo verso di Pons de Capdeuil da lui riferito a pagina i32 del voi. I del Cìioix des poésies des Troubadours :

Pues morta es ma dona N' A:{alais

ed egli , per evitare di ripetere il titolo gentihzio , lo tra- dusse così:

Depuis que morte est ma dame A^alais (2)

(i) Dictionnaire proven^al-francais ou de la langue d'oc. Digne 1846. Dictionnaire gascon-francais. Parigi 1867 (ad voc).

(2) Raynouard doveva tradurre non ma dame, ma madame^ perchè ivi quel ma perdette il valore di pronome possessivo, come il mon in monsieur e monseigneur. Basterò, già citato, stampò nella sua Crusca provenzale madompna tutt'unito, come lo scrivevano nel 3oo gl'italiani. Una prova che quel ma non significa mia ce la porge la crestomazia del già nominato Dr. Bartsch ; in essa leggesi a pag. 23 1 : •< en la sua contrada avia una dompna, que avia noni ina dompna Soremunda ».

- 119 -

Che r en non fosse un titolo gentilizio lo dimostrano eziandio due testi pubblicati dal Bartsch nella sua Chresto- mathie provengale (Elberfeld 1868) in uno de' quali si legge:

En semblan del gran sign N' Adam ed in un altro en Romeiis ; chi tradurrebbe sire Adamo e don Romeo?

Non ravvisandolo un titolo l'abate Zannoni, Accademico della Crusca, in nota al Tesoi^etto e Favoleito di Brunetto Latini da lui ridotti a miglior lezione (Firenze 1824), fa sua la spiegazione data dal Redi nelle annotazioni al Di- tirambo, cioè che « nella lingua provenzale ad alcune voci « che cominciano per vocale era costume di aggiungere in «principio la lettera n, come, per es., invece di Ugo di- « cevasi Nuc »; eppure all'accademico Zannoni non dovevano essere sconosciuti Barbieri , Basterò e Raynouard , che almeno intendevano quella n in modo non così strano.

Se agl'italiani indagatori delTidioma occitanico potè esser ignoto il Trattato grammaticale e rettorico compilato nel- r anno i356 da Molinier col curioso titolo: Las flors del gay saber , estier dichas las leys d' amors , non lo fu al Raynouard, che fece spoglio dei suoi vocaboli e lo citò nel suo lessico romanico (vedi al vocabolo habitiit:{).

Il signor Gatien-Arnoult pubblicò nel 1849 il codice eh' è nella biblioteca di Tolosa, accompagnando il testo con accu- rata versione. Or bene, in quei codice (voi. II, pag. 126) si legge aver l'occitanico « articoli onorevoli {habitiit-{ hono- « rablas) e sono e;z, na^ an, come en Jacmas, na Hiiga^ con « cui si fa onoranza alla persona di cui si parla, ma si pre- ce pone eziandio a nomi comuni, come en fìguiers, en lebriers « e persino a nomi d' animali come en colomb , en marti (i{VAlcedo hispida, L.) ciò ch'è uso sconveniente; per altro (( siamo avvezzi a tollerarlo » [empero quar es acostnmat ho siifertam).

120 -

Il codice mi pare si spieghi abbastanza chiaro , eppure il signor Gatien-Arnoult inserì, dopo Yen e na^ tra due pa- rentesi, ììionsieiir, madame, e che a pagina j 07 al § Do- ctrina daqiiestas dictio senhor^ già trovasi scritto : « talvolta « tra il titolo signore ed il nome proprio si colloca l'articolo (( en [algunas ve^ eritrei senh ci propi nom es aquesta « habitut:{ en) ».

Dopo ciò come mai Raynouard e successori hanno potuto avere que' due monosillabi per titoli ? e reca sorpresa che il dottore Bartsch, già nominato, sebbene conosca Las Jlors del gay saber e ne abbia inserito nella sua Chrestomatìiie pa- recchi squarci, e, per essere tedesco, sia accurato filologo, abbia pur esso errato traducendo en con f)crr e na con frou.

I dialetti valgono, com' è noto, alle indagini filologiche , ed eccone una prova novella. Nessuno dei dialetti della Francia meridionale , della Catalogna , Murcia e Valenza possiede queir articolo en , na; bene lo ha il mallorquino. Nella grammatica di quel volgare compilata dal sig. Amen- guai e stampata a Palma nel i835 si legge: « Los arti- « culos en y na solo preceden al singular de los nombres de « persona, comò : en Juan, na Maria ; impropriamente pre- « ceden al deciertos animales de nuestro immediato servicio, « comò: en ros, na biava ».

Uguali spiegazioni ci porge il Figuera nel suo Dicionari Mallorqiii-castella (Palma 1 840) -, ignaro del valore di en in antico dice: « antepost al nom propi era lo mateis que senor o don, y are el )>, cioè: ora vale l'articolo el. A na più non sale al passato, scrivendo soltanto « Artide femmi- nini en singular y se anteposta al nom propi de dona , còm, na Maria ».

Dopo quanto venni sponendo, spero aver convinti i cor- tesi lettori della vera natura di quelle particelle occitaniche, epperò ben si era apposto il Biondi, il quale nelle note alla

121 canzone di Rambaldo da Viguerasso da lui edita in Roma (1840, p. 117) asserì che taluno le aveva considerate come articoli. Gli spagnuoli e noi nel linguaggio famigliare usiamo dire: la Giovanna, la Teresa^ però in quanto agli uomini preponiamo V articolo al nome di famiglia , e diciamo : il Petrarca, non il Francesco, il Colombo, non il Cristoforo, il Tasso, non il Torquato , sebbene dicasi il Michelangelo come il Buonarroti.

Da qual pronome latino derivino questi en e ita è diffi- cile a conietturare. Forse un celtista sarebbe tratto a deri- varlo dall'articolo celtico, giacché in Zeuss (Grammatica cel- tica, t. I, p. 229, Gottinga i853) si legge che nel vetusto ibernio la radice delT articolo è 7Z è le forme plenarie in , Ita, an, nan. Soggiungerei che negli idiomi celtici oggi vi- venti r articolo è, neir irlandese e nel gaelico an, nel bret- tone ami, nel gallese e manxese yn (nell'antico kimrico era /?'). Notisi per altro che Tarticolo, giusta la lettera iniziale del nome a cui precede , muta in gaelico la n in m e nel brettone in r. Nel gallese e manxese dinanzi a vocale la n si ecclissa.

Sarebbe eziandio a considerarsi che ai tempi d'Erodoto la Gallia meridionale e Tlberia settentrionale furono ugualmente abitate da genti celtiche (oltre i Pirenei dette celtibere) e che debbono quindi aver avuto uno stesso idioma, epperò potersi supporre che 1' en paleo-provenzale derivi dall' arti- colo celtico, il quale nell'ibernico preponevasi anche ai nomi proprii. lo, per altro, non filologo, lascierò tali indagini a coloro che sono addentro nella scienza etimologica, pago di aver rettificata V interpretazione di due vocaboli di quella lingua de' trovatori che, a detta del Bembo, Salvini, Sal- viati ed altri molti , ebbe grand' influenza nell' italiano del trecento,

Torino, agosto 1872.

Vegezzi-Ruscali^a.

- 122 - DI U^'ISC%IZIONE G%AFFITA

NEL MUSEO D'ANTICHITÀ DELL'ATENEO TORINESE

Quando alcuni anni fa impresi ad esaminare le anti- caglie con iscrizioni conservate nel ricco Museo regio di Torino, mi meravigliai di trovarvi un certo numero di vasi d'argento, evidentemente appartenenti ad un medesimo te- soro , sebbene nessuna notizia ci sia pervenuta sul luogo, sull'epoca del ritrovamento, curiosi non solo per i disegni, con cui sono in parte fregiati, ma anche per le iscri- zioni graffite osservabili quasi in tutti. Allora erano inediti. Testé il chiarissimo prof. A. Fabretti ha supplito a questa mancanza inserendo queste graffite nel Primo supplemento alla 7'accolia delle antichissime iscrizioni italiche^ dove si trovano rapportate a p. 8 e 9, 1 3-20 e disegnate nelle tavole 16 2. Tutta volta non so per quale strana combinazione sia sfuggito al benemerito collega il piccolo vaso 534, che, se è il più piccolo di tutti, porta però riscrizione più lunga e più interessante. I caratteri a chi abbia ì' occhio eserci- tato a tali scritture non presentano difficoltà e chiaramente si legge scritto in tre righe sulla parte esteriore del manubrio abbastanza lungo:

/

ossia: MAXSIMO ET VRBANO COS:

PRI KAL lAN ACCIPET VERINVS X XIIS

123 -

Si badi, che secondo le leggi di questa scrittura, bene svi- luppate dallo Zangemeister nel quarto volume del Corpus inscripiionum latinarum, le lettere K et L di Kal. et || et R di VERINVS sono intralciate fra loro. Che cosa voglia dire questa annotazione, non è evidente, tanto piiì che T ACCIPET (così si legge) può prendersi sia per accepit^ sia per accipiet; la prima di queste spiegazioni peraltro parmi la più semphce. Fra le molte conghietture possibili riguardo alla relazione dei- riscrizione col vasetto istesso preferirei questa, che il proprie- tario di esso. Verino, Tabbia impegnato a qualcheduno per la somma di denari (ossia lire) dodici e mezzo, e che per fissare la somma ricevuta da lui e la data dell'impegno si sia scritta questa nota sul vaso istesso. Comunque sia (e certa- mente altri preferirà combinazione diversa di affari parti- colari naturalmente a noi sconosciuti e nascosti), V impor- tanza deiriscrizione non sta nella spiegazione materiale del contenuto, ma nella data che è ben certa e chiara, cioè il 3i dicembre dell'anno 284 dell'era volgare. L'iscrizione dunque e' insegna ad un dipresso anche 1' epoca delle sue compagne, e dimostra che tutte sono di più di mezzo secolo posteriori alle famose tavole cerate scoperte nelle miniere di oro della Dacia e che perciò possono servire come un buon saggio della scrittura corsiva del secolo terzo. Questo non sia detto per rimproverare l'editore di averle ammesse fra le antichissime, imperocché nessuno dubiterà che le abbia fatte rappresentare nelle sue tavole soltanto per la loro dif- ficoltà e per la loro curiosità. Era sempre evidente che co- tali graffiti appartenevano all'epoca imperiale avanzata \ ma nondimeno una data certa era assai da desiderare.

Potrei aggiungere altre osservazioni sulle lezioni de' piccoli vasi pubblicati dal Fabretti : ma alla Rivista filologica non è lecito ingolfare i suoi lettori nelle minuzie pur troppo aride dell' epigrafia. Lasciando dunque da parte quei graf-

124 fili, che come al solito non contengono se non nomi proprii, accennerò il solo n. 14 del Fabretti, ch'egli legge:

MARINIA A POPPINO (?) ....PIA mentre io vi lessi :

cioè: MARINIA .... ALLO EMPTA-

Il nome del venditore mi rimase dubbio , tanto più che un nome somigliante pare ripetersi sopra altri di questi piccoli vasi-, la lettera ottava forse è il B di questo alfabeto, siccome apparisce chiaramente nel n. iG'^ del Fabretti, dove ciò che egli ha letto L TILLINI è effettivamente BELLINI. Forse anche i segni che seguono X. V si hanno da congiun- gere aìVemptcì^ leggendosi empta denariis quinque : peraltro, quando esaminai Toriginale, mi parvero piuttosto di mano diversa.

Chiudo questa breve notizia rendendo le debite lodi allo zelantissimo editore di queste curiose antichità ed esortando que' dotti, che hanno agio di studiare gli originali, a ripren- derli in mano ed a stabilirne definitivamente la lezione. Chi conosce questa classe di monumenti, sa per esperienza, che leggendoli facciamo tutti come i bambini , cioè impariamo a camminare barcollando.

Berlino, settembre 1872.

Teodoro Mommsen.

125

DUE VARIANTI

qALLA satina "DI SULTICIA

Nella prima dispensa della Rivista di filologia^ il dotto e cortese amico mio, prof. Giovanni Flechia, pose innanzi le ragioni per cui è lecito dubitare della sincerità della sa- tira della poetessa Sulpicia e pende alquanto verso T opi- nione di I. C. G. Boot che attribuisce ad un ignoto quat- trocentista italiano Tinvettiva della moglie di Galeno contro Domiziano. Mi consta che il valoroso olandese ha in animo di ritornare sopra codesto argomento ; allora verrà in ac- concio di chiamare a nuova disamina la questione, se ve- ramente debbasi tenere per apocrifo T unico monumento , qualunque ei siasi, che a noi rimanga della poesia femmi- nile Romana.

Oggi vorrei solamente proporre due varianti che sanano, a mio avviso, due luoghi tormentatissimi del testo.

Al verso 36: Non trabe sed dorso prolapsus, io inter- pretai trabe per lancia-, cioè: Domiziano non si affatica, non si travaglia nelle armi, ma se ne sta sdraiato ecc. Se non che un amico mio congettura che il luogo sia guasto. Si potrebbe perciò leggere : Niinc trabea et dorso prolapsus. Il senso corre , la dizione si veste di eleganza. Gosì Vir- gilio, Georg. II, 192: pateris libamus et auro.

Al verso 26, che nella edizione principe di Venezia del 1498 suona: Languet et immota secum virtute fa cessi t, io leggeva: Languet, at immota serus virtute faccssit ,\q\q a dire: fatigatus quidem sed immota virtute e stadio fa- cessit , discedity abit. Ma neppure questa lezione mi torna

- 126 - torna all' amico mio innominato. Perciò sulle orme di N. Einsio è da scriversi scniiim in luogo di seciim e inter- pretare facessit per removere , repellere, che ha pure così fatto significato. Il concetto per tal guisa diviene chiaro ed onorevole pei Romani, quale volevalo la poetessa: nti victor olympìciis immota virtute seniiim , cessationem , otium repellit, sic Romana pubes ecc.

Colgo in ultimo l'opportunità di notare che apiiim domiis arce moveniur del verso 53 non pecca contro la quantità come dubitò il Flechia, perchè qui domiis non è plurale , ma singolare. Apium domus è nome collettivo e domanda così Tuno come l'altro numero. Il che del resto appariva evidente dalla Animad.XV, dove lodasi la congettura apium domus arda moventur. Naturalmente arda non poteva ap- partenere al numero del più (i).

Roma, agosto 1872.

Domenico Carutti.

PARTE PRESA NEL CONSIGLIO DE' PREGADI IN VENEZIA INTO'F^NO Q^GLI S7U1>II "BELLE "BELLE LETTELE

Quando, anni or sono, percorsi i volumi della ricca col- lezione di leggi che sotto il titolo di Capitolare de cinque savij alla mercatantia si conservano nel celebre Archivio

(ì) La congettura ci-tata dal Carutti nsWAnimadv.XV è riportata come segue: prò arce ingeniose Tommaseiis conjecit arcta, cwz respondet -zb convenit; e nulla più. Come ognun vede, da questo luogo non sarebbe da inferirsi che domus , accoppiato con un moventur solo nella va- riante proposta dal Carutti, non possa assai ovviamente, comportandolo il senso, prendersi per plurale.

G. F.

127 di Venezia, fra altri documenti delia civile sapienza della repubblica ne trovai anche uno che si occupa direttamente deirinsegnamento superiore e delle belle lettere, e come tale mi parve meritevole d'essere conosciuto.

Cultore delle filologiche discipline, insegnante delle lingue classiche , umanista com' io sono , non potei resistere alla tentazione di trascriverlo, sebbene allora fossi occupato di ben altre ricerche, e lo pubblico ora nella nuova rivista filo- logica italiana, sembrandomi che la nobile idea, che informa la deliberazione dei Pregadi, abbia anche oggi, come trecento anni fa, il suo valore, perchè vera, e perchè quant' allora fu detto per Venezia, ha il suo valore per l'Italia d'oggi, come per tutti gli altri paesi civili, che tutti insieme tanto ancor possono imparare pel loro vivere civile dalle vecchie carte che ci hanno lasciati i reggitori della antica regina deirAdriatico,

Forse alcuno sogghignerà alquanto, se parmi tanto eccel- lente ed espressione del maggior senno politico la sentenza che si legge nella seguente deliberazione, essere la gramma- tica il fondamento e principio di tutti li stiidii delle lettere, eppure è verissima, come è vero che la buona scuola è il pii!i solido fondamento della prosperità e grandezza delle nazioni, e che, se la nazione a cui appartengo ha potuto sostenere l'ultima terribile lotta ed uscirne vittoriosa, lo deve in gran parte ai suoi maestri di scuola ed alla severa disciplina da essi praticala, fino da quando cominciano ad insegnare gli elementi di grammatica.

A parer mio dovrebbesi scrivere sopra la porta d' ogni scuola, in cui lingue s'insegnano, « Utinam bonus gramma- ticus essem », e siccome quegli antichi Veneziani danno la medesima capitale importanza all'insegnamento grammaticale che io gli vorrei dare, così riferisco senz'altro le loro parole^ che si leggono a foglio i4(? del Volume sesto del Capitolare de' cinque sarij alla mercatantia.

128 -

i55i, 23 marzo.

In cadauna città ben istituita, come per gratia di Dio, et per la prudenza delli maggiori nostri è questa nostra, si deve poner ogni opera, che la gioventù di quella sia lodevolmente essercitata, che ella non si nodrisca nell'otio, acciochè crescendo ben disciplinata possa poi esser di utilità et di ornamento alla Republica, a se stessa et alli suoi. Onde essendo in questa nostra città una floridissima et numero- sissima gioventù, si deve procurar, che li sia data commodità di dar opera alli studij delle buone lettere, acciochè per tal via possi pervenir a quel fine, che si desidera. Imperochè non vi essendo, se non uno solo professore publico di humanità, il qual legge a S. Marco, quelli che habitano lontano non possano all'hora debita venir ad udirlo, et quello che importa assai, non hanno maestri, che li insegnino la gram- matica, la qual è il fondamento et principio de tutti li studi) delle lettere, al che si deve anco provedere, che invitati dalla commodità tutti li giovani nostri si accendino a voler imparare, però

L'andarà parte, che sia imposto alli Reformatori nostri delli studij che debbano proveder quanto più presto sia possibile di ritrovar quattro boni et valenti professori di humanità, oltre li EcC^i Robertello et Giovita, i quali già sono ritrovati et hanno il lorosalarij, con li quali del continuo leggono, a cadauno delli quali quattro possono consti- tuire fino ducati dusente di salario all'anno, con facoltà di rimoverli, quando vederanno che non faccino il loro debito, et leggendo il Ro- bertello in S. Marco, come fa, debbano distribuire li altri cinque a uno per sestier, come li parerà, deputando quelli luoghi che li pare- ranno più commodi, et così constituendoli quelle hore che giudiche- ranno esser opportune al leggere, et oltre di questi debbano li Refor- matori medesimi dar opera di ritrovar sei buoni altri maestri di gramma ica, i quali siano distribuiti uno per sestier, et habbino a coadiuvar li principali maestri, et insegnar la grammatica in quel modo che sarà bisogno, possendo dar a cadauno di loro fino ducati sessanta l'anno.

Monaco di Baviera, settembre 1872.

Giorgio Martino Thomas.

avrebbe ^'^' ja lai pn*»

vita inidtea

eàbeapti- lilolopdxdKfMHi pane de^ -Ar

*^A

129 -

CEC^CC^C/ "BITSUOG^AFICI

Aiis dem Reiche des Tantalus iind Croesiis. Von Dr. K. Bernard Stark, Berlin 1872.

V" era un tempo in cui V erudito, il filologo in ispecie, avrebbe stimato far cosa poco degna di e della scienza da lui professata, se in altra favella che in quella del Lazio avesse esposti i risultamenii delle sue lucubrazioni, destinate unicamente per altri eruditi; tempo questo in cui molto più importava scrivere con belle frasi imparate da Cicerone, che non dar saggio d'una vera e profonda cognizione della vita intellettuale e morale dei popoli antichi , de' Greci e de' Romani massimamente , un' idea chiara e perfetta in- somma del mondo detto classico per eccellenza. A vero dire hon mancano nemmeno al giorno d'oggi alcuni avanzi di questa scuola filologica, uomini, per cui tutto lo studio deirantichità si restringe ad imitare classiche frasi per dire in bellissima lingua bene spesso nuU'altro che volgari cose e che ben poco si curano degP immensi progressi che le filologiche discipline hanno fatto ai tempi nostri. Ma la più parte degli odierni cultori di esse hanno un concetto ben più alto e giusto della scienza filologica, come di quella che ci deve condurre ad una vera intelligenza del mondo antico. Ed i seguaci di questa scuola moderna non isdegnano d'esporre in forma elegante e nelle lingue nazionali e vive quanto hanno trovato colle loro erudite indagini, affinchè Tuomo colto, anco quando le occupazioni della vita pratica lo allontanino dagli studi scientifici, possa nelle sue ore d'ozio ritornare a quel mondo antico tanto sublime di cui s' è occupato nei

128 -

i55i, 23 marzo. In cadauna città ben istituita, come per graiia di Dio, et per la prudenza deili maggiori nostri è questa nostra, si deve poner ogni opera, che la gioventù di quella sia lodevolmente essercitata, che ella non si nodrisca nell'otio, acciochè crescendo ben disciplinata possa poi esser di utilità et di ornamento alla Republica, a se stessa et alli suoi. Onde essendo in questa nostra città una floridissima et numero- sissima gioventù, si deve procurar, che li sia data commodità di dar opera alli studij delle buone lettere, acciochè per tal via possi pervenir a quel fine, che si desidera. Imperochè non vi essendo, se non uno solo professore publico di humanità, il qual legge a S. Marco, quelli che habitano lontano non possano all'hora debita venir ad udirlo, et quello che importa assai, non hanno maestri, che li insegnino la gram- matica, la qual è il fondamento et principio de tutti li studij delle lettere, al che si deve anco provedere, si che invitati dalla commodità tutti li giovani nostri si accendino a voler imparare, però

L'andarà parte, che sia imposto alli Reformatori nostri delli studij che debbano proveder quanto più presto sia possibile di ritrovar quattro boni et valenti professori di humanità, oltre li Ecc.'"' Robertello et Giovita, i quali già sono ritrovati et hanno il lorosalarij, con li quali del continuo leggono, a cadauno delli quali quattro possono consti- tuire fino ducati dusenle di salario all'anno, con facoltà di rimoverli, quando vederanno che non faccino il loro debito, et leggendo il Ro- bertello in S. Marco, come fa, debbano distribuire li altri cinque a uno per sestier, come li parerà, deputando quelli luoghi che li pare- ranno più commodi, et così constituendoli quelle bore che giudiche- ranno esser opportune al leggere, et oltre di questi debbano li Refor- matori medesimi dar opera di ritrovar sei buoni altri maestri di gramma ica, i quali siano distribuiti uno per sestier, et habbino a coadiuvar li principali maestri, et insegnar la grammatica in quel modo che sarà bisogno, possendo dar a cadauno di loro fino ducati sessanta l'anno.

Monaco di Baviera, settembre 1872.

Giorgio ìMariino Thomas.

129 -

CEV^V^I 'BI'BLIOG^AFICI

Aus deni Reiclie des Tantalus inid Croesus. Voìi Dr. K. Bernard Starr-, Berlin 1872.

V era un tempo in cui V erudito, il filologo in ispecie, avrebbe stimato far cosa poco degna di e della scienza da lui professata, se in altra favella che in quella del Lazio avesse esposti i risultamenti delle sue lucubrazioni, destinate unicamente per altri eruditi; tempo questo in cui molto più importava scrivere con belle frasi imparate da Cicerone, che non dar saggio d^una vera e profonda cognizione della vita intellettuale e morale dei popoli antichi , de' Greci e de^ Romani massimamente , un' idea chiara e perfetta in- somma del mondo detto classico per eccellenza. A vero dire hon mancano nemmeno al giorno d'oggi alcuni avanzi di questa scuola filologica, uomini, per cui tutto lo studio dell'antichità si restringe ad imitare classiche frasi per dire in bellissima lingua bene spesso null'altro che volgari cose e che ben poco si curano degl' immensi progressi che le filologiche discipline hanno fatto ai tempi nostri. Ma la più parte degli odierni cultori di esse hanno un concetto ben più alto e giusto della scienza filologica, come di quella che ci deve condurre ad una vera intelligenza del mondo antico. Ed i seguaci di questa scuola moderna non isdegnano d'esporre in forma elegante e nelle lingue nazionali e vive quanto hanno trovato colle loro erudite indagini, affinchè l'uomo colto, anco quando le occupazioni della vita pratica lo allontanino dagli studi scientifici, possa nelle sue ore d'ozio ritornare a quel mondo antico tanto sublime di cui s' è occupato nei

130 - suoi anni giovanili (i). E si fa ancora di più. Con letture popolari si cerca di vieppiù diffondere la cognizione della vita dei due grandi popoli dcirantichità,-a cui dobbiamo il più solido fondamento della moderna nostra coltura, e di far conoscere quanto di più meritevole della nostra atten- zione ci è rimasto di essi, in quelTistesso modo, in cui altre utili o praticamente necessarie cognizioni si spargono mediante gli scritti popolari.

Ad una serie di tali letture popolari (2) appartiene il breve scritto di cui m'occupo in questo cenno. È indubitato che meglio e più chiaramente intendiamo la storia d'un po- polo e rindole sua, se conosciamo il suolo, su cui vive ed opera e direi quasi che certi fenomeni della sua vita ci ri- mangono talvolta inesplicabili senza questa cognizione pre- liminare. Ma se ad ogni uomo colto della presente genera-

(i) Basti citare quella serie di manuali pubblicati dalla ditta Weid- mann di Berlino, che hanno per iscopo di diffondere sempre piìi l'intelligenza dell'antichità, e fra i quali sono comprese opere come Vlstoria Romana del Mommsen e la Storia Greca di Ernesto Curtius che hanno avuto già tre edizioni certamente non consumate dai soli filologi della Germania e di altri paesi. La prima di queste è, sebbene non troppo felicemente, tradotta in italiano, la seconda meriterebbe assai di esserlo.

(2) La raccolta è intitolata: Sammlung gemeirnverstandlicher wissen- schaftlicher Vortrìige, herausgegeben von Rud. Virchow iind Fr. von Holt^endorf, Berlin, V. G. Luderitz (Cari Habel):essa nelle sette serie o 168 fascicoletti finora comparsi percorre il vasto campo dell'umano sapere per renderlo popolare, ed ha fatta larga parte anche all'antichità greca e romana. Infatti, in essa sono compresi i seguenti scritti di va- lenti autori che qui c'interessano maggiormente: Meyer, Stimm^und Sprachbildung; Steinthal, Mythos iind Religione Arnold, Sappho; RiBBECK, Sophocles undseine Tragoedien ,- Oi^ckeìì, Aristoteles; Zeller, Religion der R'ómer; Iordan, Kaiserpallaeste in Rem; Nissen, Powpeij, DoEHLER, Die Orakel, argomenti questi che certamente sono d'interesse generale, e che tradotti in italiano e raccolti in un volume trovereb- bero i loro lettori e contribuirebbero forse un pochino a diminuire il malumore che nelle famiglie si nutre contro quel greco e latino tanto inutile nell'odierno andamento pratico del mondo.

- 131 - zione riesce facile una visita all' Italia , ed a Roma , che nella sua novella condizione di Capitale del Regno fors'anche ha una nuova attrattiva, alquanto più difficile è ancora il vi- sitare il sacro suolo della Grecia, massime quando si voglia penetrare neirinterno del paese od inoltrarsi in quella parte dell'Asia in cui un tempo fiorirono città greche, sedi di splen- dida cultura. Pochi essendo quelli che possono accingersi a tali viaggi, si leggono volentieri gli scritti di coloro che hanno potuto vedere queste contrade e che ce le sanno descrivere con vivaci colori in modo che quasi le vediamo noi stessi. Uno di questi è il nostro autore e i lettori lo seguiranno volentieri in una escursione ch'esso in compagnia di Ernesto Curtius, del maggiore Regely , del consigliere Adler e dei dottori Gelzer e Hirschfeld intraprese da Smirne nella val- lata inferiore dell'Ermo per ricercare le traccie de' regni del mitico Tantalo e di quel re cui le sue ricchezze non meno che la sua amicizia coi poeti e coi filosofi della Grecia re- sero celebre^' escursione questa ormai più facile dacché la valle dell'Ermo è almeno in parte percorsa da strada ferrata. E così il nostro autore , dopo aver stabilito non doversi cercare la reggia e la tomba di Tantalo dove alcuni al- tri la vollero trovare, cioè nelle vicinanze di Cordileo, ci conduce rapidamente al Sipilo, al centro d'un antico regno in cui l'agricoltura, l'allevamento del bestiame e la cultura della vite era fiorente, regno che sino dagli antichissimi tempi s' era avvicinato al mare ed aveva relazioni con la Grecia e specialmente col Peloponneso. Inoltre la terra ivi nascondeva nel suo seno grandi ricchezze v di preziosi me- talli , che diedero origine alle leggende orientali de' fiumi auriferi: ma queste terre erano anco soggette ai più violenti sconvolgimenti ed alle vulcaniche eruzioni, e queste unite a grandi migrazioni di popolo diedero il crollo a quell'impero di Tantalo, tanto celebre nella mitologia greca che è prezzo

132 delTopera lo esaminarne le sedi colla guida del nostro au- tore.

A formare il mito di Tantalo questo è evidente per chi studia i luoghi contribuirono tanto la storia quanto i fenomeni naturali. In lui vediamo la piiì grande felicità umana ed indi la più precipitosa rovina. Egli, figlio di Giove e di Pluto, cioè dell' abbondanza, convive col padre e co- gli altri Dei, come coi suoi pari, ammesso alla loro mensa per saziarsi di ambrosia e di nettare, è il confidente dei loro segreti, ma non sa reggere a tanta felicità ed è per i suoi trascorsi crudelmente punito dai suoi antichi commen- sali, affinchè i mortali imparino

TàvGpuuTTeia |ufi crépeiv à*fav (1).

Ma non solo egli, anche i suoi figli furono tracotanti e sventurati, Pelope non meno che Niobe , celebrata come dalla poesia così dall'arte plastica antica (2). Appunto di lei rimane un monumento a Sipilo ed è egregiamente descritto dal nostro viaggiatore. Siccome le pagine in cui egli ci contezza delle sue indagini su\Vi}?iniag-ine di Niobe sono un ottimo commento ad alcuni passi di greci scrittori (3) , mi

(i) Eschilo, Frammenti della Niobe, ed. Dindorf., p. ni. Per il mito di Tantalo v. Preller, Mitologia greca, li, 38 1.

(2) Giova ricordare il famoso gruppo della galleria di Firenze; confr. Stark, Niobe imd die Niobiden, Lipsia 1864.

(3) TaÙTr]v tì^v NióP^v Kai oùtò^ eiòov , àveXGubv èc; tòv ZittuXov opoc; r\ hi TiXriaiov jnèv irérpa Koii Kprmvót; èaxiv oùòèv irapóvxi oyj\\xa -napexóiaevot; Y'JvaiKÒq ouxe à-Wnìc, oOre irevOoucTTn;. €l òé y^ "noppujTépui févoio, òeòaKpuu)uévr|v òóEei^ ópav kcI Karricpf) YUvaiKa. Pausania.I, 21, 3. Conf. Quinto di Smirne, Posthom., I, 299, e seg.:

fixi Geoi Nió3riv Xaav Qiaav, rit; eri òòtKpu

TTOuXù \xò.\a aTuqpeXfj;, KaTaXeipexai ùv(jó6i Trérpric,

KOÌ oi auaxovaxouai poaì iroXurixéot; "€piaou

Kai Kopuqpaì ZittùXou Trepi|LiriK6cc, lDv KaSùirepBev

èxSpi'i liiTXovófaoiaiv dei TrepiTréxax' òiaixXii '

r) òè TTÉXe laéYa GaOiaa irapeacfuiaévoiaiv ppoxolaiv,

ouvek' è'oiK€ YwvaiKÌ ttoXuoxóvuj, fix' èiri XuYpi4J

TiévGei fiupo|Liévri |udXa fiupia òdKpua x^^ei*

Koi ]uèv dxpeKeiuje; cprjc; ?|ainevai, óttttóx' dp' aùxiiv

xriXóGev dOpriaeiaq* èiriiv òé oi èYYÙ<; 'inviai,

fpaivexai aÌTTì'ieaaa -rréxpii ZittùXoió x'diTo^^iuE.

133 -

sarà lecito di qui riferire le sue parole intorno a quello che anch'oggi il viaggiatore vede, quando, passata la stazione di Manissa (l'antica Magnesia), si avvicina al Sipilo. Tutt'una rupe scoscesa ivi è lavorata dalla mano d' uomo e tagliata come una cornice quadrata, in cui una nicchia, alta trenta- cinque piedi, ed in essa sporgente in altissimo rilievo la figura delia desolata madre, che nella sua parte inferiore dal grembo in giù assume sempre più forme architettoniche. La gran- dezza della figura è quattro volte la naturale, con la testa relativamente grande: le ginocchia sono strette al corpo, seduto su un seggio ancor visibile d'ambo le parti, con uno sgabello sotto i piedi ed inferiormente a quello un appoggio, considerato come la tomba dei figli uccisi dai dardi del Dio. Le braccia della Niobe si veggono chiaramente: esse posano sul grembo. Avvicinandosi l'osservatore certamente non iscorge lineamenti umani nella parte della figura, che rappresenta il volto: ma questa parte è percorsa da strisele più oscure e più chiare formate dall' acqua, che la più parte dell' anno scorrono giù per la rupe. Anche al margine inferiore della nicchia si distingue chiaramente il lavoro dell' artefice e dovunque di tu volga lo sguardo, vedi la mano del- l'uomo, il quale ha levigate le rupi, tagliate nicchie, allar- gate le caverne naturali , scavate sepolture , eretti altari sopra cime sporgenti, praticati pozzi : insomma niun dubbio possibile - lo osserva già Strabone - sull'esistenza della città di Sipilo, il centro del regno di Tantalo, distrutta in tempo antico da invasioni straniere e dalle forze della natura, che molte volte , e da ultimo neh' anno presente , ha scosso il suolo in tutta questa regione.

Se poche traccie rimangono d'un grande e florido centro di potenza appartenente ai tempi mitici, non molte più si scorgono nemmeno di quello d'un altro regno ampio e po- tente non solo nella remota antichità, ma eziandio in tempi

lijvista di filologia ecc.^ I. io

- 134 - posteriori, rischiarati dalla piena luce della storia e d' una città il cui nome rinveniamo molte volte negli storici del- l'antichità ed anco del medio evo bisantino, città cui conosce pur anche il giovinetto che ben poco di greco ha letto fuor- ché la sua Anabasi, Sardi voglio dire, visitata anch'essa dal nostro erudito. La storia di Sardi comincia otto secoli prima deirèra cristiana: prima abitata dai Meoni, fu importante, ricca e grande sotto Lidi e Persiani , Greci e Macedoni , distrutta Tanno 1 7 dopo Cristo, fu ricostruita per essere rag- guardevole luogo ai tempi degli imperatori di Roma e di Bisanzio - lo Starck ci espone per sommi capi ma splendi- damente questa interessante istoria (p. 45-56) - e non ri- mane deserta, se non alcun tempo prima che il terribile Ta- merlano devastasse tutta questa parte dell'Asia, quand'ebbe sconfìtto Bajazette Ildirim ad Angora (1). Ed ora, quelle una volta fertili e ridenti pianure sotto il Tmolo, percorse dall' aurifero Fattolo e dalla grande strada regale persiana che conduceva ad Egbatana, sono una landa incolta e de- serta-, e della splendida Sardi e della reggia di quel potente, la cui ricchezza è rimasta proverbiale, che ne rimane? Pochi avanzi esattamente descritti (p. 38 e segg.) dal nostro autore, cui in questi cenni non possiamo seguire nei minuti particolari che dà, dovendoci limitare ad invitare gli studiosi a ricor- rere al ben interessante libretto istesso che non ha se non 59 pagine , ma è ben degno della penna da cui esce ed è pur anche corredato d'una piccola carta geografica e di una veduta delle rovine di Sardi come oggi si presentano al viaggiatore. Per la scienza archeologica in genere non pos-

(1) Sardi era del tutto deserta già prima della invasione di Timur, dacché in un documento autentico dell'anno 1 382 si legge : xrì toO KaipoO àvuj|ua\ia ai Tàphexc, iìqpavia9riaav, djq |ur]òè (JX^I^oi iróXeiui; irepiauj^eiv. Acta Patriarchatus Constantinopolitani, ed. Fr. Miklosich e 1. Mialler, Vind. 1862, II, p. 46.

- 135 siamo a meno di augurarci che possa comparire presto l'opera grande che lo Stark prepara insieme co' suoi compagni di viaggio, dacché essa ci darà esatto conto di tutto quello che gli esploratori hanno trovato di avanzi antichi di Sardi e che potranno stabilire intorno alla topografia della città di Creso.

Torino, seitembre 1872.

G. MULLER.

Ephemeris epigraphica, corporis inscripiioniim latinaritm siippìementiim^ edita iiissu Institiiti Archaeolog-ici Ro- mani. Venit Romae et Bettolini, in-8.

Come in altre discipline parecchie , cosi anche nell' ar- cheologia tiene oggidì V AUemagna incontrastabilmente lo scettro. In servigio di essa fondavasi fin dal iS-icj Vlstituto archeologico di Roma, per opera principalmente del Ger- hard, del Bunsen, e di alcuni altri, la più parte tedeschi , pigliato poco dopo in protezione dal principe ereditario di Prussia, che, diventato poi re Federigo Guglielmo IV, fini per annetterlo alle istituzioni sorrette col denaro della co- rona. Al giornale dell'Istituto collaborarono poscia, insieme con alcuni italiani, i più chiari archeologi dell' AUemagna, quali un Boeckh, un O. Mùller, un Curtius, un Lepsius , un Mommsen , &cc. Secondo gli statuti firmati il 2 marzo 1871 dal re Guglielmo a Versailles, l'Istituto ha per fine di « ravvivare e regolare nel campo dell' archeologia e nei campi affini della filologia le relazioni fra la patria dell'arte e della scienza antica e le ricerche degli eruditi, e pubbli- care i monumenti novamente scoperti nel modo più rapido e soddisfacente ». Gli scritti che esso manda fuori mirano quindi principalmente a far conoscere ed illustrare tutte le scoperte degli scavi, massimamente in quanto si riferiscono

13() all'arte, alla topografìa e airepigrafica. Per parlare solo di quest'ultima, colla quale appunto s'identifica la pubblica- zione sovrenunciata, noteremo come essa, in quanto è scienza, venga a ricevere uno stabile fondamento principalmente dal Corpus inscriptionum latinafiim, opera colossale che pub- blicasi a Berlino sotto la direzione di quell'Accademia delle Scienze, e di cui sono già usciti il voi. I. Antiquissimarmn ad Caesarìs mortem, pubblicato dal Mommsen nel i863, il II. Hispanarum, pubblicato dall' Hìibner nel 1869, il IV. Pompeianarum, pubblicato dallo Zangemeister nel 1871, e finalmente la parte prima del voi. V. Inscriptionum Galliae Cisalpinae che si pubblica per opera del Mommsen. Connessi colla pubblicazione del Corpus sono ancora il bel volume Priscae latinitatis monumenta epigraphica ad arclietypo- rum fìdem exemplis lithographis representata ^ pubblicato dal Ritschl, le Iscri:{ioni Renane dal Brambach e le Cri- stiane di Spagna dall'Hubner.

L' efemeride epigrafica soprenunziata è una conseguenza del Corpus , al quale essa è come destinata a preparare i materiali e servir come di fondamento pei supplementi che si verranno di poi pubblicando e che formeranno una specie di supplemento perpetuo-, tale essendo la natura di que- ste raccolte che siano per accrescersi del continuo, con ri- cevere quelle iscrizioni che possono via via scoprirsi princi- palmente per mezzo di scavi, fattisi tanto in Italia, quanto in tutte quelle che furono province dell' Impero romano. La compilazione di questo giornale, quantunque pubblicato a Berlino, pur viene da quell'Accademia principalmente affi- data alla cura di coloro che già sovrintendono all' Istituto archeologico di Roma. Al qual proposito giovi recar le pa- role stesse dell'avvertenza che viene premessa al primo fa- scicolo: Nani ut Italia et in Italia maxime iirbs aeterna hormn studiorum origo est et domicilium, ita Institutum

137 illud ad ipsum quo nos tendimus, etiam ante sponte sua iètendit nulliimque hodie extat promptuarium inscriptio- mim Latinarum nuper repertariim minus imperfectum quam sinit acta eius maiora minoraque. lam Ephemeris haec licei ibi edatur, ubi editur Corpus, cuius non est nisi accessio aliqua et auciarium^ erit et ipsa Jnstituti archaeologici Ro- mani, speramusqiie fore, ut coniunctis curis Italorum Ger- manovumque, quorum illis haec studia patria sunt, Jiis iam adoptiva, adiunctis item ceterarum nationum a communibus litterarum studiis non abhorrentium officiis, hic inscrip- tionum Latinarum recens repertarum thesaurus per annos futuros fontis perpetui instar scaturiat.

I due fascicoli finor pubblicati comprendono le giunte d^iscrizioni venute ai volumi I, II e IV del Corpus sopra mentovati. Non essendo possibile che le iscrizioni nova- mente scoperte somministrino materia che possa alimentare di per sola il giornale, vi si aggiungono perciò scritti trat- tanti soggetti connessi colle iscrizioni già pubblicate. E così in questi due primi fascicoli, mentre vi sono per le giunte d'iscrizioni colle relative dichiarazioni solo pagine 5o incirca, le 100 rimanenti vengono occupate dagli scritti suddetti che sono: otto del Mommsen, cioè: I. Ursus togatus vitrea qui privius pila ; II. De Jiiniis Silanis ; III. De fide Leon- hardi Gutenstenii ; IV. Grammatica ex Actis Arvalium; V. De Diocletiani collegarumque nominibus erasis ; VI. Quin- quefascalis titulus Cirtensis ; VII. De titulis C. Octarii Sabini cos. a. p. dir. ccxiv, Vili. Titulus atticus Frugi et Pisonis ; uno del Wilmanns: De praefecto castrorum et praefecto legionis; uno del Dittenberger : De titulis non- nullis atticis ad res Romanas spectantibus; uno del Bor- mann : De qunrundam aedificiorum publicorum urbis Ro- 7nae titulis. Dal semplice annunzio di tali scritti e dei loro autori ognuno di leggeri comprende, quanta importanza sia

138 per avere siffatto giornale per tutti coloro che s' occupano di archeologia, di storia e di filologia in genere.

Gli editori di questo giornale, che sono per Tltalia (Roma) THenzen e il De-Rossi, per TAllemagna il Mommsen (Ber- lino), e il Wilmanns (Dorpat), invitano tutti coloro, a cui cale punto di questi studii, a volervi contribuire, sia comu- nicando iscrizioni novellamente scoperte, sia somministrando quelle osservazioni che credessero a proposito. E siccome questo giornale sarà, come il Corpus, tutto in latino, così gli scritti che fossero per avventura trasmessi in italiano ver- ranno per cura degli editori voltati nella lingua del Lazio (i).

G. Flechia.

NoNii Marcelli peripatetici tiibursicensis. De compendiosa doctrina ad jìliiim, coUatis quinque pervetustis codicibus nondum adhibitis cum ceterorum librorum editionumque lectionibus et doctorum suisque notis edidit Lud. Qui- CHERAT. Parisiis, ap. Hachette et socios, 1872.

In un'epoca in cui con tanto lodevole diligenza e operosità si cerca di rimediare, per la conoscenza delle lettere antiche, ai guasti del tempo e di riunire i frammenti di antiche opere perdute, par singolare come abbia potuto mancare tanto a lungo una buona edizione dell' opera di Nonio Marcello che pure è ricca di frammenti di antichi scrittori latini

(i) Usciranno di questo giornale quattro fascicoli ogni anno, di quattro o cinque. fogli ciascuno; e così tanto da formarsene un giusto volume, ognuno de' quali sarà corredato degli indici opportuni. L'associazione si può prendere in Italia all'annuo prezzo di L. 8 5o (talleri 2), cosi presso l'Istituto archeologico di Roma, come presso il libraio Loescher (Torino, Firenze e Roma). Franco a domicilio per tutta Italia a L. 9.

139 dei tempi repubblicani. In parte ciò si spiega per questo che appunto il numero e la varietà degli scrittori, di cui queir opera conserva frammenti, rendeva necessario che la purificazione di quel testo si andasse effettuando grado grado mediante Topera di uomini dotti che a ciascuno o a ciascuna categoria di quegli scrittori consecrassero ricerche e lavori speciali. Quest' opera lenta e collettiva era tanto più necessaria per Nonio che il testo di questo scrittore es- sendo, cornee ben noto, straordinariamente corrotto nei ma- noscritti, assai più per esso dovevasi contare sulla critica congetturale che sulla diplomatica. Così pecca per la base la sola edizione moderna che esistesse di Nonio , quella di Gerlach e Roth, i quali di altro non han voluto ser- virsi che dell'autorità dei manoscritti per istabilire il loro testo, dal che è avvenuto che, come tutti sanno, quella edi- zione offre un testo talmente impossibile che mal si rico- nosce in essa un lavoro filologico del secolo in cui viviamo. Ormai però Topera che si richiedeva per maturare una edi- zione di Nonio può dirsi fatta in gran parte, poiché pochi sono i frammenti di scrittori antichi contenuti in quel libro che non siano stati esaminati criticamente in raccolte, in edizioni, o in lucubrazioni filologiche o storiche di natura speciale. Nondimeno riman sempre un arduo lavoro il dare un'edizione di Nonio, e forse l'infelice sperimento di Ger- lach e Roth e la pertinace erroneità dei manoscritti cono- sciuti ha scoraggiato fin qui i dotti dall' intraprenderla. A questo scoraggiamento però non ha soggiaciuto il sig. Qui- cherat, il quale da ben trent'anni si è andato occupando di Nonio, adoperando a procacciarne una soddisfacente edi- zione tutti i mezzi dei quali si può disporre oggidì.

Il signor Quichcrat ha veduto bene che dare una edizione di Nonio senza introdurre lezioni che risultassero da critica congetturale era un procedere assurdo e ingiustificabile. Ha

140 fatto uso adunque di quanto era stato proposto da vari cri- tici, sia che si occupassero direttamente di Nonio, sia che specialmente si occupassero di taluno degli scrittori da questo citati: alle congetture altrui adoperate criticamente ha ag- giunto anche congetture sue e delle varie lezioni congettu- rali adottate o non adottate nel testo ha reso conto nelle note. Così la sua edizione differisce essenzialmente da quella di Gerlach e Roth ; essa offre un testo possibile e leggibile , mentre quei due dotti non accettando nel testo nulla che non si trovasse nei manoscritti, si son rassegnati ad accettare un grandissimo numero di lezioni non soltanto dubbie ma pal- pabilmente e grossolanamente erronee, prive affatto di senso e grammaticalmente impossibili. Non ha però rinunziato il signor Quicherat a trarre dai manoscritti quel miglior partito che per lui si poteva, ed ha fatto uso per questa sua edizione di cinque manoscritti o non adoperati o solo in piccola mi- sura adoperati da altri; il più antico è un codice Harleiano del sec. ix, gli altri quattro sono del sec. x. Questi manoscritti sono anch'essi ben lontani dal potersi chiamare ottimi, ma sono stati pure di qualche utilità all' editore , offrendo più d' una buona lezione e talvolta anche confermando felici congetture. L' editore non esagera punto il loro valore per definire il quale non sapremmo adoperare parole più giuste di queste eh' ei scrive nella prefazione: « etsi magnus fructus ex his coUigitur minor tamen quam velis ac speres-, ea quae passim deficiunt non supplentur-, quae transposita sunt non in sedem reponuntur; verba turpiter deformata non ad linguae latinae leges revocantur; enormia etiam menda comparent quae ex primis editionibus exterminata fuerunt. Verum quamplurima vocabula , vulgo perverse scripta, in illis sana exhibentur; inde quaedam absunt inepta glossemata-, paucissima etiam nova exempla inve- niuntur )).

- 141

Un uomo che con tanto amore e tanto a lungo si è oc- cupato di Nonio può essere scusato se nutre una qualche tenerezza per questo suo autore e se cerca difenderlo nella prefazione dal molto male che se n'è detto e se ne dice. A tale sua disposizione va attribuito il trovar egli molto ono- revole per Nonio 1' essere citato tre volte da Prisciano. Senza dubbio sarebbe un'assai ingiusta esagerazione voler attribuire a Nonio tutta T infinita farragine di spropositi di cui rigurgitano i manoscritti della sua opera. Poche altre opere antiche danno come questa la misura della bestiale ignoranza dei chierici medievali. Però il signor Quicherat non riesce e non si attenta neppure a purgar Nonio di molti giustissimi appunti che lo fanno apparire un assai povero autore. Il concetto stesso e il piano e la condotta dell' opera son tali che mal potrebbe farsene V apologia. All'uso che Nonio fa di Aulo Gelilo senza nominarlo, cosa di cui molti si scandalizzano, noi non diamo gran peso, es- sendo cosa che caratterizza piuttosto quell'epoca che quell'au- tore. Compilare e compendiare è la formola che definisce la produttività letteraria e dotta di quei secoli di decadenza. Gelilo stesso prende di qua e di là. A questi uomini è toc- cata la sorte che meritavano. L'opera loro quantunque per certe ragioni d'uso letta e copiata a lungo non ha servito a dare al loro nome un peso che realmente non gli compete. Nonio considera Gelilo come uomo di oscura autorità ed ha ragione. Conviene notare però che quest' uomo di piccola levatura e intieramente sottoposto all'autorità dei nomi do- vette essere urtato dalla poca riverenza con cui Gelilo tal- volta parla di Verrio Fiacco e di altri grammatici illustri.

Nella prefazione il signor Quicherat avrebbe potuto darci una più esatta e completa definizione di questo autore. So- prattutto dalla sua esperienza ci saremmo aspettati intorno ai canoni critici che debbono guidare l' editore di Nonio

142 qualche cosa meno elementare di quanto ei nota a pag. xxiir. Notevole è V appunto che leggesi nella prefazione sul nu- mero primitivo dei libri deir opera Noniana, i quali erano 20 e non 19, come il nuovo editore rileva da un ms. pa- rigino in cui trovasi segnato nelT indice un 16° libro De genere calciamentorum, o^gi perduto.

Questa è la prima edizione di Nonio in cui le citazioni dei poeti trovinsi stampate con distinzione dei versi. Nel- rindice degli autori però il signor Quicherat avrebbe fatto bene a segnare, per gli autori oggi superstiti, il numero di ciascun verso citato e non soltanto il libro in cui quello ricorre. Per ritrovare nella sua edizione un determinato verso di Virgilio citato da Nonio convien fare una lunga ricerca da cui dispensa Tedizione di Gerlach e Roth.

Edizioni definitive non crediamo si diano per alcun au- tore antico , molto meno per Nonio, ne il sig. Quicherat pretende che tale sia la sua. Certo a lui spetta il merito di avere per primo tentato, con successo la difficile prova di dare una edizione di Nonio proporzionata alle condi- zioni e ai bisogni della scienza odierna.

Pisa, luglio, 1872.

D. COMPARETTI.

Nicolai Heinsii Italica. E poematinn editione Elzeviriana a poeta passim correda edidii I. C. G. Boot. Amste- lodami, MDCCCLXXIL

A chi legge la 1{ipista di Filologia non è mestieri ri- cordare le benemerenze di Nicolò Einsio verso le lettere latine. Oltre le edizioni di Ovidio e Virgilio da lui illustrate e ridotte a più sana lezione, non avvi quasi scrittore romano cui ora per un verso, ora per un altro non abbia giovato

- 143 -

o col sussidio dei codici o colle ingegnose congetture, le quali, anche quando non tocchino il segno, indicano la via o per lo meno ti ammoniscono e provano che certi luoghi o non avvertiti, o talvolta anche lodati contengono non la sincera scrittura dell' autore, ma Terrore delPamanuense sba- dato e mal dotto.

Nicolò Einsio poetò anche in latino, e sebbene in Italia, la quale vanta schiera così numerosa di ingegni in codesta arte eccellenti, non siano molto conosciute le cose di lui, nondimeno egli è certo che possono annoverarsi fra le no- tabili. Nato nel 1620, visitò due volte la Penisola, vi fece non breve dimora, ne conobbe gli uomini eruditi , V amò come seconda patria. Di che fanno fede i due libri di elegie da lui pubblicati, il primo a Parigi nel 1648, Taltro a Leida nel i653 {Italica, sive elegiariim liber alter. Italicorum liber seciindus, sive elegiariim tertius)\ quello dedicato a Gassiano Del Pozzo, questo a Carlo Dati. Nel 1666 vennero ristampate ad Amsterdam con altri componimenti dell'au- tore. Dopo la morte sua se ne trovò un esemplare con molte correzioni marginali, e Pietro Burman al tempo suo dise- gnava pubblicarle- il che non potè poi. L' esemplare coi pentimenti di mano dell'Einsio andò smarrito, ma una copia fatta dal Burman giaceva in una privata biblioteca di Am- sterdam. La discoprì il dotto professore Giovanni Cornelio Gerardo Boot, continuatore di quella dotta scuola olandese che per quasi due secoli tenne le prime parti nelle filologiche discipline.

Come e perchè [egli divisasse e compiesse la ristampa che annunziamo, dirò colle parole sue, persuaso che un po' di latino non sarà ostico ai lettori :

« Contingit rniìii ea felici tas , ut bis viagnam Italiae partem peragrarem. Utroquc in itinere, altero ante XXXIV annos, altero nuper facto , diibiiis haerebani , quid magis

144 admirarer, regionis amoenitatem, loca in quìbiis frequentia antiquorum adsunt vestigia, artis praeclara opera^ erudi- tionis immensos thesauros , an hominum , quos cognovt multos, humanitatem et comitatem. Nunquam obliviscar , ut olim me adolescentulum viri generis nobilitate et doctri- nae studiis clarissimi exceperint, et ingratus essem nisi recordarer quanta benevolentia quantaque comitale nuper, quum conventus doctissimorum virorum e vdriis Furopae regionibus Bononiae haberetur^ Bononienses, Mutinenses , Ravennates, et quum ad illos pervenissem paucosque dies inter illos viverem, Fiorentini , Romani^ Taurinenses me advenamprosecuti sint. Itaque volui palam ostendere quanti facerem et illos familiares et universam gentem^ quae si libertate tandem recuperata recte utitur et improbam Si- rena , quam merito vitandam mokuit Horatius , strenue vitare didicerit, magnis rebus denuo videtur destinata. Et quoniam lingua Latina et poesis Latina trans Alpes nondum piane negligitur, Heinsii autem carmina., quibus Italiae laudes canuntur, vix ulli in illa terrea nota esse comperirem, multis nec ingratum nec inutile me facturwn credo, si curaverOy ut plura nitidi libelli exempla per Ita- liani sparganiur ».

Il nitido volumetto consta di pag. 64 di testo e XIV di prefazione, cui precede la dedica seguente : Italiae poeseos latinae mairi novam recensionem elegiarum elegantis poetae Baiavi amoris sui testem grati animi arrham mittit Johannes Corneliiis Gerardus Boot.

Ora per chi voglia conoscere con che stile e con quale animo scrivesse Nicolò Einsio recherò alcuni distici tratti dalla elegia con cui il poeta piglia commiato dairitalia. Parla il cittadino di una patria che erasi gloriosamente sottratta al giogo spagnolo e vendicata in questa feconda libertà che tuttora mantiene, disposata all'ordine e alla stabilità delle istituzioni :

145 Poscimur in patriam : patria iam vivere tempus.

Huc vocor invitus, terra Latina, vale. Terra vale dilecta, tui me cura sequetur.

Scilicet id, posthac quo tibi sistar, erit

Nunc Batavae Dryades, qua desidis ultima Rheni

Non bene caeruleis stagna negantur aquis, Lugdunum spatiosa suis nunc induet ulnis.

Illa mihi patria est, nec pudet, illa domus Quam sua libertas, dominis obnisa lupatis,

Haud tulit Asturio subdere colla iugo. Nec Ganda Heinsiacis memoraberis unica cunis.

Di melius! famula non ego natus humo. Nutriat inflatos tibi pinguis Iberia vales.

Hos fac suspicias : bine tibi plausus eat. Parcior ingeniis servilibus adflat Apollo

Pectora: totus agit libera corda Deus.

E per avere richiamato alla memoria degli uomini versi eletti, e per averli con affetto gentile presentati all'Italia che li ebbe inspirati, abbiasi il filologo di Amsterdam i ringra- ziamenti nostri.

Roma, agosto 1872. s

Domenico Carutti.

Flechia, Dell' origine della voce sarda NURAGHE^ con- getture etimologiche, Torino, 1872 (estr. dagli Atti della R. Accademia delle Sciente di Torino, voi. 7°).

Siamo lieti ed alteri di annunziare ai lettori della nostra Rivista la nuova monografia, che il prof. Giov. Flechia fece tener dietro alla Postilla sopra un fenomeno fonetico [clz^tl) della lingua latina (1) ed alla Disserta\ione linguistica in cui discorse Di alcune forme de' nomi locali della Italia Su-

(i) Estr. dagli Atti della R. Accad. delle Scienie di Torino, voi. 6".

146

periore{i)^ lavori accurati, dotti, severi, utili alla scienza. Come di pari lode siano degnissime queste , eh' egli mo- destamente intitolava Congetture etimologiche , apparirà , confidiamo, anche dai brevi cenni che daremo intorno alle medesime, scostandoci talvolta dall'ordine che il chiarissimo autore seguì nello esporle.

Qual è r origine della voce sarda Nuraghe (2) ? Tentò indarno mostrarla derivata dal greco (veOpa è'xeiv - essere forte - , o veopaxi? - nuova rupe - ) il Madao : furono guari più avventurati T Arri , lo Spano, il Maltzan nel conside- rare questa parola sarda come composta dalle due fenicie niir (- fuoco, focolare, casa -) e hagh (- ardente -) od hag, hagagh (-grande-) od hag (- tetto-) o finalmente hag o chag (- rotondo -) e nello interpretarla « luogo dove ardeva e si conservava il fuoco » (Arri), « casa grande, coperta a culmine » (Spano), « casa rotonda » (Maltzan). La deriva- zione semitica di questo vocabolo si manifesta sommamente inverisimile ove si noti quanto strani fenomeni sarebbero e la perfetta conservazione di fatta parola per tre o quat- tro millennii senza scadimento fonetico (ed, in ispecie, della gutturale debole che vi si supporrebbe primitiva, suono per la propria natura assai caduco, e, quando è medio , incli-

(i) Estr. dalle Memorie della preaccennata Accademia, serie 2*, t. 27°.

(2) « I nuraghi sono , com'è noto, antichissimi monumenti, propri della Sardegna, i quali consistono generalmente in un edifizio di grossi e ruvidi sassi, commessi insieme senza alcuna sorta di cemento , in- nalzato a foggia di torrione circolare che sorga a modo di cono tronco. Di dentro hanno una o piìi camere l'una sull'altra, e per lo più non ricevono luce se non dall'entrata che è un'apertura posta a pie dell'e- difizio, e talmente bassa da non potervisi entrare se non carpone. Queste strutture s'alzano per lo più alle falde o sulle cime de' monti e delle colline; molte già ne furon distrutte; ma le più stanno tut- tora in piedi, e si computano ad oltre 4000. Tutti s'accordano nel ri- peterne la costruzione da un'età molto rimota, perdentesi nel buio de' tempi preistorici ; ma sono varie le opinioni circa la loro origine e destinazione, facendosene autori gli Egizii, i Fenicii, i Libii, gl'lberi, come anche i Pelasgi, i Greci, i Tirreni, ecc., e volendo che siano chi sepolcri, chi templi, chi case, chi fortezze, ecc. » Flechia, Del- l'origine, ecc., p. 4-5.

- U7

nato a dileguarsi nel sardo), ed il rinforzo del preteso g primigenio in k, rinforzo che sarebbe affatto necessario am- mettere per {spiegare le forme arcaiche nurake , nuracu. Ed è oltracciò un vero errore di metodo il rivolgersi al greco, al fenicio per iscoprire Torigine di un vocabolo sardo prima di averla cercata nel latino : che di fondo sostanzial- mente latino è il sardo, e, soprattuto il logudorese, è fra i dialetti italici il più fedele conservatore delT organismo e delle fattezze del latino. S'aggiunga che i monumenti, i quali d'origine più o meno analoga a quella dei nuraghi s' in- contrano nelle altre isole del Mediterraneo, sembrano pre- sentarci nomi comparativamente moderni punto semitici. Perchè dunque dovremo credere fenicio il nome sardo nu- raghe? 11 finimento logudorese -aghe, onde molti sono gli esempii, od è un riflesso regolare del latino -ace (v. g. in furraghe=fornacem) od al più un'alterazione di altro suf- fisso latino ond'è carattere principalissimo la gutturale. Ciò posto, come forma fondamentale del sardo nuraghe sarebbe evidentemente ad ammettersi un sardo-romano miiracem (pron. murakem) da murus , ove si potesse dimostrare la possibilità, la verisimiglianza della trasformazione del m iniziale in n. Ora questo fenomeno ci si fa innanzi su tutto il campo neo-latino : non pochi esempii ne reca il Flechia, tratti in ispecie dai dialetti italiani (v. p. lo-ii). Nura per mura ci appare nella locuzione sarda sa mira ca- bra {■=sa mura craba) e nelle voci nuratiolu ^ nurighe , nuracciolu, qcc. : ad un *nuragos (log.), nuragus (merid.) è manifestamente equivalente la forma muragos, nome spe- ciale di un nuraghe, ma originariamente indicante due o più nuraghi-, vi si aggiunga la forma plurale murakcssus. Ciò basta in ordine alla parola materialmente considerata : veniamo ora al concetto.

E affatto conforme a natura la ipotesi che i Sardi, fatti romani, dovendo appellare con nome nuovo quei misteriosi edifizii, li chiamassero « mura ». Cosi altra più semplice sorta di antichi monumenti dell'isola denominarono «pietre)), com' eziandio qualche nuraghe nella sua appellazione spe- ciale. Né vuoisi ommetterc che, tra i nomi particolajù dei

148

nuraghi, circa cinquecento (ossia l'ottava parte) sono fon- dati su munì o mura: della voce muragos già abbiam fatto menzione. Il suffisso -ac- in nuraghe [z:^ murakem) ha forse avuto in origine valore di peggiorativo (-muro a secco -, cfr. muru barbaru, muru hurdu?): forse non ebbe impor- tante significato. Pertanto il sardo nuraghe si dovrebbe in- terpretare - muro, o muracelo - (cfr. lomb. muracca^ ven. mura'{'{i)^ e nessuna nozione storica od archeologica si po- tr£bbe trarre da questo vocabolo. Questa conclusione verrà, ne slam certi, accolta dalla scienza, che bada alle solide ra- gioni e si ride delle vane sentenze che spesso le oppone il volgo dei non intendenti, massime ove queste siano, come troppo spesso avviene, quanto insulse nella sostanza, altret- tanto scortesi nella forma, comicamente burbanzose ed ano- nime.

Insieme con quella della parola nuraghe viene inciden- temente dimostrata Torigine latina di altre voci sarde (i) e sempre con quel fervido e puro amore del vero, con quella diligenza, con quella perfetta cognizione dell'argomento e con queir inesorabile rigore di metodo che sono inseparabili da qualsiasi lavoro di G. Flechia, cui in fatte virtù scientifiche pochi ci sembrano eguali, superiore nessuno. E noi a que- st'uomo, che primo fra gl'Italiani pubblicò una Grammatica sanscrita lodata dai più competenti e difficili fra i giudici stranieri, primo insegnò linguistica nell'Ateneo Torinese e ci fu dotto ed affettuoso maestro, primo si accinse a comporre in modo veramente scientifico (ardua e lunga impresa) una teorica storico-comparativa della lingua e dei dialetti italiani; a quest' uomo, mirabile esempio di operosità indefessa e feconda, di bontà e di modestia, auguriamo dal profondo del cuore che possa compiere degnamente 1' opera non peritura che da lui attendiamo ansiosamente e ch'egli solo può darci.

Torino, io settembre 1872.

D. Pezzi.

(1) V. g. di sirboni cinghiale [s' arboni , su arboni) da ipsum apronem; di cerila -treggia - da cetra: di madau - ovile- da metatum. V. l'Appendice alle Congetture etimologiche (p. 25-32).

Pietro Ussello, gerente responsabile.

- 149 -

OSSERVAZIONI SULLA TEORIA "DELLA CarKJUGAZlOV^E G^HECA

La recensione critica della mia grammatica greca (i) pub- blicata dal prof. Gaetano Oliva nel secondo fascicolo di questa ^vista è la più estesa e ragionata fra quelle com- parse finora, per quanto io sappia, in Italia. Parlarono bensì del mio libro alcuni giornali, ma assai brevemente e senza entrare in dettagliate ricerche e discussioni, che all'indole loro poco sarebbero convenute, cosicché i loro giudizi non avevano importanza alcuna per la scienza. L'articolo, invece, del signor Oliva entra a discutere con qualche larghezza e con serio ragionamento i punti principali ne^ quali la mia grammatica dalle altre si distingue, e lo fa con una forma assai urbana e cortese per me, della quale mi è caro ren- dere pubbliche grazie all'autore. Per questo appunto mi sono indotto a rispondere, e a cogliere quest'occasione per esporre alcune mie opinioni intorno a certe questioni di grammatica greca, dichiarando, meglio che finora non abbia fatto, le ragioni del metodo seguito nel mio libro, non bene inteso e giudicato in qualche punto dal recensente,.

Il prof. Oliva riconosce che la mia grammatica non è « ne « un plagio ne un compendio o travestimento delle più note « fra le grammatiche greche scritte dai Tedeschi » (pag. 79), e che v'hanno in essa parecchie innovazioni che possono

(1) Grammatica greca per le scuole di Vigilio Inama, parte I, Eti- mologia: parte II, Sintassi. Milano, Valentiner e Mues, 1870.

mvisla di filologia ecc., I. il

150 « offrire largo campo alla meditazione e allo studio » (pag. 89). Ma nessuna di queste innovazioni, delle principali per lo meno, egli approva esplicitamente, e, facendo un confronto fra la mia grammatica e quella del Curtius, preferisce questa alla mia in tutti i punti ne' quali divergono. Egli per vero « si propone di esaminare il lavoro unicamente dal punto « di vista pratico, della scuola cioè »•, benché necessaria- mente sia poi costretto a comprendere nella sfera della sua indagine anche « il lato scientifico » (pag. 79); che anzi in realtà in lutto il corso delFarticolo si considera piuttosto questo che quello. Di fatti lo scopo d^una grammatica greca per le scuole non può ormai piià essere quello soltanto di escogitare un metodo qualunque semplice e mnemonico per agevolare ai ragazzi Tapprendimenio delle forme e dei co- strutti della Jingua, ma si richiede da essa che le regole siano ordinate ed enunciate in modo consentaneo ai principii delia scienza che indaga le origini e gli storici procedimenti delle lingue. La questione, come giustamente osserva il prof. Oliva, si riduce a porre in armonia la pratica della scuola e la scienza, sicché questa non venga violata o svisata mai, quella resa troppo ardua e inaccessibile alle tenere menti de' giovanetti. E poiché ogni lingua ha caratteri suoi propri e speciali, e nello stesso tempo caratteri comuni ad altre lingue affini, e ogni lingua si presenta a noi in una fase di- versa da quella che essa aveva in tempi anteriori, così biso- gna che la sua grammatica tenga il giusto mezzo fra le fasi preistoriche e quelle dei tempi conosciuti, e non oltrepassi mai quei limiti entro i quali ella é circoscritta e determinata, invadendo il campo riservato alla grammatica comparata. Sotto questo aspetto pare al prof. Oliva che la grammatica ad Curtius abbia colto il giusto segno, e che, per ora al- meno, non possa farsi meglio più di lui. A me invece era parso che si potesse spingersi un po' più innanzi su

- 151 - quella stessa via per la quale il Curtius si era messo, e avvicinarsi di più a quanto la scienza linguistica insegna, tenendo maggior conto dei risultati di questa, senza uscire perciò dai limiti dell'e lenismo, e senza dover ricorrere troppo a confronti colle lingue affini. E mi pareva che tutto questo si potesse ottenere senza che l'insegnamento diventasse troppo arduo per la scuola, che anzi, a mio credere, esso rendeva con questo più semplice e più facile. Vedremo più sotto, quanto e come in tale proposito a me sia parso doversi innovare; per ora mi limiterò ad osservare che la grammatica del Curtius così da sola riesce troppo astrusa non solo per noi Italiani, ma ben anco pei Tedeschi, in questa materia tanto più avanti di noi, o per lo meno assai meglio di noi provveduti di libri ausiliari; cosicché il Curtius stesso fu costretto, per rendere meglio accessibile e ai professori e agli scolari il suo libro, a pubblicare, non ricordo se dopo la quarta o la quinta edizione della grammatica, quelPaureo libro degli Schiarimela ì, senza il quale essa restava ai più in non pochi punti oscura. Questo fatto stesso potrebbe da alcuno citarsi come argomento di biasimo pel libro, se non che i più vi risponderebbero che la rapida diffusione della grammatica del Curtius nelle scuole di Germania e nelle nostre è prova più che sufficiente della eccellenza sua. questo argomento, che l'Oliva adduce di fatto, è privo d'importanza, a me cade in mente di con- traddirlo nel caso presente, che della bontà della grammatica del Curtius sono come tutti gli altri persuaso; ricorderò so'o come la diffusione delle grammatiche del Buttmann, del Burnouf, del Kiihner e di altre, che ora a ragione si vorreb- bero, per la parte etimologica almeno, escluse dalle scuole, fosse non meno rapida, ne meno estesa di quella avuta finora dal Curtius.

Ma ritorniamo da questa digressione all'argomento di cui dobbiamo ora occuparci. Io limiterò il mio discorso alla sola

152 teoria della coniugaiione greca, perchè è in questa chMo credetti utile proporre le più forti e importanti modificazioni, ed è di questa sola che il prof. Oliva nella sua recensione si occupa. Prima però trovo necessario premettere alcune generali osservazioni , perchè si veda su quali fondamenti io abbia eretto la mia teoria.

La Odorfologia greca, così nella declinazione dei nomi, come nella coniugazione dei verbi, si fonda sulla distinzione del tema e dei suffissi della flessione ; questi sono i segna- casi pei nomi, le desinente personali pei verbi. Delle ra- dici propriamente dette la Morfologia non può deve oc- cuparsi; di esse tratta specialmente quella parte della gram- matica greca che s'intitola della formazione delle parole, e per la quale io proposi la denominazione di Tematologia. Se nella Morfologia qualche volta accade di avere temi mo- nosillabi, e quindi coincidenti colle radici, non per questo è necessario venire in essa a una distinzione dei temi dalle radici, poiché la lingua, in quanto alla flessione loro, li tratta tutti egualmente, e tutti quindi sotto l'aspetto morfo- logico sono veri temi, Diffatti in nessuna grammatica mai, chHo sappia, si fece distinzione fra la flessione dei temi òn- (nomin. 6\\i) e q)\e3- (nomin. (pXévp), e quella dei temi XaiXair- (nomin. XaiXat4i), o x^pvip* {nomin. x^pvi^p), benché i due primi siano pel greco due radici, e i due secondi no. Ed egualmente nella coniugazione dei verbi è affatto inutile di- stinguere i temi monosillabi, equivalenti a radici, dagli altri polisillabi, perchè tutti formano i loro tempi nel medesimo modo. E questa distinzione, in realtà, non fu mai fatta da nessun grammatico, per quanto a me consta', e nemmeno dal Curtius. Non capisco quindi perchè il prof. Oliva insista tanto ad inculcare che nella coniugazione debbasi « anzitutto « tener di mira la differenza fra radice, tema verbale e « tema del presente » (pag. 85)-, poiché la distinzione dei

153 - due temi per la coniugazione è sufficiente, e l'aggiunta della radice non ha scopo, utilità alcuna. Infatti tra la flessione, per es., dei temi pXair- {pì^es. pXdTrrai) e kott- {pres. KÓTTTou), e quella del tema KaXun- {pres. KaXuTTTuu) e altri si- mili, non v'ha differenza alcuna, quantunque i primi siano anche fradici, il secondo non lo sia. Che se in certi temi radicali (monosillabi) v'ha in qualche tempo il tema sem- plice (per es., Xm-) accanto al rinforzato (peres., Xem-), o vi ha mutamento di vocale (per es., ipeu- e Tpan-), questo fatto è accidentale e non comune a tutti ì temi radicali , e sovr'esso quindi non potrebbe mai fondarsi una classifica- zione e distinzione morfologica.

La morfologia quindi non deve spingere Tanalisi della pa- rola più in del tema. Se non che fra la declinazione e la coniugazione vi ha un'essenziale e importantissima diffe- renza. Per la declinazione basta distinguere il tema nominale dal segna-caso , poiché in qualsiasi forma di nome, levato il segnacaso e tolte le eventuali alterazioni da esso prodotte nella parola , resta il tema nominale i^ mentre invece, tolte alle varie forme del verbo nel modo indicativo le desinenze personali, restano i temi che sono speciali a ciaschedun tempo, e bisogna quindi, procedendo oltre nell'analisi, spo- gliare questo tema di ciò che è speciale a quel dato tempo per ottenere quel complesso di suoni che resta essenzial- mente eguale in tutta la flessione, e che si dice per ciò ap- punto tema verbale. Il tema verbale è dunque il fonda- mento della coniugazione, e sia poi esso monosillabo, cioè una radice., o sia polisillabo, poco importa. La morfologia non ricerca radici*, così, per es., in bibpdcTKo.uev essa trova come tema bpa- , in èòpa^ov trova come tale bpajuo- ; qui essa si ferma; spetta alla Tematologia procedere più oltre nell'analisi, ed arrivare all'unica radice bpa- per tutte e due le forme.

- 15i -

Premesse queste generali osservazioni, passo ora ad esa- minare più da presso la teoria della coniugazione greca, quale è esposta nella mia grammatica. I principT fonda- mentali sono quelli stessi adottati dal Curtius, ed io vado superbo di dichiararmi seguace della scuola filologica dal- rillustre filologo tedesco inaugurata. Tuttavia mi discosto da lui principalmente in tre punti , come rettamente co- nobbe Il prof. Oliva, nel modo cioè di considerare la vo- cale di tongìiiniione ^ nell'anticìpare lo studio dei verbi in |ii, e nella distinzione à^M'aoristo che io dissi Ur^o. Mi propongo di discorrere partitamcnte di ciascheduna innova- zione, considerandola sempre sotto il doppio aspetto e della scienza e della scuola.

La vocale o, in certe persone €, che precede la desinenza personale nei verbi in uj (per es., X^T-o-fiev, Xé^-c-te) fu da tutti i grammatici, nelFanalisi della forma, considerata a parte, per sola, e staccata così dalla desinenza personale come dal tema del verbo. Ora qual'è Tufficìo di questa vocale? Alcuni la considerarono come distintivo del modo, e COSI il KiJhner, altri con lui, la denominarono vocale del modo; diffatti questa vocale che è breve (o, e) nelPin- dicativo, diventa lunga nel soggiuntivo (w, n)> e ad essa si aggunge un i (oi) nell'ottativo, ed è in questo appunto che i tre modi fra loro si distinguono. Ma nelTimperativo, nell'infinito e nel participio la vocale così detta del modo non muta, e nell'ottativo stesso non è l'oi tutto invero, bensì il solo i, come si vede dai verbi in ini, il carattere distintivo del modo, cosicché questa proprietà di indicare i modi non rimane a questa vocale che pel modo soggiuntivo dei verbi in lu; nei verbi in )x\ invece abbiamo tutti i modi distinti fra loro senz'essa-, come potrà ella dunque dirsi ragione- volmente vocale del modo, e come si potrà credere che il suo ufficio sia quello di far distinguere fra loro i variì modi

155 d'ogni tempo? Altri considerarono questa vocale come un semplice elemento fonetico, introdotto nella forma del verbo per renderne più facile ed armoniosa la pronuncia. Perciò il Curtius e molti altri grammatici, e prima e dopo di lui, la dissero vocale di legame o di congitiniione {^indevocal)\ per questi dunque in Xér-c-jiiev e XéT-€-T6, in pXéTr-o-)iev e pX^TT-e-te l'o e Te avrebbero per ìscopo di evitare l'unione immediata delle desinenze personali al tema verbale, per non avere le forme 'XeT'MCv, 'XeK-ie, 'pXen-iiev, '^Xen-xe. Ma le obbiezioni a questa maniera di considerare la vocale di cui discorriamo si affollano con troppa facilità alla mente, perchè si possa acquietarsi a tale ipotesi. Che la lingua ricorra non di rado a questo espediente, d'introdurre fra i varii elementi componenti una parola una vocale per renderne piiì facile la pronuncia, è cosa nota ed ammessa da tutti gli studiosi ; ma quanto più gli studii linguistici procedettero, tanto più si conobbe che a questo espediente la lingua non ricorre che in casi estremi, quando cioè senza di esso la parola riusci- rebbe o del tutto impossibile a pronunciarsi, od aspra e dura secondo le regole ordinarie della fonologia. Il numero quindi di queste vocali, che si dicevano di congiunzione, andò mano mano scemando col procedere della scienza, e presentemente non si ammette questo elemento di natura puramente fonetica nelle parole, se non quando ogni altra maniera di spiegarlo sia stata esperimentata invano. Ora, nel caso nostro, non solo non si vede questa necessità di interpretare come elemento fonetico la vocale che precede le desinenze personali, ma anzi non di rado la sua prese aza come tale apparisce incomoda ed assurda. Di fatti non v'ha legge fonica alcuna che proibisca al greco forme sul tipo di 'Xetnev, *X€ic.t€, 'pXejnuev, *pXeTTT€ ed altre slmili. Tali com- binazioni di suoni sono anzi frequentissime non solo nel perf. medio-passivo , e in altre forme verbali , ma ben

- 156- anchc nei nomi. Che quando pure si volesse ammettere che più armoniose dovessero riuscire all'oreccliio greco le forme colla vocale che dicono di legame, e che per questo essa venisse inframmessa, come mai potrebbe spiegarsi la sua presenza anche nei temi che escono in vocale e in dittongo? Non sarebbero forse egualmente armoniose fra loro le forme XOoftev e *Xu)uev, pouXeùoiiev e *pouXeun6v e altre simili ? Che se si vuole ascrivere alla forza dell'analogia, come alcuni han fatto, l'estendersi della vocale di legame anche a questi temi, potrà forse ragionevolmente ammettersi che l'analogia avesse tale e tanta efficacia da far penetrare questa vocale anche nei temi che escono in vocale forte (a, e, o), nei quali riusciva ai Greci così ingrata e incomoda, che con ogni studio e con ogni maniera di contrazione cercavano nascon- derla o sopprimerla ? In nessuna lingua mai si riscontrereb- bero esempi di analogie così ii razionali. qui ricorro a confronti col sanscri*^^o, il quale ai verbi in aiu, eiu ed ocu contrappone verbi in {à)jàmi^ dal che si vede che l'o (e) greco non poteva essere elemento fonico semplicemente; io mi sono proposto di non uscire dal campo deirellenismo, per mostrare che le innovazioni introdotte nella mia gram- matica, benché posiano essermi state suggerire dai confronti colle lingue affini, hanno tuttavia la loro unica o precipua ragione nei fatti stessi della lingua greca , ' quali da soli bastano, in questo caso speciale, a mostrare quanto sia as- surdo il considerare la vocale che sta innanzi alle desinenze personali come elemento fonetico posto ad agevolare la congiunzione delie desinenze personali col tema verbale.

L'ufficio dunque di questa vocale può essere quello di distinguere i modi fra loro, ne quello di legare fonicamente due diversi elementi della parola, ma ella deve avere una ra- gione etimologica in stessa. Noi dobbiamo quindi consi- derarla come un suffisso che si aggiunse al tema verbale in

lòT - modo ed ufficio analoghi a quelli che vediamo in tutti gli altri suffissi derivatori di temi nominali. Cos'i, p. e., l'o di fipX-o-jaai e di &-f-o-\xev non sarebbe che un suffisso eguale a quello che abbiamo nei due nomi derivati dalle mede- sime radici àpx-ó-<; comandante, àt-ó-? condottiero, e presso a poco eguale sarebbe quello di XéT-o-)H€v a quello di Xó-f-o-? e così dicasi degli altri verbi di questo tipo.

Nelle altre classi di verbi invece, nelle quali il Curtius ed altri grammatici pongono come suffissi del presente i suoni j-, T-, V- (av-), ctk-, noi dobbiamo unire con questi suoni i'o (e) che segue, e considerarlo come parte integrale dei suf- fissi, che perciò saranno in forma greca jo-, to-, vo- (avo-), <Jko-. Così pure nelPaor. secondo (forte del Curtius) To è suffisso tematico, e non vocale fonetica, e i suffissi pel fut. e per Taor. i", e pel perf. ecc. dovranno essere ero-, <Ta-, xa- e non già i soli <t- e k-; la vocale, vale a dire, anche in que- sti dovrà considerarsi come parte del suffisso e non come aggiunta fonetica. I suffissi infatti di qualunque genere , è cosa ormai da tutti ammessa, non sono altro che anti- che particelle o parole, che, dopo aver avuto nell'origine del linguaggio un'esistenza indipendente e loro propria, furono attratte dalle parole cui si accostavano in modo tale da fon- dersi con esse sotto un solo accento, e scaddero così al sem- plice ufficio di suffissi. Ora se questa è la loro istoria, è certo che da princìpio si dovettero poter pronunciare per se soli, e che quindi anche i supposti suffissi j-, t-, v-, (Tk- dovettero avere dopo di una vocale (originario *:t), altri- menti non si sarebbero potuti nemmeno pronunciare. Ora non è egli cosa del tutto assurda il credere che questi suf- fissi gettassero la loro vocale originaria ed etimologica, per. assumerne poi un'altra eguale fonetica onde poter essere pronunciati? La vocale dunque che dissero di congiun- zione è un vero suffisso tematico, o è parte soltanto d'un

- 158 - suffisso tematico. I più rinomati linguisti io credo che su questo siano ormai tutti d'accordo fra loro, e il Curtius stesso ne è ora persuaso come in parecchi suoi scritti ebbe a dichiarare-, ma siccome in questa opinione egli non venne se non dopo la quarta o quinta edizione della sua grammatica, nella quale la vocale in questione è riguardata come vocale di legame, cosi per non mul- tare la vecchia teoria, lasciò che le successive edizioni con- tinuassero a ripetere quanto nelle prime avea detto, dichia- rando ch'egli persisteva nella grammatica a considerare questa vocale come vocale di congiunzione, benché la dicesse tematica, per ragioni pratiche e didattiche. Queste ragioni pratiche io non seppi vedere; a me parve anzi che la teoria della coniugazione, adottando in questo punto quanto la scienza insegnava, avrebbe guadagnato in semplicità e chiarezza, e soprattutto in ragionevolezza, togliendosi di mezzo tutte quelle incongruenze, che più sopra al vecchio sistema abbiamo rim- proverato. Quanto più l'analisi di una forma grammaticale è sminuzzata, tanto più riesce difficile ai giovanetti -, ed è quindi necessario ridurre l'analisi al minor numero d'elementi che sia possibile*, ora è certo che ai giovani studenti devono riuscire più ardue le forme t€)li-v-o-)li€v, òiòd-cJK-o-uev e simili, quando siano divise in quattro elementi, che quando siano divise in tre come si fa nella mia grammatica (Téji-vo-fiev, òibà-crKO-fiev)*, e più facilmente distingueranno le forme del futuro da quelle deil'aoristo, quando per quelle si dia come carattere il ao-, e per queste il era-, che non quando per le une e per le altre dia il solo <y-, come tutte le grammatiche sogliono fare. Si avrà così inoltre il vantaggio di presentare ai giovani suf- fissi pronunciabili per soli, e non semplici consonanti, o combinazioni d'impossibile pronuncia, come è, p. e., lo (Jk-. so vedere poi che differenza possa correre, in quanto a maggiore o minore difficolrà, fra l'insegnare ai giovani, come

159 fa il Curtius, che la vocale di legame è per certe persone un 0 e per certe altre un e, e Tinsegnare, come faccio io, che il tema temporale del pres. esce in certe persone in o, in certe altre in e. La teoria della coniugazione dunque accogliendo rinsegnamento della scienza non riesce punto più difficile per la scuola; che quando pure ciò fosse., non dovrebbe tut- tavia essere lecito insegnare ai giovani, o presentar loro un fatto grammaticale in una maniera dalla scienza dichiarata inesatta od erronea. Dall'aver quindi considerata come suf- fisso o parte di suffisso tematico la vocale di congiunzione non credo sia derivata difficoltà maggiore alla mia teoria ; bensì potrebbe biasimarsi la denominazione di suffissi del preseìtte da me adottata. Io l'adottai per maggiore brevità, e perchè corrispondesse agli altri suffissi temporali ; che in- fatti come questi, così quelli servono a far conoscere e di- stinguere i singoli tempi. Del resto il fatto solo, che il me- desimo suffisso del presente s'incontri pure nelPimperfetto, basta a mostrare che esso non aggiunge nessuna nota tem- porale al verbo, come non credo nemmeno che esso serva a imprimere nella forma il significato di azione durativa q perdurante. Questi suffissi di presente, o meglio suffissi di classe, io credo che siano suffissi derivatori di nomina a- gentis^ come già egregiamente dimostrò l'illustre prof. Ascoli. Ma non voglio per ora entrare in questa questione che ri- chiederebbe per sola troppo lungo discorso.

Dal considerare come parte del tema temporale del pre- sente la vocale che altri dicono di legame ne derivavano due importanti conseguenze per la teoria della coniugazione nella grammatica greca, l'una riguardante i verbi in |ii, l'altra la classificazione dei verbi. Da tutti i grammatici si era detto finora che ì verbi in )x\ si distinguono dal verbi in ui in quanto che manchino di vocale di legame, p. e., Tl^^à-o-^€v a canto a tcTia-iiiev. Ora questa vocale non essendo per noi

- 160 che un suffisso, si avrebbe dovuto dire che la differenza fra gli uni e gli altri consistesse in questo, che ì verbi in w for- mano il loro presente per mezzo di un suffisso, quelli in jà\ invece senza alcun suffisso. Senonchè la maggior parte dei verbi in \ii esce in (v)vu)ii, p. e. Ò€Ìk-vD-]lii, e questo (v)vu che precede le desinenze personali scompare affatto oltre il presente e l'imperfetto; perciò egli deve riguardarsi, e fu in- fatti riguardato da tutti i grammatici, come una nota spe- ciale a questi due tempi. Questa nota è perfettamente ana- loga a tutti gli altri sufl&ssi del presente che notiamo nei verbi in uj, e che al par di essa mancano agii altri tempi-, il (v)vu- quindi è un vero suffisso di presente, nel senso da me dato a questa parola, ossia un suffisso di classe. Non era quindi più lecito il dire che i verbi in jii formassero il loro presente senza suffisso. In che consiste adunque la dif- ferenza di coniugazione fra i verbi in tu e i verbi in \xi} La differenza sta in questo, che i verbi in tu hanno un tema del presente che esce in o, mentre i verbi in jai hanno un tema del presente il quale esce in ahra vocale. Non fa ec- cezione che il solo blbujui, verbo in tutta la sua flessione più o meno irregolare, e che quindi non può punto infirmare la nostra asserzione. Le due coniugazioni sono dunque fra loro diverse perchè il tema d^i verbi che appartengono ad una esce diversamente da quello dei verbi che appartengono all'altra. Vale quindi pei verbi, come è naturale, la ragione medesima che vale pei nomi. Questi pure appartengono a diversa declinazione secondo che il tema loro esce piuttosto in uno o in altro modo ; e come i temi Xoto-, veavia- e poipu-, a cagione d'esempio, hanno declinazione diversa perchè e- scono in vocale diversa, così in modo affano analogo i temi del presente 9epo- e Wxa-, Xuo- e beiKvu- hanno diversa flessione perchè diversa è la vocale che hanno all'uscita. Tuttavia io non voglio dire con questo che la differenza fra

- 161 - le due coniugazioni sia semplicemente fonetica. No; ve n'ha una morfologica, e importantissima. Mentre nei verbi in uj il tema esce in o nelle prime persone di tutti i numeri e nella terza del plurale, e in e nelle altre persone, nei verbi in m invece il tema esce in vocale lung-a nelle tre per- sone del sing. del pres. e imperf. indicat. attivo, ed in vocale breve in tutte le altre sue forme. Ora questa dif- ferenza è certo importantissima, ne la grammatica deve ta- cerla o nasconderla o scerriarla-, nella mia grammatica essa è posta in evidenza non meno che in tutte le altre gram- matiche ch'io mi conosca, cosicché mi ftce non poca mara- viglia il vedermi rimproverare dal prof. Oliva di non aver tenuto distinte le due coniugazioni (pag. 85). Se non che tutte le sue osservazioni ed obbiezioni su questo proposito mi riuscirono poco chiare, e temo ch'egli abbia letto forse troppo in fretta, e non colla debita attenzione la mia grammatica in questa sua parte. A che debba attribuirsi questa diffe- renza organica fra le due coniugazioni non è facile il dire, ne spetta ad ogni modo il dirlo alla grammatica speciale della lingua greca. Questa differenza, come è noto a tutti gli studiosi di lingua greca, e come il prof. Oliva ripete, non si estende al di del presente e dell'imperfetto. Circa all'aoristo secondo dei verbi in ^i, ch'io dissi ter:{o^ terrò discorso più sotto. Al di fuori dunque di questi due tempi ogni differenza di coniugazione fra i verbi in iw ed i verbi in ^i sparisce, tutti seguono la medesima flessione, variata solamente in quanto che il tema verbale ora esce in vocale ora in consonante muta ora in consonante liquida. Questo fatto importava che fosse posto nella grammatica in maggiore evidenza di quello che finora si è fatto. Poiché dal trattare i verbi in -^i a parte e da soli, separati affatto dai verbi in uj, s'ingenera facilmente ne'giovani l'opinione che le due classi di verbi abbiano in tutto coniugazione di-

162 versa. Ragioni quindi e scientifiche e didattiche consiglia- vano di far seguire immediatamente dopo la coniugazione del presente e delibi mperfetto dei verbi in u; quella del pres. e deli'imperf. dei verbi in \.ix. E questa innovazione mi parve potesse introdursi nella scuola senza rendere punto più dif- ficile o più lento lo studio della grammatica greca. La con- iugazione del pres. e deirimperf. dei verbi in w si apprende dai giovanetti nelle scuole nostre insieme colla declinazione, affinchè possano fare i temi e gli esercizi che son necessari a ben imprimere loro nella memoria tutte le forme dei nomi. Quando essi arrivano quindi alla teoria della coniu- gazione del verbo, conoscono già praticamente quella parte che si riferisce al pres, e alPimperf. dei verbi in w. Non mi par quindi che possa riuscire difficile l'aggiungere im- mediatamente ad essa lo studio della coniugazione del pres. e deli'imperf. dei verbi in fii, la quale differ sce da quella dei verbi in u) molto meno di quanto a prima giunta può parere, tanto più dopo che si è cessato di considerare i'o^e) come vocale di legame. E le difficoltà di questo studio si dimi- nuivano ancora o si togl'evano affatto per me, dal momento che aveva creduto necessario, per ragioni che esporrò fra breve, di separare dai verbi in p.i Vaoristo secondo^ che tutte le altre grammatiche trattarono insieme, e di riman- darne ad altro luogo lo studio.

La seconda conseguenza che derivava dal considerare la vocale di legame come suffisso o parte di suffisso tematico era una classiJica:{ione dei verbi diversa da quella adottata dal Curtius o da altri grammatici. Per una teoria della coniugazione i verbi greci non si potrebbero pratica- mente classificare che in due sole maniere, o secondo Tu- scita del tema loro, come si fa pei nomi, secondo cioè che il tema verbale esce in vocale o in consonante, ovvero secondo il modo diverso col quale formano il presente. Se

- 163 - i vocabolari greci, invece di dare ìe parole bell'e fatte, des- sero le nude radici, o i temi verbali, la prima maniera di classificazione sarebbe per molte ragioni da preferirsi alla seconda; ma poiché i vocabolari offrono i verbi nella forma del presente indicativo, così per ragioni pratiche la grammatica è costretta ad appigliarsi alla seconda maniera, e a classi- ficare tutti i verbi secondo la diversa formazione del pre- sente. Conosciuta questa si può facilmente risalire al tema verbale, che è il fondamento sul quale tutte le altre forme, le une indipendentemente dalle altre, vengono ricostruite.

Una classificazione per essere esatta e compiuta deve es- sere tale che in comprenda tutti gli oggetti che sono da classificarsi, e che abbia un u?iico criterio,

A queste due condizioni, se io non m'inganno, risponde pienamente la classificazione da me proposta, mentre invece pecca contro la seconda quella adottata nella sua grammatica dal Curtius. In questa infatti una prima classe è costituita dai verbi che hanno il teina del presente eguale al tema verbale (per es. , XéY-o-nev), e un'altra classe da quelli che hanno il tema verbale rinfor:{ato al presente (p. es., Xeirr-o-iiiev, tema verbale Xm-). In queste due classi adunque il criterio di divisione è una qualità inerente al tema stesso del pre- sente, mentre invece in cinque altre classi il criterio di divi- sione è il vario suffisso del presente (j-, t-, v-, (Tk-, vu-), e nel- l'ottava il criterio è un altro ancora, il ricorrere cioè a temi diversi per formare certi tempi. E poi, se la prima classe deve comprendere i verbi che hanno il tema del presente eguale al tema verbale, perchè non saranno in essa com- presi anche i verbi ècr-|n^v, (pa-fi^v, T-n€v ed altri simili, che il Curtius pone in un'altra classe? Nella nostra classifica- zione invece l'unico criterio di divisione è il suffisso del presente, e secondo che esso è diverso, diversa è la classe alla quale il verbo appartiene, e se esso manca, come in

~ 164 -

non pochi verbi (in jii) avviene, tutti questi entrano na- turalmente in una classe sola, che è la settima nella mia grammatica. In questa classificazione tutti i verbi greci, tutti quelli per lo meno che hanno un presente, trovano il loro posto, dietro un criterio evidente e facilmente rico- noscibile.

Il prof. Oliva mi rimprovera d'aver scambiato i caratteri di classifica'{ione con quelli della coniugazione (pag. 8i), ma se devo dire il vero, per quanta buona volontà ci met- tessi, non sono riuscito a ben comprendere che cosa egli volesse dire con questa asserzione.

Nella mia classificazione non volli tener conto dei temi verbali semplici e dei rinforzati, come fa il Curtius, e ciò per due ragioni principalmente. Prima di tutto perchè biso- gnava ch^io scegliessi un unico criterio di divisione, e questo scelsi, come sopra già dissi, nel suffisso del presente, e in secondo luogo perchè la differenza fra tema verbale semplice e tema verbale rinforzato non ha a che far nulla col pre- sente.

Di fatti il rinforzamento che Curtius, e con esso quasi tutti i grammatici, dicono del presente, si estende non solo airimperfetto, ma anche a tutti gli altri tempi, ad eccezione delTaoristo secondo o forte, in alcuni pochi verbi, che per la prosa attica si riducono a Xeitriu e cpeuTiw e pochissimi altri. L'avere il tema ingrossato non è dunque una proprietà del presente, come non è nemmeno una proprietà esclusiva all'aoristo secondo, ad alcun altro tempo, l'avere il tema semplice; in questo la lingua non segue regola sicura, su questo criterio si può ragionevolmente istituire una clas- sificazione dei verbi greci.

L'origine di questi doppi temi nei verbi e la loro esten- sione ed importanza nella lingua greca meriterebbero piiì lungo discorso di quello che per ora mi sia concesso. Ma

- 165 a me pare che in molte grammatiche moderne, e più che in tutte forse in quella del Curtius, siasi dato troppe maggior rilievo a queste doppie forme di quello che esse ab- biano realmente nella lingua. Nel greco esse sono relativa- mente poche, benché s'incontrino in verbi assai di frequente adoperati. La loro importanza è grande principalmente per la storia della lingua, che in origine, come dal dialetto d'Omero e dei poeti si può dedurre, esse erano più nume- rose di quello che sono nel dialetto attico. Ma nella lingua si scorge evidente la tendenza di ridurre tutta la coniuga- zione ad un unico tema verbale, e nello stato in cui il greco ci si presenta, questa riduzione è proceduta ormai così avanti che nella grammatica la distinzione fra tema semplice e rinforzato va considerata piuttosto come eccezione di pochi verbi che come regola generale del maggior nu- mero. Nel dialetto attico , a parte poche eccezioni , noi possiamo dire che il tema semplice s'incontri nelFaoristo secondo soltanto, e solo nei verbi della prima classe-, perchè, essendo in questa il suffisso dei presente eguale a quello deiraoristo secondo, la distinzione dei due tempi non poteva più avvenire per mezzo del suffisso (che, per es., l-tpa(p-ov per la sua forma tanto sarebbe imperfetto quanto aoristo secondo) ; e bisognava quindi o adoperare l'aoristo (ItpaM^a) o imprimere la differenza nel tema stesso del verbo. Così si ebbe I-Xitt-ov accanto a l-Xeirr-ov, ?-(puT-ov accanto ad ?-<peuT-ov ed 2-TpaTt-ov accanto a è-Tp€7r-ov, e così via. Mentre invece in tutti gli altri tempi nei quali il solo suf- fisso di ciascheduno bastava a impedire che si confondessero insieme, la lingua conservò intatto un unico tema verbale (ved. per es. i tempi di neiOiu), come io conservò in quelle classi di verbi nelle quali il suffisso del presente era diverso da quello dell'aoristo 2°; co?ì, per es., l-PaX-Xo-v (da *è-paX -jo-v) ed è-paX-o-v, l-KpqZo-v (da *è-KpaT-jo-v) ed i-KpaT-o-v,

Svista di filologia ecc., l. •*

166 - è-TUTT-To-v ed ?-TUTT-o-v, l-Te|Li-vo-v ed ?-Te|i-o-v ecc. Questa regola ha come ogni altra le sue eccezioni", io la accenno come se fosse costante, ma solamente perchè mi pare che ad essa tenda sempre pii^ accostarsi nel suo corso la lingua; e per mostrare entro quali limiti vada ristretta nella gram- matica la distinzione dei temi verbali semplici e rinforzati. Ora, per ritornare alla classificazione dei verbi, pare a me che quella proposta nella mia grammatica sia da pre- ferirsi a quella adottata dalle altre, tanto se si considera dal lato scientifico quanto se dal lato praùco e dalla sua utilità per le scuole.

II numero delle classi è minore quello stabilito dal Curtius, e i caratteri di ciascheduna sono assai facili a di- stinguersi in qualsiasi verbo. Io credo sia ben raro il caso che un giovine si trovi impacciato a conoscere immediata- mente a quale delle sette mie classi un verbo qualunque appartenga, mentre non so se colla stessa facilità egli possa riuscire a questo sia nella grammatica del Curtius sia in altra qualsiasi.

Passo ora alla terza innovazione notata dal prof. Oliva nella mia grammatica, e più esplicitamente ancor delie altre da lui riprovata e respinta, quella ddVaoristo ten^o.

L'aoristo ch'io dissi terzo fu finora da tutti i gramma- tici riguardato come un aoristo secondo speciale ai vei^bi in MI, e da tutti la sua flessione si è sempre trattata in- sieme con quella del presente e dell'imperfetto di questi verbi, e si asseriva concordemente che, meno pochissime eccezioni, questo aoristo segue nel modo indicativo la con- iugazione deirimperfetto, negli altri modi quella del rispet- tivo presente dei verbi in j^ii. La sola differenza che vi si notava era questa, che Taoristo fosse privo del raddop- piamento che è proprio degli altri due tempi. Così, p. e., essi dicevano: come bìbiufa all'imperfetto fa é~òi-buj-v, l-bi-

- 167 Ò10-5, è-òi-bu», così all'aoristo farà è-òm-v, J-òuu-^, è-òui, e come al plurale l'imperfetto ha è-òi-bo-).iev, é-òi-òo-T€ , è-òi-òo-crav, così Taoristo ha €-bo-uev, è'^bo-ie , l-bo-cfav. Egualmente per TÌ0Ti)iii accanto alPimperf. è-Tien-v, è-Ti-Gn-?, è-ti-Qr] si ha Taoristo 2" è'-Gn-v, ^-Gn-?, è'-Gn, e pel plurale accanto a è-ri- 8£-M€v, è-TÌ-0e-Te, è-xi-Ge-oav le corrispondenti forme deirao- risto é-0e-|Li€v, e-tì€-Te, e-0e-O"av. Così di 'tcTiriMi ^imperfetto suona l'UTTiv, iO'tti?, l'cTTri, e Taoristo 2°, sostituendo l'aumento allì che nell'imperfetto fa le veci del raddoppiamento, ha normalmente l-arn-v, è-aTTi-(;, è'-cin Se non che, essi dice- vano, per questo verbo è da notarsi che esso irregolarmente conserva lunga la vocale del tema anche nel duale e nel plurale (è'cTTriiuev ecc.), mentre nell'imperfetto, secondo la re- gola generale, l'ha breve (iCTàMev, idrcLTt ecc.) (i). Ora Tesposizione di questi fatti e di questa regola è piena di inesattezze per non dire che è erronea affatto, ed io non so comprendere come abbia potuto ripetersi tradizionalmente in tutte le grammatiche fino ai giorni nostri. Prima di tutto le forme per Taoristo dei verbi biba))ai e TiGrmi al numero singolare (èbuuv, tbuuq, Ibu) - éGriv, è'Qri<;, eGr)) sono una inven- zione gratuita dei grammatici, fatta per avere esatto il paralle- lismo colia coniugazione dell'imperf. dei verbi in jni. La lingua di queste forme non sa nulla, e ci mostra sempre per questi due verbi e pel verbo iriiai neiraoristo 2" al nu- mero singolare le strane forme col suffisso xa (è'bouKa, èQ»ìKa, fÌKa) uniche in tutta la grammatica greca, e senza esatti ri- scontri nelle lingue affini. La corrispondenza quindi della flessione di questi aoristi con quella deirimpcrfetto dei verbi

(i) Quest'opinione è così radicata nei grammatici che il Kì^hner nell'ultima edizione della sua pregiatissima Grammatica compiuta della lingua greca [Ausfiìhrlichc Grammatik der gricchischen Sprachc, Han- nover, 1869-1872) per l'aor. di ictniui le forme èaTrjv, fOTr|(;, écfr)-) e al piar, laxaiuev, foTOTc, èaxaaay/, benché nel paradigma poi si corregga.

- 168 in m è un'asserzione dei grammatici contraddetta dalla lin- gua stessa. Ne meno erronea è Taltra loro asserzione che il mantenersi della vocale lunga del tema nel plurale e nel duale dell'aoristo di latrmi ( ^arnv, pL èatrmev e non larayiev) sia una irregolarità, poiché tutti gli altri aoristì di questo tipo («tviuv, èbpciv, ècpOv, Ibuv ecc.) conservano egual- mente come ècTTTìv la lunga in tutto l'indicativo, e soli i tre verbi citati hanno la breve nel plurale e nel duale. Stando quindi ai fatti che la lingua ci offre, noi dovremo dire che la coniugazione regolare di questo aoristo ci è rap- presentata da èainv, poiché con esso concordano perfetta- mente, e in tutti i modìy tutti gli altri aoristi analoghi; mentre invece dovrà dirsi irregolare la flessione dei tre verbi bibiuni, xlenfii e in|ii) che non è seguita da nessun altro verbo e che ha caratteri affatto suoi proprii e speciali. la ir- regolarità di questi tre aoristi si limita al solo modo indi- cativo^ che essa si estende pure agli altri modi^ cosicché la loro flessione non coincide esattamente con quella del presente e dell'imperfetto dei verbi in ^ii con quella degli altri aoristi secondi. Così, p. es., nel modo impera- tivo avremo nel presente TiBei, biòou, e nell'aoristo se- condo invece Gè?, bó?; néì'injìnito avremo pel presente •neévai, bibóvai, e per Taorìsto GcTvai, boOvai; e d'altro canto tutti gli altri aoristi secondi a queste forme d'*imperativo (eé?, bó?) e d'infinito (Geivai, boOvai) rispondono con forme diverse ((TtììBi, tvoiGi ecc., ffxfìvai, fvaivai ecc.). La flessione dunque di questi tre aoristi é per tutto e in tutto irregolare, come irregolare in genere é la flessione di questi tre verbi anche in tutti gli altri loro tempi. A torto quindi i gram- matici considerarono finora come normale la flessione degli aoristi di TiGnMt e bibujjni, e come anomala quella degli altri aoristi, che da essi divergono. Conviene quindi invertire la teoria, e posta come normale la flessione di Ictttìv, considerare

a parte e come eccezione quella dei tre aoristi in xa. Ora per la flessione di Icxtriv vale la regola seguente : il tema ha la vocale lunga nei tre modi indicativo (laxnv), imperativo (0Tn9i) e infinito (cTinvai), ed ha invece la vocale breve negli altri tre modi soggiuntivo (cttu) da * aiaui), ottativo (ata-in-v) e participio (aià-VT-e*;). Dov^è dunque la somiglianza fra que- sta flessione e quella del pres. e delPimperf. dei verbi in )ii, se in questi la vocale lunga del tema sMncontra solo nelle tre persone singolari del modo indicativo , e in tutte le altre forme abbiamo la breve ? Fra la coniugazione dell'aor, 2* dunque e quella del pres. e dell'imperf. dei verbi in ini non vi ha parallelismo somiglianza, v'ha quindi ragione alcuna scientifica didattica perchè la flessione dei tre tempi si debba trattare insieme.

La flessione di questo aoristo invece coincide perfettamente con quella dQWaoristo passivo, ne questa coincidenza è certo accidentale. L'aoristo passivo é tempo composto dal tema ver- bale e da uno (aor. 2") o da due (aor. 1") verbi ausiliari come dimostrò già da molti anni il Curtius, la cui ipotesi mi pare sia stata finora generalmente accettata dai linguisti. Ora questo ausiliare dovette essere appunto un aoristo sul tipo dell'aoristo ch'io dico ter:{0^ e poiché in questo è frequente il significato intransitivo o passivo {laTr\v stetti, e fui posto), così dovrebbe ora cessare dairapparir strano che Taoristo passivo abbia la forma con flessione attiva. Accenno di volo a questo concetto che meriterebbe più largo sviluppo, per ritornare alla questione che piiì da presso mi riguarda.

Indotto dunque dalle ragioni sovraesposte a distaccare la teoria della flessione dell'aoristo da quella del pres. e del- rimperf. dei verbi in m, mi parve che il luogo più razionale ed opportuno per essa fosse presso alla teoria degli altri ao- risti, nel qual posto serviva di naturale passaggio allo studio degli aoristi passivi, coi quali, come abbiamo detto, Taor. 3**

- 170 - ha identica flessione. Assegnato a questo aoristo un nuovo posto bisognava dargli un nuovo nome poiché il vecchio non gii poteva più convenire. Giacché é bensì vero che nessun verbo in jii forma un aoristo secondo sul tipo dell'aoristo se- condo dei verbi in cu (p. e. sul tipo di è'Xmov), ma é vero pur anche che dei verbi in jui sono relativamente assai pochi quelli che formano 1 aoristo ch'io dico terzo, e che la maggior parte, più di due terzi, di questi aoristi appartiene ai verbi in uu. Non può quindi essere lecito per la flessione speciale a questo tem.po, pel numero dei verbi in |ii che lo for- mano, denominarlo aoristo secondo dei verbi in fii. Le ob- biezioni che il prof. Oliva (p. 87) fa a questa mia osser- vazione non mi riescono molto chiare, so che cosa in- tenda col dire che queste forme sono irrazionali e che regna intorno ad esse molta incertezza ancora, per il che il piii sicuro espediente sembra quello di appigliarsi alle analogie. Qui non si tratta già di spiegare Torigine delle forme, ma solo di porre in chiaro i fatti che la lingua ci presenta, e di ordinarli dietro quelle leggi che vediamo in essa funzionare, e i fatti e le leggi son quelle esposte da me, non quelli sup- posti dagli altri grammatici. Io non credo punto che per questo tempo l'analogia abbia avuto che fare, che verbi in uj siano stati trascinati da essa nella flessione dei verbi in |ii, viceversa verbi in \xx in quella dei verbi in ai. Ogni distinzione fra verbi in fu e verbi in tu cessa, come abbiamo veduto, al di del pres. e delFimperf., così per tutti gli altri tempi, come per questo aoristo; e resta solo il fatto, che i verbi greci hanno tre forme diverse d'aoristo, delle quali gli uni scelgono l'una, gli altri Taltra per ragioni a noi sco- nosciute ancora, ma certo indipendenti del tutto dalla diversa forma del presente del verbo. Il parallelismo notato dal prof. Oliva (p. 86) fra i verbi in u) e i verbi in ini per ciò che spetta alla formazione degli aoristi é pura apparenza ed illusione.

- 171 - A quella guisa, egli dice, che nella coniugazione dei verbi in lu abbiamo due forme d'aoristo, Tuna sig-matica ^ Taltra sen^a sigma, così anche nella coniugazione dei verbi in fjii abbiamo due forme , Tuna composta col verbo sostantivo (è?) e Taltra senza nessun segno. Ora questo riscontro sa- rebbe esatto, quando realmente le due forme d'aoristo dei verbi in uj fossero diverse dalle due forme d'aoristo dei verbi in |Lii; ma invece la forma d'aoristo che il Curtius dice debole è la medesima tanto per i verbi in lu quanto per i verbi in m, e il prof. Oliva per avere almeno l'apparenza del paralle- lismo fu costretto ad enunciare la cosa in modo alquanto equivoco e dal quale alcuno potrebbe dedurre che lo aoristo sigmatico (sufiQsso -ca da *èaa) dei verbi in uu sia diverso dall'aoristo composto col verbo sostantivo {ì<C) dei verbi in lai. Fra gli aoristi eXeHa ed IbeiHa di Xétuj e òeiKvU^i, e gli aoristi ÌT\\vc\oa ed l(Sve\(S(x dei verbi Ti)idio e l'arniLii non v'è diversità alcuna d'origine di forma. Ogni parallelismo dunque cade, e resta unicamente il fatto che la maggior parte dei verbi greci, siano in lu siano in |ui, forman Taoristo col suffisso -aa , che alcuni verbi in uj formano Taoristo col suffisso -0-, e che alcuni pochi altri finalmente , così in Mi come in jii, lo formano senza alcun suffisso.

Stabiliti in tal modo i fatti, e i rapporti fra le varie forme d'aoristo bisognava dar loro un nome che chiaramente le distinguesse.

Alla vecchia denominazione tradizionale nelle gramma- tiche greche di aoristo primo e aoristo secondo i gramma- tici tedeschi moderni sostituirono diversi nomi. Lo Schleicher e oggidì anche il Kiihner dissero aoristo composto l'aor. i% e aoristo semplice Taor, 2°. E la denominazione allo stato presente della scienza può parere esatta, in quanto che Ta- oristo si ritiene composto del tema verbale, e di un tempo passato del verbo eivai (rad. èq) aggiunto come ausiliare; mentre l'aor. 2" è formato per mezzo di un semplice suffisso.

172 -

Per me sotto questo aspetto si presentava ovvia la deno- minazione di aoristo composto, aorisio derivato (aor, 2^ derivato dal tema verbale col suffisso -o-) e aoristo semplice (aor. y)\ ma non l'accolsi per due ragioni: l'una perchè la formazione di questi tempi, così come la spiegano i linguisti, è ancora un'ipotesi, accettata bensì dai più, ma pure un'i- potesi -, l'altra perchè nella scuola nessuno allievo avrebbe facilmente capito, senza spiegazioni superiori forse alla sua intelligenza, perchè dovesse dirsi composto, p. e., è-Xu-cra, e semplice o derivato è-\ap-o-v.

Il Curtius , seguito anche in questo da altri grammatici, adottò le denominazioni di aoristo debole per l'aor. i'*, e di aoristo forte per l'aor. 2°; ma egli non denominò già cosi questi tempi per le ragioni esposte dall'Oliva (^p. 88). Se egli avesse detto /or/e l'aor. 2", perchè « certe radici verbali ft sembrano avere in tanto di vigorìa e quasi di forza « interiore da produrre un cambiamento fonetico nella vocale « radicale», gli aoristi ?pa\ov, ^Kpatov, èreinov e moltissimi altri non potrebbero dirsi /or//, poiché in essi la vocale della radice resta intatta; e d'altro canto, se avesse detto « deboli « quelle forme, nelle quali non ha luogo mutamento nel suono « vocale della radice, ma che nascono per aggiungimento (t esterno di sillabe », non avrebbe potuto dir debole l'aoristo l<svi\<sa del tema aia-, o avrebbe dovuto dir deboli anche tutti gli aoristi secondi, perchè anche in è-pa\-o-v si aggiunge ester- namente una sillaba (-0-) al tema pa\-. La vera ragione per la quale il Curtius, seguendo l'esempio del Grimm e d'altri grammatici tedeschi, chiama alcune forme deboli ed altre forti viene spiegata ne' suoi Schiarimenti (i) e consiste in questo che nell'aoristo l' il tema verbale per esprimere il tempo ha

(i) Pag. 91 della seconda edizione originale, pag. 90 della versione italiana di G. MùUer.

- 173 - bisogno di un suffisso che lo rinforzi, e perciò si móstra più debole di quello che apparisca nelKaoristo 2*, nel quale il tema h forte abbastanza per supplire da solo all'espressione del tempo. Ora questa maniera di considerare la cosa pare più poetica che scientifica, e svanisce e si distrugge da se quando si ammetta, come oggidì fa il Curtius stesso, che la vocale -0- che forma Taor. sia un vero suffisso tematico, e non un semplice elemento fonetico. Le denominazioni del Curtius dal mio punto di vista non potevano dunque essere più con- servate*, né mi pare utile per la scuola il conservarle. Agli occhi del ragazzo si presenta più forte, perchè più corpulenta, la forma dell'aoristo debole di quella dell'aoristo forte, ed egli trova quindi contraddizione tra la forma del tempo ed il di lei nome. io so vedere come il dire un aoristo debole e un altro ^or^e possa « avvezzare il ragazzo ad un modo « serio e razionale di considerare l'involuto procedimento dei « suoni vocali e di raccostargli la conoscenza di una legge, tt che può essere facilmente dimostrata anche senza uscire « dal campo dell' Ellenismo » (pag. 89). Io credo che il prof. Oliva sarebbe non poco imbarazzato se dovesse mo- strare questo procedimento o questa legge cui allude, la quale è un'illusione dei grammatici più che una legge vera e costante della lingua.

la denominazione dunque di aoristo semplice e com- posto^ né quella di aoristo forte e debole mi parvero con- venienti, appunto perchè m'avvidi di tutte le difficoltà che circondano la questione delle origini e della storia delle forme degli aoristi, questione che colla scelta del nome si può bensì pregiudicare, ma non si può sciogliere. Io quindi non la saltai a pie pari , come dice il prof. Oliva, perché non la vedessi^ ma avendo io giudi'^ato le denominazioni proposte inesatte riguardo alla scienza e inopportune riguardo alla scuola, ritornai modestamente alle vecchie denominazioni di

174 aoristo primo o di aoristo secondo^ alle quali sponta- neamente veniva ad aggiungersi come aoristo ter\o quel- raoristo pel quale i nomi finora adoperati non mi parevano ormai più convenienti. Queste denominazioni riescono ai giovani più chiare di tutte le altre , ed hanno il vantaggio d'indicare la statistica delle forme d'aoristo nella Ungua greca*, giacché le prime sono frequentissime, meno frequenti le se- conde, e scarse e limitate a pochi verbi le terze. Notai in un'osservazione che i tre numeri non devono già indicare la cronologia delle forme-, che in quanto a questa è assai proba- bile che Taor. sia forma più antica del 2*^, e questo alla sua volta forma più antica del i". Le tre diverse maniere di formare Paoristo rappresentano a mio modo di vedere tre diversi si- stemi, e tre stadii diversi di coniugazione verbale. Nel primo la semplice affissione delle desinenze personali al tema verbale bastava a costituire il verbo-, nel secondo questo si otteneva col mezzo di un suffisso (per derivazione)-, nel terzo per mezzo di un ausiliare (per composizione). La prima forma- zione come più antica è ristretta a pochi verbi, e non si incontra che con temi radicali : la terza come più recente e vigorosa è la più estesa. Essa, come sempre avviene delle forme nuove che soppiantano un po' alla volta le antiche, si sovrappone nel corso della lingua alle altre due e resta unica forma d'aoristo al greco moderno. Questo mio modo d'interpretare la storia degli aoristi greci avrebbe bisogno di più largo e profondo sviluppo -, ma per ora m'accontento questo cenno fugace, che altrimenti oltrepasserei di troppo i limiti che mi sono proposto.

Nel corso di queste mie osservazioni m'è accaduto più volte di dover combattere la teoria della coniugazione greca esposta nella grammatica di Giorgio Curtius, e lo feci per- chè l'argomento stesso lo richiedeva, e perchè anche il pro- fessore Oliva nel giudicare della mia grammatica ebbe sempre

175 - di mira quella deirillustre ellenista alemanno. Or mi dor- rebbe che da questo fatto alcuno volesse dedurre ch'io tenga in poco conto il libro del Curtius e abbia poco rispetto al chiarissimo autore. Le opere pregiatissime del Curtius furono sempre la guida migliore nei miei studii, e riconosco in lui il mio maestro, e uno dei piià valenti campioni, certo di tutti il più conosciuto, di quella scuola filologica che pro- cura di porre in armonia la vecchia grammatica classica cogr insegnamenti della linguistica, e reca da questa agli studi ellenici tutta quella copia di lumi e schiarimenti di che fìao ai tempi nostri difettarono. Che se nel compilare la mia grammatica, pur camminando sulle sue orme, credetti di dovermi allontanare qualche volta da lui, il feci sempre per convinzione scientifica, come chi lesse queste pagine potrà aver veduto, e non mai per semplice capriccio o vaghezza di novità.

Fondo di Trento, settembre 1872.

Vigilio Inama.

CEV^U^I mi'BLIOG'JRAFICI

Braun, Die ergebnisse der sprachìvissertschaft in populàrer

darstellung^ Cassel, 1872. Benloew, Apercu general de la science comparative des

langues^ 2"* ed. etc, Paris, 1872. HovELACQUE, Instructious polir l'étude élémentaire de la

linguistique indo-européenne^ Paris, 1 87 1 .

I.

Se v'hanno scienziati, i quali, solleciti solo della gloriosa scoperta di nuovi veri, non si curino punto poco di far

- 176 - conoscere ai molti, profani, i più cei ti ed importanti risultati delle investigazioni proprie ed altrui, anzi siano usi di acco- gliere con profonda indifferenza o con sorriso di compasbione 0 mal dissimulato dispetto qualsiasi sforzo altri faccia a tal fine, noi crediamo aver provato, lavorando piij d'una volta per conseguirlo, che non siamo dominati dalle idee e dagFistinti aristocratici, troppo aristocratici, onde abbiamo fatto men- zione. E, sebbene del tutto intenti presentemente a studi spe- cialissimi, siamo sempre disposti a salutare con gioia ogni tentativo diretto a diffondere nozioni scientifiche fra quelle classi della nostra società, le quali, benché non consecrate per la varia loro professione alla vita del pensiero, al culto della verità, nondimeno vi sono iniziate e nobilmente bramose di accostarvisi sempre più, . e fra coloro, che, quantunque ad una minima parte della scienza abbiano rivolta in par- ticolarissima guisa la loro attività, sentono tuttavia, e com- prendono il bisogno di non ignorare affatto i progressi delle altre discipline, soprattutto di quelle più affini all'oggetto delle proprie indagini. Ma vogliamo e fermamente vogliamo che le esposizioni sintetiche delle nuove rivelazioni delia scienza a prò dei molti siano, quanto perspicue e compen- diose, altrettanto esatte, nei concetti, nella loro espres- sione, e fornite di tutti ipiù necessarii insegnamenti. E siamo naturalmente tanto più inesorabili in queste nostre pretese; quanto più abbondano i mezzi di soddisfarvi. Giusta questi principii (e perciò appunto li esponemmo) esamineremo i tre opuscoli glottologici del' Braun, del Benloew e dell'Hove- lacque, e, se parremo agli autori od a nostri lettori qua e troppo severi, si compiacciano gli uni e gli altri di con- siderare quanto sia importante, specialmente in una scienza assai giovane ancora ed ancora ai più affatto ignota e da molti oppugnata come la linguistica, il precetto del signor Hovelacque « Soyons précis avanl tout » : considerino

177 - eziandio quali e quanti sussidii a simili lavori siano le opere di M. Miiller, di Schleicher, di Steinthal, di Pictet e di altri non pochi, in ispecie tedeschi, dai quali suolsi esi- gere molto, perchè, principalmente in questa parte dello scibile, ci hanno avvezzi ai miracoli.

II.

Il prof. Braun prende le mosse dall'essenza della lingua in genere e dalla scienza del linguaggio; indi procede ad esporre la classificazione morfologica e la genealogica dei lin- guaggi ed alcune nozioni speciali sulle famiglie dello stipite indogermanico (com'egli lo appella ancora) ; poscia discorre intorno al metodo delia linguistica alla vita della favella umana; finalmente ci alcune più particolareggiate in- formazioni suiridioma tedesco , e naturalmente in ispecie sull'alto tedesco ne' suoi tre periodi. E, siccome ci riesce più grato lodare che biasimare, notiamo subito che il Braun rivela qua e una pregevole attitudine a significare con forma assai chiara verità non guari facili ad intendersi. Ma questo pregio, che ci appare in qualche pagina del suo libro, non ci sembra sufficiente compenso ai difetti di esso. E, in primo luogo, mancano parecchie nozioni scientifiche le quali non dovevano certamente essere ommesse, precipua- mente da chi si diede pensiero anche di certi concetti che alla scienza sono affatto stranieri (i): né, giusta il nostro

(i) Così, a pag. IO, vorremmo che l'autore avesse accennato anche Pott; a p. i8 egli ci porge senza una parola di commento la classifi- cazione delle lingue data da Steinthal ; a p. 27 si sbriga della fami- glia celtica con quattro insufficientissirae linee ; a p. 28-29 ci si mostra troppo avaro di notizie intorno alla famiglia italica; a p. 32-33 e 36 ommette di menzionare voci di alcune famiglie d' idiomi ariani , seb- bene identiche in origine colle parole citate di altre famiglie del mede- simo stipile e necessarie alla tentata dimostrazione. E, data una forma

- HR

parere, puossi in libri fatti tralasciare di far conoscere ai lettori le opere più utili a consultare intorno a ciascun argomento di cui in essi breveinente si tratti. Osserviamo secondamente che non tutti gFinsegnamenti del Braun ci sembrano tanto esatti quanto vorremmo a buon diritto (i). Vuoisi in ultimo notare che Tordine della trattazione non è certo il più commendevole. Facciamo voti pertanto, affinchè a questa operetta del prof. Braun tenga dietro qualche altro lavoro degno di maggior lode.

III.

Non saremo guari più indulgenti verso il prof. Benloew, il quale ci diede una seconda edizione di un libro pubbli- cato nel i858, la quale sarebbe del tutto eguale alla prima (anche tipograficamente) se non vi avesse aggiunte alcune

latina, a che giova in simil caso aggiungervi forme neo-latine ? Evi- dentemente tale aggiunta è affatto superflua, affatto inopportuna, come, la Dio mercè, sono ormai del tutto inutili le confutazioni di certe idee intorno al linguaggio primitivo (p. 21) ed all'origine della umana fa- vella (p. 48-49) , delle quali idee la scienza positiva non ha il dovere il diritto di occuparsi.

(i) V. g. in un libro, nel quale l'autore doveva proporsi non esporre se non i più accertati risuliamenti delie ricerche linguistiche, egli ben poteva astenersi dal discorrere del vario grado di affinità esi- stente tra le singole famiglie degl'idiomi ariani e della divisione del linguaggio e del popolo ario primitivo in più linguaggi e popoli (p.40- 41): quale incertezza regni ancora in ordine a questo problema, anche fra i maestri della scienza glottologica, appare evidentemente a chi legga, V. g., la Vorlesung di M. Mùller Weber die resultate der sprach- wissenschaft, Strassburg, 1872, p. 18-21. Non a proposito si cita a p. 4S rò99a\|uió^ greco, nel quale l'aspirata cp è di mal nota origine: dove- vansi citare piuttosto le forme òk-t-oWo-^ (beot.), òk-ko-v (Esichio), 6it- ita (eoi.) (v. Curtius, Grundijuge der gr. etymologie , Leipzig, 1869, ed., p, 423-4Ì viene ammesso da tutti i linguisti lo svolgimento del linguaggio da tenui principii (p. 47); tutti sanno come e quanto fatta ipotesi sìa stata combattuta dai Renan [De Vorigine du langage . Paris, i858, p. 99-117).

- n9 appendici. Saremmo assai grati al nostro autore se avesse arricchito questo suo trattato di una storia compendiosa della investigazione linguistica, d'Informazioni un po' parti- colareggiate intorno agi' idiomi più importanti e d'indica- zioni bibliografiche. Il difetto di queste nozioni è assai de- plorabile in un'opera di questa natura : più deplorabile an- cora è la poca esattezza di parecchie asserzioni (i). l'ordine seguito dal Benloew ci pare più lodevole che quello del Braun.

A questo giudizio dobbiamo aggiungere poche parole in- torno a quelle due appendici, onde l'una tratta « Delafor- mation des hvigues celtiques >• (p. 1 38-45), l'altra e De Vo- rigine de l'ìnjìnitif présent passi/ dafts Ics langues clas- si qites y> (p. 1 19-127). Certi caratteri delle lingue celtiche, i quali non appariscono negli altri idiomi ariani, indussero il nostro autore a credere il popolo celto « du mélange d'une tribù d'Aryàs avec des habitants primitifs de l'Inde et de rindo-Chme parlant des dialectes dravidiens et malais»

(i). Confessiamo schieiiamente che non possiamo a verun patto cre- dere col nostro autore che, p. es., fivBpujTroq derivi da àv6T)póc;ed Jjiji(p.i7), YepovTiKÓ<; da -fépujv ed cikuj, olvripói; da olvo? ed ópi, épi - essere il primo - (p. 24), |uév e òé da fióvov e ÒOo (p. 25) ecc. : sappiamo qual esempio si potrebbe addurre di radici d'origine verbale, e , in pari tempo , pro- nominale (p. 24). Le forme TroXT-xai, lup-orum (p. 38) non sono certa- mente divise con sano criterio linguistico. siamo guari disposti ad accogliere la denominazione di « langues normales » (p. 23) per le indo- europee e le semitiche, come se tutte le altre fossero irregolari ; ci sembra validamente dimostrata con esempii tratti da ben poche fami- glie di linguaggi l'universalità della «grande loi » dello accento (p. 66); possiamo ammettere, dopo gl'insegnamenti di Steinthal, che il copto sia una lingua atomica (p. 71 e 80}. Cosi ci desta meraviglia il vedere nel Tableau des langues indo-européennes il lituano nella colonna de- dicata alle lingue slave (v. anche p. 14S). E pare a noi che il Benloew non avrebbe dovuto considerare come fatto certissimo un periodo pri- mitivo di monosilìabismo nella vita delle lingue indo-europee e semi- tiche (p. 146). Finalmente siamo costretti a giudicare assai male esposta la classificazione dei linguaggi costrutta da Stein ihai (p. 117-1^1).

- 180 (p. 143), e non esservi dubbio clie più tardi «< plus d'une liorde ougrienne n'ait été englobée... dans la grande migra-

tion dcs Galates ou Gadheles » (p. 144): così il Benloew

ammette e spiega certe influenze dei parlari dravidici e ma- lesi e degli ugro-giapponesi sui dialetti celtici. Ma a confer- mare questa ipotesi (che mera ipotesi sembra allo stesso autore [p. 145]), quali parole da tali parlari passate negli idiomi celtici citò il Benloew? Egli sa meglio di noi come la parte lessicale di un linguaggio, posto in contatto di lin- guaggi eterogenei, ne subisca Fazione ben più che non fac- ciano i suoni e le forme -, come i caratteri lessicali siano as- sai meno immutabili che i grammaticali : ciò insegnano gli odierni linguisti, ciò non rari lievi esempii solennemente dimostrano. I linguaggi celtici dovrebbero pertanto offrirci parecchi vocaboli provenuti da quegli altri idiomi di stipite diverso. Ma il Benloew sta pago di predire che: « Les celtistes nous diront un jour peut-ètre , dans le diction- naire du vieil erse et de l'irlandais , il se trouve des mots d^origine dravidienne et finnoise » (p. 144). Gravi ragioni ci distolgono eziandio dallo approvare la spiegazione che il Benloew ci offre dello infinito presente passivo in latino. La novità di fatta spiegazione non in altro ci sembra consi- stere, che nello estendere a tutte queste forme la ipotesi che Lange(i) propose soltanto per quelle della terza coniuga- zione, v. g. amarier {2) = ''ama-re-fier ecc., e nel considerare il -re- come = se, pronome riflessivo. Ma, giusta il Benloew, noi dovremmo al r finale di questi infiniti arcaici attribuire un'origine diversa da quella che suolsi assegnare al r in cui

(i) Ueber die bildung des lateimschen infinitivus praesentis passivi, Wien, 1859. V. anche SchleicKer, Compendium ecc., § 23o, p. 474-6 121, p. 260-3 della nostra versione).

(2) V. Neue, Formenlehre der lateinischen sprache , Stuttgart-Mitau, 1861-6, parte 2*, pag. Sog-iS.

- 181 -

escono tsnte altre forme del medio-passivo latino e che con quelio è secondo ogni verisimiglianza identico. Inoltre, come bene osservò G. Corssen (i), non abbiamo esempio di verbo secondario, come fio {~yu-io^ cfr. colico (pu-iuj), adoperato qual elemento formatore regolare del passivo , a mo' dei temi semplici es- ^fu- che l'analisi scopre in molte forme del verbo latino : nei composti in cui ci appare il ^tri questo consers'ò, diremmo quasi, la propria indivi- dualità, restando membro di composizione col pieno si- gnificato proprio mai diventando mero suffisso di flessione. K ciò s'aggiunga che solo a stento puossi trarre, v. g., hgier da *lege-re-fier! Nemmeno il Benloev/ può dirsi T Edipo in- terpretatore di questo enigma : alla sua ipotesi ed a quella di Lange, alle piiì antiche di Bopp e di Pott ed alla più re- cente di Schonberg preferiamo quella di Corssen (2). Per ciò che concerne lo infinito medio-passivo greco in cfSai il Benloew pensa che il -cr- probabilmente sia identico col s del se latino, ossia un avanzo di pronome riflessivo, ed il -Gai sia un locativo di un nomen agentis dalla rad. ©€ o rappresenti il suffisso scr. 'tha-. Anche questa forma non venne ancora illustrata come vorrebbe ogni vero studioso greco.

IV.

Meglio che il libro del prof. Benloew gioveranno a chi voglia iniziarsi alla linguistica storico-comparativa le « In- siructions » del sig. Hovelacque. Dopo una lunga, forse troppo lunga ne sempre opportuna introduzione intorno alla

(i) V, la Zeitschri/t di Kuhn, voi. io», p. 149-56.

(2] Ueber aussprache, vokalismu^ und betonunp der lateinìschen spra^ che, Leipzig, 1868-70, voi. 2», p. 478-79. Noi responemmo nella no- stra Grammatica storico-comparativa della lingua latina ecc. (Torino , «872), § 9°» P- 5Ó9, nota 4».

lijvisla di filolosia ecc., l. ij

182 scienza del linguaggio in genere (p. 7-44) l'autore intra- prende il modesto ma utilissimo lavoro di ammaestrare il futuro linguista intorno agli studi a cui esso debbe accin- gersi, all'ordine che vuoisi in essi seguire, alle opere di mag- gior importanza a cui conviene aver ricorso per conoscere lo stato odierno della scienza in ordine alle lingue ariane , considerate si nell'unità primitiva si nella posteriore varietà in cui esse ci si presentano. I giovani , i quali coli' ardore ma eziandio coU'inesperienza della loro età si avviano a percorrere il vasto campo della linguistica , debbono essere assai grati a chi si fa loro guida e mostra loro le strade ed i sentieri da lui già esplorati, che col massimo rispàrmio di tempo e di fatica li conducono alla meta. E le indicazioni delPHovelacque ci sembrano per lo più sufficienti per bontà e per numero. Qualche difetto vi si scorge tuttavia: de- ploriamo , ad esempio , che egli non abbia fatto menzione dei Corsi di glottologia ecc. dell'Ascoli, opera importante onde apparve nel 1870 il primo fascicolo, che fu accolto come gli si addice non solo in Italia e soprattutto in Ger- mania, ma eziandio in Francia. E vorremmo inoltre che l'autore fosse stato meno aspramente severo verso M. Mai- ler e Pott (p. i3-i7, 58 e 83), innanzi ai quali, e princi- cipalmente al secondo, c'inchiniamo reverenti. meno che il biasimo inflitto a questi due egregi ci desta meraviglia l'inno di lode al Chavée, e soprattutto, Io confessiamo schiet- tamente, ci sorprende il vederlo posto accanto a Schleicher (p. 47 e 54): a Schleicher, di cui forse la maggiore virtù scienti- fica fu l'inesorabile rigore del metodo; a Schleicher, onde il va- lore, come il sig. Hovelacque sa al pari di noi, è ben più una- nimemente riconosciuto dai cultori della linguistica che non quello del Chavée (1) ! Lasciamo in fine a coloro, che si diedero

(i) V. il giudizio che Corssen nella Zeitschrift di Kuhn, t. iS», p. 128 e i3o.

- 188- in ìspecial guisa allo studio degridiomi tedeschi, il compito di giudicare gl'insegnamenii del signor Hovelacque intorno alla famosa legge di Grimm. A noi basta aver fatto cenno dei vantaggi che da questo opuscolo si possono trarre e notato con franche parole, che l'autore perdonerà certamente alla nostra sincerità , quanto nel suo lavoro ci parve meno utile agii studi linguistici dei giovani animosi , per cui egli con generoso pensiero dettò quelle pagine.

Torino, 8 ottobre 1872.

Domenico Pezzi.

Kur^gefasste Geographie von Altgriechenland. Ehi Làtfa- denf'ùr den Unterricht in der griechischenGeschichte und die gi'iechische Lectilrc auf hoheren Untcrrichts - An- stalten von August Buttmann. Bei'liuy 1872.

Ai nostri non si può abbastanza ripetere , che il vero ultimo fine delle scuole classiche è preparare le giovani generazioni per la vita, ma non già per una determinata carriera pratica. I ginnasi i ed i licei non devono mai avere per mir^ l'insegnare alcunché, perchè sarà d'utilità pratica per la vita ; essi debbono insegnare le cose che meritano d'essere conosciute ed imparate dall'uomo veramente culto e civile, senz'alcun riguardo al loro immediato uso, ed il gio- vane deve apprenderle, se vuol riuscire uomo tale che veramente meriti il nome di culto, senza pensare che quelle cognizioni , nel cui apprendimento occupa i migliori anni della sua vita giovanile, gli renderanno un frutto materiale nel tempo susseguente. Solo così governandosi la scuola clas- sica corrisponde al suo compito fondamentale di preparare per la vita, per la vita in genere, io dico, non per una deter- minata forma di essa. La scuola classica deve aver ben altro

184 e superiore --^copo, che quello di preparare immediatamente per gli studi universitari e per mezzo di essi al servizio dello Stato; essa deve innanzi tutto addestrare per la lotta d'i! la vita, rendere abile a vincere in questa lotta. Essa si trova sul medesimo terreno collo stato nazionale, e non può che aiutarlo e servirlo : e io aiuta e lo serve con perfetta co- scienza di questo suo dovere, perchè essa è quella che alle generazioni affidate alle sue cure rende possibile di at- tuare le grandi idee concepite dalla nazione, e così essa educa alla vita civile. Ma per questo non è semplicemente serva dello Stato: come la sua ultima meta non è di for- mare abili uomini d'affari, così non è nemmeno quella di dare al governo abili impiegati, alla società buoni avvo- cati, medici od ingegneri. La scuola classica vuole educare tutto Tuomo, e Tuomo dell'epoca moderna non è, come Tan- tico spartano, esclusiva proprietà ed istrumento dello Stato. L'umanità deve continuamente progredire a maggiore mo- ralità ed anco a maggiore felicità in questa vita terrestre : in questa continua lotta ci debbono essere potenze che ab- biano la missione di conservare Teternamente vero e bello, di diffondere l'amore e la cognizione di esso senza alcun riguardo ai continui muramenti della vita esteriore e delle condizioni sociali e politiche ; fra tali potenze è la scuola classica , se veramente è quale esser deve. 11 dare nutri- mento intellettuale alla gìoventij, il rendere atto il mag- gior numero di allievi, non solam.ente quelli che sono dotati di maggiore ingegno, all'acquisto di utili cognizioni, l'edu- care la parte eletta del popolo, quest'è un compito che la scuola classica ha comune con gli altri istituti d'istruzione; ma essa ne ha uno suo particolare : quello di accrescere le forze intellettuali della nazione ed il loro valore pel mondo, di formare uomini di aito e nobile sentire , atti a guidare le moltitudini, a coltivare l'ingegno, ad appianare la via

- 185 - al genio; la scuola classica, mi sia lecito i) dirlo, è per sua natura un'istituzione aristocratica. Come mezzo piij potente ed efficace a raggiungere questo suo scopo sublime, la scuola classica si serve dello studio delle lingue e lettera- ture dei due più grandi popoli deirantichità, dei Greci e dei Romani, gli eterni, non mai da alcun popolo moderno rag- giunti modelli di umana grandezza. Nessun' altra materia d'insegnamento è tanto atta ad esercitare le facoltà intellet- tuali del giovane, a destare grandi e nobili idee e sentimenti, quanto il profondo studio e la estesa lettura dei classici greci e latini. Ben a ragione adunque il greco ed il latino sono il perno degli studii ginnasiali e liceali, a cui gli altri insegna- menti servono di necessario complemento. Gli altri rami sono , almeno in parte , strettamente connessi con questo studio precipuo e fondamentale , da non poterne andare in verun modo disgiunti. Non voglio dire con ciò che non abbiano anco un altro fine loro particolare; ma chi ben pensi quante e quali cognizioni siano necessarie per ret- tamente intendere e ben interpretare un autore classico, facilmente mi concederà che questo intimo nesso fra lo studio delle lingue classiche e quello di altre discipline, insegnate nella scuola classica , è tale da non poter affidare l'insegnamento filologico a chi non sia più che mediocre- mente versato in alcune di queste discipline che qui si con- siderano come ausiliari della filologia classica, astrazione fatta deirimportanza loro propria.

Quanto dico vale innanzi tutto per le discipline storiche e per la. g-eo^rajia {i\ che è l'anello di congiunzione fra le

(j) Non può essere mio intendi oietito di parlare qui dell'importanza \ dell'insegnamento gcognUco in generale, ma inviterò il mio lettore a leggere un articolo molto ben ra^',ionato di G. Cuno, Uiber die GeO' graphie als Bildungsmittci auf deutschen Gymnasien , inserito nella •« Zeitschrift fiìr das Gymnasial-Wesen herausgegeben von H. Bonit\,

- 180 - prime e le scienze naturali e le matematiche, e alPinsegna- mento della quale dovrebbe essere data un'importanza molto maggiore ed un indirizzo ben differente da quello che ora sembrano avere nelf insegnamento secondario e superiore.

I destini de' popoli appaiono in gran parte come con- seguenza delle condizioni naturali degli spazii ch'essi abi- tano e la loro storia, che in parte almeno è una lotta contro le condizioni naturali in cui si trovano poste, non può es- sere intesa se non si studiano, e profondamente, le condi- zioni geografiche, come non ben si potranno intendere le differenze esistenti fra i varii popoli.^ se non si considerano attentamente le differenze nella natura del suolo, nel clima, insomma tutto quel complesso di condizioni il cui studio forma appunto Targomento della scienza geografica. V'ha un progresso ed un continuo mutarsi nella vita de' popoli : si può forse intendere le ragioni di questi mutamenti e Tini- portanza delle lotte che sostengono in questa non interrotta lotta se non conosciamo in tutte le loro particolarità grim- pediment! clic la terra oppone ai popoli per essa dilTasi? Iti breve, la scienza delia superfìcie della terra e della vita organica e sociale su essa, che è appunto la geografìa, è una scienza fondamentale per molte altre, e massimamente per tutte quelle che s'occupano delle manifestazioni dello spirito de' popoli.

E siccome il filologo s'occupa appunto dello studio della vita de' popoli antichi, cosi non potrà esimersi dallo studio

li. Jacobs uni P. Ruhle, Berlin, 1872, an. vi, fase. I, che contiene alcune verità ed alcune proposte, che pare possano meritare anche in Italia una seria medita:2ione da chi forse si sarà meravigliato della dis- cussione della 3* sezione del Congresso Pedagogico in Venezia, fatta il 16 settembre , ovvero percorra ceni programmi per l'insegnamento della geografia e sia costretto ad assistere ad esami di questa scienza in alcuni istituti nostri.

della Geografia antica e sarà costretto ad insegnarla anche ai suoi allievi, e mi pare perciò a proposito di dire in questa Q^ìpista alcunché de' recenti studii e pubblicazioni geogra- fiche, inquantochc s'occupano della Grecia antica. La Ger- mania ha il vanto d'avere anche in questa parte negli ultimi tempi dati i migliori lavori , a cui lo studioso può ricorrere per quest'importante disciplina. Non vo' togliere con queste parole agli altri popoli i meriti che si sono acquistati coi loro lavori intorno alla geografia antica ed alla geografia della Grecia in particolare. Certo senza moki lavori prepa- ratori! e specialmente senza i molti viaggi intrapresi in tutti i paesi abitati un tempo da popolazioni greche, senza studii e lavori profondi ne' luoghi istessi (i) non sarebbero state possibili le opere cui mi propongo di dare qui un cenno, per venire all'opera scolastica, citata in capo a questo artìcolo. La grand'epoca della moderna filologia classica, che è distinta dai nomi di F. A. Wolf, di G. Hermann, di C. O. Mailer, di A. Bockh, ci aveva dato anche il grande lavoro di Manr^rt e quello incompiuto di Ukert sulla geografia antica : ma al giorno d'oggi, senza mancare di riverenza ad uomini eruditissimi e grandemente benemeriti, le loro opere si possono chiamare antiquate e per ciò non piiì corrispondenti all'odierno stato della scienza geografica. La lotta tenacemente sostenuta da' Greci per l'indipendenza della loro patria aveva intanto condotto molti eruditi nelle terre greche e la guerra stessa ha reso servigi alla scienza geografica (2). Fu necessaria una nuova opera sulla geografia antica ed il For-

(1) Sarebbe impossibile di citare solo anche i più rinomati fra i viaggiatori moderni in Grecia e neirOrienie greco che ne hanno dis- corso in pregiate opere, dacché troppo grande è il loro numero.

{2) Basti ricordare la grand'opera dovuta alla spedizione francese nella Morea.

- !88- higer {\) c'è l'ha data con un vasto corredo di erudizione. Ma un altro passo rimaneva da farsi, ed era quello che airerudl- zione classica acquisUita nel gabinetto di studio s'aggiunges'^e la personale cognizione dei luoghi, ii che necessariamente doveva dare maggiore vita ed evidenza all'opera erudita. Ed appunto la Germania ha trovato fra i suoi scienziati due uomini che riunissero in le due qualità che paiono in- dispensabili per dare opere geografiche come le dobbiamo desiderare.

Ernesto Curtius (2) nel suo « Peloponneso » e Corrado Bursian (3) nella sua k Geografia della Grecia •> ci hanno fornite, dopo lungo soggiorno nel paese ed estesissimi studi! preparaiorii, opere per lo studio della geografia della Grecia antica, che formano veramente epoca per una più profonda intelligenza dell'antichità greca, e che unite alia nuova edi- zione « dell'Atlante della Grecia antica », opera del famoso cartografo e geografo Kiepert (4), sono un corredo ampio e sufficiente per ogni studioso dell'antichità.

Ma non son opere, per l'estensione loro, che possano util-

{\) Hanàbuch der alien Geographie nack den Quelìen hearheitet, Leip- zig , 1842-1848, 3 voi. Mi limito a questa citazione, come quella di un'opera completa, tacendo i nomi di molti talvolta pregevoli com- pendìi.

(1) Ert<esto Curtius, Peloponnesòs . eh:e historisch-geographiscne Beschreibung dar Halhinsel. Mit Karten und Hol^schnitten. Gotha , t85i-i852.

(3) Conrad Bursian, Geographie von Griechenland , Leipzig, iSGa- 1871; voi. 1: Das nórdliche Griechenland^ 1862; voi. II: Pdopov.nesos und Inseln. Parte i. Argoiis, Lakonicn ^ Messenien^ 1868. Parte ^, Arkadìen, Elis, Ackaia, !87i. L'opera none ancora compiuta.

{4) Heinrich Kiepfrt , Neuer Atlas von Helhs und den kellenischen Kolonlen in i5 BlHttern, Berlin, iSya, opera che non dovrebbe man- care in nessuna biblioteca ginnasiale e liceale, ed a cui è premesso un proemio dell'autore , in cui contezza delle nuove opere da lui adoperate nel rendere più perfetta questa seconda edizione del suo bellissimo atlante.

mente essere studiate da? giovine ed accogliersi nella scuola. Eppure non è soiamente utile, ma, a parer mio, neces-sdrio che i progressi della scienza ii più presto possibile passino nella scuoia^ e per mezzo di essa, ovvero di opere popolati, diventino comune possesso di tutti, non potendosi permet- tere in verun modo, che vieti errori o men rette cognizioni per rincuria od anche la cocciutaggine di chi insegna si propaghino dall'una all'altra generazione di scolari. Appunto per queste considerazioni Ìl prof. A. Buttmann fu indotto a scrivere la sua « Breve Geografia della Grecia antica », che non si propone soltanto di dare in arida forma, come comunemente suol farsi nei compendii di geografia, le cose più essenziali della geogi^afia ppìitica della Grecia antica, ma eziandio in modo adatto alla capacità dei giovani una descrizione del teatro della storia greca, per rendere più vivo ed efficace io studio di questa ed insieme delle opere degli autori. Perciò si è, in questo particolare, limitato a quelle parti della Grecia che sono della massima impor- tanza per r insegnamento scolastico , approfittando delle descrizioni che ci hanno dato gli uomini dai quali furono visitati i luoghi. A mio giudizio è assennata la sua scelta e le descrizioni che accoglie soli ben appropriate allo scopo. Perchè il lettore possa formarsi da se un criterio, come i luoghi più importanti dell'istoria greca siano descritti nel presente libro, do la breve descrizione di Tebe, come la leggiamo a pag. Sg, e la scelgo, perchè in grado di giudi- carla dalle impressioni ricevute quando nel 1870 da Atene mi recai alla patria di Pindaro. « Nella Beozia meridio- nale )> , così il Buttmann , « Tebe con la sua acropoli Cadmea, posta su una collina per cui facilmente si sale, è situata a meriggio del lago Ilice in una pianura, circondata tuli* attorno da piccole alturi. e la cui parte settentrio- nale più bassa portava il nome di campo Aonio, mentre

190- la parte superiore, occidentale, aveva quello di campo Tenerio. La città era adunque massimamente protetta dalle sue potenti mura, entro le quali trovavasi anche Tacropoli e che erano munite di torri e provvedute di sette porte, mura di cui la leggenda dice essersi connesse le pietre loro da se stesse al canto d'Anfione, e che formate di grandi massi di pietra di forma non del tutto regolare si riconoscono ancora nelle rovine ivi esistenti, massimamente al iato settentrionale della collina. Che Tebe fosse situata nella pianura, si rileva già da Omero {Od. XI, 262 e seg.). L'acro- poli occupava la parte sud-ovest della città di Tebe. Lungo il muro occidentale di essa, che adunque è anche quello della città stessa, scorre il ruscello Dirce verso nord e sbocca a settentrione della città nel campo Aonio nel piccolo fiume ismeno: questo scorre lungo il muro orientale della città verso settentrione al lago Ilice. Tra la Cadmea e la città bassa trovasi un burrone con direzione verso settentrione, in cui scorre un ruscelletto. Oggi, come già ai tempi Pau» sania, Tebe è circoscritta alla collina. A meriggio e sud- ovest di Tebe s'innalza il paese a quelP altipiano pieno di colline che forma la congiunzione fra l'Elicona ed il Cite- rone, su cui nelle vicinanze di Leuttra scaturisce TAsopo che per un'alta valle, detta Parasopia, scorre ad oriente lungo il Citerone ed il Parnes al mare d'Eubea, in cui sbocca presso Oropo. »

Bastino queste parole e citazioni per raccomandare il libro agl'insegnanti che devono trattare di geografia e storia an- tica e di lingua greca, libro che è corredato anche di op- portunissimi indici} come quello delle File e Demi dell'At- tica, ed in cui forse non rimane a desiderare, se non una qualche maggior estensione di alcune parti. A parer mio le isole, p. e. Gorcira ed Itaca, meritavano qualche descrizione: è imporrante la prima per Tetà eroica e storica, e la seconda

- 191 - per la lettura dclVOdissea, e intorno ad esse non mancano monografie di viaggiatori. Ciò dicasi anclie delle splendide città greche sulle coste dell'Asia minore, tanto celebri nella vita ellenica ed argomento di recentissimi studii. Torino, ottobre 1872.

C MULLER.

Bernhardy , Grundriss der rómischen litteratur , funfte

bearbeitung, Braunschweig, 1872. Teuffel, Geschichte der rómischen literatur, zweite ver-

besserte auflage, Leipzig, 1872. Errico , Storia critica della letteratura romana ad uso

delle scuole liceali y normali e universitarie, volume 1%

Napoli, 1872.

I lettori della nostra ^vista potrebbero a buon diritto reputarsi offesi da noi se tenessimo loro discorso intorno al valore filologico delle storie della letteratura romana scritte dal Bernhardy e dal Teuffel e di nuovo edite teste, questa per la seconda volta e quella per la quinta , come se fos- sero opere mal note ancora, non già come queste (ed in ispecial guisa la prima) meritamente famose. Anche Tultimo dei filologi è u'so di averle in pregio e valersene: per ciò che concerne ì nostri lettori basterà pertanto aver dato loro il gratissimo annunzio di una nuova edizione , di cui ap- pena occorre accennare come sia arricchita di nuove notizie, soprattutto bibliografiche (1). Noteremo soltanto come nel simultaneo riapparire di questi due libri si manifesti quella che alcuni sogliono appellare sapienza del caso. Che en-

(i) V., p. es., i Nachtr'dge aggiunti al libro del Bernhardy, p. xx-xxv.

- 192 ~ trarnbi ci sembrano pecessarii a chi voglia addentrarsi nella scienza della letteratura romana, onde Teurt'el e Bcrnhardy con ordine divergo ci espongono la storia. TcuiTel, premesse alcune considerazioni intorno allo svolgi intn-o dei varii ge- neri dì letteratura presso i Romani , ci narra (o piuttosto ci fa narrare dai ioro scrittori stessi, rapportandone continua- mente i luoghi più opportuni) le vicende delle varie forme assunte fra essi dall'arte della parola , ma non già tenendo dietro separatamente ai progressi ed alla decadenza di cia- scuna delle medesime, bensì tratlando di esse tutte in ognuno dei quattro periodi cronologici in cui divise la sua narra- zione, la quale si estende non pure alle creazioni letterarie di Roma pagana, ma eziandio a quelle in cui il nuovo pensiero e sentimento cristiano si rivelò con parola latina nei limiti di tempo segnali dali' autore ai proprio lavoro. Bernhardy, per io contrario, dopo una introduzione in cui a lungo e profondamente si occupa dei caratteri generali delia letteratura romana e dello studio di essa , espone la storia interna della medesima, investigandone gli elementi e ritraendone le varie epoche: poscia, e ben più diflusa- mente , imprende il racconto deiresterna, descrivendo il na- scere, il crescere, il venir meno delle singole forme poetiche e prosastiche in cui fece le sue prove l'ingegno letterario presso i Romani. Il libro, che diremmo piiì storico e pra- tico, del Teuffei ci sembra ottima preparazione a compren- dere l'opera, più filosofica e teoretica, del Bernhardy : Tuno e l'altra poi somministrano alio studioso colla propria ric- chezza d'indicazioni bibliografiche il mezzo di conoscere quanto la scienza scoperse, anche intorno ai più minuti e lievi argomenti, e, diremmo quasi, lo spingono alle inve- stigazioni speciali e nuove.

L'Italia risorta desidera ancora un' opera che rappresenti colla maggiox possibile perfezione lo stato odierno della

~ 193 - scienza intorno alle lettere romane, airarte della parola presso i nostri padri. A tanto lavoro si era accinto li Tamagni, e, come attesta la prima parte di esso fatta di pubblica ragione, egli io avrebbe degnamente compiuto: glielo troncò a mezzo la morte immatura. Gli. Studi storici e morali sulla ietterà- tura latina di Atto Vannucci, onde apparve recentemente una 3* edizione, ricca di correzioni e d'aggiunte (in ispecie di cenni bibliografici concernenti nuovi scritti, soprattutto germanici), sono meritamente da tutti assai pregiati per la conoscenza della antichità latina, per la finezza del gusto e l'eleganza severa della forma , e in ciò ii Vannucci è unanim.ementc riconosciuto maestro: ma non abbiamo in questo volume che una serie di monografie fatte per lo più solo con intendimento storico e mo- rale, non congiunte fra loro, cosi numerose come sarebbe necessario per colmare certe grandi lacune. Opuscolo et>sen- zialmente scolastico , e , più che altro , abbozzo di lezioni (nel quale scorge per altro la dottrina e Io ingegno non comuni di chi lo ha delineato) è ii Saggio critico sulle let- tere latine, che il Trezza, Tinsigne autore del Lucrezio, pub- blicava or sono dieci anni. È bensì vero che al'a nostra povertà di veri storici delia letteratura roniana sono forse a parere di molti più che sufficiente compenso i non pochi che e notte vanno in caccili parole e di frasi latine , cui ci presentano poscia in qualche orazione o poesia con- nesse insieme con varia fortuna secondo la varia abilità , si che di cotali lavori gli uni ti rendono immagme di mosaico, gii altri ti ricordano i paesaggi costrutti dai fanciulli sem- pre coi medesimi alberi ed animali e colle medesime ca- panne di legno. Ma, sciaguratamente, v'hanno incontenta- bili, cui queste glorie non bastano e che deplorano la scarsità di lavori filologici italiani: per questi incontentabili noi discor- reremo del primo volume che il prof. Errico testé pubbli- cava della sua Storia critica della letteratura roinc^na ed

- 194 il quale comprende, oltre ai preliminari (p. ix-xxiv), Tespo- sizione deirorigine e dello svolgimento della letteratura ro- mana ne' due primi de' cinque periodi, in cui, sebbene non creda guari possibili si fatte partizioni (p. 19), tuttavia « per una certa comodità >> Tautore divide la sua storia (p. 21).

Ci affrettiamo di notare che è questo un libro scritto con molto amore, con tendenze filosofiche e con studio ac- curato dei fatti. Le tendenze filosofiche, a dir vero, ci sem- brano avere spinto un po' troppo l'autore alle considerazioni generali, sempre molto pericolose (1). Che spesso queste conducono alle asserzioni troppo assolute, come ci sembra,

v. g., la seguente: « In ogni lavoro letterario scorgonsi

armonizzati tra loro il pensiero dello scrittore e quello della nazione, in grembo a cui si manifesta» (p. 17), Tra questi due pensieri non v'ha, a nostro avviso, in ogni lavoro lette- rario armonia : vi ha antitesi e lotta talvolta ed in essa ci si rivelano certe fiere, ribelli personalità. Ne la dottrina e la diligenza del nostro autore valsero sempre a salvarlo da non poche erronee affermazioni in ispecie glottologiche. Ve- dasi, p. es., quale concetto abbia egli della linguistica. «Vo- gliamo forse negare », cosi scrive a p. x-xi, « che, in Ger- mania segnatamente, la linguistica abbia fatto grandissima progressi, tanto da meritare se non la dignità di scienza, per non essere stato ancora raggiunto un vero assoluto, e eziandio un vero scientifico, quella almeno di nobilissima disciplina letteraria? » Chiunque sappia davvero che cosa sia scienia e sia atto ad intendere libri quali sono, v. g.,

(i) Da che ci venne fatto cenno di ciò, vorremmo almeno veder ci- tato a pag. 18 lo scritto di Cesare Balbo Della letteratura negli un- dici primi secoli dall'era cristiana, lettere alVabate Amedeo Peyron, pubblicato nelle Lettere di politica e letteratura edite ed inedite, Fi- renze, i855, p. 121-170, nel quale scritto si svolgono appunto i con- cetti accennati dall'Errico.

- 195 - il System der sprachwissenschafi di K. W. Heyse e la Cha- rakteristik der haupisdchlichsten typen des sprachèaues leg- gendoli si convincerà agevolmente che nella linguistica odierna v'ha già quel « sistema di cognizioni discorsive logicamente vere »», il quale, come apprendevamo già quando eravamo in liceo, costituisce una scienza. Ne guari più avventurato è l'Errico allorquando afferma (p. xvi) essere ora «invalso un uso presso i cultori della novella scienza del linguaggio, che, intesi a investigare l'organismo interiore di ciascuna favella, tanto rispetto ai suoni, quanto rispetto alle forme delle voci, trascurano la lingua in se stessa ». Forsechè tale investigazione gli pare estrinseca ai linguaggi, com.e se suoni e forme non ne fossero elementi integranti? Con ciò egli volle preparare i lettori ad accogliere la sua sentenza che « una lingua in tanto si sa, in quanto si scrive » (p, xvi- xvii), in ordine alla quale fu già notato non sappiam quante volte e perfettamente a ragione e teste ripetuto so- lennemente da uomo, che per ingegno, dottrina e grado è autorevolissimo, essere lo imparare a scrivere una lingua uno degli scopi principalissimi dello studio che si fa degl'idiomi ancor vivi, ma soltanto we^^^o e non /?ne, allorquando altri si travaglia intorno ad una lingua morta, ed allo studio ginnasiale e liceale del greco e del latino essere ^tie l'edu- cazione delle potenze intellettuali e morali dei giovani me- diante il fecondo contatto della classica antichità. E queste son cose che ormai tutti sanno o almeno dovrebbero sa- pere. Confessiamo per lo contrario che pochi sapranno quale sia la « grandissima attenenza », che le lingue orien- tali, come « oggi è dimostrato», hanno « con la lingua greca e con la latina, e con tutte quelle altre componenti il gruppo indo-europeo » (p. x). O le lingue orientali onde si è fatto cenno sono le indiane ed eraniche, le quali sono fra le « componenti il gruppo indo-europeo »•, ed in questo caso

- 196 - s' insegna ch'esse hanno « grandissima attenenza » con altre del nedesimo stipite e con se stesse: o sj fa menzione di favelle orientali non appartenenti alla tanriìgiia indiana, alla cranica; ed allora non sappiamo qual « grandissima attenenza « sia stata dirtioslvata fra k medesime e le indo- europee. Né approviamo la troppo audace afiermazione di un periodo italo-greco (p. i6)» la cui esisteriza è ancora incertissima e negata da alcuni fra i più valorosi linguisti. È poi dir troppo lo asserire che tra greco e latino v'abbia '< perfetta analogia di sintassi, di costruzioni, di derivazioni, e di desinenze -> l'p. 7), soprattutto ove si badi a quanto si legge a p. io: « Risguardo al verbo latino, niun paragone si può istituire col verbo greco » ed a p. 1 3- 14 ove s'insegna che il latino ha forme più regolari e primitive dei greco, insegna- mento non vero che in parte. Inesatto ci sembra eziandio lo aiferrnare che nella lingua romana è compreso il fondamento delle antiche favelle italiche (p. xv), le quali, come a lutti è noto, da quella si distinguono nettamente per certe proprietà di suoni e di forme. E non ammettiamo punto poco che il iauno sia lingua «t ricchissima quant'altra mai » (p. JLYìii), lo ammetteva Lucrezio, nel cui poema scorgasi deplorata più di* una volta '< patrii sevinonìs egestas ». K come potreni credere che il latino classico spiegherà l'arcaico (p, xix) che lo ha preceduto e che ne e causa, non effetto? E ci vorrebbe proprio un miracolo di fede per non me'i- tere in dubbio la ipotesi che fabula sia accorciamento di factihuìa da /ttc/o (p. i5o, nota) (i); noi con Pott (2),

(i) Più beiìa ancora che questa ipotesi è la citazione di vert'kula da verto, jlectibula da flecto, mandibula da mando: vi ha forse in ver- tibula, Jlectibula, mandibula qualche accorciamento?

(2) Etymologische forschungen ecc., 2^' ediz., parte 2*, sez. 2*, DetmoM, 1867, p. 259.

- 197

Curtius (i), Corssen (2) e Pick (3) continueremo a credere che fa-buia sia nome derivato dalla radice lat. fa z:z gr. 9a = scr. ed ar. bha parlare -- e significhi ciò che si dice , sia falso sia vero (come appare dal verso di Fedro « Fictis iocari nos meminerit fabulisv, I, proL, V. 7). E continueremo anche a credere solennissimo errore il supporre un primitivo asanti coìVa lungo (p. 14) (4). Ma di ciò basti : veniamo ora ad alcune considerazioni intorno ad opinioni filologiche del nostro autore. Egli c'in- segna a p. 1 1 che « dopo Catone, sino a Tacito, la qualità che domina e signoreggia dall' un capo all'altro presso che tutti gli scrittori di Roma è un' attitudine maravigliosa a stringere e concentrare il pensiero ». Ci pare che collo scrivere tali parole l'Errico non ritrasse punto il carattere che nella maggior parte dei più grandi autori dell'età augustea ci si rivela: le eccezioni non son poche lievi; basti citarne una sola, Ovidio. Fummo poi compresi di profondo stupore nel leggere a p. 6 che i Romani si la- sciarono addietro di lunga mano i Greci nell'eloquenza e che l'eloquenza di Demostene non si può ragguagliare con quella di Cicerone. Intorno a questa questione reputiamo che, ove non si amino i rancidi e sterili paragoni retorici, si possa solo affermare, essere stata l'eloquenza Ciceroniana la più adatta a Roma, quella di Demostene alla Grecia: e non v'ha chi non sappia, quanto il popolo greco superasse

(1) Grund^uge der gr. etj-m., 3* edizione, Leipzig, 1869, n" 407, p. 278.

(2) Ueber ausspr. ecc., l, 140, 169, 421: Kritische beitrage ecc., p. 362.

(3) Vergleichendes wSrterbuch der indogerm. sprachen , 2* edizione, Góttingen, 1870, sez. i*, p. 134.

(4) Schleicher, Compendio ecc., § 167, p. 393-5 della nostra ver- sione.

'Rivista di filologia ecc., /. 14

- 198 - nel senso squisitissimo dcirarte il romano (i). E restammo attoniti leggendo a p. 5 che presso i Romani la filosofia « non ha niente di comune con quella che fu in Grecia » ! Ammettiamo che la filosofia romana ebbe in genere inten- dimenti assai più pratici che la greca ; ma è sempre veris- simo e noto ormai anche ai meno dotti di queste cose che la speculazione latina fu mossa, diretta, sostenuta dalla greca- ch.3 « la philosophie gréco-romaine r- (come l'appella Ritter (2) ) « se rapproche très fort, quant au caractère, de la philosophie grccqae antérieure d. E non comprendiamo come si possa insegnare a' giovani .studiosi che « così il quarto come il nono secolo furono pregni di ignoranza » (p. xiii), mentre vMia un bel divario fra la vita intellettuale dell'uno e quella dell'altro.

Ma più che queste mende, le quali ci appariscono qua e nelTopera del nostro autore, le nuocono alcuni difetti ond'à tutta viziata. E, in primo luogo, il prof. Errico non possicvie guari Parte di concentrare i pensieri e di significarli con forma breve e (come ora dicono) potentemente incisiva: la sua elocuzione ci pare troppo spesso prolissa, talvolta non affatto monda da affettazione e non sempre logicamente (3) pure grammaticalmente (4) irreprensibile. Secondamente,

(1) Bernhardy, Grundriss dcr rómischen litteratur , Braunschweig, 1872, p, 785 e 817. Zoncada, Corso di letteratura greca, Milano» i858, voi. 30, p. 533-541-

(2) Histoire de la philosophie, irad. par Tissot, Paris. iS36, parte i», voi. 4% p. 41.

(3) Così ii senso richiederebbe , per maggior perspicuità, che si to- gliesse il non dopo ninno a p. \^'i, ove si nota come, fra gli esa- irieiri Enniani, a Iato di parecchi versi biasimevoli per vane ragioni vi siano « altri versi, e in grandissimo numero, nei quali m/mmo non sa- prebbe trovar di leggieri alcuna cosa degna di riprensione, e che sono simili in.coair.istal>ilnìcnt2 ai più bei versi dei poeti classici >; ecc.

(4) Non ci garba, ad es. , e non vorremmo vedere imitato il seguente costrutto: <- Buon pel comico latino l'essersi imbattuto nel nostro

199 - siccome certi costrutti speciali appartengono allo stile sog- gettivo (conrie Io appella He3^se ( i ) ), così reputiamo dover- sene far cenno nella storia di una letteratura meglio che in quella di una lingua (p. xxi, nota). E finalmente non pos- siamo non rimproverare all'autore la deplorabile povertà di informazioni su quella che dicesi critica dei testi e di noti- zie bibliografiche, che sono assolutamente necessarie a qual- siasi studioso di filologia e che tu trovi non pure nelle grandi opere del Bernhardy e del TeufFel , ma eziandio nel Grundriss ^u vorUsungm ì'iber die rómìsche litt2ratiirf;-c- schichte (2) dell'Hùbner. È appena credibile che fra i titoli delle opere onde lo autore si giovò in questo primo volume (p. xxHi-xxiv) non solo non si leggano quelli delle storie letterarie di SchoU e di Munk e di altri non pochi, ma non vi si trovi accennata nemmeno l'opera fondamentale del Bernhardy! Sono poi innumerabili le monografie onde sa- rebbe stato utilissimo far menzione e di cui non fu fatta (3): basti notare come a proposito delle famose tavole Eugubine

Gravina, i7 quale , per la profonda conoscenza delle eleganze latine e dell'arte drammatica, possiamo considerarlo giudice competente» (p. 161). ci piacerebbe che altri imparasse ad usare raitrovano (p. 40) ^tv ritrovano ^ possegghiamo (p. i56) per possediamo. Sono minuzie, ma vuoisi badare anche ad esse, soprattutto in un lavoro letterario e fatto per le scuole.

(i) Sistcmcx della scienza delle lingue ecc., trad. dal Leone, Torino,

18Ó4, § IO7-ÌO9, p. 232-235.

(2) Berlin, 1869

(3) Assai pochi sono i libri scritti in lingua tedesca e non tradotti che il nostro autore ha citati. V'ha chi suppose che tale idioma non gli sia guari famigliare. Sarebbe cosa deplorabile, perchè, piaccia o non piaccia, qualunque parte tu percorra del vastissimo campo filolo- gico, t'imbatterai in qualche tedesco che ti ha preceduto. Ma , quan- d'anche quella supposizione non fosse lontana da! vero , l'Errico sa- rebbe sempre assai meno a riprendersi che certi dottori dalla faccia invetriata, i quali, senza sapere quattro parole di tedesco, giudicano, condannano, proscrivono , insultano la scienza, di cui questa fa^ella è organo stupendo.

- 200-

non sia mentovato il notevolissimo lavoro di Aufrecht e Kirchhoff (p. 28), l'Errico è sempre avventurato nella scelta dei libri a cui giova ricorrere : che tu trovi , v. g. , citata la Storia della letteratura latina del Cantù e non quella del Bernhardy (p. xxiii), il Trattatello del Bindi sul teatro comico dei Latini e non la Geschichte des dramas di Klein (p. i35)!

Conchiudiamo. La Storia criticay onde il prof. Errico ci diede il primo volume, sarà certamente, assai piià che qual- che altra, ricca di pregi, e la lettura di essa riuscirà utile a molti. Ma siamo convinti che la soverchia estensione (i) della medesima ne renderà quasi impossibile Tuso neMicei(2), mentre per la scarsità di notizie intorno alla critica dei testi e d^indicazioni bibliografiche sarà giudicata insufficiente agli studi di filologia latina che si fanno od almeno si dovreb- bero fare in qualsiasi scuola normale ed universitaria.

Torino, 12 ottobre 1872.

Domenico Pezzi.

(i) Come si può proporre a giovani studenti liceali, oppressi da tanti e diversi studi, un libro in cui, v. g., 28 pagine sono consecrate a Pacuv'io (p. 366-394) ? À compiere quest'opera occorreranno, cre- diamo, almeno due volumi ancora: sarà una Storia un po' troppo lunga per i licei! Oltracciò, in un libro destinato a queste scuole vorremmo ancora maggior parsimonia di cenni intorno a certi ar- gomenti (v. p. 145 e 166-168, nelle quali tre ultime pagine l'autore rapporta una scena plautina, in cui si descrive un padre parassito, che, per infame ingordigia, vuole indurre la figliuola, riluttante, a lasciarsi vendere).

(2) << Così com'è, ci pare che il libro, tuttoché opera di un Italiano, debba tornare per le nostre scuole molto meno atto che non sarebbe

una traduzione ben fatta dell'aurea storia di Edoardo Mnnk '

Nuova antologia 'icien^^e, lettere ed arti, voi. 21°, fase. 9°, Firenze, 1872, p. 23l.

- 201 -

Tratte de versification fran^aise par Gustave Weigand, docieur en philosophie au collège moderne de Bront' berg, membre correspondant de la société de Vétude des langues modernes à Berlin, Bromberg, ^871, nouvelle èdition revue et augmentée.

Nella Germania si studiano non solo da molti le lingue classiche, ma da moltissimi e con sempre crescente voga le lingue eulte viventi, e n'è prova novella la società eretta da parecchi anni per ciò in Berlino, di cui e corrispondente il Dott. Weigand, trasformatasi in maggio ultimo in accademia; essa aprirà i suoi corsi il 28 corrente ottobre, e conta nei suoi ventitré insegnanti celebrità filologiche, come sono i prof. Herrig, Mahn, Màtzner, Schuìe e Schnackeuburg. Sif- fatta diffusione della conoscenza delle lingue -noderne in Ger- mania contribuì, a detta dei sìgg. Levasseur, Baret e Aron (i), alle strepitose recenti vittorie delie armi tedesche sulle francesi che pure avevano fama d'invincibih. Gli è per tale consi- derazione che il sig. Simon, attuale ministro della pubblica istruzione in Francia, colla sua applaudita circolare del 27 settembre testé scorso , rese obbligatorio nelle scuole secondarie dello Stato lo studio del tedesco e deiringlese.

Ma a ciò ottenere in Germania non si scelgono mica ad insegnanti coloro la cui dottrina consiste ne) parlare spe- ditamente e pronunziar bene una lingua straniera, coloro che con profondi studi si sono addentrati nella fonologia , morfologia e sintassi della lingua che assumono d'insegnare. In Germania si vuole, come nota il Fuchs (2), che il pro-

li) Uétude et l'enseignement de la géographie. Parigi, 1871. De l'en- seignement des langues vivantes. Parigi 1S71. V. anche la Circolare del ministro della pubblica istru^iione io ottobre 1S71, ed il Journal des Débats 8 ottobre corrente.

(2) Ueber die sogenannten unregelmassigot ^eitwórter in den ro^ manischen sprachen. Berlino, 1840.

- 202 -

fessore sappia il perchè onde bene insegnare il come ai discenti.

Fra costoro dobbiamo noverare il Dottore Weigand, che nel libro, argomento di quest'articolo, espone compendiata, corretta ed accresciuta di prove Topera delPegregio prof, pa- rigino Quicherat sulla versificazione francese, ma meglio che trattato avrebbe dovuto intitolarla storia, giacche prende le mosse dairantico francese, che, distando tanto dall'attuale, ebbe un incerto e confuso sistema di versificazione, epperò non può ammaestrarci nelFarte di scrivere versi nel francese odierno, le licenze antiche superando le regole.

L'esimio autore, a parer mio, trattò troppo brevemente dell'accento, attenendosi alla dottrina del Dott. Ackermann; egli avrebbe dovuto fare suo prò delle opere speciali sull'ac- centuazione venute in luce di poi, cioè del Benloew (i), del Benloewe del Weil(2) e di Gaston Paris (3), giacché la poesia ritmica dipende dalla dinamica e collocazione degli accenti sopra un dato numero di sillabe. Il Biagioli (4), per quanto io sappia, fu il primo a trascrivere il piede ritmico poetico colla notazione musicale, sebbene già lo avesse accennato il Sacchi (5), ed io ricordo come, quando negli anni migliori mi dilettava nel canto, trovassi impossibile di cantare un pezzo della Margarita di Angiò del Mayerbeer, perchè co- stringeva ad entrare nel tempo forte della battuta con sil-

fi) De Vaccentuation dans les langues indo-européennes. Parigi, 1847. Théorie des rhyihmes fran^ais et latins. Parigi, 1862.

(2) Théorie generale de l'accentuation latine. Parigi, i855.

(3) Étude sur le relè de l'accent latin dans la langue fran^aise. Parigi, 1862.

(4) Grammaire italienne avec un traité de la poesie italienne.

Parigi, 1829.

(5) Della divisione del tempo nella musica, nel ballo e nella poesia. Milano, 1770.

~ 203 -

laba disaccentuala, il contrasto della tesi musicale colla arsi poetica distruggendo la prosodia.

Astrazione fatta di ciò è meritevole di molta lode il Dot- tore Weigand per questo suo bel lavoro. Egli mostrò tanta perizia del francese antico e moderno da disgradarne non pochi grammatici della stessa Francia, attalchè reputo il suo trattato indispensabile a quanti si occupano della filologia francese. Un solo appunto mi è dato di fargli ed è il se- guente.

Egli a pag. 49 dice che i mnrlerni scrivono falsamente grand' mere ^ ora il Brachet (i) c'insegna che nell'antico francese, imitandosi il latino in cui parecchi aggettivi, come grandis, fortis, avevano una terminazione comune ai due generi, si adoprò nella stessa forma tanto innanzi a nomi maschili come ai femminili, scrivendosi grand' tnère, gi'and'^ route. Col processo del tempo s'introdussero le due termina- zioni, ma dal naufragio scampò grand innanzi ad alcuni aggettivi, epperò non è un falso uso, come reputa il Weigand, un uso arcaico.

Uno dei lavori cui vorrei ponesse mano qualche dotto te- desco, indagatore dell'organismo delle lingue sarebbe questo : Dellu ritmica comparata delle lingue neo-latine. Esso m.e- diante conosceremmo le forza e la virtualità dell'accento spe- ciale ad ognuna di esse, la causa della maggiore o minore armonia e varietà dei versi e conseguentemente del grado di musicabilità dei suddetti idiomi.

Torino, ottobre 1872.

Vegezzi-Rlscalla. (i) Crammaire historiqut de la lanfrue frangaise, Parigi, 1868.

204 -

ZNiOTIZIE

Leggemmo con gioia nelle GÓttingische gelehrte anjeigen del 3 lu- glio ultimo scorso un articolo di R. SchóU intorno ad un recentis- simo lavoro filologico italiano fDella sublimità, libro attribuito a Cassio Longino, tradotto Ja Giovanni Canna, Firenze, 1871). Sebbene lo SchóU dissenta dal Canna in ciò che concerne lo autore di questo trattato, nondimeno egli ne riconosce e ne loda la dottrina e l'acume, rallegrandosi che i'Italia, malgrado di coloro che più volte e viva- mente si opposero allo studio dei greco, possegga ancora pregevoli cultori di esso e manifestando la sua speranza che il nobile esempio del Canna sia per essere imitato. Noi ci congratuliamo col valente professore, deplorando che, se non ci apponiamo in fallo, per la mal ferma salute egli abbia dovuto rinunziare allo insegnamento liceale della lingua greca.

Il 3 settembre ultimo scorso moriva a Firenze, in età di 24 anni, l'egregio dottore Felice Pinzi , pochi giorni dopo la pubblicazione di un dotto lavoro intorno agli Assiri , nel quale egli aveva compendiali gl'insegnamenti che in due corsi liberi nell'Istituto di studii superiori aveva dati su questo argomento. l'avere studiato da il linguaggio degli Assiri e fatta di pubblica ragione un'opera intorno ai medesimi è il solo titolo suo alla lode ed alla gratitudine degli studiosi; che fu eziandio uno dei fondatori àtW Archivio di etnologia e di antropologia, uno dei promotori della Società orientale in Italia. Non molti, mo- rendo in tarda età, lasciano di così buona memoria come questo giovane, onde la vita fu tronca da breve morbo negli splendidi giorni della operosità e della speranza.

Siamo lieti che della Commissione d'inchiesta sull'istruzione secon- daria sia stato eletto membro anche quel vaiente conoscitore dell'anti- chità classica che è il prof. R, Bonghi, E confidiamo che questa Com- missione sentirà e comprenderà il bisogno urgente porre in bando dai nostri ginnasii certi metodi medievali, che, a disdoro della scienza italiana e per isventura degli allievi, si seguono ancora per lo più e tal- volta si osano eziandio commendare con temerità pari all' ignoranza. Questa Rivista concorrerà anch'essa con tutte le sue forze all'opera riformatrice che alla Commissione venne affidata. Mossi da fatto pro- posito e dalle esortazioni di egregie persone continueremo e compiremo senza indugio ne' prossimi due fascicoli la pubblicazione delle Conside- razioni sull'istruzione, soprattutto classica, in Italia, a proposito del re- centissimo libro di M. Bréal sulla istruzione pubblica in Francia.

Rendiamo grazie di cuore alla Gazzetta di Augusta, zWOpinionc, al Diritto, alla Gazzetta ufficiale, che testé furono cortesi di lode alla no- stra Rivista.

Pietro Ussello, ferente responsabile.

206

OSSERVAZIONI S0P1{A UN PASSO 'BELL'c^NABASI DI SENOFONTE

Nel libro primo dell'Anabasi, cap. V. § \-2, descrivendo la marcia delPesercito di Ciro bià 'rì\<; 'Apapia^, e precisa- mente nella parte del bacino dell' Eufrate compresa fra l'Arasse (detto Aboras da altri scrittori, quali Strabone, Ammiano Marcellino ^cc,^ oggi Cabur) e il Masca, Seno- fonte racconta quanto segue : '6v toOtiu òè tiì tóttuj (nell'A- rabia) fiv )Lièv f) Yn Tteòiov airav 6|uaXè<; uxJTcep GàXarra, dv|;iv6iou TrXfipe<;" hi ti Kal àXXo èvfiv \)\r\<^ f^ KaXdjiiou, arravia ^aav €Òu)òr) ujcTTTep àpuL)|LiaTa* bévbpov b'oìibèv èvfjv, Gtipia TravxoTa, -rrXeicJTOi òvoi arpioi, ttoXXgì (TTpoueoì a\ juetaXar èvncrav Kaì obiibe? Kttì bopKabe^* laOra 8)ipia oi lmTeT(; èvioie èblujKOV. Kol ol )Lièv òvoi, èirei tk; bitXjKoi, TrpobpaiióvTei; è'aiacrav TToXù Yàp Tujv iTTTruuv lipexov OdTTOV Kal TrdXiv èTteì TrXriaidZoiev q\ Tniro;, taÒTÒv cttoìouv, xaì oùk r\\ Xapevv, \à\ biacrravre? o\ iTTTreTs Gripiliev biabexó^evoi * tu Kpéa tujv dXicyKopiéviuv ^v TrapOTiXricTia toT? èXaqpeioi?, àTraXiuTepa bè" (JTpouGòv oùbel^ IXa^ev 01 biwHavTe? tujv ÌTméwv Taxù ètrauovTo' ttoXù tdp ànécTTra (peuTOuffa, toT? nèv irooì bpó)Liiu, toT? Trrépugiv at- pouaa Aatrep icttiu; xpuJ^^vn- Td? ùjxibaq dv ti? Taxù dviax^, iox\ Xdiapàveiv* TrtxovTai Tdp ^paxù ujCTTTep ntpbiKe? Kaì Taxù dTtaYopeùoucrr Td Kpéa aÙTiJùv t^bicrra i^v. TTopeuó^evoi bid TaÙTTiq Tri? Xi"pct? ktX (i), cioè: a In quella regione il ier-

(i)Mi valgo del testo di Carlo Schenkl, Xewof fto«f/5 opera, Berolini 1869, I, p. 16-17. Ma mi pare opportuno di notare le due varianti chr offre l'edizione di L. Breitenbach (Xeno/7/io«M"5 Anabasis cum apparatu critico. Halis Saxonum 1867) e di raccomandare le edizioni scolastiche

Hivìsta di filolojia ecc., I i5

- 206 reno era una pianura tutta uguale a guisa di mare^ pieno di assenzio, e se altro vi era di arbusti e di canne, tutto odorava a modo di aromi. Non pi era poi albero alcuno; ma animali d'ogni specie; il maggior numero erano asini selvatici e molli stru^i di gran corpo, Eranvi anche ot- tarde e caprioli {i) ; a questi animali talpolta i cavalieri

di questo, dei Rehdantz e del Vollbrecht, corredate di opportunissime note per l'uso delle scuole. Ecco adunque le varianti, sebbene nulla im- portino per l'argomento che sto trattando: Qv Haraaav-àpaaa. Le diffe- renze fra queste due edizioni e le altre si veggono nelle note i, 2, 3, p. 20-21 del Breitenbach. La versione, che faccio seguire, è di Francesco Ambrosoli, circa la quale giova notare che sono poco precise le parole stru!^p di gran corpo : ai inefóXai non vuol dire che essi erano grandi, il che s'intende da sé, ma siccome orpouBó^ vuol dir anche passero, era necessario aggiungere un epiteto che facesse capire che si parlava del grande uccello del deserto : m secondo luogo osservo che le parole sempre freschi sono del traduttore, e finalmente che valendosi delle ali aliate non corrisponde esattamente a : tcT^ òè ntépuHiv alpouda tSattcp Kaxvì^ Xp\ìì\xiyY\ : almeno bisognava aggiungere come di vela.

(i) Debbo alla gentilezza del prof. Giuseppe MuUer l'osservazione che in questo luogo 6opKd(; piuttosto che cavriolo (animale che abita sempre in luoghi freschi e ombrosi) deve significare antilope o ga^- ^ella e più specialmente la antilope <forca5 di Linneo, di Buffon, di Pal- las e di altri autorevoli naturalisti, nel che convengono i più recenti interpreti di Senofonte. Parlando delle Antilopi il dott. Chenu nella sua Encyclopédie d'Histoire naturelle, voi. 12, pag. i36, osserva che quelques-unes habitent les plaines arides, sablonneuses et rocailleuses et ne se nourrissent que de plantes aromatiques ». Più sotto, pag. iSg, trattando specialmente del 50^5 genre Dorcas, dice : « la Gabelle, qu'E- lien a décrite sous le nom de Dorcas, dénomination anciennement em- ployée pour le chevreuil, est le niéme animai que VAcora d'H. Smith, le Dorcas antiquorum de Shaw, probablement VAlga^el des Arabes, et la dénomination de Gazelle leur a été également donnce par les mémes peuples...... On les chassefles antilopes) avec soin, car leur chair

est d'un goùt agréable et assez semblable a celui du chevreuil ». Sullo stesso argomento trovo nel grande Dizionario delle sciente naturali edito a Firenze dal Batelli, artic. Antilope : La carne della gazzella è molto buona e partecipa un poco di quella del capriuoìo « e il Palias nel suo Voyage en Russie, voi. I, pag. 379, dice: « La chair, lors qu'elles sont jeunes, c'est à dire àgées d'un an, serait beaucoup meil- leure que celle du chevreuil, si elle n'avait communément le goùt de

- 207 davano la caccia. E gli asini, quando qualcuno gì' inse- guisse, fuggivano innan:{i e poi fermavansi {perocché cor- revano molto pili celeremente dei cavalli); poi facevan di nuovo lo stesao quando i cavalli accostavansi , di sorte che noti era possibile pigliarne se i cavalieri appostati a certi intervalli non gV inseguivano succedendosi gli uni agli altri con sempre freschi cavalli. Le carni di que che pigliavano erano simili a quelle de cervi, ma più tenere. Nessuno per altro prese uno stru\io ; an^i alcuni cava- lieri, dopo averne inseguiti, se ne rimasero subito, pe- rocché fuggendo si dilunga gran tratto correndo co' piedi e valendosi delle ali aliate Ma le ottarde, se Vuomo le assale improvviso, si possono prendere; perchè volano a piccoli tratti come le pernici e presto si stancano. Le loro carni erano saporitissime. Procedendo poi per quella re- gione, ecc. ».

Nessun editore e nessun commentatore ha mai, per quanto io sappia, elevato dubbi sulla integrità di questo luogo: a me sembrando scorgervi una lacuna di qualche rilievo, sotto- pongo agU studiosi akune brevi osservazioni circa tale ar- gomento, perchè essi ne facciano il conto che crederanno migliore.

Primieramente in uno storico minuzioso e diligentissimo, quale è Senofonte nell'Anabasi, reca meraviglia che dopo avere noverato quattro specie di animali che vivevano nella pianura da lui sopra descritta, òvoi fi^piot, (TTpouGoì, iJJTibe? e bopKdòe^. e dopo essersi dato la pena di esporre il modo

l'absinthe dont elles se nourrissent: queiques personnes s'accomraodent très-bien à ce goùt. La chair de gazelle rótie le perd totaleraent lorsqu'elle est refroidie ». Debbo anche le citazioni del Pallas alla cortesia del prelodato prof. Muller. Il lettore intenderà agevolmente da ciò che segue perchè mi è parso conveniente determinare fin da ora il sapore della carne della gazzella.

~ 208 - in cui i soldati greci tentavano di prendere gli onagri, gli struzzi e le ottarde, taccia affatto della caccia delle antilopi. a spiegare questo silenzio sembrami sufficiente la consi- derazione che forse tal caccia non offriva alcunché di notevole da narrarsi al lettore, giacché sappiamo anzi e dal Pallas (i) e da altri naturalisti che anche le gazzelle sono animali che si sottraggono facilmente alle ostilità dei cacciatori, i quali debbono ricorrere a insidie di varie specie per impadronir- sene; e in ogni caso l'autore, seguendo la sua consuetudine di render conto anche dei più minuti particolari, avrebbe dovuto dire se i soldati presero delle antilopi, se ne presero poche o molte, ecc.

In secondo luogo apparisce strana la seguente notizia circa gli onagri: bk Kpéa tójv àXKJKOjaévujv ^v TrapauXrjcna ToT? èXa<peioi?, colla giunta poi; aTtaXiLiepa òé. Il lettore si immaginerà facilmente che io non ho mai avuto occasione di mangiare la carne di un animale straniero al nostro paese, quale è l'onagro; però non parmi verosimile ch'essa sia più tenera della carne del cervo (2) ; e tanto più forti si fanno i miei dubbi circa le parole Kp^a ktX. quando penso che queste sono per certo applicabilissime alle anti-

(i) Op. cit, voi. V, pag, 408.

(a) Veramente ildott Chenu, op. cit., voi. 12, pag. 54, dice: «i'homme

lui (aironagro) déclare la guerre . pour se nourrir de sa chair,

qui passe en Tartarie pour un mets des plus délicats ». E il Pallas, op. cit. , voi. 5, pag. 427, dopo avere descritto con molti particolari l'aspetto e la natura degli onagri, aggiunge : « Les Toungouses avaient abattu peu de jours auparavant deux jeunes étalons et les avaieni man- gés: ils en préfèrent la chair à toui autre gibier ». Ma (anche facendo astrgy.ione dai gusto dei Tartari, il quale forse non è molto esigente) da queste indicazioni a quella che si legge ora nell'Anabasi corre gran tratto. Oppiano, Cineg. Ili, v. 190, parlando dell'onagro dice: àWaùxò^ KpoTepot^ àja^f] péoi^ InXero Gripoi : le quali. parole, se non m'inganno, darebbero argomento a credere che secondo le cognizioni o l'opinione dell'autore del poema della caccia, il, quale (giova ricordarlo) era nativo di Apamea in Siria, gli onagri non sono un buon cibo per gli uomini.

209 lopi, come appare chiaramente dalle autorevoli notizie che ho riferito sopra in una nota circa questi animali.

Io stimo che si debba riconoscere in questo luogo una omissione derivante dalPerrore (lo dirò colle parole che ado- pera I. N. Madwig nel suo recente ed ottimo libro: Ad- versarla critica ad scripiores graecos et latinos, voi. i°,

pag. 42) « quo propter duas similes voces intervallo

non ita magno positas librarius, oculo a priore ad alteram transiliente, alterutram cum interpositis omnibus neglegit et excludit » . Secondo la mia opinione Senofonte subito dopo la caccia degli onagri descrisse quella delle antilopi e quindi quella degli struzzi e delle ottarde (i): egli diede notizia della carne degli onagri e della carne delle antilopi, ma il copista ingannato da due periodi che cominciavano simil- mente (2), dopo avere scritto Kpéa tujv dXicTKOiaéviwv (pa- role riferibili agli onagri) saltò, senza accorgersene, a una altra frase eguale, che si trovava poche righe pira sotto, ri- feribile alle antilopi; e così fu tralasciata la descrizione della caccia di queste e fu attribuita alla carne delPonagro una qualità che poco le si addice e che è propria di quella delle antilopi.

(i) A chi obbiettasse che in tal guisa l'ordine della descrizione delle quattro caccie (degli onagri, delle antilopi, degli struzzi e delle ottarde) non corrisponde all'ordine, in cui questi animali furono nominati la prima volta dall'autore (onagri, struzzi, ottarde, antilopi), parmi si possa rispondere che al principio del capitolo Senofonte descriveva l'aspetto che offriva la pianura arabica ai soldati greci i quali si avanzavano in essa, ed era naturale che nominasse prima gli animali di maggior mole e poi i minori; mentre prendendo a esporre le varie maniere di caccia, la divisione per generi (quadrupedi e uccelli) dovea sembrargli più con- veniente.

(2) Anche per le ottarde dice : Kpéa aùTObv f^òtora f^v. È quasi superfluo avvertire che per gli struzzi manca ogni indicazione di tal

genere, conciossiachè, secondo il racconto dell'autore, OTpoo66v

oòòd<; IXa^cv.

210 La lacuna da me sospettata avrebbe luogo adunque dopo àXi(JKO]uévujv, o forse dopo xpéa.

Livorno, ottobre, 1872.

AcHiixE Coen.

L'INFLUSSO CONTINUO DELLO SPIRITO GRECO SUL PROGRESSO DEL GENERE UMANO.

Quanto più raro è il ripetersi del buono nella vita, tanto più frequentemente possiamo offrirlo nelP insegnamento, e quanto più raramente la vera nobiltà riesce nella sua lotta contro ciò che è volgare, tanto più frequentemente dobbiamo rappresentare in ogni maniera Timagine della virtù e della perseveranza al mondo, affinchè si travagli per imitarla, gareggi a conseguirla, ritemperi la volontà, santifichi il cuore, nobiliti lo spirito.

Non v'ha verità che non abbia d'uopo d'essere di quando in quando ripetuta ad alta ed a tutti intelligibile voce , che non abbia bisogno di tempo in tempo di nuovi martiri. Una genera^^ione dopo Taltra cresce ed ognuna di essa ha il grande, il primo dovere di accogliere nell'animo ancor vergine il seme del buono, del bello, perchè diventi generazione va- lènte, di alti sentimenti, operosa, utile alla propria nazione ed all'umanità. Che gli uomini mutano non solo secondo il tempo e l'età, ma ancora nei loro intendimenti, in quello che meditano e vogliono, nei loro fini e nelle loro azioni.

Ora, così sembra, una generazione passa indifferente la vita in oziosa quiete e molte contentezza; ora un'altra, simile ad un torrente di lava, tenta sconvolgere la terra e si spinge,

211 -

infiammata tutta, ad ardite imprese. Ma in quella, sotto la superficie apparentemente quieta, manca la forza interna; ne in questa, fra le procelle, fra i fulmini devastatori, si scuote il solido fondamento, da cui escono i segnali di fuoco.

Quanto più bella e trasparente è la corrente che attra- versa un'epoca e commuove gli spiriti, tanto più evidente è in quel tempo anche il riflesso di una vita anteriore e si- mile, tanto più chiara si riproduce l'imagine di questa in quella.

L'intimo nesso degli spiriti, la catena non interrotta nel progresso dell'umanità a traverso ìe centinaia e la migliaia d'anni è cosa in verità meravigliosa. Il ricercare questo nesso, il seguire questa corrente non mai intermettente, sempre nutrita da nuovi rivoli, è certo una delle più serie occupazioni dello spirito umano e nel medesmio tempo una delle più sublimi, E sol chi abbia trovato questo nesso conosce la storia: egli solo vede le leggi che la governano, a lui solo si rivela l'eterna legge divina, per lui solo l'istoria dell'umanità è la manifestazione della divmiià

Ora, se ci domandiamo quali sieao oltre la nazionalità , ossia l'indole popolare, le forze che determinano la vita in- tima dei popoli occidentali in genere, se ci domandiamo, quale sia il fondamento su cui è eretto il grande e mirabile edifizio de' suoi stati, e quali siano le leve morali ed intel- lettuali, che agiscono nell'incivilimento europeo e lo spin- gono ad un continuo progresso, abbiamo una semplice e ben chiara risposta. Generalmente parlando noi osserviamo, due principali correnti intellettuali e morali , due fetenti idee che informano l'attuale nostra vita europea, vita intellettuale, morale, eminentemente civile ed umana. Quello che di ve- ramente buono noi scorgiamo neirincivilìmento moderno, le virtù disinteressate che operano in silenzio, qual manifesta- zione di cuore puro e di nobile sentimento, sono frutti dello

- 212 spirito cristiano, sono gli effetti benefici del cristianesimo. Quello che d'altra parte ci alletta e ci rapisce per bel- lezza di forma e profondità di pensiero, per naturalezza, altezza, chiarezza d'imagini, per grazia, forza e dignità di espressione nelle opere delPumano ingegno (sì nella lettera- tura, SI neirarte), quello che è bello e vero nello stesso tempo è principalmente frutto dello spirito greco, è l'in- flusso benefico deUV/Zenz^wo, propagato da un secolo all'altro per opera de'più grandi ingegni dell'uraan genere. E dovunque si portino i germi nobili deW ellenismo^ essi volentieri alli- gnano, germogliano, fioriscono e portano aurei frutti.

Il cristianesimo colla sua legge del fraterno amore verso tutti i nostri simili, legge di difficile applicazione, unito strettamente coU'ellenismo, che è a dire collo spirito greco» quale lo conosciamo dalle opere imperiture dell'arte e della letteratura greca, ha penetrato profondamente tutti i popoli dell'Europa moderna. E la forza naturale di questi popoli delle stirpi germaniche e neolatine cosi vivificata ha creato nel corso di mille e più anni un più alto incivilimento dell'uman genere; ha creato, in una parola, il viver civile dei tempi nostri.

È vero che questa èra novella vince di gran lunga l'an- tica, strettamente limitata, quanto a diffusione della cultura o varietà di cognizioni e di esperienza , e ciò in modo na- turale; ma con riverente gratitudine essa rivolge il suo sguardo, quasi figlia alla madre , a quei tempi antichi , con- templando Tinarrivata grandezza della vita puramente in- tellettuale, che vediamo nell'arte, nella poesia, nella lettera- tura della Grecia. Oggi ancora vive l'Atene intellettuale e vìvrà per tutti i tempi, prescelta dalla provvidenza ad essere per tutte le future generazioni maestra e duce di ogni cosa nobile e bella; e non è dimenticata nemmeno la sua gran- dezza politica, la sua storia, la quale ci rappresenta, insieme

213 con molte altre pregevoli cose, anche la maggior felicità ter- restre che possa un popolo conseguire : quel raro fenomeno, possibile solo allora, quando il pensiero e la vita pratica, spirito ed azione, siano strettamente uniti e dominati dalle grazie.

Questo stretto nesso tra pensiero ed azione nell' istoria dell'umana cultura e deirincivilìmento umano è un fatto da lungo tempo riconosciuto e non contestato da alcun uomo veramente coho. Ma per quanto sicuro ed indubitato sia questo fatto, e ciò per ragioni evidenti, altrettanto fermo ed incrollabile è il convincimento di tutti quelli i quali dotati di nobile sentire amano veramente V umanità e la propria patria, che senza una più profonda conoscenza dello spirito greco e delle sue manifestazioni nella vita mediante uno studio accurato, coscienzioso, amoroso dei modelli classici, intra- preso fino dai primi anni giovanili, non sia possibile una vera nobile cultura dello spirito umano e tale una'educazione della società che conduca ad una vita politica degna dell'e- poca nostra.

Quanto maggiormente si estende questa cultura classica, ellenica, e quanto maggiore occasione è dato mediante la scuola e l'insegnamento apprendere il greco in età ancor giovanile e per mezzo di abile maestro , guida sicura alla conoscenza del greco spirito creatore, e di nutrirsi di vigo- rosi pensieri ellenici invece delia vana e spesso insipida e corruttrice letteratura de'eiorni nostri, tanto più solide di- ventano le fondamenta, su cui deve poggiare il buon ordina- mento politico che sia arra certissima della prosperità delle moderne nazioni. Imperocché, rendendo più nobili le aspira- zioni delle nuove generazioni mediante un'assai elevata cul- tura intellettuale, cresce anche e va di pari passo la vera in- telligenza delle umane cose e la convinzione della necessità dei mutamenti che in esse scorgiamo, si comprendono gli

21i errori che si commettono ed i difetti che si devono emendare, e per ciò stesso si forma un retto criterio su quello che è necessario e possibile, e il tenace volere così .s'accompagna colla indispensabile riflessione, e le azioni non vanno dis- giunte dalla generosità e dall'amore fraterno.

Ed il continuo conversare coi più grandi ingegni dell'El- iade, la non interrotta nostra occupazione delle opere loro è per Tindividuo come l'iniziazione a sacri misteri^ il suo sguardo si solleva e si avvezza a considerare le alte cose ed apprezzare i piaceri intellettuali, il suo spirito s'assuefa a compiacersi di beni imperituri, delle grandi opere dell'arte e della poesia e del godimento che ci procura l'indagine delle verità scientifiche. Quello che è intellettualmente bello e vero diventa un bisogno giornaliero dello spirito, come il cibo materialmente è pei corpo, e così altri innalza stesso e tutù quelli, con cui ha frequenti relazioni, nel regno dei pensieri , nel mondo sublime delle idee.

È vero che per altra via possiamo acquistare infinite co- gnizioni, utilissime abilità ed arti lodevoli, è vero che anche da altre fonti e specialmente dalle moderne letterature, e per ogni popolo innanzi tratto dalla nazionale, deriva grande copia di utili £ necessarie nozioni ed un tesoro di sapere e di esperienza, massimamente per quella grande pane del popolo che è costretta a presto prendere parte alla vita attiva: ma la società nel suo complesso consiste di diversi ceti di cui ognuno al suo posto può e deve rendersi utile a tutti in vario modo.

Un'incalcolabile influenza sulla vita dello stato esercita quella parte del popolo, la quale sogliamo appellare il ceto colto. Il grado della sua cultura morale ed intellettuale non è soltanto la misura della cultura generale e del giudizio morale, ma anche la guarentigia d'un avvenire felice e d'un continuo, tranquillo progresso di tutti.

- 215 -

La Vera cultura influisce beneficamente su tutte le rela- zioni delia vita e le rende più nobili : essa stabilisce dei modelli per Timitazione, e la moltitudine senza accorgersene si avvezza piena di fiducia ad imitarli.

La vera cultura è un elemento efficacemente conservatore nella vita pubblica, perchè custodisce gli inalienabili tesori del popolo, il diritto e la morale, la legge, la libertà e Ta- more per la patria diletta. Essa respinge quello che ancora è immaturo, che è esagerato o dannoso. Essa guida e pro- tegge l'universale progresso per vie maturamente esaminale e ben preparate. Essa domina coir irresistibile forza dello spirito, e Io spirito è e sarà sempre il reggitore e dominatore di tutte le cose: dux atque imperator vitcs mortalium ani- mus; le sue grandi opere sono immortali come le anime : ingenii egregia facinora siculi anima immortalia sunt . (i).

Dove domina questo nobile spirito egli informa tutte le minute particolarità della vita e si riversa per ogni dove, quasi una rete di nervi vitali, infondendo ovunque vita, forza e moto. Dove domina questo spirito si svolge una sva- riatissima, ricchissima vita, che libera ed indipendente opera nella più piccola cosa come nella più grande e con piena coscienza e lieta imparte i suoi doni al benessere universale nello stato.

L'istoria d'un popolo così memorabile, come è indubbia- mente il greco, di cui senza esagerazione possiamo dire che non ha il suo pari, merita la più seria considerazione. Niun popolo, nello spazio relativamente breve d'un secolo e mezzo, ha mostrato al mondo più numerosi e più sublimi modelli di nobili pensamenti, di amore per il paese nativo, di sagrifizii fatti per la patria, di costante fedeltà ai sacri diritti e costumi, di ubbidienza alle proprie leggi, che la

(i) Sallustio, lugurtha, introduzione, i, 2.

-216 lega degli stati greci dalla battaglia di Maratona fino al grande Alessandro: niun popolo ha insieme prodotto ingegni più grandi ed artisti di maggiore rinomanza, che formarono e resero più nobile tutta la vita nazionale, di quello che fece l'Atene di Pericle.

Mi sia lecito di valermi qui delle parole di uno de' più eccellenti umanisti, di Federigo Jacobs, intorno all'eccellenza del popolo greco. Nell'introduzione all'opera sua, intitolata Eliade {i), ei così si esprime. « Come gli sguardi del Mus- sulmano credente, quando prega, si volgono verso la tomba del profeta, così gli sguardi di tutti gli amici dell'arte e dell'umanità si dirigono al sacro paese dell'ellenica cultura. Ancora quando visse questo popolo sulla terra, era circon- dato da una luce poetica che l'uomo non greco contemplava con stupore e spesso con amore: ed ora che la nazione è perita e solo ci rimangono le sue traccie, ci appare quasi come una creazione della fantasia, inventata per diiettare il mondo. Una grande parte della sua istoria rassomiglia ad un'epopea omerica e le opere che ci ha lasciato ap- paiono come maraviglie di Dei , quali il mondo non più produce. »

« Molti altri popoli sono stati più potenti de' Greci , ma, dopo il naufragio della toro potenza politica, non vissero più, fuorché ne'monumenti storici, senza esercitare influsso, e per lo più senza stima. Solo i Greci, ed i loro discepoli, i Romani, fanno eccezione. La potenza intellettuale dell' Eliade non è mai spenta, non v'ha che una Grecia^ come non v'ha che una eterna Roma. Dalle rovine e dalle ceneri degli stati

(i) HellaSy Vortr'àge uber Heimathy Geschichte, Literatur und Kunst der Hellenen, herausgegeben von £". F. Wustemann, uno dei libri più istruttivi e dilettevoli che si raccomandino alla lettura d'ogni uom colto e che scritto senza pompa d' erudizione offre propriamente , secondo un detto greco, aurei frutti in nappi d'argento.

-217 - essa s'innalza con sempre novello splendore, e come la virtù siede sulla tomba d'Ajace, così II genio della nazione ellenica siede in eterna bellezza e gioventù sulle rovine del deserto paese. »

« Il semplice considerare una tale stirpe umana , quale è Tellenica, è, come il considerare ogni opera eccellente della natura e dell'arte, cosa che allegra, che consola, che istrui- sce. L'ardente amor di patria , l'altero disprezzo del pe- ricolo, la santa venerazione anche per le leggi più severe che dominava gli animi dei cittadini di Sparta-, la illuminata, morale cultura, la cui sede fu Atene, l'intimo nesso che esi- steva fra il più squisito sentimento dell'arte e la più vigorosa energia dei sensi, della dignità colla grazia, della severità colla mitezza, della profondità con la facilità de'modi, quest'unione veramente unica delle più belle qualità del genere umano non cesserà mai di attirare gli sguardi, finché nel mare de' tempi si troverà una parte della sua storia. Sparta, Atene, ognuna un centro di particolare cultura morale, attireranno sempre gli animi. »

« Udendo i nomi un Licurgo e di un Solone, di un Milziade e di un Leonida , di un Temistocle e di un Ari- stide, di un Epaminonda e di un Pelopida, di un Focione, di un Timoleonte, di un Demostene e di un Cleomene, ogni animo si solleva e considera stupito i tempi, in cui poterono nascere que' giganti di patriottica virtù. Nella splendente luce ch'essi spargono intorno a non si vedono le macchie proprie d'ogni fenomeno terrestre e i mali che travagliarono gli stati dell'antichità si dimenticano, quando godiamo i mirabili prodotti del suolo greco. »

« Ancora più splendido e più sicuro ci appare l'influsso della cultura ellenica sul mondo letterario : fu tale il genio di questa ed operò tanto potentemene , che dovunque egli rivolgesse i suoi passi, si sentiva un energico movimento, si

- 218 diffondeva novella luce, e negli animi nobili eccitavasi più bella attività. E veramente in ciò appunto sta il meraviglioso della cultura intellettuale e dell'azione del genio, che si rinnova e si propaga mediante il contatto e mette radice ovunque trova gli animi accessibili ed un puro amore. »

« Perciò la Grecia non è ancora perita, essa vive in ogni anima nobile, e (Jalle opere de^suoi figli geniali emanano puri raggi, come la luce eterna del cielo che nelle anime no- bili accendono un fuoco sacro e fanno germogliare il seme del bello e del nobile. »

Ed infatti Pinflusso non interrotto dello spirito ellenico sulla cultura delFuman genere, questo continuo ringiovanire degli spiriti mediante lo studio dei monumenti delParte e della lingua greca, questo influsso veramente grande e sublime è un momento storico della massima importanza, è l'opera stessa della provvidenza.

Consideriamo un momento le creazioni di questo spirito. E innanzi tratto va osservato, che il popolo greco, il popolo più intelligente del mondo, in tutte le parti dell'umano sa- pere o ha aperta la via ovvero le ha in modo notevole trasformate od estese.

Primo il greco ha coltivata la scienza per stessa. L'inda- gine scientifica fu per lui un atto della libertà umana, ed è per ciò che seppe creare con forza geniale la scienia del sapere^ la filosofia. Da questo tempo per Tinesauribile forza creatrice di questo spirito fu scoperto il regno sublime, indistruttibile del puro pensare, e chi una volta si sia elevato fino all'aure pure di questa vita dello spirito può contemplare la pro- fonda, divina armonia dell'universo, come un viandante dalla vetta del monte contempla rapito un paese che ai suoi piedi deliziosamente s'estende colla sua luce e colle sue ombre.

11 Greco ci ha insegnato a scrivere istorie, ed a lui dob-

219 biamo l'arte déiV eloquenza II Greco ha dato per tutti i tempi il metodo a tutte le scienze piuttosto pratiche. Alla matema- tica , come alle sciente naturali , ha insegnato il modo con cui devono essere trattate, ed anche la materia degli studii più pratici ha saputo svolgere così maestrevolmente, che senza tema di errare possiamo farci suoi scolari. E per questo che anche presentemente i grandi matematici della Grecia servono come stella polare ai discepoli di questa scienza (i) e non a torto un grande maestro delle matematiche discipline ha ri- chiesto un esatto studio della lingua greca come indispensa- bile anche nelle scuole tecniche (2). Anch'oggi il medico che pensa ricorre alle opere di Ippocrate -, e per quanto sia pro- gredita la odierna medicina riguardo alla parte tecnica me- diante le invenzioni del nostro secolo, pure lo sguardo sicuro, la chiara osservazione, le idee del celebre uomo di Coo sono anche presentemente encomiati come cosa non superata.

Ma appunto la chiarei\a delle idee costituisce uno dei pregi maggi' ri dello spirito greco. Come una corrente del puro etere la sensitiva anima greca accoglieva i risultamenti dell'osservazione, i quali si trasformavano in essa ora in vivo pensiero, ora in viva immagine, ed appunto per ciò tutte le

(i) Con buona pace di certi accaniti avversarii d'Euclide.

La Direzione.

(aj Nelle nostre scuole tecniche non si introduce nemmeno il latino, sebbene gli esami d'ammissione alle facoltà matematiche prescrivano la cognizione del latino per coloro, che, provenendo dalle scuole tecni- che, vogliono attendere agli studii universitarii di matematica. È una anomalia questa, che dovrebbe cessare, anche quando lo studio del la- tino non fosse indispensabile per ben comprendere l'italiano e non fosse la migliore prepara^^ione allo siudio di tutte le altre favelle neolatine. Non si potrebbe introdurre l'insegnamento della lingua latina nelle scuole tecniche, almeno come materia libera, per far cessare l'incon- veniente soprannoiato e dare un più solido fondamento alla cultura letteraria dei discepoli di quelle scuole, che ne abbisognano davvero?

La Direzione.

220 sue produzioni sono opere vive, e portano l'impronta della massima perfezione: esse sono belle e vere.

Da quell'indole intellettuale , da quel puro modo di con- cepire e dal modo ideale di rappresentare (intimamente uniti colla più feconda fantasia ) risulta quella mirabile ar- monia, quella pienezza e varietà , quella bellezza e grazia , quell'altezza e sublimità che regnano nei capolavori della letteratura greca , non mai troppo frequentemente celebrati , rivestiti come sono d'eterna bellezza.

Ogni loro forma è nuova , ed ogni loro forma è bella ed in tutto ubbidiscono ad una legge, al senso non corrotto di ciò che è nobile, bello e moralmente puro.

Donde quella inarrivabile altezza delle creazioni artistiche, nell'arte della pittura e nella plastica, come nella poesia e nella prosa. I soli Elleni sono riusciti ad ispirare la vita al m.armo, a dare al bronzo movimenti dolci e vigorosi. Quello che Tarte moderna ha prodotto, specialmente nella plastica, ed a grande gloria de"* secoli, essa io deve allo studio esatto ed alla fedele imitazione dei monumenti antichi. E quello an- cora, che negli utensili della vita giornaliera ci attrae per la bellezza della forma , è imitazione di vasi greci , diventata frequente, dacché, specialmente in Italia, la terra s'aperse e ci ridonò le opere antiche sepolte sotto la polvere o la ce- nere di lava.

Ma in modo uguale come l'opere d'arte ed anche più estesamente ci attraggono le creazioni intellettuali degli El- leni pervenuteci nei monumenti della lingua e della lette- ratura, monum.enti il cui influsso è evidente ad ognuno che consideri come l'occidente è progredito in modo da riuscire nel complesbo della sua cultura sem.pre più illumi- nato e nobile.

Il Greco ha creato l'arte della prosa^ dacché ha inventata la struttura artificiosa dei periodi, e, primo, ha espresso i

221 - pensieri con la piena forza della parola e con acconcia connessione delle singole parti, dalla quale risulta la viva- cità del discorso.

Il Greco ha svolto la poesia in quelle svariate forme che tutte le letterature moderne hanno accolte: egli ha stabilite le norme per le poesie serie e per le liete , per le scherze- voli e per le sublimi, norme che poi furono generalmente accettate e riconosciute. Chi fra i moderni ha saputo più fedelmente imitare questi eterni modelli ne ha coito im- peritura gloria, ed i contemporanei ed i posteri hanno co- ronato d'alloro le sue tempia.

Centinaia di melodie , migliaia di versi , ora scherzevoli ed or serii, tali da allettare e da scuotere gh animi, scatu- rirono dall'entusiasmo de' cantori ellenici : la più bella e la più ricca delle lingue scorreva più dolce del miele dalle labbra dei poeti in mille ritmi pieghevoli ad ogni slancio del genio, melodiosi come il canto dell'usignuolo, o dura e rimbombante come il passo delle Eumenidi.

Già la lingua greca per se sola merita lo studio più se- vero, la più seria applicazione. Chi non conosce la lingua greca non conosce , per ciò che spetta ai linguaggi , la creazione più nobile e più perfetta del genio umano, spinto dal soffio divino. Per chi non sente, per chi non è com- mosso, rapito, tratto all'entusiasmo dalla grazia e pieghe- volezza, dalla forza e maestà della lingua greca, valgono le parole messe da Goethe in bocca al suo Tasso :

Mancane, ahimè, le Grazie, e chi non abbia Di queste Dive i doni aver può molto E molto dar, noi nego, e pur non lice Mai quieti posar sopra il suo seno.

(Atto 2^, scena >»}.

Ed ora ricordiamoci dei tesori che son riposti in quel prezioso vaso che è la lingua greca, ed innanzi tutto dei

l^viita di filologia ecc., I, i6

- 223 - gioielli della poesia greca , quella poesia che prima potente- mente scosse lo spirito della nazione, e destò le sue piij nobili forze, e, siccome accompagnava la vita in tutti i suoi sttdii, la innalzò a quella sublime altezza che tutta resi- stenza di questo popolo eletto vi fa sembrare una me- ravigliosa poesia. Imperocché avendo tutta la cultura greca origine dalla poesia, e innalzandosi sempre più e più questa poesia stessa nei diversi periodi dello svolgimento del po- polo greco per giungere alla perfezione e maturità virile , lo splendore ond'essa era cinta irradiava tutta la vita ed il contatto con essa abbelliva , vivificando, ogni atto della na- tura intellettuale. In Grecia tutti gli elementi della cultura facevan sempre ritorno all'entusiasmo poetico, che, come il sacro fuoco di Vesta ardeva in mezzo alle città, così alzava le sue fiamme in mezzo alle arti ed alla vita.

Se adunque vogliamo conoscere l'intima natura della poe- sìa ed il suo naturale progresso nel libero suo svolgimento, dobbiamo sempre rivolgere i nostri sguardi indietro ai Greci.

E ciò fecero e fanno, quasi spinti da un' interna, invisi- bile forza tutti i popoli civili , che dopo i Greci compar- vero sulla scena del mondo e furono i reggitori e duci di esso e della sua storia.

Roma, l'antica, eterna Roma, risuonava delle lodi della Grecia, e solo dopo avere ospitalmente accolto nelle sue mura il genio dell' Eliade Roma vittoriosa divenne padrona del mondo.

I fondatori della chiesa cristiana (la quale prima e me- glio e più sicuramente che altrove prosperava sul terreno preparato dalla cultura greca), i padri della medesima, or- namenti e colonne di essa, erano, in parte almeno, nella loro gioventù i migliori discepoli di scuole greche; studiando la letteratura ancor fresca dei loro antenati erano pervenuti a quell'alto grado d'intellettuale cultura , che valse cotanto a

223 - renderli capaci di operare così potentemente per la diffu- sione od il consolidamento del cristianesimo, in modo che i loro nomi sono intimamente e rimarranno eternamente uniti con questo istesso. Le loro opere dimostrano non solo la loro viva fede, ma anche il loro caldo amore e la loro pro- fonda conoscenza dell'antichità greca.

Dovunque in séguito ha vinto ed era fiorente la chiesa cristiana, le sue vittorie erano dovute in parte non lieve alla nobile cultura de' suoi capi e difensori. I grandi papi del medio evo, la lunga serie di magnanimi e potenti vescovi ed arcivescovi che adomano la storia della chiesa cristiana erano i rappresentanti della cultura universale, della classica; la loro grandezza intellettuale diede a loro potenza e do- minio. Roma non dominava il mondo soltanto per la forza del carattere de' suoi abitanti , essa dominava nello stesso tempo per la somma intelligenza de' suoi capi e cittadini. Alla perseverante diligenza del clero ed al suo amore (che or quasi sembra non più vivo) verso la scienza ed alle sue celebri corporazioni, soprattutto ai Benedettini andiamo in gran parte riconoscenti, se i monumenti scritti della Gre- cia furono salvati e maggiormente diffusi. Essi ci hanno dati nel medio evo, ed in parte anche ne' tempi moderni, splendide opere di erudizione classica. E quando nell'avvi- ccndarsi necessario delle umane cose si mutò lo stato po- litico dell'occidente, quando la Grecia intellettuale risorse, non fu l'Italia quella che precedette tutte le altre nazioni nella via del risorgimento a nuova vita dello spirito, e, prima, creò una splendida letteratura, aprendo nel medesimo tempo nelle sue chiese e ne' suoi palazzi novelli templi dell'arte rinata ?

Ovunque più tardi si pensasse a seriamente cohivare le scienze, ovunque fiorisse la poesia ovvero si svolgesse l'arte, la sapienza greca, l'entusiasmo greco, il sentimento greco

224 -

furono quelli cLe diedero anima e vita alle forze nazionali. E prove ne sono le grandi epoche nella storia delle lette- rature moderne, deir italiana , della francese, dell'inglese, della tedesca, dell'olandese,

I più grandi uomini di tutte le nazioni hanno deposto il tributo dei loro più fervidi ringraziamenti davanti ai templi della sapienza e della cultura ellenica. Centinaia , migliaia denomini si arricchirono e si arricchiscono degli inesauribili tesori ch'essa diede e loro, pur essendo inconscii della fonte da cui provengono. Non mai interrotta fu la corrente, con cui lo spirito greco rese più nobili tutti gli sforzi del genere umano.

Se si voglia comprendere in parole il più grande, il più serio insegnamento che l'intiera storia ai singoli uomini come agli stati in tutte le varie condizioni, possiamo ripe- tere la sentenza dell'antica sapienza greca: Tener misura è buona cosa ! il divino Omero meglio che alcun altro poeta la annunzia, e la ripetono esortando ed ammonendo le scuole filosofiche, gli oratori e gli storiografi, e, più che ogni altra opera scritta, la più perfetta, come la più commovente delle produzioni dello spìrito greco, la poesia tragica. Fé» lice colui che l'accoglie e la mette in opera fino da quando comincia a pensare ed a meditare ! Felice colui che nel principio de' suoi studi viene introdotto in quella palestra intellettuale che è la lingua e letteratura greca, che meglio d'ogni altro studio addestra alle nobili lotte spirituali ! Beato il popolo la cui gioventù , speranza della patria , s'invigo- risce e si nobilita nella severa j ma lie^a disciplina delle scuole classiche! È antico detto di un Romano il seguente: « Qual migliore servigio si può rendere allo stato, che edu- cando la gioventù, che col fiore delle sue scuole crescano le speranze del paese ? » Ed io ho detto con pieno convin- cimento :« delle scuole classiche ». Se negli ultimi tempi an-

-225- che una riunione naturalisii ha espresso il timore che Toccupazione troppo esclusiva delle scienze così dette posi- tive, delle discipline matematiche, fisiche, naturali, possa recar danno alle tendenze ideali , risvegliate e mantenute vive appunto dallo studio de' classici, il fondamento di questo timore sta in ciò, che il metodo piuttosto tecnico e profes- sionale di queste scienze è già penetrato nella trattazione di esse, e che questo nuoce airumanismo ed alle belle lettere, pericolo tanto più grande quanto maggiormente si estende il male principale del nostro secolo, che è la 7tX€ov€Sìo.

E poi da avvertire che, secondo l'unanime parere di tutti gl'intelligenti, una solida base di studii classici è anche la migliore preparazione a fatti studii tecnici, ed al loro eser- cìzio nella vita pratica: perciò non puossi che far voti affin- chè una nuova gara in questi sradii fra i popoli al di qua ed al di dell'Alpi possa segnare un nuovo e splendido periodo nella vita di essi.

Monaco di Baviera, ottobre 1872,

G. M. Thomas,

COV^Sin)E%AZIO^I

SULL'ISTRUZIONE, SOPRATTUTTO CLASSICA, IN ITALIA

a proposito del recentissimo libro di M, BRÉAL

sulV istruzione pubblica in Francia

(Continuazione, v. iascicolo 1°, p. g-sS).

II,

Indizio certissimo, effetto e poi causa nuova di leggerezza intellettuale veramente deplorabile sono, non meno che le tendenze soverchiamente pratiche dei nostri studi, gl'istinti retorici che tiranneggiano, sfruttandole, nelle scuole italiane e francesi colla potenza propria sempre delle tradizioni ,

226

delle istituzioni vigenti da secoli. Ad entrambe ie due grandi nazioni dell'Europa neo-latina si addice il rimprovero che M. Bréal muove alla sua patria: « Tous ceux qui connais- ssnt notre instruction publique avoueront que la plaie dont nous souffrons le plus, non pas seulement à Técole primaire, mais à tous les degrés de Tenseignement, c'est le verbalisme. Trop de motSy pas asse\ de choses: sous les mots nou'^ ne voyons pas les choses qu'ils recouvrent, et le langage, au lieu de nous servir à découvrir la réalité, le plus souvent nous la dérobe » (i). Le conseguenze sono fatali. « On ar- ri ve ainsi à élever une nation qui s'attribue volontiers, à ses heures de satisfaction , le don de la netteté et de la préci- sion; malheureusement il est plus exact de dire qu'elle a le goijt des généralités et d'une certaine logique tonte for- melle. Sur tous les sujets du monde nous avons une quan- tité de phrases faites par avance, et qui passent de bouche en bouche come étoffe et comme aliment de la conversation. On les retrouve dans les journaux, dans les livres, à la tri- bune. Elies viennent s'interposer, à la facon des idées repré- sentatives de Malebranche , entre la réalité et notre esprit. Bien des gens som si peu habitués à se servir de leur intel- ligence et ont la tete si remplie d'expressions qu'on les voit ordinairement occupés non à penser, ni à chercher des mots pour leurs pensées, mais à attendre la pensée d'autrui pour y fìxer une des^.nombreuses phrases qu'ils tiennent en ré- serve. Si Tidée qu'on leur présente se refuse à cette sorte d'enregistrement, ils la tournent et retournent assez long- temps pour qu'elle se dépouille de ce qu'elle a d'insolite, et ils finissent par la faire entrer, mutilée ou travestie, dans le moule inévitable » (2). profonde radici ha questo

(ij Op. cii. , p. 106-7. (2) Op. c//.,jf>. 107-8.

227 vizio, SI largamente si estende ed è urgente il bisogno di estirparlo, che i nostri intelligenti e cortesi lettori ci per- doneranno indubbiamente le minute considerazioni a cui ci accingiamo intorno a fatto argomento,

1 primi sintomi, e già notevoli, di questo morbo ci appa- riscono nelle scuole elementari, cui rende inette a conse- guire non lieve parte del loro scopo. Il quale consiste nei preparare, con acconcia educazione ed istruzione, alla vita pratica ed agli studi ginnasiali e tecnici. E compito pertanto di queste scuole svolgere regolarmente !e potenze dello im- maginare, del sentire, deirosservare (i), del ragionare (2),

(i) Ci si permetta d'insistere su questo dovere che sembra poco noto a tanti istitutori, i quali dovrebbero finalmente convincersi che: i»è di suprema importanza, nella vita de)''azione in quella del pen- siero, il possedere l'attitudine e l'assuefazione ad osservare come con- viensi; 2" che questa pratica , quest'abito non si acquistano se non per mezzo di lunghi e ben diretti esercizio Questo studio delle cose è parte importantissima della pedagogica moderna. V. le belle pagine che il Bréal consacra a questo argomento {Op. cit., p. io6-t3). V. ancora i giudizi che intorno alla assoluta necessitA di siffatto studio pronunzia- rono Gomenius, Basedow, Pestalozzi, Fellenberg (DoUfus , Ètudes sur la pédagogie allemande , nella Revue germanique , t. V, p. 520-66). Come e quanto si eseguiscano questi esercizi! di osservazione nelle scuole americane, degnissime in ciò di essere imitate, impareranno i precet- tori dal Rapport del signor Hippeau sopra L'instruction publique aux États-Unis (Paris, 1870, p. 49-60, 373 esegg., 398-401): agli Ameri- cani furono maestri gì' Inglesi , presso i quali queste lessons on objects diventano sempre più comuni, come c'insegna il medesimo autore {L'instruction publique en Angleterre, Paris, 1872, p. 46).

(2) « Éclairer le patriotisme, faire aimer le devoir pour lui-mSme , fortifier la confiance et le respect, appeler l'admiration des enfants sur les mérites solides et vrais, ouvrir les esprits à l'inteliigence d'une si- tuation, l'instituteur peut donner ces le9ons sans s'écarter du sujet de sa classe et sans que l'élève aper90ive l'intention didactique. On nous preparerà ainsi des générations plus sérieuses et plus mùres... Ceux qui croient que le peuple aura plus de bon sens si on le maintient dans l'i- gnorancs, se font une idée étrange de notre raison: comme toutes les autres facultés, elle a besoin d'étre aidée par ceux qui nous ont précè- de» dans la vie et d'étre exercée par l'usage Je suis loin de deman- dar que le maitre d'école se change ep horame politique et initie ses

~ 228 - del volere . spetta ad esse oltracciò rendere atti i fanciulli a parlare ed a scrivere correttamente e senza stento il patrio idioma, comunicar loro le prime nozioni di aritmetica e di geometria, di scienze naturali ed in ispecie di geografia e di storia, ed avvezzarli a riflettere intorno a certi grandi con- cetti onde appariscono irradiati di splendida luce doveri e diritti.

Se le odierne scuole elementari siano pari od impari al loro ufficio, quale tentammo descriverlo, giudichi lo esperto lettore ; noi ci staremo paghi di osservare col nostro autore che; « L'écoie qui jette dans la vie des enfants munis d^une instruction banale et superficielle ne mérìte pas le nom d'in- stitution nationale. Partout un enseignement public est solìdement constìtué, de quelque esprit qu'il soit anime d'ail- leurs, nous voyons qu'il porte ses vues au delà du seuil de la classe, et qu'il cherche à marquer de son caractère les

élèves aux discussions des partis. Je voudrais au contraire que toutes les influences de la polttique militante vinssent s'arréter non-seulement devant la classe, mais devant la maison de l'instituteur. Il exercera la raison de ses écoliers comme le maitre de gymnastique développe la vigueur et l'agilìté musculaires de ses éièves. Quel parti aura à se plain- dre si i'on enseigne dans i'école en langage clair ei par des argumenis accessibles aux enfants qu'il fautpréférerla patrie à scn parti, qu'il faut, ea route occasion, mettre les iaiéréts permanems du pays au-dessus d'un avantage passager, qu'on doit respecter les opinlons d'autrui pour obte- nir ie respect de ses propres convictions, qu'il faut reteplir ses devoìrs si I'on veut éire écouté quand on parie de ses droits? N'est-ce pas un enseignement dont la France entière profilerà? mais il ne doit pas se donner par sentences; questionnez l'enfant, obligez-le à trouver les ré- ponses par iui-méme, faites-lui d^à objections pour qu'il réfléchisse sur son opinion et pour qu'il apprenne à la défendre. De cette fa9on vous lesterez ces jeunes tétes de quelques notions fondamentales, qui les em- pécheront de fletter un jour au vent de ".ous les entratnements et de tous les sophismes. Pour coaabien ces notions seront ies seules désintéres- séesqu'ils recevrontsur ce sujet! Car dans la suite de la vie c'est parmi ies atHrmations contradicioires des pariis et au milieu des raisonne- ments de l'ambition et de la mauvaise foi qu'ils seront obligés de démé- ler la vérité. « Bréai-, Op. cit. , p. i23-5.

- 229- génératìons nouvelles » (i). E. quando troppo Imperfette sono la educazione e la istruzione dei molti, strana follia ci sembra la speranza ch'esse possano concorrere efficace- mente a liberarli da quei pregìudizii, i quali, più che altri non creda, sogliono nuocere alla conservazione ed al perfe- zionamento dello individuo, della famiglia, dello stato (a): a fatta redenzione non gioveranno guari certamente le amplificazioni retoriche, i versi, senza poesia, male intesi e peggio recitati con monotona cantilena e con tedio infinito di chi è costretto ad assistere a certi esperimenii, a cerre feste che osano appellare di pubblica istruzione! Delle quali è fattamente noioso pur li semplice ricordo che ci affret- tiamo di abbandonare lo ingrato argomento e di venire a discorrere degli studi che si fanno e di quelli che si do- vrebbero fare nel ginnasio e nel liceo.

Doppio è lo scopo che ad essi vuol essere proposto : con- tinuare a svolgere con opportune esercitazioni le facoltà della mente e del cuore-, convertire i fanciulli, appena ini- ziati allo imparare, in giovani colti , atti , pel loro grado di attività mtellettuale, per le cognizioni acquistate, a compiere degnamente parecchi onorevoli ufficii sociali e ad intraprendere gli studi superiori e speciali cui debbono es- sere copsecrati gli atenei. Ora gran parte dello insegnamento liceale e quasi affatto quello del ginnasio h^nno ad oggetto le lingue e le letterature greca, latina, italiana : vediamo per- tanto quali frutti si raccolgano da questo lungo è faticoso lavorìo, e, innanzi tratto, quanto e come si impari a cono- scere i più grandi autori della Grecia e dell'Italia antica e

(i) Op. cit. , p. M7.

(2) " Nous veuons d'assister au plus grand débordement d'erreurs et de mensonges qu'aucun teraps ait ptut-étre jamais wi.... De tels éga- rements ne démontrent-ils pas qu'il y a une lacune dans le systèroe d'éducation nationale ? » Bréal, Op. cit., p. 11 5.

- 230 - moderna. Chiunque non si pasca delle vane illusioni cui genera troppo spesso la lettura di certi programmi e pos- segga un esatto concetto di ciò che per lo più si fa nelle nostre scuole secondarie ammetterà necessariamente con noi che sono vere, sciaguratamente vere anche in ordine agli sludi classici dei ginnasii e dei licei italiani le osservazioni seguenti del Brcal: « Sur les programmes de nos lycées, nous voyons (ìgurer une serie fort honorable d'auteurs la- tins et grecs. Dans les circulaires de nos ministres et dans les discours de nos professeurs, les chefs-d'oeavre de l'an- tiquité sont continuellement cités et vantés. Homère, Platon, Démosthène, Eschyle, Sophocle, Euripide (i), Virgile, Ho- race, Cicéron, Tite-Live, Tacite, sont l'aliment de nos jeunes collégiens. Mais si vous entrez dans la classe, vous voyez que ces écrivains y tiennent, en somme, une place assez modeste » (2). Appena occorre accennare come assai meno ancora che i latini si leggano gli scrittori greci. E a buon diritto chiede il Bréal : « Est-ce avec six dialogues de Lu- cien, la moitié d'une vie de Plutarque, la moitié de deux chants d'Homère, une tragèdie d'Euripide et une autre de Sophocle, et le commencement d'un discours de Dé- mosthène, lentement ànonnés en cinq ans, qu'on prétend apprendre la langue la plus riche et la plus variée qui ait jamais existé? Ces moyens, déjà insuffisants pour le latin, deviennent dérisoires pour le grec » (3). E, siccome l'a- more del vero ed il proposito di significarlo con libera

(i) Vuoisi per altro notare che, per quanto concerne gli autori greci, i nostri programmi sono ben più modesti che non quelli onde fa cenno il Bréal.

(2) Op. cit. , p. 211- 12. V. anche la recentissima Circulaire di J. Simon [Journal officici de la République frangaise , 3 ottobre 1872, p. 63o9).

(3) Op. ciL , p. 228.

- 231 - schiettezza alla patria nostra vale in noi ben più che l'or- goglio nazionale, così osserveremo che noi, italiani, avremmo già ragione di rallegrarci se in tutti i nostri licei si faces- sero le letture greche onde il Bréal notò la insufficienza: che dei candidati, i quali si presentano fra noi agli esami di licenza liceale, i più non hanno tradotto che qualche fa- vola esopea, qualche dialogo di Luciano, poche pagine di Senofonte, ne guari maggior numero di versi omerici! E sin delle opere letterarie dell'Italia moderna quanta parte non resta ignota ai giovani italiani! Ma il legger poco sa- rebbe minor sciagura se almeno troppo spesso non si leg- gesse male. E veramente avviene non di rado che si pro- pongano agli alunni come oggetto di studio e talvolta come modelli di bellezza letteraria autori di secondo o di terzo ordine, mentre non si richiama in egual modo la loro attenzione sopra i più grandi: così vedemmo assai sovente Cornelio Nipote onorato di un culto che si negava a Cor- nelio Tacito! E, quasi scarseggiasse o si avesse a schifo la legittima latinità, non rade volte le si sostituisce la bastarda colla sua freschezza di vecchia imbellettata (i). A ciò si aggiunga che spesso l'ordine, giusta il quale si fanno agli allievi delle nostre scuole classiche secondarie leggere i sin- goli autori, cozza colle più elementari ed evidenti leggi pe- dagogiche, le quali c'impongono di procedere sempre con saggia gradazione dalle minori alle maggiori difficoltà. Si leggesse almeno per intero qualche grande scrittore, almeno un'opera di es'io, almeno una parte compiuta di un'opera! Ma troppo spesso accade che ai poveri alunni non si gettino

(i)« Je suis d'avis quf les recueils da morceaux choisis, les Excerpta, les Conciones, ies Seiectae , et surtout les ouvrages composés en latin par des auteurs modemes, à l'usage des joUéges, doiventetre abandon- nés. II faut étudier une liitérature dans ses chefs-d'oeuvre, et prendre pour maitres d'une langue ceux qui la savent. » (J. Simon, /. c.)>

- 232 se non le bricciole cadute dalla mensa dei classici (i). Non basta ancora : manca per lo più la necessaria preparazione a comprendere un autore, un lavoro letterario-, manca tal- volta gran pane de' commenti che più si richiedono ; manca troppo sovente una buona edizione dello autore che s'inter- preta, perchè fra i maestri v'ha ancora (sebbene ormai sembri impossibile) chi crede non necessaria alle scuole gin- nasiali e liceali la scelta d'un testo corretto, o aggiusta fede alle stupide e svergognate calunnie colle quali osasi talora insultare l'opera emendatrice di critici moderni (2). Indi la

(1) « On est surpris quand on rapproche de cet état de choses les usagcs de nos voisins. " 11 fautqu'en seconde (laquelle, il est vrai, dure souvent deux ans) les élèves aient vudix livres deTite-Live, et tn pre- mière quatorze discours de Cicéron, ainsi que le De Officiis. » Qui parie ainsi ? Non pas un utopiste, un réformaieur; mais un professeur ren- dant compie de sa pratique. Dans le cours des études du gymnase, d'a- près le règlement prussien, Homère doit étre lu tout entier. Trois tra- gédies grecques, en un an, ne paraissent rien d'excessif. Dans le Ha- novre, à Texamen qui répond à notre baccalauréat, on exigeait des can- didats, généralement àgés de dix-sept ans, qu'ils eussent lu les traìtés de philosophie et de rbétorique de Cicéron , Salluste, Tite-Live, l'É- néide, les odes d'Horace, l'iliade, l'Odyssée, Hérodoie, l'Anabase, les Mémorables, quelques diaiogues de Platon. Nous avons peine à nous figurer de telles lectures. Mais il taui songcr qu'en Allemagne la dasse est débarassée d'une quamité d'exercices qui encombrent la nótre, A l'étude, rélève Ut ses auteurs, note à la raarge les passages qu'il ne com- prend pas, de sorte qu'on passe avec une grande rapidité sur les en- droits faciles. » Bréal, Op. cit., p. 214-5.V. anche Hippeau, L'wstruc- tton pitblique aux États-Unis^ p. 4o3.

(2) « Un genre de commentaire déjà recommaadé par RoUin, ce soni les observations sur l'histoire et la constitution du lexte. Il est bon de dire aux élèves des ciasses supérieures par quels manuscrits un chef- d'ceuvre est venu jusqu'à nous. par qui il a été d'abord publié, corrige. L'ignorance de nos élèves, sur ce sujet, est complète; quelquefois aussi celle des maitres. Je pourrais citer à ce sujet des passages tirés despré- faces de nos éditions scolaires, qui montrent que notre éducation est à refaire sur ce point. On trouverait des professeurs qui croient que les éditions du quinzième siècle sont les plus conformes aux anciens ma- nuscrits. La plupart se débarassent du travail d'éditeur par une phrase SU" les témérités de la critique moderne. >• Bréal, Op. cit. , p. 219.

- 233-

ignoranza, indi Tawersione, che si rivelano chiaramente nella maggior parte dei giovani per ciò che atiiensi agli studi classici: poco hanno appreso a conoscere il valore delle due grandi letterature greca e latina, soprattutto della prima, e riesce loro difficile lo intendere gli scrittori del Lazio e della Grecia (i), che, usciti delle scuole liceali, i più si rallegrano di essere finalmente liberi dal noioso do- vere di studiare, con scarso profitto, greco e latino (2). E sapete voi la cagione per cui queste povere vittime dei pre- giudizii altrui poco si addentrano nel santuario della clas- sica antichità? Osservate con quali intendimenti si facciano studiare i capolavori delle lettere greche, latine, italiane, e vedrete che troppo spesso si leggono nelle nostre scuole se- condarie non altramente che quali modelli di lingua e di stile, come se i grandi poeti , storici , oratori , filosofi della Grecia e della Italia antica e moderna non valessero ad educare, ad istruire la nostra gioventù se non come maestri di grammatica e di retorica! Indi si scorge come un ma- laugurato studio della parola soffochi quello dei fatti e delle

(i) « L'élève, invite à gouier les douceurs de la poesie et la séductlorì de l'éloquence, ne sent que mieux le contraste entre les jouissances qu'on lui vante et la phrase grecque qu'il a sous les yeux, et dont il ne parvient pas à débrouiller la construction et à reconnaitre les mots. » Bréal, Op. cit. , p. aaS.

(2) <i Comment veut-on que notre jeunesse apprenne à connattre et à-ainier l'antiquité quand on la lui sert ainsi découpée en raorceaux, et quand le plaisir qu'elie pourrait prendre au peu qu'elle en voit està cbaquc instane troublé par des préoccupations de style et des airiòre- pensées de traduction ? Corament nos bons é!èves orendront-ils en af- feciion quelque auteur latin ou grec , et le choisiront-ils pour lecture favorite, quand ils sont sous la j^luie continuelle des versions? C'est là, il n'en faut pas douter, la cause principale pour laquelle, malgré lant d'années de collège, l'antiquité est si peu connue chez nous ; c'est pour cela que , hors da lycée, les auteurs classiques ne sont guère lus de per- sonne, pas memede ceuxqui font métier d'enseigner le grec et le latin.» Bréal, Op. cit. , p. 213-4.

-234 idee: malaugurato abbiamo detto, perchè non solo ci ap- pare soverchiamente esteso a danno di altri studi, ma ezian- dio ci sembra ben lungi dallo arrecare que' vantaggi che molti da esso si ripromettono. In primo luogo soglionsi nei nostri istituti didattici imparare le lingue con metodi per lo più affatto empirici , i quali per la loro intima irrazio- nalità sono necessariamente inetti, come Tesperienza e la ragione dimostrano, ad educare convenientemente lo ingegno giovanile : ma di questo argomento discorreremo nella terza parte di queste nostre Considerazioni. Secondariamente puossi affermare, a nostra vergogna, che non solo non si ottiene una cognizione teoretica delle favelle che sono og- getto di lunghi studi alle nostre scolaresche , ma ge- neralmente non si impara nemmeno ad intendere i più semplici prosatori greci ed i men facili tra i latini, a scrivere senza stento e con un po' di eleganza la lingua dei nostci padri, in otto anni di esercizii grammaticali e retorici intorno allo idioma dei Lazio, idioma che ormai sembra in Italia più difficile del basco! (t). Splendide, troppo splendide prove di questa nostra asserzione sono gli sforzi erculei, e non di rado assai poco avventurali, che costa a buon nu- mero de' nostri studenti liceali l'interpretazione di pochi versi latini, e più ancora gli spropositi, quasi incredibili, di prosodia, di sintassi , di coniugazione ed anche di declina- zione, che, come spesso suole avvenire, i padri stessi, seb- bene non abbiano da molti anni riletto una regola del loro Nuovo metodo una pagina di autore latino, correggono, scandolezzati, ai proprii figliuoli, usciti appena del ginnasio, del liceo, od ancora ammaestrati nello idioma latino e co-

fi) È noto che l'autore di una grammatica basca intitolò quest'opera sua : " Lo impossibile superato, ossia Grammatica della lingua basca ■!

- 235 - stretti a studiarlo (i), allorquando questi leggono i proprii lavori nella lingua degli avi nostri. Che lo studio dei classici, soli maestri di veramente antica romana eleganza ai futuri latinisti, è ora fatto in guisa affatto insufl&ciente a conseguire questo fine; gli esercizii di versione dallo italiano in latino non sono per lo piià abbastanza frequenti saggiamente or- dinati, sì che non riescono ad infondere negli allievi una pratica conoscenza di tutte le leggi grammaticali più impor- tanti, di tutte le voci e le locuzioni più utili (2) -, le compo- sizioni latine finalmente, a cui la lettura assidua de' grandi scrittori romani, Tabito di tradurre dal patrio idioma in quello del Lazio prepararono convenientemente i più degli studiosi, non altro evidentemente possono essere che un lungo, penoso, ingratissimo lavoro ed insieme una prova di deplorabile ignoranza (3), E ciò vediamo avvenire in iscuole

(a) Di questo deterioramento innegabile negli studi ginnasiali di lingua latina, delle cause di esso e dei mezzi alti a cessarlo già discor- remmo nella prefazione alla nostra Grammatica stoi-ìco-comparativa della lingua latina ecc., Torino, 1872, p. vm-xu.

(2) Assai meglio si provvederebbe ai bisogni degli s'udenti se si fa- cessero, in iscuola, tradurre a voce in latino i temi dello Schuitz: rac- comandiamo in ispecie ai maestri la Raccolta di temi per cserci-^io della sintassi latina, tradotta dal Fornaciari , edita dal Loescher, To- rino, 1870-71.

(3) Non possiamo astenerci dal notare che sovente la materia delle composizioni latine, ed anche non di rado delle italiane, vale poco più della forma, che potrebbe affermarsi veracemente esservi in molte di esse fra il pensiero e la parola una perfetta corrispondenza. Ciò ha luogo naturalmente sempre quando lo studio retorico della parola pre- vale su quello delle idee e dei fatti, quando invece di educare e d'istruire si insegna a parlare senza intendere, senza sentire profondamente! Si aggiunga che spesse volte è infelicissima la scelta degli argomenti: certi temi, in ispecie di filosofiche dissertazioni e di lavori oratorii, sono su- periori alle cognizioni, all'attività intellettuale del maggior numero di coloro cui vengono imprudentemente proposti, e ingenerano l'abito funestissimo di sentenziare con puerile temerità intorno a ciò che si conosce appena, oltreché l'uso soverchio di certi esercizii oratorii av-

- 236 ~ nelle quali sembra pure che il latino s'insegni « non pour le savoir, mais pour Técrire », giusta Targiita osservazione del nostro autore (i). fatta maniera di studi classici è ben meritevole del severo giudizio che intorno ai medesimi nei licei della Francia, troppo spesso ed insipientemente imitata da noi, pronunziarono parecchi francesi stessi (2) e qualche straniero (3). E t'illuderesti miseramente, cortese lettore, se

vezza un giovane « non à chercher et à dire la vérìté, mais àplaider une cause », anzi «< à plaider avec chaleur des causes qui ne le touchent point", come osserva acutamente il Bréal [Op. cit, , p. 246). V. tutto lo stupendo capitolo Da discours latin et du discours fran^ais (p. 23S- 54): V. anche nella citata Circulaire di J. Simon le osservazioni circa Les exercices de langue et de littérature fran^aise.

[i) Op. cit., p. 228. Sembra veramente impossibile che da taluni non siasi ancora compreso, che, come nota J. Simon « on étudiera dé- sormais le latin pour le comprendre et non pas pour le parler >*, ed in genere « on apprend les langues vivantes pour les parler, et les langues morles pour les lire ».

(2) Così il Bréal, ove discorre dei temi latini , nota essere « trop clair que ces exercices ont le tort de tourner sur les mots l'attention que nous devrions avant tout diriger sur les choses. A l'àge les en- fants ont tout à apprendre , nous réclamons leur temps et leur peine pour mettre en balance deux terms plus ou moins classiques ou pour rechercher de quelle fa^on la phrase tombera le mieux. Encore si ce était seulement du temps perdu ! Mais l'enfant prend l'habitude d'at- tacher au mot une importance disproportionnée... » {Op. cit. , p. 208). V. anche Renan, la Ré/orme ecc., p. 95.

(3) Consulta principalmente il libro di Hahn Das unterrichts-wesen in Frankreich ecc., Breslau , 1848; il Renan nella sua monografia L'insiruction publique en France jugée par les AUemands ( Qttestions contemporaines, p. 263-93) ne fece un compendio , da cui estrarremo

qualche periodo: « L'Université en prenant i'antiquité classique

pour robjet principal et presque exclusif des études, a prétendu rendre un Service inappréciable à la civiìisation , ainsi qu'à la prépondérance imaginaire de la culture franjaise en Europe ; elle insiste avec vanite sur ce bienfait, pour soutenir les intéréts de sa domination absolue ; et pourtant il est certain qu'au fond elle n'a pas la juste conscience des vraies études de l'humaniste. Elle entasse avec surabondance la ma- tière classique , mais sans la vivifier par l'esprit littéraire ; les formes antiques circulent journellement et passent de main en main ; mais le

- 237 -- tu credessi che questo culto insano della forma, questa tras- curanza della materia, questo prevalere dell'apparenza sulla sostanza, questa leggerezza da parolai, questa verbosa su- perficialità, che venne aspramente rinfacciata alla istru- zione secondaria francese e che rimproverar si potrebbe eziandio all'italiana, sia almeno ristretta al campo degli studi Ictterarii e non invada quello delle altre discipline. Vedasi, a prova di questa nostra affermazione, come e quanto s'in- segni la storia, soprattutto l'antica in certi ginnasii! In primo luogo questo insegnamento è considerato da molti professori e da quasi tutti gli alunni come di gran lunga inferiore in importanza a quello delle lettere. Secondamente v'hanno ancora, per nostra sciagura ed onta, maestri che non si peritano di proporre, anzi d'imporre, ai loro poveri allievi certi compendii, i quali, fatti da uomini inetti per mera, turpe e talvolta cinicamente confessata avidità di subiti e facili guadagni, e quindi nella guisa più accetta alla poltroneria dei molti, sono si svergognata mutilazione delia

sens du beau antique manque profondémem ; on rassemble laborieuse- ment des pierres polies pour la construciion, mais jamais elles ne s'^- lèvent en un édifice harmonieux; jamais on ne passe d'un aride excr- cice d'intelligence à une nourriture vitale de tout l'homme spirituel. Tout se borne à des applications étroites et mesquines: au lieu de for- tifier les facultés iniellectuelles , au lieu d'un développement la beauté de la forme serait en harmonie avec les progrès de la raison , on acquiert seulement une habilité singulière pour déguiser à soi-mènae et aux autres le vide de la pensée sous une forme creuse , éblouissante et pompeuse. On s'imagine conserver et coniinuer les tradition?; philo- logiques de Port-Royal ; on promet à la nation des fruits comparablcs à ceux qu'a produits cette vigoureuse école , un nouveau siede d'or en littérature; mais on ne s'aper90Ìt pas que, de toute cette culture clas- sique, on a salsi l'écorce et non le fruit , en sorte qu'au lieu d'élever l'àme, cette culture n'aboutit qu'à erapirer le mal d'un siècle tout ex- térieur et profondément attelnt de roatérialisme. Un esprit étroit et for- maliste est le trait caractéristique de l'enseignement en France ; ce n'est pas une vraie culture de l'esprit ; c'en est la caricature. » (p. ayó-y).

Tijvista di filologia ecc., J. 17

- 238 storia che il solo vederli desta ribrezzo e schifo (i). Ed è spellacelo che muove a piangere per compassione od a sogghignare di scherno il vedere, come avvenne a noi, un insegnante ginnasiale costringere la sua scolaresca a studiare a memoria si fatti libercoli di storia e di geografia! Che importa se i giovani non hanno un concetto chiaro e di- stìnto nemmeno delle più grandi divisioni della terra? Essi sanno recitare senza errori e senza esitazione la paginuccia del manuale, nella quale si un cenno su tale argomento, e ciò basta a certi professori per cui questo titolo è vera- mente la più crudele delle ironie. di rado accade che la buona memoria, unico pregio (e spesso troppo iodato) di certi scolari, veli il difetto deplorabilissimo di nozioni esatte, quasi diremmo vive, in fatto di fisica, di chimica, di storia naturale. Effetto doloroso, inevitabile del vizio di- dattico onde abbiamo discorso è la imperfettissima educa- zione ed istruzione di cui porgono gravi e numerosi in- dizi!, anche al meno attento ed acuto osservatore, i giovani che escono dei nostri licei, per io più mal preparati agli studi universitarii guari meglio a quel genere vita al quale dovrebbero essere atti. Questo difetto di cognizioni e di ben regolata energia intellettuale e morale ci si mani- festa colla più viva evidenza nella deplorabile negligenza di moki fra essi in ciò che s'attiene al mondo del pensiero e nella poca serietà con cui non pochi compiono certi do- veri ed esercitano certi diritti di grande importanza. fatta povertà dello spirito, povertà che di tutte è la più pe- ricolosa e che da lunga età funesti errori hanno inflitta

(i) Sarebbe ormai tempo che si mondassero le nostre scuole da si- mile sucidume e che a certi sunti si sostituissero libri dettali in modo più degno della scienza, verbigrazia quelli del prof. Schiaparelli per la storia antica, del prof. Ricotti per la moderna, la quale fu eziandio da parecchi altri esposta convenientemente ad uso de' nostri licei.

~ 239-- alla patria nostra, rivela soprattutto in gran, parte della stampa periodica e politica, ad esempio nel pessimo vizio di voler discorrere di tutto, anche di ciò che non si conosce, e profferir giudizio senza competenza, od eziandio dei più autorevoli biasimare te sentenze, con una temerità che mo- verebbe a sdegno anche uomini serii, se dalla esperienza non fossero avvezzati a sorridere di tanta puerilità.

A questa troppo spesso presuntuosa e prepotente debo- lezza intellettuale dovrebbe apprestare continuo, efficace ri- medio la istruzione superiore, universitaria. Sciaguratamente eziandio in molte parli di essa serpeggia il morbo onde ci diamo pensiero, le corrode, le strema, le rende inette al loro altissimo ufficio. E, prendendo naturalmente le mosse dagli studi filologici ed in ispecie dai greco-latini, ci duole profondamente dover confessare che non tutti coloro, i quali pur ne dovrebbero essere valorosi maestri, hanno un esatto concetto del loro scopo, il quale ci appare doppio, teoretico e pratico, scientifico e didattico: far conoscere, storicamente e filosoficamente, le più grandi civiltà, consi- derate nella mirabile varietà dei loro elementi costitutivi, delle loro rivelazioni, vale a dire nei linguaggi, nei miti, nelle religioni, neirarte, ne' sistemi filosofici, ne' costumi, nelle istituzioni e negli avvenimenti civili, politici, militari; preparare con si fatto studio e con acconcia pedagogica gli alunni allo insegnamento letterario, storico, filosofico ne' gin- nasii e ne' licei. Per isventura nostra e delle nuove genera- zioni la prima parte di questo compito non fu mai guari per lo passato, anche presentemente è ben compresa da tutti, e v'ha ancora, sebbene ormai sembri impossibile, chi pensa essere alle facoltà di lettere proposto sovra ogni altro il fine d'insegnare a scrivere italianamente e latinamente, come nelle scuole dei retori s'insegnava a parlare! Ciò posto, non è punto malagevole io intendere come da fatti

240 uomini siano reputati men necessarii, anzi da taluno quasi inutili od eziandio pericolosi, i veri studi propri! delle pre- accennate facoltà , verbigrazia l'analisi , storica e filosofica , degridionrii, delle letterature; come si oppongano al trionfo di tali studi e dei loro promotori , sempre con arti degne dello scienziato e del gentiluomo-, come una dissertazione la- tina, fatta con ritagli di latinità sovente spuria e cuciti insieme per guisa che a noi italiani rammenta Tabito, non certo l'ar- guzia del nostro Arlecchino, sia qua e giudicata prova di sapere filologico: come finalmente le vere prove di esso siano talvolta accolte con indifferenza, o, peggio, con insano disprezzo da persone, che, per la propria ignoranza ed im- potenza di spirito, non ebbero ancora la buona ventura di comprendere quanto la scoperta, la cognizione di un minimo fatto, ad esempio di uno fra i meno rilevanti fenomeni fo- netici , superi in importanza tutti i loro sproloqui! italiani e latini, ne' quali la pompa retorica della forma e lo strepito inane di paroloni rimbombanti non vale a nascondere, fuorché ai più gonzi (loro unici ammiratori), il difetto d'i- spirazione e la povertà del pensiero. Questo umanismo bastardo, che, miseramente illuso (i), si crede talvolta della filologia classica il più strenuo e formidabile campione , le reca, senz'accorgersene, maggior danno che i nemici di essa, screditandola colla propria leggerezza. Fosse almen questo, sebbene gravissimo, il solo indizio che ci rivelasse nei nostri atenei cotale amore dell'eleganza oratoria a danno della scienza , cotale inclinazione alla sterile magnificenza delle declamazioni più che alla feconda austerità delle in- dagini: ma sciaguratamente fatte tendenze ci si mani- li) E miserabile illusione vuoisi pur dire la folle speranza che le raerti guaste da fatto umanismo possano in breve tempo e con lieve fatica iniziarsi agli odierni studi linguistici e filologici , avvezzandosi , quasi per in^nto, ai metodi nuovi.

-241 -

festano colla più trista evidenza nella indole, veramente stranissima, di certi corsi universitarii , che ci rammen- tano le facoltà di scienze e di lettere in Francia , come le descrissero Renan (i), Bréal (2), Hiilebrand (3), e che non sono se non un' esposizione dei risultati più importanti e più certi, a cui giunse la investigazione scientifica intorno ad UD ordine estesissimo di verità, esposizione che non la- scia più scorgere il lento e faticoso lavorio intellettuale senza cui sarebbe stata impossibile la conoscenza di questi risul- tati, e che non è nemmeno sempre completa, esatta, chiara, corretta in fatto di stile e di lingua. Ciò prova che alcuni^ pur elevati a queste ardue altezze dello insegnamento, non hanno anche un giusto concetto del compito loro affidato. Odano questi signori le severe, ma opportunissime ammo- nizioni del Bréal: « Autre chose est de propager la science, autre chose de Tenseigner. Le ròle de vulgarisateur , fort utile en lui-mème , n'cst pas celui qui convient au profes- seur : au moìns n'est-ce qu'une moitié de sa tàche. Il faut que le professeur, dans son cours, recommence les recher- ches et refasse le travaìl de Pinventeur, pour mettre ses élèves en état de comprendre les méthodes scientìfiques et pour les rendre capables de cominuer les découvertes faites par leurs ainés dans la vie» (4). No, un ateneo non può

(i) Questiom contemporaines, p. 87-110, 143-4, 204-5.

(2) Op. cit. , p. 338-46.

(3) L'enseignetnent supérieur en Frartce (Revue moderne, t. XLVl , p. 596-7).

(4) E continua nel modo seguente: » Tout le monde sait comme nous que les sujets les plus élevés sont familiers à nos professeurs de Facul- tés: ils exposent à leur auditoire les origines et les iransformations des langues et des littératures, le développement des institutions reli- gieuses et politiques, les grandes découvertes de l'archeologie et de la épigraphie. Mais, à la rigueur , les journaux et les revues suffiraient pour cetìe sorte d'enseignement. Un point de l'histoire liitéraire éclairci d'après les sources, un texte critiqué avec soin, une inscripiion bien comraentée, vaudraient mieux pour des élèves. » Op. cit., p. 345-6.

242 -

essere consecrato esclusivamente a propagare la cognizione dei veri già scoperti , dimostrati , illustrati compiutamente dalla scienza ; esso debb'essere eziandio, come il collegio di Francia quale lo vorrebbe Renan : « le laboratoire toujours ouvert se préparent les découvertes, le public est ad- mis à voir comment on travaille, comment on découvre, comment on contròie et vérifie ce qui est découvert » -, eziandio acciocché « des vocations spéciales se forment»*, ed a conseguire questo scopo « tout Tappareil de la sciencc la plus speciale et la plus minutieuse doit ètre ici déployé. Des démonstrations laborieuses, de patientes analyses, n'ex- cluant , il est vrai , aucun développenient general , aucune digression iégitime, tei est le programme de ces cours » (i). Tale è la natura delle università germaniche (2) , nelle quali certi corsi di facoltà francesi non sarebbero certo tol- lerati, come ben nota il francese Renan (3). Sappiam bene quali argomenti si adducano in Francia (4) ed anche talora

(t) Qiiestions contemporaines, p. 106 e 206,

(2) Bréal, Op. cit. , p. 338 e 342-3 ; Hillebrand , L'enseignement supérieur en Allemagne ; Pouchet, Uenseignement supérieur des Scien- ces en Allemagne {Revue des deux monJes, t. LXXXIII, p. 444-5).

(3) « La surprise de l'Allemand qui vient assister à ces cours est très-

grande 11 s'aper^oit qu'il n'apprend rien, et se dit à lui-méme qu'en

Allemagne il ne souscrirait pas à ce cours. Dans un cours assujetti à une rétribution, ce qu'on veut pour son aigent, c'est de la science po- sitive , ce sont des résuhats précis. On ne pavé pas pour écouter un bomme, qui n'a d'autre bur que de vous prouver qu'il sait bien par- ler. Wilhelm Schlegel , m'a-t-on dit , voulut , à riniitation de la ma- nière fran9aise, fai re à Bonn de ces cours oratoires ; il n'eul aucun succès. Personne ne voulut se déranger pour entendre des récitations brillantes, dont le but principal était de montrer l'esprit du professeur, et dont le resultai le plus clair était qu'on se dit à la sortie : Il a du talent. » [Questions contemporaines, p. 90-1).

(4) «t On se représente le savant comme un ètre isole du monde , la recherche scientifiquc comme un plaisir egoiste, les élèves comme des gens initiés à un eulte secret. Si ceux qui parlent ainsi avaient seule- ment goùté une fois la généreuse satisfaciion de transmettre les in-

243 in Italia contro il genere tedesco d' insegnamento universi- tario ; sappiamo quali ragioni si rechino a dimostrare la utilità, la necessità di corsi aventi a scopo Fincremento della cultura generale ( i ) •, richiedersi assolutamente i medesimi ad accrescere nelle persone educate quel patrimonio di co- gnizioni e di attività mentale, che, senz'essi, scemerebbe ben presto ed in guisa deplorabilissima, soprattutto lungi dai grandi centri di civiltà ; ne meno a far noti ai cultori di una parte specialissima della scienza i risultati delle altrui investigazioni intorno ad altri veri; solo con questo mezzo potersi sperare che il lavoro intellettuale venga sempre più pregiato dai molti, e che colora i quali vi consecrarono la vita apprendano sempre piìi a conoscersi , a stimarsi . ad amarsi vicendevolmente; finalmente non essere punto im- probabile che cotal sistema didattico dia a parecchi ingegni, irrivelatì a tutti , anche a stessi , la coscienza possente della propria vocazione. Tutto ciò ci è notissimo , ne vo- gliamo punto negare la importanza di fatta diffusione della scienza -, per contrario invitiamo tutti gli uomini amanti della cultura ad unir le loro forze per fondare istituti nei quali abbiano luogo lezioni dirette a tal fine; esortiamo i dotti a non isdegnare il modesto, ma utile ufficio di volga- rizzare la scienza, ufficio ch'essi soli possono compiere colla necessaria esattezza; esortiamo tutti i pubblici ufficiali a promuovere con ogni maniera di favori questa opera emi- nentemente salutare: ma non vogliamo a ver un patto che ristruzione universitaria cessi di essere la più alta possibile

strumenta du travail à de jeunes esprits , et la joie de Ics voir entrer dans la voie des recherches originales, ils changeraiént sans doute de langage et renonceraient de bon coeur, en échange d'un tei plaisir, aux applaudissements de leur araphithéàtne. » Bréal, Op. cit., p. 344-5. (i) V. in ispecie Lecer, L'enseignement supérieur et la Sorbonne [Revue moderne , t, L, p, 260-4).

- 244 - per diventare un'istruzione poco superiore alla liceale. Non lo vogliamo, perchè non solo la dignità del professore ( i ) , ma eziandio ne riceverebbe gravissimo nocumento il pro- gresso della scienza (2). Ben pochi diventano operosi ed utili investigatori del vero ove non si ammaestrano, non si avvezzano con efiScaci esercitazioni, non si stimolano colla eloquenza della parola, e meglio con quella, assai più po- tente, dell'esempio i giovani valorosi alle speciali e nuove investigazioni : peggio ancora è forza attendere, allorquando queste investigazioni sono non pur neglette, ma sprezzate , derise con superbo dileggio da un volgo di presuntuosi im- potenti (3). Conseguenza naturale, inevitabile di questi vizi

(i) « Dans un grand nombre de cas, le savane solide porterà envie à son confrère superficiel qui , par une parole aisée , par des aper9us fa- ciles à saisir , par des lecons détachées dont chacune fait un tout , saura mieux attirer et retenir la foule. Une sorte de rivalile souve- rainement déplacée s'établira, rivalile ie savant consclencieux, celui qui aspire à enseigner à ses auditeurs quelque chose de posìtif, aura né- cessairement le dessous. Ce qu'il faut , c'est que l'oisif qui en passoni s'est assis durant un quart d'heure sur les siéges d'une salle ouverte à tous les vents sorte coment de ce qu'il a entendu. Quoi de plus humi- liant pour le professeur, abaissé ainsi au rang d'un amuseur public , constitué par cela seul l'inférieur de son auditoire, assimilé à l'acteur antique dont le but éiait atteint quand on pouvait dire de lui : Saltavit et placuitl ^ Renan, Questions contemporaines , p. 90-91. V. anche Bréal, Op. cit., p. 342-4.

(2) « La recherche pure en soufFrit d'irréparables dommages » scrive il Renan discorrendo di si fatta istruzione, ben poco universitaria, nella sua patria {Questions contemporaines , p. 96).

(3) « on ne saurait croire la peine qu'éprouve chez nous un

professeur, non-seulement à devenir un savant , si son goùt le porte vers rérudition, mais à se faire pardonner de Tètre. La rareté des li- vres, s'il vit en province, l'absence de ces journaux qui rendent lant de Services à l'Aliemagne par l'analyse rapide et sùre des ouvrages qui paraissent sur tous les sujets, le petit nombre des gens capables de lui donner-de"bons conseils, l'indifFérence universelle qui accueille sespre- miers travaux, ne sont pas les seuìes difficultés dont il ait à triompher; il en trouve d'abord d'autres en lui-méme. D'ordinaire il est mal pré- paré aux études qu'il entreprend. L'éducation à l'École normale esX.

245 è la poca fecondità scientifica di un popolo, presso cui la pubblica istruzione sia dai medesimi sciaguratamente isteri- lita : evidenti dimostrazioni di questa legge intellettuale sono pur troppo ritalia e la Francia paragonate colla Germania (i). Auguriamo pertanto alla patria nostra, civilmente e po-

toute pédagogique, et il est difficile qu'elle soit autre chose. On ne lui a donc appris que son méiier de protesseur , il ne sait rien en dehors de ce qu'il doit enseigner dans les lycées. C'est à peine s'il a entendu parler de la philologie, de la grammaire, de la mythologie comparées; il ne pourrait pas lire une inscripiion. Tous ces prenniers principes qu'il est aisé d'apprendre en queiques lefons, il les ignore, et il necon- nait pas les livres il les trouverait. Il marche donc seul et au ha- sard, s'égarant dès les premiers pas dans des erreurs depuis longtemps réfutées ou faisant péniblenient des découvertes qui sont connues de tout le monde. II use ses forces et sa vie à connaitre ce qu'un étudiant de Bonn ou de Berlin apprend sans peine en deus ou trois ans dans son université, En Alleraagne, aucun efFort, aucun travail n'est perdu. Le jeune docteur qui quitte ses maitres et qui sait ce qu'ils savent petit se flatter d'aller plus loin qu'eux. Nousautres au contraire, qui n'avons pas de traditions scientifìques, nous recommencons sans cesse. Personne

chez nous ne profite de ses devanciers et ne sert à ses successeurs

C'est pour remédier à ce mal que M. Duruy a fonde l'Ecole des hau- tes études. » Boissier , Les réformes de l'enseignement, II (Revue des deux mondes, t. LXXXIl, p. gSi-z).

L'egregio scrittore nota ancora come, dopo questi, altri ostacoli si oppongano a diventare un erudito, vale a dire i malefici influssi eser- citati da molte persone, il cui dovere sarebbe per contrario promuo- vere gli studi scientifici. « N'avons-nous pas entendu M. Fortoul (già ministro della pubblica istruzione in Francia) nous dire avec sa solen- aité habituelle: » L'érudifion , cette passion des peuples vieillisiì}...M. Fortoul se trompait, le goùt des peuples vieillis , ce n'est pas l'érudi- lion, c'est la réthorique. » ( p. 933), meno importanti sono le pa- role che leggiamo a pag. 9? i : « Que de fois n'avons-nous pas entendu soutenir que la scicnce et l'art d'cnseigner ne sont pas seulement dif- férens, qu'ils sont contraires, et qu'un crudit est rarement un profes- seur! Cette opinion est propre à la France, les autres nations naia partagent pas: elles ont la faiblesse de croire qu'on ne parie bien que des choses qu'on sait à fondu e soprattutto la Germania, mentre in Italia v'ha chi professa l'opinione francese, meritamente dileggiata dal sig. Boissier.

(i) « Ce mouvemeat prodigieux (dell'Allemagna), on peut s'en fai re ' une idée en se rappelani que le nombre des professeurs d'L'niversités a toujours été de deux ccnts en moyenne et qu'en moyennc encore cha-

- 246 - liticamente risorta, vicino il giorno in cui i suoi figli con- vinceranno seriameipte che assai più dello studio retorico delle parole vaie lo studio scientifico dei fatti e delle loro leggi. Ma non vorremmo che , come non di rado suole avvenire, questo studio avvezzasse i giovani italiani a non curare o peggio a sprezzare la bellezza artistica delia forma (di cui fummo e dovremmo essere ancora maestri noi, gente la- tina). E ci piacerebbe che i programmi per lo insegna- mento scientifico ne' licei comprendessero soltanto i con- cetti fondamentali delle singole discipline cui si riferiscono e non. accennassero che le piij rilevanti fra le conseguenze che neirordine teoretico e nei pratico da cotaJi concetti trag- gono origine, escludendo le troppo minute ne abbastanza importanti particolarità, affinchè fatti studi concorrano efficacemente alla educazione delle potenze intellettuali ed al progresso della cultura generale, invece d; opprimere Pintel- letto e la memoria, di costringere i giovani ad imparar in poco tempo un subbisso nozioni, che in massima parte avranno dimenticate dopo tre mesi di vacanze , stanchi ed attediati della scienza (i).

CContlnuaJ DOMENICO PeZZI.

cun de ces professeurs produit au moins deus travaux scientlfiques par an, ne fùt-ce que des mémoires d'Académie ou des articles de revues savantes; cela fait, en ajoutant les thèses de doctorat el tous les travaux d'érudition qui paraissent dans les programmes semestriels -le quatre cents lycées et colléges allemands, au moins cinque mille publications savantes par an , le dècuple peut-étre de ce que produisent , dans le méme laps de temps, les corps enseignants de ìa France. de l'Angleterre et de l'Italia réunies.» Hillebrand, Uenseignement srpérieur en Alle- magne {Revue moderne, t. XLV, p. 21 3).

(i) ^' 11 faui surcharger sa mémoire en prévision d'un court examen qui décide du sort de la vie eniière. Les connaissances ainsi acquises ne restcont pas dans l'esprit; elles ne laisseront méme pas après elies ce profit generai que procure à Tintelligence un travail iibrenient entre- pris et poursuivi avec goùt et mesure. Le plus souvent, le seul resultai de ceue préparation hStive et outrée , c'est la fatigue precoce et le de- goùt du trovai],» Brèal. Op.cit., p. 'iSo-óo.

-247- CEV^tKI 'BI'BLIOG^AFJCI

Pfitzner, Die Annalen des Tacitus kritisch bekiicktet^ !. Buch I-VI, Halle, 1869.

Tacito è fra quegli autori, onde il testo ha maggior bi- sogno di essere ancora emendato con quella critica severa , che alle più splendide e seduttrici divinazioni dello ingegno individuale antepone grinsegna menti, cui, sapientemente in- terrogati, ci danno i codici. Per questa critica, che a buon diritto possiamo appellare oggettiva, preziosissimi sono i due manoscritti Medicei del secolo decimo primo , i quali si conservano entrambi a Firenze e soglionsi indicare colle lettere M e Ma. Il Mediceo secondo è il codice piiì impor- tante per le Storie: il primo (di cui in questo articolo dob- biamo fare speciale menzione) è il solo che contenga i primi sei libri degli Annali, la malaugurata età di Tiberio: vuoisi per altro notare ch'esso non ci serba per intero se non i primi quattro libri; dopo il principio del quinto si apre una grande lacuna che si estende a quello del sesto, togliendoci la continuazione del racconto che concerne Tanno 29, tutto quello del 3o e la miglior parte di quello del 5 1 . Questo codice di supremo valore è probabilmente una copia di un pili antico manoscritto di Fulda; fu trovato nel chio- stro di Corvey in Westfalia, portato a Roma Tanno i5o8 e posseduto dal cardinale de' Medici che fu poscia papa Leon decimo, indi a Firenze nella biblioteca Medicea ove si trova ancora: se ne valse il Beroaldo per la edizione ch'egli, primo, fece di tutte le opere di Tacito nel i5i5 a Roma.

Intorno a questi due codici si travagliarono parecchi fi- lologi ed in ispecle Baiter e Ritter. I lavori di essi porsero

- 248 allo Pfìtzner l'occasione di iiuove indagini. Siccome, egli scrive, i due codici fiorentini sono opera di amanuensi e tempi diversi, così, alla critica di essi recò danno sinora il non averli investigati separatamente. Il libro del nostro au- tore è consecrato allo esame critico del primo di essi sol- tanto.

Questo lavoro è diviso in due parti. Nella prima di esse si tratta delle indicazioni tecniche, delle correzioni lineari, delle cancellature, della sottopunteggiatura, delle correzioni interlineari , delle note marginali : nella seconda si discorre delie alterazioni posteriori del testo, vale a dire dei glos- semi, delle lacune, delle emendazioni di tre edizioni, ossia della volgata (ediz. Becker) e di quelle che dobbiamo a Nipperdej' ed a Ritter. Intrapreso senza preoccupazioni soggettive e più con tendenze, come ora suoi dirsi, conser- vatrici che non cogli ardimenti dei novatori , questo lavoro dello Pfìtzner è uno di quelli, i quali mostrano chiaramente, anche ai meno mtendenti ma non sleali, di quanto stolida ed impudente calunnia si renderebbe reo chi accusasse, in genere, la critica tedesca di guastare a suo capriccio i testi degli antichi. I pregi di quest'opera sono indubbiamente di gran lunga superiori ai pochi e lievi difetti che le vennero rimproverati (i) e dei quali qui non potremmo darci pen- siero senza addentrarci in troppo minute disquisizioni pa- leografiche.

Torino, io ottobre 1872.

Domenico Pezzi.

(1) V. il Literarisches centralblatt fUr Deutschland , 4 dicembre 1869, n" 5o, p 1454-5.

Pietro U.S£ei,lo, gerente respontahile.

249

SU ALCUNI PUNTI

^ELLA GEOGRAFIA "DEL TIEmOV^TE AV^TICO

Lettera a Carlo Promis.

Caro amico.

Vengo ad annunziarvi una piccola scoperta topografica, che m'immagino, anche a voi non dispiacerà. Non l'ho fatta io ; ma siccome per la mia intervenzione i miei amici Pavesi e Pomeranesi si sono combinati per farla, sono in grado di ragguagllarvene.

È conosciutissima !a lapide Henzeniana , Siiy , che stampata per la prima volta dal prof. Aldini in un libret- tino uscito nel 1829, e ripetuta poi dai medesimo nelle Lapidi Ticinesi (p. i25), ha fissato difinitivamente il sito di uno de' luoghi più celebri nella storia Romana, l'an- tico Ciastidio, dove il console M. Marcello, il prode de' prodi, uccise il re Virdumaro, e che poco più tardi fu assediato e preso da Annibale. Però quando a me toccò la revisione di questa iscrizione per la nostra raccolta , m' avvidi che era orribilmente guasta, non tanto per le ingiurie del tempo, quanto , e lo mostravano le diversità delle due edizioni Aldiniane , per l'incapacità e la trascuratezza dell'editore , pur troppo note a me per tanti altri sassi Comensi e Tici- nesi da lui malamente riportati. Disgraziatamente la lapide, poco dopo la sua scoperta, era stata condannata, grazie alla sua importanza e nobiltà, a ciò che Plinio chiama Vcxìlium villae. Il nobile D. Galeazzo di Pavia ra\'ea fatta trasportare

T^vista di filologia ecc., I. i8

250

a Villanteiio, terra situata su! Lambro fra Lodi e Pavia, e più adatta a dar delizioso riposo di campagna a chi ri- fugge dallo strepito delle città, che a collocarvi monumenti di storica importanza e di diritto pubblico, comunque di ragione privata. Cosi è accaduto, che dopo l'Aldini per ben quarant'anni nessuno ha riveduta Tiscnzione, e che gli er- rori di questo dotto si sono quasi perpetuati. Perciò pregai il mio caro amico , il prof. R. Schoell di Greiiswalde, di f ecarsi appositamente costi nel suo ultimo viaggio d'Italia, e così pure l'ottimo mio amico, il conte Camillo Brambilla di Pavia, assai noto al pubblico numismatico per i suoi bei lavori sulle medaglie, di facilitargli questa gita. Infatti quei due amici vollero recarsi insieme sul luogo , ed ecco la copia esatta, che ebbi da essi insieme con un' impronta, la quale dimostra , che ogni lettera della pietra è di lettura facilissima e certissima :

Ascia ?

ATILIAE C F

SECVMDIN " CON JVG vCASTISSIM PVOKiSSlMAfcQ SIBlQ-OPSEQVENTiSSlMAE QVAE-VIXIT-ANNIS-XVII-M-VI!'D"V!! ITEM C'ATiLI'SHCVND} ET SERR-M^LIS-VALERIA

NAE SOCERORVM KARISSIMOR M LASiK MEMOR

VIVOS-POSViT ET ?N MEMORIAM - EORVM ' ROSA ET AMARANTHO- ET EPVLiS - PERPETVO - CO LENDAM COLLEG CENTONAR PLACENT CONSiSTENT'CLASTlDt

_ 251 -

Cioè: Atiliae C. F. Secundiniae) comug-{i) castissim{ae} pu- dìcissimaeqiue) sìbiq{ue) opsequentissimae^ quae vixit annis XVII m{ensibus) VII, d{iebus) VII^ item C. Ai ili Secundi et Serr{iae?) M. lib. Vale^nanae socerorum karissimor{um) M. Labili {anus) Memor pìuqs posuit et in memoriam eorttm rosa et amarantho et epulis perpetuo colendam coileg{io) centonar[iorum) Placent {inorum) consistent {ium) Clastidi [sestertios tot dedii],

nome del marito era certamente non Labicìusj ma Labicanus, poiché il k non si mette se non quando segue Va; e che Labicanus è buon gentilizio, a Voi non occorre dirlo, ii gentilizio della madre mi resta dubbio. La fine delia disposizione testamentaria, che ho aggiunta, manca, comunque sia intera la pietra , e vi resti infine spazio non scritto; infatti di cotali disposizioni sui titoli non si metteva per lo pi'à che un estratto e spesso un estratto assai mal fatto, così che i periodi si rifiutano ad ogni costruzione grammaticale. Ma poco importa. Ciò che è nuovo (tro- vandosi nella copia Aldiniaoa, invece del PLACENT del V. 1 3 chiaro e lampante, soltanto un qualche trattino irricono- scibile) e d'importanza slorica e geografica si è che Clasiidium appartenne, non come finora si credeva e doveva infcìtti sup- porsi, al vicinissimo comune Forum Irietisium^ ossia a Vo- ghera, ma ai territorio di Piacenza. Infatti Piacenza era la prima città fondata dai Romani in queste parti, e la grande linea strategica, che fu più tardi la via Postumia, la quale con- dotta dalle fortezze sul Po, Cremona e Piacenza, per TApen- nino fino a Genova passava per Casteggio. Si capisce che i Romani stendessero fin qui il territorio del gran baluardo delle loro conquiste nella valle del Pado, e se ora Vi rimettete a leggere il libro XXI di Livio , e quelle mosse di Annibale per impadronirsi di Clastidio, mentre i Romani si trin- ceravano sotto le mura di Piacenza . grazie a quella gita

- 252

de' miei amici , lo capirete alquanto meglio. Che il col- legio de' centonari di Piacenza aveva la sua sede a Clastidio, non manca d'analogia. Cotali collegi , come Voi ben sapete, secondo le leggi romane non potevano esistere se non nei comuni di pieno dritto, o come dicono i Romani, nei mu- nicipia &t coloni ae ; il vico ne va privo. Ma non è vietato a tali corporazioni di stabilirsi (consistere) in qualche sito fuori le mura, e perfin nel territorio. Così avrete letto nel mio quinto volume (p. 400, 624) che i nocchieri di Verona e di Brescia dimoravano quelli a Peschiera {Arilica)^ questi a Riva; e ciò che fa niù al caso nostro, i centonari di Como avevano ìa loro curia a Clivio presso Arcisate (Orelli,

3936, 407 0-

Aggiungo una qualche conferma di questa scoperta, seb- bene essa non ne abbisogni. Due anni fa, pure a Casteg- gio, fu trovato un embrice romano , di cui diedi un cenno nelle note al 4148 del quinto volum.e, il quale fra pa- recchie iscrizioni in lettere corsive di mani diverse aveva anche questa, leggendo la quale bisogna cominciare dal verso

posteriore :

FARATICANO

ACTVM-PAGO

Il pagus Farraticanus in Piacentino essendo ben noto dalla tavola alimentaria Veleiate, questo combina bene coll'at- tribuzione di Clastidio alla medesima pertica. Però, a dir vero, perse stesso l'embrice non lo proverebbe, dacché gli embrici fabbricati nel Piacentino potevano benissimo ado- perarsi anche fuori di esso ne' siti vicini. Più importante si è che, siccome m'insegnano gli amici, Casteggio anche ne' tempi di mezzo ha sempre appartenuto a Piacenza. Di questo non conviene che parli io ; invito peraltro gH amici ad esporre questo fatto di cui forse anche la topografia an- tica potrà avva ntaggiarsi .

-253-

Siccome ragioniamo di qiaestìoni topografiche, permettetemi di aggiungere due osservazioni, che sottometto a Voi, perchè riguardano il vostro Piemonte. L''impronta, che sulla vostra intercessione Tegregio Barone Manuel mi ha favorito della pietra conosciuta ora da due secoli , ed ultimamente stam- pata da Voi in quel vostro ottimo libro sopra Torino (p. 1 57), dico quella di M. Exomnio Severo serbata vicino a S. Da- miano nella valle di Maira, ha pure tolto i lunghi dubbi e ci ha liberati da secolari errori. Quel FOR CER da cui i vostri antichi per combinazioni poco felici hanno ricavato il loro Forum Cereale tanto caro ai vostri falsi ncaiori del secolo pas- sato, e da cui ultimamente un dotto tedesco ha voluto fare il noto Forum Cornelii^ ora si è cambiato in un FOR CER, nel quale subito avrete riconosciutola R » P CERMA del no- tissimo sasso di Carraglio, dove vien nominato insieme con Gaburrum, cioè Cavour, e Pedo (non Pedona)^ cioè S. Dal- mazzo. Avremo dunque nelle vicinanze di S. Damiano una città anticamente detta Forum Germa (tiorum) ^ da confron- tarsi col Forum Gallorum, ed altri simili,

L^altra osservazione che vorrei sottomettervi , riguarda l'antica topografia della valle «iuperiore del Po. Il Forum Viòli nominato da Plinio ed in parecchi titoli militari, oggi si colloca generalmente ad Envie ; può mettersi in dub- bio, che deve trovarsi in quelle vicinanze. Ma se guardiamo ai marmi trovati colà ed allo stato degli avanzi dell'epoca romana, l'unico luogo in queste parti che abbia qualche importanza, è Cavour , e poi sono tanto vicini Cavour e Envie, che non è già impossibile, ma certamente poco pro- babile, che vi sieno state due differenti città antiche, lo pro- porrei di farne una sola detta Forum Vibii Caburrcum^ come abbiamo il Forum Julii Iriae ossia Iriensium. Del resto si può anche dimostrare a quale epoca Cavour ricevette il suo nome latino. Tutti quei Fora che prendono il nome da un

254

gentilizio romano, sono fondati nell'epoca repubblicana (cioè prima di Augusto) da generali romani comandanti in quei luoghi dove furono fondati, come pure le vie militari, a cui tutti o quasi tutti appartennero; all'epoca imperatoria per tali denominazioni non si adoperava che il cognome del- l'imperatore, rare volte il gentilizio di esso, non mai il nome di un privato. Ora i Vibii sono gente nuova , si trova alcun magistrato di essi prima del notissimo C. Vibio Pansa, che come proconsole reggeva la Gallia citeriore neir anno di R.oma 709-710, e che poco dopo, essendo console, cadde nella battaglia di Modena. Egli, se ben m'appongo, facendo qualche via, forse da Torino a Cavour , ha dato a questo il nome di Forum Vibii.

Berlino, 16 novembre 1872.

Teodoro Mommsen.

GLOTTOLOGIA ^N^EOLATITNiA

LETTERA AL SIG. PROFESSORE FLECHIA

Onorandissimo sig. Professore ^

11 caso ha voluto che non prima di ieri a sera mi giun- gesse il fascicolo della 'T{ivista. dove ella ha avuta la cor- tesia d'intrattenersi del mio hvoro suir origine dell'unica forma Jlessionale del nome italiano {i)-^ epperò non è mia colpa se molti giorni sono trascorsi senza che io mi sia fatto vivo. Ora che ho j&nalmente potuto vedere quel che

(I) V. fase II, p. 80 e

-265- ella ne ha scritto , non voglio più tardare a ringraziamela di vero cuore. Il solo essersi degnata , ella così provetto e illustre maestro, d'occuparsi delle cose mie, era bastato a generare in me vivo sentimento di gratitudine; tanto più ora le devo essere riconoscente, dopo lette le giudiziose cor- rezioni e le preziose aggiunte che ha avuta ia bontà di fare a parecchi luoghi di quel mio lavoruccio.

A due soie tra le sue critiche, riferibili non a fatti par- ticolari , bensì a talune delle parti più salienti della mia teoria, io non posso acconciarmi così di buon grado come a tutte l'aitre ; e glie ne voglio dir qui le ragioni. Io vera- mente ho per costume di non rispondere mai alle censure che mi vengano fatte •, tuttavia nel caso presente io fo senza scrupolo, per ciò che il mio amor proprio non v' è interes- sato altroché molto indirettamente, e si tratta invece della questione stessa di cui io mi sono occupato nel mio scritto.

Prima di tutto mi pernnetterà di rilevare , nella esposi- zione che ella fa della dottrina da me abbracciata, una frase che potrebbe dar luogo ad equivoci. Ella dice ch'io ritengo « Tunificazione de' casi seguita per logoramenti fonetici delle forme latine, che, perdendo la * e la w finali del nomina- tivo e dell'accusativo, vennero a confondersi in una , onde per esempio, da lupus e lupum, ne venne lupu (lupo), esteso poi anco agli altri casi. » Ora da ciò si ricaverebbe che io creda la voce lupo derivata esclusivamente dal nominativo e dall'accusativo , e , nata così , collocata poi in ogni altro posto, in modo che, per esemplo, quando noi diciamo con un lupOj del lupOy qui la parola lupo sia succedanea di lu- pus e lupum. Mentre in queste locuzioni lupo è , secondo me, succedaneo dell'antico ablativo: cum uno lupo^ de ilio lupo. L'opinione che tiene essersi il succedaneo di uno o d'un altro de' casi latini sostituito a tutti gli altri casi è pre- cisamente quella che io ho combattuta, perchè l'ho creduta

- 256 - contraria a ogni retto concetto storico sullo svolgimento na- turale del linguaggio. In una frase come « io vidi un cane con un lupo » io vedo una naturale continuazione d'una frase latina foneticamente più piena ; « ego vidi unum canem cum uno lupo, » Invece una frase come « io vidi un lupo con un cane » deve essere discesa da un' altra : k ego vidi unum lupum cum uno cane \ ■» la frase « un cane vide un lupo » risale a « unus canis vidit unum lupum », da cui è discesa per logorìi fonetici così ovvii e usuali da non meri- tare neppure menzione. E la frase « un lupo vide un cane» deve essere invece derivata da « unus lupus vidit unum ca^ nem. » Siccome i latini non hanno mai smesso di parlare; siccome frasi simili a coleste ne avran sempre dette e ri- dette; e siccome rinlacco fonetico era già ab antico co- minciato, e continuava sempre; cosi doveano ridursi per forza a trovare livellate e parificate, senza volere, le voci dei casi. Ora la teoria del Diez, od ogni altra consìmile, che pretende un caso essersi sostituito agli altri , o non ha alcun senso, o, se qualcuno ne ha, è questo, che le soprad- dette frasi italiane rimontino alle frasi latine: ^iego vidi unum canem cum unum lupum , ego vidi unum lupum cum unum canem, canem vidit lupum, lupum vidit canem! » In- somma, secondo me, il nominativo, Taccusativo , l'ablativo di ogni nome continuarono nel latino popolare ad usarsi ognuno in quelle frasi dove la sintassi latina ii ricniedeva ; se non che il nominativo , perduta F 0' , non ebbe più un suo proprio contrassegno; Taccusativo, perduta Fw, diventò simile all'amputato nominativo, e nominativo ed accusativo si fecero indiscernibili dair ablativo, già in epoca più antica mozzato e vocalizzato. Così Io spirito popolare li trovò e considerò come simili , e nelF unica forma livellata vide una voce sola funzionante da questo e da quell'altro, allo stesso modo come i grammatici empirici del latino dicono

~ 257 - che domino è dativo ed ablativo , non ostante che il do- mino che occorre in frasi ove abbisogna il dativo, sia un succedaneo di dominoì , e il dominp che occorre in frasi ove abbisogna l'ablativo, sia una smozzicatura di dominod.

Vengo ora alle due critiche : Tana si fonda tutta sopra un malinteso, nato forse dal non essere stato io così esplicito come avrei dovuto. Ella ha creduto che a pag. 43 io stabilissi essere il plurale di i* e di 2"- derivato esclusivamente dal- Tablativo anziché dal nominativo (asini da asinis, anziché da asini; corom da coronis^ anziché da coronae.) Ora io non ho voluto dir questo; ho voluto invece mostrare che nel plurale, non meno che nel singolare, la voce italiana unica è derivata da un agguagliamento fonetico delle varie voci casuali latine; epperò ho cercato di provare che Tablativo coronis doveva diventare corone^ come il nominativo coronae era diventato cottone. L'opinione che, certo per colpa delia poca chiarezza di quella mia pagina, ella mi ha attribuita, non solo non è la mia , ma è in contraddizione con tutto il mio modo di pensare sulla questione della sparizione dei casi neir italiano, lo credo che le voci corone^ asim\ ecc., sieno derivate prima di tutto dai nominativi ; tanto è vero che per rendere possibile il livellamento dei casi del plu- rale ho ricorso appunto alla supposizione che le voci d'ac- cusativo si sieno assimilate, per quelle ragioni che colà dico, ai rispettivi nominativi, e alla supposizione che le voci d'a- blativo abbiano, dopo espunta Vs finale , quelle di 2* ser- bato Vi, quelle di 1" mutatolo in e, per influsso dei rispet- tivi nominativi.

Quanto ai nomi di 3* che in italiano hanno la voce di plurale terminata in i (1 cani, i monti ^ le voci)^ io ho, com'ella ben ricorda, espressa l'opinione che una tale ter- minazione in i non sia altrimenti stata loro comunicata per analogia dai nomi di 2* , bensì che la derivi direttamente

258 - dalle forme popolari in is (montisy vocis) ^ parallele nel la- tino a quelle in es. Ella non par disposta ad acconciarsi a questa mia opinione per due ragioni principalontente. « Il plurale della quarta, ella àìizz^ adottando come fa il fini- mento dei nomi delia 2^, rende prob^ibile che questa forma sia pure stata estesa ai nomi della terza. » Ora io vorrei osservare che pei nomi della 4* il caso è un po' diverso : prima di torto e' sono ben pochi \ inoltre sono diventati perfettamente identici ai nomi di 2* nel singolare ^ ed è quindi naturale che s' identificassero anche nel plurale ; e finalmente ii regolare succedaneo del plurale di 4*^ sarebbe stato indiscernibile dal rispettivo singolare. Nessuna di que- ste tre così gravi condizioni si verificava nei nomi di 3*. L'altra obbiezione che ella mi fa è « che le forme spa- goolesche, quali per es. , montes, naves , proprie anche di qualche altro volgare neolatino, come verbigrazia del logu- dorese, rftndono iaverisimile la popolarità di questa forma in is. » Ora io, come ella si può essere accorto percorrendo k pagine 4 e 5 della mia tesi, sono a priori mai disposto verso cotesta specie d'argomenti, che consiste nell' inferire da una proprietà del latino di una provincia una proprietà coasinaUe nel latino di uii'altra. E nel caso nostro, la prego considerare TajSnità grandissima dell' i e dell' e , consi- mile a quella che Intercede tra l'o e Tw, e il gran diffe- rire che fanno i varii dialetti, perfino di una provincia sola, quanto al preferire l'una o l'altra delle due vocali. Nel to- scano ella h2>. donno r, nel sardo donnu; cioè dire nell'Etruria il latino ha mantenuto V 0 , nella Sardegna ha piegato verso Vu; perchè dunque il logudorese naves non è storicamente conciliabile con un toscano navis? L'essersi finito per dire in Sicilia la fidi, non ha impedito che in Toscana dicesse la fede, lo dunque non vedo ragione per escludere la sup- posizione 4he nei dialetti dove ii plurale di termina in ?',

la terminazione antica popolare latina fosse in is piuttosto che in es. Mi riesce un po' duro Tammettere che tutta ia gran falange àt nomi di V si assumesse una terminazione spettante ad altra declinazione , e non avente nessunissin\o legame con ie forme sue proprie.

Una non lieve difficoltà si può dire che stia invece nel- l'ammettere, come io faccio a pag. 47, una novella forma- zione popolare d'ablativo di 3' in is {canis per canibits) , coniato sull'analogia dell'ablativo delle due prime declinazioni. Il prof. Ascoli, al solito tanto felice nel ritrovare spedienti ingegnosi ed eleganti, mi suggeriva questo : pedibus può es- sersi popolarmente ridotto a pedib's (cfr. pkbes a plebs) , a che accennano e Tosco e l'umbro , e da cui si passerebbe benissimo a pediss , che risolverebbe ogni questione. Mi perdoni T Ascoli questa indiscrezione, tanto più che, per accomodarlo al mio intento, ho lievemente modificato il suo prezioso suggerimento.

Del resto, non voglio terminare senza prima disdire un'o- piiìione molto sofistica che ho adottata relativamente ai dop- pioni, come sarto e sartore^ duolo e dolore , i quali ho ri- tenuto doversi a una doppia eteroclisia, una dagli obbliqui al nominativo (quindi sartoris^ de sartore , ad sartorem , sartorem, etc) , l'altra dal nominativo agli obbliqui (quindi sarto{r), de sarto, ad sartoim). A questa stiracchiatura io sono stato spinto da un eccesso di spirito sistematico. A non voler sofisticare , questi doppioni italiani accennano a una declinazione minore, a due soli casi, pari a quella del francese e del provenzale. Tra i quali e l'italiano corre que- sta sola differenza, che mentre in quei due idiomi il feno- meno occorse nel maggior numero dei nomi , onde rimase per un pezzo legge di tutta la categoria nominale, nell'ita- liano invece esso fenomeno fu sporadico e smarrì ben presto ogni valore morfologico. Questa differenza avrei solo dovuto

^- 260 - porre nella mia tesi, e invece, non so perchè, volli andare al di del giusto.

Mi perdoni ella questa prevaricazione, e mi perdoni in- sieme la noia che le ho data con tante ciarle, e mi creda Napoli, 20 setiembre 1872,

Suo aff.^^o ed obbL""" Francesco d^ Ovidio.

OSSE^iVAZIOU^l

ALLA LETTERA PRECEDENTE

Nella precedente lettera il sig. prof. D'Ovidio mira, parmi,

principalmente a sostenere tre cose:

r che anche !a forma dell" ablativo debba tenersi per

foneticamente rappresentata nel singolare, onde per es. it.

I lupu{s).

lupo j lupu{m).

\ lupo.

che il plurale di i" e 2* declinazione lo sia non solo

dal nominativo ma anche dall'ablativo, sicché per es. it.

( coronae, , { lupi,

corone = { ., lupi ^= , v x

( coroni{s\ { lupi{s).

y finalmente che il plurale dei nomi di terza proceda

dal nom. e acc. terminanti in is per es, onde per es. monti

da montis per monies.

Su questi tre punti mi permetto d'aggiungere alcune os- servazioni.

Comincierò, circa la prima quistione, dalPavvertire, come dicendo io non inverisimiìe la teorica del livellamento dei

- 261 ~ casi, non intendevo punto di negare assolutamente quella che io credo non minor verisimiglianza della teoria del Diez, la quale assegna principalmente alf accusativo il privilegio dell'aver dato la forma al nome singolare E perciò nel toc- care che io feci, nel mio articolo, della prima di queste dot- trine, cosi valorosamente propugnata dal prof. D'Ovidio, io m'ero nell'applicazione d'un esempio ristretto al nom. ed alfacc, perchè, a vero dire, quando io fossi per risolvermi a seguire una tal teoria, propenderei ad eliminarne l'abla- tivo; e facevo senza più una tal ristrizione per non avere a dilungarmi troppo a dir le ragioni di cotale eliminazione, le quali, al mio parere, sarebbero, oltre le allegate dal Diez e accennate nel lavoro dello stesso sig. D'Ovidio, principal- mente le seguenti:

Pare assai naturale, che l'ablativo, caso di valore dinamico affatto secondano , come lo prova , tra V altre cose , il suo dileguamento dalla declinazione greca, partecipasse a quello spegnersi cosi delle funzioni come delle forme casuali, a cui soggiacquero il genitivo e il dativo, non ostante che si man- tenessero vive le preposizioni de, ab e altre che lo reggevano in latino, passate la prima ad adempiere principalm.ente la funzione del genitivo {di=de) e de q ab quella dell'ablativo {da=d'a^ de-\-ab; confr. ant. sardo daba) (i). Tutte coteste preposizioni reggenti l'ablativo non avrebbero per avventura

(i)Il Diez [Gr., 11,27) considera i<i come nato da. de -\- ad; e cita il dad ladino (usato insieme con da), il cui d tinaie però ben potrebbe essere lettera paragogica, come in ned, ched, sed, mad , ed (per è) de- gli antichi scrittori toscani, e forse anche m ad, ed, od, forme per av- ventura paragogichc degli apocopati a { = ad) e(==et)o (=^aut). Ar- roge che generalmente la prep. de prefissa ad altra particella , come per es. in dentro {de -f intro), donde [de -f tnide), dove {de -f- t^^')-, "'"'n ne altera punto il significato; mentre qui in modo insolilo sarebbe ve- nuta a dare alla prep. ad un valore affatto opposlo , cioè quello a]>- punto di ab, che non par molto verisimile.

- 2«2 ~ giovato punto a salvar la forma di questo caso più che non avrebber fatto ad e le altre preposizioni chiedenti l'accusa- tivo per la forma di questo, se esso non si fosse mantenuto per propria virtù di caso che significante l'oggetto a cui va direttamente inazione, veniva perciò ad avere, col nominativo indicante il soggetto, una forza vitale destinata ad esercitare, conciliabilmente colle esigenze fonetiche de' vari volgari, una infiuenEa definitiva sulla nuova forma assumentesi dal nome neolatino. Venuto raccusativo (e secondo la teoria del livel- lamento, per la i", 2*, 4* e 5" declinazione, anche il nomi- nativo) a presentare un tipo pel nome del romano volgare, onde per es. corona = cor ona{m\ lupu, lupo=^lupu{m, s), questo tipo acquistò un'universalità di funzioni, fin che venne a dirsi indifrerentem.ente, per es. illu lupu rapir illu agnu (il lupo rapisce T agnello), de illu lupu (del lupo), ad illu lupu (al lupo), de ab illu lupu (del lupo).

Per l'esclusione dell'ablativo, e dirò anche per l'ammis- sione dell'unica forma dell'accusativo, credo si possa agghi- gnere un argomento desunto dal logudorese, non awenito punto, ch'io mi sappia, ma che a me pur sembra non privo ò\ qualche valore.

Il Diez (Gr., ì', 84), lo Schuchardt {Der vocalistìtus des vulglirlateins^ II, gS) e lo stesso D*Ovidio nella sua mono- grafia (p. 25) e nella precedente lettera (p. a58) considerano il sardo come uno di quei dialetti che sostituiscono gene- ralmente (i), come fa il siciliano, Vu all'o finale. Ora que- sta regola quanto al sardo non è punto applicabile alla

( j ) Parlando appunto del Logudorese in particolare dice il Diex: Der auslaut e bleibt, aherfur o tritt u ein (septe, foglio). Fa poi meravi- glia che ad esempio o finsie passato in « citi fogliu , egli che te- nendo per tipo deil* ioroa tionainale l'accusativo, dovrebbe risoluta- mente ripetere questa forraa à^folium. Bisogna supporre che qui l'ii- iuttre maestro avesse piuttosto in vista l'iialìano che non il prototipo latino.

263 - principale delle sue varietà, voglio dire al logudorese, che serba tenacemente , come V e, così anche V o e V u finali , quale per es. in eo {ego), arno^ cando {quando)^ otto {peto), corru [cornu), cabu [caput)^ pagu^ segundu {paucunty secttndum aw.) ecc. Ora egli è chiarvo che in un dialetto go- vernato da siniii legge, le forme nominali, quali lupu^ donnu^ ecc. non si potrebbero connettere foneticamente colPabiativo, e ciò tanto meno, in quanto che il logudorese, dove ha mani- festamente serbato qualche forma ablativalc, vi mantiene costantemente Vo finale, come per es. in sero (dalFavv, sero)^ sera, negli avverbi chito {—cito)} per tempo, elio (=-- ilio) {i). dunque, ecc. Alcune forme nominali in -oro, proprie del logudorese, come oro, tesoro^ moro, tee, ripetono Vo finale, sostituito air « dell'accusativo, da un principio d' assimila- zione esercitata dall' o precedente. Quanto aìVo finale di domoj casa, se non è effetto d'analoga assimilazione, è veri- ssmilmente dovuto ad una specie locativo domo o in domo che, come sero e altri, darebbe una sporadica forma del sesto caso.

Ho detto sopra che il logudorese, oltre all'escludere iV blativo, poteva anche provare Tunica forma deiraccusativo; e ciò in quanto questo dialetto, possedendo le forme nomi- nali sing. gidis (sitis), opus, corpus, pi. lupos^ e altreriali terminanti in s, mostra che avrebbe anche ritenuto la forma lupus, ecc., qualora il nominativo avesse in questa faccenris. potuto esercitare ma^ior influenza dell'accusativo. Sono ben lontano dal voler dire, che questa forma del nome logudo- rese possa da sola risolvere la quistione ^ perocché so bene

(i} Il Porro e lo Spano ne* loro ypcabolariì connettono etimolos!;;- cataente quesw particella con »n greco «XXiw (^ic),-aiiiìr£riO- CI. lat. id-eo, composto nell'ultima sua parte d'ili' abi. eo , afhsao n modo di voce enclitica; egli avverbi greci procedenti da forme ablativali uic;, ^Il^€,

264 ancor io. come un tal dialetto, non potendo in una sola forma, quale è per es. lupu^ raccogliere un naturale risul- tato identico delle tre forme lupus , lupum ^ lupo^ secondo che lo potrebbe Titaliano lupo^ il sic. lupu^ avrebbe dovuto di necessità attenersi ad una sola forma casuale. Ma questa, quale è risultata, non potendo, secondo le leggi fonologiche dell'ambiente logudorese, essere altra che quella dell'accu- sativo, presenta un fatto che rivendicando pel sardo a questo solo caso la somministranza dell'unica forma nominale, verrebbe , secondo me, a corroborare notabilmente la teoria dizìana. varrebbe, io credo, ad invalidare questo argo- mento l'obbiezione che altri facesse, notando come per la mutabilità che nella flessione nominale del latino volgare presentano le vocali o ed w, non sia da dar gran peso a queste ragioni meramente fonologiche; perocché non possa dubitare come nel principio dell'era volgare fosse, si può dir, quasi costante e regolare Vu pel nom. e acc, e l'o per Tabi.; e da quel tempo, come quasi da punto originale, si debbano pigliar le mosse per investigare le vicende fone- tiche del romano volgare trasformantesi in neolatino.

Finalmente, che la succedaneità d'un casoo per dir meglio di una sola forma casuale a tutte le altre non sia, come crede il D'Ovidio, contraria allo svolgimento naturale dei linguaggio, lo proverebbero, parmi, ampiamente, fra gli altri, i non pochi esempi di forme nominativali del singo- lare diventate tipi non solo di tutto il singolare , ma anche dei plurale, come per es. ladro^ ladri dal nom. latro; o. segna- tamente l'accusativo plurale che per questo numero la forma a tutti i casi delle lingue dell'Europa occidentale, del sardo e alcuni dei nostri dialetti alpini; sicché l'esempio da me recato di una sola forma del romano volgare, pro- cedente dall'accusativo singolare, indifferentemente congiunta con de ^ ad, non avrebbe nulla di piià singolare che non

- 265 - sia per esempio in de e ad illos amicosj dende lo spagnuolo de Q a los amigos.

Circa il secondo punto riconosco, come male io affermassi che ii signor D'Ovidio deriva la forma dei plurali di [' e di 2' unicamente dall'ablativo ; perocché una più attenta let- tura del suo scritto avrebbe dovuto farmi capire che egli voleva, come nel singolare, così anche nel plurale trovare modo di conciliare foneticamente la forma del nome italiano tanto con quella del nominativo, quanto dell'ablativo latini. Contro questa teoria sorgerebbe pur qui naturalmente una parte delle obbiezioni già accampate per l'esclusione dell'a- blativo singolare. Foneticamente non si può certo negare che per es. da lupis non dovesse regolarmente venir liipi^ e, se si vuole, anche da coronis corone, sebben qui la fono- logia di per se sola nel campo toscano e altrove non avrebbe forse condotto altrove che a coroni (i). Ma si po- trebbe bene tener per certo, che quando i nomi così di prima come di seconda fossero venuti a terminar tutti, come alcuni, in bus (per es mulabus , natabus^ ejc.fimi- ciòuSy ecc.), il finimento italiano di essi nomi nel plurale non potrebbe essere altrimenti da quello che esso è, cioè

(i) Il toscano, e segnatamente ii fiorentino, a cui noi dobbiamo sem- pre aver l'occhio quando si tratta della storia dell'organismo e della forma della parola italiana, non presentano la mutazione d'i finale in e se non in alcune forme, così verbali come nominali, dove il fenomeno non può dirsi subordmato a mere ragioni fonetiche, ma viene determi- nato dal bisogno di differenziamento formale , ovvero dall'analogìa, come, per es,, m legge=legit ,■ sangue=sanguis; sete=sitim, ecc. Più naturale e meramente fonetico è nel fiorentino il fenomeno contrario, cioè la mutazione di e finale in i, onde, per es. , lungi-=longe ; tardi= tarde,' ami '^^amerriy ameSy amet; Chimeriti^sClemente (m.),- Cresci=Cre- scens, ecc. La forza di questa legge si manifesta principalmente, sebbene in modo sporadico, nel trarre femminili plurali di a finire in », e così contro il principio del simbolismo sessuale, come, per es., in le porti, le veni, le calendi, ecc.

"Rivista di filologia ecc., I. 19

266 improntato della forma del nominativo, e ciò probabilmente solo perchè l'accusativo, al quale pare che generalmente fosse riservato l'uffizio del dar la forma al nome neolatino così nel singolare come nel plurale, in questo numero pei volgari italiani non avrebbe potuto ridursi foneticamente ad altra forma che a quella stessa toccata al singolare, onde ne sarebbero venati per es. da coronas corona , da lupos hdpOy da canes cane, da spiri tus spirito, ecc. Il sardo, che è pure dialetto italiano, ma al cui genio fonetico non ripu- gna punto la 5 finale, dice appunto , come già se n'è toc- cato sopra, al pi. coronas, lupos (log.), lupus (mer.), canes (log.), canis (mer.), spiritos (log.), spiritus (mer.), ecc., tutte forme procedenti dall'accusativo, che serbando la s finale non possono generare confusione di plurale col singolare.

In ordine all'argomento delle forme spagnuole e logudo- resi montes e naves da me citate a negar la verisimiglianza dei plurali montis, navis ecc. come propri! del romano vol- gare, che il D'Ovidio non ammette per una diversa proprietà di latino ch'egli vorrebbe stabilire tra provincia e provincia, lasciando io da parte lo spagnuolo in cui le due voci da me recate potrebbero ripetersi egualmente cosi da un tipo in es, come in is, e riferendomi al solo logudorese, osservo come questo dialetto, chi ne investighi diligentemente le leggi fonetiche, accenna risolutamente pei plurali di terza a forma prototipa in es, non essendo verisimile che esso mutasse per es. montis, navis in montes, naves (i). Ora se il romano volgare portato nella Sardegna avea queste forme in es^ noi non abbiamo ragioni per negarle al romano volgare di

(i) È troppo chiaro che un dialetto, il quale da un lato, per es., da sitis fa sidis^ da habetis he^is^ da tu venis benis, e dall'altro da haberes (a haperes , da manduces mandigheSy da mulces mulghes, da forme nominali, quali montes, naves, non può non fare montes, naves, come dalle ipotetiche montis, navis avrebbe fatto pur montis, navis.

967 alcun altro paese, dove la fonologia non le contraddica. Gli esempi di donno , donnu, fi'ii > f^de non mi par che provino nulla al nostro proposito, non potendosene argo- mentare altro se non il principio elementare delle varie peciiiiaruè fonologiche dei dialetti. Il toscano donno e il sardo donnu mettono entrambi capo ad un solo prototipo, dominuijn) (i), il sic. Jìdi e il tose, fede ad un solo pro- totipo Jìde{m), come appunto in Sardegna il log. monteSy naves e il meridionale montis, nai'is si debbono ripetere da un unico tipo motites^ naves, mantenutosi inalterato nel logudorese, mutante e in i nei meridionale, perchè così porta la rispettiva fonetica di questi due volgari.

Dirò conchiudendo, come al mio giudizio la quistione della origine dell'unica forma fiessionale del nome italiano possa tenersi, non ostante la bella monografìa del prof. D'Ovidio, come tuttora in pendente fra la teoria del conguaglio fone- tico dei casi e quella delia forma accusativale. Forse una piij ampia e profonda indagine, che finora non siasi fatta, circa la declinazione del romano volgar<:, potrà aggiungere qualche nuovo lume su questo problema, e far definitiva- mente tracollare ia bilancia per Tuna delle teorie suddette.

G. Flechia.

PS. Ricevo, ora appunto in sul finire di correggere le bozze di queste mie osservazioni, un dotto articolo del

(() A proposito del toscano donno, sardo donnu, il sig. D'Ovidio dice che « «elì'Ktruria il latino ha mantenuto l'o , nella Sardegna ha pie- gato verso Vu. » Questo sarebbe esatto se la forma del pome di 2* de- clin. venisse dall'ablativo. Noi diremmo piuttosto che neil'Etruria Vu latino è passato in o ['^tr e.%.: capo => caput, petto s= pectus^' tee); vatuivc nella Sardegna si mantenne; e questo affermeremmo anche ammesso l'esteso livellamento delle forme casuali professato dai sig. D'O., pe- rocché sarebbe a ogni modo piuttosto da tener conto, in ordine alla forma originaria , del nom. dominu{s) e dell'acc. dominu[m)y che non deU'abl. domino, in quanto più possono due che uno.

268 sig. Adolfo Tobler {Goti. gel. An-{, 1872. St'ùck 48, pp. 1892- 1907), in cui rillustre. professore di Berlino, prendendo ad esame la monografia del sig. D'Ovidio, non solo pro- pugna la teoria diziana deiraccusativo in ordine al singolare, ma cerca di estenderla, pur per Titaliano, anche al plurale di prima e seconda declinazione.

Torino, 4 dicembre 1872.

G. F.

CE^V^I 'BI'BLI0G1{AFICI

Dizionario italiano-greco compilato per le scuole da -Federico Brunetti, Venezia, 1873.

Ecco una pubblicazione utilissima per le nostre scuole, e vivamente desiderata da chi conosce un po' da vicino le con- dizioni dell'insegnamento del greco nei ginnasi! e licei del Regno. Un lavoro di lessicografia promette forse poca gloria al suo autore, ma certo molte più noie gli arreca, che altri non creda. Gii è proprio il caso di esclamare col poeta : « Sic POS non vobis mdlijicatis apes ! »

I libri di testo per le scuole, e, in generale le pubblica- zioni che si fanno in servizio della istruzione, porgono a nostro giudizio un criterio bastantemente sicuro dello stato della cultura del paese rispetto a un dato ordine di disci- pline. Così ad esempio , chi gettasse uno sguardo alla let- teratura grammaticale della lingua greca, che tenne il campo in Italia negli ultimi decennii, potrebbe agevolmente cono- scere in quale conto gli studi del greco fossero tenuti dal- l'universale. Tanto che V introduzione della grammatica greca del Curtius, fatta nelle scuole della Lombardia e della

269 Venezia intorno alPanno i855 segna, come a dire, il co- minciamento di una nuova èra nella storia dello studio del greco nelle nostre scuole. Ma quanto a vocabo'arì italiano- greci non fu fatto un passo oltre i termini antichi , segnati dal Fontanella dapprima, e dal Cusani dappoi, cloche vuol dire che dal 1846 in qua noi in questo rispetto siamo rimasti fermi. Vero è che forse il bisogno del vocabolario italiano-greco era meno sentito nelle scuole, massime dopo che il libro di Eserciti greci dello Schenkl si diffuse nelle nostre Provincie, contemporaneamente alle grammatiche del Curtius e del Kiihner; poiché i dizionarietti stampati in appendice a quel libro e ad altri congeneri, porgevano un sufSiciente materiale di studio nelPlnsegnamento elementare del greco. Ma oggimai, checché si dica in contrario, un po' di risveglio c'è anche negli studi greci in Italia*, cre- diamo anzi, che e' sarebbe oggimai tempo di allargare il campo degli studi grammaticali e delle letture greche ne^ licei del Regno, proponendo versioni dall'italiano in greco un po' più estese, che non permettano gli esercizi dello Schenkl, massime la Parte prima pe' ginnasi i (i) usata sin qua. E quanto alle letture ne pare che sarebbe tempo, che oltre a Senofonte si pensasse un po' seriamente allo studio delle poesie omeriche, di qualche dialogo minore di Platone, di qualche brano d'Erodoto, il cui studio agevolerebbe di molto l'intelligenza e lo studio del dialetto epico antico, e di qualche oratore ateniese, per es. d'Isocrate.

Ma per parlare oggi soltanto delle versioni dall'italiano in greco, crediamo che sarebbe utile che gli insegnanti tentas- sero oggimai ne' licei, massime negli ultimi corsi, qualche

(i) Gli Esercizi greci dello Schet.kl pei Licei tradotti dal prof. Miil- ler, e stampati dal Loescher, otfrono una messe ben più larga di ap- plicazione delle regole della sintassi.

270 - versione un po' più larga , cioè alquanto diversa da quelle cui danno occasione i soliti Esc'rcÌ7j, proponendo agli alunni di voicjre in greco qualche luogo di Plutarco, di Luciano, di Isocrate', e qualche brano de' Commentari di Cesare o d'altro autore latino facile a tradursi in greco : lavoro co- desto di grande utilità ne' riguardi della sintassi, pe' riscontri delle due lingue. Chi conosce i Temi versione in greco del Franke (i), che da molti anni servono come libro di esercizi nelle scuole tedesche, sa fina a che punto si possa portare ne' licei questo utilissimo esercizio delle versioni in greco. Certamente da noi sarà ancora prudente che si gridi : cyireObe ppaòéwi; - festina lente ; ma si persuadano gli onorevoli insegnanti delle scuole secondarie, che molte volte la è questione di buoni testi, di libri ben fatti, che coll'esattezza scientifica congiungano una qualche ampiezza di tratta- zione, e sopra tutto chiarezza. Non è egli vero forse, che un manualetto, un trattateli© , stampato con tipi eleganti , nel quale la materia sia tenuta dentro a termini discreti , nel quale la sicurezza del metodo e l'accuratezza dello studio apparisca a primo tratto, senza metter paura non è vero, diciamo, che un libro cosiffatto invoglia allo studio e cattiva l'animo di molti piiì insegnanti e scolari, che non facciano i regolamenti e i programmi, sieno pur larghi questi e or- dinati all'uopo?

A quest'ordine di considerazioni ne richiamava il Dizio- nario italiano-greco^ edito or ora dal prof. Brunetti. È un libro fatto bene e con cura, condotto sopra modelli' eccellenti, come a dire i dizionari del Rost e del Pape, e in parte an- che del Planche : opera quest'ultima un po' vecchia, ma da non disprezzare. La stampa vi è correttissima : nella lettera A un solo errore d'accento abbiamo riscontrato alla voce

;i) Lipsia, Brandsieuer, 1845.

271 assuefare , dove è stampato etoiOa per cTcuGa ; ed uno solo alla lettera Af, dove alla voce madre è stampato a^riTwp per à^rJTUjp. Quanto poi alla copia de' vocaboli e delle locuzioni noi dobbiamo lodar proprio proprio di cuore il bravo prof. Bru netti, il quale intravvide benissimo dove stia il nodo delle difficoltà nelle versioni dall'italiano in greco. Importare cioè, che a vari usi di uno stesso vocabolo, massime de' verbi , si pongano di rincontro le corrispondenti locuzioni greche , cogliendone lo spirito , laddove il significato letterale non quadri. Ecco qualche esempio :

Aprire àvoiTwiiii \\fendere (S^x^^u \\ manifestare bn^óuu H comin- ciare apxo^ai Tivo<; (1 spiegare ilr\'^io\xa.\ \\ aprire gli occhi ad ale. = lo faccio rinsavire vou8eT€u) xivà (] ... una lettera Xùui 11 ... la vena qpXépa xéiiviu 1| ...la mano Tfjv x^ìp» àvaTretàv- vum II ... una via òòorroi^u) || dare avviamento TrpoTrapacjKeu- dZIuj II non oso di aprir bocca oùbè xaiveiv ToXjuduj.

Si riscontrino inoltre le voci apprendere^ aperto , armif sti^io, acquay aspro, maggioranza^ male^ mandar e^ inanOy marcio, modo , ed altre molte. E abbiamo voluto vedere anche alla prova il Dizionario del Brunetti , proponendo a tradurre nel corso del liceo un brano di Plutarco, vol- garizzato dal Pompei {Tiberio Gracco, cap. IV). La re- troversione fatta in iscuola coU'aiuto del Dizionario del Brunetti riuscì abbastanza bene, con sufficiente proprietà di lingua, e ciò che piiì monta, senza gravi difficoltà lessicali. Qui e colà però abbiamo riscontrato qualche menda, che l'autore si darà premura di togliere in occasione di una ristampa, e d'altronde facilmente scusabile in un lavoro di questo genere. Citeremo qualche esempio della lettera A : I. Alla voce abbandonarsi l'autore fa corrispondere il grecò èmbiJ)U)|Lii éjuauTÓv rivi o irpó? ti. Quest'uso è raris- simo, e soltanto de' scrittori della decadenza, e meglio col-

-272-

!'€!?; per es. €Ì<; xpuqpnv (AM. , Vili, 525). L'uso classico di questo verbo è piuttosto impersonale.

2. Alla voce abiura^ abiurare, T autore contrappone èmopKfa, èTTiopK^u*. Non ci pare esatto-, perchè queste voci greche significano /a/^o giuramento, giurare il falso ^ men- tre V abiura è la rinunzia solenne di un errore, dottrina, opinione , perchè falsa e perniciosa , e che in greco sa- rebbe àTró|ivu|ai od èEófivujLU, ed anche èrroiaócrai; àTianeTvfi).

3. Alla voce accusa ai tribunali è contrapposto Tpaq)»^. Ciò è poco , perche v' è anche biKri , con questo disvario , che Tpctqpn è querela scritta contro un reo di delitto pub- blico: biKTi è querela privat^'r.

4. Amicarsi con uno è reso con cruvbiaXXdo"cro|Liat. Non crediamo che sia esatto, perchè a òiaXXào'jeo'Qai c'è sempre connessa Tidea della riconciliazione. Si poteva almeno ag- giungere 91X0V Troi€ia8ai riva, «vaKTauGai riva.

5. Amissibile è reso con d7róp\r,To^. Non pare corretto, perchè questa voce greca suona dispregievole, degno di di- spregio,

6. Ammalato è reso con voaiqpóc,. Questa voce greca si- gnifica piuttosto « insalubre » . Era da tradurre àaQevr\<i ovvero voaiuòn?-

7. Assonnare, aver sonno è reso con KO»)jiao^ai *, biso- gnava tradurre vttvluttoi ; Koifidofiai vuol dire « prender sonno .

8. Alla voce meno è detto di rendere e ancora meno con uf] oTi. Non è chiaro -, bisogna dire seguito da àXXà o preceduto da oObè. Per es. Mri òti ibiiOrnv tivd, àXXà M^'fav patJiXéa. oùbè riXeiv , ]x^ òti dvaipeiaOai toCh; avbpa? buva- TÒv nv.

( I ) Confronta : Schenkl, Deutsch-griechischesSchuhi'Órierbuch alla v.; Lipsia, Teubner, 1866, che l'autore nostro avrebbe pur anche potuto consultare con profitto.

273

Ma questi sono nei , e il lavoro è buono nell'insieme e vi torneremo sopra a miglior agio.

Rovigo, novembre 1874.

Gaetano Oliva.

Elementi di grammatica greca ad uso delle scuole-^ Roma, 1872, Eevoqp'jJVTO? Kupou rraibeia. Adnotationibus et illust?^atiombus auxit Angelus Tmmoho^ presb. NeapoL\ Napoli, 1871. biblioteca utile alla interpretaiione dei Classici greci e latini^ versione dalVoriginale tedesco con aggiunte del Prof. Bartolomeo Zandonella e Francesco nob. Cipolla-, Verona, 1869.

I.

Finalmente i ginnasii ed i licei italiani saranno liberati dal giogo ^del barbaro Curtius e dei non meno barbari ba- stardi Italiani che se ne fecero seguaci e promotori, credendo scioccamente che qualche veramente utile innovazione po- tesse provenire dai paesi degli Iperborei. Il redentore è l'el- lenista di primissimo ordine il quale pubblicò testé a Roma coi tipi della S. Congregazione de propaganda fide gli Ele- menti di grammatica greca, di cui ci accingiamo a cantare le lodi. Certamente è già dovere di tutti gli uomini assennati e dabbene reputare questa nuova grammatica assai migh'ore che quella di Curtius sin dal giorno in cui questa verità fu insegnata, con tutta la competenza e Tautorità desiderabile, in un articoletto anonimo di un giornale religioso e politico di parte clericale : ma a questi lumi di luna, fra tanto scet- ticismo, ci sembra fare opera buona tentando di confermare, con un poM esame critico, la prelodata sentenza. E diciamo in primo luogo che questa nuova grammatica supera quella del Curtius in brevità : che vcdc&i nella prima, proprio m.i-

274 - racolosamente, esposta la sintassi dei tempi e dei modi in una sola pagina (p. 70-71) (i); si ommettono i verbi irregolari in jai (tranne e\p.i, tliai ed iriM')) ^ tutti, certamente per amor di brevità e perchè affatto inutili, quelli in oj (2), si om- mette, finalmente, tutta la esposizione delle leggi foneti- che, la quale ommissione non è a dire quanto giovi a ren dere razionale e facile lo studio delia formazione di certi tempi dei verbi muti. E mentre Schenki e Boeckel (3), Tedeschi che lavorarono per Tedeschi (cervelli ottusi), stima- rono necessario un volumetto di temi dal greco in italiano e dallo italiano in greco, Tautore di questi Elementi a buon diritto pensò che, sotto il limpido cielo d'Italia, qui dove tutti gli ingegni sono belli e chiari, sono sufficienti tredici sole pagine di esercizi dallo italiano in greco (4). Ma ciò

(i) Crede fórse il nostro chiarissimo autore che la cintassi di una lingua perfetta ed ammirabile venga rivelata per miracolo a que' giovi- netti italiani che si destinano allo studio classico , dacché sbriga l'uso de' tempi in 21 linee (p. 70), e l'uso diiììcile dei modi in 22 {p. 71). Poveri Matthiae, Kuhner, Kriiger, Madvig, ed altri, che avete riem- piuti de'volumi con i vostri trattati di sintassi, voi ben vedete che un maestro della forza di quello che? ha scritto questo libro non ha biso- gno delle vostre elucubrazioni, e che i suoi allievi i quali abbiano un pochino di memoria , in mezz'ora al più possono imparare quella sin- tassi, intorno alla quale que* pessimi libri tedeschi sciupano tanta carta e richieggono almeno un anno tanto prezioso nella vita giovanile di serio studio.

(2) Chi si sentisse disposto a giudicare soverchia questa brevità, noti che, quasi per compenso, si danno a p. 49 e 53 anche le forme €9nv, r]<;, T], ?6u)v, luc;, u», che sono un* invenzione dei grammatici.

(3) Parliamo solo di questi, perchè i loro esercizi esistono in edi- zione italiana, e non già di quelli d'un Francke, d'un Bàumlein, d'un Boehme , che farebbero rizzare i capelli al prelodato critico per la qitantità di materia che offrono agli studiosi.

(4) Dopo la p. 76 della Grammatica. E che fior d'esercizi ! Sentite e. smpite: « La testa della luna - 11 mare della luna- Alla sete della lin- gtia - I ladri ai poeti ~ 1 magistrati ai ladri - O libraio al poeta - Le vergini agli uomini - Ai pavoni i frutti - Le lampadi,di legno - O te- nero bue » I ( p. 2, linea 17} , e così via. Ma ci pare che basti.

- 275 - non basta. Quanta differenza fra la oscurità di certe regole di Curtius p. la perspicuità, veramente greca, che ammiriamo, V. g., nella nota seguente alla forma I9nv: « L'altra forma di Passato colla reduplicazione fa èiiOnv, èiiBn?-.- Si os- servi che questo Passato dei verbi in m, ha le desin€n\e del- l''Konsto Passivo, dal quale dit'ersijìca per la mancanza di aumento del Perfetto, e per il noi uso delle aspirate avanti la desinenza^ ove queste non si trovino nel tema, come sono in Biiu » (p. 49). E quanto riesce utile alla pronta e com- piuta comprensione della flessione nominale e verbale lo avere liberato i paradigmi della declinazione dai noioso duale « usato ben raramente in poesia » (p. 4), e per lo più divisa in due parti la coniugazione, una delle quali è am- messa nel testo, l'altra debbe star paga di essere accolta nelle note. Vuoisi poi dar lode al nostro autore soprat- tutto per ciò ch'egli respinse arditamente le temerarie inno- vazioni colle quali Currius, Koch, Inama tentarono rendere razionale lo insegnamento del greco nelle scuole secondarie. In questi Elementi vediamo finalmente il venerando empi- rismo dei secoli passati sostituito allo insolente raiionalì- $mo glottologico dei novatori : così i fanciulli non si avvez- zeranno a chiedere le ragioni delle cose, e, continuando ad essere nelle scuole di grammatica educati come se do- vessero diventar macchine, impareranno a diventar dociU ed a ripetere, abbassando le lunghe orecchie, il salutare aÙTÒ<; £q}a dei Pitagorici. E, del resto, sotto questo limpido cielo, il voler insegnare le ragioni delle cose è renderle oscure : lo insegnamento non è veramente chiaro se non ove, in fatto- di cause, c'è buio pesto. Ma non si creda, che nel libro che noi stiamo inneggiando non si squarci talvolta il velo che ci nasconde Torigine di tante forme greche ; che, p. cs., v'impariamo la derivazione del tema 9éui (di TÌ9rmi) da Iw (p. 55, nota 4) è di l^\l} da èuj (tema di cljni), (p. cit.). Non

2r3f3 -

mancano dunque audaci affermazioni; anzi vediamo risolto il problema che concerne la pronunzia antica del greco me- diante la nota che si legge a p. 2, e nella quale s'insegna che la pronunzia antica è la moderna, e che questa è sostenuta non solo dall'uso, ma dai documenti, dalle lapidi, e dai codici. Quindi, più logico che qualche professore torinese, il nostro autore e maestro vuole che anche Vx\ si pronunzi i: che montano i contrarii pareri degli odierni linguisti e soprattutto di Schleicher? ;i) E chi potrebbe mettere in dubbio il coraggio scientifico o la potenza innovatrice di un ellenista, il quale non si peritò nemmeno di mutare lo accento acuto di varie forme del nome Xafuut; in accento circonflesso (p. 7, nota 2)?

Noi pertanto chiniamo la fronte innanzi a fatto mae- stro, che compose questo libro, scegliendo fiore da fiore negli studi grammaticali degli antichi e dei moderni, tentando ini- ziare « le giovani menti ad una retta filologia » e condurli così alla cognizione della lingua greca, «fonte » (! !!???) « e quasi maestra della lingua latina » (v. la prefazione). Che se ad alcuno parranno per avventura soverchie queste no- stre lodi, noi ci affrettiamo a dichiarare che il libro da noi annunziato ha certamente almeno due grandi pregi : i" quello di mostrare ad evidenza in quanto basso loco mini al- lorquando si abbandona quella scorta sicura che è la scienza; 2*^ quella di rivelare, nella più chiara guisa possibile, l'igno- ranza, quasi incredibile, di chi propose fatto libro ai pro-

(i) «Pronunziare l'antico greco secondo la foggia del nuovo è di- fetio che si fonda in genere sopra la completa ignoranza delle leggi che governano la vita delle lingue e della dottrina dei suoni. •=> Compen- dio di grammatica comparativa ecc., trad. dal Pezzi, p. 24, oss. i*. Confr. poi l'esposizione delle ragioni scientifiche e pedagogiche, le quali militano per la pronuncia così detta erasmiana nelle scuole, nella pre- fazione, che chi scrive ha premesso agli Esercii greci ad uso dei Licei di Carlo Schenkl. Torino, 1872.

-277-

lessori italiani e la inettitudine dei maestri die lo adotteranno, se pure alcuno di essi non si vergognerà di adottarlo.

IL

Ma quando i giovinetti, istruiti colla grammatica sopra- lodata, avranno acquistato un si solido fondamento per i loro futuri stuòli di lingua greca, sarà pur d^uopo dare loro in mano un qualche libro di lettura per introdurli alla cono- scenza degli autori greci. Ad edizioni fatte o commentate dai Tedeschi (i) e dai loro seguaci italiani (2) non dovranno cer- tamente ricorrere, che questi son testi, i quali dopo l'esatto confronto dei codici più autorevoli si trovano raffazzonati in un modo, che per i critici della sopramentovata scuola si chiama nientemeno z\\t falsiJìca\ione, e sarebbero certamente pericolosi nelle mani degli studiosi italiani. Nei com.menti, gli autori, per lo più insegnanti delie scuole protestanti della Prussia, della Sassonia ed altri paesi della nebulosa Germania, vogliono bensì additare allo studioso la via per ben intendere l'autore che intraprende a leggere, ma in guisa da non risparmiargli in verun modo una ben seria fatica: e in fatti non gli danno una spiegazione che in luoghi di tanto difficile interpretazione da non poter sperare, che, colle cogni- zioni di cui dev'essere già fornito , possa venire a capo ; del resto lo rimandano ad una di quelle esecrate grammatiche.

(i) Citiamo, a modo d'esempio, quella Raccolta di classici greci e latini, che è diretta da Haupt e Sauppe, edita dal Weidmann a Ber- lino , in cui Senofonte è comentato da Rehdantz , Hertlein e Breì- tenbach; Omero da Fasi e C. W. Kayser; Sofocle da Schneidewin ; Cicerone da O. Jahn , C. Kalm ed altri tali, il cui solo nome, quasi impossibile a pronunziarsi, fa orrore.

[ì] Fra queste ci piace segnalare alle ire di que' critici, di cui sopra, specialmente alcuni dei volumi della edizione scolastica di autori greci, fatti dall'Alberghetti di Prato, e di cui fu discorso anche in questa Rivista fase. Il (Agosto), p. 72.

2'78 o ad altri passi del medesimo autore, o lo costringono con una domanda a pensare, e va dicendo, insomma, son fatte da gente che vogliono anche lo studio dei classici adoperare per educare al serio, indefesso lavoro, per aguzzare Tingegno, come se io studio dei ct&ssici fosse utia palestra intellettuale, preparatoria per la vita in cui il giovir.otto deve bravamente sudare. E ciò potrà andar bene nella Germania : ma qui bi- sogna spai'gcre rose sulla via e far sì, che Tingegno naturale e vivo non venga guastato dalla soverchia fatica, e che sVcquisti ii sapere, come Tape raccoglie il dolce miele sui fiori. E che bisogno hawi di ricoi'rere ai Tedeschi se si presentano in Italia libri tanto opportimìj, quanto sono la Ciropedia dei sig-. Tum- molo e la Biblioteca utile alla interpretazione dei classici greci e latini dei signori Zandonella e Cipolla^ di cui abbiamo sott'occhio pure alcuni fascicoli della Ciropedia, e cine felice- mente si completano a vicenda per fatta guisa che, contem- poraneamente adoperandosi, tolgano ai felice scolaro tutto il fastidio e la noia di dover tormeniarc ii cervellino, di faticare, di logorarsi la salute e ottandc-re il suo vivace ingegno. Tutto quello ch^egli può desiderare trova belio e fatto, purché si procuri tutt'e due questi aurei libri. 11 sig. Tummolo da capo a fondo del libro l'analisi grammaticale dei singoli vocaboli (i), talvolta con bellissimi spropodti, e l'opportuna versione parola per parola , a mo' dei seguenti brani, che aprendo a caso il primo volume, fedelmente riportiamo:

(i) E con che fior di scienza gratrmatìcalel Potreste, per esempio, imparare sino dalla p. 3 che Toficv è dorico per \ao.\xev pres. ind. da turiiuii, scio, e poi oI(J8u eolico per oTòa; di 001 per toì ed dviaoQai deriva a-ldu) e centinaia di consimili verità, che v'invogliano proprio di cono- scere la grammatica da lui adoperata, perchè degna delle medesime lodi che abbiamo di sopra tributato agli Elementi, Lo sfidiamo di mostrarcele in quelle citate da lui nella prefazione, a meno che non le abbia pescate nel Burnouf , che nel famoso Estratto di Berrini infesta ancora le scuole italiane.

~ 279

« p. 1 29. § 4. (Tùv TrpoióvTe(;, qui cum uxoribus praces- serunt: nempe uxor Cyaxaris^ Tigranis filii eius maìoris et Jiliae regis » || èvéuecrov el? toù?; inciderunt in eos: ab èv- TriiTTiu aor. 2. tq\}<; prò èKeivou^, 01 = 6 TtaTc; minor Sabaris Il édXuucrctv : capti fuere: ab dXicXKOuai, captar aor. 2. \\ àfóiueva èruxsv : vehebant, a tutxo'vuj W<:/. //^. i e. vi. § 32. TUTXÓvoi II TiTVÓ)i€va: quce acciderent || ÒTtopiùv no» rpctTroiTO: quo se verteret^ hcesitans: àrropeu) hcesito. »

E non vogliamo tacere, che l'autore, così amante delia studiosa gioventù, non pretende già che si tenga a mente quello che una volta ha detto, che queste stupende e recon- dite verità grammaticali le ripete ogni voita che il libro senofonteo gli presenta la opportunità: insomma il tutto è un bellissimo fuggifatica illustrato eziandio da non rari errori di stampa (i).

(i) Ma egli ci ha data tutta la Ciropedia e minaccia di pubblicare anche l'intiera Anabasi. E corae mai si pretenderà che uno scolare di liceo legga tanta farraggine di greco? Non si è sempre praticato, e gli esami d'ammissione ai corsi universitari di lettere ne fanno fede ogni anno, di leggere nei tre anni di liceo pochissime pagine di Senofonte? E si dovrà abbandonare lodevole abitudine? Non già. Ed i libri fatti a bella posta per corrispondere anche a questi giusti desideri non esistono forse ? Chi non vuol spendere che cer tante paginette di greco, quante leggerà in liceo, ricorra pure ai Scelti luoghi àcìV Anabasi, delia Ciropedia, dei Memorabili, che sono stali pubblicati dal sig. Benedetto BoNAzzi in Napoli. Perchè poi il sig. Tummolo non creda che il nostro giudizio sul suo libro sia proprio tutto nostro, vogliamo citargli quello che può leggere nel Literarisches Centralblatt filr Deuischland 1872, n. 33, e che press'a poco suona così : << Malgrado la nostra benevolenza per tutto quello che concerne gli sforzi che nella nuova Italia si fanno per le scuole classiche, dobbiamo dire che il grado elementarissimo che occupa l'edizione del sig. Tummolo, nella quale è ignorata affatto la odierna scienza, dev'essere abbandonato. Se, a mo' d'esempio, in una sola e medesima pagina non meno di quattro volte è insegnata l'alta verità che olòa significa scio, perchè mai dare in mano a scolari, che non sanno nemmeno ciò, i libri di Senofonte?... Se le cognizioni di greco nelle scuole classiche dell'Italia meridionale sono veramente così basse, quanto risulterebbe dal libro del sig. Tummolo, non si può dire

280

Ma vi potrebbero pur essere alcuni, a cui parrebbe troppo, doversi il latino del sig. Tummolo tradurre in italiano, ed improba fatica il dover ridurre i suoi brani di frasi in periodi italiani. A costoro vengono poi in aiuto i signori Zan- donella e Cipolla che danno la traduzione letterale del testo, la quale, secondo loro, serve mirabilmente a far impratichire nella versione , cosi da potere in tempo non l-ungo cammi- nare franco da sé, e fa che chi abbia pazientemente se- guito tali osservazioni si trova alia fine, come per incanto^ padrone di quella sintassi che lo aveva forse sconfortato, quand'era costretto ad impararla nella sua teoretica aridità.

Convien pure che diamo un saggio anche di quel metodo incantevole, che, al dire dei due traduttori, opera simili mi- racoli, quando lo scolare per lavoro di casa avrà copiata pu- ramente e semplicemente la loro versione letterale e qual- cuna delle loro osservazioni, aggiungendo Tanalisi prediletta dal prelodato sig. Tummolo.

Prendiamo subito a p. 8 il § 2 : tujv ^oujv, tujv iTriraiv, dipen- dono da apxoviei;. KaXoujLievoi vojneT?, che vengono detti, chiamati pastori. àféXa?, d'ordinario dicesi solo di buoi e pe- core, qui di animali domestici in particolare. ?ti toìvuv, serve ad introdurre un nuovo pensiero «e di più» ujq)eXou|névoic; àn aÙToiv, a coloro che. traggono da essi vantaggio, diverso

altro che : i signori maestri imparino innanzi tutto il greco per poter mettere un argine alla ignoranza dei loro scolari, » Per buona ventura siamo in grado, per quest'ultima parte deirosservazione del critico te- desco, di poter asserire che, sebbene non informali particolarmente del- l'andamento dello studio del greco in quest'importantissima parte d'I- talia , abbiamo il piacere di conoscere bel numero d'insegnanti di filologia classica usciti dalia Scuola normale di Pisa , dall'Accademia di Milano, dall'Università di Torino, che, ben versali nelle classiche discipline, insegnano secondo buon metodo anche nell'Italia meridio- nale; per cui amiamo credere che il libro del sig. Tummolo rappresenti piuttosto l'insegnamento in cer;e scuole particolari, che qui non occorre nominare.

-281 - da iLqpeX. ùTr'aòTuiv che da essi sono vantaggiati èit' oùòc'va?, in plur. a motivo del seg. èm toutou*;, conf. 7, 5, 64, oùbdv€<; Yàp Tti<JTÓT€pa IpTct àtrebeiKVUVTO . . . tujv cùvoux^v « nessuno diede prove maggiori fedeltà che gli eunuchi. » Aggiun- gendo a queste spiegazioni la versione letterale del passo che trovasi a p. 6, noi domandiamo che lavoro resti a fare a colui che deve studiare davvero il greco e prepararsi, con la fatica che farà in questo libro, a più estese letture?

Ma, forse ci risponderanno, sul titolo puossi leggere « versione dall'originale tedesco », dunque abbiamo dato agli Italiani uno di quei tanto vantati libri scolastici della Germania. Adagio, signori miei. Anche nella letteratura scolastica tedesca vi son i libri cattivi, come in quella di qualsiasi altra nazione, e voi vi siete proprio appigliati ad uno di questi colle migliori intenzioni del mondo, chi ve lo n^a? ad uno di questi, che fa compagnia alle edizioni francesi colla versione iuxta lineare^ e che un buon insegnante di lingue, che ha criterio pedagogico , non tollera nelle mani de' suoi scolari, mentre gli intelligenti fautori dei classici studii non vorrebbero che far conoscere il meglio delle straniere produzioni filologiche e scolastiche, af&nchè Fltalia, i cui .•nigliori ingegni si dovettero con- sumare per conquistare la sua indipendenza e libertà, mentre altre nazioni poterono dedicarsi al tranquillo lavoro degli studii e continuare Topera iniziata in Italia nella splendida epoca del rinascimento, possa il più presto possibile anche in questo ramo dell'umano sapere, come in tutto il resto, gareggiare a prò' dell'intiera umanità con le nazioni più progredite del mondo moderno.

Torino, 17 novembre 187».

G. MULLER.

Kjvista di filologia ecc., I.

282

Della distinzione tra i Britanni o Brittoni dell' isola e i Britanni o Brittoni del continente e della sede di questi ultimi nelle pr opifici e delVimpero romano. Dissertazioni tre di Vincenzo De-Vit. Modena, 1868-1872.

Il dotto e modesto compilatore del nuovo Lessico For- celliniano e deir Onomastico (i), mentre con pazienza in- stancabile e diligenza rara attende a quei due grandi lavori sopra la lingua e la storia latina, compito della sua vita letteraria, trova nulladimeno di tanto in tanto il tempo e il modo di scrivere opuscoli, minori di mole, pari di dottrina, come ne rendono testimonianza le tre importanti disserta- zioni che annunciamo.

Il Borghesi scriveva essere antica la controversia « se Brito^ Britto., Britannus, Britdnnicus, Britaunicianus siano tutte voci di un medesimo significato, esprimenti egual- mente Tabitante della Britannia Magna ossia deiringhiiterra, o pure se le prime due dinotino un popolo diverso; e in tal caso se sìa quello stanziato nell'antica Armorica, cioè nella Bretagna minore La sentenza che ancor vige più comu- nemente, confonde i Brittoni coi Britanni. »

Se non che essendosi nel 1 843 scopeno e pubblicato dal cav. Arneth un diploma militare di Domiziano , nel quale sono ricordate due coorti militanti nella Pannonia nell'anno 838 di Roma, la Cohors I. Britannica milliaria e la Cohors I. Brittonum milliaria., lo stesso Borghesi affermava non potersi dopo di ciò negare « che questi due popoli siano manifestamente distinti tra loro». Richiamando perciò l'atten- zione dei dotti sopra la patria e la sede loro, dichiarava di volere, quanto p sé, lasciare intatta la questione.

(i) Del Lessico uscirono fascicoli 46 che giungono alla fine della lettera R; dell'Onomastico fascicoli i3 che vanno sino alla voce CHIOS.

283

L'egregio Vincenzo De-Vit si accinse a risolverla, e chia- mati in rassegna tutti i passi degli antichi autori, e recate in mezzo le iscrizioni , ne cavò le conclusioni seguenti : che doveansi di necessità distinguere i Britanni dell'i- sola dai Brittoni del continente; che parte di questi in antico dovettero passare nell'isola cui diedero il proprio nome , e parte rimaner tuttavia nel continente ; che i Britanni del continente, continuando il movimento di emi- grazione, discesero nelle terre dell'impero romano, dove furono incontrati e quindi soggiogati dai Romani, i quali, a distinguerli dagli isolani, chiamarono questi Britanni, quelli Bri toni o Brittoni, pur durando promiscuo l'uso della denominazione di Britanni per l'uno e l'altro popolo, e presso il volgo e dove quella distinzione legale non ap- parisse strettamente necessaria ; 4** e finalmente che i Brittoni del continente al momento della invasione dei Barbari nelle Provincie romane passarono nell' Armorica, cui diedero in appresso il nome di Britannia minore.

Nella prima delle tre dissertazioni di cui ragioniamo, Pàutore procedendo in ordine inverso, dimostrò essere im- possibile che gli abitanti deir isola potessero sbarcare nella Armorica, al tempo della invasione Anglo-Sassone, in nu- mero tale da occupare quella parte delle Gallie e dominarla, e chiarì che l' Armorica erasi anzi in allora già resa indi- pendente da Roma. Proseguendo l'assunto suo, prova con un passo di Plinio il vecchio, che sino dal primo secolo dell'impero i Britanni abitavano nella Gallia Belgica {Hist. Nat. IV, e. 3, § 106); al qual proposito giova rammentare che Plinio, come quegli che avea militato in Germania, conosceva di per se stesso e i popoli e i luoghi che andava descrivendo. Il De-Vit inoltre, colla testimonianza di alcune lapidi, argomenta che altre tribù di questo popolo esistevano contemporaneamente in altre pani della Germania e lungo

284 il Reno; donde inferisce che essi Britanni doveano di ne- cessità avere a madre patria una regione più settentrionale*, e questa riconosce nella Brittia di Proccpio, scrittore vis- suto, è vero, assai più tardi, ma di molta autorità, e finora non bene dagli eruditi interpretato, i quali non vollero scor- gere nella Brittia di lui altro che la stessa Britannia.

Nella seconda dissertazione passa in rassegna tutte le lapidi che ricordano le coorti dei Brittoni e le coorti Britan- niche, e rafferma che fra tutte le ipotesi che è lecito fare, quella sola è plausibile, che riconosce nei Brittoni del con- tinente un popolo geograficamente diverso dai Britanni del- l'isola; e solo mercè cotesta distinzione potersi spiegare i luoghi degli autori che ne parlano e che il nostro scrittore raccoglie e illustra acconciamente.

Nella terza ed ultima dissertazione si dimostra che i Bri- tanni erano già conosciuti ai Romani negli ultimi tempi della repubblica, e che furono soggiogati da Augusto stesso. Nuova e stringente ne pare a tal proposito la illustrazione deirOde V del lib. 3' di Orazio : Ccelo tonantem credidimus Jovem Bequare, nella quale quéiVadJectis Britanni imperio tornò sempre aspro e forte ai commentatori. meno cal- zante è r interpretazione del Virgiliano Purpuream intexti tolltmt aulaea Britanni (della Georg. Ili, 290), ed ingegnosa l'altra deirepigramma, pur esso di Virgilio, conservatoci da Quintiliano nel VII delle Istituzioni, contro il Thucydides Britannus^ C. Annio Cimbro.

Dopo la pubblicazione della prima dissertazione e innanzi che venissero in luce la seconda e la terza, il dotto Carlo Promis in una sua memoria illustrativa della iscrizione Cuneese di Catavigno, figlio di Ivomago, soldato nella Coorte III. dei Britanni, inserita nel voL 26 della Serie seconda delle Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino, propugnò l'opinione che Britanni e Brittoni significavano

285 - non due popoli di stirpe differente, ma un solo e medesimo popolo, abitante nell'isola con due nomi diversi: col primo designarsi i latini o romanizzati, col secondo i tributarli o patteggiati, e così pure quelli rimasti indipendenti. Le due voci esprimevano adunque una diversa condizione politica, secondochè l'abitante godeva o no del diritto italico.

Per la qua! cosa anche il Promis ammetteva una distin- zione tra Britanni e Brittoni. Ma la ipotesi sua, oltreché non è confortata da alcun documento, non sembra accet- tabile, perchè (osserva il De-Vit) essa è affatto contraria alle consuetudini dei Romani, i quali nelle provincie da essi conquistate, e ne conosciamo assai bene parecchie, mai non usarono distinzione si odiosa tra popolo e popolo di una stessa nazione. Sarebbe questa dunque una novità che non ha esempio alcuno in tutta quanta la storia. Altre difficoltà poi sorgerebbero, dove si considerassero partitamente i tempi della formazione delle coorti e delle ale Britanniche,

La opinione del De-Vit per contro poggia sopra docu- menti sinceri, ed è conforme alle indicazioni storiche che abbiamo. Dopo il suo lavoro la distinzione geografica dei due popoli giudichiamo un fatto nella storia accertato.

Taluni crederanno forse necessarie maggiori prove prima di affermare risolutamente che la Briitia di Procopio, cioè la penisola del lutland fu la vera sede primitiva dei Brittoni, Nulladimanco codesta ipotesi non temeraria è meritevole di accurate indagini, e ninno meglio dei dotti Danesi e dei vicini Tedeschi potrebbero applicarvi diligente studio, come quelli che da tradizioni, da afiìnità linguistiche e da nuove sco- perte lapidarie sono meglio in grado di compiere con frutto le ricerche desiderate.

Roma, novembre 1871.

Domenico Carutti,

- 286

Jacob Burckhardt, Die Cultur der Renaissance in Italien, Lipsia, 1869, 2* edizione riveduta.

Quantunque noi dessimo contezza di questo importante lavoro di critica storico-letteraria sino dal marzo dell'anno 1 869, nel giornale di Firenze, la Nazione , pure ne è parso, che ai lettori della Rivista non tornerà forse sgradito co- noscere un po' da vicino un'opera che s'attiene strettamente alla storia di uno de' più splendidi periodi dello incivili- mento e della cultura classica greco-latina. Vero è che agli studiosi di quell' epoca storica , che chiamano del Ri- nascimento, gioverebbe forse più e meglio la lettura dell'o- pera del Voigt(i)', ma oggimai uno studio compiuto di quell'epoca non pare più possibile , senza uscire un poco dal campo della nuda erudizione, e, per ciò stesso, giudi- chiamo che il libro del Burckhardt ne porga, se non ma- teriali nuovi di indagine, ma certo un nobile esempio e uno efficace incitamento a rintracciare le ragioni storiche del no- stro incivilimento , nelle loro attinenze collo spirito , che aleggia per entro agli studi dell'antichità classica.

La prima edizione di quest'opera del Burckhardt vide la luce in Basilea nel 1860, e questa seconda, pubblicata dal S.eemann in Lipsia, non è che una ristampa di quella più meno; all'infuori di qualche lievissima aggiunta nel testo e nelle annotazioni , che sono a pie di pagina. Nella breve prefazione, che va innanzi all'opera nella nuova edi- zione, è detto che l'autore riconosceva pienamente la con- venienza di rimaneggiare ì materiali del suo lavoro nel- l'occasione di questa ristampa; ma che di fronte all'im-

(i) Die Wiederbelebung des classischen Alterthums; Berlino, Reimer, 1859.

-287 - possibilità, nella quale egli versava, di fare una dimora al- quanto lunga in Italia, tolse meglio di mantenere all'opera la sua forma primitiva, piuttosto che alterarne la fisiono- mia col semplice dislocamento di qualche capitolo, o col- rinserzione di qualche aggiunta.

Questa confessione, attinta alla coscienza del progressivo svolgimento delle idee nel campo delle sloriche discipline , se dall'una parte onora altamente il chiarissimo autore, ne ammonisce dall'altra, che oggimai il sapere storico anela al conquisto obbiettivo del vero, permette a chicchessia di riposare tranquillo sui proprii allori , mentre la febbre in- cessante deir indagine accumula materiali sempre nuovi, e la d mane preme e incalza Toggi, con Tansia di chi si af- fretta alla meta. A dir vero, lavori di maggior mole intorno all'epoca del Rinascimento non vide neppure la Germania, negli anni corsi dal 1861 al 1868: il tutto si restringe a qualche monografia ; nel qua! genere ne piace di ricordare quella di Giulio Schueck intorno ad Aldo Manu:{io^ che vide la luce in Berlino nel 1862-, e l'altra àé. dottor Màhly, intorno ad Angelo Poli-{iano^ edita in Lipsia coi tipi del Teubner, l'anno 1864 (i). In Italia il primo che, secondo noi, in quest'ultimo decennio, détte all'indagine intorno alla coltura e allo incivilimento di quell'epoca, un indirizzo molto somigliante quello avviato dal Voigt e dal Burckhardt, fu l'illustre Settembrini nelle sue Legioni di letteratura italiana. Geno alcuni capitoli del Ter:{0 periodo del volume I. di quest'opera presentano molte attenenze coUe opere speciali, di cui è discorso.

E, senza dubbio, la storia del Rinascimento delle lettere

(i) Di questa abbiamo una versione edita da F. Brunetti in Vene- zia nel i865, E giova ricordare anche lo scritto dell'eminente filologo G. Vahlen su Lorenzo Valla , inserito nelle pubbiica2Ìoni dell'Acca- demia delle scienze di Vienna.

ass- iri Italia, ove non la si tramuti in un quadro dello incivili- mento, si restringe in una ributtante rassegna di opere che l'età progredita iia dannato airobblio : ignara certamente che fin s'addentrano le profonde radici delia sapienza pre- sente. N' è ignoto del resto, se Fautore delle Le^^ioni abbia avuto notizia delie opere del Burckhardt e del Voigt^ quan- tunque ne sembri di vederne qua e colà riflesso io spirito, e il modo non foss'altro di concepire le movenze e il vario atteggiarsi della cultura. Saremmo forse piiì disposti a cre- dere che ai Burckhardt non fosse ignoto il volume del Set- tembrini nella ristampa del suo lavoro; e per ciò consen- tiamo con lui, quando ne confessa che una seria revisione dell'opera l'avrebbe forse ravviato per altri sentieri. Ma , come che sia, ci parve opportuno l'avvertire anche le più leggiere risonanze" del pensiero nostrale collo straniero, an- che nella supposizione che le forze operassero, ciascuna per sé, o non avvertite l'una all'altra.

E già da pezza che gli scrittori stranieri, i Tedeschi mas- sime, ci accusano di egoismo letterario, e ilevano un co- tale individualismo^ che noi chiame ernmo isolamento, nelle nostre ricerche: pel quale siamo impediti , colpa il nostro orgoglio, di unire quasi i nostri conati a grandi intraprese! Che al genio italiano sia connaturato un cotale pendìo al vivere solitario, al lavoro indi duale, noi noi vorremmo negare ricìsamente; ma se ciò appunto è delPindole nostra, e venne accresciuto a dismisura dalla disgregazione e quasi particolarismo dei volghi italiani, tanto maggior dolore ne arreca il vedercelo apposto, come brutto vi\io di gelosia da scrittori, che per l'indole de' loro studi dovrebbero conoscere pili e meglio quello che ne si deve ascrivere a colpa , e quello che perdonare come abito di natura, addoppiatoci da circostanze meramente esteriori. Questo rispondiamo al si- gnor Voigt , che nella prefazione al lavoro surriferito si com-

289 - piace di mettere a nudo questa debolezza degli Italiani ; e veniamo al proposito nostro.

L'opera del Burckhardt, quantunque si riveli a prima fronte come lavoro essenzialmente tedesco, pure non vi senti per entro quella pesantezza di apparato critico, quella me- tafisica sottilità di forma e complessità di costrutto, che so- gliono rendere di così difficile accostamento le opere lette- rarie di quella nazione , del resto pregevolissime per ogni conto. Anzi , in essa alla facilità del dettato è unita una certa peispicuità di pensiero e di forma, ed una disposizione così equabile e discreta del materiale illustrativo , da ren- derne la lettura proprio amena, e stava per dire seducente.

Il signor Burckhardt non attinse al certo d'altronde, che dalle impressioni, lasciate in lui dal nostro bel paese, quel cotale entusiasmo giovanile, quelPaurn tiepida e molle, che spira per entro al suo lavoro ; ma sopra tutto quella be- nevolenza, queir affetto per l'Italia, che s'appalesa in tutti i suoi giudizi intorno alle cose nostre. Questo fare be- nevolo ed affettuoso si rivela più spiccatamente in alcuni luoghi , nei quali il carattere puramente obbiettivo dell'o- pera si eleva a tal grado d'imparzialità, da parere esage- rato , al punto da fargli sospendere ogni giudizio intorno a fatti, o a conseguenze di fatti , che più da vicino gli son parsi riflettere il sentimento e l'indole della nostra nazione, e che per ciò appunto egli straniero stimò pericoloso, o poco delicato voler apprezzare e discutere. In verità, che di rado assai, crediamo, o quasi mai incontra di trovare stranieri così discreti ed equi nell' intromettersi delle cose nostre.

Tutta quanta la materia dell' opera è scompartita in sei sezioni, ciascuna delle quali è ridivisa in un certo numero di capitoli , il contenuto dei quali è reso quasi prospettico da brevi glosse marginaU. Ecco i titoli delle sezioni : I. Lo

29() Stato, quale creazione artificiale. II. Lo svolgimento del- rindividuo. HI. Risvegliamento dello spirito antico. IV. Di- scoprimento del mondo e dell' uomo. V. Società e feste. VI. Moralità e religiosità.

Gli Stati d'Italia, dice l'autore a pag. 71 , erano per la massima parte opera della ritiessione, cioè creazioni statuite sopra fondamenti ben calcolali e nettamente tracciati , così che anche le attenenze scambievoli e col di fuori doveano di necessità presentarsi come un' opera dello ingegno. La speciale costituzione degli Staii italiani, vuoi delle repubbliche vuoi de' principati, è da considerarsi, se non come Tunica, certo però come la principalissima cagione, che dell'italiano fece l'uomo dei tempi moderni, molto prima che d'ogni al- tro popolo europeo (p. 104). Qui in Italia, molto prima che altrove , s' iniziò uno studio obbiettivo dell' ente-Stato , di contro al quale eleva potente il soggetto^ e l'uomo ri- conosce e afferma stesso quale individuo.

Così un tempo l'uomo greco avea affermata la individua- lità propria di contro al barbaro., l'arabo di contro alle al- tre razze dell'Asia. Questo risveglio del sentimento della persona cominciò in Italia assai per tempo, intorno al se- colo X; però la massima affermazione di esso cade sullo scorcio del XIII, allorquando rAllighieri nella Divina Com- media^ rilevava le linee piìi spiccate della fisionomia italiana.

Più tardi diventa una necessità del principato , fondato colla violenza , lo svolgere in sommo grado la persona del tiranno , del condottiero, e appresso anche quella del poeta, dell' uomo erudito , del confidente. I quali tutti sono co- stretti ad indagare tutte le sorgenti di loro potenza intellet- tiva. E cosi anche ne' governi popolari non mancarono vivi impulsi allo svolgimento della persona , mentre tra il va- riare delle parti l' individuo dovea di necessità raccogliersi in medesimo air uopo di mantenere il suo legittimo va-

291 lore (pag. 106-7). Insomma dal i3oo in poi Stato e Indi- viduo intendono qui da noi a dare risalto alia propria esi- stenza; e in questo fatto il signor Burckhardt vede la pre- parazione storica dell' incivilimento italiano all'epoca della Rinascenza (sez. i. II).

Nella storia poi di questo incivilimento l'autore crede di poter distinguere due elementi , il primo dei quali è costi- tuito da tutti que' germi di nuova cultura, che egli è venuto annoverando sin qua, come involuti nel carattere della na- zione; l'altro elemento è porto dalla reviviscenza dello spi- rito afitico, che sotto le spoglie del classicismo si consocia al nuovo (p. 1 36).

L'autore crede che T appellazione di Rinascitnettto non convenga che in parte a tutta quelPepoca, che comunemente suolsi designare con essa ; parendo a lui che gran parte del- l'indirizzo preso dalla nostra nazione sarebbe stato possibile, o potremmo per lo meno raffigurarcelo come possibile, an- che senza quell'elemento antico. Però egli concede che le forme esteriori di quell'indirizzo subirono assolutamente la pressione delio elemento antico redivivo, di guisa che se ne ingenerò uno strettissimo connubio , sotto il cui peso restò vinto e dòmo il mezzogiorno d'Europa. E lo spirito nazio- nale vi perdette gran parte della sua indipendenza, la quale iattura però non è a deplorare ad ugual misura nel campo delle produzioni intellettive. Così ad esempio essa è mi- nore nelle arti rappresentative che nelle arti della parola , massime nella letteratura della rinnovellata latinità (sez. 111).

Un effetto pertanto immediato della consociazione della personalità italiana, svolta per forza propria, e dello ele- mento antico, che ne colora quasi la fisionomia, fu quel ra- pido di largarsi delle cognizioni attenenti al mondo esteriore e all'uomo {pag. 222, sez. IV). Questo fenomeno è consta- tato anche dal Settembrini {Le:{ioni, voi. I, pag, Sbg)-, però

292 in seguito ad una premessa tutta sua ; « perchè, cioè, tutti gli uomini intendevano il cristianesimo m un modo più largo. »

A rendere compiuto il suo quadro l'autore ne dice (sez. V), che la civiltà italiana, all'epoca della rinascenza, anche nei riguardi della socialità, ci afferma qualche cosa di partico- lare, che la contraddistingue nettamente dalla medioevale, e ne fa spiccare la maniera del vivere moderno. Subito al- Tingresso nelP epoca egli trova mutata di già la base della socialità ifcig. 283), vede tolto via il disvario dei ceti nei rapporti della urbana conviven/.a , trova un ceto colto , civile proprio proprio nel significato moderno della parola, dentro dal quale la nascita e il legnaggio soltanto allora ac- quistano un valore, quando s'accompagnino a ricchezze avite, e ad un ozio sicuro e durevole. E superfluo il dire, che V umanesimo usufrutto largamente queste aspirazioni all' u- guaglianza sociale, a rincalzare le sue teoriche negative in- torno alla nobiltà {pcig. 285).

Segue finalmente, la sesta Sezione, in cui è discorso della moralità e della religiosità degli italiani all'epoca dei rina- scimento. Qui l'autore fa una duplice riserva, l'una gene- rale come stcrico, l'altra particolare a se, come a straniero.

Come storico egli crede, che l'indagine intorno alle at- tenenze delle singole nazioni col mondo soprasensibile, cioè colla divinità, colla virtù, colla immortalità, non sia possi- bile, che fino ad un certo limite, massime in ordine alla mo- ralità. L'intendim.ento umano non ha forze sufficienti a com- porre la somma delle svariate gradazioni e quasi sfumature, che la storia delle nazioni ci profferisce in questo rispetto. D'altronde un gran popolo, il cui incivilimento e le cui geste sono strettamente connesse colla vita di tutto il mondo mo- derno, può battere le sue vie, poco curioso delle lodi e del biasimo de' teoretici speculatori.

- 293-

Come straniero poi, l'autore non si crede competente a cogliere i battiti di una nazione, diversa dalla sua, mal po- tendo giudicare, sopra fenomeni puramente esteriori, di ciò che scorre negli strati più interni, onde s' intesse il nazio- nale organismo, mal potendo discernere quanta parte della risultante delle varie forze sia da ascrivere all' indole degli Italiani, quanta agli avvenimenti esteriori. Insomma in co- siffatti giudizi havvi un elemento soggettivo, che assai di leg- gieri può turbarne la serenità ^p^g. 341, 342). Tutto com- preso però Tautore crede di poter dire, che T Italia, all'en- trare del secolo XVI, andava incontro ad un profondo ri- volgimento. L'autore non inclina ad accagionarne lo scadi- mento morale, bensì il fatto, che gli Italiani sono il popolo, nel quale si svolga di preferenza l'individuo; e per ciò stesso uscirono di quelle vie della moralità e della religiosità, che essi come stirpe avriano potuto bauere {pag. 343). Cosi che il precoce svolgimento della personalità italiana fu cagione di grandezza nel campo intellettivo, fu principio di scadi- mento nel campo morale e politico. Ecco le tesi del libro.

Lasciando per ora da parte questo risultamento finale, diremo prima di tutto quello, che abbiamo provato dentro di noi dopo la prima lettura di questo lavoro. Ci è parso adunque un libro, dettato con entusiasmo giovanile, in ser- vizio però più delVarie^ che della scienza. Ciò ne sembra manifesto dal vedere l'autore massimamente inteso a dare risalto a quei lati della vita italiana, nei quali essa ci. si appresenta svolta più artisticamente, e quasi in modo dram- matico. Ed è indubitato, che molti tratti della fisionomia di quella vita sono sovranamente drammatici. Lo sforzo con- tinuo ed evidente dell'autore a costituire l'individuo na- zione fa che egli veda tutti i momenti della vita italiana convergere al nucleo fatale delia personalità; gli si può

«4

contestare il merito di esservi in qualche parte riuscito, mas- sime nel quadro sbozzato nella prima Sezione del libro. L'autore indusse una specie di fatalismo nello svolgimento di cene fasi della vita nazionale italiana, e l'evidente ten- denza a rendere simmetrico il tutto gli rese inavvertiti certi punti di passaggio nella nostra storia, i quali ci sembra di sommo momento di rilevare.

Il periodo d'incivilimento, al quale il nostro autore ha estese le sue indagini, prende le mosse dalla fine del se- colo XII, e va fino al tempo delle signorie straniere in Italia^ ciò è a dire s'addentra nel secolo XVI, Il fuoco però al quale convergono tutti i raggi della ricerca storica, è quel- l'epoca, in che si vengono formando via via in Italia quei principati, fondati sulla violenza, e sorretti da tutte quelle arti arcane d'Imperio, la somma delle quali fé' parere al- l'autore lo stato COSI costituito un artificioso organismo, ar- chitettato dal genio solitario, ma artistico degli Italiani.

Questo modo di considerare gli avvenimenti umani, come il risultamento cioè di certe forze arcanamente operanti nel- l'interna coscienza delle nazioni, se giova molto alla simme- tria della composizione artistica , se esercita una cotale se- duzione sulla fantasia dello indagatore, non è però scevro di pericoli, tanto piìi gravi, quanto meno avvertiti, e che ci conducono talora ad induzioni, che hanno tutta l'apparenza della obbiettività, ma nel fatto sono un parto puro e mero della nostra individuale apprezziazione, sono soggettive al- l'ultimo.

Pare a noi, che il lungo periodo assegnato dall'autore alla civiltà del rinascimento, dal secolo XIII -XVI, presenti fe- nomeni morali e politici, ai quali puossi attribuire identità d'origine, uniformità e quasi simmetrìa d'andamento e movenza. Che il periodo di risveglio intellettivo cominci in Italia coU'Aìlighieri, anzi, prima ancora, coll'Acqifinate

- 2S5- è cosa che facilmente concediamo. Ma tra la civiltà iniziata dalla Divina Commedia, e quella indotta dall'opera del Pe- trarca, del Boccaccio, e di quelli , che chiamano umanisti, ci corre di molto. Certamente è difficile dire, per quali vie sariensi messe le nostre lettere e la nostra civiltà senza quella reviviscenza dello spirito antico, chiamato a vita dagli studi classici *, ma per questo faremo un tutto del prima e del poi, molto meno consentiremo coll'autore, dove dice, che la fisionomia della civiltà italiana non ebbe dal classicismo che una cotale tinta d'antico, mentre invece, a nostro av- viso, esso operò e profondamente sull'indole nativa del ca- rattere nazionale del nostro incivilimento.

Quell'individualismo, che l'autore considera come carat- tere della civiltà italiana nel periodo del rinascimento si era di già svolto, e da pezza, prima del rinascimento, sotto la forza delle cose, che s'instaurarono via via in Italia di fronte al Papato, di fronte all'impero nelle lotte di quello contro a questo, dei comuni contro all'impero. È una disgregazione permanente cioè delle forze della nazione, e per ciò stesso un parziale raggruppamento delle medesime, I principati sursero in Italia più tardi, quando l'individualismo dei volghi era passato di già in abito ; e che i singoli principati si stu- diassero di mettere innanzi la loro persona, stava nella na- tura loro. A dir breve , v'ha un certo ordine di farti e di idee, che l'autore non dovea tirare nel giro del Rina- scimento, col quale non possono avere che un'attenenza assai remota. Sembra oggimai infatti, che per civiltà del ri- nascimento sia da intendere la somma di que' fenomeni morali, che si svolsero nella coscienza degli Italiani dap- prima e degli stranieri dappoi, conseguentemente alla re- staurazione del classicismo.

L'effetto fu complesso sopì ammodo e diverso a seconda del terreno sul quale esso venne operando, Politicamente

296 - da noi fu nullo-, perchè dei vani conati del Cola non mette conto roccuparci, e nel resto lasciò le cose come erano , se non peggiormente affette, per l'abitudine alla servitù resa più tolierabile, e perchè molte menti disviò dietro a ideali im- possibili di grandezze passate. Nelle lettere indusse il lavorìo della riflessione, della imitazione studiata, della ele- ganza-, preparò insomma il nuovo periodo dell'arte. Nella scienza dilargò daddovero i confini del mondo esteriore , mercè lo spirito d'indagine, che quando dal campo morale fu trasportato in quello delle esperienze, partorì que' rnira- coU di gloria al Galileo, al Keplero, al Nevvion. Nella fede nulla innovò qui da noi, all'infuori di qualche concetto pan- teistico qua e colà. In Germania invece chiamò a vita la Ri- forma. Da noi adunque del Rinascimento si vantaggiarono veramente le scienze sperimentali-, e, quanto all'altro sapere, l'effetto principalmente notevole ne sembra che sia stato questo : che di fronte cioè alla potenza invaditrice del dog- matismo della sco'astica , crebbe indipendente un sapere laico*, come nelle lettere, di contro alla cavalierla e all'a- more, si levò potente il sentimento di una cultura , che , quantunque antica , pure trovava vive risonanze nel cuore degli Italiani d'allora, e ne trova oggidì ancora.

Uno studio accurato dell'età del Rinascimento noi lo crediamo più che utile, necessario anzi, a conoscere la sto- ria interiore della nostra civiltà e delle nostre lettere. Il lavoro del signor Burckhardt ne porge ottimi materiali a quest'uopo , e sopra tutto un nobile incitamento. Gli è in questo senso , che noi abbiamo stimato opportuno di ri- chiamare l'attenzione dei lettori della ^{ivista ad un ordine di concetti e opere, che s'attengono strettamente cogli studi delPantichità classica, anzi rivelano in tutta la loro ampiezza l'alto valore di questi studi, e in un tempo, nei quale l'Italia nostra è tutta intesa a riandare il suo passato, per ispin-

sor- gersi poscia con nuova lena nelle vie deiravvenire. Voglia il Cielo, che tra il perenne diventare delle cose, gli studi classici trovilo anche in Italia quel posto che risponda alle splendide tradizioni del nostro passato, all'indole della no- stra cultura, e ai bisogni della nuova civiltà. Rovigo, novembre 1872.

Gaetano Oliva.

GOn^OF^E'DO HERMANN.

28 novembre 1872.

Cento anni or sono, in questo giorno, ed in Lipsia, la città, nella cui università furono sempre fiorenti gli studii filologici , vide la luce un uomo , di cui tutti i cultori degli studii classici in ogni tempo ricorderanno, con grata me- moria, il nome, la cui operosità, il cui sacro zelo neirisiruire la gioventù, quella specialmente che si consacra alia sua volta all'insegnamento delle discipline filologiche, alla pro- pagazione del culto del bello e del buono mediante lo stu- dio dei grandi scrittori dell' antichità e delle grandi opere, lasciateci dai Greci e dai Romani, saranno sempre di no- bile esempio; un uomo, che meglio forse di qualsiasi altro, dalla splendida epoca del rinascimento in poi, ha saputo, e con più eflScacia sugli animi dei suoi uditori, interpretare le eterne opere della greca letteratura, dei poeti tragici in ispecìe.

È debito di gratitudine che anche la nostra JRmsta in questo giorno ricordi i grandi meriti di Godo/redo Hermantty di quel grande luminare della scienza filologica, di cuìccn-

29e~ tinaia di discepoli e di allievi dei suoi discepoli hanno gui- dato e guidano le novelle generazioni alla vera e profonda conoscenza deirantichità classica.

Godofredo Hermann era grande come filologo , come erudiio, come insegnante, come uomo. L'insegnare, l'inter- pretare ai giovani i sublimi autori antichi, era per lui una sacra missione, la quale con indefesso zelo adempiva in una lunga ed operosissim.a vita (i), in cui non mai ha abbando- nato la sua cattedra nel Paolino di Lipsia, nel quale lo circon- davano centinaia di uditori che pendevano dal suo labbro, alle sue parole si infiamn^avano, e che poi di là, come apostoli dello studio dell'antichità classica, si spargevano per le scuole della Germania e de' paesi vicini. Come insegnante lo pos- siamo chiamare il più vigoroso rappresentante dell'umanismo de' tempi nostri -, celebratissimo fu per la sua facondia, la viva- cità e chiarezza della forma, la singolare precisione nell'e- sposizione, il suo nobile ardire nell'esporre i suoi convinci- menti, l'amore per la verità, il metodo impareggiabile nella interpretazione degli scrittori. Per tutto questo, e per lo influsso suo pedagogico sulla gioventù, è stato uno dei più grandi maestri che la Germania abbia avuto. Della lingua latina con tutta la sua forza e bellezza egli si valeva come della sua propria, e l'usava nelle sue lezioni, che versavano però massimamente sugli scrittori greci : lezioni che non verranno dimenticate da chi ebbe la fortuna di udirle.

Ma non in esse sole consumava la sua operosità. La filo- logia classica gli deve una lunga serie di opere importamis-

' (i) Nato nel 1772, studiò privatamente sotto Ilgen; poi con Reiz ed a Jena con Reinhold; si abilitò come docente nel 1794 a Lipsia; di- venne professore straordinario nel 1798 ed ordinario nel i8o3; fondò nell'Università di Lipsia la società greca nel 1799; fu direttore del se- minario filologico di quest'Università, e morì, pure in Lipsia, il 3 1 di- cembre 1848.,

299 -

dime. Fu egli che diede alla metrica greco- latina un solido fondamento, trattandola in una serie di opere, che sono an- cora la base di tutti i recenti studii sulla metrica antica (i). Fu egli, che il primo mostrò la necessità di un piià razionale metodo nel trattare la grammatica greca, in quel suo cele- bre libro: De emendanda ratione graminatices grcecx^ com- parso a Lipsia nel 1801, dal quale data una nuova era nello studio della grammatica della bella favella dei Greci, dacché all' antico modo empirico (pur troppo, almeno in Italia, non ancora del tutto abbandonato) si potè, grazie alla sua scienza ed alla sua autorità, sostituire un altro più razionale e scientifico che meglio risponde alle leggi che go- vernano questa lingua, e che rese possibile poi, dopo le scoperte dovute allo studio comparativo degli idiomi ariani, una grammatica greca come quella del Curtius che attual- mente insegna nella medesima università, in cui G. Her- mann passò l'operosa sua vita (2). Fu egli, che con gran- dissimo amore interpretò una serie di autori greci , ed i tragici massimamente, dei quali pubblicò Sofocle nel 1823, mentre il suo Eschilo non potè vedere la luce che dopo la sua morte, per cura dello Haupt (3). Una quantità di scritti minori è raccolta nei sette volumi dei suoi « Opuscula » Lipsia 1827-30, in cui ognuno ammirerà l'eleganza dello

[\) De metris graecnrum et romanorum poetarunty Lipsia i'jg6. Hand' buch der Afetrik., ivi, 1798. Elementa doctrinae ntetricae, ivi, 1816. Epitome doctrinae metricae, ivi, i8i8; 2* ediz. 1844. De metris Pin- dari nell'edizione di questo poeta del Heyne.

(2) Quasi come un supplemento a questo scritto grammaticale pos- siamo considerare le sue importanti aggiunte al libro del Vigero, De idiotismis linguae graecae, ed i Libri IV de particula fiv, Lipsia i83i.

(3) Diede alle stampe le Orphica nel i8o5, gl'/wni omerici nel 1806, il Trinammo di Plauto^ le Bacchidae nel 1841 ; VArs poetica di Ari- stotile nel 1820; il Lessico di Fo^io nel i8o5; il grammatico DracoStra.- tonicensis nel 1806.

300 stile latino, specialmente poi nelle sue proprie poesie scritte in lingua latina, dalle quali spira un'aura veramente romana. Si è voluto rimproverare al grande uomo, di cui oggi riverenti ricordiamo il nome, d* avere dato troppo peso al lato formale della filologia , chiamando la sua scuola la- scuola grammaticale e critica, quasi non avesse abbastanza badato al iato reale; ma non può essere oggi nostro compito entrare in una discussione su quest'argomento, oggi, che solo vogliamo rammentarne il riverito nome ed additare il suo nobile esempio ai novelli cultori delle filologiche di- scipline, e soprattutto perciò, che sarà sempre vero il suo asserto: essere la esatta e profonda conoscenza delle lingue antiche l'unica sicura via, che ci possa condurre alla vera intelligenza delle opere dei Greci e dei Romani, e per conseguenza l'indispensabile, solido fondamento della Scien:^a dell'antichità,

G. MULLER.

V^OTIZIE

L'ordinamento della Facoltà di lettere dell'Università di Roma, con- dotto a compimento secondo il progetto della Facoltà medesima e del Consiglio Superiore d'istruzione pubblica, come Io rileviamo da un articolo della Perseverant^a, segnerà un grande progresso negli siudii filologici in Italia, dacché alle cattedre delle letterature antiche s'ag- giungerebbero apposite cattedre per l'insegnamento scientifico delh grammatica greca e latina; Varcheologia sarebbe divisa fra diversi inse- gnanti. Né verrebbe dimenticato l'insegnamento scientifico delle lingue moderne per l'istituzione della cattedra di filologia romanza. Ma ci rincrescerebbe di non vedere una cattedra particolare di lingua e lette- ratura sanscrita, ed avremmo forse alcunché da osservare riguardo alle lingue semitiche, del che converrà parlare a miglior agio.

FiETKo UssELLO, gerente responsabile.

301 -

CENNI SULLA SINTASSI "DELLA LIV^GUA G%ECA.

I.

Apollonio Dìscolo (i), celebre grammatico Alessandrino, il cui nome, finitamente a quello del figlio Erodiano, segna come a dire l'apogeo della erudizione grammaticale nel 2" secolo dell' era nostra, nel principio de' suoi libri uepi cuvtó- 5euj5 (2), muove dal concetto , che nella lingua si tratti sempre del collegamento di certi elementi, 1 quali insieme riuniti s'appresentano sotto la forma più larga e più distesa di una cotale unità, della quale escono poi altri maggiori raggruppamenti. La prima e più semplice parte di questa unità, da lui vagheggiata, la materia prima come a dire, egli vuol trovare in quegli elementi, che addimanda o"Toix€Ta, i quali consociati e quasi conglobati riescono poi all'unità massima, che è il Xófo?. In questa stessa via lo segue Teodoro Gaza, grammatico dei periodo bizantino; il quale nel libro della sua ei(Sa.y'jj^fi, dove discorre irepì cuvTd- Heu}^ TU)v ToO XÓTou fiepuiv, esce, nelle parole seguenti ; « XeKtéov Toiviiv Kttì 6ttujs Sv toO Xóyou ìxépr\ à\\f\\oi<; òpOw? cuviaTTÓueva àTtoTeXoirj tòv Xóyov...)) (Venezia, Garoni,

(i) Egger, ApoUonius Dyscole , Essai sur l'histoire des théories grammaticales dans l'antiquité. Parigi, 1854.

(2) È la sola scrittura che ci pervenne intera di Apolloni salvo qual- che lacuna verso la line. O. Schneider credo che la scrittura ucpl èmpprjMdTUJv appartenga alla Sintassi. Di quesc' opera conosco due edizioni antiche, l'Aldina del 1495 e la Fiorentina del i5i5.

1(ivista di filologia ecc., 1. SI

302 -

1 527). E Prisciano, la cui ammirazione per que'due sommi della scuola Alessandrina non conosce ne confini, ne misura (Vedi Comm. G^^^^^ì. Lib. 1, pref. pag. 534; I^» P^g-, ^^^ XII, pag. 941; XIV init. ed. Putsch.}, nel principio del libro XVII (pag. io35), così definisce l'opera della sintassi: Quemadmodum literae apte coeuntes faciunt syllabas, et syllabae dictiones (XéHei?), sic et dictiones orationem. Hoc enim etiam de liteHs tradita ratio demonstravity quae bene dicuntur ab Apollonio prima materies vocis humanae indi- vidua ((JTOixcTa). Ea enim non quocumque modo iimcturas ostendit fieri literarum, sed per aptissimam ordinationem. Igitur manifestum est, quod consequens est, ut etiam di- ctiones, cum partes sint per constructionem perfectae ora- tionis (toO KttTà cTuvTaSiv aÙTOTeXoO? Xótou) a^/^w struciurtfm, id est ordinationem recipiant. Quod enim singulis dictio- nibus paratur sensibile , id est intelligibile, quodatntnodo elementum est orationis perfectae.

Gli è chiaro per queste allegazioni, che un solo pensiero è posto come a fondaniento di tutto l'ordinamento della lingua, quello cioè, <?he tanto nella teorica degli elementi fonetici costitutivi della parola (la fonologia), quanto in quella delle forme (la morfologia) e de' costrutti, domini quel principio di collegamento e ordinamento di parti, che da' moderni, ma con ben diverso e vario intendimento, è chiamato sintassi (cruviaHis). Da questo modo di considerare la sintassi della lingua (e qui facciamo astrazione da una lingua particolare) ne pare, che discenda questa conseguenza, come legittima ; che, cioè, fra la teorica delle inflessioni, presa nelle sue f)iù ampie applicazioni, e la teorica della concordanza corra tal nesso strettissimo, che l'efficacia del- Tuna si distenda sull'altra, e le due parti mutuamente si ricambino d'aiutò. In una scrittura, un po' antiquata per vero dire, che essa risale all'anno i852, di Augusto

803 Haacke (i) leggiamo (pag. 21) questo concetto; che, cioè, a voler fondare sopra basi sicure e incrollabili una teorica della sintassi, e' fa mestieri un saldò collegamento di questa colla teorica delle inflessioni, bisogna al tutto permettere un modo {>articolare di trattazione rispetto a quella, cosi che ad intenderne le movenze e a rilevarne le fattezze, ne sia necessario aver ricorso a criteri, che siano altri da quelli, che ne son pòrti da' fatti concreti della lingua.

(c Certamente, egli soggiunge, a costituire la teorica della sintassi sopra cosiffatte sicure basi, bisognerà pensare ad « una teorica delle inflessioni , dalla quale traspaiano evi- « denti gli elementi di queste, e ne chiarisca con sincerità « sulla originazione loro, mentre invece nelle grammatiche^ « che oggidì corrono nelle mani di tutti^ la teorica delle «( inflessioni non può mirare ad altro fine, che a rendere « possibile un apprendimento affatto meccanico delle foì'me « coir aiuto di regole superficiali e di eccezioni. » E su- bito dopo leggiamo : « Per ciò che spetta la lingua <c tedesca basterà certamente, che si comprenda, come il « contenuto e la sostanza di una lingua non si possano « d'altronde rilevare che da essa, dalle sue forme, mai f< astraendo da queste, e come, per ciò stesso, la trattazione « della sintassi possa trovare il suo punto di appoggio nella c( parte etimologica della grammatica, e non altrove; poiché (t questa parte appunto della grammatica tedesca fu esposta « da Giacomo Grimm così compiutamente, ne' suoi tratti « principali almeno, come non può dirsi di nessuna altra « lingua. » Ma non andò guari, che il seme fecondo, sparso dall'opera immortale del Grimm, fruttificò sul campo d'altre lingue. In quell'anno istesso i852, Giorgio Curtius

(i) Der Gebrauch der genera dcs griechischen Verbums. Berlino, Weidmannsche Buchhandlung, Il heft.

304

dava fuori la sua Grammatica Greca, frutto di un lungo decennio di medity.zi<)ne e di studio. si creda, che ella fosse allora facil cosa richiamare gli studiosi della sintassi delle lingue a più modesti propositi e ricondurne le teoriche verso criteri, meno appariscenti, ma di gran lunga più si- curi e piiì veraci. Erano di quel tempo assai in voga nelle scuole tedesche le smaglianti teoriche di grammatica generale, che Carlo Ferdinando Becker avea rese assai bene accette, e quasi popolari colla sua grammatica della lingua tedesca. si creda, che alla lingua nazionale si arrestasse quella smania del filosofare in fatto di lingue; che alle lingue classiche ancora s'era dilargato quel moto. Vide egli il Curtius, se non il primo il solo, ma certo fra i primi, che quel modo di trattare la lingua, come la espressione, cioè, di determinate forme dei pensiero, a tutti comuni, era destituito di ogni solido fondamento in ordine alla scienza, e nella pratica era sommamente dannoso. Lo studio della linguistica infatti, così vigorosamente progredito n,egli ultimi decenni di questo secolo, ha piuttosto chiarito, il divario, delle lingue, che confermata l'antica fede nella comunione e concordanza de' linguaggi, e collo studio di lingu,^ di origine e strattura disparatissime) come ad es. le arie e le semitiche, ha dimostrato in modo da non poterne dubitare, che quella pretesa universalità di schemi fonda- mentali del linguaggio umano non ha valore scientifico. da cosiffatti erramenti andiamo esenti noi qui in Italia^ rispetto alla lingua nostra; noi vediamo infatti coH'autorità del Bonavino (i), farsi strada nelle nostre scuole un cotal modo di trattazione, che molto s'accosta alle vedute del Becker, e che, tramutando la teorica della sintassi in un trat-

(i) Elementi di grammatica generale applicati alle, due lingue ita- liana e latina. Edìz. 5*, Genova, i863.

-sos- tato di logica, costringe le tenere menti a pensare prima, che a discorrere con sempliciià e correzione, svigorendo cosi Tef- ficacia dei pensiero nell'età, in che gli sana mestieri Tessere più vegeto e più prosperoso-, con quanto vantaggio delia coltura, della lingua e persino della grammatica lo sanno grinsegnanti negli ordini superiori delle scuole, lo sa ii paese. Ben è quindi, ed è tempo oggimaì, che anche per l'uso e per lo studio della grammatica italiana gli studiosi siano tirati fuori delle astrattezze , e richiamati sul saldo terreno della indagine storico-linguistica. Noi salutammo quindi con gioia l'apparire di una grammatica storica della Unghia italiana (i)-, la quale, tenuta dentro a termini di- screti, varrà certo a richiamare ad mdiorem frugem gli ingegni e le scuole. Del resto questo della grammatica filo- sofica, come la chiamano, non è sistema nuovo, più di questa o di altra naziojie. Già il vecchio gran Cancelliere d'Inghilterra, Bacone da 'Verolamio, parla di una gramma- tica letteraria e di una grammatica filosofica, « Gramma- « ticam etiam hipariitam ponemzis^ egli dice, ut alia sit tt literaria, alia philosophica. Altera adhibetur simpliciter « ad linguas, nempe ut eas qitis aut celerins perdiscat , « aut emenditius et purius loquatur; altera t'ero aliqua- ft tenus philosophiae ministrat . . , . Hac re moniti cogita- va tione cojnplexi sumus grnmmaticam quamdam , quae « analogiam inter verta et res^ sive raiionem sedrxlo in- <c qiiirat » (2). Questo concetto della grammatica filo- sofica s'attiene stretto all'altro della grammatica universale di tutte le lingue, strano mixtum compositumy fondato sulTar- bitrio e sul falso concetto che del linguaggio si ebbe lungo

(1) Di Raffaello Fornaciaui. Torino, Loescher, 1872. Piegievole lavoro in questo risperto è anche quello del De-Mauio.

(2) De avf^mentis scientiarum, lib. VI, cap. 1. i.ugano> 1763.

- 306 - tempo nelle scuole, reso popolare dalla filosofia Lockiana(i). Infatti al passo di Bacone, allegato quassopra, precede il seguente: «. Illa demum, ut arbitramur^ foret nobilissima « grammaiicae species , si quis in linguis plurimis tam <( eruditis., quam vulgaribus^ eximie doctus^ de variis lin- ct guarum proprietatibus tractarety in quibus quaeque ex- « celiai, in quibus dejiciat, ostendens. Ita enim et linguae e. mutuo commercio locupletavi passini, et Jiet ex iiSy quae « in singulis linguis pulchra sunt, orationis ipsius quae- a dam formosissima imago et exemplar quoddam insigne (( ad sensus animi rite exprimendos ». Cotesto ideale di lingua filosofica, e di una grammatica filosofica, che neces- sariamente si collega con quella, era vagheggiato diciamoj cosa notoria, dal Leibniti, che la chiamava la sua spé- cieuse generale (2); e nella seconda m€tà del secolo XVII destò alta ammirazione in Inghilterra un saggio di una vera scrittura e di una lingua filosofica del vescovo Wilkins, il cui fondamentale concetto, rispetto alla lingua universale, è rì^-atto in termini chiari e concisi nel volume primo delle Nuove Letture di Max Miiller (lettura II). Vero è che Tipotesi, messa innanzi da Giovanni Locke (3), d£Ì fanciulli selvaggi, che dal linguaggio dei segni naturali passano a costituire, sospinti dai bisogni, il linguaggio dei suoni articolati, inventandone dapprima il vocabolario, appresso le inflessioni e la sintassi, è oggimai sfatata dalla linguistica, il cui posto fra le scienze antropologiche diffi- cilmente le potrà venire contestato (4); pure non è male.

(i) hocKti, Suir Intendimento umano y lib. II, passim.

(2) Vedi GuHRAUER, G. W. Freiherr von Leibnitz, voi. I, pag, 328.

(3) Suir Intendimento umano, lib. Ili, cap. i.

(4) Vedi Guglielmo Humboldt: Ueber die Ka-wi-Sprache, ecc. Ber- lino, i836. Schleicher: Compendio con l'introduzione del Pezzi (pag. xxx-xxxi). Max Muller: Letture (sez. 1, leu. 3*).

307 crediamo, che a quando a quando, di certe grandi questioni, che s'attengono alla psicologia , più che non paia di primo tratto, si rammentino i principi!. È strano infatti il vedere, come il sensismo di Locke, cacciato dalle grammatiche e dai lessici, abbia trovata la sua nicchia nei Sillabari e in tutti quegli apparati di ginnastica intellettiva^ sui quali si regge l'insegnamento elementare della lingua nazionale. La è codesta una assurda contraffazione, vorremmo anzi dire una grottesca, delle nuove teoriche del linguaggio, concepito come scienza fisica. Ne di ciò terremmo ragione qui, se non fosse perchè ne sembra di ravvisare in questo falso pendìo dell'insegnamento elementare un'altra causa del precoce esaurimento delle forze intellettive della gioventù nostra, della abituale avversione della medesima allo studio della grammatica classica, nella quale l'indirizzo storico, e lo studio del pensiero antico, come esso si concreta nel magistero della parola, devono di necessità prevalere.

Ma non crediamo fuor di proposito lo sbozzare qui ri- strettamente il concetto, che informa la teorica della sin- tassi, fondata dal Becker, per la grammatica tedesca. Muo- vendo egli adunque dal presupposto che il fenomeno della lingua diventi un fatto reale soltanto per ciò che uom parla, il cui discorso si svolge per proposizioni : cosi egli, nella sua indagine intorno alla lingua, pone la proposizione a fonda- mento del tutto. La proposizione è secondo lui la espres- sione di un pensiero, fatta con parole, in quanto l'uomo, in quella che egli parla, enunzia i suoi pensieri colle pa- role. E, prendendo le mosse dalla proposizione, egli riesce alla classazione delle parole, che segue qui appresso. In un pensiero, egli dice, si distinguono le idee, che ne costitui- scono il contenuto, la sustanza, dalle relazioni, nelle quali le idee, nel giro del pensiero, stanno e fra loro e dispetto a chi parla. I vocaboli che esprimono la sustanza del

308 concetto, si addimandano vocaboli ideali {significativi) (Begriffsworter)i le relazioni . si esprimono dalla lingua a) coirin flessione de Vocaboli ideali, h) col mezzo voci spe- ciali, che si appellano formali (FormwÒrter). Siccome poi i concetti da esprimere col ministerio della lingua sono o concetti di ente , come a dire di persona' o di cosa , ovvero concetti di attività, di persona e di cosa: così si hanno in conto di vocaboli ideali il sostanlivo , cioè l'e- spressione del concetto di ente, ovvero il verbo e Vaddiet- tivo , de' quali quello - il verbo - involge il concetto di azione , ed esprime pure ad un tempo il predicato , pel quale attività ed ente si collegano in un solo pensiero , questo - Taddiettivo - involge bensì il concetto di azione, ma non il predicato •, il quale , laddove Fazione espressa dal- Taddiettivo debba collegarsi coIFente in un sol concetto , dovrà aver ricorso a questo effetto aila voce formale - essere -. Tra i vocaboli formali il Becker classifica a) il verbo essere^ come vocabolo predicativo cogli addlettìvi; b) ì verbi ausiliari, i quali o accennano a relazioni temporali (come avere - es- sere - diviiìitare (i), o a relazioni modali come - kònnen- m'ògen - durfen - wollen - sollen - milssen ( 2 ) ^ e) i pronomi , siccome quelli che esprìmono soltanto il concetto di un ente^ per la relazione, che esso ha con chi parla, espri- mono cioè le relazioni personali; d) i numerali, perchè essi esprimono relazioni di grandezza, di numero o di quantità di un ente-, e) le preposizioni siccome espressioni delle attinenze di spazio o d'altre relazioni di un ente con l'at- tività;/) le congiunzioni, che esprimono le relazioni scam- bievoli fra i membri di una , proposizione composta; g) gli

(1) Haben - sein - werden.

(2) Ausiliari delia lingua tedesca. V. Heyse , Leit/aden, ecc. Han- nover, 186?., pag. 53.— Pel significato di questi sincmmi, vedi Eber- HARD : Synonomisches HandwÓrterbuch.

309 avverbi, in quanto essi siano voci formali, come espressioni delle relazioni di spazio, di tempo, di luogo, di grandezza, di modo.

La divisione preaccennata deVocaboli in ideali o signi- ficativi ( Begrìffswòrter), e f annali (Formwòrterj costrinse il Becker ad assegnare alia teorica dell'inflessione un posto assai strano nel processo della lingua, appartato affatto dalla parola, e dal contenuto della medesima. Si pensi infatti, che ente ed attività non esauriscono il concetto di propo- sizione; e' fa mestieri di un tej'zo elemento, il predicato (KarriTÓpnM»), che il concetto astratto di azione colleghì e quasi rinversi sul subbietto (ente) (tò ùiroKeijiievov). È subito trovato, ne risponde Tiìlustre alemanno; un segno morfolo- gico. — Le desinenze personali, ad es, : t-st^ come stirb-sif sing--st adempiono all'ufiìcio di predicato; mentre invece le voci stirò- sing-f accennano airattività, fatta astrazione dal predicato. Ora si badi, che senza suffissi non è possibile verbo parola, nonché azione ; poiché delPistessa ra- dice tu puoi derivare e nomi e verbi, variando le desinenze d'inflessione ; così dalla radice Ttpar, hai irpaY^a e TTpacraiu, ciò che vuol dire, che a'suffissi spetta un posto notevole nella formazione dettemi nominali e verbali, e per ciò stesso de'casi, de'tempi, numeri e persone. Quindi non pare esatto il classare Taddiettivo fra i vocaboli ideali , che esprimono attività, siano pure bisognevoli del vocabolo formale essere, per collegarsi all'ente ; non pare esatto, che i suffissi verbali o le desinenze personali esprimano soltanto una relazione predicativa dell'azione involuta nella nuda radice verbale coU'ente; ma essi sono una funzione effettuale e integrale del concetto azione espresso dal verbo , al quale , nel fatto concreto della lins'ua, esso verbo non perviene se non per mezzo delle parti flessibili. Forma e contenuto adunque sono nella lingua concetti cori'-I^iivi, così the non

310

vi sia contenuto senza forma, forma senza contenuto. 1 soli temi , e molto meno le radici , non sono nell' indo- germanico né parole, parti di proposizioni (v. Schleicher, Compendio § i33).

Abbiamo creduto di insistere su questo punto, perchè il nodo della questione è tutto riposto. 11 pensiero non è prima della parola, ma insieme alla parola sia pur questa pensata, parlata, o scritta e la sintassi quindi non può sottrarsi agli influssi legittimi della teorica della i^iflcssione.

Alla stregua di questo concetto verremo ora esaminando ristrettamente la sintassi greca del Matthiae , del Kiihner , del Krìiger, del Curtius, del Koch, delPInama.

Rovigo, dicembre 1872.

Gaetano Ouva^

COV^SI'DE^AZIOV^I

SULL'ISTRUZIONE, SOPRATTUTTO CLASSICA , IN ITALIA

a proposito del recentissimo libro di M. BREAL

suir istruzione pubblica in Francia

fConu'nuazione , v. fase. 5*, p. 225-246}.

III.

Colle tendenze soverchiamente pratiche e retoriche , le quali (come notammo) si rivelano con evidenza tristissima anche ai meno attenti ed acuti osservatori in tanta e si no- bile parte degli studi italiani , si connette strettamente un terzo vizio che qua e vi si scorge , men funesto che quei due primi, la irrazionalità. Quando si studia il vero non già per amore di esso, ma solo per altri fini , estranei affatto alla scienza pura , come troppo spesso avviene fra noi", quando si bada più alla forma che alla sostanza, ciò

- 311 - che frequentemente vediamo accadere : allora è perfettamente naturale che, paghe di conoscere l'esistenza ed i caratteri principalissimi di una serie qualsiasi di fatti, le menti più non si curino d'investigarne le cause e questa investigazione sia dai molti non solo negletta, ma quasi sprezzata e derisa come sterile follia. Questo pregiudizio regna soprattutto sul campo delle discipline linguistiche: su questo campo per- tanto noi Io combatteremo , esaminandone , colla nostra solita libertà di pensiero e di parola, la natura e gli effetti, poscia indicando quelli che ci parranno i più efficaci rimedii a questo morbo, il quale è certo fra quelli che più tenace- mente si appigliano alla nostra vita intellettuale.

Ne è prova deplorabile, f^a le altre, ciò che vediamo av- venire nei nostri studi ginnasiali e liceali di lingua greca. Già da molti anni fu da uomini egregi introdotta nelle scuole italiane la grammatica eminentemente razionale di G. Curtius e ne apparvero i benefici influssi ogniqualvolta essa fu spiegata da professori degni di questo nom.e ; testé le si aggiunse quella, pregevolissima anch'essa, di V. Inama. Come se tutto ciò non fosse avvenuto, v'ha ancora chi segue il metodo del Burnouf e si vale nel suo insegnamento di certi compendii, i quali riescono utili non tanto a chi gli studia quanto a chi li vende e mostrano apertamente quanta sia ancora l'ignoranza e quanto possa il culto del dio Quat- trino. Per altro, quando a caso i nostri sguardi cadevano su queste miserabili compilazioni, ci era conforto la spe- ranza che il progresso le avrebbe spazzate via dalle scuole italiane , o che almeno peggio non si sarebbe fatto ; che , nello stato odierno della glottologia , far peggio ci pareva impossibile. Ma come anche questa speranza non fosse al- tro che un'illusione noi ebbimo pur troppo ad accorgerci allorquando vedemmo quei certi Elementi , dei quali si fece menzione nell'ultimo fascicolo della ^vista, e quella vergo-

- 312

gna recentissima della stampa italiana vedemmo lodata e proposta come cosa utilissima ai nostri insegnanti. Più an- cora che nello studio del greco sono, per nostra sciagura ed onta, comunemente seguiti i metodi irrazionali in quello del latino. A certe grammatiche, adoperate ancora in pa- recchi fra i ginnasii dltalia, ben converrebbe il severo giu- dizio che intorno alla famosa grammatica latina del Lho- mond ed a quelle tutte che furono composte ad imitazione di essa profferiva il Bréal nel suo classico libro sull'istru- zione pubblica in Francia (i). punto piiì mite è la sen-

(i) Ne citeremo i brani più importanti: •< Sous prétexte de faciliter le travail du thème et d'aider rincelligence des auteurs, ils n'ont d'auire idée que d'eluder l'effori iogique et grammaùcal. Mettre un tour fran^ais sous un tour latin, et réciproquement, c'est à quoi ils sont uniquenient occu- pés. Ils ne songent pas à montrer la régularité, la convenance de la con- struction latine, ni à fai re voir la raison des règles de syntaxe : tout cela

passe pour métaphysique ou pour vaine subtilité Prenez la plupartde

nos graramaires latines, depuis Lhomond jusqu'aux livres les plus récents. Vous y trouverez toujours, quoique plus ou moins dissimulé, le méme esprit. Ce sont des recueilsde consells et de receties pour latraduction... Il semble que le latin n'exisie pas pour lui-mérae, mais seulement pour

étre traduit en francais ou pour traduire le fran^ais Les auteurs de

ces manuels amalgaraent dans une méme règie et sans en prevenir l'en- fant, les consiructions les plus différentes On croit faire l'éloge de

ces ouvrages quand on annonce que les faits ont été ramenés aux prin- cipes les plus siraples et que les règles ont étédisposées dans l'ordre le plus clair et le plus facile. Mais si ces prétendus principes sont simple- ment des artifices de traduction et si cet ordre facile nous présente les

règles à contre-sens, que faut-il .penser de l'utilité d'un tei livre?

Mais on ne s'est pas arrété dans cette voie. La règie , dans nos livres usuels, est la chose accessoire: l'essentiel, ce qu'il faut retenir avant tout, c'est l'exemple. Le texte qui vient après n'est qu'un commentaire de

l'exemple, une explication sur la manière de s'en servir » E dopo

aver narrato come e quando la grammatica del Lhomond s'introdu- cesse nelle scuole francesi, ii Bréal scrive : »> On ne pouvait guère faire un choix pjus malheureux, Lhomond , qui a sa legende dans l'Univer- sité, est célèbre pour son amour de l'enfance : mais à cet amour il se mélait certainement une grande défiance des facuités iatellectuelles de l'enfant, car on ne voit d'autre préoccuoation dans ses livres que de réduire touf. enseignement à uii sxercice de n émoire et de rendre su-

313 - lenza di Renan (i), di Baudry (2) e di altri dotti francesi e stranieri, verbigrazia dell'Habn (3). Di questa grammatica non sono a dirsi guari migliori certi dizionarìi latini che per

perflu méme le plus léger effort de la raison. La grammaire de Lho-

mond, considérée à ce poini de vue, est un chef-d'oeuvre On n'a

jamais poussé plus Icin l'art d'ignorer les raisons des choses. Arme de la grammaire de Lhomond, l'écolier n'a plus besoin de penser : il a un mécanisme qui travailie pour lui. Vingt ans après que Rousseau eut pose ce principe dans son Emile qu'il fallait obliger l'enfant à trou- ver tout par lui-méme (principe qui, comme nous l'avonsvu, estdevenu i'àme de l'éducalion allemande ) , l'Université de Paris produisait et couvrait de son autoriié de pareils livres. A son insù, elle s'était faite l'imitatrice des Pères dont elle avait recueilli la succession. Et nous , Université de France, à notre tour, nous avons aJopté, répandu à pro- fusion, impose à la jeunesse les mémes méthodes. Tandis que nous prétendons continuer la saine et forte école de Port-Royal, nous sui- vons en réalité la tradition des Jésuires. Ce n'estpas que des grammai- res nouvelles n'aient été et ne soient encore publiées: mais sauf deux cu trois exceptions, l'esprit de Lhomond circule à traverà toutes. 11 est triste d'ajouter que depuis vingt ans nous avons pluiòt recuié qu'a- vancé». Op. cit. , p. 164-173.

(i) Nelle Questions contemporaines , p. 280, il libro del Lhomond è detto « grammaire artificielle et sans logique ».

(2) «* Tout est défectueux <ians l'enseignement de la grammaire , de- puis la méthode qui consiste à énoncer sèchement des règlesetdes para- digmes cor.. me s'ils n'étaient susceptibles d'aucune explication, jusqu'au choix du Rudimeni de Lhomond, ce triste livre qui a succède si pi- teusement à la Méthode de Port-Royal, » V. a p. 64 le recentissime Questions scolaires ecc. (Paris, 1873), opuscolo con cui il dotto Bau- dry fece plauso al libro del Bréal ed alla ultima Circulaire di J. Si- mon. Fra coloro che già degnaraenie accolsero le proposte del Bréal voglionsi eziandio notare il Théry , antico ispettore generale ( v. il Projet d'une ré/orme dans l'enseignement des langues anciennes, Paris, 1872), l'egregio Boissier, professore di lingua e di letteratura latina al Collegio di Francia (v. la Revue des deux mondes , del agosto 1872), e, sovra tutti, J. Simon (v, la citata Circulaire del 27 settem- bre ultimo scorso), ministro di pubblica istruzione il quale mostrò splendidamente di conoscere i bisogni didattici de' nostri tempi e di sapervi provvedere, checché ne pensi qualche cieco laudator temporis adi.

(3) V. Renan, Op. cit., l. e

-314 -

lo più si adoperano dagli studiosi (i). Ma abbiano noi forse il diritto di meravigliarci vedendo prevalere i sistemi irrazionali neir insegnamento del latino e del grecf) in Fran- cia ed in Italia, mentre lo stesso idioma nazionale ci ap- pare insegnato irrazionalmente? In quante scuole fran- cesi, in quante scuole italiane si apprendono a conoscere le pili fondamentali fra le leggi glottiche, le quali governa- rono la trasformazione della parola latina nella parola ita- liana, nella parola francese (2) ? I tedeschi non sanno nem- meno comprendere come un popolo possa trascurare nella istruzione secondaria lo studio che noi diremmo volontieri archeologico del proprio linguaggio (3). E non si creda che

(1) « Nous voyons que dans nos dictionnaires l'ordre véritable des sens est coniinuelleraent renversé. Souvent méme un seul nom fournit

deux articles à nos lexicographes Nos dictionnaires. beaucoup trop

riches et trop détaillés, ont fourni à l'élève un autre moyen de pas- ser sans effort à travers les mailles du lexte. >< Bréal, Op. cit., p. 179, 181 : vedi anche p. 190-2.

(2) « Un motif qui, de tout temps, a éié invoqué pour justifier l'étude du latin dans nos classes, c'est que le francala derive du latin et qu'il nous serait impossible de comprendre les lois de notre propre langue si nous ne connaissions la structure de la langue mère. Rien n'est plus exaci. Mais l'Université qui sait très bien se servir de cet argument les jours elle est obligée de se défendre, s'empresse de l'oublier dès que, la baiaille gagnée, elle est rentrée dans ses murs. Nous apprenons le latin de Cicéron et de Virgile, le francais de Corneille et de Bos- suet. Mais entre ces deux idiomes s'étend un vide immense que nos maitres ne songent nuUement à combler. Au lieu de chercher dans le latin les causes de la grammaire fran^aise, ils juxtaposent, comme nous l'avons vu , les deux idiomes d'une facon tout empirique, en opposant gailicisme à latinisme. Non-seulement l'Université, contrairement à ses affirmations publiques, n'éclaire point par le latin la formation de la grammaire fran^aise, mais elle a un véritable éloignement et une ré- pulsion instinctive pour ce genre d'étude. Elle aime trop le bon latin

pour ne pas éviter le contact de la basse latinité Ce som curiosités

faites pour les érudits, qui ne pourraient que distraire et tromper les élèves. « BnÉAi., Op. cit., p. 23 1-2.

(3) Renanj Op. cit., p. 281-2.

315 nelle scuole superiori del ginnasio o nel liceo si avvezzino per lo più i giovani a studiare di nuovo ed un po' meno irrazionalmente lo italiano ed il latino , assorgendo a poco a poco dalla conoscenza empirica di questi due idiomi, ac- quistata coi soliti metodi pappagalleschi , ad una nozione teoretica dei medesimi. S'insegna a scrivere con eleganza : ma, se diam retta ai molti , che impK)rta comprendere ie ragioni delle parole, dei costrutti che si adoperano? Che più ? Fra gli stessi più giovani dottori in lettere , vale a dire fra i nuovi professori ginnasiali e liceali , non sono certamente numerosi quelli che ricevettero un insegnamento compiuto di grammatica storico-comparativa del greco, dei latino e dell'italiano. Abbiamo in Italia cattedre di sanscrito, d'arabo, di cinese : non abbiamo ancora un corso scientifico speciale di latino e degli altri idiomi italici antichi di lingue neolatine, alle quali appartiene la nostra odierna favella. Va- dano in Germania, si facciano allievi di professori tedeschi quei pochi fra noi, cui piglierà vaghezza di conoscere pro- fondamente l'idioma dei nostri padri e quello che parliamo noi stessi ! Si lasci agli stranieri la cura d' insegnarci anche questo : se ci avverrà di sentirci offesi nella nostra alterezza , troveremo tosto un coro di retori che declameranno le nostre lodi, svillaneggiando la barbara Germania (i) !

Sorti in un'epoca, nella quale la linguistica odierna non era nemmeno concepita come possibile ed in cui lo studio dell'idioma italiano e quello eziandio del latino erano go- vernati da tendenze eminentemente pratiche e reloriche , i sistemi irrazionali nello insegnamento di queste due lingue,

( I ) Fra le nuove cattedre di cui , giusta la Perseveranza , si propose l'istituzione nell'ateneo romano, una sarebbe consecrata alla Gram- mati(4 ed pila Lessicografia latina , un'altr» alle Lingue e letterature rpmayire. M9, per quanto sappiamo, nessuno vt-nne ancora incaricato del primo del secondo di questi due insegnamenti.

- 316 - forti della loro esistenza più volte secolare , protetti dalla ignoranza, dairimpotenza intellettuale e dairaccidia dei molti, infettano ancora la maggior parte delle scuole italiane e con parecchi altri morbi concorrono ad isterilirle. È questa la causa per cui allievi e maestri non si addentrano per lo più nelle intime ragioni dei fatti linguistici e quindi la co- gnizione del greco, del latino, dell'italiano stesso è quasi sempre assai poco profonda e capace di vero progresso (i), È questa la causa per cui Finsegnamento linguistico , non assorgendo alle sfere alte e luminose della scienza, ma gia- cendo per contrario ancora nei bassi ed oscuri fondi dello empirismo, non educa, come e quanto dovrebbe e potrebbe, le menti giovanili , non le prepara convenientemente agli studi seguenti; che anzi, da più anni assuefatte a non iscorgere che caso, capriccio, disordine, nei fenomeni del linguaggio, le vittime miserande di questi metodi sciagurati si sentono non di rado quasi diremmo oifese dal rigore ine- sorabile delie discipline scientifiche: pur lo stesso ap- prendimento di lingue straniere moderne è reso guari più agevole dallo aver atteso si lungo tempo al latino ed al greco, seguendo un sistema didattico , il quale più che a svolgere ie potenze intellettuali degli allievi vale ad ottundere

(i) « C'est à la méme cause qu'il faut attribuer, pour une grande partie, l'abandon des recherches grammaticales. Farmi les milliers de professeurs pour qui le latin est une occupation de tous les jours, com- bien s'en est-i! trouvé, depuis vingt ou trente ans, qui aient seulement émis T-ne conjecmr'; r'Ouvelle sur un point de la gramraaire latine? C'est que ìa gramiTiairt;, ielle que nous l'apprenons, exclut touie idée de pro- grès. Une fois que nous savons qu'une chose admirable à voir se dit res visu ntìrabilis et que j'enseigne la grammaire aux enfants, se tra- duit par doceo pueros grammaticam , il ne reste plus rien à ajouier : car toutes les recherches sur la nature du supin, toutes les observations sur !e sens de Tacaisatif ne changeront rien à ces deux règles. » Bréal, Op.<it. , p. 174.

- 317 -

lo ingegno dei maestri (i). E questa finalmente la causa per cui, non bene riferiti i fatti gioitici ai loro principii supremi, le regole appariscono numerosissime, le eccezioni soffocano le regole, e pertanto lo studio linguistico è ancora neces a- riamente non sappiam bene se più fastidioso o prolisso. Fastidioso ai poveri alunni, che s'indispettiscono contro il greco, il latino e spesso contro lo studio in genere, con- dannati a tediosissimi esercizii macchinali , e sovente con frutto tenuissimo, nella più allegra ed impaziente età della vita: fastidioso ai poveri maestri, cui questo insegnamento meramente empirico affatica ed umilia , massimamente quelli che, assistendo a lezioni universitarie di grammatica storico-comparativa, ebbero agio di scorgere ìa radicale er- roneità, il peccato originale di quanti sistemi didattici irra- zionali contaminano ancora deplorabilmente lo studio lingui- stico nelle scuole italiane. Prolisso poi , non meno che fa- stidioso, esso ci appare, per guisa che non di rado con- suma il tempo che dovrebbe essere consecrato ad altri studi (ben a ragione recentemente istituiti) e rende impossibile la istituzione di altri (cui l'epoca nostra imperiosamente ri- chiede) : gli bastano le ore concesse e le usurpate , ma si sente costretto a sminuire la sua parte pratica, gli eser- cizii; scemati i quali (che ne erano per lo passato il nerbo principale) per difetto di tempo e per la crescente avver- sione de' giovani da ogni lavoro materiale ( soprattutto di greco e di latino), si fece sempre più manifesta la impotenza

(i) « Loin d'exercer la raison des enfants, la méthode usitée dans nos classes est faiie pour émousser le coup d'oeil grammatical. On s'est souvent demandé d'où provieni la difficulté que nous éprouvons à ap- prendre Ics langues étrangòres: je crois qu'entre autres raisons il faut faire une grande place à l'usage de méthodes détestables. Quind une fois on prend l'habitude Je » tourner >• , on perd la facultc d'observer direciement les lois et l'organisme des auires idiomes. » Bréal , Op. cit. , p. 173,

Idvtsla di filologia ecc., I. 3a

- 318 - dei metodi empirici nello studio degl'idiomi classici; e non pure lo scrivere con eleganza e con facilità od almeno cor- rettamente, ma, scandalo enorme nella vita intelleituaie del- ritalia risorta, divenne sempre men frequente fra noi anche lo intendere il linguaggio che fa degno dei padri nostri. Le scolaresche, per l'età e per gl'istinti soverchiamente pratici dell'epoca nostra mal disposte a studi per stessi ardui e da molte persone (che non dovrebbero esser volgo) con cat- tedratica asseveranza dichiarati inutili alla vita, ributtate an- cora dalla noia e dalla lunghezza dello insegnamento e dalla coscienza del lento e scarso progresso, si a\'vezzano sempre più a rifuggire dalle, discipline classiche: anche su questo campo filologico le genti neo-latine indietreggiano, s'avan- zano le germaniche (i). Indi si scorge chiarissimamente come agli studi classici in Italia arrechino, colla loro ostinata adorazione dei vieti sistemi didattici, colle pazze e comiche ire contro ie necessarie innovazioni, supremo nocumento certi barbassori, che, infaticabili adulatori di stessi, si re- putano e si vantano palladio insuperabile del classicismo. Non a questi signori pertanto (che ben sappiamo essere

(i) « Le latin tieht dans nos classes une place tout à fait predo--

minante Le latin est le fonds de l'enseignement universitaire. Pen- dant huit ou neuf ans il n'ya point de jour que les élèves n'y emploient quelques heures. C'est sur le latin qu'on mesure les progrès des ènfants

et qu'on juge le mérite des professeurs D'après cela nous dcvons

penser que les études latines sont poussées chez nous à un degré notable d'extension et de profondeur. En AUemagne, par exemple, il s'en faut que le latin jouisse d'une considération aussi exclusive : nort-seulement le grec est avec lui de plain-pied, mais on étudie l'allemand dans son développement historique, et une pan beaucoup plus large est fatte dès les premièresannées aux connaissances appelées réeUeSf.c'est-k-dìre à la géographie , à l'histoire et aux sciences. D'où vient oependant qu'on sait moins bien le latin en France qu'en AUemagne, et que la plupart de nos élèves emportent du collège une connaissance fort imparfaite de

cette langue, à laquelle ils ont voué tant d'années de travaii ? » Bréal,

Op. cit. , p, 161-2.

319 certa sordità affatto incurabile e nessuno peggior sordo di chi non vuole udire), ma ci rivolgeremo agli uomini vera- mente intelligenti ed imparziali e chiederemo loro se sia conforme a ragione, che tanti anni e tanto lavorio d'intel- letto debbano essere consecrati a studiar lingue giusta un metodo che rende faticoso, tardo, scarso il profitto. Vuoisi serbare inalterato o mutare fatto sistema didat- tico? Chi osa fra voi esclamare col signor De Laprade in ordine al latino ed al greco : « Conservons avec ces pré- cieuses vieilleries, si nous voulons les posseder sùrement, les vieilles grammaires, les vieilies méthodes et jusqu'à ce vieux Jardin des racines grecques qui a effarouché la poesie et l'atticisme da dernier réformateur des coliéges » (i)? A noi par certo che risposta unanime sarebbe la seguente : « Vogliamo un metodo più razionale, più educativo, più breve e prù commodo. Vogliamo un metodo più razionale, 0, che è lo stesso, tale che riveli àgli studiosi, quant' è pos- sibile, non pure i fatti, ma le leggi, le cagioni di essi : tale che, facenao meglio manifesta l'intima struttura del greco, del latino, dello italiano, insegni a comprendere più pro- fondamente il pensiero, il carattere di tre grandi popoli ed avvezzi le nuove generazioni a valersi, nel parlare, nello scrivere, con maggior scienza di causa e con più si- cura franchezza della nostra favella -, affinchè la conoscenza dei principii supremi, i quali governarono la formazione del- l'idioma nazionale, si venga sempre più sostituendo alla ir-

(i) Léducation libérale, Paris, 1873, p. 259, Ma, sebbene in ciò che concerne il metodo siavi assoluto divario opinioni ira il signor De Laprade e la scuola cui ci onoriamo d'appartenere, tuttavia racco- mandiamo ai nostri lettori l'opera da lui testé pubblicata, come quella che ci appare utilissima per gli ali: pensieri e nobili sensi che la in- formano, e, ciò che vuoisi da noi notare in modo special isjimo, per la strenua difesa che vi si fa degli studi classici considerati come strumento potentissimo di educazione.

- 32(1 razionale e prepotente autorità dei pedana, che, cresciuti come la maPerba nei secoli funesti alla indipendenza ed alla libertà nostra, tollerati od eziandio protetti dalle male si- gnorie come potenti naicotici, appariscono, anche presente- mente, qua e là, tedi'xsi anacronismi (ij. Vogliamo un me- todo più educativo, vale a dire più atto a perfezionare, con forte ed utile esercizio, le facoltà intellettuali dei giovani alunni, addestrandole agli studi superiori coU'avvezzarle al concetto di legge e di causa. Vogliamo, in fine, un metodo più breve e più commodo, che, senza sopprimere (come vorrebbe un volgo di ottuse intelligenze) nelle nostre scuole secondarie latino greco, senza rendere meramente li- bero io apprendimento di quest'ultimo idioma (come testé propose il Janet (2)), senza togliere ai corsi già fondati o che dovranno presto fondarsi (v. g. di lingue moderne) il tempo loro dovuto, s'imparino seriamente e la lingua ma- terna e le due classiche antiche : impresa non punto impos- sibile (ne sia prova Todierna Germania) e che diverrà sempre meno ardua quanto più si ridurranno i fenomeni linguistici a classi ben determinate e se ne indicheranno le ragioni men difficili a comprendersi; quanto più uniforme sarà il me- todo nei varii gradi dello insegnamento e nei varii istituti

(i) « L'habitude d'écrire en latin nous a rendus tirnides dans !e maniement de notre propre langxie, Nous commencons à la traiter comme une langue morte: on deraande des autorités pour les mots , on condamne les tours qui ne sont pas dans les grammaires. Je vois beaucoup de juges sévères toujours disposés à en retrancher quelque chose : mais les accroissements qu'elle re90it soni cu nuls cu de si mau- vais alci qu'on n'y peut voir un gain véritable. En remontant jusqu'aux sources de l'ancien franfais et jusqu'aux temps la langue avait plus de li<berté dans la formation des mots et dans la construction de la pbrase, nous retrouverions quelque chose de cette initiative et de ce don d'heureuse invention qui ne sont pas moins nécessaires à la vie d'une langue qu'à celle d'une liltérature. » Bréal, Op. cit. , p. 236-7.

(2) Nella Revue des deux mondes, del i5 novembre 1872.

321 - didattici \ quanto più si faranno osservare ai discenti le ana- logie esistenti fra lo italiano ed il latino, fra il latino ed il greco (i).

Questo metodo, più razionale, più educativo, più breve e cotnmodo, è quello pertanto, il quale al concetto di caso, di capriccio sostituisce , ogniqualvolta lo stato odierno della glottologia e la intelligenza degli alunni il consentono, Tidea di legge, di causa ; al disordine lordine, allo empirismo la scienza. Ma badiam bene a non lasciarci illudere da certe innovazioni, le quali di progresso scientifico non hanno che ifallace parvenza, come quelle che inorpellano con forme

(i) «« Il est impossible de ne pas convenir que l'université , à ses

débuts, ensaignait le latin et les mathématiques et n'enseignait pas autre chose. On disait alors indilTéremment : /arre 5es classes ou ap- frenare le laiin. Ce dernier mot est reste dans nos habirudes. Mais le

monopole du latin a été successivement diminué L'opinion publique

ne cessait de réclamer de nouveaux enseignements, et l'université ne cessaii de lui obéir. Or peut mettre en regard le programme de 1802 et celui de 1872 , pour se rendre compte de ces accroissements. Le pro- gramme acìuel est toute une encyclopédie. Un élève qui posséderait réellement cet ensemble de connaissances serait un savant au sortir du college. Le malheur, c'est que la journée a vingt-quatre heures en 1872 comme en 1802 ; que les enfants ont le méme besoin de repos et de som- meil; qu'en les surchargeant de travail outre mesure, on nuit également à leur sante et à leur travail , car il vaut mieux savoir peu de choses et les bien savoir, que d'effleurer un ensemble d'études , dont il ne reste rien ensuite qu'un orgueil mal justifié. Toutes les études nouvelles, qui

ont été introduites, sont nécessaires Nous venons lout récemment

de faire à l'enseignement des langues vivantes une large part dans le lemps de nos élèves ; c'était un progrès nécessaire Mais , dans le mo- ment où nous prenions cette résolution avec l'asscntiment universe!, nous savions que nos enfants étaient déjà surmenés, qu'ils n'avaient pas de temps pour la lecture et la réflexion. Il y a des années que cette si- tuation préoccupe tous les esprits , et il n'existe que deux mcyens d'en sortir : supprimer l'étude des langues anciennes, ou la modifier. Je dis sur-le-champ que ce serait un véritablc crime que de la supprimer, ou

mime d'en diminuer l'importance la conséquence inévitable, c'est

qu'il faut enseigner les langues anciennes aussi bien que par le passe, en moins de temps, par d'autres moyens. » J. Simon, Circulaire cit., 8".

322 ~ teoretiche speciose sistemi didattici meramente pratici nella loro essenza. E guardiamoci attentamente eziandio dal con- fondere la vera scienza del linguaggio (ossia quella disci- plina eminentemente positiva, che dallo studio storico-com- parativo dei fenomeni glottici si sforza di assorgere alle loro leggi, alle loro cause) con una cotale pretesa dottrina del- l'eloquio umano, la quale si mosrr9 sempre impotente a ri- velarne la natura e le origini (che non fu mai se non un tessuto vaporoso di sterili astrazioni concernènti non già il linguaggio ma il pensiero). Non è scienza del linguaggio quella che si vanta -di spiegare Tinfinita m.oltiplicità dei fatti glottici (qual essa ci appare nella mirabile varietà delle schiatte, de'luoghi e dei tempi) col solo sussidio di qualche schema logico, frutto miserando di una troppo ristretta os- servazione! (i). Per conseguenza non ci rallegra punto il ricordo delle così dette analisi logiche, supplizio cui ve- demmo ingiustamente condannati deboli intelletti infantili: e, se fra tanta manìa di mutare e di rimutare (la quale da ben venti anni fa tristo governo della istruzione fra noi), sussiste ancora Tuso di tormentare con queste analisi i po- veri fanciulli, facciam voti affinchè le si rimandint) alle scuole di logica (2). Dunque non già a quella che chiamano gram- matica generale, ma alla grammatica storico-comparativa debbe conformarsi, con lieta fiducia e insieme con prudente moderazione, lo insegnamento dei linguaggi, vuoi antichi, vuoi moderni. Appena occorre notare come fra i risultati delle recenti investigazioni glottologiche solo i più accertati

(i) V. Heyse, Sistema della scienza delle lìngue, trad. dal Leone, Torino, 1864, § 7, p. 7-1Q. V. eziandio la nostra Introduzione allo studio della scienza del linguaggio, Torino, 1869, p. 3 e 7,

(1) « Des analyses logiquts! Ne devrait-on pas renvoyer cet exercice abstrait à la classe de philosophie ! » Baudry, Op. cit. , p. 19.

323 - ed importanti si debbano accogliere nelle nostre scuole secon- darie, escludendone i men rilevanti e sicuri e le lunghe ed ardue ricerche che resero possibili quelle scoperte: ne ci è mestieri osservare che vuoisi nella esposizione di questi nuovi concetti adoperar sempre la forma più esatta e chiara e procedere con saggia graduazione, assorgendo sempre più alla scienza quanto più negli alunni cresce, coU'età, la copia delle cognizioni ed il vigore dello ingegno.

Non ignoriamo quali e quanti argomenti sogliansi dai molti avversarli opporre alla introduzione di questo nuovo sistema didattico nelle scuole secondarie. E, sebbene fatti argomenti non tutti meritino di essere esaminati seriamente e siano già stati per lo più spesse volte confutati con ottimo successo-, sebbene oltracciò cotali avversarli, fatte rarissime eccezioni, non abbiano (come parecchi mostrarono coi fatti e nella guisa più evidente) sufficiente nozione esperienza del metodo contro cui si scagliano, tratti da quell'amor del passato, da quell'odio d'ogni innovazione che aVecchi non di rado tenacemente si appigliano: nondimeno ci piace sottoporre le preaccennate obbiezioni , od almeno le più forti o frequenti tra esse, a breve disamina, per isvelarne di nuovo l'arrogante impotenza ed affinchè a tutti appa- risca sempre più manifesto che, lungi dal temere la discus- sione, siamo lietissimi di provocarla.

V'ha, in primo luogo, chi afferma non essere ancora la recente investigazione storico-comparativa dei Unguaggi ariani giunta a risultati tanto numerosi, certi ed ammessi dall'u- nanime consenso dei dotti, quanto sarebbe necessario per poterli porre a base di un nuovo edilìzio grammaticale sco- lastico. Sappiamo anche noi e confessiamo colla massima schiettezza che fatti risultati non si estendono ancora in egual modo a tutte le parti della glottologia e non sono tutti in pari grado sicuri e come tali accolti dai giudici compe-

324-

tenti : ma sappiamo eziandio che tutti questi riconoscono come indubbiamente conformi a verità molte e rilevanti scoperte fonologiche e morfologiche, sulle quali può senza fallo fondarsi solidamente un nuovo sistema didattico. Sono verità note, in parte almeno, da ben mezzo secolo *, verità insegnate dalle più illustri accademie ed università del mondo incivilito : con qual diritto voi, voi che non pubblicaste mài nemmeno una monografia di linguistica, voi di cui nessuno rispetta Tautorità in fatto di questa scienza, voi che proba- bilmente non ne conoscete anche i primi elementi, osate dichiararle dubbie e come tali escluderle dai nostri ginnasii, dai nostri licei ? Non basta : si afferma ancora, sempre col solito tono cattedratico, che il nuovo sistema didattico, quand'anche valesse a rivelare Tintima struttura di un idioma (verbigrazia del latino), sarebbe pur sempre inetto ad in- fondere negli allievi una cognizione pratica di esso. Notiamo innanzi tratto che a noi, quanti apparteniamo anche intel- lettualmente al secolo presente e non ai secoli passati come certi nostri avversarli, debbe importare assai più il com- prendere profondamente che non lo scrivere ed il parlare con facilità ed eleganza il latino (i). Ma che? Il ridurre a

(i) On étudiera désormais le latin pourle comprendre, et non pas pour le parler. Il est donc naturel de l'enseigner autrement qu'on ne l'a fait jusqu'ici. J. Simon, Circulaire citata, I. e. » Écrire en latin, est-ce donc une chose si précieuse en soi et d'une inliuence si salutaire qu'il faille le plus tòt possible et par tous les artitìces en fournir les moyeas aux enfants ? 11 est certain qu'avec l'aide de Lhomond et avec le secours de leurs dictionnaires, nos meiUeurs élèves de sixième font déjà des- thèmes fort bien lournés, et tels qu'en AUemagne on les atiendrait à peine d'élèves de trois ou quatre ans plus agés. Mah? si ces pièces de montre sont obtenues par une culture à rebours du bon sens , est le profii des enfants, est le gain de l'État? Est-ce donc pour en- richir de bonnes copies les Annales du concours general et pour prò- curer des éloges aux professeurs habiles dans la production precoce du thème latin, quesont faites iesmeilleuresannées de nos enfants ? » Bréal, Op. cit. , p. 174-5.

- 325 ~ minor numero le regole e le eccezioni, ii far vedere la ra- zionalità delle prime e delle seconde, il rendere più semplice e più chiaro lo insegnamento di una lingua può forse essere cagione che altri meno apprenda a valersene parlando e scrivendo? Oltracciò la faciìiìA e Teleganza nell'uso di qual- siasi favella più assai che dall'insegnamento grammaticale teoretico dipende dagli esercizi! pratici : ora sarebbero mai questi diventati impossibili per colpa del metodo nuovo? Forsechè i temi greci del Boeckel, ad esempio, sebbene coordinati alla grammatica (eminentemente razionale) di G. Curtius, non sono il miglior libro che un professore italiano possa preporre ai proprii allievi per imprimere nella loro memoria le regole della tlessione nominale e verbale e le principali famiglie di vocaboli greci, addestrandoli insieme a tradurre dal greco in italiano, dallo italiano in greco ? Ma, osserva taluno dei nostri aristarchi, il nuovo sistema didattico, avvezzando le tenere menti degli alunni a scrutare minutamente l'intima struttura della parola, a scomporla negli elementi che la costituiscono, scema negli studiosi la potenza di considerarla esteticamente nei suo tutto, uccide il senso artistico della bellezza che vuoisi ammirare nel verbo stupendo delle genti italo-greche. Come? rispondiamo noi: il lavorio dell'analisi rende forse impossibile la sintesi ? Non è forse vero, per lo contrario, che le sintesi più degne dello spirito umano sono quelle che furono precedute, preparate dalle analisi più diligenti? Come? lo studio analitico, di- remmo quasi microscopico, della natura sarebbe mai per avventura ostacolo a comprenderne, a sentirne la venustà divina? Dai più segreti penetrali della scienza non isgor- gherebbe più forse altissima poesia? Dovremmo forse te- mere che lo apprendere gli elementi della chimica, dell'ana- tomia, della fisiologia vegetale ed animale ottunda lo intel- letto? Chioserebbe farsi difensore disi enorme scempiaggine?

326 - Forse nemmeno chi ebbe, narrano, il non invidiabile co- raggio d'insegnare che ottundono lo ingegno i nuovi studi linguistici storico-comparativi. Senza fallo, se questo inse- gnamento fosse conforme a verità, dovremmo proprio de- durne che l'autore di esso non ad altro abbia probabilmente atteso che alla linguistica recente, mentre sappiamo per con- trario ch'egli non provò mai di aver appreso nemmeno l'ab- biccì di questa scienza, sebbene siasi in essa impancato a giudice. Ma guardiamoci bene dall'onorare di seria confu- tazione simili corbellerie: che ormai a tutti, anche ai più volgari intelletti, è manifesto essere un metodo tanto più atto a perfezionare le nostre facoltà mentali quanto più esso si accosta al vero. Veniamo piuttosto all'ultima pretesa ragione che accampano contro a noi e che consiste nel sup- porre troppo lento e troppo difficile il sistema didattico che propugniamo : troppo lento e difficile ai maestri agli alunni , per la tentata introduzione di elementi scientifici. Ora non è egli vero, incontestabilmente vero per lo con- trario, che, irradiando (per quanto lice) lo insegnamento linguistico delle nostre scuole secondarie colla luce cui su esso può diffondere la scienza storico-comparativa degl'i- diomi ariani, appariscono molte fra le leggi, fra le cause dei fenomeni glottici*, che questi si ordinano più acconcia- mente e spesso rivelano le cagioni onde procedono; che le eccezioni si fanno più rare, men numerose eziandio e più comprensibili le regole-, che la grammatica ed il lessico di- ventano più regolari, più conformi a natura ed a ragione ; che, pertanto, questo studio diviene più breve e più facile? E non ci si opponga che le menti degli allievi sono inette ancora a quel lieve lavorio di riflessione che si richiede ad imparare in questa guisa : che lo ingegno , purché non lo si schiacci sotto l'enorme peso di certi lavori macchinali, si svolge e si avvezza a ragionare prima che per lo più si

- 327 -

creda, e soprattutto in Italia, fra il popolo onde tanti stra- nieri ammirano la pronta e viva intelligenza. altri s'im- magini che airintroduzione di questo nuovo sistema didat- tico sia ostacolo non superabile la non veneranda antichità di quello che ancora sgoverna i nostri studii ginnasiali e liceali di greco, di latino, d^italiano: che sullo allievo, il quale, ignaro v. g. di latino, si accinge allo studio di que- sto idioma, il vecchio metodo non esercitò certamente an- cora influsso di sorta; e, per ciò che attiensi al professore, ormai questi o è già preparato a valersi del metodo nuovo, od almeno può senza fallo prepararvisi senza grave disagio, specialmente per ciò che ogni trasformazione di metodo vuol essere fatta non già in guisa subitanea e violenta, ma bensì graduatamente e con molta prudenza (i). Ne man- cano ormai, ma per contrario abbondano ai maestri i mezzi d'iniziarsi alla scienza storico-comparativa degl' idiomi che sono chiamati ad insegnare : basti accennare i corsi univer- sitarii di lingue e di letterature comparate ed i libri testé pubblicati intorno a questo argomento e principalmente a prò degrinsegnanti (fra i quali libri ci sia permesso men- zionare il Compendio dello Schleicher da noi volto in ita- liano con una Introduzione allo studio della scienza del lin£^uaggio^ il Commento del Curtius tradotto dal prof. G. Miiller, la nostra Grammatica storico-comparativa della ling'ua latina, il Manuel pour l'étude des racines grec- qiies et latines del Bailly e la recentissima versione francese della Grammatica romanza del Diez). v'ha più, come pochi anni or sono, grave difetto di operette scolastiche

(i) « Il ne s'agit point de fai re une revolution complète dans l'ensei- gnement de la grammaire ; les transformations ^^olentes sont dange- reuses; elles engendrent le ucsordre et manquent leur but. » Beaukils, Noiivelle grammaire latine J'après les principes de la grammaire (Otti- parée , Paris, iSyj, prel". , p. i.

328 - composte giusta la scienza odierna delle favelle ariane : che abbiamo per lo insegnamento del greco le grammatiche del Curtius, del Koch, dello Inama; per quello dei latino le grammatiche del Vanicek, dello Schweizer-Sidler , del Dorschel, del Pozzetti-, infine per le lezioni di lingua ita- liana la Grammatica stanca ( fonologia e morfologia ) che il Fornaciari estrasse compendiando (sebbene non sempre lodevolmente ) dal Diez , e, lavoro ben più degno di nota, la Sintassi del Demattio. Non tutte queste operette si possono proporre agli allievi ; che alcune delle germaniche non furono volte nella nostra favella : ma a tutte , anche a queste ultime, può avere utilmente ricorso il maestro che non sia atfatto ignaro di lingua tedesca e voglia insegnare come s'addice ad un professore delPetà nostra, vale a dire, seguendo quel metodo che la scienza odierna dei linguag- gio consiglia, o, meglio, impone. Ed alla scienza si ag- giunga l'esperienza : che, come già notammo, splendide prove del suo valore didattico diede già, sempre quando fu convenientemente adoperata, la grammatica greca del Cur- tius non pure ne' ginnasii tedeschi , ma eziandio negli italiani. Si aggiungano le sentenze gravissime di giudici eminentemente competenti , le vìve esortazioni di uomini intelligentissimi e delia pubblica istruzione amantissimi, fra ì quali basti ora citare Bréal(!), Baudry(2)j J. Simon. E noi porremo termine a questa terza parte delle nostre Considerazioni colle parole che leggono a questo propo- sito nella Circulaire dell'autorevolissimo ministro francese : a Je voudrais que Ton cessai presque compiétement de faire apprendre des règles par cceur. Les règles sont surtoui une matière d'explications. L'inappréciable av.antage de Térude

(i) Op. cit., p. 175 e segg. {%) Op. citi , p, 71-2.

- 329-

comparée des langues, mème la plus élérnentaire, c'est que l'enseignement méthodique qu'on en fait peut s'adresser, de bonne beare, à Tesprit. Il faut faire la guerre aux procédés mnémoniques, qui, sous prétexte de ménager des intelìigen- ces trop faibles, les fatiguent autrement, sans grand resul- tai, et font, par avance, obstacle à l'emploi des procédés rationnels....» Ce sont les systèmes qui ont produit certains iivres: il ne faut pas que ces livres fasscnt maintenant durer ces systèmes. La plupart de nos grammaires datent du temps les maitres eux-memes ne connaissaient guère qu'une seule langue. Elles ne donnent la raison de rien , parce que les termes de comparaison leurs font défaut, et qu'elles restent nécessairement dans le particulier. Au lieu de ces règles étranges, qui semblent ne s'appuyer que sur le caprice, empruntons à l'étude savante et à la comparai- son des langues quelques faits positifs et quelques lois ab- solues. L'essai que Ton fit, il y a vingt ans, d'un enseigne- ment de ce genre était premature : il ne l'est plus. La clarté et la simplicité ne perdront rien à l'étude de la grammaire ainsi renouvelée. Il n'y a de clair que ce qui est logìque; et qui voudrait soutenir que ce n'esi pas au nom de la io- gique et de la raison qu'il est bon d'instruire mème les plus jeunes esprits? Les procédés empiriques ne font que jeter le vague et Tobscurlté nous voulons faire pénélrer l'ordre et la lumière; et la vérité est encore ce qu'on a imaginé de plus simple».

{Continua)

Domenico Pezzi.

- 330 - CEV^V^I "BITiLIOGliAFICI

Qiiaestiones criticae ad emendatìonem Claudiani panegyri- corum spectantes scr. Ludovicus Jkfp-, Numburgi , i86g.

Die Handschriften ron (Jaudian''s Raptus Proserpi-

nae von L. Jeep ( in « Acta Societ. phil. lips. » ed. Fr. RiTSCHELiLs , I, 2, p. 345-87). De Claudìaiit codice Veronae nupet^ reperto commentatio critica Ludov. Jeep [in « Philologos Germania^, Lìpsiae congregatos in. maio, ati. MDCCcr-xxii, perofficiosc salutant scholae Thomanae ìnagistri », p. 4? e segg., Lipsia). Nachtrdgliches iìber die Handschriften von Claudiaus Raptus Proserpinae, giugno, 1872 {Rhein.Museum, N. F. xxvii, p. 618-24). Zu Claudianiis de VI Consolata Honorii. Ein Beitrag liir rómischen Topographie {Rhein. Museum, ibid., p. 269-77).

Di questi cinque lavori soltanto l'ultimo non ha per iscopo diretto remendazione di Claudiano : lo separo perciò dagli altri, e mi affretto a farlo conoscere in primo luogo ai miei lettori. Ha dato occasione a questo scritto un lavoro del prof. Stark [Gigantomachie aufantik, Reliefs imd der Tem- pel desJuppiter Tonans in Rom. Heideib, 1869), nome, se non erro, già noto a' lettori della ^visia.

Lo Stark vi sostiene la tesi che il rilievo esisterne nel cortile di Belvedere e rappresentante una Gigantomachia debba essere un pezzo della cornice del tempio di Giove Tonante sul Campidoglio ; e in conferma della sua tesi ado- pera un luogo di Claudiano [de VI cons. Hon. , v. 44 et seqq.), che nella edizione del Gesner (Lips. 1769) si legge nel miodo seguente :

V. 44 Juvat infra tecta Tonantìs

Cernere Tarpeja pcndentes rupe Gigantas, Caelatasque fores, iriediisque voìanlio signa Nubibus, et densum stipantibus aethera templis, Aeraque vestitis numerosa puppe c>)lumnis Censita, SLibnixasque jugis immanihus aedes , Naturam cumulante rnanu , spoliisque micantes Innumeros arcus.

331 -

Al V. 47 però lo Stark legge deorum invece di densum, senza nessuna. autorità di codici, come il Jeep assicura, e dopo che il Gesner aveva benissimo spiegato il densum : sarà errore di stampa, dice benignamente il Jeep. Il ra- gionamento dello Stark è molto semplice e altrettanto cu- rioso quanto semplice : Claudiano paria di « Gigantes Tar- peia rupe pendentes.... infra teda Toìiantisyi, il nostro ri- lievo rappresenta appunto una Giganto machia, dunque nulla di più naturale che Claudiano alluda proprio a quest'ultimo rilievo che avrebbe dovuto ornare le cornici del tempio di Giove Tonante. Ma Stark stesso osserva che l'occhio dei poeta si suppone scorra « dal Palatino verso il foro co'' suoi tempii, coi suoi rostri e con le sue statue, e finalmente si fermi sul Campidoglio « : ora è possibile che, in mezzo a tutte queste grandiose costruzioni, tempii, colonne rostrate e statue, rocchio del poeta, a tanto notevole distanza quanta ne corre tra il Palatino e il Campidoglio, distingua e si fermi a considerare un rilievo di quattro palmi e me^:(0 di altezza? A questa giustissima osservazione il Jeep aggiunge altre di non minor valore ; rammenterò soltanto la corre- zione proposta « iuvat inter teda Tonantis » , correzione più che probabile, sebbene non vedesi come facilmente possa esser nata la lezione « intra tela vel tèpla » dell'autorevo- lissimo codice Vat. , N. 2809,

li Jeep non si limita poi alia confutazione dell' infelice congettura dello Stark, ma si serve anche de' versi di Clau- diano per determinare il luogo della rupe Tarpeia e giunge, come di leggieri si può immaginare , alla conclusione che la rupe giacesse in un "posto dirimpetto al Palatino, con che egli ritorna a' risultati già ottenuti da Dureau de la Malie. Il Jeep stesso ha visto però benissimo che la verità di questa asserzione dipende da una ipotesi sul luogo del tem- pio di Giove : ipotesi che, per quanto sia probabile e abbia dalla sua quasi tutti. gli archeologi tedeschi, può essere non- dimeno messa in controversia. Noi non potremmo che ral- legrarci, se il Jeep volesse presto studiare anche questa qui- stione, la quale gli darebbe occasione di mostrare in campo più vasto quella dottrina e quel retto e sano giudizio che

- 332 -

io distinguono a preferenza di molti e molti giovani filologi ed archeologi. Non voglio in ultimo omettere che , a quanto mi si assicura, gli archeologi di Berlino hanno fatto buon viso a questo piccolo lavoro, del quale accenna anche E. Curtius nella Archaologische Zeitung di quest'anno.

Gli altri lavori dei Jeep hanno per iscopo diretto T emen- dazione di Claudiano, e di certo essi offrono anche più di quello che sarebbe necessario per poterci aspettare dal loro amore una buona edizione critica del poeta latino. Questa edizione fu già annunziata tempo fa dal Teubner , quindi non mi resta che esprimere il desiderio di vederla presto in commercio, desiderio che son sicuro sarà partecipato da quanti s interessano , non dirò per Claudiano , ma per gli studi! classici in generale. Per ora intanto bisognerà con- tentarsi di questi scritti preparatorii, del contenuto de' quali mi permetto accennare con la massima brevità, nella spe- ranza di far cosa non affatto inutile pe* lettori di questa

Il Jeep cominciò le ricerche su Claudiano colla sua dis- sertazione di laurea (n. i) , scritta quando egli non aveva potuto studiare che una diecina di codici , numero per stesso rispettabile, ma certamente insignificante rispetto al- l'ingente copia di quelli raffrontati durante e dopo il suo viaggio in Italia. Ciò premesso, è naturale che le sue idee su' manoscritti di Claudiano debbano essersi alquanto mo- dllicate in seguito, come del resto può dedursi, per es., dalla p, 619 del quarto lavoro citato in fronte a questo annun- zio, e come può anche vedersi da alcune giuste tra le os- servazioni oppostegli dal Bàhrens ( Fleckeisen's Jahrb. fiìr PhìLs 1872).

Chi dunque vorrà occuparsi della critica di Claudiano dovrà ricordarsi che questo lavoro quantunque di grande importanza non è l'ultima espressione degli studii dell'au- tore, epperò non è da usarsi^ se non insieme co' posteriori e specialmente con un altro {Ueber die al teste Textesrecen- sion des Claudian)^ che dovea far parte dell'ultimo volume già pubblicato del Rkeìnisckes Muse.um , e che invece farà parte del prossimo. Mi astengo quindi di esporre le con-

- 333 -

clusioni 3 cui il Jeep in questa dissertazione era giunto , perchè sebbene non sia difficile stabilire quali modificazioni esse abbiano ricevute col progredire dei suoi studi' , pure non potrei darne che un resoconto imperfettissimo. Grande importanza per gli studii posteriori del Jeep e per la critica de' poeti latmi delFultimo secolo ha avuto la sco- perta del codice Veronese. In esso si son trovati i nove versi «m Sirenas)) (Claud. I. Gesn.; Anth. lat. 880 Riese), pubblicati come di Claudiano nella edizione del Camers , senza che m seguito se ne sia potuto mai trovare un mano- scritto; di più vi si è trovato il « de Phoenice » (di Lattanzio?), di cui il codice più antico che avevasi è posteriore di un secolo a questo veronese; e finalmente le u Laudes Hercit- /rs», stampate anche queste come di Claudiano dal Camers, ma non trovate mai in alcun codice. Si aggiunga a ciò l'importanza che ha per la critica di Claudiano in generale un codice del IX secolo, e si vedrà quanto si sia reso be- nemerito degli studii critici il nostro autore colla scoperta di esso. Lavoro notevolissimo è ancne quello sui mano- scritti del Raptus ProserpÌ7iae ^ essendovi esteso lo studio a quasi sessanta codici. Di questi vengono aistinte parecchie classi, il che forma in verità il merito principale del lavoro, perchè soltanto in questa guisa era possibile determinarne il valore , e spianare la via a chi volesse accingersi alla emendazione del testo. Il Jeep ha saputo con molta acutezza mettere a posto tutta questa faraggine di codici giungendo così al- risultato « cne per una trattazione critica del Raptus Proserpinae non s' abbia bisogno di attendere ad altri co- dici che ad un Laurenziano {Pliit. XXIV sin. cod. 112), ad un Vossiano (n. 294; cfr. Qiiaest. crit. p. 1 1), e forse ad un rappresentante della classe peggiore, cioè ad un Gu- diano (n, 228) n. 1 buoni risultati degli studi del J'Cp possono giudicarsi a prima vista dai luoghi emendati . di cui non sarà discaro a' lettori di Claudiano vederne citato uno interessante abbastanza e di evidenza immediata.

« K 53 « Longaque ferratis evolvimi '^'lecida pensts è detto delle Parche : il ferracis pensis era veramente insop- portabile, ed ecco che il Jeep con la fida scorta del Lau-

Ijiivìita di fio logia ecc , 1. 33

- 334 ~

renziano e del Vossiano emenda, ferra tis fusi s, lezione che esclude ogni dubbio. Come esempio serva pure Temenda- zione del verso 1 3'; del 3'^ libro, dove leggesi di Cerere che ritorna dalia Frigia :

'«.... digredilur templis. sed nulla ruenti Mobiiitas. lardos queritur non ire jugales. ><

Il Jeep muove dall'idea che a comprender bene il luogo sia necessaria una parola che contenga V idea di sembrare, e di fatto nel Laurenziano trova videtur al posto di ruenti, la qual lezione egli accetta senz' altro , tanto pivi che facil- mente spiegasi r origine del ruenti^ trovandosi scritto al margine « mentì UH festinanter^i a mo' di spiegazione. Qui è chiaro che il Jeep ha tutta la ragione dalla sua, e ogni edizione critica non potrà ammettere che questa lezione , quantunque il verso dal Iato poetico ne scapiti non poco. Ma se si trattasse di Virgilio e di Orazio invece di Clau- diano, confesso che difficilmente saprei resistere alla tenta- zione di ribellarmi alla autorità de' codici. Noterò incidente- mente che il sai congetturato dallo Heinsio al posto di sed mi parrebbe molto a proposito e sarei davvero contento se rocchio perspicace del Jeep riescisse a scoprirlo ne' buoni codici.

Finisco coi ripetere desiderio di vedere in breve una buona edizione di Claudiano, e con Tesprimere la speranza, la quale non sarà di certo defraudata, che il bravo filologo non cessi in altri scritti di esercitare quell'acume e quella diligenza che distinguono quelli di cui abbiamo accennato.

Lipsia, To dicembre 1872.

Girolamo Vitelli.

Ada societatis philologac lipsiemis ed. Fr. Ritschelius. Tom, I, fase. \ e 2- Tom. Il, i. Leipzig, i87!'-72.

Poiché uno de'più celebri campioni della moderna filo- logia classica, Federico Ritschl, passò dall'Università di Bonna a quella di Lipsia, acquistò quest'ultima tanta ben

- 335 - meritata rinomanza in tale disciplina da non temere nessun confronto in Germania ne alFestero. Alla quale rinomanza concorse da un altro lato la venuta di Giorgio Curtius, il vero e solo rappresentante della scienza comparata del lin- guaggio nelle sue più strette relazioni con la filologia clas- sica. Com'era naturale, avvenne che intorno a questi due formaronsì due circoli di giovani studiosi , i quali, sempre restando nel campo della filologia classica, o attenendosi di pijì al Ritsclìl , dirigevano i loro studii specialmente alla critica, air ermeneutica, alle ricerche storico -letterari e , o attenendosi di più ai Curtius , avevano in mira principal- mente le lingue greca e latina più che come altro come lingue. Di qui nacquero due distinte istituzioni : la società grammaticale del Curtius e quella filologica dei Ritschl. Frutti di queste due società, oltre l'educazione severamente scientifica che la gioventù vi riceve, sono gli Stiidien ■{ur griechischen tind lateinischen Gra??imattk , e gli Ada so- deiatis philologae lipsiensis. I primi , poiché in Italia i grandi risultavi della scienza del linguaggio furono quelli che appunto servirono a riaccendere in qualche modo l'amore operoso per le lingue classiche, sono abbastanza conosciuti nella nostra penisola (i)*, mentre de' primi non

(i) Giova per altro qui dar l'elenco dei lavori contenuti nei fasci- coli sinora pubblicati:

Voi. I ; Angermann, De patronymicorum Graecorum formatione. Frohwein, De adverbiis Graecis. Renneb, De dialecto antiquioris Grae- corum poesis elegiacae et iambicae. G. Curtius, MìsccUen. Roscher, De adspiratione vulgari apud Graecos. Delbrììck, Einige Bemerkun- gen uber ì und U im Griechischen. Goetze, De produciione syllaba- rum suppletQria linguae latinae. Gerth, Quaestiones de Graecae tra- goediac dialecto. G. Curtius, Verschiedenes. Voi. II: Gei.bke, De dialecto Arcadica. Clemm, Etymologisches. Leskien, Die Formen des Futurums unddes Zusammetigesetpen Aorists mit oc in den home- rischen Gedichten. H. Stier, Bildiing des Conjunctivs bei Homer. Roscher, Verschiedenes. G. Curtius, Verschiedenes. Delbruck. Ueber ^ux; und t€iU(;. Windisch , Untersuchungen V.ber den Ursprung des Relalivpronomens in den indogcrrr.anischen Sprachen. Roscher , Verschiedenes. Krau&ha/>r , '€duj. G. Curtius , Epigraphisch- Grammatisches. Woì. lU: Rau, De praeposltionis -rrapd usu. Hager,

- 336

credo abbiano noiizia se non pochissimi dotti. Non sarà quindi opera affatto vana il darne un brevissimo cenno , che dirigo in preferenza a' nostri giovani filologi cui le condizioni delle nostre biblioteche e forse ancora (mi si perdoni la non improbabile ipotesi) la tenuità dello stipendio non permisero di averne conoscenza prima d'ora.

Una miscellanea iìlólogica del genere de'nostri Ada non è cosa nuova per Lipsia : il Ritschl stesso ricorda i Com- mentarii societ. philologicae lipsiensis pubblicati da C. D. Beck, a'quali facevano poi seguito gli Ada semiitarii regii et soc. pini. lips.\ ricorda gli Ada societatis graecae pub- blicati da Westermann e Funckhanel in onore di Gotto- fredo Hermann, ie Observationes criticae della societas latina in onore dello stesso Hermann, e finalmente i già nominati Studien -{ur griechischen und lateimschen Gram- matik del Curtius.

Gli Ada del Ritschl sono dedicati alla memoria di Got- tofredo Hermann e di Carlo Reisig, alla memoria cioè dei due suoi grandi maestri. Questi due nomi e quello del Ritschl, che suona anch'esso venerato sulle labbra di quanti intendano che cosa sieno davvero le discipline filologiche, bastano a dimostrare l'indirizzo a cui sono informati i la- vori della Società Ritscheliana, lavori tutti d'importanza

De graecitate Hyperidea.— Angermann, Zur griechischen Etimologie und Wortbildung. Roscher. Phonetisches und Etymologisches. Benseler, De ytommibus propriis et Lcitinis in is prò ius, et graects in k;, IV prò loc,, lov tcrminatis. G. Gurtiiìs, Crammatisches und Ety- mologisches. Ali.en , De dialecto Locrensium. Clemm, Beitr'dge ^ur griechischen und lateinischen Etjymologie. M. Schmidt. Das T:;a- konische. G. Curtius, Zwr Geschichte der griechischen :[usammenge- :(0genen Verbalformen. Voi. IV : Albrecht , De accusativi cum infinitivo coniuncti origine et usti Homerico. Brugmann, De Graecae linguae productione suppletoria. Roscher, Misccllen. G, Curtius, LUckenbiisser (ùxeóv). Bricf Des Herrn prof. Sophus Bugge an G. Curtius. G. Curtius, Kleinigkeit (ri^^avev). Grammatisches und Etymologisches. Defvner, Neograeca. S. Bugge, Beilrage ^ur griechischen und lateinischen Etimologie. Meister, De dialecto Heracliensiiim Italicorum. G. Curtius, Homerisches.

337

perche tutti condotti con quel severo metodo filologico di cui è oggi ii Ritschl la più potente espressione. Dare un inteso ragguaglio di questi lavori mi sarebbe impossibile per la va- rietà delle materie, e sarebbe forse anche fuor di luogo : ben posso darne però una specie d'indice, e lo do volentieri, sicuro di far cosa grata a tutti quelli che non avranno avuto occasione sinora di vedere il libro co'proprii occhi.

Negli Ada dunque Fr. Nietzsche ha pubblicato il Cer- tamen Homeri et Hesiodi^ e Ervino Rohde ha per la prima volta reso di pubblica ragione Isigoni de rebus mirabilibus breviarium da un codice vaticano. Sieguono le Qitaestiones Fulgentianae del Dr. Jungmann, ora insegnante nel ginnasio di S. Tommaso di qui; una ricerca etimologica (-rrpouaeXeiv) di Guglielmo Clemm-, una Satura critica di Roscher (ad Soph. frgm. 853 Nauck: Q. Tuli. Cic. Astron. XIV p. 69 Biicheler; Soph. Ai. 839*, Eurip. Phoen. 11 23-7 Nauck; Soph. Phil. 29); emendazioni al dialogo de oratoribiis di Giorgio Andresen (che poi ha curato una edizione teubne- riana' del dialogo sxqsso)-:^' Quaestiones Sallustianae di Al- fredo Weinhold; De incisionibus anapaesti in irim. comicis di Curtius Bernhardp, Observaiiones criticae in Dion. Alte. di Carlo Jacoby; studii sui mss. del Raptus Proserp, di Claudiano del Jeep, anche lui ora insegnante nel ginnasio di S. Tommaso; e finalmente una Miscella critica de'signori Sievers , Siegismund , Gilbert , Brugmann , Forssmann , Mendelssohn, Lammert e Wezel.

Questo è il contenuto del i" volume : di quello del ri- corderò soltanto per la loro grande importanza le Quaestio- ones Eratosthenicae di Ludovico MendelssoHìV (delle quali riceveranno forse in seguito una più ampia notizia i lettori di questa Rivista) e un altro lavoro De actorum in fahulis Terentianis numero et distributione.

Lipsia, i5 dicembre 1872.

GiROiAMo Vitelli,

-• 338

Aristoieles odcr i'iber daa Geset:{ der Geschichte , ron Her- man DoERGENS. Leipzig, 1872.

L'A. rende ragione in una prefazioncella del doppio ti- tolo sotto cui egli manda alla luce il suo lavoro. Conrje Platone intitolò uno de' suoi maggiori dialoghi : Fedone , ossia dell'immortalità; come fra 1 Romani Terenzio Var- rone scriveva nel frontispizio di un suo libro : Sisenna , ossia sulla storia, cosi TA., riguardando Aristotele come un modello in quel genere di scritti a cui appartiene la sua monografìa, e confessando di averla elaborata sotto i'in- Busso di questo filosofo , credette di doverla porre sotto il patrocinio di un gran nome. Che cosa abbia di comune Aristotele colla filosofia della storia, non si vede subito, e sarebbe vano il cercarlo in qualche particolare insegnamento aristotelico interno a questa disciplina, di cui, al tempo dello Stagirita, non si aveva neppure il sospetto. Per Aristotele il genere umano esiste ab eterno, ed è destinato a percor- rere infinite volte il cammino dall'estrema rozzezza alla più alta cultura e viceversa {Metaph., XI l, 1074, a). Questa è per lui tutta la filosofia della storia. Pare quindi che, a scegliere quel nome come primo titolo del suo scritto, TA., anziché da alcuna speciale dottrina aristotelica intorno alla filosofia della storia, sia stato determinato dalla considera- zione del metodo inculcato da Aristotele col precetto e col- l'esempio, per quanto concerne le scienze naturali, metodo che consiste nella osservazione dei fatti dai quali per via di induzione si assorge di grado in grado alle leggi generali. Questo è pure il metodo che l'A. riconosce come l'unico conveniente nella filosofia della storia. L'A. vuole che nella formazione di questa scienza si tenga quel medesimo pro- cesso con cui si sono create le scienze naturali : soprattutto poi riprova la considerazione esclusiva e unilatere delle cose e dei fatti umani. Bossuet, Gòrres e Schlegel (si sarebbe pur dovuto ricordare il Goti in der Geschichte del Bunsen) fecero la filosofìa della storia dal punto di vista àtW illu- minismo ragionale {Aufkldrung). Hegel non vide nella

-^339

storia altro che T applicazione dell'idea logica . Kant e Buckie ricercarono unican^ente le leggi del progresso politico. Per- chè VA. non esanninò anche la dottrina del Vico , di cui nel suo scritto non si trova menzionato altro che il nome ? Il filosofo dcHa storia deve tener coato di tutti gli elementi della natura umana, e ricercare la legge che ne governa lo svolgimento e )a manifestazione nella storia.

L'A. riassume i risultati della sua discussione in una serie di proposizioni. Le prime sei sono dette da lui as- siomi etnologici, i quali diamo qui tradotti per saggio :

« In ogni periodo gli uomini sotto il rispetto della loro capacità di svolgimento storico si dividono in due razze, la sedentaria e la nomade. » Il criterio per cui si distin- guono è i esercizio costante (non meramente accidemale e transitorio) dellagricoltura.

« In ciascun periodo il dissimile istinto linguistico distingue gli uomini di razza sedentaria in varie classi spe- cificamente diverse, secondo la loro diversa tendenza a pen- sare, a imparare, a godere.

« 3^ In ciascun periodo T incremento della lingua e l'incremento della potenza stanno fra loro in ragione diretta e si promuovono a vicenda.

a in ciascun periodo una nazione od un consorzio di nazioni raggiunge la preminenza sulle altre , perchè il suo sapere, elaborato per mezzo della lingua, è più grande che il sapere delle rimanenti. (Questa legge, solo in appa- renza, ma non in realtà, è contraddetta dal fatto che i Per- siani, i Romani, i Franchi e i Turchi , vìnsero rispettiva- mente i Medi, i Greci, i Bizantini, superiori ad essi in cul- tura e in sapere, e dotati di una lingua più ricca; impe- rocché la potenza queste ultime nazioni era oramai esau- sta , quando venne per ciascuna di esse il giorno della prova).

« In ciascun periodo le imprese della nazione pre- valente diventano il centro intorno a cui si raccoglie tutto il lavoro storico, e tutta fattività delle altre nazioni, le quali perciò si comportano verso di quella come cooperatrici ri- spetto alla loro regina e maestra.

- 340 --

« 6" In ciascun periodo la partecipazione della nazione predominante al lavoro del periodo stesso, determina il ma- ximum del valore reale della nazione stessa nella storia. »

Con questi sei assiomi FA. vuole determinare il come trovi distribuita la potenza fra i diversi attori che agiscono sui teatro della storia. Seguono quelli che egli chiama as- siomi antropologici , concernenti il movimento o Fazione stessa di questa potenza. L'A. tocca la questione: qual parte abbiano gli uomini grandi nella direzione di questo movimento. Attribuire ad essi una iniziativa assoluta, al che propendono, secondo FA., Io Schiller (nel suo Mosè e Solone), il Cousin ed Erm. Grimm, sarebbe un ricadere nel modo di pensare dei creatori delle mitologie: conside- rarli come semplici continuatori e perfezionatori del lavoro universale , sarebbe un deprimerli troppo basso. Secondo FA. , gli uomini grandi sono il principio intellettuale nella storia ; la loro iniziativa consiste nel concepire i grandi pen- sieri, i quali, allorché trovano il mondo esterno acconcia- mente preparato a riceverli ed attuarli , diventano grandi opere e mutano il corso delle cose umane ; quando avviene il contrario, il pensatore si rimane tristamente allo stato d'uomo incompreso, e Fopera sua fa mala prova.

« Siccome verme in cui formazion falla ».

In tutto il suo lavoro FA. mostra ingegno vigoroso e nu- drito di buoni studiì. Trattandosi di una scienza che è an- cora nell'infanzia, sarebbe desiderabile che FA. si fosse in gegnato di esprimere i suoi pensieri in modo più chiaro e meno astratto, ed è a sperare che egli adempirà questo de- siderio negli ulteriori lavori di filosofia storica, che, còme egli ci promette, devono tener dietro alla monografia, di cui qui si è fatto questo breve cenno.

Torino, 23 dicembre 1872.

G. M. Bertini.

Pietro Ussello, gerente responsakile.

-341 -

CENNI SULLA SINTASSI "DELLA LIV^GUA G%ECA{i).

II.

Riassumendo ora i nostri pensieri in ordine alle parti costitutive di ogni grammatica speciale, diciamo, che la Fonologia è la dottrina dei suoni, che costituiscono la pa- rola; che la Morfologia è la dottrma delle forme, intese come funzione potenziale delle singole parole-, e che final- mente la Sintassi tratta delle funzioni, che la parola è chia- mata ad esercitare nel discorso (2). Questo ordinamento della grammatica ne sembra anche molto rispondente al concetto, sul quale si fonda la moderna linguistica, doversi cioè prendere le mosse dall' intuitivo nella sua differenza dall'astratto. Non possiamo però nasconderci le grandi e molteplici difficoltà, che oggi ancora s'oppongono ad una compiuta riforma della dottrina della Sintassi delia lingua Greca (che di questa è nostro compito di parlare), sulle basi dei risultamenti dell'indagine comparativa, tra per es- sere Incompiuto per ancora il lavorìo preparatorio della scienza, per ciò che s'attiene agli usi sintattici delle lingue affini, e perchè anche la è tal questione cotesta, che a malo stento la si potrà sottrarre di sotto agli influssi della psi- cologia, massime perchè il pendìo, che è dell'età nostra.

(i) Vedi fascicolo 7», pag. 3oi-3io

(2) Vedi Ascoli, Corsi di Glottologia; Torino, Loescher, 1870, pag. I.

Hfvista di filologia ecc., I. 34

•erso quel bello insieme, che s'appresenta sotto le forme più o meno fallaci, ma seducenti pur sempre, delP unità organica, sospinge gli intelletti verso gli schemi generali, fondati a priori^ ben lungi dal solido terreno della osser- vazione (i). Intanto ne giova porre in sodo questo princi- pio: che, cioè, il pensare procede di pari passo colla parola, che le forme del pensiero si svolgono insieme colle forme della lingua, e d'un modo affatto istintivo e spontaneo, cor- rispondente al tutto air indole particolare della nazione. Perciò, come d'ogni organismo, cosi anche della struttura sintattica di una lingua bisognerà pur dire, che soltanto allora se ne conoscerà lo svolgimento, quando, per via della ricerca storica, se ne saranno rilevate come a dire le fat- tezze, e gli usi concreti. Si badi però, che allorquando, tenendo ragione della struttura sintattica della lingua, noi adoperiamo la parola organismo, ciò facciamo soltanto per Uso analogico, p. e. colla vita animale. Ma la bisogna corre ben diversa qui , nella vita cioè degli esseri organici -, anzi, chi ben considera, nella vita del linguaggio il concetto di organismo, se non è fallace addirittura, certo non risponde al fatto della medesima, come ce lo appresenta l'indagine scientifica. In ordine alla na'tura infatti, il concetto d'or- ganismo induce quello di tale svolgimento, che immeglia col tempo e coll'uso, così che le parti del corpo umano, ad esempio, tanto più ài vigorezza e di bontà acquistano, quanto più l'organismo delle medesime si disvolge e s'ac- costa via via al suo pieno assetto. E anche un altro con- cetto rileva nell'organismo, in ordine alla natura, quello cioè deHa cospirazione necessaria delle parti verso l'unità.

(i) Leggansi a questo proposito le succinte, ma feconde considera- zioni, messe innanzi dal Curtius nel Commento^ pagg. i6o, e segg. , trad. dal Mulier.

343

verso 1^ armonico intreccio delle movenze e degli atti. Ma nella lingua invece Tindagine storico-scientifica ne addita una lenta, ma incontestata opera di detrito e scadimento e aftie- volimento di suoni ^ gli è un perenne ritraimento dalla ricca varietà delle forme e degli usi sintattici più antichi verso forme piìi irrigidite e verso usi piià comprensivi. Il dis- corso, più tardi, ti si presenta architettato e foggiato più artificiosamente-, ma il rigoglio antico tu cerchi indarno, e agli usi sintattici, antichi, andati in dileguo, la lingua sup- plisce colle forme, che le sono rimaste del patrimonio an- tico, o condensando su queste il peso di varie significazioni, oppure appigliandosi ad usi più liberi delle funzioni della parola (i). Qualche esempio 'tolto all'uso della lingua epica antica potrà meglio chiarire il nostro asserto. Fre- quente nelle canzoni omeriche è il genitivo coi verbi di rrioto, senza preposizione, p. e. óèoTo (sulla via) col verbo ftiarpipeiv (indugiare), Od. 11,404. Confr. (:.Titk^^C)^a\{pd. Ili, 284), XiXcdecrea» {Od. I, 3i 6), ècrctjjiai {Od, IV, 733), npi^ffcTtiv {Od. Ili, 476). E più spesso incontri Tttbioio con èpxecrSai (//. II, 801), levai TroXéoq treòioio (//. V, 597), e altri molti.

Quest'uso è pressoché scomparso dalla prosa attica. (Vedi Krùger, Gramm. Greca^ Part. II, § 46, i). Frequen- tissimo è poi in Omero l'uso del locativo , alla domanda: doPe?, senza preposizione, corrispondente all'antico locativo (Kriig, 1. e. § 46,2), forma posseduta forse in origine dal gfeco, certo dalle lingue affini. Confr. xaMa-^? TTtòoi (Esch, Prom.., 61 5), àXXu-i, tuì (Gurt. Comm.^ pag. 70, versione del Miiller. Schleicher, Compend., pag. 3 16, Pezzi).

Maggiormente svolti nella prosa attica troviamo invece altri usi del genitivo; p. e. V assoluto; raro è nelle poesie

(i) Vedi Haacke, BeitrSge ^u einer Ncugestaltung dcr frriechi- schen Grammatik. Nordhausen, i852. II Hcft , §8 e segg.

~ 344 -

omeriche 1' uso del genitivo possessivo (Confr. Kr, 1. 1. § 47, 4, 6.). Straniero alla poesia epica antica è pure Turo del genitivo coi verbi, che esprimono ricordare, aver cura^ dimenticare^ molto frequente invece nella prosa attica. Tali verbi sono ad es. èvOuiicTcJGai , òXiTuJpew, fivri^uoveóeiv, dfivriiiioveTv, èTrijUtXeTaGai, q)povTÌZ!€iv, KaxaqppoveTv, TTpovocicrBai (Kr. 1. e. § 47,11', Curt. Gram. § 420). Stranieri alla lin- gua omerica sono altresì i verbi àvTiXappdveaeai - èTriXajii- pdveo"9ai - aTroTUYxaveiv - diuxeiv - ineTaXaYxdveiv - fieiaXaiu- ^dveiv - jLieTabibóvai - Koivujveiv, col genitivo, nella accezione di cogliere nel segno, agognare^ ottenere, aver parte^ ecc.

E neppure aÌTida6ai ed aiTio<; col genitivo conosce la lin- g»a epica antica (Confr. Kr. 1. e. § 47,22). Assai fre- quente nelle poesie omeriche è per lo contrario Tuso dello articolo dimostrativo^ mentre è raro l'uso attributivo del medesimo (Kr. § 5o, 2), E quanto al collegamento delle proposizioni {Sintassi della proposizione composta)^ vediamo prevalente nelPepopea antica quel modo di collegare insieme le proposizioni che chiamano paratattico e asindetico, dalle movenze più libere, mentre nell'uso della prosa posteriore è frequente e regolare la ipotassi o siibordinamento (uTróiaSic).

(Ved. Inama, Gram. Grec. Sintassi, pag. 194). Molta libertà, e quasi licenza si incontra nelle poesie epiche rispetto alla concordanza dei casi {Ptotica^ v. Kr. , II, § 6o)-, quando ad es. a due verbi, che hanno diversa reggenza, si collega un unico oggetto comune, come nel passo, che segue qui appresso :

« 'EcjQXò? èùjv Aavaujv Kriòeiai oùb' èXeaipci » (Confr. Kr. II, § 60, 4). Questi pochi fatti della lingua accennano a un procedimento storico, e non già a svolgi- mento organico , anche nel giro degli usi sintattici. Le prove poi degli scadimenti fonetici ci sono pòrte dalla lin- guistica ih numero infinito.

- 345

Ma vediamo oggimai qual posto competa alla Sintassi dirimpetto aila inflessione della parola, e alla dottrina di essa.

Nel concetto, che da Platone in poi {Sophtst.y pag. 263 E) s^è avuto della lìnguay si compresero sempre due elementi costitutivi della natura di essa, Funo sensibile o for^male (il suono articolato), interiore Taltro, o intelligibile, ideale, morale, come tu voglia appellarlo (i). OùkoOv bidvoia j^èv Ka\ XÓTOV TaÙTÒv. ( sono le parole di Platone ) irXnv ó uèv èvTÒ? Tri? vyuxn? "^pàq aÙTrjv òidXoTO<; aveu (piuvri(S TJTVó.uevo^, toOt' aÙTÒ riiiiv èTru)VOjado'0Tì biàvoia . . . òè àn èKsivriq ^eOjiia bla ToO GTÒ\xaTO(; lòv |i€Tà cpGÓTTOu k^kX^toi Xóto?. Non sempre però fu apprezzata al giusto valore la scam- bievole attinenza di questi due elementi. Laddove infatti, non già al fenomeno sensibile, come sogliono i più, ma, come vuole ragione, tu porti il tuo studio alla cagione effet- trice di quello, cioè allo elemento ideale, che, come a dire, si concreta nel fenomeno sensibile: troverai, che la lingua è da considerare piuttosto siccome l'espressione dell' umano pensiero, reso intelligibile per mezzo di suoni e di voci arti- colate che colpiscono i sensi-, ovvero, siccome i suoni in or- dine airelemento ideale, che per essi cade, come a dire, nel dominio dei sensi, non sono opera del caso, s'appalesano inavvertiti, ma sono imagini adequate di quello, e la espres- sione quasi corporea: così la lingua si potrebbe più rigoro- samente definire: la rappresentazione sensibile e corporea dell'umano pensiero, fatta per mezzo di suoni articolati. Gli è chiaro del resto, come alla conoscenza di un popolo, prima d'ogni ahra cosa, s'appresenti il mondo esteriore, che lo circonda, in tutta la sua varietà di forme e colori. Questo

(i) Veggasi L. Meyer, Vergleichende Gramm. I, 32i. Né\\A Appetì" dice al Compendio dello Schleicher irad. dal Pezzi, p. 5o5.

- 346 - egli riproduce dapprima sotto forma di rappresentazioni ideali, le quali alla loro volta, rientratido nel dominio dei sensi per mezzo de' suoni articolati, acquistano un'esistenza loro propria, indipendente al tutto dal mondo esteriore. Le singole rappresentazioni, rese per tal modo intelligibili, s'indi- rizzano alla lor volta di fuori, verso le cose esteriori, e agli accidenti di quelle, che la coscienza del popolo in mede- sima accoglie, ciò è come dire, che il mondo esterno, il mondo dei sensi, al quale s'associa dappoi il mondo sopras- sensibile, col progredir della civiltà, diventa via via obbietio del pensiero, mercè quelle rappresentazioni, rese di già sen- sibili ; e queste che son le parole per l'appunto si tra- mutano in simboli e nomi del mondo esteriore, d'un modo affatto ideale e astratto.

Quale sia il compito del filosofo meglio diremo del psi- cologo— in questo rispetto, ce lo additò già la sapienza an- tica, per mezzo del dotto Platonico Nigidio Figulo (presso Aulo Gelilo, A^. A.y X, 4); e Boezio {ad Aristot. de In- terpr. II, pag. 3 14).

« Piata vero son parole di quest'ultimo in eo libro qui inscribitur Cratylus aliter esse constituit, oratiouein- que dicit supellectilem quandam atque instrumentum esse significandi res eas, qiice naturaliter intellectibus conci- piuntury eumque intellecium vocabulìs discernendi^ quod si omne instrumentum secundum naturam est^ ut videndi ocu- lus, nomina quoque secundum naturam esse arbiiratur^). E, certamente, quale che sia l'opinione, che tu possa avere intorno alle conclusioni finali del Cratilo di Platone (1),

(i) È noto che in questo Dialogo tratta de nominum recta impo- sitìone (irepì òvo|uàTUJv òpGÓTTjToO; se cioè i nomi s'imponessero qpùaci o eé(Tei. Vedi C. Fr. Hermann, Geschichte und System der platonischen Philosophie f 1 Theil, 3** Lieterung ;; Note 464, 466, 473, 474.

347 - questo è per noi fuori 4i ogni dubbio, che a quel divino intelletto non potea per verun modo essere sfuggila Topera di natura, e quasi istintiva, nella formazione concreta dei linguaggi: *Apé(JK€i òè aùn?» (a Piatone) sono parole di Alcinoo, cap. 6. (i) Qéaei undpxeiv tuùv òvo|iidTujv inv òpBÓTTiTa, ixf]v àTrXu»<; oùòè wc, ^Tuxev, àW ujo'ie Trjv 0é(Jiv TcvéaGai ÓKÓXouGov t^ì toO upuf fiarot; cpuaei. Rintracciare il lavorio di natura, seguace e rispondente all'ordine reale e concreto del mondo esteriore, ecco Talto subbietto delP in- dagine speculativa intorno ai fatti della lingua.

Del resto il compito della linguistica, in questo rispetto, è duplice: essa deve dall'una parte rintracciare e ordinare le singole voci, quali rappresentazioni dello spirito, rese sensi- bili per Torgano dei suoni; e studiarne i processi di forma- zione in ordine al genio popolare, che del mondo esteriore tutto si riempie; e dall'altra parte essa deve prendere in at- tento esame le cose e gli accidenti di esse, poiché le parole sono e di quelle e di questi, e segni e nomi.

La dottrina pertanto, che rintraccia la formazione delle parole ne' più reposti penetrali della vita loro , induce nel lavorio dello spirito generatore de' vocaboli una distinzione, che per l'appunto non ha altro valore, che dottrinale. A quella guisa infatti, che nel mondo esteriore le cose, non meno che gli accidenti di esse, si appresentano sotto forma di attinenze e di influssi scambievoli, ma per questo l'es- sere loro si rimuta sostanzialmente, che soltanto varieggia nelle guise e nelle parvenze ; cosi anche nelle parole si appa- lesano scambievoli le attinenze e i moti, e variabili assai le forme, veramente però, che nell'opera di trasformazione, sotto le apparenze materiali, permane invariata e immutabile la essenza. La formazione di questi elementi stabili e fissi

'i) Atba(TKa\iKÒ<; tiI»v toO TTXdTtuvo(; ^0T^<5TUJv. Hermann.

- 348

della parola si apparta al tutto dalla dottrina della forma- zione degli elementi variabili; quella appartiene alla energia dello spirito veramente effettrice della parola, questa alla virtù che gli è propria, di variare le forme colla inflessione. Però è da tener fermo questo concetto, che, cioè, quella di- stinzione o separazione non è opera dello spirito generatore delle lingue, poiché nel fatto non è a credere, che prima si formi Telemento stabile della parola che addimandano il Tema {Qi\xa TiGniui) per contrapposizione all'elemento mu- tevole — e che dappoi esso venga variato per mezzo di pre- fissi e suffissi, allo scopo di produrre un simbolo per la rela- zione della sostanza delle cose e degli accidenti di esse, e una misura delle relazioni stesse, sotto le quali esso si pre- senta. — Ma siccome nel mondo esteriore le cose e gli acci- denti si appresentano sotto forma di una relazione determi- nata, e non altram.ente : così anche il Tema delie parole si presenta nel fatto modificato concretamente per suffissi e prefissi , così che e la formazione del Tema , e quella dei prefissi e suffissi che lo modificano, è un vero atto dello spirito formatore della lingua; il Tema puro invece, senza aggiun- gimenti flessibili, come suole rappresentarcelo la dottrina della formazione delle parole, è una astrazione, la quale, come dicemmo quassopra, non ha per Tappunto altro valore, che dottrinale e speculativo.

1 Temi (i) non sono ancora in se e per se nell' indo-ger- manico parole, e molto meno parti di proposizioni. Nell'indo- germanico ogni parola, ogni elemento di proposizione è o verbo o no7ne. I temi per non sono ancora nome, verbo; mentre l'uno e l'altro addiventano per mezzo di suf- fissi formatori di casi e di desinenze personali. Per ciò è

(i) Vedi su questo proposito il passo importante dello Schleicher , Compendio, § i33, Pezzi.

349 vano il parlare di precedenza dell'una o dell'altra di queste due parti. Vano è chiamare il verbo la parola per eccellenza KttT ègoxnv perchè esso , nel contesto del discorso, «t esprime il contenuto del pensiero » come sentenzia il Becker [Gramm. Ted,, p. 4, nota). Neppure gli antichi accen- narono mai a cosiffatta precedenza, poiché per essi òvojua e pnjaa, nomen e verbum valgono entrambi come KupiujTaTa \xipx\ ToO XÓTO'j; principales partes orationis. Anzi Pri- sciano^ contrariamente al Becker, dice chiaramente : nomen est principalis omnium orationis partium {Co7nm. Gramm. ^ XIV, 1,1). E il grammatico Cledonìo., che colle parole se- guenti (p, 1868, P.): verbum .... est pars principalis, sine quo loqui non possumus sembrerebbe avvalorare l'opi- nione del Becker, intorno alle precedenze da accordarsi al verbo, di 11 a poco (p. 1889) esce in questa sentenza: ex nomine et verbo genus ducunt ceterce partes , sine quibus loqui non possumus (i). Ma v'è di più ancora. NelP indo- germanico non si trova neppure il divario fra le radici, che chiamano verbali {ideali-signijìcative) , e quelle che addi- mandano pronominali {di relazione., formali). Infatti le radici i-ka-ta-ja sono tanto pronominali, quanto verbali {i - dimostrativo, andare; ka interrog., esser acuto; ta di- mostrativo, stendere). (V. Schleicher, Co?7tp. § 100, Pezzi-, L. Meyer, Gramm. Comp. I, pag. 323 e segg. Pag. 519 segg. del Pezzi). Il nome ed il verbo adunque sono nati entrambi ad un tempo. E quindi indifferente, che si dia la precedenza alla Declinazione od alla Coniugazione, poiché Vuso soltanto decide qui (Confr. Schleich. Comp. § i33. Pezzi).

Di contro pertanto a quel duplice ordine d'Indagine e di nozioni, di che toccammo quassopra, quello cioè che s'at-

(i) Vedi RosENHEYN, Aufsaij ilber die wortarten. Lyk. , 1839, p. -27

- 350 - tiene alla formazione delle parole, e Taltro che tratta delle intiessioni, si leva la sintassi , il cui compito adunque è questo: di rintracciare, cioè, e studiare l'uso e Tapplica/ione delle modilìcazioni delle parole, che ne costituiscono la fles- sione, considerandole come segni delle relazioni scambievoli del mondo sensibile , e dello ideale. Grande efficacia adunque ha la sintassi sulla dottrina della flessione ; ma non minore è l'influsso che da questa si distende su quella. Questa quasi direi correlazione d'influssi fra la etimologia e la sintassi nella grammatica speciale di ogni lingua scende diritta, secondo noi, dal concetto psicologico della lingua, che noi vorremmo che informasse la dottrina della sintassi, perchè essa risponda dall'una parte alla nuova teorica del linguaggio, considerata come scienza antropologica, e dall'altra alle positive e concrete rivelazioni della linguistica. Due principi infatti ne sembra di poter porre nettamente: i" che vi è relazione fra il pensiero (biàvom) e la parola (XÓYoq); 2" che v'è relazione fra la oparola (Xó^oi;) e le cose (f^ toO TtpaTMciTOf; (pùaiq).

E quanto all'essenza della lingua diciamo, che in quanto essa nel suo elemento sensibile ci rappresenta una somma di voci, e nello ideale lo insieme dei pensieri di un popolo : così la si potrebbe concepire e definire, come la manifesta- zione concreta del modo col quale un popolo intuisce e con- cepisce, e soggioga quasi il mondo esteriore, cioè tutto che vi ha di straniero ed estrinseco all'essere suo nel mondo reale obbiettivo. La parola adunque raccosta all'umana coscienza i fatti del mondo esteriore, e le relazioni, nelle quali essi mutualmente s'implicano. E quantunque essa cresca a cosi dire nel mondo esteriore de'sensi del quale essa subisce gl'influssi, pure essa vive una vita individua e indipendente come proprietà vera dello spirito umano; mai per sua natura viene riferita a fatti o a cose particolari

351 - e determinate, ma è tutta soggetta alle leggi, che Tuso e la volontà del popolò le impone, al quale essa appartiene sic- come vera proprietà sua e inalienabile (i).

E qui s"'affaccia spontanea la domanda: E in qual modo possiamo noi pervenire ad una conoscenza compiuta del con- tenuto dell'idea, che ci è resa intelligibile per Torgano sen- sibile della parola? - Noi rispondiamo: per nessuna altra via che per mezzo della parola stessa; poiché l'idea ed il pensiero non sono fuori della lingua, ma in essa e per essa, tantoché la lingua si potrebbe definire: la somma de pensieri possibili di un popolo. Quello, che chiamano pensiero ta^ cito^ non è altramente possibile, che con parole ; esso è un parlare interiore èvTÒg xf)? n/uxn? irpò? aurfiv òmXoTOi; avcu (pujvfì<; YiTvó)ievo?5 Plat. Soph.j pag. 263, E). Uetimolog-ia è il solo mezzo, che noi possediamo, per aggiungere a quella conoscenza-, essa segna il confine estremo, sino al quale è a questa concesso di pervenire. E, così concepita, Teti- mologia riceve un valore e un'importanza ben diversa da quella, che le può competere, quando con essa e per essa a nuiraltro si miri, che ad ottenere una cotale pratica abi- lità di traslatare da una lingua straniera nella propria, e vi- ceversa.

III.

La sintassi di una grammatica speciale non può adunque, secondo noi, aver oggimai altro sicuro fondamento, che il fatto concreto della lingua parlata e scritta da un popolo, che è come dire un fondamento storico. Certo è poi, che, se la dottrina della flessione (etimologia) nella lingua greca ha subito profonde e radicali riforme, in seguito ai

(i) Per tutti i concetti svolti in questa parte vedi Ha acre, Beitrdge, ecc. , II, 8, 9, IO, 12.

-352 -

risultamenti della indagine comparati va j anche la sintassi di questa lingua non può, deve rimanere straniera ai legit- timi influssi di quella. Il metodo da seguire ci si para in- nanzi spontaneo, è il metodo storico-comparativo. È un arduo compito però, diciamolo a bella prima, e contro al quale grosse difficoltà si sollevano da tutte parti, e del quale assai difficilmente vedranno rultimo termine i presenti. Per- chè gli è uno di que'còmpiti, rispetto acquali e'non approda neppure l'aspettarsi a grandi ingegni e potenti, quantunque ci sentiamo compresi di profonda ammirazione , quando consideriamo la vasta orma stampata anche su questo terreno dal genio immortale di Giacomo Grimm , la cui grammatica della lingua tedesca vivrà monumento eterno della potenza speculativa dell'umano ingegno, consociata ad una maravigliosa sottilità di spirito indagatore. Ma la sintassi della lingua greca, quanto a chiarezza di metodo e di sicura e larga comprensione de'fatti della lingua, e a no- vità di trattazione e di vedute, è ben lungi ancora dal poter competere colia prima parte della grammatica - Tetimologia. L'impulso dato dal Butrmann (1819-27) produsse certa- mente ottimi risultamenti nei lavori grammaticali del Krùger, del Madvig:, e la nuova scuola, fondata dal Curtius, sulle orme però di quelli, sarà feconda di ottimi frutti, come ce lo attestano gli eccellenti lavori dell' Aken, del Koch, dell'Inama. Questi ultimi infatti, e primo TAken nel libro Grund^iìge der Lehre vom Tempus und Modus im Griechischeriy hanno dato alla dottrina dei Modi e dei Tempi tale indirizzo, che ne affida del sicuro effetto della indagine linguistica sulla trattazione della sintassi. Ma di ciò per ordine e a suo luogo; che troppo ci tarda di parlare di un libro, il quale nella letteratura grammaticale della lingua greca fa, come a dire, parte da se stesso. È la sintassi della lingua greca di Raffaele Kiihner (Hannover, i834-35).

353

Allorquando, nella prima parte di questi cerini^ noi sboz- zavamo ristrettamente, come ne consentiva lo spazio e il compito nostro, il concetto fondamentale della dottrina di Ferdinando Becker (Frankforte a. M., i836) intorno alla sin- tassi generale e a quella particoiare della lingua tedesca : ci prefiggevamo precisam.ente questo scopo, di aprirci cioè la strada a parlare della sintassi del Kiihner, la quale s'ac- costa assai ai sistema del Becker, benché i due lavori ve- nissero alla luce quasi contemporanei. E quantunque questo modo di trattare la sintassi greca si possa dire oggimai ab- bandonato e dismesso : pure non ci è parso fuor di propo- sito il ragionare partitam.ente intorno ad un'opera, che ebbe gran fortuna nelle scuole tedesche, che l'anno i856 era per- venuta di già alla tredicesima edizione, e che è conosciuta anche in Italia per la traduzione, procurata dal compianto Ambrosoli (i).

La sintassi del Kùhner si fonda tutta sulla Dottrina della Proposi'{ione. La proposizione e V espressione di un pen- siero in parole póbov GóXXei, la rosa fiorisce^ ó àv- epWTToq 9vnTÓq €(jTi, l'uomo e mortale 146, i) . E su- bito dopo, In ogni pensiero 0 in ogni proposizione trovansidi necessità due concetti posti in rela'{ione tra loro e congiunti per modo da formare un tutto; cioè il concetto di un'attività, e il concetto di un ente, a cui questa atti- vità viene attribuita. Chiamasi predicato il primo di questi due concetti, soggetto il secondo. 2** La significazione del concetto viene determinata in parte colla inflessione della parola che lo rappresenta, p. es. : póòov eàXX-ei *0

(i) Vienna, Tipografia dei Mechitaristi , i856. Non v'è il nome del traduttore, ma crediamo di non tradire il vero, pronunciando il nome di Francesco Ambrosoli^ come autore di quella eccellente ver- sione.

a^4

(tTpc(Tia)Tri(j j^óy-tTai , // soldato combatte; in yurte per mc\'{0 di pili parole unite e ordinate a lai fine ^ come: ó dvBpiuTTo*; evriTÓg ècTtiv. Queste adunque, predicato e sog- getto {attività ed ente), sono le parti che costituiscono una proposizione semplice. La dottrina di questa, cioè della proposi'^ione semplice nella sua fornia più rudimentale di predicato e soggetto, si risolve nella breve dottrina delle concordan:;e{^ 146- 1 53, 6), E siccome il soggetto (che può essere un sostantivo^ un pronome personale, un numerale, un aggettivo e participio usati come nomi, un avverbio, wnd. preposizione col suo caso., i infinito di un verbo (^ 145, 1), è sempre nei caso nominativo, ed il predicato è sempre o un verbo, o un aggettivo 0 un sostantivo o un numerale o un proìiome unito al verbo eivar, così la sintassi della pre- posizione semplice si restringe tutta aiFuso del noniinalivo, e dv;i tempi e modi del ^'crbo, e alla concordanza di questi con quello.

Ma il soggetto (sostantivo) e il predicata {\cvh6), possono, anche nella proposizione semplice, essere determinati più da vicino, quello col mezzo doW attributo, questo col mezzo àtWoggetto (Gapp. 2% 3"), che è come a dire per via complementi e del soggetto e del predicato.

i^ IJattributo 154) si presenta sotto le forme se- guenti: a) di aggettivo, koXòv póbov; b) ài sostantivo al genitivo ó ToO paaiXéw^ Kf^tro? *, e) di sostantivo unito a preposizione r\ npòc, Tf)v ttóXiv óòóc;; d) in forma d'avverbio o\ vOv dvepujTToi; e] in forma di sostantivo in apposi^ions ~ Kpoicyog, ó ^aqriUvj»;.

2" V oggetto (§§ i5b segg.) che serve a determinare più esattamente il predicato [attività, concetto del verbo), nel suo più, largo senso della parola può essere costituito a) dai casi è7Ti8um£» xfì? cyo(pia<;; b) dalle preposizioni unite ai loro casi ó arpainTÒ? Ict\\ uapà tu) pacriXei ; e) dalV infinito

- 356 -

ém6u)nuj Tpacpeiv ; a) dal participio -^Ehuv emov: e' dal- l'avverbio — KaXiD<; èjuax^cravTo oi (TTpUTtwrca. Per ciò se- guendo quell'ordine, si tratta ne'paragrafi seguenti (i 56- 177) dei casi^ delle preposizioni^ de pronomi^ dell' infinito^ del participio, dell' oìn^er Ho .

Ora, prima di passare alPesame delia seconda pane della sintassi del Kùhner, che svolge la dottrina della proposi- zione composta, n'è forza sostare alquanto intorno al con- cetto e al disegno della parte prima.

Lo schema della proposizione semplice, che il Kùhner ci mette innanzi, presenta certamente qutWimità organica, in grazia della quale i fatti concreti della lingua vengono completamente sacrificati all'arbitrio di certe categorie, fon- date a priori, per le quali si disgregano nella trattazione grammaticale parti del discorso, che sono invece strettamente legate, ahre si coilegano, che per loro natura sono aifatio disgiunte.

E prima di tutto, si vuole ad ogni modo, che al predi- cato, che è uno dei due elementi della proposizione, sia inerente {'attività, cioè una forza copulativa e sintetica, la quale di per s'imponga e quasi si rinversi sul soggetto, senza nessuno riguardo a chi predica (KaitiTopei) veramente (affermando o negando), con Tatto mentale, che si chiama giudizio, che un dato concetto, che è appunto il contenuto, Videa espressa dal predicato, appartiene o non ad un sog- getto.— Si dimentica insomma, che la proposizione è un^/«- diì{io, cioè un'operazione della mente, alla quale e soggetto e predicato stanno dinan7-i contemporaneamente, senza neces- sità interiore (logica), quasi fossero due termini correlativi. Nome (óvojiia) e verbo (^r^i^a) non sono che parole, disuguali, se così vuoisi, quanto al contenuto, e alla forma flessibile -, ma nulla più che parole, le quali collegate in quella certa unione (aujaxrXoKri), che addimandasi proposizione, assumono un va-

- 356 - lore duplice, grammaticale e logico. Quello è pòrto loro dal fatto esterno e concreto del collegamento loro in forma di proposizione, questo - il logico - è dato loro daìVio pen- sante, che è ben altro dal soggetto grammaticale.

Quando il Kiihner ne dice, che la proposizione consta del concetto di un'attività (predicato) e del concetto di un ente (soggetto), al quale questa attività viene attribuita 145), e poi soggiunge 145, 3) che il predicato è o un verbo, o un aggettivo, o un sostantivo^ o un numerale^ o un pro- nome^ unito al verbo dvai, che in questo caso chiamasi co- pula, perchè congiunge in un pensiero l'aggettivo ecc. col soggetto: se ne deve inferire subito, che non è possibile pensare ad un predicato che non sia verbo, e che non v'è verbo, che non sia predicato. Poiché anche nel secondo caso, quando cioè il predicato consti ad es. di un aggettivo e del verbo eivai, come in questa proposizione, ó àvBp<jjTXO<; 8vjitó? fcCJTiv, il predicato non è GvkìtÓì; ma 6vnTÓ<; ècCTiv; così che BvnTÓ? è(TTiv sono da concepire come unSi paì-ola sola, e precisamente come predicato (verbale), esprimente Vattività. Quando si dice che nel verbo è involuto il concetto di attività, e quello anche di predicato ; e che nell'aggettivo è bensì il concetto di attività, ma non il predicato, si afferma senz'altro che il verbo (^fìfia) è il vocabolo significativo KaT'èHoxnv; che in esso è la virtiì del predicare (KairiTopeiv), e che il verbo essere (eivai), quando è unito ad aggettivi o nomi in forma predicativa come nel- l'esempio arrecato quassopra, perde sua natura verbale, e diventa 'una semplice copula. Ora noi abbiamo dimo- strato in altra parte che il verbo (pnM«) ^'^^ ha valore gram- maticale più forte, quasi più rilevato dei nome (òvo^a). Avrà un valore logico, più esteso, nel senso della categoria, [praedicamentum - praedicare - Kanrfopiot - KarrìTopeiv); ma quella che il Ktihner e il Becker chiamano attività (che nel senso loro non può essere altro che virili predicativa), non

- 357- compete al verbo per virtù propria, grammaticale logica^ ma è una forza invece inerente aìVi'o giudicante, il quale afferma (KaTdq)acn?) o tiega (àTiócpaai?), che v'ha o non v'ha relazione fra due termini , che egli (l'fo) mette a riscontro fra loro KaTàqpaoi? èffxiv àTcó(pav(Ti<; rivo? xaià rivo?, àiró- (paai? òe èoiiv àTTÓqjavcri? nvoq àuó tivo? (Arist., TTepì '€p|iTiv., Gap. 4) (i).

Del resto, questo concetto che del verbo ebbero il Kuhner e il Becker deriva, secondo noi, da una meno corretta in^ terpretazione del valore, che da Aristotele si attribuiva alle parole, e dall'aver creduto, che soltanto un concetto gram- maticale guidasse quel filosofo nella ricerca delle categorie. Il problema categorico per lui non era controversia di^- lologia, ma bensì una ricerca àcìVessere e del pensiero. Anzi può dirsi, che dei tre concetti - grammaticale, logico, metafisico (reale) quest'ultimo, quello della realtà, pre- valga sempre in Aristotele. Le parole (xà Xexójieva), se- condo Aristotele, sono da considerare o come unite (Karà <yu|LiTrXoKriv, Categ. 2), 0 come prese ciascuna per se (iKaarov Tu>v £'.pri)uévujv aÙTÒ xaO'auTÓ, Ib. 4). Nel primo caso esse affermano o negano (iq npòz à.\\r\\a toùtujv [tujv elprméviuv] ou^TtXoKrì KaTà(pa(Ji<; f\ ànò(p(x(yiz Y^Tverai, Ib. 4); nel secondo caso nulla di questo (^Kadov tuljv eìpriiuéviuv auro xaG'aÙTÓ èv oòb€)ui^ Karacpacrei X^T^tai f\ à7T09àcf€i, Id. 16). Le pa- role prese separatirnente non possono esprimere che una di queste dieci cose, che sono per l'appunto le categorie , e cioè: la sostanza .^oùaiav), la quantità (rroaóv), la qualità' (ttoióv), la relazione (npóz ti), il luogo (rroO), il tempo (ttot^, la situa^iinie (Kdcy9ai), la maniera di essere (lx€iv), Vallone

(i) ÓTTÓcpavoie; e^t enuntiatuw de eo quoà vel esse vel non esse statuì- tur; quod poster iores iudicium U'the.! appellaverunt. Karà-pacrt^ est affirtnatio, ànoq>ix(JK nfgatio. Ri iter et PatLLER, H istoria philcso- phiae , ecc. . § 3i3, a, 6.

divista di filologia ecc., I. 3$

- 358 -

(ttoiciv), la passione (rrdcrxeiv) [Cat. 2. 4.). Vero è che da qualche passo di Aristotele si potrebbe dedurre, che egli al verbo attribuisse tale virtù, che senza di esso non fosse- possibile un enunziato qualunque : óvdfKn ixdvTa Xófov àTroq)avTiKÒv(e«««/m^ttm) èK ^rmaro? (ver^o) etvai (TTepi '6pvuiv. 5). E altrove : ècfiai nacra KaTd<|)acri<; Kaì àrtócpaCK; - il òvó- fiaroq Ka\ ^/maxo?, fiveu piiiiaToq oùòeiiia KaTdqjacriq oùbè àitóq)a(yt<; (trepi *€p|iTiv. io). Di qua passò nelle scuole Fuso di considerare il verbo (yerbum , ^fliua) con-ie il segno wxr è^oxnv del predicato. Ma si raffronti quest'altro luogo; dvo^a jièv ouv èffTÌ cpuivn cXTi^oiVTiKt^ Kaià auv8riKTiv àveu xpóvou f\<i nr\bk.v M^po? iati armaviiKÒv KexiupicTMévov pniua icii TTpoaanjiiaTvov xpóvov {Zeitwort)^ ou n^poq oùbèv ^xwmxvìx Xiwpi?, Ka\ ^ativ dei tuiv Ka9' éi^pou \v^q[xìw\ìì\ (JrijieTov [prae- dicatum] (ncpì ''€p)iT]v. 2). Nel contesto del discorso adunque (èv irj aujUTrXoKrì} acquista il verbo valore predica- tivo, in quanto cioè T/o afferma o nega la correspondenza de'termini (soggetto e predicato) fra loro. La verità dei nostri giudizi si riscontra in questo, che cioè il pensiero corrisponda alla cosa pensata nella sua realtà, che cioè l'or- dine logico corrisponda all'ordine metafìsico. Il nesso o le- game sta nel pensiero, che giudica, e non in un necessario vincolo tra le cose reali e le parole; in altri termini le pa- role sono legate alle cose mediante i pensieri. AfiXov 6ti ouTu»? l\(.\ npdT^aTO, xdv ]xr\ ó pèv Karacpricyr] ti, ó àiro- q)yi<Tr} oùbè ydp b»à KaToqpaOnvai f| dTroqpaBfjvai laxai ì\ oOk laiax (TTepi '€pgT]v. 9).

La definizione data dal Kiihner delia proposizione, che essa cioè sia un tutto, che risulta dallo attribuire il concetto di attività al concetto di un ente^ traeva dietro a sé, come conseguente, il raggruppamento delle varie parti del discorso, come intorno a due centri maggiori soggetto e predicato sotto forma di concetti completivi, e del soggetto sotto forma

359

di attributi 154) e del predicato sotto forma d'oggetto i55 segg.). Noi ci siamo studiati a lungo di rintrac- ciare il criterio di questi due gruppi di complementi. E di un altro fatto ancora abbiamo cercato d'indovinare il concetto direttivo. La dottrina dei casi cioè i56 segg.), oggetti del predicato (verbo), si fonda tutta , seco^ìdo il Kiihner, sul concetto del moto (1). Ecco infatti come da lui si definiscono i casi, e come se ne raggruppano le rela- zioni.

!*> Il Genitivo è il caso del moto da luogo (terminus a quo), in tuue le relazioni, proprie e figurate, locali, cau- sali, d'origine, ecc., in quanto V oggetto genera q produce (gignit), e occasiona l'azione del verbo: èmeuiau) ix\c, àpeTfì<; 1 56-1 58).

2*^ 'L'Accusativo è il caso del moto a luogo (terminus ad quem), che nelle relazioni causali dinota conseguenza, esito, opera, come pure quell'oggetto, che per Va\ione venne posto in uno stato passivo 169 -160).

y II Dativo finalmente è bensì il caso dello stato in luogo, come antitesi al concetto del moto; ma tuttavia esso indica ancora un oggetto a cui un soggetto abbia bensì ri- volta la sua attività, ma non lo abbia ancora raggiunto 0 colpito. .Cosi si spie^ ii Dativus communionis, com- modi-incommodi, ecc. 161).

Le preposii{ioniy altro complemento dciroggetto, ser- vono come i casi per indicare la relazione di luogo, sempre però nel senso dello estendersi nello spazio 161).

Diremo cosa, forse strana, ma certo pensata. A noi pare, che i due gruppi, di complemento del soggetto e comple-

ti) Sono le tre categorie deiro*'^ diretto, luogo in cui, donde, secondo la dottrina dei localisti , come li chiama il Curtius {Comm., p. ió3, Mliller).

- 360 - mento del predicato, corrispondano ai gruppi delle categorie d'Aristotele, giusta i criteri, che intorno ad esse correvano nei primi decenni del secolo, che esse cioè avessero soltanto valore grammaticale e formale^ come espressione dei iiomi^ dei verbi, degli avverbi (i).

Le prime quattro categorie sostanza, quantità, qualità, relazione a cui corrispondono i nomi sostantivi con gli aggettivi enumerali, costituirebbero il gruppo: soggetto- attributo; le altre categorie luogo, tempo, situazione, ma- niera d'essere, azione, passione le quali, massime le ul- time quattro, determinano il valore del verbo, formerebbero i.l gruppo ; predicato oggetto^ incentrandosi questo nel concetto attività^ moto^ tempo (èvépTcìa, xivncyi?, xpóvo^). Ecco dunque il verbo (pnjua), il vocabolo Kai'èHoxnv, centro di attività e di moto nello spazio e nel tempo, simbolo ael- Tunità del pensiero, che afferma o nega la corrispondenza fra la realtà e Tidea, nucleo fatale, verso il quale tutte le altre parti del discorso di necessità convergono (2).

Se così è e potrebbe anche non essere e muovere da altri criteri la dottrina della proposizione data dal Kiihner la tirannide del pensiero sulla forma, valore, posizione e relazione grammaticale della parola è saldamente costituita, ned'altro compito compete al grammatico, da quello infuori, ingratissimo per vero dire, di forzare ogni relazione sintat- tica verso lo schema preconcetto del pensiero.

Ma passiamo ad esporre il concetto àt\\diproposi:{ione com- posta, quale ci è porlo dal Kiihner (§§ 178 segg.).

(i) Trendelenburo, Geschichte der Kaiegorienlehre, Berlino, 184^. Eìementa logices Aristotelicae, ecc., Berlino, i836.

(2) Oggidì s'inclina piuttosto al valor reale delle categorie (Prantl , Geftchichte der Logik in Occident, 1 855-6 1)- Vedi anche Fiorentino, Saggio storico, ecc., J864, pp. 193 e segg. Ragnisco, Saggio t,ri- tico, ecc. I^ 239.

- 961 -

« Trovasi di frequente, così il Kùhner al § 170, che due « proposizioni, le quali insieme esprimono un pensiero unico. « abbiano per loro contenuto tal relazione fra loro, che l'una « si presenti come mancante di esisten:{a sua propria e de- « stinata soltanto a compiere e detei minare l'altra. La « proposizione che riceve il suo complemento o la sua de- « terminazione da altra, si chiama principale-^ quella che « serve di complemento, secondaria ; e tutte due insieme , « proposizione composta. »

« Le proposizioni secondarie espriniiono o il soggetto, 0 « Vattrihuto, o Soggetto d'un^intiera proposizione, e devono H quindi riguardarsi come sostantivi, o aggettivi, o avverbi « ampliati in una proposizione. Noi distinguiamo perciò « tre sorte di proposizioni secondarie : cioè proposizioni « sostantive, addietlive e avverbiali (i). »

Gli è evidente da ciò, che la dottrina della proposizione composta, come è concepita dal Kùhner, si può definire, la dottrina delle pruposiiioni completive trasformate. Evidente è del pari, che il concetto, che domina la dottrina della pro- posizione semplice, è pure il fondamento della composta. È sempre la stessa cerchia fatale di ente (soggetto) e at- tività (predicato), della quale non v'è uscita. Là, nella pro-

(i) Gioverà molto per T intelligenza lo arrecare innanzi qualche esempio :

a) Nella proposizione seguente: fu annunpata la vittoria di Ciro, si può allargate il soggetto (vittoria), e dire:/« annunciato || che Ciro ha vinto (prop. second.).

b) Cantami, 0 Musa, l'uomo molto travagliato. In questa propusi- zione, l'attributo {molto travagliato) può svolgersi così : Cantami , o Musa, Vuomo \\ che fu molto travagliato.

e) Egli arnun^fiò la vittoria di Ci^'o. L'oggetto (vittoria) può con- vertirsi in: egli annunciò \\ che Ciro aveva vinto.

d] Nella primavera sbocciano i fiori , può risolversi cosi; Quando viene la primavera \\ i fiori sbocciano.

362 - posizione semplice, dall'una parte un nome, o un a^ctttvo che sotto forma d'attributo o ó.'' apposizione determina più da vicino li soggetto^ e dairaltra un c^j-so, una pr epos l'itone unita al caso, un infinito^ un avuerbio, che sotto forma di Oj^^f/Zo svolge più distesamente il /reii/ca/o; qui invece, nella proposizione composta, è un'intera proposizione che deter- mina più da vicino o il soggetto (proposizione sostantiva), o Vattributo (proposizione addiettiva), o il verbo, predicato (proposizione avverbiale). E perchè Tunilà simmetrica fondamentale delio schema non sembri alterata nella forma, Tautore s'affretta a dirci, che queste colali proposizioni com- pletive altro non sono che sostantivi^ aggettivi e avverbi atnpliati o trasformati.

Ad un concetto identico risale tutta la dottrina della pro- posizione composta, che ci è pòrta dal Becker (Ausfiihrl. deutsch.Gramm.j. Eccone la somma de'pen?ieri: Le pro- posizioni, così sentenzia il Becker, sono o principali, quelle cioè che esprimono un pensiero di chi paria, e si dividono in affermative, interrogative ., desiderative , imperative (ur- theiis- frage- wunsch- heische-sàtze), o secondarie , quelle cioè le quali presentano uno degli elementi costitutivi della principale sotto forma di una proposi'{ione ; Queste, le secondarie, si dividono perciò: i'' in proposizioni del caso t?'asf ormato (Caisussàtze)\ 2" in proposizioni avverbiali (dì spazio, di tempo, di causa, d'intensità): V proposizioni ag- gettivali. — L'essenza della proposizione secondaria, nella sua relazione colla principal*^, sta in ciò : che invece di un caso con o senza preposizione si può porre una proposizione se- condaria ; che un attributo o un participio può venire so- stituito da una proposizione relativa; che una proposizione avverbiale può essere ricondotta ad un avverbio. Da questi brevi cenni ne sembra chiarita a sufficienza l'identità di con- cetto, che informa la dottrina delle due sintassi della proposi-

863 - z'tone, greca e tedesca come l'hanno voluta fondare Ìl Kiihner e il Becker (i).

Una crìtica di cosiffatte teoriche, posto anche ce lo conce- desse lo spazio, non sarebbe possibile, che soltanto in parte, essendoché su questo campo (almeno per ciò che spetta la lingua greca), moke più tenebre incombono, che a prima fronte non sembri. L'indagine storica e, soprattutto, la comparazione, potranno solo esse spandere qualche luce su questa intricata materia. E tutt'altro che esaurito è in questo rispetto il compito della linguistica. Infatti la storia delia sin- tassi greca ci mostra, anche allo stato odierno dell'indagine, che quel nesso, che noi slam usi a considerare strettissimo nei rapporti della subordinazione (ójrÓTaHi?), in origine, e, certo, in quello stadio della lingua, che ci è noto per la poesia epica antica, era molto allentato, tanto che ne'tempi più remoti la lingua non distingueva neppure fra rapporto ipotetico e temporale*, così che la cìassazione, che noi fac- ciamo della proposizione, è piuttosto logica che grammati- cale. Così per rispetto alla correla:{ione, la linguistica c'inr segna un lento trapasso dall'uso coordinato (trapÓTa^i?), o puramente dimostrativo, all'altro uso, più serrato e più stretto, della subordinazione, ossia del relativo^ il quale parrebbe accennare ad una necessità intcriore di logica dipendenza.

Ma il fatto, incontestato oggimai, che la lingua greca, cioè, al pronome relativo perviene per mezzo di due temi, diffe- renti d'origine, ma ugualmente dimostrativi, ci deve rendere ben cauti nel sentenziare intorno a quest'arduo tema Così, ad esempio, nella lingua epica antica vediamo, che le forme del dimostrativo, che cominciano per t, sono usate come re- lativi, ciò che ne mostra, che il relativo si separò dal dimo-

(i) Vedi Haacke, Beitrdge, ecc. II, § ai-22.

364 strativo soltanto a poco a poco. Così leggiamo nella Odissea (III, yS)-

Otà re Xrii(yTÌpe<;, urrtìp aXa, toi t' àXóujvrai

Vuxà? 7Tap9^)Li€VO» ... . E Odiss. XII .63 oùbè rréXeiai

Tpr|puJV€<;, Ttti t' à)iPpoaÌTiv Aiì rrarpi tpépoucTiv. (Confr. Krijg., Gram. Greca II, § 25, i. Curtius, Comm. pag. 77, Mùller; Schleicher, Camp. pagg. 358 segg., Pezzi.) Un posto assai importante tengono le congiuniioni nello studio della proposizione composta. Anche in questo rispetto la linguistica accenna di condurci per altre vie, da quelle segnate dal rigido e violento sistema del Kùhner. Un at- tento esame infatti della /urw^ originaria delle congiunzioni, che sono più usate nelle proposizioni composte, ci conduce a radici di temi relativi (Confr. le forme 6u quod^ eou(;- xéu)?, ò-T€, uJ5-6Truj(;, ujs-oijtuj<;, i-va. Curtius , Comm. pagg. i88, 189, Muller). « Cosicché^ dice il Curtius (/. e), la dottrina delle proposizioni si potrebbe unire a quella dei casi^ e dalle forme stesse della lingua dedurre un principio per la divisione delle proposizioni , introdotte nel discorso col me^o di congiunzioni. ^>

Per ciò poi che spetta le proposizioni avverbiali^ cioè quelle che esprimono un oggetto avverbiale y pel quale viene allargato e svolto più ampiamente il concetto del pre- dicato, secondo la dottrina del KiJhner (§§ i83 segg.), noi osserveremo semplicemente, che tutta questa parte della teo- rica della proposizione composta si fonda sopra una falsa ed erronea interpretazione delia natura dell'avverbio. Anche in questo rispetto possiamo dire della linguistica, che: Mentem lymphatam Mareotico Redegit in veros timores! Essa infatti accenna a statuire, che gli avverbi sono casi, più o meno riconoscibili alio stato presente della forma loro, o avanzi di casi.

- 365 - ^

La moderna dottrina del locativo è molto istruttiva in questo rispetto (Confr. Schleicher, Comp. §§ 145 segg., P.; Curtius, Comm. pag. 189, M.) tanto che persino la con- giunzione €i viene ascritta ai locativi. Tutto ciò, che quelle pretese proposizioni avverbiali hanno di comune con quelle parole, che comunemente s'addimandano avverbi, si restringe a questo solo fatto , che cioè e con quelle e con questi si risponde alla domanda come, in che modo, cioè vien pòrta una più precisa determinazione di ciò, che è espresso nella proposizione principale, in riguardo al tempo, al luogo, alla causa, e cosi di seguito.

E quanto alle proposizioni, che il Kùhner chiama agget- tive, cioè completive dell'attributo, che per esse si presenta sotto forma di proposizione trasformata i83), diciamo che lo studio dei Modi condotto sulle orme segnate anche su questo campo dalla linguistica e massime dalla storia della Sintassi dei modi, va recando una ben radicale tras- formazione anche in questa parte della gramniatica. L' uso del relativo, vuoi solo, vuoi accompagnato con av, insegna, che i costrutti relativi hanno ben altro valore, che quello di aggettivi e participi trasformati, affatto empirico e formale. In questo rispetto la dottrina del collegamento dei modi {consecuiio modorum) è progredita tanto, quanto forse nes- suna altra parte della Sintassi greca , ed alla medesima fa perfetto riscontro la dottrina della consecutio temporum, come l'ha fondata il Madvig.

È proprio a deplorare, che il materiale eccellente cotanto della Sintassi dèi Kuhner, sia stato sacrificato agli amori di un cotale consequenziarismo grammaticale, che rese dappoi necessaria una completa riforma nella trattazione della Sin- tassi Greca.

Rovigo, gennaio 1873.

Gaetano Oliva,

- :^66 -

C£t^CC^:/ "BrBLIOG'llAFlCl

Stiidien ^u Aeschylus von N. Wecklein. Berlin 1872.

Malgrado che molti eiaditi, in ispecìe della dotta Germania, abbiano spesa ia vita nelle più accurate indagini critiche in- torno agli scritti degli antichi per interpretarne i passi più difficili e per rimediare, ove fosse possibile, alle ingiurie del tempo e della barbarie medioevale, si può dire senza tema di errare, che cotesto lavoro di analisi, lungi dalPesser compiuto, fornirà sempre occasione di nobili studii a tutti coioro che sentono vivo Famore per la cultura greco-latina. Questa affermazione, pur vera rispetto alla letteratura in genere degli antichi, è verissima qualora si riferisca & qual- che autore in particolare, per esempio ad Eschilo, il quale nelle poche tragedie rimaste ci giunse in un testo così scor- retto, che in molti luoghi non fu ancor possibile ristabilire una lezione soddisfacente; e d'altra parte per la sublimità dei suoi concepimenti e per lo slancio arditissimo della fantasia poetica spesso lascia il lettore immerso in un crepuscolo penoso anche in certi passi, nel quali sembra non si debba accagionare l'ignoranza dei copisti di questa poca chiarezza del testo. Intorno a simile autore rèsta non poco a farsi; ed un erudito tedesco, il Wecklein, esprime appunto questo suo convincimento nella prefazione ad un lavoro da lui pub- blicato di fresco a Berlino , e intitolato « Studii intorno ad Eschilo ». Il Wecklein osserva, come spesso il pensiero del- l'autore sia stato quasi sepolto sotto la mole dei commenti, e cita alcuni esempi convincentissimi per far vedere, come talvolta gli schiarimenti dei critici non abbiano servito ad altro, che a sviare la mente del lettore dal significato più

naturale di un certo brano; tuttavia non s'abbandona per ciò ad uno scetticismo assoluto , che anzi non dispera di poter spesso trovare il filo d' Arianna , valendosi della po- tenza rìcostiiutiva della fantasia, che dovrebbe riprodurre il lavoro fantastico già fatto dal poeta, e poi di quegli altri mezzi, che la critica moderna somministra, cioè esame dei fonti, degli scolii, osservazioni gramm.aticali, studio coscien- zioso degli abiti del poeta nel creare e nell' esprimere , in una parola, di tutto ciò che può gettar qualche luce sui poemi immortali. si creda che il dotto tedesco appartenga alla schiera di coloro, che vorrebbero spiegar tutto : egli dichiara fin da principio, che si maltratta indegnamente il poeta d'Eleusi, ogniqualvolta si attribuiscono a lui gli errori evi- denti dei copisti e i guasti prodotti « da un malefico influsso». Infine egli chiude la sua prefazione ripromettendosi d' aver fatto qualche cosa per T esegetica di un sommo scrittore an- tico, e sottoponendo ad un giudizio veramente severo, egli dice, ma pur benevolo, le sue novelle ricerche-, ed egli otterrà senza dubbio questo giudizio, quale se Taugura, da- gli eruditi, che prenderanno ad esame Topera sua, e rico- nosceranno in lui quell'accuratezza scientifica, che non si deve scompagnar mai da siffatto genere di studii. Intanto l'esimio filologo tedesco perdoni a un debole cultore delle lin- gue classiche alcune idee nate in lui spontanee, in seguito alla lettura del suo libro ^ idee che egli non esporrebbe certa- mente, se non gli servissero di occasione a parlare coi do- vuto rispetto di questa nuova ed importante pubblicazione.

È buono premettere per quanti non li conoscessero an- cora, che gli « Studii su Eschilo » del Wecklein sono infor- mati a quello spirito critico, onde si onora tanto la filologia germanica , e pel quale non si trascura , non si disprezza nulla, ma, riputandosi ogni fenomeno degno ugualmente di attirare a l'attenzione dello scienziato, si trascorre colla

- 368 analisi dall^ esame dei pensieri a quello delle parole, delle forme grammaticali, dei costrutti sintattici, del metro, delle peculiarità dialettali, ecc., non si sdegna, come si farebbe da taluno dei nostri , di porre accanto a profonde osserva- zioni sui punti piij difficili dell'arte drammatica note non meno utili sull'uso di un articolo, di una particella negativa, di un participio, e così via, come fa appunto il Wecklein.

Il suo lavoro si può naturalmente dividere in due parti, quantunque esse si intreccino fra loro nel corpo deiropera, cioè « Argomenti che si riferiscono ad Eschilo in generale » e « Trattazione critica di brani particolari » : appartengono alla prima serie i capitoli in cui si discorre , ad esempio, della similitudine presso Eschilo, dell'uso della lingua, della ripetizione di una stessa parola , dell' artìcolo usato come pronome dimostrativo , osservazioni intorno alla dipodia anapestica, alla formazione del quinto piede nel trimetro, intorno ai manoscritti ed agli scolii; appartengono alla se- conda serie le illustrazioni critiche di molti passi scelti dalle sette tragedie, che ci sono rimaste di Eschilo. Sarebbe cosa utilissima il rifare per intiero la strada che ha fatto il Weck- lein con passo sicuro e talvolta un poco ardito attraverso a quegli splendidi resti della Musa di Eschilo; ma ciò non è ora possibile per la natura di questo scritto, che vuol es- sere poco piìj dMn mero annunzio bibliografico.

Ecco adunque un saggio del modo con cui il Wecklein si rende conto del lavoro fantastico fatto dal poeta. Par- lando dell'espressione metaforica e deila similitudine presso Eschilo, mentre osserva come esse attestino la grande po- tenza rappresentativa del poeta, dice pure che spesso non si possono intendere così facilmente, ove l'interpretazione non sappia riprodurre lo slancio della fantasia poetica, ma si contenti di trapassare da un pensiero a quello che vi si incontra imTiediatamente a fianco. Cita a questo proposito

- 369 -

quelle parole che il poeta pone in bocca a Cassandra, quando nel calore della visione vede compiersi dinnanzi ai suoi oc- chi Tuccisione di Agamennone, al vers. i riS: a a* lòoù lòou- àrrexe ià<; poò<; xòv TaOpov èv TréTrXoicTiv jaeXaYKépiu Xa- PoOcTa firiXcivriiuaTi tuitt€i. L' autore ripudia coir Hermann la lezione ueXdTKepuuv, con cui questo epiteto è attribuito al toro, come vorrebbero il Keck, il Wellauer e parecchi altri; disapprova i mutamenti, che fecero alcuni, dei laeXccTKepqi in jiieXaTKpÓKip, {ueXafKÓnii, jaeXajairXÓKip, ecc.^ e infine con- chiude collo spiegare a questo modo. Il poeta avendo per bocca di Cassandra paragonato Agamennone e Clitennestra ad un toro e ad una vacca, prosegue nella metafora, e allude col neXa^Képiy jLirixavrj^aTi a tutto il mezzo dell'ucci- sione, talché Clitennestra essendo il toro furioso che si av- venta sulla vacca, le sue braccia sollevate, che tengono alta la nera veste, la rete fatale pur chiamata dai poeta <r òiktuov "Aibou », possono sembrare alla fantasia accesa di Cassandra le corna dell'animale, che giustificano il ueXcrfKépifj applicato a )Linxavri|LiaTu Questa interpretazione già esposta in parte dall'Hermann è molto ingegnosa e sembra la più verisimile fra le diverse spiegazioni che si diedero di questo passo; solo l'autore nota come il toro rappresenti Clitennestra e la vacca Agamennone, asserendo che in caso contrario, cioè secondochè parve a tutti i commentatori, se il toro rappre- sentasse Agamennone e la vacca Clitennestra, il poeta non avrebbe detto « arrexe la^ poòq tòv raupov ;), bensì « firrexe ToO Taupou Tàv poOv ». Ma in realtà l'espressione >( airexc. Tct^ poò? TÒV TaOpov » vuol dire letteralmente « tien lungi dalla vacca il toro », e non importa in modo esplicito, come suppone l'autore, che debba esser piuttosto il toro pericoloso alla vacca che non questa al toro; ci manifesta solo la ne- cessità e quindi un desiderio che stiano disgiunti. Ora il supporre che in questa scena terribile Agamennone possa

370 -

essere rappresentato qua! vacca debole percossa dal toro furioso, da Clitennestra , presenta un lato a primo aspetto verosimile, in quanto che accade ordinariamente che il più forte atterri il più debole-, ma è uopo considerare che in questo caso il forte è vinto colPinganno -, del resto Timagi- nare cosi invertite le parti, tanto più che si tratta di con- sorti, par ripugnante all'uso generale poetico, fondato su una legge di naturale analogia che il poeta osserva in altre espressioni metaforiche o paragoni-, ad esempio al V. 1268, ove Clitennestra ed Egisto diventano una leonessa ed un lupo; al V. 1671, ove Egisto è paragonato al gallo presso la gallina. Quindi l" Enger, trattandosi di spiegare il poó? e il xaOpov, non esita neppure un istante a dire: « invece di moglie e marito, secondo Toscuro modo di esprimersi degli oracoli » . E poi qual motivo potrebbe aver indotto il poeta a scegliere questa metafora piuttosto che un' altra, se non un facile ravvicinamento sorto nella sua mente all' idea di una moglie e d'un marito, di un « coniugio « ?

In ordine alla similitudine l'autore, avvalorando con op- portuni esempi le sue affermazioni, nota, come Eschilo spesso sia solito a porre semplicemente ed immediatamente una similitudine in vece dell'espressione propria e incaricare la fantasia di rappresentarsi la giusta relazione. Inoltre libe- rissima opera la fantasia di Eschilo nel collegamento e nella fusione della similitudine e dell'espressione propria, inquan- tochè o la espressione propria vien determinata dalla pen- sata similitudine, o la similitudine appare al posto della espressione propria, ma riceve compimento o più esatta de- terminazione dal pensiero proprio. Degna d'osservazione è pure la proprietà di risospingere l'espressione metaforica nella realtà e con una specie di ironia accrescere l'illusione dell'imagine. Cosi spiega il Wecklein nelle Eumenidi, quando Atena dice, V. 40? : « ^vBev fciiuKoiicr' n^8ov àipuiov nóòa

-^n -

TCT€piIjv dxep ^oj^òoGaa kóXttov aÌTÌi>o<; tvóiìloi^ àK^aioK; tóvb' èniZ:£u2a<; óxovi». L'òxov di Eschilo non è che un carro imagi- nario, è una semplice espressione metaforica per significare che l'egida ^scossa da Atena le tenne luogo di un carro tirato da robusti cavalli; eppure Atena parla di questo carro in modo da far quasi credere che l'abbia realmente adoperato.

Dipoi l'autore trattando dell'uso della lingua, dopo alcune osservazioni sull' uso rarissimo della crasi e della sinizesi nei canti corali di Eschilo e sulle forme verbali doriche, dimostra con opportuni esempi, che il costrutto participiale e l'uso dell'infinito in Eschilo ci presenta alcune particola- rità, le quali, appunto come il costrutto asindetico molto piij esteso in Eschilo che non in Sofocle od Euripide, por- tano l'impronta di una hngua arcaica, che, paragonabile alle costruzioni ciclopiche, compone la fabbrica dei periodi con membri slegati, mette giù il pensiero senza intermediari e lascia, che si sostenga col proprio peso. A questo genere appartiene il caso, iq cui un participio nominativo trovasi usalo assolutamente. Di ^uestq caso sonovi differenti specie, che l'autore enumera partitamente.

Questi cenni, sebbene incompleti, possono fino a un certo punto far comprendere altrui il modo con cui il Wecklein tratta le tesi piiì importanti in ordine alle osservazioni ge- nerali su Eschilo, avvertendo tuttavia, che non è possibile apprezzare degnamente il lavoro del Wecklein senza leg- gerlo con molta attenzione da capo a fondo.

Anche nei singoli brani scelti dalle sette tragedie super- stiti, commentati e spiegati dall'autore sovente con felicis- sima riuscita, s'offre allo studioso largo campo di riflessioni, di ipotesi, di raffronti; e qui pure mi sarà forza l'accennare solo ad alcuni passi, specialmente dell'Agamennone, diffusa- mente illustrato dal Wecklein, in cui l'autore s'abbandona a spiegazioni forse trcppo ardite, o non sempre necessarie.

- 372

Nelle considerazioni generali, parlando delf uso speciale di MH colPinfinito, quando questo venga dopo un verbo o un'espressione, che indichi un'attività opposta, riluttante alla conseguenza espressa per mezzo dell' infinito, adduce in esempio quelle parole del qpuXaH, Ag. Vers. !4. q)ópo? f àp àv6' uTTvou napaciarei, un pepaiuu^ pxécpapa ffuiuipaXeiv uTTVtu- ed a questo proposito combatte l'opinione del Kar- sten , che il mh, costruendosi solo coi verbi significanti « impedire, vietare, ecc. », sia mal costruito col TTapoataTeiv, poiché, nota l'autore, questo non può essere considerato di per sé, bensì come riferentesi al q>ópoq; in seguito accetta la osservazione del Karsten, che la voce « urrvo? » ripetuta stia male « tiìst potius inepte hoc dictiim est<, somni loco timor adstat^ oculos sonino clauderc vetans »-, perciò slima che Terrore stia nel primo uttvou e che quindi si debba elimi- nare, poiché altrimenti rimarrebbe sempre il pensiero sgra- ziato « il timore » che io non chiuda gli occhi al sonno (mi) sta accanto in luogo del sonno. In conseguenza modifica lo dv6' UTTVOU in un aggettivo àvTiTrvou(;, confortando la forma con buoni esempi, e schivando a parer suo ogni inutile ripe- tizione. Ma a me sembra che con una leggera differenza di traduzione il senso corra chiarissimo, e non solo T' uttvou non sia una ripetizione stucchevole, ma torni necessario all'esat- tezza del pensiero. Basterebbe tradurre Pàvii per !> contro » in luogo di tradurlo per « invece », cioè conservare alla pre- posizione il significato più vicino all'antico, ed allora avremmo: « il timore che io non chiuda saldamente le palpebre al sonno - mi sta (accanto) contro il sonno » cioè, riducendo l'espressione alla sua massima brevità « il timore di addor- mentarmi (dovendo io vegliare) mi impedisce di dormire». Ora quale espressione potrebbe essere più logica e richiedere in modo più assoluto la ripetizione del concetto «dormire»? Il mutamento stesso introdotto dal Weckiein coiràvTiTTVou?

- 313- consiste principalmente nelTintendere àvii nel senso di « con- tro », mentre prima, unendola con uttvou, non sa tradurlo che con un «invece)). Pertanto, a parer mio, questo sa- rebbe un mutamento superfluo, e come tale da evitarsi.

Alle parole di Calcante oiov ixr\ tic, afa 6eó0€v Kvecpdc»,! Tipo- Tuirèv cTTÓjaiov juéTa Tpoia<; CipaiiiuGév. oikuj yàp €TTÌqp6ovo<; K. T. X. (v. 162 e segg.) il Wecklein osserva: il senso gene- rale è chiaro i Troia sarà presa, dice Calcante-, solo prima di questo grande avvenimento per Tira di Artemide una gran disgrazia piomberà sull'esercito. Quindi spiega il Kveqpdcr) in questo senso : « far che Tesercito non possa essere ciò che do- vrebbe essere, cioè lo aTÓjuiov ^éfo. Tpoia<;))', sostiene che nel TTpoTUTtév v'è ridea di « percosso prima » cioè prima che giunga ad infrenar Troia e spiega il « percosso » aggiungendovi « con un colpo di fulmine ». Per risolvere poi la difficoltà dello cipaiiuGev, interpretato , egli dice, erroneamente dal- l'Hermann come un participio di un supposto <7TpaTo0cr9ai in casiris esse^ dall' Ahrens come n frenum ab exercitu in- iecttim », mutato invano dal Keck in (Japuj0€v per otte- nere un contrapposto aKveqxxar), dallo Schmidt in cfaGpweév, mentre questa è parola della grecità posteriore, finisce col so- stituire allo (JTpaTuuGév un KapuuGév, il quale, se corrisponde al concetto che si è fatto l'autore del TrpoTUTrév, cioè percosso dal fulmine, non s'addice molto all'espressione metaforica del freno, inquantochè ctóiuiov TtpoTUTrèv KapoiGév verrebbe a si- gnificare «. freno percosso prima, stordito (dal fulmine) » ed un « freno stordito » non è il pensiero più elegante che si possa imaginare. D'altra parte non seppi comprendere come l'autore combatta la spiegazione dell' Ahrens <( frenuin ab exercitu iniectnm » col dire unicamente che il Kvecpacrri, il irpoTuTrév convengono all'idea « soggiogamento di Troia )>, laddove il Kve(pdcTi;i si vuole a ogni modo riferire a cióiiiov, che dovrà pur sempre reggere come genitivo di appartenenza

'Hjvista d!i filologia ecc., /. 36

- 374 -

il Tpoia?; ora siccome lo o"tó|uiiov rappresenta metaforicamente il mezzo della sottomissione di Troia, il concetto del Kve- qpàai} o non è ripugnante à quest'altro, o lo è pure colla spie- gazione proposta dairautore.

Il ragionamento che fa l'autore per dimostrare infondata la opinione di coloro, che appoggiandosi alle parole (v. 2 58) fÌKUj, aegiCouv o'óv, KXuTaijavriaTpa, Kparoq ecc. sostengono il coro presentarsi in cospetto del palazzo Clrtennestra per un ordine ricevuto da lei, basterebbe solo a chiarire Tacume critico, con cui egli tratta coleste questioni. Il Wecklein am- mette con un antico grammatico, come sia carattere distin- tivo del parodo, che in esso il coro manifesti il motivo del suo presentarsi. La Schneidewin nel caso di cui si tratta trova questo motivo in un ordine espresso di Clitennestra, e quindi traduce « (Sòv Kpdro^ per « il tuo comando » -, ma Fautore sostiene che queste parole sono, come una '< captatio benevolentiae » una semplice introduzione alia preghiera che segue; il coro dice: Io sono un umile suddito e la mia pre- ghiera è quella d'un suddito; se vuoi darle favorevole ascolto, tu mi fai sommo piacere, kXuoi^' gv eucppwv; se poi tu !a re- spingi, io non vorrò per questo essere malcontento. Com- batte pure le interpretazioni del Keck e del Nagelsbaeh -, il vero motivo dell'apparire del coro sta nella speranza e nella curiosità che si desta in esso alla vista dei fuochi sacrificali accesi per tutta la città-, il coro medesimo lo dice colle pa- role aù bè, Tuvbdpeuj ©uYatep, paciXcia k. t. X (v. 83). Ed a proposito di queste parole l'autore confuta, parmi, vittorio- samente le interpretazioni quasi identiche date dall'Hermann, dallo Schneidewin, dal Keck, i quali asseriscono che il coro si rivolge, parlando, a Clitennestra, mentre ella esce dal palazzo pei sacrificio, ma non ne ottenne pronta risposta, perchè ella non vuol essere disturbata ne'suoi atti di voti ; quindi il coro intuona un canto sacrificale. Il preteso canto

- 3T5 -

sacrificale, secondo il Wecklein, appartiene al parodo pro- priamente detto, laddove il canto corale dal verso i6o al 285 costituisce pel contenuto e per la forma il primo sta- simo -, quanto a Clitennestra, quando il coro dice « e tu, o figlia di Tindareo, o regina Clitennestra, che bisogno, che novità? ecc. », ella non è sulla scena più che non. lo sia Aiace nel parodo della tragedia Sofoclea di questo nome, quando i suoi soldati, temendo pel loro duce in seguito a dicerie funeste diffuse sul suo conto, si presentano dinanzi alla tenda deireroe, che vi è rinchiuso, perciò non visibile sulla scena. Da ultimo l'autore dimostra insussistente l'opinione di O. Mùller, che il coro rappresenti un alto consiglio lasciato da Agamennone a far le sue veci durante la sua assenza e sotto la presidenza di Clitennestra,

Una considerevole mutazione è introdotta dal Wecklein al vers. 179: ajàlii b'év S'uttviu ftpò Kapbicx<; |avricri7T/||nu;v rróvo(;, per evitare parecchie difficoltà, che si trovano in questo brano. Le principali, secondo Fautore, sarebbero tre: la particella in questo caso sconvenevole, lo arctCci riferito al ixpò Kapbla< e il concetto di sonno, che indicherebbe già, come osserva pure il Keck^ un mitigarsi del dolore e quindi sarebbe dis- dicevole al pensiero. Perciò non accetta le varianti dell'Har- tung, ia-naKey b'uirvq;, e del Karsten, OacJoei b'év 6'<J7tV(j!j , e propenderebbe ad uno ótùI^ì b'avTÌiTvou<;, se non rima- nesse la difficoltà dello czàlti unito al Tipo. È certo, dice, che tutti ammettono significare il upò Kapbia<; la sede stabile di quel )Livn(TiTrf||uujV novo? Eschileo. Dunque con uno an^- piZei, che indica stabilità, e si trova usato da Tucidide in modo analogo, risolviamo la difficoltà del itpò Kapòlaq; con un ànvou^ attribuito a ttóvo^ invece delPostico èv e'i)TTV»4) ag- giungiamo aìTespressione un particolare degno di Eschilo. . Lascio le considerazioni, che si potrebbero fare intorno alla probabilità della corruzione, che i'autorc chiama Icg-

376 - gera, di uno CTtìplZei originario in uno aidCei ; dirò solo che il Wecklein mi sembra non migliori il testo colla sua va- riante. Anzitutto il concetto di sonno non è così contrad- ditorio come reputa Tautore ', poiché, se il dolore del rimorso è più sentito quando lo spirito è veramente desto, cionon- dimeno, ove sia molto intenso, conturba ed angustia anche il sonno con imagini funeste; però parmi, che il poeta voglia appunto dir questo : « anche nel sonno (il cosi riceve la sua spiegazione e non è più un'inutile aggiunta), allorquando la stanchezza vince in parte rmterno travaglio, il cuore è torturato da imagini, da sog-iii angosciosi », e codesto mi par concetto non solo vero, ma molto più poetico di quello che rende un àrrvoug attributo a ttóvoc. Quanto al Trpò Kap- biaq unito con aiàlei e al cambiamento fatto dal Wecklein in uno aiiipiZiei, si potrebbe osservare come se il ixpà vuol dire « innanzi » e va tradotto « ante cor » è pure improprio il dire « siede, sta dinanzi al cuore» e non entro\ senza notare, che, levando lo axa^iei, leviamo un'idea poetica in sommo grado, quello della perpetuità e del lento accrescersi dei rimorsi, di quel travaglio che ci ricorda i delitf. Ma, se non fosse troppa audacia, si potrebbe perfino asserire che il irpò Kapbia<; dissuona meno dallo crràZiei che dallo av(\- piZiei, poiché significando cnàCei « stilla, sgocciola » ci l'idea di un moto ìnnanii al cuore, cosicché si potrebbe anche in- tendere, senza contraddire al Tipo, « dall'interno all'esterno, fuori dal cuore »; e questo modo di intendere il rrpó greco, può forsanco ricevere conferma dal corrispondente jt^j^jf', prae latino, che vuol dire non solo innan\i^ ma metaforicamente anche per, cioè attraverso {prae gaudio, per la gioia); ed anche dal prò latino, che pur corrisponde al greco in pro- vento, pronto ecc.-, si paragoni in greco il significato di irpo- vojLivi, Tpovofueijuj; del resto non è meraviglia che dal concetto « avanti » unito con un'idea di moto si passi al concetto

377 - « attraverso » . Se questa non è una stiracchiatura, e se il Tipo unito con Kapbia(; può essere inteso in questa maniera, Tespressione Eschilea crraZei irpò Kapòiotqèdi grande efficacia ed esattezza poetica, poiché allora significherebbe « gronda attraverso il cuore, fuori dal cuore il tormento dei rimorsi ».

Mirabile e adatto consenziente col concetto fondamentale della tragedia greca è tutta Tesposizione, con cui il Weck- lein dimostra la differejiza che passa fra il parodo ed il primo stasimo dell'Agamennone, e dopo un accurato esame giunge a questa conclusione: il parodo obbiettivamente ci il motivo delfavanzarsi del coro, manifestandoci ridesta la speranza di vittoria e coi porre in sodo questa speranza serve alPesposizione del soggetto; perciò vibra d'un concento gioioso rispondente all'aspetto esteriore della cosa e solo me- diatamente nelle parole di Calcante fa sentire una nota dis- corde; invece il primo stasimo ci offre una comprensione più profonda della cosa, discopre dietro alla bella apparenza un interiore malsano, perciò muta la lieta speranza in fo- schi presentimenti, la serena disposizione d'animo in una ressa di timori.

Per non eccedere i limiti proposti, e pur ripetendo che tutti gli appunti critici del Wecklein meriterebbero d'essere discussi, terminerò coll'esempio d'un'altra mutazione fatta da lui, la quale non sembra migliorare considerevolmente la lezione.

Rispetto alle parole del coro v. 799 e segg.: he juoi tót€ inèv axéXXujv arpaiiàv '€\6vri<? ^vek', oùk èrriKeucru}, Kapi' à7TO^ou(Juu5 ^aQa feTpctjiHévoi; oùb' eu TTpaTribu.»v oTaKC véfiujv, Gpdaog éKOuffiov àvbpócrt BvricTKOuai ko^iCuuv, fautore accenna alle più importanti spiegazioni che si diedero di quell'ultima espressione 6pdao<; éKOucriov ecc.^ e dice che quella dell'Hermann « vehens (ad Troiani) spon- taneam audaciam mori volentibus viris » è distrutta dall'os-

378

servare che « OvriCKOum » significa « che muoiono, che vanno morendo », oppure « morivano ecc. », il cambiamento del- TAhrens di éKoOoiov in un ìk Guo'iujv serve bensì a schivare una difficoltà, ma richiede una serie di commenti, che pro- babilmente sarebbero stati necessari anche ai Greci per ca- pire il significato di quella locuzione:; lo Schneidewin, os- serva i'autore, si è messo sulla buona via , interpretando : « quando tu intraprendesti la spedizione Troiana, facevi a me Teffetto d'uno che ispiri coraggio ad un moribondo »•, ri- mane tuttavia réKoucriov ad imbarazzare, perciò Fautore lo muta senza esitare in èiéawv « vano » e spiega : « tu mi parevi uno che arrecasse vane consolazioni a un moribondo », cioè « le tue promesse di vittoria e di bottino, allora mi facevano suiratiimo queireffetto che possono fare sull'animo d'un moribondo i conforti degli amici » ; la spiegazione è plausibile, ammesso questo cambiamento di éKOucriov inèiu»- Gìov ; ma quando si può ottenere un senso ugualmente plau- sìbile senza mutare alcuna cosa, parmi che qualsiasi modi- ficazione diventi per lo meno inutile. Una buona interpre- tazione ci l'Enger ne'suoi commenti all'Agamennone, so come sia sfuggita al Wecklein, che non ne fa neppure parola. Dali'Enger il ko.uìZwv è tradotto nel senso di « alens, fovens » e l'óvòpàoì 8vr|(JK0uai diventa dativo di mezzo; queste parole del coro suonerebbero : « allora (quando movesti col- l'eserciio), non tei voglio dissimulare, mi pareva che tu non fossi assennato, alimentando un'audacia arbitraria con uo mini che morivano, cioè col morire, coi sangue dei cittadini Argivi » -, così éKoùaiov è spiegato perfettamente e costituiva la colpa di Agamennone agli occhi del coro, inquantochè per un'offesa di famiglia, per una donna adultera si espo- nevano le vite di tanti guerrieri greci. Una conferma della bontà di questa interpretazione l'abbiamo nelle parole ironiche del medesimo brano, l"6\évnc eveKa, e in queste

379 ~ altre, v. 1458: noXéo xXdvxo*; YuvaiKò? biai id» ìiju, rrapavou? '€Véva |i*ia ràq TtoXXà?, là^ Tràvu rroXXàq ^}^%à(; ò\éaa(f \>m Tpoiqi. E invero il Qpdao? éKouaiov, l'audacia, la baldanza arbitraria è la fonte di tutti i mali deireroe e, se per un istante sembra ai coro che questa baldanza sia stata coro- nata da prospero successo, non tarderà ad accorgersi che anche la morte di Agamennone dipende da essa ed a quello sconfortante TtoXéa TXàvTo<; YuvaiKÒ? tiai, soggiungerà afflitto irpò*; Y^vaiKÒi; ò' àT!:fcq)8tffev piov. E a quella guisa che il coro biasimava altamente che Agamennone avesse intrapreso la guerra Troiana a cagione d'una donna, disapprovava TéKcucnov ©pctcfo^ a luì ed ai Greci tutti così funesto, compiangeva pure la sorte dei Troiani caduti per una cagione analoga, per un Paride, sdegnosamente paragonato dal coro stesso ad un lioncello, che piccolo lambe la mano di chi lo alleva, adulto muta natura ed empie di strage la casa. Vers. 717-734.

Per queste cagioni la interpretazione delKEnger che si adatta al testo qual è, e trova appoggio nello svolgimento generale del pensiero Eschileo, mi parve preferibile a quella proposta dal Wecklein.

Conchiudo augurando al nostro paese che presto gli studii classici trovino in e.sso numerosi cultori valenti come il Wecklein e tali da accrescere, come ha fatto questo insigne erudito tedesco co'suoi « Studi su Eschilo » la somma delle cognizioni scientifiche intorno alTantichità le quali costitui- ranno sempre parte essenziale e gloriosissima dello incivi- limento moderno.

Sondrio, gennaio 1873.

Claudio Giacomino.

- 380 -

Saggio della storpia della lingua e dei dialetti d'Italia con un introduzione sopra l'origine delle lingue neolatine del don. Napoleone Caix. Parte prima, Parma, 1872, pp. lxxii, e 160.

Rivista difilologiaroman\ay diretta da L. Manzoni, E. Mo- naci, E. SriìNGEL. Voi. I, fase. I, Imola, 1872.

Del lavoro del Caìx non abbiamo finora di pubblicato se non una prima parte, nella quale, dopo l'introduzione (vn- Lxxxn), in cui principalmente si parla delle varie opinioni circa l'origine delle lingue romanze e dei vari metodi appli- cati alle linguistiche investigazioni e fannosi alcune consi- derazioni circa le attinenze deirelemento germanico col la- tino, seguono cinque capitoli di cui formano Targomento: I. Le lingue neolatine e i dialetti italiani; classiJica\ione ge- nerale dei dialetti italiani; II. I dialetti moderni e il latino volgare; Ili. La dialettologia comparata-^ IV. I dialetti to- scani e la lingua letteraria; etimologie popolari ; assimila- lione; alterazioni fonetiche ; formazione delle parole; V. // toscano e gli altri dialetti d'Italia. Questi capitoli sono come la parte preliminare dell'opera. In appresso l'autore prenderà ad « esaminare le relazioni che correvano tra la- tino classico e latino volgare, le differenze che presentano il latino volgare nei vari luoghi, le cause che lo modificarono, le leggi secondo le quali si andò trasformando fino a dare origine alle lingue viventi e finalmente l'influenza, che nelle sue trasformazioni ebbero gli antichi idiomi delle popola- zioni italiche » (p. lxxu).

Dal saggio che abbiamo sott'occhio appare come l'autore sia addimesticato colle principali opere che a giorni nostri presero a trattare metodicamente cosi delle origini delle lingue neolatine, come della storia del latino e del romano volgare. Non dubitiamo pertanto che quest'opera non sia per con- tribuire notevolmente all'illustrazione della lingua e dei dia- letti italiani ; il che argomentiamo dal saggio che se ne porge in questo primo fascicolo, dove principalmente egli si fa od a proporre etimologie od a raffrontar forme e deriva-

~ 381 - zioni di vocaboli che apparentemente distinti mostrano tut- tavia, a chi ben vegga, una comunanza d'origine non prima avvertita. Non vogliamo però tacere come qua e l'autore, al parer nostro, lasci desiderare più rigorosità di metodo e maturità di criterio linguistico; quindi è che mentre da un lato riconosciamo non di rado la maggiore o minor verisi- miglianza dei suoi riscontri etimologici, come per es. in <3^'i7?i- rtotto da hoc aniio (p. lxvui), in gottolcignola da gutturanea (p. 60), in gan:{a daganea (ivi), in scianto^ respiro, da caV?^- litus (p. 61), nelberg. sgarle, trampoli, da grallae^ neiremil. libia o lilbiay frana, dall'equivalente eluvies, nel lomb. lava o lóva, pannocchia di sorgo e gran turco, dal lat. loba (i), nel- Temil. bt^ombol ^ tralcio, dalFequiv. rumpus (p. G3), nel romanesco Jiara, fiamma, da. JIagra{re) (p. 65) (2), nell'aret.

(1) Questa parola s'incontra principalmente in dialetti lombardi e pedemontani; non è quindi improbabile che loba usata da Plinio co- masco {H. N. 19, 18, § 3) per pannocchia del sorgo [milium indicum), e da taluni avuta per falsa lezione, sia voce gallica o, comunque, essenzialmente propria dell'Italia superiore, quindi vivente ancora oggidì ne' nostri dialetti, principalmente in senso d'i pannocchia del gran turco.

(2) Questa vocq fiar a, in senso Ai fiamma., propria del romanesco, mi pare assai notevole, in quanto fa presupporre per l'antico volgare ro- mano un tema novaìmÌQ flagra- fflag-ra-; cf per es.fib-ra. lib-ra, scut- roy ecc.), donde sarebbe derivato flagrare, come dall'atRne flamma {r=flag-ma) flammare, e perciò renderebbe men verisimile la conget- tura del Sonne CZeitschr.f. vergi. Spr., X, 99), che flagrare sia una forma sincopata di flagerare procedente (com," per es. generare da genus) da un ipotetico y7a^M5, morfologicamente analogo cogli etimolo- gicamente identici sanscr. bhargas, splendor raggiante, gr, *q)XeYo<;. No- terò ancora come questo vocabolo abbia pur riscontro in volgari dell'I- talia superiore, come p. e. nel canavesano, dove per alcune varietà dialet- tiche ^ì^ra (da *fiairaj significa appunto flamma e risponderebbe ad un lat. nome flagra, come in questo stesso dialetto la forma \erha\e fièra [q fieirc, fiairaj, puzza, riflette un organico /Ta^'^ra/ per fragrai dal lat.

fragrare (odorare) che, come è noto, viene largamente rappresentato nel sardo e ne' dialetti dell'Europa Occidentale principalmente in senso di pu:^^are, e, fuori del sardo, accenna sempre ad un organico _/7a^rart', nato per dissimilazione da fragrare; mentre l'originariamente latino flagrare., ait deve, accendersi, essere acceso, più non trova probabilmente

~ 382 -

baregno, lavatoio, da balineum^ donde balneum^ nel lucch. sollingoro, scilinguagnolo, da 'sublingulus (p. 104), d'altra parte teniartio per assai problematiche e, in certi casi, diremmo ricisamente false ^ talune delle etimologie recate dai Gaix, secondo crediamo sia per chiarirsi dalle osserva- zioni che ad alcune facciamo qui appresso.

Non credo ammissibile per niun modo F origine che a pag. LxiXj in nota , vorrebbe dare all' italiano ventdvolo , vento di tramontana, che, non solo il Diez, ma già gli antichi nostri scrittori considerano come equivalente a vento aquilo, ventaqtiilo {ventus aquild'){\% e il Gaix vor- rebbe identificare col port. e sp. vendavdl. Vendami non può significare altro che vento d'avalle {ventus de ad-val- lem), cioè vento che viene da basso, dalF ingiù, secondo che significò largamente presso i popoli neolatini il co- strutto a valle (ad vallem), come 1^7 monte [ad montem) venne a significare l'opposto, cioè in alto, ad alto, all' insù; e questa designazione si trova pure tra i francesi che hanno così le vent d'amont (vento di levante), perchè la Francia ad oriente è più alta, come le veni d'aval (vento di ponente), perchè più bassa ad occidente, mentre Io sp. e port. vendaval, probabilmente tolto ai Francesi (van-d-aval), vale vento tra mezzodì e ponente, già dagli Italiani chiamato garbino o libeccio. Or^a egli è chiaro che un nome italiano rispondente al port. e sp. vendaval sarebbe ventavalle, e non ventavolo^ alterazione inesplicabile dal lato fonologico; mentre venta- voloy confrontato con ventaquilo , come proprio di dialetto italiano e segnatamente toscano, non presenta, procedendo da vent-aquilo, alcuna alterazione che non siavene l'analogo

altra connessione etimologica' popolare che nella detta sporadica forma nominale del romanesco e del piemontese e anche per avventura nel sardo mer. flaria C^fl^gr'mJ, fior di cenere.

(i) Il Diez CEt. W. IF, 78) contrappone dubitativamente a ventavolo il lat. venius aquilus. Mi pare che non aocada ricorrere all'ipotetica forma di aquilus per aquilo, ben potendo nome italiano stare al nominativo aquila, come per es. ladro a latro fcf. p. 99 di questo giornale),

383

nell'ambito de' volgari italiani; sicché quanto alla vicenda della gutturale qu- rappresentata in ultimo da r^ abbiamo per es, Liven:{a = Liquentia, piem. ava^ èva (= ant. aigua da aqua) come pure avannotto rr: aguannotto. aquannotto {uguannotto, cL uguanno rrr uquanno da hoc anno); e circa Vi reso da o, il fenomeno viene qui ad essere assai regolare dinanzi a nuvola = nubila, temolo ("per temilo thyminus), semola = simila, -evole -abilis (per es. lodevole = laiida- bilis) Qcz.-^ e allo stesso agola ■=^ aquila, di alcuni dia- letti, come per es, del trentino che ha comune col fior. il postonico ol =^ //.

Se non è ammissibile la correzione che il Caix vorrebbe fare a ventavolo come procedente da vent-aquilo, ben credo debba accettarsi l'etimologia che nella stessa nota egli di :^oticOy facendolo venire da idioticus. Se non che per giu- gnere a questa etimologia non occorre ricorrere al porto- ghese :{ote da idiota^ ma ci basta il sapere: che idioticus, come sinonimo à'' idiota e per conseguenza equivalente a gotico, veniva già usato nei primi secoli dell'era volgare*, che l'aferesì dell'/ la troviamo anche nei diota dell'antico fioren- tino presso il Pucci {Centiloquió)\ che \ = dj è nel volgare romanzo antico e comune, onde per es. già nei primi secoli A^abenico = Adiabenico, Zabulius = Diabolius , Zodorus = Diodorus , Zonysius = Dionisius, :{abolus = diabolus, ^aconus = diaconus^ ecc. e nei dialetti odierni, onde per es. ven. :{ago = diaconus, ^orno z= diiirnum ecc. {Ci. Corssen, Ausspr. I«, 216). Lo stesso suono debole dello \, mentre da un lato corrobora questa derivazione, fa contro non solo alla derivazione di lotico dal rabbinico schoteh, come con- getturava il Diez nella i* ediz. del suo Voc. et,., p. 878, ma anche contro quella di exoticus, forestiero, che nella 3" (II, 83) egli mette innanzi come primamente trovata dal Menagio. Sicché l'origine di gotico da idioticus, idiotay h(\ molto più verisimiglianza , che non abbia per avventura il portoghese \ote ., il cui ;;;■, potendo anche procedere da ^ o e, non torrebbe punto di verisimiglianza all'origine semitica attribuita a questa voce dal Diez.

A pag. 17, il Caix trae il nap. vaca, it. voga., da voce. Si

- 384

può ben dubitare di questa etimologia. È più verisimile quella che deriva questa voce dalFant. alto ted. ivogon {■•va- gon)^ muoversi, onde in ivago wesan —■ ètra en vogue, es- ser in voga (Cf. DiEZ, El. W. !■*, 447). Il suono aperto delTo di voga già basterebbe per accennare ad altra origine che da voce. Essere in voga pertanto, piuttosto che essere in voce, significa etimologicamente essere in moto, in corso, in ina. Voga e vogare nel linguaggio marinaresco non hanno altro significato. Quanto al e per g del nap. voca confron- tinsi per es. tacola per tegola, astrolaco per astrologo, arecato per origano , doca per doga ecc. , dello stesso dialetto.

A pag. 21, deriva il fr. ce da eccistum [ecce istiim). Ce viene da ecce hoc, donde pure l^it. ciò\ da eccistum si derivò Tant. fr. icist, e l'odierno cet, come da eccu-istum venne questo.

Alla stessa pag., ad esempio del plurale milanese, che confonde i due generi, mal scelgonsi ad esempio i donn, e / tosami, giacché qui nella pronunzia della doppia n si sente il femminile-, mentre pel ma-^^chile direbbcsi don, tosan^ come direbbesi per es. roman, ballarin pel maschile, e ro- ìnann, ball arimi pel femminile.

A pag. 58 pocciola, specie di fungo, viene dal Caix etimologicamente connessa col lomb. spongiceula o spons- giceura e derivata dal lat. spongiolus. Lasciando da parte le difficoltà fonologiche che basterebbero a rendere assai proble- matica tale etimologia, osserverò primieramente come pocciola sia vocabolo aretino e come gli Aretini abbiano insieme coi Sanesi e altri la parola poccia, derivante da ' pupi a per pupa^ con significato di poppa, manimeUa, sicché, pocciola non può essere che una forma diminutiva di poccia., pro- priamente significante mammellina. Il popolo è assai pro- penso a denominare dalle parti del corpo, con cui abbiano analogia di figura, come vari esseri del regno minerale e animale, così anche prodotti vegetali-, e qui col nome di pocciola, mammellina, è venuto a dinotare una specie di fungo, o più propriamente una varietà di quella specie di funghi, che dicono vescia di lupo, ma più lunghetta, sicché

385

veramente venga ad avere nella forma qualcosa d'analogo a una poppellina. Così altre sorta di funghi furono ancora chiamati, per la loro forma accennante le parti del corpo, col nome quali di lingua, quali d'orecchie, orecchione^ quali di manine o ditola o ditellini, ecc. e diedesi anche il nome di pappina ad una specie di pera e alT occhio delle patate.

Alla stessa pag. fa venire fedelini (rom., ven., lomb. ecc.), vermicelli di pasta, da un lat. Jìdulct , fides. , cordce cy- tharce. Io non dubito di dir falsa questa generalmente se- guita etimologia ed affermare che fìdéi, fìdelim\ voci essen- zialmente ed originariamente proprie dei dialetti dell' Italia superiore, etimologicamente non suonano altrimenti che fdelli^ filellini, forme diminutive filo (i).

A pag. 62 si legge; « ven. dcgladiar, contendere, lomb. g-hià , pungolo, da. g-laditis e digladiari •». Dcgladiar r.on può essere dell' odierno veneziano. Contro la volgarità di questo verbo starebbe il nesso gì., che i-l veneziano già da secoli rigetta insieme colla gran maggioranza de' dialetti ita- liani. D'altra parte esso non è registrato dal Boerio, dal Mutinelli, dal Patriarchi \ sicché non potrebbe am- mettersi se non come latinismo o arcaismo proprio di qual- che antico documento veneto. Quanto ai lomb. ghia, pun- golo , noto che questa voce non viene già , come crede il Caix, da gladius (che quanto alla sillaba iniziale avrebbe dato a ogni modo gici-)^ ma bensì da acideatiim (fornito d'aculeo), che darebbe regolarmente agujà^ ma per aferesi e contrazione, ghia (2). Da questa forma participiale prò-

(i) Mi contento solo di accennare questa etimologia, in quanto ne parlo distesamente, in alcune mie postille etimologiche, cne sarnimo pubblicate nel 20 volume àQ.\ì' Archivio glottologico italiano diretto da G. I. Ascoli.

{^) Come da */i/;o vennero * fijo, fio (Corssen Ausspr, ecc , P, 143), co^ da agujà= aculiato dovette primamente procedere agìiijà , indi per aferesi e contrazione ghia. Circa questa specie di contrazione > essenzialmente propria dei dialetti dell'Italia si:periore, wdasi la mia dissertazione: Di alcune forvic de' nomi locali deli Italia superiore, pp. 9 e segg.

386

cedono inoltre gli equivalenti ven. agugià , mod. gujh, regg. aghièe, piem. tifa (i), e con forma diminutiva parm. ghiadell^ mod, gujadell^ mant. gojadell faculiatello), e i femminili trent. gujada , friul. gujade , parm. ghiada (aculeata); mentre dall' apellativo aculeus viene senza più il bresc, goi^ che erroneamente il Caix in questa stessa pa> gina deriva con guiceul {=:^aculeolus) dal lat. agolum ; e con forma d'accrescitivo vengono il tose, aguglione, il piem. iijon {acuitone, aculeone coi diminutivi ujet , ujot (= acu- lietto, aculiotto), e il mant. gojceul (=: aculeolus). Volendo poi trovar voci procedenti da gladius in volgari neolatini, l'autore avrebbe dovuto riferirsi al toscano ghiado, agghia- dat^e, nap. Jajo, agghiajare, piem.^^m/, sgiaj\ ^vaw.glay, esglaf , desglayar ecc.

Alla stessa pagina fa venire luganega, salsiccia, dal lat. longano, intestino retto. Il ven. e lomb. luganega non può

(i) Nelle forme piemontesi ujon, ujett, ujoit , la vocale ii- rappre- senta un risultato fonetico = acu- , come in u~ja , u-gia = acit-cla [acucula], n-ss =s^* acu-tius , aguzzo, Mont-ù n, 1. (= Mont-acù-tus). Bisogna perciò guardarsi dal confondere, come suol farsi generalmenie, in una stessa etimologia le citate voci piemontesi , significanti agu- gìione , pungolo, colle dinotanti ago, aghetto , agone, agugliata, come a dire uja, ujetta, ujàn, ujà, le quali insieme colle altre equi- valenti varietà dialettiche del piemontese, quali agucia, agucin, agu- cion, gucia, gucin, guciort, gucià, ugia, ugin, ugiott, ugià, procedono tutte da uno stesso prototipo acucla , acucula, diminutivo di acus. Questa identificazione etimologica contradetta dalla fonologia, in quanto solo - ja = Ija (per esempio solo ujà (pungolo) =aculeato da aculeo,

= / ujà

ma - cid=^ > da (per es. gucià (agugliata) = acuclata da acucla , a-

- gi^= I ^g^à

cucula , si spiega assai facilmente, stantechè sotto l'aspetto logico i derivati da acus e aculeus, procedenti entrambi da una stessa radice, vengono naturalmente a confondersi nella loro nozione fondamentale di acume, acuceìf^a. Errano pertanto i vocabolaristi piemontesi Sant'Al- bino e Pasquale che in ujon non sanno vedere altro che un accrescitivo di uja (= acacia), tanto pei senso di agone (grosso ago ), come per quello di aguglione (pungolo), il quale ultimo vocabolo toscano viene ancor esso , in quanto vale grande ago, da aguglia (»« acucla), in quanto pungiglione, da aculeo, aculeone, aculione.

cssere che un risultato regolare dal lat. lucanica, già usato in senso di salsiccia dai Romani; saprei perchè s'abbia da rigettare l'etimologia che di questo vocabolo ci Var- rone, il quale dice che quella sorta di salsiccia era cosi chia- mata perchè i soldati romani avevano imparato a farla dai popoli della Lucania.

Ivi pure, deduce II « lomb . bagola, zacchera, dal lat. popolare blatea (bulla litti^ Festo) ». Il lomb. bagola signi- fica principalmente sterco di pecora , può essere altro che un riflesso del lat. bacciila (bacula) diminutivo di bacca, coccola, che già Palladio adopera nel senso traslato di ca- cherello di capra, per la somiglianza che esso ha colla coc- cola degli alberi bacchiferi. Bagola da blatea sarebbe fo- nologicamente incomprensibile; perocché il risultato regolare così italiano come lombardo dovrebbe essere * bia^a, e pel diminutivo, 'bianuola, ' bia^ola , ''bia^oeula, * bia'{'{oeura (= * bla t eoi a).

A pag. 63, sulle, tracce del Pasqualino, fa venire il sic. abbijari, cacciare, dal lai. abigere. io credo che molto più verisimilmente venga da avviare, mettere in via, quindi cac- ciare, il nap. ha appunto abbiare per avviare, e gli antichi toscani chiamavano il malfattore malabbiato (male avviato), che ii vocabolario goffamente dichiara per che abbia in se del male, quasi volendo accennare che malabbiato si fondi su abbia, forma del verbo avere (i).

A pag. 85, fa venire il lomb. eroda, cadere, detto prin- cipalmente delle frutta spiccantisi dai rami, da *corrutare e il toscano crollare da "corr ululare, entrambi procedenti da corrutus^ participio di corruere. Certamente sotto l'aspetto logico questa etimologia non sarebbe punto inverosimile;

(i) Il fenomeno bb=vvèassai frequente così nel siciliano come nel napolitano , quindi per es. sic. abbampari (avvampare), abbértiri Cad- verierej, avvertire, abbivar: , avvivare , nap. abbampare , abbecenare , avvicinare, ecc. Il tose, malabbiato è dovuto a una specie di crasi , per cui da -avviato ne venne -avviato, indi -abbialo, come per es. da alle- viare aìtebbiare , p.-opr. alleggiare, alleggerire, e fig. mond;ire, che i vocabolari dichiarano, non so come, per contaminare (!).

388

che la nozione del cadere ben potrebbe essere resa da un frequentativo di corruerc che sarebbe 'corrutare , come di ruere'ruiare^ del quale ultimo verbo, esistito verosimilmente un tempo nel romano volgare, si ha un derivato nel nome ì'utabuluin , strumento di ferro per iscuotere , far cadere , che starebbe a 'ridare, come, per es. vectabuliim a vectarc, e che si conserva per avventura nelTit. riavolo, ven. reda- bio , bresc. e crem. redabel , mil. roabbi , tee. Ma questa etimologia di corrutare è più speciosa che vera -, perocché contro di essa fanno ricisamente le leggi fonologiche, le quali per contro appoggiano unanimemente Tetimologia che fa venire questi verbi eroda, crollare da 'corrotare, ' cor- rai ulare {da. rota). Le ragioni fonetiche chMo dico, ci sarebbero somministrate principalmente dalle forme del verbo nato da 'crotare (sincopato da 'corrotare; cf. cruna = corona), in quanto , semprechè 1' o di 'crotare viene ad essere accentato, esso presenta ne' vari dialetti quelle mede- sime alterazioni che si notano nelTo del nome rota. Quindi è che presso tutti i dialetti i quali hanno questo verbo, ajla 3* pers. sing. ind. pres., la cui forma organica sarebbe "cro- tat, ci si presenta una perfetta corrispondenza di suono fra la prima vocale di esso verbo e To del nome riflettente il latino ròta, onde per es. mli. eroda e roda. piac. e parm. creuda e renda, var. piem. croua e rouc^, crova e rova, gen. creua e reua, engadd. crouda e rouda^ bresc. cruda e ruda, ecc. Ora se qaesio verbo venisse, secondo che vor- rebbe il Caix, da un organico 'crutarc {'corrutare), mal si saprebbe dire il perchè il suo u, quando è accentato (che vuol dire, quando verrebbe ad essere governato da leggi fonologiche più determinatamente regolari) , presenti una- dialettica varietà di suoni che , m.entre per Vu sarebbero anomale riflessioni , vengono appunto ad esser normali , come rappresentanti un Ó. Queste ragioni fonologiche sono anche in crollare , il cui o , quando è accentato , come in crollo, crolla, suona aperto, come di regola chiederebbe un o originario e tonico, quale avrebbesi in 'crollo, 'crollai ( corrotulo, 'corrotulat) e non chiuso, quale avrebbe dovuto essere se fosse proceduto da *crutlo, "cruilat. Qui adunque

la fonologia viene, come ognun vede, a rivendicare i diritti dell'etimologia che per crollare ha dato il Diez, e che qua- dra eziandio per crodar e per tutte quelle altre forme dia- lettiche che hanno una comune origine da "crotare, "cor- rotare.

A pag. io5, a proposito di etimologie popolari, dice che il popolo non intendendo anatomia^ lo convertì in notomia^ come se fosse derivato da noto. E più probabile che questa forma debbasi meramente ripetere da fenomeni fonetici, cioè dall'aferesideira, qui assai naturale, e da mutamento del se- condo ^ in o sotto razione assimilativa dell'o seguente.

A pag. 1 06 fa venire fiata da vicata, e via per volta da vice. Io credo che così via per volta, come ^uv fiata, deb- bano tenersi etimologicamente connessi col lat. ed it. via. 1 modi avverbiali dell'antico tedesco alle vege , dell'inglese alìvays {ali ìvays) hanno nella seconda voce un equivalente deirit. W^, che abbiamo nel significato di volta in tuttavia-, e tanto vege come ivay in quelle lingue valgono via, cam- mino. In alcuni dialetti italiani la nozione di volta viene anche espressa dalla parola viaggio -, e così in toscano questo viaggio può equivalere a questa volta-, in qualche varietà di dialetto napolitano viaggio suona pure per volta, onde per es. nel romaico delle province meridionali dio viaggi vale due volte ; i contadini lombardi dicono per sto viagg in cambio àìper sta volta-, e in alcuni luoghi del Piemonte un viagg, st' viagg, n'aut viagg vogliono anche dire una volta , un tempo, questa volta, U7i'altra volta. Essendo adunque in- dubitato che la nozione di volta viene espressa da voce equi- valente od etimologicamente connessa col lat. e it. via, da questa trarremo pure senza esitanza V'ix.via ^ fia per volta e il derivatone ^<:7/iZ = 'viata (i). Aggiungasi che per l'antico toscano, dove già s'incontrano queste voci, male si potrebbe

(i) Morfologicamente viata (donde yia?d) sta a via , come giornata a giorno, mesata a mese, serata a sera, annata ad anno , ecc., dove le forme in -ata vengono ad esprimere meno determinatamente lo spazio di tempo dinotato dal nome primitivo. Quanto a v mutato in /, cf. per es. ver./alagro ^= veratrum, it. veladro, ecc.

Hivista di filologia ecc., I. yj

- 390-~

sotto Taspetto fonologico ammettere !a trasformazione di j^fce* m ria e di 'vicata in ' viata ^ fiata ^ non essendovi quasi esempio di e, che si dilegui, come qui si farebbe. Noterò pure come il trovarsi ii latino vices vivo nella sua popolare e regolare forma di vece (cf„ in pece, ecc.) accresca le inve- rosimiglianze della sua trasformazione in via. Anche vicata si trova usato popolarmente, sotto questa medesima forma^ nelFant. pisano (v. Stat. P?.s. I. 681, 705 ecc.), ^Tìemre la gutturale si sarebbe indebolita, ma non perduta neirant. sp., port»e prov. vegada^ e nell'aferetico gada^ geda^ jada ecc., delle genti ladine (cf. Ascoli, Arch. Gì. It., ind. less. s. v. vicata). Il vie per via, così in senso di molto quale per es. iaviedentro, viemeglio, vieppiù ecc. come in quello di rolta^ per es. in :{ero vie lero ., che potrebbe per quel suo e far credere all'origine da vices^ e nel primo senso da un av- verbio latino vive, secondo che congettura il Diez (Et. W. IV, 80), non può verisimìlmente venire esso pure, se non da pia» e debbe ripetere e sostituito ad a da un principio di assimilazione esercitata dall'/ precedente, come per es. in Dietisalvi, Dielvoglia, per mie /è, mieffh (mìa fé), Bietricey ecc. e nelle forme verbali avieno, fie, fieno, sie^ sieno, die, dienOytcc. per aviano, fia, fiano ecc.

A pag. 1 1 2 vede in forbici una fonna nata per metatesi adi forceps. Non havvi ragione alcuna per distaccare il vo- cabolo forbici dall'equivalente latino forfex e tirarlo ad altra voce significante tanaglia. Forbici sta per /orfici ed ha mutato il secondo / in b, come in p nel san. forvici , per mero effetto di dissimilazione, non conosciuto dal n&p. fuorfece, dal sic. fórficia, ne dal sardo (log.) /or- fighe, dal ven. forfè ecc. dal dìm. forfecchia -~.for- ficla, forficula. Come in forbici da forfices di due / la dissimilazione ne mutò une in b, così, per converso, di due b ne cambiò uno in f in bufolo, bufalo da bubalus, e in bifolco da bubulcus.

A pag. 122 e 123 attribuisce ad un principio d'assimila- zione esercitato da vicina labiale ii passaggio dell'o protonico in M, disconoscendo per tal guisa una legge importan- tissima e cardinale nella storia del vocalismo de'volgari ita-

391

Uani, voglio dire il principio d'alleggerimento che ha luogo nella vocale forte protonica (e, o), per cui e si attenua in / ed o in u, E perciò l'w ài fucile, mulino^ ufficio, puchino, furestiero, ecc. nato da o, che il Gaix reca ad influenza assimilativa di vicina labiale, debbesì piuttosto tener come originato per quello stesso principio d'alleggerimento, per cui da un 0 originario ne venne verbigrazia Vu di giucare, scu- riada, ì^ugiada^ ucckiello, uccidere, ulivo, Giuseppe ^cc, nei quali vocaboli non v'ha punto una vicina labiale che deter- mini la nascita d'w. L'azione assimilativa di labiale per pros- sima vocale non vuole pertanto essere riconosciuta se non colà dove la mutazione così determinata contraflfà ad altra legge piìj generale, come per es. in romanere, domani, do- ventare, rovesciare ("reversiare), rovistare (revisitare), ecc., nei quali casi tutti Vi per l'o verrebbe ad essere, ed è vera- mente in alcuni, una rappresentanza più normale dell' e primitivo.

A pag. i36, 1 39 e 143 connette etimologicamente con prudore, prudere, provenienti dal lat. prurire, le voci specialmente aretine e lucchesi rodere, rodore e rosa in senso ài pi\-{icare e pii^icore. Sotto il lato meramente fonologico già farebbero difficoltà e la perdita del p ini- ziale e il passaggio dell'w lungo di prudere, prudore (cf. lat. prurire), così nella sillaba accentata come nella disac- centata, fenomeni al tutto irregolari per l'ambiente in cui si incontrano questi vocaboli. Ma contro questa etimologia di rodere, pizzicare, staccato da roderle, rosicare, sta sotto l'a- spetto logico il fatto che il significato del lat. prurire, pru- ritus, prurigo, oltrecchè da^li etimologicamente connessi prudere, prudore, viene reso ne'vari dialetti neolatini con altri vticaboli inchiudenti una nozione originariamente analoga a quella di rodere.";, ed è quella di mangiare, a cui rodere sta, quasi direi, come la specie al genere. Quindi è che al lat, prurire, pruritus rispondono logicamente gli spagnuoli corner (comedere), comeson (comesionem), fr. démanger, démangeaison, piem. smange, smangison, gen. smangia, smangiason, sic. manciari , manciaciumi. Il sardo esprime ancor esso il prurito con parola importante la nozione del

392

mangiare, onde log. mandighin'{u (da mandigare^ mangiare), merid. pappingiii (da pappai^ mangiare), sett. magnatone. Nel greco òo<xh^(5\xòc,^ prurito, abbiamo la rad. baK di bdKvuj, mordo (cf. Curtius, Gì\ d. Griech. Et. I, 297), sicché pro- priamente suoni morsicatura ;t. il vocabolario della lingua ita- liana definisce pi^icorey come sinonimo di prurito., per w/or- dicamento ecc. Dunque le nozioni di ma?igiare, mordere e rodere sarebbero parse alla intuitiva linguistica popolare le meglio acconce ad esprimere in modo etimologicamente sen- sibile la nozione del latino jprwn re, che alla sua volta in- chiude per avventura il senso traslato di bruciare^ non essendo improbabile che prurire venga, mediante un fenomeno assai noto nella storia del latino (r = 5), da prusire, connesso colla radice ariana prus- (sanscr. prush-, urere, ardere), donde verrebbe anche prùna (da "prusna) , carbone (cf. Corssen, Ausspr. IP, 1004)-, nozione espressa anche dal ven. brusar, per picegar, o pi^^ar o spigar ^ prudere. E cosi rodere e rodare sopraddetti non verranno già da prudere, prudore, ma si figuratamente da rodere (rosicare), al qual verbo si con- nette ancora rosa., che, pronunciato con 0 chiuso (i), vale presso i Lucchesi e altri popoli di Toscana lo stesso che prurito, e sta al verbo rodere come i sost. spesa, resa, scesa ecc. a spendere, rendere, scendere.

A pag. 109 considera tartufo come forma nata per rad- doppiamento da tuber, rigettando cosi Tetimologia mena- giana di terrae-tuber (Cf. per es. la forma dialettica di tarmoto ==: terrae motus), assai verisimile anche pel Diez, alla cui citazione del sic. tirituffulu {^= tere-t-, terrae- 1-) ag- giungo, come pur notevole, il verisimilmente sanese tara- tufolo del Franciosini {Voc. esp. e it., s. criadillas).

A pag. 88 leggasi in nota : « spiego cece e pepe comt nati da cecere e pepere per indebolimento della vocale a cui suc-

(i) Chiuso, in quanto si origina da 5 lungo {ródere) \ al qual pro- posito noto un errore incorso nelle tre edizioni della grammatica del Diez(I'p. 161), e ripetuto nel compendio del Fornaciari (p. 9), cioè l'italiano rodo recato fra gli esempi eccezione all'equazione =8^ come se riflettesse un lat. ródo, non ródo.

- 393 -

cedette la caduta di r che rimaneva in fine parola ». I fenomeni fonetici che qui si suppongono per ispiegare una procedenza di cece, pepe da cicere, piperà^ nel campo toscano non sono punto veri simili. D altra parte è da avvertire che qui si tratta di forma che, come in petto =^ pectus , uopo = opus ecc., viene da quella che, come di neutri, era co- mune al nom. e alfacc, e perciò da cicer, piper, donde cadde la r per via di un'apocope che si può dire normale neiritaliano, onde, p. e. frate =^frater, prete -=. presti ter, moglie = mulier , sarto = sartor^ marmo -■= marmor ^ suoro := soror^ {tar)tufo ■^=. tuber, vampo -.=- vapor ecc.

Non credo ammissibile Fazione assimilativa della prece- dente vocale che a pag. 109 e i io il Gaix vede nelle finali di canapa per canape, sorcio per sorce da sorice, esente per esento {=exemvtus). Le vocali finali del nome, come forte- mente soggette ai principii dinamici della flessione, non ob- bediscono gran fatto alle leggi fonologiche. Canape si mutò in canapa perchè femminile, come passò in canapo in quanto è maschile; così so7xe come maschile va in sorcio, quale per es. salce in salcio^ dove Tassimilazione non può avervi che fare. Quanto ad esente per esento credo sia piuttosto da vedervi 'f influenza de'participi in ente e segnatameme di presente ed assente, col quale ultimo venne anche talvolta a confondersi di significato, comesi può vedere per l'esempio citato nel vocabolario.

A pag. 107 considera come etimologia popolare e conse- guentemente erronea il tener novanta per derivato da itove e non da nonaginta. Io non so che cosa pensi il popolo circa l'origine di novanta^ ma ben credo che i dialetti, i quali come il toscano, il siciliano, il genovese, il roma- gnolo ecc. dicono novanta, abbiano veramente rifatte questo numero da nove per ridurlo cosi all'analogia degli altri nu- meri di decina fondantisi tutti sul cardinale e non, come anormalmente il lat. nonaginta insieme col gr. èvevnKovra, sull'ordinale. Di nonaginta abbiamo un riflesso materiale non solo in nonanta, proprio del provenzale e di vari dialetti itahani, come il nap., ven., boi. (nunanta), parm. ecc.-, ma eziandio in noranta del mil., piem., sardo, cat. ecc., dovf

394

« passò in r, come per es. in fiumara per ^umana^ sche- ranr^ia per schinani{ia^ ecc. Novanta adunque viene propria- mente da nove ed è una specie di correzione operata dal- l'istinto popolare sull'anomalo ìionaginta latino per '»o- vaginta.

A pag, 141 trae risi pel a o riaipola da rosi fella quasi a significare pruder di pelle^ mentre è troppo chiaro che viene dall'equivalente greco erysipelas^ con aferesi del primo e, e passaggio del secondo in un o, come per es. in aìigiolo da angelo.

A pag. 143 vuole che gemere, gemicare in senso di stil-^ lare, trapelare vengano dal lat. humere, mentre è molto più verisimile che siano dal lat. gemere^ che confondendo poi il suo significato con quello di lacrimare^ venne, come questo verbo, a significare figuratamente ^occzo/4?'e, stillare. Quindi è che trovasi detto dagli scrittori cosi geniojio come lagri" mano le viti. Da kiimere ben puossi considerare come pro- veniente per es. il trent. umegar (humicare), trapelare, goc- ciolare.

A pag. 69 deriva il sardo ca rei ^.'t, secchia e remitiano cal- ^idrela dal lat. calces , bottiglia di piombo. Sarebbe stato meglio, parmi, citar per Temiliano, non già la forma deri- vala di cal:{idreln, ma la più vicina alla sua origine, cioè mod. calieder y boL cal^eider, romagn, cal^edar, secchia di rame, che gli eruditi emiliani, italianizzando in calcedro. derivano, non senza una qualche verisimigiianza, da un vo- cabolo greco, composto di xoXkó^, rame, e uòpia, secchia. Quest'etimologia che il Galvani {GIgss. Alod., p. 221) sembra attribuire al Parenti, era già stata messa avanti dal Mono- sini {Floris It. linguae libri IX^ p. 3o) più di ben due se- coli addiente (1604) e citata poi (i66c) nel Vocabolista Bo- lognese dei Bumaldi (O. Montalbani), p. 121. Questo nome s'incontra pure in qualche altro dialetto fuor degli emiliani, e il Voc. roveret. e trent. dell' Azzolini ne registra il dimi- nutivo in elio sotto le varie forme di calcidrel^ cai:{idrtl, ca-- cìdrel, ca\idrel, cracidrel^ cracidd.

A questi nostri dubbi ed appunti e.ìcuni altri potremmo an- cora aggiungere che rimandiamo a quando l'opera sarà pubbli-

- se- cata per intiero; e conchiudiamo a ogni modo con dire che di questo lavoro del signor Caix debbono rallegrarsi e sapergli grado quanti si occupano di cosi fatti studi, come di lavoro che gioverà certamente non poco ad illustrare la storia della lingua e dei dialetti italiani.

La Rivista di Filologia Romania ha per iscopo, secondo già si può presumere dai titolo, di occuparsi delie lingue e letterature romanze, sicché es^a «i conterrà, per servirmi delle stesse parole dei proemio (p. 8), monografie sugli idiomi, sui dialetti e sulle letterature neolatine-, osservazioni, appunti cri- tici, materiali per nuove edizioni e descrizioni di manoscritti; una rassegna delle opere più importanti e dei giornali che si occupano di fìlologia romanza-, e in ultimo un cenno compendioso di tutte quelle notizie che direttamente o indi- rettamente si riferiscono alla vita esterna degli studii me- desimi ». La natura di questo giornale è pertanto analoga ai periodici che già si pubblicanp oltremonti, come per es. la Romania, la Revue de langucs romainesy il Jahrbuch fur Romanische lilUraiur, ecc., ed era assai naturale che an- che in Italia, paese essenzialmente romanzo, un giornale cosiffatto si pubblicasse.

Del contenuto di questo primo fascicolo è già stata data no- tizia sommaria sulla coperta del nostro giornale; sicché noi qui ci limiteremo ad alcune osservazioni, riguardanti principal- mente questioni di grammatica storica delle lingue neolatine, e più particolarmente dairitaliano.

E cominciando perciò dagli appunti, la più parte assai giusti, che il Canello fa sulla Grammatica storica del Die^ della lingua italiana corretta e compendiata da quella del Diez per opera del Fomaciari (p. 67 e segg.), noterò anzi tratto come si possa ben dubitare se lavoro sia, come vuole il Canello, novamente foggiato dal verbo lavorare e non piuttosto un nome riflettente il lat. laborem^ trasportato, sotto rinfluenza del gen. maschile, alla seconda declinazione, come per es. povero {pauperem\ passero (passerem), ecc. L'equiva- lente romanesco lavare non può non essere il lat. lahorem\ e non par verisimile che questo nome, mantenutosi presso

- 396 -

i Romani, siasi estinto negli altri dialetti deiPItalia media e meridionale, per derivarsi novamente dal verbo lavorare^ laborare^ già proveniente esso stesso dal nome laboì\

Il Ganello ( p. 58 ) considera ancora come novamente foggiato dal verbo furare il nome furo, che il Diez tiene come procedente dal lat. fur. All'opinione de! Camello oste- rebbe il significatQ di furo che, come personale e presen- tante un nome d'agente, verrebbe a fare eccezione a cosif- fatti nomi derivati novamente da temi verbali, i quali espri- mono l'azione o l'astratto. Se furo signifìcasseywr/o(eilsardo ne ha appunto una derivazione dal verbo nella forma femmi- nile di fura^ furto, rapina), si potrebbe ammettere la de- duzione del Ganello. Adunque circa furo procedente da furerrty come per es. ghiro da glirem, non si potrebbe, se- condo me, accampare altro dubbio che questo; cioè se Vk.furo non potesse per avventura procedere dal nominativo di un latino volgare furOy furonis come ladr^? da latro, latronis^ strambo da strabo, strabonis ecc. Il latino furunculus per ladroncello, che abbiamo in Cicerone, rende non invero- simile l'esistenza di un antico furo [furori-), a cui sta- rebbe furunculus , come per es. a latro latrunculus, 11 sardo (mer.), che ha conservato la forma diminutiva diy«- runculu coU'apocopatoywrMwcw, ne conserverebbe pur vivo il primitivo /«rowe (log.), furoni (mer.), ladro, che s'incontra d'altra parte anche in antichi scrittori toscani, sicché ///ro e furone verrebbero per avventura a darci una doppia forma di un romano vo\g3.vefuro,furonis, quale abbiamo in ladro, ladrone, falco, falcone, ti:{io, ti:{ione, ecc. (i). 1 dialetti

(i) A questa sorta di doppioni , o coppiole, che vogliamo dirli, oltre la serie presentata dai D'Ovidio a p. 58 e segg. dell'opera di cui si parla a p. 89 e segg. di questo giornale, e i quattro ivi da me aggiunti (V. p. 99), il Tobler, nell'articolo da me citato a p. 268 , aggìugne: podestà , podestà ; deca, decade; curato, curatore; da:[io , dat^ione; prefapo , prefapone ; vnajesta , maestà, risurresso, risurre- !(ione; ingratitudo, ingratitudine; imago, immagine ^ turbo, turbine; passio, passione; sta^:;o, statone. Alcune di queste forme, non essendo volgari, ma letterarie, potrebbero eliminarsi come latinismi ; tali sono principalmente ingratitudo, imago (citata anche dai D'Ovidio) e turbo;

997 - deirEuropa occidentale serbano furone rei senso già dato da Isidoro ad un lat. furo, cioè quello dell'it. furetto che sta- rebbe allatino/«ro come falchetta a falco. Il nome /«ro (furori-) in senso di ladro s'incontra ancora nella media latinità.

NelTariicolo del Canello avente per titolo S/on'a di alcuni participii, a pag. io leggesi : « Il lat. amassent dovrebbe essere diventato in italiano amasseno come si trova in an- tico. Ora noi diciamo talvolta amassono e più spesso amas- sero. Donde ciò ? Gli è che amasseno aveva un fratello mag- giore in amarono, che è il lat. amariint per amaverunt ; e per un^analogia facile a capirsi, la desinenza d'una forma fu accomunata all'altra «.

Lasciando stare la questione della primogenitura dei tempi o dei modi o delle forme che qui si voglia intendere, e che ci discosterebbe troppo dalFargomento, noterò primieramente

la quale ultima voce viene perciò dal Buri chiamata vocabolo di gram- matica. Quanto arisurresso, forma corrente presso gli antichi Toscani, che dicevano pasqua di risurresso per distinguere la pasqua propria dalla pasqua rosata (pentecoste), dalla pasqua di natale, e da altre feste, a cui davan pure il nome di pasqua , piuttosto che tirar questa voce da resurrectio, che avrebbe dovuto dare fonologicamente risur- re^io o risurre^o, o risurreccio, io credo che la si debba derivare da resurrexi, primo vocabolo dell'introito della messa pasquale. Quindi è che presso gli antichi abbiamo anche, con forma più prossima alla la- tina, pasqua di resurressi (Passavanti, G. Villani, ecc.), e negli antichi statuti sardi di Sassari la pasqua è chiamata sa festa de resurrexi. Così pure, dalle due prime parole dell'introito quasi modo, i Francesi chia- marono dimanche de Quasimodo la prima domenica dopo pasqua , e fors'anche ne venne lo squasimodeo dei Fiorentini E i cacciatori te- deschi con quattro voci iniziali d'introiti delle domeniche della qua- resima [reminiscere, oculi, laeta^e^judica) indicano quattro pt:riodi del regresso che fan ie beccacce verso primavera. Ai più al più potrebbe considerarsi la forma in o di resuresso e resurressio introdottasi dagli scrittori sotto l'influenza del nom. resurre ctio ; mentre a quella di resurressi sono verisimilmenie dovute l'ortografia di resurressione pei resurrepone , che s'incontra in qualche antico , e forse anche la sin- golarità del tema verbale di resurressisse e resurressiio (per risorgesse. risorto), che si leggono la prima in testi del Cavalca (Atti degli Ap.). e la seconda nell'Alighieri [Vita nova).

sys come amarono e amassero presentino due forme troppo di- stinte perchè possa dirsi Tuna essere stata deierminara dai- Taltra. La pretesa inrluenza di amarono terminante in no avrebbe dail'un canto potuto contribuire forse piìi alia con- servazione del finimento no dìamasseno che non alla sua mu- tazione in ro. Credo perciò che laverà scona delie varie forme tiessionali della 3' pers. plur. deil'imperf. del soggiuntivo sia da guardarsi sotto un altro aspetto. Amassent ha il suo più normale rappresentante ndVamasseno^ proprio essenziai- mente delfant. pisano, lucchese ecc. , e, salva la modifica- zione à'e in o,, ntlVamassono^ tacessono^ leggessoìto, sentis- sono dell'antico fiorentino, ciie prima del 1 5oo passarono poi in amassino , t acessino, hggessino, senti ssino ^ forme an- cora oggidì proprie non solo del fiorendno, ma anche di altri dialetti italiani, come per es. dei romanesco; mentre d'altro iato alcuni voìgari cambiando n in r, fecero^ come per es. il sanese, amassero^ tacessero^ leggessero, sentissero, e altri, come per es. Tantico pratese, mutando anche e in 0, ebbero amassero,, tacessoro^ leggessoro , sentissoro. Ora è da notare che i dialetti i quali ebbero ne'primi tempi storici la forma del perfetto in arono^ come per es. il fiorentino che disse primamente amarono, poi amorono, poi amorno, poi finalmente, come ancora oggidì, amorino (i), sarebbero appunto nel numero di quelli che non ebbero la forma in -assero . dal Canello attribuita airinfluenza di amaronOf mentre alllocontro il sanese che non aveva il per- fetto in -aì'onoj ma in -aro, come per es. amaro, ebbe la forma dell'imperf, sogg. in -assero, onde amassero ecc. Non vado oltre su questo campo, bastando, mi pare, quest'av- vertenza per dmiostrare che la forma amassero per amas- seno non è dovuta all'influenza di amarono, ma verisimil-

(i) Questa uscita in. -onno per -arono era ancora del unto ignota al fiorentino d'intorno al i3oo, e lo fti poi sin verso il secolo XVI. Quindi è che Dante, usando nella Divina Commedia termìnonno ( Par.

xxvjiu To5) per ierrnituirono , come pure uscinno {Jnf., xiv. 45) per uscirono.., adopera foririe non già fìoreiìiint', raa pisane, liprovate ap- punto coinepisani.srnì nel trattato: Da Vidgari eloquio (I, i3).

sgo- mente ad un mero fenomerio fc«ietìco, cioè alla mutazione di n in r, quale abbiamo come per es. in Ringherò (Zin- gano), tanghero (tangano), cecero {;^ cicinus. cicnus) ( i), Capo Passavo (Pachynus), ecc.; mutazione che, quando in questo caso particolare si volesse considerare come subordinata a principio d'analogia, sarebl>e piuttosto da recarsi , non g)à a forme come amarono-, ma a quella principalmente dei verbi di terza in éro^ come v. gr. lessero^ vissero, fe- cero, ecc. che sono appunto le proprie dei dialetti aventi le forme de'.rim.perfetto sogg. in -assero^ -essero, -mero, sicché per es. sanese lesstiro e amassero , sic. intisiru ( in- tesero) e amasstrii, tcc^ mentre il fiorentino il quale, come già fu notatOj nonostante gli sia proprio un antico a.»?iarowo, disse sempre amassono od aniassino , ha poi nel perfetto della

(i)Da cicinus, ma non da cicer, come vorrebbe il Diez [Gr. P, 37; Et. W. P, 121). L'epentetico cicinus da cicnus è foi-roa amica del vol- gare romano quando pur non si voglia ieneriacol Ritschì come propria della lingua di Plauto (v. Op, PhiL II, 477 e segg. ; Corssen, ,4w5:i-/>r. 1*. ■Ì67}. Dato come non infrequente il passaggio di n in 7', la fornna cecero da cicinus si rende assai ovvia nei tiorentino per la l'5gge essen- zialmente propria tal dialeiio, in oSi la vocale postonica dinanzi a r semplice passa in e, sicché, verbigra^ia : e =^ a in baccherà, cappero, gambero., '{ucchero, Gaspero^ La^^ero ecc.; i ij") = e in diaspcro [ja- Spidem), dattero (dactyliis) ; e- = 0 in albero {arborem). elhero (elboro, elleboro]:, fenomeno che il fiorentino estende anche alla vocale proto-" nica seguita da r, semprecchè essa vocale non sìa nella prima sillaba della parola, onde per es. margherita, Liperata {Reparata)y botnberaca (per bombaraca, gomma arabica ), laberinto {labyrinthus) , porperino (ftutogr. d. Tesi, del Boccaccio) , per porporino , ecc. Anche la cosi condizionala vocale epentetica è sempre e; quindi canchero, aghero, magherò, pighero, Nó/eri, sopperire, raverustico, ecc.. per cancro, agro, magro, pigro (*), Nófri (Onofrio), soppn're [supplere], ravrusiico (da labrusca). Così di questa legge, essenzialmente propria del fiorentino (e già del latino), come della contraria, prevalente nella massima parte dei dialetti italiani, onde la dinomi'a fonetica: er = ar, ar >= er, tratterò assai minutamente ed ampiamente in una monografia che uscirà ael già citato ylrc/tjv. Glott. It. dell'Ascoli.

(*) L'epcntjo\^^ daìVe di canchero, a^hcro, magherò ,pif^hero, proceduli da cancro, agro, magro, pigro, e non già dal n<.:pinativo cancer ecc., viene «t- teslata dal precedeutc sucmo guUurflle, che altrimenti sarebbe palatale, come per es. in acero, non achero, da accrum.

400 -

tenia le forme in -uno, onde per es. lessorio, vissono tee. e più tardi lessano, vissano ecc., sicchc possa dirsi generalmente esistere tra la terza pers. pi, del perf. ind. e quella deirim- perf. sogg. un parallelismo rappresentato da ;- =:: r (per es. san. cadd-ero, cadess-ero), n ^=:: n (per es. fior. cadd-onOy cadess-onó).

Quanto a forme verbali che presentano ancora la muta- zione di n in r, quali per es. sediero [Purg. II, 49) per sedietio , fiero per Jìeno, essenzialmente proprio di Fra Gior- dano da Ripalta e altre, noterò ancora come in vari codici, così danteschi come d'aitre antiche scritture, d'origine o fio- rentina o, comunque, toscana, s'incontrino per es. le forme volgor per volgon, andavar per andavan, devar per devan, tornir per tornin, ecc. donde apparisce chiara una tendenza popolare ai la mutazione di n in r.

ivi, pag. ló. Non ciedo ohe il sost. compito venga dal lat. compiere e sia come una forma participiale di compiere. E più probabile che compito sia da computus , coìnputare, e così d' una medesima origine con conto. Quanto a\Vu mutato in i confrontisi con compitare , che non può esser altro che computare Quanto alla connessione logica no- terò che propiiameme compito significa lavoro assegnato, misurato, calcolato, computato.

Ivi, pag. 12, il Canello deriva il prov. JóJt:^, giaciglio, dalla forma jacitum. Questa voce provenzale risponde in- vece ad un organico tema nominale jacio^ jaceo-, derivato da jacerCj e a taie forma di tema si connettono pure il nap. jaiio, sic. jai^u. geo. giassu, piem. giass (i). Il vocabo- lario italiano registra agghiaccio (giaciglio), di forma e di origine al tutto analoga ai precedenti, salvo il prefisso ad- {z=iad'jacio-) (2). Queste forme di nomi adunque starebbero

(i) Nei Promptuarium di Vopisco (Mondovì, 1564) dove sono regi- strate molte voci piemontesi con forma italiana, è « Giazzo, i. lettiera di paglia per li cavalli, siramen, Ovid. stramentum^ Var. ».

(2) Agghiaccio per un più normale aggiaccio , come per es ag- ghiettìvo per aggettivo.

401

al verbo jacére, come per es. contegno^ sostegno a conitnere, sustinere.

Ivi, pag. 17, allo spagnuolo miiebdo , antico participio, accennante ad un organico móvitum, sarebbe stato bene di aggiunger pure i participii nap. tnoppeto, sardo moffitu (ant.), móvidu (log.), móviu (mer.), móbidu (sett.), forme tutte che, al pari della spagnuola, accennano ad un prototipo movitum.

Noterò poi in genere circa questo scritto su forme parti- cipiali, come l'autore avrebbe talvolta dovuto per avventura riferirsi a prototipi, non già participiali, ma sostantivali e di ben altra origine, voglio dire ai nomi formati, non già come il participio per via del suff. ariano ta (lat. -to, -so), ma si da un suffisso originario tu (lat. -tu, -su), come per es. nei sost. vomitus, fremitus, geimtus, rediius, habitus, Jructus, pas- sus, defectus, Jlitus, gressus , in una parola, per dirla empiricamente, tutti quei nomi c\iq terminando in latino il lor radicale in tu-{su-)^ vengono ad essere non della se- conda, ma della quarta declinazione, alla quale forma viene pure a connettersi il supino, non avente punto a che fare col participio-, e allora a questa forma, piuttostochè alla par- ticipiale, avrebbe dovuto più risolutamente connettere, verbi- grazia, premito^ gèttito, ansito, bàttito, a cui aggiungerò tremito, del quale il Canello non parla, ma che è di forma- zione romanza, od almeno non attestato dal latino degli an- tichi scrittori, e che sta al lat. fremere, come fremitus a fremere In un solo caso accenna il Canello a questa forma, citando (p. n, n. 3) i sostantivi motus, cursus, cubitus, che egli però erroneamente confonde coi sostantivi participiali, che sono generalmente neutri (p. e. dicturn) e non di rado femminili (p e. offensa) e appartengono solo, come il par- ticipio, alle due prime declinazioni.

La nota filologica concernente un luogo della Vita Nova si riferisce a quel passo del § 2, dove è detto: «« A Ili miei occhi apparve prima la gloriosa donna della mia mente, la quale fu da molti chiamata Beatrice , i quali non sapeano che si eh amare ». In queste ultime ppTole che sono va- riamente mterpretate, il Caneilo crede di vedere sotto la forma di chiamare non già quella di un infinito, ma si una

- 402

sporadica forma verbale, derivata dal perfetto del soggiun- tivo, e procedente quindi foneticamente da damarint [da- mavcHnl). la appoggio della quale opinione t;gli cita più luoghi della cronaca mantovana di Aliprandino Bonamente (Muratori , Ant. It..^ v) , in cui veramente s' incontrano mohe fonr.e rispondenti a quelle deirinfinito, ma che hanno manjfestaniente valore ben altro che d'infinito, onde per e. usarti per usava, pigliare per pigliava^ dominare per domi- nava , stare per stava, partire per partirono , gire per girono t compilare per compilasse, ecc. Queste forme pei Ganeiio rappresentano tante alterazioni del tipo del perf, del soggiuntivo , sicché per es. dominare per dominava verrebbe da dorninarit tee. , ragionare per ragionavano da rationarint qcc. E perciò egli considera quell'ultima parte del citato luogo della vita nuova come rispondente letteral- mente a qui nesciebant quid sic damarint^ che poi finirebbe per dare un senso difficile a capirsi, cioè i quali non sape- vano che cosa così abbiano chiamato.

Ora a me pare strano che il perfetto del sogg. sia venuto a dar questa unica forma in re, serviente pei due numeri, per piià tempi e modi, e anche per più persone , tanto che si trovi pure usata pel presente dell'indicativo, come per es. nei verso, dal Ganello non avvertito: A una città che Man- tova se dire (UH, B) ^ cioè si dice, si chiama, lo credo piuttosto che sia qui il caso di vedere nell'infinuo cosi ado- perato una, com'oggi direbbero, forma di ripiego, cioè una commoda forma di applicazione generale, secondochè si udiva già una volta usare dai lanzichenecchi parlanti ita- liano, ovvero come si usava e usasi tuttavia nella così detta lingua franca de^li scali di Levante.

Noi crediamo pertanto che il chiamare sopracitato di Dante sia una vera forma d'infinito quale si usa con valore onnipersonale di soggiuntivo, come per esempio non so che mangiare (nescio quid edam), non sapevano che si fare (nesciebant quid agerent)^ non so come chiamarlo (nescio quomodo vocem illum) , non so dove andare, a chi rivolgermi, non ho che fare con lui, ecc.; e interpretando perciò analogicamente il controverso luogo non si può in

408

quel chiamare non vedere un infinito con senso soggiun- tivo: i quali non sapeano che si chiair.asscro , chiamando Beatrice, cioè con quale e quanto nome chiamassero, ossia, per servirmi dell'acconcia interpretazione del prof. D' Anconstj citata dallo stesso Canetio: •< ignoravano quanto directamente appropriassero alla fanciulla questo nome significativo , che !e davano senza pesarne il valore ». Che Dante usasse por mente al valore etimologico delle parole Io prova ia terzina: O padre suo veramente Felice, O madre sua veramente Giovanna, Se interpretata vai come si dice.

{Purg. XII, 79-81).

E al valore etimologico di Beatrice, nome proprio, allu- deva anche il Petrarca quando diceva nella canzone alia Beata Vergine : Nelh tue sante piaghe^ Prego che appaghe il cor, vera Beatrice.

Notevoli soprattutto fra le pubblicazioni di questo fascicolo ci paiono gli Studi sopra i Can^oniei^i proven\ali di Firenze e di Roma, di cui lo Stengel pubblica qui solo una prima parte, preceduta da considerazioni riguardanti principal- mente r importanza della letteratura provenzale , e i varii lavori fatti sin qui ad illustrazione di essa. Fra le poesie che qui si recano (pp. 32-45), cavate dai codici fioren- tini, hawene alcune inedite-, e tutte poi, quali più, quali meno, presentano pregevoli varianti, come segnatamente la novella del pappagallo, notevole non solo per varietà di lezioni , ma anche in genere per carattere più semplice ed antico, donde, secondo lo Stengel, si potrebbe fondata- mente argomentare che questa forma sia quella che più si accosti air originale. I testi qui pubblicati sono accompa- gnati da \-arianti e confronti che danno a questo lavoro un carattere al tutto critico, e che gioveranno assai alla resti- tuzione della lezione originale.

Quanto al documento in dialetto sardo dell' anno Ì173 che io Stengel qui pubblica (p. 53), credendolo inedito, vo- gliamo notare come esso già fosse dato fuori dal Tronci negli Annali Pisani, e ristampato dal Tola nel primo volume, p. 243, del Codex dipi. Sardinice {Hist. P. Mon.), nel qual

- 404 -

volume vennero, come era ovvio, pur ristampati non solo i documenti sardi , pubblicati dal Muratori nelle Ant. Ital.^ voi. li, ma anche gli inserti dal Manno nel voi. Chartamm della stessa raccolta degli Hist. Patr. Mon., che lo Stengel mostra credere impressi una volta sola. Dob- biamo ad ogni modo essere grati allo Stengel di questa sua pubblicazione, in quanto la lezione è di gran lunga più corretta che non nelle stampe precedenti. E poiché siamo in sul parlare di documenti sardi . vogliamo credere di non commettere indiscrezione, annunziando agli amanti di questi studi , come si stia preparando una critica edizione di tutti questi indubitatamente genuini documenti di antico volgare sardesco, molti inediti, i quali, mentre gioveranno da un lato lo studio storico dei dialetti di quell'isola, po- tranno forse anche aiutare il risolvimento della quistione circa le oramai celebri carte d'Arborea.

Ristringendo a questo tanto i nostri cenni ed osserva- zioni intorno al primo fascicolo della ^vista di Filologia romanza, concludiamo esprimendo il desiderio che possa incoPxtrar favore presso gritaliani questo giornale, il quale prendendo principalmente ad illustrare il primo periodo delle letterature neolatine e segnatamente deiritaliana, viene cosi a compiere una gran lacuna nel campo della cultura nazio- nale. E che intanto sia da bène augurarsi circa l'avvenire di esso, argomentiamo, così dal complesso della presente puntata, come dall'annunzio di alcuni fra gli scritti che usciranno nei fascicoli seguenti, riguardanti, tra l'altre cose, antichi documenti di prose e poesie italiane.

Torino, gennaio 1873.

r LEGHI A.

Compiamo un caro dovere rendendo grazie slncerissime per le lodi onde ci volle cortesemente onorati ,alla Zeitschrift filr gymnasialwesen, diretta a Berlino da quell'uomo autorevoiissimo che è il prof. Bonitz.

Pietro Ussello, gerente responsabile.

- 405-

L'AUTORE DEL POEMA LAVDES HE%CULIS.

I tesori letterarii conservati nelle biblioteche italiane non sono anche al giorno d'oggi perfettamente conosciuti ed ancora sempre avviene alPaccurato indagatore, cui è con- cesso di potere fare ricerche in quelle raccolte, d'imbattersi per un caso felice in codici di cui s'era perduta la memoria, od anche in tali che sono perfettamente sconosciuti, e di poter rispondere col loro aiuto a quesiti filologici, della cui solu- zione poc'anzi si disperava per mancanza della tradizione manoscritta.

Un esempio di tal fatta ci offre il Codice Veronese da me ultimamente tratto in luce, il quale, per tacere ora di altre cose, è della massima importanza per poter decidere, chi sia l'autore del poema intitolato: Laudes Herculis.

Questa poesia, che si trova stampata nt[V Antologia di Alessandro Riese, sotto il 88 1, si legge per lo piii nelle edizioni di Glaudiano senza nome d'autore, dacché per la prima volta fu pubblicata da Giovanni Camers nella sua edizione di questo poeta (i). Il Camers istesso lo aveva senza esitanza stampato sotto il nome di Glaudiano (2); ma sic-

(i) Vienna, i5io.

(2) Nell'edizione di Camers leggesi : Quae Joannes Camers Ordinis Minorum addidit, nondum antehac impressa :

Claudiani laus Christi - Proles. Claudiani miracuia Christi - Angelus. Claudiani laudes Herculis - Pieridum. Claudiani in Sirenas. - Dulce.

"Hi vista di filolosia ecc., I. a8

- 405 - come le posteriori generazioni che s'occuparono della seriore epopea romana non trovarono una tradizione manoscritta di questo carme, pare che avessero qualche dubbio sull'au- torità di Camers. Già TEinsio, che fece le più minute indagini per rinvenire un codice di questo poema , fu co- stretto a confessare essere stata infruttuosa tutta la sua dili- genza. E siccome dopo Einsio' non sono mai più state fatte estese ricerche concernenti i codici manoscritti di Claudiano e dei suoi contemporanei , così questa poesia nelle edizioni posteriori fu sempre ripetuta come anonima.

Soltanto poco tempo fa sono riuscito, come di sopra ho accennato, a ritrovare un codice del poema di cui discorro, aiutato dalla squisita cortesia di Monsignore di Giuliari, prefetto della Biblioteca capitolare di Verona. E questo il Codex Veronensis CLXIIl, del secolo IX, di cui ho dato le prime notizie in uno scritto pubblicato per dare il ben- venuto ai filologi tedeschi, riunitisi a congresso in Lipsia nel 1 872, col titolo (c De Claudiani codice Veronae nuper reperto commentatio critica », pp. 43-54 (i).

In questo codice ci è tramandato il nostro poema sotto il nome di Claudiano (confr. l. e. p. 47), dacché pona il titolo: Eiusdem (cioè Claudiani) laus Herculis. Essendo in tal modo dimostrata la buona fede del Camers ed evidente che solo per mancanza di tradizione manoscritta il poema venne sempre pubblicato come opera d'ignoto scrittore, non esitai a nuovamente attribuire le Laudes Herculis a Clau- diano (l. e. p. 47 e segg.).

Contro questo mio procedere si è decisamente dichiarato Emilio Baehrens nella sua critica dei due miei lavori che sono intitolati: Quaestiones criticae ad emendationem Clau- diani, Numburgi, 1869, ^ ^^ Claudiani codice^ ecc., critica

(t) Confr. Rivista di Jilologia, I, p. 33o e segg.

ion - inserita nei Neue Jahrbùcher fur Philologie und Pddago- gik^ herausg. von Fleckeisen und Masius, 1872, p. 499 e segg. L'opinione sua, contraria alla mia, merita tanto più di essere esaminata, in quanto che è espressa da un filologo che si è già fatto conoscere, per diversi suoi lavori nei giornali filologici della Germania, come conoscitore delia latinità seriore, e ci promette una nuova edizione dei Poeti latini minores e àoìV Anthologia latina, lavori che devono uscire dalle officine del Teubner.

Per il Baehrens non esiste adunque alcun dubbio*, se- condo lui Claudiana non è l'autore delle Lodi di Ercole (confr. 1. e. p. 504). Ma io non posso cosi senz'altro am- mettere le ragioni, che lo hanno condotto a tale conclusione che è così recisamente pronunciata da lui.

Consideriamo innanzi tutto la tradizione manoscritta. Già da quanto sopra è detto intorno air origine deiranonimità del nostro poema risulta , che V opinione proviene da un pregiudizio, che a vero dire data da secoli^ quello cioè, che il Camers non sia buona autorità in ordine ai codici mano- scritti da lui adoperati. Questa ragione apparente scompare per la scoperta del Codex Veronensis, e si dovrebbe credere che così la questione sia terminata. Eppure il Baehrens, colla scorta delle ricerche da me istituite intomo all'istoria dei Codici di Claudiano, tenta di combattere in favore dell'antico dubbio sull'autenticità del poema. Ei mi rimprovera (1, e. pag. 5o2 e segg.) che io non abbia , dopo aver dimostrato essere perfettamente uguale l'autorità del codice G (Gyraldi- nus)<t la cui copia è conservata a Firenze, e del codice O (che è il Veronensis) (1), anche discusso il quesito, se la

(1) Devesi qui trattare questo quesiio, perchè le Laudes Hercvlis formano uaa parte della tradizione Ciaudianea e perciò il giudizio sulla tradizione di quelle essenzialmente dipende da questa. Il codice G è andato perduto, ma risulta da quanto ci fa conoscere Gyraldus, dagli

408

classe dei codici <t) G direttamente risalga al codice origi- nale di Claudiano, ovvero se per avventura non abbia una fonte comune, che dovrebbe essere poi anch' essa subordi- nata a quel codice originale. Quest'ultima è T opinione del Baehrens, argomentando egli come segue: G contenei'a una parte del poema « Aetna », per lo più conosciuto sotto il nome di « Fragmentum florentinum » (i), di cui non si trova traccia nel codice 0 ; e questo alla sua volta contiene le « Laudes Herculis^ De phoenice » ecc. di cui non v'e orma in G. E ciò ci conduce necessariamente per la classe O G alla genealogia seguente:

Codice Originale

1

[y]

/ \

G O.

Secondo questa opinione il poema Aetna sarebbe in G aggiunto indipendentemente da un copista, ed in modo uguale, indipendentemente in 0 le Laudes Herculis.

Se vi fosse la menoma probabilità, che la cosa stesse in

Estratti fiorentini nella biblioteca nazionale (Magliabecchiana, Claudiani eiitio princeps, segnata A. 4. 36), e specialmente dal fine della copia dell'avanzo di quel codice G ne! Cod, Mediceus, Plut. xxxni, cod. ix, che questo codice G è stato di gran lunga il migliore di tutta la tra- dizione claudianea. Confr, Ritschl, Acta, p. 348, 2. A questo codice dobbiamo adunque qui ritornare in modo particolare.

(i) Anche questo frammento è, come si sa, il brano più considerabile fra i codici del poema soprannominato. Rimane dubbio, se il Gyraldus abbia mai trovato e copiato per intiero questa poesia. Non ne danno sicurezza le sue parole nei Dialogi de lat. poetis IV, come io altra volta opinava, negli .4cfa di Ritschl, p. 354. Probabilmente il Gyraldus copiò quella parte soltanto, che noi conosciamo come estratto dal vecchio Ernstius, estratti per la prima volta e perfettamente adoperati da Mat- THiAE nella Neiie Bibliothck der freien Kiìnste und Wissenschaftert , 59» pag- 3"' 5.

409 questi termini, vorrei concedere, che Veiusdem dei codice veronese non abbia ad avere gran valore per decidere chi sia l'autore di quest'ultimo poema.

Ma è evidente che la cosa sta altramente. Il codice G con- serva P ordine primitivo delle poesie , che conosciamo me- diante il codice fiorentino. Di ciò ho già fatto cenno nel Museo Renano (1872, p. 622), in appendice al mio scritto sui Codici del Ratto di Proserpina di Claudiana (confr. gli Ada societatis philologae ed. F. Ritschl^ I, p. 345). Se adunque il frammento dell' Aetna si fosse trovato alla fine del codice G, si potrebbe per avventura parlare di ag'r giunte, a cui non conviene dare troppo peso^ ma siccome si trovava veramente nel bel mezzo di esso, come rileviamo dal manoscritto fiorentino, in cui a vero dire è ridotto a se- dici versi, non si può parlare d'aggiunta, ma il poema deve avere fatto parte della serie originaria delle poesie di Clau- diano, dacché sarebbe veramente inesplicabile , come tutt'ad un tratto lo troviamo in mezzo ad esse.

Del non rinvenirsi questo- poema negli altri numerosi co- dici manoscritti di Glaudiano ho parlato già negli Ada di Ritschl, I, p. 378 e segg. spiegandolo, a mio parere, in modo conveniente.

Ho detto ivi , che il codice originale di Glaudiano aveva ventinove linee pver pagina, in modo che la nostra poesia occupava tre pagine, e che perciò bastava un procedimento affatto meccanico perchè scomparisse per sempre dai ma- noscritti. Il calcolo istituito da Baehrens appare adunque infondato riguardo al codice G.

Vediamo ora come stia la cosa per ciò che spetta al ms. d).

Innanzi tratto la mancanza del frammento dt[VAet?ia nel Codice 0 non può nulla decidere intorno alla provenienza di esso, perchè il frammento in discorso originariamente si trovava prima delle poesie minori di Qaudiano, che sole si

- 410 rinvengono negli avanzi del Codex Veronensis, ed inoltre per lo più in ordine arbitrario. Non si può assolutamente dire, se si trovasse nel Codex Veronensis^ quando fu intero, ov- vero nella fonte da cui deriva, principalmente eziandio perchè questo manoscritto anche in tempi anteriori era già mutilo, come in altro luogo dimostrerò. Ma per ciò stesso non è lecito argomentare dall' esistenza o non esistenza di questo frammento nel codice alcunché sulla relazione di parentela in cui questo si trova con altri codici.

Nel medesimo tempo risulta dalla ricerca da me fatta [De Cod. Veron., p. 5i e segg.), che <l> e G formano insieme una classe di codici in modo simile (i), come lo fanno anche il K(aticanus) ed i4(mbrosianus). Ma con ciò non concedo an- cora, che, come vuole il Baehrens, per 0 e G debbasi am- mettere la medesima fonte comune, che dev' essere subor- dinata al codice archetipo^ ma asserisco soltanto il fatto, che in questi due codici sono conservate le traccie d'una lezione più antica e migliore di quella, che ci offrono gli altri ma- noscritti e che per ciò stesso si distinguono G <t> come un gruppo particolare a confronto degli altri manoscritti.

La discussione da me ultimamente fatta nel Museo Renano (1872, p. 62V) ha dimostrato al contrario, e colla massima sicurezza, che fra G e ^archetipo deve aver esistito ancora un altro codice, quasi anello di congiunzione, il quale spiega certe arbitrarie trasposizioni-, ma non abbiamo alcun motivo per dire, che anche il codice 0 debba essere subordi- nato a questa classe, perchè ci manca ora quella parte del codice, in cui esse si trovano, se pure ha esistito, come

(i) Confr. pag. Sa: dubium esse non potest, quin codices <t) et G 5t- mili modo atque V q\A singularem classem constituant, quae quidem, ut in Quaest. crit. p. 20 seqq. demonstrasse videor, cum classe V A^d eundem librum archetypum revocanda sit. (F = Vaticanus, N. 2809, saec. XI; ^ Ambrosianus, M. 9, sup., saec. XIII).

411 Opina il Baeiìrens, e perchè T ordine delle poesie, del che ho già parlato, e poi specialmente il contenuto talmente differiscono dal codice G, che questa supposizione per me diventa illusoria. La stretta relazione fra G e 0 nelle singole lezioni è evidentemente dovuta soltanto a ciò che ambo i codici, l'uno indipendentemente dalP altro, sono, quanto al tempo, vicini all' archetipo. Il codice 0 non è poi creazione originale, e ce lo provano facilmente gli errori che contiene-, da questi rileviamo poi anche che fu scritto da uomo tutt'altro che erudito, il quale copiò quello che trovava nel suo origi- nale, egli non è il redattore d'una raccolta di poesie ed uomo capace d'inserire per avventura poesie, come la nostra intorno ad Ercole, per un motivo ragionevole qualunque.

Dunque di aggiunte senza valore fatte alla serie tradizionale delle poesie di Claudiano non si può menomamente parlare, anzi, esaminando attentamente i fatti, dobbiamo risoluta- mente asserire, che nel codice <t> ci sono conservate le Laudes Herculis che per antica tradizione sono unite colle poesie di Claudiano, della cui autorità non si deve dubitare, perchè mancano negli altri manoscritti, dacché 0 risale all'archetipo, ma indipendentemente da G. Se non volessimo più ammet- tere deduzioni di tal fatta, allora saremmo costretti a negare eziandio che il Raptus Proserpince sia opera di Claudiano, perchè questa poesia appare anonima nel codice Laurenziano (Plut. XXIV. sm., Cod. H2J, codice finora non raffrontato e in paragone del quale la grande quantità degli altri niano- scritti ha ben poca autorità, perchè essi nella massima parte dipendono da lui (confr. Ritschi., Ada 1, p. 364 e segg.). Ma siccome questa epopea è aggiunta al corpo delle opere di Claudiano, così è attribuita senz'altro a quest'autore, seb- bene la tradizione anche in questi libri sia separata. (Confr. RrrscHL, Acta l, p. ^5i e segg.).

Devo bensì ammettere, che poco sicura è la mia suppo-

412

sizione, che nel carme che porta per titolo « Laudes Herculis » manchino dopo il verso 91 precisamente cinque versi, e che lo stesso può dirsi del mio tentativo di distribuire su cinque pagine del sopracitato codice archetipo con 29 righe per pa- gina i 187 versi, ai quali iSy versi conviene aggiungere an- cora quei 5 versi e circa altri tre per lo spazio che occupava l'epigrafe (in tutto adunque 146 versi), e di spiegare così in modo meccanico perchè sia frammentaria la tradizione. Mi si concederà però, che altrettanto malsicuro è il tentativo fatto ultimamente dal Baehreqs (Jahrbiìcher f'ùr Phil. und Pàdag-. herausg, von A. Fleckeisen und Masins , 1873, p. 65) (i) di eliminare questa lacuna, od ammettere, che sìa di soli due versi, parendomi che la mìa congettura abbia il vantaggio d'essere piìi naturale e sia più conforme ad altri fenomeni nella tradizione di Glaudiano (v, più sopra^.

Alle ragioni fin qui esposte può aggiungerne una gra- vissima, voglio dire questa, che anche il Claverio nella sua edizione delle Lattdes Herculis conferma : « hoc poemation e vet. M. S. multis locis emendamus; sed in eolegendoparum voluptatis percepì mus: non quod nimium displiceat ; nihil enim gratius nobis contìngat, quam ea, quae venam. Clau- diani sapiant. verum facile deprehendimus , haec seni vel aegro v^l curis adflicto cxcidisse ». Da ciò rileviamo che quest'editore possedeva eziandio un manoscritto del poema, in cui si trovava conservato sotto il nome di Glaudiano. Non c'è ragione di sospettare qui del Claverio, come fa Einsio (confr. la nota al v. 81): « quem ille vetustum codicem in Carmine hoc castigando advocat frequenter, metuo ne Guiacianas coniecturas prò membranis nobis obtrudat )>,

fi) Egli scrive: « Vadis in itimensae scrutatwm devia si'vae In nova sanguineOs armantem vulnera rictus », vedendo un appoggio nel codice veronese, che omette dopo « Vadis » !'«» et », che si legge nelle edizioni.

- 413 - anzi questo sospetto è affatto gratuito, dacché sappiamo dairintroduzione al Claudiano edito dal Glaverio (i) che egli ha adoperato dei codici assai buoni lo provano le va- rianti spesso citate, e che questo aveva ricevuto dal Cuiacio, L'idea deli'Einsio è nata senza dubbio, perchè ai suoi tempi mancava qualsiasi codice del nostro poema. Il fatto che il codice del Cuiacio rimanesse nascosto alPEinsio ci può ancor meno far meraviglia di quell'altro , che il codice veronese, il quale allora si trovava probabilmente ancora nelle mani degli eredi dell'Asolano (confr. la prefazione di Gamers e Francesco Asolano, Venetiis i525) potesse sfuggire a quel celebre erudito, sapendo noi ora, che la memoria dei ma- noscritti del Cuiacio presto si era perduta-, per cui i timori di Einsio non devono destarei nostri sospetti. Le lezioni di Claverio ci dimostrano chiaramente, che il suo codice era differente dal veronese, cioè da 0. E ciò risulta evidente dai seguenti passi: v. 62 habebat O, Aldina] habeto Claverio; v. 112 gravato] gravidato ^ v. 118 celer] volans. È vero che in generale tali asserzioni non si possono fare con tutta as- severanza, atteso il modo poco preciso, con cui allora si ci- tavano manoscritti, ma siccome nel caso nostro il lavoro attinge le sue emendazioni ad un sol codice, si può certa- mente con ragione ammettere, che segue il suo codice quando s'allontana dall'antica tradizione data dairAldina.il verso 72 sembra d'altra parte dimostrare, che questo codice fosse parente del veronese, che m esso Claverio ci offre, come il manoscritto di Verona : w et aerios » mentre nell' Aldina leggiamo ; « aetherios ».

(0 Cum praeseriim apud Jacobus Cnjacium vinitn omnimodis illu- strem agenti duo Claudiani exemplana antiqua man a exarata se obiu- lerint, unde poeta, quem in osculis habtbat, convaluerit iam piane aut celle multo ininus aeger sit praestitus cet.

414 -

Ora, come sta il quesito relativamente alla poesia « In Si- renas ->, che il codice O ci ofifre ugualmente sotto il nome di Ciaudiano (confr. De cod. Veronens. eie, p. 46) e che nei secoli passati non si potè rinvenire in verun manoscritto?

Intorno a questo il Baehrens tace affatto. Deve essere ge- nuina questa poesia, sebbene per la tradizione sarebbe ugual- mente condannata, come le Laudes Herculis, e questui- time spurie? Noi vediamo che per questa parte Tidea di Baehrens è in aperta contraddizione con stessa.

Deboli assai sono poi le ragioni di lingua, che si vogliono far valere per provare non essere di Ciaudiano il poe- metto in discorso. L'unica osservazione di valore sarebbe v. 1 1 «postviscera (::rrpostviscera matris relieta) », ma che prova il preciso contrario, dacché è modo veramente clau- dianeo, come chiaramente lo prova Claud. in Eutrop. I, v. 46: a suscipiunt {sciL Eutropium) matris post viscera poenae » (simile è anche Claud. Rapt. Pros. 1, v, io5: « Te coii- sanguineo recvpìx post fulmina fessum Juno sinu »; l'uso del verbo « corripere », che per caso non si rinviene in Ciau- diano, non può in verità nulla provare prò o contro l'au- tore dei poemetto, essendo parola comunissima; la triplice ripetizione di esso (v. 67, 96, i35)ci mostrerebbe in quella vece che abbiamo dinanzi a noi un lavoro, cui l'autore non ha limato, tanto più che v. bj e g5 col « corripere » leg- giamo unito « grandia guttura », il che evidentemente ci indica aver scritto l'autore in fretta e non messa l'ultima mano al suo lavoro , nonostante la poca estensione del poema, che ora consta di soU i38 versi.

Il risultato sicuro della presente indagine è adunque il seguente: avendo finalmente ritrovata la tradizione mano- scritta del nostro poema non possiamo negare che sìa frutto della musa di Ciaudiano, se non vogliamo procedere nel modo più arbitrario contro una tradizione ben antica, che

415 -

risale a tempi non troppo lontani da quelli , in cui visse

Claudiano istesso, e trovarci così in contraddizione con i

più saldi principii d'una aitica metodica.

Possa questa piccola ricerca, oltre alla positiva notizia che

offro ai lettori intomo ad un quesito di letteratura romana,

servire anche a sempre maggiormente invogliare gli eruditi

italiani, che si occupano di studii critici e dimorano vicino

alle fonti, di fare profonde indagini nelle biblioteche italiane:

che certamente non poche cose simili a quella di cui qui

ho discorso si troveranno e per avventura anche di tali, che

abbiano maggiore importanza e che necessariamente, a meno

che non lo favorisca il caso, sfuggono al viaggiatore, il

quale solo poco tempo può fermarsi in una biblioteca,

mentre piij agevolmente le scopre chi pud consacrare molto

tempo alle sue ricerche. Se la filologia critica, che tutta

riposa sui codici, troverà tale aiuto nel senso più esteso e

perfetto, allora è certo che farà ben più rapidi progressi di

quelli che finora potè fare.

Lipsia, febbraio 1873.

D'^'^ Ludovico Jeep.

OSSERVAZIONI CRITICHE mtorno all'Argomento acrostico

^EL miLES GLO'I{rOSUS ^DI ^PLAUTO.

Chi si faccia ad esaminare con intendimenti critici il tenore e la forma delle due specie d'ArgomcJiti metrici che vanno innanzi alle comcdie di Plauto (i), non può governarsi con

(i) Questi Argomenti sono tutti distesi in trimetri giambici, e sono gli uni acrostici j nei quali le iniziali di ogni verso, lette di seguito,

41« - altre norme e tenere altro metodo che quello ch'ei si pro- pone di seguitare neir investigazione critica delle comedie stesse. Non già che quelle composizioni, fatte per comodità dei lettori e ordinate allo scojx) di dare un succinto conto dell'azione dramatica che si viene svolgendo in ciascuna co- media, si debbano riguardare per opera di Plauto, siccome mostra di credere il Linge nella sua operetta De hiatu in versibus plautinis , ma perchè l'autore di esse, chi che egli si fosse e in qual tempo vivesse (i), ne imitò con ogni diligenza la lingua e lo stile, onde ci troviamo quasi tutte le medesime voci e ì modi di dire é le regole del verseg- giare; e perchè questi Argomeoti corsero la medesima for- tuna appunto, e furono conservati per mezzo di quegli stessi codici in cui pervennero insino a noi le comedie Plau- tine. Ond'io pigliando a disconere dell'Argomento acrostico del Miles Gloriosus, nel disaminare che farò le varie lezioni che o s' incontrano negli antichi codici, o furono escogitate

formano il titolo della comedia a cui si riferiscono : gli altri non acro- stici, composii ciascheduno di i5 versi, se ne togli quello dell'Anfi- trione che ne ha soli dieci. Ora dei primi Argomenti, cioè degli acro- stici, ce ne rimangono 19 quello delle Bacchidi andò perduto insieme col principio della comedia —, degli altri, 5 soltanto pervennero in- •sino a noi, e son quelli dell'Anfitrione, dell' Aulularia, del Mercante, del Milite e del Pseudulo.

(i) Per assai tempo fu creduto che ne fosse autore Prisciano: ma il Ritschl giudica, e non a torto, che Prisciano non era capace di com- porre così bei versi (habuisset pro/ecto quod sibi congratularetur , si tam bonos trimetros facete ullo modo posset Proleg. pag. 3 17). Lo stesso Ritschl e altri con lui sono d'av\'is9 che questi Argomenti siano opera di qualche grammatico' vissuto nel secolo degli Antonini, quan- tunque degli acrostici pensano che possano anche essere stati composti al tempo del massimo fiorire degli sludi grammaticali in Roma , poiché allora, cioè nel settimo secolo di Roma, uomini dottissimi, come Licinio Porcio, Aurelio Opilio, Volcazio Sedigito, L. Azzio, e posero grande studio nelle comedie di Plauto e scrissero in versi. Del resto che già L Ennio fosse autore di acrostici, ne fa testimonianza Cicerone, De divin. II, 54, ni.

- 417- dai correttori, non mi discosterò punto dalle norme e dalle consuetudini della critica Plautina. E prima di tutto dirò che questa materia è già stata trattata con molta finezza e dottrina da Federico Ritschl in una particolare Dissertazione, stampata la prima volta neir Indice delle lezioni invernali deir Università di Bonn (i 841- 1842) e ora riprodotta nel secondo volume dei suoi Opuscoli filologici (pagg. 404-422). In questo scritto Tiliustre filologo viene raffrontando la le- zione vulgata di questo Argomento con quella dei mano- scritti, discute le correzioni proposte dai critici e ci addita egli stesso il modo di rassettare un buon numero di versi o guasti o sospetti.

Perchè si possa vedere a colpo d' occhio la differenza fra il testo tradizionale e quello datoci dal Ritschl, io riporterò qui l'intero Argomento, così come si legge nelle antiche stampe, sottoponendo a quei versi, che furono ritoccati dal Ritschl, la lezione da lui proposta:

Meretricem Athenis Ephesum miles avehit.

Id hero dum amanti servos nunciare volt

{Id dum ero amanti servos nuntiare voli) R.

Legato peregre, captust ipsus in mari.

Et UH eidem militi dono daiust.

[Et eidem UH militi dono daiust.) R. 5 Suum arcessit herum Athenis et forai

{Siium arcessit servos dominum Athenis et forai) R.

Geminis communem clam parietem in cedibus,

{Geminis communem scite parietem cedibus,) R.

Licere ut quiret convenire amantibus.

{Liceret ut clam convenire amantibus.) R.

Obhcerentes cusios hos vidit de tegulis,

{Oberrans cusios hos videi de ieguHs,) R.

Ridiculus autem^ quasi sii alia, luditur.

{Ridiculis auiem, quasi sii alia, luditur.) R.

- ns - IO Itemque impeliti tnilitem Palcesirio, Omiòsam faciat concubinam^ quando ei Senis vicini cupiat uxor nuhere: Ultra abeat orai, donai multa. Ipse in domo Senis prehensiis pcenas prò mcscho luti. Le ragioni che indussero il Ritschl a emendare nel modo che s'è visto alcuni dei riferiti versi, si posson leggere nella mentovata Dissertazione, lo mi limiterò a discorrere di quelle parti, nelle quali non mi sembra accettevole la lezione pro- posta dall'insigne filologo, e mentre esporrò i motivi che mi fanno discostare dai giudizi di lui, dirò pure quale mi sembri essere il miglior modo di racconciare i luoghi in questione. (Questi sono il verso 5", il 6% il j'' e TS".

Che la lezione dei verso, quale ci fu trasmessa dai Co- dici e dalle antiche stampe , sia guasta , ce lo dimostra senza altro la ragion del metro, il quale è imperfetto e manchevole. Ora il Ritschl volendo supplire quesra mancanza, suppone che nel manoscritto, da cui furono cavati gli esemplari che ora abbiamo, fossero cadute alcune lettere nel mezzo della voce erum che vi si legge ora, e che questa parola sia nata dal raccozzamento di due parti di distinti vocaboli che in origine dovevano essere ser\vos domiti\um.

Codesta supposizione è molto ingegnosa, ma poco proba- bile. Perchè ella avesse qualche fondamento, bisognerebbe, mi pare, che in alcuno dei codici sopravissuti si fosse con- servata almeno la lettera s avanti er; il fatto del leggersi in tutti erum o herum e in nessuno serum, ci consiglia in con- trario a mantenere la parola erum come intera e legittima. E volendo supplire quel che manca perchè il verso sia com- pleto, parmi che sia regola di sana critica, prima di fissare arbitrariamente la sede della lacuna che si ravvisa in questo verso, il ricercare nei principali e migliori testi, se mai ce ne porgessero alcun indizio. Ora io trovo che nel Codice B,

- 419 che è il Veius Codex di Camerario, in luogo di arcessit si legge ars eessii, quindi eon un s soverchio e col distacco della lettera s dal e, donde arguisco che Vars non appar- tenesse in origine ad arcessit, ma fosse abbreviatura di ar (cioè ad) sese, e che romissione di ar innanzi a eessii nel detto Codice, e quella di <ir sese negli altri avanti arcessit, sia avvenuta per effetto della somiglianza di queste lettere fra loro; siccome si vede accadere spesso nei Manoscritti quello che già fu avvertito dai nostri Deputati alla corre- zione del Decamerone, che, quando due voci simili confi- nano insieme, come vicin potenti si dien noia e discaccino luna l'altra (i). Talché ia genuina forma di questo verso verrebbe ad essere: Suum dr sese arcessit erum Atkenis et forai.

Non credo che debba parer soverchia l'aggiunta di ad sese ad arcessit, poiché serve anzi alla pienezza ed evi- denza del costrutto, e in effetto cosi troviamo aver detto in

(i) Di queste allncinazloni dei menanti troppi esempi s'incontrano nei testi a penna, perchè possa parer necessario il fame qui menzione. Tuttavia mi sembra che non sia del tutto fuori di proposito il riferirne alcuni, che per la loro conformazione molto s'avvicinano a quello di cui discorriamo. Così \i verso 171 dei Captivi, secondo la maggior parte dei Codici suona così : Propterea te vocari ad coenam volo ; lad- dove, se non la necessità di schivar l'iato, almeno la chiarezza e pie- nezza del cosirutto consigliali di leggere : Propterea te vocari ad me ad cendmvolo, e così fu in fatto rassettato il verso dal Linderoann sulle traccie della scrittura del Vetus. Lo stesso dicasi del verso 366 della stessa comedia, dove in luogo di Ad te atque illutn dei Codici , il metro non meno che la regola del parlare latino richiedono Ad te dtque ad illutn , e non vi si potrebbe neppure sostituire Ad téd atque illum, ma è necessaria la ripetizione della preposizione, perchè, come giustamente osserva il Lindcmann, « Ad te atque illuni » unam ean- demqu€, non diversam ^egionem significai. Simile è ancora quell'altro luogo del Trinummo al verso 817: Lumque hùc ad aduiescintem niedi- tatum probe; dove ì'ad richiesto non meno dal metro che dal senso, viene omesso in tutti i codici.

420 più d'un luogo i migliori scrittori e segnatamente i comici. Per non citare esempi che di questi ultimi, leggiamo in Plauto MiL. Gl. V. 70: ad sese arcessi iubent ; Men. v. 770: nec poi Jìlia umquam patretn ar cessi t ad se; Stick. vv. 266 e 267 : demiror quid illcec me ad se arcessi ius- serit, Quce numquam iussìi me ad se arcessi ante hunc diem, E in Terenzio, Eun. v. 5 io: Jam tum quom primum iussit me ad se arcessier; Hec. v. 466 : heri Philumenam ad se arcessi hic iussit. Questa locuzione adunque non può in- contrare opposizione, sia che venga considerata per se stessa, sia che si riscontri con l'uso degli altri scrittori e massime di Plauto, Bensì mi sembra di dover prevenire due obbie- zioni che si posson muovere contro la correzione da me pro- posta, una delle quali nasce dal trovar qui ar in luogo di ad, mentre la prima di queste due forme non era più in uso al tempo in cui è probabile che l'Argomento fosse composto; l'altra riguarda il disaccordo fra l'accento ritmico del verso e l'accento tonico delia parola pel fatto dtìVarsi che va a colpire la sillaba finale di arcessit.

Intorno alla prima difficoltà, vuoisi ricordare anzitutto la massima da noi espressa nel principio, che cioè nel giudi- care della forma e del contenuto così di questo come degli altri Argomenti metrici delle comedie plautine non possiamo partirci da quei principii e quelle norme che ci servono di guida nell'esame delle comedie stesse. Ora primieramente che in antico si usasse ar in luogo di ad^ lo attesta espli- citamente Prìsciano con queste parole : Antiquissimi vero prò Sid frequentissime ar ponebant : « arpenas^ arventores, arvocatos^ arjìnes, arpolare, arfari » dicenies prò « advenas, adventores, advocaios, adfines, advolare^ ad/ari » (1, 45 H.) Che poi ar per a^i fosse ancora in uso ai tempi di Plauto lo si de- duce dal trovarsi nel Scnatusconsulto sopra i Baccanali (a. 568 di R.) arfuisse per adfuisse (G. 1. L. I, 196, zi), arvorsum

(C I. L. I, 196, 25) per advorsum\ e nei libro di Catone De re rustica: aryehant (i38, i) per advehant ; irvectum (i35, 7) pQV advectum (v. Corssen, Ueber Ausspracru ecc. I, 238 segg.). si può dire che rimanesse cotal forma estranea aìie conedie plautine, mentre leggiamo nd Truc. II, 2, 17: arme adpenius^ dove il B. ha arme advenias^ à C, {Codex alter del Camerario, Der.uriaìus del Pareo) s il D. {Ursi- niamis) arma advenias (la lezione armillas aensas proposta dalJo Studemund non puossi riguardare che come una con- gettura, giacché la scrittura su cui si fonda, quella del pa- linsesto ambrosiano, è psJ.rsa qui vi allo Studemund stesso poco sicura (i);v. il Truc. dello Spengel Gottinga 18G8, pag, 44). Che se la. forma ar non si incontra altra volta ne' mano- scritti di Plauto, non vuoisi già dire per questo ch'ei non

(i) Aggiungasi che tale scrittura non è di prima mano (se almeno ho bene inteso la noia A& dello Spenge! nella sopra citata edizione del Truculento) , e che presenta altre difficoltà gravissime sia per la ricostruzione del vecsc, sia pel concetto che si vorrebbe espiimere , giacché non so a cui p^^sa piacere il cLepis tihi [armillas acneas) messo innanzi dallo Speng.'!, ci ?-nzì jh>a pare che piaccia troppo allo stesso Spengel, secondo -ii^ £i può argxiire AAlì iiL>ty ch^ appunr. ; cmcn- dationc non satis ^erta. Mi prepongo Ji esaminare ciUrove cv.esio vcrsOf che è uno dei più disperda del Truculento, intanto perchè altri non si getti troppo facilmente ijlla correaione tornitaci dall'Ambrosiano col- l'intento di spa/.zare il testo ui Plnuto d'una ferrar: cosi importuna , mi pare di dover dimostrare fin d'ora come si possa sulle tracce dei Codici Palatini ricostruire la lezione, cos'i di questo verso come dei due ciie lo piecedono nel rriodo che segue :

'Adveni stmc sis lentaium cum éxornatrs óssibnsì Quia tibin' iuaso ìnfecistì própudiosa paìUtlam 'An eo bella 's quia depisti critiff? Ar med ildvenas ! Il tibin' è ael Botiie, ed ò pure le! Bofbe il sìs h'nìatum ; quanto al cepisti crines cfr, il verso 236 deità Mostellaija: Alorem geruìuiuhi crnseo tibi et capiundas crinis (R.); e il verso 791 e se^. del Milite* Jtaque eum huc ornatum adducas ut matronarum tuodc Capite compio crinis vittasque habeat ; vedi ancora Intorno al significato del capere crines l'illustrazione del Lorenz al verso sopra allegato della Mostel- laria (ed. Berlino , pag, 229 e f^cg.)

'Rivista ai filologia ecc., J. 39

423

Tusassc più spesso, quando è provato per i citati esempi che ella era tuttavia in uso non solamente nei documenti legali ma anche nella lingua popolare; ma più tosto è da credere che dopo la morte del poeta ella s'andasse via via dileguando dalle sue comedie per opera dei correttori e dei copisti che vi sostituivano la forma ad, se non più recente, almeno più famighare a loro e più nota. Non si vuole pur dimenticare che i Codici Palatini che ci presentano la ricordata forma ar, son quelli nei quali si sono più fe- delmente conservate le forme arcaiche della lingua, meglio ancora che neir Ambrosiano (v. Ritschl, Neu^Jahrbììcher^ 1868, pag. 342), e che noi non possediamo ancora una collezione completa e fidata delle varianti dei sopraddetti codici per tutte le comedie di Plauto, giacché tale non può chiamarsi del sicuro quella del Pareo (Ritschl, Opusc. PìiiL, li, pag. 474*, cfr. Neue Plaut. Exc, I, pag. 22). Onde non è fuor di ragione il supporre che un nuovo e attento esame di quei testi ci possa fornire altri esempi o certi o almeno probabili delParcaismo di cui si discorre, sopra tutto se si consideri la grande incertezza che vi regna nella scrittura di questa particella che non solamente ondeggia, come è noto, fra ad e at, ma apparisce bene spesso scambiata con a e ac. Del resto, che l'autore di questi Argomenti, nelFin- tendimento di accostarsi più da vicino al fare di Plauto, cercasse talvolta a bello studio, come è il solito degli arcaisti, le forme antiquate e rancide della lingua , ne fa prova il genitivo Alcumenas che si legge nel 1" verso dell'Argomento acrostico dell'Anfitrione, la qual forma, se ne io^ìì familìas che rimase anche nei tempi più bassi, era già sparita dal linguaggio comune all'età di Plauto, e non se ne trova esempio sicuro nelle sue comedie (V. Ritschl, Proleg., pag. 3 18 e 3 19*, confr. Corssen, Ueber Aussprache ecc. II, pag. 722 nota).

423

Circa l'altra difficoltà, la quale nasce datrintonazione della sillaba finale di arcessit , e dal conseguente contrasto fra l'accento nrietrico e Paccento della parola, sarebbe da fame caso allora soltanto quando fosse dimostrata e messa fuori di questione la regola dell'accordo sistematico del due accenti nel- l'antica poesia dramatica de'Romani. Ma le ragioni addotte finora dal Ritschl e dagli altri sostenitori di questa dottrina non sono tali che ce ne possiamo ragionevolmente quietare. La verità è, che cotesto accordo non è più frequente hei metri di Plauto e di Terenzio, di quello che sia nella poesia dattilica dell'età augustea ; e del resto è molto difficile a cre- dere, che Plauto, il quale scriveva le sue comedie alla brava e talvolta in fretta e senza troppo pensiero, volesse impacciarsi a sua posta nella composizione dei metri, assog- gettandoli ad una legge ch'era rimasta ignota così agli an- tichi poeti nazionali del Saturnio, come ai comici greci, ch'ei riteneva per suoi modelli. Ondechè io penso col Corssen (l. e. II, pag. 9^0), che nella restituzione del testo dell'an- tica poesia romana non si debba mai deviare dalla testimo- nianza di manoscritti fidati e sicuri, per la sola cagione di toglier via il disaccordo fra l'accento della parola e quello del verso.

Minore di gran lunga è la difficoltà che presenta la re- stituzione dei versi 6" e 7". Anzi, quanto al verso, io penso che non abbia bisogno di restituzione alcuna e si debba conservare tal quale si legge nel codice 13.: Geminis communem cldm parietem in aédibus. I dubbi mossi dai critici intorno alla bontà di questa lezione si fondano sopra una falsa interpretazione, come io credo, del costrutto, es- sendo che tutti s'impuntarono, dietro la scorta dello Schoppe, in voler collegare aedibus con communem, donde si videro costretti a levar via in che faceva noia a tale accoppiamento; laddove non v'era punta necessità di costruire a quel modo,

424 potendo in aedibus considerarsi e spiegarsi molto bene per un aggiunto determinativo del luogo, con rapportarlo diret- tamente a. forata a questo modo: /ora/ in aedibus gemini s parietem communam^ « fa nelPuna e nell'altra casa un buco nel muro comune, cioè di mezzo ». II costrutto è adunque identico a quello che si legge al verso 142 della comedia: In eo conclavi ego per/odivi parietem (Ritschi.), o come legge ora lo stesso Ritschl (A^. PL Exc.y pag. 72): In eo conclavid ego perfodi parietem, e il communem viene ag- guagliato secondo la nostra interpretazione al medium che si legge neir Argomento non acrostico al verso 9 : Medium parietem perfodit servos. Con questa semplice interpreta- zione cessa il bisogno di sopprimere la preposizione in innanzi a aedibus^ preposizione che si legge in tutti i codici, e non si è più costretti o di ammettere col Bothe, col Lindernann e altri un iato fra parietem e aedibus, o ri- correre ad altri spedienti per sanare il verso, come fa il Ritschl, il quale da un sciam che si trova nel D e da con^ simile scrittura di altri testi ne trae scite che sostituisce al clam del sopri citato codice B.

Per quel che riguarda il 7" verso il difetto è nelle parole ut quiret che si leggono presso che in tutti i codici , con questo però ch^ il B porta sopra quiret la correzione fatta di mano non recente coire, e TE (codice di terzo grado di proprietà del Ritschl) ha scritto sul margine coire et: donde io penso che si possa togliendo via ut e mutando quiret in qua ire et restituire così il verso : Licéret qua ire et convenire amdntibus. Cfr. il verso 142 segg. della comedia : Li conclavi ^go pérf odivi parietem. Qua cómmeaius clam ésset hinc huc midieri\ e il v. segg. dell'Argomento non acrostico; medium parietem Perfodit servos, commeatus (fldnculum Qudifóret amantum. Questa, se non m'inganno, è la più facile e la più propria medicina di questo luogo.

426 Perocché niente è più facile deiressersi le tre voci qua ire et congiunte nei libri in un sola quiret, ed è pure assai pro- babile, che Vut che vi sta soverchio siasi formato per iscorso di penna, occasionato dalla somiglievole uscita deirantece- dcnte liceret; se pure non vi fu messo di sana pianta da qual- che malaccorto correttore, quando già erasi intruso ne'testi l'erroneo quiret^ con intendimento di cavarne la lezione, di- ventata poi comune alle antiche stampe: Licere utquiret. La qual lezione, secondo che già ebbe ad avvertire il Ritschl, non è accettabile, prima per la stranezza del costrutto, e poi perchè i codici hanno liceret e non licere^ siccome non si deve mag- giormente approvare, a parer mio, la correzione messa innanzi dallo stesso Ritschl: Liceret ut clam convenire amantibus, perchè clam non è nei codici, o almeno in nessun codice si legge a questo verso , ma fuvvi trasportato dal verso ante- cedente, di dove noi abbiamo già dimostrato non v'essere una giusta cagione di rimuoverlo. Taccio di aitre conget- ture dell' Acidalio e del Bothe per sanar questo verso, con- getture già condannate, e con buone ragioni, dal Ritschl, e vengo al verso 8°.

Questo verso, cosi come si legge ne*codici e nelle antiche stampe, è sovrabbondante, cresce cioè di mezzo piede, e i critici si trovan d'accordo in fissar la sede dell'errore nel- Vobhaerenles. Prima di tutto il Ritschl osserva, e con ragione, che la spiegazione che si volle dare di obhaerentes per am- plectentes se invicem non regge, non potendosi quella voce piegare a tal significato senza aggiugnervi almeno un sibì. piace di vantaggio al Ritschl Vobhaerens messo innanzi dal Bothe , che aggiunto a custos vorrebbe dire « una guardia stabile e assidua », ma che qui non può essere il caso, parlandosi di un servo che si trova sui tetti per mero accidente, essendovi andato per agguantare una scimmia ch^eragli scappata. E il Ritschl a sua volta propone di leg- gere obei^rans per obhaerentes

426 Con questa lezione, che si avvicina assai alla scrittura dei codici, è addirizzato il metro e il senso corre : pure chi ben consideri non vi si può acquietare del tutto. Lascio stare che il verbo aberro non è plautino, e non se ne hanno neanche esempi di scrittori vissuti prima del secolo d'Au- gusto, poiché questo è tale appunto che si potrebbe fare ad altre voci e locuzioni usate in questo stesso Argomento (i): ma che cosa è quello che qui fautore ha voluto esprimere, forse l'avere il guardiano semplicemente veduto gli amanti o non piuttosto Taverli veduti stretti insieme e in atto di baciarsi e abbracciarsi? Quando pure volessimo far ragione delle angustie di una composizione acrostica, e per amor di (]ueste fossimo disposti a menar buone all'autore alcune im- perfezioni e difetti, non dobbiamo però credere che egli potesse passarsi di notar qui una cosa tanto importante; giacché, si badi, il dire senza più, custos hos videt de ie- giilis non toglie neanche che chi legge possa intendere che il guardiano avesse veduto le due persone in due luoghi di- versi, cioè la donna in casa del soldato e il giovane in quella del vicino suo ospite, che sarebbe stata la cosa più naturale del mondo. Or io non so farmi capace di una tale disav-

(i) Il Lorenz nella sua bella edizione del Miles Gloriosus (Einleit. pag. 3, nota 3) ha già notato le locuzioni non plautine che s'incon- trano in questo Argomento ; egli però dovea, mi pare, mostrarsi più respettivo nel porre fra queste il ridiculis che si legge nel verso 9 j quasi Plauto non avesse mai detto ridicula, come i Greci Y^^ota, nel sostantivo neutro plurale, ma soltanto ridicularia. Al Lorenz non po- teva sfuggire, e non è sfuggito del sicuro il verso 455 dello Stico Méum óptenturum régem ridiculis meis : il fatto del trovarsi ivi nel- l'Ambrosiano iogis in iscambio di meis, poteatutt'al più dargli appicco a mettere in dubbio l'uso plautino di cotesta voce, non già a negarlo ricisamente come fa. Del resto, quanto al ridiculis di questo Argomento, io trovo molto aggiustata la correzione del SeyfrertfP/z/Zo/. Tom. XXV, pag. 439): Ridicule is autem, senza tuttavia aderire agli appunti ch'ei move al ridiculis, appunti che il Ritschl ha già dimostrato essere infondati {Opusc. Phil. voi. 2, pag. 41 1 6412 nota).

427 vertenza per parte di uno scrittore così accurato e giudi- zioso com'è l'autore di questi Argomenti, e tanto più quanto io vedo che in nìuno de'molti luoghi della comedia nei quali si accenna questo fatto, vi è taciuta la circostanza aggravante detta di sopra. Eccoli questi luoghi, secondo la recensione del Ritschl: Modo nescio quìs inspectavit vostrum familiarìum Per nostrum inpluvìum intus aput nos Philo- comasium atque hospiiem Osculantis, v. 173 segg.*, consulo Quid agam^ quem dolum doloso contra consei'vo parem, Qui illam hic vidit osculantem, v. 197 segg.; Ut, si illanc con- criminatus sit advorsum militem Meus conservos, se eam ridisse hic cum alieno oscularier, Arguam hanc ridisse aput te contila conservom meum Cum suo amatore amplexantem atque osculantem^ v. 242 segg.; Hic illam vidit oscularli em, quantum hunc audivi loqui, v. 275; Atque ego illi aspicio osculantem Philocomasium cum altero Nescio quo adule- scentey v. 288 segg.; Philocomasium eccam domi quam in proxumo Vidisse aibas te osculantem atque amplexantem cum altero, v. 819 SQgg.\ Atque arguo Eam me vidisse oscu- lantem hic intus cum alieno viro, v. 337 segg.; Dixtin Tu te vidisse in proxumo hiCy sedeste^ me osculantem? v. 363 segg.; Nam arguere in somnis me meus mihi familiaris visust , Me cum alieno adulescentulo, quasi nunc tu^ esse auscula- tam; Quom illa ausculata mea sor or gemina esset suumpte amicum, v. 389 segg.; Ut ad id exemplum somnium consi- mile somniavit Atque ut tu suspicatus es te eam vidisse ausculantem^ v. 400, sg.; Eam poi tu osculantem hic vide- ras, V. 474; Vidi et illam et hospitem Complexum atque osculantem^ v. 633 sg.; Et ibi osculantem me aput te hanc vidisse hospitam^ v. 555.

Per tal ragione principalmente io non so acconciarmi al- Voberrans del Ritschl, e credo che dovendosi levar via lo obhcereniis che si legge ne' Codici, convenga mettere in sua

128 vece un vocabolo che slgaifichi per Tappuato l'atteggiamento in cui furon veduti gli amanti Ora raccozzando quel che si legge nei soprallegati luoghi della comedia, e considerando che l'autore dell' A sgomento il più delle volte csprinnc i con- cetti suoi con le parole di Plauto, si è subito portati a so- spettare che egli avesse scritto Osculantis e non Obknereniis, e tale fu in vero Topinione del Camerario, alla quale hanno aderito il Lambin e il Taubmann. Se non che l'andamento trocaico di osculantis forma alla prima un deciso contrasto colla misura giambica del verso , ne altrimenti si potrebbe cessare tale inconveniente che con leggere osculantis come se fosse osclaniis, cioè di tre sillabe: a che mostra di non consentire il Ritschl, il quale dopo aver riferita la congei' tura del Camerario e detto che avea trovato per lodatori il Lambin e il Taubmaan , soggiunge queste parole : credo, quod trihus hoc syilabis sferri posse sibi persaase?\int . Qui dunque sarà il caso di vedere se osculantis potesse ai tempi di Plauto essere agguagliato nella pronunzia a un tri- sillabo. Certamente se chi prende a difendere tale accorcia- mento fosse obbligato di addurre esempi di antiche scrit- ture» dove si leggesse per l'appunto la forma sincopata osclor o almeno quella di osclum^ siccome vi troviamo a quando ix quando poclum, periclum , oraclum, miraclum e altret- tali, gli converrebbe smetter l'impresa, poiché quelle forme non s'incontrano, per quei ch'io sappia, ne' codici e xiells lapidi. (Il verso io del Truculento, dove ora si legge osciurn [Tace, ed. Spet'.gei - i858] è rassettato per congettura, e Vosdum non iia per l'autorità dei MSS,)- Ma non può sfuggire a nissuno che gli accorciamenti sopra riferi ti, ai quali se ne potrebbe aggiugnere di molti altri sia dello stesso genere sia di genere aSine, non erano abbandonati al ca- priccio degli scrittori, ma aveano il loro fondamento nel parlar quotidiano, e che oiuno, prosatore o poeta, sareb-

-- 429 - besi mai arbitrato di scrivere oraclum per oraculum, se Vu, compreso fra e e l , avesse conservare nella pronunzia po- polare tutto iJ suo valore, e non fosse stato anzi un suono irrazionale, cioè imo quéi suoni che non avevano la giusta quantità di una vocale breve. Adunque per ragion di ana- logia ci è lecito di supporre, che anche in oscidum e oscu- lor r u che precede a /. come poteva esser fognato nella pronunzia, così potesse esser escluso dalla misura del verso. Che poi osculimi e oscular si trovino talvolta agguagliati nei metri di Plauto ad osclum , osclor , se non si può ac- certare per mezzo della testimonianza diretta dei codici , si può tuttavia provare per indizi abbastanza sicuri, quando si restituiscane nella genuina loro forma alcuni versi delle sue comedie , dove quelle voci s' incontrano. Così al verso 288 del MiLES Glorìosus , che comunemente si legge:

Atquecgo illi asptcio óscuìaniem Phìlocornasium cwv altero.

Villi è una correzione deirAcIdalic;, adottata dal Bothe e dal Ritschl, menti e i codici hanno illic. Leggi dunque :

'Atque ego illic aspicio osclantem Philocomasium cum altero.

Similmente a' verse 32o della stessa comedia, che secondo il bothe e il Ritschl suona così :

Vidisse aibas te óscuLintem atque dmplexantem cum altero.

ì codici non hanno aihas na aiebas ; onde si può anche leggere:

Vidisse aiebds te osciantcw r.tque c.mplcxantem cum altero.

Non cito altri esempi che questi due, lasciando stare quei luoghi in cui la lezione è incerta, e il verso si può rasset- tare in più d'un modo, giacche in una questione di tal fatta niente è più pericoloso che il procedere per congetture; tut-

430 tavia gii addotti esempi mi pare che bastino per provare che Vu di osciilor è anche in Plauto un suono irrazionale. dee far meraviglia che ne' sopraliegati luoghi niuno dei codici ci abbia conservato la forma osclantem, giacché ve- diamo lo stesso essere accaduto altrove di vocaboli consi- mili, laddove il metro non comporta altra forma che la sincopata. Così, per non citare che questi pochi esempi, di periculis e periculo che sono in tutti i codici ai versi 1087 e 1088 del Trinummo, prima il Guyet e poi gli altri critici hanno fatto peridis e per telo; così al verso 1 1 29 del Pseudolo , i codici leggono populo che il Ritschl muta in poplo; così pure pehiculum , che si legge nei codici al verso 728 del Persa il Bothe e il Ritschl mu- tarono in vehidum. E volendo assegnare le occasioni di questa discrepanza fra la scrittura e la pronunzia, mi pare che se ne possa accagionare l' inavvertenza de' copiatori , i quali abbattendosi in vocaboli che poteano essere adoprati nel verso così intieri come sincopati, non posero sempre mente all'uso fattone dal poeta in questo e in quel luogo. Il che dovea ancor più facilmente accadere in osdum e osdor che non in altre voci di simil fatta, per non essere questi vocaboli vissuti a lungo nella favella popolare, sic- come si può argomentare dal non esserne rimasto vestigio nelle lingue romanze che vi sostituirono altri termini cor- rispondenti ai loro sinonimi latini basìum , bastare: onde che non si affacciava spontaneamente alla mente dei copia- tori una forma popolare osdum simile a quelle altre odus, masdus , spedum, (tcc.^ che ci diedero « occhio, maschio, specchio ». E poiché ho fatto menzione di odus, non voglio lasciar di dire, che anche questa forma si legge ne'codici e nelle edizioni di Plauto, quantunque a parer mio si debba restituire in più d'un luogo. Ne citerò due soli, dei quali la lezione mi sembra più certa. Il verso 596 del Pseudolo

431 è un tetrametro trocaico, il cui principio così si legge nei codici: Ut ego oculis ratìonem capìo\ ivi il Ritschl sop- prime ego leggendo Ut oculis ratiónetn capio , per evitare, corneo credo, il proceleusmatico che non vi potrebbe trovar luogo come sostituzione d'un trocheo^ laddove cessa tale inconveniente, quando oculis venga mutato in oclis: Ut ego oclis ratiónem capio. Noto poi di passaggio che del quant che si legge nei codici nel seguito di questo verso, mi sem- bra più agevole fare quum, che mutarlo in nam^ come vedo aver fatto i moderni editori dietro la scorta del Lipsio. Similmente al verso 1071 del Trinummo che comunemente si legge su la fede della maggior parte dei codici: Satin ego oculis pldtie video? esine hic an non est? is èst, l'Ambro- siano ha in vece Satin oculis ego, la qual lezione sembra da preferirsi, sol che si scriva oclis per oculis, essendo molto probabile, che la lezione degli altri codici, i quali tutti si fondano, com'è noto, in una comune recensione del testo, sia dovuta ai correttori e proceda dalla stessa cagione, da cui fu mosso il Ritschl nel sopprimere Vego nel verso so- prallegato del Pseudolo, cioè dal bisogno di schivare il pro- celeusmatico.

Che se, per tornare all'Argomento acrostico, si voglia cercar la spiegazione del come siasi propagata negli antichi testi la falsa lezione obhcerentis<t se ne possono assegnare per congettura due occasioni: o che i correttori aombratisi nella voce osculantis, siccome quella che dovea parere disadatta a dare cominciamento a un ritmo giambico, la mutassero nell'altra di significato affine obhcerentis ; oppure che si co- minciasse a scriver nei codici, per falsa analogia coi composti di ob t obsculantis o obsclantis, e che da questa viziosa scrittura si originasse in seguito con più lieve mutazione obhcerentis.

Da quello che son venuto ragionando fin qui, mi sembra

- 432 ~ di poier conchiudere, che la più probabile lezione dei versi 5-8 questo Argomento acrostico, sia la seguente: 5 Suum dr aese arcessit erum Athenis H forai Geminis commimem cldm parieiem in aédihus. Licere t qua ire et convenire amdnttbus. Oscldntes custos hós videi de iégulis,

Bologna, febbraio 1873.

G. B. GANDIf^O.

CO':h(iSIDE%AZIOV^I

SULL'ISTRUZIONE, SOPRATTUTTO CLASSICA, IN ITALIA

a proposito del recentissimo libro di M. BKEAL

suWistrupone pubblica in Francia

(Continuazione: v. taso, i", p. 9-23 ; fasc. 5", p. 225-246; fase. 7», p. 3 10-329).

IV.

A tutti gFintelligenti lettori, che ci seguirono con bene- vola attenzione nelle nostre analisi deirìstruzione italiana, parrà indubbiamente, quanto deplorabile, altrettanto natu- rale che la medesima, isterilita qual è e quale la vedemmo da tendenze soverchiamente pratiche, retoriche, empiriche, sia eziandio travagliata da quel morbo pericolosissimo che è la inclinazione a dogmatizzare senza il necessario fonda- mento, sì nell'ordine dei fatti, si neirordine delle idee, anzi pili in questo che in quello. L'abito di studiare il vero assai meno pel nfvbiìe bisogno di conoscerlo che per ragioni d'in- teresse non punto scientifico, di attribuire alla forma gran parte di quell'importanza la quale non può spettare che al fatto ed airidea, di non investigare le cause , le leggi dei

433 feoomenì, appagandosi di mere parvenze, abito onde tanii intelletti ci si rivelano sciaguratamente viziati, ingenera natu- ralmente, soprattutto negli anni mamri e nella vecchiezza, una cotale inerzia di mente: inerzia onde procede, come figlia da madre, una certa fede che è afl-atto indegna dello spirito umano. A fatta fede, che è vero ossequio irragio- nevole, trae eziandio la impazienza, propria in ispecial guisa dell'età giovanile (i), sulla quale esercita, oltracciò, spesse volte malefico influsso il soverchio dogmatizzare d'improvidi educatori.

Questa tendenza malaugurata ti si manifesta già sulla soglia del tempio delia scienza. Vedemmo talvolta, mai senza profonda compassione, maestri cui niana lingua era nota tranne la nostra, e neppur questa a sufficienza, sforzarsi d'intrudere nelle menti infantili dei loro poveri alunni defi- nizioni appartenenti alla pretesa grammatica generale, e con tale e tanta asseverans^a che, se questa fosse misura del vasto e profondò sapere, tu dovresti reputare sciolti perfettamente da questi barbassori certi problemi che sgomentano- ancora un linguista di primo ordine. A queste formole grammati- cali di scuole elementari sono pari in certezza certe nozioni di storia antica, di estetica letteraria e di metafisica che si danno ancora in ginnasii e licei. Quanti spropositi si spac- ciano ancora qua e intorno al più vetusto oriente ed ai primi tempi di Roma! Quanta prepotenza d'arbitrio in alcuni precetti letterarii ! Quanto spesso s'insegnò e forse an- cora s'insegna cattedraticamente, quasi fosse scienza certis- sima e come tale riconosciuta dai giudici più competenti, un complesso di teoriche metafisiche, cui, fra i meglio autorevoli,

(i) « i giovani inclinano al dommatismo, e se possono afferrare

una regola o una definizione, credono avere in mano la scienza, e stu- diano e giudicano a priori , secondo certi preconceiii. » De Sanctis, La Scuola {Nuova antologia yyol. 20, p. 760).

434

gli uni accolgono, gli altri respingono, che intorno al va- lore di esse non v'ha punto consenso fra ì piij pregiati esti- matori! Nelle stesse aule universitarie, ove più estesa, più acuta , più libera dovrebb^essere indubbiamente la critica , appare, rade volte, principalmente nei corsi di natura fi- losofica, il sistema di una scuola sostituito alla larga e serena imparzialità della scienza; appare l'avversione al dubbio, anche allorquando è necessario ; appare la funesta tendenza ad imporre altrui la propria opinione.

Pessima educazione dell'intelletto è questa : che non solo non esercita la mente a tentare con gagliarda indipendenza la soluzione di ardui problemi, ma da questi in certa guisa distoglie lo spirito e quasi glieli nasconde, non istimolandolo, non addestrandolo alle lotte feconde, ma avvezzandolo ad adagiarsi in isterile pigrizia (i). Pessima educazione che, non assuefacendo all'esame, non abitua il pensiero a scoprire la erroneità di certi concetti, vuoi storici, vuoi filosofici : i quali, non discussi liberamente, ma accolti con ossequio servile, assumono non di rado le venerande sembianze di tradizioni scientifiche e sono trasmessi di generazione in generazione, quasi insieme colla lampana della vita, direbbe Lucrezio. Argomento degnissimo delle meditazioni di un alto e vasto intelletto sarebbe lo investigare quale e quanto nocumento abbiano si fatti pregiudizii arrecato all'umanità, nella vita del pensiero, in quella dell'azione (2). Indi un'ignoranza

(i) Ben a ragione pertanto quel potente ingegno di F. De Sanctis, dopo avere accennata {/. e.) l'inclinazione dei giovani al dommatismo, ci ammonisce che « questo impedisce in loro lo sviluppo dello spìrito critico, vizia l'impressione e il gusto, sostituisce alla loro spontaneità una coscienza artificiale »».

(2} Esponendo al cortese ed accorto lettore queste nostre considera- zioni, non possiamo astenerci dal ricordare il giudizio che intorno ad una certa filosofia, ad una certa logica profferiva un egregio scienziato : L'uomo per la sua avidità di sapere ha sempre fatto così ; da poche

435

ostinata, tenace del passato, paurosa delPavvenire, presun- tuosa, intollerante, sempre soltanto delle nuove idee, ma per lo più eziandio degli uomini che di esse si fanno animosi banditori.

Lasciate pertanto, se punto vi sta a cuore Teducazione della nostra gioventù, ch'essa vi reciti un po'meno il vostro credo scientifico ed avvezzatela un po'più a costruirsi bene il proprio con un lavorio intellettuale veramente suo ed in- dipendente. Non vogliate che l'intelligenza giovanile cessi di essere una forza libera e nobilmente conscia della propria libertà, per diventare uno specchio che, inconsapevole, ri- fletta il vostro pensiero, od un'eco che ripeta, materialmente, i vostri delfici responsi. Il vostro compito non è già imporre un sistema scientifico di non certo valore alla fede dei vostri alunni, ma infondere in essi il più vivo amore del vero e ren- derli, come meglio potrete, atti a ricercarlo come si addice allo spirito umano (i). 11 soverchio dubitare snerva la mente, ma la snerva eziandio il troppo credere.

osservazioni ha creduto poter dedurre tutto lo scibile, dove mancava il fatto sostituendo il lavoro della ìmaginaiiva ; e ha voluto tirare le ultime conseguenze e filosofar sulla origine e sulla natura delle cose, prima di aver imparato le ragioni de' più semplici fenomeni naturali. Orgoglioso per essenza , creò la filosofia , che intitolò scienza delle scienne, prima di aver costituito una sola di codeste scienze che pur supponeva nel filosofo ; cosicché tutto il sapere si ridusse a un po' di logica, applicata a ragionar su tutto, ignorando ogni cosa », Govi, Della fisica ecc., prelezione letta nel 1862 [Politecnico^ fase. 70, p. i3).

Di questa pTcìesa. filosofia, di questa cosi detta logica esiste ancora, lepido anacronismo, qualche atleta in questa epoca nostra, fra tanto fio- rire di studiì positivi. Ci rammentiamo ancora che un tale, di cui ne- gammo la competenza a giudicare intorno ad una certa scienza, ci rispose esser pronto a disputare contro noi su qualsiasi materia. II valentuomo non comprenderà forse mai, quanta compassione abbia de- stata in noi, che abbiamo assai poca fiducia nelle dispute, la sua smar- giassata medioevaie.

(i) « Una Scuola non mi par cosa viva, se non a questo patto, che accanto all'insegnamento ci stia la parte educativa, una ginnastica Intel-

436 - Noi vorremmo che, per quanto fosse possibile, s'informasse a questi principi! anche il primo insegnamento: mai si ri- spettano i diritt' delFuomo quando si violano quelli del fan- ciullo (i). Vorremm.o ancora che, con saggia gradazione, si avvezzassero neiristrazioiie secondaria gli allievi a far stmpre maggiore e miglior uso della propria libertà i/)telle:rualc quanto più si accostano agli studi supremi degli atenei, e , per far cenno di una sola materia (ma di quella che esige

lettuale e morale^ che stimoli e metta in moto tutte le forze latenti dfUo spirito. Il meno che un giovane nossa domandar© alla sctiola è lo scibile, anzi io scibile è lui ciie dee trovarlo e conquistarlo, se vuole sia davvero cosa sua. La Scuola gli può dare gli ulumi risultati della scienza, e se non fosse che questo, in verità una Scuola è di troppo; taato vale pi- gliarli in un libro quei risultati. C'ò che un giovane dee domandare alla Scuola ò di esser messo in grado ch'i la scien/ia la cerchi e la trovi lui. Perchè ia Scuola è .;i> iaboi-atorio, dove tutti sieno compagni nel lavoro,, maestro e discepoli, e il maestro non esponga solo e dimostri, ma cerchi e osservi insieme con loro, si che attori sieno tutti, e tutti sieno come un solo essere organico, animato aaìio stesso spirito. Una Scuola così fatta non vale solo a educare 'a intelligenza, ma, ciò che è più, ti forma la volontà, - De Sangtis, Art. cit., p. 757,

(i) ()n eniend souveni dire qu'avec les enfant? il faut étre dogma- tique. Ceux qui parleni ainsi n'expri;.-nent pas leur pensée tout entiòre. Il Sv>iit d'avis égalemeni: qu'jl hn étrf- dogn->atique avec ies jeunes gens et avcc les hommes. Car pourquf i refuseraient-ils à l'enfant Ies cxpli- catioiìs qu'il peu*' comprendre^ s'ils avaient i'intcntioo de raisonoer sA'ec l'homme fait? II sera trop tard alors pour faire entrer la raison dans ces tètcs qui n'ont pas pris Thabitudè de penser et qu'une longue obéis- sance a orivées de tout resse! t. ■' Br#,al, Op. cit., p. 47. Nelle scuole americane, scrive il signor Hipp^au, « dès ies pretnières annèeson croit qu'il est uùle de ìaisscr !a pensee s'exprim^r librement,... le maitre averti», conseiile et dirige, mais ne se croit pas le droit d'imposer ses idées et ses sentimens. Si cet appel à la raison individuelle, à la réflexion, au libre e.Kamen, peut coniribuer à donner aux jeunesfillcsc;caox)eunc'S gens une confiance exagérée en CiiX-mémes, et quelquetois un ton de sufiisance qui a été relevé avec assez d'aigreur par mistress TroHope, on ne peui nier qu'il ne hats le développement intellectuel d'une manière beauooup plus efficace que l'enseignement dogmatique, qui pendant si longtemps a donne pour criterium de la vériié la parole du maitre •. L'éduL-ation desfemmes et des a^ranchis en Amérique [Revue des deux mondes, x. ^^3, p. 45C).

- 437 il maggior rispetto alla indipendenza del pensiero individuale) facciam voti affinchè lo insegnamento filosofico liceale diventi sempre meno Tesposizione cattedratica di un sistema meta- fisico e sempre più un esercizio fortissimo dell'intelletto, una ginnastica mentale che generi nella studiosa gioventù la ten- denza e Tatiitudine a meditare seriamente, e soprattutto in- tomo ai più importanti e certi concetti della psicologia e della morale (i). Vorremmo infine che si mondasse affatto' d'ogni avanzo d'arbitrario dogmatismo l'istruzione superiore : che il professore universitario assai più che di propagare le proprie opinioni si proponesse di accendere ne'proprii udi- tori, fatti suoi compagni nelle investigazioni scientifiche, il generoso entusiasmo che trae alle ostinate indagini del vero, e, distogliendoli dalle fallaci lusinghe dei metodi che l'espe- rienza mostrò inefficaci, avvezzarli a quelli cui la scienza deve i suoi più utili e gloriosi trionfi (2).

(i) Applaudimmo pertanto alle indicazioni, che intorno allo insegna- mento della filosofìa nelle scuole secondarie leggemmo nelle Istrui^ioyii e programmi per V insegnamento delle lettere nei licei e nei ginnasii, approvati con R. Decreto io ottobre 1867; v. p. Si-Sg.

(2) «t du moment que l'amour de la vérité doit étre la premidre

qualité du professeur, son cours prendra une forme bien differente de celle que nous sommes habitués à regarder comme la meilleure. Au lieu d'écarter de ses le^ons tout ce qui est douteux, conteste, il prendra soin d'y appeler l'attentiojì de ses auditeurs, et de leur exposer sincère- ment les raisons des opinions contraires. Mémepour les théoriesqui lui seront le plus chères, il indiquera les points faibles, signalera les objec- tions. Un ministre, qui a eu de meilleures inspirations, déclara un jour que les Facultés étaient charcées d'enseigner la science faite: iTiais com- ment les jeunes gens exerceront-ils leur jugement px leur critique, com- ment sauront-ils sur quel point de la science ils doivent porter leur effort, si vous leur présente/ toujours l'édifice par ses cótés achevés? La science faite est dans les livres ; les étudiants deserteront les salles de cours si la le^on du professeur ne fournit pasautiechose que les biblio- thèques. Nousvoyons des hommes qui ont suivi pendant des années les cours de nos Facultés, ne pas savoir sur quel sujet ils pourraient faire

'Hfvisla di filologia ecc., I. 3o

438 - Gli effetti di questa veramente Ubera educazione scientifica saranno indubbiamente i seguenti : svolgimento largo ed in- dipendente della ragione, il quale non potrà non esercitare bexiefico influsso sulla formazione del carattere (i); incre- mento fortissimo della tendenza e deirattitudine alle inda- gini nuove ; guerra senza tregua, senza timore di sorta ai pregiudizi, a qualsiasi classe appartengano e di qualunque larva si coprano-, tolleranza sincera e generosa di quelle o- pinioni, che, sebbene lontane dalle nostre, possono nondi- meno più che queste per avventura acrostarsi alla verità, e di coloro che le professano nobilmente.

V.

ove nella repubblica della scienza alla feconda libertà della indagine si tende non di rado a sostituire la sterile ti- rannia di formole malaugurate ; ove il sapere è assai meno pregiato per l'intimo suo valore che per i vantaggi materiali onde si spera poter da esso ritrarre gran copia; ove alla efficacia stupenda delPidea e dell'affetto si antepone sovente lo strepito inane dei paroloni, italiani e latini (2)*, ove non poco volgo di menti suole star pago di conoscere superficial-

des recherches origmales. On dópense quelquefois chez nous une moitié de sa vie avaat d'éire enfin rais au point l'étudiant allemand est na- turellemem conduit par ses inattresà vingt-cinq ans » Bhéal, Oj?. cit., p, 393-4.

(i) « Il n'y a pas de fort développement de la téte sans Hberté; l'energie morale n'est pas le resultai d'une doctrine en particulier, mais de la race et de la vigueur de l'éducation, » Rsnan, La ré/orme ecc., p. 99

(2) « L'homme voué à i'exposition n'aime pas qu'on change ses

partis pris et se& phrases toutes faites, Moins soucieux du vrai que de la forme, ce qu'il voudrait, ce seraient des thèses convenues à la facon de la Chine, l'on enseigne, dit-on, une fausse astronomie en la sachant fausse, parce qu'elle est celle des bona auteurs. » Renan, Questions con- temporaines. p. 96-7.

- 439 - mente una serie qualsiasi di fatti, senza addencrarsi nella in- vestigazione filosofica delle loro ragioni di essere (i); ove, in fine, il culto della lettera che uccide ti appare qua e più frequente che non quello dello spirito vivificatore; ivi avviene che al pensiero vengano meno gli stimoli al moto e che si adagi nella inerzia. Così si genera, così si spiega il quinto vizio onde vediamo peccar troppo spesso la istruzione italiana, l'immobilità.

Questa nostra affermazione farà, ne siam certi , inarcare le ciglia a molti lettori. Come? Troppo spesso immobile la istruzione italiana che, da cinque lustri, colle sue incessanti rivoluzioni sembra aver sciolto il problema del moto per- petuo ? Con quanta rapidità non succedettero, ormai da ven- ticinque anni, rettori a rettori, riforme a riforme, a libri nuovi libri novissimi ! La scuola italiana non fu, non è ella forse pur troppo

'<. simigliarne a quella infet ma.

Che non può trovar posa in sulle piume, Ma con dar volta suo dolore scherma » ?

A chi ci opponesse queste considerazioni risponderemmo esortandolo a non lasciarsi ingannare da fallaci parvenze, re- putandole realtà. Fallaci parvenze sono per lo più le meta- morfosi che vediamo avvicendarsi nei nostri istituti didattici, dagrinfimi ai supremi: realtà, deplorabilissima realtà il poco, il lento progresso. Le agitazioni, onde ti appare da ben due decennii senza tregua commosso lo insegnamento italiano,

(i) « la grammaire, telie que nous l'apprenons, exclut loute idée

de progrès. Une fois que nous savons qu'une chose admirable à voir se dit res visn mirabilis et que j'enseigne la grammaire pux enfants se traduit par doceo pucros grammaticam, il ne reste plus rien à ajouter : car toutes les recherches sur la nature du supin, toutes les observations sur le sens de l'accusatif ne changeront rien à ces deux regies. » Bréal, Op. cit., p. 174.

440-- sono quasi sempre agitazioni a fior d'acqua in fondo regna la più oziosa quiete. Le trasformazioni concernono general- mente assai più i metodi che le idee, e dei metodi stessi assai più l'apparenza che la sostanza. Così idee inesatte o false e metodi irrazionali, ciarpe da ferravecchio, continuano ad essere in onore presso non pochi di coloro che si chiamano rappresentanti delia scienza, educatori della gioventù. Leggi, regolamenti, programmi tengono dietro gli uni agli altri in- calzandosi a vicenda con quella stessa prestezza, con cui passano sulla scena della istruzione italiana gli uomini che li fanno e li disfanno: ma i concetti, i procedimenti di- dattici rimangono le più delle volte sostanzialmente immutati . È senza posa l'eruzione di nuovi libri scolastici: ma, nel massimo numero dei casi, per bontà di pensieri e di sistemi pedagogici, i nuovi non valgono più dei vecchi-, non è il pro- gresso che vinca l'ignoranza, è l'empirismo surrogato dal- l'empirismo; è il compendio del professore-libraio B che tende a sostituirsi, per vantaggio dell'autore, a quello equipollente del collega A, col solito e esci di , ci vo' star io » ; non è questione di opinioni, ma di quattrini; non lotta feconda di principii, ma, frequentemente, è sterile gara d'ingordigie schifose (i). Fra tanto chiasso di apparenti innovazioni si perpetuano in mille istituti le tendenze soverchiamente pra- tiche e retoriche, gl'istinti troppo irrazionali e dogmatici del

(i) Lo spettacolo della rivalità esistente fra certi « Elementi, Com- pendiiy Sunti, Sommarii » ecc. ecc. ci richiamò sempre alla memoria la conclusione di un apologo che si legge nel libro di G. Vollo La voce delle cose (Torino. i856, p. i82-5) Un 1 bercelo di divozione senza fede in Dio ed un libercolo democratico che non credeva nel popolo si rin- facciavano a vicenda l'ipocrisia.

«» Ma il libraio s'interpose ,

E sopì l'inutil bega:

Siete entrambi di bottega,

D'una risma vi si fé'. «

441

nostro insegnamento: così in Italia, come in Francia (i), la riforma è generalmente più presto parvenza che realtà. Chi insegna storia antica come nel secolo scorso, chi grammatica latina giusta principii e metodi i quali solo nella forma si distinguono dai medioevali.

E provati un po\ cortese lettore, di opporti a certe antica- glie, provati un po' di accingerti a sradicare i vizii secolari che infettano la istruzione italiana, od eziandio soltanto di svelarli senza paure codarde scrivendo o parlando pubblicamente. Te beato, se non si adunerà tosto concorde a lapidarti il volgo di coloro, che ne'tuoi tentativi, nelle tue rivelazioni scorgono senz'altro fiere minaccìe alla loro ignoranza, alla loro ambi- zione, alla loro accidia, al loro traffico di libri scolastici. Ag- giungivi la schiera dei dotti ed onesti, ma ostinati adoratori

(i) a II ne faut pas oublier que nous sommes le pays le plus re belle aux vraies réformes, le plus fidèle aux traditions séculaires. Notre histoire est semée de révolutions à la surface: mais ce qui consume le fond de la vie intellectuelle et morale s'est à peine modifié depuis deux siècles. Nos enfants font les mémes exercices que RoUin dictait à ses élèves, et si la Revolution fran9aise a étendu à une grande panie de la nation l'éducation qui était autrefois le privilége d'un petit nombre, elle n'a pas eu la force de tratìsformer cette éducation. Les livres que Bossuet a composés pour le Dauphin servent aujourd'hui à l'insiruction des enfants de notre bourgeoisie. II y a eu extension de l'ancienne culture fran9aise, mais elle ne s*est pas sensiblement modifiée. De pé- nétrants observateurs de notre genie national ont cru reconnaitre que dans les réformes qui touchent aux choses de lesprit, notre trait dis- tinctif é':ait la timidité. Ce sont pourtant les seuis changements vrai- ment féconds, les seuIs qui, à la longue, amènent après eux tous les autres. Si nous ne modifions pas l'esprit de la nation, les mémes maux reparaitront d'intervalle en intervalle, de plus en plus aigus et cuisants. Pas plus que les révolutions, les le^ons les plus dures de la destinée ne pourront en empecher le retour. » Bréai, Op. cit., p. 3. Del difetto di progresso nell'istruzione universitaria francese discorrono Bréal [Op. cit., p. 373-4), Renan (Questions contemporaines, p. 106-7, 143-4, 204-10), PoucHET (Revue des deux mondes^ t. 83, p. 44*)= sulla immobilità dell'insegnamento secondario in Francia profferiva giudizio severissimo l'Hahn (Renan, Op. cit.^ p. ■269-73).

- 442

d'idoli antichi. E bada bene che, assai più delia guerra che li si muove alla lace del sole può riuscirti funesta quella che ^assalirà fra le tenebre e con armi che tu, leale gentil- uomo, non conosci, né, conoscendole, adoprcresti, perchè insozzano la mano che le impugna. Provati un po', ver- bigrazia , a lottare contro il cieco empirismo che regna ancora, quasi unico signore, sul campo della grammatica la- tina nelle scuole secondarie : strappa la maschera ai sistemi irrazionali e tenta tu stesso di sostituirvi un metodo migliore. Una plebe di logori grammatisti, inetti a giudicare il tuo co- nato, paurosi di dover leggere e spiegare un libro nuovo, in- sieme coi più avidi scombiccheratori di grammatichette em- piriche ti grideranno ai quattro venti inesperto novatore, e, biasimando ciò che non avranno inteso e non intenderanno mai, spaccieranno al credulo volgo dei loro divoti con boria cattedratica corbellerie cosi scempie intorno ai tuo lavoro, che tu, per non degradarti, dovrai astenerti da ogni risposta o star pago dj far manifesta agi' intelligenti tutta l'imbecillità mentale de'tuoi avversarli. Provati un po' di propagar Topi- nione che certe parti della storia antica si debbano insegnare con un po' meno di vieto dogmatismo e con ur. po' più di critica odierna-, che, soprattutto, più critico e men dogmatico, meno rivolto ad imprimere ne'giovani intelletti certi assai dubbii teoremi metafisici e più che nei tempi passati diretto a svolgere con feconda libenà gl'ingegni giovanili debb'essere lo insegnamento filosofico liceale: provati un po' di diifondere questi concetti e non meravigliarti troppo se qualche dabben uomo di fede timidissima, qualche indefesso lodator del pas- sato e calunniatore infaticabile del presente e dell'avvenire , qualche pedante tenacissimo del suo mestiere e sgomentato dai pericolo di dover mutare ferri o bottega, forse eziandio qualche ipocrita di prima riga ti accuseranno di voler propa- gare lo scetticismo storico e filosofico, di voler diffondere il

- 443 -

dubbio sisi ematico intomo a splendidi fatti o ad idee fonda- mentali, viziando con quef^t'ablto funesto le tenere menti delle nuove generazioni : e, procedendo (giusta la legge universale del cresci t eundó) di declamazione in declamazione, foi-se per poco non ti diranno perturbatore dell'ordine privato e pub- blico, dello individuo e della società (i;.

Frattanto la scienza italiana non si muove, o spesso im- pacciata, perplessa, lenta; parecchie genti straniere ci pre- corrono, e più di tutte la tedesca (2) -, il nostro ingegno, come se assai non lo scuotessero i suoi grandi ricordi ed il possente moto intellettuale dell'epoca nostra, mal sembra destarsi dal iungo e profondo letargo.

VI.

Se l'ignoranza che non comprende, che non sente nem- meno il bisogno urgentissimo di riforme; se l'accidia che abborre da ogni novità che richieda un po' di lavoro; se la presunzione che s'immagina scioccamente di sapere ciò che non ha mai imparato e dichiara colla più comica solennità di non aver uopo di lezioni, anche quando non è ancor nep- pure preparata ad intenderle; se l'insaziabile ingordigia di subiti e facili guadagni mediante il traffico di anticaglie sco-

ivi Quali ostacoli oppongano anche in Francia alle vere riforme appare evidentemente dalla guerra mossa testé al ministro di pubblica istruzione, del quale lodammo e lodiamo la ormai celebre Circulaire. Leggi, ad es., il recentissimo opuscolo de! signor Cuvillier-Fleury, 'ntitolato La reforme universitaire (Paris, 1873 : v. in isptcie p* 2, 6-7, io-i3, 18, 2-ì-2'i). Davvero, se questo signore crede di aver con- futato efficacemente Bréal e J. Simon, egli è vittima di una deplora- bile illusione.

(2} Come eziandio nella scienza francese si scorgano indizii d'im- mobilità e qual giudizio meritino certe vanterie di primato intellet- tuale rilevasi a sutìicienza dal libro che il francese Marcou pubblicava nel 18Ó9 a Parigi col titolo De la sciencé en France.

- 444 -

lastiche; se tutte queste ignobili cause d'inerzia muovono guerra quanto stolta, altrettanto talvolta ostinata, maligna e sozzamente sleale allo ingegno italiano che tenta di farsi innovatore colle proprie forze, figurati, accorto lettore, quanto oneste e liete siano le accoglienze, che quei vizii, e, ag- giunto ad essi talora, l'orgoglio nazionale, od almeno la commoda larva di esso, sono usi di fare alle riforme scien- tifiche e didattiche di origine straniera e principalmente ger- manica. L'indifferenza, che è pur funesta alla diffusione di nuove idee, può alle volte parer quasi virtù, quasi bene- vola moderazione, ove la si paragoni colla rabbia, or fatta fieramente manifesta, ora dissimulata vigliaccamente, con cui certi barbassori si opposero alla diifusione di certi studi te- deschi in Italia. Questa diffusione è, chi noi sappia ancora, opera che assai poco giova alla scienza, ed, oltracciò, offende la giusta alterezza e snatura il carattere di noi Italiani.

Che la scienza italiana basti all'Italia, ìa francese alla Francia, è una di quel'e dottrine che per io più non si osano professare apertamente e che si possono solo susur- rare all'orecchio dei più intimi amici, degli allievi più re- verenti e più avvezzi a ripetere il pitagorico aùiò? I(pa. Quando si parla al pubblico o si scrive per esso si ammette gene- ralmente che la cognizione degl'intendimenti, dei metodi, dei risultati della scienza straniera può riuscire non poco giovevole: si ha eziandio talvolta la incredibile bontà di ag- giungere qualche parola di lode a quegli operosi che di essa si fanno interpreti alla patria loro. Vuoisi soltanto, osser- vano, non varcar certi limiti. Apparentemente non si po- trebbe dir meglio , e chi non applaudirebbe ? Ma, ove dalle parole procedasi ai fatti e si astringano quei buoni amici del saper forestiero a segnare i confini, entro ai quali cre- dono utile la propagazione di esso nel loro paese, fatti confini ti appariranno stretti, che tu ti sentirai fra essi

445 angustiato quasi come nel letto di Procuste. E, se ti la- gnerai (ed a ragione) ti risponderanno che, alla iìn delle fini, ritalìa, già maestra al mondo due volte, la Francia, già da due secoli regina della civiltà (i) non hanno guari ad impa- rare dalle altre nazioni, verbigrazia da quella Germania che un giorno tanto apprese da esse. E qui sta il gran torto. Che, come ben nota il Bréal, « il est impossible qu'un seul peuple ait par lui-meme i' idée de tous les progrès qui se som présentés à Tesprit des autres nations. Des événements particuhers ont pu favoriser à Pétranger des réformes qui ont pu etre contrariées chez nous par des circonstances for- tuites. Il n'est pas jusqu'aux erreurs de nos voisins qu'il ne soit bon de connaitre, pour ne pas tomber dans les mémes fautes; car il pourrait nous arriver d'ìntroduire chez nous,

(i) « cftte France est grande malgré ses malheurs! Vaincuo

dans une défaillance momentanee de son crganisaiion miiitaire, elle est restée reine par la civilisation, par le crédit, par l'esprit; et per- sonne ne lui òtera cetie couronne, qui vaut bieiì celle de l'enipereur

Guillaume. Pourquoidonc nous renvoyer à Técole des AUemands

CtrviLLiER-FLEURY, Op. cìt. , p. i8. Ed il signor De Laprade discor- rendo del <! genie fran^ais » asserisce che « à coté de lui cette Alle- magne, aujourd'hui triomphante, n'enpeut pas moins éire réputée une race barbare » {Véducation libérale, p. 207). Se due membri dell'Ac- cademia francese professano simili opinioni, quali, chiediamo noi, non saranno le illusioni del volgo ? Come poi l'educazione stessa concorra a perpetuare nelle nuove generazioni cetri pregiudizi di questa natura, pregiudizi funesti , apprendiamo dal Rréal. « Au lieu de contenir notre amour-propre national dans les limites d'un patriotisme inieJ- ligent, au lieu de l'ennoblir en y gretianl l'ambition de lous les mé- rites qui peuvent nous manquer, on a vu l'école comme le collège fiatter plutót que diriger cette inclinatlon naturelle, Tel ìivre répandu dans nos classes, par les parallòles qu'il éiablit à chaque page entre la France et les autres nations , semble avoir été écrit exprès pour donner à nos écoliers la plus mediocre idée du reste du monde, Assu- réraent il est bon et nécessaire de nourrir dans la jeunessc la plusgéné- reuse des passions; mais le patriotisme poussé jusqu'à l'infatuaiion ci à l'aveuglement n'est pas seulemcnt une erreur, c'est un danger pour le pays. ■' Op. cit.y p. 116-7.

446

comme réformes, des expériences depuis longtemps condain- nées à l'étranger » (i). E, per ciò che concerne la scienza, più che a qualunque altro popolo vuoisi appunto presen- temente aver ricorso al tedesco. Il moto intellettiiaie di questo popolo è, scrive il francese Renan, « le plus riche, le plus flexible, le plus varie , dont Thistoire de Tcsprit humain ait gardé le souvenir (2) »: « prodigieuse activité », scrive il Pouchet (3), « dont rien n'avait pu, mème à Paris, nous donner une idée ». Indi la odierna superiorità scientifica della Germania sulle altre nazioni : superiorità incontestabile, come afferma Renan : superiorità riconosciuta da tutti, anche dallo stesso governo francese, come nota il Pouchet, e dal governo italiano che inviò in Allemagna non pochi giovani egregi a compiervi i loro studi universitarii e n'ebbe eziandio qualche dotto ed operoso maestro.

Ma qui un coro di retori ci arresta e ci grida : Voi, che non vi stancate di predicare alla vostra patria la necessità di apprendere molto da scuole straniere, voi offendete la giusta alterezza che la coscienza del proprio valore, la me- moria del suo grande passato le inspira! Che ne direbbero

(1) Op. cit., p. 6.

(2) Questiorìs contemporaìnes, p. 81-2 e segg, « Une université alle- mande de deraier ordre, Giessen ou Greisswald, avec ses peiites habi- tudes étroites, ses pauvres professeurs à ia mine gauche et efEarée, ses privatdocent baves et faméliques, fait plus pour l'esprit humain que l'aristocratique université d'Oxford, a\ec ses millions de revenu , ses colléges splendides, ses riches traitements, ses fellorvs paresseux. » Ib., p. 84. —- « Niuno apprezza più di me la nazione germanica , così per la sua indole, come per li suoi meriti in molte parti del sapere , e specialmente nell'erudizione, dove ella ha pochi pari fra' popoli mo- demi. Anzi si può dire generalmente, i Tedeschi essere per alcuni rispetti i soli Europei, che sappiano ancora studiare. » Gioberti, Intro- dusfiotte allo studio della fJosoJìa, ed., Brusselle, 1844, voi, i, p. S2

(3) L'enseignement supérieur des sciences en Allemagne [Revue des deux mondes, t. 83, p. 43 1).

447 gli avi? Non vi ripudierebbero essi forse^ quasi degeneri nepoti, quasi bastardi Italiani, se vi vedessero inchinarvi con reverenza di allievi innanzi ai discendenti di coloro cui essi chiamarono barbari? Gli stessi Tedeschi non si faranno forse beffe di voi, di voi intenti ad imparar da loro, essi fieri di essere e di conservarsi Tedeschi? Ti confessiamo, intelligente ed onesto lettore, che, quanto commoda (come quella che esenta da lunghi e laboriosissimi studi di lingue e di dottrine forestiere), altrettanto strana ci sembra una certa italianità, la quale non si rivela mai così viva, come quando si scaglia contro il sapere germanico, Piii strana ancora ci appare cotale italianità, ogniqualvolta ci ricorre alla memoria come fra i più rabbiosi e famigerati rappresen- tanti di essa siavi chi sembra essersi acceso d'ardentissimo zelo di difendere i sacri diritd dello ingegno italiano contro i Teutoni (i), soprattutto da che, per certe impertinenze, un

(i) Le armi, per buona ventura affatto innocue, di qualche italia- nissimo di questa risma sono ora rivolte principalmente contro T. Mommsen per i giudizi severissimi da lui profleriii nella sua Storia romana sulle attitudini artistiche dello ingegno italico e sopra parec- chi fra i nostri più celebri scrittori antichi e moderni. Non è punto nostro intendimento difendere T. Mommsen: egli è tale che non ha uopo di alcun difensore, specialmente poi contro certi ovversarii, coi quali egli non potrebbe nemmeno scendere a lotta senza parer Ercole che insacca i Pigmei. Staremo paghi di notare che muovono a riso gii anatemi scagliati ancora presentemente sugli accennati giudizi momm- scniani, come se questi fossero novità d'oggi o di ieri e non si tro- vasse nelle opere di grandi pensatori precedenti nemmeno un germe di fatti concetti (v., ad es. , ciò che intorno allo ingegno romano si legge nel Cosmos di A. Humboldt, parte i% cap. lo, voi. 2, p. i5 e segg. della vers. fr. di Galusky, Parigi, 1848). A buon diritto quel- l'uomo egregio che è il professore P. Villari, dopo aver condannale quelle sentenze dello storico tedesco, protesta che non per questo può associarsi « alle critiche puerili d'alcuni giornali, i quali dimentica- rono che parlavano d'uno dc'più grandi pensatori e scrittori moderni » (Scritti pedagogici, Torino, i8ó8, p. 343). Che più? Si giunse ad accusare T, Mommsen di aver errato in più luoghi nella versione di una iscrizione latina. Quella versione ridi , o lettore non era opera di Mommsen!!!

- 448 - gran maestro teutonico lo castigò, dicono, come si castiga- vano i fanciulli, facendogli assaggiare la sua verga filo- logica. Stranissima poi e quasi incomprensibile, quasi mi- stero per noi è questa italianità, allorquando fra i più ac- caniti banditori di essa udiamo la voce di taluno, il quale, non sappiam bene per quali ragioni, forse in parte per di- spetto e per isbaglio, s'imbrancò con quegl'Italiani che vili- pendono ritalia nuova, ma ne accettò, nondimeno, onori e stipendii. Supponi ancora, o lettore (se hai imaginativa poeta), supponi, ad esempio, che quella gelosa, fiera italianità abbia una volta insultato grossolanamente alla me- moria di un insigne italiano e n'abbia avuto in pena una degradazione, e tu avTai un argomento di satira degno di Giusti (i). Ma, con buona pace di questi italianissimi, noi continueremo a credere ed a dichiarare senz'ambage, che qualsiasi popolo, e soprattutto quelli che aspirano a m0.ggior nobiltà, debbono sempre anteporre ii generoso amore del vero all'orgoglio nazionale. Ne ci vien fatto di vedere come a questo possa recare maggiore offesa lo imparar da stranieri, senza ossequio servile e con perfetta indipendenza di cri- terio (vale a dire esaminando liberamente, quindi conti- nuando e forse eziandio migliorando Topera loro), che non l'ignorare ciò eh' essi sanno, e, tronfii del nostro passato, paghi del nostro presente, non curanti del nostro avvenire, rimanere perennemente da meno di coloro, cui, stoltamente arroganti, non volemmo a maestri (2). E questi si resero e

(i) E degno di versi che la gioventù studiosa impari a memoria come i quattro famosi:

Piango l'Italia Coi liberali; E se mi torna Ne dico coma ».

(2) « il n'y a pas de déshonneur à un peuple d'en prendre de

temps en temps un auire pour modèle; nous » il francese Baudry

449- si mantengono tali per ciò che. oltre al loro proprio intenso lavorio intellettuale, e impararono ed imparano anche pre- sentemente, ogniqualvolta abbia loro giovato o giovi, da noi e da tutti: e di ciò sono conscii, si vergognano di con- fessare che qualche volta avvenne loro di trapassare il se- gno (i), non punto temendo, come mostrano certi Italiani, che lo apprendere dalla scienza forestiera snaturi il carat- tere nazionale.

E veramente qual uomo di sano intelletto oserebbe mai affermare che si snaturi un organismo, vuoi vegetale, vuoi animale, collo appropriarsi certi elementi estrinseci, assolu- tamente necessarii alla conservazione, allo svolgimento del medesimo? Così sarebbe vana follia lo asserire che ad un popolo sia per venir meno ciò che, compenetrando, infor- mando tutti gl'individui che lo compongono, costituisce il carattere, la personahtà di esso, allorquando questo popolo, scorgendo in difetto di qualche principio vitale che in altri si rivela rigoglioso e fecondo, sforzasi di trarne da questi quanto gli occorre, conformandolo alla propria natura, assi- milandolo a stesso (2). Molti secoli prima che la civiltà

che parla, Questions scolaires, p. 11) « nous l'avons fait plus d'une fois dans le cours de notre histoire. Notre Renaissance a imité l'Italie; notre dix-huitième siècle a imiié l'Angleterre. Les étrangers aussi nous oni copiés sans rougir, car un seul peuple ne peiu tout créer, Avons- nous eu tort d'emprunter le jury aux Anglais? » E non si tenta forse d'imitare l'organizzazione dell'esercito tedesco? « Quittons, comme une puérilité, la prétention de ne rien devoir à personne, et sachons prendre les bons exemples ils se trouvent. »

(i) « Tfa i popoli moderni siamo noi Tedeschi, com'è noto, i più atti e disposti ad approvare e ad accogliere quanto è forestiero ; noi abbiamo, pur troppo, accolto più che non possiamo combinare coi no- stro proprio spirito nazionale. » La2arus e Stzwthm., Einleiteude ge^ danken ìiber vólkerpsychologie ecc. {Zeitschrift fiir volkerpsychologie und sprachwissenscha/ìy voi. i, p. 66).

(2) " Écartons également l'objeciion de la différence des génics et des races, véritable argument de paresse à l'usage de la routine qu'on

- 450 - moderna rendesse sempre più numerosi e stretti i legami tra nazione e nazione, Roma sentì, comprese l'imperioso bisogno di far suo tutto ciò che utile ad essa pareva nelle instituzioni degli stranieri, degli stranieri ch'ella aveva vinti o stava per vincere (i). Imitiamo i padri nostri, ricavando da quei popoli, che ne sono a dovizia forniti, le forze onde ci è uopo, e fondendole colla nostra propria natura da fatto innesto ci distolga soverchio timore di vederci un giorno trasformati, verbigra^'.ia, in Tedeschi, come già sem- brammo diventati prima Spagnuoli e poscia Francesi: che la conquistata autonomia nazionale ed il grave divario che !e genti neo-latine discerne dalle germaniche attenuano, ben piià che altri non abbia mostrato di avvedersene, il valore di quel paragone.

dérange. Qui n'a pas souri, quand le ministre de l'instruction publique d'Espagne recornmandaità ses subordonnés de « se défier des vaporeuses concepticns d'une phiiosophie et d'une critique étrangères au genie es- pagnol! ■> Nous n'étions pourtant pas moins ridicules, quand, prenant pour l'espiit franyais les accidenrs de ncir situations, nous le dccfarions incompatible avec « les reveries de la science germanique » . s'est trouvé que les préiendues reveries étaient la force réelle et positive, et que les vrais songe-creux, c'étaìt nous, endormis dans rillusion d'une fausse super iorité. » Baudry, Questions scolaires, p. lo-ii.

(i) Notarono questa tendenza all'assimilazione i grandi investigatori rooderni della vita ronnana, v. g. Macchiavelli [Discorsi sopra la prima deca di T. Livio, libro 2», capit, 3"), Vico {Opere, ed. Ferrari, Milano, i835-7, '^^^' 2°, p. ii3-4), Montesquieu [Considérations sur les causes de la grandeur des Romains »»cc , Paris, Didot, r8o2, p. aSy). «.. tutte quelle », leggiamo iu Vico [Le), <■> che stimansi comunemente fortune de'Romanì, io riduco a questa sapienza, ch'essi seppero far buon uso de'fruui della doitriua delle altrui repubbliche » ecc. Cosi G. Cesare in Sallustio (Cat., LI): « Maiores nostri... nequc consiiii, ncque audaciae umquam eguere : neque illis superbia obstabat, quo minus aliena insti- tuta, si modo proba erant, imiiarentur. Arma atque tela militarla ab Samnitibus, insignia magistratuum ab Tuscis pieraque sumpserunt, postremo quod ubique apud socios aut hostes idoneum videbatur, cum summo studio domi exequebantur, imitari quam incidere bonis male' bant » (ed. Gerlach, Basiliae, iS52, voi. i, pag. 34).

- 451 - Procedendo ora da questi concetti generali ad alcune con- siderazioni che concernono in ispecie quegli studi, cui questa Rivista è particolarmente consecrata, noteremo innanzi tratto che, come alcuni anni or sono era vezzo di alcuni Italiani far bersaglio dei loro colpi la filosofia di Hegel (anche dappoiché non era più prevalente nemmeno in Germania) e la critica storica di Niebuhr, così presentemente l'onore di essere as- salite con violenza quanto rabbiosa altrettanto impotente da certi nostrali, in cui la presunzione tiene spesso luogo di scienza e la supera spesso di gran lunga, spetta singolar- mente alla filologia classica ed alla hnguistica dei Tedeschi. Si biasima, si berteggia Tortografia latina ch'essi adope- rano; ma non la si confuta, non la si discute seriamente, non se ne conosce neppure il principio supremo (i). Si osa insegnare cattedraticamente essere sovente lavoro superfluo, ridicolo e pernicioso quello di tutti coloro che impinguano le loro edizioni dei classici di varianti innumerevoli; alcune di queste essere tali che si debbono rigettare come immondizie. Egregiamente ! Così si lavora assai meno e si passeggia quattro o cinque ore del giorno, alia barba di que' buoni Tedeschi che in quel tempo non istaccano gli stanchi occhi dai co- dici che cercano in tutte le biblioteche del mondo. Qui una plebe di pedanti, per insipienza, per arroganza, per infin- gardaggine, per cupidigia, si arrabatta contro i nuovi metodi germanici più razionali per lo insegnamento del latino e del greco ne'ginnasii e ne'licei (2) ed erutta scioccherie tali che non meritano l'onore di una risposta : un volgo di retori

(1) V. Brambach, Die neugestaliung der lateinischcn orthographie ecc., Leipzig, 1868: opera che espone sistematicamente le ragioni deìl'or- tografia latina onde abbiam fatto cenno ; opera che certi aristarchi doz- zinali non mostrarono mai di aver letta di sapere iiftendere.

(a) V. la terza parte di queste nostre Considerazioni nel fase. 7" della presente Rivista, p. 310-329.

- 452

camuffati da filologi raglia, calunniando, contro la scienza del linguaggio, della quale fu creatrice ed è ancora suprema maestra l'AUemagna. Ed ora con lepida gravità dottorale accusano i linguisti di voler restringere lo studio del latino a ricerche etimologiche, di non essere altro che uccellatori di suoni, di sillabe, di distogliere i giovani dal culto dei clas- sici antichi e di ottundere gl'ingegni : ora, mutando la toga del professore nella veste di Arlecchino, sgavazzano buffo- neggiando, proponendo, a nome della odierna glottologia , certe strampalate derivazioni di vocaboli. Queste accuse ed i loro autori sono fattamente estranei alla scienza del lin- guaggio, che questa non potrà. mai, nemmeno un istante, cu- rarsi né delle prime dei secondi. È noto a tutti coloro, i quali di linguistica storico-comparativa non sono così pro- fondamente ignari come quei signori (i), non essere la investi- gazione dei suoni e delle radici se non una parte del compito che si propone il linguista nostro contemporaneo; che altra parte, certamente posposta a quella, é T analisi delie

(i) Che diresti, o lettore, se alcuno di questi dottoroni avesse dato prova di non sapere ancora che la scienza del linguaggio non bassi a chiamare 7?/o/o^:j, la quale è, per consenso dei più dotti, ben altra disci- plina; di non accorgersi che muove a riso anche l'ultimo dei linguisti lo udir discorrere non di suoni, ma di lettere {sicl ! !), aggiunte, tolte, spostate, e il veder fatto cenno dei suffissi e delle flessioni, come se gli elementi costitutivi della flessione non fossero suffissi; di credere che un glottologo odierno non si vergognerebbe di certi paragoni fra parole appartenenti ad idiomi non affini fra loro ; d'ignorare che nessun vero erudito considera più la lingua sanscrita quale procreatrice della greca e della latina, vieto pregiudizio che più non esiste ormai da molti anni? Che diresti finalmente se, per un quasi incredibile scerpellone, avesse appellato mw^am^wfo JKOr/b/o^/co un fenomeno che uno scolare di quarta ginnasiale gl'insegnerebbe a denominare mutamento fonetico } Se poi, prima di essersi mai mostrato esperto di linguistica storico-compara- tiva, anzi dopo aver fatta palese anche ai meno dotti la sua ignoranza, supina di questa scienza, v'ha chi s'impanca tra i giudici di essa, non si meravigli almeno se altri non se ne pensiero o si ride della disap- provazione di lui, come di giudice incompetente.

- 453 forme nominali e verbali; che altra parte ancora è Tìnda- gare il valore delle radici e delle forme, considerate come sìmboli di concetti, chi voglia profferir giudizio sulla lingui- stica odierna può passare sotto silenzio questa serie di ri- cerche, estese, profonde, frequenti, senza rendersi degno di una patente di mala fede o di crassa ignoranza. È noto eziandio che la linguistica non è punto avversaria, ma amica e sorella della vera filologia, cui reca e da cui trae giova- mento ; che non essa ottunde lo ingegno, essa che è la storia e la filosofia della umana favella, ma bensì quella miserabile contraffattura dello studio classico, quella bastarda filologia da ciurmatori, da scimmiotti, che con qualche centinaio di parole e di frasi, tratte dagli antichi e combinate in varie forme, inorpella il difetto di dottrina ampia e profonda, di gagliarda imaginativa, di acuta e vasta intelligenza; che, fi- nalmente, si fa in un mese maggiore e migliore lettura di scrittori latini in molti ginnasii di Allemagna, patria della linguistica, che non, in un anno, in qualche ateneo non ger- manico, ove il commento, tanto strombazzato, di autori ro- mani è ristretto a certi limiti di tempo che farebbero ridere qualunque professore tedesco, e spesso consiste in certe os- servazioni che parrebbero ben povera cosa anche in un liceo degno dell'epoca nostra.

Sebbene ne'cenni precedenti siamo stati, com'era nostro dovere, brevissimi, ci sembra nondimeno apparire da essi a sufficienza quale e quanta sia la cognizione che della scienza in genere, in ispecie poi della filologia classica e della lingui- stica straniera, e, soprattutto, della germanica, mostrarono di avere certi accaniti avversarli della propagazione di esse fra noi Italiani. ciò farà specie a chi sappia come un liRro te- desco, ed eziandio un libro inglese, sia proprio un mistero pel maggior numero di questi signori, che, se venissero per avventura offesi d'acri censure da un dotto di Allemagna e

454 nel linguaggio di questo paese, sarebbero costretti, poverini, a farsele tradurre, anche a costo di dar luogo a qualche scena veramente comica, che il semplice ricordo di essa potrebbe destare l'ilarità anche dopo parecchi anni. Si direbbe che cotali aristarchi siano discendenti di quei due gentiluomini, i quali, narrasi, neiPepoca della famosa contesa fra gli ammi- ratori di Ariosto e quelli di Tasso, si sfidarono, si' batterono, si ferirono, e, feriti, confessarono non aver letto mai rOriando furioso la Gerusalemme liberata. Coll'abito lo- devolissimo di giudicare spesso senza conoscere a sufficienza, talora eziandio senza intendere punto ciò che si giudica, si conservò in alcuno dei dottoroni odierni onde discorriamo il vezzo non meno lodevole d'inveire contro ai proprii avversarli o di farsene beffe, e qualche volta in guisa fattamente plebea che l'assalito potrebbe, senza far ingiuria alla verità, rispondere allo assalitore colle parole del pedagogo erasmiano al rozzo discepolo: « Tu mihi videre non in aida natus, sed in caula^ì{i). meravigliarti, o lettore, se taluno di quei generosi, che forse si vide molte fiate serrare in faccia le porte di qualche accademia, si farà, alla sua volta e da suo pari, intoppo a te per negarti l'adito a qualche società scientifica, appena che si sarà avveduto che tu sei uno dei propagatori della scienza germanica nella tua patria.

Se, per ciò che abbiam fatto (senza risparmiarci fa- tiche né lotte) collo intento di promuovere nella patria no- stra il culto della linguistica tedesca, la nostra voce suona non affatto inefficace alla gioventù studiosa d'Italia, noi l'e- sortiamo con tutte le nostre forze a non lasciarsi illudere dai vani argomenti sgomentare dal cipiglio o dalle beffe di quei certi Italiani, che la distolgono dal far suo con in-

(i) ERAsm Colloquia /amiliaria, Basileae, 1707, p. 41.

- 455 - tenso lavoro il saper forestiero. Noi Pesortiamo alio studio delle lingue e delle scienze straniere (i), per amore del vero che vogliamo diffuso fra tutta l'umanità, per amore del no- stro paese che vogliamo pari ai più civili nei desiderii, nelle opere che affrettano il progresso. E, se non a noi, credete, giovani italiani, credete a Cesare Balbo, ed imparate da lui essere ormai un assurdo « quella gretta e stringata e sognata nazionalità » (2) che abborre da ogni contatto morale di stranieri: doversi far quistione « se le cose son buone o no », ma lasciar « quella eterna, se sieno nazionali o stra- niere » (3); doversi dagli stranieri non prendere « il male mai, ma il bene sì, senza diflicoltà » (4). Credete a Vincenzo Gioberti, il quale v'insegna che, ove altri u sappia usarne con

(i) Quando lo studio delle lingue classiche sarà stato reso più breve e più facile, mediante un metodo più razionale ; quando saranno stati risireiii a più giusti limiti certi studi scientifici; allora si potrà, imitando il nobile esempio che ci ora la Francia per opera di j. Simon, fon- dare anche nelle scuole secondarie italiane un serio insegnamento di qualche lingua moderna, per guisa, ad esempio, che nei due ultimi corsi del ginnasio s'apprenda dai giovani alunni il francese, e nel liceo s'im- pari tanto di tedesco, quanto C necessario per intendere la prosa scien- tifica dettata in questa lingua. V. Brèal, Op. cit., p. 258-9; J. Simon, Circulaire ecc., 6°.

(2) Pensieri ed esempli, Firenze, i856, p. 221.

(3) Op. cit., p. 38o,

(4) Op. cit., p. 362. « E voi, non vedete voi quella sm.ania che hanno tanti di gridare contro le letterature settentrionali, quasi turbanti il no- stro bel cielo; contro le filosofie straniere, quasi turbanti i nostri animi; contro ogni invenzione straniera, quasi un pjagio fatto a qualche antico Italiano? A me par anzi una smania, una monomania universale. » Op.

cit., p. 388. « vorrei che si considerasse oramai la letteratura (cioè

intendo la letteratura colle scienze e colle arti), la coltura, la civiltà in- tellettuale tutta intiera delle nazioni cristiane, come una sola coltura, una sola civiltà: che tutti insieme, a gara si, e, se volete, con qualche emulazione, ma sen:^a gelosie^ sen^a dispute, si cercasse di promuovere questa comune coltura ; che, quanto a scien:;a e cogni:^ioni positive, si prendesse gli uni dagli altri, quanto prima, quanto più facilmente , ogni trovato, ogni novità »• ecc. Op. cit., p. 391.

- 456 senno», può giovargli il conoscere anche gli errori dottrinali dei Tedeschi, errori « talvolta dottissimi » (i). vi cadano dalla memoria le seguenti nobili parole di P. Villari: « L^indole dell'Italia e della Germania son diverse, e resteranno sempre tali; ma oggi non vi è nessun popolo civile che possa vi- vere isolato, perchè la civiltà moderna risulta dalPazione combinata di tutti. Onde, se si può deplorare in alcuni Tedeschi quell'orgoglio che s'illude a segno da credere, che la civiltà moderna debba essere germanica; non ci sono pa- role bastevoli a condannare la puerilità di tanti fra noi, i quali credono possibile il fare qualche cosa che duri nelle lettere o nelle scienze, senza sapere ciò che fanno le altre nazioni più civili di noi; e vorrebbero addormentarci sull'idea ridicola di un primato italiano in ogni cosa, pri- mato che oggi a nessuna nazione può esser concesso. Queste frasi rettoriche potevano una volta servire a na- scondere la nostra ignoranza; ma oggi neppure a questo umile ufficio possono bastare. Non ci resta altro scampo che il lavoro modesto, paziente, senza presunzione; ma con fede in noi stessi. Dobbiamo apparecchiarci colle pro- prie forze a compiere la nostra parte, persuasi che ogni nazione ha un grande scopo da raggiungere, e che nessuna può raggiungerlo vivendo isolata. Apparecchiamoci, adunque, nelle scienze, nelle lettere e nelle istituzioni, ad imparare qualche cosa da ogni popolo civile, per restituire, poi, a tutti i popoli qualche parte della nostra civiltà rinno- vata » (2).

D. Pezzi.

{Continua)

(1) Degli errori filosofici di A. Rosmini, ed,. Brusselle, 1843, voi. 2, p. 291. (^) Scritti pedagogici, p. 372.

Pietro Ussello, gerente responsabile.

457 -

SAGGIO SUL CLITOFOtKTE DIALOGO ATTRIBUITO A PLATONE.

Siccome le Istrniiom emanate dal Ministero di pubblica istruzione nel 1867 molto saviamente prescrivono nell'inse- gnamento filosofico alcuni esercizi sui testi di filosofi greci o latini, non parrà fuor di luogo in una ^vista che s'intitola non solo di filologia, ma anche (l'istruzione classica il saggio che qui si pubblica sopra un dialogo attribuito a Platone, dialogo brevissimo, ma, come si vedrà, non privo d'importanza per la cognizione della filosofia socratica.

Su questo dialogo, che s'intitola Clitofonte, sono a discu- tersi tre questioni: t** Se sia autentico; 2* Se, non essendo tale, sia almeno opera di qualche contemporaneo di Platone; 3** Quale sia la sua significazione.

I.

La prima questione è subito risoluta. In ogni dialogo ove Platone introduce la persona Socrate, mostra verso il suo maestro un'alta ammirazione ed un' affettuosa riverenza a cui fa strano e spiacevole contrasto il modo orgoglioso e sprezzante con cui Socrate è trattato in principio del Clito- fonte, non già da sofisti come Trasimaco o Polo, messi da lui alle strette ed esacerbati per la meschina figura che ven- gono facendo nella discussione, ma da un cittadino Ateniese, di cui si riferisce il discorso con approvazione, e senza con- trapporvi risposta o correttivo di sorta. In nessuno dei pe- riodi della «iua operosità come scrittore può Platone avere

Hivista di filologia ecc., I. 3i

- 45S - usato in riguardo a Socrate espressioni come quelle che ver- remo notando appiè di pagina nella traduzione del dialogo che aggiungeremo in fine di questo saggio. Siamo ben lon- tani da quella rigidezza critica di molti Tedeschi, i quali nel giudicare dell'autenticità dei dialoghi platonici non ricono- scendo altro criterio che l'intrinseco, quello cioè che consiste nei loro maggiore o minor pregio dialettico ed estetico, di- chiarano spurii tutti quelli che sembrino troppo lontani dalla perfezione che si ammira nel Protagora, nel Gorgia, nel Fedone, e nella Repubblica : crediamo che Valiquando bonus dormiiat sia vero non solo di Omero, ma anche di Pla- tone; crediamo che il valore di questo come scrittore non sia stato ne' suoi primi saggi, e nel svio ultimo lavoro, cioè nelle Leggi, così eminente come nelFapogeo della sua vita let- teraria. Ma quello che non crediamo abbia mai potato cre- scere né alterarsi è l'amore, la riverenza e l'ammirazione ch'egli sentiva per Soci ate. Noi cancelliamo adunque dal canone platonico il Clitofonte non tanto perchè indegno dello scrittore, quanto perchè indegno dell'uomo.

II.

A risolvere la seconda questione od almeno a recarvi qualche luce fa d*uopo richiamarsi alla memoria un passo di Senofonte {Memor. I, 4, i), che col Finckh e con Eu- genio Ferrai io leggo nel seguente modo: €ì òé rive? IcuKpàrriv voiiilovaiv, o\<; (in luogo del vulg. ib?) Ivioi ypàq>Q\)ai t€ km X^TOwai 7t€pl aÒToO T£K|uaipó|bi€Voi, TTpOTpevpaaeai fièv dvGpwiTOUi; in' dpeTtiv KpdTiOtov ferov^Ivcti, TTpocfaxaTeiv b' èn' aùTf]y o^x ivcavóv, (SK&\iàixevox k. t. X. e traduco così: k Se poi alcuni, tt argomentando da quanto parecchi ne scrivono e ne dicono. K credono che Socrate fosse valentissimo nei convertire gli u uomini alla virtù, ma incapace poi di guidarii infìno ad '< essa, costoro, dopc che avranno considerato ecc. «. 11

459 - qual passo ha una stretta connessione col nostro dialogo, come già fu accennato da G. F. Hermann nella sua Storia e sistema della Jilosojìa platonica (p. 325, nota 3o4). tratta però di vedere di qua! natura sia questa connessione, di vedere cioè, se, al tempo che Senofonte scriveva le parole citate, il nostro dialogo già esistesse e fosse appunto uno di quegli scritti a cui alludeva Senofonte, nei quali tacciava Socrate sapere soltanto eccitare gli uomini alla virtù, ma non mostrar loro in modo preciso la via per arrivarvi: op- pure, inversamente, se il passo di Senofonte abbia dato oc- casione ed impulso alla composizione di questo scritto, che in quelle parole si sperava avrebbe trovato una speciosa prova della propria autenticità. Per quanto la seconda di queste due ipotesi possa sorridere alla moderna critica, e fossero anche più numerosi che non sono gli esempi di produzioni apocrife fatte nascere da certi luoghi di autori antichi coi quali si avea speranza di autenticarle, io mi confesso propenso alla prima ipotesi, e credo che il C/2V0- fonte sia opera di qualche contemporaneo di Platone, attri- buita a Piatone stesso in tempi posteriori, quando per avi- dità di guadagno si fabbricavano opere d'ogni genere che si attribuivano a celebri filosofi antichi, o si insignivano di quei gran nomi opere antiche bensì, ma d^gnoti autori, e le une e le altre si vendevano a caro prezzo ai re di Pergamo e di Egitto che ne arricchivano le biblioteche novellamente fon- date. Che al tempo, in cui Senofonte scriveva i Memorabili, esistessero scritti di un contenuto analogo a quello dei Clitofonte, è un fatto indubitabile, come quello che è espres- samente attestato da Senofonte nel passo citato. Che nel Clitofonte nulla si trovi che escluda Tantichità, e ci vieti di ammettere che questo dialogo potesse essere uno di tali scritti, è cosa che io credo abbastanza provata nelle note che accompagnano la traduzione: che il Clitofonte fosse

- 460 - realmente uno di tali scritti, è reso probabile da due ra- gioni, runa estrinseca e l'altra intrinseca, che svolgerò bre- vemente.

Ragione estrinseca. 11 Grote nella sua opera su Pla- tone (i) tolse a sostenere niente meno che Tautenticità di tutti ì dialoghi riconosciuti come autentici da Trasillo, e da questo distribuiti in quella serie tetralogie che ancora possediamo (2). I critici tedeschi da Schleiermacher in poi, osserva il Grote, hanno ragionato sopra ciascun dialogo come se il suo titolo ad essere considerato come genuino dovesse ancora provarsi o per testimonianza estrinseca, o per interne prove desunte dalla qualità delio stile, dal metodo delia trattazione, dalle dottrine ecc., come se, in una parola, Vonus probandi incombesse a chi ne osserva la genuinità, e non già a chi la nega o la revoca in dubbio. Ma, dice il Grote, esiste una presunzione in favore degli scritti platònici contenuti nel canone di Trasiilo. E in che consiste questa presunzione r Eccolo in poche parole. La scuola fondata da Platone ebbe sua stabile residenza in Atene, prima ntl'i' Accademia^ poscia (a." 87 a. C.,) nell'in- terno della città per circa due secoli. In questa scuola si conservavano con gran cura gli scritti di Platone. Non è da credere che i discepoli di Piatone, così diligenti nel pren- dere appunti deirinsegnamento orale del loro maestro (3),

(i) Plato and the other companions 0/ Socrates. La discussione sul- l'autenticità degli scritti di Platone trovasi nel i'^ voi. p. i32-2ii.

(2) Ci è data da Diogene Laerzio.

(3) Questa loro diligenza è provata, secondo Grote, dalia testimo- nianza di Simplicio in Phys. Aristot. f. 32, p. 334. b. 28., ed. Brandis, p. 362 a. 12, dove si dice che Senocrate, Speusippo, Eraclide Pon- tico, Estieo, Aristotele ed altri s'erano trovati presenti alla esposizione orale {ànpoàcex) fatta da Platone della sua dottrina sul Buono, e tutti aveano .^critto e conservata memoria di questa dottrina; irdVTe?... auv- éypa'4>av koI ftièaiLaavTO ti^v òóìav avixoO.

461 fossero poi tanto negligenti in riguardo ai suoi scrlui da non provvedere nel miglior modo possibile afiSnchè tutti si conservassero, e non s'introducesse fra di essi alcuno scritto non genuino. Da Atene ì libri di Platone passarono alla biblioteca di ALlessandria; e quivi pure si avevano ampie guarentigie dell'integrità e purezza del canone platonico. Diogene Laerzio dice che « alcuni tra i quali anche il grammatico Aristofane distribuiscono i dialoghi di Platone in trilogie )>. La loro collezione dovea dunque già trovarsi nella biblioteca di Alessandria, al tempo che ne aveva la direzione questo Aristofane di Bisanzio, il quale visse pro- babilmente fra il 260 e il 184 prima di Cristo. Il lavoro di Aristofane era analogo a quelli, che i predecessori di lui neiruffizio bibliotecario avevano eseguiti sopra altri autori, ì cui libri preesistevano, ma disordinati, in quel grande Museo (i) È probabile che i libri di Platone ci si trovas- sero fino dalla sua fondazione, perchè Timpulso alla crea- zione di quell'istituto era venuto ai Ptolemei da Atene (Stfab. XI II, 608). La collezione Alessandrina era adunque un fedele ritratto di quella di Atene, ed aveva gli stessi pregi, Tintegrità e la purezza. Questi pregi non vi fu più pericolo che li perdesse dopo che fu incominciato il lavoro critico che si prosegui fino al retore Trasillo, contemporaneo di Tiberio. Ben potè avvenire ed avvenne difatto che si revocasse in dubbio per ragioni intrinseche Tautenticità di qualche dialogo, come da Panezio fu revocata in dubbio per fin quella del Fedone (2), perchè a lui stoico, sostenitore

(i) La distribuzione in trilogie si fonda sul considerare i dialoghi di Platone cóme drammi, i quali si univano tre a tre (trilogie), od anche quauro a quattro (tetralogie).

(2) È curioso i' passo citato in prova dal Grote: TTovdTio^ T<lp tk ^TÓXuTioe voeeOaai tòv ftidXoTOV èTr€i6i*| ràp fXrfev elvai 6vt]T)^v tVjv ^- t.i\v, èpoOXcto ouTKaTaairdacn tòv TTXdTwva. k, t, X. Schol. Asclep. in Metaph. p. 576. a. 38. ed. Brandis),

- 462 - del dogma del periodico litorno di tutte le cose nell'unità primitiva, pareva impossibile che un Platone avesse am- messo una dottrina cosi assurda come era per uno stoico quella della perpetua conservazione delle anime individue:, ben poteva avvenire anche dopo Aristofane, ed avvenne di fatto ehe qualche scritto o antico o recente si facesse passare sotto il nome di Platone come appunto quei dieci dialoghi che furono poi esclusi da Trasiilo: ma ringanno non poteva perpetuarsi, perchè si aveva sempre nell'antico canone un criterio sufficiente a dissiparlo. E di questo cri- terio appunto si valse il retore Trasillo nella, nuova ed ul- tima ricognizione ch'egli fece degli scritti platonici.

Trasiilo, il quale nella distribuzione dei dialoghi in te- tralogie seguì lo stesso principio che Aristofane, conside- randoli cioè come composizioni drammatiche, si attenne probabilmente anche nei lavoro di sceveramento degli au- tentici dagli spurii ai catalogo dei suo predecessore. Tutti gli scritti platonici riconosciuti da Aristofane (Biogene Laer- zio ne la lista sfortunatamente incompiuta), si trovano nel catalogo di Trasillo, dalla quale coincidenza rimane provata, come crede il Grote, Tautenticità degli scritti più sospetti alla moderna civiltà, quali sono le Leggi {i),\''Epi- nomis, il MinoSy le Epistole^ il Sofista^ il Politico. Trasillo insomma nel suo giudizio seguì un criterio estrinseco, indi- pendente da ogni apprezzamento del valore fiiosotìco e let- terario degli scritti, come apparisce evidentemente dal fatto che egli accolse quali genuini alcuni dialoghi, come VIp-

(i) I critici tedeschi vanno riconciliandosi coll'opcra Delle Leggi. Zeller, che nei Platonìsche Studien l'aveva negata, ora fammeite, come anche i'Ueberweg, e persino Carlo Scharschmidt, il quale riduce a soli nove gli scritti autentici di Platone, comprende fra questi le Leggi. Gli altri otto soiio il Fedro, il Protagora, il Convito, il Gorgia, ia Repub- blica, il Timeo, il Teetelo, e il Fedone.

463- parco^ ì\ MinoSy il Teage, il Clitofonie stesso, i quali, giu- dicati dal loro pregio intrinseco da mi critico cosi competente come era Trasillo^ avrebbero dorato essere dichiarati spurii al tìtolo stesso e cui egli dichiarava tali VErfxias, il Sisifo, il Demodoco. E quale mai poteva essere questo criterio estrinseco, se non l'antico canone tradizionale, il quale passato da Atene ad Alessandria era stato riconosciuto e fissato per sempre da Aristofane? Dalle quali considerazioni il dotto storico inglese è condot.ro ad affermare Tautenticità di tutti gli scritti che da Trasiilo sono attribuiti a Platone. Il Grote ha ragione quando nella questione dell'autenti- cità dà la prevalenza alle prove estrinseche sulle intrinseche, le quali consistendo per lo più in apprezzamenti del merito degli scritti e della loro maggiore o minore conformità col genio dell'autore, hanno sempre alcunché di soggettivo e di arbitrario. Egli ha ragione quando scrive : « Mentre io « aderisco al canone di Trasiilo, io non mi credo obbligato « a dimostrare che Platone sia sempre stato simile ed eguale, *c o coeiente a stesso in tutti i dialoghi che sono contenuti a in quel canone, e ^r tutto quel periodo di cinquant' anni « durante il quale questi dialoghi furono composti. Platone tt si trova in tutti e in ciascuno dei dialoghi non in un tipo « imaginarioj ricavato per via astrazione da alcuni di essi, « ad esclusione dei rimanenti. I critici hanno tanta riverenza « per questo tipo di loro propria creazione, che essi si tra- <' vagliano per arrivare ad un risultato che con quello si ac- <t cordi, sia interpretando in nuovi modi, sia ripudiando ciò K che non vi si accorda. Qifesto sacrificare la diversità e " distinta individualità dei dialoghi alla conservazione di una e supposta unità di stile, di tipo, o di proposito, mi sembra un errore. In realtà non esiste per noi un Platone pcrso- « naie punto piii di quel che esista un Shakespeare perso- ci naie. Platone (eccetto nelle epìstole) non apparisce mai

- 464 h davanti a noi, ci alcuna opinione come sua propria : « egli è rinvisibile espositore di diversi caratteri che conver- « sano fra loro in un certo numero di drammi distinti « ciascun dramma è un'opera separata, manifestante il suo « proprio punto di vista, affermativo o negativo, coerente « o incoerente cogli altri, secondo i casi » (p. 210-11).

Ma quando il Grote dal fatto della somma diligenza dei discepoli di Platone nel conservarne gl'insegnamenti orali e gli scritti, vuole inferire che eglino procedessero con eguale diligenza neliescludere dalla collezione di codesti scruti tut- tociò che non fosse opera del maestro, è impossibile se- guirlo ni questa illazione. In un tempo in cui l'interesse dottrinale prevaleva su quello dell'esattezza storica, in cui si badava assai piiì ai contenuto di uno scritto , che non alla sua origine , in cui era ignoto quello spìrito critico, quella coscienziosità storica che noi moderni vantiamo, una tale accuratezza, quale il Grote attribuisce agli antichi, ac- cademici, non si può ammettere. I varii scolarchi e gh stu- denti scrivevano anch'essi dei dialoghi, i quali, o- col nome di Platone in fronte, o, più probabilmente, senza alcun nome si venivano accumulando nella biblioteca della scuola, e vi formavano una collezione, la quale sotto il nome di Platone passò poscia da Atene in Alessandria. La munificenza dei re Attalici e Ptolomei diede impulso alla pseudepigrafia (i), e può spiegare come tanti dialoghi, che si erano venuti so- praggiungendo alla genuina collezione platonica, sulla origine dei quali non si faceva questione in Atene, siano venuti in

(i) E frequentemente citato a questo proposito il passo di Galeno in Hippocrat. de humor. I, ^ 1, e de nat. hom. II. proem: év fàpTip Kurà Toù? 'AxTaXtKoyij kcI TrTcAepaiKOùi; paatXéa? XP'^vtp rrpò»; iXXriXoix; àv- T»q)iXoTiuou|jévo\j<; ftepi K\r\<Si\ì}<^ p<jJÀ.t(uy i^ irépl ràc k-nv^pa(sà.c, tf koI òia- CKEUiii; aOxLÙv ^pHaro -fìTveo'Sai ^aòiciupYÌa to\<; ?veKa toO Xapetv rtpTÙpiov àvacpépoumv àq; toù^ paaiXéa; àvòpujv èvòóEiuv Q\)^-^p&]x\xai:<3..

465 Alessandria con quel gran nome in fronte. L'argomenta- zione dei Grote non vale a provare che siano di Platone tatti gli scritti che Aristofane e poscia Trasillo gli attribui- rono nei loro catalogi essa vale però a dimostrare che essi sono antichi, che cioè appartengono, dirò così, al periodo Ateniese della letteratura Socratico-Platonica. Questo risul- tato si applica pure al Clìtofonte il quale da Trasillo è posto fra gii autentici.

Ma con ciò non è ancor provato che il nostro dialogo sia anteriore ai Memorabili di Senofonte, di guisa che questi abbia potuto riferirvisi nel passo che abbiamo citato. A provare questo assunto, o almeno a renderlo verosimile, non ci occorre più alcuna ragione estrinseca e dobbiamo star contenti alle ragioni intrinseche che si desumono dal- l'indole e dal contenuto del dialogo stesso. Se si considera che in esso si parla con irriverenza di Socrate, e si pone in dispregio il suo inssegnamento morale, come affatto in- sufficiente, si riconoscerà come assai improbabile che esso sia opera di qualche falsario, il quale Fabbia composto col disegno prestabilito di spacciarlo come scritto platonico. Un falsario fornito di acuto ingegno (e acume d'ingegno non poteva mancare alFautorf del Clitofonte) dovea facilmente comprendere che per riu<;circ nel suo intento conveniva conformarsi a quel tipo di carattere socratico e platonico, che era in voga al suo tempo, e non già contrastarvi così ^icisamente come si fa nel nostro dialogo. Questo adunque fu scritto con serietà e con convinzione, allo scopp di mo- strare rinsufhcienza e la vacuità dell'i nsegnamento socratico. Eccitamento a comporlo sembra essere stato alPautore la reazione in favore di Socrate che incominciò poco dopo la sua morte, e che raggiunse il suo più luminoso apogeo nella rappresentazione ideale per non dire apoteosi che ^ece Platone del suo maestro. « Dopo la morte di Socrate », dice

- -^ il valente illustratore dei Memorabili (i), « e non appena « calmata la tremenda reazione della quale cadde vittima, « fu naturale conseguenza della poderosa azione , da esso « esercitata su la società del suo tempo, che sorgesse?© in « gran numero relazioni, apologie, orazioni e scritture di « ogni maniera su la sua vita, la sua dottrina e la morte « sua. M Conseguenza non men naturale di questa m.uta- zione deiropinione pubblica in favore di Socrate fu una nuova reazione, direi quasi, critica, su tutto Tinsegnamento del grande filosofo, uno sforzo a rendersi conto una buona volta di ciò che era stato, di ciò che avea fatto quest'uomo singolare, ed anche una tendenza a deprimere e a sfatare quello che altri s''eran messi a glorificare più di quanto meritasse. Fra ingegni così pronti, come gli Ateniesi, così versatili, così aperti e sensibili a tutti i più svariati aspetti della realità, era naturale che sorgesse taluno, il quale, an- noiato oramai di tutto il romore che si faceva intorno al nome di Socrate, dicesse seco medesimo: insomma, che cosa vogliono questi Socratici che, dopo averci lasciati tranquilli per qualche anno, ora ci son ripiovuti addosso coi loro rimproveri, colie loro apologie, colle loro discussioni in- concludenti e interminabili? A che queste nuove scuole di filosofia a cui essi invitano la gioventù, disviandola da quelle dei nosti'i grandi retori e sofisti, e dandole a credere che solo presso di loro si possa imparare quel senno che li renderà valenti nella vita pratica? Che cosa s'imparava da Socrate di più e di meglio che da Lisia e da Trasimaco (2)? Anzi che cosa sUmparava da lui? Nulla di concreto e di preciso. Egli eccitava gli uomini alla ricerca della virtù, ma

(i) Dei detti e fatti memorabili di Socrate. Libri IV di Senofonte di- chiarati da Eugenio Ferrai. Voi. 2^ in principio. (2) Menzionati ambidue nel Clitofonte come preferibili a Socrate.

- 467- non sapeva guidarvelì. Oh! aveva ben ragione di parago- nare sé stesso ad un rafano (i) messo ad aizzare quel ca- vallo generoso che è il popolo d'Atene; ma il cavallo ecci- tato continuamente e non ben guidato imbizzarrì, e male ne incolse all'insetto imprudente ed importuno. Fu un gran male codesto, una solenne ingiustizia ; ma che farci ? Vi si ripara forse coli aprire delle scuole, col pubblicar degli scritti in cui non si faceva altro che ripetere le sterilì ed astratte prediche di Socrate? Anziché inaridire le menti dei giovani in tali nenie, non è egli meglio avviarli, sotto la direzione di valenti sofisti, allo studio efficace di quella scienza in cui anche Socrate av«a, come i sofisti , riposto l'essenza della virtù, senza però rnai saperci dire in che consistesse Toggetto di codesta scienza?

Questo soliloquio di un Ateniese di spirito (e quale Ate- niese non ne aveva?) ridotto a dialogo ci il Cliiofonie. Il quale adunque apparterrebbe, secondo il mio parere, alla classe di quegli scritti che rappresentavano una reazione contro la reazione operatasi in favore di Socrate. Alla stessa classe apparteneva lo scritto con cui il retore Poli- crate intendeva provare che la condanna di Socrate era stata conforme a giustizia. Il Cobet (2) prova che la parte apo- logetica dei Memorabili di Senofonte si riferisce allo scritto di Pollerà te, anziché ai discor:>i degli antichi accusatori di Socrate. Le prove del Cobet sono: 1^ il confronto del passo dei Memorabili I, 2, 12 coll'elogio di Busiride indirizzato a PoUcrate stesso, dove questi è ripreso da Isocrate come un inetto accusatore, il quale volendo denigrare Socrate, gli attribuì per discepolo Alcibiade, che nessuno avea mai

(i) r\i\V Apologia di Platone, Gap. XVIII.

(2) Is'oyae lectiones. Lugd. Batav,, i858, p. 662-682, cf Uebkrwkc, Gesch., 1" theil, p. 94.

- 468 - saputo che 'osse stato educato da lui, ma che tutti ricono- scevano come un uomo superiore (n** 5)*, il che riusciva ad encomio anziché a biasimo di Socrate. Se niuno, prima che Policrate lo dicesse nella sua orazione, avea mai saputo che Alcibiade fosse stato scolaro di Socrate, e se Senofonte (nel I, 2, 1 2) si crede in debito discolpare Socrate dall'accusa fattagli dairaccusatore (KairiTopo?) di essere stato maestro di Alcibiade, e complice perciò di tutto il male che questi avea fatto alla repubblica, ne segue per diritta conseguenza che il KarriTopo^ a cui si riferisce Senofonte sia Policrate e non già alcuno tujv fpau^aiixévujv Iujkputtiv menzionati in principio dei Memorabili. In un luogo dello Scoliaste alle orazioni Aristide (voi. Ili, p. 408, ed, Dindorf) è detto che Policrate rimproverava a Socrate Tapplicazione anti- democratica del passo di Omero, //. II, 188, segg. Ora Se- nofonte (1, 2, 5S, 59), ceroa appunto discolpare Socrate anche da questa taccia, delia quale non si trova alcun cenno neirapologia di Piatone. Non è verosimile che l'accusa concernente le relazioni di Socrate con Alcibiade si trovasse già nell'antico atto d'accusa sostenuto da Anito, o nei di- scorsi fatti dagli oratori per isvilupparlo, perchè Anito era stato amico di Alcibiade. Così stando la cosa, è probabile che Senofonte solo cinque o sei anni dopo la morte di So- crate abbia posto mano a scrìvere i Memorabili collo scopo: i" di dissipare le accuse antiche che si tentava di ravvivare contro di lui, e le nuove che erano state messe in campo dai retori; di mostrare, contro l'asserzione di Clifofonte e degli altri accennati nel I, e. 4, i dei Memorabili, che finsegnamento socratico non era così vacuo, cosi astratto, così predicatorio, come essi dicevano, ma dava un buon indirizzo pratico ai suoi famigliari. Il Cliiofonte sarebbe stato scritto qualche anno dopo la morte di Socrate, ma prima dei Memorabili. Chi confronta il vivace racconto

469 óqW Anabasi colla disordinata e spesso troppo vaga esposi- zione del Memorabili^ riconoscerà come probabile che Se- nofonte, di ritorno dalla sua famosa spedizione, abbia posto mano a scriverne la storia, e che solo dopo questa, eccitato dall'amore della verità che si tentava di offuscare, dalla pietà ed ammirazione verso il suo maestro, si sia accinto a scriverne Tapologia e a raccogliere le note che egli probiibil- mente si era prese delle conversazioni socratiche,

III.

Per soddisfare alla terza questione propostami : quale sia la significazione dei Clito/onle, come anche per compiere la dimostrazione di alcuni dei precedenti asserti, non credo di poter far meglio che soggiungere qui la traduzione del dia- logo, corredandola di alcune note.

OLITOFONTE

^Personaggi del 'Dialogo: Socrate e Gutofonte^

(EdJr. Steph. Ili, pag. 4o6J.

I. Qualcuno ci narrava poco facheClitofonte figlio di Ari- stonimo, discorrendo con Lisia, biasimava il trattenersi con Socrate, e lodava a cìelo il conversar con Trasimaco.

Clit. Chiunque sia stato il rapportatore, o Socrate, egli non ti riferiva esattamente i discorsi da me tenuti intorno a te con Lisia. Imperocché alcune parti io lodava in te, alcune altre no. Ma posciachè è chiaro che tu Thai con

- 470 - me, pur fingendo di non curartene (i), con grandissimo piacere ti ripeterei que' discorsi , tanto più che siamo soli, affinchè tu cessi di credere che io sia mal disposto verso di te. Imperocché ora forses, per avere inteso male, tu sei alquanto esasperato contro di me , a quel che pare. Se adunque tu rni concedi facoltà di parlarti liberamente, io il farò molto volentieri.

SocR. Ma davvero che sarebbe una vergogna se, mentre in ti studii di giovarmi , io non mi prestassi alla tua buona volontà : imperocché è chiaro che quando tu mi avrai fatto conoscere in quali parti io riesco meno bene, e in quali meglio, mi atterrò a queste e in queste m.i eserciterò, smet- tendo a tutto potere quelle altre.

(Ed. Steph. in, pag. 407}.

II. Clit. Ascolta adunque. Trovandomi teco, o Socrate, spesse volte mi sentiva scosso in udirti, e mi pareva che tu parlassi meglio degli altri, ogni qualvolta rimbrottando gli uomini, come un Dio dall'alto della macchina teatrale, in- tonavi loro queste parole (2) : dove correte, o uomini, in- consapevoli di non far nulla di ciò che far dovreste, voi che ponete ogni vostro studio neiradunar ricchezze^ e in- tanto trascurate i figli a cui le lascierete, e non pensate a far si che essi sappiano poi usarne giustamente, cercate loro dei maestri di giustizia, se pure è insegnabile : se poi

(i) TrpooTToioù|a€vo? ixr\biv tppovTi'Z^eiv. Ecco delle parole che Pia- tone non avrebbe mai messe sulle labbra del personaggio che sosiiere in questo dialogo la parte principale, e ii cui discorso forma tutta la sostanza, del dialogo.

(i) Piatone non avrebbe mai rappresentato Socrate come un Deus ex machina egli sapeva che Socrate non faceva prediche si rivol- geva alle masse, agli uomini in generale^ ma all'uomo individuo e lo chiamava a rendersi conto dei pensieri, delle opinioni spesso, a sua insaputa, contradittone, che egli accoglie in m.ente.

-4*71 - la è cosa che s'acquisti per via di esercizio, avete torto di non cercare chi li eserciti a sufficienza: e già prima nepr pure a voi stessi avete procurata siffatta cultura, ma vedendo voi stessi e i figli vostri baste volmente istruiti nel leggere e scrivere, nella musica e nella ginnastica, la quale istruzione eraj a vostro credere, una compiuta educazione alla virtù, in seguito, sebbene vi trovaste non meno malvagi, quando si tratta di denari, tuttavia non volete riconoscere, quanto poco valga Tattuaie sistema di educazione, ne cercate chi vi tolga la vostra rozzezza. Eppure egli è questo fallo e questa noncuranza, e non già Timperizia del piede a misurare i suoi movimenti al suon della lira, la causa per cui e fratello con fratello e città con città comportandosi in modo dismi- surato e disarmonico, insorgono Tuna contro Taltra-c guer- reggiandosi si fanno soffrire a vicenda estremi mali. E voi dire che non per ineducazione o per ignoranza, ma per pro- pria volontà gl'ingiusti sono ingiusti. E con tuttociò non esitate poi ad affermare che l'ingiustizia è cosa brutta e odiosa agli Dei: come mai adunque, e qual uomo al mondo po- trebbe eleggere volontariamente un male cosiffatto ? Un uomo (i), rispondete voi, che lasci vincere dai piaceri. Or non è involontario anche questo, se pure il vincerli è volon- tario? Di guisa che in ogni caso la ragione ci costringe ad ammettere che il fare ingiustizia è involontario, e che con- viene che ciascun privato e ciascuna città ponga maggiore studiò che ora non si pone alla propria cultura. III. Quando adunque ti sento dire e ripetere sovente tali

[i) Il greco dice nòi^ oCv ^f^ n; ye toooOtov KaKÒv èkc[)v atpott* fi-*; i\muv 8; fiv ì\ (paté, tiJìv i^bovibv. Vi ha qui una incoerenza fra la domanda e la risposta, alla domanda: conte mai urto potrebbe ecc.<' SI risponde: colui il potrebbe, il quale scc. come se la domanda fosse stata: chi mai potrebbe ecc.} per togliere questa incoerenza ho aggiunto la domanda- qual uomo ecc. '^

-472- cose, o Socrate, io ti approvo e ti ammiro, e non rifinisco di lodarti. E quando, continuando il discorso, soggiungi che co- loro che esercitano i corpi e trascurano l'anima, con ciò non fanno altro che trascurare la parie che è chiamata a coman- dare, e curar solo quella che è destinata ad ubbidire: e quando affermi che d'una cosa che non si sa usare è meglio smettere l'uso, epperciò se uno non sa far buon uso degli occhi o degli orecchi, o di tutta la persona, per costui il non udire, U non vedere, il non far nulla della propria persona è meglio che il servirsene pur che sia : e che lo stesso è da dire rispetto ad un* arte.

(Ediz. Steph. Ili, pag. 4oS).

Imperocché chi non sa servirsi della propria lira, è chiaro che non sa che farsi neppur di quella del vicino, e chi non sa adoperare quella di un altro, non sa neppure adoperare la sua *, e dicendo lo stesso di ogni strumento od arnese che si possegga, conchiudi ottimamente il discorso, affermando che chi non sa adoperare l'anima sua, è. meglio per lui il lasciarla inoperosa e non vìvere, anziché vivere operando a suo capriccio. Che se gli incomba qualche ne- cessità di vìvere, sarà megUo per un uomo tale, il passar la vita in condizione di servo anziché libero (i), affi- dando, per cosi dire, il timone della nave, cioè il governo della propria volontà, ad un altro, ad uno cioè che abbia imparato quell'arte di governare gli uomini, che tu sei solito,

(i) Un pensiero analogo a questo trovasi nei Memorabili (I, 5, 5-, dove Socrate dice che chi è schiavo dei piaceri deve supplicar gli dei che lo facciano capitare salto buoni padroni. Ma questa consonanza non prova che l'autore del Clitofonte abbia avuto sotto gii occhi t Memo- rabili, ma solo che, e questo autore e Senofonte serbavano memoria di un medesimo detto socratico. Ho tradotto ÒMli/oia per volontà, si- gnificando la bióvoia non solo il pensiero speculativo, ma anche il pra- tico, e qualche volta Tanima stessa contrapposta ai corpo.

473 - o Socrate, chiamar politica, e che affermi esser tutt'uno colla giudiziaria e coila giustizia.

IV. A questi discorsi adunque e ad altri innumerevoji con- simili, come per es. che la virtù è insegnabile, e che ognuno deve soprattutto attendere alla coltura di medesimo, io guari non contradissi mai, credo di avere a contradirvi in avvenire: sono discorsi veramente belli, ed io li trovo efficacissimi a convertire gli uomini, e molto giovevoli, come quelli che noi quasi addormentati riscuotono dal nostro sonno. Ma io stava attento nella speranza di udire ciò che viene in seguito, e ne interrogava non te stesso, o Socrate, da principio, ma quelli che tu tenevi in maggior conto fra i tuoi, non so s'io dica compagni d"*età o di aspirazioni, o consorti, o con qual altro nome abbia a chiamarsi la rela- zione che essi hanno teco. A costoro pei primi io mi ri- volsi, domandando loro qual fosse il discorso che tu facevi seguire ai già detti, e, imitando la tua maniera, li metteva sulla via di rispondermi. O valentuomini, diceva io loro, questi discorsi con cui Socrate ci vuol convertire alla virtiì, come mai li dobbiamo noi accogliere? Come se tutto finisca pure in questo, ne mai ci sia dato di metterci all'opera, e venirne a capo? Come se il compito nostro per tutta ia vita abbia ad essere questo solo, di convertire alla virtù i non ancor convertiti, affinchè questi alla lor volta ne con- vertano degli altri, e così via via? Oppure, rimasti oramai d'accordo su questo punto, che l'uomo deve cercar la ^\u- stizia, conviene che in seguito domandiamo a Socrate, e a noi vicendevolmente: e appresso? Come si ha da incomin- ciare l'apprendimento della giustizia? A quel modo che se alcuno, vedendoci affatto trascurati in riguardo al corpo, a guisa di fanciulli che non sanno neppure che esista un'arte ginnastica e un'arte medica, ci esortasse a pensarci , e per farci arrossire della nostra trascuraggine ci diccs.*^e esser

Tifvista di filologia ecc., I. 33

~ 474 - cosa vergognosa il prendersi ogni cura del frumento, del- Torzo, della vite e di tutte le cose che si procacciano con tanto travaglio, e acquistano in servigio del corpo, e non cercare aicun'arte, mezzo per far si, che questo corpo sia in eitimo «tato, e ciò mentre una tale arte esiste -, e se noi domandassimo a chi ci fa codeste esortazioni : che arti sono queste che tu dici? risponderebbe forse che sono la ginnastica « la medicina. Or bene che arte diciamo noi che sia questa, che ha per oggetto la virtù dell'anima '<' Ce lo dica alcuno di voi.

(Ediz. Steph. IH, pag. iog).

V. Quegli adunque fra loro, che pareva il più valente in queste cose mi rispondeva essere appunto quell'arte che suol dire Socrate, cioè la giustizia. Io insisteva: non dir- mene soltanto il nome, ma procedi a questo modo: v'ha un'arte che si chiama medicina, si è vero? Di questa due sono le produzioni: Tuna consiste nel formar sempre nuovi medù:i, oltre a quelli che già esìstono; l'altra è la sanità; questa seconda poi non è più arte, ma opera dell'arte in- segnante o insegnata. Parimenti dell'arte costruttoria doppio è ii prodotto , la casa e la preparazione dell'arte stesse , l'opera e l'insegnamento. Dicasi adunque io stesso della giustizia: una delie 3ue funzioni sarà il formare uomini giusti, come eiascun'altra arte forma i suoi artefici; ma l'altra funzione, cioè l'opera che l'uomo giusto è atto a produrci, quale diremo noi che sia? •— Quegli, se ben mi rammentOj mi rispondeva essere l'utile, un altro il conve-» nevole, un terzo il giovevole, un quarto il tornaconto. Ma io ritornava a' miei esempi : anche in quelle arti sono in uso queste espressioni; l'operare rettamente in ciascuna di esse si chiama fare il convenevole, l'utile, il giovevole, e va dicendo ; ma ciascun'arte sa poi dire il proprio particolare

475- scopo a cui questa convenienza, questa utilità si riferisce, come per es. Tarte del falegname dirà che per lei il bene, il bello, il convenevolmente operare è quello che serve alla produzione di suppellettili di legno, le quali certo non son più arte. Ci si dica in modo analogo qual è lo scopo (i), qual è Topera della giustizia?

VI. Da ultimo uno di que' tuoi amici, o Socrate, il quale invero sembrò che più acconciamente parlasse, rispose che Topera propria della giustizia, opera che non è di nessuna

(i) L'importante di questo dialogo sta nella critica che vi si fa del principio fondamentale della morale socratica, secondo cui la virtù consiste nella scienza. La virtù {àpcTf\, òiKUioauvri, usando questo vo- cabolo, come fa quasi s«npre Platone, non già nel senso di una y^ar- ticolare virtù, ma della virtù per eccellenza, che comprende in tutte le virtù) non è altro che l'esser valente nel fare le cose che sono proprie dell'uomo, come la virtù, la valentia del medico consiste nel are le cose proprie del medico : ora come nell'esercizio di tutte le arti spe- ciali ia valentia dipende dalla perizia, così pure la virtù, la valentia propria dell'uomo come uomo. Socrate ragionava in questo modo (Sjtnof., Mem. IH. 9, IV. 6, 6.,cf. Laches. p. 194 D): La virtù, la bontà (nel senso etimologico delia parola) consiste nel far cose buone e belle: essa è quella qualità senza di cui non si possono far cose buone , e posta la quale si fanno immancabilmente. Ora la scienza è appunto una qualità così fatta, giacché colui che sa quali cose convenga fare, non può giudicare che convenga farne altre, determinarsi a farne altre (nel linguaggio rosminiano si direbbe che il giudizio pratico non pu& essere contrario al giudizio speculativo: dico nel linguaggio, non nel sistema rosminiano, poiché il Rosmini non accetta il principio socratico, e fa consistere l'immoralità nella discordanza fra il giudizio pratico e il giudÌ2Ìo speculativo)} e colui che non sa, di necessità cade in errore. Dunque la virtù s'immedesima e si concreta nella scienza. Onde diceva essere impossibile che, trovandosi nell'uomo la scienza, qualche altro principio potesse dominarlo e trascinarlo come schiavo, e riguardava la scienza come Invincibile ddminairice di tutto l'uomo (Abistot., Eth. Nic. VII. 1, Eth. Eud. VII, i3). - Ma qual è il conte- nuto, reggette di questa scienza che chiamasi virtù umana? 11 ben?. Ma che cosa è il bene? è il vero preso come norma dell'operare. Ma qual vero? Forse il vero aritmeMco? un calcolo esatto sarà dunque un'azione virtuosa, come un atto di giustizia? Queste erano le difficoltà che sorgevano contro il principio di Socrate. Egli non riusciva a de-

476

delle altre arti, consisteva nel produrre anaicizia in seno alle cÀttk. Questi poi, ad ulterior domanda fattagliene, ri- spose che Pamicizia è sempre un bene e non mai un male: quanto alle amicizie verso i giovinetti ed a quelle verso i bruti, alle quali si pur questo nome, egli, rispondendo ad una nuova domanda, negò che fossero amicizie; imperocché dairammettere che il fossero gliene derivava la conseguenza che le amicizie per la maggior parte fossero piuttosto dan- nose che buone (i). Volendo adunque evitare questa con-

terminare ulteriormente il concetto della virtù morale, e per isfuggire alia difficoltà talvolta poneva come oggetto di quella scienza la legge positiva dello stato, come quando diceva che il giusto ò ciò che è le- gale {Mem. IV. 4, 12), e inculcava che in fatto di religione conviene attenersi alia legge deila città. Talvolta poi poneva le esigenze dell'in- teresse bene inteso come oggetto di quella scienza, « Non conosco alcun bene che non sia bene relativamente ad gJtro» [Mem. ITI. 8, 4). « Il buono non è altro che il giovevole » (ivi, IV, 6, 8). Onde egli prova che ia malvagità è involontaria, perchè niuno si appiglia volontaria- mente al proprio danno. I motivi che egli adduce di ossen,'are i pre- cetti morali sono sempre desunti da considerazioni di utilità. Così noi dobbiamo guardarci daila millanteria perchè questa è causa di danno e di vergogna. Dobbiamo star concordi coi fratelli, perchè ò cosa da stolto l'adoperare a proprio danno quello che ci tu dato come aiuto. Dobbiamo studiarci di acquistar buoni amici, perchè un buon amico è la cosa più. utile che si possa avere. Dobbiamo sobbarcarci alle faccende dello stato perchè il benesser delio stato ridonda anche a vantaggio degli individui. Dobbiamo ubbidire alle leggi, perchè ciò è il partito più utile e per noi e per lo staio. Dobbiamo astenerci dal fare ingiustizia, perchè la pena colpisce sempre l'uomo ingiusto. Dobbiamo insomma praticare la virtù, perchè questa ci procura i maggiori vantaggi e dal canto degli Dei e da quello degli uomini. Il Socrate senofonieo è recisamente uti- litario (Zeixer, Die P/zj'/o^ojp/zje rfer Gnei:/!e«, II. TheiL p. lOi-ioS). E tali sono pure i socratici messi in scena nel nostro dialogo. Ma Clito- fonte osserva che anche il concetto dell'utile è vacuo ed astratto, e non vale a discernere quella scienza speciale che è la giustizia, da ogni altra scienza. Convien dire a quale scopo si riferisca l'utilità che quella pro- cura: ed è ciò che si cerca di fare negli ultimi due capi del dialogo, (i) Nel codice VV deila biblioteca angelica dell'ord. erem. di S. A- gostino in Roma, citato da Bekker, manca il tò? ToiaCrac. Invece di queste parole io leggo xàc, cpiXia*;, perchè nella lezione volgata il ra-

477 seguenza, diceva che q lelie non erano neppure amicizie, e che a torto si loro, questo nome da coloro che amicizie le chiamano. Quella che è realmente e veramente amicizia, diceva egli, è evidentemente concordia. Interrogato poi se questa concordia fosse secondo lui un concorde opinare, od un sapere, rigettava con disprezzo il concorde opinare, poiché di siffatti accordi d'opinioni molti si trovano che di necessità sono dannosi, laddove s'era ammesso che T'amicizia fosse assolutamente un bene, opera come essa è della giu- stizia. Laonde affermava esser tutto uno l'amicizia (i) e la concordia, ma questa concordia consistere nella scienza e non neiropinione.

(EdÌE, Steph. Ili, pag. 4 io).

Quando però ci trovammo a questo punto della discus- sione, gli altri che vi si trovavano presenti davano addosso al mio interlocutore, e sapevano benissimo rimostrargli come il discorso fosse sdrucciolato sulle peste dei precedenti. Anche la medicina, dicevano essi, è una concordia, come

ziocinio non corre. La proposizione che atnieì:(ie siffatte, cioè le sen- suali e brutali, siano dannose, non era quella che conseguiva (auvépaive) dalle premesse, ma era anzi una delle premesse, presupposta come ve- rità evidente, D'ahronde siccome amicizie siffatte sono tutte e sempre dannose, non a^rebbe alcun senso il iiXeCu). Il raziocmio compiuto si potrebbe esprimere così: Le amicizie sensuali e brutali sono sempre dannose; ma tali amicizie sono le più frequenti; dunque si può affer- mare, Tà TtXeiu) 'còlc, (piXlac; pXaPepàq fi é-faeàc; eTva», che cioè le amicizie siano per la nmggjor parte dannose ; conclusione che ai Socratico, che qui discute con Clitofonte, importava sommamente di eyitaré, come quella che distruggeva la tesi da lui stabilita, che l'opera propria della giustizia &ia l'iimicizia prodotta in seno alle città; poiché la giustizia, cosa essenzialmente buona, non può produrre cosa che sia or buona ed or cattiva, anzi più spesso cattiva che buona.

(i) La volgata cTvai ó|ji6voiav koI èmOTriM»lv oOaav. Dalla quale le- zione non si ricava alcun costrutto. C. F. Hermann propone l'inser- zione del vocabolo òiKaioaóvriv dopo il Kal , leggendo i taùròv fqpnocv

__ 478 - altresì ogni altr arte, e ognuna di esse ci sa dire intorno a che cosa ella sia concordia. Ma quell'arte che tu chiami giustizia o concordia, a che miri, non s'è riusciti a coglierlo, e ci rimane ignoto quale sia Topera sua.

VII. Da ultimo, o Socrate, io ne domandava anche aie, e mi dicevi essere proprio della giustizia il far del male ai nemici e del bene agli amici (i). Ma poscia si riconobbe che, quanto a male, il giusto non ne farà mai a nessuno. Imperocché tutti fanno a fin di bene tutto ciò che fanno (2).

dvai ó^óvolav koì èiKatooOviiv, èmaTriMviv oOoav. Ma il senso richiede che si supplisca qpiXiav, e non òiKCioaùvriv. Imperocché la questione è: in che si concreti quelFamicizia che è opera della giustizia? Il Socra- tico risponde che si concreta nella concordia, e non in qualsisia con- cordia, ma in quella che deriva da scienza. Secondo la lezione di Her- mann qui si affermerebbe come conclusione della discussione l'identità fra la giustizia e la concordia. Ma se la concordia (óuóvoia) è il con- cetto più particolare in cui si concreta il concetto di cpiXic. ; se la q>tX{a è l'opera, il prodotto proprio di quell'arte speciale che è la giu- stizia, e se, come ripetutamente si è avvertito da Clitofonte , il pro- dotto di un'arte non è più arte, come mai l'amicizia o la concordia può affermarsi identica colla giustizia? La ragione allegata da Hermann a conforto della sua lezione, e che consiste nel dire che più sotto si trovano accoppiati i due vocaboli òiKaioaùviiv f^ ó|uóvoiav, non ha va- lore, perchè tale accoppiamento non produce quivi un controsen&o taiito evidente, quanto quello che nascerebbe dalla lezione da lui proposta.

(i) « Tu sai che la virtù dell'uomo consiste nel vincere gli amici facendo loro del bene, e i nemici facendo loro del male. » Così parla al suo amico Critobulo il Socrate senofouteo [Mem. II. 6, 35), espri- mendo il modo di pensare degli uomini del suo tempo e della sua nazione. Ma il Socrate platonico fa assoluto divieto di render male per male o di difendersi dall'ingiustizia coll'ingiustizia. V. Critone, p. 49.

(2) Anche qui c'è qualche lacuna. Poiché la proposizione ndvra tàp èir' iÌjq)eXei(;! iràvraq òpóv, è soltanto una premessa del raziocinio con cui si provava che l'uomo giusto non può far male a chicchessia, razio- cinio che poteva essere del seguente tenore : Ognuno fa a fin di bene quello che fa. Se adunque alcuno fa male, il fa per ignoranza. Ma l'uomo giusto è l'uomo peritb in quella scienza che versa circa il bene e. il male. Egli adunque, in qaanto è giusto non ignora, erra mai, quindi può fare alcun male.

-- 479 - Queste cose ricercando io non una due volte soltanto, ma per lungo tempo e con grand? perseveranza, ho infine perduto la pazienza e mi rimasi colla persuasione che tu riesca meglio di chicchessia nell'opera di convertire gli uomini ai culto della virtù, ma che del resto sia vero l'uno dei due: o che tu sai fare solo questo, e nulla più; il che può ac- cadere anche in qualsivoglia altra arte, come per es. può accadere che chi non è nocchiero abbia tuttavia meditato l'encomio dell'arte nautica, nel quale dimostri in quanto pregio ella meriti di esser tenuta dagli uomini; e così di ogni altra arte. Lo stesso adunque potrebbe uno credere di te, per ciò che riguarda la giustizia, che cioè Tessere tu così eloquente nel l'encomiarla non provi punto che tu ne abbia la scienza. Io però non dico questo, ma dico che Tuno dei due deve essere; o tu non hai la scienza, o non vuoi communicarmela. Perciò io me ne anderò co' miei dubbi da altri, anderò anche da Trasimaco, posciachè tu non fai quello che pur potresti fare, volendo: cessare cioè da questi tuoi discorsi esortatorii, trattarmi come tratteresti uno già convertito allo studio della ginnastica, già persuaso che non si deve trascurare il corpo : con costui tu smetre- l'x^sii certamente le esortazioni; e procederesti a mostrargli che ad un corpo tale quale egli lo ha da natura, è confacente Un tratiamenro tale o tale. Or dunque, fa ragione che CU- tofonte ti si confessi convinto che è cosa ridicola il pren- dersi cura di tutto il resto, e dell'anima, in prò della quale ogni altra cosa si ricerca, non darsi alcun pensiero : e così tutto il resto che viene in seguito, fa conto che io te l'abbia dettOj e procedi con me. te ne prego, come faresti con quell'altro della ginnastica , affinchè io, parlando di te con Lisia o con altri, non abbia più, come adesso, a lodare in Te certe parti e certe altre a riprendere, e a dire che, con un uomo non ancor convertito, Socrate vaie un tesoro, ma con

- 480 -- chi è già convertito, beh lungi dalFessergii utile, gli è ben anco d'impedimento al conseguire la perfezione della virtìi e al viversi beato. .

Torino, mar^c, l873.

G. M, Bertini.

CENNI SULLA SINTASSI ^D.ELLA LIV^GUA G%ECA{i).

IV.

Tatto quanto siamo venuti dicendo intorno allo indirizzo, voluto dare alla Sintassi greca da Raffaele Kùhner, si può riassumere in questo concetto : essere cioè affatto arbi- traria e violenta quella trattazione sisiematica della Sintassi speciale delia lingua Greca, contraria affatto, non pure ad ogni tradizione ciò che non sarebbe ancora una bestem- mia — ma eziandio ad ogni ragione grammaticale e storica, e, ciò che più monta, opposta ai risultamenti più incon- testati e sicuri della indagine linguistica. E ci tardava assai di additare questo vizio radicale, onde è affetta quella opera, pure degna di studio e di esame per molti rispetti, allo Jacopo di mostrare, come noi non siamo ammiratori ciechi di tutto, che viene d'oltremonte, massime di Ger- mania I sentenza codesta pur ovvia, ma non sempre voluta intendere dagli avversarli più ostinati d'ogni novazione, ai quali quello, che ne' libri degli stranieri v'ha di più erroneo e fallace serve di pretesto ad estendere il biasimo contro tutto che venga dal di fuori , sia pure corretto e conforme a ragione. A questo proposito anzi ne giova di ricordare il giudizio sommario, che il Kriìgsr, sino dall'anno 1843,

(.») Vedi fascicolo 7», pa^. 3oi-3io, fascicolo 8°, pag, 341-365.

4SI nel quale dava fuori la sua Grammatica Greca, pronunziava intorno a] sistema, allora nuovissimo, dei Kiihner. « Uno « dei metodi più recenti così il Kriiger nella introduzione « alla Sintassi l' immortale, come ogni filosofia tedesca, « ripartisce e tratta la Sintassi non già. secondo le forme « della lingua, ma giusta le forme del pensiero : esso scam-

« bia la grammatica colla logica I tentativi fatti allo

« scopo di adattare questo metodo alla Grammatica Greca, a sono evidentemente sbagliati. L' ordinamento, condotto « sulle orme, che ne addita il genio della lingua, s'impone, K per legge quasi di necessità interiore, si fattamente, che « quello strano metodo ne si presenta dovunque siccome « una veste che non s'attaglia al dosso. Effetto di ciò, « una figura storpia e rattrappita^ in luogo di un ordina- « mento sintattico, una sintassi disordinata. » Ma basti di ciò.

Dei resto la storia moderna, come a dire, della Gram- matica della lingua Greca, risale, in Germania, a Godofredo Hermann, cioè agli ultimi decennii del secolo scorso, e ai primi anni del presente. Abbattuto V empirismo della scuola Olandese, rappresentato ddXV Hemsterhuis (i685- 1766), dal Valckenaer {\']ib-\']^b)^ dal Lennep (1724-1771)1 VHermann colla scrittura, che intitolò De emendanda ratione grammalicix grcccce (Lipsia iSoi), dischiuse la via alla trattazione più razionale della lingua.

Però la grande opera di riforma, iniziata dall'Hermann^ era più intesa a trarre l'etimologia di sotto all'arbitrio de- gli Olandesi, e de' loro settatori di Germania. Era un primo passo sulla grande strada maestra, che la indagine compa- rativa dovea più tardi spianare completamente. Quanto alla Sintassi l'opera di quel grande maestro non parve di subito così fruttuosa-, ma il grande esempio, pòrto da lui, della osservazione attenta dell' uso della lingua nelle opere

- 482 -

de' classici, de' riscontri, della severa critica del testo, e so- prattutto io a^e^ statuito il dialetto attico a fondamento dello studio serio e ordinato del greco, dei quale egli il primo rilevò le fattezze germane e native e le movenze: tutto ciò, diciamo, fu di sommo e capitale rinomento a fon- dare una dottrina delia Sintassi, che non paresse più un giuoco di que' pretesi invcntores constitutoresqiie sermoms, che largo pascolo aveano offerto agii alchimisti della gram- matica nel secolo passato. La base, non foss'altro, della indagine e delio siudio era trovata l'uso reale e concreto della lingua. Al quale studio, come s'aggiunsero le nuove idee intorno alla natura e alla vita della lingua, anche la Sintassi è potuta sollevarsi a dignità scientifica sull'incrolla- bile e sicuro fondamento delle forme. L'aver trascurato l'uso della lingua negli scrittori avea condotto ai pernicioso andazzo di fabbricare certe forme, secondo un'analogia af- fatto arbitraria, le quali ne' monumenti della letteratura Greca dei tempi migliori non esistono al tutto. Cosi ad es. nelle grammatiche Greche, che prima dell'Hermann anda- vano per la maggiore , s'incontrano forme , come léivixa e TÉTucpa, come perfetti di tiìtttuì, che in nessun autore si tro- vano. E perchè dunque costringere gli scolari ad impararle? Ciò vuol dire come volerne sapere più degli antichi Ate- niesi, come dice argutamente il Curtius (Comm.^ pag. 1 14, Mùll.)^ mentre il solo Polluce registra una forma TCTiiTTTTiKa (Vedi Kriiger, Gramm, Greca I, § 40). E molti esempi si potriano recare innanzi a dimostrare, come il seme git- tate dall'Hermann fosse fecondo di utili osservazioni anche sul campo della Sintassi. Il Buttmann ad es. {Ausfuhrl. Gramm. U, 85), che segue dappresso all'Hermann, aveva osservato come la lingua Greca abbia una particolare pre- dilezione per la forma media del futuro, che il Kriiger poi chiamò dinamico (Gramm. Gr. I, Sg, 12, 1.2. 3*, H,

- 463

53, $), cioè che esprime un'azione d'un modo o meramente esterno, o che proviene dalla forza interna del soggetto. La è codesta una osservazione, che ha un grande valore per la Sintassi. E cos?^ quanto 2\\Si foì^mapone delle parole, già il Buttmann ne avea accertata quella legge, che il Lobeck chiamava il regium pr'ceceptutn Scaligeri (ad Phrynichmn, pag. 56o), non potere cioè, rispetto al verbo, aver luogo, nel greco, altro modo di composizione, che co//:i preposi- zione; altramente il verbo cangia natura. Tanto che, ad esempio, lo Sc£^ligero diceva, che e\ja*rré>iXuj non poteva es- sere un verbo greco (Cfr. Curtius, Comm., pag. 148, Muli.). E pc:r rispetto ai temi doppi» il Buttmann, sino dal suo tempo , cioè molto prima che gli studi della linguistica ve- nissero applicati alla grammatica speciale del greco, aveva riconosciuto, che essi sono il punto di partenza, per giun- gere ad un ordinamenio delle anomalie del verbo greco, dicendo, che la maggior parte di esse nasce dalla mesco- l^n2;a di forme, che presuppongono temi diversi (Confr. Curtius, Comm.f pag. 86, Miiller). Queste cose abbiamo voluto ricordare, perchè si comprenda ancora una volta e per ^Itre vie, come lo studio piià accurato e più ragionevole della Sintassi fosse possibile soltanto in seguito ad un piià attento esame delle forme.

Augusto Matthice (i) dette il primo un ampio svolgi- mento alla Sintasai Greca, sulVorms segnate dall'Hermann, cioè colla scorta della osservazione diligente ed attenta del- Tuso concreto della lingua. « Fu principale mia cura così egli scrive nella introduzione alla grammatica di iy disporre tutte queste osservazioni suUa lingua Greca giusta

(t) Ausfuhrliche Grammatiky Lipsia, 1807. Questa grammatica fu recata in italiano da Amedeo Peyron, e pubblicata in Torino l'anno 1^3 coi tipi della Stamperia Reale,

484 -

« la naturale loro connessione, ed i fondsmentaii e primi « principii, per quanto essi deternninare e stabilire si pote- « vano nel considerare in generale la lingua come materia f( d' un fatto storico , e non di specula^io?ic dedotta dalla K esperienza « (pag. 17 della versione del Peyron). Lo sforzo di collegare in una cotale unità i fatti della lingua, che l'osservazione gii andava profferendo via via, apparisce evidente dall'insieme del lavoro. « Nello studio del Greco « - seguita a dire nella prefazione - è particolar dovere dello «( indagatore filologo il rintracciare i vari individui casi se- te condo i primi principi!, che loro servono di comune fon- « damento, ed il semplificarli senza proporre altre conghiet- <( ture da quelle in fuori, le quali si deducono dai latti, 0 « possono coi fatti dimostrarsi » (p. 18, Peyron).

Il metodo di trattazione, seguito dal Matthiee, è quello dei grammatici antichi , greci e latini, nell' ordinamento della Sintassi, uno studio cioè del significato e deiTuso delle parti del discorso, che ia prima parte della grammatica Tetì- mologla ha esaminato e chiarito in ordine alla forma. Non sarà fuor di luogo l'allegare il titolo de'varii capitoli per ordine. Dell'Articolo (§§ 262-291). Del Nominativo (§§ 2g2-3ii). Del Vocativo (§§ 3i2-3i3). Del Genitivo (§§ 3 14-380). —Del Dativo (§§ 38 1 -404). ~ Dell'Accusativo Degli Aggettivi Dei Pronomi Del Verbo 490, segg.) Dei Tempi e Modi Dell'Imperativo 5i i). Del- l'Ottativo e Congiuntivo 5 12, segg.): a) DelVOttaiivo e Congiuntivo nelle proposizioni astratte (semplici); b) Del- l' Ottativo e Congiuntivo nelle proposizioni dipendenti (composte), ovvero dopo le Congiunzioni Dell'Ottativo nella Oratio obliqua 529) Dell' Infinito Del Par- ticipio — Delle Preposizioni.

Dalla sola lettura di questo indice della materia è agevole, ne pare, il Vedere, quanto siamo lontani ancora dal con-

-485 certo della Sintassi , quale ci è pòrco dalle migliori gram- matiche più recenti. La è un'immensa congerie di osserva- zioni, desunte alla lettura de' Classici, ma lo spirito non vi aleggia per entro. Eppure il primo passo in sulla via maestra è dato. L'osservazione, lo studio sugli autori di un periodo determinato e fisso della lingua, lo sforzo di assorgere a un qualche principio ordinatore dei fenomeni, sulla base solida dell'uso più esteso, riscontrato col maggior numero possibile di esempi: ecco il metodo vero, il buono e fecondo. Le due parti più notevoli della Sintassi del Matthise, e più istruttive ad un tempo per la storia della Sintassi Greca sono , per la Dottrina dei Cesi, quella che tratta del Genitivo (§§ 3i3 - 38o), e per la Dottrina del Verbo quella che svolge il concetto dei modi Ottativo e Con- giuntivo nelle proposizioni sempiici (astratte) e composte (dipendenti) 612 e segg,). Destituito affatto d'ogni cri- terio abbastanza largo e comprensivo della funzione dei casi, il Matthiae non ci pòrge che un inventario come a dire dei varii usi, avvalorato bensì di una larga copia di esempi, che è il solo merito reale e incontestato, che oggidì ancora si deve, secondo noi, riconoscere a quell'opera •, salvo che non v''è mantenuta quella severa distinzione fra l'uso poetico, quale incontra nella lingua dell' epopea antica , e T uso del dialetto attico; distinzione codesta della più alta importanza nella Grammatica Greca , e la cui esatta e rigorosa appli- cazione costituisce il titolo principale di lode della gramma- tica del Kriiger. Al Genitivo non riconosce il Matthiae altra funzione,, che quella vaga e indeterminata di una rela- \ione generale^ ad esprìmere la quale esso volentieri si ac- concia, unendosi con ogni parola della proposizione. Non gli soccorre neppure un criterio , che a noi oggi si para innanzi ovvio e pronto, quello di raggruppare almeno questi svariati uffici del genitivo intorno al nome (sostan-

486 - tivo e aggettivo), e intorno al verbo. Vero è che egli tratta e del Genitivo co' verbi 3i5), e cogli Ag'gcttivi e cogli Avperbi e persino co' prenomi neutri toOto, toctoOto, robe ecc. Ma in nessuna parte mcns ag-iìat molem; e un iden- tico concetto tu trovi sminuzzato e ripetuto in più luoghi. Qui e colà però balena qualche sprazzo di luce, che rischia- rirà più tardi la via. Cosi ad esempio al § 324, -2, tro- viamo raggruppala assai acconciamente un' intera classe di concetti verbali, che dinotano un g-iudiiio dell' intelletto, che dirigesi verso il di fuori , senia operare fisicamente (II, § 324, 2. 363, 5 e altr.).

Manca del resto assolutamente al Matthiae il concetto lo- gico delle funzioni sintattiche dei casi, che fu poi esagerato dai settatori della scuola del Becker. Non conosce neppure gli erramenti dei localisti ^ ed è poi straniero al tutto alle nuove teoriche, indotte dagli studi comparativi, e secondo le quali s'inclina a distinguere nei casi un uso più vicino, interiore quasi, e un altro più remoto ed esterno. Ma di ciò non lo chiamiamo certo in colpa. Tavremmo notato, se non fosse stato per ribadire il principio, che oggimai la scienza non conosce altre barriere, che quelle segnate dalla stona. Ma più notevole e più istruttiva ancora in questo rispetto è quella parte della Sintassi del Matthiae, che tratta dell' Ottativo e del Congiuntivo nelle proposizioni dipen- denti, ovvero dopo le congiuniioni (§§ 5 18 e segg.).

Mancando al Matthiae il concetto delle funzioni dei casi nel contesto del discorso, cioè nella proposizione, come fu detto quassopra, è affatto naturale, che egli ci si mostri in- differente al tutto pel contenuto delia proposizione, anche nella sua forma più semplice. Tanto meno quindi potremmo aspettarci ad una analisi e trattazione della proposizione composta. In questo rispetto il Matthiae si discosta assai poco dai termini segnati dai grammatici latini in quella

487 - parte > dóve parlano de consecutione temporunt; salvo che egli, applicando alla lingua greca il concetto, che informa le teoriche dei latini, ci parla di una consecutio modorum^ da porre in luogo di quella 5i8).

Delle due specie dClpoiassi^ esposte con molto acume dai grammatici più recenti cioè il subordinamenio e la corre- lazione— (Confi-. Ckirtius, Gr. Gr., §§ 619, esegg. Miill.) (i), egli non distingue idi forma esteriore, il significato^ che risalta da questo importantissimo collegamento delle proposizioni.

Quanto poi a quella forma di dipendenza, che il Matthlee vorrebbe chiamare consecutio modorum, diremo che essa si fonda sopra un falso concetto, che s'avea in passato dello Ottativo; che questo modo cioè fosse il congiuntivo dei tempi storici ; errore codesto, a cui s'accosta anche il Kiih- ner [Gramm.Gr. II, § i83). Questo erroneo concetto ha il suo fondamento in ciò, che il verbo, o, più chiaramente, l'anione espressa dal verbo sia da considerare soltanto ri- spetto al grado, cioè rispetto al punto, dal quale si riguarda razione. In questo riguardo essa è o presente o passata o futura. Gli è codesto un rapporto quasi esterno fra Tazione e il soggetto. Ma v'è anche un altro modo di considerare razione, cioè rispetto alla sua durata nel tempo; relazione cotesta tutta interiore, e dalla quale rimane come affetta Vallone stessa in e per sé. In questo riguardo l'azione è o incipiente, o durativa, o compiuta. Ora, avendoci lo stuolo della linguistica, e un più accurato esame dell'uso storico della lingua chiaramente dimostrato, come, rispetto

(i) Crediamo opportuno l'avvenire, che questo duplice concetto della Ipotassi non lo si trova nelle edizioni del Curtcws., anteriori alla quinta.

In quelle egli tratta le correlative come proposizioni indipendenti.

La versione italiana del Mlilìer è fatta sulla ottava originale.

488 alla durata nel tempo, Tazione, nei modi congiuntivo, otta- tivo, imperativo, infinito e participio, non è soggetta ad altra modificazione, da quella in fuori, che chiamano du- rativa ; gli è chiaro, che la trattazione di tutta la dottrina della dipendenza dei tempi, che si fonda sui vecchio assioma, essere il congiuntivo compagno dei tempi principali e l'otta- tivo compagno dei tempi storici , dovea necessariamente an- dare incontro ad una completa trasformazione.

Tuttavia, fatta ragione del tempo, forza è confessare, che un gran punto avea già vinto il Matthiae col riconoscere e fissare, non foss' altro, i termini veri dèi due grandi quesiti, che alla Sintassi della Grammatica Greca s'impongono, cioè Fuso dei casi, e il collegamento delle proposizioni, ne'riguardi della forma e del contenuto. Oltre di che gli studiosi gli saranno sempre riconoscenti del largo m.ateriale d'esempi, rolli all'uso dei meglio scrittori. li sentimento della lingua avea scolpito e profondo il Matthige, ma invano si cerca in lui quel largo spinto ordinatore, o quella acuta sottilità di giudizio, che contraddistingue l'opera geniale di Godofredo Hermann. Ad ogni modo la Sintassi del Matthiae basta essa soia a chiarirci della verità della sentenza, che le sortì, cioè, della medesima sono intimamente connesse a quelle dell'indagine etimologica, dalla quale soltanto essa può rice- vere chiarezza di luce, e saldezza di compagine.

Una delle più importanti pubblicazioni, nel campo della letteratura grammaticale della lingua Greca, fatte in Ger- mania nella prima metà di questo secolo, è la Grammatica Greca di Carlo Guglielmo Kriìger, data fuori la prima volta a Berlino Panno 1843. La Sintassi del Krùger vive vita prosperosa e liorente oggidì ancora, malgrado l'inconte- stato progresso ottenuto dalla scienza del linguaggio , anche

- 489 per questa parte della Grammatica, dopo il libro del Krii- ger. Crediamo anzi di poter affermare, non v^ssere in Ger- mania studioso di lingua Greca, che la Sintassi del Krii- ger non abbia tra mano, non foss' altro per consultarla. Ben nove mila passi d'autori classici del miglior tempo escluse le Canzoni Omeriche sono raccolti in quel libro di mole non grande, a dichiarazione delle regole (i). Non v'è finezza del dialetto Attico, non v' è meandro del pen- siero che il Kriiger non sappia cogliere e seguire ne' suoi più reconditi avvolgimenti. Ned è un freddo ed ob- biettivo espositore di regole, o un rigido collettore e quasi musaicista d'esempi il Kriiger^ che anzi v' è tutto lo spi- rito ordinatore nell'opera sua, al quale un ideale sta in- nanzi, e che ii contenuto delle forme domina e soggioga con mano artefice, e il pensiero antico accalora, e ad insolite movenze costringe. L'opera dei Kriiger noi chiameremmo come il risultamento di due polemiche , sostenute dall' una parte contro ^'immortali della scuola del Becker, e dall'altra contro r incomposto tumulto delle nuove vedute, dischiuse dalla hnguistica, ma non ancora fermate a certa regola di scienza, e meglio sentite, che comprese. Lo sbozzare, an- che ristrettamente assai, il concetto, al quale s'informa la Sintassi del Kriiger, è compito non lieve, e da non si poter conchiudere dentro da termini precisi e serrati. Nel poscritto alla terza edizione, l'autore si mostra disposto a pubblicare un piccolo volume di Schiarimenti alla sua grammatica; ma a 'noi non consta ch'ei lo facesse mai, e del non averli come che sia sott'occhio quei schiarimenti ci duole non poco, poi- ché d'un lavoro così importante gioverebbe assai il conoscere le fila scerete, come a dire. Ci studieremo perciò di mettere

(i) Vedi il Poscritto sWa. terza edizione - Berlino, iSSi. Tiivisla di filologia ecc., I. J3

- 49C

innanzi il disegno dell'opera, togliendone i contorni , non d'ai fronde, che dallo studio di esBa.

La Sintassi del Kriiger è divisa in due grandi sezioni Analisi e Sintesi. La puma se:(tone^ che chiameremo analitica, fa materia di suo studio il contenuto di quelle forme, che la dottrina della flessione ha esaminato nella loro struttura esteriore; ne chiarisce del significato e del- l'uso delle medesime (§§ 43-56). La seconda sezione, che è la sintetica^ studia i vari modi di scambievole relazione, che hanno luogo fra i concetti singoli^ e quelli che occor- rono ne'collegamenti delle proposizioni (§§ 57-63)« Se- guita appresso a queste una teT\a se:{ione, che tratta delle parti del discorso indeclinabili [Avverbi Nega'{ioni Preposizioni Cong-iiin:[ioni) (§§ 66-69). '^ ^^ concetto, che informa la sezione prima, si collega strettamente alla etimo- logia, della quale essa costituisce come a dire il necessario complemento, dichiarando la significazione concreta e usuale delle parti, che sono oggetto dello studio di quella. Nel suo insieme questa sezione della sintassi del Kriiger s'accosta assai alla nozione, che della <juvTa2i? ebbero gli antichi, ai quali massimamente stava a cuore ciò, che dalla etimologia alla sintassi fosse naturale, ovvio e come graduale il tra- passo. — La sezione seconda è ripartita in due capi, l'uno de'quali corrisponde assai da vicino alla sintassi di concor dan^^a, l'altro alla sintassi di reggimento delle grammatiche nostrali. ~ La terza parte, che nella sintassi del Kriiger tien dietro a mo' d'appendice alle due sezioni principali ^ è come a dire/«oW delia sintassi^ e, quanto ai concetto, che ne informa la trattazione, potrebbe far parte, più ra- gionevolmente ne pare, deila sezione prima. - Conside- rando ora ne'suoi tratti pili generali il disegno dell'opera, ne sembra di poter dire, che esso è come surto per reazione allo indirizzo astrattivo delle scuole dei grammatici filosofi.

491

fondato suirarbitrio, ben lungi dalie manifestazioni dell'uso concreto della lingua. Ora, come suole, il Kruger s'è gittato al contrario opposto : e come quelli facevano della proposizione il nucleo fatale, verso il quale ogni indagine sintattica dovesse convergere, così egli, in odio a'filosofanti, relegò la proposizione allo estremo capo di sue ricerche, ne scisse anzi ogni unità di concetto , volle che la parola avesse altra fun:{ione^ che la formale -, e non vide, come non sia possibile un contenuto della parola, senza che vi sia connessa una funzione sintattica, o di relazione, o di colle- gamento. Il punto da vincere stava tutto lì, neirintuire cioè quasi con impeto preveggente, qual posto la nuova scienza del linguaggio assegni alla parola, considerata rispetto al suo contenuto, nel contesto del discorso, sulla base e non altramente, delle funzioni originarie, e quasi istintive della medesima, dichiarate e appurate dairindagine linguistica, e dallo studio più accurato dell'uso. Ma la forza delle cose la vinse sui fatti propositi, e il Kruger si rese colpevole, secondo noi, di una grande contraddizione. Tutto quanto il materiale infatti, come lo troviamo ammassato nella sua grammatica, contraddice nel modo più aperto al disegno, da lui preconcetto, nella ripartizione del suo pur eccellente e classico la"«'oro. Ma già subito nella definizione della parte analitica del suo lavoro pare a noi di ravvisare l'in- teriore contraddizione (Part. II, cap. I, Nozioni pr clini.). E come è possibile infatti svolgere il signijjcato e Vap- plica:{ione delie forme della parola, senza parlare di rela- zioni, di concordanze, di collegamenti, di enunciati, di coor- dinazioni, di correlazioni, di dipendenze più o meno ideali? E il Kruger infatti non si è potuto sottrarre a questa ne- cessità. Basta una lettura, anche superficiale, della dottrina dei modi, che è svolta nella sezione analitica al § 54, nei capitoli I. II. IIL IV. V. VI. Ne allegheremo a ri-

- 492 - prova i titoli: Gap, I. / modi nelle proposizioni indi- pendenti— Gap. II. / modi ^ che hanno una dipendem^a me- ramente ideale Gap. III. / modi nelle proposizioni finali Gap. IV. / modi ne''periodi ipotetici Gap. V. / modi nelle proposizioni relative Gap. VI. / modi fielle proposi - Zioni temporali. Noi crediamo che ben a ragione altri po- trebbe ritorcere contro l'illustre grammatico quella sentenza, che, a proposito dei metodi immortali, egli mette fuori nel breve preambolo della sintassi. « L' ordinamento, cioè, della sintassi, corrispondente alVuso concreto della lingua imporsi imperiosamente colla interiore sua necessità » . La contraddizione, nella quale è caduto il Krùger, sta, a nostro giudizio, in ciò, che mentre egli muove tutto agguerrito contro il metodo astrattivo degli immortali , non s'avvide poi, come egli dividea un concetto, che non può non essere uno e continuo. Tutto il materiale infatti della sezione II (sintetica) poteva venire molto acconciamente repartito fra i vari capitoli della prima sezione, dove esso ha la naturale sua sede, può averla altrove.

Gosì, ad es., la materia del § 67 Unione di concetti nominali \) attributiva., 2) predicativa, ''ò) appositiva tutto ciò s'appartiene naturalmente al nome. Il § 60, che tratta della Ptotica (dottrina della concordanza dei casi), fa parte della dottrina dei casi. E la dottrina del verbo della concordanza e reggimento di esso tanto nelle proposizioni indipendenti, quanto in quelle, che si mostrano variamente collegate (§§ 62-65, 1-2-3) questa dottrina, diciamo, ha la sua naturai sede dove appunto dei verbo si discorre ; poiché tutto ciò, che il Kruger chiama congruenza (concor- danza) del verbo, altro non è che la teorica della concor- danza, che naturalmente svolge nelle relazioni di esso col soggetto, coll'attributo e col predicato; e tutta quella parte che tratta del reggimento del verbo appartiene di fatto e di

--493--

diritto alle funzioni temporali e modali di esso. Cosicché il Kriiger ha scisso daddovero il concetto grammaticale e logico del nome e del verbo, non ha esaurito, anzi neppure bene adombrato il concetto della proposizione. Ma dun- que non c'è unità di disegno in questo pur grande lavoro? Dunque il Kriiger si fonda sopra una astrazione, mentre crede di poggiare sul terreno solido della realtà? Ecco due gravi quesiti. Risponderemo, assai brevemente, come potremo, e senza nessuna pretensione di apporci bene.

La repartizione della sintassi in analitica e sintetica ^ messa innanzi dal Kriiger, ci richiama al pensiero la di- stinzione xiQ.'' giudici analitici e sintetici, fatta dal Kant{\), Ne'giudizi analitici, col predicato non si aggiunge nulla al soggetto, ma soltanto lo si rischiara, lo si notomizza e divide nelle sue parti, le quali si pensano, benché talora oscura- mente, come inerenti da natura al soggetto -, come ad es. nel giudizio : « il triangolo è una figura di tre lati » . All'opposto i giudizi sintetici aggiungono alPidea del soggetto un attributo, che non è punto inerente per inte- riore necessità al soggetto , come quando io dico ad esempio « quest'uomo è bianco ». Il soggetto uomo non racchiude in necessariamente l'attributo della biancheria, potendo anche essere nero, o color di rame o d'altro colore : mentre il triangolo non può avere che tre lati, più meno. Ora a noi sembra che l'appellativo di analitica, dato dal Kriiger alla prima grande sezione della sua Sintassi, o lo si intende nel senso Kantiaiip, o altramente non s'esce di questo dilemma quello appellativo o non ha senso, o involge contraddizione. Noi pertanto concepiamo la Sintassi ana- litica del Kriiger nel modo seguente : Esposizione del con- tenuto, della significaiione e dell'uso delle parti del dis-

(i) Critica della Ragione Pura. Imrod. VL

- 494

coròO^ nella misura, che è succiente ad esaurire il concetio del valore ideale e delle conseguenti necessarie relazioni e quasi influssi delle medesime, nell'uso concreto della lin- gua. — E vi sono intatti modalità e funzioni necessarie delle parti del discorso, nell'uso. Prendiamo ad esempio il nome (sostantivo, aggettivo., pronome). Di esso sono mo- dalità e relazioni necessarie il genere^ il numero, i casi. E la funzione del perbo si esplica necessariamente nel genere, nel modo, nel tempo., e nelle relazioni di persona e di numero. E laddove si pensi alle funzioni modali del verbo, vedremo scaturire da esse con evidente necessità molte relazioni di correlazione e di dipendenza logica, se non sempre reali, così da parere, non fossVltro, di concorrere ad esau- rire il valore del concetto del verbo e la pienezza delle sue funzioni. Intesa così, V analisi sintattica del Kriiger non manca certo di unità di disegno, che anzi essa, a mo'di compiuto organismo, ti sembra incedere serrata e stretta dentro da'termini d'una interiore necessità. Ma Terrore, secondo noi, del Kriiger sta nell'avere sottratto nella parte analitica al nome ed al verbo alcune funzioni e relazioni , che al concetto loro si collegano con evidente necessità. E come non penseremmo, siccome necessariamente connesse al nome (sostantivo, aggettivo, pronome) quelle relazioni di concordanza, che il Kriiger, sotto il titolo di unione sintat- tica di concetti nominali ^ ha violentemente staccate dal- l'analisi del nome, e ascritte alla sintesi di esso 67)? E le funzioni tutte di soggetto, oggetto, non appartengono esse di necessità al nome ? Perchè dunque scinderne l'unità, e parte ascriverne alla analisi , parte alla sintesi di quello (§61)?

E, quanto al verbo, noi non arriviamo proprio a com- prendere, perchè il Kriiger abbia sottratto al concetto ana- litico di esso, che è come a dire all'intima sua natura, le

- 495 - relazioni concordanza (congruenza, § 63) rispetto al sog- getto', perchè abbia ascritto alla sintesi ^ cioè sottratto alla virtù significativa del contenuto, e al concetto delle funzioni, inerenti airuso, le proposizioni indipendenti 64). E non cadono queste sotto il concetto della modalità? E qual v'è cagione di considerare certi collegamenti di proposizioni [Sai:{gefuge, § 65) come aggregati esteriori e quasi superfe- tazioni delle modalità del verbo? Delle proposizioni com- poste, ossia insieme collegate, noi abbiamo questo concetto, che esse possono venire considerate 0 in ordine allafonna^ o in ordine al contenuto. Rispetto a quella esse sono o coor- dinate, o correlative, o subordinate: rispetto a questo esse sono o affermative (enunciative), o finali, o ipotetiche, o re- lative, o temporali. La è codesta una distinzione quanto semplice, altrettanto ovvia e rispondente al fatto della lingua neiruso. Ma nella trattazione , forma e contejiuto in questi enunciati non possono essere distinti, perchè e quella e questo si raggruppano intorno all'unico concetto del modo e del tempo. Lo indurre ora una distinzione nell'unico con- tenuto, così che vi sia un contenuto, pel quale il fatto del collegamento non abbia valore grammaticale, come sarebbe nel concetto analitico di esso e un altro contenuto, ri- spetto al quale il lato formale (grammaticale) del contenuto abbia valore quasi predicativo come è nel concetto sin- Utico del medesimo: ciò ne pare che conduca a questa necessaria illazione: che ogni sintesi vera della relazione fra la forma e il contenuto degli enunciati e impossibile , nella grammatica non foss'altro. Quali inconvenienti pe- dagogici presenti un cosiffatto modo di trattazione, fa ap- petia mestieri che dica. Rechiamo tuttavia qualche esempio. Delle proposi-^ioni finali discorre a lungo il Kriiger nella pane analitica 54, 8). Parrebbe a primo tratto, che in questo luogo si considerasse principalmcnie

- 496 - la. forma delle medesime , come qualche cosa, che s'imponga necessariamente a chi voglia esprimere quel dato contenuto che si appella ^«(^/e. Pare che Fautore ti dica quasi: « Vedi « come la forma (la modalità del verbo) s'impone qui al « contenuto! Ma verrà tempo, che sciorremo questo fatale « complesso: allora ciascuno enunciato starà da sé, e lo « considereremo airinfuori della sua forma. Le congiun- « zioni iva, ib?, èniaq, ^x] s'incaricheranno esse dell'ufficio di (c conciliatrici ». E infatti nella parte sintetica^ al § 65, 4, si parla ancora delle proposizioni finali, in ordine al loro ufficio completivo nelle proposizioni composte. Ora ecco ciò che ne dice il Krùger in questo passo : « Die be~ ppeckte oder beabsichtichte Folge be\eichnen wa, d»?, ottuj?, wie negativ fjirj, iva |iri, uj? jiri, Sttuj? \xx\ mit dem Conjunctiv oder Optativ (i) ». Altro esempio: Le proposizioni ipotetiche che il Kriiger addimanda periodi 54, 9) sono trattate con molta larghezza e concisione nella parte analitica della sintassi. Ma poi se ne riparla nella parte sintetica al § 65, 5. Ma se ne discorre come d'una applicazione del concetto modale del verbo : qui come d'una relazione (collegamento esterno, quasi formale) fra causa ed effetto. « Ein Verhaeltnis\ von Grund und Folge jìndet sich auch bei den hypothetischen Sdt\eti. •» Una relazione fra causa ed effetto ha luogo anche negli enunciati ipotetici. Questa seconda sezione della Sintassi del Kriiger la sin- tesi — a noi sembra piuttosto un'appendice alla sintassi, svolta nella prima parte, nata via via, lungo il cammino,

(i) <i La conseguenza, tanto quella voluta, quanto quella che si desi- dera, è espressa dalle congiunzioni Ivo ecc., ovvero, in forma negativa, da ixr\ ecc., col congiuntivo, o coU'ottativo » ( Confr. § 54, 8, 2 ). Se- condo il KrUger, in questi enunciati, dall'uso del congiuntivo emerge più chiaro il fine voluto raggiungere ; dall'uso dell'ottativo l'intenzione di raggiungerlo.

497

e quando la materia era cresciuta tra mano airautore. Tanto ne pare poco giustificato il posto, che essa tiene in questo classico libro!

Ma ben altro criterio s'ha a farsi delia Sintassi del Kriiger, allorquando si discende alTesame àt' particolari. Fon- data essa sulla rigida distinzione del dialetto attico dal- V ionico (tanto l'antico, che è proprio delPepopea, quanto il nuovo, che è rerodoteo) fu posta così in parte sicura da ogni fluttuazione-, e per tal modo un servizio inapprezza- bile fu reso alla scienza e agli studiosi delle lettere greche, delle quali il Kriiger sarà sempre proclamato promovitore indefesso e acutissimo. Le più minute particolarità, le sfu- mature più sottili e sfuggevoli sono notate e studiate in quel libro; già colla fredda e obbiettiva indifferenza del mu- saicista, ma con tutta la energia e la vivezza di uno spirito penetrativo, che la morta materia ravviva colTacceso senso della vicina realtà. La grammatica del Kriiger è scritta per gli studiosi d'indole più meditativa, concisa ne'modi , serrata ne'pensieri, sottile e stringata nelle definizioni, tutta succo e nervi-, ma perciò appunto di difficile accostamento. Ciò nullameno noi facciam voti, perchè quest'opera per- venga alla conoscenza de'nostrali, che dallo studio di essa potranno inferire quanto sia feconda l'osservazione, portata sull'uso della lingua. {Continua)

Rovigo, mar:jo, 1873.

Gaetano Oliva.

498

LA COMMISSIONE D^iNCHIESTA SULLA IST^UZIOU^E S E C O^K'J^ A 'KJ A

A ROMA.

È naturale, che la nostra Rivista apra una larga discussione sui que- siti proposti dalla commissione d'inchiesta, dacché molta parte di essi si riferisce direttamente all'insegnamento di quelle discipline, per pro- muovere le quali è stato fondato il nostro giornale. Nei prossimi nu- meri si ragionerà adunque di quelli in particolare che concernono l'insegnamento dei greco e del latino, che per noi sono la incrollabile base d'ogni più elevata cultura e perciò di capitale importanza. Oggi intanto possiamo offrire ai nostri lettori una succinta relazione delle risposte fatte alla Commissione stessa in Roma da autorevoli persone, cenni questi che speriamo non saranno discari ai nostri lettori.

1.

Roma, ^i febbraio iS^S.

Come avrete veduto nei giornali, la Commissione dell'inchiesta sco- lastica ormai pose termine alle sue prime sedute in Roma ed e partila per Napoli.

Qui si apprezza generalmente in tutto il suo valore la risoluzione del ministro, che ordinò di fare in così larghe proporzioni lo scandaglio dell'opinione pubblica intorno ai gravi ed intralciali problemi, che sono di tanto peso ]jcr l'avvenire della nostra patria. Senonchè gli uo- mini egregi, a cui fu commessa l'importante ricerca, nel formulare i loro quesiti ebbero forse più in mira di conoscere le opinioni che di constatare i fatti dal riscontro dei quali l'opinione doveva formarsi. È questo il difetto capitale che la gente pratica in queste cose trova nel fascicolo pubblicato dalla Commissione, dove sono aggruppate in 77 numeri più centinaia di domande. Ciò forse dipende in parte dall'in- dole della materia, dove non trattasi di raccogliere una serie di fatti puramente empirici, come nell'inchiesta industriale, ma tali fatti che possono derivare da opinioni diverse, da errori più o meno diffusi e che importa di constatare ; in parte dipende da quell'indirizzo subbiettivo, da quell'a priori che è tanta parte del nostro passato e che rimane an- cora ad attestare quanto importi di dare alle menti giovanili un'altra svolta e fare un divorzio perpetuo con ogni idea preconcetta.

Per darvi un rendiconto esatto intorno ai lisuliati dell'inchiesta quj

«- 499

in Roma dovrei oltrepassare di molto i limiti di una modesta corrispon- denza; il che non potrei fare per lo spazio vostro per il tempo mio. MI restringerò dunque a pochissime cose, ma tali che a parer mìo è bene si sappiano e si discutano affinchè la Conirnissione nei suo pei- iegrinaggio trovi in certe questioni di grande importanza per cosi dire circoscritta la lotta in un campo determinato evitando i divagamenti ed anche i capricci individuali che spostano i problemi e fanno perdere il tempo.

Gli nomini chiamati finora a rispondere furono de'più sperimentati sia nell'istruzione militante sia neìramministrazione di essa. Tutti fu- rono d'accordo nel riconoscere che le condizioni presenti in cui trovasi la carriera di professore ncn sono tali da attirarvi i giovani d'ingegno, da pretendere modelli di scienza e di virtù in quelli che vi si tro- vano; che i rimedii non vogliono essere omeopatici, come quelli del Sella, ma tali da pareggiarla a)!e altre carriere nobili di avvocato, in- gegnere, medico. Tutti affermarono che le questioni dei programmi , dei metodi, e in generale dell'organismo dell'istruzione secondaria di- ventano tutte veramente secondarle rispetto a quella del personale; che dato il buon professore c'è la buona scuola, e il buon professore costa caro come ogni cosa buona. Anzi vi fu un uomo d'ingegno vivace e spi- gliato che disse alla Commissione : di tuiti i vostri quesiti io rispondo ad uno solo, sciolto il quale avrò risposto a tutti : nobilitate material- mente e moralmente la carriera di professore e vedrete ogni cosa pro- cedere in modo da poter abolire questo sistema burocratico che, in luogo di mettere orarne, intralcia l'andamento dell'istruzione.

Il quesito a cui fu risposto dal maggior numero di persone fu quello che riguarda l'istruzione religiosa (i)

Altro argomento di cui si occuparono parecchi fra gl'interrogati e nel quale fu manifestata qualche idea nuova fu quello delle ispezioni.

(i) Non potendo riferir qui tutto ciò che il nostro egregio corri- spondente ci scrisse intorno a si fatta questione, estranea alla natura di questa *7(/v«5^i, parendoci tuttavia opportuno passare affatto sotto silenzio un argomento cui a Roma si attribuì universalmente grande importanza, noi compendieremo colla massima brevità questa parte- delia lettera inviataci cortesemente dal prof. Zambaldi, valendoci, quanto potremo, delle sue stesse parole. Fu generale l'accordo nel deplorare che nell'istruzione pubblica italiana manchi o non sia abbastanza efficace lo insegnamento religioso, « Vi fu chi propose che fosse rinvigorito e vi si desse un novello impulso : ma il maggior nu- mero e la gente più pratica riconobbe che il nodo della questione non è nel catechista e nel suo programma, ma nelle condizioni religiose dell'Italia... . A questa conaizione degli animi, fruito di cause ormai secolari, quasi tutti riconobbero che non f'' dato rimediiijc ne in ^r> mese in un anno », soprattu'to fra le lotte ora ferventi. « Pertanto crinterroeati risposero quasi ad una voce, essere bensì deplorabile il di- fetto di educazione religiosa, ma nessuno aver facoltà di riparare a que- sto male », e, nello stato presente delle co.se, non potersi conservare nelle

500

!n generale fu osservato che nel modo in cui ora si fanno riescono presso che inutili; non essere raro il caso che un ispettore contrad- dica all'altro ; poter gl'ispettori riconoscere qualche grave abuso, ma non esercitare un'azione costante e benefica sull'andamento dell'istru- zione. Il maggior numero propose che gl'ispettori sieno slabili, e si parlò di affidare questo incarico ai provveditori, ma più d'uno osservò che i provveditori, anche quando si scegliessero fra gl'insegnanti, alla lunga s'ingranano nella ruota burocratica e restano in arretrato nella scienza ; inoltre per quanto sieno persone istrutte, la loro dottrina non andrà al di di una o due materie, non saranno mai tali da misurarsi con tutti i professori dei diversi rami quindi avranno bastante autorità da tenerli in riga.

Migliore accoglienza e nessuna opposizione trovò la mia proposta di cui vi riassumo in breve il ragionamento. Io dissi : perchè le ispe- zioni sieno utili è necessario che sieno per così dire costanti ed abbiano un qualche accordo di principii almeno per un certo numero di istituti. Uno dei mali che si lamentano nell'istruzione governativa è appunto il difetto di metodo e di accordo fra i professori, princi- palmente nella parte letteraria , difetto dovuto alle condizioni pre- senti della nostra coltura. E in vero molti professori furono educati all'antica scuola, che se teneva un certo conto dell'arte, seguiva quasi inconsciamente metodi empirici e in contraddizione coi risultati della scienza; altri, educati ai sistemi moderni, in luogo di prenderne i ri- sultati danno nell'insegnamento tale risalto al lato scientifico da lasciare inerti e inesplicate le facoltà più vigorose dei giovani, il sentimento e la fantasia ; finalmente un certo mxmero di professori, istruiti di per soli, o come ora si direbbero autodidacti , vanno a tentoni senza alcuna guida e facendo esperienze sugli allievi come in anime vili. 1 nostri istituti sono giovani o rinnovati di fresco ; perciò non hanno tradizioni, cominciarono a formarle per la natura dei tempi che

scuole del governo il preaccennato insegnamento, « raccomandando però di dare un certo sviluppo alle dottrine morali e di destare con ogni mezzo possibile il sentimento del dovere. Nelle condizioni morali e religiose d'Italia trova altresì spiegazione quel fatto avvertito nel nu- mero 14, che alcuni istituti religiosi e tenuti da corpi morali hanno maggior numero di alunni degli istituti governativi. » 11 comm. Al- lievi notò a questo proposito come fra noi non piaccia per lo più ai padri consecrar l'opera propria all'educazione religiosa dei loro fi- gliuoli, « E poiché per quanto uno sia miscredente e di facili costumi sente dentro di qualche cosa che lo stringe ad informare l'animo dei figli ad alcuni principii morali, crediamo sdebitarci di questa responsabi- lità e tranquillare la nostra coscienza affidando la nostra prole ad istituti religiosi. Aggiunse però l'onorevole Allievi che a parer suo questi padri s'ingannano ottengono lo scopo desiderato; anzi af- fermò risolutamente , e con lui quanti si occuparono di questa ma- teria, che l'istruzione governativa è sotto ogni aspetto migliore di quella impartita da corpi morali e da ordini religiosi. »

501

rese necessari e desiderati trasferimenti continui ; i nuovi venuti non trovano un sentiero comune da percorrere e da cui non possano deviare, come nelle vecchie scuole inglesi e in quelle di Gennania ; manca insomma quella che in arte direbbesi scuola , perchè l'antica non serve più, e la nuova appena importata non potè ancora modifi- carsi conforme alle nostre attitudini e diventare italiana. Inoltre i pro- fessori hanno fama di genie indisciplinata , suscettiva , talora anche riottosa; ed è naturale che sia, perchè abituata nella scienza alla cri- tica rigorosa e a mettere tutto in discussione, non ha motivo di dar retta all'ispettore in cose, nelle quali ha coscienza di poter insegnare a lui. Quando trattasi del loro insegnamento i professori non possono riconoscere altra autorità che quella della scienza.

Volete adunque mettere un po' d'ordine in questa confusione, un po' di disciplina nelle menti? Organizzate fortemente le scuole nor- mali, non solo in maniera che i giovani vi apprendano bene e ordi- natamente le varie discipline, ma altresì che tutti gl'insegnanti nuovi debbano passare di là. E se il bisogno vi costringe a prendere anche dal di fuori, non abbiate premura di concedere patenti, ina date loro tempo di orientarsi, di mettersi in rapporto con la scuola normale, di sottoporsi ad esami scrii, come quelli che si danno a Padova, con pro- grammi ben definiti e dati in modo che riescano insuperabili a chi non sa o a chi sa male. Quando poi il giovane professore incomincia la sua dura milizia, non fate che mandi un eterno addio alla scuola normale, non segnate una linea di separazione fra essa e la scuola secondaria, ma stringetele insieme con vincoli diretti e continui, dando alla prima la direzione scientifica e didattica della seconda. Fate cioè che i profes- sori delie scuole normali sieno, ciascuno per la propria materia, gli ispettori ordinarli d'un dato numero di licei, di ginnasi , di scuole tecniche. Così il discepolo, che fa le sue prime prove come insegnante, verrebbe spesso guidato da'suoi antichi maestri, per i quali rimane in ogni animo onesto una stima mista d'affezione, o se educato in altra circoscrizione avrebbe pur sempre la scorta di quelli che sono per così dire gli ufficiali superiori della scienza militante. In tal modo l'ispe- zione perderebbe quel che di pauroso che ha presentemente, e che de- riva soprattutto dall'ignorare i metodi, le idee didattiche, e convien pur dirlo, anche l'umore degl'ispettori, così gl'insegnanti in luogo di una faccia nuova e spesso arcigna vedrebbero un viso benevolo ed amico. Inoltre le ispezioni potrebbero farsi ad intervalli minori di tre anni ed avverrebbero in gran parte extra-ufficialmente e mediante rela- zioni private. Finalmente questi rapporti continui e necessari fra gl'istituti secondarii e le scuole normali, agevolando la diffusione di novità scien- tifiche e di esperienze didattiche, recherebbero non piccolo beneficio alla coltura di molti professori che stretti da difficoltà economiche trascu- rano gli studii. Ciò richiederebbe senza dubbio un'opera assidua, una specie di abnegazione nei professori delle scuole normali ; ma potreb- besi pur fare assegnamento in parte su quel desiderio naturale che ha

- 502 ~

ciascuno di acquistare importanza alla materia a cui ha dedicato tutto stesso e di diffonderne lo studio, in parte su quell 'affezione che lega il maestro a'suoi scolari antichi, in parte finalmente sull'interesse generale per la coltura e snll'araore di patria.

in quamo al liceo fu lamentato generalmente il predominio delle scienze sulle lettere. Più d'uno propose di abbreviare d'un anno il gin- nasio a beneficio del liceo, riducendo ambedue i corsi a quattro anni. Ogni distinzione fra ginnasio e liceo non si vorrebbe tolta, poiché du- rerebbe pur sempre la differenza essenziale del metodo intuitivo nel piimo, scientifico ne! secondo. Fu espresso da molti il desiderio che si prescrivano i testi per uniformità di metodo e risparmio di spesa; fu ossen/ato per altro come in alcune materie tornerebbe inutile la prescrizione, perchè il professore, quando si vede legato suo mal- grado ad un dato testo, a furia di omissioni, di aggiunte, di rettifica- zioni lo ridurrà pur sempre a modo suo.

SuH'amministrazionc scolastica provinciale parlarono principalmente alcuni prefetti, i quali furono concordi v.eì trovar buona l'istituzione del consiglio scolastico, e raccomandarono che continui ad essere pre- sieduto dal prefetto, il cui ufficio acquista nobiltà dall'interesse che è tenuto a prendere per la coltura delia provincia, e la cui parola trova di solito più facile ascolto dai comuni, principalmente dai piccoli , dove le spese dell'istruzione non sono le più popolari. Se il consiglio scolastico avesse un altro capo, incontrerebbe certo maggiori difficoltà.

Duolmi non avere agio bastante per diffondermi sopra questi argo- menti ; devo lim.itarmi a segnalarli all'attenzione vostra come quelli che qui destarono l'interesse d'un certo numero di persone e provoca- rono risposte abbastanza concordi. Terminerò toccandovi d'un sog- getto che riguarda più da vicino il vostro giornale, cioè dell'insegna- mento del greco.

Fra le cause diverse che furono esposte per cui la diffusione di questo studio incontra in Italia tante difficoltà, cioè la poca coltura del paese, i dubbi suU'udlità dei medesimo, gii scarsi frutti dati finora.^ e le altre di cui si parlò le mille volte, piacemi segnalarne una che non è senza importanza. Fu osservato cioè che paragonato ii programma liceale del greco con quello dei latino, appare così scarso che ogni profes- sore di liceo ha per necessità e per debito d'ufficio di diventare lati- nista ma non grecista. E invero nel liceo coxiviene interpretare gli au tori più difficili come Orazio e Tacilo, conviene guidare i giovani a comporre in latino con proprietà; le quali cose suppongono una cono- scenza non comune della lingua e delia letteratura ; nel greco invece non si va più in della grammatica e del più facile fra i prosatori, essendo pochi quegl'istiluti dove s'arrivi ad assaggiare un briciolo di Iliade. Manca adunque in ìtaiia una classe di persone che abbia per istituto di spingersi avanti in questo studio e senta lo stim^olo dell'amor proprio a progredire in questa piuttosto che in un'altra via ; poiché quando un ^professore sa bene il latino, sente di meritare il suo posto e di soddisfare a nove decimi del suo compito.

--S03-

Per rimediare a questo danno furono proposti due rimedi : il primo di ridurre nel liceo lo studio del greco pressoché a livello del latino in modo da leggervi Omero, Demostene , qualche dialogo di Platone, a, data una buona s'alala , anche Sofocle ; l'altro di creare una cat- tedra speciale di greco, divisa da quella del latino, primo rimedio fu riconosciuto più utile del secondo, non solo perchè al presente la coltura classica costituisce una così completa unità che non sarebbe de- siderabile il dividerla, ma anche perchè solo cosi potcebbesi sperare qualche frutto dall'insegnamento dei greco. Si comprende come tra scuola possa limitarsi alla grammatica ed ai primi esercizi d'una lingua moderna, perchè il giovane trora poi nella vita mille occasioni e in- centivi e talora anche la necessità di progredire; ma non si comprende l'utile di arrestarsi ai primo passo in una letteratura antica, se, quando uno non arriva a fiar suo lo spirito greco, a sentire l'armonia e la sere- nità di quelle creazioni in maniera da destare il desiderio di letture ulteriori, siamo sicuri che superato appena l'esame di licenza sacrifi- cherà a Vulcano il suo Senofonte e donerà il suo Curtius al fratellino minore con uno sguardo di compassione.

Eccovi per sommi capi quanto di più interessante fu detto qui alla Commissione, la quale, come si afferma, non ha per anco finito il suo compito a Roma, ma dopo il viaggio si propone d'invitare a altre persone.

È una domanda ripetuta universalmente : quali fruiti recherà l'in- chiesta? Lascierà anch'essa il tempo che trova?

Io credo che in alcuna parte la commissione dovrà limitarsi a de- plorare dei mali, a riconoscerne le cause nello spirito dei tempi, nelle tradizioni, nella storia, senza potervi rimediare, come vi accennai a proposito dell'istruzione religiosa. In altre parti ritengo che potrà prodiirre qualche bene, perchè molto rimane a fare al governo e molta all'opera individuale che può essere eccitata efficacemente ed util- mente diretta. Mostrerebbe però d'ignorare l'indole di tali quistioni chi in seguito all'inchiesta pretendesse vedere effetti immediati e pronti miglioramenti. Ma un bene sarà incontrastabilmente quello d'avere interessato tutto il paese nella questione educativa, d'aver fatto pen- sare e promosso la discussione di molli e gravi problemi, d'avere per- suaso un gran numero della loro importanza e di apparecchiare l'o- pinione pubblica a risolverli presto o tardi in modo conforme agli interessi della civiltà e della coltura nazionale.

FuANrESCO ZAMBALni.

504 -

Siamo dolentissimi di non avere ancora potuto, per mancanza di spazio, raccomandare airattenzione dei nostri lettori il primo volume, testé pubblicato, dcU'c^ri/iJVJO gìottoiogico iialiano, diretto da quel- l'eminente linguist'ì che e il prof. G. I. Ascoli, edito da E. Loesche-. È dedicato a F. Diez « il glorioso fondatore della scienza dei lin- guaggi neo-latini », piaccia o non piaccia a certi italianissimi calun- niatori della scienza germanica. Contiene, oltre ad un lungo proemio (p. V-LIV), una dJligentissima monografia del direttore, intitolata Saggi ladini (p. 1-537), seguita da quattro Indici, da numerose Giunte e corre^ioni^ e corredata di una Carta diedettologica della zona ladina secondo p;li odierni <\xoì limiti. Speriamo che ben presto si legge- ranno nella nostra Rivista intorno a questo nuovo importantissimo lavoro dell'Ascoli cenni critici dettati da quell'illustre glottologo, che noi reputiamo il \n\i coai petente dei giudici in fatta materia e cui l'Ascoli stesso dichiarò essere « il vero e l'acclamato antesignano » di quanti studiano i dialetti italiani (v. Op. cit., proemio, p. XLI).

Pochi giorni or sono, 'icevemmo dalla cortesia del prof. Ascoli al- cuni Squarci di una Lettura da lui fatta nel R. Istituto Lombardo di scienze e lettere sopra La Queslione della lingua e gli studi storici in Italia. L'autore vi dimostra sapientemente che « dal fatto della salda unità di linguaggio, di cui si rallegra la Francia o la Germania, non può.... venire alcun argomento di legittimità, od alcuna speranza di facile conseguimento, al proposito di ridurre tutta l'Italia alla pretta favella di Firenze » e che la differenza, esistente tra Italia e Germa- nia in ordine alia unità di linguaggio, dipende '* da questo doppio inciampo della civiltà italiana : la scarsa densità della cultura e l'ec- cessiva preoccupazione della forma ».

Ricevemmo pure dal prof. F. Corazzini un Programma per una Società dialettologica italiana in Firenze.

La mancanza di spazio fu eziandio Ta sola causa, per cui non ab- biarao ancora fatto cenno della dotta ed interessante dissertazione, cortesemente inviataci dal prof. Lignana, intorno ad una Ta:{:[a d'ar- gento d'arte orientale. Ci rallegriamo vivamente che la scienza ita- liana sia stata, qualche mese fa. nell'ìnstiiuto di corrispondenza ar- cheologica sì degnamente rappresentata dall'erudito ed ingegnoso fi- lologo, a cui molta gratitudine dovrà l'Ateneo romano per ciò che attiensi agli studi indiani ed cranici.

Ci rallegriamo vivamente anche pel R, Decreto, con cui venne stabilito che nell'L'niversità di Roma si daranno grinsegnamenti di Gramma- tica e lessicografia greca e di Grammatica e lessicografia latina. Ce ne rallegreremo più ancora, quando sapremo essersi provveduto anche ai secondo di essi, affidandolo a qualche insegnante che con lavori scientifici abbia dato pubbliche prove di esserne d^gno. A questo proposito siamo costretti a notare che deploransi parecchie lacune nell'istruzione filologica superiore, specialmente nell'insegnamento delle lingue e letterature classiche. Queste lacune sono funestissime non solo alla preaccennata istruzione superiore, ma eziandio alla se- condaria che da quella trae i suoi maestri, onde il valore determina il valore delle scuole. Confidiamo che il Ministro, in cui il buono e forte volere debb'essere pari all'ingegno, saprà vincere gli ostacoli e colmare gueste lacune: così egli promoverà efficacemente la riforma degli stuai universi tarli, liceali e ginnasiali di filologia greco-latina; darà a parecchi Italiani ciò che loro compete; e libererà noi dallo ingrato dovere d'insistere su questo argomento.

Pietro Ussello, inerente rcsfonsabile.

505

AURELII VIGTORIS DE CAESARIBUS HISTORIA

L' ETITOÓME "DE CAESAIWBUS.

Dei rapporto reciproco fra VHistoria de Caesaribus di Aurelio Vittore e VEpttome de Caesaribus variamente hanno giudicato gli eruditi: gli uni vollero sostenere, essere af- fatto indipendente l'uno di questi scritti dall'altro, mentre altri credettero di poter provare, che VEpitome non sia in verità che un estratto owerossia una specie di redazione della Historia de Caesaribus. Altri ancora furono d'opinione, es- sere tanto VHistoria de Caesaribus^ quanto VEpitome^ il ri- stretto d'un'opera maggiore, ed autore di quest'ultima Aurelio Vittore.

Le due prime opinioni non hanno d'uopo di essere con- futate seriamente ai giorni nostri, quand'anche esista qual- che erudito che le sostenga ancora: che i due scritti non possono essere affatto indipendenti l'uno dall'altro, mentre in varii luoghi concordano letteralmente. La seconda di que- ste opinioni poi, facendo anche astrazione dagli svariati mi- glioramenti e dalle frequenti aggiunte che VEpitome presenta in confronto alla Historia de Caesaribus^ si mostra senza alcun fondamento anche per questo, che VEpitome contiene eziandio una continuazione dell'istoria romana fino alla morte di Teodosio, che manca iìqW Historia.

Anche supposto che questa continuazione potesse essere

TU vista di filologia ecc., I. 34

506 Opera di un epitomatore senza che fosse fatto cenno di lui, tutta repitome, compresa questa continuazione, non sarebbe stata diffusa sotto il titolo di LIBELLVS DE VITA ET MORIBVS IMPERATORVM BREVIATVS EX LIBRIS SEXTI AVRELII VICTORIS A CAESARE AVGVSTO VSQVE ADTHEODOSIVM (così il codice Gudiano 84, del sec. IX-X, ed il Gudiano 1 3 1 , del secolo XI ; tutti e due per la prima volta da me raffrontati (i)). Più ampia- mente dobbiamo discutere la terza opinione.

Questo riguardo non le dobbiamo, perchè espressa da Bechmann (2) od Ulrici (3) così per incidente ed alla sfug- gita, ma perchè in questi ultimi tempi ha trovato un difen- sore, che è Theodoro Opit:{, giovane erudito tedesco e disce- polo del celebre Federico Ritschl. Egli Tha esposta nelle sue Quaestiones de Sex. Aurelio Vietare (4).

Per quanto diligenti e profonde siano le ricerche da lui fatte, pure non hanno condotto ad un risultato definitivo.

(i) I titoli delle edizioni di Arntzen e Genner non hanno per se l'autorità di codici.

(2) De Aurelio Vietare^ ed. II. Altorf, 1726, § XIII (non, come dice Opitz, § XIV), che suona come segue: Quartum Victori nostro adiungi solitum scriptum, non quidem, uti nunc habetur, ab ipso ilio profectum est, ab aliquo tamen, quisquis etiam ille fuerit, ex libro eiusmodi excerptum, qualem Sex. Aurelius Victor de Caesaribus, pecu- liari dicendi characterc-, et maiori ac prior de iisdem conscriptus eral amplitudine exaravit, qui tamen cum aliis multis veterum scrip torum voluminibus iniuria temporum periit.

(3) CharakteristiJt der antiken Hisioriographie, p. i56, not. 4: Che il ilibro de Caesaribus e la sua così detta Epitome siano estratti di una sola e medesima opera fatti da mani diverse, riesce abbastanza chiaro, quando si vede, che alcune cose nei due scritti letteralmente concor- dano, ed altre, poche, nell'epitome si rinvengono, che l'oper» principale non contiene.

(4) Lipsiae, B. G. Teubner, 1872. La medesima dissertazione verrà ripetuta in unione ad altre ricerche su Aurelio Vittore negli Ada so- cietatis philologae Lipsiensis di Ritschl II, p. 199 segg.

507 -

In ogni indagine sul nostro quesito bisogna innanzi tutto avet per certo, a meno che non vogliamo negare ogni fede alFau- torità dei codici , che la così detta Epitome cosi diremo quind' innanzi per amor di brevità è in realtà l'estratto d'un'opera di Aureho Vittore. Ma di ciò per vero dire non si dubita neanche. Ma dobbiamo anche ammettere, cosa che risulta eziandio dal già detto, che V intiera Epitome è tolta a quest'opera di Aurelio.

L^asserzione peraltro, che anche VHisioria de Caesaribus non sia fuorché Testratto di quell'opera del nostro storico, ha ben poco fondamento.

Nel discutere le ragioni della sua opinione TOpitz prende le mosse dall'Epigrafe del codice di Bruxelles, che» a quanto mi consta, è Tunico, il quale ci abbia conservato VHistoria de Caesaribus. Quest'intitolazione è la seguente: Aurelii Victoris historiae ABBREviArAE ab Augusto Octapiano, id est a fine Titi Livi usque ad consulaium X Constantii Augusti et Juliani Caesaris III. L'espressione historiae abbreviatae pare al nostro autore ragione sufficiente per poter asserire, com'egli fa a pag. 14: is liber de Caesaribus, qui nunc su- per stes est, non videtur esse historia Caesarum a Sex. A^u- relio Vietare conscripta, sed potius et Caesares et Epitomae capita XI priora ex illa excerpta sunt.

Per chi è conoscitore di codici manoscritti occorre appena avvertire, che tali aggiunte ne' manoscritti non hanno alcun valore, specialmente quando per l'asserzione in esse conte- nuta non abbiano diverse testimonianze, i'una indipendente dall'altra, e quando Tinica esistente Tion risale nemmeno ad epoca antica (»}

Se poi VHistoria Caesarum fosse in realtà un estr-tto dtU

|i) Il codice di cui discorriamo è del secolo XV. Conf. Johuan nel- VHennes, IH p. 390.

- 508 VHisioria ài A.urelio Vittore, sarebbe strano dav\'ero che non ci fosse pervenuta la menoma notizia, neanche una leg- giera traccia che di ciò ci avvenisse.

Ma lasciamo pur da parte una tale considerazione. Quel- V abbrevia tae non significa quello che TOpitz vorrebbe che dicesse. Ne Vabbrevtare o brevìare ha nei secoli posteriori di per il significato : fare un ristretto di opera maggiore, e questo ce Io insegna il Glossarium mediae et infimae lati- nitatis del Du-Cange, ma soltanto quello di in brevia redi- gere, cioè dare un'esposizione più succinta; nell'antichità più remota significava ciò, quando si trovano formazioni di tale radice. E lo prova chiaramente il titolo dell'opera Eutropio-. Breviarium historiae Romanae, e di quella di Sesto Rufo : Breviarium rerum gestarum populi Romani. Tutti e due questi titoli sono accertati da buone autorità. Qui non si tratta d'un compendio d'opera maggiore, ma semplice- mente di più breve e succinta esposizione. In questo senso spiega Eutropio istesso il titolo dell'opera sua nella dedica a Valente: les Romatias. .. per ordinem temporum brevi nar- RATioNE collegi strictim, e Rufo parimente nella dedica al- l'imperatore: rcs gestas signabo, non eloquar. Accipe ergo quae breviter dieta brevius compuientur .

Ben diversamente sta la cosa, quando abbiamo delle ag- giunte che ben chiaramente alla lor volta accennano ad un ristretto od estratto. E questo è il caso dei codici della bi- blioteca di Wolfenbiittel, Gudtanus N. 846 i3i, che di- cono. LIBELLVS... BREVI A.TVS EX LIBRIS SEXTI AVRELII VICTORIS. Qui non può essere dubbio: ab- biamo in essi il ristretto d'un'opera maggiore di Aurelio Vittore, come ho già detto più sopra. Ma il titolo del co- dice di Bruxelles : Aurelii Vicioris historiae abbreviatae non può secondo Tuso della lingua latina di tutti i tempi dir altro che: breve storia scritta da Aurelio Vittore.

- 509 Anche le diligenti investigazioni sulle fonti dei primi un- dici capi dei libri od estratti di Aurelio Vittore (i) non pos- sono dimostrare quello ch^egli vorrebbe provare. Al piiì, la- sciando da parte ogni pregiudizio, fanno vedere, come la nota Epitome non è estratta daìVHistoria Caesarum, vale a dire che i LIBRI AVRELIl VICTORIS, di cui parla il titolo, che è chiaro e perfettamente autorevole > non sono VHistoria Caesarutn, i quali devono poi ancora, come già innanzi abbiamo detto, estendersi A CAESARE VSQVE AD THEODOSIVM.

Per questa via adunque non giungiamo ad una decisione intorno al quesito di cui ci occupiamo ; dopo qualche giro vizioso ci troviamo sempre in faccia al medesimo enimma, per sciogliere il quale evidentemente dobbiamo muovere da considerazioni differenti da quelle che ci suggeriscono i codici soli. Dobbiamo innanzi tutto ritornare di nuovo alle notizie riguardanti Aurelio Vittore, che troviamo altrove, e partendo da quelle trame le nostre conclusioni.

Innanzi tutto ci si presenta il fiorissimo luogo di Ammiano Marcellino (XXI, io): ubi Victorem apud Sirmium vìsum scRiPTOREM HisTORtaTM exifideque venire praeceptum Panno- niae secundae consularem praefecit et honoravìt aenea statua, virum sobrietatis gratta aemulandum multo post urbi praefectum.

L'altra notizia che c^importa, leggiamo in Grutero, InscH- ptiones ant. I, 286, N. 5 (2):

(1) Pag. i5-3o.

(j) E non nelle Inscript. Regni Neapolitani. n. 2618, come sempre legge presso Opitz.

510 -

. . lERVM PRINCIPVM CLEMENTIAM .... NCTITVDINEM MVNIFICENTIAM

Sv'PERGRESSO D N FL THEODOSIO PIO VICTORI

SEMPER AVCVSTO SEX AVR VICTOR V C VRBi PRAEF IVDEX SACRARVM COGNITIONVM D-NM-Q-E- (i)

rado possediamo intorno ad un autore dell'antichità no- tizie, le quali, malgrado che siano isolate, abbiano rapporti tanto diretti con le quistioni che la critica filologica propone intorno al medesimo.

Gli eruditi che si sono occupati del quesito, di cui anche noi qui discorriamo, vale a dire del rapporto che esiste fra YKpitome di Aurelio Vittore e VHistoria de Caesaribus, non hanno avvertito che nella prima parte del luogo di Am- miano Marcellino or ora citato: Victorem apud Sirmium visum scriptorem historicum exiìideque venire praeceptum Pannoniae secundae consularem praefecit (scil. Julianus) havvi una relazione importantissima con la fine della nostra Hi storia de Caesaribus.

Quest'ultima è scritta nell'anno 36o d. C, come bene di- mostra rOpitz (pag. 8 e segg.), o per dir meglio condotta a termine in quell'anno ; il che risulta specialmente da ciò, che l'imperatore Costanzio è chiamato noster imperator (2), e che nel Jib. XLII, 20, si parla del suo governo come di quello che dura già da ventitré anni, cioè precisamente del- l'anno 36o d. C, mentre di Giuliano si discorre soltanto

(i) Cioè: Devotus numini maiestatique eius.

(2) P. e. De Caes. XLII, 5, E lo stesso rileviamo da altre espres- sioni citate dairOpitz, p. 5.

511 come di Cesare, mentre nulla è ancor noto della sua dignità (T Augusto, alla quale venne elevato dai soldati verso lo scor- cio dell'anno 36o.

Nell'anno seguente 36 1 ebbe luogo rincontro fra Giuliano ed Aurelio Vittore e ne venne l'ammessione di quest'ultimo nel servigio dello stato come governatore della Pannonia.

E troppo strana la coincidenza di queste date per credere che sia opera del caso. Anzi ognuno che una volta sia avver- tito di essa, vorrà facilmente concedere, essere affatto natu- rale, che la chiamata d'Aurelio Vittore da Sirmio ove certa- mente era vissuto sin'allora ed il suo entrare in un ufficio per lui affatto nuovo e che gl'imponeva insoliti doveri abbia avuta per necessaria conseguenza un' interruzione de' suoi studii. Aggiungiamo questo fatto a quello che abbiamo detto più so- pra, e, mi sembra, non si potrà menomamente dubitare, che néiVHistoria de Caesaribus abbiamo infatti un'opera dovuta alla penna di Aurelio Vittore. E vero peraltro che ci si po- trebbe opporre l'aridità di questo compendio storico e dirci : L'autore d'un'opera così magra ed arida, qual'è Vllistoria, poteva egli mai esser noto veramente come uno scriptor histo- ricuSy e quella grettezza istessa non ci dimostra che abbiamo sott'occhio il ristretto d'un'opera maggiore a noi perduta?

Contro tale osservazione possiamo addurre l'esempio d'un Eutropio e d'un Sesto Rufo, de' quali abbiamo già prima parlato. Quell'aridissima trattazione dell'istoria, che ci fa vedere piuttosto il lavoro d'uno scolare, che quello d'un au- tore, è proprietà di quel tempo e noi non abbiamo ragione, per amore ad Aurelio, a mutare la nostra opinione sul gusto 9 sull'erudizione di quell'epoca, opinione che ci siamo for- mata dai monumenti, i quali ci ha tramandati.

Ora veniamo alla parte seconda della nostra ricerca, alla così detta Epitome di Aurelio Vittore.

11 tempo, in cui quest'opera stessa fu scritta e che certa-

- 512 mente si può fissare per mezzo della tradizione manoscritta, il che ne' suoi Praemonenda promette TOpitz di fare, non ha per ora interesse per noi, che il giudizio nostro intorno al contenuto ddVEpitome non ne verrebbe in verun caso mo- dificato.

Innanzi tutto importa il trovare nella materia contenuta nélVEpitome istessa dei punti che ci permettano un giudizio sicuro intorno ai LIBRI SFXTI AVRELII VIGTORIS dai quali V Epitome fu estratta^ in altri e più precisi termini, bisogna cercare e stabilire definitivamente, se infatti possa reggere quello che di sopra, appoggiati alla tradizione mano- scritta, enunciammo come cosa sicura, se il contenuto del- l'Epitome nella sua interena può essere tolto all'opera mag- giore di Aurelio Vittore.

Il miglior punto di cui servirci per convalidare la nostra opinione ci offre la vita Theodosii (cap. XLVIII). Dai noti passi della medesima § 8 e segg. : futi autem Theodosius mo- ribus et corpore Traiano similis, quantum scripta veterum et picturae docent. Sic eminens status, membra eadem, par caesaries etc, e § 9; mens vero prorsus similis, adeo ut nihil dici queat, quod non ex librìs in istum videatur transferri, risulta chiaramente che colui, il quale scrisse originariamente quest^istoria, debbe avere conosciuto personalmente Timpe- ratore Teodosio, Ciò aveva già avvertito il Griiner nella sua prefazione (i). Nel primo di questi passi confronta eviden- temente la figura di Teodosio, che aveva sott'occhi, con i ri- tratti di Traiano, che solo a questo possono riferirsi le scripta veterum et picturae, e nel secondo parla del carattere di quello in modo da poter tosto conoscere, che l'autore deve aver avuto occasione di conoscerlo e farne esperienza.

(i) De aetate auctoris nolo temere decernere, is tamen Theodosium Augustum vidisse cap. XLVIIIy 8, non obscure significare videtur.

-513-

L'estensione molto maggiore della vita di Teodosio e le sper- ticate lodi del medesimo, che seguono a questi capitoli citati e continuano fino al termine della vita, accrescono la verosimi- glianza della nostra opinione. L'autore si estende evidente- mente molto più, quando racconta l'istoria contemporanea, come fanno pure in modo simile gli storici greci Eunapio e Zosimo; si ferma volentieri nel parlare dell'epoca di Teodosio, relativamente grande, e tratta più profondamente la sua sto- ria, anche perchè egli stesso aveva ricevuto i beneficii di quest'imperatore.

Queste sono le semplici osservazioni, che farà ognuno, alla cui attenzione sia indicato questo punto. Ma esse concordano d'altra parte in ogni rispetto con le notizie pervenuteci intorno alla vita di Aurelio Vittore, di cui abbiamo parlato in prm- cipio di questa dissertazione.

Dalla iscrizione riferita più sopra risulta, che il nostro sto- rico visse ancora sotto il governo di Teodosio, certamente come praefectus urbi, dacché questa notizia ottimamente concorda con il racconto di Ammiano Marcellino, il quale ci dice avere Giuliano il nostro Aurelio Vittore preposto come Consolare alla Pannonia e molto tempo dopo {multo post) essere questo stato nominato urbi praefesfus.

Il risultato di tutte queste considefc'zioni noslre si può adunque brevemente riassumere come segue:

In primo luogo non abbiamo ragioni per ammettere che Vffistoria de Caesaribus sia l'estratto di un'opera maggiore scritta da Aurelio Vittore.

In secondo luogo la così detta Epitome è certamente il ristretto d'un'opera d'Aurelio Vittore e questa non potendo essere quell'^/s /orza, così non v'ha ragione, per cui non possiamo ammettere che

In terzo luogo V Epitome tutta quanta sia tratta dalla opera principale di Aurelio Vittore.

514 -

Ma qui ci troviamo anco una volta a fronte d'un nuovo dilemma. E questo consiste in ciò che da una parte pos- sediamo un'opera originale di Aurelio Vittore, e come abbiamo dimostrato pili sopra , un'opera in finita , e questa è VHistoria de Caesarìbus : dall" altra rileviamo àdXVEpitome^ che quella Historia de Caesarìbus non è l'opera originale, di cui si servì il compilatore àtVCEpitome. Se anche., al primo aspetto, questa contraddizione sembra abbastanza forte per farci disperare che riusciremo a deci- dere la questione nostra od almeno ci fa ritornare all'antica idea nostra, pure piìi matura e pacata riflessione ci deve mostrare che havvi un modo per venire ad una conclusione, il quale, sebbene non possa valersi di positive prove e testi- monianze, è pur tanto naturale e quasi da se ci si presenta, così che siamo per meravigliarci, come non prima sia stato trovato. Devono, cioè, avere esistito due opere di Aurelio Vittore^ luna V Historia de Caesarìbus^ a noi pervenuta^ ed un'altra da cui £ tolta l'Epitome ed andò perduta.

Quella fu il povero frutto del principio degli studii storici dall'autore intrapresi in una lontana provincia, e in cui non potè disporre di mezzi scientifici : questa invece il risultato delle veglie di lunghi anni, di studii ripresi nelle circostanze più favorevoli, nel centro della vita politica dell'impero ro- mano, provveduto eziandio di tutti i sussidii letterarii, in Roma stessa in somma, ed in un tempo in cui gli affari del suo ufficio, che lo obbligarono di rimanersi fermo in Roma, ad Aurelio Vittore concessero il necessario ozio per studii e lavori scientifici.

Anche la natura dei due scritti parla in favore della no- stra ipotesi.

Una serie d'inesattezze, che rinveniamo ne\V Historia de Caesarìbus, e che possiamo rilevare mediante il confronto delle altre fonti, appaiono corrette nell'Epitome^ il che è a

515 - dire nella seconda edizione migliorata dQÌVMìsioria. Siano ad esempio: Epit. Caes. II, io, in cui si danno a Tiberio giustamente 78 anni (e 4 mesi), come risulta da Svetonio, Tib.^ j'h, p. 117, 3, Tacito, Ann. VI, 56, ed Eutropio, VII, II, mentre Caes. Ili Aurelio Vittore erroneamente a questo imperatore 79 anni {cum... octagesìmum iwo minus annòs egisset)\ Epitome Vili, ove corregge riguardo agli anni di Vitellio Terrore di Caes. Vili, 6, aìinos natus septuaginta quinque amplius, dacché ivi leggiamo il numero giusto : Vixit annos qiiiìiquaginta septem. Di Tito leggiamo Caes. X, 5 : vejieno interiit, mentre VEpitome^ d'accordo con le altre fonti ci offre :/ei^r/ interiit. Sta scritto, Caes. X, 5; biennio post ac menses fere novem, ndV Epitome X, i , in- vece, probabilmente con maggiore verità ed in conformità con Svetonio ed altri : imperavi t annos diios et menses duos dicsque viginti. L'Opitz interpreta tutti questi luoghi per lo più così . che le differenze deriverebbero dalle varianti dell'originale comune.

Ammettendo la nostra ipotesi si spiega poi molto sempli- cemente, come tutte le concordanze strane si trovino nei primi undici capitoli.

È affatto erroneo quello che TOpitz (i), in ciò d'accordo con M'àhly, sostiene, cioè in questo scritto consensum inde vita Domitiani omnino non comparere., si unum locum excipias {Caes. XL, 2 ed Epit. XLI, 2), intorno al qual passo rOpitz, a vero dire, soggiunge: demonstrabo ali ter iudicandum esse. Ciò dimostrano per esempio : De Caesa- RiBus XIII, 8: Acquus, clemens, patientissimus atque in amicos perfdelis: quippe qui Surae familiari opus sacra- verit., quae Suranae sunt; ed Epit. XIII, 6: Liberalis in

(i) Confr. p. i^

- 516 - amicos et ianquam vitae condì tiene par, societatibus per/mi. Rie ob honorem Stirae, ciiius studio imperium arripuerat, lavacra condidit. Caes. XIV, 2 . Ibi Graecorum more seu Pompila Numae^ caerìmonias, leges^ g-vmnasia, doctoresque curare occoepit, adeo quidem ut etiam ludum ìngenuarum artium, quod Athenaeum vocant ^ consti tueret-, ed Epit. XIV, 2: Hic Graects litteris impensius erudi tus^ a plerisque Graecidus appellatus est Atheniensium studia moresque hausit, politus non sermone tantum, sed et ceteris disci- plinis, ecc. Caes. XVI, 2 ; Jgitur Aurelius, socero apud Lorios... mortuo, ed Epit. XV, 7: Igi tur apud Lorios.... consumptus est (scil. Antoninus Pius socer). Caes. XVII, 4.: Immiti prorsus feroquc ingenio, adeo quidem ut gladia- tores specie depugnandt crebro trucidaret^ cum ipse ferrum, obiectum veroni bus plu77ibeis, uteretur, ed Epit. XVII, 3: Saevior omnibus libidine atque avaritia , crudelitate in tantum depravai us, ul gladiatoris armis saepissime in amphitheatro dìmicarit. Ibid. 6: Ad extremum ab im- misso validissimo palaestrita compressis faucibus exspira- y//; e Caes. XVII, 8, 9: in palaestrajfi perrexit. Ibipermini- strum unguendi faucibus quasi arte cxercitii bracchiorum nodo validius pressi s exspi rapii.

È adunque vero che una così evidente concordanza fra i due scritti, che in alcuni luoghi qua e è letterale, non si trova più dopo il Capii. XI. Nulla di più naturale. Au- relio Vittore, e lo ha dimostrato anche TOpitz passo per passo, doveva per quei tempi, che sono descritti oltreché da Tacito anche da Svetonio, valersi di quest'ultimo scrittore. E lo aveva fatto già prima che s' accingesse al secondo e più esteso lavoro intorno all'istoria degl'imperatori. Fonti affatto nuove e più autorevoli per quel periodo il nostro autore non potè adoperare anche quando s'era trasfe- rito a Roma, semplicemente perchè non ne esìstevano, per

517 cui è evidente che di nuovo accolse nel secondo suo lavoro storico; e testualmente, alcune cose nel principio del novello libro, mentre le altre parti del suo scritto richiedevano un più profondo lavoro di variazione.

Il luogo citato da Opitz a p. 24 (i), cìohOaes. VII, 2 (2), non distrugge la nostra idea riguardo air /Ustoria de Oaesa- ribus. Posto il caso che sia giusta la lezione praecognitis di questo luogo, essendo tal passo così isolato, molto più facile sarà l'ammettere che qui siavi una lacuna nel testo, che non tirare una conseguenza così grave, com' è quella di inferirne, avere il libro carattere di epitome.

Per conclusione ci sia lecito di avvertire, come la latinità àtWEpitome è molto più scorrevole, che quella ddVJIistoria^ osservazione che verrebbe facilmente confermata da ricerche speciali. Persino si riconosce nell'Epitome una lingua più squisita formata posteriormente in Roma, in età più avan- zata dell'autore e nella conversazione con la gente colta, mentre VHistoria ci oflre l'immagine non troppo lieta della latinità de'Provinc'ali.

Finalmente non si può abbastanza insistere su un punto, ed è questo, che sarebbe veramente strano, anzi inesplicabile, come i due abbreviatori di una sola e medesima opera solo in undici capitoli per caso talvolta avrebber oattinta la medesima parola alla loro fonte comune, ma più tardi per un caso uguale non avrebbe mai più avuto luogo questa concordanza, anche quando si può provare un rapporto fra i due autori.

(i) Quae Caes. a narrantiir de Oxhoms praecognitis moribus intellegi nequeunt, nisi iam antca his de moribus actum sit. Unde apparent talia qualia leguntur Epit VH. Vita omni turpiSy riaxime adulescentia vel similia etiam apud Victnrem antecessisse.

(2) Tutto il passo suona: Qui dies fere quinque et octoginta prae- cognitis moribus potitus. postquam a Vitellio, qui "e Gallia desccnde- rat, Veronensi proelio pulsus est, moriem sibi conscivit.

- 518 - come di sopra abbiamo veduto Questa osservazione ci pare un argomento convincente per poter asserire che è impossi- bile la supposizione di una doppia Epitome e per dire che siamoquasi costretti airipotesi che abbiamo più sopra esposto.

Lipsia, aprile 1873.

Ludovico Jeep.

CENNI SULLA SINTASSI <T)ELLA LIV^GUA G7^EC^(i).

VI.

Alla sintassi della lingua greca di G. Curtius accadde, ciò che di solito incontra di udire di tutte le opere, che hanno in alcuna eccellenza, che cioè alcuni le chiamino in colpa di cose, per le quali altri invece danno loro lode. Mentre alcuni valentissimi maestri consigliavano il Curtius ad allargare i termini della sua trattazione, altri d'uguale autorità e valore vantavano come pregio principalissimo di quella scrittura la brevità e concisione somma del ma- teriale accolto nella medesima. Quelli che l'accusano di soverchia parsimonia e di qualche oscurità ritorcono in ar- gomento d'accusa contro di lui il fatto , certamente non co- mune, che Fautore stesso ha creduto opportuno di dar fuori degli schiarimenti al suo laroro ; della quale cosa noi in-

(i) Vedi fascicolo 7», pag. 3oi-3io, fascicolo 8°, pag. 341-365, fa- scicolo X*, pag., 480-497.

519 - vece, per conto nostro, ce gli professiamo debitori, come di un gran servizio reso airinsegnamento, agli studiosi ed alla scienza. Ma, comunque sia di ciò, è probabile assai, che il vero, come suole, non stia tutto da una parte, massime ri- spetto ad un lavoro, la cui perfezione non può non essere graduale, come quello, che strettamente si collega alle fortune progressive deirindagine linguistica. D'altronde lo stesso egregio autore confessa d'essere andato molto a rilento nel- l'accogliere la materia sintattica nella sua grammatica {Cotnm. p. 160 MuUer). bisogna perder di vista il punto di par- tenza deirindagine scientifica del Curtius, i risultamenti cioè delia linguistica, e delle ricerche comparative, non potuti ancora collegare a qualche unità di dottrina, per ciò che ha tratto colla sintassi. Il terreno, sul quale dovea sorgere il nuovo edificio, paiea solido e fermo; poiché da quanto s'era operato sul campo della morfologia, potea una mente pre- veggente e di larghe vedute trarre buono auspicio anche per la sintassi. E il quarto volume della grammatica tedesca di Giac. Grimm potea parere molto istruttivo in questo rispetto. Ma ad ogni modo bisognerà pur confessare che all'autore di una sintassi greca sulla base dei risultamenti della linguistica, grande riserbo era imposto dal fatto stesso, che una grande incognita gli stava dinanzi da risolvere. Chi avesse voluto, riconducendo i particolari a generali principi, dar forma più attrattiva al lavoro spaziando per vacue generalità, avrebbe forse potuto dar nel genio a qualcuno, ma non avrebbe posto il seme fecondo di un'opera durevole. Del resto il Curtius ebbe anche sempre dinanzi il detto di Quintiliano: tnter virtutes grammatici habebitur aliqua nescire. Di che fa te- stimonianza solenne quel suo procedere cauto e circospetto, per non varcare i termini segnati airellenismo, che è la meta costante delle sue ricerche.

li disegno della sintassi del Curtius è semplice e chiaro.

520 Tutta la materia deirindagine è raccolta intorno a due punti cardinali i casi ed / modi. Ecco la divisione naturale dell'opera dottrina dei^ casi , dottrina dei modi. Delle altre parti, quelle che hanno una funzione sintattica, come le preposi'{i<mi e le congiuniioni^ l'autore fa come due appen- dici ; una delle quali si collega alla dottrina dei casi (le pre- posizioni), Taltra (le congiunzioni) seguita appresso alla dot- trina de'modi. Legge invariabile e severa della tratta- zione : l'uso normale della lingua.

Il concetto, sul quale il Curtius fonda la dottrina dei casi, è quello che la storia della lingua sembra additarne, e che puossi riassumere in questa sentenza : da un numero ab-r bastanza esteso e accertato di relazioni e collegamenti pò- tersi inferire, che nelle fiiniioni dei casi la lingua distingue un uso prossimo, e un altro più remoto; cosi che l'ultimo passo su questa via sia Fuso avverbiale. Abbandonata la teorica del localismo^ il Curtius fìssa come punto di par- tenza nella sua indagine intorno all'uso dei casi la forma (confr.. Comm. pagg. i6o, 164 Muli.). La lingua greca degli otto casi del sanscrito, ha conservato il Nominativo, V Accusativo, il Genitivo, il Dativo. Il caso locativo e i due strumentali in e -bhi del sanscrito (strumentale I singolare e li singolare e plurale dello Schleicher, Comp, §§ 149, i5o Pezzi) andarono perduti nel greco, che ne con- servò soltanto qualche traccia. Corrispondenti alla prima {'0) sarebbero alcune forme greche avverbiali in n «^ a> come TTavTìi, Tctxa, aua, iva; e al secondo {-bht) risponde- rebbe il suffisso omerico (pi=bhi, che non ha però sempre sìgnìficsLXo istrumentale {confr. Y\(piy pln^piy Od. q), 3i5. OKaìi} ^TXo? eXuJV, éxépnqpi XàSexo Tréipov, //. tt, 734). Talfiata esso esprime compagnia (uso sociativo) (confr. &}x ^0? cpaivo- Mévncpi, //. i, 618, 682); tal altra è locativo come in 6x€(J- q«(v), '!Xió-q)vv, aÙTÓ-qpiv, kXkjìt)-?» (confr. Schleicher, //. ce).

-S21 - Altre traccie di casi perduti veggansi presso Curtius {Comm. p. 164 segg. Muli.). Il vocativo non è un caso, anzi nemmeno una parola, nello stretto senso-, poiché esso non ha fun- zione grammaticale, ma è una interiezione (confr. Schlei- cher, Comp, § i34 Pez.). Nelle lingue Ariane, esso o non ha desinenza, o assume quella del nominativo. Confr. màtar (Sanscr.), infÌTep (Grec), màler (lat.) (Bopp. Gramm. Comp. § 204, Voi. I). Il concetto fondamentale, rispetto all'uso dei casi, messo innanzi dal Curtius, sembra oggimai uni- versalmente accettato. Gli scrittori di Sintassi, tanto tedeschi, che nostrali, come il Koch (Griech. Schulgr. §§ 82 segg.) {i) e Vlnama {Sintassi, §§ 347 segg.) (2), si son messi franca- mente sulla via aperta dal Curtius, salvo qualche disvario nella ripartizione della materia, e nella terminologia-, disvario però, che in qualche rispetto è sostanziale.

Tenendo ragione di una grammatica greca, destinata al- l'uso delle scuole, potrebbe parere un fuor d'opera lo inda- gare le ragioni interiori e quasi speculative delle dottrine sulle quali si fonda si bada più all'effetto, che ne deriva in ordine all'insegnamento ed alla pratica. Questo potrebbe dirsi delle tre Sintassi greche, che ora ci stanno dinnanzi. Gli è che a un cosiffatto empirismo mal sapremmo accon- ciarci ; e tanto meno in quanto avendo queste tre scritture molti punti di contatto fra ioro^. si presentano più oppor- tune ai riscontri in ordine a ciò che le unisce o le differenzia ne' riguardi più generali della scienza, salvo che nel Curtius noi salutiamo l'autore e maestro principalissimo del nuovo indirizzo dato anche alla trattazione della Sintassi.

Allorquando, nello esporre la dottrina dei casi, i gram-

(i) Lipsin, 1871, //• Edi:(. La edizione di questa Grammatica è dell'anno 1868.

[i) Grammatica Greca, Parte seconda. Milano, Valentiner, 1870.

Vjvista di Jitologia ecc., I. 35

- 522 malici, che noi chiameremo più recemi, sentenziano, che si debba prender le mosse dalla forma, come da unico punto di partenza sicuro , essi affermano cosa, della quale nessuno potrà andare più di noi coìivinto; poiché della Sintassi eb- bimo sempre questo concetto, che ella sia una cotale somma di osservazioni, raccolte all'uso della lingua, con istretto ri- ferimento anche al lato formale della parola. Allo stato pre- sente però dell'indagine scientifica, la questione, rispetto ai casi, non pare risolta, che da un lato solo, compiutamente, che è il negativo. Non v'essere cioè ragione sufficiente in ordine alla scienza per lasciar correre le dottrine dei loca- listi. Infatti dei cinque casi rimasti al greco, il nominativo^ il vocativo, Vaccusativo costituiscono uìi gruppo. Ma il no- minativo è designato dalla sua stessa originaria uscita prono- minale, — sa, ó ad essere il caso del soggetto (Schleicher, Comp. § i37 Pez.j, 11 vocativo è già stato eliminato dal ruolo dei casi (vedi sopra), e Vaccusativo mal s'acconcia all'originario ufficio di terminus ad quem, nel senso de' lo- calisti, perchè l'indagine linguistica ci persuaderebbe piut- tosto a rappresentarcelo come vicario del nominativo, in un periodo assai remoto delia vita delle lingue Ariane; quanto all'altro gruppo di casi, cioè al genitivo e dativo, sui quali s'è venuto concentrando via via un maggior numero ^i fun- zioni (confr. Schleicher, Comp., Declinaz. dei nomi, passim), forza è pur confessare, che per la grammatica speciale della lingua greca mal si potrebbe accettare il locativo, come si- gnificazione fondamentale di essi. Ma quale significato e uso dei casi sia da ammettere, come originario, dal quale gli usi posteriori fossero come derivati, l'indagatore prudente e circospetto non può affermare per ancora. E così fu ab- bandonato il mal vezzo di voler forzare e significato e uso dei casi, per ricondurli a certe formule significative, fermate a priori. Proscritto adunque l'arbitrio, abbandonato il con-

-^523

cetto del localismo, ne si potendo ancora, allo stato presente delle cose, fermare nessun contenuto generale, inerente a principio al concetto de' casi, la soia via di uscita,, clic pa- reva restare, era questa: raggruppare intorno alle forme dei casi i vari ordini e specie di /milioni e relaiioni, che l'osserva-^ione delVuso concreto e accertato della lingua fosse venuta additando^ colla scorta di corretto criterio analo- gico, e muovendo sempre dall'uso normale e piii diffuso. Non ci sfugge però, che per tale maniera una grossa e se- ria difScoltà s'affacciava alla grammatica, quella cioè di dover procedere sempre con somma cautela. Non è però a cre- dere, che la linguistica ci abbia destituiti affatto d'ogni cri- terio di ordinamento rispetto alle funzioni dei casi. Noi lo abbiamo già accennato quassopra, che la lingua cioè distingue fra un uso più normale e un uso più raro e più remoto. Nella pratica della grammatica speciale f[uesta tendenza delle lingue si presta ad una trattazione abbastanza chiara e ordinata, ne molto disforme dalle buone tradizioni. In questo concetto generale, fissato dal Curtius, concordano il Koch e Tlnama, salvo che quest''ultimo raggruppa, p. es., molto opportuna- mente le varie funzioni dell'accusativo nelle due rubriche A) di accusativo dipendente (§§ 264, segg.), che abbraccia gli accusativi interno, esterno, dell'oggetto doppio, del predi- cato del Curtius, e B) di accusativo indipendente, che cor- risponde sXV accusativo più. libero del Curtius. E poiché siamo a parlare dell'accusativo, diremo di quell'appellativo interno, che il Curtius applica a questi accusativi che hanno affinità di radice, o affinità di significato col verbo, al quale sono uniti come oggetto {Gr. Gr. § 400, a, b, e). Anche al nostro Inama è parso buono questo concetto, e l'ha in- trodotto nella sua Sintassi (^ 356). E in sostanza quello che gli antichi chiamavano axniiia èiui-ioXoTiKÓv (figura ety- mologica). 11 Koch lo addimanda invece accusativo del con-

524 tenuto {des Inhalts , § 83, iv) , suiresempio del Kriiger {Gr. Gr. § 46, 5). È una tendenza assai notevole della lin^ gua greca, e che meritava certo di essere segnalata nella grammatica particolare. Il Kuhner Tha pur esso notato 159, 2), ma a modo suo, ascrivendolo agli accusativi di eletto. Il Krùger (/. e.) tratta questa particolarità della lingua con molta cura e diifusione e dovizia grande di esempi. A vero dire noi non saremmo inclinati ad approvare Tuno Taltro appellativo, parendoci che in parte dicano troppo, in parte siano difficili ad essere compresi. La no- zione di quest'uso fu messa innanzi la prima volta, cre- diamo, da Federico Haase nelle Annotazioni alle legioni del Reisig (1839, Lipsia. Not. 609, 559). Il Curtius {Comm. pag. 168, Miiller) vorrebbe .^stenderne il concetto anche ad usi liberi ed affatto avverbiali , come nella nota locuzione omerica dKfiv eaav ; e vorrebbe trovare un riscontro a questo uso nel supino dei latini in -tnm^ come in nuticiaium ire, e poi nei modi injìiias ire, e persino nel passo di Plauto: alias res est impejise improbus {Epid. iv, i, 39). E la non sarebbe codesta forse un'illazione un po' azzardata per amor di sistema ? Quanto airdKfjv eaav, l'osservazione del Curtius si fonda sulla natura' del verbo sostantivo (etvai), il quale ammetterebbe il concetto d'un oggetto interno. Però, noi domanderemo, e come si spiega ràKfjv icrav (7/., ò, 429), dove quel preteso accusativo interno è unito ad un verbo di moto ? E l'altra locuzione omerica OKriv èTévovTo (5\\ymf\ {IL, 8, 95) ci farebbe considerare ÓKriv come un avverbio. Quanto poi alla denominazione accusativo del contenuto, usato dal Kriiger e dal Koch, n^ pare che la sia troppo vaga e in- determinata. Ecco con quali parole la definisce il Kriiger 46, 5) : « Egli accade in greco, con più di frequenza che « in altre lingue, di trovare unito al verbo un . accusati\ o « di radice o di significato affine, talfiata come oggetto tran-

- 525 k sitivo, tal'altra come segno dell'oggetto, al quale l'azione «si estende, come <7 suo contenuto ». Esempi di ciò sono: (puXaKÙ? qpuXÓTTeiv - bouXeiac òouXeueiv - eàvarov ànoevricrKeiv - vó(Jou<s KÓjaveiv - tòv lepòv nóKeiuiov èorpaieucrav - étTravra bouXeOeiv - jj juetaXa buvaaSai - 9pov€Ìv èXacWova - oùbèv (ppovrijuj - e molti altri. Da questi esempi, che abbiamo ar- recato togliendoli in gran parte al Krliger, massime quelli che abbiamo posto dopo le due linee verticali, e in molti altri è facile vedere come per questa vìa si pervenga all'uso puramente avverbiale. Ma ad ogni modo non possiamo in- tendere perchè debbasi chiamare del contemdo un cosiffatto accusativo, in opposizione ad altri usi, nei quali l'oggetto sarà forse un po' più remoto , ma che ciò nullameno sarà sempre il contenuto, ossia il termine dell'azione. P. es. tutttuj TÒV boOXov - qpiXov Ùjqp€Xfì(jai - ecc. La denominazione poi di accusativo interno indurrebbe quasi a credere che l'azione re- stc\sse quasi nel soggetto, ciò che non e, perchè nell'uso in <pu- XaKà(; qpuXàTTcìv, è bensì vero che l'oggetto sembra come legato al verbo con un vìncolo interiore -, ma ad ogni modo, gram- maticalmente, il passaggio dell'azione è chiaramente indi- cato dalla forma del costrutto. A noi sembra talfiata che questo accusativo potrebbe senz'altro addimandarsi di rela- zione prossima, se l'oggetto è affine di radice, remota se af- fine dì significato col verbo. Cosr p. es. noi vediamo che il Kriiger allega il vócTou? Kà)av€iv fra gli accusativi del con- tenuto; e rinama 359) fra gli accusativi di rela-^ione cita KÓiiveiv toù? nóba?. Parrebbe quindi che un modo d'in- tendersi ci fosse. Ma d'altra parte , quando consideriamo locuzioni simili alle seguenti : ^Xkqi; oÙTacTai - òpKia rciiaveiv - Ypacpriv biduKeiv - *OXujiuia vikùv - vóOtov òbupófievoi , che sono allegati dal Curtiiis alla rubrica àcVCoggetto interno 400)*, crediamo al postutto che tutta questa categoria fosse da ri- maneggiarQ, e fosse da vedere piuttosto se per avventura

526 non ne sia stata allargata di troppo la sfera , in parte per amor di sistema, in parte perchè da qualche uso più raro siasi voluto inferire ad analogie più larghe, alle quali avrebbe obbedito il genio della lingua in questo rispetto. A noi pare che locuzioni come son le seguenti: iróXeiaov rcoXeiieiv - 'é\- K0<; oÙTctaai - '0Xu|ui7na viKav - òpKia TcijLiveiv, non possano es- sere ridotte ad un concetto grammaticale unico; salvo che nel giro di una categoria, non s'introducano delle sub-ca- tegorie, come ha fatto il Curtius; ciò che ne pare artiticioso troppo. E si potrebbe ragionare anche così. EJfetio, e quindi oggetto necessario e diretto di uoXeiiieTv non può essere che TTÓXeiaov. Ma effetto oggetto necessario di viKàv è r'OXujbiTtia, di Tà|iveiv TopKia. Così del Kàjaveiv effetto ne- cessario è vóaou?, ma non toìjc, -nàhac,, potendo altri KÓfiveiv xfiv KecpaXiiv. Ve quindi un effetto diretto ed uno indiretto dell'azione di certi verbi. Abbiamo messe innanzi queste con- siderazioni al solo scopo di mostrare agli avversari dei nuovi metodi che neanche fra i novatori s'è detta ancora V ultima parola rispetto a molte questioni. Prima di chiudere questi cenni sulla dottrina dei casi, ci rechiamo a debito di ri- chiamare l'attenzione degli studiosi sul cap. xv della Sintassi dell'egregio prof. Inama , che tratta delia ^roposii^ìone atn- pliata,Q cht ci sembra notevole per c/izare:?^^, novità e cor- retto criterio di trattazione. Importanti sono pure le os- servazioni che seguono al § 847, che tratta del genere, nu- mero e caso dei nomi. Alla dottrina dell'accusativo nella Sintassi del signor Inama segue un capitolo (§§ 366-371), dove si tratta degli usi del genitivo e del dativo per in- dicare rapporti di luogo e di tempo. Il materiale scienti- fico di questi paragrafi è eccellente; approviamo anche il concetto di raggruppare questi usi avverbiali. Ne pare però che l'egregio autore vi avrebbe potuto unire anche Vaccusa- tivOf che ha pur esso usi affini. Ancora, noi desidereremmo

- 527 che questo capitolo fosse dislocato e posto come appendice in calce alia dottrina dei casi. Scientificamente forse questa repartizione non sarebbe esente da censure, perchè di cia- scun caso è bene che si veda il trapasso dall'uso proprio all'uso più remoto e più libero e avverbiale. Ma noi va- gheggiamo una repartizione delia dottrina dei casi, che, pur , rispettando i postulati della scienza, serva alla chiarezza e ai bisogni dello insegnamento. Il signor Inama, se non er- riamo, accenna a cosiffatto indirizzo, e noi l'approviamo. La Sintassi dell'Inama dispone la dottrina dei tre casi ob- bliqui nell'ordine che segue qui appresso : a) dell'accusativo, b) del dativo, e) del genitivo. La ragione scientifica di que- sta novazione non può essere, crediamo, altra di questa, di raccostare cioè il dativo all'accusativo, parendo che il punto normale di partenza per la trattazione di questi due casi sia la loro unione co' verbi ; mentre pel genitivo è l'u- nione co^ sostantivi. Questa osservazione è forse sfuggita al Curtius nel repartire la materia dei casi, perchè la distri- buzione fatta dairinama scende diritta dal principio pur ac- cennato chiaramente dal Curtius nel Commento (pag. 168 Mliller). Ma veniamo alla dottrina dei Tempi e dei Modi. Questa parte della sintassi greca , come quella che pa- reva più necessitosa di aiuto e di riforma , attirò sopra di in principalità l'attenzione e la cura degli studiosi. E bisogna pur confessare che la messe raccolta su questo campo fu ricca e abbondante. L'indagine storico-compara- tiva dischiuse daddovero un nuovo orizzonte, sotto il quale la dottrina della proposizione composta, rischiarata di nuova luce, fu collocata sopra l'incrollabile fondamento della forma e dell'uso accertato. Anche in questo riguardo il nome di G. Curtius si collega a tutto che v'ha di progressivo e di nuovo e veramente razionale-, quantunque molto utili ed

628- acuie osservazioni sull'uso e significato, dei tempi massime, avesse fattt già il Krliger (i). 11 merito principalissimo dei Curtius sta, secondo noi, in ciò: nelPaver saputo cioè col -^ legare la dottrina della pi^pposi^ione composta alla teorica dei modi, sciogliendo così il problema vero di ogni sintassi, che è lo studio delle funzioni della parola nel discorso. Il quesito fu posto dal Curtius in modo chiaro, scientificamente esatto e conciso, da non lasciare più dubbio sul metodo non foss'altro della trattazione. La propQsi\ione adunque non è un contenuto logico, al quale la grammatica non possa ac- costarsi, se non a traverso d'una qualche formola psicolo- gica, più o meno astratta. Il coìitenuto e la forma si chia- rirono perfettamente concordi nel procedimento. La scienza adunque confermò il detto antico della scuola ; Quod enim in singulis dictionibus paratur sensibile, id est intelligi- bile , quodammodo elementum est orationis perfectae » {Prisc. xvii, pag. io35 P.). grande momento per la co- noscenza dell'uso e della significazione dei Tempi e dei Modi fu lo studio comparativo intorno alla natura: a) del- Vaumento, che in seguito all'indagine scientifica si chiarì come il solo mezzo che la lingua possieda per indicare il passato (confr. Schleich. Comp. §§ 169, i83 Pez,)*, b) della rad- doppia\ione ^ come carattere dell'anione compiuta (Id. i^., § 182); e) intorno al disvario fra la qualità dell'azione, espressa da tempi derivati dalle Radici pure verbali, ovvero dai Temi del presente-, d) intorno ell'origine e natura delle congiunzioni ; e) intorno alla forma vera e storicamente ac- certata del collegamento delle proposizioni; cioè della pa- ratassi e della ipotassi, nelle tre forme della coordina{ione, correla:{ione e subordinamento.

Queste ricerche, e i risultamenti che a quelle seguirono,

(i) Vedi il § 53 della Gramm. Greca, che ha per titolo Zeitformen.

- 539 infusero tutto il rigoglio di una vita nuova in questa parte della grammatica, sfatando la vecchia dottrina delia, cojisec ut io modorurfiy alla quale ancora il Krùger fa omaggio, non fosse altro perchè /JiM succinta e pili spedita {Grainm. Gr. § 54, 5 Not.). Alcune innovazioni degne di nota ha recato a questa parte della Sintassi Ad. Fed. Aken colla scrittura, che ha per titolo : Grundiìige der Lehre vom Tentpus und Modus im Griechischen, historisch und verghichend {\)\ delle quali ter- remo ragione qui appresso. Alle vedute deirAken, massime per ciò che spetta la repartizione dei tempi e dei modi, si accosta Ernesto Koch nella sua opera « Griechische Schid- grammatik auf Grund der Ergebnisse der vergleicheriden Sprachforschung » (Lipsia, 187 1, 2* ediz.). Il prof. Inama consultò e studiò queste opere, ma neiraccettarne i risulta- menti stimò opportuno di procedere assai circospetto, e nella trattazione di questa spinosissima materia seppe mantenersi affatto indipendente da spirito sistematico.

Nel fissare la repartizione dei tempii il Curtius ha voluto determinare con vocaboli particolari e significativi il duplice punto di partenza, dal quale, secondo lui, e' si vuol pren- dere le mosse nello studio delle relazioni temporali del verbo. Nell'azione adunque vuoisi considerare a) il grado; b) la qualità {Grattini, grec. §§ 484 segg.). Con quello egli designa // putito dal quale si considera l'anione [Comtti. pag. 177, Muli.). L'azione 0 è contemporanea a quel punto, dal quale la considera chi parla, o è anteriore ad esso, come un grado già passato; o è posteriore ad esso, come un grado, che si vuole raggiungere. La qualità del tetnpo poi indica la differenza intima nel giro dell'anione istessa, prescindendo dalla relazione con qualche cosa, che sia estraneo alla me- desima. La tabella seguente chiarirà meglio il concetto del Curtius.

(i) Rostock, 1861.

-530

qualità'

C3rJR jf^lD CD

PRESENTE

PASSATO j FUTURO

Durativa

Indie. Pres. Gong. Ott. Imper,

Indie. Imperfetto Inf, Part.

Incipiente

Indie. Aoristo

Gong. Imp. Inf. Ott,

deìl'Àoristo

Futuro

Compiuta

Indie. Perfetto Gong. Ott. Imper. Inf. Part. del Per/etto

Piuccheperfetto

Futuro esatto

Il Koch (§§ 95, 96) s'accosta alle vedute del Curtius ri- spetto alla repartizione dei tetnpi del verbo*, però egli tra- scura il concetto del grado del tempo., come punto di par- tenza, dal quale si considera l'azione, e la triplice qualità del tempo egli fonda sul criterio in parte formale, in parte logico, quale ne è pòrto dalla linguistica in ordine alla dif- ferenza che corre fra i tempi che derivano dal tema del pre- sente, e quelli che derivano dal tema verbale.

Ecco lo schema della repartizione, secondo il Koch:

QUALITÀ' \DELL q4Z107<ÌE

2?

cs

*5

s

cs

eo

SS

1

il

Dal

Tema Verbale

(Radice)

_

Aoristo (ànéSavov)

Futuro (àiToGavoOjiai)

Dal Tema del Presente

Presente ^aiio0vfiaKui)

Imperfetto (à7té6vr}aKOv)

Dal Tema del Perfetto

Perfetto (réevTjKo)

Piuccheperfetto

(fcreBvriKeiv)

Futuro esalto (xeevnEui)

-531 - Sette tempi adunque possiede la lingua per esprimere la triplice qualità deirazione-, due tempi dd presente, due dei futuro, tre del passato; ma questi tre sono propri soitanco ddVtndicatìPOy essendo Vaumento il solo e vero carattere del passato. La dottrina dei tre temi^ fondata dalFAken, e ac- cettata dal Koch, si basa sul concetto seguente: i) I tempi che derivano dal tema verbale puro (radice) esprimono l'a- zione assolutamente ; sovente però essi accennano al comin- c/izmen/o dell'azione (azione incipiente) (confr. Kriig. Gramm. Greca, § 53, 6 dell' aoristó)\ 2) I tempi derivati dal tema del presente designano un'azione, che addiviene, o che si sta svolgendo, e che per ciò appunto perdura (azione du- rativa) ; 3) I tempi derivati dal tema del perfetto accennano ad un'azione, che è nello stato di suo compimenio (azione compiuta) (V. Koch, § gS). Ecco qualche esempio;

Anione incipiente Apone durativa Apone compiuta,

o passata indefinita.

(porsi airope- (^^ ^^*^ ^^"°^° ( "" t^^^'« ^'?"

uoif^oaira, por mano itoi6ivM^-'/°'?'^o'=- ntiroiriKévui to,hoassolto

] a.Q r ] capato intor- ' ) il mio córn-

' ^* ' ' no a q. e. ' pito, lavoro.

(darsi alla fu- iei fugge, va er- /

9UTÉ^v _- ^f,,prj\r(. «peÙTeiv rando fuggi- ireqpcuTévai sono al sicuro. ( &^' Sfuggire. I ^j^Q I

, i . fxvf^\mi studio di . , ^^'^''^ imparato

Yvùvai riconoscere jj^^jy conoscere ^*v<JUKévai a conoscere, ( ( ' (so.

Con questi ed altri esempi il Koch si studia di chiarire il suo concetto intorno alla triplice qualità dell'azione, fon- dato sulla differenza del tema, onde il tempo è derivato. Crediamo che per ridurre a rigore di principio scienziale cosiffatta teoria saria mestieri forzare in troppi luoghi il lessico, e un po' anche il pensiero degli scrittori. E in ciò siamo perfettamente dell'avviso del professore Inama [In- trod. pag. iv). Che il sentimento della lingua fosse inteso a designare con quel fenomeno dei temi doppi, nei verbi, nei

- 532 - quali hanno luogo, qualche cosa di più significativo che non sia per avventura il criterio formale ed esterno; in tesi ge- nerale potrà forse parer probabile (confr. Curtius, Comm. pag. 87 Milli.). Ma la è codesta una grossa questione, di grande momento anche per la morfologia. Però il fondare su questo fenomeno una dottrina cosi importante, come è quella dell'uso dei tempi, può parer cosa un po' arrischiata. Il valore infatti, che allo stato presente dell'indagine si può attribuire alle forme derivate dal tema verbale, non è di re- gola un valore significativo, quale sarebbe quello di azione incipiente^ salvo in qualche caso, come ad es. in qpuTeiv, ma piuttosto un valore etimologico. Ciò apparisce chiaro massime da quelle forme, che il Grimm chiamò forti^ che nascono come dire per effetto di una forza interiore, la quale produce un cambiamento nella radice, senza aggiungimenti esterni. Che delPaoristo sia molto diifuso il significato di azione incipiente, contrariamente all'azione durativa del presente e dell'imperfetto, è cosa accertata oggimai. Ma non di rado Taoristo accenna anche ad azione passata indefinita. Ad ogni modo questo divario nella qualità dell'azione è attestato dal- l'uso, e non da criteri morfologici ; esso si fonda sopfa un vago sentimento della lingua.

D'altra parte non in tutti i verbi il tema verbale si diffe- renzia dal tema del presente; cosi ad es. tutti i vei^bi puri, salvo alcuni pochi in €iy (-eFuj), e molti degli impuri^ come ópX-u), Xéx-iw non presentano il disvario, voluto dal Koch, per fondare su di esso la sua dottrina dei tre temi. Quei pochi verbi poi della categoria dei puri, come paOiXeuu), fiTéo)nai, ìaxuuj, ttXout^u», noXen^u), Oapfféiu, épàiu (?pa)nai), oìk€uj, i cui aoristi èpaor!X€u(5a, f^fn<7aMnv, tcTxoaa, énXoiiTnoa, èiToXéjiTìOa, èeàpOTicra, Vjpdcyetiv, dJKricfa, ai quali è da aggiungere ^pHa da dpxuj, quantunque non derivati da un tema verbale diverso dal tema del presente, pure nell'uso dinotano chiaramente

-533 - l'anione incipiente, il diventare, l'entrare in un certo stato o condizione; accennano insomma ad un moto per sé, con- trariamente al presente, che dinota lo siato, l'essere o tro- varsi in uno siato o condizione {i) \ questi, diciamo, testi- moniano tutti contro la dottrina dei tre temi verbali. La sola classe degli incoativi^ la vi* del Curtius, potrebbe con- fortare quella teorica : ma di questi è troppo ristretto il nu- mero, e d'altronde di nessun altro suffisso, crediamo, si po- trla fissare il valore significativo con pari certezza. Arroge, che nei verbi di questa cUsse, il concetto d'azione incipiente si collega piuttosto alla forma del presente che a quella del- Taoristo.

Il prof. Inama, nello svolgere la dottrina dell'uso dei tempi (§§ 421 segg.), s'è discostato dal modo di trattazione seguito dal Curtius e dal Koch. Perciò egli non ha creduto oppor- tuno di fermare quasi a priori le categori»;, fissate da quelli; s'attenne strettamente all'uso della lingua, la quale nella de- terminazione del tempo non pare che fosse intesa come a statuire concetti assoluti di azione, salvo che per Wwristo forse. In ciò il prof. Inama sembra accostarsi alle vedute del Kriiger {Gramm. Gr. § 53, I, i). « Ogni determinazione « temporale è relativa, così il Kriiger (/. e), cioè essa ha « bisogno di riferirsi ad un'altra azione, in ordine alla quale « essa ci apparisce tale, quale la sua forma ce l'appresenta. « Non V è perciò nessun tempo assoluto. Molto meno po- « triasi concepire come tale il presente^ il quale si contrap- « pone a due termini, al passato e al futuro, de' quali esso « è il termine divisorio. » L'Inama quindi repartisce le forme dei tempi in tre gruppi: A) tempi dei presente {presente e per/etto; §§ 422-424); B) tempi del passato {imperfetto e piuccheperfetto; §§ 425-426); C) tempi del futuro {futuro

(i) Vedi Kruger, Gramm. Gì. 53, b, i. Inama, ^ 4-27, 1.

- 534 -

semplice e futuro perfetto; l^ 430-431). In questa riparti- zione il termine relativo deirazione h o la persona che parla, rispetto alla quale l'azione è per Tappanto o presente o pas- sata o futura ciò che il Curtius chiama il grado dell'azione): ovvero un'altra anione; e in questo rispetto Fazione si con- sidera o come coìitinua, ocome compiuta, nel giro di ciascun gruppo, salvo che nel primo (gruppo del presente)^ al con- cetto deirazione che diventa o perdura ovvero che è già ac- caduta e compiuta, mentre la si enuncia si connette pur quello di azione contemporanea a chi parla.

Riassumiamo questa dottrina in uno schema.

!!

il

(A) Tempidel Presente

(B) (C) Tempi dei Passato Tempi del Fularo

1 Azione continua tj relativa a chi parla, e contemporanea

Azione compiuta e relativa al presente

Presente

Imperfetto

Futuro

semplice

Perfetto

Azione compiuta

e relativa ad altra anione

Piuccheperfetto

Futuro perfetto

Azione passata, ma indefinita

~

Aorìsto

Uaoristo, come si pare da questo schema, fa parte da se-, esso indica un^azione passata, senza altra determinazione [Sin. § 427, i). Al prof. Inama non sorride troppo il con- cetto di azione incipiente, tanto accarezzato dal Curtius-, egli vi accenna vagamente al § 427, 2. Per cui Taoristo è il tempo del passato, xar 4Hoxnv, il tempo storico, nelle narrazioni.

La dottrina dell'uso dei modi ebbe sinora, nella gramma-

-sa- lica speciale della lingua Greca, miglior fortuna, oper lo meno riuscì a risultamenti più chiari e più accertati, che non si abbiano avuto ìe altre parti della Sintassi. L'aver fondato sovr'essa tutta la dottrina della proposizione composta, traen- dola fuori dai vieto empirismo di quella che le scuole chia- mavano consecutio modoj'um, fu un vero progresso in ordine alla scienza, del quale gli studiosi del Greco vanno debitori al Curtius. Al quale noi ascriviamo a merito principahssimo l'aver ricostituita la grande unità della proposizione compo- sta, stata bistrattata prima dal Kùhner, e scissa dappoi dal Krùger. Parimente noi gli ascriviamo a merito Taver fis- sati nettamente i termini e le forme del collegamento delle proposizioni, in ordine ai tipi tradizionali della paratassi e della ipotassi, fermandone il contenuto con brevi e chiare nozioni. Quanto a copia d'esempi lascia forse a desiderare qualche cosa^ ma in parte vi sopperì nelle edizioni posteriori, in parte gli valga di scusa un fatto, non sempre apprezzato ai suo giusto valore, che egli cioè sopra tutto e prima d'ogni altra cosa è un linguista comparatore. Ciò che poi gli ri- donda a maggior lode, essendo stato il primo che abbia sa- puto e potuto costruire il nuovo edificio della Sintassi Greca sui fondamenti dell'indagine storico-comparativa. Anzi il Curtius è il vero rappresentante della scienza comparata del linguaggio nelle sue attinenze colla grammatica classica.

Alquanto manchevole, è pur forza il dirlo, è la dottrina àtWd. proposizione semplice (^ 5o7-5i8). In questo rispetto la Sintassi del Koch segna un vero progresso. Il capitolo della proposiiione indipendente {^ 104-107), elaborato sullo schema fondato dall'Aken [Gì-iindiuge ecc. § 59), è meri- tevole al tutto di studio e di considerazione. Ivi le propo- sizioni indipendenti (semplici) sono distinte in due categorie; A) delle proposiiioni affermative; B) delle proposizioni volitive (Urtheilssatz-Begehrungssatz), nell'ordine che segue qui appresso:

536

A) Proposizioni affermative. B) Proposizioni volitive.

i) Indicativo (où). a) Imperativo {)xr\).

3] [Congiuntivo coll'fiv (où)]. 4) Congiuntivo senza &v (jurj).

5) Ottativo coil'fiv (où), 6) Ottativo senza fiv (\xr\).

7) Passato coll'dv (où). 8) Passato senza óv {\xr\).

Esempi: i) KaXiij? exiu (où). 2) qpeuTC {m). 3) Kaì note T15 e^TrncTiv [Om. II. 6, 459). 4) vOv ?a)|iiev xaì àKovjcruJiaev toO óvòpói; [Plat. Prof, 3 14 B). 5) òìq i(; tòv aÙTÒv Troraiiòv oOk àv eupairi? (P/^^ Cratfl. 402 A). 6) eiGt htIttotc Tvoin? 6? el {Sopii. Oed. 1{. 1068). 7) <t>ai5 |Lif| cTxonev, S^oioi ToT<; TuqpXoT^ av nfiev {Senof.y Mem., IV, 3, 2). 8) àXX' u)9€Xe )ièv KOpo? Z:fìv èira leTeXeuTriKe {Seno/. An. II, i, 4).

I modi poi, considerati come la espressione significativa della relazione fra rattività, come essa viene enunciata, e la realtà, sono distinti in quattro categorie 104). i) Il modo della realtà (modus realis), che è Vindicatipo. 2) Il modo delia aspettazione, che è il congiuntivo. 3) Il modo del- Tazione puramente pensata o presupposta, che è Vottativo. 4) II modo della ineffettuazionc, dell'azione preterita (der Nichtwifklichkeit, modus irrealis). A quest'uso serve W pas- sato. Il concetto di questo modo {irrealis) si fonda sul- l'osservazione di un cotale uso, molto esteso, dei passati, comune tanto al greco, quanto al latino. La è una strana particolarità di queste due lingue quella per cui azioni o credute possibili ancora^ ovvero non credute possibili og- gimai pili., per esserne trascorso il tempo o l'occasione, vengono espresse col modo della realtà, ossia coi tempi sto- rici deirindicativo (imperf., piucch., aoristo in greco, e col- l'imperf., piucch. e perfetto in latino). Si pensi alle forme: eòei, xP^v, Kaipò? f|V, TTpoafìKev, fiHiov nv, €Ìkò<; fjv, bÌKaiov fjv - oportehat, oportuit, poteram, potui, debebatn, debui, aequum erat, decebat, oportuerat, utilius fuii, ^cc. (confr.

537 Zumpt, Gratnm. Lat. § 5i8; Schultz, Gramm. Lai. §336; Madvig, Gramm. Lat. § 348 e). È difficile il poter dire, crediamo, a qual impulso obbedisse il sentimento della lin- gua nel foggiare quest'uso. Pare ad ogni modo che la realtà della effettuazione fosse il punto di partenza di esso. Uotia- tivo invece, accompagnato dall' dv, come il presente congiun- tivo del latino {yelim, passim) accenna a possibilità astratta, a desiderio vago, indistinto delPeffettuazione. Il sentimento moderno sospinge la lingua piuttosto verso l'ipotetico, il con- dizionale, il desiderativo. Del resto siccome quest'uso dei tempi storici (passati) ha poi una larga e importante parte ne' costrutti della correlazione ipotetica (Tipo del Curtius, § 537; Tipo deir/w^w^, §438, 4, 4', Tipo 4^ del Koch, § 114, 4): così ne sembra, che non vi sia sufficiente ragione per statuire un modo particolare per quest'uso dell' indica- tivo, come fa il Koch, e che sarebbe sufficiente, che si par- lasse di un uso ipotetico delV indicativo nelle proposizioni indipendenti (semplici).

Questa parte della Grammatica del Koch io5, S loC, 3) non manca di una certa novità: però qualche di- stinzione v'è troppo sottile, come ad es. quella al § io6, 2, dove Tautore si studia d'indurre una distinzione fra la lin- gua greca che adopera il modo della ineffettuazione {irre- alis) , anche quando si pensa come fuori della realtà , non già la facoltà (das Konnen), ma \''a':[ione espressa coU'infì- nito -— e la lingua latina, che, più logica, usa il modo della realtà.

I^a parte, che segue a questa, nella Grammatica del Koch, {^l j I o - 1 1 8), e che tratta dei modi nelle proposizioni di- pendenti (dottrina della proposizione composta), ci sembra distinta per chiarezza, ordine, copia di esempi, e correzione scientifica. E così, riassumendo della sintassi del Koch, ne pare di poter dire, che in quelle parti, nelle quali essa

Tiivista di filologia ecc., I. 36

- 538 cammina sulForma segnata dal Curtius, procede sicura, cor- retta e abbondevole: dove l'autore se ne discosta e segue le vedute dell' Aken, accenna a cose nuove, e le espone in- fatti con ordine sistematico; ma non è sempre chiaro, tal fiata incerto, e talora un po' arrischiato. Nell'insieme però, crediamo abbastanza giustificato il titolo del libro, che suona cosi: Grammatica Greca ad uso deVe scuole^ elaborata sulla base dei risultamenti della indagine linguistica com- parata.

Il prof. Inama, anche nella dottrina dei Modi (§§ 433- 452), procede circospetto e prudente. È osservatore rigido dell'uso della lingua; si vale di tutto, che di sicuro e accer- tato l'indagine linguistica ha potuto constatare in ordine alle funzioni sintattiche delle forme verbali , ben guardandosi dagli schemi generali, La parte della sua sintassi, che tratta della proposizione principale e secondaria (§§ 435 e segg.), cioè del collegamento delle proposizioni fra loro, è fatta bene, è svolta con chiarezza, è ricca di materiali scien- tifici e di esempi, e nel disegno non manca di una certa novità, che anche nell'uso della scuola non deve essere senza utilità pratica. Le proposizioni secondarie egli distingue: A) in secondarie di complemento i) al nome o pronome {relative) y 2) al verbo [oggettive, temporali^ locali, modali) B) in secondarie di dipenden^a^ in ordine i) alle cause {casuali), i?) all'effetto (consecutive e finali), 3) alla condi- zione [ipotetiche e concessive). L'esposizione generale, che delle varie guise di collegamento e dipendenza, tanto per rispetto alla forma, quanto per riguardo al contenuto, viene pòrta nei §§ 435-437, è chiara, concisa e ordinata.

Nel concetto della correlazione il prof. Inama si scosta in parte dalle vedute del Curtius. Così ad es. : i costrutti ipotetici dal signor Inama sono trattati come proposizioni di dipendenza (ipotassi), mentre il Curtius invece pone le

- 539 -

condizionati fra quelle proposizioni, che si col legano fra loro per correlazione (V, 534.) E noi stiamo coirinama. Nella frase ipotetica crediamo che vi sia vero subordinamento del condizionato al condizionale, giustificato e dalla forma e dal contenuto. E come si potrà dire che in un costrutto ipote- tico né Tuna T altra delle due proposizioni può venire considerata come assolutamente dominante (Curtius, Comm.^ pag. i85, Muli.)? Non alleghiamo esempi, come di cosa ovvia.

Nel periodo ipotetico § 488 [proposizioni condizio- nali del Curtius §§ 634 ^ segg.) il prof. Inama distingue fra conseguenza necessaria e conseguenza possibile. Questa distinzione è utile neirinsegnamento, e scientificamente esatta. Negli schiarimenti ed esempi, che l'egregio autore fa seguire alla esposizione dei quattro tipi fondamentali, v'è raccolto un materiale eccellente. Forse sariasi potuto disporlo in guisa, che a ciascun tipo seguissero le dichiarazioni ed esempi necessaria Qui e colà anche sariasi forse potuto di- chiarare un po' più distesamente il concetto di qualche tipo. Cosi ad es. al tipo 4 {doìV indicativo de' tempi storici) ne pare che la distinzione fra imperfetto ed aoristo che rileva pur tanto! sarcbbesi dovuto accentare un po' più, e subito nella definizione, che se ne al N" 4; perchè si vedesse di primo tratto la differenza di questo collegamento da quello del tipo 3 (dell' ottativo). Ci pare troppo poco, per una distinzione così importante per l'uso, il dire: « In italiano si traduce questa forma di periodo ipotetico come l'antecedente (quella colV ottativo)-, p. e. €i toCto ènoiei (èTro(r|<re) eùbaifiujv &v ^v (èTéveto). Se questo facesse (ovvero avesse fatto) sarebbe (o sarebbe stato) felice m. Che, tanto coirimperfetto, quanto coU'aoristo s'accenni oXVopposto della realtà^ ciò sta bene. Ma Tegregio signor Inama m'insegna che coir imperfetto si enuncia una condizione, che non ha

540 luogo nel momento attuale c'è adunque riferimento al pre- sente — ; e, nell'uso o per lo meno 7iel sentimento della lin- gua^ con questo schema non si rimuove sempre e di regola ogni possibilità, o per lo meno si crede ancora perdurante l'obbligo, la convenienza di fare una cosa, o di non farla.

Ciò spiega dalla natura stessa àtW imperfetto, il quale in questi costrutti nega la realtà, ma il concetto della du- rata dell'azione gli è pur sempre connesso. Ecco qualche esempio Senof. Cir, Vili, 3, 44 el Ix^iv outuj? w? Xa^pdveiv fjbù rjv, TroXù civ òiéq)epov eùbaijioviqi 01 uXoucTioi tOùv irevriTUJv. E Plat. Prot. 356 D: ouv èv touti|) fiiiiv fjv eu Ttparreiv ti? av fmiv aiuTTipia écpàvn toO piou; que- st'ultimo luogo, massime, è molto istruttivo in questo riguardo; perchè si contrappone l'aoristo coll'àv dell'apodosi, e all'im- perfetto coire! della protasi. Colla protasi infatti non si esclude aifatto la possibilità, che altri possa porre il quesito della umana felicità (tò eO TrpdTTeiv) nella scienza del misu- sare (jacTpnTiKfj Téxvn). Tant'è vero che Protagora, più sotto (pag, 357 B), è costretto appunto a questa conclusione, che cioè peTpriTiKTÌ ti? t^xvti si mostra come criwTripia toO piou (Conf« Kriig. Gramm, Gr. §§ 54, 10, 3; Koch, §§114, 4, 1-2).

Vero è, che negli schiarimenti al tipo N" 4 il prof. Iijama ne dice « che V imperfetto ordinariamente accenna a cosa presente , e T aoristo a cosa passata » e più sotto si ri- torna ancora su questa differenza: ma tuttavia questo luogo ci lascia a desiderare qualche cosa. Non insisteremmo su questo punto, se non fosse, che questa de' costrutti ipotetici è la parte forse più astrusa e più artificiosa nella dottrina delle proposizioni composte. Anche non vediamo ragione di invertire l'ordine della trattazione nelle proposizioni se- condarie. Infatti, mentre nt\ prospetto troviamo le dipendenti poste dopo le completive, nell'esposizione che vi segue ap- presso è data la precedenza a quelle. Quando non vi

541 - siano' ragioni superiori scientifiche, e qui non arriviamo a vedercene nessuna è bene secondo noi, che, posto in capo uno schema colle sue distinzioni e ripartizioni, quello si segua e disvolga via via. È questione d'ordine pedagogico. Il signor professore Inama ci perdonerà questi leggieri appunti. GU è che in un libro, come è il suo, che noi giu- dichiamo tale da fare onore al paese e alla scienza, crediamo che, anche nei più minuti particolari, il disegno dell'opera e l'andamento della esposizione debbano procedere con dirit- tura e chiarezza.

Rovigo aprile 1873.

Gaetano Oliva.

SULL' INSEGNAMENTO

DELLA SCIENZA DELLE AtK'^ICHITÀ IN ITALIA.

Non credo di recare offesa ai miei concittadini, se oso affermare che in Italia la scuola di archeologia e qualsivoglia insegnamento cat- tedratico relativo alle antichità monumentali, scritte e figurate, che pervennero sino a noi, riguardansi generalmente come cosa di lusso, buona per pochissimi, e perciò superflua ed inutile alla grande mag- gioranza. E questo giudizio, in fin dei conti, trova anche una parte delle sue ragioni in due fatti che si presentano nei regolamenti gover- nativi, vale a dire, l'assenza completa di ogni ammaestramento archeo- logico dalle scuole secondarie classiche, ed il modo in cui sono ordi- nati i corsi della Facoltà lettere nelle nostre Università. Quella po- vera scienza non può quivi far capolino che al quarto anno, durante il quale, secondo un antico e impossibile programma, si dovrebbero percorrere i vari rami della medesima. Il professore, ancorché valen- tissimo, non può non trovarsi in imbarazzo per le strette in cui è

-542

messo, e non ha modo di uscirne che facendo quel che può e quel che vuole. ne avete uno che si occupa di una sola parte del corso, la- sciandone ignorare il resto ai suoi ascoltatori, che, s'intende, dovreb- bero essere anche in questo da lui ammaestrati: qua ne trovate invece un altro che tratta alla meglio un po' di tutto, un po' di arte, un po' di epigrafia, un po' di numismatica., un po' di costumi, ecc., spac- ciandosene in quelle poche lezioni dell'anno, e per conseguenza con la maggior brevità possibile. In conclusione, il professore eletto a quel compito non deve che fare almeno sembiante di compiere ciò che è ri- chiesto dall'ordinamento generale dei corsi suddetti, ed agevolare il modo ai laureandi di passare anche nel corso di archeologia un esame comunque. I giovani naturalmente, salvo poche eccezioni, non possono prendervi interesse, perchè non ne hanno il tempo; i più lo seguono per mero obbligo, non ne intendono a dovere l'utilità, l'impor- tanza, e delle poche e mal digerite nozioni acquistate in quel solo quarto anno, appena ottenuti i punti necessari ai conseguimento del diploma finale, il maggior numero di essi non può giovarsi o non crede oppor- tuno di serbar memoria negli anni avvenire. Cosicché, esclusa affatto dall'insegnamento secondario, tollerata per convenienza o per necessità nelle aule universitarie, è naturale che il pubblico giudichi al modo che dissi la sfavorita scienza degli antichi monumenti ; è naturale che i veri cultori della medesima addivengano sempre più scarsi dinu.mero; non è a meravigliare infine che dai Musei di antichità non si ritragga a prò dei giovani studenti italiani quell'utilità scientifica che si do- vrebbe e potrebbe. Non v'ha dubbio, che se il corso degli studi classici s'immedesimasse, per dir cosi, con le reliquie monumentali in essi con- servate, mediante un sodo insegnamento filologico-archeologico, da un lato il futuro professore di lettere ne uscirebbe più erudito e più forte, e dall'altro ci metteremmo meglio in condizione di avere finalmente in Italia i filologi e gli archeologi capaci d'interpretare e illustrare ciò che di antico è venuto e verrà fuori dal suolo della Penisola,

Ora, stando le cose qui da noi nella guisa che accennai, chi mai avrebbe osato d'intromettere, per es., nelle risposte aWinchiesta sul- ristruponi secondaria che sta facendosi per ordine del Governo, qual- che avviso tendente ad accordare nelle scuole classiche preparatorie al- l'Università, un posticino, sia pur modestissimo, allo studio dei monu- menti di antichità?... A dare ivi un po' d'iniziamento agli studi di ar- cheologia?,.. In mezzo alle idee materialiste che ci stringono da ogni lato, di fronte alfopposizione più o meno palese che incontra tutto ciò

- 543

che inclina ad allargare il dominio delle lettere, della filosofia, dell'este- tica sotto qualunque forma si presenti, con la schiera compatta e nume- rosissima, che ci sta dinanzi nelle scuole, dei combattenti per l'unica mira del guadagno, con la trista disposizione che si scorge negli animi dei giovani lontani atiatto dal più alto concetto di studiare per la scienza e non unicamente per il lucro professionale o lo stipendio av- venire, in mezzo a tutto questo, voleva dire, colui, che si fosse presen- tato alla Commissione od al Governo con una proposta di quel genere, si sarebbe detto che veniva dall'altro mondo. Fortunatamente, per quei poveri illusi che persistono in Italia nel credere all'importanza degli studi classici, filologici, archeologici, alla necessità di rialzarli e soste- nerli nel nostro paese, viene a quando a quando un po' di conforto dal- l'esempio di altre nazioni, dalla parola di dotti stranieri. Se ciò non vale a mutar lo stato delle cose fra noi, giova almeno all'animo dei pochi cultori di siffatti studi, li incoraggia a spendere nuove parole, ancorché vane, in prò dei medesimi, persuadendoli che non hanno poi bisogno di uscire dal mondo, che tutti abitiamo, per trovare chi intenda il loro linguaggio, dia ragione alle loro idee, e possa far conto dei loro senti- menti scientifici. Basterà che essi passino le Alpi, al di delle quali, in fatto di sludi archeologici, ciò che qui sembrerebbe un sogno, una impossibilità, una follia, è riguardato invece come un eìemento indis- peniabife al p^^scsso di una compiuta e force istruzione classica nel giovine, necessario a tener alto il livello della cultura intellettuale della nazione.

Essendomi occorso in questi un conforto di quella fatta, non ho sa- puto rassegnarmi a lasciarlo passare senza farne partecipi almeno i let- tori di queste pagine, e toglierne motivo ad accennar di volo idee e de- sideri di antica data. In una delie migliori riviste di Parigi !a Kevue Archéologique, il signor G. Perrot, collega del mio chiaro amico A. Bertrand nella direzione della medesima, antico membro della Scuola di Atene, archeologo e professore valentissimo, autore del Viai,^- gio archeologico in Galapa, Bitinia, ecc., nel prendere ad esame l'ec- cellente libro di Michele Bréal su\\'lstru!(ione pubblica in Francia e nel farne rilevare il gran pregio in ordine al metodo che egli vorrebbe se- guito per l'insegnamento delle lingue classiche, espone le seguenti con- siderazioni : (i)

«4 Dans ces études ou doit dominer désormais la méthode historique,

(i) 9?eu. "Virchcol. 1873, ianvicr. rag, 70-71.

„. 544

ne devons-nous pas rechercher tour ce qui peut rapprocher de nous l'antiquité er lui rendre un caractère réel et vivant, que ne suflisent point à lui donner les textes des auieurs? Par malheur, il nous est im- possible de conduire tous nos élèves de rhétorique visiter Herculanum et Pompei; mais, sans donner le méme éblouissement, cette méme hal- lucination de la vie antique, un peu d'archeologie, mélée avec discré- tion à l'explication des auteurs, interesse singuliOirement une classe, nous l'avons souvent éprouvé come professeur. Les personnages des historiens et des poetes sortent ainsi du nuage où, pour la plupart des esprits, ils avaient jusque-là comme flotte entre ciel et terre, ombres vides et pales,

veKÙuJv à|i6VTivà Koipriva,

ils redescendenl jusqu'à nous et leurs pieds posent sur le sol, leurs traits se dessinent et se colorent. C'est une des voies par lesquelles on méne le plus aisément ies jeunes gens à deviner la grande loi qui do- mine touie recherche historique, la constance des rapports, l'idée que le fond de l'homme n'a pas varie, que de tout temps des railieux, des situations analogues ont affecté et affecteront de la méme manière la nsture humaine. Il est mèrae tei;; esprits, auxqueis Homère etVirgile, Hérodote, Tite-Live ou Tacite n'avaient rien dit jusqu'alors, et qui tout d'un coup se prennent à l'antiquité par cet endroit; ils ont l'ima- gination plastique ; quelques dessins, quelques médailles, quelques bi- joux qu'on leur t'ait passer sous les yeux, quelques promenades au Mu- sée des antiques leur en apprennent plus que ces textes sur lesquels ils se trainaient depuis des années, un peu par la faute de leurs maltres, sans les avoir jamais pris au sérieux, sans presque s'étre doutés que Pé- riclès et Démosthène, Philippe et Alexandre, Cicéron et Cesar, Au- guste et Trajan, ont été des hommes en chair et en os, dont les succès et les revers, les sentiments et les ouvrages s'expliquent par les mémes raisons et doivent se juger d'après les mémes règles que s'il s'agissait de personnages des temps modernes. »

Queste parole sono d'oro. Non so come si potrebbe porre in chiaro, meglio di quel che esse non fanno, l'utilità dell'associazione degli studi archeologici ai corsi classici, in dose avveduta e discreta, anche nelle scuole secondarie; ed io avrei voluto posseder la penna e l'autorità scientifica di quell'illustre archeologo per potere largamente esporre lo stesso concetto e richiamare su di esso l'attenzione di chi era in grado di applicarlo, allorché nella Nuova Antologia del marzo 1869 osai di

545 darne cenno, mosso unicamente dal bisogno di dire ciò che mi sugge- risce l'amore della scienza, ma con la certezza che nessuno si sarebbe dato il menomo carico di approvarlo, di contraddirlo. Oggi però che ci vengono da uno dei paesi, che, in questo, se ne intendono più di noi, parole così giuste e così confortanti per le idee che da lunga mano probabilmente sono maturate anche nella mente dei miei colleghi, si cadrebbe in colpa di noncuranza o di abbattimento d'animo, se non ce ne giovassimo per il destro di richiamare l'attenzione del Ministero su questo punto interessantissimo degli studi di cui parliamo; e ciò, sia per l'accesso che potrebbe essere accordato, come si disse, nelle scuole secondarie ai primi rudimenti archeologici, o piuttosto all'esame pratico di qualche serie di antichi monumenti messo d'ac- cordo con l'esposizione della storia antica e delle due principali let- terature del mondo classico, sia per le riforme che sarebbero neces- sarie nell'ordinamento del corso di archeologia greco-romana, quale è stabilito nella maggior parte delle primarie nostre Università. Con pivi coraggio adunque vengo oggi ad affermare che ambedue i consigli meritano di esser presi in considerazione, e specialmente poi il se- condo. In fatto, giova il ripeterlo, noi non otteniamo al presente da quel corso che un lieve esame di più per i futuri dottori di lettere. Se vogliamo però all'incontro veder soddisfatto il desiderio, il bisogno sovra esternato, che esso, cioè, ci fornisca archeologi e filologi ben basati e bene av\'iati, pronti a rendere la vita ad ogni antico avanzo che torna in luce, capaci di sottrarre, con il mezzo più efficace della parola, le nostre raccolte di antichità a quel mistero in che sono av- volte, almeno per la maggioranza di coloro che le visitano, a divul- garne i legami con la storia, con l'arte, con la lingua, con la geografia, con i costumi, con i governi, con la grandezza, con la decadenza delle nazioni che furono, se vogliamo, ripeto, raggiungere questo scopo, ci occorrono mutamenti nelle Università. Meglio stabilito ed allargato per mezzo di essi (purché ben fatti) l'insegnamento delle antichità scritte e figurate e insieme quello della filologia, noi potremo avere anche dai Musei epigrafico-archeologici quei risultati, quei benefizi, che gli studi di altro genere, come la ideologia, Vanatomia comparata, Ja mineralogia, la fisica, la chimica, ecc., sanno cavare dalle collezioni scientifiche ad essi attenenti. È così che la Germania conta ogni anno fra i suoi prodotti universitari una serie di giovani filologi ed archeo- logi atti a salire, senza molto indugio e con solido pie, sulle cattedre delle sue Università, ed a mettersi all'opera per fornire, alla lor volta,

546 -

la scienza di nuovi maestri. Profondità di cultura storico-letteraria, larga conoscenza e dimestichezza con la lingua ed,i testi dei classici, esame critico dei monumenti nei Musei ed c;,ercitazioni pratiche sui medesimi congiunte all'esposizione teorica delle dottrine deha scienza con quell'ampiezza che essa addinianda, ecco le basì principali degli splendidi successi delle passate scuole di C. O. Miiller, di F. G. Wel- cker, di E, Gerhard, di O. Jahn, di A. Boeckh, ecc., ed ecco come si tengono alte ai nostri quelle di Ritschl, di Michaelis, di Mommsen, di OvcTbeck, di E. Brunn, di A. Gonze, ecc. Aggiungasi che tanto la Germania da lungo tempo, quanto la Francia più di fresco, convinte ambedue della necessità di dare un largo sviluppo allo studio di quei mirabili documenti dell'antica storia, ci pruovano col fatto the esse non potrebbero bene adempiere quello scopo, qualora non si giovas- sero delle nostre grandi ricchezze di monumentali reliquie. 11 governo francese decretava testé che i membri della scuola francese di Atene, prima di trasferirsi in Grecia, dovranno soggiornare d'ora innanzi un anno intero in Italia, ed uno scienziato eletto a posta sarà incaricato di fare a Roma, per l'istruzione di quei giovani, un corso di archeo- logia, secondo un programma proposto d'dìì'Q/lccademia d'iscnponi e belle lettere. Ed a molti lettori di questa 1<Jvis!a è ben noto che la Ger- mania nel mandare periodicamente iill'estero per un viaggio scientifico di qualche anno un certo numero di giovani dottori, già provvisti nelle scuole tedesche di una solidissima erudizione, li fa sostare abbastanza lun- gamente in Italia e massime in Roma, affine di compierne l'educazione filologica ed archeologica per mezzo di ricerche ad essi indicate, e di lezioni date sui monumenti della capitale, e dei suoi Musei, dai diret- tori deirinstituto. E noi Italiani che ci troviamo circondati da questi tesori archeologici a cui copiosamente attingono le altre nazioni, noi, che ci troviamo possessori di questi tesori, raccolti in casa nostra, perduriamo tranquilli in un grado sconveniente, inesplicabile di po- vertà di studi e di risultati di fronte soprattutto alla Germania ! !... Dalla qual povertà o almeno inferiorità non ci tireremo mai fuori, se non si toglie di mezzo (torniamo lì) la causa principale, che è il meschino e male ordinato insegnamento. Posto che a questo non vogliasi prov- vedere dietro concetti ben definiti, ben chiari, la scienza del 'Visconti, dei Marini, dei Borghesi, dei Lanzi, dei Cavedoni, andrà sempre più decadendo fra noi. varrebbe l'obbiettarmi che l'Italia conta anche a questi archeologi, a cui fanno di cappello i dotti di tutte le altre nazioni. Ciò non può attenuare in nulla la forza di questi lamenti;

- 547

per le pochissime eccezioni oserà giudicar buono il sistema, e mi- gliore di quel che a me non sembra l'aspetto generale delle cose. Le illustrazioni scientifiche, che abbiamo l'onore di possedere, debbono la posizione, a cui sono giunte, ai loro studi, ai loro sforzi, alle loro ri- cerche individuali. Nulla, o quasi nulla, essi hanno certamente che lare col pubblico sistema d'insegnamento classico, non pur presente ma passato; e nessuno certamente perverrà mai a dimostrarmi che il sistema, contro cui parlo, varrebbe a darci, non dirò un Minervini, un De Rossi, un Fiorelli (che questa è merce rara dappertutto], ma anche un solo dei migliori scolari del Brunn, del Ritschl, del Mommsen, del Gonze e di altri professori che potrei citare.

Senza andar più oltre, vengo ora adunque ad esporre succintamente, e in misura molto parca, alcuni de' miei voti. Sperando, che in or- dine allo studio delle due grandi letterature, il risultato dell'inchiesta aeoDa condurre ad allargarlo ed assodarlo negl'istituti classici, io muovo dalla supposizione che sia da quind'innanzi migliore e più forte di quello che è; altrimenti sarebbe vana ogni mutazione nelle scuole superiori. Ciò premesso torno sul già manifestato desiderio d'interessare i giovani fino dal ginnasio-liceo ai monumenti, che, come l)en dice il Perrot. >eur en apprenntvt plus quc ces textes sur lesquels

ils se trainaient depuis des années sans les avoir jamais pris au

sérieux. Si formino qua e là, come nei ginnasi tedeschi, delle piccole collezioni di s^essi^ riproducenti antichi personaggi, antichi avveni- menti, antichi utensili, antiche opere di arte, antiche iscrizioni, ecc. 1 corsi di storia naturale non hanno i loro piccoli Musei nei nostri stabilimenti secondari? Perchè non potrebbe in conseguenza aversi qualche cosa di simile per il giovamento dei corsi classici?... I pro- fessori di storia antica, di lettere greche e latine potrebbero valersene per chiarire, raffrontare, ed ampliare le loro esposizioni, i loro com- menti. — Nelle Università poi, almeno nelle principali, si suddivida e si determini chiaramente nelle sue partizioni l'insegnamento, che ora e tutto compreso in quel Corso di Archeologia del solo quarto anno del corso generale di lettere. E qui comincierei dal lasciar da pwirte il titolo >?enerico di Corso di Antichità Greche e Romane, che in qualche Università, per es. a Roma, ha preso il posto dell'altro di Corso di Archeologia, e che addimostra, secondo il n)io povero avviso, poca chiarezza nei concetti, che si hanno in Italia in ordine al migliore e più pratico ordinamento di una scuola di questa fatta. Si è prefento, a quanto pare, quel titolo in seguito dcll'otiimo pen-

548 siero di cominciare a dividere maggiormente le materie nella Facoltà. Ma la preferenza non tu felice. Quel nome lascia in dubbio, anche più deiraltro, se essa cattedra debba trattare o di arte, o di J5/ifwfiowt, o dei monamenti epigrafici, numismatici, ecc., o di tutte queste cose insieme, press'a poco come l'omonimo dizionario del Rich e delio Smith. Chi vi sale o si prepara a salirvi la potrà rivolgere da quel lato che gli parrà ; forse accadrà che ei tolga a una parte dell'inse- gnamento generale diversa da quella che dovrebbe esporre, secondo il programma, o almeno la mente del Ministero ; e il giovane, come al solito, rimarrà con idee sconnesse e incomplete riguardo a questa povera scienza, su cui sembra che pesi la fatalità di non potersi met- tere in buon assetto nelle nostre scuole. Mi si risponderà che anche il xMommsen a Berlino, per es., tratta in qualche semestre delle anti- chità romane; ma in questo caso, come in altri consimili, è il nome del professore e l'insieme del suo , insegnamento che tolgono subito di mezzo ogni dubbio, e vi mettono nella certezza che la serie mo- numentale, di cui principalmente ei si giova, è il gran corpo delle iscrizioni, e che dai suo corso si sarà ammaestrali precisamente sulle instituzioni politiche, amministrative, militari, ecc. dell'antica Roma. Lo stesso dicasi dell'Hubner, altro epigrafista di primo rango nell'U- niversità di Berlino; mentre al contrario, quando veggo il Gerhard, il Friederichs e simiti trattare delle Greche antichità, dal loro nome e da tutto il rimanente dei loro corsi capisco subito che lo studio àf^Warte antica ne ò la base principale. Del resto il così detto index lecticniim delle Università di Germania, e di quelle che a loro somi- gliano, presenta una così ampia divisione di materie, e una specifi- cazione così esatta delle medesime, che non saprebbesi veramente cavar di un esempio per dar ragione del titolo di cui abbiamo parlato, e che vorremmo escluso. Noi non possiamo estenderci di molto con le suddivisioni, per il difetto, in. cui siamo, di uomini e di quattrini. Si muova almeno innanzi rutto dal concetto delle due grandi divisioni delle antichità monumentali, in letterate ed artistiche, o scritte e figurate. Si lasci al nome di archeologia, per essere me- glio intesi da tutti, il significato che gli si è attribuito nelle scuole te- desche ed anche in Francia, relativo principalmente alVarte, come ne fanno fede fra gli altri il notissimo Handbuch di C. O. Mùller, le Coiirs d'archeologie di R. Rochelte e di Beulé alla Biblioteca Nazio- nale a F*arigi; e, dietro questa norma, si stabilisca in primo luogo un corso i) cui argomento sia l'arte greca e romana {architettura.

549 scultura, pittura, glittica, ecc., e arti affini) e insieme Vetrusca e Van- tico-italica perchè in Italia non possono nerarnen queste lasciarsi in obbifo, e per i legami che esse hanno con la Grecia, con Roma, con il Lazio. Il titolo di Corso di archeologia classica sarà chiaris- simo, ed anche più quello di archeologia deWarte adottato dal chia- rissimo professore Stark per il suo nuovo Manuale ; senza ragione v'inclusi V antico-italica, giacché ormai è noto che nella Penisola (come in Grecia) si presentano le norme di un'arte precedente Vetrusca della quale si terrà conto anche nell'opera testé citata dello Stark ai capi- toli 43-44, ecc., tomo secondo. Colui che assume quell'insegnamento (e per conseguenza il giovine che va ad ascoltarlo) saprà benissimo qual è la serie di monumenti di cui deve occuparsi, quale parte della Storia antica, nonché della Geografia e Topografia, dovrà rial- legare ai medesimi, quale è il corredo di dottrina di cui debbe esser fornito. Egli avrà senza dubbio capito, com'ei debba conoscer l'Oriente almeno per le origini e i primi periodi dell'arte greca; tener conto della Numismatica per l'importanza, varietà, bellezza, idealismo e indivi- dualità dei tipi monetari ; della letteratura, filologia e epigrafia affine di trarne giovamento e sussidio alla storia dei monumenti, alla de- terminazione dell'età dei medesimi, alla storia in genere dell'arte per i monumenti perduti; punti, in ordine ai quali gli antichi scrittori, i poeti classici, le iscrizioni e le loro forme alfabetiche costituiscono, come ben lo dichiarava il Gonze in una sua prelezione all'Università di Vienna (i), costituiscono (dico) una base indispensabile di buona critica, di sana interpretazione, di retto giudizio. Non posso poi nemmeno du- bitare, che il professore destinato aìVarcheologia non sia persuaso della necessità di esser dotto alquanto nella Mitologia, non per allargarsi oltre misura nelle ricerche delle antiche rappresentanze mitiche e per invadere il campo della Storia delle religioni spettante anche ad altri rami della scienza delle antichità, ma soprattutto per i rapporti della mitologia stessa con l'arte e le sue forme, per l'ideale artistico degli Dei, degli Eroi, e di tutto il loro séguito, il carattere e la storia dei loro miti, il costume che ad essi conviene. Questo Corso di archeo- logia dovrebbe essere almeno biennale; e dico almeno, giacché se il numero delle lezioni di un'ora dovesse rimanere così ristretto come lo è di presente, due anni non potrebbero mai essere sufficienti. Ve-

(1) Ueber die Bedcutung der classischen Archàologie, Wien, 1869. V. su di essa HOnsKH ntWArch. Zeit,, 1869, p. 92-93.

- 550 - - niamo ora all'altra serie di ammaestramenti sul mondo greco-romano, che non è compresa affatto, o che lo è solo indirettamente, nel Corso di cui ho parlato. Per questa passa in primo rango, delle diverse classi di antichi monumenti, soprattutto quella degli epigrafici. Le istituzioni pubbliche e private della Grecia e di Roma, l'amministra- zione civile, l'ordinamento militare, l'organizzazione politica, gli sta- bilimenti di beneficenza, la finanza, Teconomia pubblica, il corso degli onori, la cronologia, la storia, il culto, la paleografia, ecc., trovano nei grandi corpi d'iscrizioni, che oggi pos.sediamo, un tale com- plesso di documenti da potersi quasi, anche solo con essi, esporre pie- namente tutte quelle materie, le quali poi ad ogni modo, senza le iscrizioni, e con la sola guida degli antichi scrittori, sarebbe presen- temente impossibile di ben trattare. Questa parte del Corso di anti- chità potrebbe anche essere ricongiunta ai Corso di storia antica Greca e Romana, dividendo in questo la Grecia da Roma, onde am- bedue le storie in tutte le loro particolarità, considerevolmente arric- chite dalle grandi scoperte epigrafiche, potessero essere esposte con quell'ampiezza e con quella critica che oggi richiedesi. Ma questa as- sociazione, che sarebbe molto naturale, e che in Germania si trova nelle materie speciali messa in pratica, forse da noi, almeno per ora, potrebbe tornare a danno dello studio e della conoscenza del vero va- lore degli antichi monumenti epigrafici, di cui siamo così ricchi nei nostri Musei. Ond'è che mi pare preferibile l'adottare un altro inse- gnamento speciale col titolo di Corso di epigrafia e di Numismatica applicato allo studio delle istitu^iorii pubbliche e private della Grecia e di Roma; titolo il quale mi pare che debba mettere egualmente tanto il professore quanto lo studente nel concetto chiaro di ciò che hanno alla lor volta da insegnare e da apprendere. Se insisto su questo punto che potrebbe sembrar superfluo, si è perchè, ripeto, in ordine a studi classici e di antichità le idee in Italia sono alquanto confuse; e mentre in medicina e nelle scienze naturali tutto è ben determinato e distinto, nel ramo di cui parliamo il maestro e l'allievo o vagano troppo, o non s'incontrano, o non s'intendono. Almeno a me pare cos\, e perdoni il lettore alla mia ristrettezza di mente se sono in inganno. II professore adunque, a cui sarà affidato questo secondo corso dovrà soprattutto aver coscienza di essere buon filologo, esperto numi- smatico ed epigrafista, e sentirsi munito di una soda erudizione nelle an- tiche opere storico-politiche, storico-legislative, e grammaticali di ambedue quelle regioni, i) modello di questo professore dobbiamo

-561 ~

vederlo in un Borghesi, in un Boeckh, in un Mommsen, in un Henzen e simili; e se potremo averne davvero su quel tipo, vedremo subito di che bella luce sieno capaci risplendere, anche agli occhi dei meno colti, quei marmi e quegli armadi di cui quasi tutti i visitatori dei Musei sono costretti a ripetere neiranimo •< Non ti curar di lor, ma guarda e passa ». Naturalmente egli dovrà esser dotto anche dei mo- numenli dell'arte per tutto quello che si riconnette agli usi, costumi, e pratiche di ogni genere attenenti ai detti monumenti, o che i medesimi ci rappresentano. Dissi poi che in lui richiedesi anche il filologo, e ciò a motivo dei rapporti strettissimi che legano la filologia alVepi- grafia, senza voler per questo dare ad intendere che un corso di questo genere possa valere come corso di filologia. Non mai. Le due_^-- lologie, greca e latina, eguaìmeniQ che V antico-italica, dovrebbero avere in alcune almeno delle nostre prime Università, come è stabilito, se- condo mi dicono, per quella di Roma, i loro corsi speciali separati da quelli delle rispettive letterature^ i quali sono soprattutto destinati ad occuparsi della parte estetica, filosofica, storica, morale dei loro classici prodotti. La biennalità infine, che si è proposta per il Corso di archeo- logia^ mi pare si debba assolutamente ammettere anche per quello di cui abbiamo testé ragionato. Ma basta ormai sull'argomento. Che se del resto le modificazioni, di cui manifestammo il desiderio e l'utilità, nell'insegnamento della scienza degli antichi monumenti, andassero congiunte, per es., in ordine allo studente, con la cessazione dell'ob- bligo di qualche altro corso, meno necessario al filologo ed all'archeo- logo, con un aumento di ore nel corso di lettere greche e latine, e di filologia o grammatica comparata, con la introduzione di una terza laurea nella facoltà, cioè la laurea <ii filologia e archeologia, avremmo certamente fatto qualche passo di più verso quell'ordinamento defi- nitivo, che, sulle norme tedesche, vivamente auguriamo per le nostre facoltà filosofico-letterarie, allo scopo di non rimanere troppo lungo tempo discepoli delle altre nazioni , alle quali avemmo in passato l'onore di esser maestri.

Torino, aprile 1873,

(jiAN Carlo Conestabile.

552 -

La grammatica storico-comparativa e lo insegnamento ginnasiale delle lingue classiche giusta M. Bréal.

Nella a^vue oArchéologique di febbraio ultimo scorso leggiamo (p. i22-i35ì la prelezione, con cui il chiarissimo prof. M. Bréal rico- minciò, addì y dicembre 5872, il suo corso di grammatica compara- tiva al Collegio di Francia, investigando opportunamente « dans quelle mesure et sous quelle forme la grammaire cnmparée peut et doit étre introduite dans Ics études du collège ». Vuoisi, nota il Bréal, innanzi tratto distinguere lo insegnamento del latino da quello del greco. « Le latin est commencé plus tòt: ce soni des enfants de neuf à dix ansa qui nous avons affaire. Le latin n 'a pas de dialectes, ou plutòt les dia- lectes qui lui faisaient cortége ont éte étoutTés. ou ne nous sont par- venus qu'en courts fragments sans valeur littéraire. Enfin le latin est enseigné le premier, de sorte que tout terme de coraparaison autre que le francais, qui est lui-méme issu du latin, manque au maitre

comme à l'elève L'enfant qui comroence le latin a besoin avant

tout d'apprendre la déclinaison et la conjugaison. » Per tutte queste ragioni la grammatica storico-comparativa avrà, almeno nei primi anni, minor parte nello insegnamento del latino che in quello del greco ed il maestro si rivolgerà prima alla memoria, poi, un po' più tardi, alla intelligenza de' suoi allievi coli' analisi e comparazione. « Je ne veux pas dire cependant, soggiunge il nostro autore, c^ue nos écoliers de sixième et de cinquième ne doivent pas étre touches des lumières

de la grammaire comparée ils en profiteront sans le savoir, comme

l'enfant, en sucant le lait de sa nourrice. profite des aliments qu'elle a pris. Quandce ne seraient qu'un certain nombre d'erreurs dont nos livres classiques seraient débar'rassés, nous leur aurions déjà renda le service de ne pas les obliger à désapprendre un jour ce qu'ils ont pris la peine de retenir » come suole avvenire anche in Italia. Si potrebbe, verbigrazia, cessare finalmente d'insegnare che l'infinito, il supino, il participio sono modi!!! S; potrebbero avvezzare gli alunni a consi- derare attentamente la derivazione dei vocaboli, come già fece nel 1677 in P" rancia Pietro Danet e come si fa nel ginnasii tedeschi. Si potrebbe, infine, rendere molto più razionale lo insegnamento della sintassi, in- troducendo anche in esso, anzi soprattutto in esso, il metodo storico. Così il Bréal. Noi crediamo che anche il primissimo apprendimento del latino diventerà più facile allorquando si sarà messo un po' d'or- dine vero nelle declinazioni e nelle coniugazioni; crediamo che a que- sta prima esposizione elementarissima della grammatica debba tener dietro una seconda, assai meno ristretta e più conforme alla scienza; crediamo che si debba badar molto alle attinenze esistenti tra il lin- guaggio latino ed i neo-latini d'Italia e di Francia. Cominciato lo studio del greco « la grammaire comparée pourra trouver utileraent des applications plus multipliées ». Nondimeno, osser/a il Bréal, an- che in questo nuovo studio la comparazione ha i suoi limiti. Che essa non può nelle scuole secondarie essere coltivata per stessa, ma solo in servizio degli studi classici ; vuoisi farla precedere allo appren- dimento mnemonico delle forme; puossi aver ricorso allo idioma sanscrito od all'ariano primitivo, cui la linguistica odierna tentò rico- struire, idiomi entrambi affatto ignoti agli scolari dei ginnasii; né, in ultimo, è possibile l'analisi delle desinenze.

L'autore conchiude notando che, indubbiamente, tutti i maestri di lingue classiche dovrebbero conoscere la grammatica comparativa. Ciò dipende dalla istruzione superiore: vi provveda finalmente, e in modo efficace, il governo francese e l'italiano! D. Pezzi.

Pietro Ussello, gerente responsabile.

553

AD ALEXANDRl MAGNI ITINERARIUM C0'7<iIECTU%AE

Praeclarissimi amici humanitas dono mihi misit e Ger- mania gratissimo Itinerarium Magni Alexandri, quod Dide- ricus Volkmannus trecentesimo daodetricesimo anniversario gymnasii Portae dicavit, cum uno superstite Ambrosiano codice denuo, post Angeli Maii editionem principem (i), diligentissime coUatum, plurimorum emaculatum opera a Volkmanno discriminata (2). Qui cum innumeras voces a librario corruptas prudenter restituii, tum quattuor saltem locis, cruce signatis, scripturam codicis intactam ac litem interpretum sub iudice reiiquit: quos proinde novo subiicere tentamini et licet et libet.

I. Primum supplici! interpretum signum prodit in prima periodo opusculi, quae in codice Ambrosiano ita se habet :

« Dexirum admodum sciens et ome tibi et magisterio « fiiturorum, DOMINE CONSTANTI bonis melior impe- « rator, si orso fcliciter iam accinctoque persicam expedi- « tionem ITINERARIVM principum eodem opere glorio- ft sorum, Alexandri scilicct magni Traianique, componerem, « libens sane et laboris cum amore succubui, quodque -f id « rnrn uelle enim id et exigit suspensique est, quodque re- ti gentium prospera in partem subditos uocant. »

(1) Med.jiani MDCCCXVII.

(2) Einladungs-Pio';ìamm zu der... Stifiungsfeicr der k. Landes- schule Pforta. Naùoi-jurg 1871.

liivisla .1 filQic^ii\ ei:c., I. 37

-564 -

Dubium articulum interpretati sunt: Maìus: quodque meum uelie enimuero id exigit suspensique

est, Peiperus: quod quìdem meum uelle eniti (?) id et exigit

suspensique est, Kochiiis: quodque haud magna uelle animi perexigui sus- pensique est, Kiesslingius et Guilelmus Wagnerus: id denuere vel re-

nuere uelle animi et exigui suspensique est.

Nihil in articulo mutandum censeo, nonnisi compendium mm rigido nec arbitrario iure explicandum:

quodque id raagistrum uelle enim id et exigit suspen- sique est.

Opus gloriosum persicae expeditionis nempe a magistro tironis sui exigit, ut id velif, et magistrum vacantem a pu- blicis muneribus (prò sententia Angeli Mali) itinerarium gloriosae expeditionis componere decet. Insolita nota mm prorsus inexstricabilis sive in arbitrio lectoris foret, nisi in ipsa periodo eadem fere vox praecederet, quae paolo post repetita concise scribi posset. Auctor vero Itinerarii Ale- xandri Magni nccnon vitae fabulosae ipsius, quam in eodem volumine Maius prodidit, in prolegomenis quae gestis fabu- losis Alexandri Magni ex gallico sermone in vulgarem nostrum Dantis aetate translatis nuper a me editis ( i ) adieci, visus mihi est Polemiusconsulannip. Ch. n. 338, qui Alexandria oriun- dus bello Achilleo libertatem amiserit , Constantii Chlori servus et libertus, Constanti ni Magni a secretis, Gonstantii institutor et magister fuerit. Nec a tanto viro, quem Atha- nasius [Ad Solit. pag. 637) inter amicissimos Constantii co- mites enumerat, alienum est opusculum suum dextrum et omini et magisterio futurorum eventuum imperatori prae-

U) 1 nobili fatti d'Alessandro Magno, Bononiae, Id. decembr. 1872.

- 555-

dicare, quod alioquin dedeceret dedicantem libertum pariter

ac paironum dedicatum. Quodsi Angeli Maii sententia

de verbo suspensigue^ analogia exempli Ammiani Marcellini

suffulcita, non liqueat, emendano sui pensique in promptu erit.

2. Alterum locum in capite XV (VI) turpiter defor- matum in integrum restitui posse diffisus est editor :

« Multus ad imperia difficultatum, onercsior tamen exem- « pli proprii irritamentis, quoniam bone opere praeueniri « pudibile ducebat, iuuentae munus e corpore alacriter pe- « tens, ipse -f- barbae acutae durior et cetera candidus , et « quae sibi sane quisque rectiub consulat, aut ipsi certe im- « peratori uel militi uelit. d

Barbarae uitae coniecit Vlriciis de 'Willamowii\, uerbis ac \xìX3i Kochius. Nobis placet: iuuentae munus e corpore alacriter petens, ipse barbara cute durior; ax cetera candidus Mt ^Mz quae sibi sane quisque rectius consulat, etiamì^si etc.

3. Ad finem capitis GV editionis principis, XXXXVI Volkmanni, in codice legitur:

« Ducenta denique triginta boum milia ìllic capta formae « merito destinatuna captiuis Machedio cultum agrossuorum K et '\' suascitum. » Maìus interpretatur: Macedoniae cultum agros suorum et

suosce, Kochius '. suos et suorum amicorum aut amicum, Volkmannus: Macedoniam etc, adiungens: equidem in nera

lectione inuestiganda frustra desudaui.

Agros familiarium Alexandri et gentis Macedonum intel- ligendos esse iam satis patet; restat ut vocabulum novum, a barbaro Alexandrino declinatum, sobrie explanetur per analogiam. Derivatum mihi videtur sicut nostras, nostratis, vestras, vestratis, cuias, cuiatis a suus =z suas, suatis, addita particula intensiva ce =: suasce, quam vocem barbarus de- clinaverit suasce, suascitis; nisi mavis ce niectare genitivum

- 556 pluralis suatiunty cui inserta ore parum rotundo litera s, suastium^ et sibilo adaucto et i transposila: suascitum.

4. Quarto loco cruciat caput L Volkmanni, CXII-XIII editionis Mediolanensis:

« Exim magnas Pecanum et Musicanum regiones exse- « quitur ac sibi congregat. Petram quoque quae Aornis uo- « catur affectat, cuius proceritudo sunt stadii quadringenti, « supra cultoribus diues ^au<f minus locupletibus quam se- ti curis ; et est ei nomen ex celsitudine, quam nec alites su- « peruolitent. Sed enim hic quoque optinet fìxu uec^ium ,

« uia scansili -f- acsididas petitam. Nam magnitudine cum

« primatibus, quod ultra gentes, quas belio idoneas com- « perisset experire/«r. Quo aduersum eas animo arderet ? « Milites uero ad haec ultra laborcTW uel pericula depreca- « bantur, annos decem, uulnera et suorum desiderium nu- « merantes. Data igitur fessìs quiete, uolentibus utilur. Suc- « centuriari tamen dimissis alios e patria iubet. Itaque « uictoriae auaritia usus oceanum uenit ».

Cui Volkmannus notas subiecit : quas add. Maius ^aui, cod. aut hic, Maius hanz uec^ium corr. Maius cod. ueccium scansili acsisidas pentitam cod.^ scansili ac in- sidiis appetitam {scribendum erat petitam) Maius parum probabiliter ; scansili, at ardua petitam Kochius ; codicis scripturam intactam reliqui, dum quis meliora protulerit Nam magnitudine cum primatibus cod. lam de magni- tudine belli ortus est questus cum primatibus ' Maius \ la- cunam indicaui bello cod.^ Helladi Klugius coli, Ps. Callisth. Ili, I quas add. Kochius. comperisset expe- rire cod.^ coegisset experiri Maius, compulisset experiri Klu- gius; in conf or mandi s uerbis Kochium secutus sunt quae cod., quo Maius labore cod. quieti cod.

Lacuna sponte evanescit, dummodo liceat figmentum cru- ciatum aliter explicare:

- 557 « Exim magnas Pecanum et Musicanum regiones exse- (c quitur ac sibi congregat. Petram quoque (Aornis uocatur) (( affectat, cuius proceritudo sunt stadii quadringenti, supra « cultoribus diues /laut minus locupletibus quam securis-, « et est ei nomen ex celsitudine, quam nec alites superuo- « litent. Sed enim hanc quoque optinet fixu uec/ìum, uia « scansili, Ac sic I»d/'a^n pene totam, Nam magnitudine?» « cum ipnmum e/us, quo^ ultra gentes bello idoneas com- « perìssewt experir/, quae aduersum eos animo arderewt, « miiites uero ad haec ultra laborem uel pericula depreca- « bantur, annos decem, uulnera et suorum desiderium nu- <c merantes. Data igitur fessis quiete, uolentibus utitur, Suc- « centuriari tamen dimissis alios e patria iubet, Itaque uìcta « iam Aornìde uersus oceanum uenit. »

Veronae, X. Kai. Maias 1873.

JusTus Grion.

RESTAURAZIONE

"DI f/CNC ETITAFIO %OmAV^O

Nello scavo della via Appia, fatto nel i85i, fu scoperto ad una distanza di circa quattro miglia da Roma un se- polcro che conteneva le ceneri di fratello e sorella morti in giovanile età e dal mesto padre in un bel carme elegiaco compianti. La lapide rinvenuta nel sepolcro ci conservò la iscrizione, ma non mtiera, poiché nella piij grande parte dei versi lettere o voci sono dal tempo cancellate. E gran danno questo, perchè rcpitafio appartiene al buon tempo

- 558

della poesia latina, e, come si può dedurre dal verso sesto, risale al primo secolo dell'era cristiana.

Non molto dopo la sua scoperta una copia fedele del ti- tolo fu spedita al Borghesi, e quelPillustre epigrafista tentò di spiegarne il terzo distico, lasciando ai cultori della poesia latina la cura di restaurarlo, impresa secondo lui agevole, perchè in genere il senso s'intende bastantemente e perchè non contiene se non lamenti comuni a tutti i genitori. Questo parere del Borghesi poco tempo fa da me letto nelle sue Opere (Tom. V, pag. 341), colla stessa iscrizione rivista sulla pietra dal signor Guglielmo Henzen (i), accese il mio ardore di tentare la prova della restaurazione, non sapendo che fosse già stata fatta da altri. Il mio saggio non dispiacque a giudici competenti, ma non avrei avuto l'ardire di pubblicarlo, se non l'avessi paragonato colla restaurazione di P. E. Visconti

(i) Pare opportuno riferire qui, per comodo del lettore, che vo- glia fare il confronto, la lezione sopraccitata, proposta dal comra. Visconti in grazia dell'illustrazione della lapide pubblicata dal Bor- ghesi nell'appendice dell'articolo del signor Jacobini, non ignorando che il verso 5 avrebbe così un piede di troppo. Ecco adunque la lezione :

Hic soror et frater vìv{entis damn)a. par(e)ntis

Aetate in prima saev(a rapi)nz {iu!ì)t. Pompeia his tumulis co{mes ajnteit {/ime)rìs,

Haeret et puer immites que(m rapuere) Dei. Sex. Pompeius Sexti Praec(o) ii.[gnomine ijusius

<3;uem tenuit magn(t maxima honore ^omjus; Infelix genitor gemina [iam prole re/ijctus

A natis spenrans qui ded(er?? titul]os {sic) Amissum auxiliunj functae post [funera] natae,

Funditus ut traherent invidfa fata /)arem. Quanta iacet probitas, pie.tas quam ver (a sep]u\m est!

Mente senes aevo sta periere [brev)\. Quis non fiere tneos casus poasiiqv»e dolore {sic)l

{Cur rfjurare queam bis datus ecce rogis? Si sunt Di Manes iam nati numen habetis,

Per vos cu(m) voti non venit hora mei?

-559 - adottata dal lodato Henzen ed inserita a pagina 3i5 del volume XXIV degli Annali dell'Istituto di corrispondenza archeologica. Ora dico che la mia restauraziohe mi par meglio rispondere che quella del Visconti alle leggi delia pro- sodia ed all'intenzione di chi fece porre Tepitafio. Sulla lapide si legge :

HIC SOROR ET FRATER VIViMH ' lliA PAR i NTIS

AETATE-IN PRIMA -SAEVi iiliNA- iiliiT POMPEIA-HIS'TVMVLIS- conili- i NTEIT" miRIS

HAERET-ET-PVER- INMITES QVEl liil iDEI SEX-POMPEIVS-SEXTI PRAE /All' limi- IVSTVS

QVEM -TENVIT- MAGN i ' innm' inii-tiiVS INFELIX -CENITOR-GEMINA ' iiii- mn niiCTVS

A-NATIS-SPENRANS-QVi-DEDir mi i.iOS AMISSVM ' AVXILIVM FVNCTAE POST ' lllit NATAE

FVNDITVS-VT-TRAHERENT- INVIO r liii ' lAREM

QVANTA lACET PROBITAS PIETAS QVAM VERi "

liiVLTA-EST

MENTE -SENES-AEVO-SED -PERIERE. mH QVIS NON FLERE - MEOS CASVS POSSITQ DOLORE

Hi ' VRARÉ QVEAM BIS DATVS - ECCE ROGIS SI SVNT Di -MANES lAM NATI NVMEN -HABETIS

PER VOS evi VOTI NON VENIT HORA MEI

Valendomi d'una egregia correzione del signor Henzen nel verso quinto e di alcune osservazioni ingegnose del mio amico Pietro Esseiva di Friburgo, valente poeta latino, au- tore della Urania^ d'una Satira ad iuvenem e delTelegia Gaudia domestica premiate nel 1870, 1872 e 187*3 dalla Reale Accademia di Amsterdam, io propongo la seguente ricostruzione deirepitafio :

- 560-

Hic soror et fra:er, viventes cura parenris,

Aetate in prima saeva rapina iacent, Pompeia his tumulis comitem anteit faneris, haeret

Et puer, inmites quem rapuere Dei, Sextus Pompeius praeclaro nomine Justus,

Queni tenuit Magni laudibus ampia domus. Infelix genitor, gemina male prole relictus,

A natis sperans, qui dedit ante, cibos. Amissum auxilium functae post ardua natae,

Funditus ut traherent invida fata larem. Quanta iacet probitas, pietas quam vera sepulta est !

Mente senes, aevo sed periere brevi. Quis non Aere meos casus possitque dolere?

Num durare queam bis datus qccq rogis? Si sunt Di Manes, iam, nati, numen habetis;

Per vos cur voti non venit bora mei ?

Non mi pare inutile l'aggiugnere alcune spiegazioni a que- sto testo. La prima si riferisce al primo paio di versi. Che la sorella e il fratello siano chiamati cura parentis, mentre vivevano, e dopo la loro morte saeva rapina, è assai na- turale. Tuttavia giova addurre per il primo quel che Orazio scrisse di Barine, iuvenumque prodis publica cura {Od. II, 8, 7) e un verso più opportuno di Ovidio negli Amori (III, 9, 17): At sacri vates et Dipum cura vocamur\ per Taltro un passo di Properzio, dove Iscomache è chiamata Centauris medio saeva rapina mero (II, 2, 62).

La restituzione del secondo distico è più incerta e più difficile. Incominciando dal pentametro, in cui il compi- mento del vuoto ci si offriva a prima vista, quem rapuere Deiy osservo che il verso ha due sillabe di troppo, donde segue che o il verbo haeret o il nome puer devesi cancellare. Ma siccome, tolto il primo, il soggetto puer dovrebbe riferirsi

561 ~ aìVanteti , donde nascerebbe un cattivo senso, da prima io pensava di attribuire il puer ad un errore dello scarpellino e leggeva: Haeret et inmites quem rapiiere Dei, col soggetto Sextus Pompeius nel verso seguente. Ma per quanti sforzi facessi, non mi riusciva una probabile restaurazione del verso terzo; per lo che fui costretto d'adottare il parere del signor Esseiva, il quale trasporta haeret dal principio del pentametro alla fine deiresametro. Il lettore, che aveva le orecchie avvezze alla poesia, sapeva che anteit era pronunziato anilt (come si vede nel verso d'Orazio, Te semper anteit saeva Necessiias {Od. I, 35, 17) e in questo altro di Ovidio {Met. XIII, 366): ratem qui temperata anteit Remigis ojfìcium), e si ac- corgeva subito che lo scarpellino aveva posta Tultima voce del verso terzo a capo del quarto, perchè la lunghezza della riga non lo permetteva a suo luogo.

Il quinto verso serba il nome, non del padre, come il Borghesi stimava, ma del figlio, cioè Sextus Pompeius Ju- stus. 11 nome del defunto non manca mai in un titolo se- polcrale, ma abbiamo esempi, nei quali non si trova il nome di chi jfece il monumento. Borghesi giudicava così, poiché nella sua copia v'era un punto dopo Praec, che l'indusse a compiere il vuoto in tal guisa: praeco agnomine Justus. Il figlo defunto aetate in prima e puer, non poteva esser stato pratco; anzi lo era il padre. Ma la congettura non può essere approvata. Reca meraviglia, chela sola lettera finale d^\ praeco sarebbe omessa, mentre che non vi sono altre abbreviazioni che levolgari di Sex. prò Sextus e dipossitq. nel verso i3 prò vossitqtie. D'altronde il sig, Henzen afferma d'aver veduto sulla laolde non già un punto fra Praec e a, ma un tratto poco dbtinto, che parevagli essere il resto d'una L. Però avremo da leggere con lui la seconda parte del verso: prae- da7'o nonine Justus, Nulladimeno il verso rimane vizioso, se non si ammette che lo scarpellino si sia smarrito scoi-

- 562 - pendo due volte il prenome , quantunque in casi diversi, Sek. e poi Sexti. Se non mi sbaglio, dovea scolpire : Sextus Pompeiiis praedaro nomine Jiistiis^ o con inversione non infrequente: Pompeiiis Sextus praedaro nomine Justus. Per dare alcuna base a questa ipotesi basterà l'indicazione di due errori da lui commessi, spenrans v. 8, invece di spe- rans, e nel v. Ti dolore^ dove il senso richiede dolere.

11 verso sesto offre la più grande lacuna, in parte già colmata dal Borghesi. Non è da dubitare che nel suo Magni domus abbia trovato il vero. Manca nello spazio di mezzo alcuna designazione di domuSy per esempio ma- xima honore, proposta dal Visconti, o, come mi pare più elegante, laudibus ampia. In ogni caso queste parole aquem tenui t Magni domus •» indicano che il ragazzo morto. Sesto Pompeio Giusto, era stato il figlio di un liberto di un Pompeio Magno.

Sfortunatamente questo nome non basta per indicare con certezza chi fosse la persona voluta. Borghesi indica due della famiglia di Cneo Pompeio, che primo prese questo cognome, ornati dei medesimo e pare inclinato a ri- conoscere in esso il console del 767 Sex. Pompeius Sex. T. Sex. N.y detto Magnus nei fasti siculi e da vari scrittori. Senza rifiutare questa congettura indicherò un terzo Magno, di cui abbiamo contezza. Egli è il genero dell'imperatore Claudio, il anale ^li restituiva Tantico cognome loltoai da Cesare Caligola, come narra Svetonio in Calig. 35 e Cassio Dione LX, 5. Inoltre sappiamo che questo d'allora in poi non fu chiamato Cn. Pompeio Magno, ma Magno Pcmpeio, come si legge negli atti dei Fratelli Arvali (Marini F. 76), o col solo nome di Magno, come ne fa fede Dione LX, 2 1 .

Gemina male prole relictus , supplito nel verse settimo dairEsseiva, non s'allontana molto dal gemina Ì2m prole relictus di Visconti. La lunghezza deirultinia b gemina

-583 prova eh' e un ablativo, e la terminazione ctus deirultimo vocabolo non permette la restituzione: gemina modo prole beatus. Di buon grado cederemo il supplemento per uno migliore, sebbene la costruzione di relictus col nudo ablativo possa scusarsi colUVutorità di Properzio nel verso seguente: Et modo servato sola relicia viro (II, 19, 32).

Il dattilo perito nel v. 9 non si può indovinare con cer- tezza. Visconti scrisse funera. Ma è più acconcio schivare la cacofonia, prodotta dallo stesso suono delle voci functae, funera, functus, mólto piace la locuzione post funera natae f linci ae^ poiché ào^o funera la giunta functae, che vale defunctae, vita functae, è affatto inutile. Quel ch'io scrissi, functae post ardua natae, sarà la voce propria, in caso chela figlia sia estinta dopo una vita malagevole, dopo molti aifanni, perchè ardua, sostantivamente adoperato, vale lo stesso che res ardua, nel verso notissimo: Aequam me- mento rebus in arduis Servare mentem. La brevità della sua vita almeno non esclude questa supposizione.

Il resto delPepitafio è meno guasto e la restaurazione si fa senza fatica e senza grande tema di errare. Dunque non parlerò di ciò e finirò queste spiegazioni sviluppando il mio parere sulla interpunzione del penultimo verso, che per buona fortuna è serbato integro.

Tanto la usata combinazione di Dii Manes in titoli se- polcrali, quanto Tuso del genitivo singolari? nati nella frase nati numen habetis^ dove il padre dovea parlare di due figli e dire natorum, vieta l'accettare Manes per vocativo. Dunque il padre indirizza il discorso ai figli, e nati è vocativo. Così il padre, forse ricordandosi del properziano Sunt aliquìd Manes, letum non omnia finii, a'inenonon incredulo, come coloro che negavano esse, aliqvi^s manes et subterranea regna,, di cui parla Giovenale (^Sa^ II, 149}, deduce dalla supposta esistenza degli Dii Manes, cho i saoi figli avitl^-

534 - bero già un nume, una potestà divina, e li prega di acce- lerare la venuta dell'ora da'suoi voti domandata. E affinchè niun dubbio rimanga sul nume attribuito ai defunti, alle- gherò la preghiera di Briseide presso Ovidio {Heroid. Ili, io5): Perque trium fortes antmas, mea numina, fratrum e un passo nel poema di Silio VI, 1 13; testor mea numina Manes.

Ciò detto, congedo il benevolo lettore, coi due notissimi versi:

Vive^ vale. Si quid novisti rectius istis, Candidus imperti; si non, his iitere mecum.

A msterdam , , Maggio 1873.

I. C. G. BooT.

LIV^GUA E "DIALETTO

Tutti ricordano, o dovrebbero ricordare, le molte dispute che nella primavera dell'anno 1868 ebbe a suscitare la lifilapone suir unità della lingua e sui me^!(i di diffonderla, che, per rispondere all'in- vito fattogli dal Broglio, allora ministro dell'Istruzione Pubblica, la- sciò stampare in un reputato periodico fiorentino l'onorando Manzoni. Molli che la Relazione fini di persuadere o addirittura convertì pre- sero a divulgare e a difendere le dottrine del maestro; ma non minore fu il numero di coloro che voHero oppugnarle. Se non che questi, bisogna dirlo per amor del vero, pur accennando qua e ad osser- vazioni giuste e ragionevoli, non seppero in fondo che ricantare dot- trine vecchie e sfatate, fraintesero bene spesso il formidabile avver- sario, e non tutti si ricordarono, purtroppo; quanta riverenza do- vesse usarsi nel contraddirgli, È inutile dire che niuno riuscì a fare una critica compiuta e profonda della tesi manzoniana, e ad esporre altra dottrina ragionata ed organica. È inutile anche dire che

- 565 - quegli i quali si attennero ad una via naezzana non riuscirono a nuìla

di preciso e di giusto. La vecchia massima che la virtù sta nel mezzo è una grande allettatrice ; ma si dovrebbe pensare che essa, come tutte le massime generali, non è vera se non in parte e sotto un certo aspetto; giacché il mettersi in mezzo fra due opinioni estreme può menare del pari a cose assai diverse, a conciliare cioè quel che c'è di vero in entrambe, o ad accozzare invece quel che v' è in entrambe di erroneo (i).

Io sono stato per un bel pezzo un manzoniano arrabbiato (curiosi scherzi del linguaggio che trova mezzo d'accozzare insieme Manzoni e rabbia!), ed ho fatto anch'io qualche piccola scaramuccia in difesa della rcÀafede, riserbandomi di giustificare con molte ragioni tutto il mio credo^ in un lavoro che mi proponevo di fare sul famoso libro di Dante intorno alla volgare eloquenza (lavoro che ancora spero fra non molto di dar fuori, ma senza più ninno intento polemico]. A quando a quando però certi dubbii mi si affacciavano alla mente, a cui rispondevo alla meglio. Soprattutto la questione della pronunzia che generalmente è stata appena sfioraia, ed a cui io ho prestala in- vece moltissima attenzione, mi suscitava di quei tali dubbii in gran numero, e non poco tormentosi; non tanto a dir vero per l'impor- tanza che pur la questione della pronunzia deve avere, ma principal- mente perchè vedevo gli stessi dubbii per l'appunto potersi analoga- mente fare altresì per gli altri elementi della lingua.

I dubbii mi venivan sempre crescendo, finché un bel di dalla ge- nerosa indulgenza dell'autore mi giunse il Proemio dell'Ascoli al suo prezioso Archivio glottologico. Colà ritrovai tutti i miei dubbii mu- tati in obbiezioni sicure e poderose, vi ritrovai dentro tutte le ragioni che

(i) Io non ho il mezzo la voglia di fare qui una compiuta biblio- grafia delle dispute che si fecero. Solo non voglio lasciare di ramnnentare al- cuni scritti o allora o poco dopo venuti in luce, che per un verso o per l'altro nii paiono degni di nota. Oltre gli Scritti varii sulla lingua e VQ/ippendice alla ^ela^ione del Manzoni stesso, e la lettera a (Quintino Sella premessa dal Giorgini al U^ovo Vocabolario italiano che s'è cominciato a stampare a Fi- renze il 1870, sono notevoli gli scritti del Puccianti (Pisa i8d8), del Buscaino- Campo (a4ppendice agli studii varii. Trapani 1871), dei Bernardi (d'avvia' mento all'aite del dire, Montecassino 1869; lez. XH), del De Meis {fDopo la Laurea, v. 1°, p. 437-42), del Fornrri (Propugnatore, a. 1°, fase, i"), del Tabarrini('7^e/a;fio«e sui lavori della Crusca nel 69 e 70), dell'Imbriani (*Z)/a- loghetii sei, inseriti nella 'Tatria di Napoli, marzo 1868), di Pier-Vincenzo Pasquini, del Broglio, ecc., ecc.

566 - laute volte mi erano balenate alla mente, e molte altre ancora a cui non avevo mai pensato, e tutte mirabilmente concatenate e vigorosamente ed argutamente espresse. Mi trovai allora posto in una nuova corrente d'idee, e subito mi sentii la voglia di riprodurre la nuova . sequela di pensieri che i dubbii vecchi e l'influsso nuovo determinavano in mente mia, e mi vennero così scritte ìe pagine che oui seguono. Le quali sarebbe addirittura inutile dare in luce se pretendessero di com- pendiare o di parafrasare il robusto Proemio dell'Ascoli; ma che, es- sendomi venute spontanee e naturali dopo la lettura di quello, e ri- producendone solo alcuni concetti in un ordine e in una forma al tutto diversa e più facilmente atta a divulgarli presso un maggior nu- mero di lettori, non riusciranno, credo, interamente vane.

Non mi vergogno d'avere un po' mutato di parere, perchè non credo d'esser tornato indietro. Dei resto nella dottrina manzoniana io scorgo ancora molti lati veri, anzi nessuna dottrina pare a me che si sia tanto avvicinata alla vera, quanto quella del gran Lombardo. E se trovo qualche obbiezione da farci, non è certo il Perticari che me la suggerisce.

In punto di lingua è generalmente usato fra noi di confondere la questione storica con la questione pratica. V'è chi ha negato che la lingua colta comune sia nata a Firenze e ne ha quindi dedotto che non ci fosse bisogno d'andarla ora a studiare colà; v'è chi ha invece sostenuto che la lingua che noi tutti scriviamo oggidì è nata in Fi- renze, e ne ha quindi concluso che a Firenze debba andarsi a cercare il compimento e la purificazione della lingua, che sentiamo ancora imperfetta. Ma si sarebbe dovuto, mi pare, distinguere l'una questione dall'altra. Può esser vero, come è vero Infatti, che la lingua sia nata a Firenze, e può insieme esser vero che una volta uscitane non sia lecito attuabile il farcela tornare per forza.

Fare un'accurata distinzione tra le due questioni e dimostrare come vadano risolute ognuna per conto suo, è lo scopo che io mi propongo di raggiungere con queste pagine.

11 Trissino, il Perticari e i seguaci loro pretendevano che la lingua colta d'Italia fosse stata non si sa come fabbricata dagli scrittori, mo- dellata secondo un certo ideale linguistico ; gli scrittori l'avrebbero formata ripulendo ciascuno il suo dialetto nativo secondo un tipo astratto di gentilezza e di pulito favellare. Ma quale potè mai essere questo ideale astratto che facesse preferire un suono a un altro, quando tra i due suoni nessuno era intrinsecamente più bello o più armo-

- 567 - nioso ? L'Abruzzese era dal suo dialetto spinto a dire e scrivere isso e quisto, che non suonano punto male e per giunta serbano intatto l'i latino; e avrebbe scritto esso e questo, che sono più alterati e non sono più belli, per amore della gentilezza e dell'armonia? E il Ro- mano avrebbe smesso il suo latinissimo e armoniosissimo pèrsica e adottata quella contrazione che è pèsca, per ingentilire la sua parola?.' E il Milanese abbandonò il suo se no (logicissimo quanto il tede- sco man kann nicht) e disse non si può, per assumere forse un costrutto più logico e naturale? Ma allo spiritò del Milanese niente è più lo- gico e conforme che il suo se no, che ei dura anzi infinita fatica a smettere, e a cui torna avidamente quando può! Tutte adunque queste preferenze di suoni, di parole, di costrutti alieni dal dialetto proprio, ai suoni, parole e costrutti suoi naturali, ogni colto Italiano deve averle fatte, non per cercare cosa che al suo spirito paresse più regolare, ma sagrificando anzi quel che per lui era naturalmente sem- plice e regolare! E quando di più si pensa che tutti gl'Italiani si sono incontrati nel preferire le stesse forme per l'appunto, il che sa- rebbe stato impossibile quando fossero dovuti arrivare alle forme scritte mediante sottili giudizii artistici; e quando la più superficiale osserva- zione basta poi a farci vedere che queste sono quasi sempre le forme del dialetto fiorentino, forza è concludere che tutti gl'Italiani non hanno abbandonato i vezzi, le abitudini, le leggi, le forme del dialetto pro- prio, se non per adottare i vezzi e le forme del fiorentino ; e solo per- chè il fiorentino s'è saputo imporre a tutta Italia come lingua della coltura. Cosa del resto naturalissima, quando si considera che per più di due secoli la Toscana, e Firenze in ispecie, fu il centro della col- tura- italiana; che spiegò un'energia non solo superiore ad ogni altra città d'Italia, ma mirabile e singolare in tutta la storia umana, da non trovar confronto che in Atene ; e diede alla nazione intera una serie di maestri d'ogni arte e d'ogni dottrina, Dante, Petrarca, Boccaccio, Lionardo, Machiavelli, Guicciardini, Michclngnolo, Galilei! Il pen- siero venne a noi di Toscana, incarnato in forma toscana, e noi ci sentimmo irresistibilmente tratti ad assimilarci l'uno e l'altra. E quando quest'assimilazione fu più o meno raggiunta, allora, un po' per natu- rale illusione, un po' per maliziosa ingratitudine, molti non Toscani credettero d'essersi fatto da quel linguaggio che loro era venuto di Toscana; decrescendo sempre più l'energia della Toscnna e crescendo quella d'altre provincie parve sempre più legittimo il rinnegare ogni dipendenza da quella; e nacquero le quistioni sulla lingua. L'uomo fatto

568 adulto morse la mammella della madre ormai vecchia, dalla quale aveva da bambino avuto il nutrimento. L'uomo disse che ei si mo- veva benissimo da sé, e che non sapeva capire come la madre sua dicesse averlo già portato nel suo grembo.

Non mancarono i Fiorentini, e talora anche altri Italiani, di met- tere in rilievo il fatto della origine fiorentina della lingua colta ita- liana (i); molti scrittori lo confessarono di transito come la cosa più naturale del mondo; i volghi stessi italiani seguitano ad attestarlo chiamando tosco o toscano il parlare scelto e pulito. Ed ormai chiun- que abbia la benché minima intelligenza della scienza glottologica e professi il più elementare ossequio alla storia, non può aver dubbio, che il fondo della lingua che parliamo e scriviamo fra noi Italiani sia il dialetto fiorentino, che gli antichi nostri scrittori, fiorentini la più parte, adoprarono negli scritti loro, incorporandovi, tutt'al più, qualche voce o modo, preso o da altri dialetti italiani, o dal francese e dal provenzale, o dal latino che, come lingua antica e tradizionale della nazione, esercitava un'influenza continua ed efficacissima sulla nascente lingua volgare (2). Se non che le dottrine trissiniane e per- ticariane hanno per si lungo tempo confuse le idee ai letterati nostri, che deve farsi un gran merito alla scuola manzoniana, d'averci ri- chiamati con tanta insistenza e con tanta eloquenza alla verità slorica.

Ma oltre la tesi storica i manzoniani sostengono anche una tesi pra- tica: l'unità di linguaggio tra le varie provincie italiane, essi dicono; la compiutezza idiomatica che ci dia il mezzo di chiamare ogni cosa con un suo nome certo, fisso, preciso ; la vivacità e freschezza popò-" lare, sono adesso assai imperfettamente conseguite. Per ottenerle dav- vero non e' è altro mezzo che scegliere un dialetto solo e quello ge- neralizzare; e tra i dialetti la scelta deve senza dubbio cadere su quel dialetto che per nove decimi è già divulgato in tutta Italia, sul dia- letto fiorentino.

Anche in questa tesi pratica si racchiudono alcuni desiderii ed al- cune esigenze assai ragionevoli, le quali possono anche stare senza

(i) Chi non rammenta, p. es., con quanta verità abbia difeso i diritti del fiorentino il V'archi neWErcolano'i

(2) Il latinismo si risente spesso persino nella fonetica. Tt'bblico p. es. si è scritto per influsso latino, che altrimenti il gruppo bl ripugnerebbe all'organo popolare loscano'col quale s'accordano in ciò moltissimi altri dialetti italiani). Infatti le voci toscane plebee sono, o con mutazione d' / in r prubbico, o con metatesi dell' / e col normale trapasso di pi in pj piuvico.

-569 l'adozione dell'uso attuale fiorentino (si badi bene), ma che ad ogni modo sono state esse a far concepire il desiderio di una tale ado- zione, e che mediante questa, se la fosse possibile, verrebbero ad es- sere certamente appagate. Eccole qui esposte.

Se Firenze avesse seguitato ad avere una coltura concentrata, vivace, mobilissima, efficace su tatta Italia, la lingua si sarebbe andata sem- pre movendo colà assieme al pensiero, e di colà sarebbe stata attinta via via da tutta Italia. Oppure se invece vi fosse stata una equa distri- buzione di attività in tutta Italia, se l'energia del pensiero vi fosse stata grande ed operosissima, la lingua, pur restando in fondo del vec- chio stampo fiorentino, si sarebbe mossa ed aumentata per aggiunte fatte da scrittori d'ogni parte d'Italia, sarebbe risultata dalla grande conversazione delle iiiiellige}ì:[e nazionali. Ma in Italia non è successa l'una, l'altra cosa. Firenze ha deposto il suo prinaato e la sua dit- tatura; l'Italia tutta non ha avuto un moto intellettuale omogeneo e vivido; sentendosi dunque sfuggire una norma viva e sicura di favella, la lingua nazionale genuina si è dovuta andarla a cercare in quei primi classici, in quei grandi che primi ce l'avevano insegnata. Le tendenze stesse artistiche della nazione nostra ci spinsero ad inna- morarci della tersità classica, della lingua già nobilitala e santificata dall'arte degli scrittori. Quindi fonti veri di lingua furono ritenuti gli scrittori anteriori. Ai quali si venne perciò ad attribuire un'autorità strana ed enorme.

Sceltine un certo numero, fattone una specie di canone^ si stabilì che a scriver bene si dovessero usare voci e frasi e costruui usati da loro. Per tutta giustificazione dell'uso d'una parola ecc. si cominciò a dire: ce n'è esempio nel tale o nel tal altro classico; senza considerare se cotesto fosse pure ammirabilissimo scrittore l'avesse o no ragione- volmente adoprata; e senza riflettere se fuori del luogo dov'egli l'avea posta, e fuori del tempo a cui egli apparteneva, fosse o no conve- niente l'usarla. Si confuse il dizionario storico della lingua, lo spoglio di tutti gli scrittori a noi pervenuti, col dizionario dell'uso, nel quale allo scrittore non si può concedere altra parte, se non quella di far testimonianza (quando secondo una sana critica veramente la fa) che una data parola o modo sia usato in quel dato tempo comunemente, o quella di farci scorgere donde sta nata un'espressione che, inventata o introdotta la prima volta da esso scrittore, diventò poi di uso co- mune. Si dimenticò che quel che fa una parola o un modo adope- rabile è non già l'essere stato, comecchessia, usato da un tale, sia pur

li} vista di filologia ecc., 1 38

- - 570 - grande, ma bensì un consenso comecchessia stabilitosi fra quelli che della lingua si servono, un accordo tra loro conclusosi di dare quel dato nome a quella data idea. Il manzonianismo anche su ciò ha ri- stabilite le idee sane e giuste, le quali non è che non fossero prima più o meno trasparenti in questo o quel trattatista, più o meno rico- nosciute od invocate in questa o quella questione speciale, ma non erano mai state così accentuate, e così logicamente coordinate e con- dotte sino alla più rigorosa conseguenza, come dai manzoniani si è fatto.

Il purismo teneva buone sole le parole di certi scrittori e di certi dati secoli, e invaghito dell'arcaismo teneva che le parole possano avere come un merito e una bellezza intrinseca, prescindendo rial loro essere o no ricevute comunemente e dal riuscire per tutti significative di certe idee. Il manzonianismo ha scosso, o meglio finito di scuo- tere cotesta idolatria, e cotesto vezzo di attaccare alle parole un certo pre^^o d'affezione, se così si può dire; e ha sostenuto con gran ra- gione che le parole in tanto han valore in quanto richiamano pronta- mente le idee che son destinate a significare, cosicché le parole attual- mente usate e che spontaneamente ci vengono sulle labbra o alla penna son perciò solo buone, ed anzi le sole buone, non essendo più buone in niun modo le parole che per una ragione qualunque, sieno pure state adoprate da scrittori valentissimi in epoche di grande splendore di lettere, son oggi divenute oscure, o troppo insolite e ricercate.

Inoltre la scuola manzoniana, ribellatasi alla maniera e al conven- zionalismo in qualunque campo dell'arte e sotto qualsivoglia rispetto, ha combattuta acremente la vecchia abitudine della pomposa forma accademica e (d'accordo, bisogna notarlo, con altre felici tendenze dell'etì nostra) ci ha inoculato come un abborrimento per quegli am- biziosi travestimenti del pensiero, a cui eravamo usi, e un desiderio intensissimo di esprimere i nostri concetti in forma semplice e natu- rale, conforme all'indole vera delle nostre favelle volgari, quale la si rivela nei dialetti, mentre vedesi per contrario continuamente falsata nei periodoni artefatti, e spesso latineggia nti, di molti dei nostri classici.

Tuni cotesti ragionevoli e utili principi! della scuoia manzoniana, come ho già detto, possono anche stare e valere di per sé, senza che si parli punto di fiorentino (i) ; però chi proclami l'uso attuale fiorcn-

(I) Difatti il Maestro gli aveva tutti anche prima di pigliare a proteggere il fiorentino, e di mettersi, com'egli disse, a lavare i suoi cenci In Arno. Oltreché

571 - tino, cotesti principii li viene necessariamente ad includere, insieme col resto. E, sia detto in parentesi per non anticipare troppo, può forse con la ragionevolezza loro dare una luce di riverbero anche a quel resto ; e può dimenticare facilmente che di questo resto quei prin- cipii possono anche far senza.

Ad ottenere una lingua unica, fissa, popolare, moderna^ non e' è mezzo più adatto che adottare l'uso attuale fiorentino ; questo si dice. Ma io ho parecchi dubbi : i* se la mancanza d'unità di lingua sia tanto notevole quanto si dice; se non si sia già formato un uso aU tuale letterario^ un consenso cioè di lutti i colti Italiani rispetto all'or- tografìa, alla grammatica, alla sintassi, al lessico, consenso che si ri- ferisce a quelle tra le tante forme, voci e costrutti, che han finito per prevalere, fra coloro beninteso che non si mettono di proposito a ri- produrre le forme arcaiche e ricercate; se dove cotesto uso attuale letterario è in discordia coll'uso attuale dialettale di Firenze, sia legit- timo sbandire l'uso letterario già costituito per sostituirgli l'uso dia- lettale; — 4* se, anche dove l'uso letterario è realmente insufficiente, sia teoricamente legittimo e praticamente attuabile il supplirvi con l'uso dialettale fiorentino.

£ incominciando dal primo dubbio, che l'unità della lingua sia così scarsa come si dice e come pur dovrebbe essere per preoccuparsene così premurosamente, mi sembra, se ho a dirla schietta, una esage- razione.

Volta e gira, quando scendono al concreto (che non è cosa frequente) e recano qualche esempio, i manzoniani non riescono mai a citare un concetto astratto, un sentimento, od altra cosa simile, che non si sap- pia italianamente denominare, ma sempre devono fermarsi a qualche oggetto materiale: al grappolo d'uva, alle falde da tener su i bambini che non si reggono ancor ritti, ai piselli, al soffietto e cose simili. Ora io non dico che la stessa unità di nomenclatura degli oggetti materiali non sia per una nazione un bene desiderabilissimo; voglio solo dire che se si tratta solo di questo, della mancanza cioè di una certa parte di nomenclatura materiale, e' non c'è poi da disperarsi tanto; è proprio anzi il caso di dar tempo al tempo.

ognuno può aver osservato che oggi moiti, senza la minima intenzione di fio- rentineggiare, sol perchè intenti più al pensiero che alle ambizioni della forma, o perchè dcstderoei di farsi capir bere e di piacere a tutti, acrivono in modo da avvicinarsi moltissimo alla forma inculcata dai manzoniani.

572

Il fatto è che da secoli noi Italiani stiamo comunicando e disputando gli uni cogli altri di poesia, di arte, di storia, di scienza politica, di critica letteraria, di estetica, di morale, di filosofia, e, mettiamoci an- che, della quistione della linguai Eppure chi oserebbe dire che le in- venzioni più o men belle, le dottrine più o men sane, le ragioni più o men giuste, i frizzi più o men ingegnosi, le insolenze più o men vil- lane, che abbiam voluto scambiarci, non si sia riuscito ad esprimerle e ad intenderle? Di piìi; si sono introdotte ai nostri in Italia scienze nate oltralpe, p. es. la linguistica; si son create attività novelle, esempio la vita parlamentare ; or con questa lingua che si dice carica di ricchezza inutile, povera di ricchezza vera, non abbiam riprodotti i più sottili concetti della scienza straniera; e non siam riusciti perfettamente ad intenderci nelle nostre pubbliche discussioni sopra soggetti d'ogni spe- cie? Se il malanno è di non aver pronto un linguaggio fisso comune per denominare alcuni oggetti relativi alla vita familiare, rassegniamoci, e, seguitando su essi ad intenderci (come pur facciamo) per ora alla me- glio, speriamo che lo scambio maggiore, che c"è ora d'ogni fatta d'idee, di parole e di cose tra noi Italiani, ci faccia acquistare presto un'unità di nomenclatura; onde si possa fra poco intendersi perfettamente anche sopra queste piccolezze, come sopra cose più serie (e non bisogna scor- darselo che son più serie) ci intendiamo da tanto tempo!

Io so bene che cosa si risponde: una lingua, si dice, che delle cento cose dicuigl'Italiani'vorrebbLTo (o meglio, potrebbero voler) discorrere fra loro, solo novanta può esprimerle con sicurezza, e le altre dieci si trova imbarazzata a nominarle, sarà bene una parte grandissima di lin- gua, ma non è proprio una lingua ; la quale dev'essere un complesso di voci che bastino ad esprimere una totalità di relazioni ideali che pos- sano occorrere tra gli individui d'una società che la usa; la è insomma un organismo, quindi o è tutto o è nulla. Se non che quesl' or g-ani- smo benedetto temo che sia una di quelle tante metafore che sogliono trarre in inganno lo spirito umano. Certo la lingua è un che di orga- nico rispetto alle forme grammaticali e alla sintassi, ma quanto al les- sico sarà pure, se si vuole, un organismo, ma un organismo non tanto collegato, e, per così dire, articolato, che a togliergli una parte e' resti mutilato; sarà tutt'al più come uno di quegli organismi di specie infe- riore, in cui più individui si coliegano a vivere una vita comune, ma senza che, avulso uno di essi, il lutto ne venga a patire. I vocaboli non son legati fra loro da un tal vincolo necessario, che, toltine parecchi,

-573

la lingua resti mutilata o disorganata: tutt'al più resta scemata, im- poverita, ma resta una lingua davvero \

Inoltre, ei non si dovrebbe dimenticare che le lingue scritte, sebbene per lo più non sietio che il dialetto portato dalla parlata alla scrittura, tosto però che le son diventate scritte, e si son proseguite per un pezzo a scrivere, vengono a stabilire via via una cena tradizione letteraria, e da questa tradizione non è mai facile distaccarle, tanto meno poi dove il dialetto, onde prima esse uscirono, per una ragione qualunque non è più stato in intimo nesso con loro. 11 dialetto di un paese solo è diventato il linguaggio degli uomini colli di più paesi, e come tale si è seguitato a svolgere, e dove è andato più in là, dove è rimasto più indietro del dialetto locale. Che fare quando l'abitudine stabilitasi fra i colti della nazione diverge da quella, o tenacemente rimasta, o nuovamente creatasi, fra i parlanti della città? Devono i colti della nazione smetter l'abitudine loro, per assumere quella della città? Ve- niamo a qualche esempio. I manzoniani scrivono ora bono, core, novo anziché buono, cuore, nuovo, e si giustificheranno così: come secoli sono fu legittimo scrivere buono, benché il latino tradizionale desse bO' nus, perché in bocca al popolo era tal voce diventata buono, cosi sarà legittimo scrivere oggi bono, tostochè il popolo ha a tal punto ridotto il buono tradizionale. E certo se il fatto avvenisse spontaneamente, e per conseguenza di un salto così brusco com'era quello dal latino al volgare, niente sarebbe più ragionevole. Ma questo brusco trapasso e totale cangiamento di linguaggio non è il caso nostro, e il bono, voi, perchè altri lo scriva, dovete sudare a comandarlo e raccomandarlo, come un toscanesimo da adottare, e gli altri non vi s'adageranno fa- cilmente; anzi voi stessi poi sdrucciolate involontariamente a scrivere buono, «omOj cuore ! Direte che humanum est peccare ; ma io, a dir vero, quando peccano uomini come voi , quando voi, fermamente intenzio- nati a scrivere in un modo, cascate ognitanto nel modo che volete sbandire, io comincio a capire che ci é su queste, come su altre molte parole consimili, un accordo, un'abitudine già consolidata fra gli Ita- liani, e che il vostro bon toscano, e il vostro novo modo di scrivere, che volete impiantare per amor dell'unificazione, viene piuttosto che a creare, a turbare un accordo e un'unificazione già operata. E conti- nuando ad argomentare ad hominem giacché gli argomenti a tali, ad ejusmodi homines, son poco meno che argomentazioni ex visceribus causae io direi che se per seguire l'attuale uso di Firenze si deve scri- vere bono, s'avrebbe per la stessa ragione a scrivere sceti^a (parola che

-B74 in latino è quatrisillaba, in poesia italiana trisillaba e nella lingua no* stra antica e tradizionale è bissilhiba, ma con vero dittongo nella prima sillaba), e C05ce«fa, e così spece, effige, e si dovrebbe scrivere e pro- nunziare sempre de\ a', co\ pe' (i), senza mai attaccarci quell'/ finale che più non si pronunzia a Firenze, e così si dovrà, o almeno si po- trà scrivere a tutto pasto il mi' bambino, la mi' figliola, la su' mo-^ glie, e ha' per hai, e (apriti terra!) un invece di non, giacché è risa- putQ che in tutta Toscana e da qualunque classe di persone così si dice attualmente! Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma questi ba- stano a mostrare che d'attenersi davvero all'uso attuale fiorentino man- cherebbe a tutti il coraggio; o che questo, quando pur si avesse, si avrebbe a chiamare piuttosto temerità ; temerità cioè di voler imporre modi di scrivere che riescono o nuovi o almeno troppo ricercali, e disturbare così consuetudini già ferme e divenute istintive presso ogni colto italiano. Si potrà forse dire che questa è quistione di pronunzia e non di lingua veramente; ma all'argomentazione mia che corre per la pronunzia altre analoghe se ne potrebbero fare per la lingua. Ol- treché la pronunzia, la fonetica, spetta a quanto vi è di più caratteri- stico ed organico in un linguaggio o in una data epoca d'un linguaggio, ed è poi così tremendamente estesa che molte questioni si potrebbero in fondo ridurre a questione di pronunzia. Il fiorentino dice oggi radino, e noi pur seguitiamo a scrivere vadano (che non è più vi- vente) ; in omaggio a che, di grazia, se non all'uso tradizionale lette- rario ? E perchè non scriviamo, qvialche volta almeno, volse per volle, se non perchè l'uso letterato ha prescelto questo > Anzi, si badi, vadino e volse, ecc., si potrebbero giustificare' anche con molti esempi di scrit- tori classici, oltreché con l'uso attuale fiorentino; eppure noi, come avremmo trovato reo d'affettazione un purista che l'avesse scritto per mare una forma di classico, così daremmo ora la stessa taccia a chi lo scrivesse in omaggio all'uso attuale. Sicché per diverse vie pare si possa riuscire allo stesso, alla pedanteria.

Che s'avrebbe poi a dire dei possano per possono, dei dicano per di- cono, dei potrebbano per potrebbero, che oggi, fuori del caso che in-

(i) Difatto in una sua bella Prolusione, letta, mi pare, a Siena il i85g, il Gjorgini scrìve addirittura de (sic) per dei. Si potrebbe dire ch'io vado in cerca di minuzie, ma non potrebbero però lagnarsi di questo i manzoniani, i quali in questa faccenda han portato b cose a tale logica conseguenza, che presso loro ogni più piccolo fatto deve poter provare per tutto il complesso.

-575-

tenzionalmente vogliano seguir l'uso letterato, esclusivamente adoprano parlando i Toscani? Non è che io ritenga reprobe e spyrie cotali forme, sol perchè non note alla lingua colta ; le sono anzi per me, come per ogni buon studioso di linguistica, forme spiegabilissime e legittime quanto ogni altra forma di ogni altro linguaggio. Ma solo mi parrebbe ridicolo l'adottarle artificialmente in una lingua che non ne sente il bisogno, e che anzi finirebbe a riceverne Dio sa quale confusione, stanti alcune coincidenze delle forme attuali, p, es. dell'indicativo, con quelle tradizionali del congiuntivo, del possano popolare indi- cativo col possano tradizionale congiuntivo.

Ma il fatto è che anche gli scrittori, a furia di discorrere con la penna tra loro per anni e secoli, vengono a prendere delle abitudini comuni e delle inlese e degli accordi spontanei od anche riflessi, e cosi un uso letterario si forma ; uso trasmutabile anch'esso, ma uso a e per sé. E se questo uso in Itaha si è facilmente sconosciuto, egli è stato per- chè per uso degli scrittori si è solitamente inteso tutto il complesso delle parole, modi, capricci, bizzarrie, che un certo numero di scrit- tori canonizzati han creduto di adoprare ; e è creduto di poter giu- stificare l'uso d'una parola o d'una forma col solo provare che ce n'è esempio in Machiavelli o in altro autore, non sceverando così di tutto l'inventario delle parole degli scrittori le ancor vive dalle già morte; e dall'altro Iato poi ostinandosi a far che nell'uso letterario non avesse a entrare nulla di nuovo, di cui paresse bensì sentirsi il bisogno, ma di cui la lingua mummificata e santificata non avesse avuto sentore quando era viva. Ma chi, scossi cotesti pregiudizi!, cerchi in buona fede l'uso vivente letterario, lo troverà certamente, e lo ravviserà in tutte quelle forme e in quelle voci che un consenso, comunque formatosi, fra gli scrittori e i colti parlanti (e non si può negare che in Italia si é stabilito incerti casi in modo irragionevole ; ma ormai è formato!) ha preferite, sopprimendo per ragioni buone o cattive le altre. Così è potuto seguire che alcuni prosatori, che certo non hanno avuta nessuna pretesa di tosca- neggiare, han pure scritto in un modo di che il gusto moderno non si offende menomamente; e il Leopardi sia citato per tutti. E a un tale uso letterario alludeva Orazio in quei famosi versi, ove gli attri- buisce « arbiirium et ius et norma loquendi », il che si può certo ap- plicare anche all'uso popolare dialettale, ma non attribuendo però, come da alcuni si è fatto, ad Orario stesso l'intenzione di una tale applicazione, tostochè il contesto suo vi ripugna assolutamente.

In tesi generale, il dialetto non è certo niente di sostanzialmente

- 576 - diverso dalla lingua, ed era un grossolano pregiudizio quello di ve- dere nel dialetto un non so che d'illegittimo, di triviale, di corrotto. La lingua stessa deve aver per base uno, o almeno più dialetti affini (i . Se non che, dal momento che l'uno o i più dialetti si scrivono e di- ventano organo di comunicazione fra una società di scriventi e di parlanti con arte, quel linguaggio che ne risulta, non solo essendo più elaborato dalla riflessione si svolge da indi in con un certo proce- dimento non del tutto identico a quello .:oa che svolgesi un dialetto puramente parlato in un sol luogo ; ma, quando pur si voglia credere che si svolga in modo perfettamente analogo a quello di un dialetto qualunque, si svolge però sempre in un modo propriamente suo giac- ché esso è ormai diventato un altro dialetto, se si vuole, e niente di meglio, ma sempre un dialetto a sé, un altro dialetto, il dialetto de- gli scrittori, soggetto a vicende sue proprie. Vicende, siano fonetiche, siano ideologiche, dello stesso genere suppergiù di quelle che possono aver luogo in linguaggi dialettali; ma che sono in esso proprio quelle tali ed in quel certo numero senza riguardo a ciò che al dialetto parlato, onde prima ei sorse, possa piacer di fare. 11 dialetto è la lingua di quei che un muro ed una fossa serra ; la lingua è il dia- letto degli uomini colti e scriventi di una o di più città.

Tutt'al più, colà dove la società dei colti coincide materialmente col popolo di una data città, dove il pomerio della città è insieme il limite della sua coltura, com'era per esempio in Atene, il dia- letto e la lingua saran quasi una cq§a sola (con questo però di diffe- renza che la lingua colta va sempre più a rilento nell 'adottare le forme pur mo* nate). Ed egli è certo naturalissimo che Platone, ateniese, scri- vendo in Atene e per gli Ateniesi, e riproducendo artisticamente quelle lepide e vivaci e sottili conversazioni che tuttodì si facevano sotto i portici e nei viali ateniesi, scrivesse press'a poco come ogni colto ate- niese parlava ! Ed è quindi anche naturalissimo che egli dica la lingua non si poter imparar dal maestro, bensì succhiarsi col latte! (2). An-

(i) Non per forza uno solo, come si dice fondandosi sull'esempio del latino e del francese, e trascurando i molti esempii contrarli.

(2) Il Bonghi nelle sue eccellenti Lettere critiche, riferendo cotesto detto di Platone, nota che esso avrebbe fatto ridere di compassione il Cesari ed il Puoti, che tra i meriti principali della nostra lingua mettevano questo, che, anche a studiarla tutta la vita, non si viene mai a capo di saperla tutta. Cer- tamente bisogna dire che il Cesarie il Puoti avessero della lingua un ben cu- rioso concetto! Ma d'altro lato, se il concetto che n'avea Platone era adatto

577 che dove la società degli uomini colti e scriventi, sebbene diffusa sopra ampio paese, s'accentra però in una città sola, com'ha luogo p. es. in Francia, dove Parigi raccoglie e attira a il fiore delle in- telligenze nazionali, è il gran crogiuolo del pensiero comune, «è, come fu detto, il cervello (se vogliamo, non sempre immune da congestioni e da ebbrezze, ma insomma il cervello) della nazione; anche dialetto e lingua quasi coincidono ; anche perchè il dialetto stesso non è più il dialetto quale sarebbe divenuto abbandonato a stesso, ma quale risulta per essersi usato di continuo come lingua , vale a dire come istrumento d'un pensiero più colto e destinato a più larga diffusione che non sarebbe quella limitata al suolo ov'esso nasce. Ma laddove centro non v'è, o è mutabile; laddove è, come in Italia, avvenuto, che un dialetto locale, dopo essere stato organo del pen- siero dei grandi spiriti di una città, è stato assunto da tutti i colti uomini di una intera nazione a strumento di un pensiero a cui i po- steri concittadini di quei grandi non han presa più parte se non se- condaria; si può egli ritenere non dico praticamente attuabile, ma in diritto e in "teoria desiderabile che tutti gli uomini colti della nazione smettano la lingua con cui alla meglio s'iotendono presentemente, e corrano a informarsi con premura a che ne sia ora quella lingua fio- rentina cui già fece sentire, quale era ai lor tempi, a tutti gl'Italiani la voce robusta ed ascoltata di Dante, di Boccaccio, di Machiavelli e di Galilei? Se i Fiorentini volevano che la lingua non si staccasse dal lor dialetto, toccava a loro di farcela continuamente sentire. Che c'importa che i Fiorentini non dicano più altro che lui, quando a noi tutti Vegli viene spontaneo sulle labbra e alla penna ? E, per fer- marci a un altro esempio, il dativo non enfatico del pronome di terza persona è per il maschile gli (gli dissi = a lui dissi); per il femminile era, nel toscano antico, oltre di le {le dissi = a lei dissi) , anche gli come pel maschile. E bene sta; gli femminile è una legittima deri- vazione romanza del dativo femminile latino illi (illa, illius, illi) omò- fono al maschile, quindi persin più legittimo, latinamente parlando, di le, che è derivato dal dativo femminile latino-volgare illae, coniato sull'analogia de* nomi femminili in a (rosa, rosae). Se non che la lin-

eile condizioni del suo attico, chi potrebbe dire sul serio che un tal concetto sia applicabile ad altri casi in cui quelle condizioni deiratcniese e di Platone non ci son nemmeno per idea^ Dove anderenao a mungere tanto latte da ab- beverare di buona lingua ventisei milioni di uomini?

578 gua letteraria, spinta da un certo desiderio di differenziare il dativo ma< schile dal dativo fcmiuinile (desiderio tutt'altro che riprovevole, sebbene nulla imponga di appagarlo sempre, come di fatti resta inappagato nel latino e nel francese: illi, /u/), è stata propensa ad usare pel femmi- nile piuttosto il neologico le che il più arcaico gli (perciò gli esempi di gli = a lei non mancano negli scrittori, ma san rari). Vennero poi i grammatici, che un po'per la stessa ragione, un po'appoggiandosi sull'autorità degli scrittori, un po'per pregiudizio (credendo essi che gli per a lei non fosse che un'abusiva estensione della forma maschile al femminile), stabilirono s'avesse a scrivere e dire sempre le per a lei. Ed ormai siamo avvezzi a questo, e non è certo uno svantaggio il poter nettamente distinguere i due generi. Ebbene, la parlata fioren- tina ha ora gli per a lei, esclusivamente, e ha fatta (né c'è da fargliene rimprovero) una diversa scelta uaturaley da quella che nel linguaggio italiano s'è fatta. Ma, dovremo noi mutare abitudine per attenerci al dialetto? (i) E, tornando di nuovo alla pronunzia, si deve ben prescrivere agl'Italiani di pronunziare chiusa Ve di vero, aperta Ve di petto giacché questo è di quella parte di fonetica toscana che è imposta di fatto all'Italia, e commetterebbe parimenti un brutto pro- vincialismo il napoletano che dicesse certamènde con e aperta e d per t (quantunque lo stacco dalla Toscana è stato tanto, che cotesti pro- vincialismi non ci si attenterebbe forse a dirli spropositi, come pur sono) ; ma chi però oserebbe prescrivere il così detto e aspirato to- scano? (a) Eppure se la buona pronunzia deve essere la fiorentina,

(x) Gli pera loro (in funzione non enfatica, ma atonica), occorrente anche esso qua e nei classici e d'uso comune ed esclusivo attualmente a Firenze, incontra più favore e meglio si ride dell'abbominio dei grammatici rigorosi per ciò che il loro o lor in funzione non enfatica è troppo pesante ed addirittura sconveniente.

(a) Ho sentito dire da parecchi avversarii, e persino (oh, la logica!) da dei seguaci del toscano, che del e aspirato non si può tener conto, perchè le aspirate ripugnano assolutamente al genio della lingua italiana. Cosioro mi fanno venire a mente un certo paragone non mollo decente, ma molto do- cente (se il bisticcio mi si permette), che è nella bellissima poesia del gran Carlo Porta sul Romanticismo! Come mai ripugnano all'organo italiano le aspirate, quando in una provincia d'Italia, e a confessione di tutti più pros- sima all'italiano scritto, le ci sono?! E lascio poi stare che in molte Pro- vincie italiane occorrono non gli stessi suoni ma degli analoghi, come è per es. in molte parti del Napoletano, dove si ode quel che si potrebbe dire, per seguire la nomenclatura comune, g aspirato {pogheta poeta, tre ghanni tre anni, ecc.). Ed ho detto per seguire la nomenclatura comune, giacché ve-

579 cotesto suono anderebbe raccomandato con tutto il resto! E non è egli peggio quando si tratta di vocaboli addirittura? Prendere voci fio- rentine, non note all'Italia colta, e scriverle e metterle in giro , non già come nuove parole proposte (che ciò è legittimo, e quando si sa fare riesce), ma come parole della lingua che ciascuno sia tenuto ad intendere e gustare, par egli un partito giusto?

Alla ripugnanza degl'Italiani ad adottare il fiorentino si assegnano per motivo primo le maledette gelosie municipali ; ma è presumibile che tutti si muovano per passioni così ignobili, che in tante altre cose ei non sentono? Se le gelosie mimicipali e l'amor proprio di ciascuno che vi si compenetrava furono principal cagione che molti nel cinque- cento negassero l'innegabile fatto storico, esser la lingua colta sorta a Firenze, ed esser essa la lingua fiorentina divulgala e ripulita con l'arte; non si può dire però che quelle gelosie sieno oggi la principal cagione

ramente la scienza non chiama aspirato il e fiorentino (che è una consonante protraibile all'infinito come il eh tedesco, il x greco moderno, il th inglese, il h e kl 6 greco-moderno, 1'/, l'r, l'^) ma spirante, o in qualche altro modo. Lo stesso 8i potrebbe dire del t aspirato fiorentino (a Firenze si sente continuamente Napolethano » e così in altri casi di t fra due vocali); ed anche di esso si troverebbe il correlativo suono mediale nel d di molti dialetti meridionali, ove in sudore, dolore, ecc. il d ha l'identico suono spirante del 6 greco-moderno e deU/i dolce degli Inglesi. Orbene, se Firenze avesse avuta su tutta Italia una influenzacontinua e vigorosa come Parigi sulla Francia, certo oggi tutti gl'Italiani procurerebbero di dire le horna, la havalla: molti forse non ci riuscirebbero, ma non si direbbe esser ridicolezza persino il tentarlo, come invece ora si dice. Non riuscendoci si compatirebbero, come infatti si compatisce adesso il napoletano che dica angora, il veneto che dia frate lo, il ligure che imponga scilensiu all'assemblea che presiede. Ma, come ora si per legge di dire an- cora, fratello, si7ew.fio, così nell'ipotesi da noi fatta sarebbe stata legge pro- nunziare la havalla: una legge però, s'intende bene, non iscevra dal, vantag- gio che han tutie le leggi, di poter essere frodate. Se oggi dunque nessun si sente di impor di dire la havalla., i hani^ egli è perchè ognun sente istinti- vamente come sia assurdo imporre alla nazione quel che non è da saputo uscire dai limiti d'una provincia. M<?tterò qui un'osservazione all'Ascoli, e servirà almeno a mostrare che a quell'alta intelligenza professo non una cacca fides, ma un rationale obsequium. Egli scrive imagine, abondare, abominio, aborrire, àcademia, per attenersi all'ortografia e alla fonia etimologica. Ma in tali parole il raddoppiamento della consonante protonìca è di antica data nel toscano e abbastanza insinuatosi per conseguenza nell'abitudine di tutu Italia. Come dunque giustificare questa velleità etimologica, questa smania di latinità? Il Gherardini almeno anda^^a molto più in là, sostituendo quasi si- stematicamente (anch'egli però non potendo arrivare fino alle ultime conse- guenze) il criterio etimologico al criterio fonetico. Ma questa dell'Ascoli è una Gherardinite sporadica, che non mi riesce di trovare giusta.

580 per che molti si oppongano alla tesi pratica dell'adozione dell'attuale uso fiorentino. È cosa anzi notevolissima, che chi più dubita della pos- sibilità e della legittimità di tale adozione sono i Toscani e i Fio- rentini, e certo non per gelosia municipale! Mi ricordo che a me na- tivo del mezzogiorno è toccato spesso di difendere, quando dimoravo in Toscana, contro dei Fiorentini il lor fiorentino (i). Forse i Fioren- tini, che conoscono minutamente il loro linguaggio, sono più colpiti da ciò che il lor dialetto ha di non letterario, di noi, che impressio- nati di sentire colà dalia bocca persin del volgo molte parole perfet- tamente simili a quelle che siam avvezzi a considerare come eleganze dei libri, siam naturalmente propensi a esagerare l'accordo e perdere di vista le molteplici discordanze tra l'uso fiorentino e l'uso letterario. Non nego adunque che qualche pregiudizio più o men vieto, qualche passioncella più o meno gretta non induca alcuni non Toscani a mostrare una riluttanza troppo risentita; ma in verità quello che spinge i Fiorentini ad]essere spassionati e modesti, e fa noi altri tutti ripugnanti a sottomet- terci, all'autorità loro, è un intimo senso che tutti ci avverte, come non perchè moltissime parole di Firenze seppero divulgarsi e farsi italiane, tutte le altre debbano per ciò solo essere ora ricercate da noi e impo- steci senz'alcuna loro fatica. Noi, quanti sappiamo che l'italiano è sto- ricamente in fondo lingua fiorentina, possiamo per le voci fiorentine che non han passata incerchia antica ammettere tutt'al più che abbiano una certa luce di riverbero, che quasi portino un titolo di nobiltà, un casato, una parentela illustre; non già che sol perchè parenti di quelle altre italianizzatesi debba a loro attribuirsi un'autorità riconosciuta. Ma sono utili quei fiorentinismi, è desiderabile la loro diffusione! Eb- bene, se vi pare che un fiorentinismo sia bene farlo italiano come gli altri, che sia degno di far fortuna, come suol dirsi, fnites-la lui faire! giacché benissimo si ritorce contro loro la bella risposta dell'Accademia francese al Voltaire, che i manzoniani citano così spesso e volentieri a proposito d'altro.

Mentre però non riesco più a convincermi della compiuta verità ed attuabilità della tesi manzoniana, credo si debba pure riconoscere per

(i) Ecco perchè non posso approvare quel modo satirico ed acre che molti, avversando la dottrina manzoniana, adoprano contro i presenti Toscani. Avranno questi \ loro gran difetti, se si vuole, ma spregiarli per questa que- stione, nella quale essi non hanno pretese punto esagerate, ed hanno ad av- vocati, e non pregati, dei non Toscani, mi pare ingiusto.

-581-

quanti versi ella abbia giovato a metterci sulla vera via, e l'utilità grande che ha prodotto sin qui, sebbene indirettamente, o meglio nega- tivamente. Giacché l'abuso di parole morte, di costrutti slavati e senza disinvoltura, di modi astratti senza alcuna vivacità, è stato corretto, ol- treché da altri impulsi, dalla smania (legittima o no ch'ella sia) di fio- rentineggiare. E ne addurrò un esempio tolto dal capolavoro della prosa italiana. Jn un luogo deiTultimo capò dei Promessi Sposi, in un pe- riodo mirabilmente commentato da un mio illustre amico in una sua bella lettera ad un altro illustre di cui pur troppo non ci resta ormai che la memoria ( i ) , si paragona la vita umana ad un letto, e si dice che l'uomo posto sul suo letto si vede attorno tanti altri letti rifatti, dove si figura che ci si deve star benone, e dove, se riesce a mutare, appena accomodato, sente, pigiando, qua um lisca che lo punge, un bernoccolo che lo preme, in modo che poco dopo toma alla storia di prima. Ora, prima che il Manzoni facesse quel famoso bucato in Arno, invece di si figura che ci si deve star benone, diceva con modo punto soave: crede che si debba giacervi soave ,- e invece di qui una lisca, diceva qui uno stecco, e invece di un bernoccolo, diceva una durerà, parola, come ognun vede, astratta e slavata, mentre quel bernoccolo è assai concreto e vivace, e arto a dare una certa tinta satirica, che a quel periodo ò tanto appro- priata ! Orbene coteste correzioni gli sono srate di certo insinuate dal desiderio di fiorentineggiare. Ma ciò, mentre mostra come un tale desiderio abbia resi di bei servigi, non basta a legittimarlo teoricamente. Giacché (se ben si guarda), se quelle parole star benone, lisca, bernoc- colo son quasi messe in vista, e raccomandate dall'attual fiorentino, in realtà però sono pur parole già divenute italianissime, e che sarebbero potute venire in mente al Manzoni anche prima ch'egli si proponesse di fiorentineggiare. A voler vedere invece quanto sia poco legittimo il to- scaneggiare, non per contravveleno ai vizii del passato, ma in e per sé, si immagini il caso che invece di star benone, lisca e bernoccolo, parole che tutti intendono e gustano, avesse il Manzoni scritte tre parole fio- rentine prette, non ancora italianizzate, di quelle tali insomma le quali orasi pretende che gli Italiani si sforzino di capirle e le gustino per pro- getto, e si pensi che bel gusto sarebbe stato mai e come il periodo ei lo avrebbe sciupato, invece che accomodato! lo credo adunque utile l'infìo- rentinarsi(sit venia verèo) bene bene, per questa ragione, che, coincidendo

(i) n)ue letti, Lettera critica ad Q^l/oitso 'Delta Valle di Casanova per Federico Tersico. Estratto dal periodico napoletano la Carità^ quad. XII, a. V.

- 582 l'attuai fiorentino con gran parte dell'uso tradizionale, ci aiuta a imparare prontamente cotest'uso, ci suggerisce anche voci e modi che potendo es- sere generalmente intesi, sebbene non sieno generalmente usati, fuor di Toscana, si possono, usandoli accortamente, divulgare e sostituire via via a modi o troppo slavati o troppo stranieri che oggi usiamo : e un certo intuito felice, un certo gusto delicato avverte io scrittore come e quando possa egli fare opnortunamente una tale sostituzione. Come una buona tuffata nella letteratura del trecento giova a darci una buona educazione linguistica, così la dimora in Toscana, o qualunque altro mezzo la si- muli, conferisce a farci prendere una certa freschezza, e purezza insieme, di linguaggio. Ma a quel modo come il primo fatto non coonesta l'ido- latria sentimentale del Padre Cesari per il trecento, così il secondo non giustifica l'idolatria ragionata del Manzoni per il fiorentino. E, fortuna che la sua rigorosa e inesorabile teoria questi l'ha corretta nella pratica, per quel felice istinto che nelle grandi intelligenze serve a temperare gli eccessi teorici ; che se no forse avremmo oggi pieno di ricercatezze e di affettazioni il più perfetto dei libri nostri! E fortuna ancora che i di- scepoli più zelanti hanno anch'essi robusto ingegno e alieno d'ogni pedan- teria; e riescono così scrittori piacevolissimi. Giacché invero quale forma si può immaginare più netta, efficace e briosa, di quella onde saggio il Giorgini nei suoi scritti; i quali non han che un sol difetto (e lo dico non a maggior raffinatezza di elogio, ma con seria intenzione di bia- simo), quello d'essere pochi? E chi è che per la moltiplicità dei soggetti che tratta, per lucidezza d'idee, per finezza di satira e di brio, e per garbo nel saper dire qualunque cosa con tutti gli scaltrimenti e le cautele dell'arte superi oggi il Bonghi? Eppure questi, che nel i855 si diede con le « Lettere critiche » a fare scaramucce da bersagliere (com'egli disse), in prò della tesi manzoniana, e nel 1868 fece assieme al Carcano (dirò io) da aiutante di campo al Manzoni, sul punto che questi con la « Relazione » impegnava la gran lotta; e' si è così di- lungato dalla norma dell'uso fiorentino, ha tanto spogliato oramai il fiorentino pretto, e tanto ripreso della lingua colta tradizionale, che un vero manzoniano lo troverebbe ora ogni momento in colpa!

Ma se la dottrina del maestro penetrasse in menti non egualmente sobrie ed assennate, noi ci vedremmo presto inondati di popolari pe- danterie, da farci, se non desiderare, che eran troppo noiosi, di certo rammentare i linci e squinci dei pedanti arcaisti.

Un po' se n'hanno anche le prove di fatto. Il Giusti, di cui i Manzo- niani dicono che se ce ne fosse stati parecchi la questione della lingua

- 583 - si sarebbe risolta da sé; il Giusti, e perchè toscano di nascita, e perchè abborrente dalla pedanteria arcaistica, s'era già spontanean^ente dato ai toscaneggiare (ma non propriamente al fiorentineggiare), pur restando in teoria imbevuto di molti pregiudizii letterari! (tantoché, come il Manzoni stesso narra non vo' dir dove, diceva che la prima edizione dei Promessi Sposi gli garbava più della seconda infiorentinata ; il che dopo sconfessò recisamente). Conobbe poi il Manzoni, e se ne lasciò persuadere a credere legittimo anche in teoria quel ch'egli s'era dato a fare per suo gusto, ed a continuare a disegno quel che sin avea fatto per mero istinto. Ora, che il Giusti con le sue prose, e più ancora con le sue mirabili poesie satiriche, contribuisse molto a farci odiare e smettere, e nella lingua e nello stile, la ricercatezza accademica tradizionale; che egli, escludendo quella parte di lingua che è ormai vieta e affettata, e mettendo bene in vista la pane viva e conforme ai sentimento moderno, ci insinuasse il desiderio di riuscire efficaci con la semplicità, ed eleganti a furia di naturalezza-, chi lo potrebbe negare senza mancare, non d'co di riverenza a quel vivace ingegno, ma della più ovvia ragionevolezza? Ma chi ancora può in buona fede disconvenire, che colà dov'egli, o nelle sue poesie, o peggio nelle sue prose, specialmente nelle sue lettere (e più specialmente ancora in quelle al Manzoni, per captatio henevolentiae), accumula voci pret- tamente toscane, e sfoggia in parole, frasi, costrutti, modi proverbiali, popolari, molto toscani e punto italiani, riesce proprio a ristuccarci? E a ristuccare non solo i non Toscani, che anche talora si stizziscono di non capire, ma i letterati toscani persino? E a che grado non ar- riverebbe la nausea se egli non fosse l'arguto e brioso Giusti?

Eppure dove il Giusti ha messe in vista parole toscane di fa- cile intelligenza pei non Toscani e veramente utili, egli ha a quelle fatto far fortuna. Tutto il resto è rimasto a lui, come cosa morta. Giacché non è possìbile che una nazione s'induca ad accettare per progetto, e qtiasi a freddo, una parte di lingua che non sia per la solita via spontanea e naturale entrata nella sua mente. Per divul- gare in una nazione intera, non che una parte di lingua, un sol vocabolo, v'occorre quel mtzio, per il quale ogni dialetto colto è potuto diventare universalmente ricevuto da una nazione: l'uco felice e fortunato degli scrittori.

Bologna, tnaggio, 1873.

Francesco n'Ovmio.

584 CO^Sin[)E%AZJO^Ì

sulla istruzione, soprattutto classica, in Italia

a proposito del recentissimo libro di M. BREAL

sulV istruzione pubblica in Francia

(Conlinu3zione e fine: v. tast:. .", p. o-23; fase. .S", p. 225-246; fase. 7°, p. 3 10-329; fase. 9°, p. 432-455).

VII.

Dalle considerazioni che ti abbiamo invitato a fare con noi, intelligente ed attento lettore, intorno a parecchi vizii gravissimi da cui è travagliata ed isterilita in gran parte la istruzione italiana, ossia sopra gristinti soverchiamente pra- tici, retorici, empirici, sulle tendenze al troppo dommatiz- zare ed allo starsene immobile e finalmente suUavversione alla scienza straniera e sopranutto alla tedesca, tu hai già senza fallo potuto e dovuto scorgere chiaramente quanto sia ancora in realtà, ad onta di tante illusioni e di tante decla- mazioni , deplorabilmente raro fra noi il vero spirito di scienza. In ciò sta la causa e la spiegazione di un fatto, il quale, per le funeste conseguenze che ne derivano inevità- bilmente, è ben degno delle più accurate osservazioni : vo- gliam dire il fatto, che, allorquando si pensa a combattere con nuovi e più efiBcaci rimedi! i morbi ond'è infermo evi- dentemente lo insegnamento italiano, molti, eziandio fra gli uomini colti, onesti e sinceramente desiderosi di vero pro- gresso, sono pur sempre coloro i quali chiedono quei ri- medii non già alla scienza, ma bensì ad altre forze che alla medesima sono estranee.

E qui primo ci si fa innanzi uno stuolo con una ban- diera su cui sta scritto « Ordine ». U ordine^ e solo V ordine, èia panacea, come di tante altre bellissime cose, così eziandio della pubblica istruzione. Volete che ì bimbi d'Italia diven- tino, in pochi anni di studio, arche di scienza universale,

-585 - biblioteche ambulanti, vive enciclopedie? li mezzo è pronto. Fate una nuova legge di pubblica istruzione, nuovi regola- menti, nuove circolari (come le appellano) , nuove istru- zioni, nuovi programmi che determinino sempre più stretta* mente il senso della legge e limitino, quant'è possibile, Tin- dipendenza del professore; fate che quanto resta ancora, pur troppo, di questa pericolosa indipendenza venga scemato da una gerarchia di amministratori, alta come la scala di Giacobbe ; fate, insomma, che il maestro sia non un uomo, ma un automa insegnante, e voi avrete tocco il cielo con un dito. Sciaguratamente leggi, regolamenti (i), cir- colari, né istruzioni, programmi, in gran parte sovente assai poco utili al buon professore, valgono ad infondere miracolosamente la virtù dello insegnar bene in chi non è capace : v'ha direttore, ne preside, provveditore, consiglio scolastico, ispettore, ministro che possa far questo prodigio. La legge a che giova se il maestro non è, per ingegno si per dottrina, atto a compierne i decreti? Impotente a scoprire nuovi veri e metodi nuovi, per lo più guari propizia alle innovazioni, ella non é certo uno dei più efficaci strumenti del progresso: soggetta a mutarsi sotto razione di cause politiche, essa é instabile come le parti.

(i) «Jc crois peu à l'efficacité des règlements ; non qu'ils soient in- différents, mais rarement le bien qui résulte des réformes compensa l'inconvénient de changer ce qui est établi. Jccongois une administra-^ tion ideale qui ne ferait pas un seni arrété nouveau, et se bornerait à un choix de personnes. Les hommes sont tout; les règlements ^ trèS" peu de ckose. » Renan, Questtons contemporaines, p. 103-4. ^"^ Ger- mania il professore universitario non è servo del programma (v. HiL- LEERAND, L'cnscignemeni supérieur en Allemagne [Revue moderne^ t. 45, p. 306); PoucHET, Venseignement supérieur des scicnces en Alle- magne {Revue des deux mondes^t. 83, p. 443)): nel Belgio « les hautes études ont été écrasées sous la plus dure des tyrannies, celle du pro- gramma » Laveleye , La liberté de Venseignement supérieur en Belgi' que (Revue des deux mondts, t. 86, p. 886;.

Tiivisla di filologia ecc., I. 39

586 come gli uomini che salgono al potere e poi ne scendono o ne cadono con perpetua vicenda. Eguali considerazioni si possono fare e furono fatte da uomini autorevolissimi intorno all'amministrazione scolastica (i). Il perfezionamento delia

(i) Ce n'est pas le grand maitre de l'Université, ni le conseil su- périeur, ce ne sont point les recteurs et les proviseurs qui peuvent per- fectionner les mélhodes : ils ne peuvent qu'encourager, accueillir, gé- néraliser les améliorations faites spontanément par l'initiative des pro- fesseurs. Le maitre, dans toute corporation enseignante, est la force organique d'où doit partir la vie et le mouvement. Si vous le rédui- sez au ròle d'un instrument de transmission, vous changez l'ensemble du corps enseignant en un mécanisme qui ne peut ni se perfectionner, ni se renouveler de lui-méme. Comment le professeur modifieraìt-il la forme ou la matière de ses le^ons si la méihode lui est prescrite, si les livres sont indiqués, s'il est jugé d'après les compositions heb- domadaires de sa classe, s'il est enchainé à son programme par des concours périodiques ainsi que par la nécessité de préparer les élèves aux concours ou aux écoles, si des inspecteurs viennent constater l'exé- cuuon du règlement, sans compter le recteur et le proviseur, qui peu- vent à tout instant le rappeler à l'ordre? Plus d'un maitre sent que ce qu'il enseigne n'est pas ce qu'il y aurait de plus utile ni de meil- leur; mais quoi? toute, la machine universitaire pése sur lui: il se soumet et devient peu à peu un rouage. Plus souvent encore , l'idée d'un changement ne s'est méme pas présentée à son esprit; car, forme lui-méme par l'Université, passe à l'engrenage des compositions, des examens, des écoles, des concours, ordinairement prive de connaissances pédagogiques, il n'a eu ni l'occasion, ni le temps de réfléchir sur ce qu'il aappris et sur ce qu'il enseigne... Une grande administration est fermée au progrès par en haut comme par en bas; le chef qui voudrait faire une réforme ne sait sur quel point de ce grand mécanisme, tout se tient, il doit l'essayer; il n'a pas les hommes qu'il faudrait pour la mettre à exécution ; enfin, chose plus decisive encore , pour tenter une innovation, il faut qu'elle se soit déjà montrée quelque part d'elle- méme; or, tout est prévu et combine pour l'empécher précisément de se produire. » Bréai-, Op.cit., p. 269-71. —V. anche LenormanT, Es- sais sur V instruction publique, publiés par sonjìls, Paris 1873, p. 174-87; Marcou, De la science en France, Paris, 1860, parte r, p. 7 e 14-16 (ove parla molto liberamente degl'ispettori generali francesi); Renan, La réforme intellectuelle et morale, Paris, 1871, p. o"). Il soverchio potere dell'amministrazione scolastica sull'istruzione francese venne fieramente biasimato daU'HAHN (v. Renan. Qiiestions contemporaines, p. 269-73), e, prima ancora, da F. Thiersch, giudice di cui nessuno negherà la competenza (v. Lenormant, Ov.at.^-^. s8o-i).

587 - istruzione in qualsiasi paese ed in qualsiasi tempo è opera che debbe essere affidata a coloro che hanno consecrata la vita al progresso delle singole scienze : è opera che debb'es- sere continuata regolarmente e con calma serena , e senza dipendere da altre rivoluzioni che quelle le quali lenta- mente si compiono nel mondo del pensiero. Per non essersi sufficientemente attenuta a queste norme , la nuova Italia non conseguì sino a questi giorni nell'istruzione pubblica progresso stabilità ond'essa possa star paga : l'odierna in- chiesta sull istru\ione secondaria ci mostra colla più viva evidenza in quale stato deplorabile noi siamo caduti.

« Volete risorgere ? » ci grida una seconda schiera. « Se- guite il nostro vessillo, su cui abbiamo scritta una sola pa- rola, ma tale che è magico rimedio a tutti i mali, passati, presenti e futuri, reali e possibili , lievi e gravissimi : Li- bertà. Lasciate libero il moto delle forze individuali, libera la concorrenza, e voi vedrete portenti. vi sgomentino certi abusi : la libertà, come la lancia di Achille, ferisce e risana. » C'inchiniamo profondamente innanzi a questa teo- rica ed a questa similitudine, ma chiediamo umilmente ci si permetta qualche domanda, che, nella nostra dabbenaggine, ci sembra proprio necessaria. Che la libertà sia ambiente propizio allo svolgimento di germi già esistenti, é fatto in- contestabile : ma, se questi germi non esistono , la libertà può ella crearli ? Può ella creare, ha ella mai creato qualche cosa la libertà (i)? E che avverrà mai se i germi funesti superano gli altri in numero, in potenza? Che avverrà se

(i) «' La liberté, quoi qu'en aient dit Ics déclamateurs de toutcs les écoles , ne produit rieri par elle-métne: elle permet aux germes qui sont déjà de se dcvclopper, » Bbéal, Op. cit., p. i55, < si la li- berté offre le milieu le plus favorable aux germes nouveaux, elle ne produit pas [de gennes par elle-mcmc. » Baudry, Questions scolaircsl. Paris, 1873, p. io5.

- 588 l'azione di cause esterne promoverà lo incremento di ele- menti malefici, e di quelli che sarebbero per stessi fecon- dissimi di bene si opporrà al trionfo o corromperà la na- tura ? No, non v'ha libertà che valga, verbigrazia sul campo della istruzione, ad infondere in genitori ignoranti e sprez- zatori del sapere la volontà di fare istruire i proprii figliuoli, ne a trasformarvi un maestro inetto al proprio ufficio in un valente e nemmeno in un mediocre insegnante. Le scuole private, numerose e frequentate da parecchi anni in qual- che parte del nostro paese, non superarono certo per lo più le pubbliche, ma delle pubbliche furono e sono general- mente non altro che imitazioni, mai scorgemmo in alcuna di quelle che potemmo conoscere nemmeno uno di quegli arditi tentativi di vero perfezionamento, che, secondo certe teoriche, o, per dir meglio, certe illusioni, dovrebbero na- scere frequenti e splendidi su qualunque suolo appena che l'abbia tocco colla sua verga quella fata onnipotente che chiamano Libertà (i). Si aggiunga che, sottratta all'autorità

(i) « Plusieurs demandent aujourd'hui la suppression des lycées: ce serait la ruine de la culture littéraire dans notre pays. L'Univer- sité a bien établi son règne, qu'il n'existe rien en dehors d'elle. En 1793, la Conveniion supprima tous les Colléges, toutes les Facultés, confisqua leurs biens, dispersa les corporations savantes, et sur les ruines de l' epseigneraent public proclama la Hberté de l'enseigne- ment. La chute du monopole ne fit point de raìracles: les écoles pri- vées, en petit nombre, qui s'élevèrent , recueillirent les anciens mat- tres avec leurs méthodes , leurs manuels et leurs cahiers. Pareille chose se reproduirait aujourd'hui. Si les lycées disparaissaient , des copies affaiblies de nos lycées s' éléveraient bienlòt dans nos grandes villes. Quelques instituts à moitié politiques , à moitié littéraires cu scientifiques, telles seraient sans doute les créations originales de Ti- nìtiative privée. Les écoles centrales de la première République peu- vent nous servir d'avertissement; ne recommen9ons pas une expérience fatalement destinée à échouer, et qui nous ramènerait bientót les vieil- les méthodes. » Bréal, Op. cit , p. 325^6. V. anche p, i55. « On pourrait nous reprocher qu'en prenant toujours pour objet les établis- sements de l'État et leur réforme, nous avons manqué de confiance

589 del governo, la scuola, soprattutto presso certi popoli ed in certe epoche, è grandemente soggetta al grave pericolo di es- sere tramutata in un campo di battaglia, sul quale vedremmo non già le generose e feconde lotte del vero contro Terrore, ma quelle, troppo spesso sterili ed ignobili, con cui le varie parti politiche e religiose con sciagurata frequenza si trava- gliano ferocemente e si consumano a vicenda. Petà no- stra fu raramente spettatrice di questi mali, di quelli cui videro i secoli passati perì la memoria. Quindi, trattando deirazione esercitata dallo stato sull'insegnamento superiore, ben potè scrivere il Boissier, che mentre « on l'accuse » [l'étai) « de opprimer la liberté, au contraire il la main- tieni » (i), salvando Tistruzione dalle prepotenze di certe sette, le quali sono avvezze a voler la libertà per se sole ed a negarla altrui, quasi ella fosse un privilegio loro do- vuto. Che. pertanto l'azione dello stato sia necessaria ed alla conservazione ed al perfezionamento della coltura e della

envers la liberté de l'enseignement, qui va, dit-on, apporter avec elle tous les genres de progrès. Mais c'est justement de quoi nous ne nous flattons pas, car, depuis plus de vingt-cinq ans quo l'enseignement se- condaire est libi-e, il n'a produit, chez les lai'ques et chez le clergé, que de plus ou raoins pàles copies des lycées. » Bauory , Questions scolaires, p. io5. Anche C. Lenormant , autore manifestamente non avverso al clero, scrisse le seguenti parole: << L'obligation de se conformer aux errements adoptés dans les colléges de l'Etat ne serait pas en elle-méme un embarras pour le clergé , qui est généralement accoutumé à les suivre dans ses propres établissements. » [Op. cit. , p. 287). " Je crois que ces universités libres produiraieni de très- médiocres resultata; toutes les fois que la liberté existe réellemcnt dans l'université, la liberté hors de l'université est de peu de consc- quence; mais, en leur perraettant de s'établir, on aurait la conscicnce en règie et on fermerait la bouche aux personnes naives toujours por- lées à croire que sans la tyrannie de l'Etat elles feraient des mervoil- les. » Renan, Ré/orme etc. , p. 104-5.

(1) L'enseignement supérieur (Revue des deux monde s , t. 75, p. 866-8.) V. anche Duruy,. La liberté de l'enseignement supéricur ( Re- vue des deux mondes, t, 85, p. 75G-71.

-500 - educazione intellettuale di un popolo -, che alla legge ed al governo non solo competa il diritto, nria spetti il dovere di far che l'istruzione primaria diventi il patrimonio di tutti i cittadini e che lo insegnamento nella universa varietà de'suoi gradi e delle sue forme corrisponda sempre meglio al proprio fine, è opinione d^uomini per ingegno, per dottrina," per esperienza, per amore del progresso autorevolissimi (i).

Ne l'uno ne l'altro pertanto dei due principii , dei quali esaminammo l'efficacia, vale a dire ne Vordine la libertà^ basta per solo ad esercitare sulla istruzione quella potente azione riformatrice, che due scuole avversarie ed entrambe, se non c'inganniamo, vittime di deplorabili illusioni, da essi attendono invano. Non vuoisi per altro affermare, che questi principii non possano essere fecondi di molto bene, a patto che siano insieme sapientemente contemperati : solo ci par dimostrato che, nemmeno in questo ultimo caso (che certo facilmente spesso ha luogo), l'opera loro benefica può essere sufficiente ad infondere nell'istruzione nuova vita ed anima nuova. Che manca dunque e quale é la forza neces- saria a compiere questo che a taluno parrebbe quasi mira-

(i) Per ciò che attìensi alla necessità dell'istruzione elementare ob- bligatoria vedi soprattutto Simon, L école ^ Paris, i865 , pane 3*, p. 209-323 ; Laveleye, Uinstruction du peuple, Paris, 1872 (libro ricco di notizie statistiche utilissime), p. 16-39; Rendu, Uinstruction primaire devànt r assemblée nationale , Paris, 1873, p. 11 e segg. In ordine alla ingerenza del pubblico potere nella direzione dello in- segnamento V. Bréal , /.e. ; Baudry , /. e. ; Laveleye , Op. cit. , p. 8-16; DuRUY, Art. cit.; Laveleye, La liberté de Tenseignement supérieur en Belgique; Renan, /. e. Poniam fine a queste citazioni, adducendo il parere di Guizot, quale lo riferisce il Laveleye [Uins- truction du peuple f p. 11): « Jamais dans un grand pays , un grand changement, une amélioration considérable dans le système de l'édu- cation nationale n'a été l'oeuvre de l'industrie particulière. li y faut un détachement de tout intérét personnel, une élévation de vues, un ensemble, une permanence d'action qu'elle ne saurait atteindre ».

-591 - colo? Cerchiamo e ricerchiamo con pazienza, con calma, e, soprattutto, con sincera imparzialità.

Nella istruzione scolastica il profitto procede direttamente da due cause : vale a dire dal modo con cui lo insegnamento è dato dal maestro e. da quello con cui è accolto dagli al- lievi. Ma su questa seconda causa può esercitare grande in- fluenza la prima: che Tallievo è sempre piij o meno acconcio ad essere modificato dal maestro. Oltracciò la maggiore o minore disposizione a lasciarsi istruire ed educare dipende, nello alunno , in parte dalla varia natura della società (e principalissimamente della famiglia ) in cui si svolge , puossi negare che sulla società influisca perfezionandola , sebbene lentamente, l'attività di buoni maestri : in parte da certi caratteri indelebili dell'indole individuale, che potenza umana non vale a mutare. Hassi adunque a considerare qui, soprattutto, la prima delle due cause accennate, ossia Popera del maestro. Il valore di qaest'opera sarà evidente- mente, data qualsiasi legge e qualsiasi amministrazione sco- lastica, tanto maggiore quanto piìj varrà Tautore di essa. Forza suprema fra tutte quelle che concorrono al grande lavoro della pubblica istruzione, e tale che nessun' altra può ad essa nemmeno accostarsi in efficacia, è pertanto il maestro: ne guari erra chi afferma che, quanto vale il maestro, altrettanto la scuola. Da questo fatto incontestabile deriva questa conseguenza, anch'essa certissima, che a perfezionare la scuola, vuoisi, sovr'ogni altra cosa, perfezionare il mae- stro. E in tutti voi, che dite voler la riforma della istruzione italiana, veramente sincero e vivo questo desiderio ? Ebbene fate, in primo luogo, che la carriera dello insegnamento non abbia più a distogliere dal medesimo i più tra i giovani intelligenti ed operosi : fate che, per lo contrario, la certezza di miglior avvenire li tragga alle facoltà universitarie, alle scuole normali superiori che sono preparazione al nobile,

-592 ->- ma arduo compito dello insegnamento. Fate che non siano costretti ad attendere, con pari intensità di sforzo intellet- tuale, a soverchio numero di corsi, ma che ciascuno possa consecrarsi in particolar guisa a quegli studi cui la propria natura lo chiama. Fate che i loro maestri siano valenti e noti a tutti come tali per lavori scientìfici, e che gii allievi possano assistere alle loro lezioni e studiare sotto la dire- zione di essi, ne si vedano forzati dai bisogni materiali della vita ad abbandonare le scuole ed a insegnare altrui ciò che non hanno ancora essi imparato a sufficienza. Fate che gli esami siano dati con inesorabile giustizia, ma che coloro, i quali sapranno superarli con più splendido successo, siano ricompensati giusta il proprio valore colFottenere le migliori fra le cattedre vacanti. Fate che gr insegnanti approvati dopo severo esame, educati a severa scuola, siano lasciati liberi quanto lo permettono le necessarie esigenze delFor- dine bene inteso; chela loro energia personale non si senta schiacciata ne dal peso della legge ne da quello , men tol- lerabile ancora, di superiori prepotenti ed inetti. Fate che al maestro non manchino affatto i mezzi di continuare i proprii studi, ma che gli siano, quanto più liberalmente sarà possibile, somministrati da buone biblioteche liceali, ginna- siali : a lui non basta il cibo del corpo, gli è necessario quello deirintelletto, e questo pane che voi gli date egli ren- derà moltiplicato ai vostri figli; male insegna altrui chi non insegna continuamente a stesso, che, in tanto e rapido moto della scienza odierna, chi non progredisce indietreggia, chi non s'innalza ruina sempre piìi a basso. Fate che la carriera di chi insegna dipenda dallo ingegno, dalla dottrina, dallo zelo ond'egli si rivela fornito, non mai dalParbitrio, dal capriccio altrui; riconoscetene, ricompensatene i meriti e fate che siano rispettati: con qual animo può attendere questo apostolo del sapere al suo troppo sovente penoso la- voro, se voi lo lasciate incerto del suo avvenire e smesse

593 -

volte avvilito dairaltrui indifferenza? No, Pistruzione non ri- sponderà mai ai voti di tutti, finché il maestro sarà frequen- temente, come ancora vediamo troppe volte avvenire, con- dannato ad essere il martire dello insegnamento.

Vili.

Concludiamo. Combattere il culto soverchio dell'interesse pratico, Tadorazione fanatica della forma, il cieco empirismo, l'ebete ossequio irrazionale ora a vere or eziandio a false autorità ed all'uso, la stolta avversione alla scienza stra- niera, la fede pazzamente riposta più nelle leggi e nell'am- ministrazione scolastica che nel valore dei maestri^ difendere contro queste forze fatali, or cospiranti in favore dell'igno- ranza, la causa della scienza: ecco, o lettore, il fine che ci proponemmo dettando queste Considerazioni. Prendemimo le mosse dal classico libro del francese Bréal, traemmo esempii ed ammonimenti dalla Francia, affinchè a tutti ap- parisse chiaramente quanto in quel paese, che fu già troppo spesso oggetto di servile imitazione a troppi Italiani, quei vizii siano stati riconosciuti funesti e maledetti dai più in- telligenti amici del vero progresso *, citammo non di rado la Germania, per dimostrare con evidenza quanto siano feconde di civiltà le virtù intellettuali che ai vizii accennati si con- trappongono : paragonammo, ogniqualvolta ce se ne offerse il destro, la nostra povertà nella scienza colla ricchezza altrui; che c'incalza la necessità di destarci e di lavorare per non diventar gli ultimi noi che fummo i primi. Parlammo libe- ramente, perchè ormai la dissimulazione intorno a certi argomenti ci sembra imperdonabile viltà, e perchè, quand'an- che queste nostre libere parole avessero a riuscir vane o fu- neste a noi stessi, vorremmo nondimeno, e fortemente vor- remmo, essere consci! di aver fatto quanto credemmo compito nostro e di non essere stati timidi amici del vero.

D. Pezzi.

- 594 -

CENNI BIBLIOGRAFICI

Grammatica Elementare della lingua Greca secondo il metodo di G. L. BuRNOui'. Nuova edizione rifusa ed ampliata per opera di Osvaldo Berrini. Torino, 1872.

Che vi sia ancora fra gli insegnanti chi si tiene a vecchi metodi, lo sappiamo pur troppo; la è cosa del resto che ci arrechi stupore. La scienza, come tutti gli altri grandi portati dello spirito umano, ha i- suoi sacerdoti, ma anche i suoi detrattori. A questi uhimi è fomento Tinvidia, o, peg- gio, il torpore dell'animo e l'indifferenza. Ma di ciò ci pas- seremmo, come di un fatto umano, de' più ovvii e consueti, ove non ne andasse di mezzo Tutile della gioventià nostra, il decoro del paese, e, ciò che più monta, il buon senso.

li prof. Berrini, alla cui operosità, al cui zelo, alla cui in- telligenza noi vorremmo pur rendere ogni maggior lode, ci porge invece occasione di grande rammarico, di dolore anzi vero, con questa sua pubblicazione. E doppia cagione ab- biamo di dolerci; in primo luogo per vedere avvalorato del- Tautorità d'un insegnante, pur rispettabile e provetto, un metodo d'insegnamento grammaticale della lingua greca, il quale ripugna assolutamente ad ogni ragione scientifica, e ne riconduce al cieco ed arbitrano empirismo della scuola Olan- dese, contro del quale già negli ultimi decenni del secolo pas- sato avea affilato le sue armi Godofredo Hermann. Davvero che nella patria di Amedeo Peyron, che il primo fece cono- scere all'Italia dalla dotta Torino i frutti della scuola storica, volgarizzando la grammatica del Matthiae, sarebbe tempo oggimai che si comprendesse, come certi amori a un passato, che non ha più ritorno, perchè il moto della scienza è pro- gressivo di sua natura, tornano alla fin fine a tutta vergogna nostra. Scnonchè non è ciò di che abbiamo maggiormente a dolerci. Noi vediamo inflitti sotto il nome dello stesso pro- fessore Berrini recato alle mani della gioventù studiosa un Corso di eserciii Greci secondo le grammatiche di G. Curtius

-595 e R. Kiìhner, con questa raccomandazione, che esso, cioè, si vantaggia su parecchi altri di così fatti libri per l'accu- rata osservaìi^a del metodo di G. Curtius. Ecco quello che più ne rattrista: questo cotale scetticismo pratico, che tende a sospingere la scuola verso due direzioni di studio, che cor- rono vie affatto opposte fra loro, ingenerando negli animi quello stato d'incertezza alia quale seguita appresso Tindif- ferenza verso ogni corretto criterio di dottrina e di scienza. Vero è che il signor prof. Berrini, nel breve preambolo del libro che ci sta dinnanzi, fa omaggio agli splendidi risulta- menti, che col metodo storico-comparativo si ottennero nel secolo presente nella scienza deirumano linguaggio, per cui la questione parrebbe ornai dover tenersi decisa in favore di esso: ma subito dopo è detto, che ragioni eccellenti militano in favore deiraltro metodo Tempirico , riuscendo evi- dente, che esso, col limitarsi ad un'esatta e ordinata rappre- sentazione dei fatti, si adatta meglio alle condizioni di un insegnamento elementare del greco. L'autore crede certo in buona fede che un siffatto procedimento di studio, ben lungi dal nuocere, spiani anzi la via al metodo rivale, col ren- dere i giovani più voghosi dello studio del greco, una volta addimesticati coi fatti della lingua e fondati nelle regole piti semplici della grammatica. Noi invece, con buona pace del sig, prof. Berrini, crediamo ancora al vecchio dettato: quo semel est imbuta recens, servàbit odorem testa din; e non siamo affatto affatto d'avviso, che sia lecito insegnare ma- lamente e con metodi disapprovati sia pure anche i rudi- menti primi di una dottrina, nella speranza di poter più tardi raddirizzare le opinioni storte e i pregiudizii più volgari. E un errore pedagogico codesto, secondo noi, per non dire che un cosiffatto metodo è la negazione della scienza. Ma veniamo al fatto. Il sig. prof. Berrini ci presenta il metodo del Bur^nouf, siccome quello che considera le lingue classiche separatamente luna dall'altra, e si contenta di mostrarcele quali vennero a trovarsi nelV epoca della loro massima coltura, quali giun- sero a noi ne' piii solenni monumenti delle loro letterature (vedi Pref). Ce n'ha anche di troppo nel solo primo inciso di codesta definizione, per avviare una polemica , potendoci

-596-

stare contenti, quanto al resto di essa, a mostrare gli errori di fatto, che si vorrebbero ammannire alla gioventù nostra, nello stadio preparatorio dello studio del greco. Diciamo adunque che la pretesa di piantare lo studio delle lingue classiche sul principio delia loro separazione è contraria af- fatto al concetto della scienza dell'antichità classica, tradisce la generazione crescente, la quale ha diritto, che nella scuola le si apprestino gli elementi del sapere nella forma, che più e meglio risponda al progresso scientifico, e agli avversarli degli studi classici in generale, e della lingua greca in parti- colare porge gradila e facile occasione a reclamare contro un insegnamento, del quale essi non vedono nessuna ragione d'ordine scìenziale, nessuno addentellato coirinsieme delPin- dagine e della coltura, tanto nel campo delle scienze storico- morali, quanto in quello delle sperimentali, massime fisiolo- giche. L'alto valore degli studi classici soltanto allora potrà venire addimostrato e difeso con sicura efficacia, quando lo presenti come inerente alla storia del pensiero, dell'arte, della civiltà Italo-Greca. L'alta e straordinaria importanza degli studii greci sta appunto in questo, che essi cioè sino da' primi passi, a così dire, vengono condotti sulla grande strada maestra delio incivilimento Greco-Latino, il quale si presenta a noi come un fatto complesso, di cui neppure l'analisi la più sottile e minuta potrà mai rompere la con- nessila; poiché la civiltà e coltura greca s'è così compene- trata via vìa nella Romana, per opera de' grandi ingegni, per forza di circostanze esteriori e per una virtù assimilatrice, che. era nell'indole Romana, che se ne formò un bello insieme, come di felice innesto, che non pare opportuno ormai di dis- gregare, o trattare come che sia disgiuntamente.

Ma non è neppure corretto quello, che il sig. prof. Berrini afferma intorno al metodo, che chiameremo storico-compara- tivo, che esso cioè ci venga additando ciascuna delle favelle antiche nell'atto del suo formarsi, dimostrando per quali vicende e trasformazioni si condussero in quello stato, in cui le abbiamo ricevute (Vedi Pref). Codesto potrà dirsi con- siderando la cosa cosi all'indigrosso della linguistica. Ma il prof, Berrini, che mostra di conoscere anche il metodo del

-597 -^

Curtius, saprà anche che questo chiaro maestro di nessuna cosa fu tanto sollecito nello scrivere la sua grammatica greca, quanto del contenere lo studio elementare del greco nei limiti corretti e precisi del fenomeno linguistico. Se gli oppositori di quel classico libro si fossero data la briga di leggere le savie considerazioni, messe innanzi dal prof. Arm. Bonitz, per Indirizzare e maestri e scolari nell'uso di esso consi- derazioni ormai note, per la versione e pubblicazione fattane dal Miiller, nella prefazione al Commento dei Curtius, siamo di credere, che molte inutili ciarle, piuttosto che dispute, sa- nano già da pezza state tolte di mezzo. Ora il succo delle avvertenze del Bonitz si ristringe in questi termini : che, poi- ché v'è una scienza del linguaggio, bella e cresciuta, poiché v'è una grammatica, che le leggi, meglio accertate di quella, ha applicato allo studio del Greco, con tutta discrezione, così che non si va oltre il fatto concreto della forma, non v'è nessun motivo ragionevole di non servirsene nella scuola. Siccome poi il Curtius avea trovato di unire insieme, quasi a mo' di preambolo e preparazione allo studio della declina- zione e della coniugazione, le leggi più sicure della dottrina dei suoni, così il Bonitz avverte gli studiosi, che quelle re- gole saranno da scompartire a tempo e a luogo. In tutto questo non c'entra per nulla il diventare, il trasfor- marsi; c'entra bensì, e per moltissima parte, Io spirito vi- vificatore della morta materia, c'entra il senso pratico del pedagogo, che sotto umili parvenze prepara le giovani menti alle maggiori indagini della scienza. Ora noi vorremmo do- mandare al sig. prof. Berrini, che cosa impedisca agli stu- diosi della lingua greca col metodo del Curtius di pervenire alla conoscenza dei monumenti più solenni dell'epoca classica dell'Ellenismo*, la quale, secondo quello che egli ne dice nella sua prefazione al Burnouf, dovrebbe uscire quasi per incanto dal metodo, che da questo s'intitola. A nostro avviso invece ne pare, che la cosa sarà per sortire contrario effetto, e che, cioè, il metodo empirico non condurrà a nessuna si- cura conoscenza, non diciamo de' monumenti più solenni della letteratura greca, che potrebbe parere un<\ celia, ma neppure ad una esatta e sicura notizia della inflessione, anzi neppure a saper usare il vocabolario.

598 -

Infatti se v'ha difficoltà nello studio elementare del greco, quella è per fermo' che deriva dalla varietà delle forme; delle quali ove tu non abbia sicura notizia, fondata sullo studio razionale delle medesime, è impossibile ritenere a me- moria la fisionomia, come dire, e le movenze ; e d'altra parte Tuso spedito e sicuro del lessico non è altramente possibile, che per uno studio accurato e preciso de\'ewi, e delle varie loro modificazioni nella inflessione, e nella composizione e derivazione. Ora noi domandiamo a tutti gli uomini impar- ziali, se ciò sia possibile, trattando la grammatica greca nel modo, che segue qui appresso.

Citiamo testualmente dal testo del sig. prof, Berrini, § 79, (pag. 68). « Oltre il futuro in -(Ttu e Taoristo in -aa, alcuni « verbi hanno ancora un futuro secondo in -éuj, e per con- « trazione -u», e un aoristo secondo in -ov. Anzi tutto di- « remo che questi tempi occorrono specialmente in ceni •< verbi di forma allungata, come Xajnpdvu), il cui primitivo « disusato èXrjpu} ('!); ovvero in verbi che hanno nel presente « due consonanti dinanzi alFiu, come tOtttuj ; oppure in verbi « che darebbero cattivo suono al futuro ed aoristo di forma « prima. »

E al § 80 « Finora abbiamo sempre formato il futuro at- « tivo in -Cui e l'aoristo in -era. Ma si può supporre, che « la terminazione -ffa» del futuro sia un abbreviazione di « -ecTu) (io sarò) donde sopprimendo il a rimarrà -éuj, che « contratto in -ui ci appunto la forma del futuro secondo" « attivo. Così da Tuiréauj, forma primitiva del futuro di « TUTTTUJ in luogo di Tuijiu), rigettando il cr, avremo la seconda « forma del futuro tuttéul» e per contrazione tutto». Prepon- « gasi ora Taumento e cangisi uj in ov, come si fa per Tim- « perfetto, e si avrà Taoristo secondo: ^tuttov. »

Saremmo davvero davvero molto tenuti al sig. prof. Ber- rini, se volesse dirne, in quali solenni monumenti della let- teratura greca si trovino i futuri secondi Xapu) e tuttiD, che ci fa supporre la sua teorica. Ma e perchè alia voce Xajnpdvu), al § 1 5o del suo Bumoiif,. non registra il futura secondo di questo verbo, e scrive invece F. Xfjvijoi^ai ?

Al § 88 (p. 74) si leggv^; « In greco vi sono alcuni verbi

- 599 -

che terminano in |ii, essi derivano dai primitivi in -tui, -auj; -óuj, -ùuj, ■» Questo è nel testo, ma in una noterella è subito detto: « Potrebbe essere però che la vera forma primitiva fosse anzi quella in \xi. »

E altrove 1 49, 7) leggiamo : « eìcxcpépuj fa airimperativo « elcrcppe?, come se venisse da ttcrcppriMi- >>

possiamo ristarci dal recare alcune delle molte forme verbali disusate dei verbi primitivi, che il sig. prof. Berrini ha trovato di registrare 149 segg.): ^Xiu (Aor. elXov) -, èXeuGuj (Fut. èXeucTOfiat, aor. fiXueov); eibiu, òtttuj (eiòov, òvììo- jiai); èvéYKU), èvéKUJ ; pXdaiiu, briKuu, òapeuu, XiiGu), luriGiu, )uà8iw, Sdvuj, Trr|6uj (eTtaBov), ftvuu (YiTvojaai), ecc. ecc. Ad un metodo che si contenta di mostrarci le lingue quali vennero a trovarsi nell'epoca della loro massima coltura, come dice il sig. prof. Berrini, è inutile che tu chiegga un inven- tario esatto del patrimonio piià antico della lingua; la fan- tasia può sbizzarrirsi a suo talento, e lo studioso, come il vero credente, non rintracci il passato.

Ma, e si crede forse che il giovine risparmi fatica con questo metodo? Mai no, mai no! si tortura la memoria con un esercizio meccanico affatto sterile, in fondo al quale sta la noia e il disamore. E, si badi ancora, che con questo m.e- todo noi dubitiamo assai, che sia possibile un utile , pratico, graduale esercizio di applicazione delle forme negli esercizii di versione dairitaliano in greco, pur tanto necessari! mas- sime ne'primi anni di studio. Noi non arriviamo a compren- dere, come lo studioso possa declinare nomi , e coniugare verbi, senza conoscere Tintima struttura delle inflessioni, i mutamenti fonetici, il rapporto fra il tema verbale, e il tema del presente. L'analogia^ se ne persuada il sig. prof. Berrini, non e criterio sufficiente, sicuro per fondarvi sopra l'edifìcio della grammatica greca ; appena in qualche raris- simo caso, sul quale l'indagine storico-comparativa non abbia potuto gittare ancora la sua luce, se ne potrà valere il gram- matico, come d'uno spediente. Ma elevata a criterio generale di classazione de'fenomeni linguistici, essa ci conduce all'arbi- trio, al caos. E poi abbia presente il sig. prof. Berrini, che, allo stato attuale degli studi greci nelle nostre scuole, e molto

600

più sicuro indurre negli animi Tabitudine dell'indagine scien- tifica e della osservazione, seguendo il metodo comparativo, dentro a que'termini discreti, che ha segnato il Curtius. Sarà tanto di guadagnato per la coltura generale della gioventù nostra, anche nella peggiore ipotesi che sia ancora lontano il momento di poter prendere un più lontano abbrivo. Le forme grammaticali, papagallescamente apprese, vanno presto in dileguo dalla memoria. Ma le leggi fonetiche, in- segnate parcam-cnte, ma con chiarezza e severa concisione di metodi, s'imprimono ben più fortemente nell'animo, mas- sime laddove, con qualche riscontro del latino o di qualche lino'ua moderna, di stipite germanico, si lasci intravvedere la più larga applicazione delle medesime. S'adusi la mente giovanile a vedere per entro all'arcana vita de'linguaggi, e la curiosità ne sarà stimolata, e l'attenzione legata, e le prime difficoltà, che sono le più ardue, saranno superate e vinte ^

Non è senza esitanza, che noi ci siamo fatti a parlare di questo lavoro di un collega. Gli è, che siccome vediamo il sig. prof. Berrini non avverso al tutto a nuovi metodi, ai quali anzi egli viene in aiuto con opportune pubblicazioni : cosi ci siamo lasciati condurre dalia lusinga di vederlo mettersi francamente e sinceramente per quella via, che il decoro e la ragione ornai ci additano. Rovigo, maggio 1873.

Gaetano Oliva.

Otto Sievers, Quaestiones onomatologicae e Curtius Steffen, De actorum in fahulis Terentìanis numero et distributione . {Acta so- cietatis philologae iipsiensis ed. Fr. Ritschelius, voi. II}.

Il dott. Girolamo Vitelli in Firenze si occupò di già in questa l^ìvista (i) degli Ada societatis philologae Iipsiensis che si pubblicano in Lipsia sotto la direzione del celebre Ritschl. Mentre egli parla alquanto diffusamente del tomo

(i) Fascicolo VI1> p. i34 e segg.

601 -

primo N, I 6 2, non che l'elenco dei lavori contenuti nel volume 2°, ommettendo peraltro le Quaestiones onomato- log-icae di Otto Sievers in Brunsvic, p. 53-107 e le Lee- tiones Stobenses di Otto Hensiì in Halle, p, !-53.

Lasciando ad altri la cura di far cenno di queste ultime come pure delle Quaestiones Eraiosthenicae di Mendelsohn su cui il Vitelli istesso ha promesso di darci un lavoro, vo- gliamo intrattenere i nostri lettori delle Quaestiones onoma- tologicae di Sievers e della dissertazione di Curt. Steffen, De actorum in fabidis Terentianis numero et distribu- tione (i).

Questi due lavori devono essere di grande interesse per tutti i filologi, perchè si riferiscono ad una parte della filolo- gia, di cui massimamente s'occupò il famoso editore degli Acta^ il fondatore della grammatica storica del latino e della critica di Plauto e di Terenzio. Si ammetterà facilmente che lavori presentati al pubblico con l'approvazione di tale mae- stro devono contenere notizie, le quali aumentano il patri- monio del sapere filologico.

Ora il Sievers, valendosi d'un materiale assai vasto, tratta delle trasformazioni che subirono nomi proprii greci nelle iscrizioni latine, cosi che registra i metaplasmi che si rin- vengono e ricercando la loro genesi trova metodicamente la loro spiegazione.

In generale deve ammettersi come ragione di essi la falsa analogia. Cosi i nomi proprii in -es (§1), a cui non stanno di fronte parole greche corrispondenti in -rii; (gen. -tito^), ci mostrano un'inclinazione a conformarsi a parole come0dXì-i(; e simili, formando un gen. in -etis., come p. e. Eutyches-Eu~ tychetis. E lo stesso fenomeno osserviamo ne' nomi proprii in -cles, p. e. Pericles Pericletis, confr. 'HpaKXa(; 'Hpa- KXaTO(;. E cosi pure va la bisogna pur anche in riguardo ai nomi proprii in -genes (Diageneti), ed ai femmini (§2) in -e {Ire- netis)y ì quali spesso si scambiavano coi nomi in C5, dacché r^ nella lingua giornaliera non si pronunciava e poi passavano nella declinazione in -eiis ecc., come dim.ostra l'esempio el-

fi) Ivi, p, 107-159.

"Hìvisla di filologia ecc., I.

- 602 -

tato. I medesimi fenomeni si ripetono nei nomi proprii in -as 4), p. e. Niciati. Spe:ialmente interessanti sono forme come Eronis, Phileronis, che il Sievers riconduce a nomi- nativi come EVo, Philero, ammettendo un s finale che spa- risce. E questi si declinavano poi come nomi proprii la- tini in -o, qual Cicero^ ecc.

Mentre peraltro tutti i fenomeni finora citati apparten- gono all'epoca imperiale, nel § 6 il nostro autore viene a di- scorrere dei tempi della repubblica. E per questa attirano la nostra attenzione in primo luogo i nomi proprii in -is col genetivo in -inis, p. e. Hymninis, che spiega con buona ragione dall'analogia con formazioni greche come ZaXani? XaXajiiTvoi;, perchè anch'essi avevano originariamente ì lunga. Una classe particolare 7I costituiscono quei metaplasmi nati dalla pronuncia di ri = i, come talvolta persino si scri- veva. A questa appartiene p. e. Pamaces (Parnacis), Par- nacìni ecc. E in ugual modo si spiegano anche forme come Tychinis 8) dal femminino Tyche ( Tychi), credendo che Ty- cAi stesse per TychtSy la cui 5 finale non si pronunciava, e de- clinandolo per conseguenza col genetivo in inis qcc. Accanto troviamo genetivi, come Hedonéi ^ formato all'analogia di spes, spei, considerando Hedone come IIedone{s\ e decli- nandolo per conseguente secondo la quinta declinazione. Im- portante è pur anche il § 9, in cui sono spiegate forme come Philemationi («PiXi^fidTiov) ed altri, dimostrando il nostro autore, che bisogna ammettere un nominativo in -io, invece di uno in -ium. La fine di queste importanti ricerche forma un secondo capitolo Miscelle , contenuto onomatolo- gico esso pure, in cui si fa tesoro di risultamenti ottenuti dalle investigazioni antecedenti per altri problemi onoma- tologici.

Nella seconda dissertazione, il cui titolo si legge in capo a questi cenni, il sig. Steffen, dopo una breve discussione in- torno.alla divisione delle parti fra i diversi personaggi del drama greco [Cap. I.) ed in cui viene al risultato, doversi ammettere come molto probabile che l'uso greco anche per questo riguardo sia stato trasferito a Roma, prende nel capo secondo a trattare il suo speciale argomento. Il pensiero fonda-

603

mentale, su cui egli si appoggia nello svolgimento del suo tema, è quello esposto da Ritschl nella seconda edizione del Tri- numinus (p. LV) intorno alle lettere greche A B f A Z K, di cui sono sempre segnate le parti nel codex Bembinus ed in parte anche nei Codex Vetus Cameram. Le parole di Ritschl sono le seguenti : graecae litterae illae non distinguendis tan- tum aliquo scribcndi compendio personis inserviunt, sed ad actarum agendarumque fahularum consìlium atqiie appa- ratum spectant: ita quidem, ut quaepartes quot et quontm histrionum fuerinty iotidem litterarufn notis dedaretur. Lo Steffen movendo da questo asserto studia queste lettere del Codex Bembinus di Terenzio e dimostra irrefragabil- mente, che la teoria di Ritschl è applicabile pur anche a Te- renzio, m.algrado che m alcuni punti riscontriamo degli er- rori, dovud alla poca attenzione dei copisti. 11 capitolo terzo serve poi a dimostrare Tapplicazione di questa teoria per ognuna delle comcdie terenzianc in particolare. 11 risultato della sua ricerca è; eo tempore quo litterae graecae ad fa- bulas re vera agendas spectabant. rationem graecam qua quam paucissimis acloribus ad fabulas agendas uteba?itur, apud Romanos non valuisse , septenarium vero nu- merum non esse excessum (confr. p. 144-145). La grande difficoltà della ricerca che consisteva nella distribuzione delle parti fra i singoli attori, mentre atteso il piccolo numero de- gli attori ognuno di essi doveva agire in diverse., è stata molto chiaramente esposta, con grande lucidità discussa ed a nostro parere vinta in modo che il nostro autore difficilmente verrà contraddetto, e tutto ciò malgrado dei non pochi errori che si sono introdotti nelle lettere greche per la disattenzione dei copisti.

Nel quarto capitolo lo Steffen dimostra, che queste lettere greche appartengono in ogni caso a quel tempo, a cui dob- biamo eziandio la recensione delle comedie di Plauto e di Terenzio, che possediamo, cioè al principio del setnmo secolo, e che probabilmente furono già in uso ai tempi di Plauto e di Terenzio. Un excursus de personarum {i. e. larvarum) in fabulis Terenlianis uSu, dal quale risulta che tutte le comedie di Terenzio, ad eccezione forse della sola Andria, furono rappresentate con maschere, chiude quest'eccellente lavoro.

604 Mentre rendiamo conto di questi due scritti, ci compiacciamo di poter annunziare che, secondo V Indicatore delle novità fi- lologiche del Teubner, si trova di già un nuovo volume degli Actasonoi torchi, il quale oltre ad un esteso lavoro di Schu- ster su Eraclito (che occuperò quasi tutto il volume), conterrà eziandio dissertazioni di Opit^ su Aurelio Vittore^ di Gil- bert su Eschilo, di Stììrenburg su Lucrei^io^ Oehini- chen su Varrone^ Lùttjohan su Apuleio. Considerando la varietà di questi lavori si dovrà ben ammettere che gli studi, che sono diretti dairillustre editore degli Acta^ percorrono tutto il campo delle filologiche discipline, e che la sua scuola non coltiva soltanto la critica filologica propriamente detta, ma eziandio, e con uguale successo, il campo delle ricerche storiche e della grammatica delle lingue classiche.

Lipsia., maggio 1873.

Ludovico Jeep.

CA%LO TI^O^IIS

Martedì 20 maggio alle ore 6 del mattino, cessò vi- vere dopo lunga e dolorosa malattia, per affezione organica del cuore, Tinsigne e riverito professor Carlo Promis', gra- vissima perdita, com'è noto, per più d'una scienza-, acer- bissima per i diletti saoi e per molti , vicini e lontani, av- vinti, oltreché dall'ingegno suo, da quell'indole indipendente e leale, di decoro ripiena e di sodezza, tranquillamente tenace, pura di ogni macchia d'egoismo e di superbia, non detti volente ma fatti, per natura, per educazione altamente locata sopra tutto ciò che volgare sia e dappoco, ricca di fi- nissimo sentimento artistico, di maravigliosa memoria, di ponderosa dottrina, di squisito buon senso-, a tutt'uomo

605 -

ingegnandosi di celar se, quasi a livellare le disparità ed a fomentar schietti e liberi commerci.

Non l'accecò amor di sé, di professione, di patria. Piac- quegli sì, il vecchio Piemonte; ma per ragionamento; sic- come stimava sinceramente paesi più nordici; in questi scorgendo con mite e facile imparzialità gloria e potenza e la grandezza dell'oprar collettivo; negli altri, solo conforto facendogli scorgere la sua mente ignuda d'illusioni, nell'opera dell'individuo.

Ricordava sovente l'animo candido, privo di sospetti, del napolitano amico suo Carlo Troya; dell'amicizia, dei pen- sieri e dell'opere di Cesare Balbo custodiva cara memoria, narrandone le furie verso molti, non mai verso di lui, tosto sedate e senza traccia di rancore; tacerò nomi d'illustri vi- venti che lo amarono e ch'egli amò, onde lettere piene di atti benigni, di notizie e d'uffici che forse un giorno si pub- blicheranno; come de' molti minori che ad ogni istante, pre- murosamente, notizie chiedevan di lui, dal suo mite e spi- ritoso conversare venendo loro impensati insegnamenti e cari sollievi. Perchè egli, sebbene di pochi amici, stava e parlava con tutti, everisimilmente anche la scuola, doveva farla socra- ticamente. Allora soprattutto veniva a voi, che pochi sareb- bero venuti, e in ciò non badava a rango, ad età, a vincente causa, suprema legge di sua vita essendo il culto della verità e giustizia; traendo!© pur questo a dili- genti e critiche indagini nella storia, traendolo a spiriti in- dipendenti nella considerazione delle presenti cose.

Il vivere suo era metodico, assoggettato alle regole da lui credute migliori e a medesimo prefisse. Destavasi per tem- pissimo, estate ed inverno; innanzi al lavoro, usciva e faceva lunghe marcie, quali, un di, nella campagna e tra' monu- menti di Roma, in quei fecondi e begli anni giovanili, so- briamente ricordati nella prefazione alla Storia dell'antica Torino. Il rimanente era studio, lettura e lavoro, senza im- pegni, senza dependenze, senza pregiudizi, senza procaci desiderii, senza pompa, senza vanità; rigido per sé, tolle- rante verso gli altri. Non era alto della persona, vi sop- periva il fare da gentiluomo, la nitidezza dell'abito, la sem-

606

plicilà, il decoro. Alta era la fronte-, profondo ed impera- tivo lo sguardo-, le labbra atteggiate a concisione e brevità*, raro ma ingenuamente gaudente il riso. Osserva un intimo ed amato amico suoch''egli « non avea delizia alcuna di cibo, di sonno, d'amore, di passatempi, di vino, di caccia, di spet- tacoli, di cavalli, di suppellettili, di ville, ecc. «. I.a sua vita, la sua persona era cosi governata, che in lui, ultima, quasi spregiata cosa era il corpo, prevalente tutto ciò che spettava all'intelletto. Nella moltiforme applicazione di questo, sem- pre era capace d'amore; m.a dalla passione fortemente si ri- traeva; ond' evitarne il predominio e mantenere la rigida osservanza de' suoi doveri. Spiacevangli i troppi. Di Mentore in gioventù sarebbe stato, io credo, intollerante; era ricerca- tore del buon amico, ed avea l'arte di farsi amici e di ser- barli. Niuna invidia il prendeva della meta da altri raggiunta. Con chi noi capisse, non sprecava parole. Piacevagli poter difendere l'assente. Non si adagiava comodamente nell'opi- nione altrui. Pensier suo e pensier di lucro eran destinati a non incontrarsi mai. Siccom'ebbe sempre, fino all'ultimo dì, il fuoco sacro dell'attività, e d'altra parte l'età presente non fu sempre, anzi fu di rado capace della sua idea, così fu il meno apatico ed il piiì apatico degli uomini. Gli era odiosa la loquacità; eloquente egli nell'intimità, negli scritti, e ma- gniloquente, non di forma ma di sostanza; alieno da violenza, abuso, lenocinlo, viltà ; non liberale, libero veramente. Non saprò mai spiegare e dipingere la bellezza di quell'anima in- cessantemente, studiosamente intesa ed appressantesi al tipo della divina bellezza ; in racchiudente drittura, operosità, disciplina, fortezza d'animo, voluttà di sentimento, acume di uom nudrito d'esperienza e di storia, profondità d'insigne conoscitor dell'uman cuore, veracità incorruttibile, ardente fede. Era alla comune degli uomini, sto per usare una com- parazione sua, ciò che alla casa edificata secondo gretti bi- sogni, è l'edificio eretto al fine del grande imperituro utile pubblico, o il tempio disegnato nell'oblio di ogni terrena e misera necessità.

Voglio notare che con signore, con signorine, era di una riservatezza, di una decenza ese.mplare. Osservava negli

607 -

uomini la fisica prestanza, alla maniera degli antichi, che a queste cose apertamente e francamente badavano. Di beile donne non parlava; nella donna oltre il cuore, un merito solo, un solo demerito vedea, un solo fallo, un solo trionfo. - Aveva nel suo studiolo un quadro delizioso di Lorenzo di Credi, da lui discoperto in un magazzeno di antichità in Torino, rappresentante Santa Caterina della Ruota. Ai pochi amici mostrava talvolta quella fanciulla nel tormento, che non era più corpo propriamente ed aveva nel sembiante una dolcezza e mansuetudine da Paradiso. Per quanto insistessero parenti o discepoli, non volle farsi fotogra- fare. Fortunatamente , V unico modo gentile di porgere aiuto ad un artista, lo indusse nel 1847, mentre aveva 39 anni, a commettere il proprio ritratto, che dieci anni dopo tirò dal dimenticatoio e diede alla sorella, ed è ora, siccome esattissimo, caro conforto a questa, al fratello, ai nipoti; tutti, diversi solo di vocazione e d'attitudine, strettamente congiunti di principii, d'operosità, di affetti, di non inter- rotta convivenza.

Nacque in Torino il 18 di febbraio 1808 da Felicita Burquier, Savoiarda (i), morta quand'egli aveva quattr'anni, e da Matteo Promis, uomo probissimo, tesoriere alla Zecca, morto nel 1823. Di quattr'anni lo precedette nella vita il fratello Domenico. Comode furono le facultà di Cario Promis. Osserva il sullodato amico suo che « fin da quando era garzoncello, già faceva portendere che avrebbe un giorno toccata qualche alta meta : poiché neppure in quel- l'età egli si dilettò mai de' trastulli fanciulleschi, mai at- tese a divertimenti, ad inezie, a futilità, ma sempre si ap- plicò fin d'allora allo studio con alacrità e passione: e se ne ha una prova negli onori e ne' premii da lui conseguiti nelle piccole scuole ». Fu laureato nel 1828; per la laurea fece un disegno d'arsenale. Dal 1828 al i832, poi nuova-

(i) «Claudio Guichard nato in Savoia (caro paese, che poteva allor Francia strappar al Piemonte, comprarlo non mai, barattarlo) •> {Storia dell'Antica Torino, p. 3 17).

" GOS menledal i833 al i83ó, soggiornò in Roma- stette un anno in Toscana. In quegli otto anni in Roma (debbo tutti i cenni di sua vita ed operosità d'architetto al suo amato discepolo Gastellazzi) « misurò, rilevò e disegnò tanti di quei monu- menti antichi, medievali e moderni, da riempire due volu- minose cartelle ». Trasselo in Roma amor dell'arte-, ne tornò ricco d'un' altra facoltà, cioè l'estimazione ed intelligenza dtW Epigrafia Latina, origine di varie sue opere insigni. E perchè questi chiestimi cenni, troppo tumultuarli e indegni troppo, possano coll'autorità del suo nome generar qualche bene, dirò ch'ei lamentava, persino negli ultimi giorni, il trattamento inflitto alle lapidi antiche, incastrate nell'atrio dell'Università, smosse di continuo ora per l'apertura di una porta o finestra, ora pei bisogni della bustifica\ione\ e spe- cialmente l'iscrizione di Caio Gavio Silvano, uccisore di Seneca il filosofo , unico monumento Torinese di uomo mentovato da un classico, da Tacito, che altrove, diceva egli, m.etterebbesi sotto vetro, lamentava che testé fosse posta in oscuro luogo ed umido.

Tornato in patria, fu nominato ispettore de' Monumenti d'antichità nei RR. Stati, poi R. Archeologo nel iSStj, pro- fessore di Architettura all'Università nel 1843 e tale rimase, passando alla scuola del Valentino nel 1860, fino al 1869, nel qual anno ottenne il riposo. « Sentendo il bisogno di dare alla scuola un nuovo e più pratico indirizzo, dovette pro- crearsi da gli elementi necessarii, ed all'uopo fece di suo pugno circa ottocento à\sQ:gm. Dei quali quelli che rappresen- tano progetti architettonici, cioè svariati esempi di villette e di case quali richiedonsi nella comune pratica, allo scopo di far produrre al denaro impiegato in loro costruzione il mag- giore interesse » , sono quelli che assieme ad altri si pubbli- cano ora presso i fratelli Bocca nell'opera intitolata : Fabbriche moderne inventate da Carlo Promis ad uso degli studenti di architettura e pubblicate con note ed aggiunte dal suo allievo Giovanni Castella'{ii , colonnello del Genio e professore straordinario alla scuola di applicazione per gli ingegneri in Torino. Nell'anno 1845, « d'ordine di Re Carlo Alberto fece

- 609 - il progetto di una grande chiesa che avevasi a costrurre nei pressi del Real Castello del Valentino, e il progetto esiste nella Biblioteca del Re ed è nnolto pregevole, massime nello scomparto della pianta, la quale presenta molte novità, tut- toché improntata alla forma delle antiche Basiliche cristiane, col quale nome Tautore si è appunto compiaciuto d'intito- lare questa Chiesa ».

Nel 1848-49, essendosi creata una Commissione di mi- litari e deputati col mandato d'investigare le cause de' di- sastri dell'esercito piemontese, ne fu eletto segretario, avendo egli posto all'accettazione due condizioni : la niuna rimune- razione e la facoltà di dimettersi a piacimento. Dopo la pub- blicazione del suo lavoro sugli Avvenimenti militari^ l'eser- cito piemontese fece dono di una spada lavorata con bel ma- gistero « al suo difensore ^uQWoSn in quel tempo il generale Della Rocca, ministro della guerra, il posto di p'imo ufficiale, al Ministero della Guerra, ch'ei ricusò. Fu poi membro e segretario di un'altra Commissione, presieduta dal Duca di Genova, e incaricata di studiare i mezzi di difesa dello stato. Nel i85i consigliere municipale e membro del consiglio degli Edili si occupò dell'ingrandimento della città di Torino, ed emise il progetto col quale furono erette le case di Porta Nuova e Corso a piazza d'armi. Queste case insieme a quella prospiciente alla chiesa della Ss. Consolata sono i soli edi- fizii costrutti di pianta secondo i suoi disegni ». Al Municipio a presentò in gennaio 1862, delineato in 3o fogli, il progetto della strada e piazza porticata che in allora era da farsi in prosecuzione della via dell'Arco. Dal 19 agosto al 5 ottobre del medesimo anno eseguì in 29 tavole 4 progetti (di cui gli si era dato incarico) per l'erezione in piazza Bodoni di un edifizio che doveva contenere l'Accademia di Belle Arti e la Galleria di quadri : codesto progetto per distribuzione d'im- pianto, ricerca luce e maestà di elevazione era ed è vera- mente una stupenda cosa e la sua inattuazione gli costò molte pene ». Nel i853 « fece il progetto di case ponicute sul corso della cittadella ora piazza Solferino, ideando ad un tempo di congiungere i portici a Porla Nuova con quelli a farsi lungo la via Cerna ja e da questi uitimi portarsi a piazza dello

CIO

Statuto. Fu in tale occasione ch'egli propose da 20 a 3o soluzioni diverse delParduo problema che gli si presentava ed era il passaggio coperto attraversante via S. Teresa. Quesi^ultimo progetto avendo coi precedenti sortito nissun effetto.. Cario Promis lasciò Municipio e Consiglio degli Edili, e chiusosi neirumile stanzetta che aveva tolta a pigione in piazza Carlo Alberto (casa Se3'ssei), ivi nel i855e 1856 diede sfogo alla sua fantasia ideando e disegnando molteplici progetti di case e di chiese, i quali, siccome fatti senza alcuna preoc- cupazione di spesa o d'altro, sono riusciti veri giojelli d'in- venzione e di bellezza ». Questi progettti ch'egli fece per se, e mostrò a pochissimi intimi, saranno in parte pubbli- cati nell'annunziata opera del Gastellazzi. Più tardi, pregato dal sindaco del progetto di una casa da costruirsi davanti alla Caserma della Gernaja, nel i863, produsse due disegni i quali sgraziatamente non furono accettati. Finalmente Tanno scorso pregato e scongiurato da un assessore munici- pale fece per Porsia Palatina {ci. Bidlett. dell'Instit. Ar- cheol. 1872, p. 27) un progetto di restauro che i colleghi in arte stimano degno dei tempi d'Augusto ». Oltre il Castel- lazzi, tra suoi allievi lodava soprattutto il conte Ceppi che ha riportato il premio nel primo concorso della facciata di S. Maria del Fiore, ed il Comotto che ha tanto operato, nel trasloco della capitale in Firenze, e fatto a Roma il Parlamento ».

Ecco ora la paì^s vitae dimtdia, l'elenco delle opere ar- cheologiche, storico-artistiche, storico-militari di Carlo Pro- mis, ricavato, sino al n" 20, da una sua risposta dello scorso gennaio, ad un signore che trovavasi in Napoli ; poi da in- dicazioni del nipote Vincenzo:

1 . Le antichità di Alba Fucense negli Equi. Roma 1 836; in-8'' p. 267, tav. 3, 8" e 3 fase.

2. Noti:[ie epigrafiche degli artefici marmorarii romani dal Xal XV secolo. Torino, 1837; in-4% p. 3i.

3. Dell'antica città di Luni e del suo stato presente. Me- morie. — Torino, i838*, in-4% ''^7*

4. Storia del Forte di Sar^anello. Torino, i838; in-8% p. 82 con 2 tav. f'.

611

5. Trattato di architettura civile e militare di Francesco di Giorgio Martini architetto senese del secolo XV, con dissertazioni e note per servire alla storia militare ila- liana. Torino, 1841-, 2 voi. in-4% p. 341 e 356-, atlante di tav. xxxviu.

6. Regum Langobardorum leges de structorihus, quas C. Baiidius a Vesme primus edebat^ Carolus Promis com- mentariis auxit. Torino, 1846; in-8°, p. Sy, con 3 stampe nel testo.

7. Guerra dell' indipendenza d'Italia nel 1848. Torino, 1848: in-8°, p. 3oi (sui manoscritti in lingua francese, communicatigli dal Re Carlo Alberto).

8. Considerazioni sopra gli avvenimenti militari del mar^o 1849. Torino, 1849-, in- 12", di p. 191.

9. Le antichità di Aosta (Augusta Praetoria Salassorum) misurate, disegnate, illustrate. Torino, 1862; in-4°, p. 207; atlante di tav. xiv f".

10. La vita di Girolamo Maggi d'Anghiari ingegnere mi- litare, poeta, filologo, archeologo, jurisperito del secolo XVI. Torino, 1862; in-8% p. 40.

lì. La vita di Francesco Paciotto da Urbino architetto civile e militare del secolo xvr. Torino, i8G3; in-8% pag. 86.

12. GV ingegneri e gli scrittori militari Bolognesi del xv e XVI secolo. Torino, i863; in-8°, p. 114.

i3. GV ingegneri militari della Marca d' Ancona che opera- rono 0 scrissero dall'anno mdc all'anno mdcl. Torino, i865-, in-8% p. 116.

14. Storia delV antica Torino (lulia Augusta Taurinorum). Torino, 1869; in -8% p. 53o con tre tav. f°.

i5. L' iscrizione Cuneesedi Catavignus Ivomagi Filius Miles Cohortis ni Britannorum Exercitus Raetici. Torino, 1870*, in -4% p. 84.

16. Gli Architetti e V Architettura presso i Romani. To- rino, 1871 ; in-4°, p. 190.

17. Lettere di Francesco Paciotto a Guidobaldo li Duca di Urbino. Torino, 1871 ; in 8% p. 90.

18. Ricerche storico-artistiche su quattro monumenti di

612 -

Torino del secolo xv. Torino, 1872-, in-8°, p, 67 con tavole, 2 P.

19. Gl'ingegneri militari che operarono 0 scrissero in Pie- monte dall'anno ucccalVanno mdcl. Torino, 1872", in- 8", p. 238.

20. Della necessità delVerudiiione per gli architetti. Pre- lezione. — Torino, 1844; in-8'\ p. 58.

21. Avvertimento circa la Rela'^ione dell assedio di Cuneo dell'anno ibb'] scritta da Aìionimu Contenipoì^aneo (Ar- chivio storico italiano. Firenze, 1846; Append. i. n, pag. 75).

22. Epitafio metrico latino composto da Dante per Dieterico Ti^manjio^ Landgravio di Turingia e Marchese di Lu~ sa:{ia e di xWsjiia {Antologìa Ital. Torino, 1846, 1, p.99).

23. La coltura e la civiltà^ loro injluenia sull'arte e segna- tamente suir architettura ecc. (Antologia, Torino, 1846, IV, p. 453).

24. Nota sulla fortuna del Marchese di Caluso Governatore di Vercelli q.cc. (Archivio storico, Firenze, 1847, t. xin, pag. 5 18).

25. Vita di Mu^io Oddi ingegnere e matematico 1 569-1639, (Antologia, Torjno, 1848, xxii, p. 377-400).

26. Delle operazioni e della situazione presente dell esercito Ligure-Piemontese (l. cit. disp. cit», p. 495).

27. Condiiioni militari dello Stato Pontificio e della To- scana (Torino, 11 gennaio 1849, estratto dal giornale La Nazione).

2S. La Guerra dei Popoli e la Guerra dei Principi in Italia (Torino, 11 febbraio 1849, estr. dal giornale la Nazione).

29. Necrologia di Cesare Saluto {Archìvio storico, Firenze 1853, Append. t. ix, p. 3o2-3o6).

30. Storia dell' Archi tettm^a in Italia dal secolo vi al xviii scritta dal marchese Amico Ricci (Estratto dalla Gaietta Ufficiale del regno dltalia, n. i55, del 1861).

3i. Scavi alla porta Augustea di Torino, ora detta Porta Palalo o Palatina {Bull. delVInst. di Corrispondenza Archeologica., Roma 1872, p. 27}.

~ 613

Lascia inedito un (( Lessico delle voci architettoniche sco^ nosciute a Vìtriivio^ oppure venute m uso posteriormente all'età sua », ed un « Trattato di Architeitura )>; mano- scritte e depositate già tra le carte di Carlo i.\lberto ed ora nella Biblioteca del Re: una « Relazione delle ricerche di antichità e degli scavi fatti nella città e Valle d'Aosta d'or- dine di Sua Sacra Real Maestà nell'agosto e settembre del i838 (Mise. Patr., Cod. 148); un'altra Relazione circa le anfore scoperte al Borgo di Dora presso Torino nel i838 (Mise. Patr., Cod. loi)*, una v Pianta degli scavi aperti nelVarea deWantica citta di Luni l'anno 1887 » (Cod. cit.), eduna Memorietta del marzo 1843, annessa al citato progetto d'una gran chiesa, col titolo « Exposé des motifs qui doivent diriger les archi tectes dans la formation des plans des é- glises et dans leur décoration , puisés dans les écrits des Ss. PèreSf l'Histoire ecclésiastique et la Liturgie ». Non dimenticherò finalmente un « Giornale di scavi in Pie- monte.,. », nel quale contengonsi più cose, e che teneva presso di sé.

Fu deirAccademia delle Scienze, della Deputazione di Storia Patria, dell'Accademia di Belle Arti in Torino e di cinquant'altre d'Italia e fuori; dell'Instituto Archeologico in Roma, dell'Accademia delle Scienze di Berlino.

Ricusò, in varii tempi di sua vita, i proposti uffizi di di- rettore generale, come disse, al Ministero di Guerra, di Prefetto della Biblioteca dell'Università, di Sindaco della città di Torino, di Deputato al Parlamento per Torino, per Aosta (che gli diede la cittadinanza dopo il suo libro), di Senatore del Regno-, scansò, con altre, la croce del merito; e so che dicendogli allora non so più chi, mentr'era fama che gli fosse stata conferita, essere pur cosa ghiotta, oltre ronore, una pensioncella di dieci o dodici centinaia di lire, rispose ch'era nell'ordine del possibile ch^egli avesse accettata la decorazione semplice, ma che in ogni caso avrebbe di sicuro ricusato la pensione. Aveva la coscienza, la volontà, e (si vedrà forse un giorno) Parte del ridato, Ed eradi vo- lontà veramente ferrea. Non già egli nel suo libro, ma qual- che superstite spettatore delle sue disquisizioni antiquarie nella

_ 614 ~

Valle d'Aosta può narrarvi come fosse talvolta, per anior d'esattezza e di verità, ardinicniobo e noncurante dei peri- glio. — Bellissima era, rongiunta a fortezza e severità, la somma bontà delPanimo suo, la cara mitezza. Soprammodo caratteristico in lui i';iborrimento dalP adular chicchessia, massime i più, la moltitudine, per farsene sgabello ^ aborrendo egli onninamente dall'inganno. Verissimo, giustissimo è poi e soprattutto il verso di Dante che a lui applica uno dei suoi amici : Tutto suo amor quaggiù post a drittura.

Torino, a 3 maggio 1873.

Giacomo IìUmbroso.

LA COMMISSIONE D'INCHIESTA S ULV ! S ri^VZ IO V^E S EC OV^'DA%IA

A T O R i N O

La Facoltà di lettere e di Rlosolia dell'Ateneo torinese deliberò di rispondere a quelli tra i Quesiii della Commissione d'inchiesta sulla istruzione secondaria., dei quali le paresse più stretta ed evidente la Cv>nnessiOà'ie colia propria speciale natura ed intorno a cui ella potesse venir da tutti meglio riconosciuta come giudice competente. Essa per- tanto affidò l'esame di si fatti Qjiesiti ad una Commissione composta di cinque suoi membri (i professori Rertini, Garelli, Peyretti, Schia- parelli, Pezzi) ed avendo approvate le risposfe che i medesimi le pro- posero si affrettò di tfasrnetìerle al Presidetite della Commissione d'inchiesta. Siamo lieti che ci sia stato permesso di far noli ai nostri lettori i risultati di questo lavoro, colle medesime parole con cui ven- nero significati.

Quesito I. Q^l bisogno delle scuole secondarie non è sufficiente il numero dei professori istruiti ed approvali dalle scuole normali supe- riori e dalle Facoltà universitarie ai lettere e di filosofia. Così, sebbene l'Ateneo torinese sia quello che il maggior numero dei dottori in lettere, nondimeno avvenne già che, non bastando più questi, si doves- sero chiamare allo insegnamp.nto studenti del ed anche del "iranno del corso di lettere. Per rendere questo corso più ricco di studenti si propone: che siano di nuovo appropriati ai medesimo tutti quei posti ch'esso possedeva al Collegio delle provincie giusta l'istituzione primitiva del medesimo, che il numero di tali posti venga (per quanto sarà possibile) accresciuto, e si affidi di nuovo integralmente alla Facoltà letteraria e filosofica di Torino l'esame, scritto ed orale, che schiude l'adito ad essi ^ per ottenere che in ciascun anno del corso di lettere e filosofia sianyi giovani di provato ingegno ed operosità ffine che tentasi ora conseguire a Roma si a Firenze colla liberalità' muniapafej ; 1* che facciasi piti attraente la carriera dello inse^jiamsmo col migliorarne le condi- zioni economiche e morali.

-615

C\2<3M si crede giovevole il « ristabilire le sessioni annuali d'esame presso alcune Università per abilitare allo insegnamento secondario anche quelli che non hanno fatto studi universitarii >'. // 50/0 esame non può aversi a prova sufficiente della capacità dei professori. Gli aspiranti allo insegnamento inferiore ne' ginnasii ed a quello della let- teratura, storia e geografia nelle scuole tecniche e normali frequentino per un biennio le scuole universiiari^i di lettere come allievi del 1*, poi del 1" anno di fatto corso. Al quale debbonsi rendere nello Ateneo torinese le due cattedre di grammatica greca e di istituzioni letterarie, dando loro il medesimo compito che venne assegnato agl'insegìxamenli di grammatica e lessicografia greca e latina con recentissimo R, De- creto istituiti nella Università di Roma. Questa Facoltà fece manifesto sin dall'estate scorsa al Ministero di pubblica istruirtone il bisogno di ristabilire nell'Università di Torino la cattedra di grammatica greca : ma a questa ad altra proposta, concernenie la durata del corso di storia antica^ potè ancora ottenere una risposta.

Quesito 2. Ugello ammaestrare i futuri professori non curasi per lo più abbastan:{a la importantissima parie linguistica, che il maggior numero di essi è poi chiamato ad insegnare nelle scuole secondarie. Appare assolutamente necessario istituire un corso di grammatica sto- neo-comparativa delle due lingue classiche e della italiana, coordinan- dolo al corso che presentemente, con assurda qualificazione, si appella di Lingue e Letterature comparate.

Per ciò che spelta al tirocinio scolastico de'nuovi dottori in lettere ed in filosofia, parrebbe utile nominarli aggiunti ad una cattedra in un istituto d'istruzione secondaria, incaricandoli di supplire eziandio ai professori di materie affini, con annuo, fisso ed equo compenso.

I giovani che escono dai licei non sono generalmente ahhastanzn pre- parati agli studi de'corsi normali superiori. Ove gli esami di amme»- sione a questi ultimi venissero dati sen^a indulgenza, di cento candidati nemmeno venti potrebbero essere promossi nella parie linguistica, let- teraria, storica e filosofica.

Quesito 3. <ò'illa domanda a Quali frutti diedero i corsi speciali istituiti presso alcune Facoltà universitarie per abilitare i professori delle scuole tecniche e magistrali? .> noi risvondiamo che, per quanto attiensi alla Facoltà letteraria e filosofica dell'Ateneo torinese, questi corsi non poterono avere luogo, non essendo mai stati altuaxi i regolamenti chi-^sti alla medesima dal ministero, da essa proposti e dal mittistero appro- vati per simili corsi.

Quesito 9. Il governo farebbe opera utilissima, an^i necessaria, pro- movendo, contutti I mezzi onde può disporre, la pubblicazione diungrande giornale pedagogico, in cui si disc lessero i problemi di pubblica istru- zione e st facessero conoscere le migliori soluzioni che di essi furono pro- poste presso le nazioni piif civili.

Quesito 10. Si propone che, divisa l'Italia in tante circoscrizioni, quanti sono gl'istituti d'istruzione superiore in cui si hanno Facoltà 0 scuole normali che somministrino professori di tutte le materie letterarie e scientifiche insegnate nelle scuole secondarie, si attribuisca alle Facoltà e scuole normali di lettere e filosofia, di matematica e fisica la imme- diata direzione, scientifica e pedagogica, della istruzione secondaria in ognuna di tali circoscrizioni.

Quesito II. .Si scelgano, per [ciascuna parte dello insegnamento, ispettori che siano ben conosciuti come cultori speciali della medesima o per fama acquistata con opere fatte di pubblica ragione o per insegna- menti universitarii da loro dati lodevolmente, e noti come uomini esperti della i.ttruzione secondaria.

Quesito 18. !• F necessario che ri stano e si adoperino in realtà

- 616

libri di testo riè troppo dijfusi soverchiamente compendiosi per tutte le materie e s'interdica l uso dei sunti dettati in iscuola dal professore o compilati a casa daf^li scolari; 2" tutù, per quanto è possibile, questi libri di testo, assolutaynente poi le grammatiche, dovrebbero essere identici nella medesima circoscrizione od almeno concordi nei principii fonda- mentali e nel linguaggio tecnico; 3* nessuno di essi potrebbe venire ado- perato nelle scuole senz'essere prima approvato dalle facoltà 0 scuole normali superiori, cui spetterebbe, secondo queste proposte, la direzione immediata della istruzione secondaria nelle singole circoscrizioni.

Pare che si potrebbe permettere Vuso di antologie, ma a patto che nessun limite sia segnato da esse alla libertà dei professori nella scelta delle opere classiche e delle parti di queste a spiegarsi.

Quesito 28. Ove si vogliano prescrivere programmi di esame e con- servare gli esami di ammcssione ai corsi universitarii, occorrerebbe al-' meno che i programmi di questi ultimi rispondessero a quelli degli esami di licenza per le scuole secondarie.

Quesito 34. Si fanno voti affinchè, ristretti fcom'è assolutamente necessario] a limiti più ragionevoli, soprattutto nella parte matematica e fisica, gli studi del liceo classico, siano questi dichiarati obbligatorii come preparazione a qualsiasi corso universitario.

Quesito 36. Lo insegnamento classico nelicei debbe consistere prin^ cipalissimamente nella spie gallone dei più grandi scrittori greci e romani. Vuoisi conservare lo studio del greco, facendolo imparare seriamente con metodo migliore e cominciando almeno dal corso ginnasiale , a patto che il governo, promovendo piìi alacremente gli studi greci negli Atenei, si procuri un maggior numero d'insegnanti capaci e che cori' secri alle lezioni di greco il tempo che presentemente è dato aWaritme- tica, perchè la Facoltà reputa che entrambi questi insegnamenti non si possano fare contcmporaneamenle con frutto nelle scuole ginnasiali.

Siccome oggetto dei .orsi universitarii non ù già la coltura generale {a cui tende il liceo], ma bensì La speciale; siccome ancora, quand'anche si dimenticassero molte delle nozioni particolari apprese mediante un intenso studio classico, nondimeno durerebbe in chi lo avesse fatto a do- vere l'influenza benefica di esso, ossia l'alta educazione della mente e del cuore : cosi non sembra necessario opportuno che negli Atenei si con- tinuino gli studi greco-latini del liceo anche per tutti coloro che non si fanno iscrivere alle Facoltà di lettere e di filosofìa.

Quesito 3g. C^Con è certo sufficiente il profitto che si trae dallo studio della filosofia ne'licei: ne sono pi ova gli esami di ammessione alPUniver'

" mo saggio di essere abbastanza di essa vuol essere conservato efficaci preparazioni agli studi universiiarii. Alla logica ed alla psicologia dovrebbesi, giusta il parere dei professori Peyreiti e Berlini, aggiungere di nuovo l'etica e la me- tafisica, intesa in senso aristotelico. Lo insegnamento della filosofia si avrebbe a fare teoreticamente nei due primi corsi liceali ed a continuare nel terzo sotto forma pratica col commento di filosofi greci e latini, nel quale eser^^izio dovrebbe consistere tutto lo yUidio ckissico di questo ul- timo anno.

Quesiti 41 e 42. J>Ce/ liceo si presentemente soverchia esten- sione allo insegnamento della matematica e della fisica: ciò aggrava troppo i giovani alunni e li distoglie dagli rtudi letterarìi. La facoltà riconosce l'alta importanza di questi studi , massimamente nell'epoca nostra : ma ella crede che, essendo scopo del liceo la coltura generale (come già abbiamo accennatoj e /' armonica educazione delle facoltà intellettuali e morali, Vinsegnamento matematico e fisico non debba var- care quei confini che da si fatto duplice scopo gli sono prescritti.

Pietro Ussello, gerente responsabile

PA Rivista di filologia e di 9 istruzione classica

H55

Voi

PLEASE DO NOT REMOVE CARDS OR SLIPS FROM THIS POCKET

UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY