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EFLOLOG EA ISTRUZIONE ) CLASSICA

DIRETTORE ETTORE STAMPINI

ANINO DITE

MORENO ERMANNO LOESCHER

1915

INDICE GENSRALE DEL VOLUME XLIII (Anno 1915)

Fasc. IL Il prologo delle Metamorfosi di Apuleio. Ferruccio CaLonenI . Pag. Intorno alla invocazione di Lucrezio a Venere e alla rappresentazione di lei con Marte. La invocazione a Calliope. Giacomo Giri È È De similitudinibus Homericis capita selecta. Particula 1. HumBertuSs Mancuso . sa Sulle stragi di ἐν Οβοὶ: O ΠΥ II di a il ua _ ἊΝ BERTO OLIVETTI È > : ; ; i, È : vi Ancora Partenio e il Moretum,. Remigio SaBBADINI . 3 ; n La questione cronologica di Palladio e Rutilio Namaziano. Lorenzo DaALMASSO ; ; ) I È i È A Lucrezio I 724. Resa ici £ A i 1 È a De codice Cavensi Vitae Alexandri Magni” quaestio altera. Accedunt excerpta ex codice Neapolitano. FrANcIscUS STABILE . : 5

Sull’età dell’autore del ‘Liber de viris illustribus urbis Romae”.

FRANCESCO STABILE . di

De E littera in fronte templi dl Ivhici inetnibta. i TR E 5

Recensioni: Max Pohlenz, Aus Platos Werdezeit. Em. Bodrero, Protagora. Vol. I e II Paul Maas, Die neuen Responsions- freiheiten bei Bacchylides und Pindar. GrusePpe FrAccAROLI di

Wilh. Schonack, Die Rezeptsammlung des Scribonius Largus. Die Rezepte des Scribonius Largus. Zum ersten Male vollstàndig

ins Deutsche ibersetzt. CresArE GIARRATANO . : . i Studii critici offerti da antichi PESSROLI a Carlo Pascal. Co FERRARA . 4 - . Car. ide) ᾿ ostie val Compasitio ryilmica prosae an- tiquae. II. Grutiano AmrtILIO Provano Σ : Carl. Spir. Razzini, Il diritto romano miele ἘΠῚ di Giove- nale. Carl. Em. Pulciano, Il diritto privato romano nel- l’Epistolario di Plinio il Giovane. Santi Consoti . : di E. A. Loew, The Beneventan script. A ΝΟ of the south Talas minuscule. Remiaro SazBADINI .

G. B. Camozzi, Euripide. Medea, con ΕΝ commento ed appendice critica. Sec. ed. L. A. Michelangeli, La Medea di Euripide. Volgarizzamento in prosa. Sec. ed. Domenico Bassi , Heinr. Gomperz, Sophistik und Rhetorik. Carl Robert, Die Spiirhunde. Auf. E. Diehl, Supplementum Sophocleum. H.v. Arnim, Supplementum Furipideum. Errore BranonE È Emma Pangrazio, Di alcune vicende del Greco nelle Scuole Tedesche. Parte Il. Corrapo BARBAGALLO pa

H. Mortimer Hubbel, The influence of RT on Cicero, Dionysius and Aristides. Raccolta di articoli in onore di Dimitrio Korsakoff (I. Mirotvorzeff, Sulla svalutazione della dramma

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ἘΕΞ ΤῸ [Ἐν

egiziana d’argento. N. Grazianskî, Sulla questione delle condizioni agricole degli antichi Germani ai tempi di Cesare. S. Singalewic, Quali elementi componessero la popolazione della città di Oxyrhynchus. N. Téerbakoff, Un’anfora pugliese. M. Chvostoff, Sul carattere sociale della tirannide ateniese del VI secolo. Malmberg, Il guerriero negli ornamenti d’oro dei coltelli del Certomlyzki kurgan, e nel vaso nolano). Georg Finsler, Homer. Erster Teil. Dom. Bassi, Hercu- lanensium voluminum quae supersunt. Collectio tertia. Tom. 1. Uco Enrico PaoLI . : : A . : : 5 ì “Pag:

Recensioni: Arth. Rosemberg, Der Staat der alten Italiker. Vincenzo

145

ArangIo-RuIz . È ; È ; : : : : : > Lol Note bibliografiche: E. Samter, Die Religion der Griechen; N. Wecklein,

Euripides. Iphigenie in Aulis; E. Kalinka, Xenophontis qui in-

scribitur libellus ϑηναίων Πολιτεία; Gius. Mastella, Sofocle.

Le Trachinie; Aug. Monti, Platone. Il Critone; Gius. Ammendola,

Lisia. Le orazioni contro Simone e per Mantiteo (Dom. Bassi).

Aless. Veniero, Letteratura latina ad uso dei licei (G. A. Provano).

Enr. Antonini, Il Senatus consultum ultimum (V. AranGIo-Rurz).

M. Hoffmann, Die ethische Terminologie bei Homer ece.;

S. Singalewic, Il Consiglio nella città di Oxyrhynchus (U. E. Paoty).

M.Wellmann, A. Cornelius Celsus; A. Gercke und E. Norden,

Einleitung in die Altertumswissenschaft. III Band; C. Bardt, Βὅ-

mische Charakterképfe (M. LencHantin pe GuserNatIS). Herm.

Dessau, Inscriptiones latinae. Vol. II. Pars I; Th. Mommsen,

Epigraphische und numismatische Schriften. Erst. Band; Alex.

Riese, Das Rheinische Germanien in den antiken Inschriften (E.S.) , 172 Rassegne"di pubblicazioni periodiche : The Classical Review. XXVIII. 1914.

3-5. Classical Philology. IX. 1914. 3. The Classical Quarterly.

VIII. 1914. 2 e 3. The American Journal of Philology. XXXV. 1914.

1 e 2 (137 e 138). Revue des études anciennes. XVI. 1914. 3.

Le Musée Belge. XVIII. 1914. 1 e 2. Mnemosyne. XLII. 1914. 2.

Byzantinische Zeitschrift. XXIII 1914. 1 e 2. Domenico Bassi , 186 Michele Kerbaker. Paoro Fossararo » 200 Pubblicazioni ricevute dalla Direzione . » 204

Fasc. II. Il prologo delle Metamorfosi di Bo (Continuazione e fine). FeRRUCCIO

CALONGHI . : : : 5 «Pag: 5209 La leggenda di Neleo fonditore di Ν τ io CrIACERI n 287 Lucretiana. II. (III, 237-240. II, 719). Errore SrAmpini 22205 Euphorionea. Camicco Cessi ' 3 52118 Le tragedie di Seneca. RESsieto e lo A Qumblicnoi Vincenzo

USsANI : . 293 Briciole ΒΕ ΟΣ ΗΝ - πος τἀ Ὡς, » 299 Le finte orazioni di Plinio. Remigio SABBADINI : » 308 Papiro Ercolanese 1457 (Osservazioni critiche). Uco ΘΝ PaoLi cs De quodam loco in Culice probabiliter restituto. Hecror Demarcni , 817 Osservazioni sui capitoli 45-53 del libro II di Zosimo e sulla loro proba-

bile fonte. ALserTOo OuIvETTI A 3 : : : ; » 821 Recensioni: Bernard P. Grenfell and Arthur S. Hunt, The

Oxyrhynchus Papyri. Part X. Giuseppe FrAccaROLI 3 3 n 994

y—

Recensioni: Ettore Pais, Storia critica di Roma durante i primi cinque

secoli. Vol. I e II. Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di

Roma. Serie prima. Giovanni NiccoLini . 7 : . Pag. 355 Dom. Bassi, Sofocle. Aiace commentato. Sofocle. eno

con note. UGo "Esito Pao . ; n 958

Paul Lehmann, Vom Mittelalter and von du latsinischer Philologie des Mittelalters. Goswin Frenke n, Die Exempla

des Jacob von Vitry. RemIGIO SABBADINI 3 : . 360 Siegfrid Sudhaus, Menandri Reliquiae nuper RO, “i

Menanderstudien. CarLo OrEsTE ZURETTI . ] Σ , 900 Gius. Fraccaroli, Pindaro. Le odi e i PARDRA TE] Traduzione

con prolegomeni e commento. Nuova ediz. rifatta. Domenico Bassi , 370 Ant. Chatzis, Der Philosoph und Grammatiker Ptolemaios

Chennos. Erster Teil. Camo Cass : : È s 876 Ncte bibliografiche: Car. Lanzani, Mario e Silla o NiccoLinI).

Paul Poralla, Prosopographie der Lakedaimonier; Alb. (€. Clark, The primitive Text of the Gospels and Acts; ἃ. NECA,

La Confederazione Achea (Camino Cessi) . : À : , 989 Cenni necrologici: Luigi Adriano Milani. Francesco © Cipolla. Giovanni Canna. La DirezioNnE 3 1 , 992

Rassegna di pubblicazioni PE Harvard Studies in Classical Philo- logy. XXV. 1914. Classical Philology. IX. 1914. 4. The Classical Quarterly. VIII. 1914. 4. The Classical Review. XXVIII. 1914. 6-8. The Journal of Philology. XXXIII. 1914. 66. Mnemosyne. XLII. 1914. 3 e 4. FEranos. XIII. 1913. 4. - XIV. 1914. 1. Revue des

études anciennes. XVI. 1914. 4. Domenico Bassr . 3 : , 398 Pubblicazioni ricevute dalla Direzione. : . . . . : » All Fasc. II.

Intorno al quod coi così detti verba affectuum ece. AvoLro GanpIGLIO Pag. 417 Sulla nozione del Pelargikon. Vincenzo Costanzi . : : : . 480 La pronuncia del latino ad Ossirinco nel secolo V. Massimo LeNcHANTIN DE GUBERNATIS 3 s . 448 Significato tecnico ed uso della sito È LOS: in taluni scrittori dell'età imperiale. BenepErTo Romano . 5 : : È : 5 , 454

Recensioni: Remigio Sabbadini, Storia e critica dei testi latini. Cicerone. Donato. Tacito. Celso. Plauto. Plinio. ΠΕ μον, Livio e Sallustio. Commedia ignota. Vincenzo UssanI Ξ 3 » 489

Vincenzo Costanzi, Studi di storia macedonica sino a Filippo. Luigi Pareti, Studi siciliani ed italioti. Aueusro RosragnI , 494 Alex. Olivieri, Philodemi zegì παρρησίας libellus. Codicum Casinensium iii Catalogus. Vol. I. Pars I. Domenico Bassi è : E : ᾿ ; : . 499 Jos. K SI Do coronarum Adi Inligios vi atque usu.

Gustav Lejeune Dirichlet, De veterum macarismis. CamiLo Cessi . 3 P , 202

Note bibliografiche: William Kelly Prentice, Greek and Latin Inscriptions; Enno Littmann, William Kelly Prentice, David Magie, Duane Reed Stuart, Howard Crosby Butler, Greek and Latin Inscriptions in Syria (M. L.).. Ant. Cipolla, Cajo Sallustio Crispo e lo scandalo attribuitogli da Marco

Terenzio Varrone (TuLcio Tenrori) Ettore De Marchi, Euripide. Jone; J. Edward Harry, The Greek tragic poets; R. v. Pohlmann, Griechische Geschichte. Fiinfte Aufl. (Domenico Bassi) Alfred Hoare, An Italian Dictionary (X.) . δι

Rassegna di pubblicazioni periodiche: The Classical Quarterly. IX. 1915. 1 e 2. The Classical Review. XXIX. 1915. 1 e 2. The American Journal of Philology. XXXV. 1914. ΠΝ e 4 ( Di EFranos. XIV. 1914. 2. Domenico Bassi È )

Pubblicazioni ricevute dalla Direzione

Faso. IV. Nuovi studi su testi e dottrine epicuree. Errore BienonE . Pag Etimologia e Semantica (gloria Lar -- telum). Francesco RiBEzzo , L'origine dell'unico caso ontiage del duale nel greco. -— Francesco

Risezzo 3

La latinità del nuovo Peli edita dol da CE 557. FRANCESCO STABILE .

Il pittore Marcus Plautius. Micol A :

‘0 ὈΞΥΡΥΓΧΟΣ XAPAKTHP. Giuseppe FurLANI È 5 De latebris litterarum in elunso saxea vaga osce MINGABHE, Epwin

W. Fay 3 n A proposito d’un luogo ETA τος RI Η. ΩΣ È A

Aesch.vAg. 1119-1124. Gran Lursi BisorFI

Recensioni: P. Masqueray, Bibliographie pratique de la littérature grecque. Silvio Pellini, Aristofane. Gli uccelli, con note.

Domenico Bassi È

Rassegna di pubblicazioni periodiche: Classical Philology. X. 1915. 1. The Classical Review. XXIX. 1915. 3 e 4. Mnemosyne. XLIII. 1915. 1. Domenico Bassi ; ; )

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Pubblicazioni ricevute dalla Direzione 1

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ELENCO DEI COLLABORATORI

. Vincenzo Aranaro-Ruiz, Professore ordinario di Storia del Diritto romano

nella R. Università di Messina.

Corrado Barsagatrto, Professore di Storia nel ἢ. Istituto tecnico Carlo Cattaneo di Milano, e Libero Docente di Antichità greche e romane nella R. Università di Roma.

Domenico Bassi, Bibliotecario Direttore dell’Officina dei Papiri Ercolanesi presso la Biblioteca Nazionale di Napoli.

Ettore Bianone, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo Ales- sandro Manzoni di Milano.

Gian Luigi Bisorri, Professore nel R. Ginnasio Margherita di Savoia di Castellammare del Golfo.

Ferruccio CaLoneHI, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo Andrea D'Oria, Libero Docente di Letteratura latina, e Incaricato di Esegesi sulle fonti del Diritto nella R. Università di Genova.

Camillo Cessi, Professore ordinario di Letteratura greca nella R. Univer- sità di Catania.

Emanuele Craceri, Professore straordinario di Storia antica nella R. Uni- versità di Padova.

Santi Consori, Libero Docente di Letteratura latina nella R. Università di Catania.

Vincenzo Cosranzi, Professore ordinario di Storia antica nella R. Università di Pisa.

Lorenzo Darmasso, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo Govone di Alba.

Ettore DemarcHiI, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo No torio Emanuele di Aosta.

Edwin W. Fay, Professore di Latino nella Università di Austin (Texas. Stati Uniti d'America).

Giovanni Ferrara, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo Marco Foscarini di Venezia, e Libero Docente di Letteratura latina nella R. Università di Torino.

Francis H. Foses, Lexington, Mass. (Stati Uniti d'America).

Paolo Fossataro, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo Antonio Genovesi, e Libero Docente di Letteratura latina nella R. Uni- versità di Napoli,

Dr.

Vili

Giuseppe FraccaroLi, Professore ordinario di Letteratura greca nella R. Università di Pavia.

Giuseppe Furrani, Londra.

Adolfo GanpieLIo, Professore nel R. Ginnasio Superiore Guido Nolfi di Fano.

Cesare GrarratANO, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo Umberto I di Palermo.

Giacomo Grri, Professore ordinario di Letteratura latina nella R. Univer- sità di Roma.

Carolina Lanzani, Professoressa nel R. Ginnasio Giuseppe Parini di Milano, e Libera Docente di Storia antica nella R. Università di Pavia.

Massimo LencHantin De GusernaATIS, Professore nel R. Ginnasio Superiore Camillo Cavour, e Libero Docente di Letteratura latina nella R. Uni- versità di Torino.

Umberto Mancuso, Professore nel R. Ginnasio Galileo Galilei di Pisa.

Giovanni Niccorini, Professore ordinario di Storia antica nella R. Univer- sità di Genova.

Alberto OLrvertI, Firenze.

Ugo Enrico Paotr, Professore nei R. Ginnasio Superiore Dante di Firenze.

Giuliano Attilio Provano, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo Niccolò Machiavelli di Lucca.

Francesco Risezzo, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo Antonio Genovesi, e Libero Docente di Storia comparata delle lingue ciassiche e neo-latine nella R. Università di Napoli.

Benedetto Romano, Professore nel R. Ginnasio Superiore di Susa.

Augusto RosraenI, Torino.

Remigio Sassapini, Professore ordinario di Letteratura latina nella R. Ac- cademia scientifico-letteraria di Milano.

Francesco SrasiLe, Professore nel R. Ginnasio Salvator Rosa di Potenza.

Ettore Srampini, Professore ordinario di Letteratura latina nella R. Uni- versità di Torino.

Tullio TentorIi, Preside del R. Liceo-Ginnasio Torquato Tasso di Roma.

Vincenzo Ussani, Professore ordinario di Letteratura latina nella R. Univer- sità di Palermo.

Carlo Oreste Zurermti, Professore ordinario di Letteratura greca nella R. Accademia scientifico-letteraria di Milano.

IL PROLOGO DELLE METAMORFOSI DI APULEIO

Riprendiamo la discussione dal Biirger (1). Delle osserva- zioni e delle ipotesi del Rohde terremo conto occasionalmente, soprattutto alla fine della nostra trattazione.

Dice in massima il Biirger: Nemmeno E. Rohde (2), che da ultimo trattò compiutamente tutte le questioni relative alle Metamorfosi, riuscî, per quanto concerne il prologo, a | risolvere tutte le difficoltà. E sicapisce, perché il Rohde | appunto, preoccupato dalle notizie biografiche delle linee 10-12 (ediz. Helm), che possono convenire ad Apuleio, seguenti ad _ —altre(7-9), che non possono invece convenirgli, ove siano prese . letteralmente, non trovò il bandolo della matassa. È ben vero ch'egli tentò di attribuire ad Apuleio la dichiarazione che la Grecia fosse la sua vetus prosapia, considerandola come un’e- spressione enfatica, geistig’ insomma (p. 82), ma riuscì fa- cile al B. di obiettare che più sotto si legge ἐδὲ linguam At(t)idem .... merui, dove difficilmente si potrebbe intendere l’idbi se non con valore locale. Che Apuleio abbia imparato il Greco in Grecia primis pueritiae stipendiis non sembra dav- vero rispondente alle notizie che abbiamo della sua vita. Ma nemmeno a Lucio di Corinto, eroe e narratore del ro- manzo, possono, secondo il Rohde, riferirsi tutti i dati del- l'introduzione. È possibile che in un prologo venga fuori un

(1) K. Biirger, Zu Apuleius, in Hermes, 23 (1888), p. 489-498. (2) E. Rohde, Zu Apuleius, in Rhein. Museum, 40 (1885), p. 66-91 (= AI. Schrift., 2, 43 sgg.).

Rivista di filologia, ecc., XLIII. ᾿

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‘io’ a raccontare vicende proprie dell'autore miste con quelle di un terzo? Al Rohde sembra di no, ma il Biirger pensa in- vece che anche tutto il primo capitolo sia da riferirsi senza difficoltà al narratore del romanzo, a Lucio di Corinto.

Questo il punto fondamentale della divergenza fra le due opinioni citate, a cui devo. aggiungere la mia. Il prologo è esposto da due persone, da Apuleio e da Lucio di Corinto.

Il secondo pronunzia le parole fino ad exordior. Lo scrittore.

interrompe con un retorico quis ille ?, domanda che potrebbe fargli il lettore, a cui subito risponde: paucis accipe, e la ri- sposta è data poi da Lucio fino ad excolui. Finalmente in nome proprio e dello scrittore, riprende Lucio: en ecce praefamur veniam, siquid erotici ac forensi(s) sermonis rudis locutor of - fendero. Il praefamur si riferisce a tutti e due, l’offendero argutamente solo a Lucio, mentre è facile comprendere che in realtà il solo Apuleio, quale scrittore, è responsabile déi difetti della forma.

I citati critici non dicono nulla del plurale subentrato al singolare sulla fine del prologo: At ego ... conseram ... permul- ceam ... Exordior ... mea vetus prosapia est ... merui ... excolui ... praefamur veniam ..., e successivamente ancora acces- simus, poi incipimus. Manifestamente a loro sembrò sol- tanto un plurale per singolare, che grammaticalmente è facile ad ammettersi. Non mancano infatti esempi, e precisamente anche nelle Metamorfosi apuleiane, del plurale retorico ‘accanto al singolare’, tanto che al Gruytere (Grutero), che già antica- mente aveva proposto in questo passo un praefabor in luogo di praefamur, l Hildebrand (1) opponeva i due esempi di Met. 1, 24: abnuebam, quippe qui iam cenae affatim piscatum prospexeramus e di 3, 22, 24-25: me accanto a nobis. Poteva anche aggiungerne altri con tutta facilità. Cosi alla fine del medesimo cap. 1, 24, si legge: at has quisquilias quanti pa- rasti? ‘vix’, ‘inquam’ ‘piscatori extorsimus accipere vi- ginti denarium’, e dacché diciamo del plurale per il singolare,

(1) L. Apuleii Opera omnia recensuit... G. F. Hildebrand, 2 v., Lipsiae, MDCCCXLII. Cfr. I, p. 11.

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| converrà tener presente che è comunissimo il suo uso nel tono familiare della conversazione che si nota cosi spesso nel romanzo Apuleiano. Anzi è questa l’obiezione piu forte che si può fare alla interpretazione di praefamur inteso come «un plurale vero e proprio, cioè ch’esso sia un pluralis mo- «_—destiae [V. R. Kihner, Ausf. Gramm. der Lat. Spr., II, 1: __—Satzlehre, neubearb. von Stegmann, 1912, p. 87, n. 3 e 4] o «meglio ancora un plurale della conversazione, come dianzi accennavo [V. l’osservaz. dello Stegmann, 1. c., p. 89 Anm,,

dove sarebbe stato opportuno aggiungere sione di ἰδεῖς tori). Ad ogni modo sarà lecito dire che ‘può’ essere un 5: plurale retorico, non certo che ‘deve essere’. La scelta tra Pi le due opinioni deve ragionevolmente dipendere dall’ esame

_ di quanto precede, già in massima abbozzato, e di quanto pe segue, ciò che vedremo più innanzi. ΞΗ Il Rohde riferisce giustamente, a mio avviso, le parole

È quid exotici ... offendero all'Autore delle Metamorfosi scritte 3 in latino’. Dico giustamente, perché, pur prescindendo dalla oscurità dell'espressione, particol. per il forensi(s), rimane tut- _ tavia fuor di dubbio che qui si accenna a difetti eventuali dello scrittore nella ‘purezza’ dell’elocuzione latina. Non credo ἘΣ invece che le ragioni da lui addotte per escludere che il par- lante possa essere Lucio di Corinto, abbiano altrettanto va- . lore. Lo scrivente o il parlante, che qui è la medesima ‘cosa si presenta quale narratore di una fabula, e preci- pi samente narratore in lingua latina d’una fabula Graecanica _— fabulam Graecanicam incipimus. Il R. non può nemmeno lontanamente supporre ch’egli voglia farsi passare per eroe della sua novella fantastica, fantastica perché fabula, e tradotta dal Greco perché Graecanica. No, obietta il Biirger, fadula è ogni racconto di casi singolari, senza consideraz. se siano veri 0 inventati, e Graecanica val solo di fonte greca; ma siccome fabula Graecanica è poi indubbiamente una novella romanzesca, cosi l’obiezione risolve poco, quanto all’interpretazione. Così | poco che qui appunto sta il lato debole della trattazione del Biirger, che desidero porre in particolar rilievo in quanto l’interpretazione sua del prologo Apuleiano è quella ammessa generalmente come fondamentale. ‘Il B. non riesce a libe-

ἾΣ I SE αν Ὁ." . Et, ΕΝ “ἢ δ νυ ἦν vd RAT MRC

di

rarsi dal preconcetto di tutti gli interpreti che lo hanno pre- ceduto e quando intravvede la necessità di pensare a pi persone narranti, non tien conto sufficiente del tipo dell’opera. In fabulam Graecanicam incipimus gli è pur forza di sentire un’altra voce che non sia quella dell’espositore del prologo, che per lui è Lucio di Corinto |p. 494], ed è la voce di A pu- leio che rinunzia per un momento alla parte di Lucio che ha rappresentata prima e rappresenterà in séguito.

Questa voce appare per il B. anche un’altra volta, al prin- cipio del 14° cap. del libro. Qui Lucio, dopo aver dichia- rato che l’unica consolazione nella sua grande sventura, era d’aver potuto nella sua forma asinina fare osservazioni ed esperienze ricche d’interesse, continua: fabulam denique bonam prae ceteris suave comptam ad aures vestras adferre decrevi et en occipio. Il parallelismo dei due passi, di quello ora citato e del fabulam Graecanicam incipimus, è per il B. assai signifi- cativo. Anche qui c’è la dichiarazione che quanto segue sarà una fabula di pura invenzione, ed anche qui Lucio narra come,‘ novella inventata’ de’ casi suoi, quelli del mulino fino alla morte del padrone, precisamente come dopo le pa- role del proemio narra vicende sue, dopo aver dichiarato che il racconto è fantastico, che è una fabula Graecanica. Ebbene sotto questo Lucio il B. sente la voce di Apuleio, per quanto nei due passi citati, per la necessaria relazione di tutto ciò che precede e di tutto ciò che segue con Lucio di Corinto, queste brevi proposizioni inserte non possano costituire alcun ostacolo al considerare Lucio come soggetto unico e dell’in- troduzione e del romanzo [p. 496].

L'importanza data a questo parallelismo è soverchia. In- dubbiamente il romanzo è narrato da Lucio, con ogni pro- babilità come nella fonte greca di Lucio di Patrae, come certamente π6}} Ὄνος pseudo-lucianeo. L'Autore, retorica- mente parlando, non c'entra, è il caso che noi lo ricer- chiamo, tutt'al più aguzzeremo lo sguardo verso quelle parti dove il confronto 6011] Ὄνος lucianeo o le notizie che noi al- trimenti possediamo sulle vicende e il pensiero di Apuleio ci possono far nascere il legittimo sospetto di un avvicinamento speciale tra lo scrittore e l’eroe del racconto. Ma si capisce

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anche facilmente che nel racconto dettato da un narratore brioso come è Apuleio, il protagonista possa in qualche mo- mento recitare la parte a lui affidata in prima persona, con minor coerenza o naturalezza, con un tono insomma meno confacente alla finzione retorica e più vicino alla realtà, poiché in fin dei conti Lucio è il fantoccio, e chi scrive è Apuleio, imiti più o meno un testo greco. i

Dichiariamo tuttavia fin d’ora che nulla giustifica l’asser- zione del Rohde [p. 77-8], accolta esplicitamente dal Biirger, [492] che nella seconda parte delle Metamorfosi e precisa- mente nel libro 11°, scritto in tono mistico, e dettato origi- nalmente da Apuleio, a Lucio di Corinto si vada sempre più sostituendo lo scrittore stesso. Ciò è effetto di pura illusione, come vedremo ancora in séguito esaminando gli ultimi capi- toli dell’opera, illusione suscitata soprattutto dalle parole di Agostino, De civ. dei 18, 18, e dal famoso Madaurensem di ΤΊΤΟΥ:

Intanto, riguardo al primo di questi due passi, convien osservare bene le parole che precedono. Agostino si do- manda: Se mi si chiedesse che cosa io pensi dei perfidi scherzi dei dèmoni, dovrei dire che non meritano alcuna fede? Eppure, prosegue, c’è chi ne racconta ancor oggi, tanto che sentii narrare io stesso in Italia di ostesse capaci di trasformare viaggiatori in bestie da soma, mediante la som- ministrazione di certo cacio preparato con arte magica: unde in iumenta ilico verterentur et necessaria quaeque portarent postque perfuncta opera iterum ad se redirent; nec tamen in eis mentem fieri bestialem, sed rationalem humanamque servari...: insomma la trasformazione magica in tutto rispondente a quella di Lucio, anzi cosi perfettamente identica, che sarebbe stato strano se Agostino non avesse soggiunto quanto segue immediatamente: sicut Apuleius in libris, quos asini aurei titulo inscripsit, sibi ipsi accidisse, ut, accepto veneno, humano animo permanente, asinus fieret, aut indicavit aut finxit. Le quali parole intendo cosi: Apuleio o ‘riferi come casi suoi’ o ‘narrò fantasticamente ’, come se fossero casi suoi. In ogni caso l’aver narrato come casi suoi non potrebbe sol- tanto significare narrò in prima persona ,? Per Agostino

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è indifferente che Apuleio abbia narrato cose vere o di pura invenzione aut indicavit, aut fincvit —; a lui basta qui ci- tare l'esempio classico di una persona cosî nota come era Apuleio, e per sapere e per virti magiche, che racconti ‘in prima persona’ la metamorfosi, dandole cosî un valore di caso possibile’. Ancora: con l’indicavit aut finxit Agostino dovette rispecchiare il dubbio che si affaccia naturale al let- tore del romanzo Apuleiano, se cioè i casi narrati in prima persona da Lucio di Corinto debbano proprio riferirsi a lui o ad Apuleio stesso nascosto sotto il nome di Lucio. L’identificazione del vero ‘io’ con Lucio non è pertanto affermata da Agostino, che lasciava invece la cosa del tutto incerta. Non convien dunque attribuire al passo tm valore che non ha. E in appoggio alla mia tesi aggiungo ancora che sarebbe assai singolare supporre in Agostino l’ignoranza della favola diffusissima dell’uomo asino o la non conoscenza del romanzo di Lucio di Patrae o 461} Ὄνος pseudo-lucianeo. Di qui deriva chiaramente ch'egli non può asserire che Apu- leio marri sul serio di la trasformazione della novella, ma soltanto che o la narra sul serio, come caso teoricamente possibile, e riferendola retoricam. a sé, o la narra come no- velliere, fantasticamente, ma sempre in prima persona! Come il lettore potrà notare, vedo la cosa in modo alquanto diverso dal Teuffel (Gesch. der ròm. Liter., 18905, p. 922) e Continuatori (6* ediz., 1918, p. III, 106), dove si riconosce l'errore di Agostino nel credere’ Apuleio narratore di casi suoi sotto il nome di Lucio, e questo si spiega con la narra- zione in prima persona, con l'introduzione di casi della vita dell'Autore nel corso dell’opera, particolarmente da 11, 15 in poi, e col celebre Madaurensem di 11, 27. E non ho bisogno di aggiungere che sono ben lontano dall’interpretazione del Misch nella sua Gesch. der Autobiographie (Leipzig, 1907, I, p. 225): Den spiteren Generationen galten diese ganzen Metamorphosen als die Konfessionen eines Magiers, und auch Augustin wollte nicht recht entscheiden ob das Produkt seines Landmanns Wahrheit oder Erfindung sei ,, dove in parte si potrebbe obiettare anche alla prima proposizione. Comunque, dalle parole di Agostino, non abbastanza bene

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considerate nella lettera e nel contesto e dal contenuto di tutto il libro undecimo, è facile vedere come sia sorta la con- vinzione che Apuleio a poco a poco venga sostituendo in certo qual modo stesso a Lucio, fino a subentrare goffa- mente in luogo suo con la sorpresa del Madaurensem. Sol- tanto non conviene dimenticare che i dati di fatto attribuiti ‘a Lucio convengono pur sempre alla persona di lui rendono in alcun modo necessaria la persona dell’Autore fuorché in un unico particolare, nel Madaurensem. Una sola parola non dimentichiamolo disconviene in tutto il lungo racconto escluso, naturalmente, il prologo a Lucio di Corinto, è affatto dimostrato che la sorpresa del Ma- daurensem sia preparata gradualmente nel corso dell’i1° libro. Se questo sia d'ispirazione del tutto Apuleiana o no, noi non possiamo sapere, possiamo dire. 11 tono e il contenuto mistico non ci meravigliano, doveva esser difficile al nostro ‘sofista’ di ampliare la sua fonte con novelle e descri- zioni che avevano qualche radice in cose vedute e fors’anche provate attraverso le varie sue iniziazioni, a cui accenna nell’Apologia. Ma tutto quanto è narrato anche in quest’ul- timo libro, per chi ben osservi, si può riferire sempre a Lucio senza alcuna difficoltà. Non si è abbastanza notato, ad es., che in: 25-26, poche parole dunque prima dell’impacciante Madaurensem, noi assistiamo al congedo affettuoso di Lucio dal sacerdote. Il nostro sofista si compiace in questo libro di mutare il tono e di fornirci dei tratti patetici, come s’usava nell’arte loro, di singolare ‘preziosità’: Ad istum modum de- precato summo numine, complexus Mithram sacerdotem et meum iam parentem, colloque eius multis osculis inhaerens veniam . postulabam, quod |d|eum condigne tantis beneficiis munerari ne- quirem. Prosegue Lucio narrando di essersi profuso in lunghi ringraziamenti e finalmente di aver preso licenza da Mitra: tandem digredior et recta patrium larem revisurus meum post aliquam multum te(m)poris contendo paucisque post. diebus ... raptim constrictis sarcinulis, nave conscensa, Romam versus profectionem dirigo, cett. Indubbiamente qui tutti i particolari convengono al viaggetto di ritorno a casa sua, donde, dopo pochi giorni, Lucio deae potentis instinctu s'imbarca per Roma,

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o meglio per Augusti portum. Questo viaggio insieme col pre- cedente per recarsi ex negotio in Tessaglia possono ben spie- gare le parole di 11, 28: mam et viriculas patrimonii peregri- nationis adtriverant impensae, come non c'è bisogno di pensare al confronto del costo della vita tra Roma e Madaura nelle parole che seguono et erogationes urbicae pristinis illis pro- vincialibus antistabant plurimum, potendosi invece ben pensare al confronto tra Roma e Corinto. Si aggiunga che le υἱγὲ- culas patrimonii non rispondono precisamente al passo di De magia, 23, dove Apuleio afferma di aver ereditato dal padre ben un milione di sesterzi due milioni da dividersi col fratello —, capitale che sarebbe stato soltanto modice îmmi- nutum da lunghi viaggi, da spese negli studi e da atti di libe- ralità verso maestri ed amici (1). Che Lucio fosse colto e uomo di lettere, risulta da varii passi della narrazione A pu- leiana, questa sua qualità meraviglia qui alla fine delle Metamorfosi. Convien del resto osservare che alla fine del- Τ᾿ Ὄνος pseudo-lucianeo, Lucio dichiara di essere scrittore di storie (?) e d’altro, e di avere un fratello poeta elegiaco e buon indovino (2).

Perché Lucio viene in Tessaglia? ΝΟ} Ὄνος è detto chiaro (3). Ex negotio, dice (I, 2) soltanto Lucio in Apuleio. Ma se leg- giamo il primo capitolo del secondo libro, vedremo chiara- mente che lo scopo principale dell’opera è di novellare della magia e delle potenze magiche. Lucio è invero anxius et nimis cupidus cognoscendi quae rara miraque sunt. Nulla è impossi- bile lassi. Le forme sono fatte per ingannare. Le piante pos- sono essere uomini vestiti di foglie. E allora anche il rac- conto di Aristomene nel primo libro può ammettersi come

(1) V. in senso contrario il Rohde (1. c.), p. 78-9.

(2) [Luciani] As. 55.

(3) Alla domanda di Ipparco relativa alla direzione del suo viaggio, e alla durata della sua permanenza in casa di lui, Lucio risponde : Vado a Larissa e faccio conto di rimanere qui da tre a cinque giorni 5. ᾿Αλλὰ τοῦτο μὲν ἦν σκῆψις" ἐπεϑύμουν σφόδρα μείνας ἐνταῦϑα ἐξευρεῖν τινα τῶν μαγεύειν ἐπισταμένων γυναικῶν καὶ ϑεάσασϑαί τι παράδοξον, πετόμενον ἄνϑρωπον λιϑούμενον (3-4).

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verisimile. Singolare coincidenza coll’ammissibilità delle cose più strane anche da parte del compatriotta Agostino, un cu- rioso cristiano-neoplatonico. Questi ammette la possibilità che ogni cosa è possibile, purché Dio lo voglia (1). Apuleio fa dire a Lucio: Eg0 vero... nihil impossibile arbitror, sed utcumque fata decreverint, ita cuncta mortalibus provenire, e ciò dopo la fantastica novella di Aristomene che aveva fatto esclamare al compagno ascoltatore: Nihil... hac fabula fabulosius, nihil isto mendacio absurdius (1, 20).

Che l'eroe narrante sia Lucio, sempre Lucio e non altri, si può desumere luminosamente da varii punti dell’opera, come da molti passi risulta che chi scrive mette di suo quanto era oggetto di suoi studi o almeno di osservazioni o predi- lezioni o anche credenze speciali. Il semper optatum nomen artis magicae di 2, 6 è caratteristico per questo secondo ορ- getto, come per entrambi è notevolissima la chiusa di 2, 12. Anche a Corinto dice qui Lucio c'è ora un Caldeo che campa la vita facendo predizioni e dando preziosi consigli a chi lo interpella sul suo avvenire, e conclude: Miki denique proventum huius peregrinationis inquirenti multa respondit et oppido mira et satis varia; nunc enim gloriam satis floridam, nunc historiam magnam et incredundam fabulam et libros me futurum. Ciò che risponde benissimo al nam et illi studiorum gloriam... sua comparari providentia di 11, 27, poche parole dopo il Madaurensem.

Concludendo: «) noi non abbiamo alcuna seria ragione di dubitare che tutta la narrazione si riferisca al soggetto reto- rico Lucio di Corinto, quando non si dia peso al Madau- rensem di 11, 27; 5) anche tutto ciò che segue al Madau- rensem può senza difficoltà alcuna riferirsi a Lucio di Corinto; c) i dati di fatto contenuti in questi capitoli non si riferi- scono punto necessariamente ad Apuleio, ma convengono sempre a Lucio; d) alcuni particolari, come quello delle vîri-

(1) Precisam. nel passo che segue alle parole dianzi citate. Haec vel falsa sunt, vel tam inusitata ut merito non credantur. Firmissime tamen credendum est omnipotentem Deum omnia posse facere quae voluerit, cett.

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culae patrimonii, e aggiungeremo il capo raso del pastoforo in confronto colla bella chioma fluente dell’oratore, rispondono assai meglio a Lucio che non ad Apuleio; e) il tono patetico e mistico del libro 11° non prepara affatto la sorpresa finale del Madaurensem, ma è un nuovo capitolo che Apuleio pro- babilmente aggiunse di suo al romanzo con altro tono e co- lorito, è un altro ‘tempo’ della ‘sonata’, che sta all'insieme come la favola di Amore e Psiche; f) infine stona al complesso cosi concepito nel modo piu ovvio una sola parola: il Ma- daurensem di XI, 27 (1).

Vediamo ora come tutta la narrazione risponda pienamente

al prologo. Qui Lucio si dichiara enfaticamente greco, di.

quella grande patria greca magnificata. dai poeti; ivi è la sua prosapia ,, ivi ha imparato la lingua quand'era ra- gazzo. E fin qui Lucio di Corinto ha tutto il diritto di par- lare in questo modo. Come può proseguire dicendo: in séguito (mox) nella grande Città del Lazio’ cosî intendo l’enfa- tico in Urbe Latia profano degli studi romani, imparai la lingua del paese, essendomici dedicato con lavoro penoso, senza la guida d’un maestro. Anche questa parte può convenire benissimo a Lucio, perché da 11, 26 sembra risulti ch’egli allora la prima volta 51 recasse a Roma. Badiamo tuttavia che l’advena studiorum Quiritium, per me, vale soltanto ch'egli non conosceva la letteratura romana, che la sua cultura s'era formata sui libri greci, e quanto segue significa ch’egli senza maestro s’accinse a comprendere e a parlare sermonem indi- genam, ch'è la lingua corrente allora in Roma. Qui si accenna

(1) Ad alcune di queste conclusioni era giunto per altra via già il Goldbacher nell'articolo citato a pag. 32, nota; per l’ingombrante Madau- rensem è la pretesa identificazione di Lucio con Apuleio nel libro 11°, v. anche Robertson, Lucius of Madaura in Classical Quarterly, 1910, p. 221-7, e nota l'emendamento un po’ singolare da lui proposto al passo di 11, 27.

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a mio avviso appunto alla lingua parlata, dell’uso, degli at- fari, del foro, tanto più difficile per lui ad apprendere in quanto era nuovo alle lettere romane (advena studiorum Qui- ritium). Questa lingua corrente o parlata, comunque si voglia chiamare, che viceversa poi è un artificioso linguaggio che ha solo a base il tono della viva conversazione, è il colorito più tipico della narrazione Apuleiana, colore voluto e attri- buito alla singolar forma di apprendimento necessario per parte di un uomo di Corinto capitato fatalmente a Roma. È ben naturale che Lucio finisca col domandar venia insieme col raccoglitore delle sue parole Apuleio di qualche forma esotica e volgare, come narratore alla buona. In altri termini lo stile di questa narrazione essendo scelto da Apu- leio come foggiato sulla lingua ‘parlata’ in Roma, egli, che è straniero, scusa i possibili difetti dell'uso di qualche ter- mine esotico, o della lingua corrente (indigena = forensis) in contrapposto all’espressione propria e artistica della ‘con- sueta’ prosa scritta ed ornata (1). Questa giustificazione di rudis locutor non disconviene punto a Lucio ed anche qui il soggetto retorico è al suo posto.

(1) Che realmente la lingua e lo stile di Apuleio nelle Metamorfosi abbiano l'intonazione del cosiddetto parlar famigliare, nel senso lato della lingua viva corrente allora in Roma e usata nei tribunali e nel fòro, e che perciò abbia potuto esser chiamata da lui dapprima sermo indi- gena poi (sermo) forensis, mi sembra possa difficilmente negarsi. Debbo tuttavia subito ammettere che su questo argomento c’è molto ancora da fare prima di poter giungere alla conoscenza dell’artificiosissimo lin- guaggio creato apposta per questo bizzarro romanzo. Le osservazioni del Rohde (l. c., p. 84) in massima 51 raccolgono intorno al concetto che Apuleio non fu discepolo di Frontone, ma del Frontonianismo. Pochi anni prima Giovanni Piechotta in una bella dissertatio inauguralis dal titolo Curae Apuleianae (Vratislaviae, 1882), pur essendo preoccupato so- verchiamente delle peculiarità del latino africano, aveva fatto molte ed esatte osservazioni sul nostro argomento, giungendo alla conclusione: metamorphoseon igitur libros ... populariter compositos esse, sed ita ut vul- garis orationis speciem ludens adhiberet scriptor, non est difficile intellectu (p. 22), e più innanzi a quest'altra pi ardita: ifaque sic potius sentiamus Apuleium vocabula illa improbata ad fabulam scribendam non conquisivisse magno labore ex libris oblivione obrutis, sed eum plurima tantum non re-

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Rimane dunque solo da considerare il periodo: iam haec ipsa vocis immutatio... respondet, ma prima occorre notare al- cune altre osservazioni particolari del Burger.

Per ora basti osservare che l’attribuire. queste parole a Lucio di Corinto non può presentare la minima difficoltà. La difficoltà sorge invece quando si vuol definire il loro parti- colare valore.

Nell’esaminare l’articolo del Biirger ci siamo fermati al punto in cui egli crede di poter concludere che il proemio è disegnato in modo da svegliare nel lettore l'impressione che narratore ed autore siano la medesima persona, cioè

pudiavisse, cum trita essent in consuetudine cotidiana (p. 24), dove faccio le mie riserve. Apuleio non ci uno stile fatto sulla ‘parlata’ di Roma quella parlata di cui ci sembra di sentir l’eco se non in parte. Direi che ci il tono d’uno stile e d’una lingua ‘viva’, dove per altro fa entrare un po’ di tutto. Questo è adatto ad una desultoria scientia, come troviamo scritto nel prologo. C'è perfino il colorito greco, il gusto esotico, ma c'è l'eco di tante reminiscenze classiche romane, come l’uso di tutti i mezzi i più disparati della retorica e della seconda sofistica. Con ciò non si vuol dire che Apuleio abbia fatto la sua lingua sugli scritti, come sostenne il Rossbach (Ber. phil. Woch., 1906, col. 883) re- censendo l’opera del Novak: Quaestiones Apuleianae, Prag, 1904, ma sol- tanto far rilevare che la preparazione Apuleiana era anzitutto letteraria e che lo stile bizzarro suo dev'essere una singolare mistura d’un po’ di tutto, una rivoluzione del linguaggio e di tutti i suoi elementi, ciò che, come vedremo, io trovo espresso nella vocis immutatio del prologo. In tutto questo rimescolìo di vecchio e di nuovo, di obsoleto e dell’uso, di puro e di impuro, di corretto e scorretto. circola e predomina il ‘fare dell'esposizione orale’ che A. facetamente vuol riferire ad un greco poco esperto del latino letterario. Questo tono, questa lingua, questo stile, spesso della conversazione’, dovranno alla parlata di Roma pi o meno di quanto debbono alla commedia, alle Menippee Varroniane e in genere alla satira fino a Petronio? non dovran nulla al mimo? Benché esca dai limiti della mia trattazione, pure non posso a meno di ricordare che dai molti scritti sulla lingua e lo stile di Apuleio (V. partic. in Stolz- Schmalz-Heerdegen, Latein. Gramm., Minchen4, 1910, p. 320) risulta che uno studio compiuto sull'argomento si desidera tuttora. Sul povero la-

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Lucio di Corinto [pag. 495-6]. Crediamo di esser riusciti a dimostrare la vanità di quest’asserto. meno infondata ci sembra l’ipotesi che segue e che pur venne presa in seria considerazione (1).

Una simile composizione del proemio deve certo apparire secondo il B. sommamente strana e si può intendere solo dietro la premessa che Apuleio abbia pubblicato l’opera sua anonima o con lo pseudonimo di Lucio di Corinto. Non insisto sulle argomentazioni del Rohde in senso contrario, sulle controobiezioni del Biirger [p. 496], perché nelle prime e nelle seconde si discute su un terreno malsicuro, cioè sulle intenzioni attribuibili ad Apuleio. E nemmeno ci riesce sor- prendente il fatto notato dal Birger [p. 497] che nell’unico manoscritto normativo (2), mentre le soscrizioni dei due libri De magia e dei quattro dei Florida recano sempre accanto

voro del Koziol, che può servire tuttora come una non spregevole rac- colta di materiale, infierisce il Norden in Die antike Kunstprosa, 2 (1909°), p. 604 e nella Ròmische Literatur (1912?) a p. 441. Certo l’opera del Koziol: Der Stil des L. Apuleius, andrebbe rifatta con altri criterii, e allora non risulterebbe pit, com’era nell’intenzione dell’A., ein Beitrag zur Kenntnis des sogennanten afrikanischen Lateins, ma un’ illustrazione della ἑωνιπμὴ ἰδέα. Richiamo infine le importantissime consideraz. del Norden (op. ora citata) a p. 448, ultimo capoverso, e 449.

Uno studio recente, che non poteva esser citato nello Stolz, quello di 7. v. Geisau: De Apulei Syntaxi poetica et Graecanica (Minster, 1912), è un buon compimento della dissertaz. del Leky: De syntarxi Apuleiana, edita quattro anni prima pure a Miinster, compimento solo riguardo alla comprensione del soggetto, essendo la più antica di queste mono- grafie intesa soltanto a mostrare i parallelismi della sintassi Apuleiana con l’arcaica. Certo molto c'è ancora da spigolare in questo campo e non poco da correggere. Riguardo alla conoscenza del Latino che Apu- leio avrebbe avuto prima di venire a Roma, nessun dubbio che il Geisau abbia ragione: ma chi vuole che prenda sul serio l’affermazione Apu- leiana riferita, si capisce, al suo Lucio in Met. 1, 1 del primo ap- prendimento del Latino in Roma?

(1) Cfr. Schanz, Ròm. Litt. (1905), 3, 107.

(2) Secondo il Marchesi (Per il testo del È De Magia, di Apuleio: in Studi Ital. di Filol. class., 19, 1912, p. 298), il famoso codice F (Me- diceo 68, 2) risalirebbe all'unico archetipo donde dipendono tutti i codici di Apuleio, di cui è il massimo rappresentante. Questo archetipo sarebbe

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anche il nome di Apuleio, questo nome manca regolarmente negli 11 libri delle Metamorfosi. L'ipotesi dell’anonimo, già avanzata dapprima anche dal Dilthey (1) insieme con un’altra ancor meno felice della prima redazione greca dell’opera da parte di Apuleio, ha fatto il suo tempo e nessuno ci pensa o ci dovrebbe pensare più (2). Certo è perfettamente inutile, se non la si vuol far servire a creare un presupposto: che le Metamorfosi siano scritte DOO dell’Apologia. Ma di questo parleremo piu innanzi.

L’interpretazione del proemio delle Metamorfosi richiamava alcuni anni dopo nel 1897 l’attenzione del benemerito editore di Apuleio, di J. van der Vliet, che pubblicava nel- l’Hermes, 32, p. 79-85, un importante articolo intitolato: Die Vorrede der Apuleischen Metamorphosen, richiamandosi, come era naturale, alla citata trattazione del Rohde. Pur rendendo omaggio all’acume del R., il van der Vliet osserva ch'egli ha reso ancor piu difficile senza necessità l’interpretazione delle parole enimmatiche del proemio.Il R. aveva fra l’altro inteso l’excolui (indigenam sermonem, cioè il Latino) non già come un semplice didici; l’accenno ad un apprendimento puro e semplice per lui difficilmente si potrebbe spiegare; qui si tratterebbe di un vero perfezionamento dello studio della lingua “zum kunstgemassen Organ schriftstellerischer Mittheilung , (Roh. 1. ὁ. 83). Ribatte il van der Vliet che le parole aerumna- bili labore, nullo magistro praeeunte e aggressus accennano chiaramente all’apprendimento ex novo; che in una lingua così ricca di composti, come questa di Apuleio, non reca al-

stato probabilmente costituito tra il 395 e il 397 (p. 302, nota). Perla seconda data, cfr. le ultime parole della sottoscriz. citata a p. 50: rursus Constantinupoli recognovi Caesario et Attico coss. (= anno 397).

(1) In Akad. Festrede, Gittingen, 1879, p. 12.

(2) V. tuttavia Abt, Die Apol. des Apuleius, Giessen, 1908, p. 76, n. 2. Cfr. per altro Teuffel-Kroll-Skutsch, Ròm. Liter. (19183), τιν p. 105, in paragone con Il°, p. 922.

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cuna meraviglia un excolui senza valore intensivo ; tutt'al più, se si vuole, si può giungere al pensiero: ‘cominciai ad ap- prendere e feci qualche progresso’, ma il concetto dell’aver perfezionata la conoscenza del Latino è per lui estraneo al- l’espressione Apuleiana. Ora probabilmente i due eruditi si lasciarono trascinare, senz’ avvedersene, dall’ interpretazione generale del prologo quale si affacciava alla loro mente. Il R. pensò certo alla cognizione del Latino che Apuleio doveva senza dubbio avere prima di recarsi a Roma, dove avrà per- fezionato lo studio della lingua e non appreso i primi rudi- menti; e non escludendo che nel prologo si contengano dati della vita dello scrittore, si comprende come abbia inteso l’excolui nel suo significato pit comune. Si comprende, è vero, ma al R. sfuggi l’importanza delle parole che precedono, dove il parlante si dichiara profano delle lettere romane, e di quelle aerumnabili labore, meno convenienti ad un perfeziona- mento che non ad uno studio, come meno conviene al primo che al secondo caso il nullo magistro praeeunte. Per parte sua il van der Vliet, convinto già precedentemente che le parole ‘non si riferiscano’ ad Apuleio e, come vedremo, neppure del tutto a Lucio, obietta ben disposto ad escludere senz'altro la possibilità. che qui si possa intravvedere un particolare conveniente allo scrittore, quale sarebbe quello dell’aver egli perfezionato in Roma la conoscenza del Latino. Curioso poi che nelle noterelle esplicative al prologo pubblicate in calce al suo articolo egli scriva excolui = erercui. Val. Max. 4, 7 [7] in excolendo iure amicitiae. Vita Iuven. (Friedlind. p. 3) (sa- tiricum) genus (ovv. id genus) scripturae industriose excoluit, dove il primo passo ha ben scarso rapporto col significato che ha in Apuleio l’excolui, e il secondo doveva di per richiamare l’attenzione sul valore esatto dell’excoluit, che è a mio avviso intensivo, tanto qui, come in Apuleio, come in parecchi passi che non son difficili da ricercare, come ad es. in Plin. ep. 4, 30, 2 nec agrun, sed ipsum me studtis excolo, dove il valore intensivo di excolo risponde alla ‘diligenza che alcuno pone nel colere, concetto che è anteriore, ideolo- gicamente parlando, a quello del perfezionare, indubbia- mente più comune al verbo stesso, ma non necessariamente

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ad esso inerente. Il parlante del prologo Apuleiano dice che excoluit, cioè studiò con ardore il Latino, ed aggiunge aeru- mnabili labore, precisamente come nel passo citato della Vita Iuvenalis accanto ad excoluit (satiricum) genus noi vediamo un industriose. i Non mi trovo neppure d'accordo col van der Vliet nell’in- terpretazione delle parole advena studiorum Quiritium indi- genam sermonem... excolui, in quanto io riferisco il Quiritium a studiorum, mentre il citato filologo intende advena studiorum come ‘studente straniero’ (fremder Student, p. 80) e cita il passo di Metam. 11, 20, eram cultor denique assiduus, fani quidem advena, religionis autem indigena. Non comprendo come il van der Vliet possa giungere a una simile interpretazione. Che advena valga pressappoco nei due passi citati alienus 4, estraneo, non può mettersi in dubbio. Mi par quindi altret- tanto indubitato che advena studiorum non possa significare altro se non estraneo agli studi, profano, inesperto, nuovo e simili. L’advena studiorum è del resto interpre- tato generalmente cosî, come si può vedere anche in Thes. I {a. 1912), col. 829 e in Georges, Ausf. Lex., 19128, p, 155. Comprenderei fino ad un certo punto lo ‘studente straniero qualora il v. ἃ. Vliet unisse Quiritium con advena studiorum, ciò che egli invece esclude apertamente, si può supporre ch’egli riferisca il Quiritium tanto a studiorum come ad in- digenam sermonem (1). E giacché siamo in argomento, non sarà inutile aggiungere che qualche interprete, ponendo una virgola dopo advena, intende: Bientòt je fus transporté dans la capitale du Latium; et obligé de connaître la langue des Romains pour suivre leurs études... ,, una parafrasi tutta sforzo che riporto dalla nota versione del Bétolaud, a cui è parallela, benché pit letterale, quella della collezione Nisard,

(1) Mette conto di rilevare la nota 4% a p. 80: Dass er seine eigene Muttersprache in Rom aerumnabili labore studiert haben wiirde, ist doch wohl gar undenkbar ,, ciò che nessuno vorrebbe certo negare, avrei citato se non seguisse l’osservazione che pur ammettendo Quiritium quale attributo di studiorum, si dovrebbe tuttavia intendere indigenam sermonem come equivalente a indigenarum sermonem.

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dove leggo analogamente: Transporté plus tard sur le sol latin, étranger au milieu de la société romaine... ,. Ciò del resto dimostra che l’unire studiorum con Quiritium non è riu- scito strano a molti interpreti, fa alcuna meraviglia un Quiritium usato qui come aggettivo, una novità Apuleiana che per altro non vedo notata dal Koziol da altri studiosi di questa lingua artificiosa.

Del resto anche senza tener conto del ‘nuovo’ di questa espressione ricercata, a sorpresa, convien pensare per con- verso alla disastrosa rima che avrebbe dato uno studiorum Fomanorum, mentre Apuleio s'intende bene di assonanze, e come le sa scegliere, le deve aver sapute anche evitare.

mi trattiene dal porre una virgola dopo Quiritium la considerazione di un poco fortunato studioso della Compositio numerosa Apuleiana, che nota: Bene vero metrum clausulae et initii inter se congruunt: mox in urbe La | tia advena studio- rum || Quiritium indigenam ser | monem... (1). Infine che Lucio si chiami advena studiorum Quiritium si giustifica, e non si comprenderebbe invece un advena studiorum nell'unico senso che si può attribuire a queste parole, cioè di un uomo pro- fano agli studi.

E qui la discussione ci conduce ancora ai rapporti tra il prologo, le sue promesse, la persona o le persone del prologo e il resto dell’opera. Premesso che il v. d. Vliet è tra gli innumerevoli che credono al Madaurensem di 11, 27 e perciò ad una rivelazione improvvisa dello scrittore con- servatosi fino allora sotto la maschera di Lucio, dobbiamo esaminare il valore di alcuni de’ suoi asserti a p. 81. Per

(1) Quanto sia numerosa la lingua delle Metamorfosi, risulterebbe già dal fatto che in alcuni mss. ed ediz. antiche si trova scritto il nostro prologo con disposizione di versi... giambici. La dissertazione di Alfredo Kirchhoff, De Apulei clausularum compositione et arte, Lipsiae, 1902, risultati poco sicuri. Il Ceci (a p. 79 della sua opera 11 ritmo delle ora-

>, zioni di Cicerone, Torino, 1905) la chiama addirittura perversa’. Mi- gliore non è certamente quella di Ernesto Schober: De Ap. Metamorpho- seon compositione numerosa, Halis Saxonum, 1904, dove a p. 50-51 c’è un esame particolare del ritmo nel prologo. ΐ

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 2

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lui, come la persona che parla nell’introduzione non collima punto totalmente col Lucio di Corinto, i cui casi vengono narrati in séguito, altrettanto poco le espressioni dell’intro- duzione hanno a che fare con tutto il contenuto delle Meta- morfosi. Noi dal proemio egli osserva poiché li cono- sciamo per altra via, possiamo rilevare alcuni dati rispondenti alla vita di Apuleio, ma questi non ebbe probabilmente l’in- tenzione di comunicarli qui al lettore, e del resto un lettore che non ne avesse avuto altrimenti notizia, non doveva poteva qui rilevarli (p. 79).

Non si può negare che il pensiero sia un po’ faticoso ed incerto, riesca ben chiaro come egli consideri l’esistenza di un Prologus’, se del tutto estraneo all’opera o no. Chi è dunque costui? È un Greco che presenta al pubblico una no- vella tradotta in Latino (p. 78-81). Sotto la maschera di questo Greco si cela Apuleio, avverte il v. d. Vliet, volendo senza dubbio significare che il prologo è scritto originalmente da Apuleio e non entra nella pretesa traduzione dal Greco, come sarebbe tutto il resto dell’opera. Ancéra: il Prologo non dice di narrare nella novella seguente le sue vicende e ciò basta per escludere che il prologo sia pronunziato da Lucio di Corinto.

Osservo anzitùtto che è difficile poter negare il nesso che passa tra la praefatio e il principio del capitolo che segue immediatamente, dove appunto il nam ET ILLIC ... nobis fa- ciunt si riferisce alla origine greca, già dichiarata dal nar- ratore nel preambolo, ora confermata qui da lui stesso anche per il lato materno. L’inciso citato pare messo li apposta per legare il proemio alla narrazione. È ben vero che all’Oudendorp parve interpolato (da 2, 3), ma i sospetti dell’Oud. hanno assai scarso fondamento (cfr. ediz. Hild. 1. c. nota), come vedremo anche in séguito. A questo nesso per me indiscutibile tra il proemio e il principio della narrazione si aggiungano le considerazioni già svolte precedentemente, che dimostrano come non solo le parole del prologo corri- spondono pienamente al narratore della fabula fino al libro 11°, ma, come io credo, fino alla fine dell’opera, e si vedrà se mai possa esser piu probabile l’ipotesi contraria di un pro-

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logo tutto a sé, pronunziato da un X qualunque che scusa la sua imperizia, cioè poi quella dell’autore, nello scrivere la- tino, spacciandosi per greco e raccontando dei dati biografici o di fatto che non convengono badiamo bene ad Apu- leio e hanno ben poco sugo, perché non se ne vede il motivo, se si riferiscono a lui. Si dirà: la vocis immutatio accenna alla traduzione e lo spirito del Prologo sta appunto in questo : di dichiararsi un Greco che va a Roma a imparare alla bell'e meglio il Latino, e che perciò chiede venia se la tra- duzione dal Greco ch'egli presenta difetta della purezza di elocuzione. E invero il v. d. Vliet, come già il Rohde e l’Hildebrand, è tra coloro che intendono così appunto la vocis immutatio, interpretazione arguta fin che si vuole, ma che non regge ad un esame severo delle parole e del contesto. Ar- guta ho detto, perché infatti si presta ad un parallelo che sorprende, come vedremo meglio esaminando per intero la proposizione.

Le parole enimmatiche sarebbero dunque le seguenti: iam haec equidem ipsa vocis immutatio desultoriae scientiae stilo quem accessimus respondet. Osserviamo bene che prima di tutto il periodo è strettamente legato a quanto precede con una particella di passaggio, aggiuntiva, esplicativa a seconda dei casi, il iam, mentre l’equidem e l’ipsa richiamano fortemente l’attenzione sulla wvocis immutatio, il cui concetto è dunque contenuto nella proposizione che precede. Colui che dice : ‘chiediamo venia se io inesperto nel parlare ecc...., incorrerò in qualche espressione barbara o volgare’, richiama questo concetto con la vocis immutatio. Stabilito cosi in modo che non mi par dubbio il valore generico delle parole, veniamo alla loro limitazione, ciò che sembra ancor più difficile. E prendiamo norma dal già detto, cioè dalla strettissima dipen- denza della locuzione e della frase tutta ora discussa da quanto precede, e non anche badiamo bene dalla pro- posizione che segue: fabulam Graecanicam incipimus, che è un particolare aggiunto poi. Il disegno del prologo a me non sembra dubbio. La sua originalità consiste appunto nel far comparire subito il narratore della novella, quale era nella fonte greca, a promettere le sue favole milesie. La prefazione

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ci dice ancora la pretesa del narratore di divertirci colla narrazione briosa (Zepido susurro) e, come io intendo, colla bellezza delle illustrazioni (papyrum Aegyptia argutia Nilotici calami inscriptam). Ma c’è di pi e precisamente quel tanto di più cui uno scrittore greco o romano attribuiva un singo- larissimo valore di originalità, lo stile; voglio far torto al lettore ricordandogli come Apuleio in modo particolarissimo foggiasse uno stile speciale per ogni sua opera. Il narratore impiega metà del proemio a spiegarci la sua preparazione sti- listica greco-romana, e colla retorica giustificazione dell’eso- tico e del volgare che il lettore potrà incontrare nel suo linguaggio di rudis locutor, richiama appunto l’attenzione sulla peculiarità del suo stile adattato come di precetto reto- rico e di applicazione specialissima Apuleiana apposita- mente all'opera: una vocis immutatio, ossia un'“ impurità, ο΄ rivoluzione, epperò bizzarria di linguaggio , che risponde ap- punto allo stile scelto appositamente per il romanzo, lo stile di chi ha raccolto nella sua memoria un po’ di tutto, rac- contiystorielle di ogni genere, ecc., di chi possiede una scientia desultoria.

Al iam haec equidem ipsa vocis immutatio indubbiamente non manca nulla per esser considerato una specie di epese- gesi di quanto precede; ciascuna delle prime quattro parole lo dichiara: iam (del resto), haec (questa, cioè or detta, or accennata), equidem (appunto), ipsa (proprio), e pertanto dob- biamo attribuirgli il valore ben noto che risulta soprattutto dalla trattazione del solecismo in Quint. Inst. I, 5, 34 e sgg., dove, e precisamente nei $$ 41-55, si parla della immutatio, che qui evidentemente Apuleio doveva dire, e per necessaria determinazione e per la solita enfasi, vocis immutatio.

Notevolissimo è che il desultoriae scientiae che segue imme- diatamente è già di per un solecismo (1), che l’advena stu- diorum per alienus a, che l’indigena sermo per patrius, che l’aerumnabili labore per operoso (dove poi aerummabilis è poe- tico per aerumnosus) sono ciascuno una immutatio vocis, che

(1) Cfr. H. Koziol, o. c., p. 311-316.

lo

un'immutatio è glebae felices, tantoché il iam haec equidem ipsa vocis immutatio (intendo vocis per lingua) può accennare intanto a ‘questa lingua che voi sentite’.

Dobbiamo ancora discutere le altre interpretazioni di vocis immutatio, di desultoriae scientiae e di tutte le parole da haec equidem fino alla fine del periodo, ciò che faremo colla mag- gior possibile brevità, come ci rimane ancora da discutere il gravissimo asserto del v. ἃ. Vliet, che rispecchia un'opinione accolta generalmente, intorno alle promesse inadempiute del prologo ed alla pretesa unica trasformazione e ritrasforma- zione che sarebbe descritta nelle Metamorfosi. Nel commento dell’Hildebrand si legge: Totus igitur locus ita capiendus est : Eo quod graecum sermonem cum latino transmutavi, stilus re- spondit arti magicae. Nam ut in illa homines in alias fiquras transiliunt et vice versa in suam redeunt, sic ego quoque ab lingua latina saepius ad veram mihique ingenitam desilire cogar, ut fiat utriusque linguae commixtio. L'antica interpretaz. di desultoria scientia per ‘arte magica’ è accolta anche nel Forcellini-De Vit, ho bisogno di illustrare il valore di desultor e di desultorius, poiché ognuno può esserne facilmente informato dall’articolo desultor in P.W.R.E.(1). Che scientia de- sultoria accenni a quell’arte per cui da una forma si passa ad un’altra e successivamente dall'altra alla prima, come fa il desultor nel circo saltando alternativamente dall'uno all’altro cavallo ch’egli guida paralleli, è certo interpretazione arguta, ma che va piu in del semplice concetto della indifferenza, della facilità del passaggio, che è insito nel valore proprio e nel figurato di desultor, non sum desultor amoris, dice Ovidio di (2), = non passo con indifferenza da uno ad altro amore —, il qual desultor non si trasforma, ma è sempre lui che salta di qua e di là, ora a destra ora a si-

(1) Desultor, ia Pauly-Wissowa, Real-Encykl., V, 255 (Pollak). (FAm, 1; ὃ; 15.

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nistra, ma non diviene un altro. Comunque, sulla base di questa prima ed antica interpretazione senza probabilmente avvedersene il v. d. Vliet crede che le parole di cui di- scutiamo vogliano soltanto significare che col racconto delle diverse metamorfosi concorda esattamente la metamorfosi della lingua (p. 81). Anche il Rohde del resto aveva creduto che desultoria scientia accennasse alla traduzione (1), mentre il Biirger, attenendosi più strettamente al valore della parola desultorius, interpretava ‘col procedere di un desultor’ (sprin- gende oder sprunghafte Darstellung; 1. c., p. 492), una narra- zione dove in modo strano si salta da un punto all’altro. Ciò, secondo il B., risponde bene al romanzo di Ap., dove dalle av- venture dell’asino si salta a storielle che con quella non hanno punto a che fare. A questo saltare qua e ᾿ corrisponderebbe la mutazione della lingua (vocis immutatio), che oscilla tra il colorito greco e il latino. Pensiero molto chiaro molto fine, conclude il Biirger, ma clie risponde bene alla mente Apuleiana. Indubbiamente l’interpretaz. del B. ha un notevole vantaggio sulle altre, compresa quella del v. ἃ. Vliet, venuta dopo. Non di traduzione dunque si tratterebbe, ma di trasformazione e mutazione rapida di argomento, di espres- sione, di colorito, di stile. Una cosa intanto sfuggi al Biirger e non è lieve di tener conto della parola scientia, che non può equivalere del tutto ad ars. Se conoscessimo l’ar- gomento della Menippea di Varrone intitolata Desultorius, la questione sarebbe forse senz'altro risoluta (2). Tuttavia in man- canza di dati piu certi, ci può, mi sembra, dar qualche lume

(1) L.c., p.76: Apuleius iibertrigt (und erweitert) ein griechisches Buch , (fabulam Graecanicam, I, 1).

(2) Dai due framm. Varroniani in Nonii Marcelli Compendiosa doctrina, II, p. 144 e 195 (Lipsiae, Teubner, 1888) Luciano Miller osserva: 51 ἐπ tanta fragmentorum paucitate (duo sunt, non plura) licet coniectari de argumento, a Varrone hac satira demonstratum, quomodo homini Romano, i. e. rebus publice privatimque agendis exercitatissimo, in diversissimis vitae laboribus otium esset captandum raptimque, si adeptus esset, utendum. Qua in re videtur memor fuisse C. Caesaris, cui quondam inter piratas agenti non defuit animus ad carmina pangenda (II, 144).

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anche il semplice sottotitolo περὶ τοῦ γράφειν, qualunque sia la sua origine, che non è qui il caso di discutere. Il Desul- torius si riferisce dunque a uno che scrive o alla maniera del suo scrivere e cosî la magia par proprio che non c'entri af- fatto. Aggiungi che scientia è il sapere, la dottrina. Provia- moci ora a mettere di fronte la vocis immutatio, quale è intesa comunemente, al secondo termine di paragone, nella duplice interpretazione accennata. Che significato avrebbe: questo mio mutar di favella cioè scriver latino, io greco cor- risponde allo stile di chi ha appreso due lingue , ? oppure: corrisponde per riguardo allo stile alla conoscenza di due lingue , tenendo conto della scoperta (!) dell’Hildebrand che stilo sia un ablativo —?; oppure ancora: corrisponde allo stile di una narrazione tumultuaria , ? Se non che nell’ultima interpretazione si prende scientia per ars e questo è arbi- trario. Converrebbe allora rimanere nelle interpretazioni già accennate. E in tal caso come sta il secondo termine al primo a cui respondet? si dica che la prima di queste versioni possa approvarsi, perché il mutar di favella, cioè ‘lo scriver latino da parte di uno che conosce anche il Greco possa corrispondere ‘ad uno stile proprio di chi conosce le due lingue”. Qui c'è tautologia o peggio.

Obietterà altri che vocis immutatio nel senso da me proposto di ‘impurità, imbarbarimento, bizzarria di elocuzione’ possa urtare contro due difficoltà: la prima per il valore di vor, la seconda per la constatazione di fatto che non dovrebbe am- mettersi nello scrittore. Alla prima rispondo che la vocis im- mutatio, dove vor vale ‘lingua, favella’, risponde benissimo alrudis locutor. Il chiamare la lingua o l’elocuzione usata nell'opera, vox, risponde soprattutto al fatto che qui il Prologo parla (cfr. il Graeca scierit sive Latina voce loqui di Ovidio (1)). Alla seconda obiezione credo che non molti daranno peso. È troppo naturale che Apuleio, ambizioso qual era, pretendesse d'aver fatto una narrazione artistica, quando le preponeva il

(1) Cfr. Trist., 3, 12, 39-40: Sive tamen Graeca scierit, sive illa La- tina | Voce loqui,...

24 È

‘prezioso’ proemio le prefazioni, come le sinfonie e i preludi si scrivono naturalmente dopo l’opera ed è altrettanto na- turale che nella prefazione si accennasse alle scarse forze dello scrittore, e si chiedesse venia al pubblico delle sue de- bolezze. È questo un luogo comune di ogni prefazione, pro- logo o proemio. Chi abbia vaghezza di conoscerne esempi greco-latini, può leggere la bella nota di E. Norden in Die antike Kunstprosa, 1909?, p. 595. A noi basta ricordare, poiché vi ricorrono rudis e vox cfr. il rudis locutor Apuleiano, le note parole di Tacito nel proemio all’Agricola: non tamen pigebit vel incondita ac rudi voce memoriam prioris ser- vitutis ... composuisse (c. 3) e pensare alle debolezze’ allegate dagli autori proemianti, tra cui quella tipica della malferma salute, qualia sunt fere principia Corvini (Dial. de oratt. 20, 1). Evidentemente poi, come già dissi, qui Apuleio delinea in realtà il suo stile, che vuol appunto sorprendere colla novità della parola, or alta, or volgare, ora poetica, ora del trivio, della metafora, della figura, dell’arcaismo, del neologismo, della costruzione... Il rudis Zocutor vuol essere il preziosis- simo stilista novo’ e l’immutatio vocis vuol esser la nova ri- voluzione della favella adattata a quest'opera bizzarra, e ri- spondente allo stile di chi sa un po'di tutto, di chi ha raccolto da ogni parte (1).

Novità? In parte senza dubbio, ma con precedenti ana- loghi. Ricordiamo solo Petronio anche per il genere e soprat- tutto Varrone nelle Menippee, il cui stile e la cui lingua possono aver suggerito più d’una cosa all’ espressione A pu- leiana delle Metamorfosi, se pure il prologo stesso non è ispirato dai prologhi Varroniani: tanto in questi (cfr. fr. 218 e 355 Biich.) come nell’Apuleiano c’è il tono teatrale.

La chiusa fabulam Graecanicam incipimus. lector intende, laetaberis, è di colorito schiettamente comico. E quel desul- torius, di cui non 51 trovano altri esempi in signif. traslato

(1) Il Giussani (Letter. rom., Milano, 1900 (?), p. 434) osserva giusta- mente: Anche nell’accenno a un latino imparato nullo praeeunte ma- gistro c'è un’allusione alla coscienza e compiacenza di Apuleio d’esser lui il creatore della sua arte stilistica...

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in Latino al di fuori del ‘titolo’ Varroniano (1), non sa- rebbe un altro ricordo della satira del Reatino, il cui stile poteva ben dirsi per molti rispetti desultoriae scientiae nel senso in cui noi l’intendiamo? Anche il Greco lo scrittore del prologo ammette di aver imparato qua e vagando per la Grecia: i suoi parenti sono di varie provincie della Grecia e in queste varie sedi della parlata greca, illustrate da opere gloriose, si formò il suo attico, la sua κοινή in altri termini; non è dunque purista nemmeno in Greco.

Quando per altro diciamo che Apuleio vuol farci sapere per mezzo del prologo in che consista la novità del suo stile, come non abbiamo l’ingenuità di credere al rudis locutor, cosi non ci viene in mente il preteso latino africano, pur non essendo in grado di escludere assolutamente che nell’exo- tici potesse esserci compreso q.c. di non romano e di non greco.

Rimane il desultoriae scientiae stilus, per cui dobbiamo spen- dere ancora qualche parola. Già fin dal 1865 (in Rhein. Mus., XX, 408) il Biicheler aveva interpretato il titolo Varroniano Desultorius (περὶ τοῦ γράφει») nel medesimo senso accolto dal Biirger molti anni dopo per il desultorius Apuleiano. Si dovrebbe dire che quest’ultimo non avesse presente l’articolo del Biicheler, perché non lo cita, e che pertanto sia giunto direttamente al medesimo risultato.

Che il desultorius Varroniano si riferisse contemporanea- mente alla ‘composizione’ e alla ‘forma’ può essere soste- nuto, ma non altrettanto facilmente si può difendere l’ipotesi per il desultorius di desultoriae scientiae in Apuleio. Che la satira e il romanzo abbiano una composizione tutta ‘a salti’, nessuno nega: si riscontra perfino nei sermoni oraziani, 0s- serva giustamente il Norden (o. c., 25, p. 603, n. 5), e la si ve- drebbe ancor meglio ‘nella sua fonte’, se possedessimo il romanzo di Aristide. E notevole appunto è l’osservaz. del Norden (1. c.) che appunto il traduttore di Aristide, Sisenna, dice espressamente di non volere nella sua opera storica scri-

(1) V. desultor e desultorius in Thesaurus, V, 4, 1912, col. 778.

LI Ri ir δας τ ERETTI VEIL ARR SLI EIA ORE, τὰ Lo:

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vere con la composiz. ‘a salti’: ne vellicatim aut saltuatim seri- bendo lectorum animos impediremus (Sisenn., Hist. fr., 127, p. 294 9P in Gell., 12, 15, 2). Dove osservo che il vellicatim spiega perfettamente il saltuatim e tutti e due insieme de- serivono benissimo la composizione a salti, a sbalzi, che salta da un argomento all’altro, e quindi da un pensiero ad un altro, ma non riguardano forse, strettamente parlando, la forma.

Senonché non dobbiamo dimenticare che in Apuleio l’ag- gettivo desultorius è riferito: a scientia, che scientia si può prendere nel senso di ‘apprendimento’, come nel senso di ‘sapere’, non precisamente nel senso di ars, che quindi infine desultoria scientia può avere un senso piu ristretto se si rife- risce all’apprendimento o alla conoscenza delle due lingue, ciò che avvenne per il parlante del prologo in modo irregolare ’, o si riferisce invece al ‘sapere’ acquistato, raccolto qua e là, da varie parti, da cose e oggetti disparati. Io starei senz’ altro per quest’ ultima interpretazione. Questa nostra lingua che mette sossopra i precetti della purità risponde appunto allo stile cui siam pervenuti, proprio d’una cultura varia e bizzarra.

Speriamo che il Norden, se gli giungerà sott'occhio questa interpretazione, non la chiamerà ‘eine sonderbare Erklérung”, come giudicò (l. c.) quella già qui discussa del van ἃ. VI. a questo passo, senza ritenerla degna di una confutazione. Veramente il v. der VI. deve aver buttato un'ipotesi senza troppo pensarci. Altrimenti si sarebbe accorto d'essere in con- Il traddizione con stesso. Non aveva infatti poco prima detto | che di Metamorfosi nel romanzo Apuleiano ce n'è una sola? (p. 82). E allora come ammettere che l’immutatio vocis fosse la prima ‘der verschiedenen Metamorphosen ? (p. 81).

Ritorneremo su questo punto, perché implica la rispon- denza del prologo, epperò della sua interpretazione, con tutto il resto dell’opera.

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*

Federico Leo in Hermes, 40, 1905, p. 605-608, dedica due parole alla interpretazione del prologo Apuleiano dove crede,

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col Birger, che il parlante Lucio esponga ogni cosa riguardo a sé. Nessuna confusione voluta della persona di Apuleio con quella di Lucio di Corinto (ipot. del Rohde). Abbastanza chiaro riesce a lui il concetto del passo dianzi da noi discusso i@m haec equidem ... respondet, che interpreta cosî: ‘come mutai lingua, cosî tratterò materia varia per argomenti e mutabile, alla cui varietà è da adattarsi il genus loquendi’. Traducendo queste parole del Leo, ho spazieggiato quelle su cui richiamo l’attenzione del lettore. Del mutai lingua, che non approvo, ho già detto a sufficienza. Intorno poi al tratterò materia varia, ecc. ’, devo osservare che qui si tratta di parafrasi, meno ancora: di adombramento del concetto ge- nerale del passo. Parafrasi e linee generali di concetti sono molto più facili a tracciare che non la versione fedele. Di- remo per la seconda frase dunque che in massima Apuleio voleva giungere, a nostro avviso, al concetto adombrato dal Leo. Come riconosciamo che il Leo sia assai vicino all’esattezza quando scrive ‘desultoria scientia eius dicit qui multas res sciat quarum ab alia ad aliam transiliat”.

I‘ Coniectanea’ del Leo toccano solo per incidenza l’inter- pretazione di cui ci occupiamo, epperò non contengono che un rapido sguardo ad alcune difficoltà più salienti. Tra queste ce ne sarebbe una qua impeditur huius prooemii sensus et oratio, ut personae commisceantur non Apulei et Luci, sed scriptoris et narratoris. Si tratterebbe dell’ iste nelle parole sermone isto. Giustissima l'osservazione e ovvia, ma imperfetta e indetermi- nata la spiegazione del Leo. Per non guastare, ripeto le sue pa- role: sermonem dicit quo aures eius permulcere velit, sed istum sermonem dicit, quem manu teneat auditor papyrum legens. Iam non pergit: quis ille, paucis accipe, vel quis ille (ego) (1), quo sane opus esset, sed interrogantem facit lectorem: quis ille? qui st auditor esset et collocutor * quis tu?’ interrogaret ,. Le pa-

(1) E. Schober (o. c., p. 50} fa notare la responsione ritmica delle clau- sole tra quis ille | ego paucis accipe [| mea vetus prosapia est. Senonché l’ego è lezione del v. der Vliet da antica congettura, e neppure lo Schober sembra accoglierla volentieri...

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bocca di Lucio’. Da questa ambiguità si spiegherebbe pure perché il parlante dica sermonem Milesium, fabulam graecani- cam incipimus, mentre sta per esporre i casi suoi. L'ultimo periodetto è da porre nella categoria di quelle piccole divi- nazioni a cui si abbandonano talora nella difficile arte del- l'interprete uomini d’ingegno acuto come era il compianto

Leo prima d’aver ponderato «erumnabili labore il testo,

spesso provando e riprovandò ᾿.

Nel sermone isto Milesio io vedo senz’altro la narrazione 461} Ὄνος, in una delle sue redazioni greche. Chi non ha letto o sentito raccontare la favola dell’Asino d’oro? Ebbene nella nostra prefazione una voce si leva a dire: Anch'io su codesto argomento che tu conosci, o lettore, intreccerò va- rias fabulas (cfr. la Vera historia di Luciano, i più bizzarri e inverisimili argomenti narrati in prima persona!) (1) e se avrai la cortesia di scorrere la mia edizione illustrata col- l’arte alessandrina, ti farò vedere molte belle trasformazioni. Chi è quello li che promette?, mi chiederete. Ve lo dirà lui in poche parole risponde Apuleio. Perché dunque ser- mone isto? Perché la prefazione è scritta colla forma di un prologo pronunziato (2) davanti ad un’accolta di persone, che hanno sentito raccontare o hanno sott'occhio la novella del- l’Asino, e vuol dire prima di tutto: Anch'io ho trattato in nuova forma e più ampia codesta novella che voi conoscete ᾿

(1) Non ignoro che assai probabilmente qui si tratta di parodia, ma la parodia burla appunto le favole che sembrano narrate sul serio. Pa- rodia c'è negli Amores di Ovidio di fronte ai languori e agli episodi erotici narrati di Tibullo e da Properzio, che devon rispondere cosi poco alla realtà come gli Ovidiani. Stavo per dire lo stesso anche delle gioie e pene amorose di Catullo il passero di Lesbia è divenuto in Ovidio il pappagallo di Corinna! —, ma non voglio farmi gridare la croce addosso.

(2) Nessuna meraviglia che il prologo abbia il tono d'un’ esposizione orale. Cfr. Erwin Rohde: Der griech. Roman, Leipzig?, 1900, p. 379, n. 1. Si pensi alle recitazioni in uso in quell’epoca, e si noti che 1447936 iotogia di certo, e assai probabilmente 1l’”0vos, servirono appunto come recitazioni. i

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e l'ho pubblicata con disegni composti in Egitto (1). Ho ap- pena bisogno d’aggiungere che leggo Aegyptia e non Aegy-

| ptiam, correz. dell’amanuense che non capiva e che faccio

punto dopo mireris. Il Leo legge pure Aegyptia, ma dopo mi- reris pone una virgola.

Ben altrimenti dunque che casus suos narraturus si pre- senta Apuleio! Egli annunzia subito la retractatio di un sermo Milesius che gli servirà di centro allo sviluppo di una serie di svariate novelle attraenti /epido susurro dove si vedranno molte singolari (ut mireriîs) trasformazioni e ritras- formazioni materiali e immateriali (figuras fortunasque cett.).

Del forensis, a cui il Leo dedica una noterella, dovremo occuparci piu innanzi.

Il Vallette (2) esamina il prologo di Apuleio soltanto ri- guardo alla possibilità di trovarvi qualche dato di rapporto cronologico tra le Metamorfosi e l’Apologia. Egli ammette che le prime parole del prologo siano pronunziate da quel medesimo Greco che si presenta dopo la domanda del lettore: « Quis ille? ,... Costui è greco...; il passaggio da una lingua all'altra corrisponde alla varietà dei racconti...; è dunque una

(1) Che le Metamorfosi siano state composte e pubblicate a Roma è ipotesi di scarso fondamento. Perché non potrebbe Apuleio averle pub- blicate ad Alessandria insieme con un ‘volume’ di disegni? Ad Ales- sandria la favola probab. orientale dell’uomo-asino poteva esser corrente e aver suggerito a Luciano l’”0vos, la cui autenticità non si può esclu- dere con certezza. V. Christ-Staàhlin-Schmid: Gesch. d. Griech. Litter., 1913, 2, p.574-5, dove è scritto che sull’autenticità 4611 ἴθνος si conti- nuerà a dubitare finché uno studio più profondo della lingua non avrà chiarito la cosa. Dubito assai che il criterio della forma sia sufficiente a risolvere il quesito. Lo stretto rapporto tra la lingua, lo stile e il ge- nere del componimento può costituire un serio ostacolo alla ricerca. Intanto la difficoltà maggiore per attribuire 1’ Ὄνος a Luciano sta ap- punto nella forma, e precisam. nell’elocuzione, dove per converso pa- recchie caratteristiche sono parallele alle Apuleiane delle Metamorfosi.

(2) P. Vallette, L’Apologie d’ Apulée, Paris, 1908, p. 23-4.

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ἔπος A storia ricavata dal Greco ch'egli racconta in Latino (p. 23-4). Alla domanda chi racconta? , il V. risponde: può esser solo colui che, prendendo la parola in principio, la conserva fino alla fine del romanzo propriamente detto. Ma precisa- mente perché Lucio racconta la sua propria storia, l'eroe e l’autore costituiscono una persona sola, almeno in apparenza: li distingue solo il fatto che ora l’uno ora l’altro pourra passer au premier plan ‘.

Naturalmente il Vallette non aveva lo scopo di approfon- dire l'argomento e perciò subisce l'influsso delle interpreta- zioni precedenti. Di qui il vago e l’incerto delle sue parole (1), a cui aggiunge, continuando, un'ipotesi espressa argutamente: ou, si l'on préfère, celui qui, dans ce prologue, s'adresse au lecteur, celui qui se risque ouvrir un genre nouveau l’accès de la littérature latine, c'est l’auteur, l’auteur considéré comme un étre plus abstrait, plus imprécis que le bel adolescent changé en ne, et qui ne doit pas faire songer davantage Apulée de Madaure, personnage réel et concret. La necessità di pensare ad un,Prologus, che non sia da identificarsi col vero e proprio Apuleio e nemmeno con Lucio, era già balenata alla mente del v. d. Vliet, ma non ha ragione di esistere. E una rico- struzione del tutto negativa, di cui non si sente alcun bi- sogno, come credo d’aver già indirettamente dimostrato.

Quattro anni or sono, in una prefazione assai accurata (2), Rodolfo Helm, riepilogando alcune delle principali notizie e questioni riferentisi alle opere di Apuleio, fece cenno anche del nostro proemio. Premesso che Apuleio non è mai origi- nale (p. v), ragionamento, argomentazioni e testimonianze, a cui molto si potrebbe opporre, conclude con l’ipotesi sua che anche le prime parole delle Metamorfosi: At ego tibi...

fabulas conseram’ fossero già contenute nella fonte greca di

(1) Cfr. la p. 22 con le due seguenti citate. (2) Nella prefazione ai Florida, Lipsia, 1910, p. v-1x.

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Lucio Patrense, da cui Apuleio avrebbe anche riportati tali e quali gli accenni che Lucio faceva alla sua famiglia (1, 2; 2, 3), come riportò il nome del protagonista. Ma quello che a noi pix preme, perché ha diretto rapporto con l’interpre- tazione del prologo, l’Helm richiama l’attenzione sul fatto che il libro di Lucio Patrense doveva contenere varie favole co- munque intrecciate, forse îta ut alius alium narrando exciperet, come vediamo delle figlie di Minia nel delle Metamorfosi Ovidiane, e dei filosofi del Philopseudes lucianeo; composi- zione a cui si avvicina anche la prima parte del primo libro delle Metamorfosi Apuleiane. Con ciò concorderebbe 1’ ‘At ego’, proprio di chi entra a riprendere il discorso dopo che altri ha cessato di parlare o di narrare.

Il Leo nell’articolo citato (v. nota a p. 605) recava parecchi esempi greci analoghi, tra cui uno del Convivio Senofonteo, del modo di proemiare come interlocutore.

Non basta: Apuleio avrebbe ancora riferite dalla sua fonte le parole in cui promette di narrare figuras fortunasque ho- minum in alias imagines conversas, e qui finalmente l’Helm può tentare una dimostrazione. Quanto precede è. bello e buono, ma si può tanto asserire quanto negare. Qui invece l’Helm può osservare che dopo la promessa di tante trasformazioni, in realtà Apuleio ne descrive accuratius una sola 0, se si vuole, due, quella di Lucio e quella di Panfila, mentre Fozio (B:51., 129) dice che i libri di Lucio Patrense contenevano τὰς ἐξ ἀνθρώπων εἰς ἀλλήλους μεταμορφώσεις τάς te ἐξ ἀλόγων εἰς ἀνθρώπους καὶ ἀνάπαλιν, e concludere che queste parole sono molto più adattate all’opera di Lucio Patrense che non all’esordio Apuleiano.

Ma non è difficile rilevare la debolezza di queste argomen- tazioni. Per difendere la prima, l’Helm è costretto ad am- mettere implicitamente che le trasformazioni Apuleiane son ben più di due, se delle due di Lucio e di Panfila dice che son trattate accuratius. Il testo latino parla poi di figurae e di fortunae, non soltanto di figurae materiali (1), ciò che non

(1) Anche l’Hildebrand (I, 7) intende come due concetti distinti figurae

a)

de ar id Dato ine n ri x ᾿ 4 i A A] ᾿ SALA x ἣν EV

ZIE risulta invece esplicito dal semplice μεταμορφώσεις del greco ed è messo in particolar rilievo da Apuleio, che non traduce affatto il τάς te ἐξ ἀλόγων ece. (1). E nemmeno credo il figuras fortunasque cett. un’epesegesi di varias fabulas, corri- spondendo queste ultime piuttosto alle parole χαὶ τὸν ἄλλων τῶν παλαιῶν μύϑων ὕϑλον καὶ φλήναφον del citato passo di Fozio. Che poi queste favole siano o no acconciamente al loro posto, è altra questione. L’Helm dice di no, ma mi sembra che in tutte le letterature, dalle orientali all’italiana, le collane di novelle legate intorno ad un nucleo centrale non siano mai inquadrate in un’artistica cornice, così che ri- sulti naturale e come spontanea la narrazione d’una favola, al posto che le competa. Finalmente che le parole di Fozio sopra riferite rispondessero meglio all'opera di Lucio di Patre che non a quella di Apuleio è ciò che non possiamo credere senz'altro, non conoscendo l’opera greca. A me preme dimo- strare invece che Apuleio ha mantenuto le promesse conte- nute nelle parole figuras fortunasque... refectas, anche perché

᾿Ξ

et fortunae, e commenta: Neque vero formae tantum et corporum meta- morphosis ab Apuleio describitur, sed sors quoque et conditio [sic] homi- num. Il Wolfflin congetturò figuras formasque e il v. ἃ. Vliet osserva che lo zeugma in Apuleio non ha nulla di strano, perché con le figurae mutano anche le fortunae degli uomini ciò che non è sempre vero.

(1) Nella discussione delle parole di Fozio, il Goldbacher (Ueber Lucius von Patrae ece., in Zeitschr. fiir die dsterr. Gymnasien, 23, 1872, p. 408-9), dopo aver accennato al dubbio del Patriarca su quale dei due scritti il Λούκιος ο 1 ἴθνος fosse la fonte dell’altro, riporta senz'altro il passo : gone μᾶλλον Aovniavòs μεταγράφοντι ὅσον εἰκάζειν... καὶ γὰρ ὥσπερ ἀπὸ πλάτους τῶν Λουκίου λόγων Λουκμκιανὸς ἀπολεπτύνας καὶ περιελών, ὅσα μὴ ἐδόκει αὐτῷ πρὸς τὸν oînetov χρήσιμα σκοπόν, αὐταῖς τε λέξεσι καὶ συντάξεσιν εἷς ἕνα τὰ λοιπὰ συναρμόσας λόγον Λοῦκις ἴθνος ἐπέγραψε τὸ ἐκεῖϑεν ὑποσυληϑέν, donde risulta che der Ver- fasser habe die breitere Erzihlung desselben ρσοκῦνχσὺ und weggenom- men, was ihm fiir seinen Zweck iberfliissig schien; das Uebrige habe er mit Beibehaltung von Ausdruck und Fiigung zu einem Ganzen ver- bunden und diesem Werke den Titel Λούκιος Ὄνος gegeben ,. Se- nonché la versione è così letterale che non mi riesce chiaro se il G. intenda che Luciano abbia soltanto abbreviato la forma ampia di Lucio o abbia tolto via anche delle novelle.

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ἰὸ mi serve per l’interpretazione del prologo, e ne trovo le rove manifeste in tutta l’opera latina.

Apuleio non è un semplice traduttore. Noi non ci occu- | piamo ora di Apuleio filosofo, che può benissimo aver sol- tanto tradotto dal greco (1). Noi pensiamo qui al novelliere e allo stilista. I Florida meno male si ammette che siano suoi e voglio credere che sia suo il De Magia. Ce n'è abbastanza per delineare un artista. Specialmente l’Apologia è opera di un ingegno cosî fine, d’un espositore cosi arguto, da giustificare a priori il concetto che narrando novelle egli È abbia ad essere abbastanza originale, meno che mai un pe- __dissequo traduttore.

Genova, ottobre 1914.

(Continuerà). FERRUCcIO CALONGHI.

x (1) V. Th. Sinko, De Apulei et Albini doctrinae Platonicae adumbra- | +ione, Cracovia, 1905. Cfr. il Bull. de V Acad. des Sc. de Cr., 1904, ». 115-18.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. i 8

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INTORNO SK

ALLA INVOCAZIONE DI LUCREZIO A VENERE È

E ALLA RAPPRESENTAZIONE DI LEI CON MARTE. i Ι

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LA INVOCAZIONE A CALLIOPE

del ul pie ag” = - τααναϑΩΝ,

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La contraddizione, veduta già dai dotti del Rinascimento, ps fra ciò che insegna Lucrezio, che gli dei non hanno alcuna parte nelle faccende umane, e la preghiera di lui a Venere,

di coricedere bellezza a’ suoi versi e di ottenere da Marte

pace per i Romani (la quale contraddizione Pietro Vettori (1),

tutto inteso a purgarne, come da assai brutta macchia, 1]

poeta latino (2), attribuiva a Epicuro con una interpretazione, non esatta, del pensiero epicureo (3)), non trova davvero spiegazione nel bisogno che avesse Lucrezio di commuovere,

come poeta, il cuore degli uomini per mezzo di un inno re-

ligioso, innanzi di abbagliarne, co’ suoi ragionamenti, lo spi- USI

(1) Petri Vectorii, Epist. libri XV, Florentiae, apud Iunctas, MDLXXXVI, p. 61-62. (2) Quomodo dignitas poetae defendi posset et tam foeda macula e pulcherrimo eius corpore deleri ,. | (3) Epicuro, a rilevar questo solo, se, oltre che per altre testimonianze, anche giusta il discorso contro Colote (Plut., πρὸς Ko. 8, 8; 10, 1), allegato dal Vettori, ammetteva la pietà verso gli dei e l’onorarli con sacrificîù e preghiere; in niun modo poi, per altre testimonianze secondo alcun luogo di quel discorso, insegnava che gli dei ricambias- sero con i loro favori le preghiere umane. Invece scrive di Epicuro il Vettori: putasseque preces ac vota hominum de suis rebus a dis im- mortalibus exaudiri ,. i

“I N Sa dae te A re TR ποτ Οὐ si PO Pet ᾿ τῆς ᾿ - i

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Ao σςς rito come filosofo (1), in un inconscio e momentaneo ritorno di lui alla religione nazionale (2). La contraddizione tuttavia non si può escludere, se nella Venere invocata da Lucrezio si ha da scorgere non altro che la dea della credenza popo- lare. Perchè chi vorrà ammettere, per esempio, che in un passo così pieno di caldo sentire e di entusiasmo vero l’in- vocazione si riduca a un giuoco di spirito, secondo si espresse il Bayle (3), in quanto Lucrezio preghi la dea non con inten- dimento religioso e con animo che ella oda le sue parole, ma così come poeti cristiani in gran numero invocano le muse e Bacco, senza prestar loro fede; o chi si persuaderà di accettare quello che non esitò di affermare il Creech (4),

| che la dea è supplicata ironicamente, per deriderla e farle

onta ? (5). 4

Benchè non manchi pur oggi chi pensi che è Venere niente più che la dea tradizionale della bellezza e degli amori, e che ella è invocata sul serio, in piena consonanza con la filosofia e la religione di Epicuro (6); la strana contraddizione, a meno che non vogliamo rimuoverci dalla soda realità per rifugiarci nel mondo aereo delle astrazioni (7), soltanto nella interpre-

(1) “.....il est impossible d’intéresser fortement les hommes, dans quelque genre que ce soit, si on ne leur présente quelques-uns des at- tributs de la Divinité. Avant donc d’éblouir leur esprit, comme philo- sophe, il commence par échauffer leur coeur, comme poète , (Bernardin de Saint-Pierre, Etudes de la Nature, Paris, 1825 [la prima ediz. è del 1784], tom. I, p. 426). C

(2) “...une émotion poétique, plus forte que son abstraite doctrine, le ramène aux crédulités du culte national, (Villemain, Essai sur Ze génie de Pindare, Paris, Didot, 1859, tom. I, p. 321).

(3) Dictionnaire historique et critique, 1696. Io mi servo dell’ed. quarta di Amsterdam del 1740.

(4) 7. Lucretii Cari de rerum natura libri sex; quibus interpretationem et notas addidit Thomas Creech, Oxonii, 1695.

(5) Irridet enim dum invocat et ut raro magis bellam, sic numquam magis probrosam Veneris et Martis imaginem inveniemus ,.

(6) Cfr. Classical Philology, 1907, p. 187 sge.

(7) © Epikur in Wahrheit die Vorstellung von den Gittern als ein Ele- ment edlen menschlichen Wesens verehrte und nicht die Géotter selbst als &ussere Wesen,. Lange: Geschichte des Materialismus, p. 102. La

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tazione di coloro si dilegua, che intendono che Venere è sim- bolo rappresentativo di quel sommo potere della natura, il quale tutto crea e ordina nell’universo (1).

Che Venere simboleggi la. natura, riguardata in quella potente energia che è causa di ogni creazione e bellezza, non è da mettere in dubbio. Da un lato Lucrezio stesso afferma che è lecito chiamare le cose, anzichè col nome loro, con quello di conosciute divinità, dicendo Nettuno Cerere Bacco, piuttosto che mare biade vino, purchè a tali nomi non si congiunga alcun concetto religioso (II 655 sgg.); dall’altro lato la potente energia, che si è detta, nel poema di Empe- docle (come quello di Lucrezio, intorno alla natura, e da Lucrezio

ΣΙ ΘΑ ΕΝ. è del 1855; io cito dall’ottava del 1908. L’affermazione che Lucrezio non si contraddice è nella stessa pag. 102. La veduta di Lange

è esposta, dirò così, sistematicamente da J. Masson: Lucretius Epicurean

and Poet, London, 1907, p. 262.

(1) In proposito di questa interpretazione il pensiero va facilmente alla nota opera del Sellar, The Roman poets of the Republic, Oxford, Clarendon, 1889 (la prima edizione è del 1863), p. 530 sgg., nella quale la medesima è esposta con calda eloquenza. Nessuno, credo, prima del Sellar ha dato al presente simbolo l'ampia e alta contenenza che gli egli; ma l’interpretazione, a così dire, simbolica è a lui di non poco anteriore. Per Giacomo Parrain, noto sotto il nome di Barone de Coutures, un traduttore in prosa, ora per più ragioni meritamente dimenticato, di Lucrezio, la cui opera, Les @uvres de Lucrece traduites en frangois avec des remarques sur tout l’ouvrage, è del 1685 (io cito l’ediz. del 1692, vol. I, p. 343-44), Venere è la forza generativa, quel segreto appetito

che è dato a ogni specie affinchè propaghi se stessa ,. Un secolo innanzi

Girolamo Frachetta, dell’Accademia degli Incitati di Roma (Breve Spo- sitione di tutta l’opera di Lucretio, 1588, p. 195), in Venere vedeva sim- boleggiato quel piacere che si prova in iacere umorem in corpus de cor- pore ductum (Lucr., IV, 1050-51), massime per i due versi che seguono, i quali riporto secondo la lezione, non esatta, del Frachetta :

Namque voluptatem praesagit muta cupido : Haec Venus est nobis, hinc autem est nomen amoris.

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avuto in particolare considerazione) è, come è noto, chiamata ᾿ς Afrodite. Onde ben si concluse che a Lucrezio l’idea di far δε: di Venere il simbolo della natura creatrice e ordinatrice di ogni cosa è venuta da Empedocle. E si ponga mente al verso in cui nel poema empedocleo è detto che l’amicizia (cioè la gran forza per la quale tutto si unisce in uno come le sin- gole parti alla lor volta si separano per la forza contraria (1)) riceve dagli uomini il nome di Afrodite :

ὧν

ΤΠ ηϑοσύνην χαλέοντες ἐπώνυμον ἠδ᾽ Ἀφροδίτην. (1815: ρον 24}

Dunque Afrodite ella è chiamata, ma anche piacere : i due nomi, uniti qui nello stesso verso, non risuonano, ancorchè in differente congiunzione, nella espressione lucreziana

hominum divomque voluptas alma. Venus ?

Nel pensiero di Lucrezio Venere è così immedesimata con la natura, che presso lui, invece di Natura, si trova menzio- ‘nata Venus. Questo almeno accade nei primi versi del libro

i primo, poco dopo l’invocazione, che è quanto dire in luogo dove dell’inno, sciolto alla natura simboleggiata in Venere, era tutto ancor pieno, si può credere, l’animo del poeta. Chè ivi crea gli uomini di quella statura e longevità, che hanno, la natura (199-202), dissolve le cose nei loro elementi la natura (215-216); ma incapace di ritornare a vita la schiatta degli animali (se, di ciò che per vecchiezza scompare, veramente rimanesse annientata affatto la materia) è Venere (225-228).

Ma altro è rappresentar la natura, veduta nel suo mara- viglioso potere di crear tutto, in quella dea che può meglio rappresentarla, e altro è chiederle alcuna cosa, anzi ciò per vero che sommamente preme di conseguire. Afrodite, o la

È (1) Ἄλλοτε μὲν Φιλότητι συνερχόμεν᾽ εἰς ἕν ἅπαντα, ἄλλοτε δ᾽ αὖ δέχ᾽ ἕκαστα φορεύμενα Νείέκεος ἔχϑει. (Diels, fr. 17, v. 7-8).

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SENARNDE

forza generatrice della natura, in Empedocle non è invocata. Quando nel pensatore greco la musa ispiratrice del canto fosse stata Afrodite, ogni ricerca e discussione intorno alla invocazione lucreziana tornerebbe inutile : altro non avrebbe fatto Lucrezio, sia pure assai più splendidamente, se non quel medesimo che, del pari in un poema circa la natura, aveva fatto innanzi Empedocle. Ma nessun frammento empedocleo ci è pervenuto, che permetta il pensare di una preghiera ad Afrodite. Il rivolgersi che fa Lucrezio a Calliope (VI 92 sgg.), cui pure Empedocle si rivolge ne’ Kadaquoi (Diels, fr. 131), non diritto ad argomentare che, perchè Venere s’invoca nei versi di Lucrezio, Afrodite s’invocasse in quelli di Em- pedocle. Anzi essendo invocata nel principio del poema em- pedocleo intorno alla natura la vergine musa celebratissima dalle bianche braccia , (1), si fa manifesto che anche nel poema predetto la musa invocata dal pensatore greco, non vi è ragione di credere altrimenti, è proprio Calliope (2). In somma Calliope è la sola musa di Empedocle. Di modo che a Empedocle va debitore Lucrezio di aver fatto di Venere una cosa stessa con la generatrice natura: di averla asso- ciata al suo canto e creata sua musa, dopo che dell’opera

(1) Καὶ σέ, πολυμνήστη AevuoAeve παρϑένε Μοῦσα, ἄντομαι, ὧν ϑέμις ἐστὶν ἐφημερίοισιν ἀκούειν, πέμπε παρ᾽ Πὐσεβίης ἐλάουσ᾽ εὐήνιον ἅρμα ece.

(Diels, fr. 4, ν. 3-5).

(2) Così dice Empedocle nei Καϑαρμοί a Calliope :

Ei γὰρ ἐφημερίων ἕνεκέν τινος, ἄμβροτε Μοῦσα,

ἡμετέρας μελέτας {μέλε to) διὰ φροντίδος ἐλϑεῖν,

εὐχομένωι νῦν αὖτε παρίστασο, Καλλιόπεια,

ἀμφὶ ϑεῶν μακάρων ἀγαϑὸν λόγον ἐμφαίνοντι, (Diels, fr. 131).

Calliope dunque non ora per la prima volta deve prestare assistenza a Empedocle: gliel'ha prestata già prima. Se tale assistenza passata concerne, come sembra chiaro, il poema Περὶ Φύσεως, si ha la conferma che la vergine musa pregata al principio di esso poema è non la musa in generale, ma appunto Calliope.

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grande di lei ha ritratto 1 mirabili effetti co’ più luminosi colori, mettendo anche bellamente a profitto immagini e colori di poeti greci, questo deve solamente a se stesso. E appunto è necessario considerare onde accada che Lucrezio alla natura personificata in Venere (o a Venere, rappresen- tazione della natura) chieda aiuto e, per così dire, coopera- zione. La preghiera alla dea, se non è più da appuntare di contraddizione, non resta almeno una finzione retorica, aliena da ogni consistenza di vero ?

Certamente la bellezza del canto Lucrezio non otterrà perchè la chieda alla virtù della natura, nè, perchè egli ne faccia preghiera a lei, sarà conservata la pace ai Romani (1). Ma dalla natura, per un seguace di Epicuro, ha origine tutto ; quindi anche ciò che domanda Lucrezio per e per i suoi concittadini, la bellezza del canto e la pace: questo basta perchè dal caldo animo suo, ove sia vivamente e profonda- mente commosso, spontanea si elevi a lei la preghiera, volta a conseguir l’una e l’altra. Ne’ versi dei poeti, antichi e mo- derni, vediamo invocati, interrogati, pregati il cielo il mare la terra, i laghi e i monti, le rupi i sassi gli alberi, le cose di qualunque genere : ciò avviene in certi particolari momenti, quando chi esce in tali e invocazioni e interrogazioni e pre- ghiere attribuisce nella sua fantasia, fortemente agitata, senza anche rendersene conto, alla terra al mare al cielo, insomma tutto quello cui egli si rivolge e favella, intelligenza e sentire: si è mai qualcuno maravigliato delle dette invocazioni e pre- ghiere? le ha mai giudicate qualcuno artificiose finzioni ? Ep- pure nessuna delle cose qui menzionate, tutte quante in- sieme, suscitano nella mente di chi pensa concetto così grande e così facile a esaltarla e rapirla, come la energia, sempre e di tuito creatrice, della natura; e pochi, fra i poeti di ogni tempo, sono così disposti e pronti ad accendersi e a esaltarsi, come Lucrezio.

(1) Ho già detto in questa Rivista (genn. 1912, p. 98-99, nota) perchè io sia di avviso che quando Lucrezio scriveva l’invocazione a Venere non fosse tempo di guerra.

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A intendere pienamente l’importanza della invocazione lu- creziana, conviene anche badare alla novità che nella mede- sima 51 ritrova.

Fu detto (e quelli in primo luogo lo dissero, secondo i quali non è da ammettere alcuna allegoria) che la menzionata in- vocazione a ciò è da ascrivere, che Lucrezio non volle rinun- ziare a un ornamente solito a trovarsi nei poemi. Lasciamo stare l’ornamento ; quantunque, a riguardare la cosa in sè, è certo il più grande e luminoso di tutto il poema: di una invocazione Lucrezio non tanto non volle mancare, quanto non stimò di poter fare a meno. Era così in uso presso i poeti antichi, e greci e latini, la invocazione, che poteva facilmente reputarsi fosse la medesima richiesta dalla tecnica stessa del pocma (1). Tuttavia, nessuno l’ignora, Nevio, il primo poeta latino originale, si rivolse alle, novem Iovis concordes filiae sorores, che è come dire alle muse; alla musa Ennio, avuto da Lucrezio per suo grande e immediato predecessore. È vero che alla musa o alle muse, protettrici, in genere, del canto, furono spesso sostituite altre divinità, quelle che con la materia del canto avevano attinenza speciale : il Sole, la Luna, Bacco, Cerere, Nettuno, Pane, ‘Pale, Minerva, i Fauni e le Driadi, Diana, Proserpina, Apollo, Venere stessa ; anzi divinità più accessibili e più disposte a sentire, cioè impera- tori e principi, come Augusto, Tiberio, Nerone, Germanico. Ma questo dopo Lucrezio. Il contemporaneo di lui, Catullo, in quella elegia che scrisse per Manlio (c. LXVIII*), alla quale ha data l'intonazione solenne di un poema, prega le

(1) Nemo miratur poetas maximos saepe fecisse, ut non solum initiis operum suorum Musas invocarent, sed provecti quoque longius, cum ad aliquem graviorem venissent locum, repeterent vota et velut nova pre- catione uterentur, (Quint., IV, Proem. 4).

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muse, a ricompensare l’amico dei grandi servigi che gli ha reso, di volere di essi tramandar la memoria ai futuri (1). Onde Lucrezio fu il primo tra i Latini, per ciò che può giu- dicarsi da quanto ci avanza dell’antica poesia latina, il quale si rimuova dal nume generale delle muse per levare la mente a una speciale divinità, a quella di Venere. La cosa, già sol- tanto così, avrebbe la sua non lieve importanza, e di sicuro l'avrebbe anche se il poeta a ritrarsi dal costume de’ suoi predecessori latini potè in qualche modo pigliare, se la pigliò, l'ispirazione dalla antecedente poesia greca (2): perchè egli, avvisatosi, o costretto, di dar principio al suo canto con una invocazione, per quella dea si sarebbe deciso che, almeno nell'opinione del volgo, avesse avuto con la materia del poema intima congiunzione. Εἰ questa così fatta importanza fu avver- tita per tempo anche da quelli che in Venere non riuscirono a raffigurare che Venere (3). Ma perchè Venere è per Lu- crezio la natura generatrice, quella divina natura nella cui opera perpetua fermamente, entusiasticamente crede, l’impor- tanza della invocazione è davvero grandissima. Ciò che sa-

(1) Nel c. LXIV Catullo rivolge il discorso agli eroi: ma, a omettere ogni altra considerazione, non si tratta qui di una invocazione ; tratta di un saluto agli eroi e della promessa, conformemente a luoghi simili di poeti greci, di cantarli spesso in futuro.

(2) Mentre nell’Iliade è invocata la dea, cioè la musa, nell’Odissea espressamente le muse, mentre le muse sono invocate come nel poe- metto Opere e giorni ,, così nella Teogonia; nei Fenomeni di Arato, che Lucrezio conobbe anche nella versione fattane da Cicerone, perchè se ne valse, come dimostrò il Munro, in più luoghi, è invocato l’aiuto delle muse (rexuioare πᾶσαν ἀοιδήν), ma si comincia da Giove, si loda Giove e Giove è salutato con loro. Negli Argonauti di Apol- lonio da Rodi la invocazione è fatta addirittura ad Apollo. Il che non è da trascurare del tutto, non ostante che e Apollo abbia connessione stretta con le muse e Giove sia il padre dell’uno e delle altre; anzi appunto perchè lo hanno padre, le muse sono invitate a cantarlo nel principio del poemetto esiodeo Opere e giorni ,.

(3) Nel farraginoso commento di G. B. Pio, edito a Bologna nel 1511 (a non guardare più in là), fra altre cose simili, si legge: Et conve- niens est operi Veneris invocatio, quod Venus naturae parens est, quam poemate lepido poeta complectitur ,.

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rebbe rimasto, ove egli avesse indirizzato la sua preghiera alle muse in genere o a quella, in ispecie, della poesia epica, un luogo comune, affatto esteriore, consigliato ovvero imposto dalla tecnica del poema, diventa invece cosa intima e, dirò così, personale, voluta espressamente, deliberatamente dal poeta.

ΠΙ.

Ma qui ci si offre alla considerazione un fatto che non dee per vero essere trascurato, che la dea scelta da Lucrezio a rappresentare quel supremo e invisibile potere onde trae causa e origine ogni nascimento ha in particolare protezione Memmio, l'amico dolcissimo cui è dedicato il poema. Questa protezione, la quale si desume anche dal proemio lucreziano (v. 26-27), allora, come è noto, potè comprendersi esattamente e piena- mente, quando fu posto in chiaro che monete dei fratelli Memmi (Gaio, il celebrato da Lucrezio, e Lucio) portano im- pressa l’immagine di Venere (1). Fra la protezione che si è detta e l’invocazione alla dea si giunse a vedere la più grande attinenza. Chè si è persino affermato che Lucrezio ha scelto a sua musa Venere (per ciò assai verisimilmente patrona di Memmio, perchè era patrona della casa del suocero di lui, Silla) per riguardo “al genero del gran Silla ,: eccetto che ella, essendo, nel più Jargo senso, una dea della natura, si adattava egregiamente a essere la musa di un poeta il quale faceva la natura argomento del suo canto (2).

Quale parte effettivamente nella invocazione di Venere abbia avuto la circostanza che Memmio era sotto la prote- zione della dea, si scorge dai versi stessi di Lucrezio. In

(1) Cfr. Sauppe, Prilologus, 1865, p.182; Munro, 7. Lucreti ecc., London, 1900 (la prima ediz. è del 1866), vol. 2, p. 32; Martha, 1869, p. 51 nota, e segnatamente Marx, Veber die Venus des Lucrez, Bonner Studien ece., Berlin, 1890, e anche Der Dichter Lucretius, Neue Jahrb. f. d. klass. Altert., 1899, p. 545.

(2) Cfr. Marx, Ueber die Venus des Lucrez, p. 125.

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questi alla glorificazione del potere immenso di Venere segue la preghiera : poichè tu sola governi la natura, e niente, senza te, nasce che sia bello, gioioso, degno di amore, sii compagna all'opera dei versi che io m’ingegno di scrivere intorno alla natura. Dunque perchè la natura, di cui Lucrezio prende a cantare, appartiene a Venere; perchè il canto deve essere, come è il giusto desiderio di ciascun poeta, bello e gradito ; è chiesto l’aiuto della dea. Siccome poi il poema, almeno se- condo il proemio, si compone a onore e vantaggio di Memmio, cui Venere è stata larga di ogni suo dono ; così Venere tanto più si deve persuadere di accordare al poema eterna bellezza:

quo magis aeternum da dictis, diva, leporem (1).

Memmio, ornato di tutti i pregi, e però anche e sopra tutto della intelligenza, per la quale intendesi il vero, del sentimento, pel quale si ammira e gusta il bello, come atten- derebbe a versi che alla verità della dottrina non congiun- gessero la bellezza della poesia? E opportuno ricordare che Lucrezio cercava di conciliare ogni attrattiva all’opera sua, appunto perchè il lettore a questa rimanesse come adescato. Onde Lucrezio già da sè, per le ragioni che si sono dette, avrebbe supplicato Venere del suo aiuto: il pensiero che a lettore avrà particolarmente Memmio, lo muove soltanto a pregarla di concedere più che mai bellezza al poema. A lei, protettrice di Memmio, la considerazione di Memmio deve riuscire di maggiore impulso a essere benigna. Memmio in- somma è nella preghiera del poeta come un rinforzo e un rincalzo. A questa conclusione porta l’esame stesso dei con- cetti; e i concetti, riguardati nell’ordine e nel colore con che vengono fuori dall'anima di chi parla o scrive, spesso indicano

(1) Non interpreta esattamente il pensiero di Lucrezio il Patin, pel quale Venere deve concedere al poema lucreziano il dono della bellezza soltanto in considerazione di Memmio : “Il prie cette déesse de com- muniquer à son ceuvre le don de la beauté; elle le doit par considé- ration pour son ami Memmius, favori de la déesse , (Ztudes sur Za Poésie latine, 1883, troisième éd., vol. I, p. 114).

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più e meglio che le manifestazioni volute e gl’intendimenti espressi di proposito. È per Memmio, non si nega, onore grande che la dea di ogni bellezza tanto più deva far bello il poema lucreziano, in quanto che è composto segnatamente per lui; ma che Venere, se non ci fosse stato di mezzo Memmio, non si sarebbe invocata (chè questo poi dice chi al culto di Memmio per Venere assegna la magnifica invoca- zione), pur senza quello che si è esposto più sopra, è cosa niente affatto credibile.

EV,

Volgiamo ora gli occhi ai versi in cui ci si porge all’am- mirazione il bel gruppo di Venere e Marte.

Che Lucrezio in questo gruppo siasi consigliato di rappre- sentare, secondo fu detto da un pezzo (1), le due contrarie energie empedoclee, quella creatrice, l'amicizia o l’amore, e quella distruggitrice, la discordia o l'odio, da chi vediamo consentito, da chi negato. Lo consente, a tacere di altri, il Munro, lo nega il Giussani (2).

Nei frammenti, che ci sono pervenuti, di Empedocle, l’ami- cizia è Afrodite, è Cipri; ma la discordia non piglia il nome di alcuna divinità. Per ciò anche, senza dubbio, il Munro si riporta a Eustazio, addotto da Εἰ. Sturz (3). L'amore, secondo Eustazio, fu simboleggiato presso Empedocle non da Afrodite solamente, da Afrodite congiunta con Ares, e l’odio non da Ares so- lamente, da Ares separato da Afrodite. Cosicchè, ad argo- mentare dalla testimonianza di Eustazio, Lucrezio non rap-

(1) Per giudizio del barone de Coutures (Op. cit., p. 344), Marte è il simbolo della corruzione. Lucrezio, come egli crede, prega la dea, acciò per mutua intelligenza , il distruggere del dio si compia soltanto a mano a mano che ella venga moltiplicando gli esseri. Ma tal concetto, quanto qui sia inammissibile, s'intende da sè.

(2) Munro, vol. II, p. 32; Giussani, vol. II, p. 6.

(9) Empedocles Agrigentinus, Lipsiae, 1805, p. 241.

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presenterebbe proprio i due principî empedoclei contrari ; ma bene uno, quello dell’amore.

Il Giussani esclude che sia stato intendimento di Lucrezio simboleggiare in Venere il principio creatore e in Marte quello distruttore, perchè non giudica probabile che all’alle- goria, ben chiara, de’ versi ove è magnificata la potenza di Venere, un’altra ne tenga dietro, ne’ versi che seguono, troppo velata. La quale ragione, per essere affatto soggettiva, quanto poco abbia di peso, non occorre dire. È da escludere in Lu- crezio l’intendimento che si è detto, perchè l’allegoria, a guardarci bene dentro, non rappresenterebbe quello che si vuole rappresentato. Chè quando pure non ci fosse da obbiet- tare ciò che si è obbiettato dianzi, che, a stare alla inter- pretazione di Eustazio, rappresenterebbesi in Lucrezio un solo principio ; sibbene si avesse da intendere, come pare inten- desse nelle sue allegorie omeriche Eraclito (che il Munro cita medesimamente dallo Sturz), Afrodite per l’amore, Ares per l'odio; nell’allegoria lucreziana il principio distruttore neppure per un momento apparirebbe agente e dissolvente nell’uni- verso, ma piuttosto sottomesso da quello creatore e con lui, in dolce unione, confuso.

basta vedere la cosa in se stessa: conviene anche os- servarla nell’effetto che ne consegue.

Se Venere e Marte compaiono uniti insieme ne’ versi di Lucrezio, perchè amore e odio, ciascuno conformemente alla sua propria natura, agiscono presso Empedocle, si ha l’im- pressione che la preghiera per la pace dei Romani sia, a così dire, elemento di secondaria importanza nella invocazione. Ora ciò non è accettabile. E tale preghiera elemento prin- cipale, anzi addirittura il primo, se è vero che il poeta, chiesto da prima a Venere che faccia bello il suo canto, la supplica poi che, non vi potendo essere luogo, in tempo di guerra, pel canto suo, voglia implorare dal dio delle guerre la pace. Da che si vede che la pace, pur così necessaria ai Romani e da loro desiderata con ardore, è da Lucrezio domandata, prin- cipalmente, in contemplazione del suo proprio poema.

La rappresentazione degli amori di Venere e Marte 5] spiega nel miglior modo senza che ci sia bisogno di ricorrere a Empedocle.

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Atteso che a Lucrezio, che scrive, e Memmio, che leg- gerà, niente è più necessario della pace, a chi dovrà quegli rivolgersi per ottenerla? Di sicuro, come per conseguenza logica, al potere sommo cui ha allora allora attribuito ogni opera di vita, cui ha chiesto allora allora la bellezza pe’ suoi versi. Ma quel sommo potere egli si trova di avere già per- sonificato in Venere: a Venere dunque volerà la parola di lui, supplichevole di pace. Se non che questa dea, come se l'era venuta foggiando la fantasia del popolo e dei poeti, non ha in facoltà di concedere la pace da ; può solo ottenerla da Marte, l’eterno suo innamorato. Il congiungere quindi a Venere Marte, affinchè ella da lui impetri la pace ai Romani, era per Lucrezio come ovvio, così, per un certo particolare rispetto, necessario. da tale congiunzione lo dissuadeva la sua dottrina e fede epicurea, non più che lo avesse dis- suaso dal simboleggiare nella dea tradizionale della vita e della bellezza il potere creativo di ogni bellezza e di ogni vita. se Venere che ottiene la pace da Marte questo in fine significa, che gli astì e gli odî, cagione di guerra, si arren- dono alle dolci ragioni dell’amore, il quale genera e mantiene la pace, e sono da esso tenuti in freno. Pertanto il poeta, in conseguenza del suo ardente desiderio e bisogno vero di pace, fa comparire sulla scena, insieme con la dea adorata, il fiero dio ; non per la significazione di un concetto generale, perchè in unione con l’amicizia empedoclea sia rappresentata anche la discordia empedoclea. Si potè credere questo, perchè concepirono come indipendenti da alcun intimo legame connesse fra loro le due parti onde è costituito il bel passo che concerne Venere, dico l’inno che canta le glorie di lei e la rappresentazione calda e appassionata de’ suoi amori col dio; perchè non fu avvertito quello che si è qui su messo in chiaro, che Lucrezio la pace ai Romani la fa chiedere a Marte da Venere per questa causa, che in Venere ha poco innanzi celebrato il gran potere da cui tutto ciò che viene alle beate rive della luce, giusta la dottrina ch’egli insegna, ha origine e svolgimento.

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E che la seconda parte del passo il quale si riferisce Venere, non ostante ogni contraria apparenza e afferma- zione (1), si riconnetta con la prima, non solo risulta con chiarezza dalle cose ora dette, ma si manifesta anche in un fatto che non mi è accaduto di vedere additato da altri. Lucrezio, cioè, componendo la prima parte, anzi fino dal primo verso, ha in mira e, per così dire, prepara la seconda.

Un indizio, per me certo, di questa preparazione è in quel- l’Aeneadum genetrix, con cui si apre il poema. Questa espres- sione si vuole che sia imitazione dell’enniano (Valm., fr. 23) te te saneta precor Venus, te genetrix patris nostri (2). Per vero il Munro, dopo altri, pensò alla probabilità soltanto che qui Lucrezio si ricordasse delle parole di Ennio. Il quale pensiero, a quel che sembra, gli venne perchè, non avendo colta la causa dell’allusione ai discendenti di Enea, trovava che i rapporti particolari della dea con que’ discendenti contrastano fortemente con ciò che ella rappresenta in rispetto al resto della natura animata e inanimata. Non bene; chè un concetto o un'immagine, non opportuna, non per questo riesce appro- priata ed efficace, perchè sia riminiscenza di luogo celebre; a ogni modo, quella, per il Munro, altro non era che proba- bile riminiscenza. D’imitazione addirittura, evidentemente non d'altronde attingendo che dal Munro, parlò il Giussani, il quale talvolta piglia un po’ alla grossa il pensiero altrui, e, dopo

(1) Si osservi... come sia diversa la Venere dei primi venti versi dalla Venere scolpita nei versi successivi, (Giussani, vol. II, p. 5).

(2) Leggo te te saneta (e non, col Valmaggi, fe sane alta) per te sane- neta dei codici; perchè se si ammette essere uno dei due ne una dit- tografia, viene fuori sancta, e con sancta manca nel verso una sillaba che sarà fe, caduta dinanzi all’altro te. La ripetizione di fe è enfatica e rimane giustificata dal te che trovasi avanti a genetrix.

48 ,

il Giussani, altri (1). Ma sia o no la solenne espressione de- rivata a Lucrezio da Ennio (2), io non dubito che Venere sia stata chiamata madre degli Eneadi, cioè dei Romani, per un importantissimo fine. Venere bene è la immagine visibile della invisibile energia naturale; ma ella a un tempo è subito alle prime parole che a lei indirizza il poeta quella Venere che poco dopo ci apparirà ammaliatrice e posseditrice di Marte. Perchè come mai Lucrezio, se non gli stesse dinanzi al pen- siero quella Venere lì, la chiamerebbe madre degli Eneadi ? Chè la madre degli Eneadi è proprio la Venere vagheggiata e adorata dal terribile dio. La denominazione di genitrice degli Eneadi , non è niente affatto introdotta per una rimi- niscenza letteraria, per richiamare alla memoria dei Romani, cosa loro graditissima, la loro origine divina. Questo facil-

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mente crede chiunque non è accorto del motivo di tale introduzione. Questo ha indubbiamente pensato il cardinal di Polignac, se nel suo Antilucretius (v. 66) alla frase felicibus

(1) Poichè il Giussani, in proposito di Aeneadum genetrix, dice, ripe- tendo un po’ inesattamente una osservazione del Munro, che il principio del poema di Lucrezio fu imitato da Ovidio in due luoghi, in Trist. II, 261, e, più distesamente, in Fasti IV, 90, non è forse inutile rammen- tare che, quanto al luogo dei Tristia (il luogo dei Fasti, ove Aeneadum genetrix non apparisce, credo di trascurare), non trattasi che di un'al- lusione al poema della Natura, fatta, anzichè adducendone il proprio titolo, con riportarne, secondo una maniera la quale ha altri esempi, il principio stesso, come, dopo inutili tentativi di parecchi di correggere il verso ovidiano, ben vide per primo Ludovico Carrion in Emendationum liber I (Lutetiae, Beysius, 1583, cap. 8): questo essendo il senso del passo dei Tristia: ἡ“ Se la matrona romana prenderà in mano il poema ove subito al principio le si offre la genitrice degli Eneadi (sumpserit Aenea- dum genetrix ubi prima), chiederà donde genitrice degli Eneadi sia l’alma Venere ,. Dunque parlare proprio d’imitazione, non è il caso. L’Aenea- dum genetrix poi di Ausonio (Epigr. 33) e del C. I. L., IV 3072 mostrano una cosa sola, che la frase di Lucrezio aveva fatto fortuna.

(2) Lascio stare che in Ennio Venere è detta genetriv non Aeneadum, ma patris nostri: osservo che non dice questo a lei, invocandola, il poeta (circostanza che, ove si verificasse, avrebbe pel riscontro grande impor- tanza), bene lo dice Ilia, già pregna de’ dne gemelli, nel momento che implora aiuto nella grave congiuntura in che si trova, alla sua di- vina parente.

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SA Hai ἐς imperat arvis premette per soggetto Aeneadum genetrix, piut- tosto che il semplice Venus. E invece tale denominazione in- trodotta perchè più tardi, nella seconda parte, Lucrezio dovrà pur chiedere a Venere qualche cosa a favore dei Romani, la pace. A darsi di loro pensiero, non è per lei ragione buona e forte stimolo ch’ella è madre loro ? Anzi in ciò, che il poeta già nel dar principio al poema ricorda a Venere i suoi figli, si ha una conferma di quello che è stato rilevato ad- dietro (p. 45), che più di tutto (e sappiamo perchè) gli preme

la pace di questi figli di Venere. E Venere subito nel primo verso è anche chiamata pia- cere degli dei ,. Ora ciò pure non credo che avvenga senza affatto riguardo alla futura rappresentazione di Marte, domi- nato e reso inerte appunto dalla voluptas di Venere. Che grande importanza poteva infine aver per Lucrezio il rilevare, e, ciò che anche ha peso, tosto, che Venere è gioia degli dei, quando ei nel suo canto si occupa di loro a dimostrare che nessuna loro azione è da ammettere nelle cose umane e nell'universo? E pertanto rileva cotesto specialmente, o anche solamente, perchè fra poco saranno ritratti gli amori di Venere e Marte. è da opporre che Venere è a un tempo chiamata « piacere degli uomini ,. La hominum voluptas, per dir questo solo, ha persino un’analisi lunga e acuta, descritta con viva energia, nel poema (cfr. lib. IV): non era da aspettarsi che il poeta, da che dice che Venere è piacere degli dei, il me- desimo non dicesse degli uomini; tanto più che nella poesia greca non è raro il concetto che dei e uomini soggiacciono allo stesso modo al potere di Venere. La menzione del pia- cere degli uomini è stata, con molta probabilità, tratta seco da quella del piacere degli dei. Onde, mentre dell’accenno alla voluptas hominum, aggiunto a quello della voluptas divom, troviamo una giusta ragione; dell’accenno al piacere divino, dell’accenno all'origine dei Romani, se l’uno e l’altro non ha il suo fondamento in quello che si è notato, nel fatto, voglio dire, che più tardi comparirao Venere e Marte in un am- = plesso di amore e la dea avrà da ottenere dal dio la pace pe suoi Romani, non si possono recare che ragioni superfi- ciali e inopportune. Di tal guisa l’Aeneadum genetrix e il

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 4

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divom voluptas sono come due motivi anticipati della musica che risonerà poi, neppure forse cercati di proposito, spon- taneamente venuti fuori dall’animo, non del tutto consapevole e fortemente commosso, del poeta, dall’animo di lui che aveva già concepito la rappresentazione degli amori delle due di- vinità e la preghiera per la pace. Tanto è lungi che fra tale rappresentazione e l’inno alla dea quella recisa disgiunzione si verifichi, senza la quale non si sarebbe pensato che fu proposito di Lucrezio simboleggiare l’amicizia e la discordia empedoclea.

VI;

Si è veduto da quale fine veramente Lucrezio sia stato indotto a metterci sotto gli occhi Marte rovesciato in grembo a Venere e da lei conquiso : vediamo ora se nel ritrarre il gruppo stupendo abbia ricevuto l'ispirazione, come si è pen- sato da un pezzo (1) e s’inclina a credere anche oggi, da qualche opera di pittura o scultura; di scultura, suppone il Martha (p. 358), conosciuta ai Romani e collocata in alcuno dei loro templi.

Rispetto a tale ispirazione, ogni maggior concessione sarà fatta, quando non se ne sarà negata la probabilità in modo assoluto. Chè a spiegare la genesi del gruppo lucre- ziano di Venere e Marte non è di bisogno ricorrere ad alcuna opera di pittura o scultura. Gli amori di Afrodite e Ares sono esposti nell’Odissea, nel canto di Demodoco (VIII 266 sgg.), che è come dire in un passo celeberrimo. Ivi la bellezza della dea, la bellezza del dio è riconosciuta persino, nell’ira e nella gelosia, da Efesto (v. 310 e 320). Il fascino che l’una eser- cita sull'altro s’inferisce apertamente dalla maliziosa domanda che, in proposito di Afrodite e Ares, sorpresi nella rete di

(1) Questa opinione si trova già espressa nel Commento di Tanaquil Faber o Tanneguy Lefebure, la cui edizione di Lucrezio fu messa fuori per la prima volta nel 1662.

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Efesto e spettacolo a tutti gli dei, fa Apollo a Mercurio : se vorrebbe egli, largitore della felicità agli altri, dormir nel letto presso l’aurea Afrodite, chiuso però fra saldi ceppi; e dalla risposta di costui: che ben vorrebbe dormire vicino all’aurea Afrodite, anche quando ceppi tre volte tanti lo re- cingessero senza ch’ei ne potesse uscir fuori, e gli dei tutti e le dee gli ficcassero gli occhi addosso (v. 335 sgg.). L'idea di quella bellezza e di quel fascino doveva fissarsi fortemente nell'animo di ogni lettore; doveva fissarsi per se stessa e anche per l'impressione che il canto di Demodoco aveva fatto nell'animo di Ulisse e degli altri Feaci:

Ὀδυσσεὺς τέρπετ᾽ ἐνὶ φρεσὶν ἧσιν ἀκούων, ἠδὲ καὶ ἄλλοι Φαίηκες. (v. 367 sgg.).

Ora si ponga mente all’indole di Lucrezio, così impressiona- bile, così facilmente e profondamente impressionabile : gli amori della dea della bellezza e del dio della guerra, la ve- nustà dell'uno e dell’altra, l’incanto mirabile di Afrodite non è verisimile che non fossero penetrati ben addentro nell’animo suo. Perchè tutto questo alla prima occasione non ne sarebbe come balzato fuori a ispirarlo ?

Per ciò il Martha propende a credere che la stupenda rap- presentazione di Marte e Venere sia da ricondurre a un gruppo in marmo, perchè talune espressioni, le quali occorrono presso Lucrezio, sembrano ritrarre forme plastiche e fra altre la sola che egli riporti delle tre addotte dal Faber (1)) questa: tereti cervice reposta (2). Ma non può un poeta, e anche se non sia della forza di Lucrezio, vedere nella propria fantasia una immagine in tutta la sua plasticità e ritrarla diretta- mente di lì? Quanto a ciò poi che più specialmente concerne il tereti cervice reposta, atteso che Marte, a compiere l’atto

(1) Le altre due sono resupini e suspiciens.

(2) Reflexa dice, per distrazione, il Martha, confondendo la frase lu- creziana con quella di Cicerone (v. appresso, p. 52) e di Virgilio (Aen. VIII, 633).

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gie del suspicere, doveva reponere il collo e per conseguenza met- terne in vista la conosciuta bellezza e allungarlo, tereti cervice era suggerito da questa medesima circostanza; se un collo sottile e lungo, cioè a dire bello, è cervix teres. Oltre che prima di Lucrezio Cicerone, parlando del Dragone, aveva detto (Arat., Fragm. VIII), come è riferito in commenti lucreziani a questo luogo, tereti cervice reflecum. Piuttosto, ove piaccia seguire particolari espressioni, a Omero o, meglio, all’A frodite di Omero si può riportare una peculiarità che rende singo- larmente bella e affascinante la Venere lucreziana, quel suavis ex ore loquellas funde; tenuto conto che Afrodite ha, presso Omero, nel suo cinto, insieme con l’amore e il desiderio, il con- fidente conversar degli amanti :

ἔνϑ᾽ ἔνι μὲν φιλότης, ἐν δ᾽ ἵμερος, ἐν δ᾽ ὀαριστὺς πάρφασις. (I. XIV 216-17).

Ove il contatto fra il poeta greco e il latino può parere mag- giore per questo, che Venere a Marte versa nelle orecchie “le dolci parolette , proprio nel momento che gli chiede la grazia della pace, come adoperando il mezzo più acconcio per trionfare della durezza di lui; e appresso Omero, di tutte le cose che Afrodite porta nel suo cinto, è “degli amanti il favellio segreto , quella che a coloro anche ruba il senno, i quali hanno molto senno :

© ἔχλεψε νόον πύκα περ φρονεόντων. (100 ΧΙ ΣΙ

Ma come per altri atteggiamenti e movimenti dei due divini personaggi, a rendersene ragione, non è necessario riportarsìi a opere plastiche e di pittura; così pel sussurrare che fa Venere le dolci parolette all’orecchio di Marte non è di bi- sogno risalire a Omero. Appunto da Omero sapeva Lucrezio degli amori di Marte con Venere, e questo bastava perchè nella sua mente di poeta, consapevole inoltre di quello che non è poi raro a verificarsi nella vita degli uomini, potesse nascergli il concetto e l’immagine di Venere seduta e di Marte rovesciato in grembo a lei, di Venere che col fascino del santo

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suo corpo tutto lo circonfonde e di Marte che, tratto in dietro il bel collo, tiene in lei fissi gl’innamorati occhi e pende dalle sue labbra loquaci.

VII.

Resta che consideriamo l’altra invocazione di Lucrezio, quella a Calliope (VI 92 sgg.):

Tu mihi supremae praescripta ad candida calcis currenti spatium praemonstra, callida Musa, Calliope, requies hominum divomque voluptas, te duce ut insigni capiam cum laude coronam.

Qui la divinità, come nel proemio del libro primo, è imma- ginata protettrice degli uomini e largitrice di aiuto e, come nel predetto proemio, è di questo aiuto supplicata dal poeta. Non se ne è fatto il gran caso che in proposito di Venere, con certezza perchè il poeta, procedendo alla svelta, senza prendere in mano quella lira onde allora aveva tratto fuori tanta soavità e profondità di suoni, non ha riempito gli animi di maraviglia. E questo rende più osservabile la invocazione a Calliope, che, mentre Lucrezio nel principio del poema ubbidiva come a una necessità ; qui sulla fine, non essendo prescritto da legge alcuna o vera consuetudine che i poemi abbiano nell’ultima parte una invocazione, anche se talvolta dei e dee sono invocati pur verso la fine e altrove, si atteneva al suo proprio giudizio. Cosiecchè alla questione cui luogo l'essere domandato l’aiuto di Venere, si ricongiunge l’altra della preghiera a Calliope. Se in Venere, la bella dea della fantasia popolare, è da riconoscere un altissimo simbolo ; come poi deve interpretarsi la invocazione alla musa tradizionale della poesia ?

Avanti tutto è ragionevole intendere che, se accogliendo la tradizione poetica, Lucrezio domanda aiuto con le parole a Calliope; nel pensiero riguardi a quella facoltà del canto, insita nell'animo dei poeti, la quale in Calliope è agevole

ἘΡΒΧ ὩΣ vedere personificata. A questa facoltà anche direttamente e apertamente, che è come dire senza l’immagine e il velo di nessuna musa, ogni poeta può, in alcun momento solenne, rivolgersi, per eccitarla, per chiederle ispirazione, per render- sela docile, come, con certa frequenza, i personaggi dei poemi e dei drammi, gli autori dei canti lirici aprono e parlano, quasi fosse da loro distinto e diverso, al proprio animo. Ove però si dovesse e potesse con certezza stabilire, ciò che non è possibile stabilire in alcuna guisa, che Lucrezio, pregando Calliope, non ebbe nella mente che Calliope, cioè proprio la musa e in nessun modo la facoltà dello spirito da lei signi- ficata ; la differenza fra le due invocazioni avrebbe pure la sua spiegazione pienissima. Chè invocando Calliope, Lucrezio, come ora si è detto ed è evidente, segue la tradizione ; in- vocando Venere, se ne distacca e fa (se ne è a suo tempo notata l’importanza) cosa nuova.

E qui viene in acconcio di ricercare onde accada che Lu- crezio verso la fine del poema invochi una virtù e una divinità diversa da quella che ha invocato nel principio; massime che nel proemio del libro primo egli ha domandato l’aiuto e la cooperazione di Venere per tutti i sei libri e non solamente per alcuni. E tanto più è ovvio ricercare cotesto, in quanto principio e fine facilmente e naturalmente si richiamano da stessi, in ogni cosa, al pensiero così di chi scrive come di chi legge.

Il Munvo ha ravvicinato la preghiera di Lucrezio a Calliope alla preghiera di Empedocle alla stessa dea. Le due preghiere sono per vero un po’ diverse, perchè, a non dir altro, Em- pedocle invoca Calliope (v. 5. p. 38, nota) in sul cominciare di una trattazione per lui rilevante, acciò lo assista in essa trattazione; Lucrezio per contro alla fine dell’opera, affinchè lo guidi, nell’ultima parte della corsa verso la meta, a pren- dere la sospirata corona. Ma se davvero Lucrezio ha pregato Calliope nel poema De rerum natura, perchè era stata prima di lui pregata nei Kadagyoi (e si può aggiungere, v. s. p. 38, nel principio del Περὶ Φύσεως) da Empedocle ; non per ciò è già manifesta la causa delle due invocazioni lucreziane. Senza controversia Lucrezio avrà ceduto all'esempio di Empedocle,

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perchè lo avrà giudicato opportuno. Εἰ proprio a una diversa opportunità sarà da assegnare la diversa invocazione. Quando Lucrezio è sul punto di dar principio all'opera sua e pensa all'argomento che tratterà, alla bellezza che devono avere i suoi versi, alla pace che gli è necessaria a condurre a ter- mine l’altissima impresa, invoca Venere, la rappresentante della natura, Venere, nella immaginazione degli uomini, come nella realità la natura, cagione di ogni venustà e apporta- trice di pace dopo le guerre: quando, pervenuto oramai al- l’ultimo spazio della sua corsa lunga, vede splendere davanti ai propri occhi la bella corona di gloria che ha e ammirato intorno alle tempie di Ennio (I 117-118) e da un pezzo desiderato per se medesimo con entusiasmo (I 928 sgg. = IV 3 sgg.), invoca Calliope, la saggia musa che, giusta l’opi- nione dell’universale, cinge di corona le fronti dei poeti dotti. Nel quale proposito mette conto di osservare che Lucrezio nel proemio del libro primo implora che belli sieno i suoi versi per l’allettamento di chi legge, non per la sua gloria; della sua gloria non fa in alcuna maniera menzione.

Dunque non pure Lucrezio alla musa della epopea o, in generale, della poesia la dea sostituisce che, e in se stessa e per la somma virtù che rappresenta, è particolarmente, unica- mente adatta al poema suo; ma la sostituisce senza porre da parte quella musa, anzi indirizzandosi a lei dove gli pare opportuno, e l’ufficio conservandole che, nel giudizio del po- polo e dei poeti, è a lei riservato. Questo mostra anche meglio l'importanza, più addietro considerata e rilevata, della sosti- tuzione ; questo anche meglio fa comprendere con che profondo intendimento Lucrezio nell’inizio del suo canto ha invocato Venere.

Roma, febbraio 1914.

Giacomo GIRI.

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ΠΥ CR RISALITA

DE SIMILITUDINIBUS HOMERICIS CAPITA SELECTA

PARTICULA I.

Certamen leonis et asini: A 546. 5438-57 (P 657-67). 558-65.

Edituro mihi plenos Iliadis et Odysseae comparationum indices (1) deque Homericae similitudinis usu atque vi denuo post alios sexcentos (2) non tantum singil'atim sed etiam in

(1) Tres videlicet erunt: I. index omnium quae ubique inveniuntur comparationum, II. tum rerum hominumque qui comparantur, III. de- nique hominum rerumque (vel animalium) quibuscum comparantur. Graecos eiusmodi indices adhuc desideramus, quamvis iam Homericas si- militudines collegerint, easque haud nimis perfecte, cum Egen (Veber die hom. Gleichn. οἷο, Magdeburg 1790), Backmann (Homerus comparans sive simil. ex Il. et Od. coll., Hernosandiae 1806), Friedlinder (Verzeichnis der homer. Gleichn. in Fleckeisenii Jahrbb. f. cl. Phil. III Suppl. Bd. 1857-60, p. 786 etqs.), Frommann (Uedber den relativen Wert der homer. Gleichn., progr., Biidingen 1882), Krupp (Die hom. Gleichn. ete., progr., Zweibriicken 1883), Pecz (Οὲ τρόποι τῆς "IR. καὶ τῆς Ὀδ. ete. in Egye- temes Philologiai Kòzlini XXXV 1911, p.1 etqs.) al, tum grammatici (de Velsen De compar. Homer. diss., Berolini 1849; Stacke De comp. Hom. diss. gramm., progr., Rinteln 1853; Rahts Quaest. epic. spec. I, progr., Rastenburg 1865; Friedlinder Beitrige 2ur Kenntniss der hom. Gleichn., progr., Berlin I 1870, II 1871; Thomson De modis temporib. comp. Hom. diss., Lundae 1888; al.). Qui omnes, vel sua haud nimia di- ligentia vel potius ceterorum neglegentia connixi, de ipsa similitudinum summa inter se ita certant, ut alii longe alios oculis numeros subiciant!

(2) Mirum enim quam multi vv. dd. et nostrae et superioris aetatis hanc sibi sumpserint provinciam, ignari saepe eadem iisdem verbis re-

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universum disputaturo, liceat in praesentia ζητήματα quaedam selegere, ut in ipsis disquirendis et persolvendis statim quasi per transennam appareat quo ego consilio adductus, qua ra- tione et norma procedens, qua spe saltem confisus vel quid tandem conatus in tantam devenerim quaestionem, cui cum subtilius mentis acumen, celerior in poetica oratione sensus, sagacior epici generis scientia, tum carminum Homericorum critica historica grammatica doctrina simul adhibeantur ne- cesse sit.

A 546 (Αἴας) ...τρέσσε παπτήνας ἐφ᾽ ὁμίλου, ϑη οὶ ἐοικώς. ἐντροπαλιζόμενος, ὀλίγον γόνυ γουνὸς ἀμείβων.

ὡς δ᾽ αἴϑωνα λέοντα βοῶν ἀπὸ μεσσαύλοιο ἐσσεύαντο κύνες τε καὶ ἀνέρες ἀγροιῶται,

550 οἵ τέ uv οὐκ εἰῶσι βοῶν ἐκ πῖαρ ἐλέσϑαι πάννυχοι ἐγρήσσοντες δὲ κρειῶν ἐρατίζων ἰϑύει, ἀλλ᾽ οὔ τι πρήσσει" ϑαμέες γὰρ ἄκοντες ἀντίον ἀΐσσουσι ϑρασειάων ἀπὸ χειρῶν, καιόμεναί te δεταί, τάς te τρεῖ ἐσσύμενός περ᾿

555 ἠῶϑεν δ᾽ ἀπονόσφιν ἔβη τετιηότι ϑυμῷ" ᾿ς Αἴας τότ᾽ ἀπὸ Τρώων τετιημένος ἦτορ ἤϊε πόλλ᾽ ἀέκων περὶ γὰρ die νηυσὶν ᾿Αχαιῶν.

ὡς δ᾽ ὅτ᾽ ὄνος παρ᾽ ἄρουραν ἰὼν ἐβιήσατο παῖδας νωϑής, © δὴ πολλὰ περὶ δόπαλ᾽ ἀμφὶς ἐάγη,

560 κείρει τ᾽ εἰσελϑὼν βαϑὺ λήϊον οἱ τε παῖδες τύπτουσιν δοπάλοισι βίη δέ τε νηπίη αὐτῶν σπουδῇ τ᾽ ἐξήλασσαν, ἐπεί τ’ ἐκορέσσατο φορβῆς᾽ ὡς τότ᾽ ἔπειτ᾽ Αἴαντα μέγαν, Τελαμώνιον υἱόν, Τρῶες ὑπέρϑυμοι πολυηγερέες τ᾽ ἐπίκουροι

565 νύσσοντες ξυστοῖσι μέσον σάκος αἰὲν ἕποντο.

tractantes, iisdem interdum erroribus decepti; ita ut hodie ab ipsa re iterum perserutanda ille potius deterreatur qui innumerabilia ista opuscula dinumeraverit, quam qui perlegerit.

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Inter leonem et asinum iurgium inde ab antiquis temporibus hoc loco exstitisse, pernotum est.

Versus enim 548-57 Zenodotum expunxisse ap. Schol. cod. Mare. A legimus (1): quod quibus de causis princeps ille philologorumque audacissimus fecerit, neque nos compertum habemus neque veteres habuerunt (cum Zenodotus obelo tan- tum usus esset nullo adiecto commentario); licet tamen hoc ipsum facili suspicione assequi. Nam, si Alexandrinorum con- silia in recensendis comparationibus respicimus (2), tria sane fuerunt quibus is adductus leonis imaginem ab Homero ab- iudicaverit : I. leonis asinique similitudines idem sibi velle, II. nimis similitudines inter se dissimiles esse, III. vv.550-55= P 659-64. Postea Aristarchei, vitium τῆς δισσολογίας de- mere conati, monuerunt (schol. cit.): ἔστι πρὸς διάφορα σημαινόμενα ᾿ μὲν γὰρ λέων πρὸς τὴν πρᾶξιν, δὲ ὄνος πρὸς τὴν ὑπομονήν (3). Tum zeteticorum vel lyticorum sub- tilitas plurima in contrariis reconciliandis fuit: ταῖς γὰρ φύσεσι τῶν ζώων (Homerus ὃς οἶδε φύσεις andvimr) καὶ τὸ dxvnoòv πρὸς φυγὴν καὶ τὸ ταχὺ πρὸς μάχην τοῦ ἥρωος δεδήλωκεν (Porphyr. ap. Schol. cit., οἷν. Dind. vol. II ad v. 558 et schol. Townley. Maas 1).

Quorum omnium argumentis novi nihil homines nostrae aetatis adiunxerunt, cum alii diversum utrimque fertium quod dicitur comparationis deprehendere studeant (4), simul leonem et asinum aequo animo excipientes ; alii vero leonem potiorem habeant (5), quippe qui solus tanto heroe dignus videatur, neque Aiacem cum vapulante isto asello comparari patiantur ;

(1) Ad. v. 548 (Dind. vol. I) ὅτε ἀπὸ τούτου Ζηνόδοτος ἀϑετεῖ ἕως τοῦ “ἥτε πόλλ᾽ ἀέκων, (551), ἴσως ὅτι νῦν μὲν λέοντι παραβέβληκεν. ἑξῆς δὲ ὄνῳ.

(2) Cfr. Clausing Kritik u. Exegese der hom. Gleichnisse im Altertum (Parchim, 1918).

(3) Cfr. Eustath. ad loc. (ed. Lips. III p. 52).

(4) Sunt plerique ; cfr., ut unum commemorem, Kammer Εἴη disth. Komm. zu Hom. Il. (Paderborn, 1889), p. 49.

(5) Ita, post Lachmannum Welckerum Hermannum Bekkerum Fickium, Robert Stud. zur Il p. 107, al.

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alii contra non Aiacem cum asino, sed potius eius fortitu- dinem cum asini pervicacia conferri (1) doceant itaque iu- mentum bestiarum regi anteponant (2). Bethe denique, in libro quem de Iliadis compositione nunc ipsum in lucem edidit (3), neutram germanam esse contendit similitudinem, suspicans unam et alteram pristinis illis genuinisque verbis quae sunt ϑηρὶ ἐοικώς assutam fuisse ab hominibus minus in epica simplicitate acquiescentibus. Sed hoc cst excidere, non expedire nodum; neque veri simile videtur imagines tam diversas extrinsecus fingi atque hic inhaerescere potuisse. Meo igitur Marte locum temptabo.

Ac primum ingenue confiteor mihi eo ipso asini com- parationem ad Aiacis virtutem illustrandam validiorem vi- deri, quod risum moveat. Subrideo equidem, cur non ? At hoc, conclamant una voce, cum epica gravitate pugnat. Pugnat sane, sed vos de gravitate ista nimis multa verba facitis, nimis, meo iudicio, commentamini: nervos tamen in eo con- tendam ut hic de asello nostro et eius callosa pelle sine risu legam... sed qui possum, quaeso, eodem vultu alibi de muscis in stabulo circa lac volitantibus (B 469-73), de vespis al- vearia sua defendentibus et inde homines puerosque arcen- tibus 167-72, ΠῚ 259-67), de cycnorum anserumque con- fuso clangore (B 459-65), vel in libro P de coriariis bubulam pellem ungentibus et circumtractantibus (389-95) deque mulis magnam trabem multo cum sudore vectantibus (742-6), vel

(1) Cfr. e multis Finsler Homer p. 498. παραβολὴ πρὸς τὴν κα- ταφρόνησιν τῶν Τρώων Schol.! quem tamen sunt qui sequantur.

(2) Ita, ante Christium (Prolegg. p. 25), Diintzer (Homer. Abhandl., Leipzig 1872, p. 503), Haupt (etiam “im Kolleg,: Rothe Die Iias als Dichtung, Paderborn 1910, p. 252 n. 1), Inama noster (Le simil. nell’Il. e nell’Od. in Riv. di Filol. V 1877, p. 360-1), al.

(3) Homer: Dichtung u. Sage. I (Leipzig, 1914), p. 167, 341-2 (“ Diese Stelle ist vor andern lehrreich, weil sie beweist, dass die breit ausge- fiihrten Gleichnisse der spiteren epischen Technik angehòren, wàhrend die tiltere sich mit kurzen begniigte ,, qua tamen in sententia aliquid inesse veri facile concedo).

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de Harpalione lumbrici instar humi prostrato (NN 654-5), de Ulixis comitibus a Cyclope sicut catellis solo afflictis 289-90), de ipso Ulixe se in cubili tamquam in foco assum saginatum volutante (v 25-28), quid ? in hoc libro A (269-72) de Aga- memnonis vulnere cum acerbo puerperae nisu comparato : talia, dico, non familiari quadam hilaritate (1) sed gravi vultu legere, non remissis sed contractis superciliis? Quin immo subiocularem quendam colorem nostrae non abesse si- militudini omnia demonstrant : dvos νωϑής (2), πολλὰ περὶ δόπαλ᾽ ἀμφὶς ἐάγη, κείρει βαϑὺ λήϊον ἐκορέσσατο φορβῆς, παῖδες τύπτουσιν δοπάλοισι --- σπουδῇ τ᾽ ἐξήλασσαν ; asinus esuriens fustem neglegit, fustes citius quam dorsum infrin- guntur, ipse tandem campo satur excedit... Quod nisi summi et conscii artificis (3) est, nescio quid ars sit; nescio enim quid ad Aiacis impavidum pectus illustrandum pulchrius, quid spirantius, quid “Ομηρικώτερον fingi possit (4). Sed facilior ad laudandum quam ad Homerum recte interpretandum fit consensus; captiose igitur vv. dd. interpretantur, dum laudent, nimio istius gravitatis studio commoti, quae potius ad novicia rhetorum praecepta quam ad nativum epici stili genus accom- modatur; immo discruciantur ut nunc saltem Homerum pur- gent vitio quod ille nequaquam (si modo vitium esset) vitasse videtur (5). Negant asinum antiquissimis temporibus aut

(1) Peecz (Die Tropen der Il τι. der Od. in N. Jahrbb. f. d. kl. Alt., XXX 1912, p. 666) vidit et Homerum et comoediarum scriptores humi- liora ac tenuiora in comparationibus delectasse.

(2) Cf. T 655. (3) Homericam poesin pro Kunstdichtung ,, haud pro Naturdich- tung, ut Germanicis utar verbis habendam, recentiores in eo

consentiunt : cfr. ex. gr. Roemer Hom. Aufséitze (Leipzig, 1914) p. 1 etgs.

(4) Cfr. Pierron in Introd. p. cxxxr.

(5) Rectissime monuit Miilder (Die Il. u. ihre Quellen, p. 342): © Man tut dem Verfasser das allergrésste Unrecht, wenn man die Ilias nur mit steifer Gravitàt und schellenlauter Bewunderung liest und preist., Uberius in posterum de Homericis salibus neque omnino sine novitate me disputaturum confido.

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omnino praesto (1) aut Graecis risui fuisse (2) : afferunt Midae regis auricularum originisque asininae memoriam, inquirunt in Asiae populorum litteras ubi vestigia benevolentioris istius significationis retegant, volunt Aesopeas fabulas primas ‘na- turae dedecus’ ignominia notasse. Num ignorant asinum saepe apud veteres, inde a Tyrtaeo Archilocho Semonide, locose commemorari (3), asinum antiquitus cum ludibunda Bacchi Silenique turba coniunctum, asini ridiculam imaginem in nummis gemmisque (4) expressam fuisse ? Malunt ignorare

(1) Helm Kwlturpflanzen u. Hausthiere in ihrem Uebergang οἷο. (Berlin, 1894), p. 131 etqs. Sed mulum (ἐξ Everov, ὄϑεν ἡμιόνων γένος ἀγροτεράων B 852) persaepe apud Hom. adhiberi, nomen ipsum ἡμέονος usurpari, μῖξιν ὄνων πρὸς ἵππους Mysos invenisse sec. Anacr. fr. 35 Bgk (cfr. 2 278), haec palam contra testantur. Quodsi asinus ap. Hom. semel tantum nobis occurrit, memineris Aristarchi praeceptum quod est Ὅμηρον ἐξ “Ounoov σαφηνίζειν Aristarcheo praecepto πολλά ἐστιν ἅπαξ λεγόμενα παρὰ τῷ ποιητῇ (Roemer Aristarchea in Philolog. LXX 1911 p. 163) coércendum, cum praesertim τῶν ἅπαξ εἰρημένων thesaurus in ipsis comparationibus lateat (Friedliinder Zivei homer. Woòrterverzeichn. in Jahrbb. f. cl. Ph. III Suppl. Bd., p. 749).

(2) Friedreich Die Realien etc. (Erlangen, 1856) p. 105, 713; Buchholz Die hom. Real. I, 2, p.181-2: Rahts, progr. cit.; Bliimner Stud. zur Gesch. der Metapher im Griech. I (Leipzig, 1891) p. 215 etqs.; Keller Die antike Tierwelt I (Leipzig, 1909), p. 260-1. I. Miiller (Das Bild în der Dicht. I. Theorie der Met., Miinchen 1903) et ipse de mutato iudicio loquitur.

(3) Tyrt., fr. 6 ὥσπερ ὄνον μεγάλοις ἄχϑεσι τειρόμενοι ntÀ.. Archil. fr. 21 ἥδε δ᾽ ὥστ᾽ ὄνου ῥάχις ἕστηκεν utà., fr. 97 ... ὡσεί τ᾽ ὄνου Hornvéos κήλωνος.... ὀτρυγηφάγου. Semon. Amorg. 7, 48 etqs. τὴν δ᾽ ἔκ πελιδνῆς καὶ παλιντριβέος ὄνου κτλ... Theogn. v. 996 yvoins χ᾽ ὅσσον ὄνων κρέσ- σονες ἡμίονοι. Aristoph. Av. 1328 πάνυ γὰρ βραδύς ἐστί τις ὥσπερ ὄνος. Cratin. fr. 52 Kock oi δὲ πυππάζουσι περιτρέχοντες, δ᾽ ὄνος ὕεται (proverbium ἐπὶ τῶν μὴ ἐπιστρεφομένων dictum). Cephisod. fr. 1 Kock ἐγὼ τοῖς λόγοις ὄνος Bowac (‘verba tua non magis curo quam asinus imbrem ’). Quid sub asini nomine (asinus, asino, àne, ass, Esel) variae Europae gentes semper uno corde senserint, in propatulo est; qua de re librum commendo Brinkmanni (Die Metaphern. I. Die Thierbilder der Sprache, Bonn 1878, p. 362 etqs.) cui tamen concedere non possum et ab Horatiano “ut iniquae mentis asellus ,, et ab huiusmodi proverbiis “le roy de France roy des ànes ,, der Esel trigt das Korn in die Mihle und bekommt Disteln ,, εἰρωνείαν quandam plane abesse.

(4) Imhoof-Blumer et Keller Tier- u. Pflanzenbilder auf Miinzen τι. Gemmen d. kl. Alt. (Leipzig, 1889). Inspicienda imprimis gemma Bero-

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fortasse quam confiteri Aiacis asellique sublimem compara- tionem et Homerico quodam lepore vel Rumore illo (1), quem Britanni dicunt, imbutam esse et cum leonis minime concinere posse. Nam, ut Hermanni verbis concludam, utraque egregia imago est: sed qui alteram fecit, non usus esse altera videtur : tam inter se dissimiles sunt , (2).

Dissimiles quidem sunt, nec tamen adeo ut lectorem fugiat utramque unum atque idem propositum persequi (quidquid cavillantur interpretes), idem tertium comparationis inesse, contra Poetae consuetudinem qui hanc legem, ut hoc utar verbo, sibi quasi constituisse videtur, per diversas similitudines di- versas narrationis partes vel rerum figuras vel personarum facta vel corporis habitus illustrandi. Lectita quaeso B455-83, O 618-98, P 51-69, 725-59, Y 490-9, X 22-32, % 299-308, et in ipso hoc 1. A 62-73.

Notatu quogque dignum est alterius imaginis structuram quodammodo cum alterius concinere; credas hanc illa cor- rigi vel amplificari, illam huic nobilitatem tribuere : cum haec ὄνος νωϑής, illa αἴϑωνα λέοντα ; haec παρ᾽ ἄρουραν, illa βοῶν ἀπὸ μεσσαύλοιο ; haec παῖδας, illa ἀνέρες ἀγροιῶται ; haec ἐβιήσατο παῖδας ... κείρει te βαϑὺ Aniov... ἐκορέσσατο φορβῆς, illa οἵ τέ μιν οὐκ εἰῶσι βοῶν ἐκ πῖαρ ἑλέσϑαι ... δὲ ἰϑύει ἀλλ᾽ οὔ τι πρήσσει ... τρεῖ ἐσσύμενός περ; haec πολλὰ περὶ δόπαλ᾽ ἀμφὶς ἐάγη, illa ϑαμέες ἄκοντες ἀντίον dic- σουσι ... καιόμεναί te deri; haec βίη te νηπίη αὐτῶν, illa ϑρασειάων ἀπὸ χειρῶν ; haec ἐξήλασσαν, illa ἀπονόσφιν ἔβη τετιηότι ϑυμῷ. Eadem utrobique dictionis constructio (9),

linensis (tab. XVII, 7) de qua edd.: “sehr alt und roh archaisch, aber hòchst charakteristisch,. Asinus coronis caput redimitus, asinus sal- - tator sim. eodem pertinent.

(1) Cfr. Pliiss Das Gleiehnis in erzihl. Dicht. ein Problem ete., in Festschr. zur 49. Versamml. Deutscher Phil. u. Schulm. (Basel, 1907), p. 54.

(2) De iterat. ap. Hom. (1840) in Opusc. VIII p. 17. Satis dissimiles deorum (Iovis, Martis, Neptuni) taurique imagines in B 478-81 cumu- lantur, ubi tamen leges quasdam subtiliores Homericae artis deprehen- dimus; pernimium autem inter asinum nostrum et taurum ἀγέληφι μέγ᾽ ἔξοχον πάντων interest.

(3) De schemate syntactico v. Thomson in diss. cit. p. 42 etgqs.

εὐ δον Ξ cum praesentia aoristum subsequantur, aoristum praesentia excipiat (cfr. A 113 etqs., 172 etqs., 474 etqs.); nisi quod in membrorum dispositione haud inelegantem χιασμόν agno- 5015 (λέοντα ἐσσεύαντο κύνες τε καὶ ἀνέρες, Αἴας ἀπὸ Τρώων ἤϊε --- ὄνος ἰὼν ἐβιήσατο παῖδας, Αἴαντα Τρῶες νύσσοντες ἕποντο). Attamen leonis descriptori minus prospere successit ut nexum cum versibus insequentibus observaret (nam ver- sum 557 aegre versu 566 Afag δ᾽ ἄλλοτε κτλ. pergis, qui contra optime in asini apodosin vel antapodosin quadrat) utque Aiacem tardo pede recedentem (v. 547 ὀλίγον γόνυ yovvòs ἀμείβων) potius quam summo impetu invadentem praedicaret (1). i

Sed iam tempus est firmiora quaestioni nostrae fundamenta agendi, quod nobis sane continget si A 548-57 cum P 657-67 comparaverimus, quid utrique loco commune quid dissimile sit penitus disquirentes.

LE OI RE οὐδ᾽ ἀπίϑησε βοὴν ἀγαϑὸς Μενέλαος, βῆ δ᾽ ἰέναι ὥς τίς te λέων ἀπὸ μεσσαύλοιο, ὅς τ᾽ ἐπεὶ ἄρ κε κάμῃσι κύνας τ᾽ ἄνδρας τ᾽ ἐρεϑίζων, 659-640î τέ μὲν κτλ. = A 550-5 665 ὡς ἀπὸ Πατρόκλοιο βοὴν dyadòs Μενέλαος ἤϊε πόλλ᾽ ἀέκων" περὶ γὰρ die μή μὲν ᾿Αχαιοὶ 667 ἀργαλέου πρὸ φόβοιο ἕλωρ δηΐοισι λίποιεν.

Sex igitur versus in l. A ad verbum iterantur praeter Ho- mericam consuetudinem studiumque commutandarum simili- tudinum (2), quae lex, orationibus tantum exceptis (ex. gr. > 56 etqs. = 437 etqs.), ubique viget; nam repetitiones illae Z 506-11 = O 263-8, N 889-95 = I 482-6, ($ 230-5 w 157-62), eodem fere modo quo nostra, ex interpolatione ortae sunt. Ea autem quae in A novata videmus corre- ctoris, ut ita dicam, consilium redolent, velut αἴϑωνα λέοντα (cfr. ὄνος νωϑής) pro τὶς λέων positum et insignis illa @va-

(1) Vergilio hoe bene successit in Aen. IX 792 etqs. (2) Cfr. Diintzer Hom. Abhandl. p. 499 etqs. (praec. 503).

LAGO

κολουϑία in ipso initio de industria vitata (ὧς δ᾽ αἴϑωνα λέοντα ἐσσεύαντο κύνες κτλ. pro βῆ δ᾽ ἰέναι ὥς τίς te λέων ὅς © ἐπεὶ κτλ.) (1). Adice quod orationis copia hic quodam- modo redundat (βοῶν ἀπὸ μεσσαύλοιο |550 βοῶν ἐκ πῖαρ ἑλέσθαι]. ϑρασειάων ἀπὸ χειρῶν 553 et 571, τετιηότι ϑυμῷ ... τετιημένος ἦτορ (2) ... πόλλ᾽ ἀέκων), quod extrema περὶ γὰρ die νηυσὶν ᾿Αχαιῶν minus opportune, ne dicam inepte, ex P 666-7 περὶ γὰρ die μή μὲν ᾿Αχαιοὶ ἀργαλέου πρὸ φόβοιο ἕλωρ δηΐοισι λίποιεν contracta videntur (sanctissima enim Me- nelai erga Patroclum mortuum pietas in naves, en, adhibetur). Sed cur multis morer? centonem Homericum in vv. A 548-9, 556-7 habemus: nam cum 548 non solum P 657 sed etiam P 109-12, X 161, Καὶ 24 (178), Z/ 488 conferendi; 549 = O 272; versus 556 altera pars ex 685 vel P 137, 360, altera e 0 4837, a 114, 804 cet. collecta; versum 557 in P 666 et 7 433 dimidiatum legis. Licet igitur concludas ab isto Homerista non in vv. 550-5 tantum, sed in reliquis quoque Homerum diligenter exscribi (8).

Attamen cum sint qui censeant (4) leonis imaginem aptius concinniusque in P quam in A cum contextu cohaerere, ambo erunt loci iterum ad obrussam exigendi. Atque primum leonem in P sine comitibus, in A iuxta talem adversarium prodire, hoc ipsum minime neglegendum (5), cum praesertim τὴν ὧν- ταπόδοσιν, satis illie amplam (6) et dilucidam, A liber de- curtatam infinitamque praebeat (ἤϊε), minusque, ut supra. vidimus, versui 566 congruentem. Tum verba ἀπὸ Πατρό- zoo Μενέλαος ἤϊε 044° ἀέκων (P 665-6) multo melius rei conveniunt quam Αἴας ἀπὸ Τρώων τετιημένος ἦτορ ἤϊε π. ἃ. (A 556-7). Quomodo ἀπὸ Τρώων Nonne Troianis et βόες et

(1) ἔθη post ὅς re facile cum Thomsonio (diss. cit. p. 21) auditur.

(2) Solitarium hoc sine φίλον adiectivo (Ameis-Hentze).

(3) Quod ad asinum pertinet, res plane aliter sese habet; ne versum quidem Z 111 (1 233) sine opportuna mutatione hic (564) legimus.

(4) Ita, cum Fickio, Leaf (ad P 657), al.

(5) Cfr. vv..Z 506-11 ante O 271, N 889-98 ante IZ 487 inculcatos.

(6) Tres sunt versus (P 665-7) ut A 563-5 ac saepe alias.

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sar. Ga

κύνες te καὶ ἀνέρες in protasi respondent (1) Sed, dicunt, P 657 etqs. recto stare talo infitiamur quia Menelaus Tela- monii hortatu ad Antilochum properat, quem ad Achillem mittat, atque ita Patroclum sua sponte relinquit Aiacibusque commendat; Aiax contra a Troianis, sicut leo ab agricolis vel armentariis, pedem coactus refert. At veri similiora quam veriora ea opponuntur: namque maxime saeviente proelio et summo imminente periculo Achaei ut Patrocli corpus audacibus eripiant Troianis enituntur: animos enim advertamus cum in Aiacis (629 etqs.) et Menelai (565-6, 712 etqs.) verba, tum praecipue in proximam illam simili- tudinem (674-81) qua Atrida noster aquilae comparatur la- tentem leporem opprimenti et lanianti, quamvis ipse, κατὰ ἔϑνος ἑταίρων palans, hoc tantum perscrutetur εἴ που Né- στορος υἱὸν ἔτι ζώοντα ἴδοιτο (681). Fatendum igitur erit leonis et aquilae comparationes item ardorem studiumque significare quo imbutus Menelaus Patroclum mortuum de- fendat (hunc ardorem in v. 569 etqs. atque in exeunte libro agnoscis), ita ut non sine dolore ac sollicitudine, πόλλ᾽ ἀέκων, ὥς τίς te λέων ἀπὸ μεσσαύλοιο, re tandem coactus (2), a carissimi amici corpore Troibusque instantibus discedat (3).

Paucis denique conclusionem absolvam. Ex iis, quae adhuc dicta sunt, siquidem ex sententia processerunt, hoc est conficiendum : versibus A 548-57 quasi nummum aureum et adulterinum iuxta nummum aéneum et bonum (558-65), vel forte eius loco, nobis subici. Quod si rogites quid causae fuerit cur Homerista antiquissimus (idem ille profecto qui A 175-6 a P 63-4 mutuatus est!) leonis imaginem aliunde sumpserit atque asini similitudini apponere vel supponere voluerit, respondebo hoc illum fecisse non tantum δεὰ τὸ ἀπρεπές (de quo supra disceptavimus) (4) neque κακοζηλίας

(1) Hoc vidit Passow in diss. sua De comparat. Hom. (Berolini, 1852).

(2) Hoc sibi volunt vv. 661-4, ubi dictu quoque dignum fortasse vi- detur nos versu 663 καιόμεναί τε δεταί, τάς te τρεῖ quodammodo ad v. 565 "Extwo πυρὸς αἰνὸν ἔχει μένος (Menelai verba) revocari.

(3) Cfr. vv. 668-72, 702 etqs.

(4) Ulixis ventrisque farti comparationem (v 25-28) vidimus; Quintus autem Smyrnaeus, qui omnibus Homeri vestigiis institit, insignem locum

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 5

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libidine allectum, sed quod incaute putaret asinum statim post verba ϑηρὶ ἐοικώς (546) haud sine offensione accipi posse (1). At vero eum, tali in salebra haerentem, nescio quo pacto praeteriit haec verba non proleptica quadam vi aucta fuisse (2), sed, ut alibi, pro formula tantum comparandi, primigeniae simplicitatis memore satisque ad concludendum hexametrum accommodata (3), habenda esse, neque artius cum insequentibus devincienda quam M 40 ἴσος ἀέλλῃ cum M 41 etqs. ὡς δ᾽ ὅτ᾽ ἂν ἔν te κύνεσσι καὶ ἀνδράσι. ϑηρευ- τῇσι κάπριος ἠὲ λέων στρέφεται κτλ. vel O 586 ϑηρὶ ἐοικώς cum 579 κύων ὥς κτλ. (cfr. Ν 470 τηλύγετον ὥς cum 471 etgs. ὡς ὅτε τις σῦς xtÀ.; D 18 δαίμονι ἴσος cum 22 etqs. ὡς - δ᾽ ὑπὸ δελφῖνος μεγακήτεος ἰχϑύες ἄλλοι κτλ.; X 22 ὥς 9 ἵππος ἀεϑλοφόρος cum 26 οἴα5. ὥς τ᾽ ἀστέρα κτλ.; E 560 ἐλάτῃσιν ἐοικότες cum 554 etqs. οἵω τώ γε λέοντε δύο κτλ. : Ζ 513 ὥς τ᾽ ἠλέκτωρ cum 506 etqs. ὡς δ᾽ ὅτε τις στατὸς ἵππος κτλ. A 295 ἶσος “Agni, 297 ἴσος ἀέλλῃ cum 292 etqs. ὡς δ᾽ ὅτε πού τις ϑηρητήρ κτλ.; Y 493 δαίμονι ἴσος cum 490 etqs. ὡς ϑεσπιδαὲς πῦρ) (4).

Huiuscemodi potissimum argumenta putido istius hominis studio obversata esse videntur.

Iamque satis. Certamen leonis et asini (ut aliquid de gra- vitate dimittam) posuimus, ingens fuit palmae contentio : superior tandem ὄνος νωϑής discedit.

Ser. Berolini, m. [ἃ]. a. MCMXIV. Hum. Mancuso.

in libro primo imitatus, ipse tamen sibi necesse arbitratus est hone- stiorem venatoris imaginem ‘adicere: v. Niemeyer Veber die Gleichn. bet Q.S. (progr., Zwickau 1884) II, p. 4-5.

(1) Schellert De Apoll. RA. comparat. (diss., Halis Sax. 1885), p. 18, cum illo facit.

(2) Sicut ὄρνιϑες ὥς in I 2, νέφος πεζῶν in A 274, Aéovd” ὥς in M 293 (cf. 299 etqs.), ἀτάλαντος "Agni in N 295; v. praeterea I 752-4 et 756-61. Vox 340, saepius quam apud Hom., apud Apollonium ibique satis aperta ‘leonis’ significatione usurpatur.

(3) Cfr. 1 449.

(4) Cfr. insuper B 468 cum 469 etqs., ξ 231 (= % 158) cum 232 etgs. (= % 159 etqs.), v 86-7 cum 81 etqs.

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SULLE STRAGI DI COSTANTINOPOLI

SUCCEDUTE ALLA MORTE DI COSTANTINO IL GRANDE

Due anni prima della sua morte, cioè nel 335, Costantino il grande, sentendo venir meno la propria energia, risolse di provvedere fin da allora alla sistemazione dell'impero. E chiamò a succedergli i suoi tre figli, che egli già da tempo aveva insigniti del titolo di Cesare, e due nipoti: Delmazio e Annibaliano. È probabile che, ripartendo tra questi prin- cipi il vasto territorio dell'impero, l’imperatore intendesse di ritornare al sistema tetrarchico instaurato da Diocleziano. È vero che gli eredi da lui designati furono cinque e non quattro, ma quattro soli, e cioè i figli e il nipote Delmazio avevano il titolo di Cesare e una porzione ragguardevole di territorio. L'altro nipote, Annibaliano, non ebbe che il regno del Ponto col titolo strano e fastoso di rex regum Ponti (1).

Non occorre qui entrare nei particolari di questa divi- sione: basti avere accennato ad essa come a una delle pro- babili cause, che determinarono le stragi. Costantino aveva avuto il torto di chiamare a succedergli non solo i suoi figli,

(1) Della divisione parlano molte delle fonti di questo periodo; cfr. epît. de Caes. 41,20: Hi singuli has partes regendas habuerunt : Constan- tinus iunior cuncta trans Alpes, Constantius a freto Propontidis Asiam atque Orientem, Constans Illyricum Italiamque et Africam, Delmatius Thraciam Macedoniamque et Achaiam, Annibalianus, Delmatii Caesaris consanguineus, Armeniam nationesque circumsocias. Il titolo di Anni- baliano risulta da un passo dell’Anonimo Valesiano 6, 35.

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ma anche i nipoti: era facile prevedere che sarebbe nato un antagonismo tra gli uni e gli altri. Inoltre una tetrarchia foggiata su quella dioclezianea aveva bisogno di un capo energico e risoluto : ora nessuno dei suoi discendenti aveva l'autorità, l'accortezza, lo spirito conciliativo di Diocleziano.

Costantino morì, come è noto, il 22 maggio 337 ad Ancy-. rone presso Nicomedia. Nessuno dei figli di Costantino si trovava al suo letto di morte. Può darsi che il primo dei suoi eredi a giungere a Nicomedia sia stato Delmazio, che aveva i suoi dominii geograficamente più vicini, ma non ne abbiamo certa notizia. Sappiamo, invece, che giunse abba- stanza sollecitamente da Antiochia Costanzo (1), il quale curò che al padre fossero resi solenni onori funebri. Il corpo di Co- stantino fu con gran pompa trasportato a Costantinopoli nella Chiesa dei SS. Apostoli, che il morto imperatore aveva co- struito (2). Era la prima volta che per un imperatore romano venivano celebrati i riti funebri della religione cristiana. Trascorsero più di tre mesi prima che 1 figli di Costantino

+ ricevessero ufficialmente il titolo di Augusti. Soltanto il 9 set- tembre 337 il Senato proclamò Augusti Costantino II, Co- stanzo II e Costante (3).

Le stragi di Costantinopoli furono anteriori o posteriori a questa proclamazione ? Alcuni dati, diretti o indiretti, ci in- durrebbero a ritardare il massacro della famiglia Flavia fino al 338. Gerolamo colloca l’uccisione di Delmazio nel 338 (4). Sozomeno dice che Giuliano fu salvato dalla strage a 8 anni

(1) Eusebio Vit. Const. IV, 70, 1. Cfr. Zosimo II, 40,1; Zonara XIII, 4.

(2) Eusebio Vit. Const. IV, 69-70.

(3) Consul. Constantinop. (Mommsen M. G. H. Script. Antiquiss. vol. IX p. 235): et ipso anno [337] nuncupati sunt tres Augusti: Constantinus Constantius et Constans; V idus Septembris.

(4) Gerolamo Chronicon anno 2355: Delmatius anno imperii sui tertio interemitur. Essendo stato Delmazio eletto Cesare il 18 settembre 335 (Consul Const.) il terzo anno del suo regno sarebbe cominciato il 18 set- tembre 337. Ma se le stragi fossero state compiute poco prima della proclamazione dei figli di Costantino, il terzo anno del regno di Delmazio sarebbe stato molto prossimo a cominciare e anzi, contando gli anni da un gennaio all’altro, sarebbe cominciato nel gennaio 337.

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di età (1). Ora l’ultimo imperatore pagano, come sappiamo da molti passi che non è qui luogo di ricordare, nacque nel 331 (2); quindi anche ammettendo che quello storico ec- clesiastico voglia alludere a un anno cominciato e non a un anno finito si sarebbe portati ai primi mesi del 338. Ma un errore nella valutazione dell'età di Giuliano, in storici poste- riori di circa un secolo agli avvenimenti, non è cosa che ci possa sembrare inverosimile. E quanto a Gerolamo non sa- rebbe fuor di luogo pensare alla trasposizione della notizia da un anno all’altro (3). Ci inducono ad ammettere che le stragi, con tutta probabilità, siano avvenute poco dopo la morte di Costantino le seguenti considerazioni :

Il Senato, come abbiamo visto, nomina Augusti i soli figli di Costantino. Ora Delmazio, essendo stato dallo zio nominato Caesar, come i cugini, ed essendo stato designato come erede, doveva essere incluso nella nomina : il fatto che ne fu invece escluso fa credere che fosse già morto.

Aurelio Vittore, storico molto attendibile, dice che Costantino II morì un triennio dopo il massacro della famiglia Flavia (4). Ora è fuor di dubbio che la morte di questo prin- cipe risale al 340 : retrocedendo di tre anni siamo condotti al 337.

Quasi tutti gli storici parlano delle stragi, come suc- cedute immediatamente alla morte di Costantino (5). È vero

(1) Hist. eccles. V, 2.

(2) Basti ricordare che Ammiano XXV, 3, 23 lo fa morire a 32 anni nel 363. Cfr. Allard Julien VApostat vol. I p. 252 n.

(3) Per quanto il Chronicon di Gerolamo sia una fonte assai attendi- bile anche per la cronologia di tutto questo periodo, troviamo altri esempi di siffatte trasposizioni. La morte di Gallo, che avvenne alla fine del 354, è collocata nel 355. L'elezione di Giuliano a Cesare, che si può con assoluta certezza datare al 6 nov. 355 (Ammiano XV, 8, 17), è posta sotto l’anno 356.

(4) Aur. Vitt. 41, 22: igitur confestim Delmatius, incertum quo suasore, interficitur ; statimque triennio post minimum marimumque fatali bello Constantinus cadit.

(5) Epit. de Caes. 41, 18: quo (Constantino) mortuo, Delmatius militum vi occiditur. Eutropio X, 9, 1: Delmatius Caesar... haud multo post op- pressus est factione militari. Cfr. Zosimo II, 40, 1-2.

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che alcune di queste fonti procedono per sommi capi e che perciò non ne possiamo trarre deduzioni cronologiche sicure. Ma non possiamo trascurare le notizie di Eusebio, il quale, sia pure in forma un po’ oscura e involuta, ci attesta la pre-. cedenza delle stragi rispetto alla proclamazione ufficiale dei figli di Costantino (1). Del resto, potremo tanto meglio spie- garci il massacro, quanto più prossimo lo collochiamo alla morte di Costantino e specialmente se lo poniamo in rela- zione con i funerali dell’imperatore. Anche la circostanza che nessun storico accusa delle stragi Costantino II e Costante favorisce la nostra ipotesi, perchè ci induce a ritenere che la carneficina sia avvenuta quando Costanzo II era solo a Co- stantinopoli e padrone della situazione.

Pur riconoscendo dunque che le fonti non ci permettono di stabilire in modo inconfutabile la data di questi avveni- menti, ritengo più verosimile che si siano svolti tra il luglio e il settembre 337, d’accordo, in questo, col De Broglie (2), col Gwatkin (3), con lo Schiller (4), col Goyau (5), coll’Allard (6), e contro l'opinione contraria del Tillemont (7), del Clinton (8), e del Seeck (9). Comunque sia, furono uccisi a Costantinopoli Giulio Costanzo e Delmazio I, fratellastri di Costantino, il Cesare Delmazio II col fratello Annibaliano, re del Ponto, altri quattro nipoti di Costantino, dei quali non sappiamo i nomi (10), il patrizio Optato il quale era, secondo ogni proba-

(1) Vita Const. IV, 68, 2-3: τὰ πανταχοῦ πάντα στρατόπεδα τὸν βα- σιλέως πυϑόμενα ddvarov μιᾶς ἐκράτει γνώμης ... μηδένα γνωρίξειν ἕτερον μόνους τοὺς αὐτοῦ παῖδας Ῥωμαίων αὐτοκράτορας. Οὐκ εἰς μακρὸν δ᾽ ἠξίουν μὴ Καίσαρας ἐντεῦϑεν δ᾽ ἤδη τοὺς ἅπαντας χρηματί-" ζειν Αὐγούστους.

(2) L’Eglise et l’Empire Romain au IV" siècle p.II v.I p. 10 n. 1.

(3) Studies of Arianism p. 108 n. 4.

(4) Gesch. der rim. Kaiserzeit III p. 238.

(5) Chronol. de l’empire romain Ὁ. 431.

(6) Julien l'Apostat I p. 262 n. 1.

(7) Hist. des Empereurs IV p. 664.

(8) Fasti romani I p. 398.

(9) Gesch. des Untergangs der antiken Welt IV p. 29; Append. p. 391-92.

(10) L'elenco di queste vittime ci è dato da Giuliano Epist. ad S. P. Q. Atheniensem 270 C. È in parte confermato, come vedremo, da Atanasio Hist. Arianorum ad monachos 69 e da Zosimo II 40.

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bilità, cognato di Costantino (1). Tra le vittime dobbiamo an- noverare anche Ablavio, prefetto del pretorio, uomo assai odiato dalla parte pagana della popolazione, perchè due anni prima aveva provocato la condanna a morte del filosofo So- patro (2). A questa tragica strage della famiglia Flavia non sopravvissero che due fanciulli: Gallo di 12 anni, che era malato in modo gravissimo e sembrava destinato a viver poco, e Giuliano di 6 o 7 anni, che fu salvato in considera- zione della giovanissima età (3). Ambedue erano figli di Giulio Costanzo e avevano perduto, nell’orrenda carneficina, il padre e un fratello.

Esposto così per sommi capi l'avvenimento, dobbiamo do- mandarci: che parte ebbe Costanzo in questa strage? Fu la mente che guidò l’impeto, apparentemente disordinato e in- composto, delle soldatesche, oppure fu semplicemente l’inope- roso spettatore di quanto avveniva sotto i suoi occhi

Molte testimonianze di scrittori ci sono pervenute su questi avvenimenti, ma quasi tutte sono piuttosto oscure. Gli scrit- tori più vicini ai fatti sono Eusebio, Atanasio, Gregorio Na- zianzeno, cristiani; Giuliano, Ammiano Marcellino, Libanio, pagani. Nessuno di questi è bene notarlo subito tranne Ammiano, accenna alle stragi di Costantinopoli in opere veramente storiche; le notizie che ci dànno tali autori ap- partengono ad orazioni o a componimenti apologetici o po- lemici.

(1) Di lui parla Zosimo II 40, 2. Questo storico è l’unico a darci una specie di disposizione cronologica delle stragi. Secondo lui fu ucciso prima Giulio Costanzo, poi Delmazio, poi Optato, quindi Ablavio e infine Annibaliano.

(2) Gerolamo Chronicon a. 2355. Cfr. Eunapio fr. 7 (F. H. Gr. IV p. 14). Zosimo II 40, 3: @vyoédn τότε ᾿Αβλάβιος τῆς αὐλῆς ὕπαρχος, τῆς Δίκης ἀξίαν αὐτῷ ποινὴν ἐπιϑείσης avi” ὧν ἐπεβούλευσε ϑάνατον Σω- πάτρῳ τῷ φιλοσόφῳ φϑόνῳ τῆς Κωνσταντίνου πρὸς αὐτὸν οἰκειότητος.

(3) Giuliano epist. ad S. P. Q. Athen. 270D: ἐμὲ καὶ ἕτερον ἀδελφὸν ἐμὸν ἐθελήσας μὲν κτεῖναι, τέλος ἐπιβαλὼν φυγήν, ἀφ᾽ ἧς ἐμὲ μὲν ἀφῆκεν. Liban. orat. XVIII 10: οὗτος (Giuliano) καὶ πρεσβύτερος ἀδελφὸς ὁμοπάτριος τὸν πολὺν διαφεύγουσι φόνον, τὸν μὲν νόσου ῥυ- σαμένης, πρὸς ϑάνατον ἀποχρήσειν ἐδόκει, τὸν δὲ τῆς ἡλικίας,

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Eusebio nella Vita di Costantino IV 67, adopera su di lui una strana frase: ἐβασίλευε δὲ μετὰ ϑάνατον. Queste parole sono state interpretate nel senso che le stragi avvenute dopo la morte di Costantino fossero state ordinate da lui. Ma Eusebio stesso poco più sotto dice che furono i soldati a vo- lere che regnassero soltanto i figli di Costantino. Quindi la frase surriferita non significa altro se non questo: che Co- stantino regnò nominalmente dopo la sua morte in quanto che per tre mesi non furono nominati i nuovi Augusti. Del resto, come è noto, la Vita di Costantino di Eusebio è, più che una vera storia, una specie di panegirico esaltante le virtù di Costantino. Non si allude quindi che di sfuggita alle stragi che seguirono alla sua morte, e l’oscurità, che si nota, appare voluta.

Pure anche questo passo, come osserveremo, ha la sua im- portanza.

Atanasio nella Historia Arianorum ad Monachos, cap. 69, accusa direttamente Costanzo : Che meraviglia, se infero- cisce tanto contro i vescovi colui che contro ogni sentimento di umanità non perdonò neppure ai parenti? Uccise infatti gli zii, tolse di mezzo i cugini e anche il suocero (Giulio Costanzo) del quale già aveva sposata la figlia (1), non ebbe compassione dei parenti afflitti, ma fu sempre spergiuro verso tutti ,. Atanasio però giova ricordarlo scrisse questa Historia Arianorum in un periodo, nel quale più che mai era fatto segno a persecuzioni per parte di Costanzo : si capisce quindi come sia stato indotto a caricare le tinte serven- dosi delle apparenze, che condannavano il suo spietato av- versario.

Gregorio di Nazianzo scrive invece la sua Orazione IV ani- mato da altri sentimenti e ponendosi da un altro punto di vista. Costanzo è già morto e Giuliano cerca di restaurare dovunque il culto degli Dei pagani. Il veemente padre della Chiesa Orientale assale spietatamente Giuliano e lo rimpro-

(1)... τοὺς μὲν γὰρ ϑείους κατέσφαξε καὶ τοὺς ἀνεψιοὺς ἀνεῖλε καὶ πενϑερὸν μὲν ἔτι τὴν ϑυγατέρα γαμῶν αὐτοῦ...

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vera di essersi volto contro il grande Costanzo, che aveva salvato la vita a lui e al fratello allorchè i soldati ecci- tati dal timore di cose nuove presero le armi contro i mag- giorenti e le cose della reggia erano sistemate da nuovi pre- fetti del pretorio , (1).

Con questo passo parrebbe che si volesse far risalire la causa del conflitto a un dissenso tra i soldati e l’antico pre- fetto del pretorio Ablavio (2). In un’altra Orazione Gregorio dice che Costanzo di tre cose si pentì in punto di morte e la prima fu appunto la strage della sua famiglia (3).

Anche Giuliano ci offre nei suoi scritti una stridente con- tradizione, che però si può spiegare benissimo. Nella prima Orazione, da lui pronunziata quando fu eletto Cesare dal cu- gino, dice che questi, negli inizii del suo regno non potè im- pedire che si commettessero alcuni eccessi (4). Nella Epi- stola al Senato e al Popolo di Atene ,, scritta durante la sua campagna contro Costanzo, accusa chiaramente quest’ultimo degli eccessi compiuti (5). È naturale che nell’encomio del- l’imperatore, che lo aveva allora associato al trono, Giuliano cercasse di attenuarne la colpa, ed è pure naturale che, muo- vendo in guerra contro il cugino, dal quale si riteneva offeso, servisse di tutto ciò che poteva contribuire a deprimerne la figura morale (6).

La parte della storia di Ammiano Marcellino, nella quale narravano questi avvenimenti, è perduta: tale perdita è

(1) Orat. IV 21: ἡνέκα τὸ στρατιωτικὸν ἐξωπλίσϑη κατὰ τῶν Ev τέλει, καινοτομοῦν φόβῳ καινοτομίας. καὶ διὰ νέων προστατῶν καϑίστατο τὰ βασίλεια.

(2) Cfr. Gwatkin op. cit. p. 108 n. 4; Wietersheim Vòlkercanderung III not. 91.

(3) Or. XXI 26: τρέα γὰρ ταῦτά οἱ συνεγνωκέναι κακὰ καὶ τῆς ἑαυτοῦ βασιλείας ἀνάξια, τὸν τοῦ γένους φόνον κ. τ. Ἅ.

(4) Or. I 17A: πλὴν εἴ που βιασϑεὶς ὑπὸ τῶν καιρῶν ἄκων ἑτέρους ἐξαμαρτεῖν οὐ διεκώλυσας.

(5) 270C-D: (Costanzo) οἷα εἰργάσατο, ἕξ μὲν ἀνεψιοὺς ἐμοῦ te καὶ

᾿ ἑαυτοῦ, πατέρα δὲ ἐμὸν͵ ξαυτοῦ δὲ ϑεῖον, καὶ προσέτι κοινὸν ἕτερον τὸν πρὸς πατρὸς ϑεῖον ἀδελφόν τε ἐμὸν τὸν πρεσβύτατον ἀκρίτους κτείνας.

(6) Cfr. Allard op. cit. I p. 264.

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deplorevole, perchè quello storico esatto e coscienzioso ci avrebbe forse dati ragguagli, che invano cerchiamo in altre fonti. Nel giudizio complessivo, che di Costanzo, lo assale spietatamente (1). Libanio, il celebre retore di Antiochia, grande ammiratore di Giuliano, nel panegirico di questo im- peratore allude, in modo molto generico, alle stragi (2).

Un altro gruppo di fonti, di poco posteriore agli avveni- menti, ci fornisce brevi, ma utilissime informazioni. Aurelio Vittore, che scrive tra il 360 e il 370, ci un semplice accenno della morte di Delmazio: Delmatius, incertum quo suasore, necatur (3). Eutropio, suo contemporaneo, concorda quasi intieramente con Aurelio Vittore: Delmatius, Caesar... haud multo post oppressus est factione militari et Constantio patrueli suo sinente potius quam iubente (4). L'Epitome de Cae- saribus, compendio anonimo della fine del sec. IV, conferma la stessa circostanza (5).

Con parole poco dissimili narrano la morte di Delmazio gli storici cristiani della fine del sec. IV o del principio del V: Gerolamo (6), Paolo Orosio (7), Prospero di Aquitania (8), autori di storie generali; Socrate (9) e Sozomeno (10), autori di storie ecclesiastiche.

(1) XXI 16, 8: Caligulae et Domitiani et Commodi immanitatem facile superabat, quorum aemulatus saevitiam inter imperandi exordia cunctos sanguine et genere se contingentes turpiter interemit.

(2) Or. XVIII 10: Κωνσταντῖνος μὲν οὖν τετελευτήκει νόσῳ. τὸ ξίφος δὲ μικροῦ διὰ παντὸς ἐχώρει τοῦ γένους ὁμοίως πατέρων καὶ παΐδων.

(3) Caesares 41, 22.

(4) Breviarium X 9, 1.

(5) 41, 18: Quo (Constantino) mortuo Delmatius vi necatur.

(6) Chron. a. 2355: Delmatius Caesar, quem patruus Constantinus cone sortem regni filiis reliquerat, factione Constantii patruelis et tumultu mi- litari interemitur.

(7) VII 29, 1: Fuit inter successores Constantini et Delmatius Caesar, fratris filius, sed continuo militari factione deceptus est.

(8) Prosperi Tironis epit. Chron. ann. 2355 (Mommsen M. G. H. Ser. Antiquiss. IX p. 454): Delmatius Caesar, quem patruus Constantinus con- sortem regni filiis reliquerat, factione Constantii patruelis occiditur.

(9) III 1: οἱ στρατιῶται τὸν νέον ἀνεῖλον Δαλματίον.

(10) V2: γέγονε γὰρ αὐτῷ (= Giuliano) καὶ Τάλλῳ πατὴρ Κωνστάν-

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L'ultimo scrittore pagano, che parla di questi avvenimenti, è Zosimo, vissuto verso la fine del sec. V. La sua opera (Historia nova) è una delle fonti principali per la storia dei primi anni del regno di Costanzo, ma è spesso confusa, ine- satta, disordinata. In questo punto Zosimo afferma che Co- stanzo comandò la strage dei suoi parenti (1). Continua enu- merando, come si è detto, tutte le vittime e conclude ταῦτα μὲν οὕτω Κωνσταντίῳ διεπονήϑη.

Per finire questa rassegna di scrittori, accenneremo alla tradizione, che ha molta parvenza di essere leggendaria, rac- colta da Filostorgio, storico ariano della prima metà del V se- : colo, la cui opera ci è giunta solo in frammenti riuniti nella Biblioteca di Fozio. Egli narra che Costantino ebbe il so- spetto di essere stato avvelenato dai fratellastri e perciò co- mandò che il primo dei suoi figli che fosse giunto in Nico- media lo vendicasse per non incorrere anch’esso nello stesso pericolo. Il testamento di Costantino contenente questa dispo- sizione passò a Eusebio, vescovo di Nicomedia, il quale, na- scondendolo agli altri parenti di Costantino, lo consegnò poi a Costanzo. Questi, dunque, ordinando il massacro, avrebbe ob- bedito al paterno comando (2).

Questa leggenda fu raccolta con quella passione per lo scandalo, che è propria degli scrittori bizantini, da Giorgio Cedreno, un tardissimo compendiatore vissuto tra la fine del sec. XI e il principio del sec. XII, il quale, attingendo anche al Breviarium di Eutropio, dice che le stragi avvennero οὐ χκελευσαμένου K@mvotavtiov, ἀλλ᾽ οὐδὲ κωλύσαντος τὴν σφαγὴν (3).

Dobbiamo forse ricercare l’origine di questa tradizione, della quale non troviamo accenno in altri scrittori, in una in- terpretazione errata della frase di Eusebio già citata, oppure

τιος ὁμοπάτριος ἀδελφὸς Κωνσταντίνου τοῦ βασιλεύσαντος καὶ Δαλμα- τίου. οὗ παῖς ὁμώνυμος Καῖσαρ ἀναδειχϑεὶς ἀνηρέϑη ὑπὸ τῶν στρα- τιωτῶν μετὰ τὴν Κωνσταντίνου τελευτήν.

(1) Zosimo II 40, 1.

(2) II 16.

(3) Libr. XIII in Migne Patr. gr. CXXI p. 519.

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in voci popolari che corsero a Costantinopoli all’epoca della strage e che furono raccolte da uno scrittore per noi perduto, del quale si valse Filostorgio.

Come si vede, di queste testimonianze, alcune accusano apertamente Costanzo, altre lo scagionano, altre lo ritengono solo in parte responsabile. Dei moderni il Gibbon (1) dice che quelle crudeltà furono estorte all’inesperta giovinezza di Costanzo dalla perfidia dei ministri e dalla violenza dei sol- dati : il Wietersheim (2) ripete circa gli stessi concetti: il De Broglie (3) dice che la rivolta dei soldati fu suscitata da Costanzo per sbarazzarsi di importuni rivali: il Burckhardt (4) dice che invano alcuni cercano di assolvere Costanzo dalla responsabilità del colpo di Stato, anche se egli lo abbia più permesso che ordinato, e dichiara che l’autorità di Zosimo su questo punto è incontestabile e che la versione di questo storico è verosimile. Il Duruy (5) è feroce contro Costanzo: lo Schiller (6) ritiene che Costanzo avrebbe potuto impedire gli eccessi, ma che preferì assistere inoperoso a tutte le stragi per raccoglierne poi i frutti: il Gwatkin (7) è più mite verso Costanzo: il Ranke (8), dopo essersi domandato se in- fluirono maggiormente sulle stragi la volontà delle legioni o quella di Costanzo, conclude che vi influirono ambedue in- sieme e che il giovane imperatore non può essere chiamato del tutto innocente del fatto che il suo regno si iniziasse in mezzo al sangue dei suoi parenti. E ritiene che causa pre- cipua del malcontento dei soldati sia stata la partecipazione al governo degli altri parenti, che rappresentavano il ramo cadetto della famiglia di Costanzo Cloro. Lo Schultze (9) os-

(1) Decline and fall of the roman empire ediz. Bury II p. 222-283. (2) Gesch. der Vòlkerwanderung INI p. 254.

(3) Op. cit. II 1 p. 12.

(4) Die Zeit Constantins des Grossen p. 341.

(5) Op. cit. VIII p. 217.

(6) Op. cit. III p. 238.

(7) Op. cit. p. 108 n. 4.

(8) Weltgesch. IV p. 12.

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(9) Gesch. d. Untergangs des klass. Heidenthums I p. 68.

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serva giustamente che tanto le accuse di Atanasio quanto quelle di Zosimo devono essere accettate con un certo ri- serbo. In ogni modo, aggiunge, è indiscutibile la piena ed intiera dedizione dell’esercito alla causa di Costanzo. L’A1- lard (1), dopo qualche incertezza, finisce per schierarsi tra gli accusatori spietati di Costanzo, tenendo conto, molto più del ragionevole, dei giudizii di Ammiano e di Atanasio. Infine il Seeck (2) dice che Costanzo non aveva la pazienza per sopportare la colleganza dei cugini, il coraggio per attac- carli direttamente. Gli ufficiali capirono però i suoi desideri e si affrettarono ad esaudirli, organizzando la rivolta. Dobbiamo esaminare a parte la singolare teoria, che su questi avvenimenti espone uno studioso, che ha preceduto quasi tutti gli storici moderni ricordati fin qui: il Beugnot (3). Secondo lui alla morte di Costantino si sarebbe scatenato tutto l'odio accumulatosi nei pagani per gli atti commessi dal defunto imperatore contro l’antica religione. I figli di Costan- tino si sarebbero salvati, solo sacrificando all’ira popolare il prefetto del pretorio Ablavio. E il silenzio delle fonti andrebbe spiegato col desiderio dei Pagani di celare questi eccessi e col desiderio dei Cristiani di nascondere le cause, che a tali eccessi avevano portato. L'ipotesi è senza dubbio ingegnosa, ma lo è forse troppo. Non si comprende come mai il tumulto non si sia abbattuto in primo luogo sui legittimi discendenti di Costantino (la spiegazione del Beugnot non può appagarci), e neppure è spiegato in modo soddisfacente il silenzio com- pleto degli storici. Che scopo avrebbero avuto gli scrittori pagani posteriori di 50, di 100 anni alle stragi di Costanti- nopoli di celare questi avvenimenti ? Ed i cristiani non avreb- bero avuto interesse ad incolpare i pagani di simili eccessi? In un periodo di lotte religiose così violente, quale partito non si sarebbe potuto trarre dalla narrazione, sia pure ac-

(1) Op. cit. I p. 262-65.

(2) Op. cit. IV p. 29-30.

(3) Histoire de la destruction du Paganisme en Occident, Paris 1835. ἹΕῚ 151:

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conciata opportunamente, delle stragi dovute alle animosità dei pagani contro l’imperatore, che aveva saputo assicurare il trionfo del Cristianesimo ? Invece nulla, assolutamente nulla: nessun accenno, nessun indizio! Quindi l’ipotesi del Beugnot cade nel vuoto.

Come ho già accennato fin da principio, nello studio di questa questione dobbiamo tener conto non solo dei passi degli scrittori di per stessi, ma anche del punto di vista, dal quale gli autori si pongono nella narrazione di questi avvenimenti. Orbene, la testimonianza di Atanasio, quella di Giuliano (intendo l’accenno che troviamo nell’Epi- stola al Senato e al Popolo di Atene), quella di Zosimo ci possono ispirare fiducia, perchè le due prime sono animate da un fortissimo risentimento personale, la terza è sospetta per l'odio religioso. Un altro passo, dal quale la colpa di Costanzo risulterebbe piena ed intiera, è quello di Ammiano Marcellino. Ma anche questo storico illustre, che pure è spesso sereno e imparziale, che, per quanto pagano, non odia i cri- stiani, lascia travedere una grande avversione contro Costanzo. Non bisogna dimenticare che Ammiano fu devoto a due grandi nemici di questo imperatore : al generale Ursicino e a Giu- liano. Quindi anche le sue parole vanno accolte solo cum grano salis.

Una testimonianza, della quale dobbiamo tenere invece il più gran conto, è quella di Eutropio. Questo storico, che scrisse appena cinquanta anni dopo questi avvenimenti, che ricoprì cariche pubbliche ed ebbe quindi per questo fatto e per la sua qualità di contemporaneo il modo di essere bene informato, è sempre esatto e imparziale nella sua esposizione. Come abbiamo visto, egli dice che il massacro avvenne Con- stantio sinente potius quam iubente. Quindi egli riduce la par- tecipazione di Costanzo a quella di un complice non neces- sario. Neppure Aurelio Vittore, la cui opera, sotto molti riguardi, non è meno pregevole di quella di Eutropio, parla delle stragi come commesse per ispirazione di Costanzo. Il severo giudizio, che pronunziano alcuni dei moderni, come il De Broglie, il Burckhardt, il Duruy, l’Allard contro Costanzo, è in contrasto con i passi di questi autori sereni e im- parziali. i

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Il tratto dunque può esser partito da qualche funzionario civile e militare animato da soverchio zelo verso la discen- denza di Costantino o dalla speranza di ricompense, e le vit- time designate erano da principio forse solo Delmazio e An- nibaliano, che con i figli di Costantino avrebbero dovuto dividere il territorio dell'impero. Poi il cieco furore dei sol- dati produsse altre vittime. Costanzo, trovandosi di fronte al fatto compiuto, non seppe intervenire per frenare l’impeto delle soldatesche. E questa sua debolezza, questa sua irreso- lutezza costituiscono senza dubbio una colpa non lieve; ma non va dimenticato che egli aveva a quest'epoca poco più di 20 anni e non poteva quindi aver l’energia necessaria per fronteggiare la situazione.

In ogni modo non possiamo pronunziare a suo carico un verdetto di piena ed intiera condanna. Confermano implici- tamente questa mia ipotesi anche i passi di Girolamo, di Prospero d'Aquitania e di Paolo Orosio, che parlano della partecipazione alle stragi di una fuctio (= partito) di Costanzo, e quello di Eusebio, che accusa indirettamente delle stragi solo i soldati. Se, come sembra provato (1), l'illustre vescovo di Cesarea modificò alcuni punti della sua Vita Constantini in odio a Costantino Magno, per risentimento verso la Corte imperiale, dalla quale si era allontanato, tanto più avrebbe alluso alla colpa di Costanzo, qualora questa gli fosse risul- tata in modo certo e sicuro.

La nostra conclusione è dunque questa: che la maggior parte degli storici moderni sia andata troppo oltre nell’ac- cusare Costanzo e troppo si sia lasciata impressionare da passi tutt'altro che imparziali e fors’anche dal vecchio detto, secondo il quale è reo di un delitto colui che da questo tragga giovamento (2).

ALBERTO OLIVETTI.

(1) Cfr. Pasquali Composition der Vita Constantini in Hermes45 p.10 sgg. (2) Seneca Medea v. 500: Cui prodest scelus, is fecit.

ANCORA PARTENIO E IL MORETUM ,

Ebbi la fortuna di rinvenire nel cod. Ambros. T 21 sup. f. 33 una didascalia, immeritamente famosa, del Moretum, la quale suona: Parthenius Moretum scripsit in graeco, quem Vir- gilius imitatus est (Rivista XXXI 472). Ma non fu altrettanto fortunata la mia interpretazione, che già ha ricevuto tre at- tacchi: dal Lenchantin (Rivista XXXVIII 207), dal Pascal (Athenacum I 163) e dal Morelli (Rend. dei Lincei XXIII 88).

I miei contraddittori ritengono che non sia ancora trovata l’origine della didascalia, alla quale son disposti ad attribuire una certa importanza, dovechè io la giudicai il parto della fantasia di un umanista. E persisto nella mia opinione ; anzi devo abbassare di molto l’accortezza e la dottrina che gene- rarono quel parto.

Sanno i miei lettori che Vergilio fu, secondo una notizia di Servio, chiamato Parthenias. Vogliano ora porre attenzione a questo titolo premesso all’Eneide nel cod. Vatic. 1580 del sec. XII (membr., f. 40°): Virgilio Maronis Parthenie liber I Eneidos incipit. E vogliano inoltre prender conoscenza di un incunabulo: P. Virgiliù Maronis Opera. Mediolani. Impressum per Magistrum Philipum de Lavagnia. 1474. die 14 Iunii. Contiene le tre opere di Vergilio e il libro XIII dell’ Eneide del Vegio ; seguono i componimenti ps. vergiliani : Copa, Mo- retum, Dirae, Est et Non, Vir bonus, Ver erat, Culex, Priapea. Il nome del poeta è segnato sempre con P. Virgiliù Maronis ; fa eccezione il Moretum, che è intestato così: P. Virgilii Ma- ronis Partheniae Moretum incipit.

Come si vede, tanto l’ Eneide quanto il Moretum erano in- titolati a Virgilius Parthenias. Uno studioso, chiunque si fosse, scambiò Parthenias con Parthenias, che egli. conosceva da

cc sa 81

__—Macrobio (Sat. V 17, 18), autore allora usato più del pane RO | quotidiano; e siccome Partenio scriveva greco e Vergilio τ latino, cosî gli venne naturale di supporre che Partenio fosse

l’autore del poemetto e Vergilio l’imitatore.

Un .caso analogo 51 avverò per l’epistola ovidiana di Saffo a Faone, scoperta dagli umanisti. Essi sapevano che Saffo scriveva greco, Ovidio latino : di qui foggiarono il titolo che s'incontra spesso nei codici: Epistola di Saffo tradotta da Ovidio. E per qual via erano giunti a questo risultato? Ecco. Apriamo l’edizione milanese delle Metamorfosi d’Ovidio del 1475, curata da Bono Accorso; e al f. 5 vi leggeremo: (Ovidius) traduxit elegiam illam a Saphone graeca compo- sitam ; quod facillime persuaderi potest cum hic versus Es? in te facies sunt apti lusibus anni et in praedicta elegia (v. 21) et in libro Amorum (II 3, 13) reperiatur ,.

Bono Accorso combinò di fantasia come l’ignoto autore della didascalia del Moretum: con questa differenza, che la combinazione dell’Accorso è infinitamente superiore.

Se ne conchiude che quella didascalia è una vera scioc- chezza e io sono pentito di averla innalzata all’onore delle discussioni filologiche.

REMIGIO SABBADINI.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 6

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FATTO.

LA QUESTIONE CRONOLOGICA DI PALLADIO

E RUTILIO NAMAZIANO

La questione cronologica di Palladio era stata per qualche tempo messa in disparte, quando il Vessereau nella sua edi- zione di Rutilio Namaziano (1) la riaffrontò di bel nuovo, giungendo ad una conclusione diversa da quella, di cui la critica moderna si era ritenuta provvisoriamente soddisfatta. Invero il Teuffel-Krol] (2) (Gesch. d. ròm. Lit. II 237 410) lo pone verso la metà del s. IV, come circa finem saeculi IV l’aveva assegnato il Forcellini-De Vit (Praef. CXCVII). Lo Schanz (Gesch. d. rim. Lit. IV? 189) più genericamente e più prudentemente lo ascrive al s. IV, come pure il Thesaurus (8). Il Vessereau invece torna all'opinione degli antichi e lo tras- porta fino al s. V, identificandolo con quello nominato da Rutilio Namaziano I 205-16. Della medesima opinione siamo anche noi; senonchè crediamo che l’argomento principale su cui egli fonda la sua ipotesi non sia troppo sicuro, e che in- vece ci siano altri indizi che possano renderla almeno più probabile.

(1) ΟἹ. Rutilius Namatianus, édition critique accompagnée d'une tra- duction frangaise et d’un index et suivie d’une étude historique et lit- téraire sur l’euvre et l’auteur (Paris 1904) 215-222.

(2) Nella 5* ed. il Teuffel-Schwabe tendeva a portarla verso la fine del s. IV, ammettendo come verosimile la tesi del Gemoll, Unters. diber die Quellen d. Geoponica (Berlin 1884) 221, che avesse attinto ad Anatolio di Berito (f 364). Ma in questa nuova edizione troviamo aggiunto : Aber die Hypothese scheint falsch zu sein. Vgl. Reuther, De Catonis vestigiis apud Graecos (Lipsiae 1903) 18 ,.

(3) Index librorum scriptorum 19.

sii Pat.

Ma non sarà inopportuna una breve storia della questione che valga a mettere in luce i principali argomenti, su cui si sono basati così i sostenitori del s. IV, come quelli del se- colo seguente. Rielaborando e ritrattando la questione, ver- ranno fuori alcuni elementi che non saranno inutili alla di- mostrazione della nostra tesi, o per lo meno varranno ad infirmare le ipotesi contrarie.

L’antichità non ci ha lasciato che due scarne testimonianze sul nostro autore: l’una di Cassiodoro (1) e l’altra di Isidoro di Siviglia (orig. 17, i, 1) dove compare col nome di Emiliano, accanto a Columella e fra gli scrittori georgici latini (2). Il luogo di Cassiodoro (che è anche il primo a nominarlo) ci il termine ante quem, e cioè il 540 (data del De institutione), e come termine « quo abbiamo il 260 (morte di Gargilio Marziale da lui spesso citato) (3). Gli sforzi dei critici si sono rivolti a limitare lo spazio non breve contenuto fra queste due date, ed a tale scopo cercarono di identificare ora Pa- sifilo, il vir doctissimus a cui Palladio dedica il 1. XIV, ora l'uno o l’altro dei varii nomi che ha l’autore nostro. Il Barth (4) crede di trovarlo nel Palladio celebrato da Rutilio Namaziano, che sarebbe dunque gallo di nazione e nel 416 avrebbe studiato diritto a Roma. Il Wernsdorf PLM VI 17-19 vuole che si tratti del filosofo Pasifilo, ricordato da Ammiano Marcellino 29, 1, 36, che avrebbe salvato il proconsole Eu- tropio, accusato di complicità nella congiura contro Valente, scoperta nel 371. A lui si adatterebbero bene le parole di

(1) De institutione divinarum litterarum cap. 28 Patr. lat. Migne vol. τὸ p. 1143: Aemilianus etiam facundissimus explanator duodecim libros de hortis vel pecoribus aliisque rebus plenissima (ed. planissima) lucidatione disseruit.

(2) De auctoribus rerum rusticarum. Nec minus studium habuerunt... Cornelius Celsus, et Iulius Atticus, Aemilianus sive Columella insignis orator, qui totum corpus eius disciplinae complexus est.

(3) Per i rapporti tra i due scrittori v. Wellmann, Palladius und Gar- gilius Martialis Hermes” XLIII 1-31. Il W. è pure tra i recenti soste- nitori del s. IV.

(4) Cl. Rutiliiù Namatiani Galli Itinerariumn Caspar Barthius recensuit (Francofurti 1723) 88.

ποτα

Palladio virum doctissimum e ornatus fidei e il 1. XIV gli sa- rebbe stato dedicato dopo il 371. Ma, pure attraverso all’ap- pariscente combinazione di date, non c’è nulla che si riferisca così direttamente al nostro autore da costringerci a scegliere fra i diversi Pasifili questo piuttosto che un altro, ed inoltre, non volendo lasciare il sistema delle identificazioni, l’unico Palladio magistrato a quest'epoca è un magister officiorum del 381 che abitava a Costantinopoli. Lo Zumpt, più tardi, nella sua edizione di Rutilio Namaziano (Berlino 1840) ri- getta come avventata e senza discuterla l'ipotesi del Barth.

Pochi anni prima il Borghesi (1) aveva creduto di poter risolvere la questione in modo definitivo. Dal confronto di due, iscrizioni concluse che un Fabio Felice Pasifilo Paolino, praefectus urbi nel 355; fu quello della dedica di Palladio. Cercò allora fra i viri e2lustres del s. IV un Emiliano; ma, non avendone trovato nessuno nel s. IV, si fermò su un Taurus senatore nel 351, questore nel 354, praefectus praetorio d'Italia nel 357, console nel 361, che fu vittima delle guerre fra Giuliano e Costanzo, e dopo la morte di questo fu esi- liato a Vercelli (Amm. Marcell. 14, 11, 12. 22, 3, 4; Zo- zimo 3, 10). Durante l’esilio il Borghesi pone la sua opera georgica (2).

Ma anche qui le più o meno felici combinazioni eronolo- giche non ci devono portar fuori di strada. Pare strano da una parte che Palladio, il quale parla con tanta lode del suo Pasifilo, si contenti di chiamarlo vir doctissimus, mentre da Diocleziano in poi l'etichetta cortigiana era così ricca di ti- toli per ogni magistrato; e dall’altra nulla lascia indovinare nell’enfatica dedica palladiana l’uomo assorbito nel governo

(1) Dichiarazione d'una lapide Gruteriana, per cui si determina il tempo della prefettura urbana di Pasifilo e l'età di Palladio Rutilio Tauro. Estr. dalle Memorie dell’Acc. ἃ. Scienze di Torino’ XXXVIII (1835) 1-57. Pubblicata pure nelle Eures complètes del medesimo (Paris 1864) III 463-516.

(2) Il Bahr, Gesch. d. ròm. Lit. II $ 559, Anmerk 3, accetta la prima e non la seconda delle due ipotesi.

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della pubblica cosa (1). Ed inoltre, poicbè ci dobbiamo con-

tentare di indizi, non è anche troppo poco identificare Pal- ladio con un Tauro, mentre le due sole testimonianze antiche ce lo hanno tramandato col nome di Emiliano? Perciò il Meyer (2), respingendo la combinazione Borghesiana, erede, e non a torto, di rinunciare senz'altro all’identificazione di Pa- sifilo, che potrebbe essere uno dei tanti dotti von denen die Geschichte schweigt ,; ed allora, liberatosi dai limiti del s. IV, trova che nel 406 ci sarebbe un Aemilianus, prefetto di Costantinopoli (per lui il fatto che Palladio avesse posse- dimenti in Italia non esclude che potesse essere rivestito di un'alta carica nell'impero d'Oriente, allora da poco tempo diviso da quello d'Occidente). Ma più di tutto è istrut- tiva per il Meyer la distribuzione dell’opera per titulî, an- zichè per capitoli; e, siccome la divisione sarebbe stata imi- tata dal codice Teodosiano, l’opera palladiana verrebbe ad essere posteriore al codice stesso, cioè al 438.

Senza discutere per il momento l’argomentazione del Meyer, è opportuno ancora ricordare che il Teuffel, fondandosi su alcune espressioni indicanti un nebuloso e mal definito mo- noteismo alternantisi con reminiscenze dell'Olimpo pagano, vorrebbe fare Palladio contemporaneo o poco posteriore al- l’astrologo Firmico Materno, ed accettare così il Pasifilo del Borghesi (3). Ma su queste frasi sarà bene indugiarci un mo- mento, anche perchè servono a definire un pochino la figura purtroppo evanescente del nostro autore. Anzitutto non s'ha da pensare ad alcuna contraddizione fra le espressioni che avvicinano al monoteismo cristiano e gli accenni agli dei

(1) Le parole della dedica: Verum nescio si tuum ad has modo mi- nutias inclinetur ingenium. Grande erit et par desiderio suo, quod studii tui quaeret adfectio e l’intonazione generale lasciano intendere solo che Palladio si rivolge ad un uomo colto, nient'altro.

(2) Meyer, Geschichte der Botanik (K6nigsberg 1885) II 331.

(3) Così il Teuffel nella 5* ediz. Nella 65 testè citata non si parla più di Firmico Materno e del Pasifilo Borghesiano; ma è mantenuto il con- cetto fondamentale dell’appartenenza al 5. IV in grazia del verschwom- menen Monotheismus , unito alle reminiscenze pagane.

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dell’antico politeismo. Questi accenni compaiono unicamente nel 1. XIV e non sono che le solite reminiscenze poetiche non scomparse del tutto nemmeno oggi: Nec Apollinis amne fluentes 14, 5; et nostrae studium non condemnabile Musae 14, 11; non segne officium nostrae reor esse camenae 14, 27; primus echionii palmes se iungere Bacchi 14,45; robora Pal- ladii decorant silvestria rami 14, 51; et gratum Nymphis spar- gere flore nemus 14, 86; robora thyrsigero platani concordia Baccho 14, 87. E, quanto alle espressioni monoteistiche, si tratta veramente del Dio unico nel senso cristiano? Si con- frontino i due luoghi palladiani: Dicendum autem nobis est, si divina faverint, de omni agricultura 1, 1, 2 e

ipse poli rector, quo lucida sidera currunt, quo fica est tellus, quo fluit unda marts, cum posset mixtos ramis inducere flores et varia gravidum pingere fronde nemus, dignatus nostros hoc insignire labores, naturam fieri sanxit ab arte novam 14, 21-26

con questi altri di Rutilio Namaziano, che Palladio sembra quasi aver avuto dinanzi :

Si factum certa mundum ratione fatemur, consiliumque dei machina tanta fuit,

excubiis Lattis praetexuit Apenninum, claustraque montanis vix adeunda vis II 31-34;

e Invidiam timuit natura parumque putavit Aretois Alpes opposuisse minis, sicut vallavit multis vitalia membris nec semel inclusit quae pretiosa tulit II 35-38.

In entrambi i poeti il concetto di natura è raccostato a quello di Deus, e, come non a torto il Vessereau vede in Rutilio le tracce d’uno stoicismo sia pur vago, sia pure ri- dotto a conservare solo i caratteri essenziali delle teorie di

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Zenone e di Seneca (1), così in Palladio non c’è ragione di vedere le idee dell’astrologo recente Firmico Materno, piut- tosto che un’eco dell’antica Stoa. Troppo debole e facilmente controvertibile l'argomento, col quale il Teuffel-Kroll vorrebbe mantenere Palladio al s. IV, e non portarlo fino al V.

Ed eccoci al Vessereau. Egli identificò l’autore dell'Opus agriculturae col Palladio nominato da Rutilio Namaziano I 205-16. Nel 416 studiava diritto a Roma e doveva avere da venti a venticinque anni (Cod. Just. X 49, 1); e (non essen- doci altro Palladio nel s. V) nel 458 sarebbe stato praefectus praetorio di Maioriano (Novell. Maior. IV 4) (2), carica che comporterebbe appunto il titolo di vir inlustris. L'Opus agri- culturae può appartenere alla vecchiaia del suo autore, quando questi si era ritirato in Italia, ed il libro sarebbe stato de- dicato a qualche amico sconosciuto; per cui sarebbe inutile ricercare Pasifilo nella storia. Fin qui il Vessereau. Ma l’unico sostegno che alla sua tesi è ancor sempre l’argo- mento capitale del Meyer. Pur negando che la divisione in tituli compaia veramente per la prima volta nel codice Teo- dosiano, il V. ammette tuttavia l'influenza di questo codice nella distribuzione della materia dell'Opus agriculturae, cui bene si adattava il metodo delle divisioni e suddivisioni. Troppo poco in verità. I titoli compaiono non solo nelle opere analoghe anteriori al codice e dal V. citate, come le Re- ceptae sententiae di Giulio Paolo, le Institutiones di Gaio, la Lex Dei; ma anche in altre opere molto prima di Palladio. Per citarne una sola, in Columella abbiamo dopo il ]. XI una specie di sommario coi titoli dei singoli capitoli, che sono sicuramente autentici (3). Palladio adunque, se voleva ordi-

(1) Per le prove dello stoicismo di Rutilio v. Vessereau, op. cit. 186 sgg. (2) Così dice il Vessereau, ma nel luogo citato il nostro appare sotto il nome di Aemilianus, il che rende ancor più probabile l’identificazione. Cfr. Pauly-Wissowa, Real-Encyklopidie 1 542. (3) L.J. M. Columellae Rei Rusticae liber undecimus recensuit V. Lund- N stròm (Upsaliae 1906) 62-70. Dei venti mss. su cui è fondata l’edizione. dodici (compresi i due maggiori SA) recano questi titoli, sette li omet- tono, due però lasciando lo spazio vuoto.

MARIO

nare la sua opera per titoli, non aveva bisogno di cercarne il modello in un codice, bensì (ed è più naturale) l’avrebbe trovato in un’opera agraria, anzi in quell’opera che è stata la sua fonte principale (1).

Ma i titoli sono veramente di Palladio? Crediamo di avere forti ragioni per dubitarne. Sebbene un buon numero di codici (non tutti però) (2) rechi questi titoli, ci sembra grave il fatto che in essi il lessico si presenti essenzialmente diverso da quello dell’opera in generale. In molti casi i vocaboli del titolo (tecnici per lo più, e questa è circostanza -pur note- vole) non ricompaiono nel capitolo stesso. Eccone alcuni esempi: camerae canniciae 1, 13; tectorium 1,15; maltha fri- gidaria 1, 17; olei factorium 1, 20; sterculinum 1, 33 (so- stituito subito all’inizio del capitolo con stercorum congestio) ; oleum myrtinum 2, 17 (nel capitolo dice myrtae oleum); ro- satum 6, 13; oleum liliacium 6, 14; oleum roseum 6, 15; ro- domeli 6, 16; oleum chamaemelinum 7, 10; oenanthes 7, 11; alfita 7, 12; hydromelli 8, 7; acetum scilleticum 8, 8; omfa- comelli 9, 13; diamorum 10, 16; panctio 11, 3; oenomelli 11, 17; cydonite 11, 20. Non è chi non veda come si trovino fra questi titoli vocaboli di formazione erudita che contraddicono all’indole generale del lessico palladiano (3). Se dunque Pal- ladio può avere attinta la distribuzione per titoli da una delle fonti che gli stavano dinanzi, ci sembra cadere l’argo- mento principale del Vessereau. Peggio poi se i titoli, anzichè autentici, fossero un’aggiunta successiva.

(1) Che Columella sia la fonte principale di Palladio sostiene anche il Sirch, Die Quellen des Palladius in seinem Werke iiber die Landwirtschaft (Freising 1904). La pensa diversamente il Wellmann, art. cit. 2, il quale afferma che la parte maggiore dell’opera palladiana deriva da Gargilio Marziale; cosicchè Columella non è che una fonte indiretta del nostro. E dell'opinione del W. sono ancora lo Stadler Pauly-Wissowa” VII 762 e lo Schmalz, Sprachliche Bemerkungen zu des Palladius opus agricul- turae,' Glotta” VI 172.

(2) Vedi l'apparato critico dell’edizione Teubneriana dello Schmitt (Lipsiae 1898). È

(3) Cfr. la mia Normazione delle parole in Palladio in questa Rivista” XLI 266 e 423.

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Eppure la tesi del Vessereau ci pare sostanzialmente buona e crediamo che si possa sostenere, ma con altro metodo; 0s- servando cioè se nel passo di Rutilio non c’è nulla che non possa convenire al nostro autore, e più di tutto se dall’opera stessa di Palladio può scaturire qualche nuovo elemento fa- vorevole alla nostra tesi (1). Il fatto che egli studiava diritto e dava di tali speranze da meritare l’elogio del suo pa- rente che lo chiama generis spemque decusque mei ha mostrato chiaramente il Vessereau non impedire punto l’identificazione con lo scrittore georgico. E soggiungiamo di passaggio che i versi (209 sg.)

Facundus iuvenis Gallorum nuper ab arvis missus Romani discere iura fori,

e quindi l’accenno agli arva Gallorum possono già lasciar pensare ad ampi possedimenti paterni, ed a vita in campagna, anche della famiglia, cosa non rara a quei tempi, come ve- dremo. Alcuno, ad es. lo Schanz (Gesch. d. ròm. Lit. IV? 191), ha voluto trovare una difficoltà nell’aggettivo facundus, osser- vando che nell'opera sua non c’è nulla che possa giustificarlo. Ma è lecito opporre che Rutilio, specialmente parlando del giovane nel momento che studiava diritto, dopo gli studi retorici fatti in Gallia, poteva aver trovato in lui buone attitudini all’eloquenza, le quali non hanno che vedere con lo stile dello scrittore in generale e con gl’intendimenti spe- ciali dell’opera georgica, ai quali lo stile stesso è subordi- nato. E d'altra parte non sarà forse casuale la coincidenza col passo già riferito di Cassiodoro, dov’egli è detto facun- dissimus explanator. Senza dire che la semplicità e la ma- grezza della sua forma è la conseguenza di un proposito deliberato, non dell’impossibilità a far meglio (2). Nel 1. XIV,

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(1) Palladià veramente R e Palladiam Veditio princeps del Pio (Bo- logna 1520); ma ormai tutte le edizioni hanno concordemente Palladium. (2) Analogamente ragiona in un recente opuscolo lo Schonack, Die Rezeptsammlung des Scribonius Largus (Iena 1912) 83 e 37. Troppo spesso si dimentica che si tratta di scrittori specialisti, i quali, più che d'altro, 51 sono preoccupati di esporre la loro scienza con chiarezza e precisione.

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dove lo scrittore si rivolge non più ai contadini, ma al doctis- simus Pasifilo, lo stile s' innalza e la versificazione è accurata; sicchè il libro rivela, se non un poeta, certo un uomo di non ispregevole cultura (lo nota il Teuffel stesso, loc. cit.). Chi ben consideri il cap. 1 del 1. I (che serve da prefazione) deve riconoscere l’insistenza dell'autore nel mettere in vista sin da principio quello ch’egli vuole sia il carattere dell’opera sua (1). E questa rozzezza si compiace di rimettere in evi- denza al 1. XIV 5-12, dove contrappone i libri di prosa pura tantum rusticitate rudes e i vilia dieta al libro poetico

nostrae studium non condemnabile Musae.

Non crediamo dunque che il facundus iuvenis Rutiliano si possa senz'altro negare al nostro scrittore, che altro vi sia nel passo del poeta che a lui non s’addica. Ma dall'esame diligente dell’opus agriculturae ci pare che debba uscire qualche cosa di più. Perchè il nostro Palladio e quello di Rutilio fossero una medesima cosa, lo scrittore georgico do- vrebb’essere di origine gallica. E questo ci sembra di poter sostenere, non senza gualche fondamento. Il primo passo che si oppone comunemente alla nostra tesi è quello dove parla di possedimenti in Sardegna e nel Napoletano: Quod ego in Sardinia territorio Neapolitano in fundis meis conperi 4, 10, 16 (cfr. pure: pinus misi in siccitate non durans: cui contra ce- lerem putredinem conperi in Sardinia... 12, 15, 3); ma a questo ne contrapporremo un altro, dove con ogni probabilità si allude a possedimenti suoi in regioni settentrionali: Nunc citri tuleam loco inriquo, frigidis regionibus plantasse me me- mini 8, 3, 2. E in più d’un luogo accenna alle regioni fredde,

(1) Vale la pena di riferire il passo: Neque enim formator agricolae debet artibus et eloquentia rhetores aemulari, quod a plerisque factum est: qui dum diserte loquuntur rusticis, adsecuti sunt, ut eorum doctrina nec a disertissimis possit intelligi. Sed nos recidamus praefationis moram, ne; quos reprehendimus, imitemur. Ma, appena detto questo, esce in una frase che per lo meno non armonizza col contesto, e non corrisponde alla semplicità promessa: Dicendum ... nobis est, si divina faverint, de omni agricultura et pascuis ... i

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e mostra la preoccupazione di chi in esse è vissuto, ad es. : Nunc circa extremum mensem pavimenta in solariis fiunt ; quae în frigidis regionibus et, ubi pruinae sunt, glacie suspenduntur enmpencunti0 11 Le ΟΡ 9: 9: 99612) 77 Anche nel luogo già citato 4, 10, 16 la parentesi quibus solum et caelum tepidum est non sembra indicare le diverse condizioni di clima, in cui è nato e cresciuto l’autore ?

Questi passi ho addotto solo per dimostrare come i posse- dimenti in Sardegna e nell'Italia meridionale non importino necessariamente che fosse la patria e nemmeno la dimora abituale dell'autore ; perchè lo stesso ragionamento varrebbe per le regioni settentrionali.

Ma noi abbiamo non un luogo solo che ci lascia l’impres- sione che Palladio non sia italiano (1): Zanuario mense locis temperatis oblaqueandae sunt vites, quod Itali excodicare appel- lant 2, 1,1; Novellam vitem Columella dicit a primo anno ad unam materiam esse formandam nec recidendam totam, sicut Italiae consuetudo est 3, 15, 1; mihi usu conpertum est în Italia circa Urbem mense februario ... plantas cydoneorum radicatas în pastinato solo tenuisse 3, 25, 20; ego mense februario ultimo vel martio in Italia plantas grandes ficorum per pastinatum solum disposui 4,10, 24; mense aprili vel maio locis calidis, in Italia vero utroque exeunte vel iunio persicus inoculari potest 12, 7, 7. Non credo che possa sfuggire a nessuno il modo di citare un vocabolo italico come straniero, e di riferirsi a consuetudini d’Italia o a notizie avute in Italia, come se non fosse questa la patria sua.

Palladio non è dunque un /talus, Palladio dev'essere un provincialis. Non una volta sola parla dell'agricoltura in pro- vincia e di usanze agricole provinciali. Nel 1. IIT (quello dove tratta più ampiamente della viticoltura), dopo avere discorso dei metodi più comuni di tener la vite (2), dedica un capi-

(1) Il senso che diamo a tale parola sarà chiaro da quel che segue.

(2) 3,9 De ponendis vineis pastino vel scrobibus aut sulcis et omni, quae illuc pertinet, disciplina. 3,10 De arbustivis wvitibus et plantis arborum vitiferarum.

Le αὰν

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tolo alle vigne provinciali (1): ed ancora, dopo la trattazione della potatura in generale (2), parla in un capitolo speciale, il 14°, de provincialibus vineis putandis ed anzitutto delle wvites quas provinciali more velut urbusculas stare diri. Ed al provin-

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cialis mos (3) viene subito contrapposto nel capitolo seguente l’Italiae consuetudo (4). Sempre a proposito della vite sono nominate le provincie a 1, 6,9: Nigras vites omnino repudies nisi in provinciis et eius generis, quo acinaticium fieri con- suevit (5) e 3, 9, 9: vinea ponenda est regionibus frigidis ... pinquibus campis et umidis provinciis. Ma nel secondo passo comincia a sorgere il dubbio se provincia non valga semplice- mente “regione ,, come pure non è certo 1] significato di 1,7,3, dove parla di provinciae frigidae e provinciae calidae (6). In- vece equivale sicuramente a “regione , in 1, 16: Vitandum est ... villas infimis vallibus mergere...: quod magis metuemus, st provincia quam colimus, de morbis aestate suspecta est.

(1) 3, 11 De vineis provincialibus. Vineae in provinciis multis generibus fiunt. Sed optimum genus est, ubi vitis velut arbuscula stat brevi crure fundata ...

(2) 3, 12 De putandis vineis communibus altis vel humilibus. 3, 13 De putatione arbusti.

(3) Un antico volgarizzamento di Palladio (Volgarizzamento del trattato d'agricoltura di R. T. E. Palladio citato dagli Accademici della Crusca. Testo di lingua la prima volta pubbl. dall'abate P. Zanotti [Verona 1810)) interpreta provincialis provenzale , e provincia Provenza ,, oltrechè in questo luogo, anche a 3, 11, dove la traduzione di in provinciis “in Provenza, è un errore evidente. Certo sarebbe non inutile alla nostra tesi il sostenere questa interpretazione; ma non crediamo ci siano ele- menti sufficienti per poterlo fare. Cfr. la mia comunicazione Provincia - provincialis Boll. fil. cl” XXI 16-18.

(4) 3, 15, 1: Novellam vitem Columella dicit a primo anno ad unam ma- teriam esse formandam nec recidendam totam, sicut Italiae consuetudo est, anno secundo expleto.

(5) La lezione non è sicura: omettono l’et i due codici SE, nel qual caso provincia potrebbe anche avere il senso generico di “regione ,. Senza l’et però il quo si spiega assai male, perciò l’ediz. Aldina (1514) corregge in quibus.

(6) Positio ipsius agri, qui eligendus est, ea sit. In frigidis provincias orienti aut meridiano lateri ager esse debet obpositus... ln calidis vero provinciis pars potius septemtrionis optanda est.

__ rittura l’origine gallica dell'autore. A 7, 2, 2-4 si parla di una

specie di mietitrice a due ruote, che usava in una parte della Gallia. Ora, ch’io sappia, nessun altro ci ha parlato ampia- mente di questo primo saggio di meccanica agraria; solo un breve cenno ne abbiamo in Plinio (1). Palladio invece s'in- dugia in una minutissima descrizione (2) e ci dice com’essa è fatta, come si usa, come funziona ed anche quali ne sono i vantaggi (3). E dopo questo perchè si dovrebbe dare torto senz'altro, come i più hanno fatto, al Harris (4), il quale so- stiene che Palladio sia vissuto in Gallia, in base alla lun- ghezza delle ombre del suo orologio solare, che indicherebbe una latitudine di 45° poco meno? (5).

Così stando le cose, l’autore dell'Opus agriculturae sarebbe per noi il facundus iuvenis, che nel 416 studiava diritto a Roma; e non c'è difficoltà ad ammettere che sia anche il praefectus praetorio di Maioriano. si deve credere che la pratica agronomica che il nostro autore dimostra fosse in con- traddizione con l’alta carica che occupava. L’accentramento sempre crescente della potenza nelle mani dell’imperatore

(1) N. H., XVIII, 296: Galliarum latifundis valli pruegrandes, dentibus în margine insertis, duabus rotis per segetem inpelluntur, iumento in con- trarium iuncto ; ita dereptae in vallum cadunt spicae.

(2) Qualche moderno scienziato (ad es. il Martiny) ha messo in dubbio l'autenticità della descrizione palladiana, ed ha cercato di dimostrare che essa si presenta “comme un simple jouet d’enfant d’un voyageur fantaisiste et blagueur désirant provoquer l’étonnement par ses récits frisant le miracle ,. Mio fratello Giovanni, non meno amante di cose elassiche che versato nelle scienze agrarie, mi ha comunicato a tal pro- posito due numeri di un periodico tecnico ‘La terre Vaudoise’ V 47 e VI 2, ai quali rimando per la questione.

(3) Più d'una volta, ad es. 3, 17, 7. 4, 8, 2. 11, 8,3, nomina una Gallica terebra e a 1,13, 1, parlando di camerae canniciae, raccomanda l’uso di asseres ligni Gallici. Appena occorre notare come a questi ultimi indizi io annetta quella scarsa importanza ch’essi meritano.

(4) Rendell Harris, On the Locality to which tlie treatise of Palladius de agricultura must be assigned ‘American journal of phil.’ ΠῚ 411-21.

(5) Il Sittl, Zur Geschichte der Hauskatze ‘Arch. lat. Lex. V 138 come sicura la sua origine spagnuola.

TA: Goa

aveva avuto per necessaria conseguenza l’affievolirsi delle

speranze politiche nelle classi elevate, ed il graduale ritorno di queste alla campagna (1). Già Columella (1, 4. 1, 6) rac- comandava di portare in campagna un arredamento comodo, che vi permettesse un soggiorno continuato della famiglia del padrone. In Palladio l’esistenza del praetorium (parte del- l’edificio rurale riservata all'abitazione del padrone) (2) è in-

dicata come regolare, ed anzi negli ultimi tempi dell'impero.

era generale nei signori la tendenza a portare in campagna quello che avevano di più prezioso. Non è dunque affatto strano che Palladio prima e dopo l’alta carica vivesse in cam- pagna e, da quell'uomo saggio ed oculato che si dimostra, tenesse direttamente l’amministrazione dei suoi non pochi terreni.

E nemmeno rende impossibile il collocare Palladio al s. V il lessico, che rivela una decadenza avanzata. Molti vocaboli

᾿ compaiono più frequentemente dopo di lui che non prima, ed

hanno un largo uso in scrittori del s. V, come Arnobio, Celio Aureliano, Cassio Felice, Pelagonio, Teodoro Prisciano, Mar- ziano Capella, Marcello Empirico, o addirittura del VI, come Dioscoride, Gregorio Magno e Gregorio Turnense, Plinio Va- leriano, Boezio, Cassiodoro (3). Certo avremmo un argomento d'importanza non lieve, se potessimo trovare in lui delle si- cure tracce di latino gallico. Ma è noto come la grammatica storica, pur ammettendo come incontestabile l’esistenza di differenze locali nel latino imperiale, abbia potuto tuttavia concludere ben poco in questo campo (4).

(1) Weber, Die ròmische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fiir. das Staats- und Privatrecht (Stuttgart 1891) 263.

(2) Vedi le mie due comunicazioni: Una tarda accezione del vocabolo praetorium , ‘Boll. fil. cl. XIII 255-7 e Palladiana ᾿ Boll. fil. cl.” XIV 78-81.

(3) Cfr. i miei lavori sul lessico di Palladio: La formazione delle pa- role in Palladio in questa Rivista” XLI 264-80 e 401-24; 1 vocabolario tecnico di un tardo scrittore georgico ‘Atti Accad. Scienze di Torino ' XLVIII 688-706; Appunti lessicali e semasiologici di Palladio ‘Athenaeum' II 52-69 e 450-61.

(4) Il Sittl, che fu il primo ad annunciarle nelle sue Die Zokalen Ver-

τ 115 appartiene ol: s. V. Crediamo però di aver dimostrato

“come le altre ipotesi presentino tutte qualche difficoltà, mentre contro questa non solo non ci sono gravi obiezioni da fare, «ma c'è tutto un insieme di indizi che la rende probabile. Di

| più non si può affermare allo stato presente della questione ;

ma anche questo è già qualche cosa !

Campobasso, aprile 1914.

Lorenzo DALMASSO.

schiedenheiten der lateinischen Sprache (Erlangen 1882) fu anche il primo a nezarle nel JaRresbericht iiber Vulgir- und Spiitlatein Bursians Jahresh.” LXVIII 226. Del resto il Pirson, La langue des inscriptions latines de la Gaule (Bruxelles 1901) 3824 confessa che i risultati ottenuti nella sua ri- cerca sono poco importanti quanto alle differenze locali, come già afferma il Hiibner per le iscrizioni della Spagna e il Kibler per quelle del- l’Africa. Analogamente conclude i suoi due studi recentissimi il Poukens, Syntaxe des inscriptions latines d’Afrique Musée Belge’ XVI 135-80 e 241-88. i

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LUCREZIO I 724.

Questo verso che ricorre in uno dei più bei passi del poema (ie lodi di Empedocle e della Sicilia) è disgraziatamente cor- rotto nei manoscritti. Per ricercarne l'emendamento oppor- tuno, giova riferire il testo di questo e dei versi contigui :

Hic est vasta Charybdis et hic Aetnaca minantur murmura flammarum rursum se colligere iras ; faucibus eruptos iterum vis ut 7 omniat ignis

ad caelumque ferat ffammai fulgura rursum. a

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Per omniat le antiche edizioni avevano .eroma?, con lo spo- Bo

: Si : e.

stamento μὲ ris eromat, poi il Lambino, nella 3* ed., corresse : | = ris μὲ vomat, e questa rimase la volgata (1). % La prolessi eruptos ... vomat ignis parve dura ; e il Brieger

sostituì eructans a eruptos. Ciò che però a me pare più im- portante notare è che roma? (che ripete il concetto di eruptos. con serie temporale invertita) non è nei codici, ed anzi non è neppure una correzione paleograficamente spiegabile di È omniat. Già altrove ho osservato (2) che omsIATIGNIS, con ορπὶ τε

probabilità, rappresenta una falsa trascrizione di OIATIENIS. È per la suggestione del solito compendio cia = omnia. Ciò 2a posto credo ora che Ìa correzione realmente persuasiva 51 abbia leggendo : cia ignis. Quanto al verbo si deve considerare che

nella 3* e nella 45 ha anche lui la lezione del Lambino®. (2) Vedi Classici e Neolatini,, 1907, n. 1.

(1) Solo il Munro nella 1* e 2. ediz. ritornò μὲ ris eromat, però A “a

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. Lucrezio predilige cio, cieo e i loro composti; che egli ama

le forme arcaiche e ci ha serbato in due passi (I 212; V 211) la forma cimus, di cio. Nella tradizione manoscritta, e nelle edizioni degli autori latini, molte forme di cio sono state oscurate (vedi su ciò il Thesaurus 2. 2. ad loc.) e vanno restituendosi a poco a poco nei testi. Per ciant, ciamus, ecc. vedi, oltre al Thesaurus, la Formenlehre di Neue-Wagener, vol. III, p. 287 (1); Georges, Ausfiihrliches Handwéòrterbuch, vol. I, 1913, e Lexikon der lat. Wortformen (1890). Ciat è in Accio (Poetarum rom. veterum reliquiae ed. Diehl, p. 88), n. 213, cfr. Varrone, de lingua lat., V 80 ed. Goetz-Schoell (Lipsia 1910), p. 25 (2). Con ciat îgnes cfr. Lucr. V 818 sg. nec frigora dura ciebat nec nimios aestus.

EttoRE BIGNONE.

(1) Il quale osserva “fata ciat schligt Stòben in Manil. 3, 678 vor, in den Hdschr. ist facta movent ... ,. Veramente in qualche ms. v'è movens (cfr. l’ed. del Breiter, 1907). Per cîat, in Accio, vedi però più sotto.

(2) Devo ringraziare il prof. Stampini che ha voluto cortesemente con- sultare per me qualche libro che non trovai a Milano.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 7

Sh)

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1)

sd VIDAS

DE CODICE CAVENSI ‘VITAE ALEXANDRI MAGNI”

QUAESTIO ALTERA

ACCEDUNT EXCERPTA EX CODICE NEAPOLITANO

(cf. Riv. XLI 1913, 281 ss.)

Cum ‘Vitae Alexandri Magni’ sive ‘Historiae de preliis’ Leonis ar- chipresbyteri post editionem Landgraf nova editio Pfister opera (Der Alexanderroman des Archipresbyters Leo... Heidelberg 1913) vulgata sit, cod. Cavensem rursum evolvere magni duco et alia ad ea, quae iam disputavi, addere. Accedit, quod Pfister, vir clarissimus, cum per litteras, tum publice me oravit, ut id facerem. Praeterea de cod. Neapolitano pauca disseram.

Praemittenda pauca sunt. Satis constat Leonis opus servatum esse sane ad veritatem antiquissimo cod. Bambergensi E. III. 14 (= Ba). Praeterea aliae sunt recensiones, quae interpolatae habentur: 7’ = re- censionis interpolatae genus primum (Zingerle Germanist. Abhandl. IV 1885, 129-265: ex codd. G et O), 75 = recensionis interpolatae genus alterum (cod. S), 75 = recensionis interpolatae genus tertium.

Cod. Cavensis 39 (= C), saec. XIV, binis columnis scriptus, his verbis incipit f. l'a: Sapientissimi namque egiptij scientes mensuram terre. atque undas maris dominantes. et celestium ordinem cognoscentes. Idem stellarum (stellas cod.) cursum computantes. tradiderunt ea universo mundo per alti- tudinem doctrine. et per magicas virtutes. Dicunt enim de nectanebo rege eorum ut fuisset homo ingeniosus et peritus in astrologia et mathematica. et de magicis virtutibus plenus. Fol. 6" post verba statimque factus est terremotus et fulgora et tonitrua magna. et signa per totum mundum ad- duntur: Tunc siquidem dilatata est nox (mox cod.). et usque ad plurimam

| partem. diei extendi visa est. Tum etiam in Ki)talia petre de nubibus ceci-

derunt. Quae sumpta sunt ex Orosio III 7, 4: inveniuntur in J!. Fol. 6" Ὁ.

post Alerander itaque leguntur: cum esset annorum. XV. Quae ex alio loco sumpta sunt (v. ed. Pfister 56): convenit J'. Ibid. post factus est fortis (fortius cod.). audax. et sapiens adduntur: Didicerat enim pleniter liberales artes. Ab aristotele. et Calistene. Fol. 12" b leguntur: Post ali- quantos vero dies. preparato exercitu. et congregata multitudine hostium cepit pergere ad ytaliam. et veniens. Calcedoniam cepit expugnare eam. Calcedones autem super murum civitatis stantes. fortiter resistebant ei... et navigal/to pelago. ingressus est. în italiam. et cepit ire romam. Consules vero. Romanorum etqs. Fol. 14" a post et occiderunt ei aliquantos milites adduntur: ef veniens damascum. expugnavit eam. et cepit illam. Deinde subiugata sydone. castrametatus est super civitatem (civitatum cod.) tyrorum. Ht statim licteras misit ad pontificem iudeorum nomine. iaddum. invitans eum aurilium sibi mietere etqs. Fol. 15" a post memoratur adduntur: Deinde amoto exercitu pervenit ad civitatem. gazam . et capta (captam cod.) . Gaza . ad civitatem hierusolimam ascendere festinabat etqs. Fol. 21" post hec amoto erercitu venit in siciliam (pro Achaiam!) in qua subiugate sunt ei multe civitates et superiuncxit in exercitu suo decem et septem milia homines adduntur: Indeque venit in hisauriam . que et ipsa subiugata est ei. Verba ...ad locum qui dicitur lucrus . ubi et invenerunt cibaria multa . et pascua animalium . et moratus est ibi aliquantis diebus sequuntur: Deinde amoto exercitu . venit . statimque iussit afferri ligna etqs. Desunt igitur aliquot, quae in edd. Landgraf et Pfister adferuntur libro primo extremo et initio libri secundi. Fol. 38" a leguntur: Deinde scripsit epistolam olimpiadi (olimpiadis cod.) matri sue . et ari//stoteli preceptori. De prelijs et angustijs que passus est in persida . et de multis divitiis quas invenerunt ibi. Unde ille et sui (suis cod.) . omnes facti sunt divites. Iterum . rescripsit eis. ut colerent nuptias quas fecit de Rosanen etqs. In Ba Aristotelis non fit mentio. Fol. 417 post ipse caballus adduntur: E? statim ceperunt cadere multitudo ex indis. Quod cum vidisset . porus suos in bello deficere. Terga versus inijt fugam. Et indi qui remanserant ex prelio . ceperunt fugere post eum etqs. Fol. 42" a leguntur: expugnavit ipsam civitatem pori. apprehendensque eam . ingressus est in palatium (palr% cod.) eius . et invenit ibi que incredibilia humanis mentibus videbantur. Idest quadri- gente colupne auree . cum capitellis aureis . Et vinea de auro que pendebat inter ipsas columpnas que habebat folia aurea . et racemi illius erant. Alij de cristallo . Αἰ) de margaritis . et uniones. Alij de smaragdo . et lichni- tas etqs. Quae sunt in ‘epistola Alexandri ad Aristotelem’ (v. Pfister Kleine Texte zum Alexanderroman Commonitorium Palladii, Briefwechset zwischen Alexander una Dindimus, Brief Alerxanders iber die Wunder Indiens nach der Bamberger Handschrift herausgegeben. Heidelberg 1910,

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22 ss.). Fol. 41" a leguntur: Ex inde scripsit epistolam ad talis!/tridam reginam Amazonum. Etiam hoc loco C convenit cum J'. Sequuntur alia, quae in ‘eadem epistola Alexandri ad Aristotelem’ sunt. Sequitur epi- stola Alexandri ad Dindimum, regem Bragmanorum ᾿. Sequitur epistola Dindimi ad Alexandrum’. Quae in aliis codd. narrantur de Candace, de Candaule, de muliere quae genwit filium corpore a capite ad umbilicum humano belluinoque ab umbilico ad pedes, de Antipatro, de regulis ab Alexandro designatis, de Iolo, de morte Alexandri, de urbibus ab Alexandro conditis ceteraque, desiderantur. Quae veri simile est exsti- tisse in foliis cod. deperditis.

Ex iis, quae diximus, patet recensionem C ad J' referendam esse. Quod clarius fit, si consideremus omnibus fere aliis locis C cum J! con- venire: I 1 (47, 7 ed. Pfister) #ntravit solus; I 2 (47, 13) erant autem (enim C cum Ba) tune ad custodiam principes etqs.; I 2 (48, 4) custodiam quam tibi credidi vade observa bene et vigilanter (in C lacuna est: verba quam tibi credidi non leguntur); 1 3 (48, 24) et ulciscet (ulciscetur C) vos (vobis ΟἹ de inimicis vestris; I 3 (48, 27) ad pedem eiusdem statue; I 4

(49, 27) astra exploratricia; I 4 (50, 1) que sunt ad custodiam hominum

posita; 1 4 (50, 7) dicunt mihi (— mihi ΟἹ homines; I 4 (50, 7) arie- tina etc. etc. Animadvertenda autem sunt: II 18 (95, 21) aurea et ar- gentea Ba, gemmea et aurea G, gemmea et argentea S, gemmea et aurea et argentea C; INI 270, 3 (126, 1) neque viri erant inter eas G, neque erant masculi inier eas ὃ, neque masculi erant inter eas C etc.

Verum sunt loci, ut videbimus, ubi vel unus cum Ba concordat.

Cod. Neapolitanus Bibl. Nat. V. F. 27 (= N), saec. XV. Cum folia mirum in modum confuse coniuncta sint, indicare non licet. mcipit his verbis: Sapientissimi egiptiorum scientes mensuram terre atque undas maris dinu- merantes. et celestimm siderum ordinem cognoscentes. idest stellarum cursum computantes. tradiderunt eam Universo mundo per altitudinem doctrine et magicas artes. et virtutes. Dicunt enim (in cod. macula est) de nectanebo rege eorum qui fuerat homo ingeniosus et peritus in astrologia et mathema- tica et omnibus magicis virtutibus plenus. Quae autem interpolata esse in diximus, etiam in N sunt. Praeterea quaedam inveniuntur ad J* vel ad aliud quid spectantia. Velut quod de fronte eius quedam mine cornicu- lorum protuberabant. Sic Et exiens inde amoto (amoto cod.) exercitu sub- iugans illiricum . veniensque in civitatem solonam . subiugans eam exiensque inde et navigato pelago etqs. = J?. Etiam Et tollens de egypto ossa hieremie prophete ... serpentes qui dicuntur ophiomachi (= ὀφιομάχοι) et crocodilli. Quae sumpta sunt ex Ps. Epiphanio Vit. proph. (cf. ed. Pfister Finl. 16) : inveniuntur in J?. Et quae dicuntur de Hyrcanis, Albanis etc. item in JP. Deinceps scripta sunt: Deinde ciliciam et rodum crudeli furore pervadens.

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Alio loco : ...cizicum et inde bizantium. ubi nune constantinopolis est. Mentio

fit Demadis ete. etc. Exstant porro in N alia, in quibus Commonitorium Palladii ?.

Recensio C et recensio N ita consentiunt inter se, ut ex eodem exemplo profectae videantur. Quod vel levissima confirmant. Neque tamen N nullius pretii est. Nam quae desiderantur in C, in N exstant. Et loci sunt, ubi N verum praebet.

Restat ut videamus, quae in C et N maxima sint.

Pfister Finl. 18 scribit : Von solchen Anderungen Landgrafs zugunsten von J' seien noch folgende genannt, die in den Noten zur Ausgabe nicht mehr erwahnt sind :...,. Sed loci sunt, ubi C dissentit ab J!, consentit cum Ba:

II 9 (84, 23) cursu validissimo Ba C (Pfister: ili autem wvidentes magnitudinem fluvii, et cursu validissimo dubitaverunt transire= illi autem, cum viderent magnitudinem fluvii et cursus validissimus esset, dubitaverunt transire), cursum validissimum J' (Landgraf: illi autem videntes magnitu- dinem fluvii et cursum validissimum etqs.).

II 15 (92, 10) istum missum Ba C (Pfister), iste missus J! (Landgraf). Cum istum missum quem vides, ipse est Alexander cf. Firm. Mat. err. prof. 2, 5 et 18, 6 dum, quem despicis pauperem, largus et dives est. Aeth. Peregr. 57, 6 fabricam, quam vides, ecclesia est. Greg. Tur. mart. 66 lapidem, quem movere vix poterant, delatus est etc. Sunt ceteroqui exempla anti- quiora (v. Schmalz Lat. Gramm.® 336).

II 21 (99, 21) omnis iter Ba C (Pfister), omne iter J' (Landgraf).

ΠῚ 2 (104, 16) ea Ba C S (Pfister: India... ut acquiramus ea), cam J* (Landgraf). Cf. infra.

Etiam ad ea, quae scribit Pfister Einl. 18: Nur Argionfangi von Ba ist zu korrigieren: 7} Agriopagi; Ps.-Kall. ᾿Δγριοφάγοι. Also hat wohl beo Agriophagi geschrieben ,, docendum est in C N esse agriophagi.

Ad ea, quae Pfister Ein]. 19: “1 34 irent Ascalonam Ba richtig; ad Scalonam J', 15; ad Ascalonam Landgraf,, docendum est ascolonam esse et in C, ut iam demonstravimus, et in N (irent a. Ba, sudirent a. O, iret a. N).

Ad ea, quae Pfister Einl. 19: “...Straga und Stragan richtig Ba; Straga und Stragana J',, docendum est semel vocem in C esse eamque scriptam Stragan (...dicitur granicus qui persica lingua Stragan appel- latur. Ita etiam G, sed Stragana pro Stragan).

Ad ea, quae Pfister Fin]. 19: “1 42 Clitomedis richtig Ba, wenn man an KAvroundns denkt; Cletomedus 1"; comedus J°,, docendum est in N

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PEA PETTO RENE LI FRS ERRORI ARTE A PIEDE

%

102

esse clitomedus, quod magis accedit ad Ba (in C detomedus per errorem = cletomedus).

Ad ea, quae Pfister Finl.19: “144 Ostia Ba; Bihostia Ji; Byhostiam J°...,. docendum est in C N esse bdiosthia.

Ad ea, quae Pfister Finl. 19: “ebenso I 45 init. Locrus nach Ba; Lucrus Δ᾽. Λοκρούς Ps.-Kall.,, docendum est in N esse /ocrus cum Ba (lucrus C cum Ji).

Ad ea, quae Pfister Einl. 19: II 10, 2 Fictir Ba; Sphistir eine Hs. von Ji... Σπιγϑήρ Ps.-Kall. A. Darnach hat Leo ganz gewiss ein aspi- riertes p mit .vorausgehendem 8 geschrieben, also entweder Sfictir oder besser Sphictir; Sphictir ist auch fir den Archetypus von «7 zu ver- muten ,, docendum est in C esse sphictir, ut iam diximus, et in N sphitir (facile = sphi(c)tir).

Alia animadvertimus :

I 12 (53, 21) terremotus Ba C N (Pfister), ferrae motus Landgraf.

I 14 (55, 2) sol itaque Ba N (solitaque C). Ita Landgraf et Pfister.

I 18 (57, 21) arideorum Ba N. Ita Landgraf et Pfister.

I 22 (59, 17) tenere Ba C N (Pfister), timere alii codd. (Landgraf).

I 35 (64, 18) quia (eciam) Ba, qui C (Landgraf et Pfister). Etiam I 41° (70, 2) qui (7) C: quit Ba a manu posteriore scripta.

I 36 (65, 3) direxit ei C (Pfister). Landgraf direxrît. Cf. Pfister: Nach direxit in Ba Rasur (direxitque urspr.), ei dariber geschrieben ,.

I 41° (69, 17) in mantico mandasti C N (Landgraf et Pfister). Cf. Pfister: “in manti_co, mandasti (a in comand. in Rasur) Ba,.

I 46 (73, 17) fundibalariis Ba N. Ita Landgraf et Pfister.

II 5 (79, 19) on scio Ba C N (Pfister). Landgraf corrigit non nescio, eo quod sententiam aientem esse necesse sit. At sententia similiter aiens fit, si, nullo adiuneto verbo, intellegimus: non (= nonne) scio ego, quo- modo in carcere habetis Euclidi, quia dedit vobis bonum consilium 2 cf. Τὰ]. Val. II, 17 ed. Kiibler sic Euclidem praedicatum apud vos sinceritate sua- dendi carcere clausum necavistis).

II 7 (82, 19) bracrei Ba, bactrei recte N (Pfister). Landgraf Bactri.

II 9 (84, 27) per mediam mesopotamiam Ba C (Landgraf et Pfister).

II 9 (85, 23) veste Ba C. Ita Pfister: indutus veste et arma Macedo- nica. Landgraf vestem. Sed alia exempla inconcinnitatis casuum sunt v. Pfister Einl. 34).

II 11 (88, 11) civitas Ba C. Ita Pfister: civitas Mitriadis cum templo igne succendit. Landgraf civitatem. Sed de casu nominativo pro accusa- tivo cf. I 36 (65, 21) non quomodo filius Filippi, set quomodo principem latronum affigi te cruci precipio. III 2 (104, 16) ca == eam. II 24 (118, 16)

vidi et quidam recumbentes.

PORRI

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MR A TAL Ti MAr

στοῦ Persidae (ex G 8).

II 3 (104, 29) congregataque multitudine militum suorum atque ele-

fantos multos Ba (Pfister), et congregata multitudo atque elephantos multos Ὁ. Landgraf elephantis. Sed v. supra. III 17 I (108, 5) civitatem coopertam (cannis). Ita Pfister et adnotat : “cannis oder arundinibus erg. Pf nach Ps: κάλαμοι... ἀφ᾽ ὧν καὶ πόλις ἐστεγασμένη 7. Vgl. Ep. p. 25, 24: castellum... erat edificatum ex praedictis cannis, und KI. T. p. 38 ,. C castellum... eratque constructum ew predictis calamis. Sic ter calamis, alias arundinibus (palude(m) siccam plenam ex arundinibus).

III 17 VII (110, 24) et stetit in parte Ba N (Pfister). Cf. Pfister: stetit in parte Ba mit tibergeschriebenem in; stetit ex parte 4} ; statim edit partem verm. La; scedit (= scidit) in partes verm. Weyman, Hist. Jahrb. XXXI (1910) 911; μακρὰν ἀπελϑὼν καταμόνας κατήσϑιεν Ar; πόρρωϑεν καϑίσας By; und îlete vile balde mit ir dem walde Lampr ,.

Omittimus denique multa orthographica, in quibus C cum Ba con- gruit : I 12 (53, 18) Zac ora. III 18 (96, 2) abstrai. III 27%, 3 (125, 27) orrida οἷο. Sic N cum Ba: I 21 (59, 1) lisias (lysias C S) οἷο.

FRANCISCUS STABILE.

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SULL’ETÀ DELL'AUTORE DEL ‘LIBER DE VIRIS ILLUSTRIBUS URBIS ROMAE’

Il Pichlmayr, che ha curato recentemente l'edizione Teubneriana del liber de viris illustribus urbis Romae (1911), scrive Praef. IX: Quibus ex fontibus noster hauserit, non satis liquet; id dici potest nonnulla ex elogiis Ampelio Floro manasse, sed ita, ut nusquam tota enuntiata compareant ,. La bibliografia relativa alle fonti del liber de viris illu- stribus, e citata in nota, non può non essere conosciuta al Pichlmayr. Or l’affermazione del Pichlmayr desta tanto più meraviglia, in quanto che da pressochè tutti i ricercatori delle fonti si ammette esservi stata una fonte comune ad Ampelio (liber memorialis) e al liber de viris illu- stribus, e niente altro. Ma, comunque sia di ciò, su qual fondamento poggia la sentenza del Pichlmayr? Forse sul presupposto che Ampelio sia anteriore all’autore del liber de viris illustribus? Strana incoe- renza invero, ammessa dai maggiori storici della letteratura latina. E l’errore cronologico è ripetuto anche nell’Index librorum etc. del Thesaurus. Dove per Ampelio si scrive: post Traianum (aet. Hadrian. ?), e pel liber de viris illustribus: 5666. IV? ,.

Esaminiamo brevemente entrambe le questioni: quando fu scritto il liber memorialis? quando fu scritto il liber de viris illustribus

È opinione generalmente accreditata che il liber memorialis vada ri- portato al sec. II. Così lo Zink, il Wélfflin ed altri. Lo Zink però assegna come tempo di composizione l’età di Traiano. Il Wélfflin, seguito dai più, l’impero di Adriano o di Antonino Pio. Non è qui uopo riprendere in esame la questione, essendoci occupati di essa, anni or sono, in un lavoro dal titolo Sull’età di L. Ampelius (Classici e neolatini VI 1910, 2-3, 115 ss.). Nel qual lavoro da un esame accurato della lingua (13, 4 aliquantis. 32, 5 subiugavit etc. etc.) giudicammo non potersi as- solutamente attribuire il liber memorialis al sec. II. E tenendo quindi conto di altre ragioni, assegnammo come età approssimativa di compo- sizione la fine del sec. III (avanti il regno di Diocleziano) o anche il sec. III-IV.

Passiamo ora al liber de viris illustribus. Il Pichlmayr così riassume

ai

sla questione cronologica (Praef. VITI s.): Sed quis quando illum libelluam

conscripserit i. e. auctoris cuiusdam veteris opus in epitomen coegerit, nos ignorare fatendum est. Fuere, qui librum primo vel secundo saeculo p. C. adscriberent, aliis eo tempore compositus esse videtur, quo moris erat ‘res breviter exponere” i. e. quarto saeculo post Christum natum. Certum est et pro summario eum habendum esse et sermonis Latini inte- gritatem satis incorruptam in eo inveniri ,. Meglio però il Hildesheimer De libro qui inscribitur de viris illustribus urbis Romae quaestiones histo- ricae (Berolini 1880) 54 assegnava come termine post quem il sec. II (dopo l’età di Adriano) e come termine ante quem il sec. V (avanti l’autore della Origo gentis Romanae), concludendo: liber noster aut sub finem saeculi secundi aut tertio aut quarto compositus putandus est ,.

Ciò premesso, vediamo se è possibile determinare con maggior pre- cisione l’età di composizione del liber de viris illustribus. Per una tal ricerca occorre tener conto del contenuto, delle fonti, della lingua.

Pel contenuto, non andando il liber de viris illustribus oltre Augusto, non si avrebbe ragione di non poter assegnare il sec. I.

Per le fonti sarebbe lecito stabilire un termine post quem, sol quando si ammettesse come fonte del liber de viris iMustribus Floro o un con- temporaneo di Floro. Ma, escludendosi da taluni ricercatori delle fonti Floro come fonte del lider de viris illustribus, e non essendo d’altra parte dato determinare l’età della fonte comune a cui attinsero e Floro e l'autore del liber de viris iMustribus, non vogliamo trarre illazioni da argomenti discutibili.

Resta la ragione della lingua. La quale sembra escludere il sec. I. E invero da un esame sommario giudicherebbesi l’autore del liber de viris illustribus contemporaneo o di poco posteriore a Suetonio o a Floro, e non già anteriore. Ma sonvi dei fatti, vuoi lessicali vuoi di altro ge- nere, che ben ponderati ci illuminano abbastanza nella questione. Così 1, 4 pastoribus adunatis. Cf. Thesaurus s. v. aduno : * in usu esse coepit vix ante saeculum p. Chr. tertium; nam de lectione loci Terr. pudic. 5 non prorsus constat (vide infra); frequentius primus posuit Cypr.,. Nel luogo citato di Tertulliano adunare avrebbe il valore di coniungere. copulare, ita ut unum fiat corpus, cf. ἑνοῦν᾽, mentre nel caso nostro ha quello di congregare, colligere’: nella quale accezione occorrono esempi solo in iscrizioni (a. 260) e scrittori (Iustinus etc.) dal see. III in poi. Onde concludiamo che il liber de vwiris illustribus non dovette esser scritto avanti il sec. III. E verosimilmente fu scritto non dopo il sec. III, e non dopo il liber memorialis di Ampelio, in cui, o c'inganniamo, restano numerose ed indubbie tracce di più inoltrata decadenza.

Francesco STABILE.

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DE E LITTERA

IN FRONTE TEMPLI ‘DELPHICI INSCULPTA

E litteram in fronte (1) templi Delphici insculptam esse tradit Plu- tarchus in eo libello qui de £ apud Delphos inscribitur. In hoc non-

nullae atque eae inter se dissimiles interpretationes de significatione E

.itterae proditae sunt, quas hic exponere non necesse habeo.

Quod vero Plutarchus, rerum delphicarum peritissimus, haud certam opinionem sequitur ac coniecturas tantum fingere cogitur, id quidem praeclarum testimonium est, nullam usque ad eius aetatem de hac lit- tera controversa notitiam exstitisse e sacrali eruditione deducendam. Cum autem a vetustioribus scriptoribus, qui de rebus delphicis retule- runt, nihil de hac littera traditum habeamus, non inepte facere vide- bimur, si quid nos quoque coniectura assequi studuerimus, quod quidem a Roscherio (2) et Lagercrantzio (3) iam factum esse satis constat.

At vero omnes virorum doctorum nostrae aetatis, qui haec investiga-

verint, interpretationes a Roscherio prolatas ipsamque Roscheri expla- nationem reiciendas esse Lagercrantzius censet, novamque omnino in- terpretationem proponit, atque £ litteram ita explanat, quasi ἢ, id est ille dixit ,, significet. Sed in difficiles coniecturarum nodos incidere prorsus alienum puto, ob eamque rem ne Lagercrantzii quidem argumenta investiganda, immo omnes coniecturas praetermittendas novamque interpretationem pro- ponendam esse existimo.

(1) In hanc sententiam accipienda sunt verba ἐν προεδρίᾳ, de quibus infra pauca disseremus.

(2) W. H. Roscher, Die Bedeutung des E zu Delphi und die iibrige γράμματα Δελφικά (Philologus, Band 59 [1900], p. 21; Philologus, 60 [1901], p. 81).

(3) O. Lagercrantz, Das E 2u Delphi (Hermes, Band 36 [1901], p. 411).

2 ; 107

Primum igitur animadvertamus E litteram in fronte, ut videtur (1) templi, non aliis templi locis cum ceteris sententiis, quae inscriptae fuisse memorantur, insculptam esse; quod procul dubio significat eam loco eminenti, perspicuo, segregato non sine causa positam esse, ut non solum facile celeriterque perlegeretur, sed ut magni momenti haberetur.

Quid autem cum his rebus aptius congruit, quam nomen dei qui Del- phis colebatur, cui templum dicatum erat? Accepimus enim Apollinem Helium quoque appellari: hane vero appellationem vetustissimam ac primigeniam esse, alio loco a nobis demonstratum esse (2) persuasum habemus.

Itaque, si vera coniectavimus, £ littera nihil aliud est, nisi littera a qua graecum nomen Helii, id est Apollinis, initium sumit. Quod autem Κ᾽ littera, non H, tradita est, id nihil omnino coniecturae nostrae obstat, cum Lagercrantzius ipse doceat antiquissima scribendi ratione saepe E pro ἢ, vel E, collocari. Profecto maximi momenti sit in rerum Delphicarum studio atque investigatione Solis nomen in antiquissima templi inscri- ptione exstitisse, qua quidem re delphicam religionem cum orientalium religionibus, quae solares a doctis appellantur, artissime coniunctam esse comprobetur. Mihi vero dubium esse non potest, quin in semiticis, quae vocantur, religionibus nomine EL Sol significetur, quod quidem etiam Cumontius affirmat (3), loco Philonis Cosmogoniae in medium al- lato (4), in quo de EL Urani et Gaeae filio, qui Chronos quoque appel- latur, mentio iniecta est. Neque praetermittendus est locus Damascii (vita Isid., 115), a Cumontio laudatus, in quo narratur ὅτε Φοίνικες καὶ Zvoror τὸν Κρόνον "HA καὶ Βὴλ ὀνομάζουσι. In primis vero ad argu- mentationem nostram attinere mihi videntur quae sunt apud Servium (ad Aen., I, 642): omnes in illis partibus Solem colunt, qui ipsorum lingua Et dicitur ,.

Quae quidem similitudo verborum etiam si fortuita sit, ut Cumontius censet, neque ulla inter ea cognatio exstet, cum tamen in aperto sit et

(1) Plutarchi verba (De E c. I) hie proferemus, quibus, nisi fallor, perspicue demonstrantur quae de loco litterae animadvertimus:

Τοῦτο (scil. E) γὰρ εἰκὸς οὐ κατὰ τύχην οὐδ᾽ οἷον ἀπὸ κλήρου τῶν γραμμάτων μόνον év προεδρίᾳ παρὰ τῷ ϑεῷ γενέσϑαι καὶ λαβεῖν ἀνα- ϑήματος τάξιν ἱεροῦ καὶ ϑεάματος, ἀλλ᾽ δύναμιν αὐτοῦ κατιδόντας ἰδίαν καὶ περιττήν, συμβόλῳ χρωμένους πρὸς ἕτερόν τι τῶν ἀξίων σπουδῆς τοὺς ἐν ἀρχῇ περὶ τὸν ϑεὸν φιλοσοφήσαντας οὔτως προσέσϑαι.

(2) V. Principii di religione dionisiaca (Athenaeum, 1914, fasc. 1).

(3) V. Pauly-Wissowa, Realeneyclopidie, vol. V, col. 2217.

(4) F. H. G.; III, p. 567, 09. (Ἥλιος καὶ Κρόνος).

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noti Semiticoram }

(1) Animadvertendum hic est EL dei cultum vetustissimum, primige niarum stirpium Semiticarum proprium, ea aetate quae dicitur Oro in desuetudinem et oblivionem paene abiisse.

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RECENSIONI

PT

Max Pontenz. Aus Platos Werdezeit. Philologische Untersuchungen. Berlin, Weidmann, 1913, di pagg. 428.

La filosofia di Platone, com’è risaputo, non è un sistema organico che ci venga presentato come il risultato definitivo e complessivo di una indagine scientifica, ma un continuo divenire e svolgersi e correggersi e integrarsi di una speculazione che è sempre in moto e che dei risul-

tati dell’oggi fa scala alle scoperte del domani. Questa caratteristica è

costante per tutta la filosofia di Platone e per tutta la sua vita: è naturale per altro ch’essa apparisca più evidente nel primo periodo, quando il sistema stava formandosi, che non nel secondo, quando sola- mente si modificava; e perciò non si può censurare il titolo che l’autore scelse per il suo libro, le cui indagini non vanno oltre il tempo del Fedone e del Simposio. Col Fedone infatti la speculazione platonica è definitivamente costituita nei suoi tratti principali: ciò che seguirà sarà rincalzo, sarà perfezionamento, sarà modificazione, ma i capisaldi restano fermi. Si preannunzia l'Accademia.

Il libro consta di una serie di studî congiunti e fusi insieme da una direttiva comune. Si passano infatti in rassegna, analizzandone partita- mente il contenuto, in ordine cronologico a cominciare dall’Apologia, non già tutti i dialoghi, ma quelli sui quali l’autore crede di poter se- gnalare più evidenti le tracce dell’ascensione del pensiero. E la dimo- strazione è insieme acuta e di regola generale ha anche buon fondamento positivo.

È insomma un libro dove c'è da imparare; sebbene sia per me, e credo anche per altri, molto difficile sceverare sempre quali siano i nuovi contributi originali e quale sia (ed era necessario fosse il più) materia ormai pubblica. Il Pohlenz cita spesso alcuni scrittori più re- centi specie a scopo di polemica, ma non ricordo di aver trovato mai un nome che non sia tedesco: neppure il Lutoslawski è mai nominato, ancorchè l’occasione fosse frequente. Ha fatto bene? ha fatto male? Secondo la si intende; e imparino intanto i nostri maniaci della biblio-

*

grafia, che ti farebbero un processo se mostrassi di ignorare un pro- gramma o una tesi di laurea tedesca che abbia bene o male, anzi più spesso male che bene, qualche cosa che fare col tuo argomento. ogni modo, nei limiti che il Pohlenz si fissò, il criterio suo è retto e

il metodo è lodevole: farei però su qualche punto qualche riserva. Per esempio non mi pare che neanche il Pohlenz sia in via di liberarsi da quella non simpatica caratteristica della filologia tedesca, per la quale ciò che è facile e intuitivo viene di proposito reso difficile, e per en- trare in casa non si passa dalla porta, come gli altri mortali, ma da sopra il tetto. Nelle prime pagine, per esempio, constatato che Platone comincia dal narrare in persona prima, noi non ci avremmo avuto altro che vedere: tutti facciamo così quando abbiamo da riferire o cose o discorsi: il Pohlenz invece ti fa una dotta, e perciò interessante, dissertazione intorno a Jone, a Senofonte e allo stile dei libri di Memorie, interes- sante perchè ci richiama molte notizie di fatto circa l’ambiente lette- rario contemporaneo di Platone, ma pericolosa, se mai ci fosse della buona gente che credesse sul serio che senza questa roba il filosofo, forse che e forse che no, si sarebbe messo a narrare in altro modo. Il difficile poi sarebbe dire quale avrebbe potuto essere quest'altro modo. Stile dei libri di memorie in tedesco si dice in una parola sola Memoi- renstil, e fa l'impressione, vorrei dir quasi, d'una categoria nuova; ma in fondo non è che vanità. Stile, almeno in italiano, è l’abilità a rap- presentare secondo il nostro modo di sentire un dato ordine di idee, di mettere in quell’ordine la nostra anima: la materia impone le sue esigenze; la storia vuole la narrazione, la geografia la descrizione; e questo non c'è bisogno di venircelo a contare. Dico ciò non tanto per il Pohlenz, la cui osservazione qui può essere superflua, ma certo è in-

nocente, quanto per certi filologi nostrani che della dottrina germanica

imitano non già le virtù, di cui sono incapaci, ma i difetti, naturalmente esagerandoli, come sanno fare loro. :

Il Pohlenz crede che l’Apologia sia la prima opera di Platone, e perciò che nessun dialogo sia stato pubblicato prima della morte di Socrate. Cerca di sceverare nell’Apologia stessa che cosa può eftettiva- mente essere stato detto da Socrate e che cosa dev'essere stato aggiunto da Platone: e in massima convengo; forse però di veramente socratico si può trovar nell’ Apologia più che il Pohlenz non creda. Egli dice, per esempio, che la prima parte della difesa, ottima in un libro per 1 po- steri, sarebbe stata molto inopportuna in tribunale; ed è vero: ma quando si pensi che effettivamente a Socrate nulla importava di mo- rire, e che nulla realmente fece affatto per salvarsi, non ci parrà invece più tanto improbabile ch'egli dicesse effettivamente ciò che interessava per la sua difesa davanti alla posterità, ciò che era utile.dire per sal-

“Ἂν

di vare la vita della sua dottrina, anche se per salvar la vita propria non

era sempre del tutto opportuno. Del resto la conclusione del Pohlenz è ineccepibile: egli non dubita infatti, che Platone abbia tolto molto al reale discorso di Socrate, ma che la composizione appartenga a lui, Platone. Gli è che di ciò non credo che nessuna persona sensata abbia mai dubitato.

Segue l’esposizione del Lachete, che il Pohlenz crede come un com- plemento dell’Apologia per difendere Socrate come educatore; poi quella del Carmide, dove Platone tenderebbe a porre in miglior luce i proprì parenti Carmide e Critia. Anche nel Carmide il risultato è negativo, perchè Platone si limita ancora a confutare le teorie altrui e a libe- rarsi la strada dalle false dottrine. Come il Lachete trattava della for- tezza, così il Carmide della σωφροσύνη, una virtù per volta, prima di formulare il problema dell’unità della virtù. E poichè nella definizione della σωφροσύνη si accenna a divergenze in proposito fra i socratici stessi, e per questo e per la sua somiglianza col Lachete, crede il Pohlenz che neanche il Carmide possa essere stato scritto prima della morte di Socrate.

Riferire in breve sunto le argomentazioni altrui è fare al proprio autore un cattivo servizio: specialmente in soggetti trattati e ritrattati il merito non può essere tanto nella novità delle cose quanto nella luce in cui vengono poste. Voglio perciò che mi si creda sulla parola che le argomentazioni del Pohlenz e qui e per tutto il libro valgono infinitamente di più del mio magrissimo riassunto.

Anche l’Ippia minore, secondo il Pohlenz, è di Platone: la sua anti- chità si prova con un frammento di Antistene, la sua autenticità col confrento con gli altri dialoghi giovanili di Platone. Una dotta appen- dice sui Δισσοὶ λόγοι cerca di dimostrare che questa operetta non consta che di appunti presi alle lezioni di Ippia, ed è ipotesi plausibile.

Segue l'esposizione del Protagora. Ippia era un ciarlatano ed il filo- sofo ebbe di lui ragione facilmente; ora si tratta di vedere se anche Protagora ch'era un uomo serio e il fondatore della sofistica fosse in caso di mantenere meglio che Ippia ciò che prometteva (p. 81); perciò l’Ippia e il Protagora sono formalmente congiunti così strettamente l’un con l’altro quanto a mala pena altri due dialoghi di Platone , (p. 85). L'analisi del Protagora è minuta ed acuta, e piacemi riportarne questa conclusione: Senza invidia il socratico Platone riconosce che Prota- gora può passare come predecessore della dottrina socratica: è lui quello che per primo fissò come scopo della vita la cultura morale. Ma egli non poteva raggiungere questo scopo con i suoi presupposti, e perciò dovevano venire altri al posto suo. Socrate ha mostrata la via giusta ,. La tesi principale del Protagora secondo il Pohlenz sarebbe

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dimostrare l’identità fra il bene e il piacevole; mentre nel Gorgia in- vece si segnala la diversità fra i due concetti.

Col Gorgia infatti comincerebbe per Platone un periodo di crisi. Il dialogo è tetro e mostra un uomo malcontento, dice press'a poco il Pohlenz, nella quale affermazione non so se veramente molti potranno essere d'accordo. Piuttosto è notevole invece la definizione del bene, che non è più il piacevole, come s'è detto, ma l’ordine e l'armonia, concetto pitagorico. Comincia dunque Platone a dare alla filosofia ne- gativa di Socrate un contenuto positivo, a studiare e ad utilizzare anche un altro sistema: perciò mentre nel Protagora si trattava solo di far migliore l'individuo, nel Gorgia si tratta di migliorare i cittadini: la morale è considerata essenzialmente sotto l’aspetto sociale. Il quale concetto doveva più tardi svolgersi e perfezionarsi nella Repubblica. Però l’intero parallelo fra lo Stato e l’individuo e la persuasione che il bene per l’uomo è dato dalla giustizia e questa dall'ordine e dal- l'armonia nelle disposizioni dell’anima, è in genere in questo luogo del Gorgia. Ma qui la τάξις dell'anima non è ancora un concetto concreto perchè manca la distinzione tra le diverse facoltà dell'anima stessa e sopra tutto perchè manca ancora una teoria psicologica , (p. 156).

Al Gorgia segue il Menone con la sua teoria delle idee e della remi- niscenza. Eschine volle col suo dialogo Alcibiade fare un contrapposto del Gorgia, e Platone pure ritornandoci sopra nel Menone ne riprese l’idea della ϑεία μοῖρα, modificandola ad uso polemico contro di Eschine , (p. 186). (Anche il Jone che il Pohlenz ritiene autentico ha relazione con Antistene). E il Merone segna il definitivo passaggio oltre la filosofia socratica: Platone di qui innanzi procede su un terreno nuovo e suo proprio: la teoria delle idee, trovando al mondo fenome- nico e transeunte un punto d’appoggio nel mondo che sempre è, ha scoperto un oggetto della conoscenza: la conoscenza è dunque possibile e la virtù si può insegnare: la conclusione del Protagora è rovesciata.

E qui il Pohlenz fa come una sosta e comincia a considerare un altro elemento della filosofia di Platone, il pensiero sociale e politico. E innanzi tutto gli si presenta la questione della prima edizione della Repubblica. Aulo Gellio ci conserva la notizia che Senofonte si pose a scrivere la Ciropedia in opposizione alla Repubblica lectis ex 60 [se. opere] duobus fere libris qui primi in vulgus erierant ,. Ora che il primo libro stia a sè, pressochè tutti siam disposti a riconoscerlo; ma il secondo di per sarebbe monco: la notizia perciò non può essere intesa alla lettera; e fin qui siamo d’accordo. Dove non posso essere più d’accordo è sulle conclusioni che il Pohlenz vuol tirarne, e sono nientemeno che queste: che Platone scrisse prima e abbastanza presto un’altra Repubblica differente da quella che possediamo, e che poi la

rifiutò e la soppresse, ragion per cui non ce ne fu conservata alcuna

copia. E questo è un po’ grave, ma sarebbe ancora possibile. Ciò che è incomprensibile è la giunta, che cioè viceversa, quando più tardi scrisse il 7imeo, Platone sarebbe ritornato in grazia con quel suo primo lavoro e di quello e non già della Repubblica nostra avrebbe riferito il sunto in principio del suo dialogo. L’enormità di questa conclusione (e nulla toglie se non sia del tutto nuova) deve farci senz’altro persuasi che qualche anello nella catena delle dimostrazioni che precedono deve essere falso. Ma su questo argomento mi converrà tornar di proposito (e spero tra non molto) nei prolegomeni che intendo premettere ap- punto alla Repubblica, la cui traduzione ho già condotta a termine; e quello sarà il luogo più appropriato per trattar la questione esaurien- temente: per ora mi limito solo a dichiarare che non trovo nulla af- fatto da mutare di ciò che ho detto nei prolegomeni al Timeo. Solo per isfiorare l'argomento di sfuggita dirò che mi pare che il Pohlenz non tenga atfatto il debito conto dell’insegnamento e della conversa- zione orale, che Platone stesso dichiara essere per lui la cosa princi- palissima; insegnamento e conversazione che non avean bisogno della fondazione dell’Accademia per poter aver luogo, che anzi prima della fondazione dovevano avere maggior pubblicità come appunto aveva avuto l'insegnamento di Socrate. Se ne avesse tenuto conto avrebbe potuto riconoscere che, posto pure (ciò che non è ancora provato) che Aristofane quando scrisse le Donne in Parlamento non abbia attinto a una prima parziale edizione della nostra Repubblica, l'ipotesi più natu- rale è ancora quella che dello Stato platonico fosse informato verbal- mente. Il metodo socratico insegna a vagliare le opinioni nostre per tutti i vagli della dialettica, e non è da credere che il discepolo di Socrate abbia fissato in iscritto una così grande novità senza averne ragionato prima con alcuno. Questa ipotesi spiega benissimo come mai Aristofane paja parodiare la Repubblica e come viceversa paja Platone accennare a questa parodia dove nel luogo stesso prevede i χαριέντων σκώμματα.

Ad ogni modo, se la tesi generale quanto alla Repubblica è inaccet- tabile, non vuol dire che nella sua trattazione manchino osservazioni parziali degne di esser prese in considerazione, come quella che il con- cetto della tripartizione dello Stato sia in Platone anteriore a quello della tripartizione dell’anima, e la segnalazione di correzioni particolari che la Repubblica farebbe a particolari luoghi del Fedone.

Ma sono andato troppo per le lunghe e la pazienza del lettore è già agli sgoccioli. Mi limiterò pertanto a dare del resto un nudo indice. Analogo per contenuto al capitolo di cui si è toccato ne segue un altro sulla posizione di Platone di fronte alla democrazia ateniese, e si divide

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 8

MIRO

in due parti: 1) critica dell'ideale di Pericle (confronto di Platone con x

Tucidide), e 2) critica della politica esterna di Atene (autenticità e im- portanza del Menesseno).

L'ultima parte del volume è come la prima più propriamente specu- lativa, e ritornando al punto lasciato dal Menone, e alla Nuova conce- zione del mondo, esamina parecchi dialoghi per questo rispetto fonda- mentalissimi; innanzi tutti il Fedone ed il Fedro, che il Pohlenz avvicina tra loro e per contenuto e per tempo. Sarebbe stato infatti, secondo le sue conclusioni, il Fedro composto a pochissima distanza dal Fedone e prima del quinto libro della Repubblica, e costituirebbe il programma dell’Accademia. Tale sarebbe secondo il Pohlenz anche il Simposio; e Fedro, Liside e Simposio costituirebbero la serie logica e eronologica dei dialoghi erotici. L'ultimo capitolo, che porta appunto il titolo di tutto il libro, ne riassume 1 risultati.

La materia insomma era discutibile e tutto il libro è discussione: 51 può e si deve perciò in parecchi punti dissentire (non si dissente anche in parecchi punti da Platone Ὁ); ma c’è sempre molto da imparare. L’argomentazione infatti è molto più seria che non appaja da qualsiasi riepilogo, e un pregio sopra tutti bisogna in questo libro riconoscere, la consentaneità dal principio alla fine. L'evoluzione del pensiero pla- tonico vi è rappresentata ed analizzata in tutti i suoi gradi senza salti e senza interruzioni; la visione è netta; e con tutte le riserve che si devono fare, non si può insieme disconoscere che il libro del Pohlenz contiene molte verità positive e molte osservazioni suggestive.

G. FRACCAROLI.

EmiLro Boprero. Protagora. Vol. I Prolegomeni: Vita, opere, stile, dot- trina (di pagg. 232). Vol. II Testi: il Protagora , e il Teeteto , di Platone, e gli altri testi su Protagora (di pagg. 279). Bari, Soc. Tip. editrice Barese, 1914 (Sono i Voll. IV e V della Collezione Classici delle Scienze e della Filosofia).

Non si può trattare di un sofista solo, anche se questo sia il mag- giore di tutti, senza abbracciare un campo vastissimo della storia del pensiero greco; d’altra parte è facile trovare in tanta varietà e copia di rapporti la giusta misura e la ragionevole proporzione tra l’argo- mento principale e le sue illustrazioni. Queste difficoltà affrontò e su- però spesso felicemente Emilio Bodrero nella sua monografia intorno a Protagora, che non è una dotta compilazione, ma una sintesi non scarsa

sia piano e scorrevole pur senza essere So e come veramente grande anche per questo rispetto sia il progresso del nostro autore in confronto

degli scritti antecedenti su Eraclito ed Empedocle. Il Bodrero fino dai

suoi lavori primi aveva mostrato intenzioni stilistiche: a lui non piacque mai quel tirar via facilone e commerciale che si conviene più alle gaz- zette che ai libri, e si propose un paradimma assai più nobile ma in- sieme assai più arduo a raggiungersi. Non già che lo stile piano sia facile; per esso però almeno abbiamo un termine sicuro di confronto nel parlar naturale; ma lo stile riflesso è estremamente più difficile e bisogna pro- vare e riprovare prima di poter infilare la via dritta. E così toccò al Bodrero, e la via dritta non la trovò che nei Giardini d’Adone, libro veramente ottimo per ogni rispetto, e per quello dello stile, non meno

che per gli altri, utile e degno d’una fortuna molto maggiore che fino

ad ora non abbia avuto presso il pubblico nostro.

In un libro pensato e non compilato è naturale che l’elemento sog- gettivo abbia la prevalenza, e ciò è pericoloso. È pericoloso sì, ma in conclusione il vero merito d’un libro e la sua ragion d’essere non può essere che lì: se non avete da contarci niente di nuovo risparmiatevi a voi la fatica e a noi la noja. È vero, ci sono di quelli, e ce ne sono molti, cui pare un gran che il far sapere che conoscono perfettamente tutta la bibliografia di un determinato argomento, che sono padroni della questione, che apprezzano le ragioni del terzo e del quarto, del decimo e del quindicesimo, che sanno anche se occorre dar loro del- l’asino, e finiscon lì, e credono che tutto questo sia un bel titolo. Per me invece non saprei immaginare una prova meglio provata della loro inettitudine. Studiare un argomento, sviscerarlo, conoscere ciò che su questo argomento hanno pensato gli altri e non aver su di esso un pen- siero proprio; quale miglior dimostrazione di sterilità? Benedetta al confronto, sto per dire, perfino l’avventatezza.

Le affermazioni e le conclusioni del Bodrero per altro saranno qualche volta discutibili; avventate ben di rado. Naturalmente io non posso qui pigliare il toro per le corna e rifar per filo e per segno il cammino dell'autore: ciò richiederebbe un altro libro. E molte affermazioni sono troppo connesse con tutto il complesso della ricerca per non richiedere sterminata lunghezza solamente a formulare su di esse il pro ed il contro. Mi devo perciò di necessità limitare a ciò che è alla superficie. Accet- tabile, per esempio, o almeno suggestiva, è questa conclusione sulla so- fistica (I p. 59): noi possiamo riguardare il movimento sofistico anzi tutto come scettica reazione necessaria, al fervore filosofico delle prime scuole naturaliste, poi come coefficiente negativo dello spostamento

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che avviene dall’ideale estetico all’ideale etico, ed in fine come princi- pale strumento della trasformazione del problema dell'educazione in problema della cultura ,. Vogliamo dire che questa sia la definizione definitiva della sofistica? Affermeremmo una cosa assurda, perchè una definizione di ciò che è di sua natura variabile e indefinito non si dà. Il valore di una definizione, o anche d’una semplice affermazione, 51 deve cercare perciò non nelle sue eventuali deficienze ma piuttosto nelle sue positive determinazioni. Cos'è l’originalità? cos'è la novità? In generale non sono altro che il saper mettere in maggior luce piut- tosto uno che un altro elemento della questione, sempre che siano però elementi veri e non fantasticherie. E che questi che il Bodrero nota siano realtà, le pagine che precedono questa conclusione lo di- mostrano.

Naturalmente quando si tratta di opinioni nuove o di nuove spiega- zioni, bisogna fare spesso molte riserve: su certi argomenti tutto ciò che era piano e intuitivo è stato già detto centinaja di volte: il pro- babile è presso che esaurito, e non ci rimane che da pescare nel pos- sibile. Un esempio: Diogene Laerzio ci ripetutamente la strana no- tizia che la Repubblica di Platone si trovi quasi tutta nei libri ἀντι ογιῶν di Protagora, e di questa notizia fa autore una volta Aristosseno e un’altra Favorino. Ora il Bodrero (pp. 88 sgg.) ha un'ipotesi suggestiva: nella Ecclesiazuse Prassagora espone un ordinamento che per molti ri- spetti coincide con quello della Repubblica: le Ecclesiazuse sono ante- riori alla pubblicazione della Repubblica: qualcuno pertanto confuse Prassagora con Protagora e diede così origine a questa tradizione. La cosa per stessa non è affatto inverosimile: tant'è vero che io stesso ricordo d’aver letto anni sono, non so più se su di una rivista o dove che fosse, l'articolo di un idiota, il quale parlava del filosofo Prossa- gora (sic) ch'egli vendeva, se non erro, come l’inventore del comunismo. Non è dunque per inconcepibile che un confusionario simile si sia potuto dare anche nell'antichità: gli è che è difficile credere che sia Aristosseno sia Favorino, che non erano sciocchi l’uno l’altro, abbiano ‘abboccato a questa papera. Perciò io propenderei piuttosto an- cora per l'ipotesi del Gomperz che crede ci sia un guasto nel testo e che si tratti di somiglianza soltanto con l’introduzione alla Repubblica.

Così a pag. 123 e segg. parlando delle τέχναι e del περὶ πάλης che si attribuiscono a Protagora, e ricordando la distinzione retorica del di- scorso in cinque parti, il Bodrero formula l’ipotesi che la τέχνη prota- gorea si componesse di cinque parti corrispondenti alle cinque del pentatlo. La uaxgoZoyia è paragonata alla corsa, la τέχνη ἐριστική ri- sponde perfettamente alla lotta, su cui Protagora scrisse un libro ,. Soggiunge però che sarebbe assai imprudente il fare ulteriori suppo-

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sizioni per giustificare gli altri tre esercizi del pentatlo, cioè il salto, il lancio del disco e il giavellotto ,: e di questa prudenza gli va data molta lode. Veramente per chiunque abbia letto Pindaro anche il salto e il dardo potrebbero trovare molto facilmente la loro corresponsione nel discorso, e l'ipotesi potrebbe per ciò meglio rincalzare; gli è che il disco a questo si ribella, e non è immagine che al discorso possa ap- plicarsi, o farebbe un doppio col dardo.

Altre osservazioni particolari, talora acute, talora sottili, e in parte nuove, potrei segnalare, ma queste bastino per saggio, e passo a cose più importanti.

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Il Bodrero innanzi tutto è filosofo; filologo invece è solo in quanto è necessario per intendere da i libri di filosofia; ed è già molto; è molto perchè è raro. Ora non è poi meraviglia se in un campo che non è il suo egli non sa guardarsi da certi errori di metodo che in certe scuole, che ora imperversano, sono diventati il pane quotidiano. Così egli ha un lungo capitolo sullo stile di Protagora. E comincia bene: comincia infatti dal riconoscere che è difficile parlare di stile per un autore di cui si conservano pochi frammenti, che non giungono fra tutti a. cinquanta parole, ed alcuni discorsi che in uno dei suoi più bei dialoghi Platone gli fa pronunciare ,. Dopo ciò, pare a me, non c’era da dire altro se non che dai frammenti, quanto allo stile, non si può conchiudere affatto nulla, e presso che nulla anche da Platone, poichè i discorsi ch’egli riferisce nessuno crede più che siano autentici del so- fista, e la parodia, se mai c’è, non è per noi facilmente valutabile, com'è valutabile, per esempio, invece quella che è nel discorso di Aga- tone nel Simposio. Su questi discorsi invece il Bodrero insiste assai, e te li analizza minuziosamente nei loro elementi e nella loro architettura. Ebbene, perchè quegli elementi e quell’architettura devono essere proprietà di Protagora? Nel mito ,, dice, “1 periodi sono di sempli- cità primitiva..... In altri luoghi possiamo notare invece il difetto con- trario, cioè periodi, specialmente ipotetici, così lunghi e complicati di incisi e d’anacoluti, che è assai difficile) tener dietro al pensiero ed è necessario fermarsi ogni tanto, per fissare di nuovo la proposizione prin- cipale ,. E questo è vero, ma dov'è che questo differisce dal Platone più genuino? E posto che differisse, il che non è affatto, chi ci dice che Platone stesso dovesse scrivere a trent'anni con lo stesso stile che a sessanta? Son tanti anni appunto che si sta confrontando Platone con Platone e con tutto che le sue opere ci siano state conservate per in- tero, pur dopo gli studî seriissimi del Campbell, del Lutoslawski e di tanti altri, si è ancora incerti su questioni capitali e di cronologia e di au- tenticità; e voi con cinquanta parole di un autore volete tirare delle conclusioni positive e particolareggiate sul suo modo di scrivere ? Lo

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scetticismo è la naturale conseguenza di una fiducia esagerata (questo

anche il Bodrero lo ha riconosciuto), e cotesta degenerazione di ogni sano e ragionevole metodo d'indagine finirà non solo con l’ammazzare la filologia interamente, ma col profanarne anche il cadavere copren- dolo di assurdo e di ridicolo. Ma non è il caso per altro di esser col Bodrero troppo severi: egli ha fatto insomma ciò che fanno tanti altri, anche di quelli ehe van per la maggiore, e certo non l’ha però fatto peggio degli altri.

Ho detto, e non l’ho detto per fargli torto, che il Bodrero filologo non è. Nessuna meraviglia pertanto che dove anche il filologo può trovar difficoltà, per esempio in certe sfumature di significato, il Bo- drero cada in parecchie inesattezze e qualche volta in errore. Così per esempio (I p. 94-95), a proposito 461] ἐπάγγελμα di saper far più forte la causa più debole, egli traduce questo ἐπάγγελμα per professione ed è traduzione giustissima, solo 51 dimenticò di avvertire che questa pro- fessione va intesa in senso latino (Protagoras, poniamo, professus est ece.); e perciò chi legge che gli uomini si sdegnavano della professione di Pro- tagora, intende a torto che ce l'avevano con lui perchè faceva un brutto mestiere. Così a pp.199-10, mentre accetta giustamente un’ipotesi del Bernays, ha degli scrupoli per una tautologia ch’egli trova nel titolo dell’opera protagorea περὶ τῆς ἐν ἀρχῇ καταστάσεως. Se κατάστασις equi- vale προοΐμιον è superfluo, dice. aggiungere ἔν ἀρχῇ. A questo si può rispondere che κατάστασις vuol dire propriamente la costituzione o de- terminazione dell’argomento, e che solo perchè è naturale che questa avvenga sul principio del discorso, solo per ciò può corrispondere a proemio. Il titolo protagoreo perciò è pianissimo e normalissimo: in- torno alla determinazione dell’argomento da farsi in principio ,.

Di queste imprecisioni è naturale ne accadano anche nella traduzione. Il Bodrero, ho già notato, è artefice di stile riflesso: era necessario perciò che con Platone, scrittore spontaneo più che altri mai, egli si trovasse a disagio. Aveva egli dunque una difficoltà di più da superare. Ora io ho confrontato i primi dodici capitoli del Protagora e ho potuto constatare con piena sicurezza che la versione è condotta direttamente sul testo greco, anzi vorrebbe essere più materialmente fedele ad esso di ogni altra. Ed è infatti in generale materialmente assai fedele; spiri- tualmente si potrebbe invece qualche volta desiderare di meglio. Quando noi traduciamo e abbiamo il testo sotto gli occhi, nella nostra mente traduzione e testo si integrano: a quella tal parola dell'originale noi troviamo la parola nostra che effettivamente corrisponderebbe e non ci accorgiamo molte volte che quella parola nostra presa a potrebbe avere anche un significato o totalmente o parzialmente differente: e ciò che si dice delle parole si ripete anche per le frasi. Una buona

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precauzione da usare pertanto è questa: dopo tradotto e dopo aver ri- posato per qualche mese, rileggere la versione da sola e stare attenti se fila senza intoppi: se intoppo c’è, 81 potrà constatare che otto volte su dieci è per l’equivoco che ho detto. Quanto al greco in ispecie, e per Platone in summo grado, una difficoltà enorme sta nel riprodurre il significato mobile e sfuggevole ma spesse volte essenziale delle par- ticelle, come pure nel rendere le sfumature di senso che le parole acquistano in singoli costrutti. Ecco qui un esempio della prima specie : a p. 312 B del Protagora Socrate fa osservare ad Ippocrate quanto sia irriflessiva la sua decisione di affidarsi a Protagora. Che vuoi affidare l’anima tua propria, perchè ti sia coltivata, ad un uomo che è, come dici, un sofista: e mi meraviglierei se tu sapessi che razza di roba sia un sofista ,. Or quell’e unisce i due concetti a infilzatura anzichè in antitesi come sarebbe il vero senso: e pure ,, traduce invece 1] Bonghi egregiamente, cosa mai sia sofista, sarei bene stupito se tu lo sai ,. Ed ecco un esempio della specie seconda: a p. 314C δόξαν ἡμῖν ταῦτα è tradotto dal Bodrero: “su ciò essendoci fatta questa opinione ,, e materialmente non c'è che dire; ma δόξαν è un accusativo assoluto ir- rigidito in un’accezione convenzionale: non c'entra effettivamente più l'opinione (e nel contesto infatti qui stride) ma solo la deliberazione: preso questo partito , si potrebbe tradurre: con queste risoluzioni , traduce il Bonghi. Similmente a p. 317 ἢ, συνέδριον κατασκευάσωμεν è tradotto dal Bodrero prepariamo un sinedrio ,, e materialmente è pure esattissimo; ma in italiano sinedrio ha perduto del tutto l’umile signi- ficato etimologico per assumerne uno più solenne, che qui non ha che fare. Così a p. 818 D, Protagora dice che Ippocrate, se starà con lui, οὐ πείσεται ἅπερ dv ἔπαϑεν ἄλλῳ τῳ συγγενόμενος τῶν σοφιστῶν, dove il verbo πάσχω è ridotto al mero e minimo significato di essere passivo : ‘non gli toccherà (o non gli accadrà) quello che gli toccherebbe con qualunque altro sofista’. Il Bodrero invece traduce col significato mas- simo: Ippoerate adunque, venendo con me, non avrà ad essere sog- getto alle cose cui sarebbe soggetto andando con un altro dei sofisti ,. È vero; chi ha il greco sotto gli occhi qui ci può trovare la sua ragione; ma letta da sola la frase pesa sullo stomaco.

Questa, e altre molte che ometto, prese una per una sono inezie, ma di inezie appunto è fatta l’arte. Di errori veri e proprî in tutte queste pagine non ne ho trovato che uno solo: a p. 321 E, secondo la tradu- zione del Bodrero, Prometeo s’introduce nel comune alloggio nel quale Atena ed Efesto amoreggiavano ,. Ma che diavolo? Che sia un errore di stampa? Vorrei crederlo, ma la mia industria filologica non mi sa suggerire alcun emendamento. Al posto di amoreggiavano nel testo ce’ è ἐφιλοτεχνείτην, che il Bonghi traduce «morosamente vacavano alle arti.

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E francamente, se non è errore di stampa questo è grave, anche perchè inventa di pianta un mito nuovo.

I libri hanno valore non in quanto manchino i difetti, ma in quanto abbondino i pregi: libri senza difetti non se ne danno, e l'appunto che al Bodrero si può fare è solo quello di non averne evitato alcuni che avrebbe potuto evitare facilmente con un po’ più di diligenza e di me- ticolosità nella revisione (ho ragione di credere che la stampa dei due volumi abbia dovuto essere affrettata) e con un po’ meno di fede nelle meraviglie di certi metodi che con la filologia sana non hanno che fare, almeno fino a che le due radici di cui il nome di filologia si compone abbiano a serbar ombra del lor significato naturale.

G. FRACCAROLI.

Paur Maas. Die neuen Responsionsfreiheiten bei Bacchylides und Pindar. Berlin, Weidmann, 1914, di pagg. 32.

È un opuscolo breve, ma appartiene anche alla breve categoria degli opuscoli utili: è infatti una raccolta ordinata e conscienziosa di docu- menti che si illuminano reciprocamente dal confronto. Se si potrà dis- sentire in certe conclusioni particolari, i fatti restano e restano i que- siti impostati metodicamente, che è ciò che importa. È il pregio che tiene ancora vivi gli analoghi Studia Pindarica di Augusto Heimer, an- corchè dal 1885 in qua i materiali nuovi abbiano e chiarito e spostato molto le questioni relative.

Il risultato delle ricerche del Maas restringerebbe di molto 1] nu- mero dei casi in cui la libertà nella responsione sarebbe concessa, li restringerebbe e li determinerebbe, ed è risultato almeno in parte at- tendibile: per lo meno non sarà più lecito d’ora innanzi su questo punto tirar via senza aver sentito volta per volta la ragioni del Maas. Il libretto consta di sei paragrafi che svolgono a parte a parte l’argo- mento, e di quattro excursus che se ne allontanano o parzialmente o totalmente, sempre però nell’ambito dell’interpretazione di Bacchilide e di Pindaro. Ci sono anche nei particolari delle cose molto notevoli.

L’obiezione principale e generale che può farsi al Maas è se per eli- minare l'anomalia non sia forse necessario alterare troppe volte la lezione tradizionale. Ci possono essere dei casi in cui noi troviamo un'anomalia, mentre- questa anomalia è forse voluta per un motivo artistico a noi ignoto. Se codificassimo, poniamo, le regole della prosodia e della metrica italiana del trecento, noi troveremmo una quantità no-

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tevole di versi di Dante che scappano fuori da coteste misure. Si ri- sponderebbe che Dante per questo rispetto è ancora un primitivo. Ma se passiamo a quella del cinquecento, e prendiamo l’Ariosto, che è al culmine di ogni perfezione, troviamo il caso nostro: Liete piante, verdi erbe e limpide acque: è un verso bellissimo, meraviglioso: or portia- moci col pensiero di qui a due o tremila anni, quando la lingua italiana sarà morta; e se durasse il metodo nostro, un filologo nostro pronipote armato delle statistiche delle elisioni e degli iati, ti salve- rebbe forse e forse no le verdi erbe, ma le limpide acque c'è da scom- mettere cento contro uno che te le sconcerebbe in limpid’ acque. La facilità dunque dell’emendare in molti casi non è indizio sufficente che l'emendamento sia buono; è anzi un argomento che si può rovesciare, e si può dire invece: se quella forma è una forma anomala, come ha potuto sostituire la forma normale? La regola è ‘anzi viceversa. Poichè siamo sull’iato, ecco in Peana VI 95 περὶ δ᾽ ὑψικόμῳ ᾿Ελένᾳ, e per evitare l’iato il Maas proporrebbe di scrivere ὁψικόμοι “EZévas. L'emendamento è facilissimo, ma appunto per questo è sospetto: se col dativo l’iato era vizioso, gli antichi l'avrebbero sentito e, se mai, piuttosto avrebbero mutato δψεκόμῳ in èwixduor che non dpexduor in ὑψικόμῳ. Perciò resta più vera l’altra spiegazione che il Maas mette innanzi, che l’iato sia scusato davanti al nome proprio. Ma iato identico abbiamo pure in N. VI 22, O. III 30, e il Maas ricorre all’identico rimedio di sosti- tuire il genitivo al dativo; e ciascun vede come questa ipotesi d’una corruzione sistematica per il bel gusto di produrre una stonatura sia poco ammissibile. Aggiungi molti altri casi diversi, sempre però con lato dopo un dativo in -@ v in -@, per evitare il quale bisogna sempre ricorrere ad un’alterazione, che non sempre riesce (come in I. I 16). Non sarebbe invece molto meno pericoloso per le sue conseguenze rite- nere che forse quel < sottoscritto ci possa entrare per qualche cosa nel far mantenere non ostante l’elisione la lunghezza della sillaba? In altri casi invece si può convenire col Maas senza molta esitazione: così in Bacch. XV 20 invece di ὀβριμοδερκεῖ ἄξζυγα io non ho alcuna difficoltà a sostituire ὀβριμοδερκέϊ, e può essere questione di grafia.

Assentendo o dissentendo si capisce facilmente che potrei passo per passo riscontrare tutto quanto il lavoro del Maas, e non sarebbe forse inutile, ma basti questo saggio piccolissimo a mettere il lettore sul- l'avviso.

G. FRACCAROLI.

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= WiLHeLm ScHownack. Die Rezeptsammlung des Scrisonios Larus. Jena, Verlag von Gustav Fischer, 1912, di pp. rx-95. ; Die Rezepte des Scrisonius Larus. Zum ersten Male vollstàindig ins Deutsche iibersetzt und mit ausfiihrlichem Arzneimittelregister versehen. Jena, Verlag von Gustav Fischer, 1913, di pp. χνι- 198.

; Lo Schonack, che conosce profondamente le opere dei medici dell’an- x, tichità ed è autore di alcune dissertazioni notevoli intorno ad Ippocrate, A ha compiuto nel primo dei due volumi, di cui ora ci occupiamo, una lunga indagine su Scribonio Largo, il primo romano che ci abbia la- sciato in un libro speciale una grossa raccolta di ricette. Però egli vi ha compreso solo una parte delle sue ricerche, riserbandosi di pubbli- care fra non molto altre monografie sulle Compositiones dell’antico medico. Il primo capitolo, che tratta le questioni relative al nome, alla patria, all’epoca e alla condizione di Scribonio, non giunge in verità a conclu- sioni nuove. Scribonio Largo non appartenne alla gens Scribonia, ma, come suppose il Goulin, fu un liberto o il figlio d’un liberto di qualche Scribonius. Non si conosce la sua patria, essendo infondata l'ipotesi del Buecheler ch'egli fosse siculo: certo fu un romano nel senso più largo di questa parola, poichè l’imperatore Claudio, suo contemporaneo, aveva vietato agli stranieri di portare nomi romani. Anche il suo prenome si ignora, e falsamente gli fu attribuito per lungo tempo l’agnomen Desi- gnatianus. Le Compositiones farono compiute fra il 43 e il 48 d. C. E qui credo che l’A. avrebbe fatto bene a ricordare e ad accogliere la congettura probabilissima del Buecheler, che restringeva ancor più questi due termini, giacchè il liberto C. Giulio Callisto, a cui sono dedicate le Compositiones, non prima dell’a. 47, a quanto pare, coprì la carica libellis. Con ragione invece l'A. combatte l'opinione tradizionale che Scribonio fosse stato medico di corte e rincalza gli argomenti già addotti all'uopo dallo Helmreich. Altro non sappiamo della vita di Scribonio se non che accompagnò Claudio l’a. 43 nella sua spedizione in Britannia. Fra stato scolaro di un Trifone, forse del minore, e di Apuleio Celso, e condiscepolo di quel Valente, che poi fu messo a morte come drudo di Messalina. Probabilmente, come suppone l’A., esercitò l’arte medica fin dal tempo di Tiberio.

Nel secondo capitolo dopo aver discusso se Scribonio oltre alle Com- positiones avesse scritto altre opere in latino e in greco, come si po- trebbe desumere dalla frase scripta mea latina medicinalia , nella let- | tera dedicatoria a C. Giulio Callisto, l'A. si attarda a combattere una teoria del Cornarius ormai abbandonata da tutti. Secondo il Cornarius,

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Scribonio avrebbe seritto in greco la sua raccolta di ricette, onde le

Compositiones, che noi possediamo, non sarebbero un’opera auten-

tica, ma una traduzione compiuta forse nel quarto secolo dell’im- pero sull’originale ora perduto. Uno degli argomenti addotti dal Cor- narius era il latino barbaro delle Compositiones (“ dictio Scribonii, quem habemus, latinissimum illud saeculum non resipit ,), e a questo proposito l'A. fa delle osservazioni molto sensate sullo stile di Scribonio. Nella composizione di un ricettario, si sa, non si possono avere preoccupazioni stilistiche, ed è difficile riuscire eleganti nelle formule: la lingua delle Compositiones è necessariamente arida e uniforme e contiene molte espressioni del sermo cotidianus, sicchè gli scritti di Seribonio si deb- bono leggere, come ammoniva il Cagnati, non ut latine, sed ut medice doceant.

Passando all'esame diretto della raccolta di Seribonio, !' A. ne studia anzitutto la composizione e mostra come nelle ricette si segna l’ordine abituale negli scritti dei medici antichi, cioè @ capite ad calcem. È dopo una breve dissertazione sulle ricette chirurgiche e sulle dosi dei farmachi 81 viene alla parte più importante del volume, cioè allo studio delle fonti di Scribonio. Questi (Comp. c. 271) dichiara di essere autore della più parte delle ricette e di doverne solo poche ad amici fidatissimi. Si trovano per altro citati molti nomi di medici greci e pochi di romani, mancano rimedi dovuti a credenze popolari o superstiziose. Notevole sopratutto è il parallelo istituito dall'A. fra Scribonio e Nicandro. Egli promette di svolgere compiutamente questo tema in una monografia di prossima pubblicazione, ma intanto ne discute per quanto basta a con- futare l'opinione dello Sprengel, secondo il quale Seribonio avrebbe quasi per intero copiato Nicandro: poichè non si può raggiungere la prova di un’imitazione diretta dai Θηριακά, e solo in parte Scribonio si giovò degli 4. λεξιφάρμακα.

Finalmente l'A. si domanda qual posto occupi Seribonio fra i medici dell'antichità. Com'è noto, v’erano allora due scuole, la dommatica e l’empirica: ora, se si eccettui qualche rara voce discorde, gli storici della medicina hanno considerato Scribonio come un empirico. L'A. conclude la sua breve discussione con l’affermare che Scribonio non si deve considerare come un dommatico, come un empirico, ma come un eclettico. Però a me sembra che l’A. abbia esagerato la portata di qualche frase della prefazione e del ο. 200 fino ad attribuire intendimenti filosofici ad un medico come Scribonio, che il nostro Puccinotti non a torto biasimava per le sue stolte superstizioni: onde è da ritenersi giusto il posto comunemente assegnatogli dagli storici della medicina.

Nel terzo ed ultimo capitolo lA. esamina la tradizione manoscritta di Scribonio. Il codice, da cui derivò la prima edizione delle Composi-

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tiones, ora è perduto, sicchè, come avviene con altri antichi scrittori, l’editio princeps ha per noi il valore d'un manoscritto. Però la critica del testo di Scribonio può trovare un utile sussidio nell’unico codice (Laudunensis 420), che ci conserva la nota epitome di Marcello Empirico. Poi l’A. ci l'elenco completo delle edizioni di Scribonio, dall’edizione principe curata da Jean de la Ruelle alla novissima dello Helmreich, con giudizi coscienziosi ed esatti.

ΤΑ. conclude esaltando il valore dell’opera di Seribonio. Die Ge- nauigkeit, egli scrive, die er als ein um die Wahrheit redlich bemiihter Forscher, die Gewissenhaftigkeit, die er als Arzt, und der Edelmut, den er als Mensch bewies, diese drei Griinde sind stichhaltig genug, den Wunsch erfillt zu sehen, dass die Kenntnis von dem Werke und dem Wirken des Scribonius zunehme. Ora io non nego l’importanza gramma- ticale e lessicale delle Compositiones, ma dal punto di vista scien- tifico non posso associarmi al giudizio favorevole dell’A., bensì a quello del Dujardin e del Peyrithe: Quoiqu'il nous reste de Scribonius Largus un livre entier de recettes et de procédés curatifs, il ne mérite guère une meilleure place parmi les inventeurs dont nous faisons l’histoire que les hommes peu connus dont on a recueilli les noms, moins dans la vue de rendre cet ouvrage plus complet, qu’afin que les amateurs des restes de la docte antiquité, quels qu'ils peussent étre, ne nous reprochent pas de les avoir omis ,.

Il secondo volume contiene la traduzione delle Compositiones, come l'A. aveva promesso nel volume precedente. È questa la prima tradu- zione completa dell’opera di Seribonio ed è stata compiuta sul testo dello Helmreich (Lipsia, Teubner, 1887). Un lungo confronto con l’ori- ginale mi ha dimostrato che l’interpretazione dell'A. è sempre esatta e perspicua. Il volame, oltre a un breve studio introduttivo intorno alla vita e all'opera di Scribonio, comprende tre registri completi. V’è prima un elenco dei medicamenti consigliati da Scribonio, donde risulta che l'antica medicina ricavava la maggior parte dei suoi rimedi dal regno vegetale. Poi si trova il Personenregister e infine il Sachregister in te- desco, in greco e in latino.

Palermo. Cesare GIARRATANO.

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| Studîi critici offerti da antichi discepoli a CarLo Pascat nel suo XXV anno

d'insegnamento. Catania, Battiato, 1918, di pp. 297.

Il bel volume è pubblicato con vera signorilità dall’animoso editore

. catanese, che ha voluto così concorrere alle onoranze, che un numeroso

gruppo di giovani studiosi, raccolto dal prof. A. Amante, ha voluto tri- butare a Carlo Pascal.

Sono lavori in gran parte di giovani, sono scritti di studiosi, che se- guono vie diverse, filologia classica, medioevale, letteratura italiana, storia moderna: tra essi alcuni già provetti e noti, altri che sono alle prime armi, tutti raccolti da un pensiero solo: il saluto affettuoso al maestro, che festeggia quello che dobbiamo chiamare il suo primo giu- bileo d'insegnamento. L'impressione che si prova infatti a scorrere queste pagine e quella che ha dovuto sopra tutti sentire il festeggiato, è di trovarsi in mezzo a giovani, tutto ingegno e speranze, che abban- donando la scuola e movendo verso la vita salutano riconoscenti l’uomo che li ha educati alle difficili prove. che ha prodigato loro la sua dot- trina e la sua fede, ad alcuni fra i banchi della scuola media, ai più dalla cattedra universitaria. È un plauso di simpatia, in cui si sente tanta freschezza di sentimento, tanto trasporto giovanile, che commuove e riesce perfettamente al suo fine, quello di onorare pubblicamente il maestro fermando l’attenzione di tutti sulla meravigliosa attività scien- tifica del Pascal, che in 25 anni, tra volumi, opuscoli e note, senza con- tare le numerose recensioni, ha messe insieme quasi 300 pubblicazioni !

. Ma un’altra impressione nello scorrere questo volume prova il lettore,

che voglia considerarlo nel suo complesso, quella cioè che questa varietà di lavori, questa che potrebbe parere promiscuità, per cui si passa da Teotrasto alla Bibbia, da Euripide a Napoleone, dagli Alessandrini alle rime popolari del sec. XVI, pure essendo casuale, risponde se non al- l'insegnamento, alle abitudini mentali del dotto, che dotato di una ver- satilità prodigiosa non segna limite alla sua attività e spesso corre in campi lontani da quello, in cui egli è signore, illumina col suo spirito dovunque trova ombra e non posa mai, il che se anche a volte non arreca alla scienza contributi definitivi, suscita attività, genera pole- miche, avviva e sprona giovani e vecchi alla ricerca ed al lavoro. E questo fascio di fiori freschissimi, che gli alunni depongono sotto il ri- tratto di lui, fiori di campo alcuni, colori senza profumo, fiori di serra altri, prodotti di diligente cultura, è dono gradito non solo al maestro, ma a tutti gli studiosi che salutano nel Pascal il lavoratore indefesso, onore della nostra filologia. i Giovanni FERRARA.

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CaroLus Zanper. Hurythmia vel compositio rythmica prosae antiquae. II Numeri latini aetas integra vel rythmicae leges antiquioris ora- tionis latinae. Leipzig, Otto Harrassowitz, 1913, di pagg. xxxvrn-675.

Lo Zander continua con mirabile lena l’opera cominciata col volume su Demostene (cfr. questa Rivista, anno XLI, fasc. I} e persegue per ogni via il fantasma ritmico, fermandolo in tutte le sue apparenze e ten- tando con molto acume e con massima diligenza di trarne leggi siste- maticamente organiche. Lasciata la prosa greca, affronta in questo vo- lume la prosa di Cornelio Nepote, di Q. Curzio Rufo, di L. Anneo Seneca, di M. Minucio Felice, di Cipriano e di Lattanzio, che con Cicerone (cui è dedicato il terzo volume per intero (1)) costituiscono quella che egli ha ragione di tenere come aetas integra della prosa ritmica latina. È infatti questa età definita nettamente, nell’indagine dell’Autore, da quattro lesgi fondamentali: 1) nondum verbis clausula, sed syllabis di- scribebaturj 2) nondum ipsi accentui rythmica vis tribuebatur; 3) cum ac- centus vis sensim minor facta esset, quam in antiquissima et prisca fuerat latinitate, syIlabarwn integritas fuit stabilior firmiorque, quam antea fuerat; 4) orationis compositio syllabarum dimensione maxime dirigebatur. Nell’età successiva invece (a partire dal IV sec.) 1) i vocaboli servono a prefe- renza dei piedi per la clausularum discriptio e impone la divisione în structuras disyllabas, trisyMabas, quadrisylabas, secondo il numero delle sillabe della parola finale; 2) l'accento assume forza ritmica; 3) l'accento esercita importante influenza sull’antica integrità sillabica, onde si ven- gono a distinguere sermo vulgaris e oratio erudita per l'allungamento delle sillabe brevi sotto l’accento e per l’accorciamento delle lunghe per natura e per posizione, prive di accento; 4) pure restando una certa dimensio verborum, et rythmi in pedes divisio, è ormai magna etiam ad rythmi conformationem vis accentus. Nella terza età la composizione della prosa ritmica diventa tutta quanta governata poi dall’accento.

Questo secondo volume, meglio ancora del precedente, è un repertorio vastissimo di questioni e di cose: forse troppo vasto, non certo lacunoso. Ma nel complesso il libro risente dello schedario e questo sarebbe male anche perchè non tutte le schede sono strettamente necessarie e talora più descrittive ed esteriori che di intima importanza —, se un accurato index rerum non permettesse di frugare entro il ricchissimo materiale, qua e là, secondo la momentanea curiosità o il bisogno di informazione che il lettore possa avere. Il disegno generale ha un non

(1) Di questo volume parlerò nel prossimo fascicolo.

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so che di farraginoso e di affaticato, che può sminuire il valore delle | singole cose. Tante osservazioni, infatti, e tante discussioni, come non

si soffocherebbero e non si intralcerebbero a vicenda, assottigliando sempre più il logico filo conduttore? Così, mentre non sarebbe possibile sunteggiare l’opera e troppo lungo anche sarebbe riferire le sole con- clusioni che a vari capi riassumono la materia, nulla della vera con- tenenza del libro risulterebbe dal dire che esso è composto di una prefazione, di una serie di erempla initiorum e clausularum, e di un commentario distribuito in due parti: de compositione e de recitatione, comprendenti cinque capitoli: de inizio, de clausula, de vi ac natura nu- meri latini, de ictibus (con un excursus de complexionibus verborum, svolto in pagine [436-494] che stanno fra le più significative del volume) e de vocalium concursu. Ed invero nella prefazione trovano posto cinque densi trattati: membrorum distinetio, syllabarum dimensio, orationis per- cussio, vocalium concursio; ciascuno dei quali, con notevole chiarezza (anche perchè vi si sente meno lo sforzo d’una sistemazione troppo ca- tegorica), isola alcuni problemi fondamentali, primissimo quello sull’ictus (pagg. xxrrr-xxx1) che ha una sobria e persuasiva soluzione, che dovrà essere di base ad ogni studio ulteriore. Nel commentario, i cinque ca- pitoli contengono 52 paragrafi, spesso assai lunghi e complessi, che sono una miniera di osservazioni, di critiche, di conclusioni, con larga infor- mazione della letteratura sull'argomento (mi piace anzi ricordare qui il buon posto che vi tengono gli studiosi italiani), con infiniti esempi di- ligentemente scelti e trattati, con discussioni filologiche d’ogni genere, dalle ortografiche e morfologiche alle cronologiche e di versificazione. L'A. infatti, anche a costo di strafare, non teme di avventurarsi per tutt i sentieri che qua e si aprano accanto alla sua via maestra. Degni di molta attenzione sono poi gli erempla, ove la distinzione dei membri appare più tranquilla e sincera e quindi probabile che altrove, sebbene non ancora egli possa evitare l’incertezza fondamentale inerente a questa base prima della prosa ritmica: la buona lettura è soggetta a infiniti arbitrii soggettivi, mentre il bisogno di ritrovare un ripetersi di cadenze e di formule ritmiche può sempre forzare la mano dello studioso e rendere difficile un’indifferente e sincera serie di pause nà- turali; non solo, ma le stesse tendenze e preferenze ritmiche, che sono in ciascuno di noi, quasi inevitabilmente si impongono sull’altrui ritmo, così che difficilmente un tedesco e un italiano sentirà e farà sentire un identico ritmo, qualunque sia il ritmo del prosatore che si legge. Non distingue forse per l’elemento ritmico un’esecuzione orchestrale te- desca da una italiana di una stessa sinfonia? Comunque lo Zander si fa sempre più guardingo e libero da presunzioni, semplificandogli una parte del lavoro la minore arte degli scrittori, che ora esamina, onde

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nell’assieme il lettore può consentire con le sue analisi e trovarle più spesso sicure, che non in altri lavori del genere e nei suoi precedenti.

Ma dopo le analisi e dopo i commenti e dopo le conclusioni delle questioni relative, si affaccia più vivo che mai un problema. Se difetto in genere, nello stato attuale, dello studio della prosa ritmica, è la na- tura frammentaria e provvisoria delle singole ricerche, saltuarie e non organate su leggi continue e generali, onde ogni volta si mutano i punti di vista e i modi dell’osservazione, lo Zander esaurirà il suo com- pito di sistemare ed unificare la nuova scienza, procedendo per la via in cui si è messo? E quando egli abbia trattato con ugual diffusione di Cicerone, e di qualche altro scrittore tanto più che il libro su Demostene non assolve certo il compito suo per la prosa greca, potrà egli credere di avere compiuta l’opera? Siano due o quattro i volumi come questo, lo Zander avrà fatto molto, ma non finito e forse non so- stanzialmente elaborato il problema, che anzi il diffondersi della materia è prova che il nocciolo del problema stesso gli va tuttora sfuggendo di mano. Io penso quindi che egli sia giunto al momento in cui gli si im- pone come una necessità la ripresa della via percorsa e il rinnovamento delle linee principali della sua sistemazione. Da questo secondo volume sorge in ogni tratto sino all'evidenza il bisogno di ricominciare lo studio della prosa ritmica fin dalle sorgenti della prosa e dai primi monumenti dello scrivere non in poesia. Noi non potremo mai avere una definitiva coscienza di questo meraviglioso segreto dell’arte che è il ritmo, se non avremo prima analizzato quel giuoco inconscio ed istintivo di ritmi, che segue certe oscure leggi del nostro animo, ordina e regola il fluire di ogni pensiero e quindi di ogni gruppo di parole, per quanto ingenuo e grossolano e ignaro di dottrine ritmiche o inesperto di artifizi retorici sia lo scrittore. Una parte di questi elementi ritmici, il più ovvio, non è che una risonanza di veri e propri versi narrativi o dialogici, come avviene nelle iscrizioni. Ma la maggiore e più complessa nasce ad un ceppo solo con la poesia e proviene dalla stessa causa che generò i versi di ciascun popolo, onde ha con i versi stessi legami ben intimi, come lo Zander mostra di avere riconosciuto, nel presente volume spe- cialmente, non dimenticando mai accanto alla prosa i versi propriamente detti. Chi è stato nel mezzogiorno d’Italia ha nell'orecchio vivissima l'impressione di un parlare evidentemente ritmico, che ad ogni uomo del popolo fa preferire certe posizioni, certi vocaboli e persino violare e modificare accenti di parole e leggi o apparenti necessità logiche di vosizione e di distribuzione del pensiero. In simile modo le più antiche prose greche e latine hanno certe ragioni ritmiche e quantitative, che lo Zander conosce e meglio di ogni altro può raccogliere ed esporre. Da questo esame del ritmo involontario deve essere illuminato il lavorio

del volontario: e le leggi che egli potrà stabilire per quella parte sem- plificheranno quelle che va ora rintracciando nelle età perfette. Anche allora la stessa distinctio membrorum otterrà una luce piena e persua-

siva e molto più sicura, perchè si troverà connessa intimamente con l'essenza della cosidetta sintassi e non ad essa sovrapposta, come tut- tora appare, con artifizio continuo e con artificiosità in vario grado spiacevole. Uno studioso, che, procedendo in un lavoro come questo, non si arresta ad un formalisme convenzionale e muove, senza timore di rifare e di correggere, verso una conoscenza intima dell'argomento, deve risolutamente intendere che la soluzione dei problemi ritmici non può avvenire con la semplice descrizione dei fenomeni, e con la con- clusione in leggi esteriori, e che la quistione del ritmo della prosa non può essere presa da sola e per sè, ma vuole condurre a una conoscenza nuova dei valori della parola e della sintassi. Io non oserei mai consi- gliare ad uno studioso come lo Zander un modo nuovo o un nuovo in- dirizzo di lavoro, ma credo di poterlo incoraggiare verso una strada che

egli stesso addita e verso la quale propende, senza pure esservi ancora

decisamente entrato. Egli deve avere fiducia nel suo acume, che lavo- raudo si affina, e nella non comune pazienza e diligenza che sorreggono il suo ingegno: deve accontentarsi che i due volumi già da noi esami- nati siano per lui e per noi gli schedarii anticipati d’un’opera futura; compilare gli schedarii precedenti che ancora ne mancano; e solo dopo questi accingersi a tessere le fila fondamentali della eurythmia 0 com- posizione ritmica della prosa antica.

Lucca. G. AmtILIO Pirovano.

Caro Serrirto Razzini. Il diritto romano nelle satire di Giovenale. Studio per laurea. R. Università degli studi in Torino, 1913 (Tip. G. An- fossi, Torino), di pp. 102.

Carro Emanvere Pucrcrano. Il diritto privato romano nell’Epistolario di Plinio il Giovane: quattro saggi. Per laurea in Giurisprudenza. R. Università di Torino, 1913 (Tip. G. Anfossi, Torino), di pp. xLv1-316.

Son due monografie, presentate per l'esame di laurea in giurispru- denza, che si propongono indagare, l'una nelle satire di Giovenale, l’altra nelle epistole di Plinio il Giovane, le notizie giuridiche che vi si contengono. Siffatte ricerche di fonti giuridiche nelle opere letterarie di classici latini non sono nuove; e, omettendo di far cenno dell’Alciato

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 9

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130

e del Cuiacio, che, nei loro commenti al dir. rom., accennarono pa- recchie volte a fonti letterarie (1), rammentiamo lo Schindler che, or sono 117 anni, fece oggetto delle sue meditazioni e osservazioni giuri- diche le satire di Persio (2), e, ai giorni nostri, il Costa che ha investi- gato le fonti giuridiche in Cicerone e nei poeti romani, specialmente in Plauto, Terenzio, ecc.

I. Lo studio del Razzini comprende due saggi: il tratta della clientela; il 2°, del diritto matrimoniale. In entrambi ci aspettavamo, stando all’intitolazione del libro, di trovare, messe in rilievo distinta- LE mente, da un canto le indagini concernenti quei passi di Giovenale, che ΕἸ". servono di conferma o di ornamento a quanto già si conosce dallo studio x. del dir. rom., e, dall’altro canto, le indagini che nelle satire giovena- ζῇ liane determinano qualche nuova notizia, che valga ad integrare o a lumeggiare convenientemente le fonti giuridiche romane che ci sono note; e poi ci saremmo aspettati dei confronti tra i risultati delle indagini giuridiche nel testo di Giovenale e le tradizioni giuridiche an- tegiustinianee e le collezioni ordinate da Giustiniano e il diritto bizan- tino postgiustinianeo, mettendosi in chiaro l’interpretazione che la col- 3 tura letteraria, e specialmente la giuridica, del medio evo e quella moderna hanno dato ai luoghi considerati di Giovenale. Abbiamo tro-

vato, invece, leggendo il libro del Razzini, non poche notizie e dottrine i che, trattandosi di una dissertazione, ben potevano omettersi: una dis- 7 sertazione di laurea deve avere il fine precipuo non di divulgare dot- trine già note d’insegnarle, ma di investigare nuove verità e di ar- ricchire il patrimonio scientifico delle cognizioni che si hanno sopra un dato argomento. -- Che bisogno c’era, in fatti, di ripetere, a proposito della clientela, la nozione dei tria nomina (p. 31)? E se l’A., consen- tendo con le osservazioni del Brugi, ha da dubitare che, nell'età di Giovenale, la clientela si fosse così modificata da esser priva d’un ca- rattere giuridico qualsiasi (p. 32), perchè ha egli fatto oggetto delle sue indagini giuridiche nel testo di Giovenale la clientela? massime con- siderando che la sportula appare a lui con base più tradizionale che giu- ridico-contrattuale (p. 32). E, nel saggio, quale ragione plausibile può avere indotto l’A. a intrattenersi a lungo, in tema di dissertazione, di

(1) Vedasi, per es., sulla questione dell’Arabarches, di cui è menzione in Giov., Sat., I, v. 130, quel che ne scrissero Andrea Alciato (Lucubra- tiones in ius civile, t. II, Basileae, 1558: Praetermissorum lib. I, col. 139) e il Cuiacio (Observationum et emendationum lib. VIII, cap. 37, col. 216, in Opp. priorum tom. II, Neapoli, 1758).

(2) Philippi Guil. Schindleri Meditationes et observationes iuridicae ad A. Persii Flacci satiras; Lipsiae apud G. L. Gothe, MDCCXCVII.

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131

| notizie conosciutissime intorno al matrimonio romano? (pp. 38 sgg.).. Così il cap. del saggio poco o nulla ha da fare con le ricerche giuridiche; il cap. appare scritto a scopo di divulgazione; nelle pa-

gine 52 sgg.. 59 sgg. 51 perde di vista l’obbietto della ricerca giuridica, .

trattandovisi di semplici usi coniugali, senza valore giuridico, deseritti da Giovenale: ed altre osservazioni consimili omettiamo per brevità. Aggiungiamo soltanto che nelle pp. 87-100 l'A. presenta una elenca- zione scheletrica dei versi delle satire di Giovenale con valore giuri- dico, priva di opportuni commenti e di confronti coi testi del diritto romano e senza designazione di fonti, certe o probabili, dei detti gio- venaliani.

Non si può negare però al lavoro del Razzini un certo valore e il merito grande dell’accuratezza delle ricerche, la morigeratezza nelle conclusioni, l'entusiasmo giovanile nella trattazione del tema: e senti- tamente gli auguriamo che possa, rifacendo il suo lavoro dentro i limiti delle ricerche giuridiche e disgravandolo del superfluo e completandolo, arricchire di un lavoro di pregio la nostra letteratura giuridica concer- nente il diritto romano (1).

II. Il libro del Pulciano comprende quattro saggi: il tratta dei Centumviri; il dello status libertatis; il dello status civitatis; il del diritto testamentario. Precede una serie di Excerpta iuridica Pliniana concernenti: a) i Centumviri; b) le actiones causae; 6) lo status libertatis; d) lo status civitatis; e) il dir. testamentario; /) le persone giuridiche; g) l’emptio-venditio; h) la locatio-conductio; i) lo status fa- miliae; 1} le donationes; mm) i deposita; n) il mutuo; 0) l’hospitium; p) la res sacra; 4) lo sponsor; r) la pactio: materia in vero ampia, che VA. comincia a trattare, intrattenendosi, per ora, dei quattro obbietti sopra notati.

E, in principio, ci siamo fatta la domanda: che c’entra l’istituto del Collegio centumvirale, che appartiene al diritto pubblico interno di Roma, col diritto privato pliniano, di cui l’A. vuole trattare? E un’altra domanda abbiamo rivolta a noi stessi: se le ricerche dell’A. hanno per obbietto il diritto privato romano nell’epistolario pliniano,

(1) E in tal caso ci permettiamo raccomandare all’egregio A. di cu- rare diligentemente la stampa del libro; di omettere le citazioni inu- tili, fatte per lo più ad pompam; di evitare le inesattezze grafiche di parole latine, quali wfficivm (p. 16), Poppea (pp. 17, 76, 78, 101, ecc.) coena (pp. 27, 54, 55, ecc.), coelum (p. 39), ecc.; e di avvertire che l’anno 550 ab U. ce. corrisponde all’anno 204 a. Chr. n., non al 240 (p. 19); ecc.

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132 perchè negli Excerpta si tien conto del Panegirico di Traiano in pro- posito dello status civitatis, del dir. testamentario, delle persone giuri- diche e dello status familiae? Una risposta conveniente alle due domande è da attendersi.

La lettura del lavoro del Pulciano ci ha lasciato l'impressione, che lA. è un giovane colto e di ampi studi fornito, una bella speranza per l'insegnamento superiore del diritto romano, ma che non sa contenere nei giusti limiti la materia che imprende a trattare, per esubero, non dico di ostentazione erudita, sibbene di materiali raccolti e con dili- genza vagliati. Sicchè, a nostro parere, mentre il proposito che l’À. si è prefisso è quello di indicarci in che l’epistolario di Plinio possa get- tare maggiore luce sui testi giuridici romani, confermandone o inte- grandone la nozione, in fatto egli ha scritto dei veri trattati sui singoli argomenti considerati nei quattro saggi, esponendo le dottrine e le opi- nioni di altri scrittori romanisti, aggiungendo talora delle considerazioni proprie e, come di un concetto subordinato, facendo menzione di brani dell’epistolario pliniano relativi all'argomento trattato. L'A. avrebbe dovuto presumere (così noi crediamo) ne’ suoi lettori la conoscenza di

‘dottrine giuridiche romane e delle questioni ad esse attinenti e in vario

modo discusse e definite dai moderni cultori del giure romano, e limi- tare il suo compito a ricercare nelle epistole di Plinio, conveniente- mente interpretate, quanto possa essere utilizzato all’interpretazione all'integrazione dei testi giuridici romani.

Notevoli sono, per es., i luoghi del libro esaminato, nei quali gli scritti di Plinio appaiono fonti di notizie importanti intorno alle riforme apportate dalle leggi ausustee all'istituto del Collegio centumvirale (pp. 36 s3g.); ovvero si presentano in dissidio, come altri aveva già avvertito, con le affermazioni di Papiniano relative alla querela inoffi- ciosi testamenti (pp. 47 sgg.): ma sembrano come soffocati in un mare immenso di disquisizioni sulle congetture e sulle diverse opinioni pro- poste, antiche e nuove, sul testamento inofficioso. Abbonda, adunque, nel libro esaminato il superfluo o almeno quello che tale ci appare in confronto alla tesi che si vuole trattare; e l’A. stesso se ne accorge e lo dichiara, sebbene lo cerchi giustificare, a pag. 74.

Quale necessità può riconoscersi, quanto alle ricerche giuridiche pli- niane, del cap. non breve intorno alle origini del Collegio centumvirale, che rimangono sempre imprecisate? (pp. 1-11). Quale necessità di ripe- tere cose già note nelle digressioni concernenti Aruleno Rustico, Aquilio Regolo, il governo di Domiziano, ecc.? (pp. 13-25). Che c’è di giu- ridico nell'investigare i sentimenti di Plinio per i giovani oratori del suo tempo? (pp. 34-36). Tutto al più potevasene far cenno in una inve- stigazione di contenuto letterario. Inutile ci sembra: il cap. intorno

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lui AZ cai decemviri stlitibus iudicandis (pp. 59-63), perchè l'A. stesso conviene che nulla vi ha negli scritti di Plinio che risponda all'argomento, e Ò conclude che sulla funzione presidenziale dei decemviri non vi è nulla È. di chiaro (p. 63). Trattandosi del praetor hastarius si ripetono opi- = —mnioni già note e si conclude con una congettura, che, messo da parte

Plinio, ha per base il testo di Marcello (pp. 68-69). La trattazione del tema della competenza dei Centumviri approda, dopo un'esposizione critica delle diverse opinioni, a risultati che possono dirsi negativi. Ed altro vorremmo aggiungere: ma ci vieta di continuare da un canto

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lo spazio limitato concessoci dal Direttore della Rivista e, d’altro canto, l’Avrvertimento che mette lA. in fine del suo vol.: E poichè è speranza

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nostra di completare il lavoro con ulteriori saggi, sarà nostra cura al-

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lora di dare un completo Corrigenda et addenda, che anche alle attuali imperfezioni apporterà rimedio ,. 1 Attendiamo, per ciò, che la speranza diventi un fatto compiuto.

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Ognina (Catania); aprile 1914.

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E. A. Loew. The beneventan script. A history of the south italian minu- scule. Oxford, at the Clarendon press, 1914, di pagg. xx-884.

Heco qui un nuovo lavoro uscito dalla scuola gloriosa del Traube: e tale che fa veramente onore alla memoria del maestro e al discepolo. Il Loew ha impiegato molti anni a condurlo a termine: tanti anzi, ch’egli preferisce di non pensarvi; e gli crediamo; ma raramente un tempo lungo è stato speso così bene in pro degli studi e degli studiosi.

I cultori della paleografia e i filologi udivano e adoperavano conti- nuamente il vocabolo scrittura longobarda ,, senza precisamente sta- bilirne il significato genuino. Qualcuno dei più esperti intendeva con esso la scrittura usata nel ducato longobardo di Benevento; ma la mag- gioranza ne aveva un'idea ben poco determinata. Infatti sin dal sec. XV e via via nei successivi una scrittura malagevole a decifrare era defi- nita senz'altro per longobarda. Pazienza quando si trattava di lettera irlandese, anglosassone o simili; ma nel 1496 Pietro Crinito battezzava per longobarda la scrittura carolingia di un codice del sec. IX. Da qualche tempo però le cognizioni paleografiche si son meglio concretate e ora dopo il libro del Loew è a sperare che i dotti bandiranno definitiva- mente come un’anticaglia di brutta memoria il termine longobardo , e vi sostituiranno quello di beneventano ,, rendendo in tal guisa omaggio alla verità storica ed evitando confusioni.

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Beneventana dunque si denomina la minuscola sorta nel ducato di Benevento durante il sec. VIII, la quale al principio del X era già in possesso di tutti i suoì elementi tipici e dopo aver toccato il massimo sviluppo nella seconda metà dell’ XI, cominciò a declinare nel XII e si disgregò nel XIII. La designazione di beneventana , risale almeno al sec. XI.

Il Loew ne ricerca diligentemente l’origine, che egli fa risalire negli elementi fondamentali al corsivo, ribattendo vigorosamente l'opinione che la vorrebbe derivare dal visigotico e conchiudendo che se il bene- ventano e il visigotico mostrano tratti affini, li hanno desunti dalla fonte comune del corsivo. A minutissima analisi è sottoposta la morfo- logia del carattere beneventano in un capitolo rigorosamente tecnico, al quale tien dietro un capitolo geniale sulle abbreviazioni, dove il tema particolare si solleva a considerazioni d’ordine generale. Tra le pecu- liarità messe in luce nei capitoli successivi rileverò il metodo beneven- tano di indicare le frasi interrogative mediante un segno sovrapposto alla parola che portava elevamento di voce: il qual segno serviva ai lettori quando pronunciavano a voce alta.

Questa la parte paleografica del libro. Non meno importante la parte storica e filologica. Per quello che riguarda la storia, è in un succoso e perspicuo compendio disegnata la cultura meridionale d’Italia, dalla fondazione dei monasteri benedettini fino al sec. XII, quando Monte Cassino comincia a declinare, per lasciare il posto al periodo aureo della civiltà normanna in Sicilia. Principali centri della cultura bene- ventana furono Monte Cassino, Benevento, Napoli, Salerno. Monte Cas- sino ebbe frequenti rapporti col Settentrione; e qui la minuscola bene- ventana viene in soccorso della storia; perchè ai monaci illustri venuti a Monte Cassino dal nord vanno aggiunti i monaci oscuri, che sui co- dici vergati da mano beneventana scrivevano testi che mostrano la minuscola ordinaria, da essi imparata nei paesi settentrionali della loro origine. La minuscola beneventana uscì anche fuori del ducato, poichè la si incontra nei paesi della costa dalmatica; il che attesta stretti e molteplici scambi della costa dalmatica con la pugliese. Di ciò posse- diamo una valida conferma nelle affinità che intercedono tra il dialetto dalmatico e il pugliese: fatto questo che argomento di dotte dispute ai glottologi.

La filologia classica alla minuscola beneventana va debitrice dei testi fondamentali di molti autori latini, ma più specialmente di quattro, che da essa sola furono tramandati ai posteri. Infatti il testo completo di Gio- venale si trova in un codice unico beneventano, ora a Oxford (Canon. lat. 41) del sec. XI-XII; le Storie e la porzione posteriore degli Annali di Tacito, le Metamorfosi, l’Apologia e i Florida di Apuleio si conser-

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vano soltanto in due codici beneventani, che un tempo erano uniti

{ora Laur. 29, 2 e 68, 2); così da due codici beneventani unicamente ci

fu trasmesso il De lingua latina di Varrone: l’uno il Laur. 51, 10, notis- simo, l’altro il Parig. 7580, del sec. VIII, con molte e varie opere gram- maticali, ben conosciuto per altri testi famosi, ma per i frammenti var- roniani totalmente ignoto ai filologi, i quali troveranno ora una buona occasione di esercitare proficuamente il loro acume, troppo spesso sprecato

_ in questioni futili.

Chiude il volume un’appendice, dove sono elencati più di 600 mano- scritti, tra integri e frammentati, di origine beneventana, quasi tutti studiati direttamente dal Loew, il quale dei pochi che non potè vedere fece trarre copie e saggi per mezzo della fotografia.

REMIGIO SABBADINI.

Euriripe. Medea, con introduzione, commento ed appendice critica di G. B. Camozzi. Seconda edizione riveduta e preparata per le scuole liceali. Città di Castello, S. Lapi, 1913, di pagg. 255.

Non conosco la prima edizione (Imola, Galeati, 1897) della Medea commentata dal Camozzi; ma il fatto che il lavoro fu premiato dal- l'Accademia dei Lincei sta a dimostrare che si tratta di opera di molto valore. E molto meritevole è anche la presente seconda edizione (fa parte della nuova Collezione di Classici greci e latini del Lapi), prepa- rata in modo che abbia a rispondere in tutto all’indole e ai fini del- l’insegnamento liceale e possa guidare con sicurezza i giovani alla per- fetta intelligenza della creazione del poeta. Questo scopo si propose il Camozzi, e non mi sembra dubbio che egli lo abbia pienamente rag- giunto.

Che il lavoro non sia uno dei soliti raffazzonamenti s’intuisce già fin dalle prime pagine della Prefazione, la quale basta a fornire più di una prova della serietà di preparazione con cui il Camozzi si è accinto all'opera. Potrà forse sembrare strano che io senta il bisogno di dire ciò; ma mi è toccato leggere certe prefazioni slombate e slavate! e poi tout seigneur tout honneur. L’Introduzione, che si legge con vero di- letto, è fra le migliori per ogni verso che occorra trovare in edizioni commentate dei classici. Tratta del mito degli Argonauti, della figura di Medea in esso e nell’arte dramatica, della Medea di Euripide, con particolare riguardo al carattere della protagonista, del quale è fatta un'analisi psicologica felicissima, delle mende del drama e della verata

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ALTARI PET CIOTTI

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quaestio della Medea di Neofrone; seguono notizie sommarie, ma com- plete, intorno ai manoscritti di Euripide, agli scoli e alle edizioni della nostra tragedia. È superfluo avvertire che il Camozzi è pienamente pa- drone del suo argomento e conosce tutta la letteratura relativa; e pur valendosi qua e là, com'è naturale, dei risultati degli studi altrui, ha fatto opera originale, degna delle più ampie lodi. La larga e accurata informazione bibliografica sarà utilissima anche e soprattutto agli inse- gnanti; come pure l’Appendice critica, che potrebbe benissimo figurare in un’edizione scientifica e non è certo inutile in un’edizione scolastica, tanto più che serve a completare il commento. Il Camozzi non si limita a riportar varianti e lezioni congetturali; raffronta, discute e propone anche di suo, procedendo sempre con assoluta indipendenza di giu- dizio. Forse talune abbreviazioni, p. es. p. q. (= parentesi quadra), non saranno subito capite, ma certissimamente il Camozzi ha dovuto usarle per tenersi breve il più possibile in omaggio alla legge inesorabilmente tirannica dell'economia di spazio: ciò che riguarda l’editore.

Passo al commento. È ottimo; non esagero. Dovunque si possa desi- derare una nota, la nota c’è, e chiara, esatta, compiuta. Nulla mai di superfluo, nulla nemmeno che lasci pur lontanamente supporre che il Camozzi abbia voluto fare comunque sfoggio di erudizione. Ci sono molte, forse troppe abbreviazioni del genere di quelle indicate sopra; ma vanno addebitate a quella famigerata legge sopra non lodata; del resto l’insegnante può ben spiegarle all’allievo che non riesca a inten- derle. Io credo che miglior commento non sarebbe possibile fare alla Medea di Euripide, per un’edizione scolastica.

Un cenno meritano anche le figure, cinque (non tutte però egualmente nitide: occorreva adoperare clichés nuovi, o almeno non troppo frusti), di cui tre con buone e perspicue dichiarazioni.

Napoli, 15 ottobre 1914. Domenico Bassi.

L. A. MicHeLanGELI. La Medea di Euririnpe. Volgarizzamento in prosa condotto sopra un testo riveduto -ed emendato dal traduttore. Seconda edizione notevolmente ritoccata e provveduta di nota critica. Bologna, N. Zanichelli, 1914, di pagg. xxvn-62.

Avevo reso conto, a suo tempo, della prima edizione di questo vol- garizzamento, tributando all'autore le lodi che gli erano dovute. Ora non solo le confermo per la nuova edizione in tutto e per tutto, ma in

lt è ada

ZEN 137 ee

| piena coscienza, come sempre, debbo farle più ampie e più sentite. Il

Michelangeli ha ritoccato davvero ‘notevolmente’ la sua versione l’ha quasi rifatta migliorandola qua e in particolar modo per la lingua e lo stile. Con cotesti miglioramenti egli l’ha resa insieme più elegante e più scorrevole, senza nulla detrarre alla fedeltà e alla pre- cisione: doti che contradistinguono tutte le traduzioni, e son molte oramai, del valente ellenista. Riporto la versione dei primi quindici

PRES TPRE RE e OMETTO

versi nelle due redazioni :

(1901) Oh! se trasvolate la nave Argo non avesse alla volta della terra de’ Colchi le fosche Simple- gadi, sulle foreste del Pelio fosse caduto giammai reciso pino, di remi fornito avesse le mani a quegli uomini eletti, che del vello tutt’oro andarono per Pelia a la conquista ! Chè la signora mia, Medea, a le torri del paese Jolcio non avrebbe fatto tragitto, l'animo piagata da l’amore di Giasone; nè, persuase le fanciulle Peliadi ad uccidere il padre, abiterebbe questa terra Co- rintia co’ marito e co’ figli, gra- dita invero a’ cittadini, de’ quali esulando pervenne a la contrada, e dal canto suo tutta devota a Già- sone, chè grandissima è salvezza quando moglie da marito non dis- senta ,.

(1914) Oh! se trasvolate la ca- rena (infatti il testo ha σκάφος) d'Argo non avesse alla volta della terra de’ C. le fosche S., e nelle (il testo ha ἕν) foreste del P. non fosse caduto giammai reciso pino, di remi fornite avesse le mani a gli uomini eletti (ἀνδρῶν ἀριστέων [ἀρίστων Michelang.] senz'altro). che pel vello tutt'oro in favor di P. andarono (οὗ τὸ πάγχρυσον δέρος Πελίᾳ μετῆϑον)! Chè la signora mia, M., alle torri del paese iolcio non avrebbe navigato (&74ev0), sbalordita (éx7Zeyeto) l'animo dal- l’amore di G.; nè, persuase le fan- ciulle peliadi ad uccidere il padre, abiterebbe questa terra corintia col marito e co’ figli, gradita invero a’ cittadini, de’ quali pervenne esu- lando alla contrada, e dal canto suo tutta devota a G., chè grandissima è salvezza quando moglie da ma- rito non discordi (dcyootar$) ,.

Come si vede dal raffronto delle due redazioni, e dalle mie citazioni del testo, la più recente si avvantaggia sull’altra per una più esatta rispondenza al testo stesso in tutti i luoghi in cui ciò era possibile. Sono entrambe traduzioni letterali, nel senso assoluto del vocabolo, ed essendo in prosa non possono essere se non letterali; ed è tale prosa che riproduce l'originale perfino nella disposizione delle parole nel pe- riodo pur senza sforzare la nostra sintassi.

Al volgarizzamento (cioè propriamente all’ “Avvertenza premessa alli prima edizione ,) precede la Nota critica ,, in due parti : divergenze:

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del testo riveduto dal Michelangeli dalla recensione del Nauck (1898), e le sue (del Michelang.) congetture ai vv. 106, 123, 134 sg., 183, 212, 798 seg., 846 sg., 1269, 1296 e 1316. A proposito di alcuni di questi versi il Michelangeli ha occasione di polemizzare col Camozzi, della cui Medea egli conosce anche già la seconda edizione, della quale ho parlato quassù. A me sembra che siano senz'altro da accogliere le congetture ἀπέρατον (invece di ἀπέραντον) di 212, ériyevev (invece di ἐπὲὶ γαϊαν) di 1269, νυν (invece di ver) di 1296, e ἣν τέσομαι (invece di τὴν τίσωμαι) di 1316; senza dubbio il senso nei quattro luoghi corre assai meglio che non con le lezioni congetturali di altri critici, come anche dimostra esaurientemente il Michelangeli nella discussione. Le rima- nenti sue congetture sono, a mio giudizio, meno probabili, il che tut- tavia, ben s'intende, non toglie loro valore.

Napoli, 29 ottobre 1914. Domenico Bassi.

Heinr. Gomperz. Sophistik und Rhetorik. Das Bildungsideal des λέγειν in seinem Verhiiltnis zur Philosophie des V. Jahrhunderts. Leipzig und Berlin, B. G. Teubner, 1912, di pp. vi-291.

Il titolo è un poco lungo, ma indica esattamente il contenuto e lo scopo del volume. L'A. è il figlio di Teodoro Gomperz, la cui opera sulla storia della filosofia greca è a tutti nota: la sua personalità di pensatore, meglio ancora che nel libro presente, si rivelava in un’opera che ha avuto, credo, in Italia minor fama che non meritasse (Die Le- bensauffassuny der griechischen Philosophen, Diederichs, Iena, 1904), in cui in una serie di prelezioni dense di pensiero era esposta tutta la storia della filosofia greca, rispetto ad un unico criterio informativo, l'ideale della libertà e dell’indipendenza dello spirito. Ivi avevamo un’opera di sintesi: l’opera presente è uno studio più analitico, pur mirando a ri- solvere un problema di notevole importanza nella cultura greca: quale sia, cioè, la vera essenza della sofistica, nell’età socratica.

Su questo periodo del pensiero greco si era esercitata acuta l'indagine del padre, il quale aveva ripresa e continuata quella riabilitazione dei sofisti, iniziata dal Hegel e dal Grote; ma l’interesse polemico l'aveva condotto troppo oltre. Chiunque ha letto quelle pagine dei Griechische Denker, ha ammirata l’ingegnosità dello scrittore, l’acume dello studioso; ma credo che quasi tutti abbiano sentito che la tesi che l'A. si propo- neva di difendere spesso lo induceva a varcare i limiti della realtà

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storica. Non già per la difesa tentata della sofistica, come momento spirituale pieno di interesse nel periodo in cui si manifestò, ma per avere voluto spesso fare apparire maggiore del vero il valore filosofico delle dottrine di questi contemporanei di Socrate.

Il figlio, prendendo in esame questo medesimo tema, ha ricondotto la questione, in molti punti, nei suoi veri termini; rappresentando cioè la sofistica come intesa massimamente allo sviluppo della retorica, che è l’arte il cui valore era sentito maggiormente nella vita politica del tempo.

Tutto il volume è ricco di ricerche, e guidato sempre da una profonda conoscenza delle questioni, da un sobrio e lucido giudizio; ma parti- colarmente giusto mi pare nelle sue conclusioni il capitolo. Si esa- mina in esso quello che l’A. chiama giustamente, a mio giudizio, il preteso nichilismo filosofico di Gorgia da Leontini. È opinione antica, e radicata nella storia della filosofia, che Gorgia abbia condotto i dati fondamentali della dottrina eleatica alle loro estreme conseguenze, cioè all’assoluto nichilismo filosofico. S'è dato così alla figura di Gorgia un valore di pensatore che egli non ha. L’A., studiata prima l’autenti- cità dei vari scritti che vanno sotto il nome del retore di Leontini e il loro contenuto, passa all'esame comparativo di essi, e giunge alla con- clusione, che il 7. φύσεως non era se non uno scritto retorico, di carat- tere non differente dal Palamede e dall’Elena; in quanto cioè rappre- sentava un’esercitazione eloquente, su tesi paradossali, senza a!cuna intenzione filosofica, ma col puro scopo di mostrare l’arte dello scrittore nel trattare ingegnosamente i temi più arrischiati. Giustamente VA. os- serva che il silenzio di Piatone e di Aristotele su Gorgia filosofo deve già per metterci in guardia contro un’opinivne, formatasi solo più tardi, quando il vero intento dello scrittore del π. φύσεως fu tra- visato. Gli argomenti dell'A. mi sembrano del tutto persuasivi; anzi alla medesima opinione ero già giunto studiando in proposito di Em- pedocie gli scritti del suo eloquente discepolo.

Interessante è pure lo studio di Antifonte come studioso di Empedocle. L'A. ha in questa parte desunti alcuni elementi posti già in luce dal padre; ma li ha accresciuti di nuove ricerche. Naturalmente anche An- tifonte non riproduce di Empedocle che alcuni atteggiamenti esterni, e qualche teoria parziale (1); l’unico dei sofisti che abbia veramente avuto un interesse diretto verso le ricerche speculative è, come rico- nosce giustamente l’A., Protagora. Anzi il valore di Protagora come filosofo dovrebbe essere messo in rilievo anche maggiore di quello che l’A. gli dà.

(1) Di qualche elemento, trascurato dal G., mi occuperò altrove.

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ΠΩΣ δὶ τ Εν ΚΤ τ᾿ πὰ STE tan 0 i ARE ia a Rs νὴ ΜΕΤ, ΠΣ SEE ia LS LB 19 1 - Δ ἈΣΤῊΝ ΠΡ τ ΠΕ ΡΝ

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-- [40 --

Ma ad ogni modo, anche fatta ragione di qualche divergenza parziale di opinioni, che non è possibile qui esporre, il libro dell’A. è certamente uno degli studi più acuti, più misurati e più giusti che sulla sofistica greca siano stati scritti.

Errore BIGNONE.

Carr Rogerr. Die Spiirhunde. Ein Satyrspiel von Sophokles frei iibersetzt und ergtinzt. vermehrte und verbesserte Auflage, mit zwei Tafeln 2wòilf Textabbildungen und zwei Vignetten. Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1913, di pp. 43.

E. DieaL. Supplementum Sophocleum (Kleine Texte fiir Vorlesungen und Ubungen herausgegeben von H. Litzmann 118). Bonn, A. Marcus und E. Weber, 1913, di pp. 33.

Il Diehl ripubblica il testo degli Ichneutai, dell’Euripilo e del fram- mento dell’ 4 χαιῶν σύλλογος dopo l’editio maior e la minor del Hunt, e vi aggiunge i frustuli sofoclei, rinvenuti dal Reitzenstein nel codice berlinese di Fozio. Per i tre primi l’edizione, che succede a così breve distanza da quella del Hunt, non presenta grandi modificazioni; le lacune maggiori rimangono in generale quali erano nel testo dell’edi- zione inglese. Neppure i primi 5 versi sono compiutamente integrati, e i tentativi parziali fatti per integrarli dovrebbero avere la riprova del v.5, che è lasciato ancora mutilo quale è nel papiro (1). Piace in v. 39 [Avxece] invece di [ὦ Φοῖβε) del Hunt, che l’ed. stesso diceva troppo lungo. In v. 56 credo più verisimile l’integrazione del Hunt anzichè mo? alvintà κἀσαφῆ Aéy]ets; che propone l'A. In v.87, dopo πᾶς, nella stampa manca o che è nel papiro: nei vv. 91 sgg., come altrove, non credo sia da approvarsi l’uso dello schema metrico della parte man- cante del trimetro, quando si può stabilire e indicare il numero delle lettere da supplire; viene infatti così a mancare un elemento necessario alla restituzione del testo.

Assai probabile è la congettura del Robert, che l'A. accetta, di conside- rare Δράκις, Πράπις, Οὐρίας, Μέϑυϊσος, Στράτιος, Κροκίας, Τρεέϊχις, nel difficile coro, vv.177 sgg.,come nomi propri; si viene così ad ovviare ad una | grave difficoltà nell’interpretazione del testo. Nel v. 320 sono stampate per errore di stampa senza divisione ϑανόντι ϑηρί. In 309 il v. è inte-

(1) Questi versi e altri finora non integrati ho cercato di supplire io in Arti della R. Acc. delle Scienze di Torino, vol. 48, 1912-13, p. 774 sgg.

n ==

STE con molta probabilità [ἐνήλατα ξύλ᾽ ὡς τρίγομφα διατ]όρως ἐρεί- ᾿ δεταᾶν col cfr. del fr. 268 N?, secondo le proposte del Robert -e dello Schenkl. In v. 361 ὑστέρ᾽ ὡς ἐγὼ γελῶ credo sia da conservarsi, dando

ad ὡς il valore finale, e non scrivendo ὥς con lo Hunt correggendo

ὑστέρως ἐγὼ λέγω, con il Wil. che lA. segue. Come si vede, quantunque

il testo non differisca molto da quello dello Hunt, l'edizione del D. rap- 1 presenta veramente in alcuni punti un progresso. Utili sono i raffronti dati in calce per sussidio dell’interpretazione. Nella sua sobrietà anche «questo libretto così conserva il carattere pratico della raccolta a cui SA i Υ appartiene. e sarà certo bene accolto dagli studiosi. Anche meno che 3 negli Ichneutai l'A. si scosta dal Hunt nell’Euripilo. I frammento A 9 dell’ ᾿Αχαιῶν σύλλογος era troppo ben conservato, perchè possa esservi SI differenza fra i due editori. ἊΣ Il Robert ha tradotti gli Ichneutai per la recitazione nel teatro di : a Lauchstedt e li ha tradotti egregiamente. Egli mirava alla recitazione 7 Ξ ed a riescire intelligibile ad un pubblico moderno; perciò, nella tra- 1) È duzione che nel colmare le lacune è assai libero, ma anche in ta! modo sg 3 può, a chi legga la sua versione poetica in confronto col testo, riescire à È, suggestivo. In un punto, nel v. 297, egli tacitamente corregge l’inter- μι. τς —‘pretazione del Hunt che era certo falsa; questi spiegava πλεῖστον È. È μεταξύ come something between, ed altri si lasciò indurre in errore, il R. Z τῇ traduce © himmelweit verschieden , con piena ragione; il testo greco i vuol dire moltissimo ci corre ,, ed infatti i paragoni trovati dal coro E (il gatto e la pantera) sono lontanissimi dall’animale in questione, cioè i la tartaruga. L'edizione presente è la seconda, e si differenzia dalla È prima in quanto, nella introduzione, assai breve, si notizia di qualche 8 particolare dell’interpretazione dell’ultima parte, e, in appendice, si di- be scorre dei costumi scenici, in relazione con il dramma satiresco. Dal si Robert, quando parla di archeologia, v'è sempre qualcosa da imparare; È belle sono le fotografie che riproducono gli attori dilettanti nei loro Mi costumi ferini di Satiri e di Sileno, e espressivo è anche Apollo; poco <a ty mi persuadono Cillene e il piccolo Ermete, non so per qual ragione, in 2 È costume moderno. 9 Gli sfondi scenici furono studiati dal Robert su pitture vascolari; sono + rappresentazioni di stile arcaico di paesaggio, in linee riassuntive ma 2A assai efficaci. ; Errore BiIGNONE. n

belin pot

Mar) gs

H. v. Arnim. Supplementum Euripideum (Kleine Texte ἔν Vorlesungen und Ubungen herausgegeben von Hans Lietzmann, 112). Bonn, A. Marcus und E. Weber, 1913, di pp. 80.

Ricco di materia è il volumetto dell’Arnim, che contiene gran parte della Vita di Euripide scritta da Satiro, testè rinvenuta e pubblicata nel volume IX dei papiri di Ossirinco, l’Antiope, i Cretesi, i frammenti delle due Melanippe, VEneo, il Piritoo, la Stenebea, \'Issipile, il Fetonte, e un nuovo frammento dell’ Archelao. In edizione alla mano si avevano sinora l’Issipile, i Cretesi, e, in parte, la Melanippe vincta, pubblicati dallo Hunt nei Fragmenta tragica papyracea. Ma non si tratta già di una nuova edizione di testi papiracei con poche varianti, l’Arnim ha rielaborato, in gran parte con nuove congetture e studi suoi, tutti i testi che pubblica. Utilissima è la pubblicazione della Vita di Satiro almeno nelle parti essenziali, che appare qui con nuove integrazioni dell’A. e di altri; in una di esse v[#xre]o, col. XVI, l'A. si è incontrato con il Fraccaroli (nella recensione al vol. IX dei papiri di Ossirinco in questa Rivista) indipendentemente da lui. L'integrazione in questo ed in altri punti pare certa.

Della Melanippe vineta lo Hunt aveva pubblicato un solo frammento berlinese integrato dalla Vita di Satiro, ma l'Arnim, per questa come per le altre tragedie, ai frammenti papiracei aggiunge anche quelli già dati dal Nauck e il passo di Igino relativo. Si ha così un ricco materiale alla mano, utilissimo alla conoscenza perfetta del poeta; siccome poi dalle pubblicazioni anteriori è corso alcun tempo (eccetto che da quella del Hunt), oltre le congetture dell’Arnim si ha nel presente volume una buona messe di altre integrazioni ben vagliate. Ad esempio, nel fr. I col. 2 dell’Issipile (p. 49) con molta ingegnosità sono integrati i: versi lirici del coro; si potrà dubitare su συντρέΪχον, v. 3, per lo spazio, e certo προ]κενήσω è troppo ardito, dando il papiro ...uvQ0@ue καὶ (forse meglio προμνήσωμαι (xaì) che è in nota), ma il cfr. con Platone, Leges VII 789 c.-e, è acutissimo e certo mette sulla buona via per inten- dere il passo.

Ivi pure, p. 50 v. 16, ἀστράπτει col cfr. del facsimile persuade, ed è bello anche per il contesto. L’Arnim ha cercato di ridurre a regolarità metrica conveniente questo coro, e le sue ricerche sono interessanti ; in v. 19 ἔργον è espunto, ed a ragione; esso è evidentemente una glossa a τό del v. precedente, ve ne è bisogno pel senso, anzi la forma corre così più snella. Così pure in fr. XX-XXI l’integrazione del v.2 è persuasiva, e in v. 3 ἄγχουσί ue è certo migliore di ἔχουσί ue del Hunt; nel v. 4 invece preferisco εὔελπί, δ᾽ οὔτε [ῥῆμ]) ἔχεις ε[ἐπεῖν

È = L

φίλαις del Hunt a εὔελπις οὔτις ἀλλ᾽ ἔχει σ[ωτηρέαν dell’Arnim che

x

è più contorto e meno efficace. Ingegnosissima è pure la restituzione

del fr. I p. 54, in cui, nella prima parte, l’Arnim segue le tracce del Hunt, pure migliorando l’espressione poetica nelle restituzioni; nell’ultima - parte tenta arditamente di colmare le lacune, finora disperate, e vi riesce 7 assai bene. Solo vorrei ricordato, come ricorda lo Hunt, che il fr. 65 era già stato attribuito a questa scena dal Taccone. Basta quanto si è detto per provare il pregio singolare di questo Supplementum Euripideum, degno affatto dell’Arnim e della sua grande dottrina e acutezza.

Errore BiGnoNE.

Emma Pancrazio. Di alcune vicende del Greco nelle Scuole Tedesche. Parte II. IZ Greco nei programmi di Francoforte. Per la storia del metodo nell’insegnamento delle lingue classiche. Torino-Roma, ecec., G. B. Paravia e C., 1914, di pp. 87.

Della prima parte di questo difficile studio sulle vicende del greco

si ava sila ri ci atte

nelle scuole tedesche io ebbi ad occuparmi, or non è molto, in questa È medesima Aivista (fascicolo del gennaio 1914, pp. 188-139), dicendone tutto il bene, che in coscienza sentivo di doverne dire, ed esprimendo il rinerescimento che l'autrice non avesse pubblicato in una volta sola tutta la sua promessa istoria dell’insegnamento delle lingue classiche in Germania. Ora la seconda parte è venuta, ma non ancora l’ultima, ed io, se volessi essere interamente sincero, dovrei rincarare 1 meritati elogi per l’esposizione così coscienziosa, così acuta, così geniale, che la Dss® Pangrazio torna a farci delle crisi della scuola classica in Germania.

Il nuovo saggio infatti espone e spiega la prima crisi, attraversata dagli studi classici in Germania ad appena un secolo dal giorno in cui tutti avevano creduto e proclamato che l’affrancamento della loro patria dal giogo napoleonico era appunto dovuto ai liberi sensi, inspirati dalla letteratura greca, alla quale essa s'era ardentemente rivolta. Il soggetto del presente studio è dunque quel Ginnasio-liceo moderno tedesco (Re- formgymnasium), di cui, in Italia, dove si discute tanto accanitamente di ; scuola classica e di scuola moderna, i filologi e i non filologi ignorano il possente sviluppo, forse anche l’esistenza.

Ma il libro della P. non è affatto un saggio polemico, tanto meno un’apologia del nostro ginnasio-liceo moderno. È uno studio oggettivo, ispirato da eccellenti criteri storici sulle ragioni di origine, di sviluppo

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e di esistenza della Reformschule tedesca, che nacque da quello che la storia della pedagogia tedesca chiama il Programma di Francoforte, dal suo autore, il prof. C. Reinhardt, allora direttore del Ginnasio di Fran- coforte sul Meno.

Come la Ds* Pangrazio aveva fatto nel saggio precedente, per le origini della scuola classica tedesca, così ora ella illustra tutta la vita interna della nuova istituzione, le ragioni teoriche e pratiche, che hanno presieduto alla sua costruzione, i suoi adattamenti, i suoi successi, le lotte, di cui essa, volta a volta, è stata bandiera o bersaglio. Cosicchè, domanderà il curioso lettore, suggerisce ella, l'autrice, ed incoraggia l'adozione della Reformschule anche in Italia e dovunque? Qual'è la conclusione pratica del suo scritto ? Anch'io fui, la volta scorsa, uno degl’indiscreti formulatori di consimili domande, ma per tutti costoro, il sottoscritto non escluso, l'A. ha vergato l’ultima pagina del suo saggio. No, ella non reca ancora il dono di alcuna sua personale conclusione, che pure sarebbe riuscita tanto gradita, come la voce di persona, che aveva lungamente e veramente meditato su cosa che tanto avremmo desiderato udir giudicare e risolvere. Ma il suo pellegrinaggio non è ancora compiuto. Ogni inventore di metodi ,, ella spiega, che vuol

guidare le anime a un fine prestabilito, ha, nella imperitura bontà

(19

della sua scoperta, così ferma convinzione che la sua voce tutta ne

vibra e l’eco la ripete con la stessa persuadente efficacia. Così chi è

(13

sotto l'impero d'un forte sentimento, s'illude che quel suo stato psi-

μ

chico debba essere eterno..... Conviene che l’eco della sua voce si posi,

(14

che gli echi di altre voci si destino e narrino la loro bontà e la loro efficacia sugli spiriti e, nel confronto, si riveli ciò ch'è in tutti di du- raturo, o di caduco.... attendo a svegliare altri echi di reggimenti d’anime in una terza che sarà anche l’ultima parte di queste ricerche. Allora finalmente verrà la mia conclusione , (pp. 85-86). Attendiamo dunque un’altra ora di godimento spirituale, quale, nelle loro dispute, pochi fra i filologi e i pedagogisti eci hanno altre volte

saputa dare e meditiamo nel frattempo noi stessi, con la cauta transi-

genza di giudizio, di cui ci dànno esempio queste pagine, sulle conclu- sioni di una ricerca così ardua e così proficua.

Corrapo BARBAGALLO.

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Harry Morrimer HusseLL. The influence of Isocrates on Cicero, Dionysius

and Aristides. New Haven, Yale University Press, 1913, di pp. x11-72.

Che nelle opere retoriche di Cicerone sia da riconoscere una profonda traccia di Isocrate difficilmente potrebbe esser messo in dubbio dopo la trattazione che di questo argomento ha fatto il Blass nella sua opera capitale sull’eloquenza attica; ma poichè il Blass limita il suo studio quasi esclusivamente alle teorie sullo stile e sul ritmo, limitazione che ha la sua ragion d'essere nel fatto che appunto nell’esposizione di queste teorie

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Cicerone è massimamente debitore a Isocrate, l’A. dell’opuscolo che

ci sta innanzi ha spinto la ricerca più oltre e si è formata la convin-

zione che da Isocrate Cicerone abbia tolto anche l’idea della funzione dell’oratore, quale egli la presenta nel de Oratore.

Ecco in breve le idee fondamentali 4161} Α. : Isocrate rappresenta nel IV sec. un criterio pedagogico che fonde le due forme di educazione, retorica ed enciclopedica, sviluppatesi separatamente nel secolo ante- riore; il suo ideale sofistico, tendente a riunire nella stessa persona il retore e il filosofo è tutto l'opposto dell’ideale socratico, che separa nettamente la filosofia dalla retorica. L’idea socratica trionfa, ma nel primo sec. av. Cr. si nota un ritorno alle idee di Isocrate e Cicerone ne è il maggiore rappresentante ; il concetto che informa il de Oratore è quello stesso che troviamo nelle orazioni di Isocrate.

Come dimostrazione del suo assunto l'A. pone a riscontro intieri passi di Isocrate e di Cicerone, togliendo i primi dal corpo delle orazioni isocratee e soprattutto dalla Antidosis degli accenni a teorie di Iso- crate e di Isocratici, che non è possibile riferire alle orazioni, accenni scarsi, privi di interesse, disseminati nelle ponderose raccolte di retori greci non trovo assolutamente menzione in questo lavoro —, i se- condi soprattutto dal de Oratore: e nella citazione di passi paralleli mette in evidenza analogie non solo di pensiero ma anche di espressione, che poi illustra acutamente. sfugge all’A., e mi preme di metterlo in rilievo come prova della larghezza di vedute con cui il lavoro è con- dotto, la diversità di intento con cui i due scrittori sostengono la stessa idea: Isocrate si oppone alla specializzazione filosofica, il cui effetto era di svalutare la retorica; Cicerone si oppone alla grettezza dei retori, sostenendo la necessità di un’ampia preparazione scientifica per chi voglia arrivare a essere ottimo oratore.

L’ideale isocrateo, richiamato in vita da Cicerone, determina una ten- denza l’A. in alcuni luoghi la chiama, con espressione forse non troppo felice, scuola di cui sono i continuatori Dionigi di Alicarnasso

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 10

x

146

e nel secondo secolo dell’era volgare Aristide; ne è anche documento singolare la Zaudatio Demosthenis del pseudo-Luciano.

Queste le ultime conclusioni del libro, che per assennatezza e bontà di metodo si raccomanda all’attenzione degli studiosi, ancor che non ci sembri che possa ritenersi definitivo.

Capracotta, agosto 1914.

Uco Enrico PAott.

CBOPHUKb CTATElI Bb UECTb JIMUTPIA A. KOPCA- KOBA. Kacans, Toxy6ess, 1913 (1), di pp. x1v-524, (con un ritratto di D. KoRsAKOFrF e, nel testo, due tavole archeologiche).

Questi Mélanges con cui alunni e colleghi del Korsakoff, ordinario di Storia moderna nell’I. Università di Kasan, hanno voluto onorarlo nel quarantesimo anno d’insegnamento e cinquantesimo di attività scienti- fica, comprendono trentacinque studi. Precede un elenco compiuto dei lavori del Korsakoff, centoventisette, compresivi e non son piccola parte le recensioni e i necrologi. Gli articoli riguardano, in massima parte, discipline di cui la nostra Rivista non occupa: storia moderna, critica letteraria di opere moderne, filosofia, linguistica, pedagogia, folklore, storia del diritto italiano : per cui rinunziamo a indicarne il titolo e il contenuto e ci limitiamo a. dare un breve cenno degli studi di filologia, antichità, archeologia classica.

MU. B. ΜΙΡΟΥΒΟΡΠΕΒΈῬΟῬ 0 decanveauniu erunemenoi cepebpanoi dparm (2)

(pp. 76-86).

Nell’età dei Tolomei la dramma d’argento valeva all'incirca quanto un denaro romano, mentre nei primi tempi dell'impero il suo valore, secondo che risulta dai dati della papirologia e della numismatica, era ridotto a un quarto di denaro. L’A., riferite le diverse ipotesi, con le quali si è cercato di spiegare questo fenomeno, ci pone sott'occhio una

(1) Ital.: Raccolta di articoli in onore di Dimitrio Korsakoff. Kasan, Golubeff, 1913.

(2) Ital.: I. Mrrorvorzerr. Sulla svalutazione della dramma egiziana d’argento.

selva selvaggia di calcoli, dottissimi, complicatissimi, in base ai quali vien nella conclusione che nel sistema monetario dei Tolomei la pro- porzione fra l'argento e il rame era di 80:1, mentre sul mercato era di 120:1. La moneta di rame aveva quindi l’ufficio di moneta di cre- dito, come i nostri biglietti di banca, e le tasse eran pagate con monete di rame. Quando l’Egitto passò ad Augusto, poichè l’imperatore non batteva che monete d’oro e d’argento, le tasse dovevano esser pagate in argento: questo avrebbe portato un elevamento delle imposte al quadruplo, e allora, per evitare un provvedimento impolitico, che avrebbe esaurito le forze economiche dell’Egitto, si ridussero le imposte di tre quarti. Mezzo per introdurre questa riforma fu la riduzione del valore della dramma.

L'articolo è corredato di un minuzioso apparato bibliografico. Citato spesso il nostro Barbagallo.

H. II. ΤΡαπιληοκιῆ. As 6onpocy 065 ατἱραρηνιαῦ OMHOWEHiALT Opesnuxi repuanuees epemenu Iesapa (1) (pp. 87-102).

ΤΑ. mostra infondata la teoria dello Schulz sulla graduale pubblica- zione del de dello Gallico di Giulio Cesare e contemporaneamente ricerca quali fossero le condizioni di vita dei Germani al tempo di Cesare. Le due questioni sono strettamente connesse: infatti lo Schulz si vale della diversità fra le notizie sui Germani che troviamo nel 1. IV e nel 1. VI del de bello Gallico per sostenere (in: Clio, 1911, B. XI, H. 1, 48-82), allargando l'ipotesi dell’Ebert sulla graduale composizione dell’opera cesariana, che anche la loro pubblicazione dovè esser graduale. Lo Schulz rileva che il libro IV contiene un errore dovuto a falsa informazione, che Cesare era in grado di correggere per ulteriori e più precise notizie attinte sullo stesso argomento quando scriveva il libro VI; vede altro modo di spiegare come mai l’errore sia rimasto se non ammettendo che quando Cesare componeva il libro VI, il IV fosse già pubblicato.

Secondo il Grazianski la contradizione fra i due passi, rilevata dallo Schulz, non esiste; infatti nel cap. 1 del 1. IV si parla di una sola po- polazione germanica, quella dei Suebi; nel 1. VI invece si parla dei Germani in genere. Nell’interpretazione dei luoghi che sembrano indi- care un’annuale emigrazione dei Germani, l’À. si mette in assoluta op- posizione allo Schulz; questi trova un accenno all'emigrazione annuale nel 1. IV, ma non nel VI; il Grazianski, invece, sostiene che le parole

(1) Ital.: N. Graziansgi. Sulla questione delle condizioni agricole degli antichi Germani ai tempi di Cesare.

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[48 -

ΒΩ ΕΟ ΤΙ 8 5.1 ὦν ως anno post alio transire cogunt, {VI, 22, 2) non possono riferirsi che a un’emigrazione annuale, mentre le parole “neque longius anno remanere uno in loco colendi causa licet, (IV,1,7)si riferiscono al fatto che in un popolo come i Suebi, presso i quali gli uomini validi eran divisi in due metà, che si alternavano anno per anno nei lavori delle guerre e dei campi, ogni anno la terra doveva mutar padrone.

Nell'ultima parte del lavoro, raccolte e discusse tutte le testimonianze sui primitivi Germani, mostra, accogliendo l'ipotesi del Hildebrand, che essi devono esser considerati come semi-nomadi.

C. I. CunrAseBnI. 0 cocmagen naceneria r. Oxcupunxra 65 nepeve mpu enxa pumncrar r0cnodemea ev Erunmn (30 1. do P. Xp. - 284 è. no

P. Xp.) (1) (pp. 238-257).

Sul principale fondamento delle notizie che offrono i volumi The Oxyrhynchus Papyri ,, notizie che l’A. rileva con acuta diligenza, rac- coglie e ravvicina sia a quelle più generali che forniscono le ‘opere che trattano di storia egiziana, sia a quelle che su altre città dell'Egitto offrono altri gruppi di papiri, di cui 51 serve quando i papiri di Oxyrh. non gli offrono dati sufficienti, il Singalewic fa un interessante quadro degli elementi che componevano la popolazione di Oxyrh., consideran- dola, nelle tre parti in cui è diviso lo studio, rispetto alla nazionalità degli abitanti, al pagamento dell’imposta personale, all'occupazione dei cittadini.

Sotto l'aspetto etnologico la popolazione di Oxyrh. risulta formata di Romani, Greci, Macedoni (nei primi tempi dell’età romana formano ancora un gruppo etnologico a sè, poi si confondon coi Greci), Cretesi (che formassero un gruppo a farebbe credere l’esistenza di un ρη- τικὸν dugpodov), Persiani (ricchissimi proprietari di terre e capitalisti), Egiziani, Ebrei (numerosissimi, occupati soprattutto nel commercio ; ele- mento torbido e ribelle).

Quanto al pagamento dell'imposta personale l'A. distingue le diverse classi di ἐπικεκριμένοι, i privilegiati a cui era concessa un’'esenzione totale o parziale, dai Ζαογραφούμενοι, che erano obbligati al pagamento integrale dell’imposta (dalle 20 alle 80 dr.).

Principale e caratteristica occupazione degli abitanti di Oxyrh. era l'industria tessile.

(1) Ital.: S. SincaLewi0. Quali elementi componessero la popolazione della città di Oxyrhynchus nei primi tre secoli della Assia romana in Egitto (30 a. Cr. 284 d. Cr.).

Tratta dell’anfora (724%), che, acquistata nel 1870 dal Museo delle B.A., annesso alla I. Università di Mosca, fa parte della collezione, ivi -: esistente, di vasi dell'antica Grecia, contrassegnata col 108. È ripro-

dotta nel Répertoire des vases peints grecs et étrusques del Reinach (t. I, p. 124) ed è considerata una fra le più importanti opere dell’arte vasco- lare dell’Italia meridionale.

Poco valore ha per noi lo studio accurato, ma di mera compilazione, che lA. premette al suo lavoro, trattando dello sviluppo, dei centri di pro- A duzione, delle caratteristiche dell’arte vascolare nell’Italia meridionale; al quale segue una minuta descrizione della pelica che è poi ripro- dotta, nelle sue due faccie, in una tavola abbastanza chiara, inserita nel volume. Le conclusioni degne di nota si riferiscono alla interpreta- zione delle figure e sono le seguenti. Il Reinach nel Répertoîre e il n Gargallo-Grimaldi in Annali dell'Istituto archeologico (a. 1845, pp. 88-50) È considerano questa pelica come un vaso funerario e raffigurano Pro- Li serpina nella figura che campeggia nel mezzo della faccia anteriore, una donna seduta, con accanto un’ancella, che ha in mano una tenia, e vicino due giovani incoronati. L'A. osserva che la donna non ha i distintivi caratteristici di Proserpina, e che d’altro lato, se fosse real. mente Proserpina, mancherebbe ogni rapporto fra la scena centrale e quella superiore, in cui è rappresentata Afrodite in un carrozzino tirato da due amori alati. Rileva poi l'analogia fra le figure della scena cen- trale e un gruppo del fregio di Gjolbasci nel quale, senza dubbio, è rap- presentata Elena coi Dioscuri, e in base a questo felice raffronto, sug- geritogli dal Malmberg, sostiene che la figura centrale della pelica sia appunto Elena coi fratelli e con un’ancella.

Quanto al mito raffigurato nella faccia posteriore il dubbio non è pos- sibile: vi è rappresentato infatti l’incontro di Poseidone e di Amimone.

M. SI. XBocTOBP. 0) coyzansnoni caparmepm acuncnoti mupanniu VI ema (2)

(pp. 458-464).

Combatte l'opinione del Busolt e del Beloch, la quale è poi l'opinione più comune, che la tirannide ateniese si appoggiasse al proletariato, o, per dir meglio, soltanto al proletariato. L’A. cerca di dimostrare che

(1) Ital.: N. Teersagore. Un'anfora pugliese.

(2) Ital.: M. Cavosrore. Sul carattere sociale della tirannide ateniese del VI secolo.

150

se alcuni eupatridi come i Falaridi e gli Alcmeonidi, quelli cioè le cui ricchezze erano impiegate nel commercio, furono i più fieri avversari di Pisistrato e dei Pisistratidi, altri, i nobili che possedevano terre e non capitali, non rifuggirono dall’accordarsi coi tiranni d’Atene.

B. KR. MAXbMBEPrB. Bouns na sonomoi o6wuexm novcons us Tepmo- nruRano xypiana u na 6a3m uss Honw (1) (pp. 514-524).

È una comunicazione preliminare e particolare, a cui l’insigne archeo- logo russo farà seguire uno studio compiuto sui tipi che 51 riscontrano negli oggetti d’oro trovati in Russia. L'argomento non è nuovo, perchè già ne aveva parlato incidentalmente l’A. in uno dei suoi più noti scritti pubblicati nel 1894 (in Materiali per l'archeologia russa, 13); ora vi ritorna con una ricca serie di osservazioni particolari, che ragioni di spazio non ci permettono di riferire singolarmente. Le conclusioni sono le seguenti. Negli ornamenti d’oro dei coltelli provenienti dal Cer- tomlyzki kurgan ,, un tumulo presso Nicopoli, è rappresentata una bat- taglia fra Greci e Persiani: fra i guerrieri greci uno ha notevoli analogie con una statuetta di bronzo, che si conserva a Vienna, con un guerriero nel fregio di Gjolbasci, e con un altro guerriero raffigurato in una pelica nolana, che si trova a Berlino. L’originale da cui derivano queste figure sarebbe, secondo l’A., il ritratto di Milziade dipinto nel Pecile. L’A. esclude con ottime ragioni che il modello sia un’opera ellenistica (un altro vaso nolano, che pure si conserva a Berlino, riproduce, alterato ma riconoscibile, un motivo del Partenone, e questo, oltre alla vivacità delle figure, porta a credere che i modelli di queste anfore fossero tolti da opere classiche notissime): discutendo poi sull’atteggiamento di Mil- ziade, sostiene, contro l’opinione del Benndorf, del Robert e dello Schròder, che l'eroe greco nel Pecile fosse rappresentato nell’atto di incuorare i suoi, non di mostrare il nemico.

Isernia, marzo 1914.

Uco Enrico PaAoti.

(1) Ital.: V. Marmara. Il guerriero negli ornamenti d’oro dei coltelli

del “Certomlyzki kurgan , e nel vaso nolano.

| Grora Fiwscer. Homer. Erster Teil: Der Dichter una seine Welt. Zweite, durchgesehene und vermehrte Auflage. Leipzig-Berlin, B. G. Teubner, 1914, di pp. xvi-460.

Quest'opera, giunta ora alla seconda edizione, conserva, attraverso i notevoli cambiamenti e ampliamenti, il suo carattere conforme alla colle- zione di cui fa parte “Aus deutschen Lesebichern,. Non opera di consultazione, ma libro destinato a esser letto, libro di cui possano gio- varsi anche coloro che conoscono Omero attraverso le traduzioni e vo- gliono avere un'esatta nozione del mondo omerico, del valore dei due poemi, delle numerose questioni che vi si ricollegano. In tutta l’opera l'A. rivela, felicemente contemperate, doti di critico acuto e di divulga- tore elegante; perchè non si limita a riordinare meccanicamente le no- tizie raccolte dagli stessi poemi omerici, ma i dati che si è procurato con la sua ricerca paziente, elabora criticamente sulla scorta delle prin- cipali opere della letteratura omerica e del suo criterio individuale, che gli suggerisce non di rado conclusioni nuove e di indiscutibile serietà.

La prima edizione è del 1908; la seconda offre dal lato esteriore un notevole mutamento : l’unico volume in cui era contenuta tutta l’opera nella prima edizione si è sdoppiato ; le parti III-VI della prima edizione formano un primo volume col titolo che sopra abbiamo riferito; le parti I-II, e cioè la prima Der Inhalt der Gedichte, un ampio indice particolareggiato della materia dei due poemi, e la seconda Erkldrung ausgewiihlter Stiicke, un'esposizione estetico-psicologica di passi scelti dell'Iliade e dell’Odissea, formeranno il secondo volume, che seguirà a breve distanza il primo, notevolmente ampliato rispetto alla parte che occupava nell’economia dell’opera nella prima edizione, perchè la £Er- klirung è stata estesa a tutti i singoli libri de’ poemi omerici.

Il volume, che ci sta innanzi, è diviso in quattro parti, ciascuna delle quali conserva immutato il titolo della prima edizione, e cioè: I Vor- fragen ; 11 Die homerische Welt; Ill Homerische Poesie; IV Die Homer- kritik. Ogni parte è divisa in capitoli, di cui un’Inhaltilbersicht preposta al volume indica sommariamente gli argomenti. Le note si limitano nella grande maggioranza dei casi a richiamare i passi del- l’Iiade e dell’Odissea su cui si fonda l'esposizione o il ragionamento. Poco più di due pagine di Literatur, poste di seguito all'indice, indicano, contrassegnati col numero della pagina, in cui un determinato argomento è svolto, i libri di cui l'A. si è maggiormente servito nel compilare il suo lavoro.

A noi interessa particolarmente la prima parte, nella quale l'A. discute su alcune questioni preliminari, geografiche, storiche e ,riguardanti il

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materiale epico, le notizie su Omero, e il modo di tradizione dei carmi omerici. Vorremmo darne un sunto compiuto, ma per ragioni di spazio ci limitiamo a indicare le conclusioni più notevoli; anzitutto sulla ge- nesiì dei due poemi.

Riguardo all’Iliade, l'A. difende la tradizione. Premessa l’affermazione di una reciproca indipendenza fra il Lied breve, cantato ed essenzialmente lirico, e il poema epico naturalmente ampio e recitato, e con un'assoluta riserva sulle analogie fra i carmi omerici e l’epopea di altre nazioni, egli considera l’Iliade come opera di innegabile unità, scritta da un poeta d’arte, che si vale dei poemi anteriori e abilmente li fonde. Ma- teria dei primi poemi, più antichi e più brevi, la tradizione prosastica dei popoli barbari della Madre Grecia; culla dei canti l’Asia minore settentrionale e in particolare la regione (Smirne, Chio, Focea), in cui viveva una popolazione ionica mista di elementi eolici; autore dell'Iliade Omero, di cui l’A. ammette l’esistenza storica, riconoscendo anche una certa autorità alla vita pseudo-erodotea, raccolta fedele delle leggende, che circolavano intorno al poeta. L’Iliade, soggetta a interpolazioni di vario genere, è giunta a noi attraverso diverse redazioni di cui la defi- nitiva, a torto considerata come l’unica, è quella della Commissione pisistratica.

L'Odissea, opera posteriore, sorta probabilmente nella Madre Grecia e attribuita falsamente all’autore dell’Iliade, non sarebbe, secondo l’A. e avverto che in questo breve sunto mi valgo anche di osservazioni che l’A. ha disperso qua e e che raccoglie, in parte, nell’ultima sezione del volume —, altro che l’ampliamento di una Telemachia in cui un più tardo poeta ha innestato la parte più importante della leggenda di Ulisse; questa risulta, a sua volta, di un complesso di favole, sorte in diverso tempo e largamente diffuse nel popolo greco; favole fanta- stiche e slegate, a cui unità la persona di Ulisse. L’A. le divide in tre gruppi, corrispondenti a tre stadi diversi e successivi nel progresso della navigazione : il più antico ci riporta nell’ancor poco noto mar Egeo, il secondo ha per teatro il mar Nero, il terzo si riferisce ai primi ten- tativi di esplorazione del Mediterraneo occidentale, quando l’Egeo e il Ponto erano troppo noti per alimentar la favola popolare. La terra dei Feaci è Creta, ma il tipo di quel popolo ospitale è costruito con ele- menti fantastici, fra i quali l'A. ravvisa, non so con quanta verisimi- glianza, il motivo così caro e noto ai Tedeschi del Totenschiff.

Notevoli le osservazioni sulla poesia ciclica. L’opera fondamentale del Welcker, secondo l’A., è viziata da un presupposto falso, che cioè 1’ ἐπικὸς κύκλος, di cui parla l’estratto della Crestomazia di Proclo, conservatoci da Fozio, sia da intendersi la serie dei poemi cielici ed omerici. La Crestomazia di Proclo non è che una compilazione mitografica, compiuta

ι di un ‘opera, pure mitografica, più vasta, intitolata il cielo epico, di cui i poemi ciclici non sarebbero che la fonte principale. Ora, dovendo ‘il materiale dei poemi ciclici esser ridotto in forma di trattazione siste- matica, è naturale che sia stato arbitrariamente rifuso dal compilatore mitografo. Giunto a queste conclusioni, l’A., ritenendo che “è compito della scienza ricominciare di nuovo con la ricostruzione dei poemi ci- clici ,, si accinge al nuovo lavoro prendendo in esame quegli estratti i compendiosi di altri poemi, inseriti nella compagine dei poemi omerici. È naturale che resultato di questa ricerca sia una serie di titoli e di ‘argomenti ben diversa da quella del Welcker; d’altra parte l’A., siccome limita l'indagine all’Iliade e all’Odissea, non pretende di proporla come | compiuta. Nella seconda parte (Die homerische Welt) troviamo riuniti e disposti secondo un piano logico, semplice e compiuto, tutti gli elementi che formano il mondo infinitamente vario dell’epopea omerica; materiale ponderoso, che l’A. ha raccolto spigolando in tutti i sensi, con sicura padronanza, nel vasto campo della poesia omerica. Non uno degli innu- merevoli particolari, che possono servire come informazione sul mondo omerico, gli è sfuggito; egli riavyicina, raggruppa, coordina e riesce a fare un vivo quadro del paesaggio omerico; delle caratteristiche psico- à 3 logiche, del genere di vita, delle occupazioni dell’uomo omerico; della società omerica con la sua organizzazione, la sua religione, le sue tendenze. Nella terza parte (Homerische Poesie) VA. rileva ed espone i pregi, le caratteristiche e la tecnica formale della poesia omerica; nella quarta (Die Homerkritik) tratta delle vicende e delle tasi della questione , omerica, nella cui storia distingue cinque periodi: I l’antichità; NI dal D'Aubignac al Woif; III dal Heyne al Lachmann; ιν Liedertheorie,;;. Vidal Lachmann si nostri -. giorni.

Veramente in un libro che dev’essere anche un avviamento per chi non conosce Omero o lo conosce attraverso le traduzioni, sarebbe de- siderabile la più imparziale oggettività; ma l’A., che ha profonda la convinzione dell’unità dell’Iliade, non nasconde un’insanabile avver- sione contro le teorie che fanno dell'Iliade il resultato di un lungo processo di formazione. E questo è un difetto. Chi imparasse a co- noscere la questione omerica attraverso il Finsier si farebbe del- l’opera del Wolf un concetto che non risponde a quello della grande maggioranza degli studiosi. L’opera wolfiana chi non lo sa? rappresenta un periodo oltrepassato nella storia della questione ome- rica, vi è chi non ne riconosca certi difetti capitali; resta tut-

tavia un’opera veneranda e come tale dev’esser riconosciuta anche dai

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154

critici più avversi e dev’esser presentata a chi si avventuri per la prima volta nell’ardua questione. Ma il Finsler, che anche nella prima parte del suo lavoro accenna al metodo e alle conclusioni del Wolf con ironico disprezzo, in quest’ultima parte si accinge addirittura a demolire i Pro- legomena di cui nega la serietà scientifica, irride la serietà apparente, contesta l'originalità, deplora l’importanza che ha avuto negli studi omerici, mettendo per tanti anni la critica su di una falsa strada. Dob- biamo tuttavia riconoscere che il Finsler ha studiato da par suo il pe- riodo prewolfiano della critica omerica; e anche non accettandone le ultime conclusioni condividendo l’acrimonia contro il Wolf, non pos- siamo non seguire senza un grande interesse la disamina delle opere del secondo periodo; indagine acuta e dottissima, in cui è guidato dal desiderio di dimostrare che “in conclusione i Prolegomena non conten- gono neanche un sol pensiero originale ,.

Invece ci fa meraviglia che l’A. nella prima edizione abbia assoluta- mente trascurato la filologia italiana moderna, la quale nella questione omerica, a cui ha contribuito con opere poderose, rappresenta nel suo complesso proprio quella tendenza di cui il Finsler è così ardito pro- pugnatore. È vero che nella seconda edizione l’A. ha riparato a questa gravissima mancanza, ma invece di rifondere alcune parti del suo lavoro, tenendo conto dei lavori italiani, o meglio, non tedeschi, si limita a inserire la notizia schematica dell’opera e dell’autore italiano nella lista degli studiosi di Omero, lasciando immutato il resto. Così non troviamo neanche un accenno al Comparetti nella prima parte, dove si tratta della Commissione pisistratica, argomento di cui il nostro grande elle- nista aveva trattato proprio nel IX volume di questa Rivista sin dal 1881; allo stesso modo attribuita al Heusler (la cui opera Lied und Epos è del 1905) la dimostrazione dell’assoluta indipendenza fra il Lied popo- lare e l'epopea omerica, il cui merito spetta ‘invece all’opera capitale del Comparetti sul Kalewala; e per non parlare solo di opere italiane, trascurata, per quanto menzionata, l’opera del Bréal: Pour mieux con- naître Homère, che, non ostante una certa intemperanza di forma e la leggerezza di alcune affermazioni, avrebbe offerto all’A. una serie di acute osservazioni per modificare o approfondire quant’egli dice sul ca- rattere aristocratico e cortigiano dell’epopea omerica e sul problema della scrittura, delle arti plastiche, delle monete in Omero.

Dobbiamo vederci il solito ingiustificabile scetticismo dei filologi ger- manici per le produzioni scientifiche dei popoli latini? Comunque sia, ΟἹ auguriamo che sotto quest’aspetto una nuova edizione possa esser più compiuta e più giusta. E che il lavoro arrivi presto all’onore di una terza edizione non dubitiamo, tanti ne sono i pregi e così grande ne è l’utilità, come opera di divulgazione, di avviamento e.di sintesi. E ap-

pr: miamo il desiderio che venga presto tradotta in Italia, dove non man- A

9g | cherebbe di aver oneste e liete accoglienze. A È Isernia, maggio 1914. d S Ugo Enrico Pao. È “d ΣΝ E 3 È: N

n:

ὃν

Herculanensium voluminum quae supersunt. Collectio tertia. Tomo I. Di- E λοδήμου περὶ κακιῶν (Pap. 1457) - Φιλοδήμου περὶ Favdrov A τ

(Pap. 1050) editi da Domenico Bassi. Milano, Hoepli, 1914, di pp. τι-Τ|,

con 10 tavole fotocollografiche e 3 fotocollografie in pagina. i sod

Atteso con interesse unanime dagli studiosi, l’attesa sarebbe stata

così lunga se varie contingenze non ne avessero ritardata di quasi due Ε

anni la pubblicazione, è uscito il primo tomo della Collectio Tertia $

dei Papiri Ercolanesi, a cura di Domenico Bassi. L’intiera collezione È comprenderà diversi tomi, che usciranno “senza termine fisso ἐν

e di varia mole, a spese della R. Accademia di Archeologia, Let- Ρ

tere e B. A. di Napoli, sotto la direzione degli accademici Comparetti, i δ

De Petra, Martini, Cocchia, Sogliano e Bassi. La Prefazione, posta come oh programma a capo del tomo I, e l'edizione dei due papiri 1457 e 1050, È contenuta in questo primo tomo e corredata di tavole fotocollografiche, È c'informano minutamente, con l'enunciazione e con l'applicazione, sui ca criteri e le modalità con cui sarà condotta quest'opera poderosa. K Della quale mal giudicherebbe chi la ritenesse o una prosecuzione, di

o una riedizione delle due Colleetiones anteriori, a cui non possiamo A

fare a meno di accennare perchè si comprenda il valore e l’importanza di dell’opera che ci sta dinanzi. Sarebbe fuor di luogo ed eccederebbe i K

ca limiti che ci siamo imposti accennare, anche sommariamente, alla storia ἢ, dei Papiri Ercolanesi e dell’Officina; specie in questa nostra Rivista, Κι È che è stata larga di ospitalità ai lucidissimi articoli del Bassi; ai quali Σ e alla magistrale Relazione sui Papiri Ercolanesi del Comparetti (in N

La villa Ercolanese dei Pisoni) rimandiamo i nostri Lettori; osserviamo

solo che si può ormai ritenere che il materiale veramente utilizzabile di ;

tutti i papiri ritrovati carbonizzati sotto le lave di Ercolano sia rappre- se sentato senz'altro dai papiri svolti sin qui. Che l’opera di svolgimento possa

esser proseguita ancora e con buon esito purtroppo non è lecito sperare : 4 il Bassi nell’ultima sua lettera aperta al Direttore della Rivista , τῇ δ (ann. XLI (1913), fasc. 2°) faceva balenare un fioco lume di speranza, τῇ ; accennando a un tentativo che sarebbe stato fatto su uno dei papiri ἯΝ τ

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ἐνῷ

Tr: ARSA ATO

156 »

non svolti da un insigne chimico di Napoli; ma sui resultati di questo esperimento faceva tali riserve, che non credo di dover ripeter l’eschileo: buo, κακὸν μὲν πρῶτον ἀγγέλλειν κακά, annunziando che il tentativo è fallito, anzi, per esser più esatti, non è stato fatto che in parte per le previsioni catastrofiche che le prime prove parziali suggerirono a chi do- veva tentar la prova. Ed era, fra i non svolti, uno dei meglio conservati !

È noto che i lavori di svolgimento e d’interpretazione dei Papiri Ercolanesi cominciarono subito dopo il loro rinvenimento e furono pro- seguiti con una certa regolarità durante l’ultimo secolo del dominio borbonico, ancorchè procedessero con lentezza e con criteri non rigida- mente scientifici. Frutto di questi due lavori, per i quali furono spesi circa due milioni, furono, oltre il resultato dello svolgimento, la Collectio Prior, la Collectio Altera, che, per quanto pubblicata negli albori del regno d’Italia, rappresenta anch'essa il lavoro degli accademici borbonici, e vari disegni rimasti inediti, ai quali, naturalmente, non pochi altri ne sono stati aggiunti in seguito.

La Collectio Prior così è invalso l’uso di chiamarla, per distinguerla dalla successiva ; il suo vero titolo è: HMerculanensium voluminum quae supersunt. Neapoli, ex regia typographia uscì in undici volumi (manca il VII, il V è diviso in due tomi) dal 1793 al 1855, con varie interru- zioni, dovute in massima parte agli avvenimenti politici del tempo, e contiene diciannove papiri : facsimili, trascrizione, traduzione in latino, introduzione, note e commento, in proporzione diversa nei diversi vo- lumi. E siccome varii furono i collaboratori, vario è anche il valore di questa prima serie, in cui “il buono, il mediocre e il pessimo scrive il Comparetti si avvicendano in modo singolare ,. In generale poi l'edizione, come tecnica; è ben lontana dal rispondere alle esigenze della critica moderna, ed è, per l’enormità dei suoi volumi in folio, malage- vole e, come aspetto tipografico, abbastanza brutta.

Gli accademici borbonici si erano posti come principio di pubblicare solo i papiri più lunghi, i meglio conservati e che portassero il nome dell'autore e dell’opera, trascurando i papiri meno interessanti e i fram- menti da cui nulla fosse da ricavare, per quanto e degli uni e degli altri facessero eseguire le incisioni in rame. La Collectio Altera pre- cisamente: Herculanensium: voluminum quae supersunt collectio altera. Neapoli, e Museo publico undici volumi pubblicati dal 1862 al 1876, non è che la pubblicazione di quelle tavole di rame, fac-simili di papiri inediti che gli accademici del periodo borbonico avevano fatto incidere e lasciato da parte. Questa raccolta differisce dalla prima in ciò che non altro che la riproduzione dei disegni dei papiri, già incisi. in rame, quindi senza trascrizione, traduzione, ecc.; comprende un gran numero di frammenti inservibili; come valore è molto inferiore alla

157

prima ; infatti i disegni in essa riprodotti sono generalmente scorretti;

eseguiti da disegnatori che non conoscevano se non l’alfabeto greco si trovano a volte alterate stranamente le forme più comuni e più ovvie e non riveduti accuratamente sugli originali, contengono errori, spesso gravissimi, di lettura o di trascrizione. È inutile avvertire che non sulla Direzione del Museo, che ordinò la pubblicazione delle tavole incise,

ma su chi nel periodo anteriore ne permise l’incisione ricade la respon- sabilità di tale scorrettezza. È da notare che la C. A., anch’essa volu- minosa come la prima, ne è, come aspetto esteriore, molto più bella. Du Ora, se si pensa che non ostante le due voluminose pubblicazioni, molti disegni erano rimasti inediti e che per giunta lo svolgimento dei di papiri continuò a dare risultati notevoli, se non paragonabili a quelli già ottenuti, 51 comprenderà come per tempo si cominciasse a parlare. eo di una Collectio Tertia. È naturale che dapprima una CoMlectio Tertia | s’immaginasse come una continuazione delle due Collectiones anteriori, cioè una terza serie, che comprendesse l’edizione dei disegni rimasti inediti. Erano questi disegni i più scorretti, perchè non mai sottoposti x |a quella revisione, sia pure sommaria, da cui doveva dipendere l’ordine di «| d’incisione per quei disegni, che poi videro la luce nella C. A.; e ci si preoccupava della possibilità che si ripetesse lo sproposito, già commesso : nella C. A., pubblicandoli tali e quali. Il Comparetti, nella sua Πεῖα- zione (1878), espose i criteri fondamentali da seguire in questa nuova

ὭΣ

raccolta e cioè: minori dimensioni dei volumi; accurata revisione dei ὧν

͵ disegni sugli originali; esclusione dei frammenti insignificanti; un ap-

j Γ᾿ parato paleografico e critico, che accompagnasse il disegno corretto ; __—abbandono del sistema di riproduzione per mezzo di incisioni in rame,

a cui si sarebbe dovuto sostituire la riproduzione in fotolitografia. Cri-

teri in sostanza non diversi espose il Crònert nel suo breve articolo : Ueber die Erhaltung una die Behandlung der herculanesischen Rollen (in Neue Jahrbiicher fiir das klassische Altertum, Oct. 1900). Ma intanto i “5% limiti, entro i quali si pensava di condurre questa C. 7., si andavano allargando. A mano a mano che progredivano gli studi sui Papiri EÉr-

colanesi si rilevava sempre più l'insufficienza della C. P. e della C. A.

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ATTIRA TETTO la Pat DI SEI ; Ξ- tt SAR alli”

e sempre maggiore appariva la necessità della diretta ispezione del- ᾿ς

È l’originale, tanto più che si notò che i disegnatori avevano spesso tra- x . scurato lettere o tracce di lettere facilmente riconoscibili. Per giunta il si progresso delle arti fotomeccaniche rese possibile la riproduzione diretta ὟΣ del papiro ercolanese, ancorchè carbonizzato e per conseguenza perfetta- i

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Ε mente nero. Abbandonata quindi l’idea di una prosecuzione delle due rac- È colte anteriori si assegnò alla C. 7. il duplice scopo, che troviamo enunciato L

[ nella Prefazione al Tomo primo: “dare la riproduzione fotomeccanica ti degli originali, presentare la lezione di questi senza gli errori delle due τῇ

| ml i dd de en Rena "EL e dea A na TI RZ Ra] SO, ce GIOTTO ps VERE IA sE τὸ E gio ita ἘΠῚ ΤΡ UT ia nia de ai ἘΣ pe, x Ci Ἷ ; x SCO TASE E to RS

158

precedenti collezioni ,; estendendo il lavoro non solo a tutti i papiri inediti, trascurando i frammenti inservibili, ma anche a “quelli ripub- blicabili della Collectio Altera (quindi esclusi anche qui i frammenti senza valore) e (a) quelli della Collectio Prior non ancora venuti in luce in nuove edizioni condotte sugli originali ,.

La novità, e insieme uno dei molti titoli di superiorità di questa sulle ne raccolte precedenti, consiste appunto nel fatto che essa ci la ripro- I duzione diretta dell’originale.

Che dei Papiri Ercolanesi si potesse ottenere la riproduzione foto- meccanica si è per molto tempo escluso ; si pensò, è vero, ad adoperare la fotografia, ma per riprodurre i disegni, non già per riprodurre gli originali. Due erano infatti le ragioni che portavano a ritener non foto- grafabili questi cimeli: il colore e la condizione della superficie. Il papiro

sa ercolanese, che è carbonizzato, si presenta alla lettura, tranne in rari casi, con tracce nere su di un fondo nero : la lettura è possibile, quando si trovi un conveniente angolo di luce, solo perchè il fondo ancorchè nero è più lucido delle lettere : queste invece sono sempre opache, color SI nero-fumo. La superficie poi, ondulata (perchè il papiro ercolanese ha È perduto la flessibilità, si può render piatto, come i papiri egizii, che possono anche esser racchiusi fra due vetri quasi aderenti) e per giunta rugosa, rotta, raggrinzata, tutta screpolature e irregolarità, rende im- possibile trovare un angolo di luce che sia giusto per tutti i punti della superficie. I meno pessimisti ritenevano che solo i pochi con fondo non perfettamente nero potessero esser fotografati. Qualche tentativo οἱ fu: di riproduzioni fotografiche di papiri, pubblicate anteriormente alla C. 7., che io mi sappia non ve ne sono che tre; la più antica è del 1884, pubblicata dal Comparetti in Museo italiano di antichità classica; una seconda, che è senza dubbio la migliore di tutte, pubblicata dal Bassi in questa Rivista (ann. XXXVIII (1910), fasc. I) sarebbe stata la sola, per l'interesse che vi pose personalmente lo Stampini, il quale avrebbe voluto che le edizioni di papiri apparse nella Rivista fossero corredate di tavole fotografiche; disgraziatamente quei papiri eran malconci che una riproduzione, passabile, non si potè ottenere —; un’ul- tima del 1911, che accompagna il libro decimo del περὶ κακιῶν di Fi- lodemo edito dal Jensen. Notevolissime, ma inedite, quelle eseguite dal Losacco, fotografo del Museo Nazionale di Napoli, sotto la direzione del Bassi, che si possono esaminare all’Officina, dove si conservano. Ma riproduzioni incomparabilmente superiori si ottennero mediante uno speciale procedimento inventato appositamente dall'ingegnere fio- rentino Arturo Alinari: non è esagerato dire che l'invenzione segna il principio di un’era nuova nella storia dei nostri papiri e supera di gran ΄ lunga le più audaci previsioni che lo stato dei P. E. avrebbe potuto

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anni

consentire; poichè mediante i ritrovati dell'Alinari anche i papiri, che hanno nero il fondo e nere le lettere, offrono nella riproduzione lettere scure su di un fondo chiaro,: le tracce della scrittura risaltano meglio nella fotocollografia che non nell'originale. Di tali riproduzioni sarà ap- punto corredata la Collectio Tertia.

Naturalmente non si deve chiedere alla fotografia ciò che essa non può dare. Nella lettura di questi papiri, la cui superficie è ondulata, si spesso il caso che l’angolo di luce, che è opportuno per una lettera, non sia ugualmente opportuno per un’altra, che pur le sia vicina e anche la preceda o la segua immediatamente. Avendo dinanzi l’originale può quasi sempre, con leggeri ma continui movimenti della tavoletta o della testa, trovare per ogni lettera la sua vera luce: questo vantaggio in una riproduzione fotografica deve andare addirittura perduto; e queste fotocollografie Alinari, non ostante che rappresentino quanto di meglio si possa ottenere con la fotomeccanica, non dispensano in via assoluta ci preme di notarlo dall’autopsia del papiro. La renderanno non strettamente necessaria, ma inutile no; almeno finchè il lento e inevi- tabile deperimento, a cui sono soggette le tracce di scrittura nei P. E., non tolgano all'originale anche quest’ultima superiorità sulla riprodu- zione, la quale, d’altra parte, ha sul papiro il vantaggio incalcolabile di stancar meno la vista e render così possibile un maggior tempo di lavoro proficuo.

La C. T. darà riprodotti in fotocollografia tutti i papiri fotografabili; dei non fotografabili darà i disegni accuratamente riveduti; la riprodu- zione dei disegni verrà allegata anche quando l’originale sia scomparso e quando “il disegno contenga più che non si veda nel papiro ,.

Il Tomo primo contiene l’edizione di due papiri : il 1457 e il 1050. Il primo, in massima parte inedito (parziali edizioni ne curarono il Crònert in Kolotes und Menedemos pp. 198 sgg. e il Bassi, nell’ann. XXXVII di questa Rivista), fa parte dell’opera filosofica di Filodemo, intitolata περὶ κακιῶν ; ne è argomento la xolZaxeia; mancano gli elementi per determinare quale dei diversi libri in cui l’argomento era trattato sia quello contenuto nel pap. 1457. Il papiro 1050, uno dei meno lacunosi nella parte che ci rimane, conserva il quarto libro dell’opera filodemea περὶ davdrov; ne furon già fatte due edizioni; la prima è dell’Otta- viano, in C. P., l’altra di gran lunga superiore del Mekler. Ora il Bassi ha potuto valersi e se ne è valso da par suo di tutti i contributi, che dopo l’edizione del Mekler furon portati alla ricostruzione del testo da filologi quali il Blass, il Diels, il v. Arnim, il Buresch, il Crònert; e per giunta ha raccolto dall’ispezione diretta del. papiro il Mekler non vide mai l'originale un numero non esiguo di elementi che gli

hanno data la possibilità di rettificare o integrare la lezione, nei disegni alterata o manchevole, di confermare, con la scorta del papiro, le altrui congetture, di presentarne delle nuove.

Precede l’edizione di ciascun papiro una doppia introduzione, di cui la prima parte contiene un'informazione ricchissima di particolari e di dati preziosi su le condizioni e le sorti del papiro, la seconda una no- tizia dell’opera in esso conservata e degli studi di cui è stata oggetto e varie osservazioni, fra cui molte originali sulle relazioni fra il papiro edito ed altri Papiri Ercolanesi.

Dire della diligenza, illuminata e scrupolosa, con cui l'edizione è con- dotta, della bontà delle note paleografiche, critiche e filologiche, dell’op- portunità e probabilità delle integrazioni (1), nelle quali lA. fu guidato da acume non disgiunto da prudenza e da una conoscenza mirabile del greco e della lingua filodemea, ci porterebbe a protrarre di troppo questa’ già lunga recensione. Solo ci sia lecito di esprimere il nostro vivo compiacimento per lo splendido inizio di questa Collectio Tertia, pari alla lunga aspettazione, e attestante il mirabile e rapido sviluppo a cuì son giunti gli studi papirologiei in Italia.

Isernia, novembre 1914. Ugo Enrico Paott.

(1) Naturalmente la ricostruzione di un testo è opera collettiva e al contributo, veramente poderoso, che vi porta VA., altri contributi ver- ranno in maggiore o minor copia ad aggiungersi; ma è certo che anche di questi la critica dovrà essere in parte riconoscente al Bassi, che col suo copiosissimo e accuratissimo apparato bibliografico offre una sicura guida alla ricerca degli studiosi. Mi riservo di presentare e discutere nel prossimo numero alcune integrazioni, che mi sembra di potere op- porre a quelle del Bassi; qui, per mancarza di spazio, mi limito a pro- porne alcune rimandandone la discussione al fascicolo di aprile. Si ri- feriscono ai framm. 11 e 12 del pap. 1457, che sono in condizioni, se non disperate, tristissime. Vorrei che le mie proposte, mediante le quali è possibile ricavare un po’ di senso dai due frammenti, fossero una prova, valgano quel che valgano, del rischio che si correrebbe a esclu- dere i frammenti, così detti inservibili, con criterio troppo dra- coniano. Per parte mia non saprei lodare abbastanza il Bassi di aver incluso il più possibile.

framm. 11. lì. 1-2. B(assi): 7]eg0g704.....C...; propongo: ]eg- ρησι[αζόμενοι καὶ Ὁ] (leggo il conservatoci da d.). 1. 3: B.: ITZC; propongo: ...(v)res. 1. 4. B. : ...II0K.....NEIMNEI (traserivo solo quanto si legge in p.); propongo: ...&4](M)de......N εἰπεῖν (συνειπεῖν Ὁ). L 6. B.: oZé[a]; propongo: οἱ d[3]. —- 1]. 7-8. B.: doxovr|...; propongo: δοκοῦνϊται (o δοκοῦντες ?). 11. 9-10. B.: @veyor|...; propongo: ἄνέ- χονΐτες.

framm. 12. 1. 5. B.: DPEN...; propongo: φθεί(ν)..- (cfr. 1.1 wvy-). 1. 6. B.: .PO...POYN...; propongo : π]ρο[αι]ροῦντ[ αἰ].

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Δπτησα Rosempera. Der Staat der alten Italiker. Untersuchungen iiber die urspriingliche Verfassung der Latiner, Osker und Etrusker. Berlin, Weidmann, 1913, di pp. vi-142.

Questo breve libretto ha il valore di una scoperta storica. Qualche rilievo importante su la costituzione degli antichi stati italici era stato fatto per iscorcio dal Beloch (Der italische Bund unter Roms Hegemonie) ; e alcuni dati fondamentalissimi erano stati posti dal Meyer a base della sua geniale ricostruzione della evoluzione dei gruppi politici nell’anti- chità greco-romana (Geschichte des Alterthums, II, 484 sgg.). Ma è la prima volta che si intraprende, in base ad una salda preparazione filo- logica e ad uno spoglio accurato delle iscrizioni antichissime, una inda- gine di ordine generale, tanto più preziosa per il romanista in quanto l’autore, a cui pure non è ignota l’audacia della ricostruzione storica, ha qui scrupolosamente evitato di sovrapporre all’analisi dei documenti la sua personalità, e di trarre i suoi risultati a conseguenze per la storia del diritto pubblico romano. La rinunzia non può essere definitiva, in un giovane studioso che appunto alle origini e allo sviluppo degli isti- tuti politici di Roma va dedicando tutta la sua attività; ma era intanto preferibile offrire soli all’indagine ulteriore degli storici e dei giuristi i dati rilevabili su gli stati che precedettero e circondarono Roma, an- zichè farli servire immediatamente da materiali di ricostruzione nel campo dove più sono accese le dispute e discordi le tendenze. E le pagine meno felici sono forse quelle in cui l’autore ha voluto sorpassare questo limite.

I. Il cémpito più vasto e più attraente era quello di determinare per ciascuno degli antichi stati o, meglio, per ciascun tipo etnico di stato cittadino l’organizzazione della magistratura suprema; e a questo compito è dedicata la maggior parte del volume. Il R. ha distinto felicemente due gruppi: nel primo, che è costituito principalmente dalle comunità osche ed umbro-sabelle, la magistratura è diarchica; nel se- condo, rappresentato esclusivamente (o quasi esclusivamente) dalle città etrusche, prevale la magistratura monarchica del dittatore. Ma la ma- gistratura diarchica non esprime per necessità eguaglianza di posizione fra i due magistrati supremi, e quindi collegialità nel senso romano ; anzi le comunità osche ci presentano i due meddices eponimi come ma- gistrati di grado diseguale: al meddix tuticus (tuvtitis = publicus), summus meddix secondo Ennio (298 V.), si contrappone un secondo meddix mi- nore, la cui posizione sembra designata chiaramente dalla iscrizione apd. Conway, Italic dialects, I, n. 117, con le parole medi& minive (= in med-

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 11

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dicia minore). Disgraziatamente, non è possibile determinare se un ana- logo rapporto di subordinazione fosse fra i due magistrati supremi delle più antiche comunità umbre e sabine: per le comunità umbre, nulla dicono di preciso le iscrizioni intorno al rapporto fra i due marones; e per le comunità sabine l'indagine è resa ancora più incerta dal fatto che tutti i magistrati, maggiori e minori, si presentano riuniti nel col- legio degli octoviri, nell'interno del quale sono poi divisi per coppie secondo le speciali competenze.

La posizione più caratteristica, a questo riguardo, è quella delle città latine : le quali si presentano distinte in due serie, secondo che sia su- premo magistrato il dittatore o una coppia di pretori. La ragione di questo fenomeno è stata osservata perspicuamente dal R.; il quale ha osservato che le comunità rette da praetores (come Preneste e la comu- nità dei Laurentes Lavinates) riproducono il regime normale delle orga- nizzazioni politiche italiche, e debbono quindi esser considerate come le più conformi al tipo originario latino, mentre le comunità rette da dictatores (quali Aricia, Lanuvium, Nomentum, Alba) sono quelle che più vivamente hanno sentito l'influenza (e forse l'invasione) dei vicini etruschi.

Fra le città latine organizzate secondo il tipo italico della doppia magistratura, il R. non esita a segnare in prima linea Roma: Das alte Rom war ja selbst eine Latinerstadt, und da ist es nicht wunderbar, dass wir seine Institutionen auch in anderen Gemeinden des gleichen Stam- mes finden , (p. 72). E altrove: Nach der Vertreibung der Kénige wihlte man nicht die Jahresdiktatur, wie Alba, sondern man stellte ein Beamtenpaar an die Spitze der Gemeinde, wie es die Osker taten, und wie sich vielleicht schon vorher andere latinische Republiken or- ganisirt hatten, (p. 81). Ora, queste dichiarazioni non possono essere accolte senza dubitare : il R. sa benissimo, ed esplicitamente dichiara, che in Roma si inerociarono le influenze di ogni parte d’Italia , (p. 81), che cioè nella città del Tevere si trovarono riunite e contemperate la dittatura etrusca e la duplice magistratura italica, e che il rapporto di collegialità fra i consoli dell’epoca storica non ha nulla di comune col rapporto fra il meddix tuticus e il meddix minor. Ed è appunto questo contemperamento delle più varie tendenze costituzionali la fonte dei più gravi problemi della storia romana: se Roma sia latina o etrusca; se la sua prima magistratura repubblicana sia la dittatura o il consolato ; se il consolato stesso sia sempre stato organizzato secondo quel cosid- detto principio di collegialità, quella dualità nell'unità che la scolastica di certi positivisti moderni erige a mistero fondamentale della sua re- ligione.

Ho avuto recentemente occasione di esprimere, intorno alle due prime

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questioni, il mio punto di vista: che cioè Roma sia città etrusca, e che . dagli etruschi abbia ricevuta la magistratura dittatoria, sostituita dalla

pretoria in seguito allo sviluppo storico che fece di Roma una città latina È. (Le genti e la città [estr. dall’ Ann. Univ. Messina, 1913-14], p. 64 sgg.) (1). 3 Ora non sarà inutile porsi anche l’altra questione: se cioè anche Roma ἐξ abbia conosciuto una subordinazione gerarchica dell’uno fra i due prae- e tores all’altro, nel senso in cui questa subordinazione è stata osservata τῆ: per i meddices. n Ora, basta pensare a una contrapposizione fra un praetor maior e un ve δι praetor minor, per sentire energicamente richiamato il contrapposto fra consolato e pretura. La terminologia delle iscrizioni osche sembra ripe- δ tersi fedelmente in Festo, p. 161: “È Maximum praetorem dici putant alii : eum qui maximi imperii sit, alii qui aetatis maximae; pro collegio F 4 quidem augurum decretum est, quod in salutis augurio praetores maiores et minores appellantur, non ad aetatem, sed ad vim imperii pertinere 9. in che senso Festo intendesse, di fronte alla organizzazione politica del suo tempo, la vis imperii diversa nei diversi praetores, e se in questa i i denominazione egli ritenesse compreso anche il console, è difficile dire; 4 ma non è dubbio che le vecchie formule augurali da lui commentate x %

risalgono al tempo in cui il nome di praetores designava anche i consoli (ctr. Mommsen, Dr. publ., III, 86).

Del resto, è ben nota la concezione romana, che fa del pretore un collega minor dei consoli (Mommsen, III, 221 sg.), e caratteristica sopra ogni altra la distinzione posta da Messalla (apd. Gell. 13, 15, 4) fra il maius ed il minus imperium : Imperium minus praetor, maius habet consul, et a minore imperio maius ... rogari iure non potest , ; cfr. Cicer., pel e ad Att., 9,9,3 (... quod maius imperium a minore rogari non sit ius ...) A e Mommsen, III, 144, n.4. Ora questa concezione non trova luogo per le altre magistrature romane; le quali tutte, ordinarie e straordinarie, sono considerate come perfettamente indipendenti l’una dall’altra. E il nome stesso di praetor, che, attribuito originariamente a ciascuno dei τ generali della repubblica, è successivamente diventato il nome proprio del magistrato giusdicente, spinge a credere che la pretura (giurisdizio- nale) non sia stata creata con la legge che la tradizione ascrive al 368, ma sia il residuo storico delle antiche funzioni di uno dei pretori, e precisamente del praetor minor.

Gran parte delle osservazioni accennate è stata posta dal De-Sanctis

(1) Diversamente, ora, Soltau, Hermes, XLIX, 352 sgg.; il quale, ela- borando idee già più volte espresse dagli studiosi, vede nel dittatore be il comandante supremo delle truppe del foedus romano-latino.

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164

(St. dei rom., I, 405 sgg.) a base della sua teoria sul consolato : secondo la quale i consoli (cioè i praetores nel senso originario) non sarebbero stati due ma tre, dei quali uno sarebbe stato successivamente ridotto alla funzione di magistrato giusdicente con imperium limitato al governo della città (pr. urbanus nell'antico senso della espressione). La tesi non ebbe fortuna, soprattutto perchè contraddetta dai fasti, che danno fin dalle origini due soli magistrati eponimi; ed urta ora anche contro i risultati del R., i quali, mentre mostrano prevalente negli antichi stati italici la magistratura diarchica, non adducono esempii notevoli di triarchia (1). Ma resta il grave peso delle osservazioni svolte dal De-S. su la posizione del pretore; ed esse conducono a cercar le origini della pretura romana in un collegio a tipo osco, nel quale cioè l’uno fra i due magistrati abbia avuto un potere preponderante sopra quello del- l’altro.

Non mancano nelle nostre fonti segni preziosi di questo originario rapporto fra i due pretori. Tale ad esempio la dichiarazione che ci viene fatta da Livio (II, 1, 8) in riguardo ai poteri dei primi magistrati re- pubblicani: Omnia iura, omnia insignia primi consules tenuere. id modo cautum est, ne, si ambo fasces haberent, duplicatus terror vide-

(1) L'unico esempio che si può raccogliere dai dati che il R. presenta è dato dalla triplice edilità, vigente in Tuscolo e probabilmente per imitazione nelle comunità volsche di Arpino, Fondi e Formia (Ro- semberg, p. 4 sgg.). La posizione rispettiva dei tre edili non è sempre eguale: mentre per le comunità volsche risulta chiara la preminenza di uno fra i tre (aedilis solus) sopra gli altri due, per Tuscolo le iscrizioni (e specialmente quella edita da Vaglieri, Not. degli scavi, 1905, p. 271) mostrano due fra i tre edili sopraordinati, come aediles quinquennales, all’edile minore. Solo quest’ultimo caso, fra gl’innumerevoli presentati dal R., darebbe una magistratura di tipo analogo a quello che il De-Sanctis suppone per Roma antichissima; ma è già molto probabile che i due aediles quinquennales, che incontriamo solo in iscrizioni tardive, siano uniformati al modello consueto dei duoviri i. d. dei municipii romani; e d’altra parte la magistratura degli edili, della quale il R. riafferma con poderosi argomenti l’origine sacrale, non può servire da pietra di paragone per le magistrature sorte come tali. Le osservazioni del R. sulla triplice edilità hanno già suscitato discussioni molteplici: mentre il Leuze (Hermes, XLIX, 113, n. 2) interpreta le iscrizioni tuscolane come relative a una duplice e non triplice edilità, il Kornemann (K%o, XIV, 193 sgg.) considera la Dreibeamtenverfassung come la forma originaria, risalente all’età precivica dei pagi. Se anche quest’ultima ipotesi fosse incontrovertibile (e attualmente sembrano in realtà assai scarse le prove documentali), non si potrebbe farne applicazione alla costituzione ro- mana, che muove dalla monarchia e alla sua organizzazione classica perviene attraverso la dittatura. i

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retur. Brutus prior, concedente collega, fasces habuit...,. La dichiara- zione è notissima; e la tradizione relativa, che trova espressione in molti altri luoghi degli antichi storici (raccolti apd. Kuebler, in Pauly- Wissowa, v. Consuln: IV, 1, 1118), era già intesa al tempo di Cesare come relativa a un turno nell’esercizio di certi poteri indivisibili; ma, di fronte al fatto che la regola dell’alternazione dei fasces era già in de-

suetudine all’inizio delle nostre testimonianze veramente storiche, è le- cito domandarsi se essa non conservi piuttosto il ricordo di un’antica supremazia dell’un console sopra l’altro. Tanto più che il potere di coércitio, del quale appunto furono strumento e poi simbolo i fasces (cfr. Mommsen, II, 1sgg., ed ora Rosemberg, p. 84 sgg.), non si può sup- porre spettante pro tempore a questo o a quello dei consoli, senza far cadere nel nulla il principio della pari potestà di entrambi. Ma vi è una testimonianza ancora più preziosa; ed è data dal testo dell’antica legge de clavo figendo, riferito da Liv. VII, 3,2: “ut qui praetor maxi- mus sit idibus septembribus clavum pangat ,. Ho detto altrove (2. c., 69) che questa frase, presupponendo un solo praetor maximus, non può es- sere stata pensata e scritta in un’epoca in cui vigesse fra i praetores il principio della par potestas; e cercai allora di spiegarla supponendo che vi fosse originariamente nominato il magister populi (= dittatore). Ora penso che questa congettura non renda ragione delle strane parole del testo: in epoca storica, al magister populi sarebbe stato sostituito il consul, o praetor che dir si voglia, non mai il praetor maximus, che non esisteva più. La legge invece, così com'è scritta, contiene la più chiara affermazione che in un certo momento il praetor maximus è esi- stito, che cioè non è sempre stato eguale l’imperium dei due supremi magistrati della repubblica.

In quest'ordine d’idee, la riforma che va sotto il nome di C. Licinio e P. Sestio, e che è riferita dalla tradizione al 367 av. Cr., e la riforma complementare riferita all'anno successivo, possono trovare una spiega- zione nuova. Le riforme non intaccarono il rapporto fra pretorato mag- giore e minore; ma, mentre lasciarono unitaria la magistratura del pr. minor, raddoppiarono il pretorato massimo, organizzandolo su la nuova base della pari potestà e della intercessio. La ragione politica che la tradizione assegna alla legge anche di questo principio della inter- cessio la giustificazione più evidente: era il principio che aveva rego- lato fin dalle origini il rapporto fra le magistrature patrizie e le plebee, ed era naturale che lo si trasportasse nel pretorato, mentre diventava, per la pacificazione della lotta fra le classi, magistratura patrizio-plebea.

Non certo tutti i problemi sono risolti per questa via: soprattutto resta incertissima la determinazione del momento storico della succes- sione del pretorato alla dittatura, e del pretorato patrizio-plebeo all’an-

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tico pretorato patrizio. a questa determinazione cronologica è pos- sibile procedere senza una rinnovata indagine intorno all’autenticità dei fasti (1).

II. Non solo le magistrature supreme della dittatura e del consolato trovano negli antichi stati italici la loro corrispondenza; ma anche le altre magistrature romane, salvo la questura che è decisamente indigena. Anzi in molti casi la ricerca condotta su le fonti delle comunità italiche illumina di nuova luce le istituzioni romane.

Fra le più belle indagini del R. è quella su l’edilità. Che gli edili siano originariamente i sacerdoti del tempio plebeo (prima di quello di Diana [efr. Rosemberg, Hermes, XLVIII, 371 sgg.], poi di quello di Cerere), è cosa nota; ma il passaggio dalla funzione sacerdotale alla politica è ancora immerso nell'ombra. Come non offrono nessun lume le infinite comunità che la costituzione municipale ha fornito di edili, nemmeno possono offrirlo le comunità di Arpino, di Fondi e di Formia, che hanno mutuato dal di fuori, e precisamente da Tuscolo, il sistema dei tre edili. Ma Tuscolo stessa, che è retta da tre edili, pre- senta in varie iscrizioni (spec. CIL. 2603, 2628, 2636) anche degli edili sacerdoti, preposti ai sodales sacrorum Tusculanorum, e quindi al tempio dei Dioscuri. La funzione sacerdotale, che per l'etimologia del nome di edile è certo la più antica, si trasformò in una funzione politica; e final- mente le due funzioni si divisero, lasciando nella denominazione la traccia della originaria unità. Tutto ciò è stato ora nuovamente documentato dal Rosemberg (Hermes, XLIX, 253. sgg.) contro le critiche del Leuze (ibid., 110 sgg.).

Notevolissimo anche il risultato a cui il R. perviene riguardo alla censura. Il nome non è specificamente romano, perchè l’osco Keenasstur è forma indubbiamente autoctona; ma fuori di Roma il nome del cen-

(1) In ispecie non si potrebbe, senza aver risolta la questione dei fasti per gli anni anteriori al 444 a. Cr., decidere intorno alla fondatezza della tesi del Beloch (Ein. in die Altertumswiss., III4, 160; nello stesso senso, ora, Sigwart, lio, XIV, 260, n.1; e Kornemann, #b#d., 206), secondo la quale la legislazione del 367-66 avrebbe istituita la prima volta la magistra- tura diarchica. Se questa ipotesi, senza dubbio assai seducente, rispon- desse alla realtà, bisognerebbe cercare in un secondo momento quel rad- doppiamento del pretorato maggiore di cui abbiamo visto le tracce; e il secondo momento potrebbe anche essere segnato dalla lex Plaetoria de praetore urbano (circa a. 242 a. Cr.), la quale anche ad opinione del Lange (Ròm. Alterthiimer, II, 654) ha segnato la definitiva separazione delle funzioni fra pretore e consoli. L'indagine dovrà esser ripresa in altro luogo.

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«sore è usato, le rare volte in cui l’uso ritrova, solo a designare la

funzione che assumono nell’occasione del censo i magistrati supremi della città: non ha dunque un senso diverso dalla qualifica di quin- quennalis, aggiunta negli anni del censo al nome normale del magistrato. La regola è dunque nei paesi italici quella stessa che vigeva in Roma prima del 435 a. C.: la creazione di una nuova magistratura per il censo è esclusiva di Roma.

Invece, concordanze notevoli sono messe in rilievo per la posizione del magister equitum. Il R. ha rilevato con acutezza estrema i problemi che questa magistratura presenta : l'attribuzione dell’imperium magistra- tuale a un ufficiale dell’esercito, e la inscindibilità del magister equitum dal magister populi (dittatore). Per tentarne una spiegazione, risale alla identificazione, già proposta dal Mommsen, fra la cavalleria e la iuventus in senso tecnico ; l’organizzazione speciale della gioventù, che nei paesi a regime democratico come Atene abbraccia tutti i giovani, si restringe nelle comunità aristocratiche ai giovani membri della classe dominante cioè, in Roma, alla cavalleria. Ora, di magistri 0 praetores iuventutis se ne hanno in ogni parte dell’antica Italia, così nelle città etrusche come nelle sabine; e non sono del tutto insignificanti le argomentazioni che conducono il R. a ritrovare questa dignità nello zilad eterav di certe iscrizioni etrusche e nel medd(is) verehias di Conway I 114. Più notevole ancora è che, almeno nelle comunità sabine e in alcune delle etrusche (come Nepet), l’organizzazione della iuventus sembra far parte della or- ganizzazione cittadina: anzi, poichè in Trebula Metuesca e in Amiternum solo tre delle quattro coppie costituenti l’ottovirato sono indicate con loro nome speciale, è lecito supporre che la quarta coppia fosse appunto costituita dai magistri iuventutis. Questi dati presentano senza dubbio una notevole concordanza con quelli relativi al magister equitum ; anche in Roma l’organizzazione degli equites è organizzazione strettamente aristocratica, sorta insieme con la repubblica oligarchica. Ma a questa organizzazione i romani non vollero lasciar libera la strada nella vita normale della repubblica, anzi le diedero riconoscimento ed organo sol- tanto nei momenti gravi in cui si ricorreva alla dittatura ; e, rivestendo il magister equitum dell’ imperium magistratuale, ne fecero da un rap- presentante dell’aristocrazia un moderatore delle sue pretese, e ai gio- vani della classe dominante fecero sentire più vivamente la pressione del potere statuale. La ipoteticità di varii termini di questa dedu- zione è rilevata dal R. con rara sincerità; una sincerità che rende più piena l'ammirazione del lettore per la singolare energia della ricostru- zione. La quale ha, a mio avviso, lo stesso difetto già rilevato nella prima parte di questa recensione: e cioè la tendenza a considerare il sistema delle magistrature romane come uscito uno ictu dalla concezione

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geniale di un uomo di Stato. Chi crede che la dittatura non sia stata fin dall'origine una magistratura di riserva potrà servirsi delle belle ipotesi del R. come di punti di partenza per ulteriori indagini : indagini che non possono essere nemmeno iniziate in questa recensione, ma delle quali ciascuno può intravvedere fin d'ora la probabile direzione.

III. Un altro lato del problema costituzionale, non meno interes- sante, è preso in esame nelle brevi pagine dedicate alla Romanisierung delle magistrature italiche. Ma in questa materia il R. si è contentato, come gli imponeva la natura del suo scritto, di poche osservazioni ge- nerali. Fra le quali sono veramente preziose quelle riguardanti i rap- porti fra le magistrature romane e le osche. “Il punto di partenza non è la costituzione romana, trasportata più o meno completamente nelle città italiche, ma l'ordinamento locale osco, al quale si aggiun- gono col tempo una dopo l’altra delle note romane, finchè le nuove forme soggiogano affatto le antiche ,. A Pompei, le cui iscrizioni mo- strano spiccatamente la transizione, troviamo ancora gli antichi med- dices, ma accanto a loro due edili e due questori; le funzioni di questi magistrati romani sono tuttavia anch’esse regolate secondo 1 principii essenziali della costituzione osca, e cioè con una vera e propria subor- dinazione gerarchica dei magistrati aggiunti ai meddices, e con esclu- sione, entro le coppie magistratuali, del principio romano di collegialità. Tuttavia l'influenza romana conduce via via a rendere autonome le sin- gole magistrature e a trasformare i meddices secondo il modello conso- lare; è per questo che nell’epoca della prevalente latinità troviamo le città osche governate da una coppia di praetores (sostitutivi degli an- tichi meddices) e da coppie di edili o di questori.

In casi eccezionali, la ricezione delle norme romane si compie con un solo atto legislativo : tale il caso notissimo della lex osca tabulae bantinae, che ci presenta il trasporto a Bantia di tutte le istituzioni politiche di Roma, compreso nescio quid maius il tribunato della plebe (1).

(1) È nota la disposizione della legge bantina, secondo la quale il tribuno intercedente deve giurare di intercedere per ragioni di interesse pubblico e in base al parere della maggioranza del senato. Con la co- mune opinione, il R. vede in questa disposizione la traduzione in legge bantina della nota pratica repubblicana, che aveva trasformato il tribu- nato in arma del partito senatorio contro i consoli, ed eventualmente contro quelli fra i tribuni che ancora prendessero sul serio la loro fun- zione. A dir vero, ciò non sembra molto probabile: per quanto le ma- novre di corridoio abbiano spesso svalutata la funzione dei tribuni, è

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Più tardi, i principii generali della costituzione coloniale e municipale si determinano : non certo per una apposita legge che abbia imposto alle città la costituzione, ma in base a schemi costituzionali, suggeriti forse da Roma e successivamente adottati, con le modificazioni rese volta a volta necessarie da peculiarità locali, dalle singole comunità. Lo schema della costituzione coloniale, applicato in massima alle città latine, è quello del duovirato (essenzialmente identico al pretorato, ma ribattezzato per non richiamar troppo vivamente la costituzione della città dominante) e della edilità. Il quattuorvirato dei municipii, che in pratica coincide perfettamente col sistema coloniale, ha però, secondo la bella ipotesi del R., una origine affatto diversa: si riconnette cioè all’antico ottovirato dei sabini. Fra i due sistemi è infatti una coinci- denza notevole: come l’ottovirato sabino raggruppa in unico collegio quattro coppie di magistrati, aventi ciascuna la sua propria funzione e la denominazione speciale che vi riconnette, così il quattuorvirato romano raccoglie insieme i due IVviri iure dicundo e i due IVviri aedi- liciae potestatis. Questo sistema è dunque una semplificazione di quello, tendente manifestamente a farlo praticamente coincidere col sistema dominante nelle colonie.

Restano qua e sistemi eccezionali: tale quello della colonia di Rimini, il cui triumvirato richiama ancora una volta il collegio tuscu- lano dei tre edili.

IV. L’ultima parte del libro riguarda le assemblee del popolo e il senato ; i risultati, che sul secondo punto sono assai scarsi (neppure per

poco credibile che i redattori della legge bantina abbiano di loro ar- bitrio tradotto in legge una pratica inconfessata e inconfessabile. Tanto più se si ammette, come pure è opinione assai diffusa e per me proba- bilissima, che la tavola bantina riproduca la costituzione data da Roma alla città; e se si pensa altresì che, ad evitare la pericolosa prevalenza dei tribuni, sarebbe stato assai facile non includerli fra i magistrati della città osca. Piuttosto è da osservare che l’ultimo periodo della storia di Roma repubblicana presenta dei tentativi di subordinare giuridica- mente i tribuni al senato: sono noti i testi, che riferiscono una riforma sillana a questo scopo (vedili citati apd. Mommsen, Dr. public, II, 354 sg. in n.). Cfr. ad es. Cic., de leg., 8, 9, 22: Sullam probo, qui tribunis plebis sua lege iniuriae faciendae potestatem ademerit, auxilii ferendi re- liquerit ,. Altre dichiarazioni (spec. di Cic., 2. c., 1,7) attestano che anche vigendo le leggi sillane la intercessione era libera; ma sostanzialmente la legge bantina si contenta di richiedere un giuramento del tribuno intercedente, e qualche cosa di analogo deve avere stabilito anche Silla, se è vero che ha tolto ai tribuni la potestà di intercedere di proprio arbitrio (sua lege).

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una fra le città italiane si può determinare con probabilità come i se- natori fossero nominati e in quale parte della popolazione), sono invece assai notevoli per l’organizzazione del popolo : e l’indagine condotta a questo riguardo su le tavole eugubine è ancora una volta fra le più eleganti. Si tratta della tav. II B, 1 sgg., alla cui interpretazione il R. nuovi contributi, partendo dai risultati già notevolissimi conseguiti dallo Schulze, Zur Gesch. latein. Eigennamen, 543 sgg. A offrire deter- minati capi di bestiame per la festa delle curie sono obbligati tre tipi di organizzazioni: la tekvia, cioè. secondo il significato etimologico della parola la decima parte della popolazione; la fameria (o gens), e finalmente la pumperia, che è un gruppo di cinque delimitato entro la gente, probabilmente di cinque fra i capi di famiglia (proprio iure nel senso romano) appartenenti all’organizzazione gentilizia. Notevole è però che, mentre la “tekvia, dovrebbe comprendere un decimo della popolazione, se ne trovano elencate venti: segno per stesso evidente di uno sviluppo demografico che ha condotto a raddoppiare il numero delle curie originarie. E questo sviluppo è confermato dal fatto che le venti curie hanno dieci nomi soli: otto fra i nomi ritornano due volte (nella forma, ad es., Kureiate, etre Kureiate, scilicet la curia Kur. e la seconda curia Kur.,), uno tre volte (Kaselate, etre Kaselate, tertie Kase- late), mentre uno (Perazuanie) resta isolato. Anche qui, dunque, come in Roma, la divisione in dieci curie è normale; ma le curie possono aumentare per diecine senza necessità di fusione con popoli diversi, anzi per mero sviluppo demografico della popolazione originaria. E anche qui dieci curie formano una tribù; salvo che la tribù umbra non è una suddivisione della città, bensì lo stato stesso, considerato nel suo ele- mento territoriale invece che in quello della popolazione (fota= populus): in questo senso si parla del popolo e della tribù (tota-trifo) dei Tadinati, degli Eugubini, dei Sapinati. È tuttavia evidente la possibilità che l’in- cremento demografico della popolazione, conducendo a moltiplicare il numero delle curie, partisca la città in tante tribù quante sono le decine di curie a cui si arriva: e non è improbabile che questo sia appunto avvenuto in Roma.

Disgraziatamente, le nostre fonti non permettono di documentare po- sitivamente l’esistenza di comunità organizzate, come Roma, in tre tribù; e non permettono quindi di determinare se il sistema risalga alle popo- lazioni italiche stricto sensu o agli etruschi. Quest'ultima opinione, che ha la sua base nelle denominazioni etrusche delle tre tribù romulee (Tities Ramnes Luceres = titie *ramne luyre), ha sempre trovato un sostegno ulteriore nelle parole di Vergilio (X 201 sgg.) e di Servio (ad ἢ. 1.) ri- guardanti l’organizzazione mantovana ; sostegno assai scarso per stesso, data la tardività dei due scrittori, ma notevolissimo quando lo si con-

fronti con gli ultimi dati della filologia. Il R., che osserva essere poco

decisiva per l’origine della cittadinanza e dei suoi istituti l’argomenta- zione filologica (v. già contro Arangio-Ruiz, Le genti e la città, 66), cerca di battere in breccia anche l’argomento testuale, offrendo una nuova interpretazione. Ma appunto a questa interpretazione non credo si possa accedere.

Verg. Aen. X 201 sgg.:

Mantua dives avis, sed non genus omnibus unum, gens illi triplex, populi sub gente quaterni, ipsa caput populis, Tusco de sanguine vires.

Serv. ad ἢ. 1.: Mantua tres habuit populi tribus, quae in quaternas curias dividebantur: et singulis singuli lucumones imperabant, quos tota in Tuscia duodecim fuisse manifestum est, ex quibus unus omnibus praeerat. hi autem totius Tusciae divisas habebant quasi praefecturas, sed omnium populorum principatum Mantua possidebat: unde est ipsa caput populis ,.

Il R. intende la frase gens illi triplex, di Vergilio come relativa non alla città di Mantova, ma a tutto un gruppo di città (XII populi) su le quali essa avrebbe estesa la sua egemonia; e nello stesso senso cerca di illustrare il passo di Servio. Ma ognuno vede che per questa via suppone un salto acrobatico del poeta da v. 201 a 202, e che non si spiega in nessun modo come Servio, parlando di città diverse, le chiami curie e le aggruppi a quattro a quattro in tribù. Il R. ha ben visto il punto debole della interpretazione comune: e cioè che il nome di lucumones, che per dichiarazione dello stesso Servio indica i re degli etruschi, non potrebbe qui designare dei capi di curie. Ed è giusto: il passo di Servio non è mai stato interpretato esattamente, perchè nessuno ha finora inteso il valore della frase “hi autem totius Tusciae divisas habebant quasi praefecturas ,, dove si contiene il nocciolo di tutto il ragionamento. Servio dice (a torto o a ragione, ma è indubita- bile che lo dice) che Mantova (città-stato) è divisa in tre tribù, e cia- scuna delle tribù in quattro curie : aggiunge che ciascuna di esse curie è sottoposta a uno tra i lucumoni della Toscana, i quali avevano in Man- tova come delle prefetture di tutta la Toscana. Ogni città toscana, insomma, ha dato il suo contingente alla popolazione di Mantova, e il contingente è organizzato in curia, restando sottoposto come prefettura (nel senso tecnico della parola) alla rispettiva madrepatria. Soltanto, mentre in Toscana vi è un lucumone che sovrasta agli altri, l’organizzazione che in Mantova sovrasta a quella delle singole curie è l’organizzazione stessa della città: unde est “ipsa caput populis ,.

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π testo dunque conserva pur sempre una fi preziosa per i le ragioni già dette, di una organizzazione etrusca per tribù ; e, or : αν, l’organizzazione curiale è nota anch'essa, per gli elementi raccolti dal Ri, ἐδ È all’Etruria, il problema capitale intorno alle origini di Roma resa o ancora inscindibilmente connesso alla questione etrusca.

Vixcenzo AranGIo-Ruiz.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

i E. Samwrer. Die Religion der Griechen. Mit einem Bilderanhang (Aus Natur a und Geisteswelt. Sammlung wissenschaftlich-gemeinverstindlicher Dar-

τες Pi stellungen. 457. Biindchen). Leipzig-Berlin, B. G. Teubner, 1914, di PEA pagg. vi-86 e 16 figurate. a ua D È be È un'esposizione succinta, quale appunto richiede la collezione di cui ei il volumetto fa parte, e abbastanza esatta delle notizie più importanti

intorno alla religione greca. Di nuovo non c’è nulla, ma non è nem- meno necessario che ce ne sia. Molto è tolto dalle introduzioni del v. Wilamowitz alle sue traduzioni di tragedie greche e dall'opera del Rohde, Psyche; il resto sono le solite cose che si trovano in qualunque manuale di vita e cultura greca. Un lavoro pertanto, a voler usare una ; frase sommamente cara ai critici tedeschi, ohne selbststindigen Wert, i ma buono e ben fatto. L’autore avrebbe potuto valersi con non poco ve profitto, soprattutto per il capitolo IV, Totenkult, delle Credenze del- ; l’oltretomba nelle opere letterarie dell'antichità classica del Pascal, che ΩΣ molto probabilmente è una pubblicazione italiana! egli non co- | nosce nemmeno. Gli altri capitoli (sedici in tutto, oltre l'introduzione, GI tutti di poche pagine) trattano del feticismo; degli dei in figura di animali; delle divinità speciali (Sondergòotter, la nota designazione del- l’Usener, oramai d'uso comune); della religione omerica; delle divinità della terra, e quindi dei misteri eleusini; di Dioniso; e degli oracoli, dei sacrifizi, dei tempii, dell’orfismo ecc., insomma di tutto ciò che ha ἣν attinenza diretta e indiretta con la religione greca. Numerose le cita- δὲ»

Νὴ

zioni poeti greci in versioni tedesche. Ben scelte e quasi tutte nitide le incisioni, a cui si rimanda di volta in volta dal testo.

τα ᾿ Dom. Bassi.

Ausgewiihlte Tragidien des Evrieipes fiir den Schulgebrauch erklirt von N. WecxLenn. Zwòlftes Bindchen:° Iphigenie in Aulis’. Mit einer Tafel. LR Leipzig-Berlin, B. G. Teubner, 1914, di pagg. xv1r-93.

Edizione e commento del Wecklein, cioè di uno dei più profondi e ae accreditati conoscitori di Euripide, e quindi ogni parola di lode sarebbe 5 superflua. Anche è superfluo avvertire che al dottissimo filologo di Mo- i 8 naco sono note tutte le edizioni commentate del drama, da quella del Pe Markland (London, 1771), tuttora fondamentale, alle recenti del Busche

(Leipzig, 1903) e del Bernardakis (Atene, 1903); egli si è valso anche, x s'intende, dell'edizione del Vitelli (Firenze, 1878), la quale, sia detto di i È A passaggio, dovrebbe essere ristampata: è un vero modello del genere. ha ; Del Vitelli il Wecklein conosce pure le osservazioni Intorno ad alcuni vi Ss luoghi della Ifigenia in Aulide di Euripide (ib. 1877). Al testo commentato a precede una breve (dato il fine scolastico del libro), ma compiuta in- troduzione in tre capitoli: il mito, il drama di Euripide, la storia del ς testo, capitolo, quest’ultimo, come è facile comprendere, d'importanza $ D eccezionale; metterebbe conto di riassumerlo, se a ciò potesse prestarsi Ξ

una semplice ‘nota bibliografica”, il che non mi pare. Il testo è rico- uni struito come sa ricostruirlo un Wecklein, e il commento è quale sa =& farlo un Wecklein. Le note critiche sono a loro luogo fra le esegetiche, e perciò nessuna appendice critica, ed è bene. Nemmeno non son dati schemi metrici, e di metrica non si parla affatto; ed è bene anche questo. Per le nostre scuole il commento così com'è non servirebbe; ma ciò

-. non conta. ΔΕ... ὩΣ ἘΣ ἐς

XenopHoNTIS qui inscribitur libellus ᾿Αϑηναίων Πολιτεία. In usum scho- ΑΝ

larum academicarum edidit E. ΚΑτανκα (Bibliotheca scriptorum Grae- -

corum et Romanorum Teubneriana). Lipsiae, in aedibus B. G. Teubneri, toi

14 MCMXIV, di pagg. xxx-26.

È in certo modo, per ciò che riguarda il testo, l’editio minor del libro del Kalinka, di cui fu reso conto da altri in questa Rivista (XLII, 4°, pp. 592-594). Il volumetto contiene una prefazione, interamente dedi-

cata a notizie sui manoscritti e sulle edizioni dell’opuscolo pseudoseno- _fonteo, notizie seguite dalla bibliografia completa dell’opuscolo stesso; e il testo con l'apparato critico a piè di pagina. Non sarà forse un’edi- zione definitiva, almeno nel senso assoluto della parola; ma è certa- mente tale che per ora migliore non si potrebbe desiderare, come è

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certo che editore più competente e meglio preparato del Kalinka non era facile trovare. Egli si è limitato a proporre di suo quindici tra emendamenti e supplementi o aggiunte, parte accolti nel testo, parte indicati soltanto nell’apparato critico; il loro numero ristretto dimostra la prudenza e la moderazione con cui il Kalinka ha saputo procedere nel suo lavoro tutt'altro che agevole; e va tenuto conto che altret-

tanto parco egli è stato nell’accogliere congetture altrui, e non sono

certo poche. D.B:

SorocLe. Le Trachinie, con note del prof. Gruserre MasrELLA (Collezione di Classici greci e latini. Serie greca. 6). Città di Castello, S. Lapi, 1914, di pagg. 108.

Francamente, mi spiace di non poter dare di questo libro un giudizio favorevole; dovrei mentire, cosa che non faccio a nessun patto. Forse il Mastella è alle sue prime armi; certo non si è ricordato dell’aureo precetto oraziano: ... quid valeant humeri, e soprattutto non si è reso conto che una tragedia sofoclea, sia pure Le Trachinie, non si può trat- tare con tanta disinvoltura: a pubblicare una tragedia di Sofocle con introduzione e note si richiedono ben altre attitudini e ben altra pre- parazione. L'introduzione lascia moltissimo a desiderare sotto tutti gli aspetti; è una di quelle cicalate che si facevano mezzo secolo ad- dietro o poco meno in Italia, prima della rinascenza fra noi degli studi di filologia classica. E quante amenità! Antigone e Ismene, dolci crea- ture, infine sillogizzano troppo, più che non convenga ,; diamine! è strano che nessuno, proprio nessuno, finora se ne sia accorto. Te- cmessa ... conchiude i lamenti compiacendosi che Ulisse non possa van- tarsi d'aver compiuto lui la strage ,. È addirittura piramidale! quale strage ? quella del gregge compiuta da Aiace impazzito o quella che egli, Aiace, voleva compiere degli Atridi e di Ulisse ? in questo caso Ulisse avrebbe dovuto uccidere stesso!! Vien fatto di chiedersi se il Mastella ha letto l’Aiace e se ha capito ciò che leggeva. In una ‘Nota’ all’introduzione è detto: £ L'edizione è conforme alla lezione del Dindorf ,; è il testo, non l’edizione! E la ‘Nota’ finisce con questa avvertenza peregrina: pochi i cenni di metrica corale per ri- spetto alla questione non ben risoluta, che è tra la scuola di Pisa e di Padova ,. Cosa diavolo significano queste parole sibilline? e che c'entrano con la metrica corale le scuole di Pisa e di Padova? Quali scuole? Chi ne ha mai saputo nulla? Naturalmente nell’ introduzione, e del resto in nessun'altra parte del libro, non c’è neppur l’ombra di bibliografia. Debbo parlare del commento? Anche esso è del genere di quelli che si facevano al tempo dei nostri nonni, meno i punti escla-

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mativi. Delle note grammaticali alcune sono passabili e potranno ren- dere qualche servigio ai giovani, che saranno certo molto grati al Ma- stella di aver fornito loro senza risparmio traduzioni di parole e di frasi. Delle note filologiche ecco qua un saggio: 2. αἰῶν(α) ... οὐτ᾽ εἰ ecc. .. per questa massima cf. Edipo re in fine: ὥστε... παϑών. In parte anche Aiace (esodo) ,. Dell’Edipo son riportati i versi, ma ci voleva tanto a indicarne anche la numerazione, lasciando nella penna quel ‘in fine ? Quanto all’Aiace, l’esodo comprende 200 versi circa (1223- 1420), e diventa un vero tour de force andar a pescarvi quella massima; occorreva almeno citare, pur senza recarli, i versi precisi. 53. τὸ σόν «il tuo vantaggio, il tuo stato, o simile » ,; vantaggio o stato son due cose ben diverse! e “o simile’ a quale delle due si riferisce ? Comunque, le virgolette evidentemente vanno messe dopo ‘stato’ e non dopo ‘simile’. “1166-7. I Selli erano i sacerdoti di Dodona inter- preti dell’Oracolo ,. Sacerdoti di quale divinità e di quale oracolo Tutto il commento, dove abbondano errori di stampa, specialmente nel greco, fa l'impressione che sia stato tirato giù in fretta e in furia, e con una singolare trascuratezza. Certo qualcosa di buono c’è, e quindi tanto più spiace che ci sia molto che purtroppo vale o nulla o assai poco. E c’è anche un “Registro (‘indice ’, è vero ? I tedeschi dicono Register, ma noi diciamo e dobbiamo dire indice), dove si trova un po’ di tutto, fra altro perfino i nomi di filologi (Blaydes, Dindorf, Mekler, ecc.) e di poeti (Ariosto, D'Annunzio, ecc.) e di personaggi di poemi (Isa-

bella, Zerbino)! Vedo che il Mastella darà alla stessa Collezione del Lapi l’Edipo a Colono; per l’onore della scienza italiana e ... in me- moria di Sofocle procuri di lavorare meno affrettatamente ..., se non altro.

Ὁ. B.

PLarone. Il Critone” con note ed appendici del prof. Aususro Monti. Città di Castello, S. Lapi, 1913, di pagg. 101.

Lisra. Le orazioni © contro Simone” e ° per Mantiteo® annotate dal dott. Gru- seppe AmmenpoLa. Città di Castello, S. Lapi, 1914, di pagg. 95 (Col- lezione di Classici greci e latini. Serie greca. N. 4 e 7).

Sono due lavori per ogni riguardo pregevoli; compilazioni, ad uso scolastico, s'intende, entrambi, ma compilazioni fatte con cura e con discernimento. Buone le introduzioni, soprattutto quella del Monti (che egli modestamente come una presentazione del dialogo e un invito alla sua lettura), seguita da una “Nota bibliografica ’, che si desidere- rebbe anche nel volumetto dell’Ammendola, le cui introduzioni sono forse un po’ troppo scheletriche; ma pur così possono bastare, tanto più che vengono in certo modo completate dai riassunti marginali al testo,

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176

molto utili. Riassunti marginali più brevi e meno frequenti si trovano anche nel volumetto del Monti. Il quale lodevolmente ha aggiunto, in fine, due brevi appendici: notizie di storia del costume (a proposito di c. I [del Critone] p.43 τὸ πλοῖον. IV 44 E οἱ συκοφάνται. XII 50 παιδείαν ... γυμναστικῇ. XIII 51 ἐπειδὰν δοκιμασϑῇ: passi dichiarativi, tradotti, di Platone, Demostene, Aristotele), e raffronti di versioni (Puoti, Ferrai, Meini, Acri, Bonghi, Oliari).

L’Ammendola non dice a quale testo si sia attenuto, risulta da alcun luogo; il testo del Critone è quello della seconda edizione del Ferrai, curata dal Fraccaroli (Torino, Loescher, 1898). Le note dei due editori renderanno buoni servigi ai giovani: hanno il pregio della chia- rezza e quasi sempre della precisione. Mi sembrano preferibili per più ragioni quelle del Monti; ma ciò dipende almeno in parte anche dal testo, che si presta a un commento più ampio e più compiuto. L’Am- mendola indica forse troppo spesso la versione; inoltre non sempre si esprime con proprietà: p. es. ὁ. Simone 22 “... si riferisce a ταῦτα d’avanti ,, e così $ 47 “... si riferisce a πατρέδος d’avanti ,; anzichè ‘d’avanti’ (altrove “innanzi ’) si deve dire ᾿ precedente o che precede. Sono però inezie.

I due volumetti chiudono con un ‘Registro’ (ahimè, l’influenza te- desca! per noi ‘Indice ’): greco in massima parte quello dell’Ammen- dola, grammaticale, stilistico, lessicale; prima italiano, poi greco nel Monti: nell’italiano sono dati anche nomi di critici e di traduttori, cosa

contro l’uso comune e che non ha ragion d'essere. DESBi

Aressanpro VenIero. Letteratura latina ad uso dei licei. 2* edizione mi- gliorata. Catania, Battiato, 1913, di pagg. vinr-300.

Il Veniero ripubblica la sua storia della letteratura latina, tenendovi conto del meglio e del più sicuro fra le nuove affermazioni della filo- logia. Il libro è scritto bene e facilmente, onde la lettura ne riuscirà piacevole anche ai giovani, sebbene io non creda che nei nostri licei trovi più posto un volume di così considerevole mole, pensi del tutto pro- fittevole che i giovani imparino e ripetano giudizi altrui, ad essi non arrivati naturalmente di prima di seconda mano. Il Veniero per questo riguardo ha il merito di non cercar di battere, ad ogni costo, via nuova, e di preferire i giudizi dal più al meno tradizionali quelli momentanei, che ieri ed oggi, ora l’uno ora l’altro degli studiosi va proponendo. indulge all’istinto archeologico che minaccia di so- vrapporsi al classico. E nell'economia del lavoro i maggiori tengono il posto opportuno, mentre gli ultimi secoli sono giustamente espressi in modo succinto e ridotti su linee più semplici. Solo avrei voluto qualche,

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sia pure breve, indicazione bibliografica, onde i giovani, desiderandolo, sappiano in che e come gli autori sono da noi divulgati, e che qua e avesse accennato alla diversità di giudizi o almeno ai criteri coi quali i giudizi vengono dati, perchè forse sono altrettanto retorici i giu- dizi comuni sull’età argentea quanto di retorica fu imbevuta quell’età. In compenso mi rallegro che egli abbia ben insistito nel segnare sulle fonti le linee di molte notizie e di avere mantenuto, distribuendo il lavoro, un disegno non troppo legato dalle partizioni dei generi lette- rari, che soffoca il giusto sviluppo di tanti altri volumi concorrenti col

suo alla morente storia letteraria dei nostri licei. GIRALDI

Enrico Antonini. IZ Senatus consultum ultimum ,. Note differenziali e punti di contatto col moderno stato d'assedio. Studio per laurea. To- rino, Tip. G. Anfossi e C., 1914, di pp. χι- 140.

Ancora una volta il tema, che già suscitò fra noi tanto ardore di po- lemiche, ha attirato l’attenzione di un giovane studioso. Il quale, edu- cato alla severa scuola del Bertolini, ha saputo considerarlo fuori da ogni tendenza di dottrinarismo politico, saggiando accuratamente i pre- supposti e le esplicazioni del SC. ultimum e indagandone il fondamento giuridico, con molto garbo e con precisa informazione. Le conclusioni a cui arriva, se pure non sono sempre nuove, si presentano tuttavia come frutto di indipendente meditazione: e anche molti punti, che fino a ieri erano parsi incontrovertibili, meritavano oggi di essere riaffer- mati, di fronte al fascino che avrebbe potuto esercitare l’ardito saggio del Plaumann (Klio, XII, 129 sgg.).

AIl’A., che entra così onorevolmente nel campo dei nostri studi, è da augurare dunque perseveranza e fortuna. Ma anche è da augurare che la perseveranza nel lavoro lo liberi da certi atteggiamenti non rari negli esordienti, e soprattutto dal desiderio di dir troppe e troppe cose non essenziali: non era necessaria, ad esempio, alla intelligenza delle regole del SC. ultimum, la lunga descrizione della intercessio e della provocatio, del tumultus e dello iustitium ; descrizioni che, non aggiun- gendo nulla al merito del libro, ne allontanano chi è avvezzo alla ma- grezza sanguigna degli scritti più meditati.

E nemmeno mi sembra felice la tendenza, seguìta dall’A., ai confronti minuziosi fra le istituzioni dell'antichità romana e le moderne; dai quali le istituzioni antiche le nuove risultano messe in miglior luce, anzi perdono tutte i loro contorni individuali per sciogliersi nelle nebbie dell’astrazione. La colpa non è, nel caso nostro, tutta dell’A., ma di quel- l’Istituto che, come egli avverte, ha posto a concorso il tema di questo libro; era naturale che un giovane ne fosse attratto, che anzi ringra-

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 12

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ziasse chi aveva offerto un tema così palpitante di modernità ,. Ma è anche da augurarsi ch’egli si accorga presto come non sia questo palpito la migliore raccomandazione di un argomento storico.

NSA RR:

Martin Horrmann. Die ethische Terminologie bei Homer, Hesiod und den alten Elegikern und Jambographen. Tibingen, Kloeres, 1914, di pp. v-156.

L’A. non si propone di offrire un’esposizione sistematica delle intui- zioni etiche nei poeti studiati, bensì di raccogliere quelle espressioni, che contengono una valutazione morale : il suo lavoro ha quindi l’aspetto e il valore di uno studio lessicale, destinato a integrare e rettificare i resultati di studi più generali, compiuti nello stesso campo, mostrando sino a che punto le idee morali fossero giunte ad avere un’espressione propria nella lingua.

Il lavoro è diviso in tre parti; nella prima (Homer), che ne occupa i due terzi, e nella seconda (Hesiod) il procedimento è lo stesso; si stu- diano prima le espressioni usate per le virtù e 1 vizi, poi le determi- nazioni generiche di contenuto morale e infine si raccolgono i dati. Nella terza parte (die Elegiker und Jambographen) lo studio verte quasi inte- ramente su Teognide, poche essendo le osservazioni che gli scarsi fram- menti degli altri poeti rendon possibili, e si cerca di dichiarare il di- verso valore che nei distici teognidei ha la parola ἀγαϑός.

In un’opera di tal fatta è naturale che non tutto persuada, come pure è naturale che i resultati della lunga ricerca, basati su singole inter- pretazioni di passi, cioè su di un lavoro intermedio che sfugge al nostro controllo a meno che non si rifaccia di sana pianta la ricerca dell’A., siano accolti con la dovuta riserva; tuttavia anche parziali raffronti ci permettono di rilevare un metodo rigoroso, un minuzioso studio dei poemi omerici, una buona conoscenza della letteratura omerica per quello che più o meno indirettamente si riferisce all'argomento trattato.

Nella stampa, generalmente corretta, abbiamo notato qualche svarione tipografico : vorremmo poter attribuire al compositore anche un grave

errore a p. 6: μέγαν accordato con 7700 ! Ugo Enrico PaoL.

C. CunrazeBuup. Coenmo 1. Oxcupunza III enna no P. Xp. Xapvross, 1918 (1); di pp. 1-13.

L’A. in questa breve monografia studia la composizione e il funzio-

(1) Ital.: S. Sincarewit. 11 Consiglio nella città di Oxyrhynchus nel III sec. d. Cr. Charkoff.

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namento della βουλή di Oxyrhynchus. Ricerca prima di tutto quali fos- sero le relazioni fra la βουλή, che dal 202 in poi è il principale organo dell'autonomia municipale, e il κοινὸν τῶν ἀρχόντων, che era a capo della città prima dell’istituzione della βου ή e continua a esistere anche dopo il 202. Secondo l’A., il collegio degli Arconti era subordinato al Consiglio, tuttavia costituiva un organo distinto: l’arconte poi poteva esser buleuta. Chi fossero, quanti fossero e come venissero eletti i membri della βουλή son questioni, di cui l’assenza o l'insufficienza dei dati nei papiri non permetton di rispondere. Certamente fra i buleuti appaiono i più agiati cittadini di Oxyrh. e l’A. crede di poter asserire che per esser buleuta fosse necessario avere un certo censo.

La βουλή curava l’edilizia e l'ordine pubblico nella città ; era respon- sabile davanti al governo centrale del pagamento delle liturgie; ammi- nistrava i beni della città ed era obbligata, sotto la sua responsabilità, a sorvegliare gl’impiegati, anche imperiali, che avevano un ufficio finan- ziario. Per ciò troviamo che la βουλή è in continua corrispondenza con le autorità imperiali: tuttavia è impossibile determinare nei particolari le reciproche relazioni fra la βουλή e lo stratega, il massimo magistrato del nomo. Dei Pritani, che nella βουλή avevano la maggiore importanza, l’A. indica le funzioni e le prerogative. Le deliberazioni della βουλή

avevano il nome di ψήφισμα. 105: 1. τὲ

Philologische Untersuchungen herausgegeben von A. Kiessrine und U. v. Wiramowrrz-MoeLLENDOREF. Dreiundzwanzigstes Heft: A. Cornelius Celsus. Eine Quellenuntersuchung von Max WeLLmann. Berlin, Weid- mannsche Buchhandlung, 1913, di pp. 1v-138.

La questione su la composizione e le fonti degli otto libri De medicina di A. Cornelio Celso è una delle più importanti riguardo alla storia della medicina. Che Celso stesso, con cognizioni profonde sue proprie e con l’uso di fonti greche, abbia composto il suo trattato, con elabo- razione originale, si deve escludere. Egli non fu, come generalmente si credeva ed ancora ai giorni nostri si afferma, un medico di professione, e l’opera sua rimase sconosciuta alla letteratura speciale dell’arte me- dica delle epoche immediatamente posteriori. Solo quando la conoscenza del greco andò diminuendo nell’Occidente, egli, che fu detto medicorum deus, cominciò ad aver fama, e nell’età umanistica divenne l’autore preferito anche per i pregi formali dei suoi scritti, ma non solo per questo, e la sua autorità eguaglidò quasi quella d’Ippocrate.

Celso era un enciclopedista, come Catone e Varrone, autori che nes- suno si è mai sognato di considerare quali medici di professione, per aver trattato di medicina. È altresì noto che, a cominciare dai primi

dal

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tempi dell'impero, la medicina venne annoverata tra gli ἐγυύκλια ua- ϑήματα; di qui l’interesse vivissimo per cotesta scienza da parte di autori, quali Plutarco, Seneca, Plinio, il quale ultimo è in relazione più diretta con Celso nei suoi libri 20-32 della Naturalis historia. Se noi non avessimo che questa parte dell’opera pliniana, è probabile os- serva il Wellmann che anche Plinio verrebbe considerato un medico. Ma Plinio, che distingue nettamente i veri medici dagli scrittori di cose di medicina, pone Celso tra i secondi.

L’opera di Celso ha veramente pregi eminenti, e, se egli ne fosse l’autore, non il traduttore, non riescirebbe spiegabile il giudizio di Quintiliano in I. 0. XII, 11, 24: “...Cornelius Celsus, mediocri vir in- genio... ,. In realtà Celso, uomo d’ingegno mediocre, rese un inestima- bile servizio alla scienza, facendo accessibile ai Romani, che non cono- scevano il greco, un’opera di valore singolare. Del resto è cosa notissima che il greco era la lingua dei libri scientifici di medicina dell’antichità classica e che gli scritti in latino non sono che traduzioni o compila- zioni con scopo precipuamente divulgativo. Il cultus orationis, conferì a Celso una grande fama in tempi in cui la forma era tutto; ma il modo, ch’egli tenne nel compilare l'opera sua, non è differente da quello degli scrittori posteriori di materia analoga. Era infatti traduttore fe- delissimo, tanto fedele da non vergognarsi di parlare in suo nome ove riproduceva l’opinione della fonte che seguiva.

Celso tenne la via di mezzo tra i dogmatici e gli empirici, sebbene i princìpi, a cui s’ispira, sieno in prevalenza quelli della scuola empi- rica. Pone infatti a base della sua scienza l’esperienza, si preoccupa conseguentemente delle obscurae causae (#67Za), ma solo delle evidentes (φαινόμενα). Per le nuove malattie egli suggerisce la μετάβασις τοῦ ὁμοίου, ch'era il metodo dell’empirico Serapione; come gli empirici non può soffrire la vivisezione; cogli empirici raccomanda di non tener solo conto dei sintomi comuni, ma anche dei propri ed individuali; e dagli empirici sono tratte la negazione di una certa notitia rei βεβαία γνῶσις, l'affermazione che con il nostro sapere ci possiamo avvicinare al solo verisimile, non al vero, la concezione della medicina come una scienza congetturale (τέχνη στοχαστική). Ma vi è un punto che induce a staccare Celso dagli empirici; egli infatti accanto all’esperienza am- mette anche la ratio (Adyos): ratione vero opus est ipsi medicinae, etsi non inter obscuras causas neque inter naturales actiones, tamen saepe. A cotesta concezione, a cui accenna Galeno, senza indicare chi l’abbia sostenuta per il primo, s'ispirava pure Menodoto, fiorito verso il 100 ἃ. C., e l’autore dell’opera, che Celso tradusse, deve essere stato un precursore di Menodoto.

Lo scopo del Wellmann è stato di identificare la fonte principale od

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unica di Celso. Quattro medici primeggiano tra quelli citati negli otto libri De medicina: Ippocrate, Eraclide di Taranto, Asclepiade e Megete. La sagace scelta e la acuta elaborazione delle dottrine di questi quattro medici costituiscono il merito maggiore della fonte di Celso, che il Wellmann è riescito ad identificare nel medico Cassio, fiorito al prin- cipio del primo secolo di Cristo.

Non è mestieri segnalare l’importanza di queste ricerche acutissime con cui A. Cornelio Celso ci viene presentato sotto una luce completa-

mente nuova. M. LENCHANTIN DE GUBERNATIS.

Einleitung in die Altertumswissenschaft herausgegeben von A. GercKE und E. Norpen. III Band. Zweite Auflage, Leipzig und Berlin, B. G. Teubner, 1914, di pp. vir-500.

Degli intenti di questo manuale importantissimo, che ha caratteri suoi propri e non appartiene esclusivamente al tipo metodologico, al tipo bibliografico, ma ci offre un'esposizione, fatta da persone di sin- golare competenza, sullo stato attuale dei vari rami della scienza del- l’antichità, con un accenno ai problemi più interessanti che attendono ancora una soluzione definitiva, si è discorso, a proposito del primo vo- lume, in questa Rivista XLI (1913), p. 491. La seconda edizione del terzo volume, sebbene non di molto mutata nelle sue linee essenziali, fu qua e ritoccata ed ampliata. Come è noto, la storia greca sino alla bat- taglia di Cheronea fu esposta dal Lehmann-Haupt, ed, oltre al compendio, merita di essere segnalata la sezione dedicata alle fonti ed alla crono- logia, e più ancora quella dedicata ai Gesichispunkte und Probleme, ove, tra le altre cose, è esposta la questione sullo storico di Oxyrhynchos, forse in modo non completo. Non si accenna, per esempio, all'importante contributo del Pareti su Cratippo e le Elleniche di Oxyrhynchos, ove le varie ipotesi furono sottomesse ad accurato esame.

Alla penna di Giulio Beloch è dovuta la Griechische Geschichte seit Alexander, altri avrebbe potuto trattare, con pari competenza, di questo periodo che le ricerche del Beloch e di valorosi studiosi, cresciuti alla sua scuola, hanno illuminato in modo singolare. Nei Gesichtspunkte, che chiudono cotesta sezione, il Beloch fa una netta distinzione tra i compiti della filologia e della scienza storica. La filologia, egli dice, ha per oggetto lo studio della parola; la storia invece si esercita intorno alle cose. Di qui una differenza fondamentale mel metodo; il filologo determina quello che si trova nelle fonti, lo storico se ciò che le fonti offrono è fededegno; il compito del primo si esaurisce, quando egli sia riescito a procurare un testo corretto al possibile e ad interpretarlo ; il compito del secondo comincia ove il lavoro del filologo finisce. Ma

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nella pratica i due campi non possono essere individuati con precisione ; lo storico non può essere privo di buone cognizioni filologiche per poter valutare il lavoro del filologo o sostituirlo in caso di bisogno, il filo- logo può far astrazione dalle idee che le parole rappresentano. Del resto il Beloch stesso e i suoi discepoli maggiori hanno sempre dimostrato di muoversi sicuri sia nell’ambito della filologia che in quello della storia; e la grande e sicura preparazione filologica ha conferito una serietà e un valore straordinario alle loro ricerche.

Ancora al Beloch è dovuta la Ròmische Geschichte bis zum Ende der Republik e, nelle pagine dedicate alle fonti antiche e moderne, piace veder ormai riconosciuta la superiorità evidente degli studi italiani sulla più antica storia della patria nostra.

Ernst Kornemann ha composto la storia dell'impero; a Bruno Keil sono dovuti i Griechische Staatsaltertiimer, a Karl Johannes Neumann i Romische Staatsaltertiimer.

La mancanza di qualche notizia bibliografica non può ritenersi grave in un libro che non vuol essere arida registrazione di opere, ma una guida sicura per lo studioso attraverso al groviglio delle questioni in- tricate. La brevità della trattazione, richiesta dallo spazio non grande, data l’importanza dei problemi, non ha impedito ai dottissimi collabo- ratori di esporre, con compiutezza e genialità, la condizione reale delle

discipline che formano l'enciclopedia filologica. M. L.

C. Barpr. Rimische Charakterkòpfe in Briefen vornehmlich aus caesari- scher und traianischer Zeit. Leipzig und Berlin, B. G. Teubner, 1913, di pp. xvir-484.

Per soddisfare il desiderio delle persone, che vorrebbero conoscere gli uomini dell’antichità più illustri come in realtà erano, e non pre- sentati sotto luce falsa dalle tendenze artistiche e retoriche o dal- l’amore e dall'odio, che sono sentimenti che più o meno intensi fremono nell'animo degli storiografi antichi e dei moderni, il Bardt ha pensato di ricorrere agli epistolari nei quali le persone espongono con maggior sincerità il loro pensiero, non preoccupate di piacere al pubblico degli ammiratori o di far colpo con l’attenuare o l’alterare la verità. Come in un discorso parlato fra le persone può essere soggetto della lettera qualsivoglia materia, e quindi cotesto genere letterario presenta un gran numero di elementi, che altrove sfuggono, per un giudizio preciso ed al possibile completo sul carattere reale degli uomini e sulle tendenze di un’età. Ma non tutte le lettere, salvate al naufragio delle opere let- terarie del mondo antico, erano adatte allo scopo del Bardt che non voleva comporre “ein durch Briefe illustriertes Lexikon ,, ma un tutto

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armonico e ben congegnato che non lasciasse indifferente od insoddis- fatto il lettore. Di qui la necessità di scegliere epoche, di cui abbiamo una discreta quantità di lettere, in modo che i ritratti numerosi d’in- signi personalità potessero apparirci quasi viventi e non sbiaditi dal tempo. Le età di Cesare e Traiano parvero giustamente all’A. le più indicate a conseguire il fine propostosi; ma siccome non tutti i fatti e tanto meno le velate allusioni riescono immediatamente chiare ad ognuno, il Bardt, in ampie e spigliate introduzioni, ha premesso le no- tizie necessarie all’intelligenza delle fonti antiche che ci parlano così con voce più chiara e commossa e possono essere meglio intese da noi. Nell’età cesariana, M. Tullio Cicerone e Cesare hanno le prime parti sulla scena che il Bardt apre ai nostri occhi. Noi non scorgiamo più persone in cui tutto è ammirevole, ogni posa eroica, ogni atto glorioso. Sono uomini in cui vivono forti sentimenti e passioni vigorose, nei quali l'incertezza ed il timore s’alternano alla risolutezza ed al coraggio. L’epistolario ciceroniano non sembra dell’uomo, che qualcuno ha defi- nito per un retore imbrattacarte, ma si presenta come una raccolta di documenti psicologici che assumono per noi un valore pari ai carmi dell'amore e dell’odio di Catullo. meno attraente riesce la miniera preziosa di notizie, offerte dalle epistole di Plinio, che tanta luce river-

berano sull’età di Traiano. M. L.

Inscriptiones latinae selectae. Edidit Herwannus DessAav. Vol. III, Pars I. Berolini, apud Weidmannos, MCMXIV, di pp. rv-600.

Ecco 1 primi nove capita degli Indices, che da lungo tempo erano aspettati, della raccolta d’iscrizioni latine, così utile e preziosa, di cui il primo volume porta la data del 1892, la parte prima del secondo quella del 1902, e la parte seconda del secondo volume quella del 1906. Con la pubblicazione della prima parte del volume terzo si comincia finalmente a rendere agevole e rapida quella ricerca che, per opere di tale natura, senza siffatti accuratissimi indici, riesce oltremodo difficile e lentissima, e spesso incompleta. Se si potrà verificare e speriamo che si verifichi! ciò che il Dessau scriveva nel Praemonitum sin dal- l'aprile ἃ. s., che reliquae partes intra arini spatium ... prodibunt, una cum additamentis iam dudum magna ex parte compositis atque etiam in indice constanter adhibitis ,, avremo compiuta un’opera che ha già recato considerevoli benefizi agli studî anche senza il nuovo preziosis- simo sussidio degli Indices.

intanto i nove capitoli ora pubblicati riguardano : I. i nomina di uomini e di donne; II. i cognomina di uomini e di donne; III gli imperatori e le loro case; IV. ire, i loro figli, i reguli, i duces gentium exterarum;

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V.i consoli e altre determinazioni dell’anno; VI. la res publica populi Romani (perciò gli honores publici, le dignitates aulae imperatoriae, gli apparitores, i ministri imperatorum, i servi publici, i vectigalia publica, ecc.); VII. la res militaris (cioè praetorium, cohortes, equites, legiones, alae, nu- meri reliqui, classes, ecc.); VIII. i dii deaeque et res sacra (perciò feriae et sacra, oracula, hostiae, libationes, sacerdotes, ecc.); IX. la civitas Ro- mana (Senatus et populus, plebs, tribus). E ben si può presumere dalla ampiezza del presente volume, e tenuto conto della parte che deve an- cora essere pubblicata, che gl’indici completi occuperanno uno spazio press’a poco uguale a quello delle iscrizioni comprese nei due primi volumi.

Ad opera completa, ne riparleremo più a lungo; ma sin d’ora vada ad Ermanno Dessau l’espressione della gratitudine degli studiosi del-

l’epigrafia e delle antichità romane ! 18 ΣῈ

Taeopor Μοόομμβεν. Gesammelte Schriften. Achter Band. Epigraphische und numismatische Schriften. Erster Band. Berlin, Weidmannsche Buch- handlung, 1913, di pp. x-626.

Ai lettori della Rivista è stato dato conto, a suo tempo, degli altri sette volumi di questa grande raccolta, dei quali i tre primi compren- dono le Juristische Schriften, il quarto, il quinto e il sesto le Historische Schriften, ed il settimo le Philologische Schriften. Il presente volume, che è la prima parte degli scritti epigrafici e numismatici, contiene, in realtà, solo materiale epigrafico, e cioè le due serie degli Epigraphische Analekten di ben 26 numeri (pp. 1-188) e delle Observationes epigraphicae (XLIX numeri, pp. 189-566), e, in terzo luogo, i Commentaria ludorum saecularium quintorum et septimorum (pp. 567-626), tolti dalla Ephemeris epigraphica VIII, 2, a. 1891, fatta eceezione del Kommentar agli Acta dell’anno 204, di cui è solo stata ristampata una piccola parte weil fast ganz wéòrtlich wiederholt in den Noten zu C. I. L. VI 32326-32336 (p. 3247-3261) ,, rimandandosi, invece, al prossimo volume ]’ Auctarium de sacerdotum in actis sacrorum collegiorum ordinatione.

A proposito di esclusioni, osserva il Dessau nel Vorwort che furono esclusi del tutto, o quasi del tutto, alcuni numeri degli Analekten, perchè iiberholt, da posteriori lavori del Mommsen, come pure quelle Obser- vationes che o furono ristampate in altri volumi della collezione (II, pp. 21-22; IV, pp. 444-446), ovvero furono di nuovo senza modificazioni ripubblicate nel C.I.L., e sono quelle indicate ai numeri XVII, XXXIII, XXXIV, XLII, XLIII, in ciascuno dei quali è notato il luogo preciso del Corpus.

Si comprende facilmente che, ripubblicati dal Dessau questi scritti,

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fino

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185

siano accompagnati qua e da notevoli ritocchi, da molte osservazioni rese necessarie dalle nuove pubblicazioni che si ebbero nel campo della epigrafia, da rettificazioni di citazioni, ecc., per non dire che parecchie cose, le quali avrebbero dovuto apparire nel testo, ora han posto nelle annotazioni. E queste sono di una indiscutibile utilità per via delle ag- giunte, le quali permettono di abbracciare con la mente i progressi fatti nell’ambito degli studî del Mommsen, dal tempo della loro prima pub- blicazione ai giorni nostri.

E. 5.

Das Rheinische Germanien in den antiken Inschriften ... herausgegeben von ArexanpER Riese. Leipzig-Berlin, B. G. Teubner, 1914, di pp. x111-479.

È un necessario e importantissimo complemento del volume dello stesso autore Das Rheinische Germanien in der antiken Literatur, pub- blicato dalla medesima Casa Teubner nel 1892. L’opera, comprendente 4641 numeri oltre a parecchi raddoppiati, è divisa in sette parti, senza contare i Nachtrige, il Register e le Erginzungen und Berichtigungen. La prima parte contiene le iscrizioni imperiali ed altre che si riferiscono a fatti e dati storici, da Augusto agli imperatori del quarto secolo ; la seconda concerne l’amministrazione provinciale (legati, procuratores, altri impiegati); la terza riguarda l’esercito (legiones, auzilia, cohortes, nu- meri, ecc.); la quarta è riservata alla geografia; la quinta abbraccia le iscrizioni votive; la sesta comprende le iscrizioni sepolcrali divise in varie classi seconde varii punti di vista; la settima ci presenta nume- rose piccole iscrizioni pertinenti alla vita privata (versi, parole d’ami- cizia, scherzi, motti, iscrizioni su sigilli, mosaici, ecc.). Gl’indici sono due, uno cronologico, l’altro generale. È inutile soggiungere che le fonti sono accuratamente indicate, come è indicato il luogo a cui ciascuna iserizione appartiene; mancano utili illustrazioni e complementi in nota.

E. δ.

ARL) τὰ Ma: [ni 5

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RASSEGNA DI PUBBLICAZIONI PERIODICHE

The Classical Review. XXVIII. 1914. 3. J. M. Epmonps, The new lyric fragments. I, pp. 73-78 [Oxyrhynchus Papyri X. 1914. Note critiche : (a) Saffo papiri 1231, 1232; restaurazione dei versi 16-19 di 1232:

3 w”

ἔπποις δ᾽ ἄνδρες ὄπαγον ὑπ᾽ ἄρματα χάλκια | πάντες didbeor: μεγά- Amor ὃ᾽᾽ ἔεν μέγας | δᾶμος) κἀνέίοχοι .... (6) Alceo papiri 1233, 1234; restaurazione del fram. 3 di 1234: ...... | πὰν φόρτιον dl’ ἔρριψαν αὖὔ- τοις | δ᾽ ὄττι μάλιστα σάοισι ναῦται" καὶ κύματι πλάγειοϊα βαρυ- κτύπῳ] ὄμβρῳ μάχεσθαι yeliuari τ᾽ οὔκετι | φαῖσ᾽ οὖὗδεν ἱμέρρηϊν, ἔκοισα, δ᾽ ἔρματι τυπτομίένα ne δύννην. | κήνα μὲν ἔν τούτῳ ᾿στίν᾽ ἔγω ne | τούτων λελάϑων, φ[ίλοι abita, | σύν © ὄμμι τέρπ[εσθϑαι ϑέ-

λοιμε | καὶ πεδὰ Βύκχιδος αὖϑ|ι δαῖτος. | τῶ δ᾽ ἄμμες ἐς τὰν ἂψ ἔρον

G[yosuer, | αἱ καί τις ἄφρων π]άντα τ[ἀραξέ οἱ | μείχνυντεϊς.... Con- tinuerà]). J. S. PaiLLImore, ἢν _Propertium retractationes selectae

pp. 79-82 [(Continuazione; v. Rivista XLII 404). III xr 35-40 quae tibi, Pompei, d. h. t., | illa velim proprio sanguine adusta natet! ib. 55 fe- rendum invece di verenda xm 5-8, cinnamus et multi prostat 0. A.

χιν 33 Lacaenîm xv 31-34, 33 sub xviri 1-8, 1-2 claustra sub umbroso qua tundit p. A., | u. B. st. tepetis aquae 5 hic sibî mortalis dextras c. q. τι. 9, 10. xxrr 25 sancta Nemorensis alumna IV 1 36 nec sibi Fidenas ges- serat exuuias 47 sg. portas a cui si riferisce Iule 65 candentisque suis qui cernet vallibus Arnas 71 age, disce futura, P.! 81 nec pretium fecere deo f.a. 124 forse lucus et aestivis i. uber a. 1 5 nec delubra iuvant, 28 corbibus (dativo) 34 fabor © p. s. ἃ. a 35 est ut in aurigae speciem vertamur 45 pendent invece di me notat τν 39 φ. m. [in] p. Scyllam secuisse ὁ. 74 qui primus 75 forse annua p. c. volgus inibat. 83 monstrat inascensos aditus festoque remissos. ν 28 frigent 29 moram invece di virum ib. 63 sg. his animos n. d. v. A. a. | per tenuem ossa (anuis) 8. n. cutem vir 57 sg. altera Cressae (sc. stuprum) | p. m. 1 m. ratis]. F. H., Portus Itius, pp. 82-84 [Risposta all’Hormes (v. Rivista XLII 517): l’autore insiste nella sua affermazione che Portus Itius va identificato con Boulogne-sur-mer e non con Wissant, e dimostra con nuovi argo-

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O ART

menti la giustezza della sua tesi (cfr. quaggiù p. 196). Notes: J. P. Posteate, On Thucydides II 48. 3, pp. 84-85 [Aggiunta agli ‘ar- ticoli' del Ricnarps e del Roserts (v. Rivista XLII 185 e 406): invece di αὐτός (il secondo) si legga αὐτό]. M. E. 1. TayLor, Notes on two suspected passages in the © Phaedo”, pp. 85-86 [I. 72 καὶ ταῖς... κάκεον forse non da espungere, come si crede ; potrebbero, coteste parole, esser dette ironicamente rispetto a 63 C e 69D. II 74C o0dxod»v... yeyo- vevar altro passo che desta sospetti, ma probabilmente infondati, perchè può riportarsi agli esempi della ἀνάμνησις di 73 C-E]. W.T. Lenpruxm, Note on Pindar, pp. 86-87 [Nem. III 3 ὕδατι... μαιόμενοι : commento soprattutto riguardo a ὅδατι ἐπ᾽ ᾿Ασωπίῳ, parole che non dovrebbero significare, come si crede (v. Essays and Studies presented to W. Ridge- way, p. 222), “il mare intorno ad Egina’, bensì riferirsi alla vittoria, oggetto dell’ode. Traduce : aspettano la voce delle Muse presso le acque dell’Asopo’, cioè aspettano a cantare la vittoria nemea]. J.T.SHEPPARD, Note on Euripides, ° Rhesus° 287 ff., pp. 87-88 [A proposito di αὐτόρριζον Eortav χϑονός, parole da interpretare : (abitiamo) in una ca- verna del monte; si tratta di una specie di abitazioni trogloditiche]. J. U. Power, On a new fragment of Callimachus Αἴτια, p. 88 [Edito dal Wiramowrrz in Sitzungsberichte d. kòn. Preuss. Akad. d. Wis- senschaften 1914. IX, pp. 222 sg. Νύκτα... πηῶν. Nei papiri spesso OI e Y sono scambiati fra loro; quindi in 0/Z/ si potrebbe vedere un YZ con cui incomincia la parola, che può essere ὑποζύγιον]. --- W. WarpE FowLer, Note on “Aeneid’ VII. 748-9, pp. 88-89 [Contengono una felice descrizione delle condizioni della vita degli antichissimi popoli italici al tempo del loro stabilirsi nei paesi occupati. Commento con riferi- mento alla vita delle tribù beduine della Palestina]. J. W. M., On the © mensae” of “Aeneid’, III. 257, and VII. 116, pp. 89-90 [A proposito delle conclusioni dell’Exk in Mmnemosyne XLI. 1913, p. 391 (v. Rivista XLII 409). È più probabile che la parola mensa sia connessa etimolo- gicamente con metior, mensum e dapprima abbia avuto il significato di razione o porzione. Il termine tecnico per indicare la porzione di cibo che si dava agli schiavi era appunto demensum o demensus cibus; cfr. anche secunda mensa. Il vero senso di mensa, nel secondo passo virgi- liano, è, o pare, implicito anche in alludens. Forse anche in Eneid. VII 176 perpetuae mensae può significare “(banchetto con) molte portate”. È poi notevole il fatto che mesa ha il senso di “focacce Ἶ.

Idem. 4. R. C. Seaton, The Aristotelian enthymeme, pp. 113-119 [L'’entimema aristotelico non ha, come si crede, il medesimo si- gnificato che ebbe nei filosofi posteriori. Ciò aveva già osservato S. T o m- maso d'Aquino nel suo commentario agli Amalitica posteriora (ed. Vatic. I. p. 141), ove la spiegazione giusta. L'errore della confusione

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fra’ due significati dipende dalle dichiarazioni sbagliate della parola ἀτελής in Analitica priora II 27, che si riferisce non al soggetto, bensì alla forma dell’entimema, il quale, se è perfetto, si designa come τέλειος], W. Warpe Fowtcer e R. S. C., Note on “Culex°- lines 24-41, pp. 119-122 [Il] poemetto è realmente di Virgilio, che lo compose alla fine del 48 a. C. (quindi ha un fondo di verità la notizia di Donato che sia opera del poeta sedicenne). L’Octavius, a cui è dedicato, era il futuro Augustus. Forse il proemio è del 50, quando cominciarono le relazioni personali fra Virgilio e Ottaviano. R. S. C. conferma con nuovi ar- gomenti, fra cui la protezione, goduta da Virgilio, di Ottavia, che può avergli ispirato la figura di Didone]. Spenser Wirkinson, Note on Polybius III 47-50, and Livy XXI. 31, 32, pp. 123-126 [Livio ebbe sott’occhio tre documenti o raccolte di documenti: egli derivò da Polibio o da una ‘fonte simigliante’ 31, 1-8, tornando a cotesta fonte in 32, e riportandosi ad essa per 32, 6; prese 31, 9 da una se- conda fonte, e 31, 10-12 da una terza. Nell’amalgamare questi vari frammenti confuse l’ordine degli avvenimenti (si tratta del passaggio delle Alpi) e i dati geografici; tuttavia ogni luogo della sua narrazione | apparisce desunto da una relazione autentica e vera. Quanto all’ Ἰσάρας o Txdoas di Polibio (49), va identificata con la Druentia (Durance)]. A. S. Hunr, The new lyric fragments, pp. 126-127 [A proposito di emendamenti e proposte di emendamenti dell’ Epmonps nel fasc. preced. della Classical Review (v. quassù); l'autopsia del papiro non sempre conferma]. Notes: J. E. SAanpyrs, Demosthenes, Leptines”, $ 139, p. 128 [σκοπῶ καὶ τοῦτο va espunto; ἐκείνῳ proposto dal SmackLe invece di ἐκείνου (v. Rivista XLII 517) non ha ragion d'essere; sta bene il genitivo]. Correspondence: H. A. Srrone, Cicero and Lucretius, p. 142 possibile che Cicerone parlando di Lucrezio usi ars semplicemente nel senso di “metodo” o di ‘trattato ‘’].

Idem. 5. S. Casson, The Persian expedition to Delphi, pp. 145-151 [Ampio commento storico a Erodoto VIII 85 (e VII 182. 143. IX 42). La spedizione dei Persiani contro Delfi non ebbe per iscopo il saccheggio del santuario, come inoltre risulta da fatti topografici, e neanche di fornire a Serse una ἀπόδειξις, cioè un catalogo o inventario, delle ric- chezze da esso possedute (questo significato tecnico della parola ἄπό- δειξις è messo in chiaro da passi di altri scrittori, fra cui Tucidide, e da iscrizioni); bensì di assicurarsi della neutralità di Delfi, appunto per mezzo della ἀπόδειξις : regolare e non infrequente metodo di pro-

cedura nelle guerre nell’antichità), W. Rauys Rogerts, Prose rhythm in Welsh and English: with special reference to the Latin °Cursus”, pp. 151-156 [Per noi basta il titolo). Notes: W. M. L. HurcHinson,

Pindar °Nem. III. 8: a reply, pp. 156-157 [La risposta è per il

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Lenprtm (v. quassù fasc. 3 di The Class. Review), del quale l’autore condivide in parte l'opinione; che ὅδατι ἐπ᾽ ᾿Ασωπίῳ possa significare ‘a Nemea” va escluso in modo assoluto]. €. Ὁ. Buck, HZ as evidence for Esse, pp. 157-158 [Aggiunta all’ ‘articolo ° dello stesso autore e del SonnenscHein in The Class. Review XXVII. 1913, pp. 122 e 161 (cfr. Rivista XLI 627 e 629) a proposito di un richiamo dello Skursca in Glotta III 386. La questione è puramente glottologica]. G. M. Hirst, Note on Statius, Silvae, I. VI. 75-80, pp. 158-159 [Breve commento desunto dalla relazione del numero del gennaio 1914 del New York World intorno ai Saturnalia’ di New York].

Classical Philology. IX. 1914. 3. KenpaLr Κα. ὅμιτη, A new fragment of the decree of Chremonides, pp. 225-234 [KrrcaNER, Inscriptiones Graecae, voluminis II et III editio minor, pars prima, fasciculus prior, 1913, 686. Fa parte del 687, e le prime 23 linee formano la conclusione di un decreto dello Stato ateniese relativo alla cooperazione con Areo, re di Sparta, e con gli aileati di Sparta contro Antigono II (Gonata); dopo una linea vuota, ne seguono 11 che contengono, incompletamente, gli articoli dell’alleanza. Riedizione di tutto il decreto, cioè dei num. 687 e 686, con restituzione e commento]. M. Rapin, Gens, familia, stirps, pp. 235-247 [Rassegna di luoghi di T. Livio in cui ricorrono le pa- role gens, familia, domus, genus, nomen e stirps, e determinazione del significato speciale, peculiare di ciascuna di esse. Gens è detto soltanto dei patrizi; familia ha senso più largo di gens. È da escludere in modo assoluto che stirps e familia siano, come comunemente si afferma, ‘un termine ordinario denotante la divisione della gens’ e quindi non hanno valore 16 interpretazioni che si fondano su questo uso della pa- rola’].. A. Cresrer Jonxson, Atftie archons from 294 to 262 ὃ. C., pp. 248-278 [Il lavoro non si può riassumere, posso riprodurre la tavola riassuntiva con le date, i nomi degli arconti, ecc. Debbo limi- tarmi ad osservare che il lavoro si riconnette al noto articolo del Fer- cuson, The Athenian Secretaries (in Cornell Studies VII. 1898) col suo, a dir così, supplemento, Priests of Asklepios (181-138), e tien conto di tutte le scoperte epigrafiche e di tutti gli studi posteriori). 7. 7. ScuaLicner, The historical infinitive. I. Its simple form (infinitivus impo- tentiae), pp. 279-294 [Serve a indicare: “1. emozioni e loro espressione (ego enim lugere atque aegre pati. Pl. Merce. 251); ‘2. asserzione forte impulsiva o espressione a [tale] attitudine’ (instare factum simia. ib. 242); ‘8. disposizione o abitudine’ (holera et pisciculos ferre in cenam seni. Ter. Andr. 369); ‘4. desiderio, impulso, ardente aspirazione a finire”

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(imperator utrimque hinc et illine Iovi | vota suscipere hortari exercitum P1. Amph. 280): “5. vessazione, eccitamento, azione forsennata’ (ego cunas rursum vorsum trahere et ducere. ib. 1112); ° 6. azione persistente, incontrollabile (impotentia del narratore o dello spettatore)’ (fantoque angues acrius persequi. ib. 1114). Esempi (io ne ho scelto uno per ogni gruppo) e considerazioni relative, premesse notizie storiche intorno al- l’uso dell’infinito preso a studiare: fu largamente adoperato nei primi scrittori di storia, nel drama repubblicano, da Lucilio e da Var- rone nelle loro satire. A quanto pare, non fu usato nell’epica di Nevio e di Ennio, e non ce ne sono tracce in questo ramo della letteratura prima dell’Eneide. È frequente negli scrittori del tempo della repubblica e dell’età augustea]. W. L. WesrerMANnN, Apprentice con- tracts and the apprentice system in Roman Egypt, pp. 295-315 [I contratti di lavoro sono certo anteriori al tempo a cui risalgono i papiri a noi noti, ma noi dobbiamo accontentarci dei dati che ci sono forniti appunto da essi papiri. Sulla scorta di questi l’autore classifica e analizza forme e sistemi di contratti, giungendo alla conclusione che nell’Egitto romano l'apprentice system era una istituzione largamente diffusa, basata sul contratto, riconosciuta e rinforzata dalla legge comune più che da for- mali ordinanze. L'istituzione ha uno spiccato carattere conservatore]. Notes and discussions: P. Suorey, Note on Aristotle’s De anima 405a 3, pp. 316-317 [ἑπόμενος ... εἶναι. Commento e interpretazione : for a [the] movent thing [which the soul of which we are speaking ma- nifestly appeared to be] they conceived to be /of] the nature of first things—not without plausible reason. Whence some thought it to be fire ,). E. T. M., Execution of a vestal and ritual marriage, pp. 317-322 [Polemica con miss J. E. Harrison a proposito di una nota in Essays and Studies pre- sented to William Ridgeway, pp. 144 sgg.: va escluso che nell’origine del cerimoniale relativo alla esecuzione delle Vestali debba vedersi un ma- trimonio rituale].

The Classical Quarterly. VIII. 1914. 2. H. Ricnarps, ThRucydidea. Part II. Miscellaneous emendations, pp. 73-85 (Continuazione ; v. Rivista XLII 185). Libri V 1-VII 104, 5]. A. Pratt, Theocritea, pp. 86-87 [I 109 sg. è impossibile che tutto il periodo sia ironico; ἐπεί ha il senso di ‘sebbene’. ib. 139 ῥόον per κατὰ ῥόον, come πρύμναν per ἐπὶ πρύμναν. --- II 140 sg. ϑερμοτέρως ci aspetteremmo, ma avverbi comparativi in τῶς non erano usati nell’esametro. XII 24 î pvoxia forse è diminutivo di φύσκη, una vescica. XXII 66 forse ὄμματ᾽ ὀρύσσων invece di ὄμματα δ᾽ ὀρϑά. XXIII 41 sg.: 42 οὐ δύ- vana. δάκνειν (0 δακέειν) ce invece di οὐ ὃ. εἴν σε. —. XXVII 60 τοι |

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ἀμείνονα o τἀμείνονα invece di τοι uettova]. J. F. Dosson, Boethus of Sidon, pp. 88-90 menzionato in un passo di [Filone], περὲ ἀφϑαρσίας κόσμου 8 10 p. 497; nella Vita di Arato (Bua vol. 2, p. 448) e meno brevemente nell’ Index Herculanensis LI 7-9 (Comparerti in questa Rivista INI. 1875, p. 528). Era un filosofo stoico e fu successore di Apollodoro, successore di Panezio. Un altro filosofo dello stesso nome fu peripatetico, scolaro di Andronico, e vissuto al tempo di Strabone]. Ta. Ὁ. GoopeLt, Χρή and δεῖ, pp. 91-102 [Sul significato e sull’uso dei due verbi negli scrittori da Omero ad Aristotele, con sta- tistiche ed esempi. In Omero δεῖ due volte, in Pindaro una volta, in Bacchilide non è usato mai. I Tragici adoperano χρή e δεῖ l’uno accanto all’altro, mentre in Aristotele χρή è rarissimo. Χρή va perdendo sempre terreno di fronte a δεῖ, e solo nella prima metà del IV secolo è adoperato in tutta la sua precisione. La differenza di significato fra le due parole consiste in ciò, che δεῖ designa la forza della necessità, χρή la forza della moralità]. A. Sourer, A neglected manuscript of the Moretum’, pp. 103-104 [Del Lussemburgo, col d’in- ventario 27 (M. 9. 16), del secolo XII. Descrizione esterna e collazione sull’edizione dell’ELris]). S. C. Booker, Note on Thucydides VII. 28, 3, p. 104 [Propone οὗ δύο, οἱ ({τρεῖςν, τριῶν ye ér@v]. W. B. Anperson, Notes on Lucan VIII, pp. 105-111 [5 sgg. sul significato di comites, che dovettero essere ufficiali addetti alla persona di Pompeo,

ciò che spiega redit. 102 sgg. su ubicumque iaces. 306-10 non oc- corrono trasposizioni; in 306 sta bene tanta che il PosreatE vorrebbe sostituire con tota. 701-708 commento filologico e critico. 665-667

nulla da mutare, nemmeno in 665 iratamque, che è spiegato dai vv. 629 sgg. 858-861: in 860 va letto, con i migliori mss, est, non es, e Fortuna di 861 è vocativo, non nominativo. 717-720 nulla da mutare ; in 720 Magnum sta per Pompeium]. C. R. Harnes, On the chronology of the Fronto correspondence, pp. 112-120 [anni 139-140 epist. graecae 6-8. 140-48 ad Caesarem IV 1-3, INI (I) 2-12, V 59. Arion e Laudes. 143 giugno ad Caes. I 1-5. luglio, agosto ad Caes. I 6-8, II 1-11. epist. graecae 1-3, ad Pium 1, 2. dopo agosto ad Caes. II 12-15. 144-47 ad Caes. IV 4-13, ΠῚ (13) 14-21, V 22-29. 147-61 ad Caes. V 1-21, 30-58. ad Pium 3-9 (ad P. 7= ad amicos II 5). epist. gr. 4, 5. 157-61 ad amicos I 1-5. 161 de feriis alsiensibus 1-4. 161-62 ad Antoninum II 1-4. ad am. II 1-4. ad Anton. I 1-5 (6-10). ad Verum I 13, 4. de bello parthico, ad Marcum. ad am. I 7-14. 162 ad Caes. II 16,17. de eloquentia, ad Mare. 1-4. ad Ver. Il 6. 163-4 ad Anton. II 3-6. ad Ver. II 1,2, 7. 168-66 ad am. I 15-25, II 6-11. 165-66 «ad Ver. II 3-5, 8-10. ad am. I 6. prince. historiae, ad Ver. de Nepote amisso, ad Marc. 1, 2. de orationibus ad Mare. ad Ver. 12. ad Anton. II 7, 8 (9). ad am. I 6]. J. P. PostGaTE,

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Neaera as a common name, pp. 121-122 [In Prudenzio Perist. X 239 sg. e c. Symmachum. I 135 sgg. neaera è, senz'’ombra di dubbio, nome comune, sinonimo di meretrix. La parola non è che il femminile di veagds, cioè velarga o véaroa che ha significato osceno, e Omero ado- pera come attributo di γαστήρ. Anche altri nomi di etere contengono allusioni del medesimo genere]. W. G. Ὁ. Burcner, The caesura in Virgil, and its bearing on the authenticity of the pseudo-vergiliana, pp. 123-131 [Calcoli statistici ed esempi. Dalla qualità della cesura ri- sulterebbe come probabile che il Culex e forse anche il Moretum sono genuini; mentre non sono tali gli altri poemetti in esametri del corpus vergilianum]). H. J. CunnincHAM, Claudius and the © primores Galliae, pp. 132-133 [Polemica coll’Harpy, Roman laws and charters p. 133 sgg., a proposito dell’orazione dell’imperatore Claudio, col. II: same nouo more ...reiciendos puto; coloniae et municipia è espressione usuale per designare le città d’Italia, a cui pertanto si riferisce l’ubique che precede].

Idem. 3. Ca. E. Bennett, Notes on Horace, pp. 145-150 [Carm. I 3, 1 sgg.: sic si può spiegare considerando reddas come un suo iussivo congiuntivo esplicativo; così in Marziale IX 99, 1 sgg. sic è spie- gato dal seguente obserues. Si noti poi nei due passi la presenza di precor parentetico. I 12, 45 sg.: occulte, avverbio, non occulto, e nel senso di impercettibilmente”. I 16, 5 sgg.: 8 si può leggere st (in- vece di 516) col MiLrer, col KressLIine, ecc., e in questo caso aeque è correlativo con ut. II 18, 7: trahunt non può avere che il senso di ‘cardare |. A. E. Housman, A transposition in Propertius, pp. 151-155 [I vv. 33 e 34 di III 9 sono fuori di posto; vanno inseriti in II 1 dopo 88, di modo che si avrà II 1, 37-38; III 9, 33-34 (ultima parola fides); JI 1, 39. Esempi di altre trasposizioni in altri poeti]. T. Rice HoLmrs, The text of the “Bellum Gallicum’ and the work of H. Mrusst, pp. 156-165 [Recensione, in largo senso, dell’opera: C. Iulii Caesaris commentarii de bello gallico erklirt von Fr. KranER und W. Drr- TENBERGER. Siebzehnte, vollstindig umgearb. Aufl. von H. Meuset. I... Berlin, Weidmann, 1913]. €. M. Kxnicat, The importance of the Veronese pa- limpsest in the First Decade of Livy, pp. 166-180 [Elenco degli errori caratteristici del palinsesto Veronese (ordine invertito delle parole ; ag- giunte; omissioni); varianti e glosse; luoghi in cui il palins. Veron. ha conservato, esso solo, la lezione genuina. E la conclusione è questa, che del palinsesto va fatto maggior conto che non se ne sia fatto finora]. A. Tau, On the value of modern Greek for the study of ancient Greek, pp. 181-205 [Discorso o conferenza tenuta dall’autore nella Victoria University di Manchester il 13 ottobre del 1913, in cui espone quelli che sono i suoi convincimenti da una ventina d’anni; cioè che per lo studio del greco antico sia necessario, anzi indispensabile il greco mo-

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derno. Non posso riassumere in breve il lungo discorso ; accennerò sol- tanto che l’‘ utilizzazione’ del greco moderno vi è messa in rilievo soprattutto per ciò che riguarda il lessico e in genere e rispetto a forme dialettali; anche la fonologia e la flessione presentano notevoli analogie fra greco moderno e antico), Εἰ. W. Harr, A false quotation from Plautus, p. 205 [Cotesta falsa citazione è mulo inscitior, da Cist. IV 12, 2, parole che non si trovano in alcuna edizione moderna della co- media plautina. La spiegazione dello sbaglio è data dal Tausmanwn nel Plautus del Grurer (1621) in una nota a Cist. IV 2. 12 (= IV 2, 10 dei testi moderni). E. Harrison, Verse-weigth, pp. 206-211 [Percentuale di versi pesanti’, per la loro costruzione, e precisamente di trimetri col giambo e lo spondeo nei piedi o primo o terzo o quinto, in Archi- loco, Simonide, Solone, Eschilo Supp. e 49., Sofocle Ant. e Fil, Euripide J/pp., Tro. e Or.; Reso. Euripide Ciel. Aristofane Acar. Non si giunge ad alcuna conclusione, che si possa esporre]. G. Harriet Macurpy, Rainbow, sky and stars in the Iliad” and the © Odyssey” : a chorizontie argument, pp. 212-215 [Dell’arcobaleno, del cielo e delle stelle si parla nell’Odissea in altro modo da quello dell’IZiade : segno evidente che il poeta di questa non è lo stesso che il poeta di quella. L’Iliade è essenzialmente un poema ‘nordico’ o set- tentrionale, mentre l'Odissea è un poema ‘mediterraneo 7].

The American Journal of Philology. XXXV.1914.1 (137). E. G. SraLer, Cicero, an appreciation, pp. 1-11 [Fu, non ostante i suoi difetti, una delle più grandi figure nella storia della civiltà umana, e tale rimane pur dopo le critiche di giudici malevoli. Nella latinità tiene un posto di primissimo ordine, e nella prosa latina in particolare la sua autorità ha un valore indiscutibile. In certo modo Cicerone fu il primo degli umanisti. Massimo come scrittore di retorica; acuto psicologo; versa- tissimo nelle scienze politiche. In filosofia espositore lucido ed efficace, e assimilatore di rara perspicacia e coscienziosità. Oratore sommo. Seppe tener testa a uomini quali Catilina, Clodio, Antonio, non per vantaggio proprio, ma nell'interesse dello Stato. Fu insomma una personalità che caratterizza tutta l’antichità classica in ciò che questa ebbe di più no- tevole per ogni riguardo). Ca. Knapp, Notes on Plautus and T'e- rence, pp. 12-31 [Minuta analisi e recensione dell’introduzione della quarta edizione del Dzrarz€go, curata dal Hauer (Leipzig, Teubner, 1918), del Phormio di Terenzio: è opera per più rispetti pregevolissima, non ostante alcune piccole mende, In una nuova edizione converrà tener conto delle ultime pubblicazioni, anche nord-americane, intorno alla

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 18

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poesia dramatica romana e intorno alla letteratura romana in genere. Anche converrà modificare non pochi giudizi su dati di fatto e su opi- nioni espresse da vari critici, soprattutto tedeschi]. W. B. McDaniet, Some Greek, Roman and English Tityretus, pp. 52-66 [Occorre premettere che col sostantivo del titolo (che si riattacca al nome proprio Tityre, Tityros) sono designati, in inglese, dal più al meno quella categoria di mariuoli o canaglie della strada che noi chiamiamo barabba (Torino), teppisti (Milano) ecc., a Parigi apaches, ecc.: espressioni vernacolari come il tityretus inglese. Di cotesta genia è fatto cenno variamente e ripetutamente negli scrittori greci e romani e vi sono rappresentazioni in monumenti dell’arte figurata. Vi appartenevano in Grecia i φαλλο- φόροι, gli ἰϑύφαλλοι, i γελωτοποιοί, i Triballi, a Roma coloro, uomini e donne, che solennizzavano i Lupercali, i Baccanali, ecc. ; erano nel mito i Satiri e i Sileni, e i seguaci di Pane, e Priapo. Molti tipi simili pre- senta specialmente la comedia inglese]. T. Frank, A rejected poem and a substitute. Catullus LXVIII A and B, pp. 67-73 molto pro- babile che Catullo stesso abbia sostituito 68 d a 68 a, da lui rifiu- tato. Che i due carmi si trovino insieme nei nostri manoscritti è dovuto senza dubbio all’editore del poeta, il quale avendo rinvenuto 68 fra le carte non pubblicate di Catullo lo riconobbe come opera di lui e lo collocò nel posto che gli competeva, senza sapere del rifiuto. Un caso simile avvenne per 55 e 58 d. Durante la vita di Catullo, 68@ rimase ignoto. Morto lui, l’editore dell’edizione completa del suo ‘libro ’, diede fuori i due carmi combinati in uno, col titolo comune ad Mallium]. W. Pererson, More about the È Dialogus° of Tacitus, pp. 74-78 [Aggiunta all’ ‘articolo’ dello stesso autore nell’Americ. Journ. of Phi- lology XXXIV, 1. 1913. 133, pp. 1-14 (v. Rivista XLI 501) in risposta al GupeMAN: tien fermo alle proprie conclusioni, adducendo nuovi argo- menti a loro sostegno, soprattutto per ciò che riguarda l’estensione delle lacune del testo secondo i calcoli degli oppositori, e il codex Aesinus]. A. Ca. Jonnson, The creation of the tribe Ptolemais at Athens (addi- tional notes), pp. 79-80 [L'aggiunta è all’° articolo’ col medesimo titolo dello stesso autore nell’Americ. Journ. of Phil. XXXIV, 4. 1913. 136, pp. 381-417 (v. Rivista XLII 635): a proposito di testimonianze epigra- fiche con date di arconti].

Idem. 2. (138). G. MeLviLLe BoLLina, The archetype of our “Iliad” and the papyri, pp. 125-148 [Il risultato più interessante della scoperta dei papiri consiste in ciò, che ne vennero confermati numerosi emen- damenti. Quanto all’archetipo dei manoscritti della nostra /liade sono possibili tre ipotesi: 1) i nostri mss hanno avuto un comune archetipo, più recente della edizione vulgata” apparsa in Egitto nel 150 a. C., nella quale furono fatte talune interpolazioni; 2) i nostri mss riprodu-

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cono fedelmente questa ‘vulgata’, mentre alcuni papiri rappresentano un'edizione vulgata’ criticamente riveduta; 3) i versi mancanti nella prima edizione ‘vulgata’ vennero interpolati per tempo in alcuni mss e acquistarono diffusione quando questi cominciarono ad avere voga uni- versale. Delle tre ipotesi la più ammissibile è la terza. Rassegna di versi omessi in papiri e in alcuni manoscritti, mentre si trovano in altri]. E. W. Fay, Varroniana. De lingua latina. Part I, pp. 149-162 [Note, la maggior parte di critica del testo, al libro V nell’edizione Goerz-ScHoeLL. Sono presi in esame 90 luoghi). R. B. SreeLe, The participle in Livy, pp. 163-178 [L'uso più largo (721 casi) è quello del participio presente attivo in dativo; segue immediatamente (459 casi) quello del participio perfetto passivo in ablativo con preposizioni, de, ex e pro. Il participio perfetto in dativo (361 casi) ricorre 81 volta con 23 differenti aggettivi, mentre si hanno 94 participi presenti pure in dativo con 44 differenti aggettivi. Fra cotesti aggettivi con i due par- ticipi occorrono più spesso obvius (il più frequente), facilis, difficilis, si- milis, opportunus, 666. ; invius una volta sola, e così pervius]. H. v. SopEn, Der Apokalypse Text in dem Kommentar-Codex Messina 99, pp. 179-191 [A complemento delle notizie date dall’Hoskier, The lost commentary of Oecumenius on the “Apocalypse’ in Amer. Journ. of Philol. XXXIV. 1913. 3, 135, pp. 300-314 (v. Rivista XLII 186): conferme e rettifiche per ciò che concerne la paleografia del codice e le relazioni della lezione con altri), J. E. Harry, Euripides ‘Heraclidae’ 223, pp. 200-201 {Nessuna interpolazione. Sta bene ἕντε πόδα κακῶν].

Revue des études anciennes. XVI. 1914. 3. É. Brénrer, Le mot νοητόν et la critique du Stoicisme chez Seatus Empiricus, pp. 269-282 [La parola νοητόν è assai mal resa col vocabolo’ intelligibile ’. Bisogna prenderla nel senso degli Stoici, cioè nel senso di quei filosofi che non ammettevano alcuna realtà intelligibile. Per loro, il νοητόν non può essere se non ciò che è concepito dal pensiero puro, vale a dire che non ha esistenza sostanziale, reale fuori della nostra concezione ; soltanto il corpo percepito dai sensi esiste sostanzialmente. Con cotesta interpre- tazione della parola νοητόν si spiegano agevolmente in modo del tutto persuasivo i passi di Sesto Empirico, in cui è fatta la critica dello Stoicismo]). B. Pick, Une monnaie du Κοινὸν ’Aguevias, pp. 283-289 [La moneta, di cui l’autore una minuta descrizione (si conserva nella raccolta del duca di Gotha), conferma pienamente le conclusioni alle quali giunse il RernAca nel suo articolo Le mari de Salomé et les mon- naies de Nicopolis d’Arménie nel fasc. preced. della Revue (v. Rivista

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XLII 633); è la prima moneta nota o almeno pubblicata del Κοινὸν ’Aguevias: porta questa iscrizione e l'indicazione della data, ἔτους μγ΄, cioè fu coniata 114 anni dopo la detronizzazione del re Partamasiro]. Pa. Fasia et C. Germain De Monrauzan, Le nouveau diplome militaire de Lyon: Commode à Sextus Egnatius Paulus, pp. 290-294 [Trovato nel giugno 1913 a Fourvière fra le rovine di una ricca casa romana; è il solo che ancora possediamo di Commodo posteriore alla morte di Marco Aurelio e il solo che riguardi un soldato della 13* coorte urbana e della guarnigione di Lione: è del 16 marzo del 192. Edizione (con due tavole) e commento]. H. De La ViuLe De MirmonT, C. Calpurnius Piso et la conspiration de lan 818/65, pp. 295-316 [(Continuazione v. Rivista XLII 633 e fine). La congiura dell’818/65, di cui fu capo nominale Pisone, abortì per le esitazioni e la cattiva volontà di lui, che dopo 1 primi arresti dei congiurati rimase inerte e poi si suicidò. Esposizione particolareggiata dell’avvenimento]. C. JuLLian, Notes gallo-romaines. LXIII. De l’origine des Franes Saliens, pp. 317-323 [I Franchi Sali, il cui nome si riattacca a quello del paese dell’Yssel, ϑαϊαηα, che confina con la Frisia, erano Fristi, parola che potè essere confusa con Frigti, donde la leggenda dell’origine troiana dei Franchi. I Sali, Frisoni, ve- nivano dal Reno, come è dimostrato anche, probabilmente, da vari fatti geografici) J. Touram, Une nouvelle inscription d' Alesia, pp. 324-328 [Latina, frammenti (anche con una sola lettera, numero massimo 7) di dieci linee. Tentativo d'integrazione e commento]. H. pe Gérin-Ricarp, Inscriptions rurales de la colonie d’ Apt au chateau de Collongue (Vaucluse), pp. 334-336 [Due iscrizioni romane, una inedita (Marti Div..., Lucius) Octavius Div...), l’altra già pubblicata nel Corpus, 6034. Commento. La seconda è notevole per la menzione di un finora ignoto Deus Abianius]. C. Junrian, Chronique gallo-romaine, pp. 837-348 [Notizie, la massima parte, bibliografiche. Fra le altre, una relativa agli articoli, in The Clas- sical Review, dell’HaverrieL» su Portus Hitius (v. quassù pag. 186), che non si può assolutamente identificare con Wissant. La località di Wissant è una plaga senza porto, esposta a tutti i venti, senz'acqua e a metà selvaggia, donde Cesare non avrebbe potuto in nessun modo prender le mosse per la invasione della Bretagna]. P. RousseL, Une inscription funéraire d'Egypte, pp. 349-350 [Edita dall’Arvaniragis in Bulletin de l’Institut égyptien, V ser., t. VI, fasc. 2. 1912 (pubblicato nel luglio 1913), e da Sevmour pe Ricci nella Revue épigraphique. I. 1913, p. 145, n. 9. Dice che ἭἭ ρωίς, a cui è dedicata, morì di parto, null'altro; nei quattro versi è un epitafio greco metrico non v'ha accenno di sorta pratiche medico-magiche, che avrebbero affrettato la morte della donna]. 6. Raper, G. Leroux, P. VaLLerte, C. JunLian, Chronique des études anciennes, pp. 389-392 [Notizie bibliografiche].

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Le Musée Belge. Revue de philologie classique. XVIII. 1914. 1. A. De- carte, Etudes sur la magie grecque, pp. 5-96 [(Continuazione; v. Rivista XLII 409 e 522). III. Amulettes mithriaques (a proposito di una pietra del Museo Nazionale di Atene, 10082, proveniente dall’Argolide, pro- venienza che corrobora le conclusioni, a cui era giunto il DeLarTE nel suo esame di un bassorilievo gnostico trovato ad Argo, riguardo alla diffusione delle dottrine magiche dell’Egitto nella Grecia propriamente detta. La pietra del Museo di Atene è uno dei pochi (testi e) monumenti che (tolto il mitreo di Memfi) stanno a dimostrare che il culto di Mitra diffuse nell’Egitto e s’introdusse nell'ambiente magico). IV. Amu- lettes inédites des Musées d’ Athènes. A. Intailles magiques (sono 37, tutti minutamente descritti, e nella descrizione raggruppati secondo i titoli seguenti: Θεὸς Bayvy. Abraxas. Βησᾶς. Dei ellenici. Ciclo del Θεὸς ἀκέφαλος. Iside-Ecate. Oro. Serapide. Osiride. Culti astrologici. Iscrizioni magiche. Animali sacri. δαίμων ὑδροφόβας. È La clef de la matrice”. Ciclo di Medusa). B. Médailles en plomb (25: Abraxas. Oro. Anubi. Testa di Medusa. Leone solare. Medaglie astrologiche. Iscrizioni). Con quattro tavole t.].

Idem. 2. P. Grampor, Kykladika, pp. 97-120 [I. Le sculpteur Té- lési(n)os (studio di archeologia pura, con la riedizione di un decreto in onore dell’artista il cui periodo di attività può essere stabilito, al- l’ingrosso, nella prima metà del secolo III a. C. pubblicato in BCH XII 419 (1° frammento) e XXVIII 298 (2° fr.); a lin. 7 il Grarnpor pro- pone ὁμόλογα, cioè che le statue erano conformi al contratto, iu0A0y/0)]. 7. Pàris, Gnomonica. I. Un cadran solaire ancien du Pirée, pp. 121-130 uno dei più completi e meglio conservati e più esatti che si cono- scano. Descrizione minutissima e calcoli astronomici e matematici]. R. Scnoorman, Un préceptorat en Flandre au XVI? siècle, pp. 131-137. L. Lauranp, Notes bibliographiques sur Cicéron, pp. 139-156 [Omessì libri e articoli che trattano direttamente o principalmente di Cicerone, e registrati già nei Jahresberichte del Bursran. Sono elencate 85 opere ’, presa la parola in largo senso, raggruppate in più classi : alcuni giudizi intorno a C.; le opere di C. come fonte della storia romana; della storia della filosofia; loro importanza per la storia dei generi letterari, ecc. ecc.].

Mnemosyne. Bibliotheca philologica Batava. N. ὃ. XLII. 1914. 2. LL v. Wacenincen, Maniliana, pp. 110-118 [(Continuazione; v. Rivista XLI 507). I 631-647. II 624; 970. IIl 611. IV 140-151; 178-181; 202; 220-223; 233 e 738; 294-297; 422; 615 sgg. V 97-100; 140-142; 245 (hauriet et miseris et fructibus ipse fruetur); 284 va posposto a 285;

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495 sgg.]. J. J. H(artman), Ad tabulas quasdam aegyptiacas, p. 118 [Per certi critici che gonfiano cose di nessun valore]. Lo stesso, Ad Plutarchi Moralia annotationes criticae, pp. 119-151 [(Continuazione; v. Rivista XLII 520). De cohibenda ira. De tranquillitate animi. De fraterno amore. Sono presi in esame, dei tre opuscoli, poco meno di 90 luoghi]. P. H. D(amsré), Ad Apulei Met. VII 5, p. 151 [eru- ctata crassitie invece di crustata cr.: pectus scilicet et venter relu- ctabant eo quod inter pannulos pinguedinem exprimebant ,] Lo stesso, Lectiones Valerianae, pp. 152-164 [(Continuazione; v. Rivista XLI 631). Sono presi in esame 54 luoghi, da V 1,7 a VI 9 ext. 7]. G. Vorrarare, Ad Sophoclis °Indagatores’, pp. 165-177 [(Conti- nuazione ; v. Rivista XLII 521). Proposte di emendamenti e supple- menti e illustrazioni ai vv. 87-93. 173. 176 sgg. 222. (218-222). 224-232. 231 sg. 234 sgg. 254. 255. 259 sg. 261-264. 265 sg. 273 sg. 277. 295. 300 sg. 802. 318. 321 sgg. 324. 357 sg. 360 sg. 362 sgg.]. Lo stesso, Ad u- ridis frg. XXXI, p. 178 [Presso Ateneo p. 585 f, πόλος è una glossa che fu poi intrusa nel testo, il quale era: τὸ πᾶν (" τὸ πᾶν graecis philosophis inde a IV° a. C. saeculo est universum, mundus, 6 κόσμος, οὐρανός, πόλος ,) ἔνύφαντο χρυσοῦς ἀστέρας ἔχον καὶ τὰ δώδεκα ζῴδια]. 1. C. NaBER S. A. Fit., Observatiunculae de iure romano, pp. 179-192 [(Continuazione; v. Rivista XLII 410). CV. De iudiciis in rem duplicibus 111]. J.J. λετμαν, Ad Tibulli elegiam libri secundi primam, pp. 198-197 [I versi 51-58 sono interpolati: costituiscono îne- ptissima additamenta di un qualche ludimagister. La vera lezione del v. 58 è quella proposta dal WaaRDENBURG: dux pecoris curtas auxerat hirtus opes). P. H. D(amsrè), Ad Lysiae or. I $ 16, p. 197 [Forse ὑβρίζων εἰς σὲ κατὰ τὴν γυναῖκα invece di καὶ τὴν σὴν]. --- F. GarIN, De historia Apollonii Tyrii, pp. 198-212 [Reco testualmente, in parte, la conclusione: “(dai raffronti istituiti) iam per se patet ‘historiam Apol- lonii regis Tyri’ mire cum fabulis graecis congruere. Eadem sunt verba, eaedem sententiae, eaedem res: amores, longinquae peregrinationes, tempestates, naufragia, piratarum incursiones, furiosae aemulationes, pudicitiae egregia exempla, somnia, agnitiones. Quodque omnes fabula- tores (cioè i romanzieri) graeci, demonstrandum esse sibi noster consti- tuit auctor, scelestos serius ocius solvere poenas, integros vitae scele- risque puros maximis evadere etiam periculis. Personae, non secus atque in fabulis graecis, dignitate, ingenio, voluntate carent...,. La historia fu scritta in greco non prima del 260 d. C., e poco dopo fu tradotta in latino]. H. F. MuLLer, De locutione vulgari itala © noi si canta’, p. 212 [Basta il titolo, per noi]. J.J. Hartman, Persiana, pp. 213-222 [Note filologiche e critiche a Persio, sull’edizione del van WAGENINGEN. Luoghi presi in esame : I 5-7; 13; 22 sgg.; 36; 49; 85; 127. II. II 3 sg.; 27;

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199

30 sgg.; 45; 61. III 4; 12 sgg.; 43; 63 sgg.; 73 sgg.; 107; 115. IV 10 sgg.; 29 sg.; 37; 42; 49. V 22 sgg.; 39; 45 sgg.; 48; 52; 65; 93; 105; 119; 149 sg.; 169. VI 20sg.; 63; 71sgg.; 179].

Byzantinische Zeitschrift. XXIM. 1914. 1-2. Ο. De Boor, Suidas und die Konstantinische Exzerptsammlung, II, pp. 1-127 [(Continuazione v. Rivista XLI 371 e fine), La conclusione generale è la stessa che quella della I parte del lavoro, cioè che Suida non lesse le opere originali, bensì soltanto gli estratti della Enciclopedia di Costantino Porfirogenneto, almeno per ciò che riguarda i luoghi di 15 serit- tori. Per tutti cotesti scrittori egli approfittò del “titolo”, cioè della parte o volume dell’Enciclopedia περὶ στρατηγημάτων; meno frequente- mente e non per tutti gli scrittori, del “titolo” περὺ ἀνδραγαϑημάτων. Se oltre che a cotesti due volumi dell’Enciclopedia egli abbia attinto ad altri non si può affermare con certezza; certo è soltanto che le citazioni di Suida riguardano sempre estratti dell’opera di puro carattere mi- litare, quindi esclusi affatto quelli περὶ ἐθῶν e περὶ ἐϑνῶν, περὶ δη- unyogròv e περὶ ἐπιστολῶν, περὶ πολιτικῶν διοικήσεως, περὶ παρα- δόξων ecc.).. Ca. Η. Haskins, Moses of Bergamo, pp. 133-142 [A complemento dei lavori dello stesso Haskins e del Lockwoop, The Sicilian translators of the twelfth century and the first Latin version of Ptolemy"s Almagest e dello Hasgins solo, Further notes on Sicilian trans- lations of the twelfth century in Harvard Studies in Class. Philology XXI. 1910, pp. 75-102 e XXIII. 1912, pp. 155-166 (v. Rivista XXXIX 628 e XLI 177)]. Il fascicolo doppio non contiene altri ‘articoli’ che ri- guardino comunque la filologia classica propriamente detta.

Napoli, 17 dicembre 1914.

Domenico Bassi.

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MICHELE KERBAKER

Nacque a Torino il 10 settembre 1835. Compiuti brillantemente gli studi medi e universitari, insegnò le due lingue classiche successiva mente nei regi licei d'Ivrea e Umberto I di Napoli; e frutto di questo insegnamento furono le versioni, accompagnate da studi e commenti, delle Nuvole d’Aristofane e di buona parte dei frammenti dei lirici greci. Ma al Liceo rimase poco: la sua dottrina, l'ingegno, il nobile animo tro- varono, allora, due alti e giusti estimatori, Luigi Settembrini e Bertrando Spaventa, che presto lo fecero chiamare all’Università di Napoli ad inse- gnarvi la Grammatica comparata delle lingue classiche e il Sanscrito.

D’allora con la dottrina si fa sempre più larga e intensa la sua atti- vità filologica e letteraria, a cui dette anche maggior impulso quel Giornale Napoletano di Filosofia e Lettere, che nella breve sua vita luminosa rappresentò quanto v’era a Napoli di più insigne per sapere e per arte. In questo Giornale, e poi, divenuto socio delle Accademie Reale e Pontaniana della stessa città, negli atti di esse, ma special- mente della prima, pubblicò la massima parte dei suoi scritti: studi, con versioni poetiche, sul Mahàbhàrata, sul Ràmàyana, sul Rig-Veda, sul dramma indiano ; e inoltre, di storia delle religioni, di mitologia e di linguistica comparate. Fra gli scritti delle tre ultime specie ricor- diamo: “Il culto dei morti nelle più antiche tradizioni arie ,, La scienza delle religioni ,, Il Bacco indiano nelle sue attinenze col rito e col culto dionisiaco ,; i saggi mitologici: Hermes ,, © Marsia ,, Saturno, Savitar e la leggenda dell’età dell’oro , ; e Probus e i suoi sinonimi nelle lingue classiche ,.

Ma la sua produzione di gran lunga più cospicua riguarda la lettera- tura indiana. Delle moltissime e tutte importanti traduzioni poetiche suddette, accompagnate da non meno importanti studi, ricordiamo solo, per necessità di spazio, quella del delizioso episodio mabàbhàratiano di Nalo e Damaianti, che ebbe due edizioni (1), e, per il suo gran pregio

(1) Torino, Loescher.

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201

artistico, quella del Carretto d’argilla ,, il grandioso dramma di Gu- draka. Ma la maggiore opera sua è per la massima parte inedita, la versione in ottava rima di quanto ha, letterariamente e artisticamente, di più importante e vivo il Mahaàbhàrata, alla quale opera egli attese fino agli ultimi suoi anni. Sono migliaia e migliaia di strofe ariostesche, in cui l’artista dottissimo e squisito venne trasfondendo, come attesta un giudice singolarmente competente (1), almeno un terzo di quel poema, che conta, com’è noto, circa centomila strofe di trentadue sil- labe,. E veramente l’Italia avrebbe a vergognarsi se opera così insigne di dottrina e di arte, con cui si rende al pubblico suo accessibile una delle maggiori epopee dell'umanità, dovesse rimaner inedita.

Anche nei campi delle letterature moderne fu assai cospicua l’attività del Kerbaker. Dei vari studi siffatti è uno inedito sul De Amicis, ed uno sul Tachkeray (2); ma son da annoverarsi tuttora fra i più impor- tanti scritti di letteratura moderna comparata il saggio “Su un luogo dello Shakespeare imitato da V. Monti,, edito più volte (3), e quelli, con versioni poetiche, sul Faust, dei quali L’eterno femminile e l’epi- logo celeste , contiene uno splendido confronto col Paradiso di Dante.

Di grande importanza fu anche l’opera sua metodologica e pedagogica. Celebre e più volte ristampato (4) fu lo scritto sulle versioni delle Me- tamorfosi di Ovidio del Brambilla, del Dorrucci e del Goracci. Dello stesso genere è una recensione che pubblicò in questa Rivista, nel 1881, per sferzare senza pietà uno di quei libri scolastici raffazzonati per mero scopo commerciale senza alcun rispetto all'educazione della gio- ventù, anzi senza pudore alcuno, e pure tanto fortunati quanto spropo- sitati. E fervida, ampia, insigne fu la sua attività pedagogica, la quale egli, oltre che con l'insegnamento e le conversazioni private e con l’opera e le relazioni delle molte missioni scolastiche che adempì, svolse in vari scritti intorno agli ordinamenti dei nostri istituti d'istruzione. Per l’Uni- versità sostenne la piena autonomia e la semplificazione di regolamenti e metodi con maggior libertà agli studenti di eleggersi i propri studi. Per la scuola media, combattè con vivace ardire l'uniforme tipo classico che doveva dar accesso a tutte le Facoltà universitarie e ad ogni sorta d’ufficio. E mentre sostenne la necessità del decentramento dell’istru-

(1) P. E. Pavolini nel Marzocco del 7 settembre 1914. (2) È la prefazione alla versione della “Fiera della vanità, del Tach- keray, condotta dalla signora Kerbaker, ed edita dal Treves.

(3) Lo Zumbini volle ristamparlo in appendice al suo volume Sulle poesie di V. Monti ,.

(4) L’ultima dal Le Monnier.

202

zione pubblica con lo sviluppo dell'insegnamento privato, proclamò l’ardito concetto della libera opzione per tutte quante le discipline del Liceo-ginnasio con speciali esami di ammissione alle varie Facoltà, in luogo di quello unico di Licenza liceale. Queste sue idee, che una quin- dicina d’anni fa provocavano lo scandalo, ora si vanno sempre più nella loro sostanza attuando, ma poco o nulla si ricorda ch'egli ne fu uno dei primi e più vigorosi banditori in Italia.

Nell'ultimo tempo della vita, che quasi cieco e affranto dai malanni non potè più applicarsi sui libri, tacque, pur fremendo e dolorando, il dotto, agì libera e semplice la sua natura essenzialmente poetica: la Musa gli leniva lo spasimo delle notti insonni dettandogli varii versi dolenti e fantastici (1). E in questo tempo dettò una lunga epistola in martelliani a un suo antico compagno di collegio (2), notevolissima, tra l’altro, per la fresca giovenile vivezza e soavità di sentimenti.

Ma chi aveva consuetudine con Michele Kerbaker non meno che la sua immensa dottrina, non meno che la mente acuta, profonda, geniale, ammirava ed amava l’uomo ed il maestro. Era in lui potente, ed al rude attrito della vita rimase inalterata, la nativa sdegnòsa schiettezza. Egli studiò, poetò, scrisse per bisogno prepotente della sua natura, per nobilissimo impulso al bene e ad essere utile alla cultura ed all’educa- zione, e mai mirò ad applausi o vantaggi; non gli parve che per pro- cacciarsi onori mettesse conto togliere una piccola parte del suo tempo e delle sue forze agli alti scopi spirituali a cui tutto l’essere suo era consacrato. Perciò la sua personalità non s'impose al mondo che dispensa i beni ordinari della vita e ne fruisce; ma essa esercitò un gran fascino su quelli che lo avvicinavano. Onde fu uno dei pochissimi veri Maestri, di quelli cioè che per pura azione del loro animo ed intelletto raccol- gono intorno a un nucleo di devoti, che da essi prendono lumi e impulsi, e ne continuano, ne svolgono o ne superano le dottrine ; quali furono a Napoli il Puoti, il Settembrini, il De Sanctis, il Bovio.

Perciò mai nei suoi discepoli verrà meno il rimpianto d'un tal Maestro. Per la suggestione che esercitava sulla parte migliore di noi, quella dove si generano le idealità e gl’impulsi al bene, egli era nella stessa trama della nostra vita. Emanava da lui come un benefico spirito pa- terno che ristorava la mente e l’animo e li rendeva migliori, e ad esso, come a luce della vita, la mente e l’animo si volgeva quando cercava

(1) Specialmente una ricca collana di sonetti, inedita.

(2) Nicola Manfredi, Prof. onorario dell’Università di Pisa, col quale, studente, fu accolto, per merito, nel Collegio universitario di Torino, detto delle Provincie.

Pirtutza isdem temporibus optime aestimantur quibus facillime gignuntur :

| 0‘0‘“e ancora non è

rara o scarsa la sincera virtù nella patria nostra, essa in Michele Kerbaker ricorderà ed onorerà sempre uno dei suoi più dotti umanisti e più insigni traduttori in poesia, uno dei critici più acuti e geniali, e colui che fra i primi in Italia dette impulso agli studi di let- teratura indiana e grandemente li promosse e ne divulgò i capolavori, ma soprattutto uno dei suoi migliori uomini e dei suoi più grandi educatori.

Napoli, 19 novembre 1914.

Paocro Fossararo.

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PUBBLICAZIONI RICEVUTE DALLA DIREZIONE

Carocero Viranza. I precedenti classici del dogma della grazia (da Bilychnis, Rivista mensile di Studi Religiosi, Anno III - fase. VII), di pp. 12.

Arronso Pisreri. I documenti Costantiniani negli scrittori ecclesiastici. Contributo per la fede storica di Eusebio. Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1914, di pp. 75.

Pau Lenmann. Vom Mittelalter und von der lateinischen Philologie des Mittelalters. Miinchen, C. H. Becksche Verlagsbuchhandlung Oskar Beck, 1914, di pp. 154 (Quellen und Untersuchungen zur la- teinischen Philologie des Mittelalters. Fiinfter Band, erstes Heft).

Carr Roserr. Zu Euripides” Bakchen. Zu Menanders IE PIKETPO-

MENH. Der Oxyrhynchos-Papyros 213 (Sonder-Abdruck di “Hermes ,, 49 Band, pp. 632-636). NicoLa Terzacni. Filologia e Letteratura classica. Memoria. Margi-

nalia ai nuovi frammenti di Saffo. Nota (Estratti dagli “Atti della R. Accademia Arch. Lett. Bell. Arti, di Napoli, Nuova Serie, vol. III, 1914, pp. 217-239 e 243-246).

RarraeLe Onorato. I Frammenti dell’Ipsipile Euripidea ne’ papiri d’'Os- sirinco. Nota (Estratto dagli “Atti R. Accademia , cit., Vol. cit., pp. 195-213). i

Wiruiam A. MerriL. Corruption in the manuscripts of Lucretius (Uni- versity of California Publications in Classical Philology. Vol. 2, No. 11, pp. 237-258).

Miinchener Museum fiir Philologie des Mittelalters und der Renaissance herausgegeben von Frieprica WrrneLm. Zweiter Band, zweites Heft, pp. 117-238; drittes Heft, pp. 239-367. Minchen, Georg D. W. Callwey, 1914.

Pinparo. Le odi e i frammenti. Traduzione con prolegomeni e commento di Giuseppe FraccaroLi. Nuova edizione rifatta. Vol. I, di pp. 376; Vol. II, di pp. 457. Milano, Istituto Editoriale Italiano (Gli Immor- tali e altri massimi scrittori. Raccolta diretta da Luigi Luzzatti e Ferdinando Martini. I serie, voll. XXIX e XXX).

Aupo FerraBino. Ancéra Cirene mitica. Nota (Estr. dagli “Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino ,, vol. 49, 1913-14, pp. 1063-1079).

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Massimo LencHanTIN pe GusernaTIS. Ennio. Torino, Tipografia G. Anfossi e C., 1914, di pp. rv-118.

M. F. QuinoiziaNI Institutionis oratoriae liber primus con note di Giuseppe Lupi. Livorno, Raffaello Giusti, 1915, di pp. virr-110.

G. FunaroLi. Da un codice di Valenciennes. Scholia Vaticana Regi- nensia ad Vergilium (Estratto dagli “Studi italiani di Filologia classica ,, vol. XXI), di pp. 81.

Scolii Filargiriani (Sonder-Abdruck aus dem Rheinischen Museum fiir Philologie. Neue Folge. Band LXX, 1914), di pp. 51.

Eurieipe. La Medea. Volgarizzamento in prosa di L. A. Michelangeli, condotto sopra un testo riveduto ed emendato dal traduttore. Se- conda edizione notevolmente ritoccata e provveduta di nota critica. Bologna, Zanichelli, 1914, di pp. xxvin-62.

Aporro GanpiaLio. Sintassi latina. Parte terza e ultima per la 78 Gin- nasiale. Rocca S. Casciano, Licinio Cappelli, [1914], di pp. 162 e 4 tavole sinottiche.

H. Draneim. Die Ilias als Kunstwerk. Ein Beitrag zur Erkl&rung der Dichtung. Miinster i. W., Aschendorffsche Verlagsbuchhandlung, 1914, di pp. 119.

Axpo Ferrasino. Kalypso. Saggio d’una Storia del Mito. Torino-Milano- Roma, Fratelli Bocca, 1914, di pp. virr-448.

Corrapo Barsagarto. La catastrofe di Nerone. Catania, Francesco Bat- tiato, 1915, di pp. 77.

P. L. Crceri. La resurrezione secondo una descrizione del III secolo d. C. (Estratto dal fascicolo di settembre 1914 della Rivista d’Italia ,, pp. 429-437).

Aristipe Mariso. L'indirizzo classico nei primi studi di Dante (Estratto dal Vol. XXX, Dispensa IV degli “Atti e Memorie, della R. Ac- cademia di scienze, lettere ed arti in Padova).

Carro Lanpri. Di un commento medievale inedito della Tebaide , di Stazio (Estratto dal Vol. XXX, Dispensa IV degli “Atti e Memorie citt. ,, pp. 315-340).

C. Varerio CaruLro. Contrasto Nuziale. Versione metrica e note di Giuseppe Lupi. Urbino, Tip. Arduini, 1915, di pp. 14.

Carro Pascar. Nimbo e corona radiata. Cratera coronant:— Un antico epigramma anonimo ed un verso di Giovenale. Due etimologie (Estratti dall’ “Athenaeum ,, Anno II, Fase. III e IV), risp. di pp. 6, 2, 9 e 8.

Pierro Torsca. Storia dell’arte italiana. I. Dalle origini alla fine del secolo XIII (Fasc. 10°-11° del Vol. III - Da pag. 257 a 890 della Storia dell'Arte classica e italiana di G. E. Rizzo e P. Torsca δὴ Torino ece., Unione tipografico-editrice torinese, 1914.

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Concerto Marc®esi. Valerio Marziale. Genova, A. F. Formiggini, 1914, di pp. 70 (Profili N. 36).

M. Fagio QuintiLiano. Il libro decimo della Institutio oratoria con in- troduzione, commento e indici di Arnaldo Beltrami. Bologna, Nicola Zanichelli, [1914], di pp. xxxv-155.

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Remieio SagpapINI. Storia e critica di testi latini. Cicerone. Donato. Tacito. Celso. Plauto. Plinio. Quintiliano. Livio e Sallustio. Com- media ignota. Catania, Francesco Battiato, 1914, di pp. x-458.

Le scoperte dei codici latini e greci ne’ secoli XIV e XV. Nuove ricerche col riassunto filologico dei due volumi. Firenze, G. C. Sansoni, 1914, di pp. νιπ- 214.

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Giovanni Davicini. Federico Eusebio (1852-1913). Cenni biografici e let- terari. Alba, Tip. Sansoldi, 1914, di pp. 22.

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Rivista storica italiana. Ann. XXXI], n. 3.

Torino, 8 gennaio 1915.

GiusepPE MAGRINI gerente responsabile, Tip. Vinoenzo Bana - Torina

IL PROLOGO

DELLE METAMORFOSI DI APULEIO

( Continuazione e fine. Cfr. pag. 1 sgg.)

L’interpretazione del prologo ci porta a considerare bre- vemente il capitoletto dell’Helm nella citata prefazione, a p. vi-xI, dove la questione cronologica si intreccia con la parentela di Lucio.

L’Helm è d’avviso che l’autore imitato da Apuleio ed è inutile aggiungere che anche per lui 1 Ὄνος pseudo-lucianeo e le Metamorfosi apuleiane derivano da una medesima fonte abbia scritto intorno alla metà del secondo secolo dopo Cristo, ciò che egli deduce necessariamente dai due passi di 1, 2: Théssaliam nam et illic originis maternae nostrae fundamenta a Plutarcho illo inclito ac mox Sexto philosopho nepote eius prodita gloria(m) nobis faciunt, e di 2, 3 (parole di Byrrena): Ego te, o Luci, meis istis manibus educavi, quidni? parentis tuae non modo sanguinis, verum alimoniarum etiam socia[m]. Nam et familia Plutarchi ambae prognatae sumus et eandem nutricem simul bibimus et in nexu germanitatis una coaluimus. Che lo Pseudo-luciano taccia in proposito, non reca meraviglia, ma bene osserva l’H. che le dichiarazioni di Lucio al magistrato romano, nel cap. 55 dell’*Ovos, confermano ap- punto la nobiltà della sua famiglia, dove non mancava il culto delle lettere.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 14

210

Con una fine ricostruzione l’H. giunge a concludere che, se le notizie della famiglia di Lucio sono da riferirsi ad Apu- leio, egli avrà potuto scrivere le Metamorfosi difficilmente prima del 160; se invece alla sua fonte, evidentemente lo scritto latino sarà derivato dal greco qualche tempo dopo. Non mi trovo d’accordo coll’Helm quando egli non vede per qual motivo Apuleio avrebbe potuto inventare la parentela di Lucio, recando cosî un'offesa al filosofo platonico Plutarco ed allo stoico Sesto (1).

Potrebb'essere una burla e che Apuleio sia burlone 51 può ben vedere anche nell’Apologia. Se egli conosceva, come è am- missibile, Sesto quando questi era maestro di Marco Aurelio, mentre egli era ancora meschino e cercava di farsi strada, perché non può avere provato dell’antipatia per lui? e dalla antipatia alla satira si giunge facilmente. Quanto a Plutarco, questi era parente di Sesto. Che A. sia soltanto traduttore, non solo non è dimostrato, ma è improbabile. Le conclusioni schematiche come quella del Biirger (in Studien zur Gesch., ecc.: vedine riassunto dell’Olivieri in Cwlt., XXI, 15, p. 228-9) che le Metamorfosi Apuleiane rappresentino l'esemplare primo in una maniera piu estesa, mentre 1 Ὄνος sarebbe una redazione più concisa ed entrambe le opere deriverebbero dai due primi libri delle Metamorfosi di Lucio Patrense, non danno un quadro esatto delle cose. Che lo scritto pseudolucianeo sia poi di un cattivo epitomatore, come vuole il Biirger (1. c.), non posso nemmeno facilmente ammettere.

(1) Il Rohde (R%. Mus., 40, 76, n. 15) aveva prima creduto con l’QOu- dendorp che le parole di 1, 2 relative alla parentela della madre di Lucio con Plutarco e Sesto fossero sospette, ma poi in seguito ammise che possano esser state scritte da Apuleio come si trovano ora nei mss. In ogni caso sarebbero per lui pura invenzione di Apuleio e, quello che naturalmente trovo singolare, una specie di omaggio che egli rendeva ai due filosofi. Mette conto di riportare le sue parole: es scheint, dass er [sc. Apuleius] mit der Anknipfung der Familie seines Helden an Plutarch und den (damals noch lebenden) Sextus diesen Meistern eines halben und verwaschenen Platonismus, wie er in Athen auch ihm beige- bracht war, eine Art von Huldigung darbringen wollte ,.

211

Considerando l’originale greco nel suo insieme si scorge, è vero, la maggior parte degli episodi come ristretta a pochi tratti necessari, ma si vede ancora qualche punto, in parti- colar modo dei più lubrici, trattato ben diversamente. Ciò che potrebbe spiegarsi coll’adattamento del racconto ad una esposizione orale. Cito, a cagion d’esempio, l'episodio di Lucio e di Palestra (ὃ 5 al principio dell’11) con l’oscena descri- zione della lotta e la novelletta finale, quella che manca in Apuleio. Dal primo di questi due episodi narrato con gran lusso di particolari in confronto coll’episodio di Lucio e di Fotis in Apuleio (2, 7-11, 16-18), si deve pur dedurre che l’au- tore dell’"Ovos ed Apuleio sapevano colorire le novelle con una forma speciale per ciascuno di narratori abilissimi e che almeno in questo campo extra-filosofico Apuleio merita la lode di una certa originalità.

Ritornando all’Helm, credo ch’egli sia nel vero, quando si aggiunge agli oppositori dell'ipotesi dell’Arnim (VIII), che suppone l’*Ovos uno scritto dove Luciano, per satireggiare uno scrittore, riferisca a lui tutte le avventure dell’asino, ma non già perché l’asino ritornato uomo dice di e de’ suoi molte belle cose, come in Apuleio molte belle cose son dette della famiglia di Lucio. Ritengo tuttavia che per giudicare di questi particolari manchino dati sufficienti ancor più che non per giudicare se e quanto i casi di Apuleio possano essere adom- brati nel romanzo scritto in latino. La novella dell’uomo asino era antichissima e assai nota (1): che questa novella presti a presunti significati allegorici e satirici è di per molto chiaro, troppo chiaro, ma che la satira sia mai nei due scritti greco e latino giunta al punto che, congiungendone parecchi elementi, si possa da noi riferire ad una determinata persona e piuttosto ad un uomo di studio che ad un altro, non mi pare si possa in alcun modo asserire. Invece si può

(1) V. Van der Vliet, o. c., ultima pagina, e P. Wendland in Die griechische Prosa, Leipzig*, 1912, p. 241. Ricorda pure Agostino de civ, dei, 18, 17 sgg. e cfr. Teuffel ecc., o. c., IIl, 106, nonché Christ ece. Gesch. der gr. Litt., 2, 1913, p. 575, n. 4.

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forse intravvedere qua e qualche significato allegorico in parecchi punti dell’opera Apuleiana, quasi come la morale della favola.

Sia poi che Apuleio abbia tratto dallo scrittore greco i par- ticolari della parentela di Lucio, o sia, come non è meno probabile, che tale parentela egli abbia immaginato, è note- vole che al principio stesso della narrazione, dopo aver fatto dichiarare dal narratore in prima persona, Lucio, la sua ori- gine greca, conferma nella forma piu esplicita quasi a scanso di equivoci tale concetto fondamentale subito nelle prime parole del racconto, facendo dichiarare a Lucio la sua parentela, dove sono nomi troppo noti, perché mai ad al- cuno dovesse passar per il capo che Lucio fosse Apuleio stesso. Non mi pare che si vada troppo oltre supponendo che ad Apuleio dovesse premere un tal particolare, e non l’abbia pertanto buttato gii a caso, sbadatamente, sia che l’abbia in- ventato lui, sia che l’abbia trovato bell’e fatto. Ciò impor- tava a lui, non importava punto allo Pseudoluciano, e si ca- pisce. Ad Apuleio la novella dell'asino doveva servire per narrare storielle allegre e brillanti, come anche per richiamare l’attenzione sulla magia e sulle iniziazioni: la novella gli serviva benissimo, e perciò egli dichiara: sermone isto Milesio, cioè sulla trama di codesto canovaccio romanzesco la storia dell’uomo asino racconterò novelle, ma non intendeva già di aver fatto il viaggio più o meno simbolico di Lucio, che egli chiamava un sermo Milesius, amava probabilmente di tirarsi addosso un tale ridicolo. Solo, pensando ora a Lucio Patrense, mi domando se anche a lui abbia potuto esser gra- dito che tutti identificassero la sua persona con quella del- l’asino, ciò che avveniva se egli dava anche il nome de’ suoi parenti. Mi spiego. Finché noi immaginiamo un Lucio Patrense che, scrivendo un libro di metamorfosi, in una parte di esso introduce la novella dell'asino e la narra in prima persona, usando, o conservandovi tradizionalmente, il proprio nome, i dato che questa è tutta roba d’invenzione, fabula Milesia, nessun ridicolo potrebbe ricadere su di lui, ma quando egli avesse proprio tenuto, diciamo cosî, a qualificar questo Lucio per quella data persona, la sua propria che aveva parenti

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| pare che egli de’ suoi parenti avrebbe dovuto tacere (1). Com-

prenderei piuttosto che Apuleio, che ama mettere i punti sugli in fatto di persone (2), avesse potuto svelare i parenti di Lucio e avesse forse posto i veri nomi di Salvia e di Byr- rhaena come quelli di Plutarco e di Sesto, al posto di altri nomi che potevano essere stati nella storia di Lucio Patrense. Non vediamo nell’’Ovos il nome di ἌἌβροια rispondente alla Byrrhaena (o Byrrhena) di Apuleio? (3).

Ed ora, prima di venire alla traduzione del prologo, diamo uno sguardo rapidissimo alle Metamorfosi, soltanto per richia- mare l’attenzione su alcuni concetti che provano 1 nostri as-

(1) È ben vero che il quesito si può risolvere in due modi, o acco- gliendo l’antica ipotesi che Fozio abbia confuso il protagonista Lucio Patrense con l’autore dell’opera, o quella del Reitzenstein (in Helleni- stische Wundererzùhlungen, Leipzig, 1906, p. 32), che l’opera del Patrense fosse un’aretalogia.

(2) Apuleio ci appunto i nomi delle puellae degli elegiaci romani in De Magia, 10. i

(3) Quanto al rapporto cronologico tra le Metamorfosi e l’Apologia, la soluzione del quesito non ha fatto alcun passo dal Vallette (o. c.) all’Abt (o. c.), all’Helm (pref. cit.). Si è continuato a ripetere in massima che se le Metamorfosi fosser state pubblicate prima dell’Apologia, gli accusatori nel processo di Sabrata le avrebbero rinfacciate ad Apuleio. A cui risponde che Apuleio potrebbe bene avere omesso nella sua di- fesa l'accusa derivantegli dalla composiz. delle Metamorfosi ciò che è argomento assai debole, e assai meglio che Apuleio ne avrebbe in quel caso approfittato per dimostrare che le Metamorfosi avevano un fine altamente morale e religioso, per ricavarne insomma una prova in senso contrario.

E nemmeno hanno valore persuasivo gli argomenti che altri ha tratto dalla lingua delle due opere.

Ricordo l'osservazione del Novak (in Quaestiones Apuleianae, Prag, 1904, Ῥ. 97), che accede alla ipotesi del Rohde sull’anteriorità delle Metamorfosi

214

serti riguardo al proemio, alla sua composizione, al suo valore letterale e al rapporto suo con tutta l’opera.

Lucio [1] personaggio del prologo ? non è detto, ma si ca- pisce bene che è lui: e chi altri potrebbe essere?] è diretto in Tessaglia. Incontra due viandanti e sta a sentire quel che dicono. Uno dei due prega l’altro di non raccontare favole

cosi assurde, cosi inverisimili... sarebbe come dire che c’è chi può arrestare il sole... ,. Dunque entriamo subito nel regno del fantastico, ma anche propriamente nel regno della magia.

Del resto Lucio nello scritto pseudolucianeo dice manife- stamente di essere venuto in Tessaglia per vedere cose ma- giche; il Lucio Apuleiano non dice altrettanto, ma da prin- cipio con maggiore accortezza di romanziere non ci lascia invece comprendere lo scopo del viaggio: per affari, dichiara. È ben vero che alla fine del primo libro l'ospite Milone lo trattiene e lo importuna con una lunga serie di domande mentre l’altro soffre di fame e di sonno —, e tra queste entra pure lo scopo del viaggio. Lucio sponde anche intorno a

all’Apologia, appoggiandosi sull'uso di propterea e di quapropter nelle due opere citate. Otto Rossbach, recensendo la dissertazione di A. Kirch- hoff: De Apulei clausularum compositione et arte quaestiones criticae (Leipzig, 1902), pone in rilievo un’osservazione sull’uso di velitari (p. 26), aggiungendo che solo per questo si dimostra probabile la priorità delle Metamorfosi rispetto all’Apologia.

Dal noto passo della Vit. Clod. Alb. 12, 12: cum ille naeniis anilibus occupatus inter Milesias punicas Apulei sui et ludrica litteraria consene- sceret ricava il terminus ante quem della composizione delle Metamor- fosi Apuleiane, che sarebbero state pubblicate prima del 197, anno in cui mori Albino. Il Monceaux nella sua Note critique sur la chronol. des euvres d'Ap. (estr. dalla Revue Arch., 1887) traduce: au milieu des milé- siennes carthaginoises de son compatriote Apulée, e certo sarebbe ardito intendere diversamente il vocabolo punicas preso a sé. Nulla per altro impedisce di supporre che quel punicas voglia accennare al fatto che quelle novelle erano a Cartagine sulle labbra di tutti e cioè ben note anche prima della redazione latina di Apuleio, oppure ancora che erano scritte in lingua punica. Albino avrà a maggior ragione ammirato l’ela- borazione artistica di quella materia a lui già nota, retractata dalla vi- vace fantasia di Apuleio.

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215

questo oggetto, ma Apuleio non ci dice come. Poco prima del resto Pythias aveva fatto a Lucio la medesima domanda, senza ottenere risposta (c. 24). Nel libro seguente la curio- sità sulle cose magiche sembra sia ispirata a Lucio più dalle circostanze esteriori che non da un preciso suo scopo pel quale egli fosse venuto ad Hypata. Accortezza di narratore, di abile novelliere, che del resto è anche una delle doti del- l'oratore, come notava già l'ottimo Quintiliano, quella di sot- tintendere particolari, che si esporranno poi in séguito, accor- tezza che noi troviamo così ben applicata in parecchi punti dell’Apologia. Ma il lato caratteristico del terzo e del quarto capitolo, caratteristico quanto all'importanza che Apuleio as- segna alla magia nel suo romanzo, risulta dall'intervento di Lucio nel dialogo da lui sorpreso tra i due compagni di viaggio e a cui abbiamo accennato. Lascia raccontare all’amico la sua storia ,, consiglia Lucio a colui che sembrava averne ab- bastanza di fantasticherie. E prosegue: ci son cose che sem- brano incredibili, ma che sono vere, e soggiunge per conto suo una serie di esercizi meravigliosi veduti da lui ad Atene davanti al Pecile: incredibili cose, ma vere. C'era perfino uno che ingoiava una spada. Racconta, prosegue Lucio, io ti cre- derò e ti pagherò da cena. Un seguace del Platonismo reli- gioso del secondo secolo come pit tardi un puro Neoplato- nico non poteva prendere altro atteggiamento di fronte a ciò che a prima vista potesse sembrare inverisimile.

Sarà qui atteggiamento originale di Apuleio? Non sappiamo, ma non possiamo negarlo. Certo serve benissimo al novella- tore, e un sofista filosofo africano, del paese dove la diffu- sione di nuove teorie a base religiosa coi relativi addentellati delle superstizioni trovava un campo singolarmente adatto, doveva ricorrervi come ad un mezzo efficace di curiosità nel suo racconto (1). Non c’è nulla al mondo di incredibile, una volta ammessi, accanto al sommo Dio, divinità di second’or- dine, i demoni, e finalmente anche i maghi.

(1) Cfr. anche W. Thieling, Der HeMlenismus in Kleinafrika, Leipzig, 1911, p. 45, 48 e sgg.

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Il compagno accetta l'invito gentile di Lucio (1, 5) e rac- conterà, premettendo il giuramento che tutto quanto narra è vero. È un pover'omo costui, un uomo grosso, è un com- messo viaggiatore di miele e formaggio: che interesse po- trebbe avere a sognare racconti in suffragio della magia? Ed ecco l'ottimo formaggiaio raccontarci la storiella dell’in- contro con Socrate creduto morto. È un uomo, è uno spettro... : certo dopo che l’amico Aristomene l’ha accompagnato al bagno e lo ha vestito di panni suoi, l’altro si trasforma, di- viene una persona di questo mondo, gaio, pronto allo scherzo..., che racconta ben presto, sorpreso da un pensiero pauroso, tutta una storia di briganti, delle malie della vecchia Meroe, capace di trar gi dal cielo gli astri e di far invaghire di gli Etiopi. Il prologo dice: figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas et in se rursus mutuo nexu refectas ut mireris. Ho già detto che figuras fortunasque non è una endiadi e che le metamorfosi Apuleiane riguardano appunto non soltanto le figurae, ma anche le fortunae hominum. Ag- giungo che non mi pare logico pretendere che sempre ed in ogni caso le narrazioni Apuleiane contengano una trasforma- zione e una ritrasformazione, ma che del resto ciò non è soltanto vero della metamorfosi di Lucio in asino e di nuovo in uomo, ma di parecchie altre, ad esempio di quella che esaminiamo ora. Il povero Socrate era ridivenuto di spettro o quasi spettro un uomo normale, ma le malie di Meroe con- tinuano e così spira ben presto dopo una terribile avventura nella fuga dall’albergo incantato (c. 19). Il libro di Apuleio si apre dunque con una novella di magiche trasformazioni, di cambiamenti di figure e di condizioni, e come una novella entra nell'altra, cosi in questa prima di Aristomene e di So- crate il racconto dell’impaurito Socrate all’amico contiene novellette di altre trasformazioni: Meroe trasforma in ca- storo un suo amante, un oste suo concorrente in una rana, un avvocato maldicente in ariete e la moglie del suo amante in una povera donna sempre incinta. Non insisto su altri caratteri fondamentali dell’opera, perché uscirei dal mio as- sunto, ma noto soltanto che alla trasformazione magica va legato sempre o quasi il buffonesco satirico: la trasforma-

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zione dell'amante infedele in castoro (cap. 9) è accompagnata da uno schiarimento che non ripeto, l’oste trasformato in rana gracida agli avventori dal fondo di una botte di vino e di feccia... Talora il buffonesco raggiunge i limiti estremi e siamo addirittura nel grottesco, come nel cap. decimo. Al- trove siamo nel magico spaventoso che spesso non è privo degli accennati elementi, cui si associa lo strano, come nei paragrafi 12 e 19. L'Helm non ha notato, e nemmeno prima di lui il Teuffel (1), questi lati caratteristici del romanzo che hanno tanti punti di contatto con l’arte della 25 sofistica, colle credenze neopitagoriche e neoplatoniche, soprattutto col romanzo o colla novella milesia, ma che indubbiamente sono cosi ben rappresentati e coloriti con un risultato di sorpresa bizzarra’ e impressionante da quest'arte Apuleiana in modo tipico, che è già per qualche rispetto come la via di transi- zione alla parodia della novellistica, quale troviamo nella Vera historia di Luciano.

Il novelliere ha ricavato dalla Grecia, dall'Oriente elle- nizzato la materia, gli spunti, parte delle narrazioni sue noi non siamo in grado di dire in qual misura (2) ma questa constatazione è ben lungi dal valere come prova con- traria alla sua originalità, che ci è garantita dalle qualità dell'ingegno, dalla cultura, dal concetto di una lingua e di uno stile di un vivacissimo barocco. Rètore, filosofo, abile nel giure, avvocato almeno di —, ragionatore sottile, capzioso ed argutissimo, declamatore finito egli ci appare soprattutto nell’Apologia e pur in quelle parti delle Meta- morfosi dove è ammessa anche dai pi restii la romanizza- zione’ dell’opera. La sua filosofia cavillatrice con la super- stiziosa mistica del tempo che lo avvicina ad Elio Aristide, la sua indole personale ed africana, tutto fuoco ed aspira- zioni, incerta ed irrequieta, l'ingegno fervido e vano, la scal- trezza naturale affinata dalla vita di avventuriero sono le indiscutibili qualità che spiegano il furbo apologista come

(1) In Studien u. Karakteristiken, Leipzig”, 1889. (2) V. la nota 1 a p. 47.

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l'inventore del bizzarro barocco delle Metamorfosi. Chi vorrà obiettare che qui si tratta di forma? Nessuno certamente, perché la distinzione tra forma e sostanza qui almeno sa- rebbe assolutamente fuor di luogo. Apuleio ride, scherza, fa-

voleggia, declama, mescola il serio col faceto con una natu--

ralezza che è la vita del suo romanzo; per lui non c'è il vero come non c’è il falso, il mondo è una commedia dove è essenziale di recitar bene la propria parte, ora come scet- tico, ora magari come sacerdote, burlandosi del pubblico e riscotendo gli applausi. E così gli è comodo lasciar credere ch'egli abbia qualche magica potenza, che eserciterà, ben in- teso, a fin di bene. Quale meraviglia se qualche proposizione del suo romanzo dica chiaro che, ove potenze superiori vo- gliano, le cose in apparenza più inverisimili sono invece possibili ?

Dice Lucio (1,20): Per me non c’è nulla d’impossibile... , (1), e continua: Quello che il fato vuole... a tutti avvengono cose stranissime, gl’'ignoranti soli non ci credono...,; sicuro: anche il nuovo Platonismo si dirige agli uomini di buona fede, come altre dottrine etico-religiose dell’Oriente. Ma su- bito l’arguzia demolitrice fa capolino e il narratore conclude che s'erano divertiti tutti della favola..., e s'era divertito anche il cavallo.

Tutto quel mondo gaio che in Hypata raggiunge l’apice dell'allegria ha qualche cosa di così tipico nella sua bizzarra rappresentazione, che difficilmente può non dirsi apuleiana. Non ce n'è traccia nell’"Ovos. Noi non possiamo vogliamo dire che sia invenzione di Apuleio la città del Riso; crediamo

(1) Non conviene dimenticare che questa è arte di novellatore in ge- nere. V. infatti in Petronio Sat., 62, 63, 64. Se non che in Apuleio la dichiarazione non è, almeno manifestamente, cosi burlesca come in Pe- tronio. Un lettore non prevenuto può anche prenderla sul serio ‘ed ap- punto questa ambiguità credo che sia voluta qui da Apuleio. Eg0 vero? [sc. ego Lucius] nihil impossibile arbitror, sed uteumque fata decre- verint, ita cuncta mortalibus provenire: nam ct mihi et tibi et cunctis ho- minibus multa usu venire mira et paene infecta, quae tamen ignaro relata fidem perdant.

219 A

anzi di no, ma non possiamo non ammirare il festivo novel- liere che si è provato cosî abilmente in ùn genere tanto dif- ficile e non possiamo non disconoscere che l’inesauribile brio della sua narrazione doveva corrispondere alla ‘forma’ carat- teristica della sua mente e tempra d’artista. Ciò è tanto vero ch’egli burla sempre, e quando scherza e... quando parla sul serio. Quando Lucio domanda all’ostessa (1, 21) di Hy- pata se conosca Milone quendam e primoribus, certo’ de’ primi perché sta fuori di porta, ella risponde e ride, sog- giungendo tali particolari sulla sordidezza di lui, che ride di gusto anche Lucio.

ΑἹ mercato dei pesci il condiscepolo Pythîas rende a Lucio un servigio, diciamo, da amico, che non potrebbe esser narrato piu facetamente e meglio condito di più lepida forma di scetticismo spicciolo. Ed ora mi si dica se sia lecito pensare al sorgere di un Apuleio serio serio alla fine dell’11° delie Metamorfosi!

Lucio si sveglia dopo la prima notte di sonno agitato ad Hypata, e quasi colle sue dichiarazioni tradisce lo scopo prin- cipale dell’opera, di parlare della magia e delle potenze ma- giche e in particolare delle trasformazioni: Nec fuit in illa civitate quod aspiciens id esse crederem, quod esset, sed omnia prorsus ferali murmure in aliam effigiem translata. Del resto Lucio confessa poi apertamente non soltanto in 2, 6 il semper optatum nomen artis magicae, ma nel capitolo 12°, importantis- simo per quanto concerne la magia, narra, come accennai, di quel Caldeo che fa previsioni su tutto, Diofane di nome, che gli aveva predetto ch’egli sarebbe stato oggetto di lunga ed inverisimile istoria e l’eroe di un racconto. Come è note- vole che accanto a tutto questo Apuleio non dimentica la burla in cui involge ogni cosa, facendo narrar da Milone una favoletta, dove appare che non sempre Diofane era un felice profeta: cosi sia stato Diofane piu esatto con te, conclude la magnifica macchietta di Milone.

Quando l’incerta figura di Birrena descrive l’attraente sog- giorno di Hypata, e fa il curioso paragone, doppiamente curioso perché in bocca sua, con quello di Roma, dove pro- babilmente non era mai stata, Lucio risponde: si, ma for-

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mido caecas et invectibiles latebras magicae disciplinae e fa rimanere il lettore a bocca aperta, descrivendo tutto quello che fan le maghe precisamente ad Hypata, lui appena ve- nuto, a dei cittadini Hypatensi. Nessuna meraviglia: è un tratto burlesco. A. si burla di tutto e di tutti: dei personaggi della sua narrazione, delle credenze religiose e magiche, di Lucio, e del lettore. In massima, come spesso Luciano.

Questo ho bisogno di rilevare, perché, se non si delinea il carattere dell’autore e dell’opera, non si spiega il prologo. Esso rimane un indovinello, ove sia preso solo, separato dall'opera stessa. Prescindendo dalla considerazione testé fatta, poté l’Helm giudicare (o. c., pag. xv} come strana l’invoca- zione di Aristomene (1, 16), di quel povero Aristomene che era rimasto sotto il lettuccio, col capo fuori, come una tartaruga : grabattule... animo meo carissime, qui mecum tot aerumnas erxanclasti, cett. Comico si, anzi grottesco, pagliac- cesco, se volete, ma appositamente voluto e per nulla da inserire, come fa l’Helm, in De rebus neglegenter composttis. Dice VYH.: Ita enim lectum appellare videtur, non qui per unam noctem mutilo, et putri et alieno, sed qui suo et semper eodem usus est. Naturalmente s’egli parlasse sul serio, e la narra- zione non fosse comico-satirica. L’incoerenza dei personaggi è sfruttata da Apuleio con la massima abilità, più che da Petronio. :

Qui si vede il retore che gioca continuamente alla sor- presa, o almeno dalla teoria retorica trasferisce nella narra- zione novellistica il precetto del contemporaneo Frontone di avvincere col nuovo, coll’inusitato, col sorprendente. E la sua desultoria’ narrazione non potrebbe trovare un campo phi adatto delle metamorfosi, di cui è pieno il romanzo. Non è una metamorfosi quella di quel pover'omo mutilato e sfi- gurato del tutto narrata da un commensale in 2, 20? E la storiella che segue narrata da Thelyphron, che comincia colle trasformazioni subite dalle streghe e passa attraverso alla trasformazione e ritrasformazione del cadavere per opera del profeta Zatchlas?

Ma che cosa pretendono coloro che non trovano nel libro se non una o due trasformazioni al più? E tutta quella gente

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n z che fa sul serio la festa del dio del Riso e quel tribunale e

quei giudici che divengono poi una folla di sghignazzanti e decretano una statua di bronzo a Lucio trasformato d’un tratto da innocente in condannato a morte, da condannato a morte in uomo festeggiatissimo, non sono una continua me- tamorfosi? E non foss’altro in Lucio non si vede la fortuna mutata e di nuovo rimutata ? (3, 1-12)? Notiamo che tutto ciò manca nello Pseudo-luciano. E a base di trasformazioni magiche è la novella che segue, dove Fotis si accusa di esser causa della brutta avventura dei ladroni-otri scambiati per ladroni autentici da Lucio e da lui trapassati colla spada. Anzi dal principio di questa novella (3, 14) in poi siamo in piena magia trasformistica. Fotis ciò che è notevolissimo principio alla sua novella con una premessa assai sin- golare. La ragazza teme così la vendetta della sua padrona che raccomanda vivamente a Lucio di tener segreto quanto sta per raccontargli e afferma di non dubitare che egli non la tradirà, perché, come dice, giovane di nobile ingegno e sen- timento, sacris plurimis initiatus, profecto nosti sanctam si- lentii fidem. Tutto ciò è per Îo meno sorprendente e butte- rebbe a monte tutte le supposizioni che altri facesse sopra un qualsiasi significato simbolico del viaggio di Lucio, sempre- ché si volesse dimenticare che l’inverisimile è base costante del romanzo Apuleiano, anzi è l’unico elemento che in esso non manca mai. Come Fotis sapesse questi segreti di Lucio, non è difficile comprendere, data la loro intima relazione, ma come questi, così giovane e cosî poco esperto della vita e cosi caduco, sia detto già sacris plurimis initiatus, proprio in quel momento in cui stava per commettere l’asinata forse piu solenne della sua vita, è circostanza che sorprende, e che non si può notare se non come uno dei tratti burleschi del faceto-scettico narratore. Nel cap. 25 segue la maggior tras- formazione, quella asinina, che principio alla seconda parte dell’opera, dove molte novelle sono simili a quelle del- l'"Ovos, fuorché nel brio della narrazione caratteristica Apu- leiana, e in particolari accenni alla magia e a credenze super- stiziose come ho già avvertito per i tre libri antecedenti —, tra le quali ultime la dottrina antichissima della trasmigra-

Ig Rat Σ Ses

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zione dell’anima. Applicata, diciamo cosî, alla novella fanta- stica, essa avvicina in tal modo l’uomo alla bestia e viceversa, che brevissimo è il passo tra i due esseri. Dopo l’accenno caratteristico al mal occhio (invidiae norios oculos, c. 14, che richiama alla memoria il passo di 6,25, quando i malandrini vogliono uccider l’asino, perché lo giudicano di mal augurio), la narraz. del malandrino Thrasyleon che penetra in casa di Demochares, nella pelle dell’orso, e che ucciso dai cani viene sparato dal beccaio... senza che il narratore non sente il bisogno di dirlo costui si accorga se si trattasse d’un uomo o d'una belva. O quell’anima migrante! (1) Naturalmente da questa fratellanza animale doveva risultare un asinus aureus, come fu chiamato prima certo di Agostino il nostro Lucio... e il suo romanzo. mi fermerei su questo punto se non mi premesse di notare come il titolo di Metamorphoses fosse appropriato e mantenuta la promessa del prologo; questa dell’orso è una quasi trasformazione, come è una vera e propria trasformazione quella dei ladroni che escono per le loro imprese parte armati, parte come spiritelli... in Le- mures reformati... (c. 22). E siamo alla favola di Amore e Psiche, che a tanti non piace qui, perché non vedono come ci stia, e soprattutto come stia bene in bocca a una megera, mentre, dato il carattere del romanzo e la sorpresa e l’inveri- simiglianza che fan cosî bene lo sfondo e la cornice del quadro, spiega e si giustifica assai facilmente. Ma questo mi preme di osservare, che nessuno dei caratteri Apuleiani, che mag- giormente emergono nel romanzo, vi manca. Intanto la favola è imperniata sulla magia ed ha ragione Venere di dire in 6, 16 a Psiche: tu sei una malefica. Le metamorfosi consistono qui anzitutto nella fortuna mutata e come! e rimu- tata della bella principessa in schiava, poi in sposa d’un dio,

(1) A proposito dell’uomo-asino, è notevole il decreto che si legge alla fine del Menippo lucianeo scritto che sopravvisse fin nella sati- rica bizantina —, secondo cui le anime dei riechi dovranno per lunghis- simi anni, ritornate su in questo mondo, entrare nel corpo di asini e cosi esser sferzate dai poveri, come compenso alle prepotenze che ricchi fanno ai poveri. L'umoristico ψήφισμα è al cap. 20.

223

nella mutata forma di Cupido, almeno nella narrazione delle sorelle di Psiche riferita ad un responso di oracolo —, del bel fanciullo in mostruoso serpente (5, 18), nelle trasforma- zioni multiple a cui accenna grottescamente Giove in risposta alle preghiere di Cupido, trasformazioni che il nume barbogio confessa di aver assunto e in serpente, e in fuoco, e in fiere, e in uccello, spintovi dalla passione amorosa in lui istillata bricconescamente dal fanciullo alato. C'è dunque il grottesco, accanto al fantastico, e il buffonesco applicato qui alla divi- nità con un sapore del tutto Lucianeo. La confusione del- l’anima umana con quella degli animali, che s’avvicina alla trasmigrazione di cui sopra abbiamo fatto cenno, riappare ancora in 6, 29: quodsi vere Iupiter mugivit in bove|m], potest in asino meo latere aliqui vel vultus hominis vel facies deorum; e non qui soltanto.

si creda che il ciclo delle trasformazioni sia terminato fino alla ritrasformazione di Lucio. Tutte le novelle di questo periodo che va dal VII al IX libro compreso, alcune di ori- gine forse schiettamente orientale (1), con particolari crudeli e lubrici, rientrano pur sempre in gravi mutamenti della for- tuna, mi si dica che gran parte della novellistica è così. Risponderei in questo caso che ad un filosofo, come Apuleio, non può essere probabilmente sfuggita la categoria delle for- tunae mutatae, a cui esse possono cosî facilmente annettersi. Qui l’opera partic. nel libro IX è manifestamente una serie di novelle e di novellette varie, dove Lucio ammette esplicitamente che racconta di vere e proprie fole, in una delle quali l'asino affacciatosi alla finestra discopre colla sua presenza ai soldati che lo ricercano l’ortolano suo padrone e dice furbescamente: di qui venne il proverbio de prospectu et umbra asini (2). Ora è quanto mai comico l’af- fermare che un proverbio preesistente fosse nato precisam.

(1) Cosi almeno sembra, senza che con ciò si voglia negare la deri- vazione Apuleiana da redazioni greche. V. Rohde, Griech. Rom.*, p. 590, e l’articoletto del Crusius: Vorlagen der Ap. Metam., in Philol., 47, 1889 p. 448.

(2) La narrazione e il proverbio trovi anche nell’*Ovos, 45.

ἜΣ e rn O PELATI CATA FRAZIER I SENTII TAN RISI RAGNO Sa La i

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da un caso occorso a lui. Mira asia, Sa nel mezzo morto risuscitato di 10, 12 e nella mascherata di 11, 8, dove i travestimenti e gli scambi tra uomini e bestie giusti- ficano così bene il titolo del romanzo e il carattere che ab- biamo cercato di attribuirgli. Alla fine Lucio ridiventa uomo, e accanto all’ultima trasformazione ecco il tratto buffonesco della riacquistata felicità: quello di cui maggiormente si

compiace (11, 13) è l'aver perduto l’appendice che più d’ogni

cosa lo seccava, la coda.

La parte curiosa dell’opera che s’apre col cap. 15 del libro 11° potrebbe prestarsi a molte altre osservazioni, ma ci limiteremo a quanto è strettamente necessario per il rap- porto che noi troviamo tra essa, i libri precedenti ed il pro- logo (1). Già nel cap. 12 Lucio parla di tante e varie prove su- bite, di tanti perigli superati, dopo aver vinto la bieca Fortuna con l’aiuto della più grande dea, che sembra quasi attribuisca al viaggio, almeno qui, un significato simbolico. Meraviglia ancora il discorso solenne del sacerdote al cap. 15, quando dice a Lucio: Non ti servi il lignaggio, non le ricchezze, non l’istruzione...., ma la fede... Videant irreligiosi ,, e invita il neotrasformato ad iscriversi nella milizia a cui egli appar- tiene. C'è il tono d’un discorso cristiano! Se il lettore vorrà trovar qui una prova della religiosità di Apuleio, si serva pure (2). Sarebbe lo stesso come se dal tono areligioso della favola di Amore e Psiche si inferisse il contrario, o si vo-

(1) Sul libro XI meritano ancora di essere considerate le osservazioni del Goldbacher (o. c., p. 414-419).

(2) Osserva il Morelli (o. c., p. 149) che nella descrizione piena di sar- casmo della vita dei sacerdoti della Magna Mater (8, 24 sgg.) si sente fremere lo sdegno del credente convinto contro chi della religione fa turpe uso. Mi sembra ch’egli sia in errore. Vedo in 8, 24 sgg. una delle tante storielle lubriche, che differisce dalle precedenti solo perché è ri- ferita a religiosi. Descrivendo l’autoflagellazione del semivir, dell'uomo puella, Ap. conclude (c. 28): cerneres prosectu gladiorum ictuque flagrorum solum spurcitia sanguinis effeminati madescere; e continua: quae res in- cutiebat mihi non parvam sollicitudinem videnti tot vulneribus largiter profusum cruorem, ne quo ‘casu deae peregrinae stomachus, ut quorundam hominum lactem, sic illa sanguinem concupisceret asininum, dove il bur-

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«nome di Asinio Marcello, quello dei pastofori che lo (?) doveva

iniziare (c. 27), o dalla soddisfazione massima provata da pe Lucio ridivenendo uomo quella d’aver perduto la coda...

Dalla concezione del romanzo, come l'ho tratteggiato fin

qui (1), dovrei per primo ammettere che il sorgere improvviso x

del Madaurensem, se arreca singolare sorpresa, è tuttavia ap- ἊΝ

punto per questo ‘in carattere’. Non ha quindi importanza l’os- ἧς

servazione dell’Oudendorp nei prolegomeni alla sua edizione: Re

Turpiter hic sui oblitus est Apuleius. Qui enim Madaurensis è:

est, qui toto opere se finxit esse Lucium Graecum ab inclito Plu-

tarcho oriundum. Haec sane non conveniunt, a cui si associava ἊΝ

l’Hildebrand (I, 1087), riportando le citate parole dell’Ouden- "a

dorp. Soltanto è da domandarsi perché ‘si debba’ ammet-

tere che di qui innanzi Apuleio si sia sostituito a Lucio, e se We.

il solo e quindi dubbio Madaurensem abbia un valore decisivo Ἔν:

in proposito.

Che Apuleio narrasse nelle Metamorfosi casì suoi, è certo E;

tradizione anteriore ad Agostino, che si spiega agevolmente br.

con la fama di qualità e potenze magiche attribuita ben presto Po

ad Apuleio dopo la sua morte. Agostino poteva ascoltare ὟΝ

lesco si estende anche alla dea. Eppure qualche periodo prima si legge : specta denique, quale caelesti providentia meritum reportaverit. Un credente ἊΣ convinto non avrebbe continuato a descrivere (nel cap. 29) con tanta e. faceta compiacenza il quendam fortissimum rusticanum industria laterum Ἣν atque imis ventris bene praeparatum... con quel che segue, un colmo di libidine, davanti a cui notiamo bene l'asino dichiara : nec div tale facinus meis oculis tolerantibus ° porro Quirites’ proclamare gestivi s un'uscita comicissima! —, mentre, com’era naturale, il povero asino > emette solo un O prolungato, un raglio. Anche qui Lucio è il solito ν burlone che ha l’unico scopo di permulcere aures ... lepido susurro, come ha promesso nel prologo, e come fa realmente in tutto il romanzo. ΟΝ

(1) Che le Metamorfosi siano un romanzo comico di avventure (Burger, in Studien zur Gesch. ece., Blankenburg, 1902) o un romanzo di costumi ΣῊ fantastico satirico, non senza rapporti con quello di Petronio (Rosen- È blith, in Beitr. 2. Quellenkunde von Petr. Satiren, Kiel, 1909), non è d facile decidere, perché c’è senza dubbio dell'uno e dell'altro, se si con- N sideri il fantastico e il satirico accanto al comico. V. anche le consi- derazioni del Wendland, o. c., p. 242.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. : 15

con soddisfazione tale fama diabolica del perverso” suo cor- |

regionale, di cui anzi rileva ironicamente che la potenza ma- gica non servi a fargli conseguire non dico ... regnum, sed ne ... aliquam quidem iudiciariam rei publicae potestatem (ep. 138, 19).

Merita d’essere rilevato che il Madaurensem può essere en- trato nella tradizione manoscritta delle Metamorfosi prima di Agostino (1), e può averlo già trovato in una scorretta copia che avesse sott'occhio, il soscrittore del libro IX delle Metam., Sallustius, che legit et emendavit Romae nel 395. È troppo naturale che un libro con intonazione untuosa, come l'11°, dove si descrivono iniziazioni, e la coincidenza di qualche particolare con altri attestati altrove di da Apuleio stesso, ingenerasse, insieme col sorgere della fama leggendaria di lui, il sospetto, che facilmente nella leggenda divien certezza, della identificazione dell'Autore con Lucio. La forma narra- tiva in prima persona, se non può grandemente aver contri- buito a creare la tradizione, non dev'essere nemmeno trascu- rata come presunta prova secondaria. Di qui all’ammettere un Madaurensem al posto di un mane Doriensem, come pro- pose il Goldbacher (o. c., p. 417), o di qualche altra parola o mal intesa o corretta marginalmente con l'emendamento di Madaurensem che parve evidente, è breve il passo.

Del resto la lacuna che precede tra eraptat ... et de eius ore rende già l’espressione ben incerta, e molto sospetto mi riesce poi quel sed admodum pauperem. Che significa un Madaurese, ma molto povero? Forse che i Madauresi erano tutti ricchi? Naturalmente al Rohde non doveva piacere la proposta del Goldbacher. Egli s'è ostinato, con argomenti che non reggono ad una critica spassionata, a sostenere quel che tutti han sempre creduto sol perché c’è il Madaurensem’, su cui il Rohde si poggia trionfante. Se puta caso nel passo citato di questo bizzarro romanzo altri credesse di leggere Atheniensem, pensando a Lucio la cui patria è la Grecia tutta,

(1) Mi spiego: prima che Agostino scrivesse il de civitate dei (410-428). La nota soscrizione accennata dice invece: Ego Sallustius legi et emen- davi Romae felix Olibrio et Probino τι. c. coss., cioè nell’anno 595.

| TOO ONDATE

ἮΝ com’egli dice enfaticamente nel proemio, cominciando dall’ Hy-

mettos Attica, chiamando poi Attidem la lingua imparata in Grecia da fanciullo, e pensasse che colla medesima ‘baldanza’, in Roma, ad un sacerdote Romano, il protagonista che ha casa a Corinto vuol presentarsi come un ‘Ateniese’, ciò potrebbe forse a molti critici sembrare addirittura una stra- nezza. E sia; a un solo patto però, che il Madaurensem dei mss. sia uno sproposito..... documentato. Questo preteso Ma- daurese, quando si prepara alla sua terza iniziazione, viene ammonito dal sacerdote (cp. 29): ceferum futura tibi sacro- rum traditio pernecessaria est, tecum nune saltem reputaveris exuvias deae, quas in provincia sumpsisti, in eodem fano de- positas perseverare, dove bisogna chiudersi gli occhi per non vedere che si parla di Lucio e di paese greco.

Dire che il nesso fra questo libro e i precedenti non si interrompe d'un tratto (1), trovar cosi soltanto scolorita la narrazione di 11, 18, anzi vedervi chiaramente la mala voglia che Apuleio avesse di rimanere piu a lungo sotto la maschera di Lucio, è effetto di pura illusione, cosî come giudicare il passo precedente e l’accenno al bianco cavallo di Lucio in 11, 20 come introdotti per necessità. Non è pit il Lucio di prima che noi sentiamo qui raccontare osserva il Rohde e nemmeno quello che poche parole prima del Madaurensem scherza sul nome di Asinio, del sacerdote che doveva ini- ziarlo, reformationis meae non alienum nomen ; ma per quanto io nutra molta reverenza per l’illustre filologo, non posso a meno di insistere sul concetto ch'egli sia stato tratto in errore uni- camente dalla persuasione che il Madaurensem sia proprio scritto da Apuleio. Ed è quanto precisamente risulta dalle pa- role che seguono nel suo articolo citato, dove egli dice ap- punto ‘dieses fatale Madaurensem ‘.

Finalmente l’iniziando è povero sed pauperem e ciò il Rohde fa notare come rispondente ad Apuleio, non a Lucio. Che risponda ad Apuleio, non è facilmente dimostrabile, come abbiam detto piu innanzi; che non risponda a Lucio solo per

(1) Rohde, o. c., p. 77-9.

228

1 passi di 19, 2 e 45, 12 sgg., dove è detto che questi era di famiglia ragguardevole, non basta; fra l’altro si parla, in questi passi addotti dal Rohde, di famiglia cospicua, ma non si dice di ricchezze, come non si parla di ricchezze nel passo parallelo, trascurato dal Rohde, di 11, 15, quando il sacer- dote dice a Lucio: nec tibi natales ac ne dignitas quidem, vel ipsa, qua flores, usquam doctrina profuit.

Finalmente la narrazione, pur con l’inscenatura delle ini- ziazioni, continua in questo libro com’era prima, in fondo sempre faceta e burlona (1). Il fatto cosî straordinario della recuperata figura umana come dono della grande dea, insieme a passi ricchi di compunzione, ispira al narratore facezie e burle come quella della liberazione dalla coda (c. 13), quella della richiesta del lino per coprire le sue nudità, del ritardo da lui frapposto all’iniziazione, soprattutto per il timore di non saper osservare la castità (c. 18), del nome di Asinio, e fors'anche una burla solenne al cap. 23: Quaeras forsitan ... necesse est. Sicuro, il lettore deve credere fra l’altro che Lucio ha visto il sole a mezzanotte e che ha visto in faccia gli dèi superni e celesti. Comprendere il come, è proprio solo degli iniziati! Burla certamente sono le ultime parole del libro e dell’opera faceta, quando, vantandosi di essere accolto nel collegio dei pastofori, anzi tra i decurioni quinquennali, il nostro eroe deve radersi i capelli, e per farci fare una ri- sata finale, ‘ci avverte tutto serio lui già biondo e ric- ciuto (2, 2) che andava in giro soddisfatto colla zucca

(1) Secondo il Morelli (Apuleiana : in Studi Ital. di Filol. classica, 20, 1913, p. 145-161), è evidente nel libro 11° lo sforzo di riannodarsi ai libri precedenti, di stringer le fila e ricavare da tutta la narrazione come una morale. Ammessa la comparsa di Apuleio al posto di Lucio in 11, 27, il M. crede che ciò si possa in parte spiegare con l'ipotesi che Ap. scrivendo la sua aretalogia abbia seguito un fine non solo re- ligioso, ma anche morale, e che le abbia a tal fine impresso un carat- tere allegorico (p. 160). Non sono del suo parere, pur trovando nelle sue pagine qualche buona osservazione. Per l'articolo di S. Braun, le cui conclusioni sono riportate in Revue des Revues, 1912, p. 110, v. Mo- relli, o. c., p. 188. :

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monda: rursus denique quam) raso capello ... calvitio, sed quo- quoversus obvio gaudens obibam.

È inutile dire che vien fatto di pensare agli elogi dei ca- pelli contenuti nella declamazione di Metam. 2,8 e 9 e alla professione del sofista conferenziere ambulante, che portava in giro una splendida chioma... e anche lo specchio (1).

Un'ultima parola e brevissima. Lucio è giovane di nobile famiglia non solo, ma di molto ingegno e cultura. Sed melius de te dice Fotis nel passo citato di 3, 15 doctrinaque tua praesumo, qui praeter generosam natalium dignitatem, praeter sublime ingenium sacris plurimis initiatus profecto nosti sanctam silentii fidem, il che corrisponde, notiamolo, a quanto è detto in 11, 15, nec tibî natales ac ne dignitas quidem, vel ipsa, qua flores, usquam doctrina profuit. È naturale che gli venisse presagita studiorum gloriam (11, 27), come è ovvio che trovasse ben presto a Roma un qualche quaesticulum, tanto pi col Destino favorevole (spiritu faventis Eventus).

Che cosa fece Lucio ritrasformato ? L'avvocato ? il maestro? Τ᾿ Ὄνος non dice nulla in proposito, ma è sottinteso che «Λούκιος, ritornato a casa sua uscito, come dice furbescamente, μὰ Δί᾽ οὐκ ἐκ κυνὸς πρωκχτοῦ, τὸ δὴ τοῦ λόγου, ἀλλ᾽ ἐξ ὄνου περιεργίας διὰ μάκροῦ πάνυ, καὶ οὕτω δὲ μόλις —, presso suo fratello, avrà continuato a scrivere storielle (ἱστοριῶν καὶ ἄλλων εἰμὶ συγγραφεύς). Apuleio non tace in proposito, ma i tre passi in cui ne parla sono assai oscuri. Il primo (11, 28) contiene le parole quaesticulo forensi nutrito per patrocinia

(1) Cfr. de Magia, 4: capillus ipse, quem isti aperto mendacio ad leno- cinium decoris promissum dixere, vides quam sit, cett., dove natu- ralmente si difende. Quanto allo specchio, vedi ibidem, c. 13 sgg. Certo lo specchio poteva essere uno strumento magico, ma tuttavia in questo passo gli accusatori dovevano probabilmente soprattutto aver di mira l’effemminatezza del philosophus formonsus (c. 4) dalla lunga zazzera. Tale è il concetto dell’Abt in Die Apologie des Apul. von Madaura und die antike Zauberei, Giessen, 1908, p. 99-100, e del Vallette (o. c., p. 50 e sgg., c. 3: Le miroir), che giustamente richiama in proposito l’atten- zione sopra le parole di Tannonio Pudente che denotano lo scandalo degli accusatori: Habet speculum philosophus, possidet speculum philoso- phus! (13, 416).

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sermonis Romani; nel secondo (11,30) vediamo l'eroe iam stipendiis forensibus bellule fotum; nel terzo, poche linee sotto, c'è una esortazione a lui diretta: quae nunc, incunctanter glo- riosa în foro redderem patrocinia. In tutte e tre si parla del foro, in due di patrocînia, e pertanto risulterebbe, secondo l’in- terpretaz. comune, che Lucio fece a Roma l’avvocato. Come? in due e due fa quattro quel Lucio che nel prologo dichiara d'aver imparato il latino da sé, a Roma, sarebbe in grado di difendere le sue cause e in lingua romana? Cosî almeno si intende per patrocinia sermonis Romani, un'espressione, come ognuno vede, enigmatica. L’inverisimile non è poi cosi sbalorditivo come sembra senz'altro ai sostenitori della ipotesi che qui si tratti di Apuleio e non di Lucio. Dal primo arrivo a Roma ai gloriosa in foro patrocinia passa parecchio tempo, durante il quale una persona istruita poteva imparare il latino, ma c'è di più un dato importantissimo che non dev'essere tras- curato, che è la chiave di tutta la novella fantastica e in particolare della sua chiusa (1): l'intervento delle forze su- periori. Abbiam già avvertito che il primo quaesticulum Lucio fa in forza del destino favorevole. Aggiungiamo che egli si dice stipendiis forensibus bellule fotum liberali deum pro- videntia; che finalmente l’incitamento a proseguire a red- dere incunctanter gloriosa in foro patrocinia e a non temere malevolorum disseminationes gli viene da Osiride ‘in persona (Osiris non K in) alienam quampiam personam reformatus, sed coram suo illo venerando me dignatus adfamine, cett.). Quando di mezzo simili potenze, ogni effetto miracoloso si spiega. Cosi potesse aiutarci lo spirito di Apuleio a spiegare la let- tera’ dei tre passi citati! L’Helm (pp. xm-xv) è a ragione esitante nell'ammettere che in essi si parli proprio del cau- sidici munus, e con buone ragioni ed esempi opportuni sul valore di patrocinium e di patronus intende eum [Apuleio per lui, si capisce] grammatici vel rhetoris officia praestitisse. Sic- come poi “in foro ludos grammaticorum fuisse constat , e d'altra parte rhetores ipsi în foro versabantur, ciò che l'Helm

(1) È particolare intravisto anche dall’Helm (prefaz. citata, p. xm).

: È \

_ illustra con esempi appropriati, tra cui efficacissimo quello _ di Ausonio (comm. prof. Burdigal. 2,7), che chiama il retore . Alcimo palmae forensis et camenarum decus, così i gloriosa pa-

trocinia di cui in 11, 30 sarebbero appunto quelli che al $ 27 Ap. chiama patrocinia sermonis Romani.

Indubbiamente la dimostraz. dell’Helm merita di esser con- siderata attentamente, accanto alla domanda se proprio certe espressioni giuridiche usate molto di frequente da A. nelle Metamorfosi non siano abbastanza giustificate dalla cultura sua generale, senza che si debba pensare ad una sua perizia particolare tecnica del giure (XIII).

L’Helm non poteva aver letto l'articolo di Fritz Norden (1) sul Diritto in Apuleio, articolo che preludeva ad una più larga trattazione sopra Apuleio e il dir. privato rom. (2). Il N. si propose di dimostrare che A. era un giurista mirabil- mente esperto della legislazione e dei costumi giuridici del suo secolo, che intendeva perfettamente gli affari e la ma- niera di trattarli in giustizia e che si compiaceva di parlare la lingua del foro. Tuttavia non so se neppure la dimostra- zione del N. (3) possa infirmare l’acuta ipotesi dell’H. Av- vocati e giuristi erano numerosi a quei tempi in Africa. E non da allora soltanto, se Giovenale poteva già dire del- l’Africa che era un semenzaio di avvocati (4). Ma è altret- tanto vero che se altri rimaneva in Africa o vi emigrava, altri venivano a Roma (5), dove c’era largo posto per avvocati e giuristi provinciali. Se Apuleio può far sapere al lettore

(1) Fritz Norden, Le Droit dans Apulée, in Revue de l Université de Bruxelles, 1911, p. 445-488.

(2) Fritz Norden, Apuleius von Madaura und das ròmische Privatrecht, Lvipzig, 1912.

(3) ἃ. Beseler, l’insigne romanista, crede esagerate le conclusioni del Norden. Apuleius secondo lui hat schwerlich mehr vom ròmi- schen Recht gewusst als damals die meisten Gebildeten , (Berl. ph. W., 1913, 1391-2).

(4) Sat. VII, 148-9: nutricula causidicorum | Africa.

(5) Per gli avvocati in Africa, v. F. Norden, Apuleius von Madaura, Leipzig, 1912, p.10 e 11.

F. Norden ammette pure che Apuleio abbia fatto l'avvocato e di-

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ch'egli è un rudis locutor (1), è anche lecito credere che il lettore avrà sorriso dell’osservazione, pensando alla cultura, in particolare anche giuridica, di A.(2), e pensando che na- turalmente ciò poteva valere per il giovane greco Lucio, con una burlesca divisione delle due persone. Ma quanto al fatto in sé, è indubitato che il carattere ascetico assunto da Lucio in Roma, perfino nelle forme esteriori del capo raso, risponde meglio alla finzione dell’ufficio di retore o di maestro di scuola, di grammaticus, che non di quello di oratore forense.

Del valore esatto dei tre passi citati io non intendo ora di occuparmi, perché uscirei dai limiti della mia trattazione, e mi sarebbe necessario un lungo discorso. Chi sa che siano tra quelli scritti da Apuleio con un gusto che è vivo tut- tora, vale a dire per far scervellare il lettore. Del resto il sistema di farsi comprendere poco, in arte, è così diffuso, e spesso così favorevole all’artista, che già Quintiliano scriveva in /nst. 8, 2, 18... cum iam apud Titum Livium inveniam, fuisse praeceptorem aliquem, qui discipulos obscurare quae di- cerent iuberet, Graeco verbo utens σκότισον ; unde illa scilicet egregia laudatio: ‘tanto melior: ne ego quidem intellexi’. È necessario tuttavia risolverci nell’interpretazione del forensis sermo, poiché appare nel prologo, e convien pure accettare la traduzione di ‘lingua parlata’ per le ragioni che ho già detto innanzi, cioè fondandomi sulle parole che precedono nel prologo. Di qui deriva l’interpretazione necessaria della frase en ecce fino ad offendero, dove il genitivo erotici ac forensis (3) sermonis deve unirsi al δὲ quid e non appartenere al rudis locutor.

scute lungamente intorno all'ipotesi dell’Helm. V. le pagine 13 e sgg. dell’opera citata, che tuttavia non riescono a infirmare l’accennata ar- dita ipotesi.

(1) Evidentemente il rudis locutor, che nel romanzo è Lucio, in realtà è Apuleio.

(2) Una certa cultura giuridica in Apuleio è indiscutibile, ma pi an- cora notevole è la sua abilità di avvocato. Basta leggere la sua Apo- logia. I sofisti di quell'epoca erano spesso avvocati, se non di profes- sione, almeno d’occasione. Si pensi a Luciano.

(3) Per il Leo, l’ac forensis dovrebbe essere cancellato. Nei citati Co-

Ecco infine come mi sembra si possa tradurre letteralmente il prologo Apuleiano, seguendo in massima il testo proposto dall’Helm (1):

niectanea, p. 606 egli scrive: ascriptum fuisse videtur in codice unde Flo- rentinus originem habet al’ si quid forensis. Convien pensare che, secondo il Leo, non può ammettersi l’interpretazione sermonis forensis, id est in foro habitantis, e che d’altra parte forensis foris habitans et Apuleio ignotum nomen (nam 4, 13 corruptum forensis) et saeculis post eum. V. in senso contrario l’Helm nella nota alla pag. 1 della sua ediz. Apuleiana al passo discusso. È inutile ch'io aggiunga che intendo forensis derivato da forum e non da forîis {come l’Helm, e non come ad es. il Georges, Ausf. Lex., 1913, col. 2814) e precisam. poi da forum nel suo significato generico.

L’Helm (1. c.) notando exroticum, i. e. alienum, ac forensem dicit ut homo Graecus sermonem Latinum quo in foro utuntur, dimostra di riuscire ad una interpretazione del passo diversa dalla mia, perché indubbiamente egli deve intendere rudis locutor sermonis exotici ac forensis = come inesperto della lingua latina.

Del resto il sermo exoticus ac forensis potevano anche sentirsi tutti e due a Roma nella lingua che vi si parlava. L'ambiente della capitale doveva creare un linguaggio tutt'altro che puro e corretto. Vedi degli esempi tipici dei tempi appunto di Marco Aurelio in H. Blery, Rusti- cité et Urbanité romaines, Paris, Belin (1909), p. 140-2.

(1) Non ho consultato la versione dell’Adlington pubblicata a Londra nel 1904 e di nuovo a New York nel 1912. Leggo tuttavia nel Butler (The Metam... of Apuleius translated, Oxford, 1910, 1, p. 22): © ..... the translation of Adlington, which, for all its beauty, is inaccurate... ,; pare che la 25 ediz-abbia avuto ritocchi. Il Butler è un interprete sa- gace, che spesso ne’ suoi commenti (ad es. nel Properziano, London, 1905) colpisce esattamente nel segno. Credo non spiacerà al lettore di cono- scere la sua traduzione del prologo Apuleiano (condotto sul testo del- l'’Helm), che qui trascrivo: Reader, it is my purpose to put together for thy delight diverse tales after the well-kKnown Milesian manner and to beguile thine indulgent ear with the merry music of my words, if only thou wilt deign to cast thine eyes upon this Egyptian papyrus indited with the subtle point of a reed cut from the banks of Nile. Thou shalt marvel therein at the transmutation of men's forms and fortunes to alien shapes, and at their restoration one with the other to

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(Lucio):

Ebbene, io intorno a codesto racconto Milesio [quello del- l’uomo-asino] (1) mi sento di intrecciarti (2) una collana di svariate novelle e di accarezzare 11 tuo benevolo orecchio con briosa conversazione (3), sol che tu abbia la cortesia di svol- gere il papiro disegnato con la valentia Egizia di una penna del Nilo (4), cosi che ti stupirai sia di figure come di con-

their former state. Now I begin my tale. Who is he that speaks thus?” asks some one. Learn in a few words. Attic Hymettus and Ephyrean Isthmus and Spartan Taenarus, fields of fair fame, whose memory is stored up for ever in writings fairer still, these were the homes of mine ancestors. There in my boyhood's first campaigns did I win for my pos- session the speech of Athens. Thereafter in the Latin city I came to studies that were strange to me, and with grievous toil and never a master to teach me set myself diligently to ‘learn the native speech of the Quirites. Wherefore, look you, I crave pardon at the outset if I shall offend in aught by uncouth utterance of strange phrases and jargon of the marketplace. This change from the Greek to the Latin tongue has its counterpart in the tale I am about to tell. My skill is that of the acrobat who leaps from one horse to the other. For the story that I am going to tell is borrowed from the Greek. Give ear, good reader, and thou shalt have cause for joy 9.

(1) sermone isto Milesio è per me ablat. di mezzo.

Quanto al sermo Milesius detto della fabula dell’uomo-asino, vedi E. Rohde in Rhein. Mus., 48, p. 127 sgg. e l’Anhang alla sua opera ci- tata: Der: griech. Roman, 1900?, p. 585.

(2) conseram... permulceam spreveris sono forme dell’eventualità.

(3) V. nota 2 a pag. 28.

(4) H. Bliimner in Philol., 1896 (55), p. 342 difende la lezione Aegyptiam, accolta anche dall’ Helm. Ho già detto che preferisco l’altra Aegyptia, in ciò d'accordo col Leo nei citati Coniectanea. Venendo poi alla in- terpretazione del passo, il B. intende argutia per la punta “die Spitze, in cui è tagliata la canna (calamus). Confessa di non conoscere altri esempi in cui argutia abbia questo valore concreto, ma siccome Apuleio usa in questo senso argutus (2,9 pectinis arguti dente tenui), cosi non ha difficoltà ad ammettere l’uso di argutia nel detto significato. L’Hilde- brand aveva già invece inteso argutia nel senso di ‘abilità’, supponendo nel tempo stesso che Apuleio con Aegyptia argutia alludesse alla sua origine. Se non Egizio, egli era Africano, dice l’Hild., e con poco rispetto risponde il Bliimner che ciò è ganz thòricht. Nessuno, ch'io mi sappia, ha notato che qui argutia si può riferire alla particolare abilità del calamus Niloticus nel disegno. Cfr. gli esempi di Plinio il Vecchio in Thesaurus

Ar

Lao

dizioni di persone trasformate in altri aspetti, poi di nuovo re-

ciprocamente ritornate allo stato di prima (1). Comincio.

(Lo scrittore rivolto agli uditori e lettori): Chi è colui? [mi chiederete]. Ve lo dirà in breve (2).

(Lucio riprendendo): L’attico Imetto, l’istmo di Corinto, Tenaro spartana, zolle felici per l'eternità da libri ancor più felici esaltate sono la mia patria originaria; ivi appresi

sotto argutiae ed argutia riferite all’arte del dipingere e dello scolpire. Certo l’espressione è qui ‘preziosa’, come ricercato è l’inscriptam nel senso di ‘solcata ’= ‘disegnata’, dove c’è forse anche di pi l’immagine equivalente a ‘che porta il marchio, l'impronta artistica’ della penna del Nilo. Cfr. Gioven. 14, 24 inscripta ergastula. Quanto alle illustra- zioni a penna, sul papiro, v. G. Lafaye in Daremberg et Saglio, Dictionn., ecc., Paris, 1904, sotto liber, p. 1187, 2* col. Questi disegni o serie di illustrazioni dovevano pubblicarsi in volume separato dal testo. V. Th. Birt, Die Buchrolle in der Kunst, Leipzig, 1907, p. 296-309, partic. dalla p. 304 in poi: a p. 305 vedi la riproduz. del papiro satirico del Cairo.

Secondo la mia interpretazione, il papiro contenente le illustrazioni doveva essere separato da quello del testo. Il narratore dice infatti: Ti divertirò col racconto, purché tu tenga sott’occhio il papiro, ecc. Apuleio elogia pertanto anche l’edizione fatta in Egitto, molto proba- bilmente ad Alessandria, dove erano disegnatori abilissimi di edizioni illu- strate. Se si ammette la pubblicazione delle Metamorfosi ad Alessandria, potrà ritornare a discutere della anteriorità o no delle Metamorfosi all’Apologia.

Certo le ragioni su cui E. Rohde fonda la sua ipotesi della pubbli- cazione dell’opera a Roma (RA. Mus., 40, p. 80-81) non hanno alcun peso. Per curiosità, aggiungerò ancora che il Van d. Vliet annota: Con Aegyptia argutia Apuleio deve aver pensato alle lettere, Ἀν ΤᾺ in- venzione egizia (ult. pag. ἃ. artic. citato).

(1) L’ut mireris riferisce non solo al primo membro: at ego ... per- mulceam ... (ut mireris), ma ancora al secondo: modo si... non spreveris inspicere ... (ut mireris), dimodoché le parole modo sì... inspicere non sono propriamente un inciso.

(2) quis ille? paucis accipe. La traduzione dice abbastanza come intendo il passo. Aggiungerò che potrebbe anche essere compreso nella prima domanda il concetto di ‘chi è quello la cui immagine, il cui ritratto si vede nel papiro ?’ In luogo del ritratto dell'Autore, che molto spesso trovava in capo all’opera in quei tempi, non poteva qui per la nar- razione in prima persona trovarsi il ritratto di Lucio funzionante da autore

236

la lingua greca nei primi anni della mia fanciullezza. Poscia nell’Urbe del Lazio, profano di lettere romane, cominciai a studiare diligentemente la lingua del paese, con penosa fatica, senza l’aiuto di alcun maestro.

(Lo scrittore e Lucio):

Ed eccoci insieme col mio scrittore a chieder venia, 510 parlatore non raffinato incapperò in qualche locuzione esotica 0 volgare (1). Del resto questa lingua bizzarra risponde appunto allo stile, da noi scelto, di chi sa parlare un po’ di tutto. Diamo principio al romanzo grecanico. Lettore, sta attento: ti divertirai (2).

Genova, ottobre 1914. FERRUCCIO CALONGHI.

(1) Il Sittl (in Archiv fiir latein. Lexicographie u. Gr., 6, 1889, p. 558-9), dopo aver accennato alla incertezza della lezione si quid erotici ac fo- rensis ... offendero, ammette tuttavia che il senso è chiarissimo: lo stile delle Metam. dev'essere ellenistico, perché fabulam Graecanicam inci- pimus, e dev'essere tindelnd und sophistisch, in contrapposto allo stile degli oratori pratici del fdro, di cui il sofista Apuleio non è pratico [sic], come si addice alla desultoria scientia. Per il S., Apuleio ha fatto il suo stile sui libri (nullo magistro praeeunte), come si vede dagli arcaismi in gran parte derivati dalla commedia: ora il romanzo delle Metamorfosi è un sermo Milesius e die feine Konversationssprache ... lernte die spiitere Kaiserzeit, wie man aus den Briefen des Fronto, Symmachus, Sidonius u. a. weiss, aus den klassischen Komébdien. A me importa di notare come anche il Sittl, nonostante l’eccessiva limitazione alla lingua della com- media pensiamo che l’articolo suo è del 1889! senta che il tono dell’esposizione è la Konversationssprache. Le altre sue osservazioni sono ben poco persuasive. Il nullo magistro praeeunte ha ben altro valore!

(2) Lector intende; laetaberis sono promesse al principio della rappre- sentazione d’una commedia o d’un mimo.

COBE

LA LEGGENDA DI NELEO

FONDATORE DI MILETO

Fioriva al tempo di Erodoto la leggenda secondo cui Mileto, la ricca e splendida città della Ionia, sarebbe stata fondata da Neleo, figlio di Codro re ateniese (1). Si riallacciava alla tradizione dell’epos omerico, stabilendo che Neleo per via di Melanto, padre di Codro e venuto in Atene dalla Messenia, discendeva dall'omonimo re di Pilo (A 683, y 4, 4 257, 285) (2). Il Neleo ateniese era in sostanza la duplicazione del cele- brato re di Pilo (3). E per questo il poeta Mimnermo di Co- lofone (fr. 9) faceva venire i fondatori della sua città di- rettamente da Pilo; chè già la eminente posizione politica di Mileto aveva fatto che tutte le città della Ionia, chi più chi meno, ricollegassero le loro origini alla famiglia di Neleo.

Coi cantori dell'epos e ‘col poeta di Colofone ci troviamo dinanzi a tradizioni delle coste d’Asia, e delle isole vicine, tendenti a dimostrare i vincoli di parentela dei coloni colle terre della madre patria. Quei coloni venuti dal continente greco, e forse progressivamente attraverso le isole (4), ave-

(1) Herodot. IX 97; cfr. V 97, I 106, 146.

(2) Cfr. Hellan. fr. 10, il quale faceva appunto Melaito e Codro discen- denti di Neleo. Cfr. anche Pherec. apd Strab. XIV 683; Paus. I 19, 5.

(5) Che mitologicamente il Neleo figlio di Codro non si possa scindere dal Neleo pilio, osservò già H. D. Miiller Mythologie der griechischen Stimme (Gittingen 1857) I p. 149 n. 1.

(4) Oramai non è neppure oggetto di discussione la vecchia teoria della venuta dei Greci propriamente detti dalle coste d'Asia, sostenuta

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agg vano portato seco un patrimonio mitico-religioso, il quale poi rielaborato dalla fantasia del popolo e dei poeti finiva col celare in sè, come in involucro impenetrabile, il suo vero contenuto storico. Così la leggenda di Neleo, venuto in Mi- leto direttamente o no da Pilo, dava motivo di pensare che genti del Peloponneso e specialmente della Messenia avessero popolate le coste e le isole della Ionia; mentre le affinità di stirpe degli Ioni colle genti dell’Attica si rivelavano palese- mente nei dialetti, nelle cerimonie religiose, nei nomi delle tribù gentilizie (1).

Allo stato presente dei nostri studi è a buon diritto pre- valente l'opinione di coloro che fanno venire gli Ioni d'Asia dall’Attica. E al proposito è stato osservato che Neleo, mi- tologicamente parlando, non giungeva a Mileto dal Pelopon- neso, ma dall’Attica, in quanto il Neleo di Pilo non era in fondo che Ades, il dio di sotterra, di cui esisteva in Atene antico culto.

Νηλεύς, il nero ,, lo spietato , infatti non è altri che

in ultimo da E. Curtius Wie die Athener Jonier wurden in Hermes XXV (a. 1890) p. 141 sgg. ed efficacemente combattuta da Ed. Meyer Die Heimath der Jonier in Philologus N. F. III (a. 1890) p. 479 sgg. = Die Herkunft der Jonier und die Jonsage in Forschungen zur alten Geschichte I (1892) p. 127 sgg. :

(1) La cittadinanza ateniese prima di Clistene era divisa, come è noto, nelle quattro tribù, o phylai, degli Argadei, Egicorei, Geleonti ed Opleti, le quali 851 riscontravano presso gli Ioni: Herodot. V 66, 69. I nomi di quelle tribù erano dunque passati dall’Attica in Jonia. Insostenibile è la tesi del Wilamowitz Aristoteles und Athen (1893) II p. 138 sgg. sul- l’origine delle phylai attiche, secondo cui i nomi di esse sarebbero stati presi dalla Ionia. Cfr. Beloch Griech. Gesch. 15 2 (1913) p. 98. Essi in- vece sarebbero giunti in Asia coi coloni attici, e in questo caso devesi ritenere che le tribù esistessero in Attica prima ancora del cosidetto sinecismo, una volta ammesso che l’unità della regione con a capo Atene aveva luogo nel corso del sec. VIII. Cfr. De Sanctis 4τϑές (a. 1912) p. 34, 52. Questa tesi è stata recentemente sostenuta dal Bolkestein Zur Entstehung der ionischen , Phylen in Klio XIII (a. 1913) p. 424 sgg., il quale giunge appunto alla conclusione che le tribù attiche non fossero nate in età recente da un’opera di divisione amministrativa compiuta dagli uomini, ma rispondessero alla antica struttura naturale della po- polazione. ;

(πύλαι Aidao: I 312; ᾿Δίδης πυλάρτης : 4 277); e così il

combattimento di Eracle col re di Pilo (A 690) è il combat- timento stesso di Eracle con Ades avvenuto ἐν Πύλῳ ἐν vexvecor (E 397) (1). Offuscatosi nella mente dei Greci il significato originario del mito, Neleo diventò un nume a parte, anzi un eroe, che aveva sede presso la città di Pilo, la porta o l’entrata del regno di sotterra, che dalla fantasia popolare fu localizzata nell’estrema parte occidentale della Grecia dove si immaginava cominciasse la regione delle tenebre. E Neleo, quale Ades o divinità infera, aveva culto in Atene, come di- mostra il decreto ateniese del 418/7 concernente la co- struzione o restauro del tempio di Neleo e di Basile e di Codro (2), essendo Basile niente altro che Persefone, la regina dei morti. Una tradizione attica parlava di Echelos, l’eroe eponimo del demo Echelidai (3), il quale avrebbe rapita Basile nella quadriga così come Ades aveva portata via Persefone, secondo attesta il rilievo trovato nel Neophaleron di Atene (4). Del resto, io osservo che per l’epos omerico la sposa di Neleo era Χλῶρις, figlia di Anfione, la quale natural- mente regnava in Pilo: Πύλου βασίλευε (4 285). Χλῶρις per i Greci significava la pallida , giusto quanto riferisce

(1) H. Ὁ. Miiller, Mythologie der griechischen Stimme I p. 151, 156 sgg. H. Usener Der Stoff des griechischen Epos in Sitzungsber. der Kais. Akad. in Wien, Phil.-hist. Class. CKXXVII (a. 1897) p. 29 = Kleine Schriften IV (Leip. 1913) p. 225 sg. Cfr. Ed. Meyer in Hermes XXX (a. 1895) p. 285; Beloch Griech. Geschichte 2 p. 103.

(2) CIA IV 2, 53a p. 67. Cfr. Kumanudis Egpqu. &oy. 1884 p. 161.

(3) Steph. B. s.v. ᾿Π χελέδαι. Etym. M. parla d’una statua di “Eye405 (s. 5.) e d’una località detta ᾿Βνεχελίδω (s. υ.).

(4) Kavvadias φημ. ἄρχ. 1893, tav. 9, 10 p. 129 sgg.; Gruppe Griech. Mythol. p. 868 n. 1, 1521 n. 1; Beloch op. cit. 1. e. Il rilievo rappresenta il ratto avvenuto coll’aiuto di Ermete. Un giovinetto sostiene sul carro una donna, non con atto di violenza ma con grazia e solo in modo da impedire che essa salti giù. Sopra le due figure leggonsi i nomi di Echelos e Basile. La prima lettera del nome Basile è veramente inintelligibile, ma a ragione è stata reintegrata dal Kavvadias. Come si vede, l’arte attica ingentiliva la scena del ratto violento di Per- sefone. Echelos in origine sarà stato una ipostasi di Ades.

240

Pausania (II 21, 9) di Melibea, figlia di Niobe, che per ter- rore scolorita fu chiamata Chloris. Ed è chiaro come ben si addicesse tale appellativo alla dea del regno sotterraneo dei morti (1). Ferecide (fr. 56) sapeva che Chloris la moglie di Neleo, la quale regnò in Pilo (βασιλεύει te οὐ μόνον τῶν Πυλίων), era figlia di Persefone. La regina Chloris, o Basile, era in origine la stessa Persefone.

Certo dal decreto del 418/7 non si ricava se allora il Ne- leion fosse restaurato o costruito del tutto a nuovo (2). Ma ciò non autorizza a reputare che quel culto non fiorisse sin da età remota in Atene (3). Neleo ateniese, come divinità infera, risaliva al più vetusto svolgimento del mito. E che tale egli fosse si rileva anche dal fatto che il nome di Me- lanto, il nelide, il quale venendo in Atene dalla Messenia e prendendo il posto dell’imbelle Timete avrebbe iniziata la nuova dinastia col figlio Codro e sarebbe diventato l’eponimo del demo di Melene (4), era niente altro che un epiteto di Ades. Melanto, infatti, il nero , ricorda il μέλας Ἅιδης di Sofocle (0ed. R. 29) o l’Aidas μελαγχαίτας di Euripide (Alce. 439) (5).

È lecito dunque pensare, come si è fatto, che coloni ionici movendo dall’Attica avessero portato seco il culto di Neleo sulle coste dell’Asia e nelle isole adiacenti, ed escludere quindi che alla fondazione di Mileto avessero preso parte genti venute dalla Messenia. La leggenda dei Nelidi diven- tati re di Atene non ha valore storico.

(1) Cfr. Ὁ. M. Miiller Myth. der griech. St. I p. 159 sg.

(2) CIA IV 2, 53a p. 67 1.4: ἔρξαι τὸ ἱερὸν τοῦ Κόδρου καὶ τοῦ Ny- λέως καὶ τῆς BaciAns.

(3) Cfr. Ed. Meyer Forschungen 2. alt. Gesch. II (1899) p. 533, il quale rileva appunto l'infondatezza dell’opinione del Toepffer Hermes XXI (a. 1896) p. 106, che Neleo e Basile, cioè, non avessero avute antiche ed originarie relazioni con Atene.

(4) Herod. V 65; Ephor. fr. 25; Paus. VII 1, 4; VII 18, 7.

(5) Cfr. H. Ὁ. Miiller Myth. der griech. St. I p. 159; Bruchmann Epi- theta deorum quae apud poetas graecos leguntur p. 3.

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241

Ma il Neleo di Mileto era identico a quello di Atene? Si In Mileto esisteva il culto di Neleo. In suo onore si cele- brava una festa, detta appunto Neleide (1), e di lui si addi- ᾿ tava il sepolero non lungi dalle porte della città (2). Ma egli non aveva quivi il carattere di divinità infera, egualmente che in Atene, ed era invece onorato come nume del mare.

Ciò si rileva anzitutto dalla notizia di Strabone secondo cui di Neleo si vedeva un’ara sul promontorio Ποσείδιον (3). Ed è naturale che i coloni delle ridenti spiagge 4611 Αβῖ8. e delle |

isole adiacenti vedessero nel loro antico arcageta un eroe il

quale avesse rapporto, più che col regno di sotterra, col

mare e col dio della navigazione. tale rapporto, mitolo-

gicamente parlando, era arbitrario o di origine riflessa in

quanto fosse derivato dalla importanza che il culto di Posi-

done aveva presso i Milesi, in particolare, e gli Ioni in ge-

nere; chè risaliva invece alle pure origini del mito. La i circostanza che, a detta dello scoliaste di Licofrone, in Mileto

Posidone era onorato sotto il nome di Enipeo (4), ci ricon-

duce all’epos omerico (4 235) in cui erano cantate le origini

dei Nelidi. La bella Tiro, in Tessalia, presa d’amore per il

dio fluviale Enipeo era solita aggirarsi sulle sponde del fiume,

quando un giorno Posidone, assunte le forme dell’amato

Enipeo, riuscì ad averla fra le braccia e la fece madre di i due bambini, Pelia e Neleo, dei quali l’uno appresso diventò

(1) Polyaen. VIII 35M: ἑορτῆς οὔσης παρὰ Μιλησίοις, ἣν NyAnide i κλήζουσιν. Cfr. Plutarch. mul. virt. p. 254 A.

(2) Paus. VII 2,6: τοῦ Νειλέως τάφος ἰόντων ἐς Διδύμους ἐστὶν οὐ πόρρω τῶν πυλῶν Ev ἀριστερᾷ τῆς ὁδοῦ.

(3) Strab. XIV 633: τοῦ δὲ Νηλέως ἐπὶ τῷ Ποσειδίῳ βωμὸς ἵδρυμα δείκνυται.

(4) Schol. Lycophr. 722: ᾿Ενιπεὺς Ποσειδῶν τιμᾶται παρὰ Μιλησίοις. Il poeta ricorda il promontorio Enipeo nella costa occidentale d’Italia presso Posidonia, che, come dice il nome stesso, era rinomata per il culto di Posidone. Cfr. la mia ed. di Licofrone (Catania 1901) p. 241.

ed

Rivista di filologia, ecc., ΧΙ, 1]. 16

242

signore di Iolco e l’altro re di Pilo. Ora si comprende come Enipeo in sostanza fosse lo stesso Posidone (1), il quale ve- niva onorato dai Milesi sotto tal nome in quanto era consi- derato il padre di Neleo.

Νηλεύς, il nero ,, lo spietato , per gli antichi Greci era anche il mare in tempesta, torbido e violento. Dio fluviale, figlio di Posidone, Enipeo, il collerico , (2) in origine era Posidone (3). Νηλεύς, voce di origine eolica sta alla sua forma ionica Νειλεύς, come Νῆλος a Νεῖλος (4), il fiume dell'Egitto che i Greci credevano si fosse chiamato primieramente Melas, o Nero, dall'omonimo figlio di Posidone (5), e che quindi si compiacevano rappresentare con statua di nera pietra (6). Della fonte Nelea d’Estiotide in Tessalia (7) e del fiume Neleo dell’Eubea (8) si narrava come bevendone le acque le pecore diventassero nere.

Nella fantasia dei Greci il mare in tempesta si presentava, infatti, sotto colore nero od oscuro, e in tal senso nell’epos omerico si parlava di μείλας πόντος (2 79), di μέλαν κῦμα (e 353), di μελόνει te πόντος ὑπ᾽ αὐτῆς (H 64); onde il dio del mare era designato cogli epiteti di πατήρ xvavogai-

(1). Ovid. met. VI 116 sq.: (Neptune) tu visus Enipeus | gignis Aloidas.

(2) Nell’interpretazione della voce ᾿νιπεύς seguo il Gruppe Griech. Myth. p. 745 n. 19.

(3) Paus. IV 2, 5: Νηλέα τὸν Κρηϑέως τοῦ Αἰόλου, Ποσειδῶνος ἐπίκλησιν.

(4) Usener Gòotternamen Ὁ. 18, il quale osserva come in Omero il Nilo è ancora detto Αἴγυπτος e reputa che dai naviganti ioni sia stato la prima volta appunto chiamato Νεῖλος (theog. 338; Herod. IX 97); cfr. Gottliche Synonyme in Rhein. Mus. LIII (a. 1898) p. 252 sgg. = Kleine Schriften IV p. 281 sgg. Sull’altra forma ionica Νείλεως cfr. Wackernagel in Berliner Philologische Wochenscrift XI (a. 1891) c. 6.

(5) Ps. Plutarch. de Auv. 16, 1. Cfr. Festus Pauli p. 124. 12: Melo no- mine alio Nilus vocatur.

(6) Paus. VIII 24, 12. La spiegazione di Pausania, che cioè al Nilo si facessero μέλανος λέϑου τὰ ἀγάλματα perchè attraversava il paese degli Etiopi, è di origine riflessa.

(7) Antig. Car. 48; Plin. n. A. XXXI 13, il quale erroneamente inverte i termini dell’esposizione.

(8) Strab. X 449. Cfr. Ps. Arist. mirab. ausc. 170. .

243

τῆς e μελαγχαίτης παρακοίτης (1); e a lui a Pilo si sacri- ficavano tori tutti neri (y 6). Pertanto Melas era detto figlio di Posidone ed era ritenuto divinità fluviale, ed uno dei pi- rati trasformati da Dioniso in delfino (2). Melanto, la figlia di Deucalione, avrebbe avuto il figlio Delfo da Posidone, il quale si sarebbe unito a lei sotto forma di Delfino, ovvero dal nume fluviale Cefiso sarebbe stata fatta madre di Me- lene (3). Melantea, figlia di Alfeo, unendosi con Posidone avrebbe dato alla luce Eirene (4). degno di minor rilievo è il particolare che in Atene Posidone era onorato sotto il nome di Melanto (5), del Nelide, cioè, che diventato re ateniese e padre di Codro, sarebbe stato l’avo di Neleo il fondatore di Mileto.

I Nelidi, del resto, in modo vario compaiono in relazione col dio del mare. Così Pero, la figlia bellissima di Neleo, se- condo Acusilao diventava per opera di Posidone madre del dio fluviale Asopo (6). Periclimeno, l’ultimo dei figli di Neleo, avrebbe avuto invece da Posidone la facoltà di assumere forme diverse (7). E si comprende come Pelia e Neleo, i figli di Posidone Enipeo, comparissero spesso nel mito in re- lazione coi cavalli sin dalla loro nascita (8). Neleo era rite- nuto valentissimo nell’arte equestre (9), onde suo figlio Ne- store nell’Iliade suole essere chiamato Περήνιος ἱππότα. È noto che comunemente in Grecia Posidone veniva designato coll’appellativo di Ἵππιος, e per questo Neleo era anche detto figlio di Ippoconte (10), epiteto del dio del mare.

(1) Cfr. Bruchmann. Epitheta deorum p. 197 sg.

(2) Stoll in Roscher Lex. II 2584.

(3) Weniger in Roscher Lex. II 2583.

(4) Weniger in Roscher Lex. II 2581.

(5) Schol. Lycophr. 767: MéAavdos Ποσειδῶν παρὰ ᾿Αϑηναίοις. Il poeta chiama Posidone Melanto appunto per indicare il mare in tempesta.

(6) Acusil. apd Apollod. III 12, 6 = fr. 22.

(7) Apollod. I 9, 9.

(8) Apollod. I 9, 8.

(9) Neleo in Schol. Il. A 671 è detto ἑππικώτατος τῶν κατ᾽ αὐτόν, a quanto pare, secondo la narrazione di Ferecide (fr. 57).

(10) Hygin. fab. 10. Sul rapporto fra Ippoconte e Posidone cfr. Usener

244

Tutto ciò serve a spiegare come in Mileto, e presso gli Ioni in genere, il nome di Neleo fosse associato al culto del dio del mare.

Poseidion era detto il promontorio a sud di Mileto (1), e Posidone Eliconio era il nume delle feste nazionali delle Pa- nionie che tutte le dodici città della Ionia erano solite ce- lebrare sul promontorio Micale (2). Nulla di meraviglia che la rinomanza del culto di Posidone in Elice di Acaia avesse spinti gli Ioni ad onorare il loro nume coll’epiteto di Eliconio, come per casi simili suole accadere in ogni tempo; e niente di strano che l’identità dei nomi facesse poi pensare all’ori- gine degli Ioni dall’Acaia, i quali cacciati da questa regione e giunti in Attica sarebbero passati sulle coste d'Asia (3). Ma, certo, ciò non ha alcun valore storico. E se si volesse tener presente la tradizione, secondo cui gli abitanti di Elice si sarebbero opposti persino colla violenza alla pretesa degli Ioni di avere cedute le antiche statue del nume, o forse anche le copie di quelle, onde poi sarebbero stati colpiti dalla sven- tura del terremoto (4), si dovrebbe pensare che neppure quei di Acaia prendessero sul serio la loro parentela colle genti dell’Ionia.

Tutto sommato, il Neleo della città di Mileto non ha il carattere di divinità infera del Neleo di Atene, ma di dio del mare e della navigazione, e trae le sue origini dalla parte meridionale della Tessalia, dove erano il fiume Enipeo, le città di Iolco e Fere, e la fonte Nelea (5). Ma egli dunque era giunto a Mileto da Atene o dalle coste della Tessalia?

Gottliche Synonyme in Rhein. Mus. LITI (a. 1898) p. 354 = Kleine Schriften IV p. 283. Euripide immaginava il dio del mare sul carro tirato da neri cavalli: Eurip. Androm. 1011.

(1) Strab. XIV 634; cfr. Pomp. Mel. I 17; Plin. n. ἢ. V 112. Il capo Poseidion o Posideo oggi risponderebbe a Monodendri; cfr. Haussoulier Etudes sur l’histoire de Milet et du Didymeion (Paris 1902) introd. XV.

(2) Herod. I 148; Strab. VIII 384, XIV 639; Paus. VII 3, 10, VII, 24, 5. Cfr. Preller-R. Griech. Myth. I p. 579.

(8) Strab. VII 384; Paus. VII 24, 5.

(4) Diod. XV 49.

(5) Escludiamo l’Elide. È vero che secondo l’Iliade (A 712) il regno

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245

Io non revoco in dubbio che coloni ionici movendo dall’At- tica portassero seco il culto di Neleo. Ma osservo che in i Mileto questo rivela sostanzialmente l’influenza della tradi- zione tessala. :

Se l’'epos omerico, che cantava le origini tessale del re di Pilo, sorse e si sviluppò, come si ammette, nelle città greche d’Asia e nelle isole adiacenti, devesi pensare che anche in questo caso la tradizione epica avesse fondamento nel patri- monio mitico-religioso dei coloni venuti dal continente greco. È necessario, cioè, ritenere che in mezzo alle popolazioni ioniche fossero state genti oriunde dalla Tessalia, le quali sa- rebbero riuscite ad affermare il carattere tessalo dell’eroe, figlio del dio del mare, cui appunto le città della Ionia, diretta- mente o no, facevano risalire le loro origini. Non è verisi- mile, infatti, che il culto di Neleo figlio di Enipeo giungesse in Mileto per il tramite dei coloni tessali delle città eoliche i d'Asia e che in tal modo, cioè per via indiretta, riuscisse a sovrapporsi all’altro venuto colle genti dell’Attica.

Si viene così ad una spiegazione che non contrasta coi risultati cui sono pervenuti gli studi oggigiorno, una volta 5 ammesso che gli Ioni pur avendo il loro punto di origine dall’Attica avrebbero compresi in elementi di altre popo- lazioni greche (1), non escluse quelle delle regioni nordiche, come la Tessalia, e che una rigida demarcazione fra Ioni ed Eoli non sarebbe ammissibile nelle colonie d'Asia, così come non lo è nelle colonie di Sicilia che in sostanza ave- vano la medesima provenienza (2). Del resto oggi è opinione prevalente, che la colonizzazione d’Asia non avvenisse d’un colpo per effetto di violenti spostamenti di popolazioni del

di Pilo estendeva fino all’Alfeo e comprendeva la parte meridionale dell’Elide, la Trifilia; e per dippiù un fiume Enipeo era anche affluente dell’Alfeo. Ma quivi il mito fu localizzato posteriormente. È noto che Strabone (VIII 356) collocava appunto la Pilo omerica in Trifilia. E ciò sostiene oggi il Dòrpfeld A%-Pylos in Ath. Mitt. d. archdiol. Inst. XXXII p. vi, XXXIII p. 295 sgg., XXXVIII p. 97 sgg.

(1) Herod. I 146.

(2) Ed. Meyer Forschungen I p. 132 sgg.; Gesch. d. Alt. II p. 243 sg., 237.

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246

continente greco, ma a gradi e lentamente. È naturale per- tanto ammettere che una schiera migratrice dalla Tessalia meridionale attraverso il canale Euboico, e forse insieme con genti di Eubea (dove a detta di Strabone era un fiume Neleo) giungesse sulle spiagge di Mileto quando già v’erano arrivati i primi coloni dall’Attica.

Per opera dell'elemento tessalo in Mileto avveniva proba- bilmente sul culto attico di Ades-Neleo la sovrapposizione del culto di Posidone-Neleo, come più rispondente all’indole degli abitanti e alla natura dei luoghi. E ciò era favorito dal fatto che Neleo veniva localizzato in Pilo, e la tradizione accolta e celebrata dai canti omerici offuscava il ricordo del nume onorato in Attica.

Potrebbesi anche pensare che le due forme del nome Neleo, l’eolica Νηλεύς e l’ionica Νειλεύς, fossero un raddoppiamento dovuto all'intento di legare il fondatore di Mileto col re Codro (1), ovvero a necessità cronologica, in quanto Neleo secondo l'epopea omerica era vissuto anteriormente alla guerra di Troia ed invece l’origine di Mileto era posteriore, sicchè l’oichista della città ionica avrebbe dovuto essere un discen- dente di lui, come recentemente è stato affermato (2). Ma in sostanza quelle due forme del nome rispecchiano la prove- nienza delle due forme del culto: l’una derivata dalla Tessalia e l’altra dall’Attica.

Se Atene rappresentava nei canti omerici così scarsa parte, nonostante vi fossero menzionati gli ᾿]άονες del continente greco (N 685) e più volte ricordati gli ᾿ϑηναῖοι (A 328; N 196, 689; Ο 337; y 278, 307; 4 323), (3), devesi anche

(1) Ed. Meyer Forschungen II p. 536.

(2) Artur Ledl Studien cur dlteren athenischen Verfassungsgeschichte (Heidelberg 1914) p. 234.

(3) Anche Atene è ricordata nell’Odissea (7 80) per non tenere conto del Catalogo dell'Iliade (B 546, 549). Del resto, non è del tutto escluso che i passi dei canti omerici, ove si fa menzione di Ateniesi e di Atene,

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al fatto del localizzamento di Neleo a Pilo. Neleo e la casa regnante di Pilo vi sono, infatti, trattati con ampiezza e a copia di particolari come nessuna altra schiatta di principi. à Ne sono seguìte le varie generazioni anche in linea femminina de. e ne sono glorificate le egregie virtù (1). Ciò spiega come ἘΝ Nestore, fatto figlio di Neleo, e quindi rappresentante della

casa di lui dinanzi ad Ilio, abbia un posto eminente fra i

personaggi dell'Iliade. In sostanza se è vero che i canti ome-

rici non fanno cenno delle colonie greche d’Asia, perchè non

ne presuppongono la esistenza al tempo della guerra di Ilio,

è anche certo che non rispecchiano relazioni di sorta del re

di Pilo coll’Attica. E ancora sulla fine del sec. VII il poeta

Mimnermo faceva venire i fondatori della sua città natale

direttamente da Pilo, cantando che i Colofoni erano giunti

sulle coste d’Asia αἰπὺ Πύλον Νηλήιον ἄστυ λιπόντες (fr. 9).

Per il poeta, infatti, Andremone fondatore di Colofone era

pilio (2), e non ateniese e figlio di Codro, come appresso ri-

feriva Pausania seguendo la versione attica della tradi-

zione (3).

Ma i canti omerici, d’altra parte, celebrando la casa re- i gnante di Pilo non giungevano a spegnere nelle popolazioni della Ionia la coscienza della loro parentela colle genti del- l’Attica, mantenuta viva se non altro dall’affinità della lingua ed eccitata dalle lotte coi popoli vicini, che esse con- sideravano barbari e dai quali, incalzate alle spalle, erano spinte a volgere lo sguardo verso il continente greco. Lo Stato ateniese si sviluppava; e specialmente nell’età di Pisi-

non sieno di data recente o mere interpolazioni. E come tale ad es. è ritenuto da alcuni il passo citato degli Iavones (N 68): Busolt Griech. Geschichte p. 283.

(1) Toepffer Attische Genealogie p. 237.

(2) Strab. XIV 633: Κολοφῶνα δ᾽ ᾿ἀνδραίμων Πύλιος, ὥς φησι καὶ Miuveguos ἐν Ναννοῖ = fr. 10.

(3) Paus. VII 3, 5 conciliando la vecchia colla nuova tradizione, dopo avere ammesso che i Codridi Damasichton e Promethos fossero stati i primi re di Colofone, fa Andremone figlio di Codro. Andremone restava sempre il fondatore di Colofone una volta che quivi si additava la tomba di lui.

248

strato, per effetto della sua politica di espansione sul mare e delle sue relazioni con Policrate di Samo, e del favore ch’egli dimostrò per la cultura, le civiltà delle due sponde dell'Egeo venivano a trovarsi a contatto. E si potrebbe pen- sare che allora sorgesse la tradizione dell’origine pilia o ne- lide dei Pisistratidi, ma non nella forma quale si legge in Erodoto (V 65), che essi, cioè, discendessero dagli stessi pro- genitori di Codro e Melanto; chè il ricollegamento della casa regnante di Pilo coll’antica dinastia ateniese per via di Melanto e di Codro è di età posteriore. Ma è poi verisimile che la tradizione dei Pisistratidi, egualmente che quella degli Alemeonidi e di altre famiglie di Atene che si facevano de- rivare da Neleo, avesse la sua origine nel corso del sec. V, dopo cioè che Codro era stato riconosciuto discendente del re di Pilo. La tradizione, del resto, rivela un carattere pu- ramente letterario in quanto con ogni verisimiglianza fu oc- casionata dalla corrispondenza del nome del tiranno ateniese col figlio di Nestore, Pisistrato, il quale sarebbe stato quindi nepote di Neleo, e che in Pilo era già ricordato dall’Odissea (y 36, o 166) (1).

Solo più tardi, nel fiorire della storiografia e sotto l'influenza della politica di Atene, si finì collo stabilire che proprio gli Ateniesi guidati da Neleo, figlio di Codro, avevano fondato la città di Mileto. E la leggenda rifletteva un contenuto sto- rico solo per il fatto che coloni delle città ioniche d'Asia erano venuti dalle coste dell’Attica.

A parte la considerazione che Mileto già esisteva quando i Greci giunsero sulle spiagge della Caria, sarebbe del tutto inverisimile che prima od anche intorno il sec. XI Atene si trovasse in condizioni di dovere aprire le vie emigratorie verso l’Oriente ai suoi cittadini. Si doveva giungere all’età di Pisistrato prima che in Atene si avvertisse l’affluire

(1) È notevole che Pausania (II 18, 9), il quale dimostra di conoscere tanto bene le tradizioni concernenti i Nelidi, non sa dire nulla di Pisi- strato : οὗ NyAeîdar πλὴν Πεισιστράτου τοῦτον γὰρ οὐκ οἶδα mag οὔστινας ἀπεχώρησεν --- κτλ.

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249

della popolazione (1). In realtà la tradizione intorno a Mileto fondata dagli Ateniesi non risaliva ad epoca remota e tro- vava la sua affermazione solo nella seconda metà del sec. V in Atene per effetto della politica di Pericle.

Non è concepibile, infatti, che Atene prima di avviarsi al conseguimento del suo impero marittimo affacciasse la pretesa d’essere considerata come la metropoli delle città della Ionia, e che Mileto, d’altra parte, ancora nel fiore della sua potenza e memore del suo passato glorioso, riconoscesse d'essere niente altro che una colonia di Atene. La coscienza dell’af- finità di stirpe fra le popolazioni ioniche e gli Ateniesi con- duceva tutt'al più al convincimento che gli Ioni fossero ve- nuti in Asia dalle coste dell’Attica. L’Attica, in breve, sarebbe stata la culla degli Ioni. E in questo senso devesi credere che Solone, all’inizio d’una sua elegia, chiamasse l’Attica πρεσβυτάτην γαῖαν ’Iaovias (2), e non nel significato che Mileto fosse stata fondata dagli Ateniesi, come oggi da molti intende (3). v’ha ragione di pensare che le cose mu- tassero durante il sec. VI; chè il racconto dell’origine pilia di Pisistrato difficilmente si può riferire, come osservammo, all’età di lui; molto meno poi al tempo di Ippia, che riparato presso i Persiani fece causa comune coi nemici degli Ate- niesi e degli Ioni.

Certo al principio del sec. V quando Mileto, dietro la ri- bellione al dominio persiano, si rivolgeva per aiuto ad Atene, si rinsaldavano sempre più i vincoli di parentela fra le due città. Ma non si può dire che anche allora Aristagora desse gran peso all'opinione che οἱ Μιλήσιοι τῶν ᾿ϑηναίων εἰσὶ ἄποικοι della quale stando ad Erodoto (V 97) si sarebbe valso per fare accogliere la sua richiesta se già prima che ad Atene si era recato sulla trireme direttamente a Sparta (V 38), e secondo lo stesso Erodoto (V 49) fra le altre cose

(1) Cfr. De Sanctis ‘Azd/s (a. 1912) p. 23. (2) Aristot. Ath. pol. 5, 2. (3) v. ad es. Busolt Griech. Gesch. p. 285, 304.

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aveva ricordato al re Cleomene che gli Ioni erano consan- guinei degli Spartani, e cioè Greci anch'essi. Aristagora si rivolgeva ad Atene dopo avere bussato invano alle porte di Sparta. Ed è risaputo che Atene porse agli Ioni così scarsi aiuti che in nessun modo sarebbero stati sufficienti a sottrarli alla vendetta dei Persiani. Mileto cadde sotto i colpi dei bar- bari (a. 494), e il popolo ateniese pianse dinanzi alla rappre- sentazione del dramma di Frinico in cui era riprodotta la fine miseranda della grande città. Ma se il poeta fu condan- nato alla multa di mille dramme e fu vietata l’ulteriore rap- presentazione della tragedia, ciò non avvenne perchè egli avesse rievocato il ricordo di sventure domestiche, essendo per gli Ateniesi i mali dei Milesi οἰκήια κακά, come riferisce Erodoto (1), bensì perchè gli uomini che allora erano al go- verno temevano che quello eccitamento degli animi avrebbe riafforzato il partito della guerra e favorito i disegni di co- loro i quali, come Temistocle, volevano che Atene si prepa- rasse adeguatamente alla lotta inevitabile colla Persia (2). Frinico, infatti, rendeva un servigio alla politica di Temi- stocle, il quale era eletto arconte (a. 493) e prendeva nelle sue mani la direzione dello Stato (3).

Le guerre persiane cementarono ancor di più i buoni rap- porti degli Ioni con Atene. Dopo la battaglia di Micale (a. 479)

(1) Herod. VI 21. Cfr. Strab. XIV 635, il quale secondo Callistene dice soltanto che Frinico fu condannato alla multa di mille dramme per avere rappresentato la presa di Mileto compiuta da Dario.

(2) Si sospettò che Erodoto non avesse data la vera ragione della condanna inflitta a Frinico. Cfr. Welcker Griechische Tragoedien I p. 25. Il Grote History of Greece (London ed. Dent) V p. 27 discutendo sulla poca convenienza del soggetto scelto dal poeta finiva col non dubi- tare che la ragione esposta da Erodoto in sostanza fosse la vera. Chi vi scorse il motivo politico fu il Duncker Geschichte des Alterthums VII* p. 88; il quale osservando, come la condotta pusillanime di fronte ai Persiani di coloro che stavano a capo dello Stato, gli Alemeonidi, aveva incoraggiato i partigiani dei Pisistratidi ed inaspriti invece quelli che avrebbero voluto sostenere gli Ioni, concludeva che il dramma di Frinico era la più commovente ed amara critica della politica del governo.

(3) Ed. Meyer Geschichte d. Alt. III p. 312 sg.

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251

gli Ioni insulari si ribellarono una seconda volta al dominio persiano e furono associati alla lega ellenica (1), e sotto la guida dell’ateniese Santippo andarono alla conquista di Sesto (2). Ma, dopo, a Bisanzio non volendo sottostare agli ordini di Pausania si staccarono da Sparta e riconobbero la sola autorità di Atene (3), contribuendo a formare quella lega marittima ateniese che poi ebbe lo sviluppo massimo dalla politica di Pericle. Allora Atene ponendosi a capo degli Ioni prendeva il posto della abbattuta Mileto e ne ereditava i diritti sulle coste della Tonia e nelle colonie, nell’Egeo e nel Ponto. Non erano forse gli Ioni derivati dall’Attica? Mi- leto, si disse, era stata fondata da Neleo, ma non dal re di Pilo, da altro Neleo figlio di Codro e da quello discendente. E dai logografi, che prendevano le gesta delle leggende come fatti storici e cercavano di accordarle in un ordine cronolo- gico che non presentasse contraddizioni, si narrò che una schiera di Messeni, incalzati dagli Eraclidi, era passata in Attica sotto la guida del nelide Melanto, il quale avendo preso il posto dell’imbelle re Timete iniziava una nuova dina- stia in Atene. Da Melanto sarebbe nato Codro, e da questo Neleo, il fondatore di Mileto.

Ma stando alla narrazione di Strabone non pare che la leggenda si fosse già affermata con Ferecide, come da taluno si è creduto (4); perchè se egli riferiva che a capo degli Ioni in Asia era venuto Androcle, figlio di Codro re di Atene, ed aveva fondata la città di Efeso, non si comprende come poi aggiungesse che Mileto era stata fondata da Neleo della schiatta dei Pilii (5), quando questo Neleo sarebbe niente altro che figlio di Codro e quindi fratello di Androcle. E ciò sa lo stesso Strabone, il quale parla appunto di Messeni pas- sati con Melanto in Attica. Ma Strabone nella seconda parte della sua narrazione avrà avuto presente Eforo, come fa di

(1) Herod. IX 104, 106.

(2) Herod. IX 114; Thuc. I 89.

(3) Thuc. I 95.

(4) v. ad es. Weizsàcker in Roscher Lex. IIl 111. (5) Strab. XIV 688 = Pherec. fr. 111.

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fatto poco appresso, ove riferendosi allo storico di Cuma dice che l’antica Mileto doveva le sue origini ai Cretesi e che la città esistente ai suoi tempi era sorta per opera di Neleo (1), secondo la tradizione già comune che 51 riscontra poi in Pausania (2).

Era invece la leggenda nota ad Ellanico (fr. 10), una volta che egli esponendo la genealogia di Codro lo diceva figlio di Melanto il quale, figlio di Neleo, incalzato dall’invasione degli Eraclidi dalla Messenia, era passato in Atene. Ma la testimonianza di Ellanico non può avere cronologicamente la precedenza su quella di Erodoto, perchè se egli non solo era contemporaneo ma verisimilmente anche più vecchio dello storico di Alicarnasso (9), scrisse dopo di lui. La sua opero- sità di scrittore non pare vada al di dell’a. 440 e, come è noto, vi sono ragioni per credere che egli si sia valso del- l’opera di Erodoto (4). Solo con Erodoto ci troviamo dinanzi alla piena affermazione della leggenda di Neleo ateniese fon- datore di Mileto.

Non v'è forse nell’opera erodotea alcuna circostanza che con tanta insistenza sia messa in luce come questa della fon- dazione di Mileto da parte degli Ateniesi e della origine ate- niese di tutti gli Ioni. Stando proprio ad Erodoto, se Neleo figlio di Codro fondava Mileto (IX 97), aveva ragione Ari- stagora di ricordare agli Ateniesi che i Milesi erano loro coloni (V 97) e quindi il popolo di Atene di considerare come proprie le sventure di Mileto (VI 21). Tutti gli Ioni, del resto, sarebbero derivati da Atene (VII 95, IX 106); per cui Artabano avrebbe avvertito Serse di non dimenticare che essi erano di fronte agli Ateniesi nei rapporti dei figliuoli verso i genitori (VII 51); e quindi a buon diritto Temistocle, dopo la battaglia di Artemisio, ricordando loro la stessa cosa li avrebbe sollecitati a non combattere contro gli Ateniesi

(1) Strab. XIV 634 = Ephor. fr. 32.

(2) Paus: 10. 8: 9. δ᾽: 118; 8. 5:

(3) Christ-Schmid Gesch. der griech. Lit.® (a. 1912) p. 455. (4) Cfr. Jacoby in Pauly-Wissowa FR. £. VIII 109 55.

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{VII 22). Gli stessi Nassi sarebbero stati Ioni oriundi da Atene (VIII 46) (1). Insomma Atene avrebbe rappresentata la Ionia, perchè se Mileto si era distinta fra le dodici città ioniche (I 143), la spiegazione poteva trovarsi nel fatto che, mentre in queste erano affluiti elementi etnici eterogenei, in Mileto sa- rebbero giunti direttamente gli Ateniesi del Pritaneo (I 146). Ma gli Ateniesi in fondo avrebbero disprezzati gli Ioni come popolo fiacco e da nulla, tanto da vergognarsi d'essere chiamati Toni (I 143); e da questo sentimento di disprezzo natural- mente sarebbe stato mosso Clistene a mutare i nomi. delle antiche quattro tribù di Atene che si riscontravano pure presso gli Ioni (V 59, 66).

Così secondo Erodoto gli Ioni avrebbero avuto ragione di esistere politicamente solo perchè nel mondo v'era Atene. Ed è notevole come egli pronunciando giudizi aspri sul loro conto non rilevasse mai la passata grandezza politica di Mileto. In tutto ciò lo storico di Alicarnasso aveva dinanzi a la visione della potenza marittima di Atene, del tempo suo, e della politica di Pericle.

* * *

È risaputo come sin dall’antichità si sia rimproverata ad Erodoto la eccessiva simpatia per Atene a danno di Sparta e Corinto, da una parte, e di Tebe dall’altra. Ed è noto anche che egli si dimostra indulgente e persino benevolo al riguardo dei Persiani. L'una cosa e l’altra stanno in relazione colla politica di Pericle, il quale seguendo l’indirizzo di Temistocle, che allora non aveva trovato seguito ed anzi era riuscito fa- tale al vincitore di Salamina, abbandonava il vecchio pro- gramma della guerra contro la Persia ed appuntava lo sguardo sopra i nemici di terraferma.

Erodoto era in Atene intorno al 445 o 444 ed otteneva un premio dagli Ateniesi per la lettura di una o più parti

(1) Cfr. in Aelian. ». ἢ. 8, 5 la tradizione che faceva fermare Neleo e il suo esercito a Nasso nel viaggio per Mileto.

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della sua opera, dietro una proposta cui forse non fu del tutto estraneo lo stesso Pericle (1). E se lo storico non ebbe col potente uomo di stato quella familiarità che ebbero Pro- tagora ed Anassagora, si trovò tuttavia con lui in rapporti personali e ne sentì l'influenza della politica. Il sentimento di viva ammirazione di Erodoto per Pericle si rivela, come più volte è stato osservato, nella divagazione che egli fa a certo punto della sua opera sulla famiglia degli Alemeonidi (VI 21-31), cui per parte di madre apparteneva lo stesso Pericle, e nella quale li difende e li loda con calore e giunge alla glorificazione di lui ricordando che la madre pochi giorni prima di darlo alla luce aveva sognato di partorire un leone. Ed è facile supporre che tali argomenti di difesa e di lode Erodoto li abbia avuti dalla bocca dello stesso Pericle, specialmente per ciò che riguardava l'accusa di medismo, mossa agli Alemeonidi poco dopo la battaglia di Maratona, nella quale si può scorgere un motivo di attua- lità in quanto si rimproverava a Pericle dai suoi avversari di avere abbandonata la politica nazionale contro i Per- siani (2). Pericle, infatti, intorno a quel tempo, e cioè dopo la cosidetta pace di Callia, più che a riprendere la guerra colla Persia pensava a rafforzare l'impero marittimo di Atene nell’Egeo e nel Ponto. E a lui doveva riuscire sommamente caro ‘che uno storico del valore di Erodoto, il quale cono- sceva bene quei paesi per averlì visitati, sostenesse coll’au- torità della sua parola la politica espansionista di Atene. Dimostrare che gli Ateniesi erano eredi dei Milesi, e degli Toni in genere, nell’influenza che per tanto tempo avevano esercitata in quei mari, appunto perchè gli uni e gli altri in origine non erano stati che coloni di Atene, era un motivo di giustificazione assai vantaggioso della politica ateniese di- nanzi agli altri stati della Grecia. L

Atene mirando a trasformare gli alleati della lega marit- tima in sudditi favoriva l’estendersi delle sue idee e delle

(1) Cfr. Duncker Gesch. ἃ. Alt. (N. F.) II p. 20. (2) Cfr. Jacoby in Pauly-Wissowa PR. E. Suppl. II 238 sg.

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255

sue istituzioni democratiche nelle loro città. Ciò avveniva anche a Mileto nel 450/49. Scoppiata allora una sollevazione da parte degli aristocratici, i quali fecero strage dei demo- cratici e si staccarono dalla lega ateniese, intervenne Atene con una Commissione di cinque membri e diede alla città una costituzione democratica (1). Ma è notevole che, in via d’eccezione (2), sino allora Atene aveva favorito in Mileto il partito aristocratico, il quale era frimasto al governo della città. E ciò può trovare spiegazione nel fatto che ancora

nella aristocrazia milesia prevalevano i Nelidi o altre fa-

miglie che vantavano l’antica parentela colla casa regnante di Pilo, e che secondo la nuova tradizione discendevano diret- tamente dalla stirpe regia di Atene (3). Le cose però muta- ΤΌΠΟ e l'indirizzo democratico prese il sopravvento anche in Mileto. Del resto, per Atene non era politicamente un danno, neanche dal punto di vista della tradizione, che il governo

(1) Ps. Xenoph. A#4. pot. III 11; CIA IV 1, 22a, Ὁ: 1.4-5. Cfr. Busolt Griech. Gesch. III 1 p. 228.

(2) Ed. Meyer Gesch. d. Alt. III p. 610.

(3) Probabilmente il racconto di Nicol. Dam. fr. 54 (cfr. Conon. narr. 44) che finisce collo spiegare l’abbattimento della signoria dei Nelidi in Mileto (οὗ μὲν δὴ Νηλεῖδαι κατελύϑησαν ὧδε) non ha valore storico. Cfr. Ed. Meyer Gesch. d. Alt. TI p. 616. Ciò non toglie che una famiglia di Nelidi, o genti che vantavano parentela con Neleo, non esistesse ancora a Mileto nel 450. Ma cercare di dimostrare che allora fossero cacciati i Nelidi per la seconda volta mentre lo sarebbero stati già prima nel sec.VI secondo il racconto di Nicola Damasceno, e che quindi il decreto di bando trovato a Mileto sia niente altro che una riproduzione o redazione di un decreto reso nel VI secolo contro i Nelidi, come ha fatto il Glotz Une inscription de Milet (Comptes Rendus della Académie des Inscriptions et Belles-Lettres a. 1906 p. 51 sgg.), è, a mio avviso, opera vana. A torto, del resto, il Glotz reputa (p. 528) che l’appoggio agli aristocratici di Mileto sia stato dato dalla Commissione ateniese del 450/49, e che in seguito il popolo milesio sia stato sostenuto dal popolo ateniese, mentre a ragione comunemente si ritiene che la Commissione di Atene dietro la sollevazione degli aristocratici desse alla città la costituzione de- moeratica. E. Cavaignac Histoire de l’antiquité, Athènes p. 75, pur se- guendo nell’insieme il Glotz, se ne scosta nel ritenere che la rivoluzione che abbattè i Nelidi sia stata anteriore ad un’era di discordie chiusa nel 450/49.

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della città venisse affidato al popolo se questo riconosceva che i Milesi originariamente erano ateniesi. E allora la poli- tica dello Stato ateniese era già in gran parte, se non in tutto, nelle mani di Pericle (1).

Pochi anni dopo questi avvenimenti Erodoto giungeva in Atene (circa il 445). Nè, d’altra parte, passava gran tempo dalla partenza di lui da Atene quando scoppiava la guerra fra Samo e Mileto (a. 441), in cui Pericle intervenne energi- camente a vantaggio di quest'ultima. Che se oggi si rico- nosce come un fatto il soggiorno dello storico di Alicarnasso a Turio, è invece revocato in dubbio che egli vi si recasse coi primi coloni e che, cioè, nel 444/3 partecipasse alla fon- dazione della città (2).

Non v’ha dubbio che Pericle fu mosso da ragioni politiche a prendere le armi contro Samo e compiere una guerra che risolveva in sostanza in un atto di violenza e riusciva ad Atene assai dispendiosa. Ma ciò non esclude che sull’animo dell’uomo di stato influissero in qualche modo le simpatie che egli sentiva per persone di Mileto che erano vissute od ancora vivevano in Atene accanto a lui, come il celebre architetto e filosofo Ippodamo, il quale fra le altre cose diresse i lavori del Pireo ed ebbe la cittadinanza ateniese, e ponendosi ai servigi della politica periclea prese parte alla fondazione di Turio e tracciò la pianta della nuova città; o come Aspasia, che appunto intorno a questo tempo (450/49- 441/0) aveva strette con Pericle relazioni coniugali. Non è, infatti, dimostrato che nulla ci sia di vero nelle maldicenze dello storico Duride di Samo, che, come è noto, scrivendo con animo avverso ai nemici della sua patria se la prendeva con Atene, con Pericle e quindi anche con Aspasia, la quale

(1) Erra, a mio giudizio, il Glotz op. cit. p. 528 nel riferire la critica dell’opuscolo ps-senofonteo (2. c.) alla politica di Cimone, il quale nel 449 trovandosi a capo della spedizione di Cipro avrebbe influito sulle cose di Mileto favorendo il partito oligarchico; mentre nel fatto la Commis- sione inviata da Atene, dove era Pericle, finì col sostenere la parte op- posta dando alla città una costituzione democratica.

(2) Cfr. Jacoby in Pauly-Wissowa R. E. Suppl. II 224 sg., 242.

iii

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257

a vantaggio dei suoi concittadini sarebbe stata provocatrice della funesta guerra (1). La stessa accusa si leggeva in Teo- frasto (2). E, a parte le esagerazioni degli scrittori che face- vano di Aspasia persino la maestra di Pericle, dalla quale egli avrebbe imparato l’arte dell’eloquenza, nulla v’è di sorpren- dente che l’uomo di stato negli atti della sua vita politica si inspirasse in certa misura ai consigli di colei che egli amava e vedeva per cultura e naturale finezza di giudizio sollevarsi al di sopra delle donne ateniesi del suo tempo. La condizione di Aspasia in Atene riusciva necessariamente a rafforzare i legami che oramai stringevano le sorti dei Milesi alla politica ateniese e a favorire quindi sempre più la dif- fusione della leggenda che Neleo, figlio di Codro, avesse fon- data Mileto. E se i Milesi erano in origine ateniesi non di- ventava anche Aspasia, se non per legge per sangue almeno, cittadina di Atene?

Colla legge del 451/0 sulla cittadinanza ateniese, per cui non erano riconosciute legittime le nozze con donne stra- niere (3), Pericle aveva inconsapevolmente preparato per il motivo della lotta spiritualmente drammatica che doveva sostenere in seguito quando sceglieva a compagna della sua vita una donna di Mileto. Le rampogne lanciate sul viso di Aspasia dagli attori comici, i quali fra l’altro le rinfacciavano di aver dato all’uomo di stato un figlio bastardo (4), pote- vano riuscire meno amare se nella coscienza del popolo pene-

(1) Plutarch. Per. 24 sq., il quale probabilmente seguiva Duride di Samo, secondo cui Aspasia avrebbe provocata la guerra samia come pure quella del Peloponneso (fr. 58 in FHG. M. II p. 482).

(2) Theophr. apd Harpocr. s. v. ᾿ἀσπασία. Cfr. Clearchos apd Athen. XIII 589 (= fr. 35 in FHG. M. II p. 314).

(3) La notizia di questa legge promulgata dallo stesso Pericle ci venne colla scoperta della ϑηναέων πολιτεία di Aristotele (26, 4) e servì a spiegare come egli vivendo coniugalmente con Aspasia non potesse con- trarre legittime nozze con lei. Si è abbandonata così la vecchia opinione, sostenuta sino dal Duncker GescA. d. Alt. IX p. 25, secondo cui Aspasia sarebbe stata niente altro che un’etera comune,

(4) Eupolis in Δῆμοι (fr. 98) ἀρᾷ Plutarch. Per. 24, ove sono ricordati altri frizzi e contumelie lanciate dai comici contro Aspasia.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 17

Le

trava il convincimento che una donna di Mileto non era straniera solo per il fatto di non essere nata in Atene. Ad Aspasia non era lecito diventare sposa legittima di Pericle. Ma tuttavia essa poteva ricordare ai suoi denigratori che gli Ateniesi fondatori di Mileto avevano sposato le donne di Caria (1). E la leggenda che i Milesi, più nobili fra tutti gli oni, discendessero dagli Ateniesi mossi dal Pritaneo trovava la sua conferma ufficiale in Erodoto (I 146), il quale veniva a trovarsi in Atene nel tempo in cui Pericle stringeva le sue relazioni colla donna di Mileto (2). Non il re di Pilo avrebbe fondata quella città, ma il suo discendente Neleo, figlio di Codro (IX 97), cui sarebbe stato padre il nelide Melanto (I 147, V 65) che venuto dalla Messenia avrebbe iniziata la nuova dinastia di Atene.

È comprensibile come intanto famiglie conspicue di Atene, quale quella regia dei Medontidi (3), venissero riallacciate alla casa di Codro e diventassero Nelidi. Ma lo stesso Pe- ricle fra i suoi antenati della linea materna, gli Alemeonidi, poteva vantarsi di contare principi della schiatta di Pilo, una volta ammesso che Alcmeone capostipite della famiglia era un pronepote di Nestore, dagli Eraclidi cacciato dalla Mes- senia ed insieme con Melanto giunto in Atene (4).

(1) Herod. I 146. La notizia che gli Ioni giungendo da Atene in Caria uccidessero tutti gli uomini e prendessero con le donne, onde queste avrebbero stabilito ed insegnato alle figlie di non sedere mai a mensa coi mariti e di non chiamarli per nome, serviva a spiegare il costume delle donne milesie di vivere appartate dagli uomini. Cfr. Ed. Meyer Gesch. d. Alt. II p. 217. Il costume naturalmente era più antico della leggenda erodotea. Cfr. Toepffer Att. Genealogie p. 193.

(2) Oggi si calcola che le relazioni di Pericle con Aspasia risalgano al periodo di tempo compreso fra gli a. 451/0 e il 441/0, e cioè dopo la legge sulla cittadinanza, che naturalmente fu anteriore, e prima della nascita del giovane Pericle avvenuta fra il 445 e il 440, e quindi anche avanti la guerra di Samo, di cui, come si è detto, si dava la responsa- bilità ad Aspasia. Cfr. Judeich in Pauly-Wissowa R. E. II 1716 sg.

(3) Medone, capostipite della famiglia regnante, sarebbe stato figlio di Codro e fratello di Neleo, il fondatore di Mileto: Paus. VII 2, 1.

(4) Paus. II 18, 8 sq. La tradizione però non trova posto in Erodoto, per il quale gli Alemeonidi sono ancora di origine ateniese (V 65, VI 125). Cfr. Toepffer Att. Gen. p. 225 sgg. i

La leggenda di Neleo ateniese trovava la sua affermazione nell’età periclea perchè, accreditata dall’autorità di Erodoto, rispondeva alle condizioni politiche di Atene, che s'era assi- curato il dominio nell’Egeo, nel Bosforo e rel Ponto, e degli Ioni, i quali trasformati già da alleati in sudditi vedevano in lei la loro naturale metropoli. Del resto, essa aveva in un contenuto reale in quanto i primi e certo una parte dei coloni greci che popolarono le città della Ionia erano mossi dalle coste dell’Attica. E Ades-Neleo, dal punto di vista del culto, aveva sede in Attica; e il nome di Codro appar- teneva al patrimonio mitico-religioso degli Ateniesi.

Non è vero, infatti, come un tempo si reputò (1), che Codro fosse originario dalla Ionia e che in Attica venisse sempli- cemente importato come capostipite delle stirpi principesche ioniche. ν᾽ piuttosto ragione di credere che in Ionia egli non avesse avuto alcuna reale esistenza. vi saranno stati veri principi Codridi, ma saranno stati fatti tali dalla sor- gente storiografia greca (2). E l’opera di questa a tal ri- guardo è relativamente tarda, e cioè coincide col tempo in cui Codro era associato a Neleo in Atene e si faceva discen- dere dalla casa Pilia di Messenia. Chè la più antica testimo- nianza di Codridi in Focea risale a Carone di Lampsaco (fr. 6), il quale, come è noto, non si sa se fosse più vecchio o più giovane di Erodoto (che certamente non ne fece uso) e ad

ogni modo scrisse la sua cronaca dopo il 465/4, quando da

Artaserse I Temistocle era fatto governatore di Lampsaco (3). fs dl

(1) Wilamowitz Aus Kydathen p. 99; cfr. in Hermes XXXIII (a. 1898) p. 128; Aristot. und Ath. II p. 129 sg., 138 sg. Cfr. Toepffer Att. Gen. p. 239 sg.; in Hermes XXXI (a. 1896) p. 106 sgg.

(2) Ed. Meyer Gesch. d. Alt. II p. 241; Forschungen II p. 593 sgg.

(3) Plutarch. Tem. 27, 29, il quale cita appunto Carone, accanto a Tucidide, per sostenere che Temistocle riparò presso Artaserse, e non presso Serse, già morto (a. 465/4), come erroneamente affermavano Eforo ed altri scrittori.

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Ci troviamo dinanzi ad una pura tradizione letteraria, la quale trovò facile accoglienza presso gli Ioni appunto perchè allora Codro era introdotto dagli Ateniesi nella famiglia di Neleo. Nessuna meraviglia, del resto, che anche in Ionia preceden- temente si avesse conoscenza di Codro, ch’era antico eroe dell’Attica, di cui si mostrava sotto l’Acropoli la tomba (1) e presso l’Ilisso il luogo dove dai Peloponnesi sarebbe stato ucciso (2). di data molto recente era la statua di lui che si vedeva in Delfo, accanto a quella di Teseo ed altri eroi attici, se unitamente alle altre era stata dedicata al nume colle decime della battaglia di Maratona, come pensava Pausania (X 10, 1). Che se poi la famiglia regnante di Atene si disse dei Medontidi, e non dei Codridi, come tante volte è stato osservato, ciò vale soltanto a spiegare che Codro acquistò in Atene, non diversamente che in Ionia, una particolare im- portanza solo dopo che, ascritto alla genealogia dei Nelidi, era stato fatto padre di Neleo fondatore di Mileto. E il suo posto accanto ad Ades-Neleo nel culto ateniese non risale certo ad epoca remota.

Se il decreto ateniese del 418/7 intorno al Neleion ai piedi dell’Acropoli si riferisse ad un lavoro di ricostruzione o ad un'opera tutta nuova, se cioè il culto di Neleo in Atene fosse preesistito a quel tempo ovvero no, non ci è detto. Ma delle due interpretazioni riesce tuttavia più verisimile la prima, ove si consideri che l’associazione del nome di Basile o Per- sefone a Neleo riconduce alla forma originaria del culto. E questo deve immaginarsi sorto nell’Attica in epoca remota e indipendentemente dalla leggenda della colonizzazione di Mi- leto e dalle relazioni politiche di Atene con le città della Ionia; e non è quindi lecito porne le origini sul principio del sec. V (3), ovvero nell’età dei Pisistratidi (4). Altrettanto in-

(1) CIA III 943 = Kaibel Epigr. 1083. Cfr. Wilamowitz Aus Kydathen p. 99; Toepffer Att. Gen. p. 233.

(2) Paus. I 19, 5; Lyc. c. Leocr. 86.

(3) Così Toepffer Att. Gen. p. 240 n. 2; Hermes XXXI (a. 1896) p. 106.

(4) È la vecchia opinione di E. Curtius in Sitzungsb. d. Berl. Akad. 1885 p. 437 sg., il quale, come si disse, sosteneva la tesi che gli Ioni

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vece non può dirsi del culto di Codro collegato con quello di Neleo. È stato giustamente osservato che secondo il de- creto del 418/7 Codro aveva un posto secondario nel terreno consacrato al Neleion, e mentre a lui era destinato un ἱερόν il τέμενος era in onore di Neleo e Basile (1). Evidente- mente il culto di Codro fu ricollegato a quello di Neleo solo quando egli fu fatto entrare nella famiglia dei Nelidi e di- ventò padre del secondo Neleo fondatore di Mileto. E con ciò viene, come si è visto, al sec. V e più particolarmente all’età di Erodoto e di Pericle.

all'innesto della casa di Pilo, per via di Melanto, nella famiglia regnante di Atene sarà stato del tutto estraneo, per quanto oggi è lecito pensare, l’indirizzo favorevole al riguardo della Messenia preso dalla politica ateniese all’indomani del- l’ostracismo di Cimone (a. 462/1) e della prevalenza di Pe- ricle. Dopo la caduta di Itome gli Ateniesi trasportarono i Messeni a Naupatto, e sappiamo quale importanza essi in se- guito attribuissero a questa stazione navale nel golfo di Co- rinto. Ed è altresì noto quanta parte avesse durante la guerra del Peloponneso l'occupazione di Pilo compiuta dagli Ateniesi. Nulla di strano che simile comunanza di interessi contribuisse a rafforzare sempre più la credenza nell’affinità di stirpe fra i pretesi principi di Pilo e i non meno leggendari re di Atene.

Nell'anno 418/7, in cui in Atene si votava il decreto in- torno al Neleion, era avvenuta la battaglia di Mantinea e quindi il trattato di pace fra Argo e Sparta, un capitolo del quale stabiliva che l’una e l’altra non avrebbero ricevuto ambascerie, araldi da parte degli Ateniesi, se prima essi non avessero sgombrato il Peloponneso abbandonando le piazze forti (2). La minaccia si riferiva direttamente all'occupazione

dalle coste d’Asia fossero passati in Attica. Cfr. anche Gruppe Grieck. Myth. p. 32.

(1) Wilamowitz Arist. und Ath. II p. 130; Ed. Meyer Forschungen II p. 534.

(2) Thuc. V 80, 1.

Ll'aggnno

ateniese di Pilo (1). Gli Ateniesi non furono paghi di man- tenere Pilo, ma continuarono a valersi strategicamente di quella piazza forte per compiere spedizioni devastatrici nel Peloponneso e fare bottino a danno dei Lacedemoni, come ci viene attestato nella storia degli avvenimenti di due anni dopo (2). Ora noi non possiamo affermare che la restaura- zione del Neleion in Atene stava in diretto rapporto colla occupazione di Naupatto e di Pilo. Ma ciò non si può esclu- dere del tutto, ove si pensi come durante la guerra del Pelo- ponneso gli Ateniesi fossero spinti a dimostrare le loro sim- patie ai Messeni non meno che agli Ioni. agli uni agli altri, in vero, tornò praticamente giovevole la diffusione della leggenda di Neleo.

Atene trasse nella catastrofe di Sicilia le migliori truppe delle città alleate. E allora a Mileto per difendersi non re- starono che 800 opliti (3). a rialzarne le sorti era oramai sufficiente la tradizione delle sue nobili origini ateniesi ri- petuta dagli scrittori greci delle età successive.

Padova, Giugno 1914.

EMANUELE CIACERI.

(1) Cfr. Busolt Griech. Gesch. III 2 p. 1254, il quale, non si vede perchè, riferisce la minaccia anche alla stazione ateniese di Naupatto che non era nel Peloponneso, mentre la testimonianza di Tucidide (2. c.) è esplicita.

(2) Thuc. V 115,2; VI 105, 2. Cfr. Busolt Griech. Gesch. III 2 p. 1269.

(3) Thuc. VIII 25, 2. Cfr. E. Cavaignac Mist. de l’antiquité II p. 157.

LUCRETIANA

II.

(III, 237-240. II, 719)

Il cod. Oblongus (0.) di Lucrezio a III, 237-240 (1) la seguente lezione

iamtriplex animiest igitur naturareperta nectamen haec satsunt adsensumeuncta creandum nihilhorum quoniam reci pit mens possecreare sensiferos motus quaedam quemente uolutat

e con questa lezione concorda sostanzialmente il cod. Qua- dratus (Q.) (2), salvo qualche divario di scrittura, ma la lezione originale recepit, che in Ὁ. è stata corretta (3), e scrive queda que mente, ove, dato il queda = quaedam, si può riguardare que = quae. Possiamo quindi considerare come in tutto consenzienti i due codd. in un testo che ha dato tanto da fare ai filologi, specialmente per l’ultimo verso da tutti ritenuto guasto. Ma quanta divergenza di opinioni nei tenta- tivi fatti per ristabilire il testo originale!

(1) Cfr. Codex Vossianus Oblongus phototypice editus. Praefatus est Aemilius Chatelain. Lugd. Batav., 1908, f. 65”.

(2) Cfr. Codex Vossianus Quadratus phototypice editus. Praefatus est Aemilius Chatelain. Lug. Batav., 1913, f. 22".

(3) Tra la ? e la p si nota una raschiatura, di cui rimane ancora una parte quasi impercettibile. È la raschiatura della parte superiore arro- tondata della e; e ciò che ancora si scorge è appunto la estremità della lineetta orizzontale sottesa alla parte arcuata.

SII με ς ΘΟ κὶς tea L 2) net CT τ 5} ἌΡ ΤΟΝ ΘΙ͂Ν, ΤΡ τ πὸ» Ὁ. FRE

264

Non farò la storia di tutti i tentativi, de’ quali, del resto, parecchi saranno ricordati nel corso della mia breve tratta- zione; ma prenderò le mosse da due delle più recenti con- getture a me note, tanto più che non sono state esaminate da un insigne cultore di questi studi, Guglielmo Augusto Merrill, il quale, avendo nella sua pregevolissima edizione (1) adottata la lezione congetturale del Giussani

sensiferos motus, nedum quae mente volutat,

ha quasi giudicata risolta la questione, e non solo non se n’è più occupato ne’ suoi Studies în the text of Lucretius (2) e in Proposed emendations of Lucretius (3), ma in un’altra pur re- centissima monografia (4) ha con piena sicurezza attribuito al mss. quaedam for nedum ,.

Se al Merrill fossero state note le congetture di due gio- vani e valenti filologi italiani, Federico Carlo Wick (5) e Ettore Bignone (6), c'è da presumere che forse non avrebbe accettato l’una l’altra, ma ne avrebbe tratta occasione, perchè sostenute con buona dottrina e acume d’ingegno, per tornar sopra la congettura del Giussani, per riesaminarla a fondo, tanto più che nella nota al v. 240 della propria edi- zione, dopo aver citato le opinioni di varii filologi, Postgate, Lotze, Polle, Bailey, Heinze, Lachmann, Bernays, Munro, Purmann, Grasberger, Goebel, Albert, Frerichs, aveva cre- duto bene di aggiungere: The passage is still unhealed ,,. Certo io sono d’avviso che non avrebbe approvato la pro- posta del Wick, il quale, prese in esame parecchie conget-

(1) New York-Cincinnati-Chicago, 1907.

(2) In University of California Publications in Classical Philology, Vol. 2, No. 6. Berkeley, 1911.

(3) Nelle Publications cit., Vol. 2, No. 12, 1914.

(4) Corruption in the manuscripts of Lucretius nelle Publications cit., Vol. 2, No. 11, 1914, p. 248, col. 1. :

(5) Spigolature Virgiliane e Lucreziane (Estr. dagli “Atti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, di Napoli, Vol. XXIII), 1904.

(6) Questioni Lucreziane (Estratto dalla Rivista Classici e neo-latini, n. 1a. 1101907)

265

ture, fra cui quelle del Lotze e del Polle, veniva alla conclu- sione di leggere (1)

rosa . proquam quae elementa volutat

col significato seguente: la mente non concepisce che alcuna di queste sostanze possa produrre la sensazione, e ciò per la natura degli elementi onde ciascuna si compone , (2). Penso

(1) Pag. 14.

(2) Ammessa, per un istante, in questo passo di Lucrezio la lezione proquam, che risponde a prout, l’uso Lucreziano e la logica grammati- cale esigerebbero proquam elementa volutat senza un secondo vocabolo relativo quae. Cfr. Lucr., II, 1137 seg.:

nec satis est, proquam largos exaestuat aestus, unde queat tantum suboriri ac subpeditare,

che il Munro traduce benissimo: and is not enough, in proportion to the copious exhalations which the thing throws off, to enable a like amount to rise up and be supplied ,. Di fatto proquam largos eraestuat aestus vale pro largis aestibus quos exraestuat; onde anche il Bailey traduce (Lucretius on the Nature of Things translated. Oxford, 1910, p. 104): nor is there store enough, whence matter may arise and be supplied to equal the vast ebb which it gives out. Si vede che il proquam esprime una idea di proporzione che si esplica, da una parte, mediante l’epiteto Zargos, e dall'altra mediante il tantum a cui il proquam si appoggia, precisamente come si appoggia ad ita e si esplica con l’impiego dell’agg. levissima in III, 199 seg.

igitur parvissima corpora proquam et levissima sunt, ita mobilitate fruuntur;

come si appoggia all’agg. tutam in VI, 11 et, proquam posset, vitam consistere f#utam.

Non il quae adunque ci vorrebbe; e poi nella ricostruzione del Wick non è indieata, mediante un aggettivo, quella idea “di elementi così piecoli e così lisci come la quarta essenza innominata ,, come precisa- mente egli vorrebbe (p. 13); onde l’espressione dovrebbe integrarsi, p. e., così: proquam tenvia elementa volutat. E poi sarebbe anche da chie- dere se sia Lucreziana la frase elementa volutare in luogo delle altre numerose espressioni che s'incontrano nel poema per designare il con- cetto di composizione di elementi , !

266

del pari che non avrebbe fatto buon viso, fosse pur solo per ragioni paleografiche, alla congettura del Bignone

sensiferos motus, nedum quaeque ipsa volutat (1),

che è da respingere insieme con quella del Giussani, anche per il nedum infelicemente cacciato in questo luogo contro l’uso costante dell’età Ciceroniana, vale a dire Lucreziana, e della Preciceroniana.

Precisamente come faceva Cicerone (2), Lucrezio, che ado- pera il nedum una volta sola, lo unisce con un verbo di modo congiuntivo (I, 653 seg.):

amplius hoc fieri nil est quod posse rearis talibus in causis, nedwm variantia rerum tanta queat densis rarisque ex ignibus esse.

Ma non soltanto respingo la lezione del Giussani, e 1] ritocco del Bignone, per l’impossibile nedum inventato da Fr. Polle (3) in sostituzione dello stranissimo quidum di Er- manno Lotze (4), ma ancora perchè la lezione dell'uno e del- l’altro introduce un concetto che è affatto estraneo all’argo-

(1) Paolo

(2) Cfr. Hand, Tursellinus, IV, p. 153: Contrahitur oratio omisso verbo, ut nedum adverbii officium praestet. Apud Ciceronem nullum exstat exemplum., Seguono esempi di Livio e di Tacito. Cfr. anche la Satzlehre di Kihner-Stegmann in Ausfiihrli. Gramm. der lat. Sprache, ΠΗ, 8 159, 16; Draeger, Hist. Synt., II°, p. 693 seg.; inoltre la mono- grafia speciale di J. W. H. Walden, Nedum, in Harvard Studies in Class. Philol., II, 1891, pp. 103-127. I numerosi esempi dell’uso Ciceroniano mostrano il nedum sempre accompagnato da un verbo al congiuntivo. E tale è la sua costruzione regolare nel senso di multo minus, tanto più dopo un pensiero negativo. Con un congiuntivo lo si incontra in Terenzio ed in Orazio che lo impiegarono, ciascuno, una volta sola (Ter., Heaut., III, 1,45 = 454; Oraz., A. P., 69), come Lucrezio. Manca in Cesare, in Catullo e in Tibullo : si ha due volte in Properzio (I, 4,9; 9, 32).

(3) Zu Lucretius in Philologus, v. XXV (a. 1867), p. 277.

(4) Il Lotze in Quaestiones Lucretianae (Philol., v. VII (a. 1852), p. 721), per combattere il quidam quod manticulantur del Bernays proponeva quidum quae mente volutas. i

267

mento qui trattato dal poeta. Lucrezio parla, e parla esclu- sivamente, di sensazioni: in quella vece il Giussani con la sua congettura interpretando l’intero passo così Di nessuna delle quali sostanze la mente può capacitarsi che possano creare i movimenti sensiferi, e men che meno poi il pensiero ,, dimenticò che, non di moti cogitativi, ma sol di moti sensiferi si occupa Lucrezio. E non vale che il Bignone, spiegando analogamente quaeque ipsa [mens| volutat per “le funzioni affettive ed intellettive ,, si richiami a III, 138 segg., perchè in quest’ultimo passo il poeta non insti- tuisce ancora l’analisi dell’animus, ma solamente lo definisce, per distinguerlo dall'anima con cui, per altro, forma unam naturam, siccome dimostra nei versi che vengon dopo. L’a- nalisi comincia col v. 231, per conchiudere che triplex animi est igitur natura reperta (cioè tenvis aura, vapor e aer), ma aggiungendo, in pari tempo, che bisogna ammetterne una quarta (1) che non ha nome, quale illazione dei vv. Nec tamen haec sat ... quae mente volutat,

quarta quoque his igitur quaedam natura necessest adtribuatur: east omnino nominis expers,

e indicandone le proprietà con questi altri versi (243-245)

qua neque mobilius quicquam neque tenvius exstat, nec magis et parvis et levibus ex elementis ; sensiferos motus quae didit prima per artus

(1) Cfr. la nota del Munro* al v. 232, dove ricorda che Stob. ecl. I 41 1 and Plut. de plac. phil. IV 3 say that Epic. made the soul κρᾶμα ἐκ τεττάρων, ἔκ ποιοῦ πυρώδους, ἔπ ποιοῦ ἀερώδους, én ποιοῦ πνευμα- τικοῦ, ἐκ τετάρτου τινὸς ἀκατονομάστου ἦν αὐτῷ αἰσϑητικόν.,. 1] passo è di Aetius IV 8, 11, p.888D (cfr. Usener, Epicurea, p. 218) che sog- giunge τὸ δ᾽ ἀκατονόμαστον τὴν ἐν ἡμῖν ἐμποιεῖν αἴσϑησιν" ἐν oddevì γὰρ τῶν ὀνομαζομένων στοιχείων elvar αἴσϑησιν. È bensì vero che Plutarco (adv. Coloten 20 p. 1118 = Usener, Epic., p. cit.) dice anche τὸ γὰρ κρένει καὶ μνηνονεύει καὶ φιλεῖ καὶ μισεῖ καὶ ὅλως τὸ φρό- νίμον καὶ λογιστικὸν ἐκ τινός φησιν ἀκατονομάστου ποιότητος ἐπιγίνε-

ei τὰς τυροῦ dire λει a χα το τἀ ΜΝ

268

ne’ quali versi si ritorna a menzionare i sensiferos motus, ma non già il pensiero , o le funzioni intellettive , vedute dal Giussani e dal Bignone. Se ne vuole ancora una prova ? Lucrezio desiderando (v. 258 seg.)

ea quo pacto inter sese mixta quibusque compta modis vigeant rationem reddere

torna a dire (v. 269 segg.):

sic calor atque aer et venti caeca potestas mixta creant unam animam, et mobilis illa vis, initum motus ab se quae dividit ollis, sensifer unde oritur primum per viscera motus.

Dunque sempre movimento sensifero ,, non mai mo- vimento intellettivo , (1), comprendendo, s'intende, nei

coda, ma ognun vede che qui Lucrezio si ferma esclusivamente sul- 1’ αἰσϑητικόν e, in parte, sul φρόνιμον, e per nulla si occupa del 4o- yiotindv, come del resto è provato dalla semplice lettura de’ suoi versi.

(1) S'intende pertanto che io disapprovo pure la congettura del Munro et homo quae mente volutat (and the thoughts which a man turns over in mind), seguìto, tra altri, dal Lee nell’ed. dei primi tre libri (Londra, 1893), dal Postgate (in Corpus poetarum latinorum, Tom. I, Londra, 1894), e in sostanza anche dal Bailey, il quale traduce fra ( ) “or the thoughts of the mind , (cfr. la trad. cit., p. 114), ma soggiunge in nota: The MSS. are corrupt, but this must have been the sense ,. Di fatto nella sua ed. Oxfordiana del 1898 il Bailey si era limitato a riportare fra + la lezione dei codd., citando in nota le sole emenda- zioni del Vossio, del Lachmann e del Munro. Tanto più poi ritengo condannabile quell’altra congettura, la quale, collegando sensiferos motus con qui mente volutant, ci conduce alla seguente interpretazione, che è del Lambino (cito dall’ed. di Parigi del 1570, p. 226), qui motus res aliquas cogitare, et volutare queant , ; oppure a quella del Wakefield (il quale scriveva quei per qui: cfr. la sua ed. di Glasgow del 1813), seguìto dal Forbiger (Lipsia, 1828): Sed admitti nequit haec tria posse gignere motus sensiferos; qui consistunt in quibusdam volutandis per mentem., Sulla stravagante ipotesi del Bockemiiller, che rimaneggiava il testo leggendo (cfr. la sua ed. del 1873, Stade, gedruckt als Hand- schrift) “nil horum quoniam re cepit mentis’ creare | sensiferos motus quaerendaque mente volutat ,, non è il caso di fermarsi.

vii Nes A detta

UA - D ΨΥ 3, imm IL sig ta CARS:

269

movimenti sensiferi le passioni (1), come il poeta spiega più sotto, considerandole negli animali come negli uomini, riguardo ai quali soggiunge (v. 310 segg.):

nec radicitus evelli mala posse putandumst, quin proclivius hic iras decurrat ad acris, ille metu citius paulo temptetur, at ille tertius accipiat quaedam clementius aequo.

Escluso pertanto il nedum adottato, difeso e ridifeso (2) dal Giussani, convien ch'io dica che cosa pensi del passo in questione. E dichiaro subito che non mi posso indurre a cre- dere che sia da toccarsi il mente volutat. Questa chiusa di esametro è sicuramente incorrotta. Il sospetto dico solo il sospetto può cadere sul quaedam que o que dei codd. Ora io devo confessare che, leggendo e rileggendo questo luogo di Lucrezio, ho sempre avuto l'impressione che egli abbia voluto esporre il seguente concetto: la mente nostra non può ammettere, quando esamini bene la que- stione, che basti a produrre i movimenti del senso la triplex natura dell’animus di cui si è discorso ,. Da questa persuasione mi si è ingenerato il sospetto che possa esserci bisogno di emendare il quaedam quae. Ed ho tentato alcuni emendamenti, fra cui rem si qui mente volutat 0, meglio, quom rem quis mente volutat, seguendo l’uso lucreziano della parola res nel senso di oggetto della discussione, del discorso, o nel senso di una teoria, di una verità, e sim., come si può provare, p. es., con I, 833:

sed tamen ipsam rem facilest exponere verbis,

(1) Osserva giustamente il Heinze, nella critica che fa della conget- tura del Munro (vedi la sua ed. del lib. III, Leipzig, 1897, p. 81), che la Ergànzung des ganz allgemein gesagten sensiferos motus... durch das spezielle Gedanken’, è “sehr ungliicklich: man wiirde mindestens die πάϑη genannt zu sehen erwarten.,

(2) Cfr. Note Lucreziane (in questa Rivista, vol. XXVIII, a. 1900, pp. 28 seg.). Anche il Brieger, nel Jahresbericht di Bursian-Seyffert- Wendland, vol. 89, a. 1896, p. 142, s'era mostrato proclive ad accettarlo,

22270128

dove rem vale la teoria di Anassagora della Romoeomeria in e indipendentemente dal nome che la patri sermonis egestas. non concede nostra dicere lingua. Altrove il poeta (II, 478) scrive : pergam conectere rem quae ex hoc apta fidem ducat;

81, 893 {0 ΤΠ δῦ: ΠΕ ΟΞ 1 0: 9): quorum nil fieri quoniam manifesta docet res;

e III, 206 e 208:

quae tibi cognita res in multis, o bone, rebus utilis invenietur, et opportuna cluebit.

haec quoque res etiam naturam dedicat eius, quam tenui constet textura, etc.

Quanto poi al quom, mi basti riferirmi a I, 834

principio, rerum gu0m dicit homoeomerian ASTA putat etc.;

credo aver bisogno di difendere quis = aliquis (1).

Ciò posto, si può ben pensare che, se si ammette la spie- gazione del Chatelain sulla derivazione dell’ OMlongus, del Quadratus e del tertius unde flurerunt libri Italici (2), il co-

dicendo di tale lezione: Beachtenswert. Nedum steht auch I 647 (653),, ma senza avvertire il diverso uso che Lucrezio fa di siffatta particella. ἊΝ

(1) Cfr. Neue-Wagener, Formenlehre ecc., 15, p. 438. Per si... qui, cfr. pag. cit. seg.

(2) Nella Praef. al Codex Voss. Obl., p. x1, e al Cod. Voss. Quadr., p. x11. In realtà lo Chatelain ha accettato, estendendola a Q., la ipotesi di Luigi Duvau (in Revue de Phil., v. XII, 1888, pp. 80-37), che riguar- dava solo O., considerando invece Q. derivato da un ms. fratello di O. Il Merrill (vedi ora The Archetype of Lucretius in University of Calif. Publ., Vol. 2, No. 10, 1913, p. 234), nella Introduction alla sua ed., p. 53, pensava ancora che Ὁ. derivasse probably from the archetype , e por-

271

pista del cod. trascritto nel sec. VII od VIII dall’archetipo abbia, nel copiare QOVOMREMQVIS, scambiato linea, copiando, invece, il quaedam del v. seg. (1) e corretto poi il quis in quae, dato che la correzione non sia stata fatta da mano poste- riore su quell’apografo. E la cosa mi pare tanto più vero- simile, in quanto QVOMREM ha lo stesso numero di lettere di QVAEDAM, e poteva agevolmente scambiarsi con questa parola che veniva a trovarsi quasi di sotto nel verso succes- sivo. E niente impedisce di pensare che già nell’archetipo fosse avvenuta, per distrazione del copista, la detta sostitu- zione, e che o la stessa mano o altra vi abbia corretto il QVIS in QVAE, nel falso supposto che dovesse accordarsi con QVAEDAM; vale a dire insomma che già si trovasse nell’archetipo QVAEDAMQVAEMENTEVOLVTAT in luogo di QVOMREMQVISMENTEVOLVTAT.

Del resto è curioso che anche altrove in Lucrezio il QVAEDAM, secondo che parve a non pochi studiosi ed edi- tori, avrebbe preso il posto di un altro gruppo di lettere. Si tratta del verso II, 719 che in O. (in Q. si ha quida) suona

legibus hs quaedam ratio disterminat omnis

e che fu variamente ritoccato, sostituendo ad his quaedam hisce, eadem oppure hisce, ea res, ecc. Se non che, a mio av- viso, si ha ragione non solo di mantenere il quaedam, come fece il Lachmann, ma di conservare ben anche l’ommis che egli cambiò in omnia seguendo il Marullo. E conservo il quaedam ratio, perchè dal testo di Lucrezio, in cui si dimostra che non è possibile ogni specie di combinazione (nec tamen omnimodis conecti posse putandum est|omnia v.700 seg.), dap- poichè vediamo che tutti gli esseri che sono generati da semi determinati e da madre determinata hanno il potere di con-

tasse correzioni di due scribi, mentre Q. sarebbe stato una copia di una copia dell’archetipo, corretta da diverse mani.

(1) È noto che anche al Munro parve certo che il quaedam del v. 240 has come here from the quaedam of 241...

= È

ai ear ti A ii ai i TA τ RES SES AI SIA EI NNT ST

Via lei ρίζες

272

servare nel loro crescere i caratteri della specie (omnia quando | seminibus certis certa genetrice creata | conservare genus crescentia posse videmus, vv. 707-709), risulta nel modo più manifesto un certo divario nella determinazione della legge naturale che rende impossibili le combinazioni all'infinito. Questa legge è evidente (cfr. manifestum v. 707; certa ... ratione v. 710) per gli animali; ma non così evidente si presenta, quando si esca dal regno animale; tanto è vero che il poeta soggiunge (v. 718 seg.):

sed ne forte putes animalia sola teneri legibus his, quaedam ratio etc.,

cioè: e perchè tu non abbia a credere che soltanto gli animali siano soggetti a queste leggi, bada che c'è per tutti gli esseri, per tutte le genitae res, una certa legge discriminatrice, per cui (v. 721 seg.)

quamque necessest dissimili constare figura principiorum ,.

Il quaedam ratio insomma si oppone alla certa ratio, perchè non appare così evidente, visibile, tangibile, come per gli animali, i quali, nelle molteplici manifestazioni della loro vita, ci dànno prove più sicure della impossibilità d’ogni specie di combinazione; cosa che si riscontra bensì, ma non con uguale evidenza, negli altri esseri creati, a cui si allude pre- cisamente con l’omnis che io non voglio toccare. Di concor- danze ad sensum non v'è difetto in Lucrezio: mi basti ricor- dare, riferendomi, per il resto, alle osservazioni del Brieger (1), non solo il noto passo (I. 188-190)

omnia quando paulatim crescunt, ut par est, semine certo crescentesque genus servant (2),

(1) Cfr. i Prolegomena alla sua ed. stereot. del 1899, p. x1x sgg., e l’Appendix per i varii passi in questione. (2) Giustamente Carlo Pascal ha difeso la lezione dei codd. (cfr. la

aliena pc EI ti il

pera ATII

è

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"all di

STE de

i ge a

‘ove è chiaro che crescentes concorda con un omnes res = omnia; ΤῊΝ come pure (VI, 214 seg.) È;

fulgit item, cum rarescunt quoque nudila caeli. nam cum ventus eas leviter diducit euntis etc.,

ove eas ... euntis concorda con un nubdes = nubila ; ma anche quest'altro (VI, 757-759)

quadripedes quoque quo simul ac vestigia primum intulerint, graviter vis cogat concidere ipsa, manibus ut si sint divis mactata repente,

ove mactata concorda con un quadrupedantia = quadripedes, ricordando (II, 994-996)

feta [terra] parit nitidas fruges..... et genus humanum, parit omnia saecla ferarum, pabula cum praebet, quibus omnes corpora pascunt,

cioò omnes homines et ferae.

Sono esempi, questi, i quali possono confortare i conser- vatori della tradizione manoscritta di II, 719, a proposito della quale dirò ancora, in relazione con omnis = omnes res, non tanto che omnia would be referred to animalia, 718 ,, come osserva nella sua nota il Merrill, ma bensì che il poeta pensava già al geritae res del v. 721 attaccando subito al disterminat omnis la ragione naturale delle dissomiglianze - delle cose create con le parole

3 nam veluti tota natura dissimiles sunt inter se genitae res quaeque etc.

sua ed. del lib. I, Milano, 1904, nella nota a questi versi), contro il Nencini che aveva proposto crescunt atque in luogo di crescentesque (Emendationum Lucretianarum spicilegium in Studi italiani di fil. class., vol. III, 1895, p. 214 seg. = Spigolature critiche latine, Pisa, 1903, p. 68). Più diffusamente ne aveva scritto il Pascal in questa Rivista, vol. XXX, a. 1902, p. 555 seg.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 18

e ti BT a i et

274

Parmi dunque, per conchiudere su questa questione di II, 719, che nulla si deve toccare e che, oltre all’omnis, anche il quaedam deve essere mantenuto.

E torno al quaedam di II, 240. Ci torno, perchè sul so- spetto, che sia il verso stato rimaneggiato nel ms. da cui è derivata la lezione di O. e di Q., io ho fondata la conget- tura per cui il verso sarebbe da leggersi

sensiferos motus, quom rem quis mente volutat;

ma confesso candidamente che ho ragioni per rivendicare a Lucrezio anche il quaedam dei mss. E ciò dico, perchè è mio abito mentale quello di considerare gli antichi manoscritti con maggiore benevolenza, con maggior riguardo di quello che pratichi da molti filologi, i quali li trattano un po’ troppo da rei di molte colpe, immaginandone espressamente parecchie a loro carico, quasi per aver l’aria di averle sapute scoprire, e, magari anche, di saper richiamarli, con la loro opera emen- datrice, ad meliorem frugem, e non vedono che, in tal guisa, fanno press’a poco il mestiere della polizia di certi Stati, che, quando non iscopre delitti reali da imputarsi a questa o a quell’altra persona, li inventa, per mettere in mostra la propria oculatezza e ristabilire l’ordine che non era stato mai turbato! Col dir ciò è ben lungi da me l’idea di gettare il discredito sulla critica congetturale, della quale anzi ho dato più volte esempio io stesso pur a proposito di Lu- crezio (1); ma voglio e devo soltanto ribadire qui l’idea che i codici hanno da essere trattati con maggiori riguardi; che, non avendo gli scrittori saputo evitare certe imperfezioni, bisogna lasciarli coi loro pregi, ma anche coi loro difetti ; che è d’uopo insomma allontanarsi dalla tradizione mano-

(1) Cfr. i miei studi 11 suicidio di Lucrezio in Rivista di Storia antica e Scienze affini, Anno I, n. 4, 1896, pp. 45-76, e Lucretiana in questa Rivista, vol. XXX, 1902, pp. 315-339. E devo soggiungere che la critica congetturale ha tutt’altro che terminato il suo compito in riguardo a Lucrezio ! i

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275

scritta solo in caso di assoluta necessità. Ora io non vedo proprio l’assoluta necessità di toccare il quaedam, sol che si cambii il quae in qui, leggendo, come già si lesse per molto tempo, ma con ben altro senso, come vedremo, quaedam qui mente volutat.

Ho già più sopra significato la convinzione mia, che Lu- crezio abbia voluto, in questo passo, rilevare il concetto che la mente, quando esamini bene la questione, non può ammettere sufficiente a generare i movimenti sensiferi la triplex natura dell’animus. Questa insufficienza non si pa- lesa alla mente così ad un tratto, di primo acchito, quasi intuitivamente; è mestieri che essa prenda in attento esame la questione, o, in altri termini, consideri, mediti, studii (perciò l’espressione mente volutare) certi (quaedam) lati, certi aspetti di questo problema del senso, certe difficoltà che si affacciano a chi vuol risolverlo qualora si limiti alle sole tre nature prima menzionate. Ora, se non m'illudo, l’espres- sione quaedam mente volutare è sott’ogni aspetto inattaccabile. Ognun conosce quali varie significazioni può assumere in la- tino il neutro del plurale degli aggettivi e dei pronomi se- condo il contesto: così il quaedam in altro luogo di Lucrezio, per via del contesto, della sua dipendenza, assume una di- versa significazione. Quivi il poeta, dopo aver detto che un uomo è troppo pronto all'ira, un altro è troppo accessibile alla paura, soggiunge che un terzo piglia, sopporta quaedam troppo placidamente, troppo pazientemente (III, 313):

tertius accipiat quaedam clementius aequo.

E chi non vede che qui il quaedam significa una parte o un’altra di quelle cose (atti, gesti, parole, perdite, dolori fisici, dolori morali, e via dicendo) che non valgono a smuo- vere l’apatia di certi uomini? Quanto poi a mente volutare, è espressione insospettabile, nata per tempo nella lingua latina insieme con le frasi analoghe in pectore opp. secum in corde Dolutare (Plaut. Capt., IV, 2, 1= 781; M., II, 2, 41 =196; cfr. Trin., II, 1, 1=223 in corde vorsare); secum corde opp. suo cum corde volutare (Virg. Buc., IX, 37; Aen., IV, 533;

276

VI, 185); in animo opp. secum animo volutare (Liv., XXVIII, 5: 11 600):

Rimane a spiegare il qui, che ho detto doversi sostituire al quae dei codd. Mi richiamo subito alla sintassi di Kiihner- Stegmann, $ 193, 5, ove, dopo aver notato che molto spesso vien tralasciato il pronome dimostrativo sostantivale cui il relativo si riferisce (1), soggiunge che in parecchi esempi riesce difficile e dura l’integrazione del dimostrativo (2), ma è addirittura impossibile per alcuni luoghi del latino pre- classico in denen das Relativ ohne alle Beziehung auf ein Substantiv oder Demonstrativpronomen im Sinne von quis steht ,. E certamente nell'esempio Enniano (in Phoenix, 259 Ribbeck* = fr. 327 Diehl, Gell. N. A. VI (VII), 17, 10)

ea libertas est, gui pectus purum et firmum gestitat,

il qui va spiegato per un si quis. E lo stesso dicasi di questo altro esempio (Plaut., Asin., II, 2, 57 = 323):

Ém ista virtus ést, quando usust, gu? malum fert fortiter.

E si potrebbero aggiungere le formole giuridiche Qui secus faxit, deus ipse vindex erit , (Cie. De leg., II, 8, 19); quique non paruerit, capital esto , (ibid., II, 8, 21), non che esempî

x

di Varrone, per dimostrare che non è per nulla strano at- tribuire siffatto uso del qui a Lucrezio, ad un poeta che per

(1) Alla abbondante lista del Kiihner-Stegmann si potrebbe aggiungere il tipico esempio che leggesi nel così detto Sen. cons. de Bac.: de Ba- canalibus quei foideratei esent ita exdeicendum censuere, con l’ommis- sione di eeis (ecis quei... ita exdeicendum censuere), come di ei nella for- mola solenne pecuniae quei volet petitio esto. Cfr. CIL. 1', p. 44.

(2) P. e. non sarebbe troppo regolare, a causa dell’ind. potest, in utile est enim uti motu animi, qui uti ratione non potest (Cic., Tusc. IV, 25, 55), dove qui meglio si spiega per un si quis; come in Tuse. V, 7,20 Xerxes... praemium proposuit, qui invenisset novam voluptatem si può intendere δὲ qui oppure, senz'altro, δὲ quis. Cfr. Liv. VI, 4, 5: dies deinde praestituta capitalisque poena, qui non remigrasset Romam.

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tanti riguardi rispecchia la latinità preclassica (1). Per con seguenza quaedam qui mente volutat vale 81] quis quaedam mente volutat. Ed è evidente che, con tale spiegazione, viene meno quella urtante durezza che preoccupava il Giussani nella sua congettura, la quale dava il mens del v. 239 quale soggetto della prop. nedum quae mente volutat: con la mia proposta invece si ha solo il fatto, che Lucrezio rileva la necessità della riflessione della mente, perchè la mente av- verta l’inammissibilità della ipotesi in discorso; ed ha per- tanto ragione di insistere sulla parola mens. Onde io respingo risolutamente la congettura del Bernays, accolta dal Munro e dal Brieger, che ha sostituito res a mens, congettura che mi tornerebbe comoda per togliere ogni ombra di ripetizione, se io non credessi, in primo luogo, che bisogna lasciar stare quello che il poeta ha scritto, cioè mens, e che, in secondo luogo, se la parola è ripetuta, è ripetuta a disegno, come espressamente, pensatamente, è ripetuto in due versi suc- cessivi, anzi nella stessa ultima sede di due versi successivi, il verbo creare; e perciò il sopprimere la ripetizione sarebbe un alterare il concetto che il poeta ha voluto esprimere (2).

Torino, 21 febbraio 1915. ETTORE STAMPINI.

(1) Io penso, per altro, che si possa estendere l’uso anche alla latinità postcelassica. Quel famoso verso di Giovenale, I, 161

accusator erit qui verbum dixerit È‘ hic est’

per me non ha altro senso che questo, integrandolo col verso che pre- cede (‘cum veniet contra, digito compesce labellum’): quando ti si pa- rerà davanti, premiti il labbro col dito: è pronto a stendere un’accusa, se qualcuno si lascia sfuggire: ‘è lui!”’,.

(2) È notevole che, senza spiegare la sua lezione, L. Crouslé leggeva appunto quaedam qui mente volutat secondo il senso che io attribuisco a questa espressione, in quanto traduceva l’intero passo: Car, pour quiconque pèse dans son esprit certaines difficultés, il est inadmissible qu’aucun de ces éléments puisse produire les mouvements de la sensi- bilité , (cfr. Lucrèce. De la nature. Trad. nouvelle avec un texte revue οἷο. Paris, 1870). È vero, per altro, che il Crouslé traducendo ha soppresso e non ha fatto bene la ripetizione del vocabolo mens.

918

EUPHORIONEA

Fa certamente impressione che Suida nel suo articolo su Euforione non ricordi che tre opere del poeta calcidese e di queste una, l’Esiodo, sia da lui soltanto citata mentre da altri fonti conosciamo, insieme coi frammenti, molti altri titoli di poemetti euforionei. Nasce quindi spontaneo il dubbio che l'articolo di Suida sia incompleto, tanto più che non vi fa cenno se non delle opere poetiche (βιβλία δ᾽ αὐτοῦ ἐπικὰ ταῦτα, sebbene il cod. Leidense ometta le parole ἐπικὰ ταῦτα) e non si parla dei lavori eruditi, certamente in prosa, quali gli ἱστορικὰ ὑπομνήματα (1) (Ael. h. a. XVII, 28 = fr. 48; Ath. IV, 154 c; XV, 700 d), il lavoro sulla Δέξις ᾿Ιπποκράτους (Erotian. praef. p. 32, 8 KI.; p. 85, 6 KI. = fr. 51; Frotian. fr. 77, p. 23, 21 ΚΙ. = fr. 52) e forse il πεοὶ Alevadòv (Clem. Alex., Strom. I, 21 = fr. 53). Ma, pur ammettendo la incompiutezza dell’articolo suidiano, non è possibile credere che Suida (o la sua fonte) abbia omesso così grande numero di lemmi, tanto più che i titoli ricordati da Suida non sono quelli che più frequentemente ricorrono nelle fonti, che ci apportano anche frammenti.

Che l’articolo di Suida dia luogo a dubbi, e non pochi, è vero: ma io credo che le lacune non siano tali quali si suole credere. Esaminiamo infatti il testo suidiano: Βιβλία δ᾽ αὖ- τοῦ ἐπικὰ ταῦτα - “Hoiodog: Μοψοπία “Avanta: ἔχει γὰρ συμμιγεῖς ἱστορίας. Μοψοπία δ᾽ ὅτι Atti τὸ πρὶν Μο- woria ἐκαλεῖτο ἀπὸ τῆς ᾿Ωχεανοῦ ϑυγατρὸς Moworias, καὶ

(1) Le citazioni dei frammenti si riferiscono sempre all'edizione dello Scheidweiler, Euphorionis fragmenta, Bonnae, 1908.

1 Mai

279

λόγος τοῦ ποιήματος ἀποτείνεται εἰς τὴν ᾿Αττικήν. Χιλιά- des: ἔχει δ᾽ ὑπόϑεσιν εἰς τοὺς ἀποστερήσαντας αὐτὸν χρή- ματα, παρέϑετο, ὡς δίκην δοῖεν κἂν εἰς μακράν εἴτα συνάγει διὰ χιλίων ἐτῶν χρησμοὺς ἀποτελεσϑέντας. Eioì δὲ βιβλία ε΄. ᾿Επιγράφεται δ᾽ πέμπτη χιλιὰς [περί χρησμῶν, ὡς διὰ χιλίων ἐτῶν ἀποτελοῦνται.

Suida ricorda adunque soltanto: l’Esiodo, la Mopsopia o Atacta, le Chiliadi. Convien fermarci su ognuna per discutere i dubbi che si sono mossi, anche per l’espressione stessa usata da Suida.

L’Esiodo a noi è noto solo per la testimonianza di Suida: per questo ne dubita il Corssen (1), il quale, considerando che una grande parte dei frammenti euforionei sono riferiti da geografi e ci dànno notizie geografiche, pensa che Eufo- rione abbia dovuto raccogliere tutte le sue cognizioni geo- grafiche in un poemetto apposito il cui titolo si celerebbe precisamente in quella parola ᾿Πσίοδος, corruzione di 176 περίοδος. È da notare che Suida, in generale, apportando i nomi, i titoli dei poemi nelle liste che riferisce nei vari lemmi, non si preoccupa di dare notizie riguardo al contenuto dei poemi stessi; tutt'al più, qualche volta si limita a stabilire la natura dell’opera, a qual genere letterario appartenga. Per ciò nulla di strano nella nuda espressione suidiana ᾿Ησίοδος, che corrisponde al metodo consueto del lessico- grafo. Inoltre, se Stefano Bizantino, che con tanta cura ci il titolo di parecchi altri poemetti euforionei, dai quali appunto trae notizie geografiche, poemetti da lui soltanto ricordati, o che, noti per altre fonti, egli conferma con la sua autorità avesse conosciuto ed usato quale fonte tale opera euforionea, senza dubbio non avrebbe mancato di ri- cordarla. Nè, d’altra parte, si può supporre che a lui fosse rimasta ignota. Sarebbe strano che al geografo, che conosce e cita poemetti di valore e di importanza secondaria per l’opera sua, sfuggisse proprio l’opera peculiare, alla quale

(1) Die epischen Gedichte des Euphorion in Philologus, LXXII (1913), p. 457 sg.

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avrebbe dovuto attingere prima che ad ogni altra. Per spie” garci tutti gli accenni geografici di Euforione non fa bisogno di ricorrere alla supposizione di un’opera speciale; ai poeti ellenistici ogni minima occasione bastava perchè profondes- sero, a proposito o no, i tesori della loro preziosa erudizione. E le citazioni geografiche dai vari poemetti euforionei riferite da Stefano Bizantino ne dànno conferma. Tanto più per Eu- forione che per tale manìa dell’erudizione e del preziosismo portò la palma dell'oscurità, che il suo nome passò in proverbio per indicare il suo canone artistico nel suo più grave difetto.

Quanto al contenuto dell’Esiodo io credo che bene abbiano intuito il Bergk (1) e lo Scheidweiler (p. 31), richiamandosi alla leggenda della morte del poeta: tanto più che un poema di tal genere e di tale contenuto corrisponde perfettamente alle tendenze ed ai gusti dell’età ellenistica. Basti ricordare l Anterino di Eratostene.

Passiamo alle Chiliadi. Il testo suidiano è incerto. Io ho trascritto più sopra il testo dato dallo Scheidweiler, ma non credo di dover seguire in tutto tale lezione. Il Bekker nella sua edizione di Suida (Berol., 1854) sopprime arbitrariamente l’ultima parte: ἐπιγράφεται- ἀποτελοῦνται. I codd. B.V.E. non dànno le parole: περὶ χρησμῶν-ἀποτελοῦνται ma il senso ne resta monco, incompleto. Tali parole invece si trovano in una nota marginale del cod. A; ma le parole περὶ χρησμῶν, come afferma il Gaisford, sebbene lo neghi il Bernhardy, nel cod. A fanno parte del contesto. Ed in tal caso il senso diventa chiaro. Chiliadi era chiamato il poema, perchè composto di libri di mille versi ciascuno (2). Lo dichiara Suida stesso quando dice: ἐπιγράφεται δ᾽ πέμπτη χιλιάς rà. Ne abbiamo una conferma nell’esempio analogo di Tzetze. Pensare alla durata degli oracoli, donde avrebbe preso il titolo tutto il poema (3), mi pare una stranezza.

(1) Opuse. II, p. 219 sgg. Cfr. Nietzsche in RA. Mus., XXVIII, p. 236.

(2) Meineke, Analecta alerandrina. Berol., 1843, p. 15.

(3) Vossius, de Rist. gr., I, 86, e Toupius, Emend. in Suid., II, p. 602, in Meineke, o. c., p. 13.

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Anzi tutto, non tutti i cinque libri contenevano pote- vano contenere degli oracoli, e lo attesta Suida stesso, che pare includa gli oracoli nel quinto libro, e lo conferma il fr. 47 = Ath. X, 486 f; inoltre, non tutti gli oracoli citati dal poeta dovevano avere il loro compimento dopo un mil- lennio, come, anche in questo caso, dichiara, chi ben consi- deri, il testo di Suida. Infatti io credo che il testo di Suida si debba intendere a questo modo: il pretesto del poema fu dato al poeta dalla rapina de’ suoi beni da parte di coloro cui egli li aveva affidati (ἔχει δ᾽ ὑπόϑεσιν εἰς τοὺς ἀποστε- ρήσαντας αὐτὸν χρήματα, παρέϑετο...): contro costoro in- velsce il poeta, imprecando la vendetta degli uomini e degli dei, vendetta quest'ultima, cui non sarebbero mai sfuggiti essi o i loro discendenti, poichè la divinità non fallisce mai, lasciando impuniti i malvagi, e prima o poi li colpisce

sempre (1) (... ὧς δίκην δοῖεν κἂν εἰς μακράν); per dimo-

strare questo, il poeta ricorda come certi oracoli ebbero il loro compimento persino dopo mille anni (εἶτα συνάγει διὰ χιλίων ἐτῶν χρησμοὺς ἀποτελεσϑέντας).

Con questo argomento, che doveva essere il più grave contro i rapinatori, Euforione chiude il suo poema e poichè quest’ultima parte trattava in particolare degli oracoli fu anche chiamata περὶ χρησμῶν (ἐπιγράφεται δ᾽ πέμπτη χιλιὰς περὶ χρησμῶν). E così io accetto la lezione di A. Un lettore poco accorto, non intendendo bene il valore di χιλιάς, ingan- nato dalle parole precedenti διὰ χιλίων ἐτῶν χρησμοὺς ἄπο- τελεσϑέντας, interpretò χιλιάς in relazione con la durata degli oracoli e spiegò a margine la ragione di quel titolo speciale περὶ χρησμῶν notando ὡς διὰ χιλίων (il cod. δισχιλίων) ἐτῶν ἀποτελοῦνται.

Ci preme intanto constatare un fatto: che nei poemi di Euforione, oltre il titolo generale, poteva essere anche un titolo particolare, relativo alle varie parti (2).

(1) Cfr. Rhian. (= Stob., Flor., IV, 34), vv. 17 sg. in Meineke, o. c., Pa 199.

(2) Eudoc. viol. p. 167, seguendo la falsa lezione εἰς τὴν ᾿Αττικὴν χι- λιάδα. ἔχει κελ., distingue erroneamente Mowozia, ᾿Αττικὴ χιλιάς, πέμ- nm χιλιάς.

282

Ci resta a parlare della Mopsopia. Nessuno, per quanto io sappia, ha mosso dubbi sulla esattezza del titolo e del con- tenuto del poema, riferito da Suida. Non è da far conto della correzione proposta dal Ruhnken (presso Meineke, o. c. p. 13): εἰς τὸν ’Avtiogov per εἰς τὴν ᾿Αττικήν, quasi che il poeta avesse voluto fare la storia dell’Attica dalle origini fino ai tempi suoi; della proposta dello Scheidweiler (p. 37) di mutare “Araxta in ‘Attxa, poichè in tal caso sarebbe senza senso la dichiarazione di Suida: ἔχει γὰρ συμμιγεῖς ἱστορίας che spiega appunto il titolo di “Araxte in contrasto con quello di Μοψοπία. Invece, considerando bene la disposizione delle parti nel lemma suidiano, troviamo una disposizione chiastica abbastanza strana. Infatti ad ognuno dei due titoli corri- sponde una spiegazione, che segue l’ordine inverso dei titoli, mentre invece suppone lo stesso ordine quel nel secondo membro :

Μοψοπία ᾿Ατακτα: E : de τὰν ἔχει γὰρ συμμιγεῖς ἱστορίας, Μοψοπία δὲ ὅτι κτλ. \ AR VA

Ed il γὰρ manca nel codice Leidense. Io credo che l’ordine naturale doveva essere questo: “Ataxta Mowozia: ἔχει (yào) συμμιγεῖς ἱστορίας, Μοψοπία δ᾽ ὅτι κτλ. Cioè l’opera si chiamava originariamente “Arazta e comprendeva varie storie, di cui una parte, forse la più larga, forse la più im- portante o notevole, riguardava le favole attiche: a questa parte speciale si dette o da principio, o ben presto, il titolo speciale di Mowozia. Questo titolo passò di poi accanto ad “Atazta a designare la raccolta intera. Ma quel titolo “Arexta pareva poco conveniente ad una raccolta poetica (ne ave- vano usato ed abusato i grammatici e gli eruditi!) ed il titolo Mowozia ebbe maggior fortuna, diventò più comune e noto, benchè meno appropriato, a tutto il poema, e po- teva trarre in inganno. questo pare voglia ovviare

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283

Suida con la sua insistenza nella dichiarazione del duplice titolo dell’opera. Or bene, non è da credere che queste ovu- μιγεῖς ἱστορίαι fossero tutte appartenenti ad uno stesso ciclo, come pensa il Meineke. In tal caso bene si adattava il titolo Mowozia ed era inutile (anzi inopportuno) l’altro di Ἄτακτα, poichè tali non si potevano nel loro complesso chiamare, se un filo principale, per quanto tenue fosse, pur v'era intorno al quale si rannodavano tutte le leggende. Bisogna pensare che le varie leggende fossero indipendenti e formassero dei poemetti, degli epilli speciali, raccolti, come in una silloge, sotto il nome di Ἄτακτα (1). Ma ciascuno di questi poemetti aveva un suo titolo speciale. A questo aveano pensato per il Afovvoos lo Schultze (p. 25), lo Scheidweiler (p. 27) e con loro consente il Corssen (p. 459). Ma io credo che si possa andar oltre, stabilendo che nessun diretto legame collegava la Mowozia con le altre parti degli “Arata.

Che non sia poi affatto strano parlare di una silloge eufo- rionea è dimostrato dal papiro berlinese n. 273 (= Berl. Klassikertexte, V, 1, pp. 57 sgg.), che ci ha dato due fram- menti indipendenti fra loro e riuniti in una medesima rac- colta. Se si ammette la mia ipotesi, spiega anche perchè il titolo “Atezta non comparisca mai nelle fonti che ci ap- portano i frammenti, mentre troviamo ricordata la Mopsopia, le Chiliadi, ecc. Infatti un carme, intitolato “Ataxta, non c'era, si sarebbe potuto citare in tal modo alcun’opera di Euforione, mentre si potevano ricordare i vari carmi col loro titolo, come un Artemidoro, un Apollodoro, ecc. Non si vuol affermare con questo che tutti i carmi degli “Araxte dovessero avere un titolo speciale: taluni carmi, come avviene in tutte le raccolte di poeti, antiche e moderne, potevano essere ane-

(1) Lo Schultze (Euphorionea, Argent., 1888, p. 25) non crede che 1᾽ Ales- sandro, il Demostene, l Artemidoro, V Apollodoro ecc. siano poemetti indi- pendenti, ma che facessero parte dell’Esiodo o delle Chiliadi. Agli "Atantoa forse era premesso un carme introduttivo nel quale il poeta, parlando dell’arte sua, poteva anche scrivere che egli si vantava di seguire l’arte che Μοῦσαι ἐποιήσαντο καὶ ἀπροτίμαστος Ὅμηρος = fr. 138 (Schol. (B) TV Hom. T, 263). i

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pigrafi e questo potrebbe spiegare perchè la stessa fonte ci dia talora frammenti col titolo del carme dal quale derivano, e talora senza titolo, se pur non vogliamo attribuire sempre questo fatto a sbadataggine o ad incuria dei compilatori e delle loro fonti: ragione facile e comoda questa, ma non sempre vera, specialmente data l'accuratezza, che per altri riguardi, dimostrano gli stessi scrittori.

Agli "Arazta potevano appartenere tutti quei poemetti ri- cordati o dal solo Stefano Bizantino, che pare abbia più di ogni altro sfruttato la raccolta euforionea, o da lui ricordati insieme con altre fonti, pure importanti per l’assunto nostro, quali sovratutto l’Etymologicum Magnum ed Ateneo. È infatti quanto mai probabile che le varie citazioni offerte da una stessa fonte derivino o dalla stessa opera, o da una silloge delle opere di un dato scrittore o poeta, poichè non mi pare molto facile ad ammettersi che i tardi compilatori di notizie erudite, mitografiche, storiche, ecc. abbiano avuto tra mano tutti i testi ed i carmi che citano, in edizioni separate, ma piuttosto si siano giovati di manuali, di sillogi, di raccolte. E l'aumentare prodigioso del materiale erudito, la necessità di guadagnare tempo e risparmiare fatica nelle ricerche, ed il bisogno di aver tra mano più comodamente quanto poteva servire alla conoscenza di un dato autore o di una data di- sciplina indussero gli eruditi ellenistici sovra tutto a tali compilazioni, a tali raccolte. Può far maraviglia che Stefano Bizantino non ricordi proprio la Mopsopia, che, secondo la nostra ipotesi, doveva formare la parte più importante degli “Atexta, ma si noti che Stefano Bizantino ha però conosciuto il -Dioniso.(p- 421,6 =<fr. 14;p=64, 19 ΞΞ τ ME 14 = fr. 16), che, come abbiam visto, dai più è considerato parte appunto della Mopsopia (1). Stefano Bizantino ci si mostra pertanto accurato e minuzioso nelle sue ricerche ed esatto nelle citazioni, preferendo, egli o la sua fonte, i titoli specifici ai generici. Nulla di strano pertanto che l’ Alessandro, l’Anio, l' Artemidoro, il Clitor, il Trace, lIppomedonte, le Arai,

(1) Cfr. anche Skutsch in Pauly-Wissowa, VI, p. 1179.

CORggRO

il Policare, il Dioniso, fossero compresi in una silloge dal titolo generale “Araxta, che comprendeva anche la Moworia. Così in parte verrebbe colmata la grave lacuna lamentata in Suida, poichè Stefano Bizantino conosce anche le Chiliadi (perl 325018 fr: 44; pr240)6°= fr. 4b:;*p:/686,7 = fr. 46).

Altra fonte importante è Ateneo il quale ricorda le Chiliadi (X, 496 f = fr. 47) unica testimonianza diretta oltre quella di Stefano Bizantino il Geranos (II, 82 a = fr. 10), gli ‘Iotogixà ὑπομνήματα, il Περὶ ᾿Ισϑμιῶν, il Περὶ Μελοποιῶν. Il Geranos è attribuito anche ad Archita ed Ateneo (o la sua fonte) rimane in dubbio riguardo alla paternità del carme. Si potrebbe pensare che ad Archita appartenesse il poemetto, il quale era pubblicato a parte ma che poi, col tempo, era stato incluso nella raccolta enforionea. Alla paternità di un poeta meno noto si sostituì quella di uno famoso: i maggiori assor- bono i minori, ed esempi di tali false attribuzioni si possono citare in buon numero presso le letterature di tutti i tempi e di tutti i popoli. Può anche darsi un altro caso, che io reputo più probabile. Euforione ed Archita possono aver trat- tato lo stesso tema (fatto frequente, specialmente nel periodo ellenistico): ma il poema d’Archita rimase meno noto; però non se ne perdette, per lo meno, la tradizione. Ateneo (o la sua fonte), trovando nella silloge euforionea tale poemetto e ricordando la tradizione che faceva Archita l’autore di un Geranos, rimase in dubbio, temendo di una falsa attribuzione ad Euforione. Per questo ora propenderei a ritenere il fram- mento euforioneo e non di Archita di Anfissa, come reputai altra volta (1). La silloge sarebbe appunto gli “Atexta, nei quali erano forse compresi anche il Περὶ ᾿᾿Ισϑμιῶν ed il Περὶ Μελοποιῶν. Si può dubitare che queste due ultime opere fossero in prosa anzichè in versi. Non ne dubita punto infatti il Meineke (p. 28), il quale rimprovera al Passow (Prolegom. ad Musaeum, p. 58), di averle annoverate fra i carmi epici di Kuforione; ma io credo che il Passow non avesse tutti 1 torti, specialmente se per poco consideriamo il metodo seguìto da Ateneo nella citazione dei frammenti euforionei.

(1) La poesia ellenistica, Bari, 1912, p. 156.

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286

Infatti Ateneo dove cita le Chiliadi (X, 436 f= fr. 47), chiama Kuforione ἑποποιός.,,, mentre nelle citazioni degli ὑπομνήματα Euforione è chiamato Χαλκιδεύς (IV, 154 ce = fr. 49) o soltanto è chiamato col suo nome (XV, 700 = fr. 50) come in Eliano, ἢ. a., XVII, 28 = fr. 48. Pare quindi che si distingua il poeta dal prosatore. Or bene, la prima volta che Ateneo ha occasione di citare il “Περὶ ᾿Ισϑμιῶν (IV, 182 e = fr. 56) chiama Euforione ἐποποιός.,, e tale è chiamato Euforione in XIV, 6337 = fr. 57, quando Ateneo ricorda un’altra volta la stessa opera, tralasciando, com'era naturale, nelle successive citazioni, che seguono a brevissima distanza, tale appellativo (XIV, 635 a, f= fr. 56), citandosi sempre la stessa opera. Ma in ]. IV, 184 a (= fr. 58), quando deve ricordare un nuovo lavoro di Euforione, il Περὶ Me4o- ποιῶν, pur a breve distanza dalla citazione del “Περὶ ᾿1σῦ- μιῶν, Ateneo ripete: Edpogimv ἐποποιός. Sarebbe strana tale insistenza dell’appellativo ἐποποιός per uno scrittore di cui citano opere in prosa! Inoltre al fr. 89, che è un fram- mento poetico, ci è ricordato ancora (ed a proposito, come per le Chiliadi) Edpogiwv ἐποποιός (= VI, 263 d), mentre nel fr. 149 (= II, 44 Euforione è chiamato Χαλκιδεύς, come nelle citazioni degli ὑπομνήματα.

Notisi poi che tali citazioni sembrano derivare da fonti diverse, poichè a Posidonio si fa risalire il fr. 89, a Trifone i frr. 56-58 (1). Tale costante sistema di citazione non può essere casuale, dipendendo dai criteri di un solo erudito o compilatore, ma deve aver motivo in causa ben più lontana e sicura, cioè nella natura stessa delle opere, dalle quali sono tratti i frammenti. Per ciò, mentre gli ὑπομνήματα erano in- dubbiamente scritti in prosa (ed a tale opera ascriverei anche il citato frammento 149 = Ath., II, 44 f, e, per affinità di argomento, anche il fr. 148 [= Tertull., de anima, 46] ed il fr. 150 |Hellad. ap. Phot. c. 279, p. 533 a, 29 B]) ritengo che il Περὶ ᾿Ισϑμιῶν ed il Περὶ Μελοποιῶν siano opere poetiche:

(1) Cfr. Rapp, De fontibus quibus Athenaeus in rebus musicis lyricisque enarrandis usus sit = Leipzig. Studien, VIII, p. 110 sg.

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287

al Περὶ ᾿Ισϑμιῶν assegnerei anche il fr. 98 (= Plut., Symp., 676 f). Dei frammenti ricordati da Ateneo potrebbero asse- gnare alle Chiliadi, nelle quali si faceva cenno dei forti be- vitori fra i quali Xenarco (o non piuttosto Xenagora? cfr. Ael., v. h., XII, 12), il fr.170 = Ath,, XI, 475 f (per il contenuto), che il Casaubon attribuiva alle Arai, appunto per il ricordo della xeZé8n. Anche Ateneo (o le sue fonti) conoscevano per- tanto una raccolta di opere poetiche euforionee (gli “Ataxta Ὁ), oltre le Chiliadi. E, continuando per tale via, altre conclu- sioni potremmo trarre, considerando in relazione fra di loro le fonti che ci hanno tramandato i frammenti e le citazioni euforionee.

Lo Scoliaste di Partenio, ad es., che ebbe tra mano la rac- colta nota a Stefano Bizantino per il Trace, ricorda anche l’Apollodoro, che forse apparteneva alla medesima raccolta. Nell’Apollodoro si trattavano (Parth., c. XXVIII) leggende riguardanti il mito argonautico (cfr. fr. 5 = Schol. Lycophr., 513), il mito cioè di Cizico e Clite, ed a tale ciclo si possono riferire i frammenti riportati dallo Schol. Theocr. (XHI, 7 = fr. 87), da Cherobosco (in Theod. can., p. 295, 16 H. = fr. 88) (1), dall’Etym. Magn. Ὁ. 388, 42 (= fr. 91), e sovra tutto dallo Scoliaste alle Argonautiche di Apollonio Rodio ΞΘ τ, ΠΟ ΞΞ rr Lo ΤῸ ΞΞ τ. 74);led'infine il τ. 89:(=Ath-VJ 263.4), che pare risalga a Posidonio. Ma da Posidonio deriva anche il fr. 147 (= Anon. I isag. ad Arat. 5, p. 95, 9 Maass), che, con lo Scheidweiler (p. 81), io reputo genuino, e che bene si poteva adattare al mito argonautico, quantunque io creda più probabile che questo verso derivasse dalla Mowozia, dove il poeta dimostrava, come riferisce Suida, che 7) ᾿4ττικὴ τὸ πρὶν Moworia ἐκαλεῖτο ἀπὸ τῆς ᾽Ωκεανοῦ ϑυγατρὸς Mo- wozias (2). Avremmo un’altra conferma che Ateneo (per mezzo di Posidonio) conosceva la Mopsopia. Non dubiterei adunque di includere negli “Araxt@e anche l’ Apollodoro.

(1) Il Knaack in Hermes, XXV, p. 87, riporta i fr. 88-90 allo Xenios. (2) Il Meineke pare (p. 12) che pensi altrimenti, riferendosi a Strab., IX, 397.

Lo Scoliaste di Apollonio Rodio (II, 354) e l’Etym. Magn. p. 50, 88 si accordano nel darci notizia dello Xenzos di Eu- forione (= fr. 35), direttamente l’uno, indirettamente l’altro, ma confermato dall’ Anonym. περὶ ἰοβόλων κτλ. (cfr. Rohde in Rhein. Mus. XXVIII, 283); e questo ci persuade vieppiù a credere che ambedue (o le loro fonti) attingessero ad una medesima raccolta di carmi euforionei, che io reputo gli “Ataxta per i confronti più sopra instituiti. L'argomento del carme non si lascia intuirè dal titolo: poco dai frammenti. Vi si parla dell’aconito che nasceva presso Eraclea Pontica e generato dalla bile, vomitata da Cerbero, quando questi fu tra- scinato alla luce da Eracle: pare quindi che vi si trattassero leggende eraclee. Farebbe infatti maraviglia che le imprese di Eracle, argomento così caro agli ellenistici, non fossero state trattate da Euforione. Alla leggenda eraclea del fr. 35 51 potrebbero unire il fr. 59 datoci dallo Schol. Arat. 519 (che conobbe, pare, anche il Dioniso = fr. 13), il fr. 60 (= Schol. Dion. Perieg. 64, il quale porta anche un frammento della Mopsopia = fr. 32), il fr. 61 datoci da Eustazio (ad Dion. Perieg. 558) ed il fr. 62 (= Papyr. Berol., 273, cfr. Schol. Nic. Ther. 288), col quale si chiudeva, come opportunamente pensa il Wilamowitz, il carme. Indovinare il contenuto e la ragione dei titoli dei vari carmi, come pure cercare di fis- sare la sede dei frammenti tramandatici senza titolo, da fare opera compiuta riguardo ai carmi euforionei, mi pare impresa, almeno per ora, finchè nuove scoperte non ci aiu- tino, disperata. Per qualcuno si potrà tentare qualche ipotesi, ma non più che ipotesi.

Il Meineke (p. 16) pensava che il poeta nell’ Alessandro parlasse di Alessandro Etolo, sembrandogli inaccettabile l’ipo- tesi che vi si trattasse di Alessandro Magno; lo Scheidweiler invece (p. 15) pensa proprio ad Alessandro Magno e, sti- mando opportuno che Euforione lo paragonasse ad un nuovo Achille, congiunge con questo poema il fr. 92, ed i fr. 93-94 che ci porterebbero l’eco lontana delle imprese del Grande. Ma il fr. 92 (= Ayp. Pind. Pyth. p. 298 B.), ci ricorda che anche Euriloco, tessalo, era chiamato μέος ᾿Αχιλλεύς, le sue imprese erano tali da paragonarsi a quelle dell’Achille

Pe

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omerico e tanto meno a quelle di Alessandro: questo fatto diminuisce l’importanza del confronto fra Achille ed Ales- sandro, era encomiastico, se mai, tale ricordo che veniva, in fondo, a mettere Alessandro allo stesso livello di un ÉEu- riloco. Il fr. 93 (= Schol. Nic. Ther., 35) ci raffigura l'ardente Semiramide: tale accenno si presterebbe benissimo alla nar- razione delle imprese di Alessandro Magno, ma non sconver- rebbe nemmeno alla narrazione delle imprese e dei viaggi di Eracle, dal più lontano Oriente (fr. 94, i Moriei = Steph. Byz., 466, 16) (1) all’estremo Occidente (fr. 60, già ricordato). E l'ipotesi nostra, riguardo al contenuto dello Xerios cui at- tribuimmo il fr. 62, riceve nuova conferma ora col fr. 93, conosciuto dalla stessa fonte, che ci ha fatto identificare per euforioneo il fr. 62.

Diretto ad un amico, o dal nome di lui intitolato, pensava il Meineke che fosse l’ Apollodoro. Un altro carme storico ne fa lo Scheidweiler (p. 16) argomentando dal fr. 4 (= Choerob. Comm. in Hephaest., c. IV) che vi si tratti dell’Apollodoro Ciziceno, capitano ateniese, ricordato da Platone (Zon. p. 541 C), e correggendo Aetopi@vros in Κἀλειοφόωντος per trarne l’identificazione con l’oratore vissuto durante la guerra del Peloponneso. L'ipotesi è seducente, ma riconnettendo il fr. 7, nella forma quale ci si presenta, con le leggende ricordate negli altri frammenti, si sarebbe forse tentati di riconoscere nel carme la narrazione di leggende cizicene fatta da un tale Apollodoro al figlio di Leofonte. Infatti, Apollodoro, duce degli Ateniesi, poteva essere chiamato τὶς ᾿4πολλόδορως E la forma della narrazione in poemi epici è frequente nell’età ellenistica.

Alle Arai si attribuisce il fr. 95, del quale io altra volta detti un’interpretazione ben diversa, con diversa attribuzione, seguendo certe mie congetture che, ora, credo si debbano ri- fiutare senz'altro (2): ritorno all’interpretazione ed al testo

(1) Stefano Bizantino conosce e cita l’ Alessandro, p. 581, 11 = fr.le probabilmente non avrebbe lasciato senza titolo questo frammento se fosse derivato da quel carme.

(2) La poesia ellen. cit., p. 155, dove gravi errori di stampa (co? per αἱ e cacciati per cacciato) rendono il senso quasi inintelligibile.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 19

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290

del Wilamowitz, sembrandomi che nulla giovi la correzione proposta al verso 9 dal Corssen (p. 461) λωϊτέρης per ver τέρης. Si noti che il carme era intitolato secondo Stefano Bizantino °Agaì Ποτηριοκλέπτης (p.79,9 s. v. ᾿4λύβη = fr. 8), ma lo Schol. Theocr., Il, 2 dice soltanto: Edpooiwv ἔν Ποτη- ριοκλέπτῃ. È probabile che il carme, a somiglianza dell’id. XIX pseudoteocriteo Κηριοχλέπτης, portasse da prima soltanto il titolo Ποτηριοκλέπτης, cui si aggiunse di poi l’altro, tratto dal contenuto e divenuto motivo comune nella poesia elle- nistica, di ’Agai. Con tale congettura ci spieghiamo come il fr. 95 nel papiro berlinese potesse seguire quasi immediata- mente al fr. 62. Nella silloge euforionea forse i carmi erano disposti, come in generale, in ordine alfabetico, e così dopo lo Eeîvog, cui come chiusa attribuirei il fr. 62, seguiva il Ποτηριοκλέπτης. La vicinanza di tempo maggiore fra il pa- piro berlinese e lo scoliaste teocriteo, che non con Stefano Bizantino, mi pare che renda più accettabile la mia ipotesi riguardo al titolo genuino del carme.

Gli è vero che si ricorda anche il Πολυχάρης (Etym. Magn., p. 233, 13 e Zonara, p. 417 = fr. 36). Ma si può rispondere che per gli antichi l’ordine alfabetico non era così rigoroso come per noi, senza voler ricorrere all’ipotesi che il Πολυχάρης non appartenesse alla silloge, o fosse, cosa punto improbabile, brevissimo.

Lo Scheidweiler (p. 31 sg.) si industria di ricercare il con- tenuto del Trace e dell’Ippomedonte e si sforza di fare risa- lire a leggende tracie i ricordi ed i frammenti che del Trace ci dànno Stefano Bizantino (p. 130, 8 = fr. 21), Partenio (c. XIII = fr. 22; c. XXVI = fr. 23) e Schol. Clem. Alex. Protr., 27, 11 (= fr. 26), tentando di mostrare la origine tracia anche delle leggende che dell’Ippomedonte ci ricordano lo Schol. Lycophr., 451 = fr. 28 e Stefano Bizantino, p. 422, 12 = fr. 29. Conclude che in ambedue i carmi il poeta col- lega le leggende tracie con le greche e che l’Ippomedonte faceva probabilmente parte del Trace. Ora è da osservare che la leggenda parteniana di Arpalice è prettamente argiva e nulla ha da fare con l’Arpalice tracia ricordata'da Servio ad Aen. I, 321, il quale confonde due leggende diverse, di cui

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una riguarda l’Arpalice tracia (per la quale vedi Igino, fab. 193 ed il Servio Danielino), l’altra si riferisce ad un’Arpalice amazzone, che liberò il proprio padre, prigioniero dei Geti, con la velocità nella fuga. Ora taluno (e non del tutto a torto) crede che la Threissa Harpalyce in Virgilio Aen. 1, 316 sg., cui si richiama lo Scheidweiler e che equos fatigat, sia appunto la amazzone e non la tracia, confrontando il Threissa di I, 316 con Aen. XI, 659 sg.: Quales Threiciae cum flumina Thermodontis | Pulsant et pictis bellantur Amazones armis. Le Amazzoni infatti abitavano la regione presso il Ter- modonte e che si chiamava appunto la Tracia asiatica (cfr. Xenoph. Anab., VI, 2, 14; VI, 4, 1 sg.). Ma anche non ac- cettando tale interpretazione del testo virgiliano per l’accenno all’Ebro, che altri ha corretto conseguentemente in Eurum (1) e per l’accenno ai Geti, più vicini ai Traci d’ Europa che non a quelli d'Asia, benchè anche in quella regione si siano spinte le incursioni delle Amazzoni, si dovrà ben riconoscere quanto disti la narrazione parteniana da quella di Servio. Sta il fatto che in Euforione è una leggenda argiva, di spi- rito e di natura ellenistica, con elementi e motivi propri di altre leggende peloponnesiache (cfr. la leggenda di Tieste ed Atreo).

Così la leggenda di Apriate, fanciulla di Lesbo, amata da Trambilo, figlio di Telamone, nulla ha di tracio.

Che poi il nome ‘Argidrzs non possa derivare da προς città tracia (unico accenno tracio che possa mettere in luce lo Scheidweiler) mi pare già provato (e ne conviene in parte anche lo Scheidweiler) dal Timpel (in Philol., XLIX, p. 108), col quale io non consentirei che Euforione abbia tramutato l’avverbio omerico ἀπριάτην in nome proprio, quantunque non sia strana questa tendenza, tanto è vero che anche Ermesianatte dall’esclamazione οἵη fa vivere l’innamorata di Esiodo e della φίλη ϑεωρίς di Sofocle fa un’etera, l'amante

(1) Cfr. Virgilio, L'Eneide 1. I, col comm. di C. Pascal, Palermo, 1905, p. 46.

ΤΕ ΘΟΣ ΤΣ

del poeta, la madre di Aristone (1). Piuttosto, come oppor- tunamente fa notare il Ciaceri (2), si ha qui un accenno alla localizzazione delle leggende attiche degli Eacidi. Di più, il fr. 25 (= Sch. Genev., D, 319) con la tomba di Micone ci ri- corda la vittoria eraclea sui Giganti e ad Eracle ci richiama il fr. 24 (= Etym. Gen. 5. v., ἄρρατος) che ci rammenta la vittoria di Eracle su Cerbero. Infine il fr. 26 (= Sch. Clem. Alex. Protr., 27, 11) ci riconduce ancora ad Eracle col ri- cordo di Ippocoonte che è proprio quello spartano e nulla ha da fare col trace ricordato da Omero (K, 519). Così nel- l’Ippomedonte abbiamo, a quanto pare, leggende attiche, e per questo lo Schultze (p. 24) incluse questo carme nella Mopsopia. Il cenno di Stefano Bizantino (p. 422, 12 = fr. 29) riguardante Licone, monte della Tracia, non basta per ri- chiamarci a leggende tracie, tanto più che non è escluso,

per la omonimia, il caso di una svista, o di uno scambio

da parte del compilatore o della sua fonte, quando non vo- lessimo ammettere un accenno incidentale fatto dal poeta appunto a quel monte.

Ma in tale campo si smarrisce la nostra cognizione e si corre rischio di inseguire vane parvenze anzichè ipotesi ra- gionevoli. Per questo da parte mia non oso avventurare altre nuove proposte per non sentirmi ripetere il famoso medice cura te ipsum.

CamiLLo Cessi.

(1) A. Chatzis, Der Philos. und Grammatiker Ptolemaios Chennos, I Teil (= Studien zur Gesch. und Kultur des Altert., VII, 2), Paderborn, 1914, p. LXXVI Sg.

(2) 1, Alessandra di Licofrone, Catania, 1901, p. 201.

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2939

LE TRAGEDIE DI SENECA.

EGESIPPO E LO PSEUDO-QUINTILIANO

Nell'antichità classica e nell’alto medio evo le traccie della lettura di Seneca tragico sarebbero scarse, secondo risulta dalle bibliografie dello Schanz (1158, 2, p. 69) e del Manitius (I p. 436) e dalla prefazione del Richter alla edizione del 1902, p. xx e segg. Ma ai nomi degli autori che sono menzionati nei tre luoghi, io credo che possa senza esitazione aggiun- gersi quello del così detto Egesippo. Questi conobbe certo il Tieste e l’Agamennone e della sua conoscenza ci ha lasciato evidente testimonianza nei capitoli 40-41 del libro quinto, rispondenti ai $$ 201-209 del libro sesto del testo greco di Flavio Giuseppe.

I capitoli 40-41 dell’Egesippo e i corrispondenti paragrafi del testo greco trattano di un monstrum che doveva ricordare facilmente i Θυέστεια δεῖπνα. In Gerusalemme stretta dalla morsa dell’assedio la carestia induce una madre, Maria di Bethezob (nel Giuseppe del Niese βηϑεζουβᾷᾶ), a divorare il proprio figlio. I difensori all'odore delle carni cotte penetrano nel domicilio della sciagurata domandando come mai non si fosse fatta loro la consegna della carne che era in casa, e la donna svela loro l’orribile verità e li invita a partecipare al banchetto. Sgomento e raccapriccio invadono, alla notizia di quell’ ἄπιστον, assedianti e assediati.

Un primo raffronto col Tieste di Seneca si ha subito nel principio del cap. 40. Maria è affamata : saeva fames intimis se infudit medullis’. Non altrimenti l'ombra di Tantalo cac- ciata dalla Furia sul mondo esclama nel Tieste (v. 98-99):

il Lavena Nena E)

quid famem infixam intimis ΟΝ agitas medullis? (1). i

Balenata a Maria l’idea di cibarsi del figlio, ella sviluppa πὰς in una lunga declamatio la breve apostrofe rivolta all’infante A

© nel testo greco. I motivi di Seneca si seguono un dopo l’altro:

...cui te reservabo aut certe quo Vtrumne saevis pabulum alitibus

τ condam sepulchro ne canibus ali- iacent tibus vel feris praeda SIRIO an beluis servantur an pascunt Εν feras ? 00

(Thy. 1032-1033).

...iIn quo domicilio sumsisti spiri- ............ liberis plenus tribus I tum, in eo tibi tumulus defuneto in me sepultis ai paratur (Agam. 26-27) ipsa complectar quem genui οὐ expedi amplexus, pater Di: quod impatientia amoris habet ha- (Thy. 1004) beat vis necessitudinis ut ipsa de- vorem meos artus ...suos artus edat

(Thy. 278)

lancinat gnatos pater artusque mandit ore funesto suos (Thy. 778-779)

Dopo di che l’empia donna ‘in frusta filium secans igni imposuit’ precisamente come nella narrazione del nunzio al gi coro esterrefatto Atreo |

ipse divisum seca? i

in membra corpus ᾿ (Thy. 760-761) su

o Atreo stesso nella macabra descrizione al fratello :

in parva carpsi frusta (Thy. 1060).

(1) Naturalmente le medullae sono qui 1᾿ ἄκρον μυελὸν ψυχῆς del- | l’Ippolito euripideo (v. 255). AN

ΟΣ di

295

meno ci richiamano a Seneca le parole con le quali la terribile madre offre ai sopravvenuti il cibo maledetto : de meis vobis visceribus cibum paravi’. E Tieste in Seneca (Agam. 27) :

n... Vviscera exedi mea.

Che se si volesse sospettare che queste concordanze si pos- sano spiegare con la somiglianza dell’argomento piuttosto che con una reale dipendenza del più recente dal più antico dei due scrittori, lo stesso Egesippo si incarica di rassicurare la nostra diffidenza svelando la propria fonte alla fine del c. 41: Thyesteas dapes fabulam putabamus, flagitium videmus, ve- ritatem cernimus atrociorem tragoedtis .

Vero è che Carlo Weyman, nell’Archiv del compianto Wollflin (XIV, p. 50) indicò piuttosto nella Declamazione 12* dello Pseudo-Quintiliano l'origine di uno dei passi sopra ci- tati. Egesippo ha: ‘in quo domicilio sumsisti spiritum in eo tibi tumulus defuncto paratur’ e lo pseudo-Quintiliano al cap. 27: ‘oppressa decimo mense mater sibi parit, redit in uterum laceratus infans’ e qualche altro raffronto potrebbe essere istituito tra la Declamazione in questione e i due ca- pitoli di Egesippo, specialmente il cap. 41. La mossa con la quale incomincia in questo il discorso di Tito inorridito ri- corre precisamente al principio dello stesso cap. 27 :

Ecrs. Declam. ce. 27

diligunt ferae fetus suos quos etiam hoc non omnes ferae faciunt ...sìi fame sua nutriunt et quae alienis qua alienis membris imprimunt corporibus pascuntur a consimi- dentem, mutuo tamen laniatu abs- lium ferarum abstinent cadaveribus tinent

Anche il principio del cap. 28 presenta viva rassomiglianza con la fine del discorso di Tito :

᾿ ts AL Ù τἂν ν᾽ ΑΝ ΤΟ A "ORLO DARA È; ni ᾿ x i Rao: ΠΣ SORTI ἐν ν γ È ᾿ ni 5 ἣν È TI RIE Ecrs. Declam. c. 29

infelix civitas in qua tale officium dehisce terra et hanc noxiam civi- tale ministerium est. operiant eam tatem (si hoc saltem fas est) hau- ruinae suae adque abscondant, mun- stu aliquo ad inferos conde. cae- di ipsius contagionem ne sol videat, lestes auras contaminato spiritu ne stellarum globus spectet: ne polluimus et sideribus ac diei gra- maculentur aurarum spiramina, pur- ves, invidiam saeculo facimus (cf. gatorius quoque ille exsurgat ignis. ὁ. 26: credibiles fabulas fecimus) Thyesteas dapes fabulam putaba-

mus, flagitium videmus, veritatem .

cernimus atrociorem tragoediis

Ma queste somiglianze e qualche altra che potesse addursi, se implicano un rapporto tra lo pseudo-Quintiliano e lo pseudo- Egesippo, non escludono quello confesso, come abbiamo visto, tra lo pseudo-Egesippo, che può aver benissimo contaminato reminiscenze di due autori diversi, e Seneca. Piuttosto apri-

rebbero il campo ad un’altra serie di indagini su le relazioni

tra Seneca tragico (1) e lo pseudo-Quintiliano che intuite e genericamente indicate dal von Morawsky (cf. Wochenschrift f. klass. Philol., 1905, col. 874) non hanno trovato ancora un industre e paziente ricercatore. In quel luogo infatti il von Morawsky metteva in relazione le parole della Declama- zione 3*: ‘atque utinam plures mortes cepisset, ut impurum spiritum renascens poena torqueret’ e i versi dell’Edipo 945 e sgg.: ‘iterum vivere atque iterum mori liceat, renasci semper ut totiens nova supplicia pendas’ e avvertiva che appunto nella Declam. 128 al c. 26 la frase ‘vidit nos vul- neribus pastos’ è sicherlich dilteres Gut, trovandosene un ana- logon nella Troiae halosis di Petronio al v. 50: ‘iam morte pasti’. In realtà anche qui ci è dato risalire, grazie alle Con- troversie di Seneca il Vecchio (X praef. 9), a una preziosità

(1) Dico Seneca tragico, poichè qualcosa di più è stato fatto per quello che riguarda le relazioni tra Seneca filosofo e le Declamazioni. Pure anche qui siamo lungi da definitivi resultati, mentre è da sottoscrivere pienamente alle parole del Reitzenstein che in ultima analisi la lingua e la retorica delle Declamazioni ci riportano a lui (Cf. Studien zu Quin-

tilians gròsseren Deklamationen, Ὁ. 72 n. 1).

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297

del declamatore Musa, nella quale l’antico motivo gorgiano dei γύπες ἔμψυχοι τάφοι. suggerisce precisamente una imma- gine e una arguzia che prelude a Petronio e allo pseudo- Quintiliano : quidquid piscium natat, quidquid ferarum di- seurrit nostris sepelitur ventribus. quaere nunc cur subito moriamur: mortibus vivimus’ (1). Or le relazioni tra le tra- gedie di Seneca e l’arte dei declamatori non sono un mistero per nessuno.

Ma, per tornare a quello che dicevo, il campo di ricerche indicato dal von Morawsky si apre davvero fecondo. Restando nel campo limitato dei confronti fra la Declam. 12? e il Tieste, io noto i seguenti :

Decl. Tur. c. 2. Aestuant adhuc intra pectus Quis hic tumultus viscera exagitat sepulta ventribus nostris cognata mea ? viscera et tumescere intus atque quid tremuit intus? sentio impa- indignari videntur tiens onus meumque gemitu non meo pectus gemit

(v. 999 e segg.)

c. 9. ...in omnia ‘ventura saecula ...fac quod nulla posteritas probet proscripti sumus. omnes haec pro- sed nulla taceat.

digia narrabunt, omnes exsecra- (v. 152-153) buntur

c. 26 rumpe ferreum pectus et ar- volvuntur intus viscera et clusum dentia viscera viventesque intus nefas epulas excute! Luctantur intra vi- sine exitu luctatur et quaerit fugam. scera animae et uterum (2) fune- da, frater, ensem..... ribus gravidum mortes agunt ..- ferro liberis detur via

(v. 1041 e sgg.)

E non posso trattenermi dall’aggiungere un confronto let-

(1) Anche Plinio, N. H., IX, 105: vescimur periculis.

(2) Altro esempio da aggiungere a quelli che provano la sinonimia uterus = venter di cui ebbi a intrattenermi in Boll. di Filol. class., XV, p. 209-210, e XVI, p. 85 e sgg.

ἐπ πο tra il sopra Gi 98 e l'Onatia ἘΝ presenta così stretti vincoli col teatro di Seneca :

Decl. c. 28 Octavia, v. 235-236.

Caelestes auras contaminato spi- en ipse diro spiritu saevi ducis ritu polluimus polluitur aether.

Vincenzo USSANI.

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299

BRICIOLE PLATONICHE

Traducendo la Repubblica ho incontrato naturalmente al- cuni passi nella cui interpretazione sento di trovarmi in disaccordo coi filologi che mi hanno preceduto. Quale sia la differenza apparirà di regola dalla traduzione stessa, che ho

già compiuta, ma lascio per ora riposare. Qui, come tenuis-

simo saggio, anticipo la discussione di pochi luoghi dei libri V-VII, che sono appunto i più difficili e i più discussi.

V p.451A: ἐλπίζω γὰρ οὖν ἔλαττον ἁμάρτημα ἀκουσίως τινὸς φονέα γενέσϑαι ἀπατεῶνα καλῶν τε καὶ ἀγαϑῶν καὶ δικαίων νομίμων πέρι.

Così i codici, tranne €, che ha un χαὶ anche davanti a νομίμων. Degli interpreti chi fa dipendere tutti i genitivi da πέρι, e intende perciò intorno al bello, al buono, al giusto e al legittimo , ; chi (Schneider, Jowett-Campbell, Adam) intende νομίμων come predicato dei nomi precedenti: intorno al bello, al buono e al giusto che siano conformi alla legge ,; e se teniamo la lezione più comune, questa in- terpretazione sarebbe la sola ammissibile.

Io intendo diversamente. A me pare che καλῶν te καὶ dyadòv non possa essere che genitivo oggettivo e maschile. Innanzi tutto καλὸς κἀγαθός è frase fissa per indicare il galantuomo, e difficilmente Platone l’avrebbe tòrta a signi- ficare altra cosa, specie quando il senso non fosse chiaris- simo, mentre qui ἀπατεῶνα καλῶν te καὶ ἀγαϑῶν si pre- senta subito alla prima nel senso normale.

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300

Si aggiunga che una tal determinazione oggettiva non è punto inutile, tanto più che l’inganno, in ciò che precede, era stato riconosciuto ammissibile non solo verso i pazzi ma anche come mezzo educativo provvisorio verso coloro che non sono ancora ben saldi nelle loro convinzioni morali. Or poche righe prima Glaucone aveva detto a Socrate che si facesse coraggio a parlare, poichè parlava davanti a persone per bene: era dunque opportuno rilevare che appunto questa era per lui una responsabilità maggiore, non essendo l’in- ganno con costoro affatto permesso.

Questa interpretazione è anche provata vera da ciò che segue: Glaucone infatti risponde a Socrate, che lo assolve φόνου καϑαρὸν εἶναι καὶ μὴ ἀπατεῶνα μῶν. Ciò posto io credo che il xai che è davanti a δικαίων debba essere trasportato dopo, di modo che il περί regga soltanto i due ul- timi genitivi. Questo spiega anche l’origine della variante di £.

V p. 452 E: καὶ τοῦτο ἐνεδείξατο, ὅτι μάταιος ὃς γελοῖον ἄλλο τι ἡγεῖται τὸ κακόν, καὶ γελωτοποιεῖν ἐπιχειρῶν πρὸς ἄλλην τινὰ ὄψιν ἀποβλέπων ὡς γελοίου τὴν τοῦ ἄφρονός τε καὶ κακοῦ καὶ καλοῦ αὖ σπουδάζει πρὸς ἄλλον τινὰ σκοπὸν στησάμενος τὸν τοῦ ἀγαϑοῦ.

Le ultime parole sono certo affatto errate e le spiegazioni che se ne dànno io le credo tutte inaccettabili, sia per il senso grammaticale, sia per il senso logico. L’Adam, che è forse il più acuto fra gli interpreti della Repubblica, rende questo luogo così: Foolish is the man who identifies the laughable with anything but the bad, and he who attempts to raise a laugh by looking at any spectacle as laughable except the spectacle of folly and evil aims in all seriousness also at another standard of beauty, which he has set up for himself, than the standard of the good ,. Ma a questa interpretazione contrastano gram- maticalmente due difficoltà, l’una il καί davanti a καλοῦ, l’altra lo στησάμενος, cui l’Adam sottintende αὐτόν cioè τὸν σκοπόν (ὃ ἂν αὑτῷ στήσειξ ?), costruzione impossibile e tau-

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tologica: aggiungi che σχοπὸς τοῦ καλοῦ non mi pare affatto espressione appropriata per dir παράδειγμα (standard) τοῦ καλοῦ : se mai si potrebbe intendere un altro fine della bellezza cioè: costui sul serio crede che la bellezza abbia uno scopo differente dal bene. Anche su questo per altro ci sarebbe che ridire; e contro tali interpretazioni tutte c'è un’obiezione generale: a Platone non interessava affatto di notare ciò che queste interpretazioni gli fan dire. Che il bello possa avere altro scopo (o modello) diverso dal buono è un dubbio che non gli conveniva di proporre se non intendeva di risol- verlo. Si era discorso fino ad ora del ridicolo, e di qual do- vesse essere lo scopo del ridicolo: perchè ora si introdur- rebbe lo scopo del bello? È da notarsi che le parole καὶ χαλοῦ αὖ sono omesse in €, e allora il senso fino ad un certo punto corre facilmente: questo però si può ottenere altrettanto bene col sopprimere soltanto καλοῦ, che si può spiegare come una: dittografia. Ma ciò che segue poi non è ancora liscio, e molti sono i modi escogitati per rabberciarlo. Io credo sia nata una confusione di due o più redazioni : sappiamo di fatti quanto Platone fosse solito correggere e ricorreggere. Una potrebbe essere χαὶ αὖ σπουδάζει πρὸς ἄλλον τινὰ σκοπὸν τὸν τοῦ dyadoù, dove σπουδάζει sa- rebbe coordinato al precedente ἡγεῖται. Un'altra: καὶ ἄλλον τινὰ σκοπὸν στησάμενος τὸν τοῦ dyadod, dove στησάμενος sarebbe coordinato al precedente ἐπιχειρῶν. Una terza: χαὶ αὖ σπουδάζει ἄλλον τινὰ σκοπὸν στησάμενος τὸν τοῦ ἀγαϑοῦ.

La seconda fila più piana, ma la terza conserva meglio l'antitesi tra il serio e lo scherzo e meno altera il testo, tutto riducendosi alla soppressione di πρὸς. Traduco perciò: “e questo dimostrò, che è sciocco chi crede che ridicola sia altra cosa fuorchè il male, come pure chi tenta di far da ridere avendo altro di mira come risibile che non sia la stol- tezza e la malvagità, o viceversa si proponga sul serio altro scopo che non sia quello del bene ,.

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VI p. 488 D-E : ὅπως κυβερνήσει, ἐάν τέ τινες βούλωνται ἐάν te μή, μήτε τέχνην τούτου μήτε μελέτην οἰόμενοι dv- νατὸν εἶναι λαβεῖν ἅμα καὶ τὴν κυβερνητικήν.

Queste parole vengono per chiusa di un lunghissimo pe- riodo nel quale si rappresenta la folla ignorante che sulla nave cerca di strappare il timone al pilota senza che alcuno di essa abbia l’arte di dirigerlo. Tutto è abbastanza chiaro fino a questo punto, ma qui comincia l’oscurità e il dissenso fra gli interpreti. Lo Schneider traduceva: Wie aber zu steuern sei, es mbògen nun einige wollen oder nicht, davon glauben sie nicht dass es eine Kunst und Uebung gebe, mit der man dann eben die Steuermannkunst habe ,. E molti in complesso consentono con lui, fino all’Adam che lo difende strenuamente. Notevolmente diversa è invece la interpreta- zione di Campbell-Jowett che sostanzialmente risale all’Ast: But to get the helm into one's hand, with or without consent, is an art and study which they imagine to be ir- reconciliable with the acquisition of the science of navi- gation ,. Altre sono varianti o di questa o di quella. Ma la prima ammette di necessità una differenza tra la τέχνη di governare la nave e la χυβερνητική (how to stear e the art of steering) che io non arrivo affatto ad intendere; e la se- conda pure urta contro difficoltà non certo minori, innanzi tutto quella d'ammettere che cotesto arraffare il comando sia una τέχνη. Nonchè diverse pertanto queste due interpre- tazioni sono opposte fra di loro e contengono un concetto stranamente esagerato. Se infatti è assurdo chiamare arte ciò che è rappresentato come la negazione di ogni arte, non meno strano è negare che di una cosa qualsiasi non solo non dia una réyv) ma neanche una μελέτῃ: è infatti conce- pibile che una cosa non possa apprendersi ma non che non possa studiarsi: anche il timoniere cattivo se non ha una τέχνη del timone, una μελέτη l’ha però ad ogni modo. Ora pare a me che qui il senso debba essere totalmente diverso.

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303

Che l’arte, secondo costoro, non sia insegnabile era stato notato in questo stesso periodo poche righe innanzi e qui non era il caso di ripeterlo: qui invece il senso porta ad insistere che l’arte essi non l’hanno, e che perciò condurranno la barca a perdizione. Perciò sebbene a me ripugni grande- mente l’alterare i testi, qui mi pare che l'emendamento si imponga: e con l’inserzione di qualche parola, che reputo sia andata perduta, il senso vien restituito facilmente. Leggerei pertanto: μήτε τέχνην τούτου μήτε μελέτην (ἔχοντες) (0, se piacesse meglio, μεμελετηκότες), οἰόμενοι δυνατὸν εἶναι λα- βεῖν ἅμα (τῇ κυβερνήσει) καὶ τὴν κυβερνητικήν. Alla fine di un periodo così lungo ed anacolutico è facilmente conce- pibile per il trascrittore una distrazione: forse non afferrando egli più il senso, può aver omesso τῇ κυβερνήσει credendolo una ripetizione di χυβερνήσει verbo della riga di sopra.

VI p. 508E: Τοῦτο τοίνυν τὸ τὴν ἀλήϑειαν παρέχον τοῖς γιγνωσκομένοις καὶ τῷ γιγνώσκοντε τὴν δύναμιν ἀποδιδὸν τὴν τοῦ ἀγαϑοῦ ἰδέαν φάϑι εἶναι, αἰτίαν δ᾽ ἐπιστήμης οὖσαν nai ἀληϑείας ὡς γιγνωσκομένης μὲν διανοοῦ.

Così il Burnet secondo la lezione paleograficamente più accreditata, salvo che pone un punto in alto dopo εἶναι, in- vece della virgola preferita dagli altri editori, e pone una virgola dopo ἀληϑείας, che in generale non si pone. Una variante data da qualche buon codice e accettata da parecchi editori è διὰ νοῦ invece di διανοοῦ. Questo luogo è la dispe- razione dei critici, e molti sono gli emendamenti proposti e le interpretazioni escogitate; ed io altra volta (1 Timeo, p. 68, n. 2) avevo con l’Adam (nell’ediz. del 1897) accettato quella del Van Heusde, che importa un emendamento ed una trasposizione: gpdd: εἶναι, ὡς γιγνωσκομένην μὲν διὰ νοῦ, αἰτίαν δ᾽ ἐπιστήμης οὖσαν καὶ ἀληϑείας. Ma VAdam stesso nell'edizione commentata (1907) abbandona questa so- luzione per le troppo gravi e non spiegabili alterazioni del testo ch’essa importa; ed a me ora pare che di rigettare

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304

questo emendamento ci sia una ragione anche più grave. L’Adam interpreta infatti: as being the cause of Knowledge and Truth, although it is itself known by means of Reason ,; ma se questa interpretazione è per stessa possibile, non è però quella che si presenta più spontanea al lettore; l'osservazione mi pare calzante.

Neanche però con la lezione adottata dall’Adam nell’edi- zione commentata, che è quella più comune, salvo γιγνωσκο- μένην per γιγνωσκομένης, mi pare che il senso corra; egli interpreta infatti: and being the cause of Knowledge and Truth, I would have you conceive of it as apprehended, n0 doubt, by Knowledge ,; dove le parole in corsivo sono un’ag- giunta dell’interprete. Or tanto nell’una quanto nell’altra interpretazione l’idea del bene è il soggetto logico così nella ‘prima quanto nella seconda parte del periodo: nella prima essa la verità alle cose conosciute e il modo di conoscerle al soggetto conoscente; nella seconda è essa stessa cono- sciuta. Ma in questa seconda parte mi pare non ci sia più esatta simmetria tra la figura e il figurato. Nel mondo sen- sibile il sole la luce che fa percepire ai sensi i colori, nel mondo intelligibile l’idea del bene è come una luce spi- rituale che fa conoscere all’intelletto la verità. I colori rap- presentano la realtà sensibile, la verità la realtà intelligibile : del fenomeno sensibile si era discorso, qui gli contrappone il fatto psichico. E la simmetria è esatta con la lezione διὰ voù senza punto aggiungere verun mutamento: Questa cosa pertanto che la verità alle cose conosciute e a chi la co- nosce le condizioni per conoscerla, dirai che la è l’idea del bene, e che (questa idea del bene) è causa di scienza e di verità in quanto (la verità) è conosciuta per mezzo dell’ in- telligenza ,: cioè, come nel mondo sensibile la luce del sole è causa che i colori siano percepiti dal senso, così nel mondo intelligibile la luce dell’idea del bene è causa che la verità sia appresa dall’intelligenza. Eran cioè i rapporti della verità con l’intelligenza quelli che dovevano essere notati in con- fronto di quelli della luce con la vista, perchè il paragone fosse compiuto. L'idea del bene, come è detto subito dopo, è un’altra cosa superiore alla stessa conoscenza e alla stessa

ΝΣ ἜΤΗ ΠΥ ΕΡΉΝ ΟΣ TO MAR ce pae ἀπὰς fieri ; ia OL No AL

305

verità, e perciò qui è fuor di luogo l’accenno al modo di conoscerla: γιγνωσκομένης dunque, riferito alla verità è cor- rettissimo e male suol cambiarsi in γιγνωσκομένην per rife- rirlo all'idea del bene. Ad alcuni, è vero, noja quel μέν senza corresponsione, ma alla peggio si potrebbe cancellarlo ritenendolo una dittografia; io però preferisco tenerlo: senza μέν infatti vorrebbe dire che la idea del bene è causa di verità in quanto la verità è conosciuta dall’intelligenza; col μέν vuol dire in quanto prima di tutto ecc., cioè intanto per questa ragione, e le altre si omettono perchè qui ora non ci concernono. Cfr. p. 510 D-E: καὶ τἄλλα οὕτως, αὐτὰ μὲν ταῦτα πλάττουσι xtÀ. Per tal modo la prima parte del periodo (τοῦτο- εἶναι) afferma che il bene è causa di ve- rità e di conoscenza; la seconda (aitiav-vod) dice in che modo ne è causa.

VII p. 525 B: πολεμικῷ μὲν γὰρ διὰ τὰς τάξεις ἀναγκαῖον μαϑεῖν ταῦτα, φιλοσόφῳ δὲ διὰ τὸ τῆς οὐσίας ἁπτέον εἶναι γενέσεως ἐξαναδύντι, μηδέποτε λογιστικῷ γενέσϑαι.

È questo un luogo frainteso da tutti gli interpreti che io conosco: lo spiegano infatti press’'a poco così: all’uomo di guerra infatti è necessario di imparare queste discipline , cioè l’aritmetica e la computisteria per via della tattica, e al filosofo per la necessità di attingere all'essere uscendo fuori del divenire , e fin qui siam perfettamente d’accordo, “o se no non potrebbe diventare mai neanche computista , ; e questo non va. Non va, e tutti se ne accorgono, e cercano rimediare sia intendendo ‘un vero computista ’, sia sosti- tuendo tacitamente ‘un vero e perfetto filosofo ’, e giù di lì, o ammettendo un’inesattezza d’espressione. Certo è che a intendere così mal si evita l’assurdo: dire che il filosofo deve imparare la computisteria se no non diverrà mai un compu- tista, è dire una sciocchezza. Eppure il senso vero a me pare evidentissimo: al filosofo conviene di studiare l’aritmetica e la computisteria allo scopo di alzarsi per mezzo di esse alla

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 20

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contemplazione dell’essere, altrimenti, se non è per questo scopo, non vale la pena che diventi computista. Οὐ una specie di zeugma modestissimo: ἀναγκαῖον nella prima parte è ap- propriato perchè, dato quello scopo, tale apprendimento è necessario; nella seconda basterebbe soltanto λυσιτελοῦν. Per il senso basti ricordare che sopra a p. 523 A è detto che la scienza dei numeri è di quelle che guidano alla conoscenza dell'essere, ma che nessuno la adopera a questo scopo: e qui pure dopo poche linee è escluso l’uso volgare della scienza dei numeri, quello dei mercatanti e dei bottegai: ora è na- turale che se la scienza dei numeri avesse da condurre i filosofi a cotali occupazioni sarebbe meglio per loro non pos- sederla. Questa riserva è continuamente ripetuta: era perciò naturale ed opportuno che fosse notata fino da principio.

VII p. 529 C-D: ταῦτα μὲν ἐν τῷ οὐρανῷ ποικίλματα, ἐπείπερ ἐν δρατῷ πεποίκιλται, κάλλιστα μὲν ἡγεῖσϑαι καὶ ἀκριβέστατα τῶν τοιούτων ἔχειν, τῶν δὲ ἀληϑινῶν πολὺ ἐνδεῖν, ἃς τὸ ὃν τάχος καὶ οὖσα βραδυτὴς ἐν τῷ ἀληϑινῷ ἀριϑμῷ καὶ. πᾶσι τοῖς ἀληϑέσι σχήμασι φοράς te πρὸς ἄλ- ληλα φέρεται καὶ τὰ ἐνόντα φέρει.

Da un testo fatto io non so cavare i piedi. Il punto difficile è il relativo ἅς, che i più autorevoli interpreti (Stallbaum, Schneider, Schleiermacher, Campbell-Jowett, Adam e altri ancora) collegano a φοράς, intendendo alcuni che ad ἀληϑινῶν che precede vada sottinteso φορῶν contro ogni possibilità di sintassi: ὠληϑινῶν non può riferirsi che a ποικιλμάτων. E questo l’Adam ben lo vide: se per altro leviamo questo puntello, anche più impossibile diventa le- gare ὥς a φοράς. La sintassi platonica è sintassi parlata; e perciò molte volte la ci pare difficile, perchè nel leggere non poniamo i respiri al posto loro, non sottolineiamo le parole come si deve; ma qui non c’è sottolineazione che torni. Sia che si spieghi ἃς... φοράς per κατὰ τὰς φοράς (Schleier- macher), sia che si spieghi τῶν ἀληϑινῶν ποικιλμάτων,

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307

τοῦτ᾽ ἔστι τῶν φορῶν ἃς xtÀ. è sempre un far dire ciò che il testo non dice. Quell’ és insomma non ha precedenti pos- sibili, non lega col resto del periodo. Quindi gli emenda- menti (a prescindere da due codici inferiori citati dallo Stallbaum, che hanno uno e l’altro &); e alcuno dei pro- posti sono per buoni, ma in generale troppo drastici. Uno dei migliori è quello dell’Ast ὧν τὸ ὃν τάχος καὶ οὖσα βραδύτης (sottintendendo evidentemente ἐστί) καὶ ἐν κτλ. Il Richards (citato da Adam) lo segue, sostituendo però οἷς ad ὧν. Ora io accetto οἷς ma lascio intatto il resto, e spiego: rispetto ai quali (ornamenti veri) la vera velocità e la vera lentezza nel numero vero e in tutte le vere forme sono rispettivamente trasportate nei loro movimenti e tras- portano ciò che hanno con ,. Se poi non mi ripugnasse alterare i testi oltre lo stretto necessario, proporrei pure di mutare φοράς in φοραῖς per concordarlo con σχήμασι.

G. FRACCAROLI.

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LE FINTE ORAZIONI DI PLINIO

Una lettera umanistica di un supposto Leonardo Aretino a un Lorenzo (1) annunzia la scoperta di venti orazioni di Plinio e di una di Svetorio. Dapprima io congetturai un omonimo del Bruni, ma poi mi persuasi che erano inventati e l’autore e la lettera. Si tratta insomma di una lettera finta, composta per esercizio retorico ; solo rimaneva il dubbio se nella finzione avesse avuto parte anche il proposito della frode. Ora tale proposito dev'essere escluso, dopo trovata la fonte della lettera, la quale è ricalcata su una lettera vera di Gasparino Barzizza. E a dimostrazione di quello che asse- risco, pongo qui a riscontro i due documenti. La lettera del Barzizza, diretta a Daniele Vitturi, è compresa nella raccolta data in luce dal Furietto, Romae MDCCXXIII, I 206 (= F); ma io ne correggo il testo con l’aiuto del codice Ambrosiano P'iisup.£. 8 (A)

ps. LeonARDO ARETINO. Gasparino Barzizza.

Habui clarissimas orationes Se- Habui clarissimas orationes M. cundi Plinii numero viginti, unam Tullii numero XXI prestantis viri prestantissimi viri Suetonii Tran- domini (2) Antonii Lusci; emi pre- quilli. Festino tam ad earum co- terea VII, non tamen diversas (8)... piam quam ad lecturam; iam totus Festino tam ad earum copiam quam ardeo in eo studio, nunquam mihi ad lecturam (4); iam totus ardeo

(1) Fu ripubblicata da me: Storia e critica di testi latini, Catania, 1914, 373-74.

(2) domini om. F.

(3) divisas A.

(4) ad eas excribendas quam ad legendas 7 (questa è correzione sti- listica dell’editore).

AI PITTOR] PROT τ τ Seni γα Se εἴν τ ἐσντοτοτν τ τα ποτ eee

ἔν ἐν πε τ τον I e e n N nn e e nn nigi

γ᾿

A i Der La Ὡς Fa ᾿ Ate

309

ps. LeonARDO ARETINO.

fuit ita fervens animus. Magnum aliquem spero inde fructum elicere, qui si aliis futurus sit, nescio. Illud etiam confido quod si tu absens et Sempronius noster eritis presentes, mecum non mediocrem percipietis utilitatem.

GasparINO BARZIZZA.

in eo (1) studio, nunquam fuit mihi ita fervens (2) animus. Magnum aliquem spero inde (3) fructum eli- cere, qui si aliis futurus sit (4), nescio. Ilud certe confido quod tu absens et Andreas noster presens mecum (5) non mediocrem perci-

pietis (6) utilitatem.

La lettera del Barzizza offre argomento a qualche consi- derazione sulla forma e sulla sostanza. Quanto alla forma, è da osservare che la lezione del Furietto è consapevolmente interpolata allo scopo di rendere più elegante la frase ; e ne abbiamo la riprova nella lettera finta, la quale conferma la lezione manoscritta del testo Barzizziano ; donde la necessità di provvedere a un'edizione critica dell’Epistolario del Bar- zizza. Quanto alla sostanza, va rilevata la silloge delle 21 ora- zioni ciceroniane possedute dal Loschi: una silloge ben de- terminata, venutasi formando tra la fine del sec. XIV e il principio del XV. Essa comprendeva : le tre Cesariane p. Mar- cello, p. Ligario, p. Deiotaro, le due post reditum ad Quirites, ad Senatum, la de domo, de haruspicum responso, p. lege Ma- nilia, p. Cluentio, p. Milone, p. Plancio, p. Sulla, p. Caelio, p. Balbo, p. Sestio, p. Archia, p. Quinctio, p. Flacco, in Va- tinium, de provinciis consularibus. Queste sommano a venti; aggiunga la spuria pridie quam iret in erilium; e avremo le ventuna. Erano le orazioni comunemente note avanti le scoperte del Montreuil in Francia e di Poggio in Germania. Si conoscevano anche i tre corpi delle Catilinarie, delle Fi- lippiche e delle Verrine, ma erano meno divulgate.

(1) in eo] illarum 7.

(2) mihi ita fuit fervens F.

(3) inde] in te A.

(4) satis sit adiumento corr. in futurus sim adiumento A, profuturus sit F.

(5) presens meum corr. in presente me A.

(6) percipiemus AF, corr. in percipietis A.

310

Ritornando allo ps. Leonardo Aretino, egli ha, come ognun vede, trascritto il testo Barzizziano, cambiando solamente i nomi degli autori; cosicchè in luogo di Plinio e Svetonio, sarebbe stato per lui indifferente mettere Tacito e Quinti- liano o altri ancora. Perciò nessuna intenzione di frode.

Di queste finzioni e di questi plagi commessi alle sue spese il Barzizza del resto non avrebbe potuto ragionevolmente dolersi, perchè li provocò egli stesso con la composizione di un Epistolario finto, quello che porta il titolo Epistolae ad exercitationem accommodatae, stampato parimenti dal Furietto, I 220.

E come l'ignoto umanista sotto le spoglie del Bruni plagiò una lettera del Barzizza, così un altro sotto il nome del Barzizza falsificò una lettera, fingendola indirizzata a Poggio. La lettera e la presunta risposta di Poggio furono pubblicate recentissimamente da E. Walser nel suo libro Poggius Flo-

rentinus, Leben und Werke (Teubner 1914, p. 490-92) : un

libro fondamentale, denso di fatti, di giudizi e di documenti, che io raccomando vivamente ai cultori dell’umanismo.

Ma il Walser πὸ il Bertalot, che gli trascrisse le due lettere, si accorsero della falsificazione. Bastava notare che lo stile di entrambe è identico, laddove lo stile del Barzizza si differenzia molto da quello di Poggio; senza dire quanto il falsificatore sia lontano dalla precisione e dall’eleganza dei due, dei quali assunse la maschera. Mi contenterò di recare il principio dell’epistola del Barzizza : Tibi deditus Gaspa- rinus tuique amantissimus te pridem egrotantem intellexit, admodum doluit et suam autumabat infirmitatem; cum te sanitati repotiri accepit, magno fusus est gaudio ,. Invece di pridem forse voleva dire ut primum e invece di fusus, perfusus; coniò il composto repotirîi e lo congiunse con sanitati, seppure non dobbiamo imputare al copista lo scambio con sanitate sanitatis. Ecco altri saggi di grossolanità sintattiche : cum semper timebis ne alterius nerbus (viridus il cod.) tuum èîm- pleret officium ; ita ut... facultas non habdeditur; quid facere debes te non fugit; accelerabit ut de domo te celerius effer- rent (efferent il cod.) ecc. ,. Le medesime grossolanità ricorrono nella lettera di Poggio: “sincere a te dictum fore (= esse)

911

mon ambigo ; ego iam tibi iungar ita quod nullus delatorum rumor me a te disiunget; gratias Christo fero quod habeam qui me moriente dolet sanumque videre optat; quid enim est iocundius quam habere quem te moriente relinquas, qui de te frequenter facit mentionem, famam ἐμ defendet ; adhibenda est animi adversio ne impudicam duceres , ecc. ; oltre a due sgraziati neologismi : his ante oculos situatis, e fetiditatem (una contaminazione di foetidus e foeditas).

Le due lettere prendono a tema un luogo comune : il ma- trimonio, l’una mettendone in rilievo gli svantaggi, l’altra i vantaggi. Nella lettera del Barzizza leggiamo il seguente passo, così malmenato nel manoscritto : Noverunt hi quod tristia docuerunt experimenta. Ego quidem hoc onere nun- quan ledebar, sed ex simili cursu fore si considero quam tenus martialis lecti testatur poeta egregius : semper habet lites alternaque iurgia lectus in quo nupta iacet, minime dormitur in illo’, (Iuvenal. VI 268-9), che io tento di rac- conciare alla meglio: Noverunt hi quos tristia docuerunt experimenta. Ego quidem hoc onere nunquam ledebar, sed ex simili censeo fore si considero quantum onus maritalis lecti testatur poeta egregius ,. Dal passo deduciamo che lo scrivente era scapolo, mentre il Barzizza fu ammogliato e padre di parecchi figlioli. Fino a tal punto giungeva la gof- faggine di quel falsificatore, che non si curò nemmeno di procacciarsi le più elementari notizie sulle persone che egli propose di scimmiottare.

REMIGIO SABBADINI.

n \ ᾿ NO : v ste Ù LA , ζ N ate i LR TS I tab bada Reit re

312 --

PAPIRO ERCOLANESE 1457

(OSSERVAZIONI CRITICHE)

Nell'ultimo numero di questa Rivista, dopo aver reso cento del Tomo I che inizia la Collectio Tertia dei Papiri Ercolanesi, proponevo in nota alcune integrazioni al testo del pap. 1457, edito da Domenico Bassi. Riconfermando qui la mia ammirazione per

. l’opera eccellente, la quale, come notavo, con l’abbondanza e l’e- sattezza delle note paleografiche rende possibile ora per la prima volta, dopo oltre un secolo e mezzo da che i papiri furono scoperti e divennero oggetto di studio un lavoro proficuo sul testo che quei malconci cimeli ci hanno conservato, aggiungo alle proposte le considerazioni che mi hanno portato a formularle.

Del framm. 11 il Bassi la seguente edizione:

LL Curo[it π]αρρησι- SA C... AEI. O. οὐδὲν d SO νον ITEC ὑπο mio cel 9Ε-- OF NINEINTEI ara | In[p]òg αὐτὴν EKKE 5 IR o oid[a] καὶ ὕπο SIA ΠῈΣ THC δοκουν- isa I...0 τῶ[ν] θεῶν

FRASE olùk dveyov

313

Il frammento è di quattordici linee: ho riportato solo le prime nove, tralasciando le ultime cinque dalle quali non mi pare che si possa ricavar più di quello che ne ha ricavato il Bassi.

Mi sembra che poichè ITEC di 1. 3 fa pensare con ogni pro- babilità a ...vteg finale di participio e poichè il C conservatoci dal disegno a 1. 2 può benissimo essere stato O (chi ha pratica di papiri sa quanto spesso un simile scambio sia possibile ed abbia realmente luogo nei disegni dell’Officina) si possa conget- turare π]αρρησι[ αζόμενοι. Se difficile è integrare la lacuna che si estende a quasi tutta la 1. 3 è possibile ricostruire l'andamento generale del periodo, supponendo qui, come spesso altrove in Fi- lodemo, una filza di participi, credo arbitrario pensare a un [καὶ] il posto c’è e il καὶ vi si adatta a meraviglia prima di AE€I.0., cioè, secondo l’accettabile congettura del Bassi ei] v ]6[ v nella 1. 2. Naturalmente δεινὸν οὐδέν sarebbe oggetto del par- ticipio terminante in ...vteg.

Che poi qui tratti di coloro che parlano liberamente, opposti, com'è naturale, ai κόλακες, oltre che παρρησιαζόμενοι fa supporre anche EITTEI a fine di 1. 4, che io non dubiterei a leggere eimeî[v, mettendolo a riscontro con IIOE, conservatoci dal disegno e che può essere integrato ἀλίηθε ; difficile è dire se ἀληθε deve com- piersi ἀληθές 0 ἀλήθειαν : e neanche è da escludersi ἀληθείαι (ἀληθείᾳ ; seguo la grafia dei P. E. per il computo degli spazi), che potrebbe risolvere quel groviglio di segni che d. ci conserva avanti al N, tuttora leggibile precedente EITTEI, facendo supporre συνειπεῖν. È inutile avvertire che in questo caso si dovrebbe legger C lO del disegno; ἀληθείᾳ συνειπεῖν nel senso di « par- lare in favore della libertà », sebbene non segnato dai lessici, si può ammettere senza soverchio sforzo.

Quanto a οἶδ α, integrazione di OIA proposta dal Bassi, mi pare sia preferibile oi dè, che ci permetterebbe d’integrare dokouy con δοκοῦν[ται 0 δοκοῦν[τες e forse dvexov con ἀνέχον[ τες, senza sembrare audaci, almeno a chi conosca l’uso eccessivo di periodi con soggetto indeterminato di terza pers. plur. (ἔνιοι, τινὲς, οἵτινες, Οἱ con un partie., ecc.) nello stile monotono e scialbo di Filodemo. Del resto da OIA in poi ritengo impossibile cavare un qualsiasi senso concreto, che ci guidi nella ricostruzione dei particolari.

tO

dati "ἃ PRI ᾿ κ᾽ Σὰ 1 de Fi gi ἀρ εν PETS νι Ψ ᾿ y Dea tali k udenti es x Ia er rta VI ere EM OT ἘΝ δ νι i ἐών" ì ne È) VI LA ἫΝ τς με ci 4 i LI x i

314 i IVA Del framm. 12 riporto le Il. 4-8, togliendole, naturalmente, dal- l’edizione del Bassi. | “A

πλὴν τῶν Ko[Aax....... 4 μηδὲ πλού[τ]ον OPEN... 5 PEI(C)..PO...POYNT.... 6 καὶ ὑφ᾽ ὧν διδί ασ ἱκόμενοι Τ

8

φυλάτί τοντ]α[ι οὔτ AMEN

Propongo di leggere a 1]. 6 π]ρο[ αι]ροῦντ[ αι. Ne verrebbe fuori un po’ di senso; si potrebbe cioè supporre che anche qui, come nel framm. 11, si parlasse di quelli che Filodemo contrappone ai κόλακες e che, per conseguenza, «non preferiscono il da- naro a...»; a che cosa? Delle tre costruzioni di προαιροῦμαι, ἀντί τινος, πρό τινος, τινὸς, qui non si può pensare che all'ultima; si può cioè ritenere che fra πλοῦτον e προαιροῦνται dovesse es- A serci un genitivo. Il papiro ci dà, dopo πλοῦτον, DPE seguito da un resto di lettera, la forma del quale e anche ψυχ che legge a 1. 1 ci inducono a vedere nella lettera rotta un N. Leg- giamo dunque @pe(v).... Ora se si debba pensare a ppev[ 6c] ac- compagnato da un aggettivo o da un participio (passivo ?), oppure al genitivo di una parola, incognita ma non impossibile, composta con @pev, difficile è a dirsi. Ma nulla vieta di pensare che qui si tratti di uomini che preferiscono possedere un animo schietto ai vantaggi materiali, che procura l’adulazione. Il framm. 12 sa- È rebbe per conseguenza in stretta relazione col framm. 11. 4

Framm. 16, 1]. 8-9 e 1. 13. Bassi: .. .. ΟἹ δίκαια πἰ| ρ]οσφέρο- 8 μεν [ὡς 3] κ[α]ὶ τῶν ἔξω τῆς συν- 9

© ?]epomévoug 13

RS faz sic) 3 A Lina REESE Bo LIRA IA TE A ine e τς ΟΝ

Lia

Ho accennato sopra all’abitudine di Filodemo di usare con ec- cessiva larghezza di participi con un articolo e di valersene per indicare genericamente individui che abbiano gli stessi requisiti morali. Credo perciò molto probabile che mpoogepopev sia piut- tosto un avanzo di participio (προσφερομέν[ ὧν , [ovg 3) che non una prima pers. plur. Tre ragioni mi spingono a legger così: prima, l’abitudine di Filodemo; seconda, il probabile senso della locuzione, cioè «comportarsi non rettamente» che ri- chiede il medio e non l’attivo ; terzo, la forma epopévoug a 1. 13 che il Bassi integra @?]epopévoug e che integrerei piuttosto προσῷφ [ερομένους.

Framm. 3, ll. 31-37. Bassi:

oi fo | ra ON δ᾽ ἐπιχειρεῖν τῶν μὲν ὑπερέχειν τῶν δὲ Ἰττᾶσθαι, τοὺς δ᾽ ὑφ᾽ αὑτὸν ἔχε[|ν καὶ τὸν μὲν οὐκ E(C) IRSA] οὐχ ὑποφέρειν 35 SPARE Ὁ]αρ᾽ ἀτιμίαν, τὸν δὲ μὴ

πόσα ΚΑ τ": ΜΕΝΑ...

Le parole rimaste facevano probabilmente parte di un periodo unico ; quale ne fosse il senso non si può assolutamente ricavare, ma ricostruirne l'andamento è, entro certi limiti, possibile. A_me pare che dei quattro infiniti ἐπιχειρεῖν, ὑπερέχειν, ἡἥττᾶσθαι, ἔχειν gli ultimi tre siano subordinati al primo; anzi non so ve- dere una costruzione diversa ; tradurrei : ilum vero id suscipere ut alios superet, alios vincat, alios sub se habeat; e il periodo

molto probabilmente era costruito così: [τὸν μὲν]... [infinito], τ]ὸν δ᾽ ἐπιχειρεῖν κτλ. καὶ τὸν puèv..... οὐχ ὑποφέρειν... . τὸν δ LASA [infinito]. Forse EIN conservatoci in d 1.39 è la

finale di questo infinito che per mancanza di elementi non pos-

ΩΝ δὴ dn Lei ᾿Ξ ΔῈ νὰ di ὡς ᾿ e. ᾿ ASA, DI pron gi ΐ ° 3 Y 4 x Mia CI, 9 "o e Qu o Ù È ἣν το i a) siamo indovinare. Ciò posto, non mi sembra probabile che dopo $ τ τὸν δὲ μὴ possa esserci un nominativo come πᾶσα, e d’altra parte

ritengo che maca debba essere messo in relazione con μενα e si tratti quindi di πάσαις, μένα[ις 0 di πάσας, péva|g; ma, dato come si presenta la proposizione, il nominativo mi sembra sia da escludere. Propongo dunque :

15931 τ]ὸν δ᾽ si 97 πάσαις ? .... ένα τς

Firenze, dicembre 4914.

Ugo Enrico PAOLI.

REFERER ALICI ESTRATTI EI RT AIRONE CITI POETA IAA IN RUI COVE BRIAN II E IO RI, CARRI e OI

ἣν

317 --

DE QUODAM LOCO

IN CULICE , PROBABILITER RESTITUTO

v.109 Ut procul asperit luco residere virenti, Delia diva, tuo quo quondam victa furore venit Nyctelium fugiens Cadmeis Agave, infandas scelerata manus et caede cruenta quae gelidis bacchata iugis requievit in antro posterius poenam nati de morte datura hic etiam viridi ludentes Panes in herba

. .

v. 154 at circa passim fessae cubuere capellae excelsis subter dumis, quos leniter adflans aura susurrantis poscit eonfundere venti

v.157 pastor ut ad fontem densa requievit in umbra, mitem concepit proiectus membra soporem, anxius insidiis nullis, sed lentus in herbis securo pressos somno mandaverat artus.

Qui Culicem , noverit meminerit profecto, his versibus, quos attulimus, lectis, qua ratione virentis luci , descri- ptionem poéta cum ceteris carminis partibus coniungat. Pastor, qui multo mane e stabulis gregem suum propulit, cum ad summum montis verticem pervenerit, in umbras meridiano sole maxime saeviente pecudes suas cogere et ipse lentus in herbis , ad fontem requiescere instituit. Hic autem quietis locus Dianae sacer lucus est, in quo Agave post nefandam Penthei filii caedem paulisper requievit posterius poenam nati de morte datura ,. Ibidem pastor et itinere et ardore fessus dulcem capit corde quietem. Quae quidem omnia poéta

318

non simpliciter adumbrat, sed longo sermone, multis doctrinae ornamentis, a fabulis maxime petitis, alexandrinorum poé- tarum more, superadditis, venustate quadam et lepore tam- quam illita accuratissime enarrat.

Nam ad v. 108 a pastore pecudes in umbras cogi narrat poéta: redit autem ad pastorem cubantem ad v. 157 mox de placida eiusdem pastoris quiete, de serpentis insidiis, de culicis auxilio, de pastoris exsuscitatione, denique de draconis caede dicturus. Itaque duodequinquaginta versus, quos poéta inter v. 108 et v. 157 (quos modo memoravi) interposuit, continent accuratam eruditamque luci descriptionem.

Quod quidem non est mirum, poetam videlicet Culicis rerum ordine, amoena deverticula quaerentem, plus iusto declinavisse : sed non est item credendum eundem poétam eo ineptiae per- venisse, ut verborum ambitum nee recte circumscriberet neque concluderet.

Legimus enim ad v. 109 ut procul aspexit etc... ,, ubi coniunctio illa μέ in verborum continuationem protasin inducit sua apodosi carentem; nisi quis forte putet apodosin non ante v. 158 redire ,, duodequinquaginta versibus inter pro- tasin et apodosin interpositis! Quam Ellisii sententiam (“ Ap- pendix Vergiliana , Oxonii MCMVII) secutus est Fridericus Vollmerus (“Appendix Vergiliana ,, Lipsiae MCMX). At mihi nunquam persuaderi potuit, post longam eruditam non ineptam luci descriptionem, quam quidem poéta attente legi et laudari a lectore vellet, ita continuatam esse ab eodem poéta narra- tionem ante quinquaginta fere versus inchoatam, ut descriptio

illa velut in parenthesi conclusa videretur. Accurata enim luci

descriptio primam carminis partem plane et evidenter con- cludit, post quam (vv. 157 sgg.) longe alia pars incipit, vera scilicet Culicis carminis narratio, qualem Donatus gramma- ticus in notissima illa Vergilii vita adumbravit : Pastor fa- tigatus aestu cum sub arbore condormisset et serpens ad illum proreperet e palude, culex provolavit atque inter duo tempora aculeum fixit pastori. At ille continuo culicem at- trivit et serpentem interemit ac sepulchrum culici statuit et distichon fecit: parve culex, etc... , (ed. Reifferscheid).

Cur igitur censeam Culicis auctorem tam inepte rerum

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: bi Bi # È i ΜῊ li i

bi È ΞΟ ata εἰ n enne DN Fin n rn tan fan ee er

verborumque ordinem et ipsius carminis concinnitatem su- stulisse ?

Tantum autem abest ut vulgo credatur verba illa uz procul aspezit... (109) , arte esse coniungenda cum verbis tam longe sequentibus ut pastor requievit ,, ut plerique, iique optimi, Culicis studiosi (exceptis Leone, Ellisio, Vollmero, qui quidem ad hunc locum animadvertit: pro apodosi aliter pergit v. 158 ,), proposuerint pro ut quasdam alias particulas : et, at, haut. Sed et haec parum feliciter excogitata sunt.

Coniunctionem illam vt legimus in optimis libris, qui, ut Ellisius admonet (p. xvi), archetypon fidelissime tradiderunt, ut interpolationis nulla subsit suspicio ,. Huius igitur loci corruptio, meo quidem iudicio, iam inde ab archetypo fluxit. Quam sic explicandam puto: cum archetypi scriba in exem- plari suo, vel ignorantia vel errore, legisset (v. 109) asperit pro aspexti, in eiusdem versus initio, stulta corrigendi libi- dine arreptus, ut pro tu correxit, scilicet ne verborum, se- cundum grammaticorum praecepta, convenientia desideraretur. At non animadvertit scriba totam sic verborum continuationem sua conclusione carere.

Puto igitur sic esse locum, de quo disseruimus, emendandum ad veram lectionem restituendam :

v.109 Tu procul aspexti luco residere virenti, Delia diva, tuo, quo quondam victa furore venit Nyctelium fugiens Cadmeis Agave, infandas scelerata manus et caede cruenta ; quae gelidis bacchata iugis requievit in antro posterius poenam nati de morte datura.

Aspexti pro asperisti poéta scripsit (cfr. App. Vergil. Dirae. v. 41: non iterum dices, crebro tua Lydia , dixti ,).

Hanc, quam proponimus, correctionem mire huius loci cum sententiae tum verbis convenire non est qui non videat, nulia praesertim littera mutata, nulla item adiuncta.

Quod si ad Leonis, Ellisii, Vollmeri sententiam accede- remus, ita nobis tota loci sententia esset explicanda: Ut

angie

pastor aspexit procul pecudes residere luco virenti tuo, Delia diva, ..... requievit ..... et concepit soporem ,. Nonne mirum est pastorem non ante requiescere, quam procul quiescentem gregem viderit ? ͵

At contra oratio omnis, si quis, ut nos monemus, versum 109 legat, ad opinionem communem accommodatur: Tu, Delia diva, procul (= procul stans, scil. in caelo vel in aliquo ipsius luci recessu) aspexisti pastorem et pecudes residere in tuo virenti luco etc... ,.

Cavendum est quidem nobis, praesertim in Culice olim coniecturis fere sepulto (quem recte ad novam quasi lucem Leo excitavit: Culex, Berolini 1891), ne corrigendi libidine capiamur; sed cum duarum tantum litterarum translatione huic corrupto loco optima medela afferri possit, mihi quidem fore ut viris doctis ea, quae proposui, probentur sperare posse videor.

Hector DEMARCHI.

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e pl ict

OSSERVAZIONI

SUI CAPITOLI 45-53 DEL LIBRO II DI ZOSIMO

E SULLA LORO PROBABILE FONTE

Alla morte di Costantino, avvenuta il 22 maggio 337, seguì la strage di quasi tutta la famiglia imperiale. I tre figli del grande imperatore raccolsero tra il sangue dei loro parenti la vasta e pesante eredità pa- terna e, nel 338, si divisero tutto il territorio dell’impero. Però il tra-

‘gico destino della famiglia Flavia non cessò di perseguitare i successori

del fondatore di Costantinopoli.

Il maggiore dei figli, Costantino II, tre anni dopo la morte del padre, mentre muoveva guerra al fratello Costante, cadeva vittima di un’im- boscata tesagli dai generali di questo. I fratelli superstiti, Costanzo e Costante, governarono per dieci anni l’impero, il primo nelle regioni orientali, l’altro in Occidente. Ma nel 350 un generale franco, Magnenzio, ordì una congiura contro Costante, congiura che ebbe per effetto l’ac- clamazione di Magnenzio a imperatore e la soppressione violenta del figlio terzogenito di Costantino. L’usurpatore fu riconosciuto in quasi tutte le provincie occidentali: in Gallia, in Spagna, in Italia, in Africa. L’effimera tirannia di Nepoziano, nipote di Costantino, a Roma, fu ben presto soffocata nel sangue. Solo in Pannonia le truppe non vollero sottomettersi al nuovo sovrano e proclamarono Augusto Vetranione, loro generale, uomo già avanti negli anni e piuttosto ignorante (1° marzo 350) (1).

La notizia di questi gravi avvenimenti giunse a Costanzo, rimasto ormai solo sovrano legittimo dell'impero, al principio della primavera del 350, mentre si trovava ad Antiochia, sua residenza abituale. Prima

(1) Aurelio Vittore, Liber de Caesaribus, 41, 26: Vetranio, litterarum

prorsus expers et ingenio stolidior idcircoque agresti vecordia pes- 6 COLO 1 PP

Rivista di filologia, ecc., XLIII. ; 21

Lr ον τὸ

di iniziare una spedizione contro gli usurpatori dovette provvedere alla difesa delle provincie orientali dai frequenti attacchi dei Persiani.

Soltanto al principio dell’autunno si mosse verso l’Occidente e, con un esercito, per l'Asia Minore e la Tracia, penetrò in Pannonia. Il vecchio Vetranione, invece di resistere al legittimo imperatore, accettò di venire ad un abboccamento, al quale assistettero gli eserciti schie- rati. Costanzo ebbe per primo la parola e, con un abilissimo discorso, eccitò a tal punto le truppe che queste ad una sola voce lo salutarono come solo Augusto. Vetranione fu costretto a gettarsi ai piedi di Co- stanzo, implorandone la grazia, che gli venne concessa. Sbarazzatosi così del primo rivale, e senza colpo ferire (6 gennaio 351) (1), Costanzo si rivolse contro il secondo. Ma ormai la stagione era troppo avanzata per permettere lo svolgimento delle operazioni militari: l’imperatore decise dunque di svernare a Naisso, dove era avvenuta la deposizione di Vetranione e nel frattempo nominò Cesare il cugino Gallo e gli af- fidò la difesa del confine orientale (15 marzo 351).

Questi avvenimenti, che, per la chiarezza dell’esposizione, ho creduto necessario di riassumere brevemente prima di entrare nel vivo della questione, si trovano registrati in tutte o in quasi tutte le fonti sto- riche di questo periodo.

Invece, degli avvenimenti, che intercedono tra l’elezione di Gallo a Cesare e la battaglia di Mursa (15 marzo-28 settembre 351), non fa menzione che Zosimo nei capitoli che formano l’argomento di questo mio studio.

Neppure Giuliano, dal quale, in altri casi, attraverso le molte ampli- ficazioni retoriche, le continue digressioni e le oscurità spesso volute, attingiamo utili informazioni, ci fornisce notizie in proposito. Zosimo invece dedica alla storia delle trattative corse tra Costanzo e Magnenzio e ai fatti d'arme precedenti la battaglia di Mursa ben cinque capitoli (II, 45-49) e scende spesso in minuti particolari.

La prima domanda che ci si presenta è se questo racconto di Zosimo offra serie garanzie di attendibilità. Come ho detto, termini di raffronto non ne abbiamo, se si eccettui la parte di capitolo nella quale Zonara, il tardo epitomatore bizantino, espone, in forma molto più compendiosa e solo parzialmente, gli stessi avvenimenti.

Che le altre fonti tacciano completamente di quanto avvenne in questi mesi e passino subito dall’elezione di Gallo alla battaglia di Mursa, non ci può in alcun modo stupire.

(1) Aur. Vitt., Caes., 42, 3: Quod fere vix aut multo sanguine obti- nendum erat eloquentia patravit ,. ;

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CEI E ROSARIA

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Gli storici, l’opera dei quali ci rimane anche per questo periodo, si accontentano per lo più di darci notizia dei fatti più essenziali; è naturale, ad esempio, che in epitomatori, quali Eutropio, Aurelio Vittore, Paolo Orosio, manchi ogni accenno delle ambasciate di Co-

stanzo a Magnenzio e di Magnenzio a Costanzo, dei fatti d’arme che

precedettero la battaglia di Mursa e che ebbero, di fronte a questa, un'importanza molto relativa. Naturale anche il silenzio di Giuliano : nei suoi panegirici egli non intende certamente di fare opera di sto- rico, ma vuole semplicemente registrare tutti quei fatti che potevano, per un lato o per un altro, tornare a lode di Costanzo. Ora le tratta- tive, di cui parla Zosimo, come vedremo, non fanno certamente onore all'Imperatore e i fatti d’arme furono, almeno in parte, decisi in- successi.

Non è dunque con argumenta e silentio , che possiamo demolire la narrazione di Zosimo. Ma non possiamo neppure, per la sola ragione che essa è in gran parte unica, accettarla “sic et simpliciter , e rinun- ziare ad ogni diritto di critica: anzi dovremo procedere molto cauti, vagliar bene ogni particolare, far rilevare ogni illogicità e ogni incon- gruenza. ,

Il racconto di Zosimo comincia con un passo manifestamente alte- rato. Dopo aver narrato l’elezione a Cesare di Gallo e quella, simul- tanea, di Decenzio, al quale il fratello Magnenzio affidò la difesa della Gallia, lo storico prosegue: τῶν στρατοπέδων ἐν Haroviars συνδρα- μόντων καὶ περὶ Μοῦρσαν πόλιν ἀλλήλων ἐγγὺς γενομένων, ἔν τοῖς περὶ τὰ “Adoava τέμπεσι καϑίσας Μαγνέντιος ..... (1). Ora, siccome del- l’arrivo di Magnenzio a Mursa e della battaglia finale, Zosimo parla in seguito (2) e siccome il seguito del racconto, come vedremo, riporta Magnenzio in regioni da Mursa molto distanti, sono indotto a ritenere, d'accordo col più autorevole editore di Zosimo, il Mendelssohn, che le parole ἐν Παιονίαις συνδραμόντων καὶ περὶ Μοῦρσαν πόλιν e fors'anche tutta la frase fino ἔν τοῖς περὶ τὰ "Adoava τέμπεσι siano una redu- plicazione lasciata malaccortamente sussistere da Zosimo nel suo testo. È probabile che Zosimo volesse dapprima procedere più per le spiccie col suo racconto e, come tutti gli altri storici, passare senz'altro dalla elezione dei Cesari alla battaglia di Mursa; che poi sia deciso ad am- pliare la narrazione, secondo una fonte più estesa, ma che abbia male eseguita l'inserzione. Non tengo conto quindi del principio del racconto zosimeo.

(1) Zosimo, If, 45, 3. (2) II, 49, 3 seg.

SFIATO

Subito dopo lo storico ci narra come Magnenzio, presumibilmente al- l’inizio della buona stagione, varcate le Alpi, penetrasse con un esercito in Pannonia e sostasse zegì τὰ “Adoava τέμπεσι ossia, a quanto pare, presso le gole di Atrans (1). Di fece spargere con molta abilità la notizia che egli avrebbe attaccato Costanzo nella pianura di Siscia. Co- stanzo, udita questa notizia, molto si rallegrò, perchè tale posizione gli avrebbe permesso di valersi, in tutta la sua efficenza, della cavalleria: così fece tosto avanzare a quella volta il suo esercito. Ma, giunte le sue truppe in quelle strettissime gole, mentre procedevano avanti, senza alcun sospetto, caddero vittime di un’abile imboscata tesa da Ma- gnenzio, il quale le fece tutte lapidare. Il duce barbarico poi ἐπὶ τοσούτῳ πλεονεκτήματι μεγαλαυχούμενος condusse il suo esercito fino a Poeto- vium sulle rive della Drava coll’intento di procedere poi fino a Sirmio e dare la battaglia campale.

Così Zosimo. Ma ci si presenta subito una grave difficoltà topografica. Costanzo, quando depose Vetranione, era a Naisso; è probabile che svernasse in questa città o a Sirmio: in nessun modo ci potremo dunque spiegare la sua presenza all’inizio delle operazioni militari in una re- gione all’ovest di Atrans, in modo tale che gli fosse necessario far pas- sare da Atrans il suo esercito per fronteggiare il nemico a Siscia. Quindi la località indicata da Zosimo non è quella che generalmente si crede (ma quale sarebbe? e come si spiegherebbe il rapporto tra questa località e la città di Poetovium?), o Zosimo ha equivocato sul luogo dell’imboscata (dato che si avesse realmente), oppure bisogne- rebbe ricostruire le mosse degli eserciti in un modo assai arbitrario,

(1) L’identificazione della posizione indicata da Zosimo con Atrans o meglio con la statio Atrantina è ammessa dal Mendelssohn nel suo commento a Zosimo e dal Seeck (Geschichte des Untergangs der antiken Welt, IV, pag. 110) e pare confermata dall’accenno alla città di Poetovium che troviamo poco dopo in Zosimo. Il Mommsen (C. 1. L., III, pag. 627) e l’Ihm (Pauly-Wissowa, Real-Ene., vol. II, col. 2137) fanno invece le loro riserve. Secondo l’Itinerarium Antoninianum la mansio Adrante, era a 25 miglia da Emona, l'odierna Leibach, e a 23 da Celeia : la stessa indicazione, con poche varianti, circa il numero delle miglia danno l’Itinerarium Hierosolymitanum e le Tabulae Peutingerianae. Nelle iscri- zioni appare indicata come statio Atrantina , (C. I. L., III, 5121, 5123). Si trova pure l’indicazione di questa località in una importante iscri- zione di Costanzo su una pietra miliaria: Quinarios lapides per Illyricum fecit ab Atrante ad flumen Savum milia passus (sîe!) CCCXLVI, (C.L L., III, 3705). Era una stazione doganale sul confine tra l’Italia e il Norico : oggi corrisponderebbe alla località detta Troiana ,. Renderebbe verisi- mile l’identificazione accennata il fatto che questa località si trovava sulla strada principale conducente dall’Italia a Costantinopoli.

5 RR RE Rat AAT Pa TE

3259

ammettendo che Costanzo, non trovando Magnenzio a Siscia, abbia in- viato una avanguardia verso l’Italia, che questa sia stata sorpresa dal nemico nelle gole di Atrans e che infine i superstiti di essa si siano rifugiati a Poetovium, dove Magnenzio li avrebbe inseguiti. Comprendo che questa ricostruzione è arrischiata e anche a me sembra piuttosto inverosimile, ma sarebbe l’unica che permetterebbe di conciliare il racconto di Zosimo con le esigenze delle carte topografiche. In ogni modo prendiamo atto di questa prima difficoltà del testo zosimeo e pro- seguiamo nell’esposizione di esso.

Mentre Magnenzio era incerto se dovesse fabbricare un ponte o far passare sulle barche le sue truppe al di della Sava, gli giunse da parte di Costanzo, quale ambasciatore, un tal Filippo con l’apparente scopo di iniziare pacifiche trattative, ma anche per osservare e spiare le sue mosse (1). Fu condotto alla presenza di Magnenzio da Marcellino, personaggio già noto per esser stato “magna pars, della congiura contro Costante, e che aveva poi abbattuta l’ effimera tirannia di Nepo- ziano. Magnenzio fece riunire l’esercito e impose a Filippo di parlare davanti a quello. Filippo avrebbe tenuto un discorso, facendo rilevare l’illogicità e la sconvenienza di una guerra di sudditi dei Romani contro i Romani, ricordando a Magnenzio i beneficì che da Costantino e dai suoi figli aveva ricevuti e terminando con l’esplicita proposta che fosse stipulata la pace a queste condizioni: a Magnenzio restasse il dominio della Gallia e il titolo imperiale, Costanzo possedesse senza contrasto il resto dell'Impero.

Che Filippo abbia pronunziate le precise parole attribuitegli da Zo- simo mi pare molto dubbio, e ci si potrebbe anche chiedere se vera- mente le trattative si svolsero così come ce le narra lo storico pagano. Che però la base delle trattative sia stata veramente la partizione del- l’Impero, alla quale Zosimo accenna, ci viene confermato da Zonara e non mi pare che tra le due fonti vi sia in questo punto un legame qualsiasi (2). Se la notizia di Zonara fosse presa di peso dal testo di Zosimo, ben maggiori sarebbero le corrispondenze tra i due racconti, perchè gli storici antichi, quando copiavano, avevano pochi scrupoli e

(1) Zosimo, II, 46, 2: Κωνστάντιος ἐκπέμπει Φέλιππον, τῶν ἔν ueyt- otors ἀξιώμασιν ἄνδρα καὶ φρονήσει προέχοντα, τῷ μὲν προφανεῖ περὶ σπονδῶν καὶ εἰρήνης διαλεξόμενον, τοῖς δὲ ἀληϑέσι τὴν Μαγνεντίου πολυπραγμονήσοντα δύναμιν,

(2) Zonara, XIII, 8, Ο. ; στέλλει (Costanzo) τοίνυν πρὸς αὐτὸν (Magnenzio) ἄνδρας τῶν ἐπιφανῶν καὶ γράμματα δ᾽ ἐγχαράττει αὐτῷ συγγνώμην διδοὺς ἐπὶ τῷ τολμήματι, εἰ τῶν ὅπλων ἀπόσχοιτο καὶ παραχωρῶν αὐτῷ τῶν Γαλλιῶν, ἵνα τούτων ἄρχῃ καὶ ταύταις περιορίζηται.

τα ὩΣ:

LONZIGEO

riportavano “ad litteram , frasi e passi intieri. Invece una osservazione, anche superficiale, dei due testi permette di scorgerne le differenze : in Zonara non si fa parola di Filippo, ma si parla solo di ἄνδρες τῶν ἐπιφανῶν: questi, invece di tenere un discorso, consegnarono a Ma- gnenzio γράμματα scritte da Costanzo.

Questo accordo tentato da Costanzo era, a quanto pare, un tranello per indurre Magnenzio a lasciare le armi e per poi assalirlo a tempo opportuno (1). Ma Magnenzio non cadde nella rete. Zonara ci informa di questo con poche parole: 6 (cioè Magnenzio) οὐδέν τι φρονῶν μέτριον οὐ προσήματο τὰ παρὰ τοῦ Κωνσταντίου (2). Zosimo, invece (II, 47), ci narra che Magnenzio, impressionato dall’accoglienza favorevole fatta dal suo esercito alle proposte di Costanzo, prese tempo per riflet- tere e, radunate di nuovo le sue truppe, con un acconcio discorso le infiammò ancora alla guerra. E può anche darsi che la cosa 51 sia svolta così: noi dobbiamo però prender nota della maggiore complicazione nel racconto dello storico pagano. Il quale ci riferisce anche, sia pure molto indirettamente, che Magnenzio trattenne presso di l'ambasciatore di Costanzo (3). Traversata poi la Sava su un ponte, si diresse veramente su Siscia, ma la sua mossa era già stata preannunziata dagli esplora- tori di Costanzo e le rive del fiume erano occupate dall’esercito impe- riale, il quale inflisse alle milizie del duce barbaro gravi perdite. Zosimo prosegue narrando come Magnenzio, impressionato dalle perdite subite, trovò modo di troncare la battaglia col seguente artifizio. Infissa la lancia nel suolo (4) e accennando con la destra a voler parlare, disse che egli si era deciso a traversare il fiume in omaggio alla volontà di Costanzo, il quale, per mezzo di Filippo, gli aveva imposto di abban- donare il Norico e di andare nell’Illiria καὶ ἔν ταύτῃ τοὺς περὶ τῶν σπονδῶν ποιήσασϑαι λόγους. Costanzo allora avrebbe ordinato alle sue milizie di desistere dall’inseguimento e avrebbe concesso a Magnenzio di condurre l’esercito εἰς τὰ μεταξὺ Νωρικοῦ καὶ Παιονίας καὶ Μυσίας καὶ Δακίας πεδία con l’intendimento di attaccarlo poi nelle pianure tra Cibalis e Mursa, nelle quali già Costantino aveva in battaglia cam- pale disfatto Licinio nel 314.

(1) L'esame di questo punto speciale mi porterebbe troppo fuori del- l'argomento. L'ipotesi, alla quale accenno, deriva da una obiettiva va- lutazione dei fatti ed è sostenuta anche dal Seeck (op. cit., IV, pag. 110).

(2) Zonara, XIII, 8, C.

(3) Zosimo, II, 48,5: τῶν ταξιάρχων καὶ λοχαγῶν βασιλέως δειπνο- ποιοῦντος εὐωχουμένων, μόνοι Λατῖνος καὶ Θαλάσσιος, τὰ πρῶτα παρὰ βασιλεῖ φέροντες, τῆς ϑοίνης οὐ μετεῖχον, Φιλίππου πεφροντικότες, ὃν ἐπὶ πρεσβείᾳ πρὸς αὑτὸν σταλέντα Μαγνέντιος εἶχεν."

(4) Zosimo, II, 48, 2: πήξας ἔν τῇ γῇ τὸ δόρυ.

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327

È inutile insistere sulla somma inverisimiglianza e sul carattere ro- manzesco di questo racconto. Basti far rilevare la stranezza della cir- costanza capitale di esso: Costanzo, che ora, dopo tanto tempo, sarebbe finalmente stato sicuro della vittoria, avrebbe invece lasciato libero Magnenzio di attraversare regioni che già egli aveva conquistato e gli avrebbe fissato un appuntamento per una battaglia, della quale non poteva in alcun modo prevedere l’esito. Tutto ciò è semplicemente assurdo.

Che le sorti di Magnenzio volgessero però al peggio è provato non tanto dall’ insostenibile racconto di Zosimo, quanto da una circostanza, che Zosimo tace ma che riferiscono fonti molto più autorevoli: il pas- saggio di Silvano, un ufficiale Franco, dall’esercito di Magnenzio a quello di Costanzo, con forze non indifferenti (1).

Zosimo, dopo averci data notizia di un’altra ambasciata giunta a Co- stanzo per parte di Magnenzio (2), narra come il duce barbaro occupasse Siscia e, fatto molto bottino, si dirigesse su Sirmio per espugnare anche tale città. Ma Sirmio era ben difesa e Magnenzio dovette ripiegare verso Mursa e si accinse ad assediarla. Però l’impresa gli riusciva difficile, sia per la mancanza di macchine adatte, sia per la violenta resistenza della guarnigione. Intanto si avvicinava l’esercito di Costanzo, sulle mosse del quale Zosimo ci tiene molto più all'oscuro che non su quelle di Magnenzio, ed allora si venne finalmente a battaglia campale nelle pia- nure che circondano Mursa, come ci conferma anchè Giuliano (3).

Sulla battaglia ‘di Mursa, una delle più sanguinose del secolo IV, siamo

(1) “Is namque Silvanus in Gallia ortus barbaris parentibus ordine militiae, simul a Magnentio ad Constantium transgressu pedestre ad magisterium adolescentior meruerat , (Aur. Vitt., Caes., 42, 15) Licet enim [Silvanus] ob tempestivam illam cum armaturis proditionem, ante Mursense proelium obligatum gratia retineret Constantium... , (Ammiano Marcellino, XV, 5, 33).

(2) Zosimo, II, 49, 1. Sarebbe stato ambasciatore Tiziano εἷς τῶν ἀπὸ τῆς ἐν “Ῥώμῃ συγκλήτου βουλῆς cioè senatore romano. Egli avrebbe pronunziate oltraggiose parole e avrebbe chiesto che Costanzo rimettesse nelle mani di Magnenzio tutte le provincie dell'impero, essendo indegno di governarle. Anche questa notizia appare destituita di ogni fondamento, tuttavia non è priva di interesse, perchè riguarda, con ogni probabilità, un personaggio realmente esistito. Un Fabio Tiziano infatti figura come praefectus urbi, dal 25 ottobre 339 al 25 febbraio 341 e dal 27 feb- braio 350 al marzo 351. La data che segna il principio della sua se- conda praefectura urbi, dimostra che fu forse nominato dallo stesso Magnenzio dopo l’usurpazione di questo avvenuta il 18 gennaio 350 (cfr. C. I. L., VI, 1166, 1167).

(3) τῶν πεδέων τῶν πρὸ τῆς Μύρσης ὀφϑέντων (Giul., or., I, 36 A).

- 328

abbastanza bene informati. La data di essa ci è fornita dai Consularia Constantinopolitana (1). Nel primo panegirico di Giuliano in onore di Costanzo troviamo una descrizione assai esatta di questo scontro (2). Zonara ci delle cifre, non sappiamo quanto accettabili: avrebbero preso parte al combattimento 80 mila uomini dalla parte di Costanzo, 36 mila uomini dalla parte di Magnenzio: sarebbero caduti 30 mila uo- mini nell’esercito del legittimo imperatore e 24 mila in quello dell’usur- patore. Su tali dati dobbiamo fare naturalmente le nostre più ampie ri- serve (3). Notizie più schematiche sulla battaglia abbiamo in Eutropio (4) e in altri storici latini (5).

Il racconto che della battaglia ci Zosimo non è molto ordinato, logico: è pieno anzi di incongruenze e di particolari romanzeschi e retorici. Comincia col narrare uno stratagemma, che Magnenzio avrebbe imaginato prima della battaglia. Egli avrebbe nascosto in un recinto (στάδιον) cireondato da alberi, presso alla città, quattro falangi di Celti con l’ordine di attaccare alle spalle le truppe di Costanzo, ap- pena queste si fossero avvicinate alla città, e di menarne grande strage.

| Ma Costanzo dalle milizie assediate in Mursa fu avvertito della mossa

del nemico e mandò subito sul luogo i tassiarchi Scolidoa e Manado ; questi, chiuse le porte dello ‘stadio, salirono con le loro truppe dal- l'esterno ai gradi superiori di esso e cominciarono a colpire quelli che vi erano rinchiusi in agguato. Invano i soldati di Magnenzio tentarono di sfuggire: furono tutti massacrati (6). Quest’episodio appare talmente strano e fantastico di per stesso che non abbisogna di commenti. Nella battaglia vera e propria la zuffa si fece subito accanitissima : lo stesso Zosimo afferma che non vi era mai stata una mischia così fe- roce (7), e che Costanzo stesso invano tentò di porre fine al macello con trattative per una tregua o per una stabile pace (8). La notte non di-

(1) Post consulatum Sergii et Nigriniani. Bellum Magnenti fuit Morsa (sic!) die INII Καὶ. Oct., [= 28 settembre 351] (Mommsen, Chro- nica minora, I, pag. 237).

(2) Giuliano, oraz., I, 36-37.

(3) Zonara, XIII, 8, B. Neppure il tardo epitomatore bizantino come certi questi dati: anzi li attenua con un prudente Ζέγονται.

(4) Eutropio, XI, 12, 1.

(5) Epitome de Caesaribus, 42, 4; Gerolamo, Chronicon, 2367.

(6) Zosimo, II, 50, 2-3.

(7) Zosimo, II, 50,4: μάχης te γενομένης οἵα σχεδὸν οὔπω πρότερον ἔν τούτῳ τῷ πολέμῳ φαίνεται γεγονυῖα...

(8) Zosimo, Il, 51,1: Κωνστάντιος δὲ ..... εἰς ἔννοιαν ἦ.ϑε τοῦ σπον- δαῖς τισὶ καὶ συμβάσεσι καταλῦσαι τὸν πόλεμον, i

329

minuì l’ardore dei combattenti: dalla parte di Magnenzio i duci si tra- sformavano in soldati semplici (1): dall'altra parte i capi ricordavano ai soldati la grandezza di Roma.

Molti erano gli atti di valore compiuti in entrambi gli eserciti: Zo- simo ricorda un Menelao comandante degli Armeni, del quale si diceva che caricasse tre frecce alla volta e tre nemici potesse colpire contem- poraneamente (sic!) (2), ed un tal Romolo, dell’esercito di Magnenzio, il quale, trafitto da Menelao, non cessò di combattere, per quanto grave- mente ferito, finchè non ebbe ucciso il suo feritore. Sulla inverosimi- glianza di questi particolari e specialmente del primo di essi, è inutile insistere.

Dopo la battaglia di Mursa la narrazione di Zosimo, come un fiume che abbia straripato e rientri poi nel proprio letto, riprende a poco a poco le sue normali proporzioni. La campagna di Costanzo contro Ma- gnenzio in Italia (352) è narrata brevemente e logicamente (3). Anche l’ultima fase della lunga guerra civile svoltasi in Gallia nel 353 e ter- minata con la completa disfatta di Magnenzio è rapidamente tratteg- giata in poche frasi: anzi vi è taciuto l’unico fatto d’armi importante di questo periodo: la battaglia di Monte Seleuco nelle Alpi Cozie. No- tiamo invece ed è importante per noi un particolare: Zosimo af- ferma che Costanzo avrebbe corrotto con oro i barbari delle regioni renane perchè osteggiassero Magnenzio (4).

Veniamo alle conclusioni.

Nella narrazione di Zosimo, sulla quale ci siamo fin qui intrattenuti, colpisce subito il fatto che uno scrittore, il quale dedica agli avveni- menti svoltisi nei 24 anni dell’impero di Costanzo, 27 capitoli in tutto (5), consacri ben 9 di tali capitoli agli avvenimenti di pochi mesi. Spro- porzioni di questo genere non sono infrequenti, è vero, negli storici antichi: lo stesso Ammiano dedicava solo 13 libri agli avvenimenti tra il 97 e il 353 e ben 18 a quelli tra il 854 e il 375. Ma tale spropor- zione è quasi sempre giustificata, come nel caso di Ammiano, dalla cir- costanza che uno storico naturalmente maggiore importanza ai fatti a lui più prossimi e specialmente a quelli dei quali è stato testimone. Ora tale non è certamente la situazione di Zosimo relativamente a questi

(1) Zosimo, II,51,2: αὐτοί ye οἱ στρατηγοὶ στρατιωτῶν ἔργα πληροῦντες

(2) Zosimo, II, 52, 1: τοῦτόν (Μενέλαον) φασι τρία κατὰ ταὐτὸν ἔναρ- μόζοντα τῷ τόξῳ βέλη, καὶ χρώμενον ἀφέσει μιᾷ, μὴ nad ἑνὸς σώματος ἀλλὰ τριῶν ἐμπηγνύναι τὰ βέλη...

(3) Zosimo, II, 53, 1-2.

(4) Zosimo, II, 58, 3.

(5) Libro II, dal cap. 39 al cap. 55; libro III, dal cap. 1 al cap. 10.

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avvenimenti, da lui molto remoti e per il lungo tempo trascorso (1) e per l'interesse molto relativo che dovevano presentare. È probabile dunque che Zosimo abbia desunta la narrazione di questi avvenimenti da una fonte che se ne occupasse in modo speciale e che, al desiderio di attin- gere a tale fonte abbia sacrificata l'armonia dell’esposizione.

Questo ci è confermato dal confronto dell’opera di Zosimo con l’Ept- tome de Caesaribus. Prima di ingolfarsi nella esposizione degli avveni- menti della primavera e dell’estate 351, Zosimo riferisce la notizia del- l'elezione di Decenzio a Cesare, attingendola all’Epitome, come mostra il confronto dei due testi (2).

Seguono in Zosimo le notizie che abbiamo riferito e altre, molto più concise, sul seguito della campagna e sulla morte di Magnenzio ; nel- l’Epitome le notizie sull’effimera usurpazione di Nepoziano, sulla bat- taglia di Mursa e sugli altri avvenimenti del 352/353.

Proprio alla morte di Magnenzio ricomincia l'accordo fra i due testi (3).

Questo confronto ci conferma ancora una volta la derivazione del

(1) Zosimo fiorì nella seconda metà del sec. V, oltre un secolo dopo

i fatti narrati in questi capitoli : cfr. la prefaz. all’ediz. del Mendelssohn (Lipsia, 1887), p. vir-x1.

(2) Zosimo, II, 45, 2:

καὶ Μαγνέντιος μείζοσι Magnentius quoque Decentium παρασκευαῖς ἐγνωκὼς ἀἄπαντῆσαι, consanguineum suum trans Alpes Δεκέντιον γένει συναπτόμε- Caesarem creavit ,. νον πὲ φυλακῇ τῶν ὑπὲρ τὰς Ἄλπεις ἐϑνῶν avoadet- κνυσι Καίσαρα.

Epitome (ediz. Pichlmayr), 42, 2:

(3) Zosimo, II, 54: Epitome 42, 6-7 :

Μαγνέντιος μὲν οὖν τοῦτον ἄνῃ- ρέϑη τὸν τρόπον, ἔτη βασιλεύσας τρία καὶ μῆνας ἔτει πρὸς τούτοις ἐξ, γένος μὲν ἕλκων ἀπὸ βαρβά- ρων, μετοικήσας δὲ εἰς Aetovs, ἔϑνος Γαλατικόν, παιδείας τε τῆς Λατένων μετασχών, ἐν μὲν τοῖς πλεονεχτήμασι τῆς τύχης ϑρασύς, δειλὸς δὲ ἐν ταῖς περιστάσεσι, τὴν ἐνοῦσαν αὐτῷ φύσει κακποήϑειαν κρύψαι δεινὸς καὶ τοῖς ἀγνοοῦσι τὸν αὐτοῦ τρόπον εὐήϑης εἶναι καὶ χρηστὸς νομιζόμενος.

“..mense imperii quadragesimo secundo, aetatis anno prope quin- quagesimo exspiravit. Ortus paren- tibus barbaris, qui Galliam inha- bitant; legendi studio promptus, sermonis acer, animi tumidi et im- modice timidus; artifex tamen ad occultandam audaciae specie for- midinem ,.

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331 --

racconto di Zosimo da una fonte molto diffusa. Già il Seeck (1) suppose che questa potesse essere un panegirico, che celebrasse la vittoria di Mursa. Io credo di poter indicare con maggior precisione il testo al quale Zosimo avrebbe attinto. È noto come una poetessa romana e cristiana, Petronia Proba, vissuta intorno al 350, abbia composto un centone sulla guerra tra Costanzo e Magnenzio. Tale centone è purtroppo perduto : ce ne resta un’eco in un’altra composizione dello stesso genere, ma di argomento diverso, della medesima Proba (2) e in una glossa di un manoscritto del X sec., del quale notizia il Montfaucon (83).

Questo centone potrebbe appunto essere la fonte dello storico pagano. Se la mia ipotesi si basasse soltanto sull’identità dell’ argomento, sa- rebbe puerile e si fonderebbe su un ragionamento soverchiamente sem- plicista. Ma altri elementi hanno concorso a rafforzare la mia opinione. Il marito dell’illustre poetessa era Clodio Celsino Adelfio praefectus urbi, dal 7 giugno al 18 dicembre 351 (4). In questo periodo la città di Roma era in potere di Magnenzio: dunque è fuor di dubbio che i funzionarii civili venivano scelti dall’usurpatore tra le persone ligie e devote. Clodio Celsino Adelfio era certamente una creatura di Magnenzio e il poema di Petronia Proba doveva essere di intonazione favorevole al generale barbaro. Ora io, esponendo il racconto che della campagna del 351 ci ha tramandato Zosimo, ho cercato di fare implicitamente rilevare il tono ostile a Costanzo. I successi di Magnenzio sono infatti posti in bella luce: gl’insuccessi vengono attenuati, come nel caso della battaglia di Siscia. Appena il legittimo imperatore vede dubbia la sorte del sanguinoso scontro di Mursa, cerca di farlo cessare: per osteggiare Magnenzio in Gallia, corrompe con oro 1 barbari.

Non va poi dimenticata un’altra circostanza importante. Nel racconto

(1) Geschichte des Untergangs der antiken Welt, vol. IV app., pag. 435, e Hermes, 41, pag. 483-484.

(2) “Iam dudum temerasse duces pia foedera pacis, | regnandi miseros tenuit quos dira cupido, | diversasque neces, regum crudelia bella | co- gnatasque acies, pollutos caede parentum | insignis clipeos nulloque ex hoste tropaea, | sanguine conspersos tulerat quos fama triumphos | in- numeris totiens viduatas civibus urbes | confiteor, scripsi: satis est me- minisse malorum , (Cento Probae in Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum Vindobonense ,, Nova Series, vol. I: Poetae Christiani Mi- nores ,, v. 1-8). Cfr. lo studio di V. Ermini, 171 Centone di Proba e la letteratura centonaria latina, Roma, 1907.

(8) Montfaucon, Diarium Italicum, pag. 36: “° Proba uxor Adelphi mater Olybrii et Alypii cum Constantii (cod. “Constantini ,, corr. Seeck) bellum adversus Magnentium conscripsisset, conscripsit et hune librum ,.

(4) Cronografo dell’anno 354 in Mommsen, Chronica minora, I, pag. 69.

di Zosimo vien tratteggiata bene la marcia dell’esercito di Magnenzio ; da Atrans a Mursa, salvo l’incomprensibile punta a Poetovium, essa si svolge in modo del tutto logico. Invece sulle mosse di Costanzo lo sto- rico pagano ci tiene quasi completamente all'oscuro: ciò significa che la fonte di Zosimo era più informata su quello che riguardava le truppe di Magnenzio che sulle mosse dell’esercito imperiale. Ora Clodio Cel- sino Adelfio, e quindi anche Proba, potevano certamente aver notizia dei movimenti del loro sovrano, e questo spiega, a mio avviso, l’unilate- ralità che riscontriamo, anche sotto questo riguardo, nel racconto di Zosimo.

Non basta. Per quanto, come abbiamo detto, soltanto al cap. 54 di Zosimo, dove si parla della morte di Magnenzio, ricomincino i punti di contatto con l’Epitome de Caesaribus, pure la vera e propria digres- sione di Zosimo, cioè la parte che egli verosimilmente attinse ad una fonte ampia e particolareggiata, termina col cap. 52, cioè con la bat- taglia di Mursa. Ora la praefectura urbi, di Celsino Adelfio cessa il 18 dicembre 351, circa due mesi dopo la disfatta di Magnenzio, e in ogni modo è probabile che il centone di Proba, se veramente cercava di esal- tare l'usurpatore contro il sovrano legittimo, terminasse con la battaglia di Mursa e non si occupasse dei nuovi rovesci che a Magnenzio sareb- bero toccati in Italia nel 352.

Questo quanto alla sostanza. Quanto alla forma ho già cercato di far rilevare man mano i particolari romanzeschi della narrazione di Zo- simo, particolari che mostrano come egli abbia attinto piuttosto a una fonte poetica che a un’opera in prosa. Oltre agli episodi fantastici della battaglia di Mursa, al “passo diplomatico, di Costanzo verso Ma- gnenzio narrato con frasi retoriche e accompagnato da discorsi reboanti, citerdò ancora le pratiche magiche, alle quali, sempre secondo Zosimo, avrebbe ricorso la madre dell’usurpatore (1).

Quest'ultimo dettaglio sembra preso di peso da un poema epico e vien fatto di pensare alle arti della maga Frittone, sulle quali tanto insiste Lucano nel VI della Pharsalia ,. Ora molto probabilmente il centone di Proba derivava da un poema epico: l’altra composizione su- perstite della stessa poetessa che tratta dell’Evangelio è formata tutta di emistichi virgiliani. I nomi dei due eroi della battaglia di Mursa, dei quali ci parla Zosimo, Romolo e Menelao, hanno un colorito spiccata- mente epico e non si trovano invece nell’onomastica del tempo. Invece si petevano trovar benissimo nel poema di Proba, sia che questo deri- vasse da Virgilio, sia che, data l’affinità dell'argomento (la guerra tra

(1) Zosimo, II, 46, 1.

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Costanzo e Magnenzio era una guerra civile come quella tra Cesare e i ἣν ἔχ ; ἘΝ Li

4 Pompeo), ispirasse alla Pharsalia , di Lucano, come sembra supporre τς γε. : hi; +28 Concludendo: può Zosimo avere attinto al centone di Petronia Proba?

᾿ A questa domanda non potrà forse mai rispondere con sicurezza as- î È soluta. Il centone è perduto e quindi ogni confronto diretto è reso im- <p possibile. Ma gli argomenti che sono venuto esponendo fin qui non mi n DER sembrano privi di valore e mi permettono di sostenere l’ipotesi ehe un a rapporto tra i due testi vi potè veramente essere.

i Quanto all’attendibilità delle notizie date da Zosimo, ne abbiamo già | «discusso: qualche utile informazione, attraverso la forma poetica, si può È ; ; trarre: la marcia dell’esercito di Magnenzio si può ricostruire, ad esempio, "O _‘—‘@ssaì bene. Ma in generale tutto il racconto va considerato con la più 24

grande cautela appunto per i particolari romanzeschi, dei quali abbonda, Ὁ, os | e per il colorito retorico, del quale è tutto pervaso. ni Sig da ΕἾ È Ξ bs è do a E in ogni modo notevole e non del tutto priva d’interesse questa di- SA gressione poetica, isolata, in un’opera puramente storica. MR è di i “a ArBeRTO OLIVETTI. do È Hd ì Pata Ne. δ 7 = i ᾿ ἦν na % pe. tà, δ . ΜΝ A Κ᾽ o Mito a

RECENSIONI

The Oxyrhynchus Papyri. Edited vith translations and notes by BernARD P. GrenreLL... and Artnor S. Honr: Part X. London, Egypt Explo- ration Fund, 1914, di pagg. x1v-311, con sei tavole.

Il volume si apre con un'ottima notizia, quella della guarigione del dr. Grenfell, il quale potè prestare anche l’opera sua per i testi non letterari di questo volume. Vadano a lui le nostre congratulazioni più vive ed affettuose e agli studî classici gli augurî che si offra ancora e spesso l’occasione in cui egli possa contribuire al loro incremento con quella perspicace sicurezza che meravigliò gli studiosi dell'ultimo ven- tennio.

Prima di dire di Saffo ed Alceo, che sono le gemme di questo de- cimo volume, mi sbrigherò brevemente del resto del suo contenuto.

Comincia con sette papiri teologici, il primo dei quali (1225) con- tiene un piccolo frammento nuovo più probabilmente, secondo gli edi- tori, di un vangelo non canonico che non di una raccolta di detti di Gesù : i sei seguenti (1226-30) sono luoghi del Levitico 16, dei Salmi 6 e 7, del Vangelo di S. Matteo 12, di quello di S. Giovanni 15 e 16, dell’Epistola I di S. Giacomo e dell'Apocalisse 5 e 6.

Nei testi classici nuovi dopo Saffo ed Alceo viene per importanza la commedia nuova. È il papiro 1235 conteneva gli argomenti di due com- medie di Menandro la ᾿]έρεια (la Sacerdotessa) e gli “Iufguoi, il che suggerisce subito l'ipotesi che nel papiro queste specie di didascalie fossero in ordine alfabetico. Le tre colonne sole superstiti quella della ‘Iggeva la darebbero tutta, ma del principio si leggono poche lettere e poi poche parole fino alla linea 10 della seconda colonna; e la terza pure è guasta al principio e alla metà. Disgraziatamente perciò sul- l'intreccio del dramma ci restano molte oscurità, ma l’argomento ora, su per giù, si può dire che ci venga rivelato ben più che non dal- l’unico frammento che di questa commedia prima ci restava, e che nulla affatto ci lasciava presumere di ciò che la didascalia ci racconta,

anzi pareva fatto apposta per condurre fuori di strada. Si tratta di un tale che avrebbe avuto un figlinolo da una sacerdotessa, il quale figliuolo, non ci risulta per qual caso o proposito, fu da bambino affidato a dei vicini che lo allevarono come loro proprio. Passano degli anni e il genitore si finalmente. alla ricerca di lui: a tale scopo un suo

schiavo fedele si finge invasato, ed è perciò affidato alle cure della.

sacerdotessa, che lo doveva, si vede, esorcizzare. Stando egli in casa di lei ha modo di informarsi delle cose. Viene intanto la madre pu- tativa a chiedere alla sacerdotessa la mano di una di lei figlia per un proprio figlio legittimo. Dai discorsi delle donne qualche cosa è messa in chiaro; se ne riferisce al padre, il quale scambiando (1) l’uno per l’altro abbraccia come proprio figlio il figlio dei vicini. Questi allora dice che è matto e che la sua maria è di creder suoi figli tutti i gio- vani: così avviene che quando egli abbraccia il figlio che è davvero suo, questi lo respinge, appunto ritenendolo matto. A questo punto restiamo in asso, e ci è salvata solo la conclusione della commedia, che finisce con tre matrimoni, quello del padre con la sacerdotessa, quello del figlio loro con una figlia dei vicini, e quello del figlio dei vicini con una figlia della sacerdotessa : τὸ δρᾶμα τῶν ἀρίστων, conchiude il nostro informatore, e si può crederglielo. Degli “Iufocoe invece ci è conservata solo la notizia che nell’ordine cronologico delle commedie menandree è sulla settantina (manca la seconda cifra del numero), e che fu scritta sotto l’arconte Nicocle, ma non si potè subito rappresentare per la tirannide di Lacare; dove il Wilamowitz suppone una confusione tra Nicia e Ni- cocle : chè Nicia e non Nicocle corrisponde al tempo di Lacare : la com- media sarebbe dunque del 290-95: c'è però, osserva 1’ Hunt, una diffi- coltà : se questa è, poniamo pure, la settantanovesima commedia di Me- nandro, se a Menandro ne sono attribuite 108 e morì nel 292-91, come fanno a starci tanti altri drammi in solo quattro anni? Ci potrebb’es- sere una soluzione, ammettere che delle 108 comedie alcune fossero senza data certa, e perciò nell’enumerazione fossero collocate per ultime, senza che ciò volesse dire che fossero le ultime composte. Dell’argomento è conservato solo il principio: Due amici poveri che avevano fatto vita in comune, andarono ad abitare ad Imbro, sposarono due sorelle e messo insieme quanto avevano, lavorando faticosamente in terra e in mare.,.,. E qui finisce sul più bello.

lo non sono un ammiratore molto entusiasta di Menandro, e la sco- perta di pochi o molti versi frammentarî non credo giovi molto a ricol-

(1) προσώπῳ διαλλάττων vale evidentemente “scambiando una faccia con l’altra, non “that there was a difference in personal appearance ,.

CRAS

locarlo sull’altare ove l'ammirazione degli antichi l’aveva posto. Il merito suo principale doveva consistere nell’intreccio, nello svolgimento e nella pittura dei caratteri, e questo non si potrà far constare che da commedie intere o presso che intere. Prezioso molto è perciò il nu- mero 1236 che è un nuovo contributo agli ᾿Επιτρέποντες. Sul recto una pergamena) sono i vv. 459-80 (Kòrte) con qualche nuovo piccolo contributo, e sul verso frammenti di altrettanti nuovi, da collocarsi dopo il recto: anche il confronto con un altro frammento male prima attri- buito alla Περικειρομένη giova molto a ricostruire questa parte della commedia, che era anche prima sempre quella dalla quale l’arte di Me- nandro si potea giudicare più vantaggiosamente.

Così il papiro 1237, se per stesso è poca cosa, e sarebbe pressochè trascurabile, acquista qualche valore appunto perchè integra e corregge il più grande papiro 409, che, come questo, appartiene al Κόλαξ pure di Menandro: dal 1237 infatti risulta che nel 409 dopo il v. 53 è una lacuna.

Praticamente insignificanti invece per la loro tenuità sono i pa- piri 1238-40, pertinenti i due primi alla commedia nuova, l’ultimo al- l'antica, come si può credere dal trovarvisi il coro: anche però se l’ipo- tesi del Wilamovitz e del Kòrte che il frammento appartenga ai demi di Eupoli avesse una certa probabilità (e non si fonda su altro che sulla presunta identificazione del personaggio Mvo@red. con Μυρωνίδης), il contributo alla conoscenza del dramma è presso che nullo.

Interessante assai di più è il papiro 1241, che contiene sei colonne (quattro in abbastanza buono stato) di una crestomazia o raccolta di notizie e curiosità più o meno oziose, una specie di prontuario alessan- drino. C'è chi ha raccolto il primo esercito, chi primo lo guidò, chi mosse la prima guerra civile, chi primo distrusse una città, e giù giù, chi inventò le armi e quali armi, eccetera, eccetera, tutta roba che ci interessa assai mediocremente e che è di attendibilità molto discutibile. Ma la colonna seconda ci compensa di tutte queste frottole dandoci delle notizie sulla biblioteca di Alessandria: dice così:..... © Apollonio figlio di Silleo, alessandrino, chiamato Rodio, scolaro (γνώριμος) di Cal- limaco: questi fu anche maestro del primo re: a lui succedette Era- tostene, dopo il quale Aristofane di Apelle da Bisanzio e Aristarco ; poi Apollonio alessandrino detto εἰδόγραφος, dopo il quale Aristarco di Aristarco alessandrino e in origine da Samotracia: questi fu anche maestro dei figli del Filopatore : dopo di lui Cydas venuto dagli uomini d'arme ,: ἔκ λογχοφόρων: si vede che l’uso di scegliere i Ministri della Pubblica Istruzione tra i più competenti in materia è antico assai. E sotto l’ottavo re fiorirono Ammonio e Zenodoto e Diocle e Apollodoro grammatici ,. La questione dell’età e dei rapporti fra Callimaco e Apol-

- il χρ ἘΞ sir arti μας δια τος τανε κα 1 VISITA De eee e σεν Ὅνττσττον τ

337

lonio è dunque riaperta. Veggasi intanto ciò che ne dice il Wilamowitz nei Neue Jahrbicher del maggio 1914 (1).

Il papiro 1242 è l’ultimo dei nuovi papiri letterarî, ed è accolto tra questi, perchè i documenti sui quali si fonda è chiaro che sono stati rimaneggiati letterariamente, se può usarsi questa parola, e non certo imparzialmente. Ed è curiosissimo. Una commissione di Greci Alessan- drini, della quale ci restano undici nomi, ed una di sette Giudei, ciascuna con un loro avvocato, vanno a Roma per esporre all'imperatore Trajano in contraddittorio le loro ragioni; e gli uni e gli altri portano seco i loro

Dei (!). L'imperatore fissa il luogo ove li riceverà. Ma Plotina prega

i senatori di intervenire contro gli Alessandrini e di ajutare i Giudei. E primi entrando i Giudei salutano l’imperatore Trajano, e Cesare ri- cambiò il saluto egli pure con molta benevolenza, essendo stato già ben disposto da Plotina. Dopo di loro entrano gli ambasciatori degli Alessandrini e salutano l’imperatore, ed egli non li ricambia, ma dice: Mi salutate come foste degni di saluto, dopo che avete osato far tante offese ai Giudei? , E dopo una lacuna troviamo Trajano e gli Alessan- drini alle prese. E Trajano dice:... tu cerchi il modo di morire perchè disprezzi la morte, e perciò mi hai risposto insolentemente. Ed Er- maisco disse: Ma noi ci lagniamo che il tuo consiglio sia pieno di empî Giudei. E Cesare disse: Ecco, di nuovo ti dico, Frmaisco, che tu mi rispondi insolentemente perchè confidi nella tua nobiltà. Ed Ermaisco disse : Cos’ è che ti ho risposto insolentemente, o grandissimo impera- tore? Mostramelo. ‘E Cesare disse: quando hai detto che il mio con- siglio è (composto) di Giudei. Ed Ermaisco : Dunque il nome di Giudeo è repugnante? Devi perciò tornare ad ajutare i tuoi e non far l’avvo- cato degli empî Giudei. Dicendo questo Ermaisco, il busto di Serapide, che gli ambasciatori portavano, di subito sudò; e vedendolo Trajano rimase stupito; e subito dopo avvennero tumulti in Roma; e si alza- rono molte grida, e tutti corsero alle parti alte delle colline ,. Poi ce n’è ancora una colonna tutta guasta. Trajano fu ritenuto degno di esser fatto santo per la pazienza mostrata con la vedova; ma di qui si pare ch’era questa una virtù ch’egli dovette esercitare anche altre volte. Questo papiro non è il solo che ci dia ragguaglio di simili competizioni.

Nei papiri letterarì di testi noti troviamo rappresentati Apollonio Rodio (pochi versi), Erodoto, Tucidide, Platone (Politico, p. 280 C-282 E),

(1) Correggendo le bozze giungo a tempo di segnalare il dotto e acuto studio di Augusto Rostagni: / bibliotecari alessandrini nella cronologia della letteratura ellenistica, in * Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino ,, adunanza del 3 gennaio 1915.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 22

r SÙ) »

338 —.

ma nessuno di questi papiri aggiunge gran che alla critica dei testi rispettivi: in generale è confermata la bontà della tradizione. Assai più importante è il papiro 1249, che contiene sedici versi di Babrio, cioè l’ultimo verso della favola 48, le favole 110 e 118 e il primo verso della favola 25; ed è importante perchè non è più recente della fine del se- condo secolo, e forse è più antico: 51 limita così la discussione sull’età del poeta, che perciò non potrà essere collocato più in qua del primo secolo, come del resto aveva riconosciuto anche il Christ. Dal nostro papiro anche apparisce che l'ordine alfabetico in cui le favole son di- sposte nel codice del monte Athos (cfr. Pap. Amh. 26), non era l’originale, o almeno non era il solo che si usasse.

Più interessante ancora è il pap. 1250 che contiene tre colonne del romanzo di Achille Tazio. E Achille viene a tener compagnia a Cari- tone con analoga fortuna. Anche per lui infatti abbiamo uno sposta- mento cronologico : il papiro è della prima metà del quarto secolo, dunque l’autore deve aver scritto al più tardi intorno al 300, e non già nel quinto secolo, come fu creduto. Il papiro è importantissimo anche perchè presenta un diverso e miglior ordine della narrazione (forse poi avvenne lo spostamento di qualche pagina) e una lezione in parecchi luoghi migliore della nostra.

Anche la letteratura latina ha questa volta un notevole rappresen- tante nel papiro 1251 (pertinente allo stesso manoscritto del p. 1097), il quale contiene, oltre poche parole della Verrina II, 2, gli avanzi di due grandi fogli, recto e verso coi $$ 26-55 dell’orazione pro Caelio. Il testo del papiro (quinto secolo) è di carattere eclettico, e mostra che anche alcune varianti che si credevano relativamente recenti risalgono ad una ben più alta antichità.

Seguono i documenti pubblici e privati (1252-1300) di vario interesse per la storia, per l’amministrazione e per il costume, sui quali sarebbe fuor di luogo entrare qui in particolari. Ormai la storia antica. si studia, come la moderna, sui documenti d’archivio, e questi appunto sono tali. Finalmente i nn. 501-580 sono documenti comunicati per estratto in ciò che hanno di più notevole.

Ed ora torniamo a ciò che più ci importa, ai due papiri di Saffo e ai due di Alceo.

Era corsa una buona novella: si sarebbe scoperto più di un libro di Saffo (si parlava di 1300 versi) e quasi altrettanto di Alceo: la realtà è stata una disillusione. I 1300 versi di Saffo risultano bensì dalla chiusa del pap. 1231 fr. 56, che conteneva il libro I e la somma del suo contenuto in versi 1820, ma tanto questo papiro quanto l’altro di Saffo (1232) e i due di Alceo (1233-34) sono in condizioni disastrose. Per quantità è dunque bensì la scoperta di gran lunga più notevole che si

TIR Ch 339 sia fatta di lirica eolica; ma per qualità Saffo si riduce a due soli tratti letterariamente valutabili (e non si può dire rimangan molto ad- dietro dei meravigliosi frammenti berlinesi), e se Alceo per numero di spunti può parere più fortunato, questo avviene perchè di lui avevamo prima molto di meno; la conoscenza della sua arte pur troppo resta per noi al punto stesso di prima. Ad ogni modo vediamo che se ne cava. Premetto che in questi nove o dieci mesi, dacchè il volume fu pubbli- cato, se π᾿ cavato ben poco.

Il papiro 1231, dei 1820 versi, tutte strofe saffiche, che conteneva,

non ci serba che avanzi di forse un dugento, la massima parte informi

del tutto. È una desolazione. La prima colonna, che è di gran lunga la meglio conservata, ci innanzi tutto la chiusa di un’ode, della quale è leggibile l’ultima strofe. Vi troviamo per la prima volta il nome di Dorica (Rodopi) l’ amica di Carasso (1). Ecco com’è integrata dal Wila- mowitz e dall’Hunt: ;

Κύπρι, κα[έ oje πι[κροτέρ]αν Erevo[ev.

[οἱ] δὲ καυχάσαντο τόδ᾽ ἐννέϊποντες,

[ΔωἸ]ρέχα τὸ δεύ[ζτ]ερον ὡς πόϑεϊινον [εἰς] ἔρον AD.

Quanto al primo verso si può aver qualche dubbio sulla sua restitu- zione, ma trovare di meglio sarà difficile: gli altri tre potrebbero pas- sare; gli è che i dubbi sul loro senso son parecchi. Il dr. Castiglioni (2) traduce: O Ciprigna, te pure assai acerba trovò. E quelli menaron vanto, ciò dicendo, quando Dorica per la seconda volta giunse al de- siato amore ,. Giustamente per altro soggiunge: “la situazione non mi riesce d’indovinarla ,. E in nota esprime il sospetto che invece di Δωρέχα si debba leggere δΔωρέχας, per ottener così che quello che torna all'amore sia Carasso: Carasso tornerebbe ad amare Dorica. Natu- ralmente il Castiglioni sopra tal soluzione non insiste affatto: imba- stire ,, dice, una tale supposizione sopra una strofe unica rimasta di un intero carme, non è cosa probabile ,. Non solo, aggiungo io, ma è anche difficile stabilire il vero senso delle parole, così come sono state tramandate. La traduzione del Castiglioni infatti può esser giusta, ma può anche non essere. Nel primo verso πικροτέραν io lo intenderei per un vero comparativo. Si parla di un ritorno all'amore; è consentaneo

(1) Per i rapporti fra Saffo e Dorica cfr. i miei Lirici Greci (la Poesia melica), Torino, Bocca, 1913, pp. 185 e 190-91. Disgraziatamente il nuovo frammento non è chiaro se sia in lode o in biasimo di Dorica.

(2) I nuovi frammenti di Saffo in ‘Atene e Roma’ XVII (1914), n. 187-88,

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dunque un confronto tra allora ed ora: ora l’amore torna più acre d’al- lora. Ma qui mi sorge un altro dubbio: οἱ καυχάσαντο τόδ᾽ ἐννέποντες si ha da riferire a ciò che era stato detto prima o a ciò che vien dopo ? Non a ciò che vien dopo, se ad ὡς diamo il significato di quando; 0, per far ciò, converrebbe ritenere che le parole Ampiya-74d£ fossero un inciso temporale, e il discorso che quelli fanno fosse in una strofa successiva; ma l’ode è finita, e questa spiegazione non può aver luogo. Ma ad ὠς potremmo invece dare il senso di come o di che, seguendo l’interpreta- zione del Wilamowitz (N. J., 1. c.): und sie prahlten mit der Botschaft, dass Doricha zum zweiten Male in dass ersehente Lieberverhiltniss ge- treten ist ,. E questo senso pure è grammaticalmente possibilissimo. Gli è che τόδ᾽ ἐννέποντες annuncerebbe la cosa con troppo peso: τόδε accenna a qualche cosa di più determinato e preciso che non sia una notizia espressa poi in termini generali: τόδε ἐννέποντες insomma si conviene piuttosto a un discorso diretto, o almeno a notizia sulla cui gravità vuol richiamare l’attenzione. Aggiungere che così non si ve- drebbe come il pensiero si accordasse con ciò che precede, sarebbe sottilizzar troppo, quando non sappiamo precisamente che cosa Saffo prima dicesse. Ad ogni modo al verso precedente questi si connettono benissimo se τόδ᾽ ἐννέποντες lo riferiamo appunto a ciò che precede. Allora Κύπρι, καί σὲ πικροτέραν ἔπευρεν diventa la chiusa del discorso cui τόδ᾽ ἐννέποντες accenna. Se è così per altro il si spiega male; pare infatti posto a indicare piuttosto persone diverse da quelle di prima. Faccio perciò una congettura: invece di [οἱ] δέ integriamo [οὐ]δέ. Che vuol dire infatti καυχάσαντο ? Siamo a Pindaro: 0. IX 38 καὶ τὸ κπκαυχᾶσϑαι παρὰ καιρὸν μανίαισιν ὑποκρέκει, e I-V 51 ἀλλ᾽ ὅμως καύχημα κατάβρεχε σιγᾷ, nei quali due luoghi la parola inchiude in anche un senso di biasimo e di inopportunità. Varrebbe dunque: parlarono fuori di luogo (nè gli diedero addosso fuori di luogo) quando dissero questo. E appunto perchè do a καυχάομαι questo senso, prefe- risco integrar οὐ]δὲ invece che @]de, che pure sarebbe possibilissimo, e che a ogni modo preferirei sempre di molto ad οἱ δέ.

Dopo questa strofe comincia un’ode nuova, la quale continua per cinque. strofe e mezza, guaste e lacunose, ma integrabili. È questo il pezzo forte della raccolta, ma non credo sia stato integrato giustamente. Per orientare il lettore premetterò una traduzione letterale del testo quale fu ricostituito dall’Hunt e dal Wilamowitz. Eccola:

Alcuni una schiera di cavalieri, altri di pedoni, altri di navi dicono sulla terra nera essere la cosa più bella; io quello di che uno è inna- morato. E questo è del tutto facile a capirsi da chi che sia, poichè anche quella che aveva veduto molta bellezza di uomini, Elena, giu- died per l’uomo migliore quello che distrusse tutta la gloria di Troja,

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della figlia dei cari genitori affatto si ricordò, ma Cipri sedusse lei innamorata ,. Seguon due versi monchi e poi: Da lungi ora mi risovvenni di Anactoria lontana, della quale vorrei vedere l’amabile incesso e il bagliore lucente del volto, più che i carri dei Lidî e in armi i combattenti a cavallo. Ben sappiamo che questo non è pos- sibile che avvenga tra gli uomini, ma augurarsi di partecipare ,... Diciamo la verità: se la fosse così, la nuova scoperta non aggiun- gerebbe proprio nulla alla fama di Saffo. Ma è poi così davvero ? Esaminiamo l’ode a parte a parte. La prima strofe è piana e facile:

[O]î μὲν ἱππήων στρότον οἱ πέσδων οἱ δὲ νάων φαῖσ᾽ ἐπὶ] γᾶν μέλαιζν)αν [ἐαμεναι κάλλιστον, ἐγὼ κῆν᾽ ὄτ-

τω τις ἔραται.

Dove l’editore muove qualche dubbio su ἐπὶ γᾶν μέλαιναν parendo in questo caso più appropriato il dativo o il genitivo, e crede possibile che μέλαιναν sia genitivo plurale da riferirsi a νάων, e γᾶν sia da cor- reggere in γᾷ o in γᾶς. Non credo: y@ w. è una frase fatta, che cono- sciamo dalla prima ode di Saffo stessa v. 10 e troviamo qui ancora in questo stesso papiro al fr. 9 v. 6: non è possibile perciò separar le due parole, e se mai scriverei anche me4a/ve μελαΐένας : ma il danno sa- rebbe maggiore del vantaggio, e queste navi sopra la terra fanno una figura un po’ strana. Credo perciò che il testo vada bene come sta e che ἐπὶ γᾶν μέλαιναν sia da intendersi come accusativo di estensione del genere di ἐπὶ μέγα, ἐπὶ πλεῖστον ecc., e che perciò la frase abbia qui perduto ogni senso plastico e sia da intendere genericamente a questo mondo, in tutto il mondo. Nell'ultimo verso non fu ancora, credo, notato un parallelo. Troviamo in Teognide, 255-56:

Κάλλιστον τὸ δικαιότατον λῷστον δ᾽ ὑγιαίνειν"

πρᾶγμα δὲ τερπνότατον, τοῦ τις ἐρᾷ, τὸ τυχεῖν.

Questi versi non dovrebbero essere di Teognide ma, secondo Aristo- tele, sarebbero stati scritti da uno sconosciuto nel propileo del tempio di Leto in Delo (1). Non solo troviamo identica la frase ὄττω τις ἔραται e τοῦ τις ἐρᾷ, ma anche l'andamento dei concetti. La gnoma ha qualcosa di sforzato e di stentato, e in Saffo il pensiero sgorga limpido e spon- taneo: nessun dubbio perciò che Saffo sia l'originale. Continua :

(1) Cfr. i miei Lirici Greci (Elegia e Giambo), Torino, Bocca, 1910, pp. 205-6.

"

[πάγχυ δ᾽ εὔμαρες σύνετον πόησαι

[π]ώντι τ οἹῦτ᾽ | è γὰρ πόλυ περσπόπει[σ]α

[κάλ]λος [ἀνθηΠήρώπων ᾿Ελένα [τὸ]ν ἄνδρα [xgivvev ἄρ]ιστον,

[ὃς τὸ πᾶν) σέβας Toota[s ὄδ]λεσσίεν,

E qui comincian le dolenti note. L’Hunt nota che σκοπείσα nel pa- piro non è certo, e accenna ad una possibilità di σκεδοισα, che finisce a rigettare. E in generale gli altri si acquetano alla lezione dell’Hunt, tranne T. L. Agar (1), che trova un po’ volgare questa Elena che avrebbe avuto tanta pratica della bellezza degli uomini. Veramente qui ha torto, perchè, come è noto, Elena fu invitata a sceglier lei quello dei tanti suoi proci che più le piaceva: aveva perciò dovuto vedere e giudicare molta bella gente. È vero però che il senso non fila. La cosa più bella, aveva detto, è quella che si ama; infatti, soggiunge, Elena che aveva veduto tanta bella gente, scelse Paride. Questa non è un’argomentazione che calzi: se se ne intendeva e perciò scelse il più bello, lo scelse, diremo così, razionalmente e non per passione: questo perciò non di- mostra affatto che la cosa più bella sia quella che uno ama; piuttosto potrebbe provare l'opposto, cioè che si ama ciò che è più bello. .

Persuaso intanto l’Agar che il senso debba essere diverso, si induce a proporre la mutazione di περσκόπεισα in περρόχευσα, cioè: Elena che superava ogni bellezza umana, ecc. Il mutamento però è grave, gravis- simo in un testo frammentario, e, dopo tutto, a restituire un senso ra- gionevole giova poco: più prudente perciò mi sembra stare alla lezione dell’Hunt. Checchè sia di ciò, io credo che il guajo grosso non sia qui e che si deva cercare un altro rimedio: e il rimedio questa volta confido proprio d’averlo trovato : rigetto il supplemento xg/vve» accettato da tutti (Agar ha veZuev che è forse peggio) e gli sostituisco A/uzar. L'uomo di cui qui si parla non è affatto Paride, ma Menelao, è il marito (τὸν ἄν δρα), non l'amante; quello che è lasciato, non quello che è preferito. E col senso siamo a posto: Elena che aveva veduto tanta gente bella e tra tanti proci aveva scelto liberamente Menelao come il più bello, lasciò poi sedurre dalla passione, e lasciò quel brav'uomo di suo marito. E questo prova veramente che ciò che pare più bello è ciò che si ama: lo prova perchè Elena cambiando amore cambiò anche di gusti, e per avere ciò che amava vinse ogni ritegno e ogni difficoltà. Vediamo infatti la strofe seguente :

(1) Classical Review’, XXVIII, september 1914.

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[ds τὸ πᾶν] σέβας Toota[s ὄ]λεσσεν,

[οὐδὲ π]αῖδος οὐδὲ φίλων τοϊκ]ήων

[οὐδὲν] ἐμνάσϑη, ἀ[ 2}λὰ] παράγαγ᾽ αὔταν [Κύπρις ἔραιϊ]σαν.

Il primo verso fin qui lo si riferiva a Paride; col nostro emendamento ir vece, a lasciarlo com’ è, bisognerebbe passarlo a Menelao, al quale converrebbe altrettanto. Ma tanto nell’un caso quanto nell’altro è al- quanto ozioso, ozioso perchè la distruzione futura, e non ancora temuta, di Troja nella decisione di Elena non poteva avere nessun peso, ozioso anche perchè si può adattare a tutt'e due le parti avversarie : anche con la lezione xgivvev infatti non si può proprio dire se il distruttore di Troja sia Paride o Menelao: Elena prima scelse Menelao, poi scelse Paride, e Menelao distrusse Troja, e Paride pure la distrusse perchè fu causa che fosse distrutta. Oltre di ciò se l'uomo è Menelao (peggio se è Pa- ride) abbiamo nel verso successivo di nuovo un ritorno ad Elena, un cambiamento del soggetto sottinteso, che mi ha subito urtato fino dalla prima lettura. E poi a dimostrare che ciò che uno ama è la cosa più bella, che ο᾽ entra il notare che Paride o Menelao distrussero Troja ? O perchè non proverebbe che è una cosa brutta? Io credo perciò che quel primo verso debba riferirsi ancora ad Elena, e perciò il principio non sia stato bene integrato: σέβας infatti mal risponde a gloria o onore; σέβας è la reverenza che uno deve sentire davanti a chi ha diritto di giudicare dei suoi atti, il ritegno che uno sente di fare il male, la paura del giudizio della gente: σεβάσσατο γὰρ τό ye ϑυμῷ. È dunque ancora Elena quella che perdette ogni senso di rispetto di Troja, cioè non si ver- gognò di presentarsi adultera ai Trojani (@î6@s τε σέβας te vanno in- sieme in Hymn. Cer. 190: cfr. pure Aesch. Eum. 690-2 dove dell’Areo- pago è detto: ἐν τῷ σέβας ἀστῶν .... τὸ μὴ ἀδικεῖν σχήσει): perciò invece di ds integro καί. Se anche Saffo non avrà scritto καὶ τὸ πᾶν, deve aver scritto qualche altra parola che dia su per giù questo senso: probabilmente anzi scrisse di meglio di καὶ τὸ πᾶν, poichè τὸ πᾶν è alquanto ozioso: se ponessimo, per esempio, καὶ τὸ μὲν σέβας, 0 anche xa) ϑεῶν σέβας Tootas ὄλεσσεν, mi pare che anche il senso se ne avvantaggerebbe, ancorchè con questo secondo supplemento sia di- verso un po’ da quello di καὶ τὸ πᾶν, E inteso questo verso in questo senso, gli altri due lo continuano naturalissimamente. L'integrazione dell’ultimo poi è molto problematica; ma questa dell’Hunt è di molto preferibile alle altre (77742 φίλεισαν "L905° Edmonds (1); οὔκε κατ᾽ αἷσαν

(1) The new lyric Fragments, in Classical Review’, may 1914.

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"2005 Agar; μᾶλλον ἐραισαν Κύπρις, Castiglioni; κῆνος ἐραισαν,

M. Croiset (1), la quale ultima sarebbe la migliore di tutte, qualora

fossero ammissibili le integrazioni dei versi precedenti); certo è che

Κύπρις (difficilmente “Egos) deve essere il soggetto del periodo che

segue, e perciò deve trovarsi o qui o al principio del verso seguente. La strofe quarta è la più guasta, e l’Hunt la stampa così:

[- ... ἐὔκ]αμνπτον γὰρ [

[-...]... %00p0s t[......v]0op0y.

[τῇ]}ὲ νῦν ‘Avantogi[as ὀἸνεμνά- [σϑΊηζνν) ἀπεοίσας,

dove εὔκαμνπτον è stato felicemente integrato dal Wilamowitz, che poi (N. Jahrbb.) si ridusse a dare solo κ]άμπτον. D'accordo che i due primi versi dovessero contenere una riflessione generale sulle debolezze della natura umana e in specie feminina, ogni tentativo d’integrazione sarà sempre aleatorio. L’Edmonds propose:

"Q905° εὔμαμμπτον γὰρ Gel τὸ ϑῆλυ

αἴ κέ τις κούφως τὸ παρὸν νοήσῃ"

e l’Agar: "Q005° εὔκαμπτον γάρ ἔφυσεν ἄτορ,

αἴ κέ τις κούφως τὸ νέον νοήσῃ.

ovvero γὰρ ἔχει φρόναμα. Ma, specie il secondo verso, mi pare ben poco raccomandabile. In principio del primo io porrei Κύπρις : se anche ο᾽ è, come ritengo probabile, nel verso precedente, la ripetizione è efficace e passionale: poi continuerei anch'io: Κύπρις εὔκαμπτον γὰρ del, e non mi arrischierei andar più oltre. Non mi arrischio anche perchè non sono affatto sicuro di ν]οήσῃ. E non potrebbe esser invece π]οήσῃ Chi pro- ponesse per esempio :

Κύπρις εὔκαμμπτον γὰρ ἀεὶ κατίσχει

ἄτορ ai κούφως φρονέον ποήσῇ, ν

forse non andrebbe troppo lontano dal vero; ma κατέσχει mi soddisfa poco, e si potrebbe cercare un altro verbo dal senso di guidare, volgere, dirigere, o giù di lì. Anche i due ultimi versi della strofa hanno bi- sogno di cure ulteriori. L’Hunt stesso ammette che nell’adonio invece

(1) ‘Journal des Savants’, luglio 1914.

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di ἀπεοισας si possa leggere zageo/cas, e dalla fotografia questo pare anche a me, anzi lo direi certo: anche l’inserzione arbitraria di un v a cui l Hunt ricorre mi decide a rigettar la sua lezione e a ri- tenere παρεοίσας. Ciò posto, sono costretto a dissentire sull’integra- zione di τῆλε. Con questa integrazione si ha un asindeto di forma e di pensiero col verso precedente, che per me è affatto intollerabile. Ma di questo 77]Ae nella fotografia l’e è affatto scomparso e della lettera precedente non resta che l’ultimo tratto inferiore, che potrebbe benis- simo appartenere anche ad un μ᾽: del resto lo stesso Hunt le due ultime lettere come incerte. Mi pare perciò che abbia molta probabilità la seguente integrazione :

d] ue νῦν ᾿ΔΑναχτορίϊ ας ὀ]νέμναι-

σ᾽ οὐ παρεοίσας.

E scrivo ὀνέμναισ᾽ invece di ὀνέμνασ᾽ perchè μνᾶν nel papiro è no- tato in margine, e nei frammenti berlinesi abbiamo ὄμναισαι e ψέμναισϑ᾽ (ma all’aor. pass. ὑνάσϑεισ᾽, e qui pure al v. 11 éuvao87). Così si ritrova la continuità: Cipride che sedusse Elena travaglia pure l’anima di Saffo. Le integrazioni dell’Edmonds e dell’Agar non mi pajono discutibili perchè introducono una terza persona incomoda tra Saffo ed Anactoria. Meglio il Castiglioni:

GA}R@ νῦν 'Avantogi|as ye] uguva- U ὡς παρεοίσας, ma mi pare un po’ freddo e prosaico: ὡς è possibile; per altro ciò che segue pare escluda che per Saffo fosse come se Anactoria la vedesse presente, quando invece dice che vorrebbe vederla: perciò preferisco οὖ: il notare l’assenza è un rimpianto passionale. La quinta strofa è più piana:

[τὰ]ς (x)e βολλοίμαν ἔρατόν te βᾶμα κἀμάρυζ(γγμα λάμπρον ἔδην προσώπω τὰ Λύδων ἄρματα κἀν ὄπλοισιζνΝ

[ἱππομ)]αχέντας.

L'ultimo verso è stato corretto poi in πεσδομ)]αχέντας, e poichè la corre- zione fu suggerita dal Rackham all’Edmonds e il dott. Vogliano affermò al Castiglioni d’averla egli pure pensata indipendentemente, questo sarebbe un buon argomento in favore della sua bontà: con πεσδομαχέντας si ha il vantaggio di eliminare il v che altrimenti converrebbe aggiun-

RI ΤΕΥ ΤΕΥ pa ttt 5 È rale DATORE AI La io mia 346

x

gere alla fine del verso precedente. Anche l’Hunt (1) convenne poi in questa lezione. Seguono altri due versi:

[ed μὲν ἴδ) μεν οὐ dbvarov γένεσϑαι [τοῦτ᾿] av ἀνϑρώπ[οις, π]εδέχην δ᾽ ἄρασϑαι

coi quali finisce la colonna, e poi restiamo in asso perchè la colonna seconda è, come la prima, mutila nel principio, e quanto manchi non si può dire: il primo verso che nella colonna seconda riscontriamo è:

τ᾽ ἐξ ἀδοκήϊτω.

dopo il quale comincia un’altra ode. Esso è perciò molto probabilmente l’ultimo dell’ode presente dopo una lacuna di qualche strofa, non più di tre o quattro in tutte. Da questi versi non c’è perciò nulla da cavare : delle integrazioni proposte a ogni modo non sono persuaso. Saffo aveva detto che desiderava vedere Anactoria: aggiungere: sap- piamo bene che questo non è possibile tra gli uomini ,, mi pare fuori di luogo. Era morta? Evidentemente no: la possibilità di rivederla dunque c’era. si tratta di una impossibilità speciale di Saffo, no; Gv ἀνθρώποις vuol dire che si tratta di una cosa umanamente impos- sibile; e rivedere un lontano è umanamente possibile sempre. Si rime- dierebbe a questa incongruenza accettando invece di τοῦτ᾽ il supple- mento πάντ᾽ proposto dal dott. Calderini (2), ma la sentenza che ne risulta sarebbe affatto oziosa. Piuttosto escluderei εὖ μὲν ἔδμεν: quanto al sostituire è un altro discorso: penserei qualcosa di questo genere : ὅττι μὲν γὰρ οὐ δυν. yév. ἐστ᾽ ἀν᾽ ἀνθρώποις n. t. A. = ciò che non è possibile, ma che solo si può augurarsi... ,, ma su questa china è meglio sostare.

Se questi due ultimi versi non ci fossero, noi le cinque strofe prece- denti le riterremmo un’ode integra, e degna anch’essa di andare in ischiera con le belle. I due ultimi accennano a un organismo più ampio, e a un più largo svolgimento di pensieri. Quale? È ozioso fan- tasticarvi sopra. Piuttosto aggiungerò qui delle cinque strofe una tia- duzione poetica condotta sopra il testo da me reintegrato :

(1) The new lyric Fragments in ‘Class. Rev.’, june 1914, pp. 826-27. (2) Saffo secondo le più recenti scoperte dei papiri. Milano, 1914.

et DE I e

Schiere di fanti e torme di cavalli

Altri si crede ed ordini di navi

Sopra ogni cosa bella essere al mondo: To ciò ch’uom ama.

x

E veramente facile è per tutti Questo far chiaro, chè Elena pur anco, Che la bellezza ben conobbe, il grande Marito a spregio Tenne, e pudore non mostrò di Troja, della figlia memore o dei cari Parenti ell’era, ma amorosa lei Cipri sedusse;

(Cipri che regge facilmente il senno

Di chi ella volga a teneri pensieri),

Ed Anactoria or mi ridesta in mente Tanto lontana,

Di cui sospiro l’amoroso incesso

Vedere e i lampi del lucente volto,

Più che dei 1141 combattenti i carri In guerra e i fanti.

\

Segue a questa un’altra ode di cinque strofe di cui si conservano solo le prime due o tre sillabe di ciascun verso: un papiro fiorentino (P.G.I. 123), che conteneva lo stesso testo, è tagliato allo stesso modo, ma per le prime due strofe e mezza contiene qualche sillaba di più; ciò che ha permesso al Wilamowitz di tentarne una ricostruzione molto ingegnosa : il testo è ad ogni modo troppo mutilo perchè ci fermiamo a discutere tentativi che non presumono del resto d’esser altro che saggi d’'ingegno acuto e di dottrina.

Poi siamo in piena strage: son tutte membra mutile; vi si sente la solita dolcezza delle parole di Saffo, ma il senso non si reintegra. Solo dai fr. 15, 16 e 56, il quale ultimo chiudeva il libro, ed era un epita- lamio, può cavare qualche piccolo spunto.

Il pap. 1232, che consta di avanzi di tre colonne, pare contenesse il libro secondo di Saffo che era tutto in pentametri saftici. Contiene nella colonna prima un avanzo informe d’una poesia, a quanto pare, per una festa notturna, e nella seconda e terza una parte dell’Epitalamio di Ettore ed Andromaca. Dai primi versi che ci restano, sebbene guasti, si ricava che l’araldo Ideo viene in Troja ad annunciare l’arrivo degli sposi,

e come il testo comincia a esser integro, egli dice:

348

Eeco Ettore viene e i compagni guidando dal fonte Di Placia perenne-fluente e da Tebe per nave

Sul pelago salso la cara dagli-occhi-rotondi Andromaca; e d’oro monili moltissimi e vesti

Di porpora o a fiori intessute e bei vaghi gingilli Ed innumerevoli coppe d’argento e d’avorio ,.

Ciò disse: e sollecito il padre suo caro levossi,

E andonne la fama per l’urbe gioconda agli amici: E tosto gli Iliadi condussero ai rapidi cocchi

Le mule; e salironvi su tutta quanta la turba Insiem delle donne e le vergini bella-caviglia;

E a parte le figlie di Priamo saliro a lor volta,

E gli uomini ai carri traeano i cavalli.....

Poi seguono tre versi frammentarî, poi un altro frammento, pertinente pure a questa colonna, nel quale continuava la rappresentazione della festa, per quanti versi è impossibile dire, perchè non si sa l'altezza della colonna, certo almeno sette, perchè di tanti restano tracce o re- liquie, probabilmente pochi di più. Poi nella colonna terza abbiamo tre versi mutili e quattro integri che chiudono l’ode, e dicono:

È allor le matrone levarono un grido giocondo, E gli uomini tutti intonarono un canto solenne, Peane invocando che lungi saetta, ed agl’inni Andromaca davano ed Ettore simili ai Numi.

Se, come pare indubitabile, l’epitalamio comincia con la colonna seconda, si può dire che il poemetto sia riacquistato nella parte sostan- ziale e della sua costruzione possiamo farci un’idea chiara. Lo parago- nerei a qualche ditirambo di Bacchilide: è infatti, come qualcuno di quelli, una breve scena, parte narrata parte rappresentata, d’'argomento epico ma di spirito lirico. Nei miei Lirici Greci (1) ho fatto notare come gli inni ad Ermete e ad Apollo di Alceo, probabilmente il primo, certo il secondo, dovessero avere un carattere narrativo che fino ad ora credeva nella lirica proprio solo di quella dorica. Per Saffo non ave- vamo di questo genere che quattro versi (fr. 48-49 HC.) pertinenti ad un epitalamio per le nozze di Eracle ed Ebe, o di Teti e Peleo, ma nulla si poteva dire sullo svolgimento del soggetto: ora non c’è più dubbio : ora anche l’ipotesi che l’epitalamio di Teti e Peleo di Catullo

(1) Lirici Greci (Poesia Melica), pp. 165-69.

nei tratti fondamentali risalga a Saffo acquista un maggior grado di probabilità. Dobbiamo adunque modificare i concetti troppo esclusivi che si erano volgarmente formati sopra le distinzioni dei generi lirici, Un'altra cosa è da notare. Servio ci attesta che un libro di Saffo era intitolato Epitalami, e sarà vero: ma abbiamo intanto visto che l’ultima ode del libro primo era un epitalamio, e un epitalamio era questa pure, che, come appare dal papiro, chiudeva il secondo.

L'epitalamio è di Saffo indubbiamente, e sarebbe affatto inutile notarlo, se il Wilamowitz (1) non l’avesse negato, e non si sapesse che quando un uomo di tanta autorità afferma una cosa, molti son lodevolmente disposti a credere che abbia ragione. È vero che ha ribattuto già il Castiglioni che quanto alle ragioni metriche (e, aggiungiamo pure, lingui- stiche) bisogna tener conto dell’influsso epico (dei pentametri saffici poi ne abbiamo tanto pochi che qualunque asserzione è per lo meno im- prudente), e che quanto a φέλοις e ϑέοις, il primo non è dativo ma accusativo : l'aveva notato già l’Hunt. Resta ϑέοις. Ebbene, questa forma incriminata è nel primo frustolo di verso del fr. 2 ἔϊκελοι ϑέοιϊς, dove il s è un’integrazione: vogliamo intanto rimediare a questo inconve- niente? Scriviamo così: 2]xeZoc ϑέοι[ σ΄. Non vale la pena di documen- tarlo, ma ad esuberanza cfr. il citato fr. 51 ϑέοισ᾽ οἰνοχοῆσαι, dove il Bergk scriveva ancora eos. Gli è che (ma questo non ha che fare con l’auten- ticità) non vedo affatto come ἔκελοι ϑέοισ᾽ (0 ϑέοις) possa stare in mezzo d'un pentametro saffico, sia che ϑέοισ᾽ si prenda per una sillaba sola (non si vorrà certo ammettere possibile la sostituzione di uno spondeo), sia che lo si prenda per due. Che si debba leggere ἔκελα ϑέοισ᾽ 0 piuttosto ἐκεοθϑέοισ᾽ Questo corrisponderebbe al ϑεοϊκέλοις dell'ultimo verso, dove pure il < di 7xe4os è incontestabilmente lungo (εἴκελος), mentre è breve nel primo frammento berlinese. Posta questa soluzione, torna di nuovo dubbio se la lezione vera sia proprio ἐκελοϑέοισ᾽, potendo esserci anche un accusativo, e anche un nominativo, κε όϑεοι. Quanto alla forma, se c'è 068205, perchè non ci dovrebb'essere ἐκεζόϑεος ? L'altro argomento del Wilamowitz, che cioè nella larghezza dell’ode (in der breiten Ausfiihrung) crede di sentire un tono estraneo a Saffo, lo lascieremo stare: è questione di gusti: io anzi per questa larghezza e facilità ci sento invece proprio il tono di Saffo, tanto che soltanto per questo direi che è poesia sua, anche se non ci fosse sotto il nome e non avessimo a riprova un verso citato da Ateneo. È questione di gusto, e ciascuno crede che il proprio sia il migliore.

. (1) In ‘Neue Jahrbb.”, l. ὁ.

EREMO

È difficile staccarsi da Saffo, ma bisogna pure lasciare un po’ di posto.

anche ad Alceo.

Anche Alceo è rappresentato da due papiri, in pessimo stato come quelli di Saffo, con questa differenza che mentre di quella, tranne le due odi esaminate, il resto è pressochè tutto roba informe, di Alceo invece non abbiamo nulla che arrivi all’estensione dei due carmi di Saffo, ma invece un numero maggiore di frammenti da cui si cava qualche cosa.

Del papiro 1233 abbiamo 34 frammenti; ma non sappiamo a quale dei dieci libri di Alceo appartengano : si vede che i libri di questo poeta non erano divisi secondo i metri secondo gli argomenti: Orazio può avere imitato Alceo, o, diremo meglio, l'edizione di Alceo anche in questa varietà: l'osservazione è del Wilamowitz.

La prima ode leggibile è nella colonna seconda del fr. 1, e se ne sono conservati tredici versi in uno stato tale che lasciano almeno intenderne il senso. È una specie d’epistola all'amico Melanippo e dice che della morte non v'è speranza rimedio : anche Sisifo ch’era risorto dovette rivarcare l’Acheronte. Disgraziatamente i due primi versi hanno resistito finora ad ogni spiegazione plausibile, e il secondo nel papiro è certo scorretto. È dato così: oraze[...] δινναενταχέρονταμεγί, ma il verso è sbagliato, e per ridurlo a un pentametro saffico l’Hunt inverte l’or- dine e dà:

διννάεντ᾽ ὅτα μεῖ...] Ayégovra uey[

Ma poichè διννάεντ᾽ ᾿Α χέροντ᾽ si trova anche sei versi dopo, la ripeti- zione è sospetta. Si potrebbe spiegare come un’insistenza retorica sul concetto pauroso; in tal caso per altro la frase andrebbe ripetuta tale e quale senza spostamenti, e perciò credo meno improbabile rico- struire così:

διννάεντ᾽ ᾿Αχέροντ᾽ ὅτα με]

Forse diceva: null’altro resta a chi l’Acheronte abbia passato se non di non veder più la luce del sole:

ζάβαιϊς dlelim κόϑαρον φάος [οὐκέτι

dpeod.

L’Hunt invece di οὐκέτι integra ὕστερον e fa il periodo interrogativo : How can you suppose that, when you have crossed Acheron’s whirling stream, you will thereafter see the pure light of the sun? , Il signor Melanippo avrebbe supposto veramente una cosa inconcepibile (post

"“ -

È ADE eta: Se

che non fosse un pitagorico!) e Alceo gli farebbe troppo onore a discu- tere a questo modo una tale idea. Io penso invece che Melanippo avesse cercato di confortare Alceo, per esempio, della morte di persone care, o piuttosto gli volesse far coraggio ad affrontarla, parlandogli, poniamo, della memoria che resta e che è come una nuova vita; e che perciò Alceo risponda qui press’a poco così: “che mi vai cianciando ? quello che resta quando si è passato l’Acheronte è di non veder mai più la luce del sole ,. Soltanto non mi riesce trovar le parole appropriate da integrare con questo senso. Non bisogna dimenticare che a Melanippo Alceo diresse un’altra poesia in cui gli annuncia di aver bensì gettato lo scudo, ma di aver salvato la pelle: il frammento della citazione di Strabone, XIII 600, non fu potuto ancora ricostituire, ma il Bergk cre- dette di poter trarne un pentametro saffico. Saremmo nello stesso ordine di idee; e si potrebbe forse credere che su quel primo annunzio alquanto cinico Melanippo avesse trovato che ridire, e che perciò Alceo qui repli- casse rincalzando. Il principio ex abrupto ti ὦν conforta questa ipotesi. Con questo senso ad ogni modo anche ciò che segue torna più ragio- nevole e μὴ μεγάλων ἐπ[ιβάλλεο non occorre voglia dire ‘non illuderti di tornar fuori’ ma basta “non aver grandi ambizioni” e perciò non buttarti via troppo all’Ade avremo sempre tempo d’andare ,. L'esempio di Sisifo non s'ha da intendere perciò nel senso che l’altro abbia affermato la possibilità che si ripeta, ma solo come un esempio mitico dell’inutilità di simili generiche aspirazioni. Nello stesso contesto di pensieri lo tro- viamo anche in Teognide, vv. 702 sgg.

Nel fr. 2 al principio della colonna troviamo quattro strofe saffiche che sono la chiusa di un’ode., Esse sono mutile nella seconda parte di ciascun endecasillabo, ma furono egregiamente integrate dal Wilamowitz: il quale poi crede che in ‘principio manchi una sola strofa e diffieil- mente di più, e che con tutto ciò questo avanzo sia una bella cosa. Io son d’avviso affatto opposto, e dico che se in principio non mancasse che una strofa non avremmo ragione alcuna di felicitarci troppo della scoperta di questa miseria. Le strofe rimasteci contengono un paragone tra Elena, cagione di tanti guai, e Teti, la sposa casta, cagione di tanti beni. Or è da notare che per Elena è rimasta una strofa sola, mentre Teti, che evidentemente è introdotta solo per ragione di contrasto, ne ha tre: oltre di ciò, che un paragone fatto preso da solo come sog- getto di un’ode sarebbe la cosa più fredda e retorica del mondo, un vero còmpito di scuola, mentre come chiusa di un argomento più ampio è veramente al suo posto. Non è necessario credere che Alceo abbia scritto tutti capolavori, ma non è lecito neanche attribuirgli gratui- tamente delle sconciature. Ecco ad ogni modo la versione delle quattro strofe

352

Come si narra, d’opere malvage A Priamo e a tutti di sua casa il fine Fioriva amaro per tua colpa, ed arse La sacra Troja. Ma non fatta, quando tutti i Numi Chiamò alle nozze desiate, avea Peleo di Nereo dai palagi addotta La vergin cara Alle magioni di Chirone. Il cinto Della donzella l'amicizia casta Della Nereide e dell’eroe disciolse; E al fin dell’anno Generò un figlio massimo tra i semi- dei, di puledri biondi agitatore, E quei perian per Elena, e coi Frigi La città loro.

Col movimento della seconda strofa οὐ τεαύταν cfr. l'’oraziano (III 6, 33):

Non his iuventus orta parentibus.

Nel fr. 4 invece abbiamo il principio (tre strofe saffiche) d'un inno ai Dioscuri: furono anche queste integrate molto bene e con molta pro- babilità dal Wilamowitz (1), e sono belle veramente. Ecco la versione :

Qui, abbandonato lo stellante Olimpo,

Di Giove e Leda o gloriosi figli,

Con cor giocondo, o Càstore, apparite, E tu, Polluce,

Voi che correte l’ampia terra e il mare

Tutto, fidando ai rapidi cavalli,

E facilmente gli uomini da morte Togliete orrenda,

Quando balzate in cima ai legni a porvi

Sopra le sartie splendidi lontano,

E in aspra notte da voi luce attinge

La nera nave.

Sono i fuochi di Sant'Elmo, ed è superfluo ricordare i fratres Helenae lucida sidera di Orazio. Cfr. piuttosto l’ultimo Inno Omerico. Natural- mente tanto in quest'ode quanto nella precedente le integrazioni son

(1) Nell’edizione inglese e in ‘Neue Jahrbb.”.

SIRIA

tutte discutibili, ma in questi casi ciò che importa è infilare il senso

| giusto, chè quanto alle parole nessuno può con certezza indovinarle;

perciò è ozioso immaginarne altre semplicemente per sostituire alia vocabula.

Dagli altri frammenti di questo papiro pochissimo si cava, tanto sono guasti; nel fr. 11 troviamo nominata Babilonia ed Ascalona, e nel fr. 32 fu riconosciuto il fr. 42 del Bergk, ma la lezione della seconda parte del primo verso resta ancora dubbia mancando nel papiro.

L’altro papiro d’Alceo (1234) è molto meno esteso, ma relativamente è forse un po’ meno male conservato: consta infatti di sei soli frammenti (corrispondenti alla parte inferiore di sei colonne), cinque dei quali hanno una discreta estensione, e dai più 51 cava, o si può sperar di cavare, un qualche senso. Vi sono pure degli scolì marginali che a qualcosa servono, ancorchè servano poco. Pajono tutti canti d’argomento politico (στασιωτικά 3); tanto più perciò sarebbero interessanti se fossero integri.

Il fr. 1 contiene avanzi di tre strofe saffiche, la prima delle quali è pressochè totalmente perduta. Nella seconda pare che il poeta invochi gli Dei contro uno svergognato (dice lui); nella terza e quarta chiama Zeus a testimonio che i Lidî avevano dato due mila stateri (agli esuli ?) se riuscissero a prendere la sacra città e li avevano dati “senza aver prima avuto da loro alcun beneficio, anzi senza neppur conoscerli, e quella volpe εὐμαρέα προλέξαις sperò poter nascondere... ». Il senso continuando, si sarà probabilmente chiarito; ora è dubbio: εὐμαρέα προλέξαις potrebbe. significare “avendo detto prima che la cosa era facile ,, ma non oserei sostenerlo. Chi è questo svergognato Pittaco Qual è la sacra città? Mitilene (come crede il Wilamowitz), che gli esuli volessero riprendere? O Sigeo? E questi Lidî perchè erano così gene- rosi? Per estendere il dominio o la influenza loro su Lesbo? Quando? Anche la prima ode di Saffo del pap. 1231 ricorda la magnificenza degli eserciti def Lidî. “τ

Il fr. 2 col. contro Pittaco e sono gli ultimi dodici versi di un’ode, i primi quattro mutili in fine, e questo è interessantissimo e per il con- tenuto storico e per il metro. Gli ultimi otto versi, che sono pressochè integri, dicono: E quello ringalluzzito per le nozze (con la famiglia) degli Atridi si divori la città come già con Mirsilo, fino a che Ares voglia rivolgere la fortuna anche su di noi, che possiamo dimenticare questa rabbia, e cessare dall’affanno che rode l’anima e dalla guerra civile che qualcuno degli Olimpii suscitò conducendo il popolo alla rovina e dando a Pittaco la gloria desiderata ,. L’uomo di cui parla il primo verso, secondo uno scolio in parte leggibile, aveva ottenuto il diritto di epigamia coi discendenti degli Atridi: il plebeo Pittaco si era così nobilitato. L'autore del proverbio τὴν κατὰ σαὐτὸν ἔλα avrebbe

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 28

forse trovato poi l'occasione di applicarlo a stesso? E chi erano questi discendenti degli Atridi? La famiglia di quel Pentilo che è no- minato nel fr. 6? Queste ed altre questioni di cronologia vedile accen- nate nell'articolo del Wilamowitz nei Neue Jahrbiicher 1. c. È ivi pure veggansi le questioni metriche sopra il verso che in quest’ode è alter- nato con l’asclepiadeo.

Il fr. 2 col. II consta di tre strofe alcaiche, l’ultima per altro monca del- l’ultimo verso, ma sebbene siano quasi integre, sono estremamente difficili ad intendersi. Credo abbia ragione il Wilamowitz che vi vede rappre- sentata una crapula volgare alla quale sarebbe stato solito di darsi il padre di Pittaco. E tu che sei di questa razza ,, conchiude, presumi come gli uomini liberi figli di nobili genitori ,. Forse su questo fram- mento tornerò altra volta, se riuscirò a dar fondamento ad un’interpre- tazione che ora mi pare di intravvedere.

Il fr. 3 contiene pure due strofe alcaiche e mezza con i versi monchi tutti della seconda metà: torna fuori l’immagine della nave in tem- pesta con la conclusione di voler passarsela e darsi al bel tempo. Miseri avanzi di strofe alcaiche contengono pure il fr. 4, e il fr. 6, nel quale ultimo il poeta ricorda quando da piccolo sedeva (sulle ginocchia di qualcuno); vi si nomina Pentilo, e v'è la parola κακοπάτριδα, che fu

"usata dal poeta a dileggio di Pittaco anche nel fr. 42 (H.C.).

Tutto sommato, la fama d’Alceo resta ancora affidata, più che ai suoi versi superstiti, alla concorde testimonianza degli antichi. Non ci resta che una speranza: che altri papiri scoprano in migliori condi- zioni, 0, se ciò è desiderar troppo, che almeno altri pur frammentarî giovino a integrare, o in tutto o in parte, le lacune dei nostri, come ha fatto per Saffo, benchè con poco profitto, il papiro fiorentino sopra citato. Nella prefazione al vol. V di Ossirinco (1908) si parla di un “immense number of fragments from the Greek lyric poets found during the last two seasons ,. La speranza dunque non è infondata del tutto.

Milano, febbraio 1915.

G. FRACCAROLI.

Errore Pars. Storia critica di Roma durante i primi cinque secoli.

Vol. I. Parte prima: Le fonti. L’età mitica. Parte seconda: L'età regia. Roma, Ermanno Loescher et C.°, 1913, di pagg. xxvr- 835.

Vol. II. La Libera Repubblica , e la legislazione decemvirale. Le guerre contro gli Equi, i Volsci e gli Etruschi. Roma, Ermanno Loescher et C.°, 1915, di pagg. xv-563.

Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma. Serie prima. Roma, Ermanno Loescher e C.°, 1915, di pagg. x1r-469.

Negli anni 1898 e 1899 il Pais pubblicava la sua Storia αἱ Roma dalle origini della città sino all’intervento di Pirro; dopo quindici anni egli ci offre della sua opera un totale rifacimento. Il primo volume, che comprende, oltre un libro sulle fonti, l’età mitica e l’età regia, ha da più di un anno veduto la luce; ora è uscito il secondo volume, com- prendente la libera repubblica , e la legislazione decemvirale per la storia interna, le guerre contro gli Equi, i Volsci e gli Etruschi per la esterna, corredato di un volume di una prima serie di ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma. A questo volume di ricerche terrà dietro fra poco un secondo concernente i Fasti e un terzo in corso di stampa. Un terzo volume della storia, già citato nel secondo, è pure in corso di stampa e contiene l'invasione gallica ed il trionfo della plebe ; la supremazia romana nel Lazio e nella Campania. È in preparazione un volume quarto che conterrà: i Sanniti ed i Galli; Pirro e Cartagine; Roma alla testa della confederazione italica. La materia dunque che prima fu trattata in due grossi volumi, ora vediamo apparire in quattro non meno grandi e accompagnati da altri di ricerche: è evidente che siamo dinanzi ad un nuovo studio, ad una nuova elaborazione del me- desimo periodo storico. Sempre storia critica però, perchè forse a tal periodo non si adatta meglio una trattazione diversa, o forse la tempra dell'ingegno dell'autore ama tal genere di studio, trovandosi a suo agio in un campo così pieno di problemi terribilmente difficili.

Il Pais è stato sempre padrone della sua materia, ormai è notorio ; ma durante questo intervallo egli ha maturato e raffinato il suo spirito, ha chiarito la soluzione di molte questioni, ha raccolto materiale nuovo, frutto di studi varii, di osservazione propria, ed ha potuto accingersi alla presente opera avendo come pensiero dominante la intelligenza del lettore. Ha infatti diviso e suddiviso la materia in libri e capitoli relativamente brevi, ha ridotto allo stretto necessario l’esposizione della tradizione ed ha scelto per le singole dimostrazioni quegli argomenti che erano da ritenersi più acconci ed essenziali, ha reso più sobrio e leggiero, senza

ΝΣ Nei li de ira 1 o eo Revan Ai ie 0 ΠΡῸΣ de AVERLI AMRITA Mac si

x

356 che sia meno completo, l’apparato delle note; anche il suo stile sembra avere acquistato maggiore semplicità e agilità. Egli ha potuto anche rivelare un altro lato del suo spirito : l’opera è concepita e dis- posta con senso artistico che le conferisce una particolare attrattiva. Uno dei capitoli, per es., della precedente Storia di Roma, che, secondo me, faceva maggiore impressione, era quello delle fonti, un capitolo magnifico; ora quel capitolo, divenuto il primo libro, è un lavoro addi- rittura magistrale.

Negli studi della più antica storia di Roma i due problemi fonda- mentali, per es., quello dei Fasti e l’altro della cronologia, si può dire siano rimasti, in questi ultimi tempi, al medesimo punto di prima. Il Pais quindi ha potuto mantenere le sue posizioni e di nuovo affermare le sue teorie: egli è sempre più convinto del carattere di scarsa o ben poca attendibilità della tradizione relativa al secolo V a. C.j come ri- tiene, a ragione, che tutto il lavoro della critica tedesca per riordinare il calendario e la cronologia sia intieramente fallito. Al Pais però è stata attribuita una tendenza demolitrice che non risponde alla realtà: gli si è attribuita perfino la negazione del periodo regio. Questo non l’ha detto mai e non poteva dirlo: egli vede nei sette re personaggi mitici, cosa da non far meraviglia, poichè anche Roma doveva avere la sua età mitica; ma vede altresì nell’ultimo periodo regio la conquista di Roma per opera dell’elemento etrusco, che egli ricollega con un movimento generale di espansione di questo popolo. Certo egli non può stare alla tradizione, quando penetra nelle origini della plebe romana, problema che ha tentato molti chiari ingegni nostrani e stranieri, e ne una soluzione sicura, evidente, tale di cui noi stessi possiamo trovare ele- menti di prova nella nostra esperienza. Ma è la tradizione che con la notizia della venuta in Roma del sabino Atto Clauso coi suoi cinque mila clienti fa intuire all’autore il modo e il tempo dell’immigrazione del popolo sabino nel Lazio; come il fatto della gente Fabia, che si assume la guerra di Veii, gli suscita l’idea dell’antichissimo ordinamento gentilizio.

Il Pais aveva potuto osservare come certi resultati della sua critica avessero dato motivo nel campo giuridico a dibattiti e dottrine, le quali, deviando dal loro punto di origine, facevano ricadere su chi le aveva promosse responsabilità scientifica e giudizi non rispondenti al vero. Gli si era imputato di aver negato l’autenticità della legge delle Do- dici Tavole; orbene egli solennemente afferma di non aver fatto mai questione di autenticità, ma bensì se vi sieno state o no varie reda- zioni di esse e sull’età in cui vennero definitivamente pubblicate nel Foro. Su questo punto capitalissimo del suo secondo volume l’autore si attarda con una dimostrazione minuta, serrata, efficace; su questo punto

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cerche, nelle quali. smesso l’atteggiamento obiettivo e sereno della storia, impugna le armi di battaglia e si difende e assale con la ben

nota vigoria. Senza dubbio il Lambert e il Girard e tatti coloro che li

hanno seguiti dovranno riconoscere il giusto valore delle ragioni del Pais e non farlo responsabile di ulteriori svisamenti.

Anche dalla Storia di Roma precedente si potevano ricavare gli ele- menti per una ricostruzione storica; ma era uno sforzo che non poteva richiedere da qualunque lettore ed era giusto vi si sottoponesse, come ha fatto ora, chi poteva con essa recare grande, immenso vantaggio all'opera sua. Così del periodo regio come del primo secolo della libera repubblica , l’autore tenta ricostruire la vita civile e politica, gli ordi- namenti pubblici e gli istituti privati, e qui lo soccorrono la potenza e la grande penetrazione del suo ingegno: questa è storia creata ed è la più vera. Egli mette a contributo leggende e costumanze antiche, dati della tradizione, osservazioni personali. legislazione e storia com- parate. Sorgono i primi tratti di un quadro, che sempre più si completa e riceve la sua giusta luce e la sua reale importanza dal posto che gli è dato di fronte alla storia degli altri popoli italici: la narrazione assume

linee più generali, l'orizzonte si allarga. l’opera si eleva ad una storia

d’Italia, quale si presentò alla mente dell’autore trent'anni or sono.

Sulla profonda originalità della storia del Pais non v'è dubbio; ma anche in essa si possono porre in rilievo le parti che più delle altre sono un prodotto della mente di lui. Abbiamo già notato tutta la parte ricostruttiva; possiamo notare pure il grande sviluppo che l’autore ha dato alle relazioni fra i poteri religiosi e politici, tema che è pure oggetto di una speciale memoria nelle Ricerche e che il Pais è stato il primo a vedere e trattare aprendo una nuova via. Interessantissimi gli studi affatto nuovi sulle leggi sumptuarie e la scoperta di leggi regie in Catone e altrove. Così va posta in rilievo la parte cospicua consa- erata alla storia dell'Etruria, la comparazione con il popolo gallico, le varie questioni di diritto pubblico. Non è facile trovare fra le storie dell'antichità un’altra paragonabile con questa per lo sfondo geografico: il dato geografico è per il Pais sorgente di considerazioni solide, sicure, che conferiscono al suo lavoro un motivo importante di novità e d’in- teresse.

Quando la storia del Pais sarà compiuta, e se i volumi successivi ri- sponderanno, come non può dubitare, all’attesa suscitata dai primi, paese nostro si sarà arricchito di una delle più insigni opere di let- teratura scientifica. Essa è il resultato di un lavoro intenso, continuo di una mente superiore, attraverso ad un numero infinito di memorie che hanno discusso ogni minimo particolare e ad opere generali che

NAT ΡΙΥΎ pf Li

358

hanno raccolto più volte l'insieme ; essa è il resultato della ricerca pa- ziente e febbrile di tutta la vita di uno studioso che ha voluto vedere ogni lato dei problemi e si è fornito di ogni mezzo atto a risolverli; è un monumento che non morrà, perchè in esso vi è troppo ardore e sin- cerità di indagine, vigore dialettico, luce di pensiero. E come nessuna altra opera può dirsi più rigorosamente scientifica di questa, nessuna. più di questa è pervasa da un alto senso di amor patrio. L'autore ha scoperto nella storia delle più antiche stirpi italiche le lontane origini della nazione italiana, ha veduto come tutte le rudi energie primitive abbiano contribuito alla formazione di quel popolo italiano che divenne il padrone del mondo; egli ha sentito che la storia dei popoli più an- tichi della Penisola, che la storia di Roma è storia nazionale e l’ha scritta con amore e fede d’italiano.

Genova, gennaio 1915. GrovannI NiccoLini.

SomocLe. Aiace commentato ad uso delle Scuole da Domenico Bassi. Con otto illustrazioni. Firenze, G. C. Sansoni, 1914, di pp. χχχνιι- 184.

Sorocce. Antigone con note per le Scuole di Domenico Bassi. Seconda edi- zione ampliata e in parte rifatta. Napoli, Francesco Perrella, 1914, di pp. 127.

Da qualche anno, cioè da quando i programmi ministeriali hanno imposto in terza liceale la lettura di un’intiera tragedia greca, son cominciate ad apparire edizioni scolastiche commentate di tragedie greche, alcune delle quali, per lo scopo che si propongono, pregevolis- sime. Si è avuto così in Italia un lavoro assai intenso per il commento dei tragici greci, ma sporadico e disordinato per diversità, se non proprio d'intenti, di autori, di editori, di metodo.

Il Bassi, che è stato il primo in Italia a curare un'edizione commen- tata di tragedia greca, fino dal 1893, quando ancora lo studio della tragedia nelle scuole era lasciato solo all’arbitrio dell'insegnante, viene ora ad arricchire la serie dei commenti ai tragici coi due volumetti che abbiamo sott’occhio; i quali, come lavoro scolastico, sono degni della più schietta approvazione. Solo è da dolersi che l’A. non abbia posto mano al commento dei capolavori sofoclei come a un lavoro organico ed abbia distribuito i suoi commenti fra varie collezioni di classici (Loescher, Sansoni, Perrella), mentre sarebbe stato desiderabile che, a simiglianza di altre raccolte, che si hanno in Germania e in Francia,

LA RRGREO fe: avesse conservato nei suoi commenti la più rigorosa uniformità anche esteriore.

Questo gli avrebbe permesso di sviluppare e riunire in capo a tutta la raccolta le osservazioni grammaticali e metriche che ha premesso all’Antigone ed ha tralasciato nell’Aiace; di corredare ugualmente tutte le tragedie di illustrazioni mentre non lo ha fatto, con una certa am- piezza, che nell’Aiace; non si sarebbe insomma trovato nella necessità di ripetere o di sopprimere ed avrebbe lasciato a noi la speranza di vedere esteso il commento a tutte le altre tragedie sofoclee, come è da augurarsi vivamente.

Non pochi, infatti, sono 1 meriti di questa edizione. L’A. si propone di fare opera utile per le scuole, ma un lavoro che raggiunga piena- mente questo scopo, come lo raggiungono indubitatamente i commenti del Bassi, ha per gli studi un’utilità che non è limitata all’ambiente scolastico. Un commento che rechi un aiuto efficace alla retta interpre- tazione di un classico può giovare anche a chi la licenza liceale l’ha presa da un pezzo e chiede al commento lo schiarimento di un dubbio o la facilitazione di un riscontro. Che se i commenti scolastici non doves- sero essere che una stampella offerta ai licenziandi liceali perchè escano con passo più o meno claudicante dal dubbio varco che mena o all’im- piego modesto o ai banchi universitari, ci sarebbe davvero da invocare una disposizione penale che distogliesse i commentatori dal commettere un reato di tal fatta. Io credo che per scolastico debba interdersi soprattutto pratico, intender cioè che sono state messe da parte le divagazioni oziose, le discussioni che non possono avere interesse che per una cerchia ristretta di studiosi, gli sfoggi di erudizione. E non è detto che di questi semplici commenti, che quando son ben fatti son frutto di lunga esperienza e di quella pratica specifica che non tutti possono avere di tutti gli autori, non si debbano giovare altro che gli studenti medi. È invece da deplorare, ripeto, che questo sforzo di pro- curare dei commenti sobrii, piani, ma sufficienti ai tragici greci non sia disciplinato ed esteso a un maggior numero di opere.

I commenti del Bassi con le opportune costruzioni, col suggerimento ora del senso generale ora della traduzione letterale, col chiarimento anticipato di possibili equivoci specialmente nei rapporti fra parole strettamente connesse ma distanti, con la spiegazione delle forme gram- maticali rare o che potrebbero esser fraintese, rendono superfluo qual- siasi altro aiuto che non sia quello indispensabile del vocabolario.

Ciascuna delle due tragedie è preceduta da un’introduzione, buona parte della quale è occupata dall'esposizione della leggenda a cui Sofocle attinse; studio utilissimo non solo per chi abbia già una conoscenza sommaria della tragedia attica e delle sue relazioni col fondo comune

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delle leggende greche, ma anche per gli alunni delle scuole medie. Chiunque abbia pratica delle nostre scuole sa di quali confusioni siano capaci gli alunni in materia di tradizione leggendaria e con quanta facilità attribuiscano a un determinato periodo letterario o a un deter- minato autore conoscenze e credenze che o sono posteriori a quel periodo o ignote a quell’autore; hanno di ciò alcuna colpa, perchè ben pochi libri di testo si preoccupano di ovviare a questa confusione, qualcuno anzi fa il possibile per aumentarla. Non vorrei passar per severo; in un libro di testo che va per la maggiore, ha avuto sette edizioni e si fregia d'un bel nome un commento scolastico all’Iliade tradotta dal Monti ho notato fra le altre amenità che alla traduzione di A 177 si annota che Agamennone allude all’invulnerabilità di Achille! Altrove 51 rileva che Omero fa male a rappresentare Agamennone che tira sassi a dritta e a manca come un ragazzaccio di strada. Ora io penso che sarà forse ritenuta una pedanteria da chi si compiace di quell’ambigua istituzione che è la critica estetica l’avvertire che l’invulnerabilità di Achille è una leggenda post-omerica e che il combattere lanciando grosse pietre era un. modo di combattere legittimo e normale vi ri- correvano anche gli dei per gli eroi omerici che non avevano can- noni, ma che pur tuttavia è dovere di chi insegna procurare al discente idee chiare e positive, dove altri perde il tempo a dichiarare questo è bello, questo è brutto, questo è così così e che nulla può falsare tanto il valore estetico di un’opera come l’ammetterne dei presupposti errati.

Siamo certi che le due tragedie commentate dal Bassi troveranno ottima accoglienza da parte degli studiosi e di chi ha a cuore la serietà dell’insegnamento classico nelle nostre scuole.

Firenze, gennaio 1915. Uso Enrico PaAoLI.

Pau Lenmann. Vom Mittelalter und von der lateinischen Philologie des Mit- telalters, di pp. 25. Goswin FrenKen. Die Exempla des Jacob von Vitry, di pp. τν- 154 (Quellen und Untersuchungen zur lateinischen Philologie des Mittelalters, finfter Band, erstes Heft, Miinchen, Oskar Beck, 1914).

Il quinto volume delle Quellen und Urtersuchungen accanto al nome del Traube, il fondatore, reca il nome del continuatore, il Lehmann, che sostituisce il defunto maestro anche nella cattedra di filologia latina medievale all’Università di Monaco.

Il volume si apre con un'introduzione generale del Lehmann, che

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un riassunto della preistoria, come la chiama (p. 24), degli studi intorno al medio evo. Egli rileva che uno speciale interesse per il medio evo suscitò e si tenne vivo soprattutto in Germania, per ragioni etniche e storiche, e che i primi documenti di poesia medievale furono tratti in luce sin dal principio del secolo XVI in Germania. Colà le lotte fra il cattolicesimo e il protestantesimo porsero occasione a ricercare, sia pure per fini confessionali, i monumenti religiosi del medio evo e poi i monumenti giuridici. Ma la passione predominante era sempre la in- dagine storica, la quale ricevette novello impulso dal movimento ro- mantico, che avvezzò le menti a riguardare con minor disprezzo e cre- scente stima il medio evo. Da quel movimento uscì il disegno della raccolta e pubblicazione dei Monumenta Germaniae historica.

Dopo gli storici, rivolsero gli occhi al medio evo i filologi germanisti e romanisti, e ultimi, un po’ tardi, ma meglio tardi che mai, i filologi classici, i quali cominciarono ad apprezzare l’altissima importanza del medio evo occidentale come conservatore e trasmettitore dei monumenti della letteratura latina. Questo indirizzo classico fu disciplinato dal Traube, che lo distribuì nelle sue tre branche fondamentali: la scrittura, la lingua, la letteratura.

Tali notizie potevano, a questo, a quello, essere familiari, e a qual- cuno anche in misura più giusta e più larga; ma credo che a tutti riu- scirà nuova la storia del termine tecnico medio evo. La prima traccia comparisce presso Giovanni Andrea Bussi, il vescovo d’Aleria, nell’edi- zione d’Apuleio del 1469, dove leggiamo media tempestas. Nel 1518 tro- viamo in Gioacchino von Watt media aetas; tra il 1519 e il 1525 in Beato Renano media antiquitas; nel 1531 in Giovanni Heerwagen media tempora e finalmente nel 1604 in Melchiorre Goldast medium aevum: la denominazione diventata usuale fra gli Italiani; dei quali il primo ad adoperarla (questo aggiungo io) pare sia stato Giovanni Lami (1697-1770).

Altra faccenda è il concetto di medio evo. È vero, come afferma il Lehmann, che la prima circoscrizione cronologica dell’età di mezzo si trova designata dal forlivese (non fiorentino) Flavio Biondo nelle sue De- cadi, che prendono le mosse dall’invasione dei Visigoti; ma l’idea era stata da lui espressa anteriormente e in modo assai esplicito nella fa- mosa lettera De locutione romana scritta nell’aprile del 1485. Ivi discor- rendo delle cause che secondo lui corruppero la lingua latina e la trasformarono nella volgare, così conchiude: Postea vero quam urbs a Gotis et Vandalis capta inhabitarique cepta est, non unus iam aut duo infuscati, sed omnes sermone barbaro inquinati ac penitus sordi- dati fuerunt; sensimque factum est ut pro romana latinitate adulteri- nam hanc barbarica mixtam loquelam habeamus vulgarem ,. La fonte

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poi di tale ragione storica è nelle Etymologiae di Isidoro, dove leggiamo

Δ νυ, i

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che la lingua latina nel quarto e ultimo periodo della sua vita diventa mixta per effetto delle immigrazioni barbariche (IX 1, 6-7): “Mixta, quae post imperium latius promotum simul cum moribus et hominibus in romanam civitatem inrupit, integritatem verbi per soloecismos et barbarismos corrumpens ,. Il Lehmann insiste nel negare (p. 9) che la de- signazione di medio evo spetti ai filologi, attribuendola invece agli storici; ma è un fatto che la prima spinta alla concezione partì da una consi- derazione filologica, le vicende cioè della lingua latina.

κω * *

All’introduzione del Lehmann tien dietro il lavoro del Frenken, che pubblica il testo degli Ezempla di Iacopo da Vitry, preceduto da uno studio ampio e profondo.

Iacopo da Vitry (n. 1160-70, m. 1240), oriundo di Reims e vissuto molti anni in Palestina come crociato, vescovo e da ultimo cardinale, intreccia nelle sue prediche molti esempi allo scopo di concretare e imprimere meglio nell'animo dei fedeli le massime cristiane. Esempi contengono due delle sue collezioni di prediche: i Sermones vulgares e i Sermones communes; gli esempi dei Sermones vulgares furono pubblicati nel 1890 dal Crane; gli esempi dei Sermones communes vedono ora la luce per cura del Frenken. Nello studio preliminare è esposta anzitutto la storia dell’eremplum, definito e illustrato nelle retoriche greche e latine e dalle latine trasmesso al medio evo. L'esempio entra nelle prediche al principio del secolo XIII e da allora in poi le lingue romanze accol- gono, in maggioranza per via dotta, la nuova parola: italiano esempio; laddove scempio, di origine popolare, aveva precedentemente acquistato

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un significato diverso.

Dopo la biografia del Vitry e l’elenco delle sue opere, il Frenken affronta la questione fondamentale del suo assunto, cioè le fonti e la divulga- zione degli erempla: fonti scritte e orali, latine e volgari, di origine oc- cidentale e orientale. Ma di questo capitolo, pieno di copiosa, svariata e ben digerita dottrina, non è qui il luogo di dare minuto ragguaglio.

Il testo degli Ezempla è presentato correttamente, in modo che la lettura procede senza inciampi e con diletto. È una scrittura di carat- teristico tipo medievale, non appesantita da fronzoli e dal cursus, perciò semplice, direi quasi ingenua, e scorrevole. L’ortografia del tempo è dall'editore osservata, eccetto qualche serupolo che potrebbe suscitare l’m mediano in famquam, in quicumque, ubicumque ecc.; il doppio » in

Stade ia A

mercennarius, l’o in volgus, voltus, volnus e simili. Qualche lezione lascia perplessi, p. e. pag. 101 1. 15 audebatur invece di audebat; p. 110 1. 2 scio quod invece di scio quidem; p.121 1. 20 dumum invece di dum;

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p. 128 1. 8 perpendisset invece di pependisset; Ὁ. 134 1. 21 et vitupera- ciones invece di ut vituperatores. Curiosa la lezione a p. 106 1. 10-11 “qui multis et magnis conclusi magistris, michi conclusit ,; dove con- cludere vale ‘beffare’ ,. Verrebbe di correggere concludere in conludere, richiamandosi alla p. 115 1. 8, nella quale si legge δὲ iMlusît, costruito parimenti col dativo. In effetto il verbo è conludere, che altrove, e particolarmente nei glossari, ricorre nella forma concludere. In illudere la preposizione s’era assimilata; in conludere, probabilmente per l’uso della sigla abbreviativa, il con resistette; e quando non si capì più conludere, 51 scrisse concludere. Nel nostro testo pertanto concludere non si deve toccare.

Vorrei soggiungere qualche postilla sulle fonti. L'esempio LII riguarda la moderazione dell’ira e racconta un fatterello, altrimenti ignoto, di S. Bernardo, con la conclusione: “ait: ‘scias, nisi iratus essem, iam fortiter te verberassem’,. La fonte, diretta o indiretta, è Seneca De ira 115,13: inde est quod Socrates servo ait: caederem te, nisi irascerer’,. L'esempio LXXV narra di un vecchio plus quam seragenarius di Damasco, che non era mai voluto uscire dalla sua città. La mente corre al vecchio veronese cantato da Claudiano, che aveva toccato la terza generazione (aetas tertia), senza mai muoversi dal suo borgo, nemmeno per andare a Verona. L'esempio XCI termina: “ita locum extremi gaudii luctus immensus occupavit ,, che è la parola tragica dei Prov. 14, 13: extrema gaudii luctus occupat ,. Nell'esempio LXXX incontriamo scurra vagus, un nesso oraziano (Epist. I 15, 28); e nel LIII: dignum te Cesaris ira nullus honor faciet , di Lucano (III 136), citato anche nella Mensa phi- losophica (Francofurti 1602, 201).

E poichè ho nominato la Mensa philosophica, noterò che il Frenken le ha dedicato uno dei più bei paragrafi del suo studio (p. 73-80); e io mi ci intratterrò un pochino. Comunemente autore della Mensa è ritenuto Michele Scoto. Ma forti motivi cronologici rendono inammissibile questa attribuzione, giacchè lo Scoto non oltrepassò con la sua vita l’anno 1235, laddove nella Mensa si parla di Bonifacio VIII (1294-1303). Per salvare, come si dice, capra e cavoli, il Wesselski aveva supposto due autori, al- l’uno dei quali assegnava i tre primi trattati, all’altro l’ultimo. Il Frenken impugna risolutamente questo ripiego e tien fermo che sia opera di un solo autore, vissuto al principio del secolo XIV. Accetto la conclusione per la paternità, non per la cronologia. Nella Mensa sta scritto (249): Filius comitis Sabaudiae archiepiscopus dedit quatuor dies indulgentias eis qui acciperent de eleemosyna sua; unde rex Angliae aliquando ac- cepit ,. Qui si allude all’arcivescovo di Torino Tommaso di Savoia, figlio del principe d’Acaia Filippo. Tommaso ottenne l’Arcivescovado nel 1348 e morì verso il 1360 (Ughelli IV 1056). Perciò la Mensa appartiene alla

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seconda metà del secolo XIV. Fu attribuita anche a Teobaldo Anguil- berto, della fine del sec. XV. Alle ragioni addotte dal Frenken per ri- gettare questa seconda attribuzione io ne aggiungerò un’altra: che la struttura e la natura della Mensa è tutta propria della metà o seconda metà del sec. XIV e che alla fine del XV non si sognavano più di com- porre opere tali.

La Mensa ha importanza massimamente per il quarto trattato che contiene la prima raccolta sistematica di facezie: ma è importante anche per un altro rispetto, in quanto cioè da essa appar manifesto con quale rapidità a mezzo il secolo XIV si diffondeva la conoscenza degli autori classici. Peccato che non si possa stabilire con certezza la nazionalità dell’anonimo autore, come la non si può stabilire dell’anonimo autore di un’altra compilazione del medesimo tempo e che al pari della Mensa serve alla storia della cultura.

Intendo la compilazione degli estratti aristotelici e ciceroniani, pub- blicati col nome di Beda in Opera Bedae, Basileae 1563, II, p. 213, 259. Col nome di Beda; ma Beda non ci ha nulla che vedere, com'è chiaro dalle testimonianze che l’autore cita di Avicenna, S. Anselmo, Ugo di S. Vittore, Tommaso d’Aquino, Guglielmo Parigino, Roberto Grosse- teste. Per circoscriverne il tempo entro più precisi confini diremo che adopera gli Oeconomica ps.-aristotelici tradotti nel 1294 e l’orazione di Cicerone pro Archia scoperta dal Petrarca nel 1333. Siamo dunque in pieno secolo XIV o meglio nella seconda metà. Gli estratti aristotelici sono desunti da tutte le opere genuine e spurie che allora si conosce- vano: io ne ho contate 34. Altri scrittori greci tradotti sono adoperati dall’anonimo: Platone (Timaevs), Euclide, Porfirio, Temistio.

Gli estratti aristotelici sono ordinati alfabeticamente; non così i ci- ceroniani. Estrae da sei opere filosofiche: De off., Tusc., Parad., Somn. Scip., De am., De sen.: una silloge che occorre spesso nei manoscritti recenti. Mostra una certa dimestichezza anche nel campo generale della letteratura romana; poichè cita Valerio Massimo, Seneca (Epist., De ben., e alcune opere spurie), Apuleio (De deo Socr.), i Carmi dei XII Sapienti, Prisciano, Agostino, Isidoro (Etym.), Boezio (De cons., in Top., in libro Post., in libro Divis., in libro Diffin. e l’opera spuria De discipl. scol.).

ReMIGIO SABBADINI.

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365 --

MenanprI Reliquiae nuper repertae. Iterum edidit SreerrIRD SupHAUS. Bonn, A. Marcus und E. Weber's Verlag, 1914, di pp. 103. SieerrIen Supzaus. Menanderstudien, Bonn, 1914, A. Marcus und E. Weber's Verlag, di pp. 8-94.

Si tratta della seconda edizione dei n. 44-46 dei Kleine Texte fior Vor- lesungen und Ubungen hrggbn. von Hans Lietemann e di commenti, spie- gazioni, aggiunte all'apparato critico dell'edizione stessa. Sono due piccoli volumi, ma assurgono ad importanza grande negli studi Me- nandrei, segnando una tappa notevole verso uno stadio definitivo e verso una sicura restituzione dei testi scoperti più o meno recentemente; e derivano da un’accurata revisione del papiro di Afroditopoli, ora con- servato al Cairo, e di altri fogli papiracei o membranacei. Sicchè il volumetto raggiunge l’estensione dei Menandrea del Kòrte, perchè l’edi- zione comprende gli Epitrepontes, la Periciromene, la Samia, V Heros, Fabula incerta, Georgos, Citharistes, Colax, Coneiazomenai, Misoumenos, Perinthia, Phasma, ma con un ordine diverso, per le prime quattro commedie, conforme alla ricostruzione cui il Sudhaus è giunto per l’or- dine e la disposizione dei fogli papiracei scoperti dal Lefebvre. Questi fogli oramai sono stati riveduti e ricollazionati da parecchi; ma lo Jensen portò un contributo di fatti grafici rilevantissimi ed in e per le conseguenze loro: altrettanto rilevante è il frutto della collazione del Sudhaus, che offre materia nuova di fatti e nuova base al lavoro di integrazione e di interpretazione del testo menandreo, e comincia dallo sgomberare il terreno da molte e molte proposte. Ormai per leggere Menandro e procedere oltre nell’integrarne il testo è necessario tenere presenti le indicazioni del Sudhaus; del quale però le integrazioni me- ritano la massima considerazione, perchè, avendo già prima contribuito non poco a illustrare e intendere i versi di Menandro, ha saputo anche valersi con sagacia e dottrina de’ materiali nuovi da lui messi in evi- denza e a disposizione di tutti gli studiosi; sicchè spesso egli presenta ancora una soluzione felice a parecchi problemi.

Ecco in qual modo si ricostruiscono e riconnettono le parti superstiti degli Epitrepontes: fr. 600 (Kock), fr. 849, fr. 850, fr. 178; segue il frammento papiraceo Z!, e Z%;; viene poi il fr. 175 seguìto dalle Mem- brane Petropolit., che giungono alla chiusa dell’atto (indicata da χοροῦ) e dànno da 3 a 6 lettere iniziali di altri sei versi appartenenti ad un monologo di Onesimo. E qui viene il papiro di Afroditopoli: φεύγεις τὸ δίκαιον té. per i versi del quale il Sudhaus la numerazione consueta, aggiungendone però un’altra, perchè ai vv. 1, 37, 74, 111, 148, 183, 216,

366

251, 286, 322, 358, 392, 449, 469, 503, 539, 626, 662, sono apposte anche le cifre 373, 409, 466, 483, 520, 555, 588, 623, 658, 694, 730, 764, 836, 1013, 1047, 1083, 1224, 1260, le quali vogliono indicare approssimativa- mente il numero che i versi dovevano avere nella commedia intera, la quale secondo il Sudhaus non doveva computare meno di 1400 versi (le basi di questa affermazione sono principalmente d’indole libraria). Però neppure le cifre della numerazione edita coincidono con quelle del Kòrte, che giunse a 591 (517), mentre con essa il Sudhaus arriva a 705 ed oltre. Le differenze si comprendono subito, quando si pensi che il Sudhaus è riuscito, anche valendosi dell’opera di predecessori, a collocare nel corso della commedia tutti i frammenti noti precedente- mente, due eccettuati (fr. 176 e 179), e di immettervi anche altri fram- menti papiracei non prima assegnati agli Epitrepontes o fattici cono- scere da papiri (o membrane) di altra origine che non il papiro scoperto dal Lefebvre. Le numerazioni del Sudhaus procedono eguali fino al v. 382, dove all’osservazione del Kòrte: desunt versus fere decem il Sudhaus so- stituisce le lettere che si leggono alla fine di nove versi seguenti, che novera fino al 391 incluso. Sicchè il 384 del Kéòrte corrisponde al 392 del Sudhaus (e sarebbe il 764 della numerazione integrale). In seguito Korte 384-408 = Sudhaus 392-416: e poi di nuovo il Kòorte scrive: desunt versus fere decem, e il Sudhaus riporta invece le lettere iniziali di undici versi (e per uno, il 421, anche le finali) che sono i vv. 417-427. Dopo i vv. 408-421 Korte = 428-448 Sudhaus entrambi dichiarano una lacuna di 14 versi. Poscia Kérte 420-431, = Sudhaus 449-468. A questo punto il Sudhaus colloca il fr. 184 continuando coi vv. 432 sgg. del Kòorte.

Entrambe le edizioni procedono di pari passo fino al v. 538 Sudhaus (ma nell’intera commedia questo sarebbe stato il 1082) e 501 Kòrte. A questo punto il Sudhaus colloca i versi 539 (= 1083)-559 e 560 (= 1236)-584 ai quali corrispondono nel Kéòrte i vv. 439-445; e se- guono 585-595 S. = 329-436 K.; e dove il Kòrte segna una lacuna di 70 versi il Sudhaus pone i frammenti #3 e 8* segnando dopo di essi una lacuna di 20 versi. Dopo di che nel Sudhaus i vv. 626 (= 1224)-697 corrispondono ai vv. 446-517 ed ultimo del Kòrte; ma nel Sudhaus si procede ancora fino al v. 709 con due brevi frammenti. Alla chiusa degli Epitrepontes stanno i fr. 176 e 179 del Kock, cioè 7 ed 8 del Kòrte, gli unici (e si tratta complessivamente di tre versi) non collocati dal Sudhaus in un posto idoneo della commedia.

Ho certamente annoiato il lettore con questo minuzioso elenco delle corrispondenze; ma era un elemento necessario per apprezzare il lavoro del Sudhaus, il quale procedette dalla lettura di ogni singola lettera alla integrazione di parole, versi, frammenti, e poi alla disposizione ed all'estensione della commedia ed alla sua economia nel tutto e nelle

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parti, partendo cioè dagli elementi primi e indispensabili del lavoro alla ricostruzione di tutto un dramma.

Lo sforzo compiuto dal Sudhaus è certamente grande; e non dubito che sia anche felice, del che non è disagevole convincersi confrontando il testo, come è restituito dal Sudhaus, co’ risultati dianzi ottenuti. Sarebbe già molto l’affermare che ist der Apparat von allen friheren Ausgaben unabhingig neugestaltet worden ,; ma se ciò è vero, corri- sponde soltanto ad una parte del lavoro e del merito di esso. Certa- mente l’avere controllato ed assodato la lettura della lezione manoscritta metteva il Sudhaus in condizioni singolarmente favorevoli; ma non bastava leggere, era d’uopo pensare, interpretare, capire e ricostruire, anzi unicamente da questo lavorìo poteva derivare una lettura che si avvantaggiasse sulle precedenti. Quali siano i risultati si può scorgere sia dall’esame dell’edizione stessa, sia dall'esame del libro Menanderstudien, in cui spiegano i criterii generali e speciali del Sudhaus, e si dànno no- tizie che integrano ed illuminano l’apparato critico dell'edizione ren- dendo il perchè della lettura spesso anche di una singola lettera. Per dare un'idea dei risultati citerò qui una serie di luoghi singoli mettendo a riscontro la lezione del Sudhaus con quella del Kérte, che è la più facilmente accessibile e la più opportuna all’uopo.

v. 39 il S. mantiene 1’7v del papiro, e intende: ‘tam locuples igitur eram’? vel melius nimirum haec mea condicio erat’ (sine intersigno), ut loquatur ironice. v. 53 ἐδέου σὺ (ταῦτα; I. piu) A. ὅλην τὴν [ἡ)μέραν, invece della lezione del papiro, che εδεουσυρισκ᾽. Al vizio del papiro cercò di rimediare diversamente, e le proposte potrebbero essere parecchie (sescenta enim dantur dice a ragione il Sudhaus); ma con esso non mi accorderei nel criterio per il quale egli elimina il nome di

Sirisco nec Syrisci nomen novit Smicrines —, ritenendo invece che

abbia ragione il Kòrte nel pensare Menandrum hanc rem neglerisse; è cosa che stupisca. v. 70 ἐγὼ S., ἑ[κὼν K. v. 122 [τὴ]ν [αὐ]τοῦ τῆς σωτηρίας S., [τὴ]ν [δὲ] τοῦδε τ. 0. K.; e qui c'entra un criterio o con- statazione grammaticale, cioè la rarità di ὅδε in Menandro. Il Sudhaus ne parla a pp. 65-66 di Menanderstudien: Es bleibt von den 17 Fillen bei Kòrte nur [ἐν τ]οῖσδ᾽ P. 352, G. 24, wo die pripositionale Ver- bindung die Form geschiitzt hat, und die Formel ‘der hier anwesende παρὼν Λάχης ὁδί I 28. Alles andere ist moderne Conjektur ,. E segue un breve elenco ed esame di varii luoghi dove per congettura erano state messe forme di ὅδε: è notevole che anche il Blass eliminò questo pronome in G. 69, e che in Ep. 584 restò ἐπ᾽ αὐτῷ τῷδε trattandosi di una citazione Euripidea, dall’ Auge. v. 131 οὐκέτι δίκαιον S. invece di οὐκ ἔστι δίκαιον del papiro metro intolerabili nec ullo per Menandri reliquias exemplo confirmatum ,. v. 143 ἔχει per ἄγει confermando la

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lettura data dalle collazioni del Jensen; altri aveva già congetturato ἔχ]ει; il K. ἄγει del Leo. v. 146 τὴν πήραν χάλα S. accettando la integrazione del Kérte, non però registrata nella ed. seconda. v. 157 adr[d, ἕως ἂν ἐκτραφ]ῇ S., αὐτ[ὸς ἀσφαλῶς τά]δςε K. accettando τάδε già proposto dal Sudhaus, che alla fine del verso vide nel papiro una lettera a due aste verticali. v. 174 ἐπίδειξον S., ἄγε]δεῖξον K.

Bastino questi saggi per la parte meglio conservata della commedia. Interessante può riuscire il confronto di qualche altro luogo. I vv. 416 sgg. così si leggono nel Kérte?:

SINO,

(Cur.) todto(v]....... ν᾿ ἀλλ᾽ ἴσως ἐγώ

πολυπραγμί[ονῶ πλείω τι πράττω τῶν ἐμῶν ; κατὰ λόγον ἐξὸν [ἠρεμεῖν τὴν ϑυγατέρα λαβόντα τοῦτ᾽ ἐμὲ... εἰσω καὶ σχεδὸν

420 δεδογμένον ν[ ῦν]...... ver: μαρτύρομαι

ὃ), γα MOMO ARIA MEDIE REVOCA προ ΔῸΣ ΤΟΤΕ ἐν τὴς DUÙPRIEOU δον ΤΥ LO o e Μὴ LITIO IRREALE CO) e RR ;

CURO ORO RE

E nel Sudhaus :

3. τοῦτον μὲν οὖν ἐῶμε]ν. dll ἴσως ἐγὼ πολυπραγμ[ονῶ πλείω te πράττω τῶν ἐμῶν.

440 κατὰ λόγον ἐξὸν [ἀπιέν]αι τὴν ϑυγατέρα λαβόντα, τοῦτο μὲϊν π]οήσω καὶ σχεδὸν δεδογμένον μοι τυγχ]άνει. μαρτύρομαι. ὑμᾶς δ᾽ ὁμο[ λογεῖν ἀξιῶ τὰ γεγονότα, ued” ὧν [ἔπινεν οὗτος, ὅστις τὴν ἐμὴν

445 ϑυγατέρα [ταῦτ᾿ ἐπόησε νῦν τὰ δεινὰ καὶ ἀν δι NOIA LIE LEO IRSA MMROLO[TEO8 II δο Η ας δ ΣΥΝ ΕΡ ΟΣ MOTEL I NENTI ASINCINO

Ma qui più che di integrazione a base di nuova lettura del papiro si tratta di ricostruzione, la quale, pur essendo intonata alla commedia ed alla situazione, è sempre tanto meno sicura, quanto più estesa. Non è questo però il lato caratteristico ed importante dell'edizione del Sudhaus, il cui pregio risulta principalmente dove la lettura è diffi- cile. Non trascrivo i vv. 861 sgg. dell'edizione del Kòrte, ma riproduco il testo corrispondente del Sudhaus :

RIE RE ENO TRUOTI OMAOIIETTTE, II GIRO AES POSIONE CUUAIORA FANTI) (Ag

i

Caggse=

A]BP. qiArtato[v τ]έϊκνον, προσ]όψει μη[τέ]ρα" καὶ [γὰρ προσ]ῆ28ὃ[ε] κα[ἐρία]Ί. II. πορεύσομαι.

A. μικ[ρό]ν, γύναι, πρόσμεινον. II. ἐμὲ καλ[εῖ!ς; A. ἐγώ. ἐναντίον [βλέ]π᾽, [et u]e γινώσκεις, γύναι. 475 αὕτη ᾽στιν [ἣν] Ed[olaxa . χαῖρε, φιλτάτη.

II. τίϊς δ᾽ εἴ σύ; A. [χεῖρ]α d[ed]od μοι τὴν σὴν δίδου. λέγε μοι, [y]A[v]xe{a]: πέρυσιν ἤ[.ϑ]ες ἐπὶ ϑέαι τοῖς Ταυροπολίοις ἐν διαφαν]ε[ χ]λαν[εἸδέῳ ;

Qui si trattò di nuova base allo studio ed all’integrazione del testo; ed è così dove il papiro ha maggior bisogno di sussidio per la lettura. Per gli Epitrepontes la cosa è meno palese; per nessuna commedia è più evidente che per la Periciromene, per la quale sarebbe il caso di ri- portare almeno tutto l’intermezzo della scena trocaica, alla quale sono dedi- cate parecchie pagine del libro Menanderstudien ,, che si chiude, per questa parte, colla parafrasi, in tedesco, dei vv. 84 sgg. i quali trattano di scegliere la vita che meglio piaccia a Dao, lo schiavo di Moschione. Ma si dovrebbero parimenti riportare gli altri versi della Periciromene espressamente trattati in Menanderstudien; e sarebbe il caso di ripe- tere la cosa per altre commedie, notando anche i luoghi dove questi Studi Menandrei e l’edizione differiscano, rappresentando un ulteriore lavoro. Basti però il già detto, perchè ha ragione l’editore affermando che in Menanderstudien si ha un necessario complemento dell’edizione, della quale ciò che dico qui ed altrove basta a dare un adeguato giu- dizio. Se resta non poco lavoro alla critica Menandrea, il Sudhaus ha portato ad essa un notevole contributo di lavoro e di acume, il cui merito straordinario ci fa vieppiù rimpiangere la disgrazia della sua perdita. Ma egli è perito in guerra, facendo alla patria il sacrificio della vita, attuando l’ideale e il dovere che era presente ai Greci dei tempi migliori. E noi ci inchiniamo reverenti alla sua memoria, rivol- gendo un pensiero ai filologi ed agli studiosi di ogni nazione, che, lasciate le consuete occupazioni, sono accorsi dove li ha chiamati il dovere di una lotta immane (1).

CarLo ORESTE ZURETTI.

(1) Ci associamo con tutto il cuore alle nobili parole del nostro col-

lega e collaboratore. (Nota della Direzione).

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 24

f

STEAL νη UTO PMI AAT SO MILANI PE CICTRA RT I NOCI RR STRAGE ESLUNI LANE ORO ΔΝ à k Ae ie Tata; ΟΣ ΓΝ

370

Pinparo. Le odi e è frammenti. Traduzione con prolegomeni e commento di Gruseprre FraccaroLI. Nuova edizione rifatta. Milano, Istituto edi- toriale italiano, (1914), voll. 2 di pagg. 376-457 ( Gli Immortali... ἡ. I ser., voll. 29-30).

Davvero non comprendo perchè il Fraccaroli nell’Avvertimento sulla presente edizione senta il bisogno di dire che non è pentito dell’opera sua di traduttore e illustratore di Pindaro. Se cotesta affermazione, per lo meno strana, ha semplice valore, come esprimermi? retorico, passi; ma se in realtà il Fraccaroli ha potuto pur soltanto supporre di doversi in qualche modo pentire dell’opera sua, ha commesso un peccato di superbia alla rovescia. Sa egli per il primo, e lo sappiamo tutti, quanti Οἱ occupiamo di studi greci in Italia, che nessuno finora dei nostri filo- logi (non si può, evidentemente, tener conto di lavori inediti e nem- meno di qualche saggio) ha contribuito di più e meglio di lui all’intel- ligenza di Pindaro, del suo spirito, della sua arte, nessuno lo ha tradotto più coscienziosamente più fedelmente. Io credo inoltre che le traduzioni del Fraccaroli, data la loro fedeltà e coscienziosità due pregi di primissimo ordine, tantopiù trattandosi di Pindaro, e che non di rado, purtroppo, non sono accompagnati da altri, non meno necessari siano anche poeticamente, quasi sempre, tra le più felici per ogni riguardo che possegga la letteratura italiana. Tali erano, già, in mas- sima parte, nella prima edizione; tali sono anche più nella nuova. Nella quale l’autore ha “corretto” (cioè, più esattamente, ha perfezio- nato), ‘ma non disfatto’ l’opera sua, l’ha “modificata nelle cose” e ‘alquanto nello spirito; l’idea fondamentale è rimasta la stessa”.

Quale fosse l’idea fondamentale della prima edizione del Pindaro del Fracearoli è noto certamente a tutti gli studiosi: far rivivere, anche fra noi, l’amore al poeta tebano e renderne accessibile l’arte alle persone ignare di greco e pur desiderose di conoscere e gustare il massimo lirico dell’antichità classica; ed è una vera fortuna per tutti, filologi e non filologi, che quella idea non sia mutata. Quanto alle mo- dificazioni “nelle cose’, talune indubbiamente s’imponevano, la critica del testo pindarico avendo fatto in questi ultimi venti anni (la prima edizione del Pindaro dell'autore è del 1893), anche per merito del Fraccaroli (1), progressi non trascurabili; e si sono avute due nuove

(1) Nell'approntare per la nostra Rivista la Rassegna di pubblicazioni periodiche mi è avvenuto più volte di leggere articoli di filologi stra- nieri in cui si propongono emendamenti al testo e spiegazioni di vari luoghi di Pindaro, emendamenti e spiegazioni che avevo già trovato

Sa er δος

371 --

eccellenti edizioni, una del Christ, la più autorevole, l’altra dello Schroeder. Le dette modificazioni riguardano più specialmente, come è facile intuire, i prolegomeni e il commento parlerò più avanti di questo e di quelli ma nemmeno la traduzione poteva andarne esente: lezioni ed emendamenti più accettabili o che comunque dessero luogo a minori dubbi ora richiedevano ora consigliavano nuove interpreta- zioni. Però è necessario avvertire che coteste nuove interpretazioni, più che dalla nuova forma, diciamo così, qua e del testo, di- pendono dall’° anima del tutto rinnovata’ con cui il Fraccaroli è tornato a Pindaro dopo quasi venti anni, nei quali egli ha atteso ad altri studi cito honoris causa il suo poderoso lavoro L’irrazionale nella letteratura e ha potuto affinare sempre più il proprio gusto traducendo magistralmente i Lirici greci. Ora, esser tornato a Pindaro “con anima del tutto rinnovata” significa, in altre parole, averlo sentito più profondamente ed esserselo assimilato più intimamente; e in queste condizioni un filologo e un artista, quale è, per unanime consenso, il Fraccaroli, non può non averci dato del suo poeta una traduzione anche migliore di quella di venti anni addietro.

Nella prefazione Ai filologi e ai non filologi della prima edizione (tengo a dichiarare che la posseggo ; ero stato anch'io fra’ sottoscrittori, e non troppo spesso τὴ avvenuto di spendere così bene e utilmente i miei denari) prefazione riprodotta quasi per intero nella nuova il Fraccaroli aveva stimato opportuno scusarsi, in certo modo, di non aver ‘potuto proscrivere l’etra e la cetra” e di aver “dovuto met- tere in mostra anche qualche parola ammuffita’ (lasciamo correre! μηδὲν ἄγαν); nella prefazione della nuova edizione egli avverte che ha cercato di levar via o almeno di attenuare le asprezze e le oscurità della forma italiana’. Sì, è vero: nella vecchia traduzione non mancano asprezze e oscurità, e fecero strillare molti vorrei dire molte oche, perchè sono appunto le oche che strillano, ma sarebbe poco rispettoso e qualche malevolo ne prese occasione per sentenziare che non valeva nulla! Però le odi di Pindaro, giova non dimenticarsene, non sono

nel volume del Fraccaroli (questo è, ripeto, del 1893; la Rassegna io la incominciai nel novembre del 1896). Ciò torna indubbiamente ad onore del Fraccaroli, per quanto di un simile onore egli possa benis- simo farne a meno; ma non c’è proprio verso che i dotti stranieri vo- gliano darsi la pena e abbiano la santa pazienza di consultare anche le pubblicazioni italiane, sian pure esclusivamente quelle dei sommi? È chiaro che risparmierebbero, se non altro, tempo e carta; e alcuni fra loro, ben inteso la zavorra, non correrebbero il rischio di stampare delle scempiaggini.

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l’Anabasi di Senofonte, e le frasi piane e semplici, chiare e perspicue come ἄριστον μὲν ὕδωρ non ricorrono con frequenza eccessiva. Costrutti aspri, qualcuno forse un pochino stentato, e qualche verso alfieriana- mente duro, ne sono rimasti anche nella nuova edizione, benchè in nu- mero assai minore che nell’altra; ma il Fraccaroli non poteva fare a meno di usarli: se no, la sua sarebbe stata una parafrasi e non una traduzione. Una volta sola egli si permise la licenza di parafrasare anzichè tradurre: per la XIV Olimpica; e l’ha parafrasata in modo insuperabile. ‘Voi che tenete i prati Della famosa Orcòmeno, Dai bei puledri alati... ”.

È una delle odi riportate nella traduzione appunto del Fraccaroli, il quale si è ben guardato dal toccarla, nel Manuale della Letteratura greca del Vitelli e del Mazzoni; e mi pare che basti. Ma voglio recare un’ode intera, anche questa intatta, fortunatamente, per economia di spazio la più breve di tutte, la VII Pitia:

Bellissimo proemio La grande Atene ai nobili Alemeòdnidi Base degl’inni pei carri gittar. Poichè qual gente in Ellade Cercando, o qual più celebre Casa ad udirsi posso io nominar Parla degli Erettèidi In tutte le città la fama, o Apolline, Che a Pito il tempio tuo splendido alzàr: E me cinque vittorie Sull’Istmo ed una Olimpica E due da Cirra invitano a cantar Vostre, o Megàcle, e dei maggiori. Allegromi Della buona ventura; Ma ciò mi duol, che l’opera Leggiadra a ricambiare abbia livor. Dicon però che agli uomini Fato che a fiorir dura Sia dell’una e dell’altro apportator .

Qualche critico maligno o magari anche dal cervello che funziona male o che non funziona affatto troverebbe a ridire di quel ‘grande’ che non corrisponde per filo e per segno a μεγαλοπόλιες, di quel no- bili” che corrisponde anche meno a εὐρυσϑενεῖ γενεᾷ, di quel ‘carri?

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che corrisponde men che meno a ἵπποισι... e Dio solo sa di quali altre diavolerie. Invece a me, e senza dubbio non soltanto a me, sembra che l’odicina non possa essere tradotta se non appunto così come la tra- dusse il Fraccaroli: per fedeltà e coscienziosità la versione non lascia proprio nulla a desiderare, è di una chiarezza che, se è lecito dire, balza agli occhi, e non pure rende, ma spiega anche il senso del testo; è bella anche poeticamente. E che si può pretendere di più poetico dei versi seguenti (Pitia IV 191 sgg.)?

“... Or come al rostro l’ancore Legate ebber di sopra, (1) Un’aurea tazza il sire

nella man presa, sulla poppa, il padre De’ Numi Zeus che vibra

falmin per asta, e l’impeto dell’onde Rapido al corso, e 1 venti

invocava, e le notti e le marine Strade, e gli avventurati

giorni, e la cara del ritorno sorte: E dalle nubi a lui

voce di tuono rimbombò propizio, E sfavillàr dai pregni Folgori i lampi; e i prodi un respir trassero (2) Di Dio fidàti ai segni”.

Affermo recisamente, e non temo smentite, che non può darsi tradu- zione più esatta, più limpida e più viva di questa ; e ho scelto ad aperta di libro. Debbo recare altri saggi? No: è superfluo, e forse era inutile recarne anche uno solo, perchè la fama del Fraccaroli come traduttore di Pindaro e aggiungo, degli altri lirici greci, per restringermi ad accennare alle sue versioni di poeti oramai è stabilita, e a nessuno è lecito dubitarne. Con ciò non voglio dire che le traduzioni pindariche del Fraccaroli siano addirittura perfette in tutto e per tutto: sarebbe un’esagerazione. Per quanto egli abbia potuto fare, e ha fatto moltis- simo, incomparabilmente più di chiunque altro finora, talvolta è rimasto indietro parecchio dalla straordinaria grandezza del testo lo ammette

(1) Nella prima edizione è (il testo greco del CarIsT, ora seguìto nor- malmente dal Fraccaroli, ha: ἐπεὶ δ᾽ ἐμβόλου | κπρέμασαν ἀγκύρας ὕπερ- dev): ‘Or poichè di sopra l’ancore | Del rostro ebber legate ”.

(2) Nella prima edizione è, meno fedelmente (il testo ha ἀμπνοὰν ἔστασαν): è respirarono ”.

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anche lui, e il suo giudizio ha sommo valore ma è pur già un me- rito grande aver tradotto Pindaro in modo da renderlo intelligibile a tutti, anche alle persone di mediocre cultura, eccettuati, s'intende, coloro a cui natura non lo volle dire. Renderlo intelligibile, perchè questo è l’essenziale, senza inventare, cioè senza attribuire al poeta pensieri, e neppure sfumature di pensiero, che egli non ha mai avuto in mente di esprimere, senza fargli dire mai più meno di quello che egli ha detto, se anche più di una volta il Fraccaroli ha omesso di tradurre un epiteto o la prima o la seconda parte di un epiteto composto o qualche altra parola. Nel testo greco l’epiteto, semplice o composto, la parola sono necessari, perchè venticinque secoli fa, in Grecia, Pindaro per esprimere quella tale idea ha dovuto usare quella tale forma; ma non sono sempre o almeno possono non essere più ne- cessari ora, per il senso, nella veste italiana: è cosa d’intuizione im- mediata. E, volere o no, bisogna persuadersi una buona volta che nessuna traduzione, nessuna, può sostituire interamente, anzi sosti- tuire senz'altro il testo di un classico greco; che se poi la traduzione vuol essere in tutto, dal principio alla fine, un’opera d’arte, lo potrà sostituire anche meno, salvo le eccezioni.

La prima edizione comprende soltanto la traduzione delle odi (però nei prolegomeni e nel commento è data passim quella di circa venti- cinque frammenti); nella nuova sono tradotti anche i frammenti dei partenii (2) e dei peani (6) restituitici dai papiri egiziani, e gli altri fra’ più belli e i più importanti (7). Non so resistere al desiderio bisogna aver pazienza e compatirmi: divento vecchio! di riportare la versione del I peana, raccomandando ai critici fegatosi di non farsi venir la febbre estremamente pericoloso in questi tempi di guerra guerreggiata) per l’epule.

Prima che i guai della vecchiezza il colgano, Vesta l’uom di letizia ogni sua cura Contento in sua misura

Del ben che ha in casa. Oh viva, viva! Or riede Il ricorso annuale; or l’Ore a Temide

Figlie hanno volto il piede

A Tebe amica dei corsier, d’Apolline Riconducendo l’epule e la festa

Dei serti amica. Oh a lungo ei questo popolo Coi fiori d'Eunomia saggia rivesta!

Passo ai prolegomeni e al commento. I prolegomeni sono rimasti in gran parte quali erano nella prima edizione: pagine mirabili, lucidis-

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sime, armoniose, di storia letteraria, di estetica, di critica, in cui la genialità dell'artista si accoppia con l’acume e la larga, profonda dot- trina del filologo. Mi sia lecito invocare di nuovo la testimonianza di un giudice di competenza indiscutibile, del Vitelli. Nel Manuale sopra citato è detto (pag. 226, n. 4): “In queste brevi notizie su Pindaro seguiamo quasi sempre i prolegomeni del Fracca- roli. Spesso usiamo delle sue stesse parole, e ci duole soltanto che lo spazio e l’indole del nostro libro ne vieti di usarne più largamente” Questo si chiama parlar chiaro, e non occorre aggiungere altro. Occorre però che io spieghi perchè i prolegomeni non sono rimasti nella nuova edizione tali e quali erano nella precedente. È la conseguenza delle scoperte dei frammenti papiracei e del Catalogo Olimpico di Ossirinco, e della resurrezione di Bacchilide. I frammenti papiracei ‘servono a integrare e a chiarire anche qualche questione intorno agli epinicî’; il Catalogo ‘taglia corto a molte discussioni di cronologia’; il risorto Bacchilide ha condotto a una valutazione, diversa da quella di venti anni addietro, dell’arte di Pindaro: è “un termine sicuro di confronto’, per giudicare ‘con la scorta di fatti e documenti’, e non più per mezzo di semplici congetture, gli elementi della tecnica comune e quelli peculiari dell’in- gegno pindarico. Ma non ostante tutto ciò le modificazioni non sono moltissime, anche perchè più cose il Fraccaroli le aveva intuite, per esempio quale doveva essere la cronologia delle odi di Pindaro (il Ca- talogo gli ha quasi sempre dato ragione); quindi alcuni tagli qua e là, alcune aggiunte, alcuni ritocchi. Non erano necessarie maggiori muta- zioni. Se ho veduto bene nel confronto che ho fatto fra le due edizioni, maggiori mutazioni sono nel commento, cioè nell’introduzione alle sin- gole odi, sia per le novità accennate quassù delle scoperte nei papiri egiziani, sia per i risultati sicuri dei più recenti studi intorno a Pin- daro superfluo avvertire che il Fraccaroli ha tenuto conto soltanto delle pubblicazioni più importanti, trascurando i troppo numerosi parti ... della spina dorsale dei troppo numerosi untorelli transalpini, meravi- glioso esempio di produzione parassitaria estremamente ingombrante), sia soprattutto perchè la nuova edizione, a differenza dell’altra, è prin- cipalmente rivolta al gran pubblico. Oltre al resto, nell'altra sono molte, giustamente, le note filologiche, che ora sarebbero state “inutile e dan- nosa zavorra”. Si tenga però presente che la prima edizione ‘non si intende annullata, se non in quanto sia esplicitamente o implicitamente contraddetta’ dalla nuova. In questa l’autore ha aggiunto molto oppor- tunamente ‘qualche glossa in calce alla versione’, glossa esplicativa o dichiarativa e di richiamo: poche linee sempre, con notizie chiare, esatte, che non obbligano a interrompere la lettura.

de

376

E che altro posso dire ora dell’opera del Fraccaroli? Delle mie lodi (1), per quanto profondamente sincere, egli non ha bisogno; voglia però permettermi che io mi rallegri con lui che il passare degli anni non abbia punto affievolito la sua forte fibra di lavoratore, intaccato la rigogliosa vigoria del suo mirabile ingegno.

Napoli, 8 marzo 1915.

Domenico Bassi.

Anton Cnarzis. Der Philosoph und Grammatiker Ptolemaios Chennos. Leben, Schriftstellerei und Fragmente (mit Ausschluss der Aristoteles bio- graphie). Erster Teil. Einleitung und Text (= Studien zur Geschichte und Kultur des Altertums, VII, 2). Paderborn, Ferd. Schéningh, 1914, di pp. xcvi-57.

L’opera, della quale il Chatzis ci presenta ora soltanto la prima parte, cioè gli studi introduttivi ed il testo, riserbandosi di pubblicare ad altra occasione il commento, è di notevole importanza per il metodo delle ricerche ed il valore delle conclusioni alle quali giunge l’Autore. È da dolere che non sia stato pubblicato ad un tempo anche il com- mento, perchè questo ci avrebbe chiariti, o tolti senz’altro, molti dubbi, rendendo inutili, probabilmente, molte obiezioni ed osservazioni che si possono muovere all’opera del Chatzis.

E le obiezioni e le osservazioni sono molte e gravi, come avviene per ogni opera veramente importante che non teme di affrontare pro- blemi nuovi e di dare nuove, inaspettate risoluzioni ai vecchi. E l’Au- tore con ottima preparazione e rigoroso metodo si è accinto al non lieve compito di presentarci completa la figura di Tolomeo Chenno, di studiare sotto ogni punto di vista quello che di lui è rimasto e quanto, con maggiore o minore verisimiglianza a luì è stato attribuito, portando nuovi germi per future discussioni. Comunque si possa giudicare delle

(1) Come per il Fraccaroli, così sono affatto superflue le mie lodi per Istituto Editoriale Italiano. A ogni modo, voglio dire almeno qui in nota che il lavoro tipografico dei due volumi pindarici non lascia nulla a desiderare: comodo il formato, buona la carta, corretta la composi- zione, bella e nitida la stampa, elegante e solida la legatura. Trovo encomiabile il sistema di dare i nomi degli operai, compositori, stampa- tori, legatori.

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A

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singole ricerche del Chatzis, la più importante, quella cioè riguardante il giudizio ed il valore da darsi all'opera di Tolomeo di cui abbiamo l'estratto incompleto, farraginoso, affrettato di Fozio, risultati posi- tivi e sicuri, che saranno, io credo, accolti da tutti gli studiosi.

Il giudizio sfavorevole del Hercher che fino ad oggi è stato accettato generalmente, è dimostrato eccessivo, se non falso del tutto, dal Chatzis, il quale si appoggia a forti testimonianze ed a sennate argomentazioni. Messo in chiara luce il vero valore che si deve attribuire al compendio ed al metodo, seguìto da Fozio, nel compilarlo, risulta chiaramente anche quanto sia difficile ed incerto giudicare il metodo di lavoro, ed il giudizio che se ne deve dare, seguìto da Tolomeo, la cui opera com- pleta doveva avere un’importanza ben diversa da quanto può far sup- porre il magro e non sempre fedele estratto foziano. Forse non eguale consentimento da parte degli studiosi otterranno le ricerche riguardanti la identificazione di Tolomeo Chenno con Tolomeo, lo straniero, di cui parlano le fonti arabe, specialmente Ibn al-Qifti, Ibn al-Nadim e che sarebbe da identificare col Tolomeo, studioso di Aristotele, ricordato da Ibn Abi Usaibià, dalla Vita Aristotelis cod. Marc. 257 (p. 485, 16 Rose) e dalla Vita Aristotelis latina (p. 450, 1 Rose). È suggestiva la proposta del Christ, accettata pienamente dal Chatzis, che le fonti arabe abbiano frainteso il soprannome Χέννος, dato a Tolomeo alessandrino, parola non troppo comune, considerandolo come una corruzione del più comune Zeîvos o Ξένος, ma è da osservare che mentre Tolomeo Chenno, cono- sciuto dalle fonti greche sicure (Esichio = Suida, Tzetze), ci si presenta soltanto come yoeuuazixòs e autore di opere poetiche e di varia eru- dizione, il Tolomeo, conosciuto dagli eruditi arabi, è soltanto filosofo, e l’opera sua riguarda la vita, le opere ed il testamento di Aristotele. È strano che le fonti greche che riguardano proprio il Chenno non facciano punto cenno di tale opera che doveva avere, a quanto pare, tanta importanza e diffusione. Tale obiezione si fa anche il Chatzis, ma questi, stabilita l'identità fra il Chenno suidiano ed il Tolomeo, lo straniero, delle fonti arabe, cerca di trovare anche nei testi greci qualche accenno alle opere filosofiche di Tolomeo. Ed invero il nome Tolomeo ricorre più volte nei testi filosofici, or come un filosofo peripatetico, or come platonico, ora senza determinazione alcuna. Ma chi potrebbe affer- mare che il Tolomeo di Sesto Empirico e dello Schol. Dionys. Thrac., presentatoci come peripatetico, sia il platonico ricordato da Proclo e Jamblico, mentre non v’ha dubbio che lo straniero delle fonti arabe sia da identificarsi con quello delle Vite aristoteliche ? Inoltre converrebbe ammettere che tutte le fonti arabe risalgano ad una sola fonte, dalla quale provenne l’errore. Quanto alla duplice determinazione di filosofo peripatetico e platonico non 51 presentano gravi difficoltà, chè tale confu-

ESIBITA

sione poteva avvenire e si comprende per il genere di ricerche e di studi attribuiti a Tolomeo, ma rimane la difficoltà per l’identificazione col grammatico. Si osserva che la ragione cronologica non impedisce l’identificazione del grammatico col filosofo ricordato da Sesto Empirico e dallo Scoliaste a Dionigi Trace. Ma qui è da notare che se forse l’identificazione fra il grammatico ed il peripatetico non presenta inaccettabile, meno facile è quella col platonico per la natura degli argomenti. Alla prima identificazione non si oppongono le fonti sicure greche.

Infatti il peripatetico di Sesto Empirico e dello Scoliaste a Dionigi Trace è ricordato unicamente per una questione grammaticale, e Suida del Chenno ci dice appunto ch’era γραμματικός: anzi è la questione fondamentale per i grammatici, la definizione stessa della grammatica, una delle questioni che entravano nell’orbita delle ricerche dei peri- patetici. che è facile intendere come Sesto Empirico possa chiamare peripatetico il grammatico e si serva di un grammatico invece che di un filosofo in una questione spettante alla grammatica e specialmente dopo il ricordo di Asclepiade. Questo fatto però rende più probabile l'opinione del Grifenhan che si tratti dell’Ascalonita, anche senza la necessità di mutare il περιπατητικός in Περγαμενός, od in &vadoygunds come fece il Baege. Ammessa pertanto l’identità fra il Chenno e lo Stra- niero, il Chatzis sente costretto a rifiutare l’accenno dato da Longino (fr. 5, 4) in Porfirio (Vit. Plotin., p. 127), nel quale fra i peripatetici sono ricordati particolarmente Ammonio e Tolomeo; quali οὐ μὴν καὶ γράψαντές ye τεχνικὸν οὐδέν, ἀλλὰ ποιήματα καὶ λόγους ἐπιδεικτικούς, ἅπερ οὖν καὶ σωϑῆναι τῶν ἀνδρῶν τούτων οὐχ ἑκόντων. Due ragioni apporta il Chatzis: che questo Tolomeo scrisse solo ποιήματα zai λόγους ἐπιδεικτιπούς; che visse nella prima metà del secolo. Quanto all’età Longino non ne fa determinazione alcuna, ricorda i filosofi in ordine cronologico, ma ricorda i più importanti per la ma- teria trattata; in secondo luogo appunto l’aver scritto solo poemi e λόγους ἐπιδεικτικούς ci fa riconoscere nel Tolomeo di Longino il Chenno, di cui si ricordano solo poemi (l’Antomero) e Abyor ἐπιδεικτικοί (la

Sfinge, le Storie nuove), pur essendo un grammatico, le cui opinioni, anche senza che facessero parte di una τέχνη, Sesto Empirico poteva conoscere, classificando il grammatico, poeta e retore, fra i peripatetici, come fa Longino. Certamente che non avendo lasciato scritto alcuna opera filosofica non poteva il Chatzis identificarlo col filosofo peripate-

io Ra ΡΟ

tico che s'era occupato di Aristotele, secondo le testimonianze arabe, o col platonico che s'era occupato, secondo Proclo, del Timeo platonico e delle questioni riguardanti l’anima.

Ma tutto questo dimostra come tale identificazione sia artificiosa e

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incerta, ammettendo anche correzioni nei testi senza necessità come in Proclo (ap. Eliam in Comm. in Arist. categ., p. 108, 11 Busse), ove i codici hanno Πτολεμαῖος φιλάδελφος, che il Rose ha voluto correg- gere in φιλόσοφος: correzione accettata dal Chatzis e che gli serve per riconoscere in quest'altro filosofo il nostro Chenno. Anzi questo argo- mento è uno dei principali, poichè si dimostra che anche i Greci cono- scevano Πτολεμαῖος φιλόσοφος. Ma ci corre per identificarlo col Xévvos; anzi, se tale era la fama di questo Tolomeo da essere senz'altro riconosciuto per φιλόσοφος, questo fatto ci persuade ad escludere l’identificazione col X#vvos. Ma tali argomenti hanno bisogno di più ampia discussione che qui non è il luogo di fare.

Ci basta aver dimostrato, quanto sopra avevamo asserito, che il lavoro del Chatzis darà luogo a nuove discussioni e ricerche. Da quanto ab- biamo detto si comprende che non minore discussione offre il capitolo riguardante le opere attribuite a Tolomeo Chenno. Se si accetta l’iden- tificazione proposta converrà anche accettare l’affermazione che Tolomeo Chenno sia autore della biografia di Aristotele, e che probabilmente si debbano a lui una τέχνη γραμματική, senza pensare proprio ad un ὑπόμνημα Διονυσίου τοῦ Θρᾳπὸς τέχνης γραμματικῆς, un ὑπόμνημα εἷς Πλάτωνος Τίμαιον, un περὶ ψυχῆς, ed un περὶ φιλοσοφίας. nella quale ultima opera potevano trovar luogo benissimo, per quanto pare a me, le citazioni tratte dalle due opere precedenti, che tutte si potrebbero ridurre ad un’opera sola di natura platonica.

Fra le opere sicure di Tolomeo sono ricordate la Sfinge, 1᾽ Antomero e le Nuove Storie. Col Chatzis credo anch’io che sia nel vero più il Rohde riguardo alla natura ed al contenuto della Sfinge che non il Christ ed il Wilamowitz. Non convengo con lui in tutto e per tutto riguardo all’Antomero. Il Chatzis la reputa un’opera di polemica lette- raria, e, ricordando l’Anticatone di Cesare, 1’ ᾿ἀντιπορνοβοσηός di Dio- xippo, l’Anterino di Eratostene, pare che voglia considerarla un poema scritto in contrasto ad un’altra opera riguardante Omero, benchè non sia chiaro se intenda proprio un’opera in contrasto coi poemi stessi di Omero. Osservo che se nell’Anticatone Cesare cercava di opporsi alle lodi che di Catone aveva fatto Cicerone, doveva ad un tempo, per togliere loro l’importanza data dall’oratore, diminuire il valore degli atti di Catone o variamente interpretarli, quindi veniva a toccare direttamente sempre la persona di Catone, e quindi l’opera cesariana diveniva una polemica contro Catone stesso, cui probabilmente mirava Cesare più che al discorso di Cicerone. Per l’ Avrizogrofooxés bisognerebbe stabi- lire contro quale commedia aveva scritto la sua Dioxippo: perchè più d’uno dei comici avea rappresentato un Πορνοβοσκός, cioè Eubulo, Po- sidippo, Anaxila e (non doveva ommetterlo il Chatzis), anche Eroda.

= > Me.

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Qui siamo di fronte ad un tipo (cfr. la mia memoria De Battari per- sona, Padova, 1905) e contro un tipo si rivolgono le frecciate (se mai polemica si vuol considerare l’opera di Dioxippo) del comico, non contro l'uno piuttosto che contro l’altro dei suoi fratelli in arte. L’Anterino di Eratostene non pare opera polemica, ma si riconnette a tutta la serie di poemetti erotici che fiorirono nell’età ellenistica (cfr. la mia Poesia ellenistica, pp. 62, 102), ed ai quali ci richiama anche l’Esiodo di Eufo- rione (cfr. Suida, s. v.). Il poeta erudito tratta la materia di Omero sotto nuova forma, con nuovi particolari, mettendo in luce diversa gli avve- nimenti: non che Tolomeo intendesse con questo di mordere Omero e di dimostrarne vana o falsa l’opera. Omero è sempre il divino: ma egli non poteva sapere tutto e tante cose che sapeva non ha voluto dire. Non le ha dette lui, e così ha lasciato campo di dirle ai suoi suc- cessori, come ne attesta Filostrato nel suo Eroîco, c. XIX, 6. E l’opera di Filostrato ne chiarisce molti punti oscuri a questo riguardo, ed è notevole che il Chatzis non abbia tentato di riavvicinare i due lavori. L’opera di Filostrato un indizio del genere di studi e delle tendenze di quell’età, come ho brevemente notato nella mia memoria Sul!’ Heroikos di Filostrato (= Riv. di st. ant., 1907). Gli eruditi non volevano Homer als einen Ignoranten hinzustellen, come scrive esagerando il Hercher, ma volevano solo correggere alcune notizie inesatte e completare dove credevano fossero delle lacune. E lacune ce n’erano, perchè Omero non tratta tutto il ciclo troiano, considera tutti gli eroi. Il che pre- testo appunto a Filostrato, che pur reputa scritti da Apollo stesso (XIX, 2) i carmi omerici, a trattare in particolare di Palamede, di cui non parla Omero, e di altri eroi aggiungendo nuove notizie. Se Omero ha taciuto, ne avverte Filostrato, è perchè, pur di sapere tutta la verità dall’ombra di Ulisse, s'era vincolato con giuramento a lodarlo nel suo poema, ed Ulisse narra la sua mala azione contro Palamede, la sua lotta con lui, il tradimento e conchiude εἰ τοῖς ἄνω ἀνϑρώποις μὴ δόξω εἰργάσϑαι τὸν Παλαμήδην ταῦτα, ἧττόν ue ἀπολεῖ τἄνταῦϑα e perciò lo prega: μὴ δὴ ἄγε τὸν Παλαμήδην ἐς "IRuov, μηδὲ στρατιώτῃ χρῶ, μήδ᾽ ὅτε σοφὸς ἢν εἴπῃς. ἐροῦσι μὲν γὰρ ἕτεροι ποιηταί, πιϑανὰ (questo interessava ai nuovi retori e sofisti) δ᾽ οὐ δόξει μὴ σοὶ εἱρημένα. La stessa via può aver battuto anche Tolomeo, poeta e grammatico, che anche nella Κ΄. é. si allontana sovente dalla tradizione omerica pur senza diventare proprio un oppositore d’ Omero, essendo d’altra parte esagerata a questo riguardo la condanna che il Chatzis dell’opinione del Hercher quasi che essa sia michts als eine phantasievolle Vermutung. Forse anche Tolomeo toccava delle questioni fra Ulisse e Palamede ? Non vogliamo azzardare ipotesi in un campo così pericoloso: ci basti notare che questo motivo era stato trattato anche da Euforione (fr. 72,

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Scheidw. = Serv. Aen., III, 17 Serv. Aen., II, 81, riferito dal Noack in Hermes, XXVIII, p. 148). Gli eruditi amavano tali questioni sottili e, diciam pure, inutili intorno ad Omero in quell’età: le ἀπορίαι si suc- cedevano alle ἀπορίαι (di qui argomento e materia ad opere come la K. i. di Tolomeo), eccitando anche il disdegno delle persone più colte e che degli studi avevano ben altro concetto. Questa tendenza ricorda il Chatzis stesso (p. vv), richiamandosi alla usanza di Tiberio (Svet. 40), di mettere in imbarazzo i grammatici richiedendo: quae mater Hecubae, quod Achilli nomen inter virgines fuisset (cfr. Tolomeo, K. i., I, 13= p. 17, 13 sg., Ch.) quid Sirenes cantare sint solitae. Al qual proposito il Chatzis avrebbe potuto citare opportunamente Senec., epist. 88, in cui si deridono queste questioni puerili (— quam scite an minor Hecuba fuerit quam Helena et quare tam male tulerit aetatem. Quid, inquam, annos Patrocli et Achillis inquirere ad rem existimas pertinere? ecc. —) richia- mando gli studiosi a più profondo e nobile concetto dell’arte omerica. Che dire delle ἀπορίαι più sciocche, ad es. sul numero dei rematori d’Ulisse o sul cane di Polifemo (cfr. Phil. Thess. = AP., XI, 321; cfr. anche 347)? La natura del poema in 24 canti (quanti ne conta uno intero dei poemi omerici) quindi ben si confà con quella del gramma- tico che conosciamo dalla K. è. e con la tendenza di quell’età; per la qual cosa nulla impedisce di vedere nell’opera di Tolomeo una specie di rifacimento dell’Iliade o dell’Odissea, o di ambedue i poemi ad un tempo, con altro intendimento per presentare la vera storia, sotto nuova luce, della guerra troiana, come fa appunto Filostrato. Forse l'intenzione di contrapporsi al grande Smirneo era un po’ più fortemente affermata che non nell’opera filostratea e di qui la ragione del titolo.

Nel paragrafo che tratta delle opere falsamente attribuite a Tolomeo Chenno sono ricordati: l’&yòv Ομήρου καὶ “Horddov, che niuno ormai pensa più di attribuire al Chenno, la ᾿]λεὰς λειπογράμματος, ricordata dal Christ, evidentemente per svista del filologo, il περὶ κριτηρίου καὶ ἡγεμονικοῦ, dai più attribuito al geografo (al nostro Tolomeo era im- possibile anche per la natura stoica del libretto, corrispondente ad altro omonimo di Posidonio), ed infine i ZS7oryeîa e gli ᾿Οπτικά che sono del geografo e che solo il Patricius voleva attribuire ad un filo- sofo, che egli identificava con quello citato da Sesto Empirico: ma nep- pure il Patricius avrebbe pensato a Tolomeo Chenno.

Più importanti sono invece i capitoli che trattano della Kawd isrogia, le cui ricerche ed i cui risultati giungono a conclusioni più positive e sicure.

Quanto al titolo, convengo col Chatzis che le parole εἰς πολυμάϑειαν non risalgano al Chenno ma a Fozio, ma non intendo perchè esse (p.xxx1v) sollten wohl darauf hinweisen, dass die K. i. keine Geschichtsdarstellung

ΡΟΣ ΤΕ RAT (ΩΣ RITI, TARE ALINA N EDITA ΤΥ ΠΤ EROE BASTONE CODER DOTE PERINI LA Si Σὰ wii ì vi ALAN) a ì Ve, SIN If gi ahi vic Le E

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sei ... sondern ein grammatisches Werk. Se la Geschichtsdarstellung voglia intendere nel senso più stretto della parola e quale intendiamo oggi, sta bene: ma d’altra parte pretese storiche l'ha pure l’opera di Tolomeo, essa è un’opera grammaticale, se non intendasi con questo addiettivo tutto quel complesso di discipline che giovano alle persone colte, e quindi, fra queste, anche la storia. È un’opera per eruditi, siano essi storici, filologi, filosofi: ce n'è per tutti. Questo ben intendesi con l'aggiunta foziana εἰς πολυμάϑειαν, come dichiarano gli esempi stessi citati a p. xxx1v, n. 1. Rettamente spiega καινὴ ἱστορία = καιναὶ ἱστορίαι. Soltanto è da intendere quel καύναΐζ con una certa restrizione. Non sono storie nuove, nel senso che l’autore le presenti per la prima volta e siano da lui inventate (poichè sarebbero considerate non vere e non accettate o relegate fra le incredibili), ma sono storie vecchie, note ai più, ma note erratamente in taluni particolari ed in certe interpreta- zioni che l’autore rettifica, corregge, dichiara. Tolomeo non vuol parere essere un paradoxografo (e lo dimostra anche il Chatzis, cfr. p. xL), e appoggia in generale a testimonianze di storici e di poeti. Se questo non possiamo sempre confermare, la colpa va data all’epitoma- tore non all’autore, come dimostrano i confronti fra Fozio ed Eustazio e gli Scolî omerici che hanno attinto direttamente dalla fonte chen- niana. Perciò non opportunamente nella nota 1 a p. xxxvi si fa cenno del passo di Luc. Amor., 414, dove καινὴ ἱστορία, determinata dal- l’@riorov λόγου, ci si presenta appunto come una leggenda maravigliosa, incredibile. si può conchiudere che Lukian gebraucht also den Ausdruck navi iotogia in derselben Weise wie Ptolemaios. Tolomeo è un raziona- lista, ma non troppo audace e batte spesso le orme altrui. Ad esempio (p. xxxvi sg.), la leggenda raccontava che un serpe (δράκων) aveva avuto relazioni con la madre di Alessandro e Tolomeo asserisce che non un serpe, ma un uomo di nome Dracon era il padre di Alessandro ed il Chatzis ben poteva ricordare che era stato preceduto il nostro Tolomeo dal ps. Callistene (I, 7, 2; I, 10, 2 e 5), il quale ammetteva che un uomo era il padre di Alessandro, Nettanebo, che si era congiunto con la regina sotto forma del dio Ammone, col corpo a figura di serpe, ecc. Ma forse questo troveremo più ampiamente illustrato nel commento.

A p. xxxvui il Chatzis deplora la perdita della lettera dedicatoria a Tertilla sperando che da quella si potesse dedurre qualcosa circa l’ordi- namento della materia nel libro: ma io credo che ben poco a questo riguardo ci avrebbe giovato quella lettera, più di quanto non ci dichiari l’estratto stesso del libro, come a nulla giova per l'ordinamento della materia nel libretto parteniano la lettera dedicatoria a Gallo. Interes- santissimi poi sono i capitoli nei quali il Chatzis studia le fonti cui pos-

siamo ricorrere per aver più sicure notizie della materia trattata da Tolomeo e che si giovarono della K. è. Il risultato più importante è che spesso l’oscurità e l'incertezza delle notizie che troviamo nel com- pendio di Fozio si debbono attribuire alla fretta ed alla superficialità di Fozio stesso, che sono spesso arrischiati e falsi i giudizi dati, spe- cialmente dal Hercher, sull’inattendibilità delle notizie stesse e sul me- todo di lavoro di Tolomeo.

Anche in questi capitoli si può notare qualche lacuna e qualche os- servazione che non si può accettare pienamente. A proposito degli ἐρώμενον si potevano ricordare alcuni idilli teocritei, ma sovra tutto i poemetti di Niceneto e di Sosicrate sul motivo delle Eee esiodee. Ed il catalogo di Ermesianatte? ed il libro di Clearco? Riguardo alla citazione di Eubulo (p. xvi) è da notare che il Chatzis spiega 1᾿ ἀγνοηθϑέν nel senso che Callimaco aveva citato il verso, ma non il suo autore. Io eredo ancora (cfr. anche la mia Critica letteraria di Callimaco, Firenze, 1907, in S.Ld.Fil.C1., XV, p. 87) che a Callimaco fosse sfuggito il verso di Eubulo, non che egli ne sconoscesse la paternità: il fatto che To- lomeo cita espressamente la omissione di Callimaco fa quasi sospet- tare che Callimaco pur conoscesse le altre opere od anche il resto del- l’opera dove si doveva trovare quel verso, sul quale cadevano dei dubbi e che forse non era in taluni originali della commedia eubulea. Che si trattasse di un passo callimacheo dove si trattasse esclusivamente della ψαλάπανθϑα non credo, chè ben altre autorità a tal proposito si pote- vano citare, ad es. Tolomeo di Citera (cfr. Suid., 5. v.). Per il muta- mento (p. Lxvi) di Cadmo ed Armonia in leoni anzichè in serpenti si poteva confrontare l’analoga metamorfosi di Atalanta e Milanione (cfr. ps. Heracl. de incred., 12) senza ricorrere ad una congettura paleogra- fica più speciosa che vera. Importanti sono le osservazioni a proposito della Eea di Esiodo, amante del poeta, presso Ermesianatte (p. LxxvI sg.). Io non convengo col Chatzis che la poesia di Ermesianatte fosse der Kompositionsart nach dihnlich den ᾿Ηοῖαι des Hesiod; lo scopo del poeta ellenistico (cfr. le mie note De Hermesianactis fabulis in Class. e Neol., 1909, e De Hermesianactis Leontio, ibid., 1910) era ben diverso da quello di Esiodo ed il Catalogo ermesianatteo non pretendeva di formare un poema vero e proprio. Tanto meno poi convengo che dAnlich angelegt war wohl auch die Λυδή des Antimachos (cfr. la mia nota Antimaco e la sua Lide in Class. e Neol., 1911). Convengo invece che Ermesianatte ha sfruttato a suo modo una parola, un’esclamazione esiodea, per dare auto- rità alle sue favole con la parole stesse del poeta di cui parla. È più note- vole ancora l’osservazione riguardante la Teoride di Sofocle. Già il Dindorf, che il Chatzis non ricorda, aveva notato la sconvenienza che Sofocle parlasse in uno stasimo tragico di un’etéra e muoveva dubbi sul passo,

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come su tutta la leggenda riportata dall’ è7708. dell’Edipo a Colono, dallo Sch. ad Arist. Ran., 78, da Suida (s. v. ᾿Ιοφῶν e Ζοφοκλῆς ‘Agiotmvos e dalla Vita Sophoclis. Tutte queste leggende risalgono forse ad un'unica fonte, Satiro, od anche Istro, che trasse in errore anche Dioscuride (AP., VII, 707). Ma prima che presso l’erudito la leggenda s’era formata forse presso i comici dai quali l’aveva tratta Ermesianatte. La leggenda degli amori del vecchio poeta aveva bisogno di una donna, e la φιζὴ ϑεωρίς dello stasimo = ναῦς τοὺς ϑεωροὺς φέρουσα (cfr. Nauck ad fr. 698), diventò persona cambiandosi soltanto la lettera iniziale. Se si alterava e si snaturava il contenuto dell’opera sofoclea con questa violenza al testo poco importava ai ricercatori di pettegolezzi piccanti ed indiscreti. A p. 1xxix, per la morte di Laide, si possono ricordare le morti ma- ravigliose analoghe di Sofocle, Euripide, Anacreonte di cui ha trattato, da par suo, il Piccolomini. Che Dioniso sia stato innamorato di Adone non lo dicono soltanto Tolomeo (p. Lxx1x) ed il comico Platone, ma l'aveva affermato anche Fanocle (fr. 3 B = Plut. Symp., IV, 5, 3) che ce lo presenta furente d'amore per Cipro in cerca dell’amasio, che poi rapisce sui monti. Ma tutti questi non sono difetti che intacchino co- munque il valore dell’opera del Chatzis. Piuttosto mi pare di notare una contraddizione fra p. xwr e p. vxni. Qui il Chatzis combatte uno degli argomenti col quale il Hercher cercava di mostrare la inattendi- bilità dell’opera del Chenno per il metodo seguìto dall'autore nella com- pilazione ; invece si serve dello stesso passo e dello stesso argomento per identificare il Tolomeo di Proclo con l’autore della K. è. per la ragione che ambedue seguono lo stesso sistema: inventare i nomi delle persone da altri lasciate anonime. Aspettiamo ora il commento, ed auguriamo che veda presto la luce, come necessario complemento di quest'opera, ormai fondamentale, per lo studio di Tolomeo Chenno e per il quale soltanto potremo intendere la ragione di certe lezioni adot- tate nel testo di cui ci riserbiamo di discutere quando saranno chiarite le ragioni che hanno indotto l'Autore ad accettarle.

Camino Cressi.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

CaroLina Lanzani. Mario e Silla. Storia della democrazia romana negli anni 87-82 a. Cr. Catania, Battiato, 1915, di pp. x-384.

La dott. Lanzani aveva pubblicato molti anni fa, 1907, un lavoro dal titolo Il VII consolato di Mario ,, quale prima parte di un’opera in- titolata Storia interna di Roma negli anni 87-82 ,; due parti succes- sive erano pure annunziate: Il governo della democrazia , e La ca- duta della democrazia ,. Ora la Lanzani presenta il lavoro compiuto, ma con titolo diverso, che essa toglie dalle due figure predominanti.

Questo volume si può quasi dire abbia già ricevuto il giudizio del pubblico, perchè la prima parte di esso fu a suo tempo oggetto di esame, La Lanzani nelle altre due parti continua il suo metodo di se- guire fedelmente le fonti e di far parlare esse il più possibile. Ma sic- come le fonti per questo argomento non sono abbondanti e contengono molte lacune, la narrazione risente di tali deficienze e spesso esprime il rammarico delle notizie perdute in un periodo così importante della storia di Roma. Lo sforzo dell’autrice per sopperire alla scarsezza del materiale è continuo e non di rado ottiene un buon risultato per certe osservazioni e intuizioni che a me sembrano giuste; e nel complesso essa riesce a rischiarare molti punti oscuri e a dare al suo racconto quella vita che desta interesse. Forse qualcuno potrebbe trovare che non tutte le questioni sono trattate con pari profondità, che qualcuna forse dal nuovo ordine di idee e di discussione poteva ricevere una so- luzione più soddisfacente; ma io penso che nel giudicare un libro si debba tenere conto sovra tutto delle intenzioni di chi l’ha scritto e delle leggi che egli si è imposte nel disegno e nella economia della sua opera. Una cosa vorrei rilevare. La scrittrice ha espressioni di grande ammirazione per i due protagonisti, che veramente le meritano; ma nell'insieme mi sembra ‘abbia una propensione per il partito conser- vatore, forse perchè di Silla. Dei torti il partito democratico ne ebbe e grandi; ma bisogna guardar bene di non prendere ciò che può esser considerato accessorio o secondario per ciò che è fondamentale. Il par- tito democratico, è noto, sorse per ragioni storiche ineluttabili ed af-

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 25

MEA A A A SAL Ae i ΤΩΣ #76 REL ZI IE ἂν i ea:

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frontò tutti 1 problemi economici e politici cui diede origine il cresciuto impero di Roma; il partito conservatore si oppose sempre ad ogni ri- forma, anche con la violenza. Ottenne piena vittoria con Silla, il quale credette dare vigore novello al vecchio tronco costituzionale ; ma ebbe un successo quasi effimero e l’andamento fatale delle cose, natural- mente, non fu arrestato. E furono gli uomini dell’uno e dell’altro partito che nelle lotte civili si valsero di mezzi di cui ΠΟ] moderni non possiamo non provare ribrezzo : gli atti di crudeltà e di ferocia accompagnano sinistramente i nomi e di Mario e di Silla, che come generali invece ebbero ambedue gloria grande e pura. Tutto sommato però, questa scrittrice erudita e operosa ha fatto un libro che si legge volentieri. > Giovanni NiccoLinI.

PauL Porarcra. Prosopographie der Lakedaimonier bis auf die Zeit Ale- randers des Grossen. Breslau, Kommissions-Verlag von J. Max e Comp., 1913, di pp. 172, con due tavole genealogiche.

Non v’ha chi non riconosca quanta e quale importanza abbiano i lavori prosopografici per l’aiuto che apportano agli studiosi sia della storia politica, sia della storia letteraria di un popolo: di quante que- stioni siano fecondi nella loro apparente aridità ben sa chi sia per poco pratico di tali ricerche e perciò con grande favore sarà accolta dagli studiosi questa prosopografia lacedemone del Poralla, con la quale si compie una lacuna, non piccola, negli studi antichi. E la si compie degnamente, poichè la scrupolosa esattezza dei dati e delle fonti, la sicurezza dei criteri nella raccolta del materiale prosopografico e la cura della scelta delle notizie illustrative, che sono i meriti principali in lavori di tal genere, si ritrovano nell'opera del Poralla, congiunte con una ammirevole sobrietà. I criteri, seguiti dall'A. che mise a pro- fitto tutte le fonti letterarie e storiche ed epigrafiche, sono illustrati nella prefazione con grande chiarezza e sicurezza. Giustamente il Po- ralla si è fermato all’età di Alessandro Magno, perchè nel periodo elle- nistico le varie stirpi greche per i maggiori e più intimi contatti si fondono più strettamente, perdendo spesso i caratteri genuini e pecu- liari della loro origine. Quanto alla scelta del materiale avverte che non ammise nel suo catalogo i nomi mitologici e leggendari che risal- gono oltre l’età di Euristene e Procle, e quanto alla determinazione della casta cui appartenevano i Lacedemoni, nota che si dovevano con- siderare Spartiati, oltre quelli che erano chiaramente designati come tali, anche tutti i loro consanguinei, come pure quelli che appartene- vano alle due famiglie regnanti. © Ebenso klar ist es, egli continua (p. 3), dass in Sparta, wo nur der Vollbirger politische Rechte besass, siàmtliche Beamte mit politischen Befugnissen, also Ephoren, Geronten,

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πο ἀρ CARRI AREE COSIO NI ων ΔΑ ἀν ον ον TOI IN PITCAIRN SCO σου ORTA PANI "SO IR) N LI = È pe A ξ pr } * LIE

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Gesandte und Navarchen Spartiaten gewesen sein miissen ,. Ma oltre a ciò anche talune cariche militari dovevano essere proprie degli Spar- tiati, sebbene tali cariche in generale fossero lasciate ai Perieci, poichè è ben verisimile che în dem adelsstolzen Sparta ἴδον Spartiaten nur ein Spartiat kommandieren konnte, ad es. gli Ipparchi, gli Ipparmosti, i co- mandanti delle cinque more e, sovra tutto, i Polemarchi.

Quanto alla trascrizione dei nomi, mancando nell’alfabeto greco un segno speciale per l’%, il suono aspirato è stato sostituito da un 0, avendo avuto cura l’autore di segnare fra parentesi la trascrizione anche con %.

Le notizie storiche che riguardano i membri delle due case regnanti, sono raccolte in fine al volume in un’appendice che forma un utile con- tributo alla storia delle famiglie regnanti in Sparta. Dopo aver discusso nell’introduzione del valore che hanno le notizie più o meno leggen- darie riguardanti la comune origine delle due stirpi, discorre separa- tamente delle due famiglie: gli Agidi e gli Euripontidi. Qualche osser- vazione si può fare a tale proposito. A p. 42 si ricorda che Gorgo, figlia di Cleomene I, sposò Leonida I, fratello per parte di padre (= quindi fratello legale) di Cleomene; ma Leonida è chiamato Stiefbruder, fratel- lastro di Gorgo. È certo una svista, poichè la vera parentela apparisce anche dall’albero genealogico in fine del volume. A p. 162 si afferma che Archidamo V nel 227 von Kleomenes getòtet wurde. Ma questo fatto è più chiaramente determinato dal Niccolini, la cui dissertazione su Cleomene III non è ricordata dal Poralla; Archidamo fu ucciso piuttosto dal partito dei reazionari, contrari a Cleomene.

Per noi sono di. maggiore interesse le notizie letterarie: ma per amore di sobrietà mi pare che il Poralla diventi troppo assoluto. Così Diofanto è più probabile che appartenga all’età ellenistica, e parimente Dionisodoto. Per Arione egli nota che è nome stabilito dall’inserizione al capo Tenaro del V sec.; non una parola sulla personalità storica, o leggendaria che sia, del poeta. Ma che sia tutta leggenda quella che riguarda il ditirambico? È da dubitare. All’articolo su Alcmane non pare che il Poralla a proposito apporti l’attestazione di Alessandro Etolo (A. P., VII, 709) per sostenere la laconicità del poeta. Invece da quella attestazione pare che si possa conchiudere il contrario ed è da tener conto dell’osservazione acuta fatta dal Fraccaroli in Lirici greci, II, 116. Il Poralla fa senz'altro lacone anche Tirteo, relegando nel numero delle tradizioni leggendarie tutte le attestazioni antiche che ci parlano dell’origine attica del poeta. Ma ancora l’ultima parola su tale questione non è stata detta, ed i dubbi che si affacciano sono gravi che il Fraccaroli (I Lirici greci, I, 83) propende a non togliere fede del tutto alla più comune tradizione, restituendo all’Afidna attica il poeta.

388 È strano che al Poralla, che si mostra così informato della letteratura degli argomenti che tratta, sia sfuggito il volume del Fraccaroli, mentre ha avuto tra mano la dissertazione del Monti, pubblicata anch’essa a Torino contemporaneamente quasi al primo volume dell’opera del Frac- caroli. Ma queste mende non diminuiscono il valore intrinseco dell’opera: le nostre osservazioni tutt’ al più possono dimostrare il desiderio che avremmo avuto di riconoscere perfetto, anche nei particolari, questo la-

voro importante per tanti altri pregi. CamiLLo Cessi.

Ausert C. CLark. The primitive Text of the Gospels and Acts. Oxford, Clarendon Press, 1914, di pp. vin-112.

Nel confronto fra vari codici di una stessa opera frequentemente si notano omissioni od aggiunte, secondo che si vogliano considerare ge- nuini i testi più lunghi o quelli più corti. In generale è prevalsa finora la teoria che la /ectio brevior sia anche potior, considerandosi quali aggiunte, interpolazioni tutto quanto trovavasi in più nei testi che davano lezioni più lunghe. Il Clark, ben noto per i suoi studi su Cicerone, in seguito a più minuto esame dei codici cieeroniani è venuto persuadendosi del contrario, notando spesso che il testo più lungo è il migliore, quello che una lezione razionale e che nel testo abbreviato si deve notare una omissione, la causa della quale può essere di varia natura. In ge- nerale tale omissione è determinata dalla somiglianza di alcune lettere in principio od in fine di parole che sono a breve distanza fra loro, e dalle stesse parole ripetute per ragione del contesto e che il copista ha scambiato, specialmente se tali somiglianze e tali ripetizioni capita- vano alla fine od al principio di un versus del codice da cui ricopiavano il testo. soltanto per questo saut du méme au méme, come, con l’Havet, lo chiama il Clark, si ebbero omissioni, ma ancora trasposizioni, inver- sioni, dittografie ecc. Tutto ciò ha dato motivo più tardi a nuovi lettori, o correttori o trascrittori, al tentativo di correggere la lezione oscura ed inintelligibile con arbitrarie interpolazioni o correzioni che hanno modificato ancor più profondamente il testo primitivo. Basandosi su questo principio fondamentale che le somiglianze di lettere e di parole, alle quali debbonsi attribuire le omissioni ece., doveano trovarsi alla fine od al principio del versus, il Clark determina la legge che conviene studiare la lunghezza di una omissione ed il suo ripetersi per dedurne dal numero delle lettere la media ordinaria della lunghezza della linea quale doveva essere nel testo primitivo a cui si può risalire con questo sistema arithmetical, come giustamente lo chiama il Clark, e che recen- temente ha meglio illustrato in una sua lettura all’Università di Oxford (Recent Developments in tertual Criticism, Oxford, 1914). Dal testo cice-

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roniano il Clark passa ai testi del Nuovo Testamento, e dalle conclusioni, cui egli è arrivato, ha creduto di poter affermare la superiorità dei codici della famiglia cosidetta d’Occidente e seguìta dai primi Padri della Chiesa e stabilire che tutti i manoscritti, compreso D (cod. Bezae), risalgono per i Vangeli ad un archetipo diviso non in linee di uguale lunghezza ma in cola e commata di varia lunghezza. Ma qui appunto, per quanto sembra a me, entra l’elemento arbitrario nella constatazione di ciò che è da considerarsi omissione o non piuttosto una vera inter- polazione: e troppo assoluto mi pare il principio che il testo volgare abbia sempre abbreviato per omissioni (e quindi con modificazioni po- steriori nel testo) escludendo che nelle redazioni posteriori vi possano essere state delle aggiunte e delle interpolazioni. La riprova di quanto il Clark stabilisce per i Vangeli, si ha col sistema medesimo anche negli Atti, che è necessario unire lo studio degli uni con quello degli altri, aggiungendovisi ancora quello delle lettere di S. Paolo, mentre solo l’Apocalisse può essere studiata separatamente. Facilmente si comprende a quali novità di risultati e di conclusioni arriva il Clark con l’appli- cazione rigorosa del suo sistema: tanto nuove ed audaci sono le con- clusioni, che l’autore stesso dubita, o per lo meno ne teme, della diretta ed assoluta affermazione.

Uno forse dei difetti della teoria è che essa riguarda solo un lato della questione riguardante l’autorità dei vari codici. Il Clark si ferma solo alle omissioni od interpolazioni e per questo tenta risalire con la disposizione materiale delle parole ad un codice precedente o primitivo; ma la varietà di lezione dipende da tante altre e varie ragioni che non si possono studiare separatamente e che non tutte hanno loro fon- damento in omissioni o trasposizioni di parole od anche di qualche pensiero. Ad ogni modo niuno può disconoscere l’importanza della que- stione tentata dal Clark e studiata con tanta diligenza e pazienza e con tanto acume. E poichè l’importanza dei risultati è mirabile, si sente costretto l’autore ad una ampia trattazione ed esemplificazione del suo asserto, nella quale è impossibile seguire l’Autore passo passo ove non si voglia rifare tutto il lavoro stesso del Clark.

Da prima l’A. esempi chiari, convincenti della sua teoria traen- doli dalle opere di Cicerone ; quindi passa ai testi del Nuovo Testamento tramandatici in particolare da papiri, tenendo conto delle varie abbre- viazioni e dell’uso loro secondo i tempi e gli scrittori. Dopo un breve cenno sui codici che il Clark in particolare studia, cioè il Sinaiticus, il Vaticanus, il Syriacus (= Sinaiticus), il Bobiensis, il cod. Bezae, prima peri Vangeli conchiudendo che il numero di 160-7 lettere correspond to some division in the archetype of the Gospels (p. 67) poi per gli Atti, passa allo studio minuzioso delle lezioni dei vari codici, conchiudendo

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alla fine per la priorità dei codici occidentali e del testo che fu seguìto da S. Girolamo.

Io ho rifatto gran parte dei raffronti e riscontri e, a dire il vero, fa im- pressione la novità delle conclusioni cui si può arrivare: ma non sempre rimane convinti come ad es. per Mare. X, 37. In Matth. VIII, 5 la volgata εἰσελϑόντι δὲ αὐτῶ e così altra varietà in Marc. XII, 30 ecc. Certo è che nella storia della ricostituzione del testo primitivo del Nuovo Testamento la ricerca del Clark è di valore grandissimo, per quanto discutibile in qualche sua parte, e darà motivo a nuove e più minuziose ricerche, conducendo forse ad un nuove orientamento in questo campo di studi. CamiLLo Cressi.

G. Nicoorini. La Confederazione Achea. Pavia, Mattei e C., 1914, di pp. x11-348.

L’argomento trattato dal Niccolini è uno dei più ardui e gravi che offra la storia greca, perchè nessuno aveva mai concepito il disegno di presentare in un grande quadro complessivo la storia della confedera- zione achea dal suo sorgere al suo dissolvimento per la sottomissione della Grecia ai Romani, mentre essa ha avuta tanta parte negli avve- nimenti che turbarono la Grecia, specialmente nell’ultimo periodo in cui la vita greca rifulse di nuova luce prima di spegnersi sotto il dominio straniero. E la storia della sua vita è così complicata per i continui mutamenti d'indirizzo, per le trattative politiche che si succedevano re- pentinamente, per condizioni stesse della vita della confederazione, che era ben difficile dalle trattazioni generali della storia greca, dateci dal Droysen, dal Hertzberg, dal Niese, dal Beloch ecc., farsi un’idea chiara degli avvenimenti che hanno determinata la vita della confederazione ed il loro valore in relazione alla politica generale della Grecia. Il Nic- colini si era già preparato a tale lavoro di sintesi coi lavori particolari precedenti, specialmente su Cleomene e quello sulla Grecia provincia romana, che ora si ripubblica come appendice e necessario complemento alla fine del volume. Non è già un lavoro di divulgazione nel quale si raccolgono i risultati di ricerche altrui, ma è un lavoro scientifico, nel vero senso della parola, nel quale si presentano nuove conclusioni e dove i fatti studiati anche da altri storici appariscono in nuova luce in rap- porto diretto con la storia particolare della confederazione. Perciò il Niccolini tesse la sua narrazione, non già spigolando quanto interessa al suo argomento dalle più generali trattazioni storiche, ma direttamente sulle fonti antiche, che sottopone a nuovo e più minuto esame. Lo storico corre spedito per la sua via senza soffermarsi alle più minuziose que- stioni riguardanti la natura delle cariche e di tutta la costituzione po-

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litica della confederazione e sovra tutto le questioni cronologiche che avrebbero reso più oscura ed inceppata la narrazione, avendo riunito tutte le discussioni di tal genere negli ultimi due capitoli, che assumono quindi un'importanza speciale e che possono quasi stare a come due lavori indipendenti. Però se questo sistema ha reso più facile il còmpito dello storico, ha anche qualche inconveniente. Infatti la lettura dei primi capitoli presuppone la conoscenza dell'ultimo capitolo, quello riguardante le questioni cronologiche, e lo studio dell’ultimo capitolo richiede ad un tempo la conoscenza generale del corso degli avvenimenti, descritto nei primi capitoli, e che getta luce importante, necessaria sulle que- stioni particolari. Ma, ricordiamo, il libro è indirizzato agli studiosi, e se la lettura talvolta riesce un po’ faticosa per la cura che l’A. ha più per la materia che tratta, che non per la forma dell’esposizione, però vantaggi e profitti notevoli: all’ A. dovranno essere grati sovra tutto gli studiosi del periodo ellenistico, perchè è in questo periodo che si svolge più intensa ed interessante la vita della confederazione, determinando quelle correnti nella vita politica, morale, intellettuale dei Greci che hanno avuto forte e largo influsso anche sul fenomeno artistico e lette- rario. Non è qui il luogo di scendere a più particolare discussione dei risultati cui giunge il nostro storico e che forse non potranno essere da tutti accettati senza ulteriore discussione: ma non potremmo non segnalare qui agli studiosi i risultati riguardanti l’attività politica di Cleomene, quella di Arato, la determinazione cronologica della battaglia di Sellasia e le sue conseguenze, le osservazioni sull’indirizzo seguìto da Arato e l’importanza dell’opera di pacificazione di Polibio ecc. Sovra tutto il ca- pitolo VI (La costituzione federale) ci notizie interessanti e dimostra che la costituzione federale ammetteva (p. 263) “una democrazia, che permetteva sorgesse dal suo seno un’aristocrazia dominatrice , e si pre- sentava nella sua espressione di governo come un tutto in cui sono mesco- lati e contemperati gli elementi monarchico, oligarchico e democratico ,. L’ultimo capitolo, che tratta le questioni cronologiche, si compendia nella Tavola degli strateghi a p. 309 sg. Le fonti principali cui il Niccolini si affida sono Polibio (di cui studia il valore dei giudizi secondo il tempo e le circostanze in cui lo storico li ha dati), Plutarco e Pausania, chè Livio, Diodoro, Strabone e gli altri dipendono in gran parte da Polibio : ma non sempre accetta senza discussione le affermazioni della sua fonte, che sottopone sempre ad un rigoroso esame critico in confronto con le altre testimonianze critiche. Con tale sistema il Niccolini, partendo dal- l'origine e dal primo incremento della confederazione achea, ne viene studiando il successivo sviluppo, l’antico ed il nuovo regime nel Pelo- ponneso ed i suoi rapporti con la Macedonia da prima, con Roma di poi fino a quella crisi dei partiti nella confederazione stessa che l’ha con-

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dotta al suo dissolvimento e ha facilitato maggiormente l’asservimento a Roma. L’opera condotta con rigoroso metodo critico inaugura nobil- mente la Biblioteca degli Studi Storici, che si inizia presso l'editore Mattei di Pavia, pur presentandosi come supplemento al volume degli Studi Storici per l’antichità classica, e fa onore alla scuola dalla quale il Niccolini è uscito e della quale segue con felici risultati la tradizione, dimostrando ancor una volta come anche lo spirito italiano nelle ri- cerche erudite possa seguire il più rigoroso sistema critico. Avremmo però desiderato che anche nella forma il volume fosse più castigato, poichè, pur troppo, frequenti mende tipografiche turbano il lettore.

Camirco Cessi.

CENNI NECROLOGICI

A brevi intervalli di tempo fra essi ci sono stati rapiti dalla morte tre de’ nostri antichi e benemeriti collaboratori.

Il 9 ottobre u. s. spense in Firenze in ancor verde età (era nato in Verona il 26 gennaio del 1854) Luigi Adriano Milani, professore ordinario di Archeologia in quel R. Istituto di Studi Superiori, e diret- tore del R. Museo Archeologico di Firenze, fondatore del Museo topo- grafico dell’Etruria, della quale fu conoscitore e illustratore fra i più insigni. Poco appresso, il 10 dicembre, morì nella patria città il Conte Francesco Cipolla, nato in Verona il 17 gennaio del 1848, che, do- tato di mente geniale e nutrita di salda coltura antica e moderna, era conosciuto quale traduttore fine ed elegante di poeti greci e di te- deschi, ma ai lettori di questa Rivista era particolarmente noto per la mo- nografia Della religione di Eschilo e di Pindaro (vol. VI, a. 1878, pp.366-418) e per !o studio Dei prischi Latini e dei loro usi e costumi (vol. VII, a. 1879, pp. 1-121). Per ultimo, il 20 febbraio del corrente anno, mancò ai vivi, nell’età di 82 anni (era nato il 20 dicembre del 1832), Giovanni Canna, professore ordinario di Letteratura greca nella R. Università di Pavia, uno dei più vecchi collaboratori della Rivista, nel cui secondo volume (a. 1874, pp. 454-494) pubblicò il suo Saggio di studii sopra il carme esiodeo Le Opere e i Giorni,, quando aveva già acquistata ri- putazione di dotto grecista per l’opera Della sublimità libro attribuito a Cassio Longino (1871).

Alle famiglie dei perduti collaboratori vadano le nostre vive condo- glianze.

LA DIREZIONE.

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RASSEGNA DI PUBBLICAZIONI PERIODICHE

Harvard Studies in Classical Philology... Vol. XXV. 1914. H. Wurar- LanD LurcHaeieLD, National È erempla virtutis” in Roman literature, pp. 1-71 [Elenco dei Romani, uomini e donne, insigni, quali sono celebrati dagli scrittori romani antichi, fino a Claudiano, per una o più delle se- guenti virtù: virtus (in genere); aequitas; fides; pietas erga: deos, pa- triam, parentes, ceteros; severitas; fortitudo; constantia; continentia ; paupertas; pudicitia; clementia; moderatio. Segue un elenco speciale di personaggi : cittadini privati del tempo dell’impero, imperatori (il solo Augusto, virtus imperatoria pro patria exercita, pietas, constantia in morte propinquorum, clementia) e ultimi imperatori. Citazioni di luoghi numerosi e considerazioni relative di vario genere. Non si giunge a nessuna conclusione generale che sia possibile riassumere. Una partico- lare è questa, che gli scrittori hanno tenuto molto a segnalare quanti più poterono exempla virtutis, insistendo, più che a tutta prima non ap- parisca, sull’influenza che esercitarono sullo svolgimento della vita ro- mana]. A. SranLey Prase, Medical allusions in the works of St. J e- rome, pp. 73-86 [Dipendono in parte dalla lettura di libri più o meno medici (s. Gerolamo lesse o consultò, fra altre, le opere di A ri- stotele, Teofrasto, Marcello Sidete (autore di un’opera ἑατρικά), Plinio, Dioscoride), in parte dalla propria esperienza personale e dei suoi amici, in parte da Origene, nel quale egli trovò conservate certe tradizioni mediche. Sta il fatto che di medicina s. Girolamo mostra di intendersene]. Cn. H. Haskins, Mediaeval versions of the ° Posterior Analytics’, pp. 87-105 [Rassegna delle dette versioni, tutte in latino, la massima parte inedite. Forniscono nuove prove dello studio che ad Aristotele dedicò il medio evo]. R. K. Hack, The law of the hendecasyUable, pp. 107-115 [“ La cosidetta legge dell’endecasillabo è nulla e vacua; invece di essa si può stabilire che i poeti romani del periodo antico trattarono con estrema libertà gli εἴδη o generi metrici greci che avevano adattati ai loro componi- menti poetici; ed è pericoloso argomentare, dalle restrizioni, interne ed esterne, dei poeti dell'età argentea, il libero individualismo e la

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plasticità dell'ultimo secolo della repubblica ,]. C. NeweLL JAcKson, ° Molle atque facetum’, Horace, Satires, 1, 10, 44, pp.117-137 [Ampio commento. Con le parole molle atque facetum, riferite a Virgilio, Orazio ha inteso certamente di alludere al genus tenue, in cui sono scritte le © Egloghe”. Egli ha indicato in termini generali le caratteri- stiche essenziali delle tre forme letterarie, comedia (comis libellos di Fundanio), tragedia (pede ter percusso di Pollione), ed epica (forte epos di Vario). Riferendosi alle ‘Egloghe’ le ha considerate come speciale espressione del genus tenue]. W.A. HelpeL, Hippocratea, I, pp. 139-203 [Note di critica del testo. Luoghi presi in esame, delle varie opere, poco meno di 90]. Summaries of dissertations for the degree of Ph. D., 1913-14: H. T. ScanIrTKIND, De praepositionis sub usu, pp. 205-206. O. J.Tonp, Quo modo Aristophanes rem tem- poralem in fabulis suis tractaverit (il lavoro sarà pubblicato in extenso nel prossimo volume degli Harvard Studies).

Classical Philology. IX. 1914. 4. P. Suorey, Plato' 5 È Laws’ and the unity of Plato’s thought. I, pp. 345-369 [Intende di dimostrare che 1) le Leggi nella concezione di Platone sono essenzialmente compiute, e un tutto così ben composto come un qualunque altro simile trattato lungo e denso nella letteratura antica, o moderna; 2) le pic- cole e facilmente spiegabili divergenze dal pensiero della Republica si possono trascurare, tenuto conto delle corrispondenze diffusissime nelle teorie fondamentali e nei dettagli; 8) le allusioni ai metodi e alle idee dei dialoghi dialettici, e l'esplicita soluzione di problemi proposti dra- maticamente nei dialoghi minori, fanno dell’opera quasi un compendio completo della filosofia platonica; 4) la precisione, il ritmo magnifico, la veste religiosa dello stile meritano uno studio speciale... ,. Analisi di parti della Republica e raffronto con le Leggi. Continuerà]. C. D. Bucx, Is the suffix of βασίλισσα, ete., of Macedonian origin ?, pp. 370-373 [Contrariamente a ciò che sostengono ScHWutze, Lat. Eigen- namen 40, n., e SoLwsen in Woch. f. klass. Philol. 1904, 971, dimostra che il suffisso -ἰσσὰ non è punto d’origine macedonica; è invece ionico, come in Φοίνισσα (Dorvin-ra, Φοῖνιξ), Κίλισσα, Θρήισσα, che sono come” i prototipi, donde poi Μακεδόνισσα, Παιόνισσα ete.]). J. 4. ScALICAER, The historical infinitive. II. Its literary elaboration, pp. 374-394 [(Conti- nuazione; v. Rivista fasc. preced. p. 189). Si occupa in partico- lare (senza giungere a speciali conclusioni, salvo questa, che l’elabo- razione letteraria dell’infinito storico si può rilevare soprattutto nei tre storici) di Sallustio, del Bellum africanum, di Orazio,

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di Virgilio, di Livio, di Tacito. Esempi e statistiche]. J. A. Scort, Athenian interpolations in Homer. Part II: External evidence, pp. 395-409 [(Continuazione; v. Rivista XL 178). Non è giusta l'affermazione del Cauer, Grundfragen®, p. 145, che la redazione pisistratica sia un ‘fatto accertato per ragioni interne’ (durch innere Griinde befestigte Tatsache); la storia dei poemi omerici sta a dimo- strare il contrario: prove, desunte in parte dalla constatazione del fatto che il centro dell’influenza omerica rimase nella Tonia anche nel V secolo, come già era stato nel VI, in parte dalla tradizione mano- scritta dei poemi stessi. Le conclusioni occupano quasi due pagine; riassumo con la massima brevità : il verso B 558 (dove si accenna ad Aiace Telamonio e agli Ateniesi) è genuino, secondochè dimostra il raf- fronto con 4 489 (Antifonte prende di mira Aiace, ma lo sbaglia, e colpisce un compagno di Ulisse, il quale Ulisse, come è detto prima, ib. 825 sgg., si trovava presso Menesteo); ne risulta che Aiace non era coi Megaresi, bensì con gli Ateniesi, e quindi la supposta interpolazione ateniese di B 558 non è punto una interpolazione, anzi il luogo fa parte della con- cezione originaria del poema]. W. K. Prenrice, XMT, a symbol of Christ, pp. 410-416 [Almeno nelle iscrizioni siriache le lettere XMI' sono un simbolo soltanto di Cristo, e Χριστὸς ἐκ Magias yevvndeis, Χριστὸς Μαρίας γέννα, Χριστοῦ Magia γέννα, e Χριστὸν Μαρία γεννᾷ sono solamente differenti versioni della medesima formola]. A. CÒestER Jonnson, Notes on Attic inscriptions, pp. 417-441 [Sono prese in esame 100 iscrizioni circa (Inscriptiones Graecae, editio minor, voll. IT e III, parte I, fasc. ἢ. Precede un prospetto degli ufficiali ° pagatori” che compariscono nei decreti (cfr. Rivista, fasc. preced. p. 189) durante il IV secolo, che vanno assegnati approssimativamente, a differenza di ciò che è stabilito nell'opera, ai periodi qui indicati: I, 404-circa 394 a. C., oi ταμίαι (τῶν τῆς ded καὶ τῶν ἄλλων dev); TI, circa 394-387 a. C., ταμίας τὸ δήμο; III, 387-circa 384 a. C., oi ἀποδέκται; IV, circa 384-377 a. C., οἱ ταμέαι τῆς ded ; V, 377-303 a. C., ταμίας τοῦ δήμου; VI, 303-302 a. C., é7ì τῇ διοικήσει; VII, 302-301 a. C., zauias τοῦ δήμου. A pp. 455-57 di cotesto fasc. di Class. Philology lo stesso A. Ca. Jonnson recensisce l’opera citata]. Notes and discussions : J. S. P. TarLock, Some mediaeval cases of blood-rain, pp. 442-447 [Pren- dendo le mosse da Omero A 58-55, Π 459-60, ove è fatta menzione di piogge di sangue, notizia di simili fenomeni, che nell’antichità erano considerati come portenti, in Inghilterra, Francia, Irlanda e Islanda]. M. E. Deursca, An interpretation of Tibullus 11. 6. 8, pp. 447-449 [A proposito di Zevem: levis non è epiteto permanente di aqua, come altri crede; nel luogo tibulliano significa ‘di piccolo, di poco peso ].

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The Classical Quarterly. VIII. 1914. 4. E. B. CLappr, On certain fragments of Pindar, pp. 225-330 [Note di vario genere a 172 (Carist ed. maior). 177, 4. 169 (su la leggenda di Gerione). 235]. J. Burner, Vindiciae Platonicae I, pp. 230-236 [Note di vario genere, e soprat- tutto critico-polemiche all’Eutifrone: 2a, 5. 3a, 1; e, 2. 4a, 12; b, 10; e; 2. 5b, 4;.c, 6; d; 4; e, 2. 7e, 2. 9d, 2. 11b, 7; e, 3.12a, 9. 14c, 3. 16, 3]. J. P. Posreate, On the text of the Stromateis” of Clement of Alexandria, pp. 237-247 [Sull’edizione dello Srinuin (Lipsia 1906-09). Omissioni, di lettere, sillabe e parole, dovute agli homoeographa : II 135, 1 (I p. 187 Sr.). I 102, 4 (ib. p. 66). IV 33, 1 (ib. p. 262). Ri- petizioni meccaniche : ὦ, di gruppi di parole, IV 72, 4 (ib. p. 281). V 4,2 (ib. p. 328). VI 35, 4 (ib. p. 449). ὃ, di singole parole, VII 13, 1 (II p. 10); 15, 1 (ib. p. 11). VIII 14,3 (ib. p. 88). V 94, 4(I p. 388). VIII 30, 2 (II p. 99). Passi trasposti, altro caso o esempio di homoeographon, V 109, 3 (I p. 400). In seguito sono presi in. esame più altri luoghi, che sarebbe troppo lungo pur soltanto indicare]. A.H. Kyp, The © Codex Bambergensis” of the first decade of Livy (I-VII. 17), pp. 248-253 [De- scrizione esterna e recensione, con indicazione delle relazioni del testo con altri mss. Seguono poche linee, di R. S. C(onway), In memoriam del Kyp, morto il 26 aprile 1914]. ὅ. G. Owen, Notes on Ovid's Ibis," Ex Ponto libri’, and È" Halieutica®, pp. 254-271 [Ibis 131-132: 131 spatio significa “lasso di tempo ’; i due versì stanno bene dopo 130. 137-140 anche questi versi stanno bene a loro luogo, e non occorre trasporli. 289-290: 289 parum in mitis 307-308 Leucon dovette essere figlio di Paerisades, re del Bosforo, e re egli stesso nel III sec. a. C. 413-416: 416 quique tenent pontem, uae tibi talis erit. 445-446 et quae Pitthides (cioè Teseo) fecit fraterque Medusae (che fu Euristeo) | eveniant capiti uota sinistra tuo. Così vanno letti i due versi. 509-510 sanguis Aleuae è Scopa, uno degli Alevadi, che viveva a Crannone in Tessaglia; Leoprepides è Simonide (ricorda il noto racconto di Cicerone de Orat. II 852); stella non è, come si crede, la co- stellazione dei Dioscuri, va inteso per stella IJowis, bensì allude alla stella della buona fortuna di Simonide al banchetto di Scopa; uiro è enfatico. Ex Ponto I 1, 65-66: 66 ut non invece di ne non 7, 21-22: 22 è preferibile eras a eris di altri mss ib. 65-66: 66 offici? causa e pluribus esse datis II 2, 31-38 su le varianti e sul nesso del pen- siero; 53-34 (secondo 1 mss di Leipzig e di Erfurt): qui rapitur spu- mante salo, sua brachia tendens | porrigit ad spinas duraque saxa manus ὃ, 53 sta bene aduentu; tuto invece di tuta 11 3, 41 la prima sillaba di Chionides è lunga. 4, 89 sta bene uotorum ib. 107-108: 108 sta bene portet 5, 49 nulli è preferibile a nullis IV 4, 27-84:

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81 cerno (‘vedo con gli occhi della mente’) invece di certae; 33 tune hos di un ms parigino; 34 erunt di un ms è preferibile a erît della vulgata 8, 85 sta bene distet, il congiuntivo essendo richiesto da pornar IV 16: analisi del carme; costruzione di 45-46: Mea Musa erat claro nomine atque erat Musa quae inter tantos legeretur. 33: Tityron antiquas pastorem exciret ad herbas. Halieutica: osservazioni preliminari sul titolo, sull’autenticità, su certe irregolarità metriche, le quali però non depongono contro l’autenticità, il poeta avendo conservato la pronuncia dei suoi informatori. 2 namque sta bene; la lezione congetturale del VoLumer manca non è accettabile. 3 iam sta bene. 53-57: 55 sta bene quoque che altri propone di sostituire con quomque 65 sta bene capto 67 sta bene capiunt]}. H. W. Garron, Notes on the ° Na- turales Quaestiones’ of Seneca, pp. 272-281 [Intorno ai mss secondo la classificazione del Gercgs (Leipzig, Teubner, 1907). Seguono note cri- tiche, presa a base l’edizione citata, a poco meno di 40 luoghi, da 2, 1-3 a-76, 17 sgg. Continuerà]. E. G. Harpy, Claudius and the pri- mores Galliae°. A reply and a restatement, pp. 282-288 [Risposta al CunnincHam in Class. Quarterly VIII. 1914, 2 pp. 132-133 (v. Rivista fasc. preced. p. 192) : tien fermo a tutte le conclusioni a cui era giunto]. J. U. PoweLL, The paean of Philodamos of Scarpheia, p. 288 [Edito dal Weir in Bulletin de corresp. hell. XIX, 393 sgg. e dal We SmrrH in Greek melie poets p. 525. Restaurazione del PoweLL dei vv. 53-56: "E)v[dev él ὀλβίας yBovòs | Θεοϊσαλίας)] ἔκελσας d-|otn, τέμενός τ᾽ ᾿θΟλύμπιζον, | [Πιερ]ίαν te κλειτάν. Segue un breve commento].

The Classical Review. XXVIII. 1914. 6. R. E. MacnacutEN, Socrates and the δαιμόνιον, pp. 185-189 un errore quello generalmente in- valso di tradurre la parola δαιμόνιον come se fosse equivalente di

deiuov; tale non è nei Memorabili di Senofonte in Pla-

tone. Riguardo a Socrate in particolare 1) quando δαιμόνιον è usato sostantivamente va tradotto con la parola inglese [e italiana] ‘deità’ (o “divinità '); 2) quando è usato aggettivamente va tradotto con l’ag- gettivo divino’; 3) evidentemente non ha il medesimo significato della parola δαέμνων, ma era quasi certamente la parola adoperata da Socrate stesso per esprimere le manifestazioni di una divinità, di cui egli stesso ignorava la vera natura ,]. T. L. Acar, On Sappho's ode, pp. 189-190 [Oxyrhync. Pap. X: v. 6 περρόχευσα invece di περσκόπεισα ἃὃ νεῖμεν inv. di xgivvev 9 τάχος inv. di τὸ πᾶν 11 forse preferibile οὔποτ᾽ ἐμνάσϑη 12 οὔκι κατ᾽ αἶσαν (οὔ τι)ὶ 13 γὰρ ἔχει poovaua.| Τῶ x.t.A. 20 forse στησιμάχεντας ultima strofa εὖ Fiduev οὐ δύνατον γένε-

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σϑαι | ὅλβον ἀνϑρώποις" πεδέχην δ᾽ doacdai | ἔλπιδ᾽ ἐς φαίδραν ἄγαγ᾽ ὠφέλησεν | τ᾽ ἐξ ἀδοκήτω. V. Epmonps in Class. Review XXVIII. 1914, 3 pp. 74 sg. (Rivista fasc. preced. p. 186)]. J. E. Harry, The bright 41- debaran, pp. 190-191 [Commento, dirò così, astronomico a Euripide I. A. 7-8, a proposito soprattutto di ἀστὴρ σεέριος che sarebbe la stella ‘Aldebaran’ (v. quaggiù p. 400)]. J. U. PoweLL, Dr. J. B. Mayor on the use of ἔνι and ἔνεστι, and αἰτεῖν and αἰτεῖσθαι, in the New Testa- ment, pp. 191-193 [A proposito delle conclusioni a cui giunse il Mayor in Expositor aprile 1912 pp. 380 sgg. e giugno 1912 pp. 522 sgg.; quelle riguardo a ἔνε e ἔνεστι sono giuste, disputabili invece le altre, il si- gnificato dell’attivo e del medio essendo identico]. T. Rice HoLmes, Portus Itius, pp. 193-196 [Risposta.a F. H. (Class. Rev. XXVIII. 1914,3 pp. 82-84; v. Rivista, fasc. preced. p. 186): insiste per l’identificazione non con Boulogne-sur-mer, ma con Wissant, pur ammettendo che si possa pensare altrimenti; a ogni modo l’identificazione con B.-s.-m. non è ancora stata provata in maniera ‘conclusiva’, e pare molto pro- babile che la località scelta da Cesare come punto di partenza fosse tra il capo Griz-Nez e il capo Blanc-Nez. Seguono poche linee di commento dell’ H(averrieLD)]. Notes: A. H. Sayce, Pisidian stelae, pp. 196-197 [Quattro brevi iscrizioni greche; riproduzione, trascrizione, traduzione in inglese, commento. Mette conto di darle qui. I. “Ππναρέων τὸ πολίτευμα, | Kagradivegua Κτιβέλου | μν[ ε]ῖον " χρηστὲ καὶ ἄλυπε, χαῖρε. TI. Σι(ϑ)αλμαμόϊας ᾿4]δαδέϊυς)" | [xazoe.] II. Διοσχ[ο]υρίδη ἐξ ᾿Αβόου Πισιδη | Βαρβουλεῦ συμμάχων | σημε[ι]οφόρε, yonoté | χαῖρε] Κεραίας ἀδελφὸς ἔστησε. IV. Σαέττας Τροκόνδου Teguno | σέ[ω]ν τ[ὦ]ν πρὸς ᾿Θινοάνδοις | Πι[σι]δης σύμμαχος Τερμησσέων τῶν πρὸς Οινοάνδοις Πισιδῶν, τὸ πολίτευμα τὸν ἑαυτῶν πολε) την χρηστέ, χαῖρε]. 1. P. Posreare, Adédveos, pp. 197-198 [La parola occorre in un'iscrizione metrica di un gladiatore, edita in Journal of Hellenic Stu- dies vol. XXXIV, p. 18: αὐξάνιον (δάπεδον) è un composto di αὖξι- &via, come da una parte αὐξέβιος, αὐξίτροφος ece., dall'altra Avo-avius, Λυσ-αγόρας ecc. Il pensiero espresso dalla frase (dolorem augens solum) richiama a Catullo LXVIII 97 sgg. dove il detinet corrisponde al κατέχει dell'iscrizione].

Idem. 7. 1. H. W. Striyp, Ad Plutarchi ° De Pythiae oraculis”, pp. 217-219 [Note di critica del testo a C. 2, pag. 395 B forse μυϑο- Aoyodow “vel simile quid’ invece di φασίν e in fine ὄνομα τὸν χαλκὸν τῷ μεῖζον εἶναι τὸ πλῆϑος παρασχεῖν cioè aes, quod major esset eius copia, metallis illis commixtis nomen dedisse 3, pag. 395 F ἀνωμάλων τῶν μορέων 0 τῶν μερῶν καὶ 4, pag. 396 Β καταφανῆ invece di ἐκφανῆ 7, pag. 897 Β κἂν (ui) 7 e poco dopo καὶ γὰρ εἶ γράφειν ἔδει μη(δὲν λέγειν (αὐτὰς τοὺς χρησμοὺς... καλλιγραφίᾳ ib. pag. 397 C

Nr 11) LE oe ata

τ

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a SO πρὸς αὐτούς ib. p. 397D sta bene ἀνθρώπων invece di ᾿Βλλήνων 9, pag. 398E forse πετρῶν καταφλεγομένων ἀναρρέψεις 10, pag. 399A ὧν γενομένων ἐνίων... ὁμῶς ψεῦδός ἔστι o wevdés è. 11, pag. 399 E ὅτι μὲν ταῦτα οὕτως ©5 12, pag. 400A ἐξ ἀναϑυμιάσεως ib. p. 400 ἔγωγε, εἶπον ὡς τοῦ ἡλίου τὴν σελήνην 16, pag. 401F Θέων in- vece di ὅϑεν 19, pag. 403F τῶν πολλῶν col v. HerwERDEN invece di τῶν ἄλλων 20, pag. 403 Ε ὧν ἕνα καινόν τι πρᾶγμα 4217, pag. 407F ἐλπέδος γὰρ ἐξέπεσεν: spe enim dejectus est 29, pag. 408F sta tutto bene come è nei mss]. Ο. R. Harmrs, A few notes on the text of Marcus Aurelius, pp. 219-221 [Luoghi presi in esame I 5. II 16 ΒΘ 5855 /IVi98,,V:6:8 2... V.12 ad fin V 365 VII6,84 (VILIZA VII 31. VIII 41 ad fin. IX 21. IX 30 ad fin. XI. 11. XI 18 ad fin. XI 20. XI 26. XI 34. XII 2. XII 86]. H. G. Ev. WiruE, Some notes on the Homeric hymns, pp. 221-223 [ad Apoll. 402 οὔ τις... ἐπεφράσαϑ' ὥστε νοῆσαι a Erm. 41 ἀναπηρώσας 188 παρ᾽ ἔξοδον ἕρκεος αὐλῆς 846 αὐτὸς δ᾽ ἐκτὸς ὁδοῦ, τις ἀμήχανος a Estia (KXIV) 4 ϑυμὸν ἔχουσα è forse corruzione di ϑῦμα λαχοῦσα = πῖαρ ἑλοῦσα (ad Afrod. IV 30)? a Estia (XXIX) 8 sgg. il v.9 va messo dopo il v. 10]. A. C. Prarson, Αἰτναῖοι κάνϑαροι, pp. 223-224 [Agli altri luoghi, finora noti, di poeti va aggiunto Sofocle JIchneut. 300; il xdvdagos, cioè lo scarafaggio Etneo, di cui si tratta, era chiamato così probabilmente perchè si tro- vava nelle vicinanze dell’Etna. Nel passo citato di Sofocle xegdorns è una semplice aggiunta fantastica]. E.A. GarpNER, The panathenaie ship of Herodes Atticus (Philostratus, ° Vitae Sophistarum” 11. v), pp. 225-226 [Commento al passo citato di Filostrato (δραμεῖν--ἐλε- φάντινον) ; bisogna mettere una virgola dopo Πύϑιεον e si avrà corretta- mente: it was carried past the Pythion, and arrived at the place where it now is anchored ,; quale sia il luogo risulta dalle parole che seguono, cioè l’altro lato dello Stadio è occupato dal tempio di Tyche con una statua d’avorio.. F. HaverrieLD, Legions and auxilia”, pp. 226-227 [Le legioni e le truppe ausiliarie (auxilia) erano bensì connesse fra loro, ma non così individualmente come finora si è creduto. Ciò si deduce da notizie fornite da iscrizioni; ed è inoltre dimostrato da alcuni fatti, fra cui questo, che le auxilia prestavano servizio in provincie dove non erano di stazione legioni]. Notes: H. DarnLey NayLor, The enclitie forms of ἐγὼ and σὺ with special reference to John XX 17 and * Acts° XXVI 28, pp. 227-228 [“ Le forme enclitiche di ἐγὼ e σὺ sono particolarmente comuni quando involgono il cosidetto dativo etico ,. Ciò avviene nel greco classico, e anche nel greco della versione dei Settanta del Nuovo Testamento: prove dai due luoghi citati), E. C. MarcmanT, Note on Plato; © Phaedo’, p. 105a, pp. 228-229 [ὅρα - δέξασϑαι. Commento ; fra altro, ἐφ᾽ ὅτι sta per ἐπ᾽ ἐκεῖνο ἐφ᾽ Sti). W. R. Patron, ἄνωνις

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OO, > RI RIT ΝΎ ΑΝ ER nt, Ἂν ΨΥΧΉ n 41, GUI A TRA II a,

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ὄνωνις, p. 229 [Si tratta della pianta Aresta boris, il cui nome greco corretto è ἄνωνες, mentre dv@vis è un’antica corruzione popolare]. Lo stesso, Corinna, pp. 229-230 [Meleagro Steph. 31-32; la Parthenis ivi nominata dev'essere Corinna (παρϑένος = κόρη). H. 1. Rose, 4 note on Soph. O. T. 980 2, p. 230 [A proposito di κάν ὀνείρασιν : vai può essere interpretato in due modi: o “nel sogno così come nella vita reale’ o ‘semplicemente nel sogno e non nella realtà ᾽].

Idem. 8. H. Ricmarps, Plutarch, È Moralia”, pp. 257-262 [Note di critica del testo sull’edizione del BernARDARIS a poco meno di 100 luoghi, da 7E a 383 A]. H. J. Rose, © Fairy gold ,. An ancient belief, pp. 262-263 [La credenza nell’oro ‘delle fate’ è ancora viva nella Grecia moderna e richiama all’antico proverbio ἄνθρακες ϑησαυρός. Il luogo più importante degli scrittori antichi è il Timone (40. 153) di Luciano. Allusioni occorrono in Tibullo I 1x 11, che certo subì l’influenza greca, come la subì anche più Plauto Rudens 1256 sg.]). H.W. GarroD, Aquai in Lucretius, pp. 264-266 [aqua è soltanto una forma di genitivo. Fra questa forma e la posteriore aquae dobbiamo aspettarci di trovare la forma di transizione aquà-î; e infatti ce ne sono tre esempi isolati, come ci sono esempi della transizione da --δὲ a ei, —i forniti da réi e fidèi, già rei e fida]. Notes: W. F. Wirron, On the derivation of the word πόλεμος, pp. 266-267 [“ È una regolare formazione di nome dalla radice indoeuropea gel, andare, muovere, frequentare ’, che com- parisce nel sanscrito car, nel latino colo, e nel greco 78440, 7840; perfettamente come dalla radice indoeur. el deriva oZuos, © passo, sen- tiero ’, e dalla radice indoeur. gem deriva βωμός “scalino, gradino, altare’. Esatto parallelo di πόλεμος, © passo, andata, traversa” è «τέ- λεϑρον, “spazio attraversato, campo’ ,. Naturalmente dal significato originario ne vennero poi altri). A. E. Housman, ἀστὴρ σείριος in Eur. I. A. 6-7, p. 267 [A proposito dell’articolo dell’Harry, The bright Aldebaran (v. quassù p. 398): 1᾿ἀστὴρ σεέίριος non è la stella ᾿ Alde- baran” alcun’altra delle stelle fisse; bensì, come dice Teone, un pianeta: τραγικὸς (Euripide) ἐπέ τινος τῶν πλανητῶν ti mor ἄρ᾽ ἀστὴρ ὅδε πορϑμεύει σείριος)]. W. RexnIE, On two passages in Demosthenes’ for Phormio, pp. 267-268 [8 50 propone ἅπαντες in- vece di ἁπάντων 8 41 ᾿ϑηναῖον col Zursore invece di ᾿ϑηναῖοι: l’ac- cusativo è dato da due mss). ΒΝ. 1. StacgLe, Calpurnius and Valerius Flaceus, p. 268 [Calpurnio didil. V 60-61: 61 serui invece di serî che pecca contro la metrica. V. Flacco V 565 crocus invece di corus]. W. C. Summers, Dr yden and Statius, pp. 268-269 [Raffronto fra” due poeti, a proposito di certe indicazioni del VerrALL nelle sue Lectures on Dryden].

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The Journal of Philology. XXXIII. 1914. 66. A. 5. F. Gow, Hesiod's wagon, pp. 145-153 [Commento ai vv. 422-426 di Opere e giorni. Dei tre nomi adoperati da Esiodo nel parlare del carro, cioè ἄξων, ἀψίς e ἄμαξα, soltanto il primo ha un significato affatto certo: ἄξων è l’ ‘asse’, la “sala delle ruote’; &wi/s ne ha varii, secondo i varii autori, a co- minciare da Omero ea venir finoa Plutarco e Dione Cassio; ἄμαξα in origine non indicò, come più tardi, l’intiero carro, bensì sem- plicemente il corpo, l’ossatura (chéssis). Nella descrizione esiodea è te- nuto stretto conto delle varie parti del carro e delle loro dimensioni : si tratta di un veicolo senza dubbio piccolo, ma forte e che serviva be- nissimo per rozzi usi in un paese con poche e cattive strade, quale era la Beozia al tempo del poeta]. J. ἢ. Durr, Cicero’ s commission and movements at the beginning of the civil war, pp. 154-160 [Ricostru- zione della vita di Cicerone allo scoppiare della guerra civile, secondo ciò che risulta soprattutto dalle sue lettere. Nella divisione dell’Italia in distretti per il reclutamento e la difesa contro l’esercito di Cesare che aveva passato il Rubicone in principio del gennaio del 49 a. C., a Cicerone, tornato poco prima dalla Cilicia, toccò, o forse scelse egli stesso, Capua (l’ager Campanus). Ivi fu raggiunto da Pompeo, che lo assistè nel reclutamento e poi passò in altri distretti, mentre Cicerone continuava l’opera sua visitando varie città, fra cui più spesso Formia, e mandando rapporti a Pompeo a Lucera e a Brindisi, in cui si diceva sodisfatto di alcuni dei suoi ufficiali, lodandone la wigilantia, l’aucto- ritas, l'industria e la diligentia. Per questo periodo dell’attività di Cice- rone è sommamente istruttiva e importante la lettera ad Attico VIII 11 del 27 febbraio del 49. Ma l’oratore, sia per il suo attaccamento a Ce- sare, sia per gli atteggiamenti di Pompeo, non tardò a rassegnare il mandato, di che egli dava notizia nella stessa lettera (quod tibi osten- deram cum a me Capuam reiciebam), mentre in altra (VIII 12) accenna a Capua imparata; e Cicerone non era certo l’uomo adatto a mutare lo stato delle cose: ben a ragione dice Livio di lui homo nihil minus quam ad bella natus]. Lo stesso, Suetonius, pp. 161-171 [Analisi della Vita di G. Cesare di Svetonio, dell’arte e del razionalismo del biografo. A proposito del cap. 75°, è fatta la storia delle relazioni fra Giulio Cesare e Lucio Cesare il giovane, il cui delitto (L. Caesar, libertis seruisque eius ferro et igni crudelem in modum enectis, bestias quoque ad munus populi comparatas contrucidaverat) il dittatore, del quale pure Svetonio celebra la clementia, punì con la morte: episodio dimen- ticato della guerra civile. Su i metodi invalsi a Roma in quel tempo per avere bestie feroci per i giochi pubblici gettano luce le lettere scritte appunto a Roma da M. Celio Rufo a Cicerone in Cilicia durante l’anno

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51 a. C. Quanto all'arte. di Svetonio, è giusta la critica del Mapvris che lo scrittore non è ingenio commendabilis, ma non è più giusta negando che sia commendabilis nemmeno arte e in ciò che afferma della scribendi simplicitas. La Vita di G. Cesare dimostra che il biografo pos- sedeva veramente l’ars; e la simplicitas è ben diversa da quella che suppone il Mapvie: prove. Anche il Trurrer afferma che le Vite di Svetonio ‘non sono opere d’arte’; il “non’ è di troppo. Lo stesso Tevere rende omaggio al ‘sobrio razionalismo’ del biografo ; ora la Vita di G. Cesare sta a provare precisamente tutto il contrario]. -— H. Ricmarps, Notes on the © Rhetoric® of Aristotle, pp. 172-181 [Note di critica del testo. Sono presi in esame 89 luoghi]. J. L. Stocks, Λόγος and μεσότης in the * De anima’ of Aristotle, pp. 182-194 [Analisi dei luoghi del De anima in cui si parla di Adyos e di μεσότης e discussione delle opinioni esposte da filosofi e da filologi, compreso fra’ primi Alessandro Afrodisiense. © Adyos è il nome per forma” se- parata o isolata dalla materia. Ora arte, azione e sensazione sono tutti esempi in cui si verifica la “transferenza’ di forma, e in ciascun caso il termine 46yos è applicato alla forma separata e transferta,. Quanto a μεσότης è, come nota il commentatore quassù ricordato di Aristotele, τὸ μέσον κριτικόν, il mezzo discriminativo, che ha naturalmente relazione col 26γος]. --- W. TarseLron-DyeR, On some ancient plant-names, pp.195-207 [xd3os, Teofrasto H. P. 6,8,3. cada, Arriano H.I. 7. casia, Virgilio. ἄχυ, Dioscoride 1,18. xdoygogos, Teofr. H. P. 7,7,2. duogov e ἄκαιρον, Diose. 1,2e4,144. ἐπιτηλίς, Nicandro Ther. 852. αἰγίς, Teofr. H. P.3,9,3. ἀφέα ib. 7, 7,3]. F.C. Cony- BEARE, Emendations of the text of Socrates Scholasticus, pp. 208-237 [Sull’edizione del testo greco di Oxford 1844. Sono prese in esame, quasi sempre col raffronto con le versioni latina di Epifanio Scola- stico (a. 540-550) e armena di Filone di Tirak (a. 696) e con la pa- rafrasi di Sozomene, parecchie centinaia di luoghi]. S. G. Owex, The Phillipps manuscripts of Juvenal, pp. 238-264 [Sono due: n.° 16,395 in minuscola Carolina del X secolo, probabilmente scritto in Italia, quasi certamente nell’alta Italia; e n.° 7277 anche questo in minuscola Carolina della seconda metà del sec. XI. Descrizione esterna di entrambi; e raffronti di numerose lezioni con altri mss. Ne risulta che, per quanto l’uno e l’altro appartengano alla tradizione meno autorevole, presentano lezioni “di grande interesse” e possono essere molto utili perla critica del testo]. A. Pratt, Orphica, pp. 265-266 [Arg. 645 ἐπὲ invece di ἐν 680 ἔπειτ᾽ ἐπὲ νηὸς invece di ἔπειτα Φινῆος parola affatto superflua’ 745-752 ordine o successione dei versi: 745. 750. 746. 747. 751. 748. 749. 752 Lith.118 μετ᾽ dovidovinvece di μον 6. 185 φλόγας col ΤΎΠΤΗΙ 215 μὲν invece di μὴ 309 &zaAdpgova invece di γλα-

γόφρονα 881 ἀτιταλλέμεν invece di νόῳ αἰνέμεν ἔν. 215, 3 (ABeL) δίπτασκε sta bene]. Lo stesso, TAucydidea, pp. 270-277 [I 48,1 πεπιστευχότες invece di περιπεπτωκότες TI 13, 1 αὐτὸς inv. di αὐτὰ II 21, 2 πλὴν {κατὰ τὰ Μηδικά ib.3 ὡς va espunto II 48 3 πάσχον- τὰς è adoperato in senso medico VI 12 τῶνδε può essere τῶν e la costruzione è ἀνδρῶν (τῶν μὲν) φυγάδων τῶν ἐπικουρίας δεομένων VI 16, 2 ὁρωμένου inv. di δρωμένου VI 31,3 ἀκρότατα inv. di “ακπρό- tata VI 32, 3 πιστούντων inv. di πιστευόντων VII 2, 4 ἁπλῷ [tod κύκλου] VII 13, 2 τῶν μὲν ναυτῶν ὃ. p. n. è. x. ὃ. μακρὰν (ἐξιόντων καὶ ὑπὸ VII 67, 2 per καϑεξομένους cfr. Iliade XXI 275 che la spiegazione più esatta della parola VII 72, 2 ἐπεμελοῦντο inv. di ἐπενόουν VII 86,5 commento]. C. R. Hamxrs, The composition and chronology of the Thoughts° of Marcus Aurelius, pp. 278-295 [“ I Pensieri (cioè le Riflessioni su stesso) furono composti da M. A u- relio come ‘un tutto connesso ’; i libri I--XII furono βου] consecuti- vamente in cotesto ordine, il I fu aggiunto dopo come un’introduzione. Le date della composizione sono le seguenti: libro II scritto sul Gran fra’ Quadi verso il 171-2 ; il III a Carnuntum verso il 172-3; IV-VIII fra il 173 e il 175; IX e X durante i torbidi di Cassio e dopo il 175-6; XI e XII a Roma nel 178; il I o allora o poco dopo ,]. 7. U. Powett, A fragment of Corinna, pp. 296-297 [ Berlin. Klass. Texte V.II p. 28; nel v. 6 il papiro aveva in origine 4dvs e così deve rimanere, cioè non va “emendato ?, come altri ha fatto, in λαῦς]. H. Jackson, On Eu- demian Ethics° 1215 A 29: 1215 B 20: 1224B2, p. 298 [1215 A 29 ἀγο- ρασμόν invece di ἀγορὰς μὲν 1215B 20 va omesso τές del Casauson; bisogna sostituire virgola al segno interrogativo dopo ὄντες e segnare virgola dopo φρονῶν. καὶ γὰρ-φρονῶν è parentetico; 8/06 e πολλά sono il soggetto di τοιαῦτ᾽ ἐστιν n.t. À. 1224B 2 μόνον invece di μόνοι]. pp. 302-304, In memoriam: Wirciam ALpis WriGAT, già col- laboratore del Journal of Philology.

Mnemosyne. Bibliotheca philologica Batava. N. S. XLII. 3. J.L. V. Hartman, Ad Platonis Rempublicam, pp. 223-256 [Note di critica del testo a 144 luoghi (da 327C a 479D). S'intende che, dato il loro numero, non posso nemmeno indicarli; mi limito a notare che l’autore pro- pone moltissime espunzioni, ora di una sola, ora di più parole]. P. H. Daxsré, Lectiones Valerianae, pp. 257-272 [(Continuazione ; v. Rivista fasc. preced. p. 198). Sono presi in esame 57 luoghi, da VII 1,2 a IX 12 1η.]. Lo stesso, Iuvenalis Sat. 3, 23, p. 272 [Forse îtidem invece di eadem]. J. 7. Hartman, Ad Plutarchi Moralia

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annotationes criticae, pp. 273-289 [(Continuazione; v. Rivista fasc. preced. p. 198). De amore prolis. An vitiositas ad infelicitatem sufficiat. Ani- mine an corporis affectiones sint peiores. I due ultimi opuscoli eviden- temente sono spuri. Luoghi presi in esame del primo, 23]. M. Va- Leton, JI. De Iliadis compositione, pp. 290-329 [(Continuazione ; v. Rivista XLII 520). c. Quidbus Iliadis partibus contineatur potma a MargoxAeias auctore conditum. La © Patroclea” comprendeva Z/ 1-167, 198-341, 351-371, 684-697, 784-867. P 1-129, 192-209, 262-273, 384-411. SX 151-152, 166-180, 202, 356-368, 203-242, 316-322, 323° (mutato στενάχων in ᾽στενάχιξζεν) 35° (da ἄκουσε) --148, 344 (mutato στῆσαι in ᾽στῆσαν) -355, 243-314 (mutato αὐτὰρ ᾿Α χαιοΐ in ἐν τελέεσσι), 369-481, 609-617. T 1-34 (mutato εἰς ἀγορὴν καλέσας in εἰς πόλεμον καλέσαι), 37-41, 356 (mu- tato ᾧχετο in πάντας), 357-398. Y 1-3, 156-158, 364°-405, 456-508. D 526-543. X 5-6, 25-44, 54-110, [111-180 ?], 131-166, [167-187 ?], 188-253, [254-259?], 260, [261-269?], 270-280, [281-288?], 289-327, 380-336, 367-371, 375-393, [394-404?]. Poéma hoc nititur duplici quasi fundamento ex antiquis hausto fontibus :... aliis carminibus celebratas esse Patrocli res gestas et mortem Apollinis ope ei illatam ab Euphorbo, aliis certamen quo congressi essent Hector et Aiax Telamonius, ille autem victus occidisset. Duplicem hanc materiem noster ita coniunxit et reformavit ut prorsus novum inde argumentum existeret: Patroclus ab Achille rogatu suo ipsius armis indutus in proelium missus, ab Eu- phorbo et Hectore Apollinis ope interfectus, ultor Achilles post magnam Troianorum cladem Hectore devicto et necato. Applicavit noster poésin suam ad Achilleidem quo loco in hac proponebatur summum navium discrimen, substituens suum opus pro illius poématis parte posteriore, Achillem fingens, nullis ab Agamemnone legatis missis, cam amico que- rentem regis superbiam. Aliter atque Achilleîdis auctor Apollinem auxi- lium praesens Troianis Hectori imprimis tulisse ratus est; Graecorum du- cibus quos ea habuit, addidit Peneleum; Troianorum principes praeter Hectorem et Paridem appellavit Panthoum, Euphorbum, Polydamantem, Deiphobum, cunetos e priscis carminibus iam diu cognitos. Etiam Otryntei filium Iphitionem ab Achille occisum (Y 382 sqq.) eiusmodi fonti debuisse videtur. Praeterea vix dubium quin arma Achilli Thetidis rogatu a Vulcano fabricata, lamentationes Thetidis mortem filio instan- tem deplorantis, mentio Vulcani a matre e coelo deiecti ex antiquis fontibus ad bellum Troianum nihil pertinentibus derivata sint,. ἃ. Qua maxime ratione ex Achilleide Ilias facta sit. © Is qui Achilleidem duplicem... in unum poéma coniunxit, quomodo rem instituerit docet ipsa quam nune habemus Ilias. Nam ex hac apparet eum, id quo nihil magis in promptu erat, legationis ad Achillem missae exitum ita mutasse ut reverterentur legati re infecta; cladem autem Graecorum ab Aga-

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memnonis vulneratione ortam quam in priore Achilleide legatio seque- retur, post eam collocasse ita ut pro solis occasu qui in illa Troianorum victoriam terminasset et contione horum nocturna deinceps habita, se- queretur Achillis cum Patroclo colloquium, incendium Protesilai navis, Patrocli res gestae et mors, arma coelestia filio a Thetide petita, non aliter ac in Achilleide altera; tum inter arma Achilli a matre allata et Achillis reditum in aciem quo Troiani profligarentur interficeretur Hector, inseruisse Agamemnonis cum Achille gratiae reconciliationem quae in Achilleide priore continuo post legationem sequeretur; postremo cum iam desideraretur pugna Graecis adversa ante legationem commissa, ipsum eam confinxisse quae Κολὸς μάχη nomine Iliadis nostrae libro 9 proponitur, eamque finivisse solis illo occasu quo in Achilleide priore finiretur Graecorum clades, ita ut et hic et Troianorum contio quae eum sequitur eodem ante legationem loco quem in illa haberet, retine- retur,. Continuerà]. G. VoLLerare, Novae inscriptiones argivae, pp. 330-353 [Descrizione, edizione e ampio commento di un’iscrizione del 369 o del 368 a. C. trovata nel giugno 1912, relativa a una nuova divisione di terre in Arcadia. Continuerà]. 1. 1. H(Arrman), Ad Ciceronis ad Att. XIV, 18 $ 1, p. 354 [Propone fabri invece di Fa- berii. Il Faberius dei mss “aut nullus fuit unquam aut notus quidam omnibus falsorum chirographorum artifex ,]. Lo stesso, Ad Tac. H. II, 25, ib. [Propone propera invece di prospera].

Idem. 4. J. C. Naser S. A. Fix., Observatiunculae de iure romano, pp. 355-368 [(Continuazione; v. Rivista fasc. preced. p. 198). CV. De iudiciis in rem duplicibus IV, fine]. J.J. H(Artwan), Ad Taciti Hist. IV, 24, pp. 368-369. [Commento alle parole quin exsolverent soprat- tutto riguardo a traditore e malo omine che si corrispondono. Il nome gentilizio del generale MHordeonius Flaccus richiamava alla mente dei soldati la pena λογάριν pro tritico (Liv. 27, 13. Pol. VI 88. Plut. Marcellus 25), e quindi essi non volevano più servire sotto il comando di lui, cioè dell’ “uomo dell’avena Ἶ. P. J. Enk, De voce fatum , sensu minus usîtato adhibita, pp. 370-379 [Properzio I 17, 11 mea fata = meam umbram, meos manes (cfr. Pomponio Mela cap. 2). Citazione dei luoghi di altri serittoriin cui fatum (fata) ha il significato indicato]. €. Brarman J. F., Bobiensia, pp. 380-384 [Raccolta delle parole greche, svanite, ricuperate nel ms di Bobbio degli scoli di C i- cerone pro Flacco e pro Plancio. La ricerca è molto importante; quindi indico i luoghi: p. ΕἾ. $ 17 (SraneL, 1912, p. 99, 8 e 18). 8 106 (S. 108, 10). p. PI. $ 22 (S. 154, 17). $ 24 (8. 155, 20). $ 27 (S. 156, 30). $ 35 (5. 159, 11). $ 53 (S. 162, 10). $ 56 (S. 162, 20). $ 58 (S. 162, 28). $ 75 (S. 165, 10). $ 78 (S. 166, 8). $ 99 (S. 168, 27). 8 102 (S. 169, 8)]. Lo stesso, Ad Valer. Maxim. VII 2 eat. 7 (Kemper. pag. 329, 17), p. 384

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[Propone Atheniensibus (invece di Atheniensium) dipendente da vaticinan- tem]. Lo stesso, Ciceroniana, pp. 385-388 [ad Att. X, 10, 3 cursim invece di carti XV 4, 1 reapse mss aps pro Caelio $ 5 Reatini invece di praetoriani Philipp. V $ 12 forse în commune. invece di în unum X 819 sta bene putatis nel senso di vultis o instituitis o pa- ratis; ma se mai occorresse mutare, la correzione più ovvia sarebbe optatis). J. 1. H(artwan), Ad Tac. Hist. IV, 65, p. 388 [A proposito della ripetizione condiciones e condicio: la stessa parola ha diverso si- gnificato nei due luoghi]. C. Bragman J. F., Ad Senecae dialogum decimum, pp. 389-391 [2, 4 usurpatio invece di spatio 9,1 quicquam (vanius esse) sensu 9, 5 sciunt sta bene; è usato, come altrove, nel senso di sentiunt 17,6 patriae civiles 19,2 a vigentibus va sottinteso viribus, non hominibus 20,1 2 Corantem) invece di gran- dem e deve intendersi orantem causam]. Lo stesso, De Senecae Agamemnone, pp. 392-398 [“ Qui contulerit Senecae Agamemnonem cum Aeschyli fabula, cui idem titulus est, facile certe concedet hane originem quidem et fontem esse illius, sed tamen alteram ab altera non paulum differre. Potestne fieri ut indagemus cur poeta Romanus ab exemplari Graeco recesserit ? Ob tres praesertim causas Seneca videtur suam ra- tionem consiliumque iniisse, nam primum εὐριπιδίζει, deinde rem tractat tanquam philosophus, qui sectam sequitur Stoicorum, post rhetoricum genus dicendi vel potius describendi imitatur ,. Prove, cioè raffronti di numerosi luoghi, che, naturalmente, non si possono riassumere]. P. H. Damsré, Iuvenalis Sat. 1, 85, pp. 399-400 [Propone quidqui& agit (invece di agunt) homines e agit nel senso di agitat, con che si spiegano votum timor ira voluptas ... utpote quae omnia non acta sint sed agentia: non ab hominibus aguntur sed agunt eos,] A. Kurress, Varia, pp. 401-404 [(Continuazione; v. Rivista XLII 410). VII. Ad » 5.-Οἱ 6. in Sall. inv. (Commento a 6, 18 (p. 18, 17) Kurress: va conservata la lezione della maggior parte dei mss dedi- torum = dediticiorum che è in H*; e 8, 21 (p. 20, K.): fotidem e quot con i mss della famiglia @). IX. Ad Hippocratis qui fertur " de arte” librum (Propone p. 38,13 εἰδότας τι πάντη δύναται ζητρική cioè scientes quid omnino valeat ars medica)). 1. J. H(artmaN), Ad Vir- gilii Buc. VI 34, p.404 [Propone teres invece di tener]. G. VoLLeRAFe, Ad Callimachi hymnum in Cererem, pp. 405-419 [Ampio commento ai vv. 3-6 (5 κατεχεύατο χαίταν accenno alle vedove; 6 riguarda la superstizione che la saliva di un uomo digiuno valesse ad allontanare i malanni, e forse allude alla festa di Demetra a Cirene, di cui parla Eliano, fram. 44). 8 sgg. (si riportano a una leggenda cirenaica). 25 (τὴν δ᾽ αὐτεῖ invece di τὴν δ᾽ adr& corretto da altri in red αὐτῇ τῆ δ᾽ αὐτᾷ)). J. 1. H(artman), Ad Taciti H.I, 40, p. 419 [Propone

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una invece di ulla). P.H. Damsré, Pulmo marinus, pp. 420-423 [Stra- bone II c. 104 τὸ τῷ πλεύμονι (ϑαλαττίῳ) ἐοικός: non deve trattarsi,

come si crede, di un animale, cioè di un pesce, bensì di un fenomeno marino, il mare arrossato dagli infusorii, che potè dare a Pitea, il ce- lebre navigatore, di cui qui si tratta, l’idea del respiro del mare, donde la designazione τὸν τῆς ϑαλάττης πλεύμονα). J. J. Hartman, Ad Plutarchi Moralia annotationes criticae, pp. 424-443 [(Continuazione; v. quassù fasc. 3 di Mnemosyne). De garrulitate. Precede una lunga analisi dell’opuscolo; ne sono presi in esame poco meno di 40 luoghi]. G. Vorrerare, Varia, p. 444 [Ad Pausaniam I, 27, 5 propone ἐπὶ του βάϑρου VIII 42, 11 (ἄλλο uèv) οὐδέν Ad Phaedr. Append. fab. X1 6-9: sta bene in 8 la lezione congetturale dell’ Hat- BERTSMA arte invece di forte; cfr. Simonide fr. 188 e Antologia Palat. ἘΠῚ 3 se.

Eranos. Acta philologica Suecana. XIII. 1913. 4. V. Cin Linpstròx», Plautina. II, pp. 213-227 [(Continuazione; v. Rivista XLI 182). Bacch. 446 (a proposito soprattutto di expretus, che si deve finire di la- sciare come è, nulla guadagnandosi se mai metricamente stilisti- camente con la trasposizione exrpretus uncto linteo. Prima di 446 ci aspetteremmo, appunto a cagione di expretus, un verso, a un dipresso (Obligatur male mulcato madida lacinia caput :)) Cure. 401 (Licetne inforare? [si] Incomitiare non licet? coll’Anusere) Trin. 264 (“ita fere teste Ambrosiano uersum scriptum uelim ,: Mille modis Amor ignorandust: procul adhibendus atque abstandust.) ib. 490 sqg. (492: fuisse ab initio scriptum arbitror ,: satin tantiUlum danimae?)]. O. A. DanieLsson, Zu Thukydides VII, pp.228-268 [Note di critica del testo, in genere sull’edizione critica minor del Hupr: 2,4 ἄνω invece di ἄλλῳ è “il mutamento di gran lunga più ovvio e più elegante”. 27,4 ὁτὲ δ᾽ ἐξ ἀπαρχῆς (Ὁ) τῆς tons (τῆς) φρουρᾶς καταϑεούσης --- 48, 6 χρήμασι νιπμᾶσϑαι qui ha il significato delle frasi latine pecuniae ratione vinci, permoveri, duci, e il testo andrebbe modificato così: καὶ μὴ Y07- paci γ᾽, πολὺ κρείσσους εἰσί, νικηϑέντας ἀπιέναι 49,1 καὶ ἅμα ταῖς γοῦν vavoì τῇ πρότερον ϑαρσήσει πρατυνϑείς -- 55, 2 il nesso del pensiero richiederebbe: πόλεσι γὰρ ταύταις μόναις

ἤδη ὁμοιοτρόποις ἐπελθόντες --- οὐχ ἐδύναντο ἐπενεγκεῖν --- τὸ διάφορον αὐτοῖς, © προσήγοντο ἄν -- —, ὥστε (e per conseguenza) rpaZ- λόμενοι τὰ πλείω 56, 4 στόλου invece αἱ ὄχλου 63, 4 δικαίως

appartiene evidentemente non soltanto al prossimo imperativo che segue, bensì a tutta la proposizione imperativa; ἂν va mutato in δὴ e si

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avrebbe: δικαέως δὴ αὐτὴν μὴ καταπροδέδοτε = ἀξίως δὴ τῆς εὐεργεσίας, αὐτὴν μὴ καταπροδίδοτε -- ΟἿ, καὶ οὐκ ἀνάρμοστοι πρὸς τὴν ἐκδοχὴν αὐτῶν ἐσόμεϑα “nec inepti (inconcinni) ad ea excipienda erimus dopo ἔν σφίσιν αὐτοῖς (oi) πάντες, 74,1 a proposito della espunzione, pro- posta dallo SranL, di καὶ ἐπειδή; quanto a καὶ ὥς qui ha il senso or- dinario “anche così, già così” 75, 2-4. $$ 1-4 fra altro, 8.2 δεινὸν οὖν iv οὐ nad ὃν μόνον (τὸν τῶν πραγμάτων, ὅτι utÀ. {τὸν τῶν πρα- γμάτων “lo stato delle cose” $ 8 τοῖς ἐῶσι invece di τοῖς | ζῶσι 8 4 διωλυγέων invece di ὀλέγων ib. fine μὴ ἔτι πάϑωσι deve essere stata la lezione originaria 76 il concetto logico principale non sta nel verbo principale (ὠφελεῖν), ma nel suo participium coniunctum, talchè il senso proprio” del luogo è questo: καὶ βουλόμενος ὠφελῶν (dum iuvare conatur) o ἐπ᾿ ὠφελίᾳ (per il vantaggio, per l’utilità) ὡς ἐπὶ πλεῖστον γεγωνίσκειν 79, 5 κατὰ βραχύ {τιν τρεψάμενοι].

Idem. XIV. 1914. 1. O. A. DanreLsson, Zu der milesischen Molpenin- schrift, pp. 1-20 (WrLamowirz-MoEeLLENDORFF, Sateungen einer milesischen Stingergilde® (in Sitzungsberichte d. k. Preuss. Akad. ἃ. Wiss. 1904, 619 sgg.) e, fra altri, A. Renx, Milet..., III, e [G. Kawerav «.] A. Ren, Das Delphinion in Milet (Berlin 1914) pp. 277 seg. Largo commento critico, esegetico e storico, con molte proposte di emendamenti]. G. RupBere, Peripatetica I, pp. 21-51 In prima parte huius opusculi mihi in animo est de consona gemina c0 apud Aristotelem agere... Unum... hic tractabo : geminam sibilam, quae in scriptis Aristoteleis oceurrit, quantum consuetudo eius etiamnune erui potest et quatenus de ea re iudicare possumus; cui quaestioni etiam quasdam adnotatiun- culas subiungam de libris Theophrasteis ,. Per Aristotele tiene conto non solo delle opere genuine e di quelle dei suoi ‘prossimi’ di- scepoli, ma anche delle pseudoepigrafiche, © saepe enim sunt documento, quam diligenter scriptores Peripatetici consuetudinem Aristotelis secuti sint etiam in his minutiis ,. E basti questo; le conclusioni non 81 pos- sono riassumere in breve, e a riportarle integralmente, come occorre- rebbe, manca lo spazio. Mi limito a recare questa osservazione: quod adtinet ad sermonem Aristotelis, credibile est multas res pertinuisse ad eum conformandum, quod etiam de discrimine inter τὸ et co ualet. Per se intelligitur, Aristotelem sermonem eruditum Atticum uulgo secutum esse; at certe plurima deprompta sunt e dialecto Ionica, in primis uerba ad scientiam naturalem et medicinam pertinentia .]. S. Limpsrax, Sul codice Coisliniano gr. 341, pp. 52-66 (in lingua svedese). Miscel- lanea: A. HaLLstRiM, De curiositate Atheniensium, pp. 57-59 [Su una singo- lare corrispondenza fra gli Atti degli Apostoli c. XVII ἐπιλα- βόμενοι - ἤγαγον. ᾿Αϑηναῖοι -- καινότερονα Caritone d’Afrodisia c. XI ἐδόκει -- ἐκεῖ, Il romanziere inserì l’accenno agli Ateniesi per

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fare un semplice sfoggio di erudizione; l’accenno è tolto dalla mede- sima fonte a cui risale quello degli Atti d. A.; e la fonte avrebbe ad essere una Vita di Apollonio Tianeo, forse quella scritta da D a- mide (di cui si valse Filostrato), come risulta da un luogo di Eliodoro, Aethiop. III 1 σὺ μὲν -- λέληϑας. Se ne deduce che a- ritone scrisse il suo romanzo dopo la morte di Apollonio, cioè sulla fine del I o al principio del II sec. ἃ. 0.1]. Harry Armini, Ad syntazin epigraphicam, pp. 59-62 [Aggiunte e rettifiche all’articolo del Nacamanson in Eranos XII 181 sgg. (v. Rivista ΧΙ] 186) a proposito della contami- nazione di costruzioni sintattiche, tipo A e B]. V. Lunpsrròm, Sul Forum Romanum, pp. 62-64 (in lingua svedese).

Revue des études anciennes. XVI. 1914. 4. A. Cuny, Questions gréco- orientales. VI: Les écritures linéaires crétoises, pp. 398-398 [Mm Creta preellenica e nelle regioni che ne subirono l'influenza esistevano tre diffe- renti sistemi di scrittura: il primo e più antico, il geroglifico (pittogra- fico), i due altri lineari cioè analoghi nella forma ai nostri alfabeti e ad altri sistemi nei quali non v'è più traccia dei geroglifi originari. Della scrit- tura lineare cretese si occupò recentemente il Sunpwatt (di Helsingfors): Ueber die vorgriechische lineare Schrift auf Kreta. Ein Beitrag zur Ge- schichte des ùigiischen Gebietes im zweiten Jahrtausend v. Chr. (1913-14); e appunto sulla scorta di lui ne tratta il Cuny, il cui articolo-recensione nella parte fin qui pubblicata (continuerà) non si può riassumere]. P. Perprizet, Dizazelmis, pp. 399-404 [Διζάξζελμιες è nome di un re trace del periodo ellenistico, nome che l’Hrap, Historia numorum, Ὁ. 243, er- roneamente lesse Διξατέλμεος (in genitivo; su l’unica moneta che esista, conservata nel British Museum). Lo stesso nome si trova su una stele funeraria del I secolo a. C. o del I secolo d. C., e in un graffito greco del periodo tolemaico nel tempio funerario di Seti I, ad Abido]. Pa. E. Lecrann, Philistion?, pp. 405-406 [Lo pseudo—Seneca po- trebbe essere il mimografo Philistion. L’erma bicipite della Villa Albani, di cui una faccia è quella di Menandro, può raffigurare nel- l’altra, creduta dello pseudo-Seneca, appunto Filistione, il rappre- sentante per eccellenza e il campione del mimo opposto al rappresen- tante per eccellenza e al campione della comedia]. M. CLerc, Inseription grecque de Marseille, p. 407 [Aovxip ᾿Δρρουντίῳ “Ἑρμοκρίτῳ ; forse del II sec. ἃ. C. Commento]. Lo stesso, Iuscription grecque de Toulon, pp. 408-409 [Ποσειδώνια Edroiov, γυνὴ δὲ Μενεστράτου, χρηστὲ χαῖρε. Μενέστρατε Μενεστράτου χαῖρε. Del II o del I sec. a. Ο.]. R. PrcHon, La promenade d’Évandre et d'Énée au VIII livre de l'Énéide, pp. 410-416

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[Virgilio ha voluto descrivere lo stato preistorico dei luoghi dove più tardi sorse Roma. Avrebbe potuto far visitare da Enea, in compagnia di Evandro, i principali quartieri della città futura; ma sarebbe andato troppo per le lunghe: e quindi si limitò a scegliere le due colline cen- trali, le più celebri, le più importanti nella vita religiosa e politica di Roma, il Capitolino e il Palatino. Per andare dall’Ara Maxima alla porta Carmentale i due eroi non dovettero seguire una strada che avesse qualcosa di notevole; invece per tornare dal Capitolino alla casa di Evandro, seguirono quella che più tardi fu la Via Sacra, ciò che è assai significativo. Nella parte intermedia del loro itinerario il poeta li fa passare per 1 luoghi per cui più tardi passarono itrionfatori romani, la porta Carmentale, il vicus Jugarius, il clivus Capitolinus. Non è una pura coincidenza, tanto più che la cerimonia del trionfo aveva strette relazioni col culto dell'Ara Maxima, a cui Evandro aveva presieduto e Enea assistito : i generali vittoriosi offrivano all’Ara Maxima la decima del bottino conquistato e davano grandi festini; nel giorno della festa la statua d'Ercole veniva rivestita con i medesimi ornamenti che por- tava il trionfatore : la via trionfale è quella che, secondo la credenza, Ercole aveva preso dopo aver ucciso Caco. La passeggiata che Evandro offre al suo ospite non è, come pare a prima vista, un banale tour du propriétaire, ma in realtà il prototipo lontano delle processioni trion- fali, cerimonia romana per eccellenza]. (€. JuLLian, Notes gallo—ro- maines. LXIV. Josera DécneLETTE, pp. 417-425 [Necrologia di questo archeologo francese, collaboratore della Revue des études anciennes, ucciso in battaglia il 3 ottobre 1914: era capitano. della territoriale nel 298° reggimento di fanteria). Lo stesso, CQhronique gallo-romaine, pp. 482-437 [Notizie, la massima parte, bibliografiche]. Variétés: P. FourNIER, Iascriptions de Sardes, pp. 438-440 [Propriamente recensione del lavoro di W.-H. BuckLer e Ὁ. M. RoBinson, Greek Inscriptions from Sardes (III, to priestesses of Artemis) in American Journal of Archaeology XVII. 1913, pp. 353-370]. É. Βκύπιβε, La Cosmologie hellénique, d'apròs l’ouvrage de m. Dusem, pp. 441-456 [Analisi e recensione, con molte 0s- servazioni originali, dell’opera di P. Dumem, Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic. T. I: La Cosmologie hellénique. Paris, Hermann et f., 1913]. G. Raper, A. Cuny, C. Jur- LIAN, Chronique des études anciennes, pp. 473-474 [Notizie bibliografiche].

Napoli, 25 marzo 1915. DomenIco Bass.

CRAY PS &

PUBBLICAZIONI RICEVUTE DALLA DIREZIONE ì

A collotype reproduction of that portion of Cod. Paris. 7989 commonly called the Codex Traguriensis which contains the Cena Trimalchionis of Perronius together with four poems ascribed to Petronius in Cod. Leid. Voss. 111. With introduction and a transeript by Stephen Gaselee. Cambridge : at the University Press, 1915, in-4°.

AurreD Hoare. An Italian Dictionary. Cambridge, at the University Press, 1915, di pp. xvi-663 a tre colonne (seguìto da A concise English- Italian Vocabulary, di pp. cxxxv a quattro colonne). in-4°.

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Carurco. I carmi. Traduzione di Carlo Pascal e di altri. Prefazione di Carlo Pascal. Milano, Istituto Editoriale Italiano, [senza data], di pp. 145 (Raccolta diretta da Luigi Luzzatti e Ferdinando Martini. " Serie II. Vol. LIX). τ

Lorenzo DaLmasso. Appunti lessicali e semasiologici su Palladio (Estr. dall’ “Athenaeum ,, Anno II, Fasc. I e IV, pp. 52-68 e 450-460).

Sanri Consori. Un carme latino del sec. XVIII in lode del Principe DI Ignazio di Biscari (Estratto dall’ “Archivio Storico per la Sicilia 3 Orientale ,, Anno XI, Fase. III) di pp. 4.

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KarL Wysz. Die Milch im Kultus der Griechen und Réòmer. Gieszen, Alfred Tòpelmann, 1914, di pp. 1v-67 (Religionsgeschichtliche Ver- suche ecc., XV. Band. 2. Heft).

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Torino, 18 aprile 1915.

GiusepPE MacRrINI gerente responsabile,

Tio. Vincenzo Bona Τύρα,

INTORNO AL QUOD

COI COSÌ DETTI VERBA AFFECTUUM ECC.

La teoria del Kiihner (Ausf. Gramm. d. Lat. Spr. II 2, 1879, p. 840) che ia proposizione introdotta da quod in dipendenza dai così detti verda affectuum, dai verbi di lodare, biasi- mare, accusare e da gratulor, gratias ago, sia da conside- rare come sostantiva e il quod, per usare il termine usuale nelle nostre grammatiche, come dichiarativo e non già come causale, se è stata accolta da alcuni grammatici, p. es. dal nostro Cocchia (Sint. lat. p. 456), da altri è stata risolutamente impugnata o rifiutata senz'altro. Lo stesso Riemann nella sua Syntaxe latine ($ 193; 5? ediz. p. 329) non esita di annoverare siffatta proposizione, senza nessun ac- cenno alle vedute del Kiihner, tra le non completive, vale a dire tra le avverbiali, insieme con le altre introdotte dal quod-quia causale. Non è d’altra parte mancato chi, certo considerando che il quod usato coi verba affectuum ecc. sembra tenere a un tempo del quod dichiarativo e del quod causale, del quod dichiarativo, tra l’altro, in quanto regolarmente non è sostituito nei classici con quia (1) e corrisponde all’italiano “che , (ted. dass ,, franc. que ,), e del quod causale in quanto si costruisce oltre che con l’indicativo anche col congiuntivo e par talvolta meglio corrispondere all’ italiano “perchè ,, (ted. weil ,, franc. parce que ,), ha se- guito una via di mezzo distinguendo questo quod sia dal di- chiarativo sia dal causale come un che d’intermedio tra l’uno

(1) v. Schmalz, Lat. Gramm., 19104, p. 543 sg., e cfr. p. 540.

Rivista di filologia, ece., XLIII. 27

418

e l’altro, del quale per ciò appunto si dovesse trattare a parte. Così fece il Goelzer col suo Quod exprimant une idée de cause , (Riemann-Goelzer, Gramm. comp., Syntaze, p. 459 sg.).

Al Goelzer aderisce, almeno in parte, lo Stegmann, che nella recentissima ristampa della grammatica del Kiihner (II 2, 1914, p. 276), pur continuando a trattarne nel para- grafo dato ai Substantivsitze mit quod und quia (dass) ,, aggiunge che il quod usato coi verda affectuum ecc. s'accosta al significato causale. Riferiamo le parole stesse del gram- matico tedesco insieme con l’elenco dei verbi, al solito no- tevolmente accresciuto rispetto a quello che aveva dato il Kilhner: Der kausalen Bedeutung kommt quod schon nàher :

1. bei den Ausdriicken der Gemiutsstimmung, wie gaudeo, laetor, delector; doleo, indignor, irascor, suscenseo, sel- tener maereo, angor, crucior, invideo; me pudet, paenitet, mi- seret; aegre, moleste, graviter, aequo animo fero, auch satis habeo; glorior, queror, conqueror, miror, admiror; iucundum, molestum, non ferendum est u. dergl.

2. bei den Verben des Lobens und Tadelns, Be- schuldigens und Verurteilens, Dankens und Glick- winschens, wie laudo, vitupero, obiurgo, reprehendo ; accuso, obicio, criminor, crimini do τὰ. ihnlichen Wendungen; damno, condemno ; gratulor, gratias ago, gratiam habeo (refero) u. dergl. ;.

Ma innanzi tutto che in casi come Ne miremini, quod non triumpho , (Plaut. Bacch. 1073), Sane gaudeo, quod te interpellavi , (Cic. De leg. 3, 1, 1), molestissime fero, quod, te ubi visurus sim, nescio , (Fam. 3, 6, 5), Quod minuit auctionem decemviralem, laudo; quod regi amico cavet, non reprehendo; quod non gratis fit, indignor , (De leg. agr. 2, 22, 58) la proposizione subordinata sia schiettamente e sem- plicemente sostantiva e rappresenti l’oggetto diretto di mi- remini (1), gaudeo, molestissime fero, laudo, reprehendo e indignor

(1) Naturalmente rappresenta il soggetto in casi come: Utrum... magis est mirandum, quod is condemnatus est, an quod omnino respon- dere ausus est ὃ, (Pro Cluent. 22, 60).

49

più meno che rispetto alla sovraordinata la subordi- nata nell'esempio Bene facis, quod me adiuvas , (cfr. Ad Att. 7,7,1: hoc enim ipsum bene fecit, quod mihi sui cogno- scendi... facultatem dedit), provano incontestabilmente questi altri esempi ciceroniani: [Mud admiror, quod Antonius ad me ne nuntium quidem (sott. misit) , (Ad Att. 10, 13, 2); illud admirari satis non potui, quod scripsisti his verbis , (16, 7, 2); iMud gaudeo, quod ... aequalitas vestra ... abest ab obtrectatione , (Brut. 42, 156); iWud plane moleste tuli, quod ... triumphum ... tibi ereptum videbam , (Fam. 3, 10, 1); unum reprehendo, quod otium e Gallia nuntiari non magno opere gaudet , (Ad Att. 1, 20, 5); Iam hoc quidem non reprehendo, quod ascribit accensus’ , (In Verr. 2,3, 66, 154), dove a admiror, admirari, gaudeo, moleste tuli, reprehendo è aggiunto, come formula prolettica rispetto al contenuto della proposizione introdotta dal quod, non già un avverbio come ideo, idcirco ecc., quale sarebbe richiesto da una subordinata causale, ma un pronome sostantivo (ilud, unum, hoc), che è appunto la formula sospensiva (prolettica o epanalettica) ri- chiesta dalle proposizioni sostantive (cfr. in particolare con gli esempi su addotti i seguenti: Fam. 2, 16, 1: illud miror, adduci fe potuisse ... ut existimares ... me tam improvidum Ad Att. 7, 17, 3: illud admiror, non ipsum ad me scripsisse Fam. 2, 12, 1: Ilud moleste fero, nihil me adhuc tuis de rebus hadere tuarum litterarum; ecc.) (1). certo scarseg- giano gli esempi analoghi con altri verbi affectuum: illud in primis mihi laetandum iure esse video, quod ... causa oblata est , (De imp. Cn. P. 1, 3); id dolemus, quod eo iam frui nobis non licet , (Brut. 1, 5); Id ipsum dolendum esse di- cebat, quod in tam crudelem necessitatem incidissemus , (Tuse. 3, 25, 60); d2lud maereo, quod tibi non minorem dolorem illorum orbitas afferet quam mihi , (Ad Q. fr. 1, 3, 10); Neque id se queri, quod hostilia ab hoste passi forent ... Verum enim

(1) La funzione oggettiva della subordinata con quod in dipendenza da admiror risulta anche evidentissima da Ovid. Met. 13, 913 sgg.: admiraturque colorem Caesariemque umeros subiectaque terga tegentem Ultimaque excipiat quod tortilis inguina piscis.

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pi: vero id se queri, quod is... omnia simul divina humanaque

è iura polluerit , (Liv. 31, 30, 2 sgg.); unum, quod cohortes

ex statione ... essent emissae, questus , (Ces. ὃ. g. 6, 42, 1);

ue: id aegre pati, quod sine L. Papirio non inermes, non manci

Τῷ milites fuerint , (Liv. 8, 31, 4); Ruic illud dolet, quia

$ 3 , , , q

ἊΝ (= quod) nunc remissus est edundi exercitus , (Plaut. Capt.

; 152 sg.); id tibi suscensui, quia te negabas credere argen-

}

og tum mihi , (Pers. 431 sg.); ecc. (cfr. Fam. 9, 20, 1: illud doleo, in ista loca venire me, ut constitueram, non potwisse 1 Ad Att. 3, 15, 2: id ipsum doleam, me, tam firma mente ubi utar et quibuscum, non habere Fam. 1,9, 17: illud ... queruntur.., quasi desciscere me a pristina causa Pro Scaur. fragm. 22, 45m: Hoc miror enim querorque quemquam ho- Ù minem ... velle ...; 666.).

i Non meno chiara poi che con dolet mihi (1) 0, per aggiun- gere un’altra espressione consimile all’elenco dello Stegmann, con pungit me (Fam.7,15, 1: pungit me rursus, quod scribis esse te istic libenter) è la funzione soggettiva della subordi- nata introdotta da quod coi verbi impersonali pudet, paenitet e con le espressioni impersonali iucundum, molestum, non fe- rendum est: basterà con Brut. 17, 78: Gratum est tamen, quod volunt , o con Fam. 16, 17, 2: Cuspio quod ope- ram dedisti, mihi gratum est , confrontare Fam. 12, 28, 2: gratum |est| etiam illud, quod mihi tuo nomine gratias agendas non putas ,. Si tenga d'altra parte presente che con tutti gli Ausdriicke der Gemiitsstimmung enumerati dallo Stegmann, salvo che con miseret me alicuius, in vece della subordinata con quod si trova senza che ciò importi nessuna differenza di senso, anzi il più spesso è preferita, una subor- dinata sostantiva col verbo nell'infinito (2). Soltanto dunque

(1) Questa espressione, tralasciata dallo Stegmann nell'elenco su rife- rito, è da lui compresa nell’esemplificazione, dove è citato Bruto ap. Cic. Ad Brut. 1, 17, 6: dolet mihi, quod nune tu stomacharis.

(2) Notevole è l'accoppiamento delle due forme di proposizione so- stantiva in Liv. 81, 18,2: questus Attalo Rhodiisque arma illata (esse) et quod ... Abydum (rex) oppugnaret ... ,.

DE dae VE in me tui miseret, quod tibi invideris , (Phil. 2, 35, 90) il quod, nonchè avvicinarsi al valore causale, ha senz'altro valore

causale (= perchè) (1), mentre con gli altri verbi ed espres-

sioni verbali elencate dallo Stegmann al 1 ha senz’altro valore sostantivo pari a quello di un %oc, ud soggetto (con iucundum est e sim., dolendum est e sim. e me pudet ecc.) 0 oggetto (con aegre fero e sim., satîs habeo, invideo, miror ecc.) o in funzione d’accusativo, per dir così, libero (2) (con angor, erucior, irascor ecc.).

certo alcuno può obiettare contro la mia [651 l’uso del congiuntivo frequentissimo nelle proposizioni di cui ci occu- piamo, giacchè è noto che, se è vero che nelle grammatiche scolastiche si insegna che il quod sostantivo 0, come si dice comunemente, dichiarativo richiede l’indicativo, non è men vero che anch’esso può essere seguito dal così detto co- niunctivus obliquus, come, a non volersi dipartir da Cicerone, dimostrano gli esempi seguenti: Fam. 15,4, 12: mitto, quod invidiam, quod pericula, quod omnes tempestates et subieris et multo etiam magis ... subire paratissimus fueris, quod de- nique inimicum meum tuum inimicum putaris; Ad Att. 9, 10, 2: me una haec res torquet, quod non omnibus in rebus ... Pompeium ... secutus sim; In Verr. 2, 3, 15, 39: causa erat iudicii postulandi, quod ex edicto professus non esset; De opt. gen. or. 7,21: Non... tam multa dixit de rationibus non re- latis, quam de eo, quod civis improbus ut optimus laudatus esset; Fam. 3, 11, 5: bis ad te scripsi ... te leviter accusans in eo, quod de me cito credidisses; Pro Plane. 33, 82: quem qui reprehendit, in eo reprehendit, quod gratum praeter modum dicat esse (3). Si notino anzi in particolare i seguenti esempi, dove quod dipendente da moleste fero, reprehendo e accuso è

(1) Cfr. Ter. Enn. 802: miseret tui me, qui hunc tantum hominem facias inimicum tibi; Sen. Contr. 1, 6, 5: Misereri illius oportet, quia orba est.

(2) Cfr. Schmalz, p, 541.

(3) Quod gratum dicat esse = quod gratus sit; cfr. Phil. 2,4,7: litteras, quas me sibi misisse diceret (= quas ego sibi misissem), recitavit; Kiihner-Stegmann, Il 2, p. 200.

Die,

422

seguito dal congiuntivo, mentre l’i/lud prolettico e l’id epa- nalettico dimostrano la natura sostantiva della subordinata : In Cat. 2,2, 4: illud moleste fero, quod ex urbe parum co- mitatus exierit; In Verr. 2,3, 7, 17: quod tua sponte iniussu populi ... Siciliae iura mutaveris, îd reprehendo, id accuso. Passando ora al secondo elenco che sopra abbiam ripor- tato dallo Stegmann, quanto al quod che si ha coi verbi di lodare, riprendere, accusare e, aggiungo io, scusare, è chiaro il suo significato prettamente sostantivo, o dichia- rativo che dir si voglia, di “il fatto che, se ai detti verbi non è aggiunto un accusativo di persona, come per laudo e reprehendo ho già mostrato in principio confrontando De leg. agr. 2, 22, 58 con Ad Att. 1, 20, 5 e In Verr. 2,39, 66, 154, e come per accuso risulta già da In Verr. 2, 3, 7, 17 citato or ora. Infatti anche in casi come: “(Cato) obiecit ut probrum M. Nobiliori, quod is in provinciam poetas duxisset , (Tuse. 1,2, 3); videntur ... exprobrare, quod in ea vita ma- neam , (Fam. 5, 15, 3); criminabatur etiam, quod Titum filium ... ab hominibus relegasset , (De off. 3, 31, 112); Ογί- mini ei tribunus ... dabat, quod filium iuvenem ... in opus servile, prope in carcerem ... dederit , (Liv. 7, 4, 4); vitio mihi dant, quod mortem hominis necessarii graviter fero , (Mat. ap. Cic. Fam. 11, 28, 2); Miseriae nostrae potius velim quam inconstantiae tribuas, quod ... subito discessimus , (Ad Att. 3, 4); ut excusaret, quod morbo impeditus bello non interfuisset , (Liv. 36, 25, 1; excusavit Vespa Terentius, quod eum bracchium fregisse diceret = quod is bracchium fre- gisset; de or. 2,62,253); Non sum eodem modo defensurus, Romani, quod Dolopas coercuerim, quia, etsi non merito eorum, iure feci meo, cum mei regni, meae dicionis essent (Liv. 42, 41, 13), basta il confronto di frasi come obicere alicui furta, largitiones, libidines ,, exprobrare officia ,, criminari po- tentiam alicuius ,, summam laudem ‘alicui vitio et culpae dare ,, casus secundos tribuere fortunae suae ,, excusare valetudinem ,, defendere crimen , per convincersi che le su- bordinate con quod in dipendenza da obicere (alicuì), crimi- nari, crimini dare (alicui) ecc. ne rappresentano l'oggetto di- retto, precisamente come coi medesimi verbi ed espressioni

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verbali l’accusativo con l’infinito (1). Il che del resto nell’ul- timo esempio riferito è reso anche evidente dall’aggiunta alla proposizione con quod di vere proposizioni causali con quia e con cum. Ma c’è di più: neanche qui ci mancano esempi in cui la natura sostantiva della proposizione subor- dinata con quod è messa fuor di dubbio da un pronome so- stantivo sospensivo aggiunto alla subordinata: ἐμαὶ ..., quod ob iudicandam rem pecuniam accepisses, eadem ista ratione defendes? (In Verr. 2, 3, 88, 206) (2).

c'è davvero ragione alcuna di credere che la subordi- nata in un caso come Tibi, quod abes, gratulor , sia di natura punto differente da quella che abbiamo in Ne mire- mini, quod non triumpho , o Quod minuit auctionem de- cemviralem, laudo ,, sol che si guardi ai costrutti comuni a tutti i periodi della latinità [alicui] aliquid (p. es. adventum, victoriam, recuperatam libertatem) gratulari , e [alicui] gra- tulari , con l’accusativo e l’infinito (3). Si osservi del resto anche per se stesso il periodo ciceroniano Tibi, quod abes,

(1) Ad Att. 1. 16, 10: odicit mihi me ad Baias fuisse; Pro Font. 8,

7 ecc. Pro Rose. Am. 15, 44: quod benevolentia fit, id odio factum (esse) criminaris; Phil. 2, 1, 8 ecc. Liv. 1, 5,4: Crimini maxime dabant in Numitoris agros impetum fieri; Brut. 80, 277; In Verr. 2, 1, 5, 12 ecc. e così via; v. Kiihner-Stegmann, II 1, pp. 692 sg., 697 sg., dove tuttavia non è notato excuso: p. es. Liv. 38, 25, 4: oratores... re- deunt, excusantes religione obiecta venire reges non posse. Naturalmente poi con crimini est (alicui) e frasi simili la proposizione con quod rap- presenta il soggetto; v. Pro Rosc. Am. 17, 49: si..., quod ea (praedia) studiose coluit, ἐκ erit ei maximae fraudi...; nisi etiam, quod omnino coluit, crimini fuerit.

(2) Non varrebbe osservare che anche Cicerone talora con laudo, re- prehendo ha quia in vece di quod (Ad Att. 9, 9, 1 = laudas, quia oblivisci me scripsi ante facta 2, 16, 3 reprehendit, quia non semper quierim cfr. 10, 3a, 2: questos esse, quia non idem ... remisisset). Il quia sostan- tivo, frequentissimo nel latino arcaico, non è estraneo a Cicerone nep- pure in altri casi: Fam. 9, 16, 2: uno utor argumento ..., quia .. nostra fortuna ea est..., ut simulandi causa non sit Tusc. 5, 33, 95: do- lorem οὗ id ipsum, quia dolor sit, semper esse fugiendum De rep. 1, 40; 63: dictator quidem αὖ eo appellatur, quia dicitur frequente poi ex eo quia, Kihner-Stegmann, II 2, p. 271.

(3) Kiihner-Stegmann, II 1, pp. 261, 693.

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FRANE ΔΎ τ n VOTI MRI ENIT

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gratulor, vel quia non vides ea, quae nos, vel quod excelso et illustri loco sita est laus tua , (Fam. 2, 5, 1). La posizione stessa della subordinata quod abes , rispetto a quella delle i subordinate causali che seguono introdotte da quia e da quod ci dichiara l'equivalenza logica di quod abes , a un absentiam o, se si vuole, peregrinationem tuam. Ma persino alla propo- sizione con quod dipendente dalle frasi gratias ago e gratiam habeo (p. es. Liv. 38, 47, 2: Quibus ego gratiam habeo, ... quod hoc dederunt) non si può disconoscere la funzione schiettamente sostantiva, chi da una parte consideri che tutte quante le proposizioni sostantive s’usano non solo in funzione soggettiva, oggettiva e epesegetica, ma ben anche in quella di compimento di nomi per se stessi di significato affine ai verbi che possono reggere quella data proposizione sostantiva ovvero di nomi che, uniti con un verbo, formano un’espressione sinonimica dei verbi reggenti quella data pro- posizione sostantiva (1) (cfr. gratum est, quod; v. sopra gli esempi), e dall’altra ricordi i costrutti, rari ma non isolati, come quod dis habeo gratiam , e Τὰ gratum fuisse habeo gratiam ,, dis gratias agebat, tempus sibi dari ,, redisse vos deis grates agimus , (2). Particolarmente poi interessante è al nostro proposito il luogo seguente (Phil. 2, 14, 34): Ego autem ..., quod bene cogitasti, laudo : quod non indi- casti, gratias ago : quod non fecisti, ignosco ,, dove è naturale attribuire al quod con gratias ago lo stesso valore che esso ha con Zaudo e con ignosco. E che anche il quod usato con ignosco (Ad Att. 7,12, 3: Interim velim mihi ignoscas, quod

(1) V. la mia Sintassi latina per le scuole, p.° III* (Rocca S. Casciano, 1914) $ 234, dov'è anche una scelta misurata ma compiuta di esempi. Qui in particolare gioverà confrontar tra loro i seguenti, dove le pro- posizioni sostantive col quod o nell’accusativo con l’infinito fungono come compimento di sostantivi affectuum: Fam. 6, 1, 1: dolore, quo maxime te confici audio, quod Romae non sis, animum tuum libera; Liv. 31, 47,4: Consul...haud clam tulit iram adversus praetorem, quod absente se rem gessisset Ad Αἰ. 5, 1, 6: accipiam equidem dolorem, mihi illum irasci; sed multo maiorem, non esse eum talem, qualem pu- tassem; Ter. Hec. 562: incendor ira, esse ausam haec facere te.

(2) Kiihner-Stegmann, II 1, pp. 280, 693.

Pa TA

ad te scribo tam multa toties 10, 3a, 2: Caesar mihi | ‘gnoscit per litteras, quod non venerim ecc.) (1) sia sostan- τυ, |‘’»—’—‘ivo è cosa ovvia. τὴν Restano da considerare i tipi Te accuso ,, Te Ù; biro Lex CWSO.:y (2): ecc e: Arecuisor,, “ecc. Ma anche con questi tipi la funzione sostantiva della pro- eo posizione introdotta da quod ha la sua rispondenza evidente sia nei noti costrutti ἐμαὶ te accuso , (Ad Att. 13, 22, 4: LA illud accuso non te, sed illam. Cfr. Plaut. Bacch. 1019 sg. 14 ..., pr quod Chrysalus me obiurigavit; Capt. 620: hoc primum me expurigare tibi volo; ecc.) (3) e i2lud accusor , (Ter. Heaut. so «352: ne quid accusandus sis vide:; cfr. De orat. 3, 19, 70: (id.) quod arguare ; ecc.) (4), sia nella proposizione infinitiva N ammessa anche dai classici, talora anzi preferita, appunto coi verba accusandi attivi e passivi (5), nonchè con excusor (6), damnor (7) ecc. (nei preclassici e nei poeti anche con laudo aliquem e laudor (8) ecc.). Così, per es., la subordinata in i discipulos moneo, ut praeceptores suos ament , (cfr. illud i te moneo ,) e in moneor, ut cautior sim , (cfr. ea, quae a natura monemur ,) non è meno sostantiva che la subordi- nata in μέ quiescant, moneo , e in Ratio ipsa monet ami- mi citias comparare ,, e solo si può dire che, mentre negli ultimi D due casi la subordinata ha la funzione di complemento ορ-

(1) Lo Stegmann, come s’è visto, non registra ignosco tra i verbi co- PRO) struiti con quod, ma bensì lo registra poi (p. 425) tra quelli che posson PARI reggere una proposizione sostantiva con δὲ (Liv. 28, 41, 1: #22ud te mihi bo ignoscere aequum erit, δὲ... proponam). ΠΣ

(2) Ces. De ὃ. ς. 3, 16, 3: Libo... ercusat Bibulum, quod is iracundia summa erat; Liv. 42, 6,6: Apollonius... regem excusavit, quod stipendium serius ... praestaret; 38, 3, 2: Amynander... ercusabat sese, quod per Aetolos recuperasset regnum paternum ; 1, 58, 8: ut purgaret sese, quod id temporis venisset.

(3) Kiihner-Stegmann, II 1, pp. 279, 303 sg.

(4) 1. c.

DI, (5) p. 688.

(6) p. 705. Sa (7) p. 688. vi SC (8) pp. 693, 706. Sa

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getto, negli altri due casi ha la funzione di un accusativo libero o di relazione o di contenuto che dir si voglia. Per altro, tornando ai tipi sopra indicati, se non è da porre in dubbio la originaria natura prettamente sostantiva della pro- posizione con quod che loro si accompagni, è tuttavia anche innegabile che questa dovette ben presto tingersi nella co- scienza dei parlanti d'una sfumatura causale, tant'è vero che, come è attestata, secondo che abbiam già visto, la forma sintattica iMlud accuso (reprehendo), quod ,, non così è atte- stata la forma iMlud te accuso (reprehendo quod) ,, in vece della quale si trova in eo , οὗ cam causam te accuso (reprehendo), quod , e sim. (1), anzi, quanto a laudo ,, oltre che in eo (ob cam rem ecc.) laudor, quod , (2) si trova anche: ii... propterea laudantur, quod pro populi Romani libertate arma ceperunt , (Phil. 10, 7, 15), la qual forma pone sotto gli occhi quella tendenza al senso causale del quod che dicevamo (cfr. Brut. 30, 116: utrumque ... laudemus, quo- niam...} 666.).

Conchiudendo, e ciò più specialmente contro il Riemann, io riassumerei così questa parte della sintassi latina: Il quod (quia massime nel lat. pre- e postclassico) sostantivo (= “il fatto che ,, se costruito con l’indicativo; “il fatto da lui [da loro, dame, dalla gente ecc.] affermato [o pensato] che ,, se costruito col congiun- tivo) (3) si usa anche:

per introdurre una proposizione oggettiva oppure equi- valente a un accusativo libero

a, coi verba affectuum come gaudeo, laetor; doleo,

indignor, irascor (subirascor) (4), suscenseo, angor, crucior, in-

(1) Fam. 3, 11, 5; In Verr. 2, 3, 19, 48; De fin. 2, 7, 22 ecc.

(2) De nat. d. 2, 16, 44; De off. 3, 33, 116 ecc.

(3) Così p. es. Pompeius queritur, quod ei male dixisti , propriam. vale Pompeo lamenta il fatto che tu hai sparlato di lui , ; P. que- ritur, quod sibi male dixeris, propriam. vale “P. lamenta il fatto, per riferire le sue stesse parole, che hai sparlato di lui ,.

(4) Il composto, non compreso nell'elenco dello Stegmann, è poi re- gistrato nell’esemplificazione seguente.

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video; aegre, moleste, graviter, aequo animo fero (patior) (1), satis habeo; glorior, queror, conqueror, miror, admiror.

b, con gratulor.

c, coi verbi di lodare, biasimare; accusare, scusare (allegare come scusa); sbagliare, perdonare non accompagnati da un sostantivo oggetto, come laudo, exprobro (2), reprehendo, obicio (alicui); accuso, criminor; laudi (crimini ecc.) do (alicui), vitio verto alicui, culpae tribuo e frasi simili, excuso, defendo; erro, fallor (3), ignosco.

per introdurre una proposizione soggettiva, oltre che col passivo dei verbi anzidetti (mirandum est, exprobratum est ecc.), con le espressioni affectuum dolet mihi, pungit me e sim.; iucundum, molestum, non ferendum, mirabile (4), gratum est (videtur) e sim.; con crimini (fraudi ecc.) est (mihi), cri- minis loco est (5), satis est (6), e infine con me pudet, me paenttet.

per introdurre una proposizione epesegetica in casi come illud (id, hoc ecc.) gaudeo, doleo, maereo (7), moleste fero, nullo modo fero (8), aegre patior, queror, miror, reprehendo, accuso ecc. quod; illud (id ecc.) laetandum, dolendum ecc. est

(1) P. es. Liv. 9, 30, 5: tibicines, quia prohibiti a proximis censoribus erant in aede Iovis vesci..., qegre passi ... abierunt.

(2) P. es. Fam. 5, 15, 3; v. sopra.

(3) P. es. Or. 9, 29: Errant, quod solum (eum Attice dicere putant) ; quod Attice, non falluntur ; In Verr. 2, 3, 68, 159: Nam quod scribit Metelli filium puerum esse, vehementer errat. Quanto a excuso, defendo, ignosco quod, v. sopra.

(4) P. es. De nat. d. 1, 26, 71: Mirabile videtur, quod non rideat ha- ruspex, cum haruspicem viderit (cfr.'De Div. 2, 24, 51: (Cato) mirari se aiebat, quod non rideret haruspex, haruspicem cum vidisset). Quanto a pungit me quod; gratum est quod, v. sopra gli esempi.

(5) P. es. Fam. 7, 3, 6: criminis loco putent esse, quod vivam. Quanto a crimini est quod, v. sopra.

(6) P. es. Pro Scaur. fragm. 13, 29: Non satis (est) quod uno (teste producto comperendinasti reum), non quod ignoto, non quod levi.

(7) All’esempio già citato (Ad Q. fr. 1, 3, 10) di illud maereo quod io non so se corrisponda alcun esempio di maereo quod senz'altro.

(8) P. es. In Verr. 2, 4, 66, 147: quod... Graece locutus essem, ἐπ (ait) nuilo modo ferri posse.

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quod; illud gratum est, mirabile videtur quod (1); id est mihi fraudi (crimini ecc.) quod; Habeo illam molestiam, quod Dola- bella noster apud Caesarem est (Fam. 16, 12, 15); Darium quoque, cum interemisset Bagoan, hac excusatione satisfecisse popularibus, quod insidiantem interemisset (Ruf. Hist. Al. 6, 4, 10), ecc.; oppure in casi come i seguenti: tuam vicem saepe doleo, quod nullam partem per aetatem sanae et salvae rei publicae gustare potuisti (Fam. 12, 23, 3); superbiam tuam accusant, quod negent te percontantibus respondere (= quod perc. non respondeas; 7, 16, 3).

come compimento di nomi affini ai verbi sopra enu- merati o con frasi verbali affini per senso a questi medesimi verbi e composte con un tal nome, cioè con gratiam habeo (refero), gratias ago; haud clam ferre îram adversus aliquem (2); laetitia est (3) ecc.; maestus (4); contentus sum (5) ecc.

Il quod sostantivo poi s’accosta al valore causale:

con delector (6). i

coi verbi di lodare, biasimare, deridere, ac- cusare, scusare, condannare accompagnati da un 0g- getto di persona o passivi, come laudo (collaudo) (7) aliquem; vitupero, obiurgo, increpo, castigo (8), reprehendo aliquem; 17-

(1) P. es. De nat. ἃ. 1. c.: hoc mirabilius (videtur), quod vos inter vos risum tenere possitis.

(2) v. sopra, in nota.

(8) P. es. Liv. 36, 10, 15: duplex Zaetitia erat, quod et hostes exces- serant finibus et intra moenia praesidium Romanum cernebant.

(4) Lucil. 849, citato dallo Stegmann nell’esemplificazione aggiunta agli elenchi sopra trascritti.

(5) v. l'esempio ciceroniano additato dallo Stegmann 1. c.

(6) Se pure non si tratta di un vero quod causale.

(7) Fam.7,17,1: te aliquando collaudare possum, quod iam videris... constitisse.

(8) Liv. 5, 29, 10: Consules increpabant, quod fide publica decipi tri- bunos taciti tulissent; 39, 2, 2: ea (arma) quia non sincera fide trade- bant, cum castigarentur,... profagerunt; cfr. Tuse. 5, 1, 4: in hoc me ipse castigo, quod ... existimo. Invece Ces. De ὁ. c. 3, 25, 2: castigaban- tur, quoniam ...non prohibuissent; cfr. Kiihner-Stegmann, II 2, p. 384 Anmerk. 2.

Mico aliquem (1), accuso, criminor (rar. arguo) (2) aliquem; excuso, purgo aliquem; damno, condemno aliquem laudor ece. Poi per estensione con le frasi diem dicere alicui (3), in iudi- cium adducere aliquem (4) ecc.

Naturalmente ciò che qui ho esposto non toglie che pur dopo un verbo affectus o altro verbo di quelli con cui s'è detto usarsi il quod prettamente sostantivo, si possa trovare il quod o altra congiunzione causale (p. es. Nep. 7, 6, 2 Itaque et Siciliam amissam et Lacedaemoniorum victorias culpae suae tribuebant, quod talem virum e civitate expu- lissent; In Pis. 41, 95 laetabor, cum te semper sordidum ... viderim ; cfr. anche Fam. 13, 28, 2: Quod quidem hoc vehe- mentius laetor, quod ... te video magnam capturum volup- tatem; Phil. 11, 4,9: in hoc sit... laetatus, quod ea faceret); ma in tal caso non si tratta d’un costrutto proprio del verbo affectus ecc. (5) come quando si tratta del quod sostantivo (in Nep. 7, 6, 2 il costrutto proprio di culpae suae tribuebant

consiste nel complemento oggetto Siciliam amissam ece.; in

Cic. In Pis. 41, 95 laetari è adoperato assolutamente), giacchè è apodittico che nella sovraordinata d’una proposizione cau- sale può comparire qualsivoglia verbo, nessuno escluso.

Fano, agosto 1914. ApoLro GANDIGLIO.

(1) Fam. 13, 15, 1: irridere atque obiurgare me solitus est, quod me non tecum... coniungerem.

(2) v. l’esemplificazione più volte citata dello Stegmann.

(3) Liv. 4, 40, 4: M. Postumio et T. Quinctio diem dixerant, quod ad Veios eorum opera male pugnatum esset.

(4) De opt. gen. or. 7, 20: Ctesiphontem in iudicium adduxit Aeschines, quod contra leges scripsisset.

(5) Così, p. es., la proposizione relativa causale non è tra i costrutti propri d’una frase, come bene facio, eppure non fa nessuna maraviglia di trovare impudenter te facere, qui id a me peteres , (Contra Ant. et Cat., fragm. 19). In tal caso facio è intransitivo, mentre nella costruzione impudenter facio, quod , sarebbe transitivo.

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SULLA NOZIONE DEL PELARGIKON

La questione se la nota designazione //e4a9yix6v adoperata tanto per una località come per un muro nelle fonti si trova però in tal caso unita sempre a τεῖχος ai piedi del- l’acropoli, abbia una relazione etimologica col nome //eZaoy6g, dovrebbe ormai essere risoluta in senso negativo (1), non solo per la mancanza d’esempi di rotacismo nel dialetto attico, quanto per l’ovvio ravvicinamento al nome del noto tram- palipede πελαργός, cicogna (2). Le cicogne non si veggono ora svolazzare presso l’acropoli d’Atene (3); ma sono ancora numerose in Tessaglia e altrove; e la mancanza nell’Attica al giorno d’oggi può esser dovuta a cause per noi oscure, ma facilmente escogitabili. La similitudine della cicogna ri- correva del resto non infrequentemente presso gli scrittori attici: Platone (A/cid., I, p. 554 E) fa dire da Socrate ad Alcibiade che il suo amore verso di lui non è dissimile da quello della cicogna; Aristofane ricorda le cicogne (Aves, vv. 1358-1357) nella città degli uccelli; e lo scoliaste (ad locum) ci una notizia che si riferiva probabilmente a un’usanza ateniese, secondo la quale gli scettri sulla parte superiore portavano incisa una cicogna, nella parte inferiore un cavallo marino. Altrove Aristofane, nel descrivere il muro

(1) Vedi Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei, vol. XXI, p. 284, coi richiami agli autori contenuti nella nota 2.

(2) Si può consultare sempre utilmente E. Meyer, Forschungen, I, p. 10-11.

(3) Io non ho viste cicogne nell’Attica: che non si tratti d’una mia negligenza d'osservazione, lo conferma la stessa osservazione di J. E. Harrison, Primitive Athen as described by Thucydides, p. 25.

MT N υδ εν ναοο ΝΑ ὙΠ᾿

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della città fantastica, dopo un’enumerazione di uccelli addetti alla fabbricazione, dice (Aves, 1139): ἕτεροι δ᾽ ἐπλινϑούργουν πελαργοὶ μύριοι, dove l’accenno al numero imponente non è senza significato per mostrare la presenza della cicogna in Atene. Oltracciò una cicogna è facilmente riconoscibile in una pittura murale del sesto secolo conservataci frammentaria- mente (1); e, se anche questo si deve all’interpretazione eti- mologica del nome //eZagyix6v, richiamando gli argomenti sopra addotti, se ne ricava sempre la familiarità del pubblico ateniese con quest’uccello.

Se poi consideriamo che la connessione del nome Z/eZao- yix6v coi Pelasgi trae la sua forza dalla tradizione che gli abitanti dell’Attica erano autoctoni e quindi Pelasgi (2), non esiteremo un momento, conoscendo le fragili basi di questa costruzione storica, a riconoscervi un mito etimologico. Ero- doto (I 57), identificando gli autoctoni ateniesi coi Pelasgi, fa un lavoro di combinazione estraneo a Ecateo (/d., VI 137), il quale tanto poco conosce la nazionalità pelasgica degli Ateniesi, che fa dei Pelasgi un popolo avventizio dell’At- tica (3). Giustamente la Harrison (o. c., p. 29) osserva: Le cicogne stesse son qui a ricordarci che l’antico nome della cittadella era Pelargikon, e che Pelargikon significa fortezza della cicogna’; per un facile scambio venne Pelasgikon, ed ebbe di qui innanzi una falsa associazione coi Pelasgi ,. Ma la dotta scrittrice si arresta a mezza via nella sua esegesi, e mancandole l’audacia di romperla con le antiche tradizioni, prosegue : etimologicamente falsa, ma del resto forse giusta, poichè fortunatamente l'analogia tra le mura pelasgiche e quelle di Micene è fuori di discussione, e se i Micenei erano Pelasgi, le mura perciò pelasgiche ,.

Secondo un'ipotesi recente si tiene fermo alla diversità etimologica di Πελαργικόν e Πελασγοί, ma si ammette una distinzione tra ]ελαργικόν e Πελασγικόν. ΤΊ primo indiche-

(1) Vedi Jane E. Harrison, o. c., p. 28, figura 13. (2) Judeich, R. E., II, p. 2207; Topographie von Athen, p. 49, n. 2. (3) De Sanctis, ‘Ar8/5, p. 2.

LINE, τ Ren τι, Caiano τ δα τον ὁ}. ΝΟ» E ψ vi Δ" Ml. " } δ Py ROMEO ἊΝ ORIONE dai CAVI RE Li χὶ

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rebbe uno spazio, il secondo il muro intorno all’acropoli (1). Per giustificare questa presunzione si invoca la ragione pa- leografica, che nel testo d’Erodoto, V 64, si legge I/eZaocyix® nei migliori codici, e /ZeZ@oyizoò nel Marmo Pario per l’ac- cenno all’assedio fatto da Cleomene ad Ippia coi suoi seguaci, mentre, dove viene indubitabilmente nominato il ΠΠ]ελαργικόν, è evidente nella citazione la nozione di spazio (2). Infatti Tucidide (II 17), secondo i migliori codici, 1]|ελαργικόν, alludendo a una regione abitabile.

Se ciò fosse vero, bisognerebbe tornare ad ammettere la stretta affinità etimologica. delle due denominazioni, poichè difficilmente potrebbe essere causale che due parole tanto somiglianti venissero adoperate per indicazioni locali, le quali sarebbero sempre in stretto rapporto; ed è più naturale pen- sare che dal muro il nome fosse passato allo spazio, cui sa- rebbe stato certo vicino, che viceversa. In tal caso si dovrebbe supporre che due forme appartenenti a dialetti diversi si fos- sero differenziate nell’uso, come χορηγός e χοραγός, fissata l’una come accezione di impresario, l’altra di corifeo, e nella forma IleZagyix6v sarebbe quindi necessario ammettere l’ef- fetto dell’infiltrazione d’un altro dialetto, forse quello di Fretria in cui v'è traccia di rotacismo (3). Ma ognuno vede come, data la leggenda che faceva costruire il muro dai Pe- lasgi, difficilmente si potesse pensare alla cicogna: onde ri- mane sempre più probabile che il nome del muro fosse de- rivato dall’uccello, e la somiglianza con //eZ@oyòs desse origine alla leggenda della fabbricazione per opera dei Pe- lasgi. Le etimologie popolari non sono mai troppo esigenti : se il nome proprio Arpî richiamò tanto da vicino Ἄργος, e la forma parallela Argirippa sembrò derivata da Ἄργος

(1) Sam Wide, Pomerio e Pelasgico, in Ausonia, XII, pp. 171-197, spe- cialmente pp. 184-191.

(2) P. 188, n. 2: Hude ha avuto torto di inserire nella sua recente edizione di Oxford la lezione di due manoscritti più recenti I/eZag- yixò, Herod. V 64, invece di Πελασγικῷ (τείχει) dei migliori e più an- tichi manoscritti... ,.

(3) Thumb, Handbuch der griechischen Dialekte, p. 353, $ 811, 14.

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ἵππιον, da poterne fare una fondazione di Diomede (Strab., p. 284), non si vorrà credere che la differenza d'una conso- nante come in //eZagyix6v e Πελασγικόν avrebbe suscitato scrupoli soverchi per fare del primo un’opera dei Pelasgi. Ma non abbiamo bisogno d’esempi per dimostrare la sua azione nel caso nostro. Mirsilo (Dionys., I 28) riteneva che i Tirreni, dopo che ebbero abbandonate le loro sedi, nelle loro peregrinazioni cambiarono il loro nome in quello di Πελαργοί, assomigliandosi agli uccelli così chiamati, e cinsero agli Ateniesi l’acropoli col muro detto Π}ελαργικόν. Chi ri- corda l'equazione di Pelasgi e Tirreni stabilita da Ellanico di Mitilene, non durerebbe fatica a comprendere che questa è stata la base della teoria di Mirsilo, anche se prescindesse dal contesto di Dionisio che la rende evidente. Nella peggiore ipotesi, adunque, Mirsilo avrebbe fondata la sua spiegazione sull’etimologia popolare; ma se ne è stato capace un dotto del terzo secolo, a più forte ragione può averla escogitata un antico logografo.

Inoltre nulla prova che nei migliori manoscritti d’Erodoto a V 64 si trova Πελασγικῷ : ciò dimostra che la lezione più accreditata si può spesso trovare nei codici meno autorevoli, a quel modo che la versione più esatta di un avvenimento storico può essere data da una fonte più recente e meno pre- gevole. Se il Marmo Pario I/eZaoyizoò in accordo con Erodoto, ciò dimostra che l’alterazione può essere antichis- sima: Aristotele (A 7 19), che aveva senza dubbio sott'occhio Erodoto, dice che Cleomene assediò Ippia, avendolo rinchiuso εἰς τὸ καλούμενον Π|ελαργικὸν τεῖχος (1). Gli esempi di confu- sione e di lezione incerta si potrebbero moltiplicare : una cosa è certa che Πελαργικόν è designazione comune del muro e di uno spazio che con questo muro ha certamente relazione, avendo luogo un fenomeno simile a quello per cui in latino fines oltre a confini significa anche territorio. Per quest’ultima

(1) 1. H. Harrison, o. c., pp. 25, 80, mantiene ΤΠ ελασγικῷ in Erodoto. Il riscontro con Aristotele mi pare che basti a far ripudiare questa lezione.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 28

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accezione fanno abbastanza fede il citato passo di Thucyd., II 17, secondo il quale sarebbe stato sacrilego abitarlo, l’epi- grafe CIA IV I 27° (p. 59): τὸν δὲ βασιλέα δρίσαι τὰ ἱερὰ τὰ ἐν to Πελαργικὸι καὶ τὸ λοιπὸν ἐνιδρύεσθαι βομὸς ἐν τοι Πελαργικὸι ἄνευ τὲς βολὲς καὶ τὸ δέμο... per non parlare di luoghi d’autori (1) che da quest’iscrizione ricevono luce, tra cui Strabone, p. 401, il quale dice espressamente che dai Pelasgi ἐκλήϑη μέρος τι τῆς πόλεως Π|ελασγικόν, dove niente guasta che la forma falsa possa esser dovuta proprio a Strabone.

D'altra parte in Aristofane (Aves, v. 833) Pistetero do- manda: τίς δαὶ καϑέξει τῆς πόλεως τὸ Πελαργικόν ; e dopo la risposta di Epops che lo può occupare un uccello d’origine persiana, rampollo di Ares (ἄρεως νεοττός v. 835), Evelpide esclama (vv. 835-836): ᾿᾽Ω γνεοττὲ δέσποτα - ὡς δ᾽ ϑεὸς ἐπιτήδειος οἰκεῖν ἐπὶ πετρῶν. Didimo (schol. ad 1.) illustra le ultime parole dicendo τὸ Πελαργικὸν τεῖχος ἐπὶ πετρῶν κεῖσθαι. La spiegazione di Didimo non è certo stata sugge- rita dalla contemplazione diretta, poichè il Pelargikon non esisteva più, se non frammentariamente; ma non può esservi dubbio che egli interpreti bene l’ ἐπὶ πετρῶν. Addossato alle rupi dell’acropoli poteva benissimo essere un muro di forti- ficazione : interpretando Πελαργικὸν in Aristofane come una zona di terreno, il passo d’Aristofane riesce incomprensibile, poichè non è verisimile che tutto all’intorno, quando c’era la possibilità d’abitarla, questa zona fosse rimasta ingombra di grossi blocchi, prescindendo anche dalla considerazione che all’istinto esegetico di Didimo si presentò spontaneamente l’accezione di rupe e non di pietra staccata per πετρῶν. La questione adunque trattata dal Wide (o. c., p. 190), se nel verso citato d’Aristofane per πόλεως debba intendersi l’acro- poli o la città, in qualunque senso venga risoluta, non pre- giudica nulla la concezione del vocabolo I/eZagyix6v nel si- gnificato di muro ; ed abbiamo così la prova dell’unità di denominazione pel muro e lo spazio.

(1) Vedi i luoghi raccolti nel Jahn-Michaelis, Arx Athenarum a Pau- sania descripta, pp. 79-80.

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Resta a vedere quale fosse l'estensione del Πελαργικόν (1), cioè se cingesse tutta l’acropoli o solo una parte ; e con questa questione naturalmente si connette l’altra se lo spazio intorno all'acropoli chiamato Πελαργικόν la ricingesse come il po- merio girava intorno al Palatino, oppure avesse un’estensione più limitata, presso il nord-ovest dell’arce, dove ancora se ne trova qualche scarsa reliquia. La prima ipotesi si potrebbe in primo luogo sostenere in base al passo d’Erodoto, V 64, che Cleomene assediò i tiranni rinchiusi ἐν τῷ Πελασγικῷ τείχεϊ, poichè si avrebbe qui una figura di sineddoche per indicare l’acropoli. Ma Erodoto ha presente che l’espugna- zione dell’acropoli dipende dalla possibilità di impadronirsi del Pelargico, che i nemici riducendo in loro potere si assi- curavano il più tacile accesso all’acropoli: è d’altra parte chiaro che su questo punto poggiava soprattutto la difesa. Vedremo tra poco come debba venir interpretato il frammento d’Ecateo (Herod., VI 137) che il Pelargico sarebbe un muro condotto intorno all’acropoli. Ora mette conto di rivolgere alquanto la nostra attenzione sul passo di Clidemo (p. 22): καί ἠπέδιζον τὴν ἀκρόπολιν, περιέβαλλον ἐννεάπυλον τὸ Πελαργικὸν, dove ἐννεάπυλον è inteso come un predicato di τὸ IleZagyix6v e viene supplito come complemento di ter- mine τὴν ἀκρόπολιν 0 τῇ ἀκροπόλει. Però il luogo è suscet- tibile d'un’altra interpretazione : circondarono il ΠΠ|ελαργικόν d'un ἐννεάπυλον,. secondo l’analogia del costrutto erodoteo (I 163) τεῖχος περιβαλέσϑαι τὴν πόλιν. Quest'esegesi non tuttavia scevra di difficoltà : se il soggetto da rilevarsi è

DD“

(1) Sam. Wide cerca di rimuovere con l’esempio delle fortezze di Dimini l’obiezione che nove porte avrebbero indebolita la potenzialità difensiva (p. 186), e affaccia l’idea che il numero nove si possa intendere in senso non letterale, di guisa che il Pelasgiton secondo lui avrebbe solo più porte. Quanto al IZeZagy:x6v, che egli distingue dal Πελασγικόν, osserva (p. 182) che era una striscia simile al pomerio libera di costru- zioni fuori delle mura dell’Acropoli ,. Altrove (p. 191) dice: Non sap- piamo quanto era larga la striscia di terreno che si estendeva lungo il piede delle mura dell’Acropoli, e non sappiamo nemmeno se il limite esterno del Pelargikon era costituito da un muro o era solamente desi- gnato da certi cippi,,.

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Πελασγοί, si attribuirebbe ad essi oltre la cinta di mura anche lo spianamento dell’acropoli, che non può esser altro da quello della sommità : e si avrebbe un’amplificazione della tradizione messa in giro da Ecateo (Herod., VI 157). Ciò non sarebbe impossibile; ma ai Pelasgi avrebbe preesistito il nome Πελαργικόν che da esso invece avrebbe preso il nome. Anche questa difficoltà è però superabile: Πελαργικόν sa- rebbe stato adoperato prolepticamente.

Nondimeno supponendo come oggetto della proposizione nel frammento di Clidemo τὴν ἀκρόπολιν si ha la stessa co- struzione con due accusativi pel verbo περιβάλλειν (1); e si può giungere ad attribuire a Clidemo l’opinione che i Pelasgi abbiano circondato l’acropoli di un muro a nove porte. Ma ciò non dimostra che Clidemo fosse nel vero : il muro di cui parla ai suoi tempi non esisteva più, ed egli ha lavorato certo d’induzione. Uno spiraglio di luce ci viene da un luogo di Pausania (I 28): τῇ ἀκροπόλει, πλὴν ὅσον Κίμων @uodé- unoev αὐτῆς Μιλτιάδου, περιβαλεῖν τὸ λοιπὸν λέγεται τοῦ τείχους Π]|ελασγοὺς οἰκήσαντάς ποτε ὑπὸ τὴν ἀκρόπολιν" φασὶ γὰρ ᾿Δργόλαν καὶ ᾿ἵπέρβιον (τοὺς οἰκοδομήσαντας εἴναιν (2), πυνϑανόμενος δὲ οἵτινες ἦσαν οὐδὲν ἄλλο ἐδυνάμην μαϑεῖν

(1) Il De Sanctis (4τϑές, 1, p. 30) osserva: Si suole spiegare zag βαλλον come se si sottintendesse τῇ ἀκροπόλει. Ma con questa spiega- zione la frase apparisce abbastanza singolare, e del resto τὸ IeAagyixòv τεῖχος è un muro, ma τὸ IeAagyixév è un luogo; onde è chiaro che va spiegato “e circondavano il Pelargico di un muro a nove porte ,. Pel co- strutto cfr. Herod. I, 163 περιβαλέσϑαι τεῖχος τὴν πόλιν. Furip., Androm. 110, dove però la lezione non è sicura [Si legge κάρα e κάρᾳ]. Senonchè non veggo perchè, se περιβάλλειν può reggere due accusativi, si debba sottintendere necessariamente τῇ ἀμπροπόλει e non τὴν ἀκρόπολιν. L'el- lissi del nome τεῖχος sarebbe spiegata abbastanza dalla presenza di ἐννεάπυλον. Una ragione per la preferenza dell’esegesi del De Sanctis la troverei piuttosto nel frammento di Polemone, riportato nello scolio sofocleo (ad Oed. Colon., 458), poichè se Polemone potea avere idee esatte sul Pelargico, è ragionevole che le avesse anche Clidemo, più antico di lui.

(2) Il supplemento in Pausania è del Kayser, Zeitschrift fiir Alter- thumwissenschaft, 1898, p. 502, come si trova in Jahn-Michaelis (o. c.,

x

p. 80) e non si può dir certo. Però è almeno approssimativo, anche nel

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Σικελοὺς τὸ ἐξ ἀρχῆς ὄντας εἰς “Axagvaviav (Ὁ) μετοικῆσαι. Sappiamo che Iperbio era un gigante, e questo, insieme con Eurialo, gigante anch’esso, veniva creduto costruttore di fabbriche di mattoni in Atene (Plin., N. H., VII 94). L’opera dei giganti nella costruzione delle mura di Atene non può dirsi documentata, ma è in ogni modo considerevolmente avvalorata dalla notizia (schol. ad Arist. Panath., p. 189, 4) che le Panatenee furono istituite ἐπὶ φόνῳ ‘Aotegiov T'iyav- tos. Infatti senza una parte importante esercitata dai Giganti nelle tradizioni ateniesi non si poteva collegare con la morte di uno di essi una festa di tanta importanza nell’Attica. Ma di ciò abbiamo la conferma monumentale: un vaso a figure rosse del quinto secolo ci rappresenta Atena seguita da un gigante (si legge sopra /yas) che carreggia pietre, e in mezzo ad ambedue sta una verga verticale a scopo di misurazione. Nell’altra parte un tronco d’albero nodoso divide due figure, di cui l’una porta sopra il nome di Φλεγύας.

Ma per qual motivo Pausania dice che secondo informa- zioni da lui assunte questi giganti provenivano dalla Sicilia, essendo passati, prima di venire nell’Attica, in Acarnania? Giacchè io credo intempestive le emendazioni del Curtius Aqzadiav (Rhein. Mus., IV, F. VII, p. 137) e ’Agagvas dello Schubart e Walz (apd. Jahn-Michaelis, /d., p. 80), essendo

caso che siano cadute più di tre parole. Vedi il vaso del Museo del Louvre, riprodotto presso Jane Ellen Harrison, 0. c., p. 22-23, figure 10 e 11. Miss Harrison non ha tratte queste deduzioni. A proposito del luogo citato di Pausania riguardo ad Iperbio ed Argos osserva: É The names leave us in the region of myth, but the tradition that the brother were ‘Pelasgian’ deserves clarer attention ,. Questo era forse il pen- siero di Pausania, ma egli riproduce il risultato dell’eccletismo e pere- quazione di leggende disparate; e i moderni, sotto l’influenza delle notizie di Erodoto e di Clidemo, hanno camminato sulle orme di Pau- sania nell’identificare le fabbricazioni pelasgiche con le ciclopiche. Oltre la Harrison (cfr. o. c., specialmente p. 33) anche il Judeich (Topographie von Athen, pp.107-113) ritiene il Pelargikon il muro cingente tutta l’Acropoli. Il primo, che io mi sappia, a rilevare che l’attribuzione ai giganti della costruzione delle mura intorno all’Acropoli ci costringe a distinguere il Pelargikon, conosciuto come opera dei Pelasgi, da queste, è il Pareti (inedito).

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per me evidente che si tratta di una tappa nella loro venuta dalla Sicilia, e il loro punto d’arrivo dovea essere nell’antica tradizione il colle Σικελία (Paus., VII 11, 12), suggerito dal- l’omonimia di questo con l’isola occidentale. Qui dobbiamo constatare un’assimilazione dei giganti ai Ciclopi, suggerita facilmente dal tratto comune in ambedue questi eroi mitolo- gici, la statura colossale, e favorita dalla circostanza che in altri luoghi della Grecia ai Ciclopi veniva attribuita la co- struzione di mura a grossi blocchi. Secondo una tradizione sappiamo che le mura di Tirinto erano ritenute costruzioni dei Ciclopi, che Preto avrebbe chiamati dalla Licia (1): si- milmente ai Ciclopi si ascriveva la costruzione del περίβολος dell’arce micenea, e la porta dei leoni (Paus., Il 16, 5).

Le mura dell’acropoli furono adunque, secondo la più antica tradizione, costruite dai Giganti, i quali vennero confusi coi Ciclopi. Ciò non poteva ignorare Ecateo, logografo del sesto secolo: molto meno può aver confuso le costruzioni ciclopiche con le costruzioni pelasgiche. Ciò si dimostra in modo peren- torio : l'attribuzione di gigantesche costruzioni ai Pelasgi è un effetto della loro identificazione coi Tirreni, ai quali ven- nero riferite per la paretimologia di τύρσις o τύρρις. Ne fa abbastanza fede Dionigi d’Alicarnasso (I 26) e lo scoliasta di Licofrone (ad v. 717): si ricava indirettamente da Fozio quando dice: IZeZagyix6v: τὸ ὑπὸ τῶν Τυρρηνῶν %ata- σκευασϑὲν τῆς ἀχροπόλεως τεῖχος, dal poeta alessandrino Cal- limaco (apd. schol. ad Aristoph. Aves 832; vedi ancora schol. ad v. 1139), da Esichio: “Πελασγικόν τειχίον οὕτω ἐν °Adnvas καλούμενον Τυρσηνῶν χτισάντων. Ma Ecateo non ha certo conosciuta l'equivalenza dei Pelasgi coi Tirreni, e nemmeno Erodoto : il primo che noi possiamo additare come responsa- bile di questa identificazione, è Ellanico di Mitilene (2).

Segue da queste considerazioni che Ecateo non può aver attribuito ai Pelasgi il muro intorno all’acropoli, che sapeva

(1) Cfr. Strab., pp. 372-378. Anche le mura di Micene si ritenevano opera dei Ciclopi (cfr. Euripid., Iphig. Aul., vv. 156-157 = 150-151). (2) Vedi E. Meyer, Forschungen, I, pp. 13, 22, 25.

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essere stato, secondo la tradizione, fabbricato dai Giganti. Si può obiettare che in tal caso bisognerebbe supporre l’esi- stenza di una duplice cinta di mura, poichè i Pelasgi avreb- bero ottenuto di abitare sotto l’Imetto come μισϑὸν τοῦ τεί- χεος τοῦ περὶ τὴν ἀκρόπολιν (Herod., VI 137); e in luogo fortificato dalla natura come l’acropoli una tal precauzione sarebbe stata superflua. Senonchè l’espressione περὶ τὴν ἀκρό- πολιν non va presa troppo alla lettera, e per giustificarla basta che una parte di essa sia stata circondata da mura condotte in giro.

Tucidide (II 17) per Z/eAagyix6v l’indicazione ὑπὸ τὴν ἀχρόπολιν, ed è poco verisimile che tutto all’intorno lo spazio dell’acropoli fosse disabitato, quando Tucidide stesso afferma che τὸ ὑπ᾽ αὐτὴν πρὸς νότον μάλιστα τετραμμένον fu il ter- ritorio in cui si cominciò ad allargare la città. Il Πελαργικόν adunque, secondo Tucidide, era soltanto una parte di terri- torio che si sviluppava da occidente a nord dell’acropoli col suo muro che gli dette il nome, costruito per rinforzare le fortificazioni dove l’Acropoli era meno difesa. S'aggiunga an- cora che non il solo scopo di accrescere la sicurezza, ma ancor quello di estendere lo spazio disponibile dell’acropoli, possono aver consigliato la costruzione di un forte nel piano, per ga- rantire quella parte di terreno utilizzata per abitazioni e sacrari (1).

Le altre testimonianze d’autori non contraddicono a questa accezione del nome /I/eZagyix6v: anzi qualcuna contribuisce ad avvalorarle. Luciano (Bis accus., 9) dice che Pane τὸ ὑπὸ τῇ ἀκροπόλει σπήλαιον τοῦτο ἀπολαβόμενος οἰκεῖ μικρὸν ὑπὲρ τοῦ Πελασγικοῦ. Ora lo scolio ad Aristoph., Lysîstr., 211, ci dice che l’antro di Pane era presso la Klepsydra, cioè nella parte orientale dell’acropoli presso i Propilei, proprio dove dovea estendersi il Pelargikon, per giustificare l’espres- sione erodotea περὶ τὴν ἀκρόπολιν: e lo scolio a Luciano ad 1. attesta che il Pelasgikon era un τόπος ᾿ϑήνῃσιν ἀπὸ

(1) Augusto Kòster, Das Pelargikon, pp. 16-17, 27. Il Kòster im- portanza solo a quest’ultimo scopo.

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SARE

Πελασγῶν ἐν αὐτῷ οἰκησάντων. γράφεται καὶ διὰ τοῦ ο. Luciano ancora (Piscator, 42) contrappone: Παρὰ τὸ Ile- λαοσγικὸν ἄλλοι καὶ κατὰ τὸ ᾿Ασκληπιεῖον ἕτεροι... L'antitesi ha senso in un caso soltanto : che il Π7Πελαργικόν non si esten- desse fino all’Asclepieo, poichè questo era presso il teatro di Dioniso, dunque proprio in direzione del muro o dello spazio del Pelargikon, se questo avesse girato intorno all’acropoli. S’aggiunga che l’Heroon di Esico, secondo la testimonianza di Polemone presso lo scoliasta di Sofocle (ad Ded. Col., v. 498), si trovava παρὰ τὸ KvA@verov ἐκτὸς τῶν ἐννέα πυλῶν. Il Wide (p. 186) osserva che questo passo non può avere impor- tanza decisiva per ammettere che il Pelargikon dovesse essere situato sul declivio ovest dell’Acropoli, perchè, se anche il Kyloneion fosse situato tra l’Areopago e l’Acropoli, l’espres- sione ἐχτὸς τῶν ἐννέα πυλῶν potrebbe servire come deter- minazione di luogo (= ἐχτὸς τοῦ Π͵|ελαργικοῦ) anche se il Pelargikon si estendesse tutt'intorno alla rupe dell’Acropoli ,. Ora fino al significato convenzionale di ἐννεάπυλον per Is- λαργικόν si può arrivare: ma a quello di αἱ ἐννέα πύλαι per muro a nove porte non possiamo indurci a crederlo, poichè alla mente anche di chi non vedeva le fortificazioni si affacciava la rappresentazione di queste porte come sepa- rate da lunghi intervalli. Del resto il Wide (/b.), conseguente alle sue idee, ritiene che non il Pelargikon, ma il Pelasgikon si debba riconoscere in questa indicazione del periegeta. Pertanto se anche il passo di Clidemo dovesse interpre- tarsi: “I Pelasgi ricinsero l’acropoli del Pelarigikon con mura a nove porte ,, bisognerebbe supporre che l’attidografo ha fatto evidente confusione tra il Pelargikon e il muro di cinta dell’acropoli, ciò che non farebbe meraviglia, per le ragioni che abbiamo avuto sopra occasione di accennare. Nella tra- dizione si poteva essere conservata memoria della circostanza che il IZeRagyixév era ἐννεάπυλον : e l’attidografo, ammessa l'identità delle mura perimetrali dell’acropoli e del Pelargikon, riteneva logicamente che la cerchia di fortificazioni avesse nove porte di comunicazione con l'esterno. Si ritiene che a rendere più salda l’opera di difesa, il Pelargikon, inteso come fortificazione aggiunta nella parte più vulnerabile dell’acro-

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poli, fosse composto di tre giri concentrici, ciascuno con tre porte : l’ipotesi non è inverisimile, ma è difficile poterne dare una dimostrazione definitiva. Parla senza dubbio in favore di esso l'analogia di Dipylon. Solo notiamo che nel Medio Evo, dove approssimativamente dovea trovarsi l’antico Pelargico, fu costruita una fortezza (1). L’analogia di situazione è un argomento in favore per questa struttura del Pelargikon, poichè identità di circostanze può aver suggerito identici si- stemi di difesa; ma è pur vero che lo spazio compreso tra le falde dell’Acropoli e la fortificazione verrebbe ad essere considerevolmente stremato.

Qualunque opinione si porti su queste speciali questioni archeologiche, non c'è dubbio che con questa concezione del Pelargikon viene un poco turbato quel parallelismo stabilito da Sam Wide tra esso e il pomerio di Roma. Questo pro- fondo studioso dei culti ellenici ha richiamato l’attenzione (Auson., ib., p. 179) su certe usanze slave che presentano riscontri impressionanti con la cerimonia dell’aratura intorno all’arce del Palatino. Gli abitanti del villaggio Kamenka cercavano nel seguente modo di tenere lontana dalla città la peste bovina, la quale faceva strage tutto intorno ad essa ; essi sceglievano sette vergini, un giovanetto innocente e due pie donne anziane. Essi andavano verso la mezzanotte tra il 15 e il 16 giugno 1885 in processione intorno alla città, in testa le due vecchie donne con immagini dei santi, poi le sette vergini le quali tiravano un aratro, diretto da detti giovanetti [?]. Questa usanza è molto conosciuta tra i Russi e anche tra Lituani e Sloveni, ed ha per iscopo di scongiu- rare la peste, il colèra, le malattie del bestiame e cose si- mili,. Quindi il Wide (/0.) ricorda ancora il così detto Opa- lisvanije, Koravaja Smertis Morte di vacca ,, praticato negli stati balcanici e nella Dalmazia: Dodici giovinetti nudi e vergini di irreprensibile morale devono la notte tra la domenica

e il lunedì dopo la luna nuova, circa la mezzanotte, lasciarsi.

attaccare a un aratro, e zitti, senza proferir parola, senza

(1) J. E. Harrison, o. c., p. 32.

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guardarsi o toccarsi cupidamente, arare sette volte intorno alla città nello stesso solco ,.

Con questi costumi ha somiglianza l’aratura intorno alla città, di cui segnava il limite: più non sappiamo, se non che i Luperci correvano nudi con una cintura di pelli intorno al pomerio. Questa cerimonia può essere un frammento di un patrimonio di superstizioni, la cui fioritura potè un tempo essere tanto rigogliosa come presso i Russi e gli Slavi dei Balcani. D'altra parte è noto che i Romani desunsero questa pratica dagli Etruschi, spogliandola certamente di tutti i con- cetti estranei alle loro credenze religiose e riducendola a un semplice significato politico, la limitazione dell’urbs. Ma sic- come le più antiche città non sono state fondate ex novo, è quasi certo che la limitazione in origine concernesse appros- simativamente il perimetro della città, non indicasse 1 confini precisi entro i quali la città dovesse sorgere ; e così l'analogia tra le usanze slave e le usanze romane appare ancora maggiore.

Ma se il “ελαργικόν non era la zona perimetrale dell’acro- poli, bensì un solo punto, il Πελαργικόν non può essere assi- milato al pomerio. Senza dubbio, essendosi perduta la co- scienza del valore della pratica, ed essendo stata questa cristallizzata in un rito formale, nulla eviterebbe di ammet- tere che anche lo spazio in cui questo si compieva potesse essere circoscritto per esigenze locali. Ma per giustificare l'analogia, non vi è altra prova che la testimonianza di Plu- tarco (Praec. coniugal., 42 = Moral., p. 144 B): ᾿4ϑηναῖοι τρεῖς ἀρότους ἱεροὺς ἄγουσι, πρῶτον ἐπὶ Σκίρῳ, τοῦ παλαιο- τάτου τῶν σπόρων ὑπόμνημα, δεύτερον ἐν τῇ “Pagia, τρίτον ὑπὸ πόλιν τὸν καλούμενον βουζύγιον. Il Robert (Hermes, XX 278) congetturò che queste sacre arature praticate in luoghi diversi avessero questa ragione e quest’origine. A Raria compieva l’aratura sacra d’Eleusi quando ancora non era riunita ad Atene, sotto l’acropoli l’aratura sacra d’Atene: nella zona di Sciro sarebbe stata istituita al tempo dell’ag- gregamento di Eleusi ad Atene quasi per costituire un’aratura sacra comune. Il significato sarebbe sempre quello d'una festa agraria.

Se questa spiegazione regga, non saprei decidere: certa-

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mente non si vede perchè si sarebbe sentito il bisogno di un’aratura comune per consacrare la solennità praticata in ambedue i centri, quando la fusione dei culti e dei riti non poteva trovare alcun ostacolo, e ciascuno poteva continuare a vivere da sè. Le vicende dei culti sono ben note: quando uno non sopraffà l’altro, continuano ambedue la propria esi- stenza indipendente: quando uno dei due soverchia, l’altro o continua la sua vita locale, o è subordinato all’altro. Ad Agra, una borgata d’Atene, venivan celebrati i misteri nel mese di Antesterione in onore di Demetra e Kora : nel mese di Boedromione venivano celebrati i misteri d’Eleusi. Questi riuscirono a soverchiare i primi, che furono ritenuti una προ- κάϑαρσις καὶ προάγνευσις τῶν μεγάλων (1). Lo stesso sarebbe avvenuto dell’aratura sacra di Raria e di quella ai piedi del- l’acropoli, se una delle due si fosse affermata a pregiudizio dell’altra.

Ma poco calzanti mi sembrano le obiezioni del Wide (10., 191) che al significato agrario dell’aratura sotto l’acropoli si op- pone il fatto che il luogo roccioso sarebbe stato poco adatto per un’aratura a scopo di coltivazione. Primieramente va osservato che una cerimonia trascende il fine utilitario : tanto varrebbe osservare che la solennità augurale della costruzione d’un edificio, in cui un sindaco mette la prima cucchiaiata di calce col cucchiaio d’argento, deve avere un significato diverso dalla costruzione, perchè i sindaci non fabbricano di propria mano, e il cucchiaio d’argento non si adopera dai muratori. Inoltre presso i Propilei vi era il tempio di Demetra Cloe (2), e quindi si spiega come la cerimonia, che ad esso era probabilmente pertinente (3), si compiesse in luogo non lontano dal tempio per ragioni di comodità. mi sembre- rebbe valida l’obiezione che la fondazione del tempio fosse stata determinata dal luogo della cerimonia: il tempio di

(1) Vedi Mommsen, Feste der Stadt Athen im Alterthum, p. 405 sg.; Schol. ad Aristoph., Plut., 845.

(2) Pausan., I, 22, 3, menziona il tempio di Demetra Cloe, e subito dopo parla dell’ingresso dell’Acropoli e descrive brevemente i Propilei.

(3) Otto Kern, Ath. Mitth., XVII, p. 198.

fate

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Demetra Cloe, se anche rifatto posteriormente, può datare da un tempo remotissimo in cui la città era circoscritta al- l’acropoli, dove sorsero tanti altri tempi, che nella posizione della rocca trovavano la più efficace difesa quando l’Attica non era ancora tutta territorio ateniese.

Finalmente non si può ritener valida l'osservazione del Wide (12.}): Poi per quanto io sappia, non fu conforme al concetto antico religioso, almeno non in Grecia, il celebrare feste commemorative per l'introduzione dell’agricoltura ,, e prosegue notando che nessuna festa commemorativa esisteva riguardo all’inizio della coltivazione dell’uva e dell’ulivo. Evidentemente feste di questo genere non potevano esistere, per la semplice ragione che il solennizzare avvenimenti me- morabili è già indizio di riflessione storica abbastanza pro- gredita, che era ancora estranea alle mentalità degli uomini che i vantaggi e i beneficì di queste piante cominciavano a conoscere. È certo ancora che molte feste sono state credute commemorative, in seguito a interpretazioni eziologiche come i Κυβερνήσια, la cui istituzione fu attribuita a Teseo (Plut., Thes., 17), mentre i nomi di Nausitoo come pilota e di Feace come πρωρεύς ci rivelano abbastanza il significato ctonico della cerimonia. sfugge il significato profondamente reli- gioso dell’incoronazione del χηρύκειον nelle oscoforie (Plut., Ib., 27), in cui si compieva la cerimonia dell’ εἰρεσιώνη, che aveva luogo anche nelle Panatenee (Schol. ad Clem. Alex., p. 9, apd. Mommsen, Feste d. Stadt Athen, p. 57, n. 6); mentre gli antichi (Plut. 10.) spiegavano l’uso come una manifesta- zione di dolore per l’annunciata morte di Egeo. Ma questo non esclude l’esistenza in Grecia e altrove di feste agrarie, nelle cui formazioni nessuno pensa di impugnare un sustrato notevole di superstizioni (1). Il ritorno della lussureggiante vegetazione dopo il torpore della stagione rigida veniva at- tribuito alla potenza di esseri superiori, ai quali si tributa- vano onori per propiziarseli, e la celebrazione della cerimonia

(1) Vedi soprattutto K. Th. Preuss, in Archiv fiir Religionswissenschaft, XIV (1911), p. 298.

ab

Lita pa

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venne a ripetersi a determinati periodi, in cui avevano certo luogo riti lustrativi ed espiatorî, per la prosperità delle messi e l'abbondanza dei raccolti. Si spiega in tal modo che Buzigo, l’eponimo dei Buzigi, si chiamasse anche Epimenide (Aristot. apd. Serv. Verg., Georg., I 19; Hesych., Βουζύγης ; schol. ad X 483); questo nome lo conosciamo per la figura ieratica leggendaria del noto sacerdote cretese, che era certo una persona diversa, ma che nell’omonimia lascia scorgere una identità di attributi. Pertanto non si ha nulla in contrario a questa osservazione che più rientriamo nella civiltà pri- mitiva, più ci persuadiamo che ciò che gli uomini primitivi chiamarono festa’ non ha nessuna rassomiglianza con il giorno festivo moderno, con quello antico, ma era un lavoro pratico improntato di pena grave e di severità amara ,, le quali sparivano per forza di consuetudine e per l’oscu- ramento del significato primitivo nella civiltà più avanzata. Si trattava di scongiurare con tutta la forza i nemici d’ogni specie, 1 quali minacciavano la società, la gente, il suo be- stiame e le frutta della terra ,. Ma da ciò non si può argo- mentare che siccome queste arature (quelle ricordate nel citato luogo di Plutarco) non sembrano aver nessuna relazione con l'introduzione dell’agricoltura, si può supporre con abba- stanza grande probabilità che esse avevano lo stesso signi- ficato che il solco dell’aratro sotto l’arce del Palatino, come le arature intorno ai villaggi slavi e germanici ,. Infatti, se l’aratura del Βουζύγιον ha relazione con Demetra Cloe, l’e- piteto di quest'ultima mostra chiaramente come la divinità si riconnetta con la vegetazione. E con la vegetazione hanno stretto rapporto tutte le feste primaverili, come quella del ritorno di Apollo dagli Iperborei o dalla Licia (1) e gli epi- teti di molte divinità, come ζείδωρος, ἠπιόδωρος, εὔκαρπος, δωρῖτις di Afrodite (2).

I sacrifici che avevano luogo per l’aratura nelle feste Eleu- sinie sono tra i più efficaci per mostrare l’inerenza di certe

(1) Preller-Robert, I, p. 245. (2) 10., p. 359.

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feste all'agricoltura. I προήροσια hanno nel nome stesso la loro spiegazione : la stagione in cui si compievano ne illu- strano maggiormente lo scopo. Plutarco (De Iside et Osiride, 69 = Mor., p. 378 E) sembra porli in Pianepsione (ottobre- novembre), mentre l’altro nome di Προαρχτούρια renderebbe inclini ad assegnar loro il Boedromione (settembre-ottobre) (Mommsen, Feste etc., p. 194). Così è definita la cerimonia presso una tarda fonte (Etym. Magn.) προηροσία. ὄνομα dv- σίας ὑπὲρ τῶν καρπῶν γενομένης, 6 la concordanza con la testimonianza d’Euripide (Suppl. 28) mostra che la fonte era buona. Secondo la testimonianza dello scoliasta d’Aristofane (ad Equites, 729), questo sacrificio fu istituito per consiglio di Apollo Pitio per far cessare, secondo una versione, la fame, secondo un’altra, la peste. Ciò prova. che il sacrificio aveva una ragione di scongiuro; ma ciò non ha bisogno di essere dimostrato, perchè ai sacrifici fatti agli Dei, malgrado certe nuove teorie della scuola antropologica, non si è riuscito a togliere lo scopo propiziatorio.

Nell’aratura si potrà vedere un significato magico e apo- tropaico; ma questo significato potè ad essa derivare dopo che veniva praticata a vantaggio dell'agricoltura. L'uomo primitivo, che non conosceva il motivo perchè la terra mossa fosse più in grado di accogliere e fecondare la semente, at- tribuì l’effetto a un potere magico e lustrale inerente all’a- zione dell’aratro; poscia con quella logica inesorabile che talvolta è propria delle concezioni infantili, si vide nel ma- neggio dell’aratro un mezzo di scongiurare qualunque specie d’insidie alla prosperità di tutte le conquiste del lavoro umano. Onde si comprende come si tracciasse il solco intorno all’arce del Palatino, estendendo un’usanza che aveva avuto origine dall’agricoltura. Se il Pelargikon fosse stata una zona in giro intorno all’acropoli d’Atene, si potrebbe considerare l’aratura nel Pelargikon posto che Plutarco (]. 6.) con èrò τὴν πόλιν voglia indicare proprio il Pelargikon come un riscontro sorprendente con l’aratura nel pomerio di Roma. Ma poichè il Πελαργικόν non è una zona di terreno intorno all’acropoli, viene a mancare il principale punto d’appoggio alla teoria. Oltracciò la relazione stretta che si può presumere tra l’at-

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tività dei Buzigi e Demetra Cloe, che aveva un tempio non lungi dai Propilei (Paus., I 22, 3) (1), tende più che mai ad avvicinare la cerimonia dell’aratura a una festa agraria. Pertanto la teoria di Sam Wide riguardo alla cerimonia del- l’aratura intorno al pomerio può essere giusta: almeno è molto suggestiva per i raffronti notevoli instituiti tra l’usanza romana e quella di molti paesi slavi. Ma il dotto autore non è proposto il problema se l’origine stessa dell’aratura nel pomerio non si traesse dall’agricoltura, e quindi il costume ateniese non rispecchiasse uno stadio più arcaico del romano. In ogni modo la sua applicazione è almeno prematura, spe- cialmente perchè, da quanto si può ricavare intorno al Pe- largikon dalle fonti superstiti, esso non ha nulla di comune col pomerio romano.

Pisa, novembre 1914.

VINCENZO COSTANZI.

(1) Vedi i luoghi raccolti in Jahn-Michaelis, o. c., p. 41, tra i quali notevole Aristid., XXXVII 16, e lo scolio di Eschine, II 78, in cui Buzige, l’eponimo dei Buzigi, è rappresentato come quello che insegnò l'agricoltura agli Ateniesi, e si sarebbe chiamato Epimenide, detto da Suida υἱὸς βλάστας. Questi frammenti di antiche tradizioni mostrano quanto fosse remoto il significato agrario di certi culti.

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LA PRONUNCIA DEL LATINO AD OSSIRINCO NEL SECOLO V

Anche nell’antichità l’accentuazione delle parole latine rie- sciva difficile agli stranieri, non meno che, ai giorni nostri, ai Tedeschi, agli Inglesi o ai Francesi. Gli sforzi, che si fecero nelle scuole germaniche per ottenere dai discenti una pronuncia meno lontana da quella antica, non furono coronati da suc- cesso nemmeno mediocre. la distinzione dell’accento cir- conflesso dall’acuto, distinzione molto probabilmente inammis- sibile (1), la pronuncia prosodica, consistente nel rendere evidente la differenza tra sillabe lunghe e brevi, l’accen- tuazione musicale (2), per cui la sillaba con l’accento dovrebbe essere cantata sur una nota più alta, hanno potuto essere introdotti nell’uso comune. Nessuno ignora che la difficoltà di accentuare correttamente le parole greche da parte di po- poli in cui era penetrata la coltura ellenica, può ritenersi come la causa principale della introduzione degli accenti nei testi manoscritti e specialmente in quelli che non erano in

(1) Che l’accento circonflesso non esistesse in latino, hanno dimostrato, con dovizia d'argomenti, il Langen, De gramm. Lat. praeceptis quae ad accentum spectant, p. 5 sgg., e lo Schòll, De accentu linguae Latinae (Acta soc. philol. Lipsiensis, VI [1876]), p. 33 sgg., seguiti dal Lindsay, Die latein. Sprache, p. 176 sg., e dallo Stolz, Latein. Grammatik4, p. 162.

(2) L'’accentuazione musicale logica, se si potesse imitare, per il greco classico, non converrebbe al latino, se questo avesse avuto un accento d’intensità. Su tale questione, intorno a cui le opinioni dei dotti riman- gono discordi, cfr., oltre alle opere citate dallo Stolz Lateinische Gram- matik*, p. 159, il libro di J. Vendryes, Recherches sur l’histoire et les effets de l'intensité initiale en latin, p.13 sgg., e il dottissimo articolo dello Skutsch Der lateinische Accent (Glotta, IV [1913]), p. 187 sgg.

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dialetto attico. Nei papiri, che da una cinquantina di anni ci vengono restituiti dall'Egitto e rappresentano i manoscritti più antichi che si abbiano, l’espressione grafica della προσῳδία ricorre in modo sporadico ed intermittente, se si eccettua qualche testo come, per esempio, il famoso frammento del Παρϑένειον di Alemano studiato dal Blass; e bisogna giun- gere al settimo secolo dell'era nostra per trovare un sistema di accentuazione regolato da un principio costante. Era natu- rale che i grammatici romani, così ligi alle teorie dei confra- telli greci (1), pensassero di servirsi di un metodo che, in modo razionale, facilitasse la lettura del latino nei luoghi in cui non era la lingua comunemente parlata e presentava scogli gravi ai discenti. Pompeo, fiorito nel quinto secolo, nel suo Commentum artis Donati, p. 127, 1 K., suggerendo certa pra- tica curiosa, a cui accennava pure Servio, scriveva: quo modo invenimus ipsum accentum? et hoc traditum est. sunt ple- rique qui naturaliter non habent acutas aures ad capiendos hos accentus, et inducitur hac arte. finge tibi quasi vocem clamantis ad longe aliquem positum. ut puta finge tibi aliquem illo loco contra stare et clama ad ipsum. cum coeperis clamare, natu- ralis ratio exigit ut unam syllabam plus dicas a reliquis illius verbi; et quam wvideris plus sonare a ceteris, ipsa habet ac- centum.

Anche gli Ossirinchiti del secolo V sembra non avessero sempre acutas aures ad capiendos accentus, come risulta da un frammento di vocabolario latino-greco dell’Eneide IV, 661 sgg., pubblicato in Oxyrh. Pap. VIII, n. 1099, ed in un frammento di pagina di libro, edito nei PSI I, n. 21, che contiene i versi 66-68 e 99-102 pure del libro IV.

Il vocabolario dell’Eneide, risalente, secondo il Hunt, al se- colo V, è stato confrontato ad una di quelle ‘Schiilerpripa- rationen’, di cui non mancano altri esempi nella antichità classica (2), che sono in uso specialmente in Germania ed in

(1) Cfr. Schéòll, op. cit., p. 3 sgg.

(2) Cfr. p. e. i testi 29 e 50 del bellissimo libretto di Erich Ziebarth, Aus der antiken Schule. Sammlung griechischer Texte auf Papyrus, Holz- tafeln, Ostraka.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 29

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Austria e furono timidamente introdotte, ma con poco suc- cesso, in Francia ed in Italia. La soserizione, ornata di fregi (1. 58 sg. eapl. [lib. IV |, incipit lib. V|), e i caratteri hanno indotto il Kérte, Archiv fiir Papyrusforschung, VI, (1913), p. 259, a supporre non si tratti di un quaderno di scolaro diligente, ma di una ‘Eselsbriicke’ messa in vendita ad uso dei giovanetti che dovevano leggere a scuola l’Eneide. Tuttavia gli sbagli grossolani, sia nel latino (v. 665 dit, αὖ alta invece di it, ad alta, 667 ululato invece di ululatu, 695 ne- xaeg(ue) invece di nerosque, 696 peribit invece di peribat, 702 huic invece di hunc, 704 sequat invece di secat), sia nel greco (v. 659 moriemur, ἀποϑάνωμεν, 678 [sprevisti], [κα]ταφρόνησον, e via dicendo), ed il disordine nella citazione delle parole mi spin- gono a credere si tratti piuttosto di un saggio di scolaro. Ciò che tuttavia offre maggior interesse è l’accentuazione delle parole : recto 1. 6: moriamur, 8 concussam, 9 laméntis, 10 ulu- lato, 11 inmissis; verso 1. 37 laevdvit, 38 revoluta, 39 quaestvit, 41 difficilis, 45 dartus mérita, 46 peribit, 47 néndum, 48 flavum, 49 Prosérpina, 51 damndverat, 52 Orco, ὅ4 dévolat, 56 séquat. I medesimi segni s'incontrano nel frammento citato dei PSI:

a) verso, vv. 66-68

quid delubra iuujant est méllis fiamma medullas interea et tacitu|m utuit sub péctore utilnus uritur infelivx Dido] totique u|aga]tur

b) recto, vv. 99-102

quin] pétius pdcem aetéernam pactos|que hymenaeos exerce|mus hdbes tota quét ménte peltisti

ardet ama|ns Dido traxitque per ossa [furorem communem h\unc e|rgo populum pla|ribusque regamus.

Tanto nel primo come nel secondo testo, noi c’incontriamo in quei segni in uso tra gli antichi, secondo le concordi testi- monianze dei grammatici. Donato, per esempio, p. 371, 31 K., scrive: Acutus accentus est nota per obliguum ascendens in

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dexteram partem‘', gravis nota a summo in dexteram partem de- scendens ‘, circumflexus nota de acuto et gravi facta >, longus

linea a sinistra in dexteram partem aequaliter ducta —, brevis virgula similiter iacens, sed panda et contractior ὦ, hyphen virgula subiecta versui..... (1).

Accentus è inutile ripeterlo è traduzione letterale

di προσῳδία; ma, per una di quelle confusioni frequenti tra il segno e la cosa significata, cotesto termine fu esteso dai grammatici greci e latini a tutti i segni accessori della scrit- tura, all’apostrofe, agli spiriti, alle note di quantità, e via dicendo. Dai grammatici latini gli accenti furono specialmente adoperati per uso scolastico, che è cosa intuitiva la quale tuttavia viene apertamente dichiarata nel De fig. ace. în Don. (An. Helv., p.229, 30 ΕΗ}: In istis igitur verbis, ne erret puer putando duas esse partes, subtus ponitur hyphen coniungens duo in unum.

Nei nostri testi troviamo due segni soltanto: l’accentus acutus e l’accentus longus.

Della mancanza dell’accento grave, niuna meraviglia. Se molti grammatici, che non fanno che riprodurre, talora senza discernimento, le dottrine greche, ne ammettono l’uso, altri, che guardano un po’ più alla realtà delle cose, ne negano l’utilità. Così Sergio, de acc., p. 482, 14 K., scrive: his ita se habentibus sciendum est quod acutus et gravis et circumflexus soli sunt qui ..... naturalem unius cuiusque sermonis in vocem nostrae elationis servent tenorem. nam ipsi arsin thesinque mo- derantur, quamquam sciendum est quod in usu non sit hodierno gravis accentus: ed analogamente Servio comm. în Don., p. 426, 12 K. gravis accentus in Latino sermone paene usum non habet.

E tanto meno vi è traccia di accento circonflesso, intorno a cui sono state dibattute spinose questioni. Ma non è da

(1) Con Donato si accordano il trattato De fig. ace. in Don. (An. Helv., p. 229, 19 H.), Diomede p. 434, 1 K., Sergio de ace. p. 482, 9 K., Pompeo p. 132, 1 K., Cledonio p. 33, 81 K., Dositeo p. 10, 5 K., Vittorino de ace. gr. p. 193, 21 K., Marziano Capella III p. 68, 9 Eyss., Prisciano I 47 p. 35, 24 H., Prisciano de ace. 5-7, p. 520, 3 K., Isidoro etym. 1, 19, 1-11. Varrone, presso Sergio de acc. 532, 16 K., non ricorda l’accentus longus.

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tacere che, se l’accento latino, come in generale si crede, era caratterizzato essenzialmente dall’intensità, la distin- zione tra accento acuto e accento circonflesso, presa in im- prestito dal greco, non poteva sussistere e costituiva, come osserva lo Stolz (1), semplicemente ‘eine gelehrte Fiktion der lateinischen Grammatiker ᾿.

Gli accenti erano adunque usati nei nostri testi, come in quelli greci, per segnare la sillaba su cui la voce si doveva fermare, senza alcuna preoccupazione degli ictus del verso. Le parole sono accentuate frequentemente, ma non secondo una norma costante, nel vocabolario, e con cura maggiore nei pochi versi frammentari dell’Eneide, ove l'accento è dimen- ticato solo in ossa (v. 101).

La mancanza di una regola fissa per gli accenti e la in- solita ricchezza di segni si può spiegare, supponendo che en- trambi i testi appartenessero a scolari che, mentre il maestro leggeva o spiegava, accentuavano le parole la cui pronuncia riesciva loro difficile.

Anche vuol essere osservato il segno della lunga che tro- viamo nel vocabolario dell’Eneide a l. 6 moriemur, e nel fram- mento fiorentino ai vv. 66 ast, 99 pactos[que], 100 tota. A questo riguardo si affacciano due ipotesi: o il segno della lunga ser- viva ad indicare la quantità, ove questa poteva sembrare incerta, oppure era un richiamo alla legge della penultima, fondamentale per la pronuncia latina e ben nota ai gramma- tici (2). Ma questa seconda supposizione è resa improbabile, oltre che dal segno della lunga su est e dall’evidente inu- | tilità dell'uso promiscuo dell’accentus acutus e dell’accentus longus, specialmente dal confronto con i papiri di Bacchilide (3) hi e di Eroda (4), ove l’indicazione non infrequente della quan- tità ricorre talora su una sillaba, il cui valore potrebbe |

(1) Op. cit., p. 162.

(2) Cfr. Lindsay, op. cit., p. 186.

(3) Cfr. Blass, Bacchylidis carmina*, p. 1x sgg. DI

(4) Cfr. Meister, Die Mimiamben des Herodas, p. 768 sgg.; Nairn, The mimes of Herodas, p. xLvi sgg.; PW RE., VIII, 1, col. 1082 sgg.

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riescire incerto, tal altra in luoghi, ove non sarebbe affatto Ἔν. necessaria (1). i I maestri dei giovani di Ossirinco pretendevano adunque ;

non solo la precisa pronuncia del latino, ma non volevano ἫΝ sfuggisse agli alunni il contrasto tra brevi e lunghe, che è AE base della versificazione classica : principio questo che non. CRI rimase mai ignorato ai dotti, anche nel tempo in cui il sen- ‘ER timento naturale della quantità era scomparso. È

Massimo LENCHANTIN DE GUBERNATIS. Co

(1) A partire dal I secolo a. C., i lapicidi usavano, per indicare la lunga, gli apici, incorrendo talora in errore. Analogamente, in un fram- mento storico dei papiri di Ossirinco, I, n. 30, trovasi aliénas, spectarent. ᾿ ὧν

Nei mss. in capitale il segno in forma di accento acuto è adoperato forse per designare una sillaba lunga. Il ms. M di Virgilio ha spesso un accento in special modo sui monosillabi, che è probabilmente un i segno di separazione (cfr. Georg., II, 244 AQVAÉLVCTABITVR, che in- "Ae duce a distinguere aquo eluc- e non aquae luct- ; Aen., X, 628 SIQVAE = ì δὴ si, quae). Se

Ma ciò che per noi ha maggior peso, è il fatto che in certi mss. non mancano traccie sporadiche di accenti propriamente detti, a guisa di p quelli osservati nei papiri sopra studiati, con lo scopo evidente di indi- ἌΝ care la pronuncia di determinate parole: vedi Caes., ὃ. G., II, 34-35 N. uénetos, osismos, curiosdlitas, inita presso Chatelain, Paléographie des "pn classiques latins, tavv. XLVI e L, rispettivamente del secolo IX e XI (cfr. Havet, Manuel de critique verbale, $$ 801, 802).

- 454

SIGNIFICATO TECNICO ED USO DELLA PAROLA LIBER ,

IN TALUNI SCRITTORI DELL'ETÀ IMPERIALE

Secondo Teodoro Birt, che con profonda e geniale erudizione ha sviscerato tutto il vasto problema del libro greco-romano (1), il liber , degli antichi non indica unità di contenuto, ma esclusivamente e sempre unità di spazio. Il significato di partizione astratta, che noi oggi attri- buiamo al libro, ci venne, secondo lui, dal medioevo, quando alla mil-. lenaria abitudine dei rotoli si sostituì la egualmente millenaria abitu- dine dei fascicoli cuciti, perchè in antico, dice lui, tale significato astratto la parola liber, non l’aveva, ma si mostrava equivalente al moderno volume, corrispondendo cioè soltanto ad una partizione di spazio (2). La giustificazione di questa sua ipotesi egli la trova nella etimologia della parola, che designa pei greci la materia dell’albero di papiro e pei romani equivale a corteccia d’albero, e così ragiona: se il termine liber , corrispondesse ad una sezione di un’opera, se avesse insomma il valore di una partizione astratta, non si capirebbe come mai abbia ricevuto il nome dalla materia su cui si scrive (8), ed una siffatta ragione gli par tanto salda che alla distanza di venticinque anni, in un nuovo libro in cui cerca di combattere le varie obbiezioni che gli furono mosse, egli la ripete con la stessa convinzione di verità,

(1) Das antike Buchwesen, Berlino, 1882.

(2) Das ant. Buch., pag. 12.

(3) Op. cit., pag. 13: wire dies ‘Buch’ nichts anderes als der Abschnitt, das Kapitel eines Werkes gewesen, so wiirde unbegreiflich bleiben, dass es seinen Namen von einem Schreibstoft empfangen hat. Bei den Rémern vertritt liber den griechischen Terminus. Auch liber ist kein Abstraktum, es bedeutet wiederum ein Material, freilich eigen- tlich nur den Baumbast ... ,.

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rimanendo ben s'intende sempre fermo nella sua opinione (1). Alla quale anzi in questi ultimi tempi, per tacere dei suoi scolari (2), pei quali può servire di giustificazione la riverenza e l’affetto verso l’insigne maestro, s’accostò anche, meno rigidamente però, lo Schubart, che pone a fondamento dell’opera sua, oltrechè l’esame diretto della collezione dei papiri di Berlino, anche le opere magistrali del Birt stesso, del Dziatzko e del Haenny (3). Ed una tale questione indubbiamente al Birt sembra risolta, perchè nel suo ultimo libro (4), nel quale ci pre- senta convenientemente riassunta ed in qualche parte rinnovata o mo- dificata la materia delle sue due grandiose opere citate, pur non insi- stendovi più di proposito, ci dice però ancora chiaramente che “die Rolle ist ein festes Raummass, (5), che la divisione delle opere in libri avveniva solo perchè era incomodo leggere in libri troppo lunghi ed infine, tanto per armonizzare la realtà dei fatti con la sua teoria, ammette che gli autori costretti a dividere le loro opere, pro- curavano di arrotondare il più che potevano il contenuto di ogni libro (6).

A noi però la ragione etimologica non basta, perchè se anche l’eti- mologia della parola liber ,, tutt'altro che sicura, ci permette di con-

.sentire nella teoria del Birt quanto alla origine di liber ,, è molto

probabile che ben presto per facile e rapida evoluzione di significato, dal concetto primitivo di unità materiale si sia passato a quello più lato di unità ideale ed astratta, tanto più che gli esempi di siffatti trapassi son tutt’altro che rari; e, del resto, come mai questo termine avrebbe potuto conservarsi con un senso puramente materiale, quando alla corteccia d’albero si sostituì il papiro o meglio il rotolo di papiro?

(1) Die Buchrolle in der Kunst. Lipsia, 1907, pagg. 22-23: © Der Ròomer dachte bei dem Worte liber an den Baumbast, dem das Material der Papiruscharta sehr ahnlich sah.... Auch das Wort liber ist somit durchaus nicht abstrakt ,.

(2) E. Sprockhoff, De libri voluminis βέβλου sive βιβλέου vocabulorum apud Gellium Ciceronem Athenaeum usurpatione. Marpurgi Kattorum, 1908. Robertus Friderici, De librorum antiquorum capitum divisione atque summartis. Marpurgi Kattorum, 1911.

(3) Das Buch bei den Griechen und Ròmern, Berlino, 1907, pag. 36: Das jede Rolle auch inhaltlich ein Ganzes sein miisse, ist ein Gedanke, der in spàterer Zeit allerdings vorhanden, aber auch da nicht allgemein durchgefihrt ist ,.

(4) Kritik una Hermeneutik nebst Abriss des antiken Buchwesens, Miinchen, 1913.

(5) Ib., pag. 294.

(6) Ib., pag. 293.

Invece l'adozione di questa nuova materia libraria ha bensì creato un termine nuovo volumen ,, ma lasciandogli coesistere accanto liber ,, che mai non scomparve, anzi giunse fino a noi insieme con volumen ,, pur avendo i libri cessato fin dall’alto medioevo e forse anche prima di presentarsi sotto forma di rotolo.

È presumibile però che anche in origine abbia avuto contemporae neamente i due significati di unità materiale e di unità astratta e che, pur conservandoli entrambi, in processo di tempo abbia ceduto il si- gnificato più propriamente materiale al termine volumen ,: di fatti con questi due significati distinti quei due vocaboli giunsero fino a noi, chè noi per libro , intendiamo più propriamente una partizione astratta, una porzione, una sezione di un’opera e talora un’opera intiera anche vasta, appunto perchè caratteristica del libro è l’unità di contenuto ; per volume , invece solitamente una partizione materiale, che può contenere la materia di un sol libro o di più libri od anche solo di una parte di un libro. Tale presso a poco era anche in antico il signi- ficato proprio dei due termini e tale la loro differenza. Ma per il Birt questa differenza non esiste, egli li considera come perfettamente equi- valenti e ritiene che dai tempi di Cornificio e di Cicerone in poi il termine volumen , sia subentrato a piacimento a liber , (1); ed alle obbiezioni, che circa tale identificazione gli muove il Landwehr (2), si limita a rispondere: Sie wirtschaften dabei ibrigens zu grossen Teilen mit dem Stellenmaterial, das ich zusammegetragen hatte: neues war nòtig , (3), come se il trovare materiale nuovo dopo le sue accurate ricerche fosse ancora molto agevole, tanto più che egli, con grande lealtà, raccoglie non solo i fatti favorevoli ma anche quelli contrari alla sua teoria (4). Lo Schubart ammette anche lui tale corrispondenza, attribuendola pure come il Birt all’influsso della biblioteca alessan- drina (5), per cui ogni opera si dovette dividere in un certo numero di sezioni ovvero volumi o libri, maggiore o minore, in relazione con la

(1) Das ant. Buch., pag. 13.

(2) Arch. f. lat. Lex., VI, 223 segg.

(3) Die Buchr. in d. K., pag. 22 seg., nota 1.

(4) E. Thomas, in Revue critique d’ histoire et de littérature, XX, pag. 90, nota.

(5) Op. cit., pag. 45: Von der Praxis der Fabriken konnten aber auch die Schriftsteller nicht unberiihrt bleiben, und ebensowenig konnten sie auf die Dauer dem neuen Prinzip widerstehen, dass nach Mòglichkeit das Buch sich mit der Rolle zu decken habe, ein inhaltlich geschlos-

senes Ganzes also auch atisserlich sich als selbstàndig, als Rolle dar- stellen miisse ,

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sua estensione totale. Ma partendo da una tale ipotesi si ha per natu- rale conseguenza che ogni liber , solo per un caso deve avere unità di contenuto, e siccome invece l’ha sempre, il Birt osserva che un au- tore abile non mancava di far coincidere queste divisioni materiali con le divisioni naturali dell'argomento ed il Thomas argutamente com- menta: Rien n'est plus juste que cette observation féconde en consé- quences de toute sorte , (1). Un’altra conseguenza pure logica è che i libri di un’opera dovrebbero essere approssimativamente uguali, e sic- come non lo sono quasi mai il Birt spiega l'eccezione col dire per esempio che Lucrezio è un antico poeta, che ha potuto rimanere estraneo all’influsso Alessandrino (pag. 292) e che Orazio nei libri delle odi ha dato addirittura prova di inabilità (pag. 294), ed ancora il Thomas così conchiude: Lucrèce un ancien, Horace un maladroit! voilà des excep- tions bien faites pour ruiner une règle , (2). Del resto noi non ci mera- vigliamo punto di questa identificazione, perchè in antico, per ragioni che diremo a suo tempo, ad ogni unità astratta corrispondeva pure in generale una unità materiale e quindi a noi pare che molto più ragio- nevolmente il Birt, anzichè affermare l’unità esclusivamente materiale di liber ,, avrebbe dovuto limitarsi a constatare che in antico liber , godeva pure il più delle volte di una autonomia di spazio. Che però i due termini abbiano in realtà sempre conservato ben distinto il loro significato, sarà agevole persuadercene dall'uso che ne han fatto gli scrittori e più specialmente esaminando quei passi dove essi debbono ricorrere a breve distanza o meglio anzi nello stesso periodo. Plinio il giovane, che è corretto anzi perfino ricercato nella scelta dei vocaboli proprii, usa generalmente volumen , quando considera il libro sotto l’aspetto materiale e liber, se intende riferirsi al contenuto: Po- stremo placuit exempla multorum unum separatim hendecasillaborum ‘volumen’ absolvere : nec paenitet. Legitur, describitur, cantatur etiam; a Graecis quoque, quos latine huius ‘libelli’ amor docuit, nunc cithara, nunc lyra personatur , (Ep. VII, 4); e altrove: Oneravi te tot pariter missis voluminibus ... quia scripseras, tam graciles istic vindemias esse, ut plane scirem tibi vacaturum ... librum legere , (VIII, 15). Anche Quintiliano che è addirittura meticoloso nella proprietà del linguaggio dice: Finem imponere egresso destinatum modum volumini , (Inst. orat. IX, 146) e non libro ,, mentre quando accenna, nella distribu- zione della materia o in qualsiasi altra circostanza, al contenuto dice

(1) Revue Critique, XX, pag. 91. (2) Ibid., pag. 90.

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=> 458 cs sempre e costantemente “liber , (1). Perfino gli Scriptores Historiae Augustae, che pure non sono modelli di precisione in fatto di lingua, mantengono generalmente la dovuta distinzione fra i due termini, usando rispettivamente liber , o volumen , secondo che si riferi- scono al contenuto o al contenente: quaeso, qui expletum iam librum acceperas, boni consulas atque hos volumini tuo volens addas , (XXIV, 81, 7) (2); anzi pare che mentre usano liber , per designare una sola biografia lunga o breve (3), o quelle di due o più individui in stretta relazione fra loro, anzi insieme intrecciate e contemporanee, come quelle dei tre Gordiani (4) o quelle dei quattro usurpatori Saturnino, Bonoso, Procolo e Fermo (5), indichino invece gli altri gruppi costante- mente col termine volumen , (6). Una sol volta le vite dei trenta tiranni son chiamate liber ,, ma nella frase, che si può dir d’obbligo: “in libro, qui de triginta tyrannis inscribendus est , (XXIII, 19, 7), ed ognun sa che con tale espressione si accenna proprio al contenuto, mentre condere, edere, oc-

con volumen , troviamo solo accoppiati i verbi cupare , e simili (7), coi quali meglio si adatta il termine che ha signi- ficato materiale.

E poi, se a liber, si volesse ad ogni costo attribuire quest’ultimo significato, ne verrebbe di logica conseguenza che libellus , suo dimi- nutivo dovrebbe indicare libretto, cioè libro di piccola mole e nulla più; mentre invece tale significato libellus, non lo assume quasi mai, ma serve piuttosto, con senso dispregiativo, a nascondere la finta modestia dell’autore. Tanto è vero che non è raro il caso in cui li- bellus, noi lo troviamo accoppiato con gli aggettivi brevis , o ma- gari anche longus , e questi aggettivi ognun vede quanto poco con-

(1) I “Ciceronis orationum scholiastae , di Thomas Stangl, vol. II (Lipsia- Vienna, 1912), mi offrono pure degli esempi: pagg. 167, 23: Nam signi- ficat ... epistulam non mediocrem ad instar voluminis scribtam ,; pagg. 205, 21: Toto igitur hoc libro exhortatio iudicum continetur ad vere iudicandum ...,, e più sotto, pagg. 206, 1: coniectura mul- tiplex inest omnibus libris; quantum ad specialem intentionem libri huius refertur, qualitas negotialis extra scriptum in particula iuris est constituta ... ,, ed inoltre a pagg. 224, 225, 257, ecc.

(2) XD 1 1, XX 13, XXXIV; 91 5: 6 SOIN NR XXIII, 19, 6; XXIII, 21, 2.

(IVI: 8; Ὁ.

(4) XX, 1,4.

(5) XXVIII, 18, 6.

(0) XIX 1 NAGAI 60:

(7) Seneca, Nat. Quaest., VI, 4; Plinio, Nat. Hist., XXXV, $8; Script. Hist. Aug., XXXIII, 19, 6; XXIV, 81, 6, ecc.

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459

verrebbero a libellus, usato in senso materiale (1). Anche dai poeti questo termine è usato spesso per indicare le partizioni della loro opera, anzi più frequentemente che dai prosatori, ma ciò dipende dal fatto, a parte la finta o sincera modestia del poeta, che la poesia era considerata come una occupazione leggera, non degna certo della gra- vità di un cittadino romano. Il Birt si indugia a dimostrare che i libri di poesia sono effettivamente meno voluminosi di quelli della prosa e giunge con pazienti ricerche a determinarne la estensione media fra i 700 ed i 1100 versi e ritiene che su per giù la media del libro di prosa sia il doppio (2). Lo stesso fatto lo constata anche lo Schubart, ma egli s’affretta ad aggiungere che ciò dipese dalla natura delle cose e dall’uso pratico, poichè per regola il libro di poesia trovava posto in un rotolo più piccolo che quello di prosa (3). Ed è evidentemente così, succedeva allora ciò che succede adesso; ma a noi non è lecito attri- buire a questa piccolezza di volume la frequenza del termine libellus , per indicare le partizioni delle opere di poesia, tanto più che tale termine è affatto sconosciuto in tal senso ai prosatori, dai poeti è assolutamente bandito il suo sinonimo liber , (4). Marziale per esempio scambia di quando in quando l’uno con l’altro, usando liber , invece del termine più comune libellus ,, senza nessun riguardo alla maggior o minor estensione dei suoi libri. Una sol volta lo troviamo con vero e proprio significato diminutivo :

Si nimius videor seraque coronide longus Esse liber, legito pauca: libellus ero (X, 1).

Il Birt dice che qui c'è un paradosso di arguzia, perchè in realtà libellus , non può essere una porzione di un liber ,, ma designa autonomia di spazio (5). E sia pure, ma qui occorre osservare che 1]

(1) Marziale, III, 68; X, 17; XI, 108; XII, 5; Script. Hist. Aug., DEXILV 1,2.

(2) Das ant. Buch., pag. 291.

(3) Op. cit., pag. 47 seg.: © Denn wie sehr der Buchumfang im Grunde vom Inhalte abhing, zeigt uns die Bemerkung des spiten Schriftstellers Isidor, fiir Gedichte und Briefliteratur sei ein kleineres Format oder ein kleinerer Umfang iiblich als fir Geschichtswerke. Das lag in der Natur der Sache, und es entsprach nur dem, was die Praxis ergeben hatte, wenn in der Regel das Poesiebuch in einer kleineren Rolle Platz fand als das Prosabuch ,.

(4) Plinio, Epîst. II, 10; IV, 27; VIII, 21.

(5) Das ant. Buch., pag. 24.

460 το poeta considera il “liber, e il libellus , non come unità di spazio, ma come unità di materia, di contenuto e l’arguzia consiste in questo, che siccome il suo libro è costituito da altrettanti epigrammi tra loro indipendenti, questa unità può trovarsi in una parte od anche in un solo di essi, quindi il lettore, contrariamente, si vede, alla consuetudine generale, poteva troncare la lettura dove voleva ed avere già un senso compiuto. Del resto anche lui usa libellus , per una falsa modestia : Omnes quidem libelli mei, domine, ... tibi supplicant , (VIII, Prooem.). Plinio il vecchio vi aggiunge ancora l’epiteto levis , con cui Cicerone qualifica gli studi di poco conto: © Meae quidem temeritati accessit hoc quoque, quod levioris operae hos tibi dedicavi libellos , e più sotto, sempre riferendosi ai libri della Storia Naturale, di cui alcuni lunghis- simi, “... quos in libellis his invenies ,. Seneca il retore chiama pure libelli, i suoi libri delle controversie (1), che (almeno quelli perve- nutici intieri) sono assai lunghi, ed una volta con un senso risolutamente dispregiativo (2). Nello stesso senso usa questo termine Plinio il gio- vane (3), anzi perfino gli Scriptores ἢ. a. si uniformano all’uso gene- rale (4) e quando vogliono indicare un libro di piccola mole anche a libellus , aggiungono un epiteto adatto : in unum eos libellum contuli et quidem brevem , (XXIV, 1, 2).

Chi invece distingue nettamente i due termini e a libellus , valore di diminutivo è Stazio, che chiama così i singoli componimenti, che raccolti insieme dovranno costituire il liber ,. Come il Birt (5), anche il Landwehr e il Vollmer (6) considerano questo fatto, ma questi ultimi sopratutto per mettere in rilievo la differenza di concetto fra liber , e libellus , ; il Birt invece nega recisamente che brevi poesie fossero pubblicate autonome e quei pochi esempi che non può in verun modo disconoscere li giudica come vere e proprie eccezioni (7). Tale affermazione però gli venne contestata (8) ed a ragione, perchè ciò che

(1) II prooem., 5; IV prooem., 1.

(2) X proocem,, 3.

(3) Epist. IV; 9; IV, 26; V, 11; VI, 75 VI5-30; ΠΕΡῚ VII MS; REL 19} 99:

ΧΙ, Θ. 8.:. ἈΧΧ 2192.

(5) Das ant. Buch., pag. 24.

(6) Arch. Κἂν Lex., VI, pag. 247; Vollmer, in Silvae, pag. 209.

(7) Kr. u. Herm. nebst Abriss d. a. Buchw., pag. 292: liber kann nie

Teil eines Buches heissen, aber auch Videllus erscheint als Buchteil nur ganz ausnahmsweise ,.

(8) E. Hiller, in Jahresbericht del Bursian, XXXIV, pag. 281: Ich vermag nicht einzusehen, weshalb es unmòiglich sein sollte, dass kleine

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461

egli chiama eccezione doveva essere la regola generale, specialmente da parte di quegli scrittori, di solito poeti, i cui brevi componimenti, non avendo una stretta intima relazione fra di loro, potevano godere oltrechè di autonomia di senso anche di quella dello spazio. Marziale, per esempio, si compiaceva di far pregustare agli amici, prima di pub- blicare il libro, gli epigrammi più saporiti.

Resta quindi sufficientemente chiarito che i tre termini ebbero e con- servarono un significato affine, ma non identico ; così liber, fu usato con particolare riferimento al contenuto, libellus , con senso spregia- tivo più che diminutivo, volumen , per indicare più propriamente una unità di spazio. Ciò non di meno giova avvertire che non rare volte troviamo liber , e volumen , usati indifferentemente l’uno in luogo dell’altro, ma questo passaggio dal significato astratto a quello pura- mente materiale si spiega, sia colla considerazione generale che è facile lo scambio fra due sinonimi di uso comune, sia col fatto che in antico una partizione astratta di un’opera, una porzione, una sezione di essa, un liber , insomma per lo più nello spazio occupava un solo volume, come il volumen , generalmente doveva godere di autonomia razio- nale, del che neppure dobbiamo meravigliarci, se pensiamo alle esi- genze del materiale librario ed allo stato del lavoro editoriale in quei tempi, in grazia del quale non era facile come oggi la contem- poranea pubblicazione di più libri di un’opera, tanto rapida la loro diffusione.

Del resto non son neppur rari i casi in cui volumen , comprende sotto di più libri, o magari anche solo una parte di un liber ,. Il Birt stesso ne raccoglie un gran numero di esempi e poi li giustifica o coll’artificiosità della lingua 0 colla negligenza ed ignoranza dell’au- tore od infine colla supposizione che lo scrittore abbia voluto solo rife- rirsi ad uno dei libri in cui è divisa l’opera che egli cita col termine volumen ,. Sul frontispizio del codice Parisinus 13026 si legge :

Doctiloqui carmen ructatum fonte Maronis Bis senis numeri florentes milibus explent Et super hos octingentis septem quadraginta Versibus adiunctis concluditur omne volumen.

Gedichte selbstàndig publicirt und lingere Zeit hindurch auch selb- stindig abgeschrieben seien ... Birt selbst halt separate Edition der Micenas-Elegien und des Moretum fiir wahrscheinlich, und wenn er von dem sicher selbstindig herausgegebenen carmen saeculare bemerkt (S. 298), es sei in dieser Beziehung ‘eine gewiss durchaus exceptio- nelle Erscheinung’, so kann uns die Nachdriicklichkeit dieser Versi- cherung fir den Mangel einer ausreichenden Begriindung nicht entschi- digen ,.

--

Apollinare Sidonio chiama l’Odissea: © Smyrnae volumen , (IX, 145). Ora a me pare, che, per questi due casi, per esempio, le giustificazioni che il Birt propone non siano sufficienti. Valerio Massimo nella prefazione alla sua opera, dopo aver notato che i fatti e i detti memorabili del popolo romano sono disseminati in troppi autori, perchè se ne possa in breve prendere conoscenza, si propone di farne una scelta per risparmiare ai lettori la fatica di una lunga ricerca e soggiunge: Nec mihi complec- tendi cuneta cupido incessit: quis enim omnis aevi gesta modico volu- minum numero comprehenderit ? ,. La sua opera è però divisa in nove libri e se ad ogni liber , corrispondesse un volumen , non sarebbe poi un numero tanto modesto, quindi si può anche supporre che in realtà i volumi fossero solo quattro cinque e contenenti ciascuno più libri. Anche la Storia Naturale di Plinio, che consta di 36 libri, lasciando fuori il primo, che non contiene altro che la lettera dedicatoria ed i sommari, verosimilmente non comprende altrettanti volumi, ma un nu- mero molto minore. Il Birt, sempre in omaggio alla sua dottrina della materialità del libro, ha creduto di poterne fissare il numero a diciotto, giungendo a tale conclusione e con talune citazioni di Plinio stesso e con una speciale interpretazione di un passo di Plinio il giovane (1). Il passo in questione è il seguente: Electorumque commentarios cen- tum sexaginta mihi reliquit, opisthographos quidem et minutissime seriptos: qua ratione multiplicatur hic numerus ,, ed egli spiega che se fossero scritti da una sola parte sarebbero 320 libri, vale a dire considera l’opistografo come equivalente a due libri, di cui uno scritto sul recto ,, l’altro sul verso , (2). Ma innanzi tutto multiplicatur , non è propriamente duplicatur , e poi come si spiegherebbe il mi- nutissime scriptos ,, messo proprio come una ragione del moltipli- carsi dei libri? Per il Birt, infatti, comunque sia la scrittura, larga o minuta, l’opistografo non può comprendere che due libri, più o meno lunghi fin che si vuole, ma sempre due e non più e non meno di due. Riguardo alle citazioni poi egli fa notare che Plinio rimanda dal vo- lume 14 al 16 con proximo dicetur volumine , e dal 30 al 28 con priore volumine exposui , e le spiega, secondo la sua interpretazione dei libri opistografi, coll’ammettere che il manoscritto originale com- prendesse 18 di tali volumi, verisimilmente così distribuiti: e 3°, e 5°, ecc. Difatti il XXII così comincia: Implesse poterant mira- culum sui natura atque tellus reputantium vel prioris tantum voluminis dotes totque genera herbarum utilitatibus hominum aut voluptatibus

(1) Epist. III, 5. (2) Das ant. Buch., pag. 349.

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463

genita , ed in verità questo volumen prius , equivale proprio ai due libri precedenti, al 20 e al 21. Convien però osservare che qui il Birt trascura le citazioni che non gli convengono. Il libro XIV per esempio finisce testualmente così: ... de quo (oleo) in sequenti volumine di- cemus , e ne parla effettivamente nel successivo libro XV, che, secondo la sua ipotesi, dovrebbe costituire col libro precedente un solo volume, cioè il libro opistografo settimo; nel libro XVIII, paragrafo 216 si legge: non tamen difficili ratione dinoscentur in illis quoque terris dige- stione circulorum, quam in sexto volumine fecimus , ed è proprio nel sesto libro che si trova tale materia e non nel 12° o 13°, cioè nel sesto opistografo; altrove scrive: auctores ... quos praetexuimus volumini huie , (XVIII, 212), mentre poi l'elenco degli autori consultati lo fa pre- cedere a ciascun libro e non a ciascuna coppia di libri. Questo ho vo- luto chiarire, non solo per provare, ciò che è costretto ad ammettere anche il Birt, che c'erano pure volumi che contenevano più libri, ma che non è esatto ritenere i libri opistografi come perfettamente equi- valenti ad un doppio libro, più meno, e che ve ne potevano es- sere naturalmente di maggior o minor comprensione, perchè per libri opistografi si devono intendere solo libri scritti da ambedue le fac- ciate e nulla più: e poi? non avrebbero dovuto essere tutti uguali questi libri, o se non tutti almeno quelli che facevan coppia? Invece è facile a noi constatare che una tale uguaglianza nell’estensione non c’è affatto. Anche la similitudine di Giovenale (1)

SR penem maiorem quam sunt duo Caesaris anticatones

non solo spiega la forma a rotolo del libro, ma ci lascia intendere ancora che tali due libri erano voluminosi e costituivano un rotolo solo: in altri termini eran due libri in un solo volume.

Ciò che naturalmente impediva la formazione di volumi di maggior mole, cioè contenenti più libri, era per l'appunto il materiale con cui venivan composti, tanto è vero che quando al papiro si sostituì la per- gamena, su cui si poteva scrivere dalle due parti ed in carattere molto minuto, fu possibile far delle edizioni, dirò così, concentrate e quindi economiche, perchè i fattori del prezzo dei libri, allora, che non c’eran leggi di proprietà letteraria, erano unicamente la mano d’opera e sopra- tutto la materia su cui si scriveva (2) e non la rarità del libro stesso,

(1) VI, 338. (2) Schubart, op. cit., pag. 47: Selbst in Rom, einem Mittelpunkte des literarischen Betriebes in der Kaiserzeit, hatte man die Rollenfa-

brikation nicht so in der Hand wie in Agypten ,.

464 7

come crede il Birt (1), perchè in ioni in cui un libro appena pubbli- cato diventa proprietà comune e può essere riprodotto da chicchessia in quante copie si vuole, non può diventar raro o meglio non può cre- scere di prezzo per la sua rarità. Del resto, checehè sia di ciò, sta il fatto che mediante queste pergamene era possibile raccogliere in un sol volume e anche di modeste proporzioni opere ingentissime e di più libri. Così Plinio il vecchio ci rammenta un’edizione diamante del- l’Iliade d'Omero: “ἡ In nuce inclusam Iiadem Homeri carmen in mem- brana scriptum tradit Cicero , (2); e Marziale altre parecchie :

Ilias et Priami regnis inimicus Ulixes Multiplici pariter condita pelle latent (XIV, 184).

Quam brevis immensum cepit membrana Maronem ! Ipsius et vultus prima tabella gerit (XIV, 186). Si comes ista tibi fuerit membrana, putato Carpere te longas cum Cicerone vias (XIV, 188).

Si capisce che qui non si vuol alludere a tutte quante le opere di Ci- cerone, ma a qualcuna intiera certamente ed anche lunga, perchè il poeta consiglia per il viaggio questa edizione, non già, come vuole il

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Birt, perchè la pergamena è più resistente, ma proprio perchè essa contiene in piccolo spazio molta materia, e quindi, oltre ad essere più comoda, può servire come compagna per una lunga via, e tutti sappiamo che allora non si viaggiava così celermente come oggidì. Anche Livio

fu raccolto in un solo volume:

Pellibus exiguis artatur Livius ingens, Quem mea non totum bibliotheca capit (XIV, 190).

È probabile che non si tratti di tutta quanta l’opera di Livio (8), ma è evidente che l’arguzia dell’epigramma riguarda la capacità di questo volume, quindi non mi pare abbia ragione il Birt di credere che qui si alluda ad un compendio, perchè in tal caso il merito del volume svanirebbe, chè un compendio può anche equivalere ad un brevissimo sommario, magari più ristretto ancora della comune estensione di un libro. Del resto la ragione che adduce il Birt non è affatto soddisfa- cente. Egli a questo proposito ricorda una espressione di Marziale stesso

(1) Die Buchr. i. d. K., p. 31. (2) Nat. Hist., VII, $ 85. (3) Die Buchr. i. d. K., pag. 31.

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artatus labor est , (XII, 5), che ha significato di compendio (1); ma è bene osservare che ancora Marziale usa la medesima espressione in un altro significato: ecco i distici che commentano bene questo ed anche l’epigramma precedente :

Qui tecum cupis esse meos ubicumque libellos Et comites longae quaeris habere viae,

Hos eme, quos artat brevibus membrana tabellis: Scrinia da magnis, me manus una capit (I, 2).

L’interpretazione qui non può essere dubbia. Marziale intende libri di piccola mole e ricchi di materia. Del resto non si potrebbe più parlar di compendio in quest'altro:

Haec tibi multiplici quae structa est massa tabella Carmina Nasonis quinque decemque gerit (XIV, 192).

Qui in una massa son raccolti i 15 libri delle Metamorfosi.

È logico pertanto ammettere che era possibile trovare volumi conte- nenti più libri, specialmente dopo che questi, già divulgati magari ad uno ad uno dall’autore e diventati di pubblico dominio, per mezzo della pergamena venivano raccolti in un unico volume a prezzi più modesti, popolari.

Del resto la mole del libro non era fissa e determinata. Il Birt, per amore della sua tesi, sostiene addirittura che le fabbriche di papiro fornivano ai Greci e ai Romani, non solo fogli staccati, ma completi libri a rotoli, cioè volumi, all’ampiezza dei quali dovevano gli autori per forza adattarsi (2) e questo naturalmente dice per spiegare l’origine e la na- tura affatto materiale di liber ,. Lo Schubart, come abbiamo veduto, è presso a poco della stessa idea: anche lui ammette che le fabbriche

(1) In Kritik und Herm. nebst Abriss d. a. Buchw., pag. 349, egli ripete siffatta interpretazione e di più se ne giova per spiegare l’ artat , di I, 2, 8, con questa poco profonda ragione: es ist nicht gestattet, die eine Stelle anders als die andere zu interpretieren ,. Ora anche suppo- nendo che artatur Livius , possa significare un Livio compendiato, ciò che, come ho detto, non si può ammettere senza grave danno al- l’arguzia dell’epigramma stesso, come si può estendere una tale inter- pretazione all’altro epigramma, nel quale il comites longae viae , ci dice chiaro, che questi libretti devono contenere molta materia e non materia compendiata? (V. B. Romano, in Bollett. di Filolog. cl., XXI, 8, pag. 184).

(2) Das ant. Buch., p. 132.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 30

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di papiro dovevano provvedere i formati, ma riconosce non solo, come anche è costretto a fare il Birt, la varietà di questi formati per corri- spondere alla varietà dei bisogni (1), ma ancora la possibilità di ingran- dire un formato mediante semplice incollamento di nuovi fogli (2). E mancando in Italia fabbriche di papiro, egli ritiene che gli scrittori ro- mani dovessero sentire più forte l’obbligo di adattarsi ai formati di cui potevano provvedersi dai loro cartolai ed aggiunge che se anche i car- tolai, non potendo naturalmente tener disponibili come fondo di bottega molti formati, ricevevano dall'Egitto il solo papiro e da formavano il rotolo, dovevano necessariamente subire l’influsso della pratica egizio- alessandrina e conchiude, un po’ meno recisamente del Birt però, che, date tali condizioni, 1 formati usuali talora limitavano la libertà degli autori (3). È facile ad ogni modo constatare che libri ve n’erano di ogni dimensione e l’unico limite che esso aveva come volumen , proveniva dalla comodità di maneggiarlo, e come liber ,, come partizione astratta, dalla comodità intellettuale dell'autore e del lettore. Saranno stati rari i casi in cui un liber, per essere troppo esteso e non passibile di suddivisione veniva dimezzato e pubblicato in due volumi, ma intanto verificano anche quelli. Plinio nella famosa lettera in cui ci l’elenco delle opere di suo zio, scrive: Studiosi tres in sex volumina propter amplitudinem divisi , (4). Non si potrebbe essere più chiari, ma il Birt lo spiega come un effetto dell’idea particolare di uno sceri- vano che non si voleva indurre a numerare dall’uno fino al sei (5).

Il più delle volte però, come già abbiamo avvertito, al liber , cor- rispondeva il volumen ,, all'autonomia di contenuto, cioè, l'autonomia di spazio, e siccome appunto caratteristica di liber, è precisamente

(1) Op. cit., pag. 44: Eine einfache Uberlegung zeigt ferner, dass ein einziges Normalformat nicht gentigen konnte, denn dazu waren die Literaturwerke viel zu ungleich. Nicht alle grossen Werke liessen sich, um ein Beispiel zu nennen, nach der mittleren Buchlànge des Thukydides einteilen, und viele andere reichten wiederum lingst nicht hin, um dies Format zu fiillen ,.

(2) Op. cit., pag. 43: An sich konnte natiirlich die Rolle durch Ankleben immer neuer Blàtter zu jeder beliebigen Linge ausgedehnt werden ... ,.

(3) Op. cit., pag. 47: £ Es ist daher wohl verstindlich, dass unter solchen Verhiltnissen die iblichen Formate manchmal wirklich die Freiheit des Verfassers beschrainkten ,.

(4) 5.

(5) Das ant. Buch., pagg. 316-317; Kritik und Hermen., pag. 293, qui non ripete più una siffatta ragione, ma continua ad affermare nel modo più reciso l’assoluta identità di Buch und Rolle ,.

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l’unità del contenuto, così ne viene che più di una volta il singolare liber, servì a designare l’opera intiera. Il Birt, che pure è assai di- ligente nel raccoglierne le prove, non si perita di considerarle come altrettante eccezioni, apparenti si intende, alla sua teoria e ritiene che lo scrittore latino in tal caso faccia una sineddoche, usando il singolare per -il plurale, o intenda riferirsi solo ad uno dei libri dell’ opera, o infine, quando non soccorre altra scappatoia, che abbia sbagliata o per lo meno negletta la citazione (1). Ognun vede però che tali giustifica- zioni, quantunque siano così comprensive da abbracciare assolutamente tutti i casi, oltrechè non essere molto soddisfacenti, non portano nep- pure alla sua teoria un valido contributo. Innanzi tutto la sineddoche prova precisamente che il singolare liber , per poter sostituire il plu- rale libri ,, ha proprio il significato di unità razionale, astratta : in secondo luogo, se la mancanza in latino dell’articolo determinato può in qualche caso render dubbio quando lo serittore intende riferirsi a tutta un’opera o solo ad una parte di essa, è noto però che quando non vuole o non sa determinare con precisione il punto d’onde ha ricavata la sua citazione o usa genericamente la parola liber , o la sopprime senz'altro con una locuzione di questo genere: Cicero ait ,: in terzo luogo poi circa le citazioni errate o trascurate bisogna andar cauti, sia perchè noi siamo tratti naturalmente a pretendere nello scrittore latino quella stessa precisione a cui siamo abituati noi, sia perchè innumere- voli sono le correzioni ed aggiunte che copisti ed editori, colla lode- vole intenzione di chiarire il testo e la provenienza delle citazioni stesse, hanno introdotto : tanto è vero che il libro sulle citazioni errate o ne- glette che egli promise anzi annunziò nel Die Buchrolle in der Kunst (2) è venuto fuori bensì, ma senza apportare un notevole contributo alla presente questione (3). Agli esempi che il Birt ha raccolto nelle citate cpere e a quelli del suo scolaro, lo Sprockhoff, se ne potrebbero ag- giungere molti altri, ma si intende che tutti per necessità possono tro- vare il loro posto in una delle tre categorie escogitate dal Birt stesso. Quintiliano nella sua Instituzione oratoria (4) scrive: Quo magis miror Plinii Secundi docti hominis et in hoc utique libro , paene etiam ni-

(1) Das ant. Buch., pag. 80; Die Buchr. i. ἃ. K., pag. 23; Kritik und Hermen., pag. 276, rammenta ancora in quest’ultimo libro parte degli esempi già noti, ma poi soggiunge che questi casi sono straordinaria- mente rari e scompaiono del tutto nella massa.

(2) Pag. 23.

(3) L. Valmaggi, in Bollettino di filologia classica, XVI, pag. 201.

(4) XI, 3, 143.

“-- 468

mium curiosi persuasionem, qui solitum id facere Ciceronem velandorum varicum gratia tradit ,, e gli interpreti sono tutti concordi nell’ammet-

tere che egli voglia riferirsi all'opera già citata di Plinio il Vecchio,

in tre libri e sei volumi, intitolata Studiosi ,. È ben vero che qui si ha da intendere uno di quei tre libri, perchè la notizia ricavata non può essere disseminata per tutta l’opera, ma se intanto Quintiliano si esprime così, senz’altra indicazione, è anche vero che vuol alludere ge- nericamente all'opera intiera, perchè altrimenti, pur non rammentando il punto preciso, si sarebbe espresso in qualche altro modo, come suol generalmente fare in simili casi. Anche Plinio, nella famosa lettera in cui descrive l'eruzione del Vesuvio, quando dice: posco librum Titi Livii, e Seneca: Quidni ego narrem ultima illa nocte Platonis librum legentem posito ad caput gladio? , (1) non vogliono alludere rispetti- vamente a tutti i libri di Livio o di Platone, ma neanche ad uno de- terminato di essi e quindi una maggior determinazione sarebbe non solo superflua, ma assurda: qui è indicata solo genericamente l’opera che era oggetto di lettura ed in questo senso generico il singolare liber, è di uso frequentissimo, anche senza nessun riferimento al contenuto, alla comprensione, all'autore. Improbe facit qui in alieno victurus genium debet habere ‘liber’ , (3), e Quintiliano: Aristophanes quoque non uno libro sic institui pueros antiquitus solitos esse demonstrat , (4). Quando poi lo scrittore latino vuol accennare ad una determinata opera completa e composta di più libri la chiama opus ,, di cui liber, è una parte, ma astratta (5). Ancora Quintiliano ce lo dice

‘libro’ ingeniosus est 59, scrive Marziale (2) ed altrove:

chiaramente: Haec omnia copiosius sunt executi, qui non ut partem operis transcurrerunt sed proprie libros huic operi dedicaverunt, sicut Caecilius, Dionysius, Rutilius, Cornificius, Visellius aliique non pauci , (6). Ed in verità egli tratta questo argomento delle figure retoriche in tutto il libro nono, che è pars operis ,, come anche più sotto: Ventum est; ad partem operis destinati longe gravissimam , (7) e questa parte del- l’opera così solennemente annunciata è appunto il libro XII. Per libri proprie dedicati , intende invece un opus ,, cioè un’opera completa

(1) Epist. XXIV.

(2) I Prooem., 9.

(3) VI, 10.

(4) I, 10, 18.

(5) Marz., VIII, Prooem., 1; Plinio, Epist. IV, 20. (6) IX, 3, 89.

(7) XII, Prooem., 1.

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469

e complessa e non soltanto lunga, insomma una trattazione lunga e particolareggiata, la quale appunto rende necessari più libri in rela- zione alle varie parti in cui si suddivide l’argomento, e questo lo si intende anche dal copiosius , che evidentemente non significa qui più in lungo, ma più particolareggiatamente ,. Lo stesso signifi- cato ha il termine libri, nel seguente passo: Ars est utrinsque (Isocrate ed Aristotele) sed pluribus eam libris Aristoteles complexus est , (1), dove non tanto si vuol dire che Aristotele ha trattato l’argo- mento più in lungo, data la incostante estensione dei libri, quanto che l’ha maggiormente approfondito, perchè ad ogni libro corrispondono generalmente uno o più punti della materia stessa. Del resto in gene- rale il plurale libri, oltre ad indicare in modo generico l’opera com- plessa di un autore serve a designare opere diverse di un solo od anche di più autori (2). Libri Ciceronis, quando non gli si accompagnino altre indicazioni, vorrà sempre dire le opere di Cicerone e non p. es. il De republica ,, che noi troviamo invece indicato col singolare liber , in Seneca, appunto perchè ad esso egli vi si riferisce in modo gene- rico (3).

Del resto che gli antichi romani avessero pur sentita la necessità di opportune divisioni astratte delle loro opere, lo dimostra il fatto che essi solevano i libri stessi dividerli razionalmente in parti o sezioni 0 capitoli (4), tanto che le letture che nel loro complesso costituivano un liber , si solevano generalmente dividere in due periodi (5), come pure usava talora pubblicare e diffondere anticipatamente fra i lettori solo una parte di un libro, anzichè tutto intiero (6), il che sarebbe stato affatto impossibile, qualora dette parti non avessero avuto un senso compiuto.

(1) III, 1, 14.

(2) Script. hist. aug., XI, 9, 1; XVII, 34, 7.

(3) Epist. CVIII, 30: Cum Ciceronis librum de republica prendit hinc philologus ... ,. Il Birt naturalmente ritiene che qui si voglia alludere ad uno solo di questi libri (Die Buchr. i. ἃ. K., pag. 23); ma non pare, poichè i commenti che Seneca attribuisce al filosofo e al grammatico si riferiscono a tutta l’opera evidentemente e non ad una sola parte di essa.

(4) Das ant. Buch., pagg. 443 e segg.; Die Buchr. i. ἃ. K., pag. 215 e segg., Robertus Friderici, op. cit.

(5) Plinio, Ep. IX, 27: Recitaverat verissimum librum partemque eius in alium diem reservaverat , e ce lo ripete più di una volta.

(6) Plinio, Ep. II, 5: Nec alia ex causa principia librorum circum- feruntur, quam quia existimatur pars aliqua etiam sine ceteris esse perfecta ,.

Del resto le opere classiche giunsero a noi divise in libri, che si pre- sentano non come partizioni materiali, ma come parti di una cosa, come membri organicamente cooperatori di un tutto, insomma come il risultato di una razionale distribuzione e disposizione del contenuto. Questo lo nota anche il Birt, anzi si domanda: È possibile che tale astratta distribuzione della materia di un’opera vada debitrice della sua origine alla necessità esterna e materiale di spartire le opere troppo grosse? Ma poi non si lascia staccare dalla sua ipotesi, neppure da tale obbiezione, anzi egli se ne serve per mostrare il pregio dell’arte della disposizione e distribuzione negli antichi, cioè la loro abilità nel divi- dere la materia e nel saperne adattare le parti alla capacità dei singoli libri; perchè, giova ricordarlo, le fabbriche di papiro, secondo lui, for- nivano agli antichi completi libri a rotoli, di un determinato formato, che, come i nostri quaderni, venivano acquistati dagli autori, i quali poi dovevano regolarsi dalla loro ampiezza nella trattazione e distribu- zione della materia: in altri termini non erano i rotoli di papiro che 51 dovevano adattare alla produttività dello scrittore, ma lo scrittore che doveva sottostare all’arbitrio dei fabbricanti. È quasi della stessa idea anche lo Schubart, però comincia ad ammettere, come abbiamo veduto, che i cartolai stessi e gli autori potevano fabbricare da i rotoli, ma non ad arbitrio, bensì colla limitazione imposta dalla con- suetudine delle fabbriche. Ora noi non possiamo sapere fino a che punto le fabbriche abbiano potuto esercitare un influsso sulla confezione, dirò così, privata, dei rotoli e neppure se esse avessero adottato un deter- minato numero di formati senza variarli mai; ma, ammessa, come at- testa lo Schubart, la mancanza di fabbriche fuori dell'Egitto, è naturale supporre che per le varie occorrenze ognuno si provvedesse di carta e glutine e formasse libri corti o lunghi secondo il bisogno. Ecco per esempio una testimonianza di Plinio: Igitur mihi quoque licebit scri- bere, quae legas, sint modo unde chartae emi possint: quae si scabrae bibulaeve sint, aut non scribendum, aut ... delebimus , (1), e quella di uno storico della Storia Augusta: et tantum habuisse de chartis, ut publice saepe diceret exercitum se alere posse papyro et glutine , (2). Quindi nessuna meraviglia se le copie medievali ci presentano le opere

(1) Epist. VIII, 15. (2) NEXT 5.9

41

antiche con una divisione in libri del tutto astratta ed immateriale, e nessuna necessità di dubitare che detta divisione, anche quando non possiamo avere la certezza che risalga all’autore, non corrisponda alla partizione antica, primitiva, originale. Ma checchè sia di ciò vediamo quale criterio hanno seguito nella divisione delle loro opere gli autori che abbiamo preso ad esaminare.

Marziale per il suo genere letterario specialissimo, che non comporta affatto unità di contenuto, parrebbe fatto apposta per dimostrare il va- lore materiale di liber , e difatti il Birt lo ha messo largamente a profitto; ma se lo leggiamo senza preconcetti possiamo, magari serven- doci di citazioni del Birt stesso, giungere a diversa conclusione. Natu- ralmente il libro, pur considerato come unità astratta, doveva e deve avere dei limiti materiali (1): quando si deve fare un libro, dice il poeta, non giova la brevità dei singoli componimenti (2); però con questo non è provato che liber , sia un’unità di spazio, ma soltanto che doveva raggiungere certi limiti ragionevoli, come succede anche oggidì, e niente affatto fissi e determinati. Così talvolta egli, che è amico della brevità, mostra di non volere colla eccessiva lunghezza annoiare il lettore e

stancare l’amanuense :

Ohe, iam satis est, ohe, libelle,

Jam pervenimus usque ad umbilicos Iam lector queriturque deficitque

Iam librarius hoc et ipse dicit

Ohe, iam satis est, ohe, libelle (IV, 89),

tal’altra si lagna dell’incontentabilità di certuni:

Quamvis tam longo possis satur esse libello, Lector, adhuc a me disticha pauca petis (XI, 108).

Ora una tale possibilità di abbreviare o di allungare a piacimento il libro è una prova che la sua misura non era fissa, tanto meno de- terminata dal rotolo di papiro su cui scriveva. Difatti ecco cosa dice del suo secondo libro, che è uno dei più brevi e contiene appena 103

epigrammi :

(1) VII, 85. (2) VIII, 29: Disticha qui scribit, puto, vult brevitate placere. Quid prodest brevitas, dic mihi, si liber est?

Ter centena quidem poteras epigrammata ferre, Sed quis te ferret perlegeretque, liber? (II, 1).

E qui evidentemente la brevità non dipende affatto da esigenze di spazio.

In Marziale poi, come già si è notato, fra libro e libro non c’è re- lazione di sorta, quindi egli, per accrescerne il pregio, può benissimo consigliare ad un amico in tono scherzoso di leggerne uno solo e di considerarlo unico :

Obstat, care Pudens, nostris sua turba libellis

Tu quoque de nostris releges quemcunque libellis Esse puta solum: sic tibi pluris erit (IV, 29);

come pure ad un altro, che avendo tra mani il II libro gli domanda notizia del primo, può rispondere:

Tu tamen hune fieri si mavis, Regule, primum, unum de titulo tollere iota potes (II, 103).

E questo non ci deve stupire se pensiamo alla natura della sua opera: anzi questa stessa indipendenza che riscontriamo tra libro e libro, la rileviamo pure fra epigramma ed epigramma. Ecco con quali parole egli impone al suo libro di fermarsi:

Tu procedere adhuc et ire quaeris,

Nec summa potes in schida teneri,

Sic tamquam tibi res peracta non sit,

Quae prima quoque pagina peracta est (IV, 89).

Ed è per questa mancanza di unità di contenuto che egli può sempre interrompere dove vuole il suo libro:

Terque quaterque mihi finitur carmine parvo Pagina: fac tibi me quam cupis esse brevem (X, 1),

e altrove:

Quo vis cunque loco potes hune finire libellum : Versibus explicitum est omne duobus opus (XIV, 2).

Ora se egli sente il bisogno di insistere tanto su questo fatto è vero

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segno che liber , doveva essere per tutti una unità astratta, e la sua estensione maggiore o minore dipendere proprio dal contenuto o meglio dall’unità di contenuto.

Se però per lui non era così, dato il carattere speciale dei suoi com- ponimenti, non è a dire che i suoi libri manchino di qualsiasi unità. Egli, come ognun sa, pagò largo tributo alla corruzione dei suoi tempi ed è appunto sotto questo particolare aspetto che egli volle adottare un certo criterio nella distribuzione e composizione dei suoi libri:

Tu, quem nequitiae procaciores Delectant nimium salesque nudi, Lascivos lege quattuor libellos : Quintus cum domino liber iocatur ; Quem Germanicus ore non rubenti Coram Cecropia legat puella (V, 2).

si deve credere che in tale ordine egli li abbia scritti o che gli siano per così dire sprizzati fuori dal suo cervello, che ad un pe- riodo di smodata licenza sottentrasse in lui un periodo di calma e di moralità, ma piuttosto che così egli li abbia raggruppati per ottenere una certa unità di contenuto, in ciò appunto in cui meglio si potevano differenziare i suoi epigrammi. Così egli determina anche il carattere e l’intonazione di altri suoi libri:

Nuda recede Venus, non est tuus iste libellus : Tu mibi, tu Pallas Caesariana, veni (VIII, 1)

Nec doctum satis et parum severum

Sed non rusticulum nimis libellum

Facundo mea Plinio Thalia

PEPE A OI

Hic totus volo rideat libellus

Et sit nequior omnibus libellis (XI, 15).

Taluni poi, per appagare tutti i gusti, li divide per così dire in due parti, in due sezioni di intonazione diversa:

Huc est usque tibi scriptus, matrona, libellus. Cui sint scripta, rogas, interiora ? mihi (III, 68). Ne legeres partem lascivi, casta, libelli, Prapdixi“et ‘monut [N (1,86).

Del resto questa caratteristica unità di intonazione che in Marziale

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supplisce quella di contenuto è comune anche agli altri scrittori (1), ma per lui è indispensabile perchè non avrebbe avuto altro mezzo per individualizzare i suoi libri, questo bisogna credere gli costasse

poca fatica :

Facile est epigrammata belle Scribere, sed librum sceribere difficile est (VII, 85).

Ed è anche questa unità ideale, astratta, che determina le principali differenze di spazio; difatti i due libri che maggiormente si allontanano dagli altri per estensione sono appunto lo spectaculorum liber, e Xenia ,, che trattano un argomento a sè:

Omnis in hoc gracili Xeniorum turba libello Constabit nummis quattuor empta tibi (XIII, 3),

ed ha ragione di dirlo gracile, poichè conta appena 274 versi, mentre gli altri da un minimo di 550 versi del libro vanno fino ad un mas- simo di 850 nel primo.

Riassumendo quindi si potrà dire che i libri di Marziale, nonostante la mancanza di unità di contenuto dipendente dalla materia trattata, presentano nondimeno una certa unità di carattere e di intonazione voluta dall’autore, e che la loro autonomia materiale, oltre alle esigenze editoriali di quel tempo ed alla natura dell’argomento, è dovuta pure in gran parte alle condizioni speciali del poeta, che da essi ricavava i mezzi per sostentare la vita.

Se per altro dallo stesso Marziale, che pur non ha da obbedire alle esigenze della materia, dell'argomento, noi vediamo seguito nella di- stribuzione e composizione dei suoi libri un certo criterio razionale ed astratto ed affatto indipendente dalle esigenze dello spazio, a maggior ragione tale criterio lo constateremo in quegli altri scrittori, il cui opus 5 costituisce un tutto omogeneo ed organico.

La Instituzione oratoria di Quintiliano è una trattazione compiuta di un determinato argomento pensato, distribuito in libri, e scritto per intiero prima di incominciarne la pubblicazione. Difatti così scrive al- l'editore: Efflagitasti cotidiano convicio, ut libros, quos ad Marcellum

(1) Quint., Inst. Orat., III, 1, 3: In ceteris (libris) enim admiscere temptavimus aliquid nitoris... ,; III, 1,5: Sed nos veremur ne parum hic liber mellis et absinthii multum habere videatur, sitque salubrior studiis quam dulcior ,. Plinio, Epist. IV, 27: Ad hunc gustum totum librum repromitto, quem tibi, ut primo publicaverit, exhibebo ,.

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meum de Institutione oratoria scripseram, iam emittere inciperem. Nam ipse eos nondum opinabar satis maturuisse, quibus componendis, ut scis, paulo plus quam biennium tot alioqui negotiis districtus impendi , : quindi è logico ammettere che non le esigenze dello spazio o dell’edi- tore, ma il libero arbitrio del retore abbiano presieduto alla composi- zione dei suoi libri. Veramente nel proemio del primo libro (1) ci indica i punti principali del suo trattato e questi non corrispondono affatto al numero dei libri, difatti sarebbero nove, mentre i libri sono dodici; ma è bene osservare che egli con questo schema intende solo di determi- nare i punti principali della materia trattata, senza alcun riguardo alla loro maggior o minor comprensione, tanto è vero che mentre il secondo e il terzo son contenuti nel libro secondo, il quarto e il quinto occu- pano i cinque successivi ed è vero del pari che ciascuno di essi anche così vagamente indicato occupa un numero intiero di libri e non mai una frazione. Ciascun libro poi svolge una determinata porzione del punto principale di cui è parte ed è proprio tale porzione che deter- mina anche i limiti materiali: così questi dodici libri si presentano in una mole assai varia, da un minimo cioè di 1882 righe nel libro VI, salgono ad un massimo di 3013 nel IX, mentre due coppie sono per- fettamente uguali cioè il III e 1 XI con 23384 righe ed il IV e il X con 1880: ora una tale differenza non dovrebbe esistere, per lo meno così notevole, quando fossero divisioni puramente materiali, quando cioè obbedissero ad esigenze di spazio, anzichè alla comodità intellettuale del lettore e dello scrittore. E poi, se di “liber , avesse un concetto materiale, potrebbe egli dire che ai primi tre libri non corrisponde esat- tamente la quarta parte dell’opera intiera? Perfecto, Marcelle Victori, operis tibi dicati tertio libro et iam quarta fere laboris parte tran- sacta...,, e servirsi anche di fere , che ha un senso restrittivo, mentre i tre primi libri considerati materialmente superano di oltre 500 righe la quarta parte dell’opera?

Del resto è a tutti noto che i suoi libri trattano tutti un argomento speciale ben determinato ed egli ha cura anche di accennarlo quando mette in rilievo le relazioni di dipendenza tra l’uno e l’altro: così nel proemio al V libro: hic erit liber illorum opinione maxime neces-

(1) 21, 22: Nam liber primus ea, quae sunt ante officium rhetoris, continebit. Secundo prima apud rhetorem elementa et quae de ipsa rhetorices substantia quaeruntur tractabimus. Quinque deinceps inven- tioni, nam huic et dispositio subiungitur, quattuor elocutioni, in cuius partem memoria ac pronuntiatio veniunt, dabuntur. Unus accedet, in quo nobis orator ipse informandus est ... ,.

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sarius, quia toto haec sola tractatur ,, e più sotto nel settimo: Qua- propter totus hic liber serviat dispositioni , dove l’accenno all’unità del contenuto non potrebbe essere più preciso. Se poi si accorge, data l’af- finità di argomento, di invadere inavvertentemente il campo riservato al libro seguente si ferma di botto e conclude: Verum longius for- tasse progredior fallente transitu et a dispositione ad elocutionis prae- cepta labor, quae proximus liber inchoabit , (VIII, 10, 17). Non sempre però i confini tra un punto e l’altro sono così incerti ed allora ogni cosa è a suo posto: Cum sit proximo (VIII) libro de tropis dictum: sequitur pertinens ad figuras locus, ipsa rei natura coniunctus supe- riori, (IX, 1,1). Non si lascià mai vincer la mano dall’argomento che tratta, in modo da turbare la disposizione e distribuzione logica e ra- zionale della materia: Sed de memoria destinatus est libro proximo locus nec huic parti subiungenduùs, quia sunt alia prius nobis dicenda , (X, 733), cioè non aggiunge qui ciò che vorrebbe dire della memoria, perchè dovrebbe premettere certe cose che non sono una continuazione diretta di ciò che dice prima e quindi chiude il libro X e così comincia il seguente: Parata, sicut superiore libro continetur, facultate scri- bendi cogitandique et ex tempore etiam, cum res poscet, orandi, pro- xima est cura ut dicamus apte... ,. Egli, difatti, come già abbiamo visto, ha composto tutti i suoi libri prima di pubblicarli e quindi ha avuto agio di preordinare e distribuire in libri tutta la materia, cosicchè dal libro III egli rimanda certe parti all'ultimo: Sed quia est altior quaestio nec tantum ad suasorias pertinet, destinatus est mihi hic locus duodecimo, qui summus futurus est, libro , (III, 8, 42) e così dal libro nono: Sed quae sit differentia nostri Graecique sermonis, explicabit summus liber , (IX, 4, 146), e quando cita libri precedenti cita non solo il numero d'ordine, ma anche il contenuto.

Ora, come si potrebbe spiegare questa preordinata distribuzione della materia in libri,, quando liber , avesse un senso materiale di spazio? E poi nessuno ignora che i romani ebbero una speciale predilezione per la distribuzione, l’ordine, la simmetria delle parti: basta pensare al rigido schematismo delle orazioni per persuaderci che con ogni proba- bilità prima di cominciare un’opera la distribuivano in tanti punti da trattarsi libro per libro (1) e tale distribuzione poi la facevano non solo per comodità del lettore, ma anche per facilitare a se stessi il compito: De quibus partibus (sono le parti maxime variae et multiplices delle cause giudiziali) singulis quidam separatim scribere maluerunt velut onus totius corporis veriti, et sic quoque complures de unaquaque earum

(1) Quint., Inst. Orat., III, 9, 8, 9.

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libros ediderunt , (IV, Prooem. 7); non era quindi lo spazio che obbli- gava alla divisione, ma la paura di sobbarcarsi ad un lavoro troppo grave velut onus totius corporis veriti —, perchè molti non si sen- tivano capaci di condensare in un solo corpo un argomento così vasto e complesso, ma trovavano più agevole dividerlo e suddividerlo in di- versi punti da trattarsi in altrettanti libri separati. E che tale distri- buzione dipendesse non già dalle esigenze dello spazio ma da quelle dell'argomento ce lo dice anche Plinio: Nunc quoque paulisper haesi- tavi id solum, quod recitavi, mitterem exigentibus vobis, an adiicerem, quae in aliud volumen cogito reservare ,; volendo avrebbe potuto rac- cogliere tutto in un sol libro, lo spazio gli sarebbe mancato, ma invece ha preferito dividere e distribuire l'argomento in due libri per meglio provvedere a perpetuare il ricordo del suo carissimo amico: “neque enim affectibus meis uno libello carissimam mihi et sanctis- simam memoriam prosequi satis est: cuius famae latius consuletur, si dispensata et digesta fuerit , (1), e questa è la ragion vera della divisione.

Anche le espressioni con cui Quintiliano chiude generalmente i suoi libri stanno a dimostrare la stessa cosa, che cioè liber, non deve intendersi come uno spazio fisso, determinato, preesistente, come un numero di pagine che deve essere riempito, non una riga di più, non una riga di meno. Il suo primo libro, che realmente è uno dei più lunghi, il terz'ultimo anzi per lunghezza, finisce con queste parole: Sed nos haec ipsa dulcedo longius duxit ,, quindi è chiaro che ciò che lo spinse un po’ troppo innanzi fu la dulcedo ,, longius , può voler dire più in di quel che permetteva lo spazio, il che sarebbe un assurdo. Altra volta rimanda ad occasione più propizia un determinato argo- mento, non per ragioni di spazio, ma perchè più affine ad un altro che deve ancora trattare (2).

È sempre l'argomento che determina la chiusa dei suoi libri e non la capacità del rotolo (3) e quando s’accorge d’aver oltrepassato i limiti che si era segnati, senza neanche un pensiero per lo spazio, si affretta a conchiudere: Nam finem imponere egresso destinatum modum vo- lumini festino , (IX, 4, 146). Ora come avrebbe potuto il suo libro uscir dalla misura, se tale misura fosse fissata dallo spazio disponibile e non lasciata piuttosto all’arbitrio dello scrittore? e come sarebbe stato pos- sibile all'autore metter fine al volume, se detta fine fosse imposta al

(1) Epist. III, 10. (2) VI, 5, LL (3) VII, 10, 17.

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volume dallo spazio limitato? e chi infine avrebbe potuto destinare modum volumini , all'infuori di lui? Non era quindi lo spazio disponi- bile che doveva regolare l’attività dello scrittore, ma accadeva proprio il contrario e ciò in grazia della preordinata distribuzione della ma- teria, e del concetto di sezione o porzione di un’opera in cui era tenuto il liber ,.

Vero è che anche il Birt riconosce (e come non riconoscerla ?) questa saggia distribuzione in libri della materia, ma la considera, e già ab- biamo avuto occasione di notarlo, solo come effetto dell’abilità di questi scrittori nel sapere adattare i varî punti della loro trattazione al volume dei libri che hanno da riempire e crede di dimostrare la fondatezza della sua ipotesi coll’uso abbastanza frequente negli scrittori latini di inserire nelle loro opere più o meno lunghi proemii od episodii. Così proposito delle Georgiche di Virgilio egli non esita a dire che l'episodio del IV libro fu introdotto solo per supplire alla mancanza di materia e per riempire il rotolo. Senza voler ora indagare quali possano essere le ragioni di questo grazioso episodio, anzi supponendo perfino che esso sia stato scritto per la proporzione materiale dei libri, pur sapendo che non rari sono i casi, in tali distribuzioni, di sproporzioni anche più no- tevoli (1), a me pare sia questa appunto una prova evidente del con- cetto astratto che di liber , aveva Virgilio, poichè se a lui non fosse rincresciuto di mescolare e confondere i vari punti della sua trattazione o in altri termini di togliere ai suoi libri l’unità del contenuto, non avrebbe avuto bisogno di aggiungere alcun episodio, ma poteva più semplicemente distribuire tutta la materia in tre libri o magari ancora in quattro, avendo speciale riguardo al numero dei versi, tanto più che per ottenere la voluta proporzione avrebbe potuto giovarsi anche delle illustrazioni, di cui molto probabilmente questo poemetto era adorno (2). Anche i proemii, secondo il Birt, dovevano servire allo stesso scopo e più precisamente o a colmare uno spazio che la materia troppo scarsa di un libro poteva lasciar vuoto, od anche a dare ai singoli libri una certa autonomia, che non sempre, secondo lui, potevano avere natural- mente, perchè non sempre la materia poteva essere divisa in modo da corrispondere esattamente allo spazio disponibile in ciascun rotolo (8). Per lo Schubart la divisione in libri delle grosse opere è pur dovuta esclusivamente, come per il Birt, ad un criterio di praticità, ma intanto ammette che non è meccanica e che, se pur si cercava di rendere il

(1) A. Eussner, in Jahresb. del Bursian, XXVII, 210. (2) Die Buchr. i. d. K., pag. 296; Kritik u. Herm., pag. 294. (3) Das ant. Buch., pagg. 127 e segg.

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più possibile uguali questi libri, si rispettava sempre il contenuto (1). Quindi partendo anche lui dal noto canone di Diodoro, secondo il quale, in tutte le opere storiche, s'addice allo scrittore abbracciare in libri singoli la storia completa di città o di re dal principio alla fine, viene a questa conclusione: dass ein Inhaltsganzes nicht aus einem Buche in das andere ibergreifen dirfe ,, ed estende, ciò che Diodoro esige dallo storico, ai filosofi e a tutti gli altri scrittori. L'uso poi dei proemii, egli, più ragionevolmente del Birt, lo spiega colla necessità di riassu- mere in principio d’ogni libro il contenuto del precedente, perchè, dice lui, ogni nuovo libro era un nuovo volume (2). Ed invero se dovesse aver ragione il Birt, il proemio noi lo troveremmo nei libri più corti, in quelli in cui la porzione di materia non è abbastanza indipendente, autonoma, individualizzata, in quelli infine che furono pubblicati non simultanea- mente o per lo meno singolarmente.

Ma il vero è che presso gli scrittori latini l’uso del proemio (3) è assai indisciplinato : talora è premesso ad un’opera intiera in più libri, tal’altra a ciascuno o solo a qualcuno di essi e qualche volta anche all’unico libro di un’opera (4); così precede ora un libro cortissimo, ora ne introduce uno assai lungo; in certi casi serve ad orientare il lettore, in certi altri a coordinare la materia di due libri consecutivi, e non di rado magari a qualche digressione che non ha alcuna relazione colla materia trat- tata. Ad ogni modo la sua presenza non serve a dimostrare la materia- lità del libro antico, ma tutt'al più e non sempre la mancata simulta- neità della pubblicazione dei varî libri. Per Quintiliano, che è maestro in questa materia, l’esordio deve essere fatto in modo che la fine di esso si leghi naturalmente con quello che segue: veramente egli parla di orazioni, ma non c'è ragione di credere che del proemio dei libri avesse un’idea diversa: £ Quotiens autem prooemio fuerimus usi, ..., id debebit in principio postremum esse, cui commodissime iungi initium sequentium

(1) Op. cit., pag. 48 seg.: Gerade hier sehen wir aber auch, dass man nicht mechanisch geteilt und eine einzige normale Rollengròsse zum Massstab genommen hat, denn die Biicher des Herodot, des Thukydides usw. sind einander an Umfang keineswegs gleich. Man suchte eben auszugleichen, soweit es der Inhalt zuliess ,.

(2) Op. cit., pag. 46 seg.: “Aus diesem Grundsatze ergab es sich auch von selbst, dass er und mit ihm viele andere am Anfange eines neuen Buches den Inhalt des vorhergehenden kurz zusammenfassen, denn das neue Buch war eine neue Rolle ,.

(3) G. Engel, De antiquorum epicorum didact. hist. prooemiis, Marp., 1910.

(4) Plinio, Epist. V, 13: Emendavi librum... Materiam ex titulo co- gnosces, cetera liber explicabit: quem iam nune oportet ita consuescere, ut sine praefatione intellegatur ,.

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poterit. Illa vero frigida et puerilis est in scholis affectatio, ut ipse transitus efficiat aliquam utique sententiam, et huius velut praestigiae plausum petat, ut Ovidius lascivire in Metamorphosin solet, quem tamen excusare necessitas potest res diversissimas in speciem unius corporis colligentem , (IV, 1, 76 seg.). E di più lo considera come parte integrante del tutto: Quod principium latine vel exordium dicitur, maiore quadam ratione Graeci videntur 7000/utov nominasse; quia a nostris initium modo significatur, illi satis clare partem hanc esse ante ingressum rei, de qua dicendum sit, ostendunt , (IV, 1, 1). Non tutti i dodici libri della sua Instituzione lo hanno, quelli che l'hanno gli debbono la propria autonomia: ognuno di essi è di per autonomo, perchè svolge per intero una determinata parte della materia e quindi più che ad orientare il lettore, il proemio, quando c’è, serve o ad una naturale introduzione nella trattazione dei singoli punti come per i libri I, III, VIII, oppure a concatenare un punto coll’altro, il che accade nei libri II, IV, V, VII, od infine, una sol volta però, nel libro VI, ad una digressione apparentemente indipendente, e dico apparentemente perchè le lamen- tele sulle sciagure che l'hanno colpito non ripugnano affatto alla pero- razione e mozione degli affetti, che è l'argomento del libro stesso. Quando poi non c’è, allora è segno che il contenuto del libro è una suddivisione logica e razionale di un punto della materia trattata in più libri, come accade precisamente ai libri IX, X, XI, che, unitamente all’ottavo, costituiscono altrettante parti della elocuzione.

Chi però nella divisione e distribuzione della materia in libri si mostra un vero architetto e che tutte conosce le leggi dell'ordine e della sim- metria è appunto Vitruvio, che innalza col suo trattato De Architec- tura, un vero e proprio edificio. Distribuisce logicamente e razional- mente la sua materia in dieci libri, e siccome sa che la sua è opera di scienza e che il linguaggio che deve usare non è poetico ma tecnico e quindi non tale da allettare il lettore, per riuscire di più facile intel- ligenza non si perde in chiacchiere vane, ma compone libri brevi (1) e con tale distribuzione della materia e ordine uti non sint quaerentibus separatim colligenda sed e corpore uno et in singulis voluminibus ge- nerum haberent explicationes , (Praef. lib. V). Ogni suo libro poi è pre- ceduto da un proemio, che ha sempre relazione colla materia trattata, anche quando contiene qualche piacevole aneddoto, con cui Vitruvio cerca di esilarare un po’ la mente affaticata del lettore, perchè sulla

(1) la ragione della brevità è dovuta a mancanza di spazio dispo- nibile; ecco come egli si giustifica: Quas res non pigritia deterritus praetermisi, sed ne multa scribendo offendam , (IX, 8).

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fine trova sempre modo di rammentare la materia non solo del libro precedente, ma di tutti gli altri e di coordinarla con quella che sta per trattare. E questo suol farlo anche nella chiusa dei libri e del resto, appunto perchè l'argomento è difficile, egli insiste molto sulla divisione e distribuzione in libri e cerca pure di prevenire le obbiezioni dei let- tori: Sed si quis de ordine huius libri disputare voluerit, quod puta- verit, eum primum institui oportuisse, ne putet me erravisse, sic reddam rationem. Quum corpus architecturae scriberem, primo volumine putavi, quibus eruditionibus et disciplinis esset ornata, exponere ... Ergo in primo de artis officio, in hoc de naturalibus materiae rebus, quem ha- beant usum disputabo. Namque hic liber non profitetur, unde architec- tura nascatur, sed unde origines aedificiorum sint institutae... , (II, 1). E di questa logica distribuzione si compiace: ... dignam et utilissimam rem putavi ... praescriptas in singulis voluminibus singulorum generum qualitates explicare. Itaque, Caesar, primo volumine tibi de officio ... exposui, secundo de copiis materiae ... tertio autem de aedium sacrarum dispositionibus ... , (IV, Praefatio). Per lui questi libri sono le membra di ciò che egli chiama corpus Architecturae , (IX, 8; X, 16), altro che parti materiali.

Anche Plinio il vecchio adotta un criterio del tutto razionale nella divisione e distribuzione della sua opera in libri. Non può venire in mente a nessuno, che, libero da preconcetti, prenda in mano questo monumento di antica pazienza, che i libri che la compongono siano partizioni materiali. Anche questi son di varia grandezza, da un minimo di 900 righe nel XII, si sale ad un massimo di 3083 righe e mezza nel XVIII, si toccarono questi estremi per necessità materiali, ma proprio per le esigenze del contenuto, difatti il XII tratta per intiero degli alberi in generale, il XVIII della natura delle biade ; e si noti che se, p. es., avesse voluto riunire al dodicesimo il seguente che si rife- risce agli alberi esotici ed alle essenze, sarebbe ancora sempre rimasto al disotto, quanto a spazio, del libro XVIII. Presso di lui i proemii, che pure non sono frequenti, sempre accompagnano i libri più brevi, servono da riempitivi, a dare autonomia ai libri stessi, che già l'hanno per l’unità del contenuto, costituiscono, come vuole Quintiliano, una vera e propria parte del libro, piacevole ed amena, ma pur neces- saria a dare un'idea più compiuta dell'argomento; così dicasi, p. 68.» della breve storia della medicina e della magìa, preposte rispettiva- mente ai libri XXIX e XXX, che di tali argomenti appunto si occupano. Si intende che anche qui, come già per Quintiliano, i libri rappresen- tano non solo divisioni principali, ma anche suddivisioni dei singoli punti: ciascun d’essi però è indipendente per unità di contenuto. La zoologia è distribuita in cinque libri dal VII all'XI: materia del VII è

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 81

ἂν

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l’uomo, suo nascimento e morte; dell'VIII, animali terrestri; del IX, animali aquatici; del X, uccelli; dell’ XI, insetti e anatomia comparata, e non c’è affatto preoccupazione dello spazio; ecco le rispettive dimen- sioni in righe: 2092, 2339, 1851, 1933, 2650. Lo stesso accade per la botanica, per la materia medica animale, per la materia medica vege- tale, ecc., che sono i punti principali dell’opera divisi alla loro volta in tanti libri, quante sono le logiche suddivisioni di ciascuno di essi, Ed è notevole il fatto che egli ha cura di allacciare non solo i libri, dirò così, di ciascun gruppo, ma anche l’ultimo di un gruppo col primo del successivo mediante le solite formule di transizione che servono ap- punto a mettere in evidenza l’unità di tutta l’opera, di cui i vari libri sono le membra. Egli ci teneva a renderla di facile consultazione e quindi non solo unità di contenuto ai suoi libri, ma ancora non dimentica di indicare nella lettera dedicatoria il contenuto stesso di cia- scuno di essi: quid singulis continetur libris huic epistulae subiunxi ,.

Seneca il filosofo nella distribuzione della materia fa pure corrispon- dere costantemente ad ogni libro una porzione, una sezione astratta della materia stessa e non solo, ma ha cura anche lui di dircelo : Primus liber, Novate, benigniorem habuit materiam: facilis enim in proclivia vitiorum decursus est : nunc ad exiliora veniendum est, (De ira, II, 1) e tratta di fatti della natura dell’ira e dei suoi rimedi e così comincia il libro II: “Quod maxime desiderasti, Novate, nunc facere temptabimus, iram excidere animis, aut certe refrenare et impetus eius inhibere , ed è proprio l’ultimo punto e l’ultimo libro. Anche il De clementia , doveva constare di tre punti e di tre libri: Nune in tres partes omnem hanc materiam dividam. Prima erit manumis- sionis, secunda quae naturam clementiae habitumque demonstret ... tertio loco quaeremus quomodo ad hanc virtutem perducatur animus, quomodo confirmet eam et usu suam faciat , (I, 3): a noi però giun- sero solo il primo libro e sette capitoli del secondo. Dove invece la materia non pare preordinata tutta quanta è nell'opera De beneficiis ,, ma tuttavia è possibile rilevare in ciascun libro l’unità del contenuto: nell’ultimo di essi egli raccoglie tutto quanto gli è sfuggito nei prece- denti: Reliqua hic liber cogit, et, exhausta materia, circumspicio, non quid dicam sed quid dixerim ... Si voluissem lenocinari mihi, debuit paulatim opus crescere et ea pars in finem reservari, quam quilibet etiam satiatus adpeteret. Sed quidquid maxime necessarium erat, in primum congessi: nunc si quid effugit recolligo , (VII, 1). Noi non co- nosciamo con certezza l'ordine dei libri delle Questioni Naturali di Se- neca, il cui disordine forse è imputabile, come rileva il Birt (1), ad una

(1) Das ant. Buch., pag. 375.

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sbadataggine dell’autore stesso: ma anche qui noi riconosciamo eviden- tissima la distribuzione della materia in libri, in ciascuno dei quali tratta per intiero un solo argomento, senza nessuna preoccupazione dello spazio, che è quanto mai vario in conformità, si intende, dell’esten- sione dell'argomento. Tre sono i punti principali, che a lor volta si suddividono in altri, corrispondenti ai singoli libri e più precisamente così: Caelestia, I e VII; Sublimia, II, IV», V, VI; Terrena, ΠῚ e IVa.

Non tutte le opere, si capisce, permettono una distribuzione in libri così facile, spontanea, razionale; qui si tratta di opere didascaliche e la materia, in questo caso, si presta mirabilmente ad una distribuzione razionale, anzi, e per la sua propria natura e per lo scopo a cui tende, direi che la esige; ma con ciò non si ha da credere che i libri di storia, di poesia, ecc., anche se la ragione della distribuzione non sia del tutto evidente, siano altrettante divisioni materiali, imposte solo dalla neces- sità dello spazio: realmente siffatta materia si adatta meno ad una di- visione razionale ed insieme proporzionale e simmetrica, ma in pratica un determinato criterio astratto presiede sempre alla loro distribuzione. Del resto ogni e qualsiasi materia per quanto una in stessa ed anche di natura assolutamente oggettiva, non solo consente ma esige addirit- tura, tanto per comodità materiale, quanto e sopratutto per quella in- tellettuale dello scrittore e del lettore, una distribuzione, una divisione in punti determinati: tanto è vero ciò che lo scrittore latino, come già abbiamo avvertito, quando cita qualche punto della stessa opera sua o qualche pensiero di un’opera complessa, specialmente senza riferire le parole precise, non si limita generalmente ad indicare il numero d’or- dine del libro, ma aggiunge quasi sempre, tralasciando magari l’ordi- nale, espressioni che accennano direttamente al contenuto: Sed ea, quae de ratione latine atque emendate loquendi fuerunt dicenda, in libro primo cum de grammatice loqueremur executi fuimus , (1); seri- bebat ... exitus occisorum et relegatorum a Nerone et iam tres libros absolverat ... mox imaginatus est venisse Neronem ... prompsisse primum librum, quem de sceleribus eius ediderat , (2).

Le orazioni a dir vero si adattano poco ad una suddivisione; per l’effetto immediato che devono produrre, brevi o lunghe che esse siano, devono costituire un sol libro e lo scrittore latino infatti indipendente- mente dalla loro estensione le chiama invariabilmente liber , o se si

(1) Quint., Inst. Orat., VIII, 1, 2. (2) Plinio, Epist., V, 5; cfr. Quint., Inst. Orat., X, 2,10; X,5,1; XI, 1,1; XI, 1, 59, ecc.

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tratta di opera propria, per modestia, libellus , (1). La loro estensione è determinata dalle esigenze dell’argomento: An merito [probaretur], scies, cum legeris librum, cuius amplitudo non sinit me longiore epi- stula praeloqui. Oportet enim, nos in hac certe, in qua possumus, breves esse: quo sit excusatius, quod librum ipsum, non tamen ultra causae amplitudinem, extendimus , (Pl. Ep. IV, 5), e talora anche dalla com- piacenza stessa dello scrittore nel trattare una materia di proprio gusto: Inde et liber crevit, dum ornare patriam et amplificare gaudemus, pariterque et defensioni eius servimus et gloriae , (PI. Ep. II, 5). Quando poi la causa era andata troppo per le lunghe e quindi la materia trat- tata dall’oratore era troppo cresciuta o s'era troppo diluita, nel pubbli- carla se ne faceva una specie di riassunto ma sempre in un sol libro; così, dice Plinio, ha fatto Cicerone: Idem... ait ... pro Cornelio qua- triduo egisse; ne dubitare possimus quae per plures dies, ut necesse erat, latius dixerit, postea recisa ac purgata in unum librum grandem quidem, unum tamen, coartasse , (I, 20). È da notare però che questo liber , non è tanto grande, anzi tra le orazioni di Cicerone è di media grandezza ed è certo che, se qui fosse solo questione di spazio, l'avrebbe potuta fare anche il doppio, senza eccedere l’estensione delle orazioni più lunghe, contenute in un sol libro, o scinderla anche in due, quando però l'argomento glielo avesse permesso. Rari sono i casi di orazioni divise in più libri, ma i pochi esempi che abbiamo ci mostrano chia- ramente che la divisione fu imposta dalla natura dell'argomento e che ognuna delle parti ha diritto di chiamarsi liber, precisamente per l'autonomia del suo contenuto: le Verrine, per esempio, costituiscono veri e proprii trattati, forniti perfino di propria intitolazione (2). Anche Plinio ci rammenta la sua arringa in difesa di un tal Elvidio, distri- buita in più libri, egli inoltre ci confessa di aver aggiunte molte cose all’orazione pronunziata: postea actionem meam, utcumque potui, re- collegi: addidi multa , (IX, 13), ma ci dice pure che i suoi libri sono assai brevi, quindi anche qui non è il caso di parlare di necessità di

(1) Plinio, Epist., V, 20: In actionibus enim utramque in partem fortuna dominatur... liber offensis, liber gratia, liber et secundis casibus et adversis caret ,.

(2) Neanche agli antichi è sfuggita la razionale distribuzione di questi libri: vedasi lo scoliasta Pseudasconius nella citata edizione dello Stangl a pagg. 224, 225 e 257, dove non solo mostra la evidente, logica e ra- zionale divisione in libri, ma ne spiega ancora il criterio: In qua di- stributione non ordo temporis, sed facinorum genera et momenta ser- vata sunt... ,. Il Birt, in Kritik und Hermen., pag. 177, le chiama un Monstrum ,.

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spazio: Habes epistulam, si modum epistulae cogites, libris, quos le» gisti, non minorem. Sed imputabis tibi, qui contentus libris non fuisti. Vale, (IX, 13).

Nelle narrazioni continuate e più specialmente nei racconti storici non si può sempre trovare quella specie di schematismo, a cui si adat- tano abbastanza naturalmente gli altri generi letterari e ciò appunto per il carattere troppo oggettivo dell'argomento, il quale presenta le sue pause e le sue conclusioni in modo non sempre uniforme: ma con tutto ciò la divisione in libri di tali opere procede sempre da criteri speciali, che non son mai quelli dello spazio : il più delle volte essi di- pendono, oltrechè dall’argomento, anche dal particolare modo di vedere dello scrittore.

Per poco che si abbia famigliarità cogli storici, tali peculiarità di criterio nella divisione e distribuzione della materia saltano subito all'occhio. Cesare per esempio nel De bello gallico, adotta un cri- terio che potremmo chiamare cronologico : non già che gli altri storici disordinino i fatti del loro racconto, ma evidentemente qui Cesare si è preoccupato di far corrispondere a ciascun libro i fatti di ciascun anno, senza pensare affatto all'estensione, tantochè l’anno più denso di avve- nimenti occupa le 2073 righe del VII libro, mentre il III per la scar- sezza della materia raggiunge appena 638 righe: l'autonomia di ciascun libro e la coordinazione tra l’uno e l’altro sono evidentissime, come già ha dimostrato lo Eussner, il quale combatte l’idea del Birt, che tali libri siano stati pubblicati isolati (1), ed ha ragione, poichè tali com- mentari non furono scritti, così come li abbiamo, anno per anno, du- rante gli avvenimenti, ma la loro composizione simultanea è da porsi tra il 51 e il 50 (2). Come pure fu scritto a guerra finita il Bellum civile ,, che si compone di tre libri anche di molto differente esten- sione: i primi due comprendono gli avvenimenti del 49 e il terzo quelli del 48: i primi due poi specialmente diversificano per estensione : nel

(1) A. Eussner, nel Jahresdericht del Bursian, XXVII, pag. 209: Die Biicher traten, wenn schon gleichzeitig, doch gewissermassen als Mono- bibla (so!) vor das Publikum ,, parole del Birt (pag. 340) a cui egli risponde: Das ist wohl nicht richtig , e dimostra come la concatena- zione dei libri sia molto semplicemente e chiaramente messa in evidenza da Cesare.

(2) Il libro I, cap. 28, riferisce cose relative all'anno 52 a. Cr. e il VII, 6, 1, dice: his rebus in Italia Caesar nuntiatis, cum iam ille urbanas res virtute Cn. Pompei commodiorem in statum pervenisse in- tellegeret, in Transalpinam Galliam profectus est , e quindi è certo che furono composti contemporaneamente.

primo invero son contenuti i fatti dal gennaio del 49 alla metà di agosto, che costituiseono come una preparazione logica e necessaria agli avvenimenti del libro, nel quale assistiamo al trionfo delle armi di Cesare a Marsiglia, nella Spagna e nell'Africa: nel terzo l'epilogo cioè la lotta effettivamente avvenuta tra Cesare e Pompeo. Il Birt crede di poter affermare che il Bellum civile ,, siccome conto in due libri dei fatti di un anno, abbia perduto il carattere di memoriale, di efemeride, ma l’Eussner osserva che la divisione del primo e secondo libro non ha influito affatto sul carattere della composizione e ci fa notare che se Cesare avesse dato importanza alla approssimativa egua- glianza di volume di ciascun libro, avrebbe potuto dividere il terzo o non avrebbe dovuto scindere il primo e il secondo, perchè nel primo caso, essendo la dimensione del terzo libro di righe 2710, la spropor- zione sarebbe sempre stata minore e nel secondo, riunendo cioè i due primi libri, rispettivamente di righe 1913 e 1916, non avrebbe mai oltre- passato il limite del formato massimo dei libri di prosa (1).

Un criterio affatto diverso lo riscontriamo nella divisione della gigan- tesca opera liviana, conforme del resto al carattere ben diverso di tale storia ed alla enorme massa di materia. Livio ha dovuto scrivere questa storia tutta di seguito o per lo meno a grandi unità: gli avve- nimenti che egli narra vengono raggruppati in larghe divisioni e quelli principali, come acutamente fece osservare il Nissen, che mise in rilievo l’abilità artistica di Livio nella distribuzione della materia, con paral- lelismo affatto schematico, si corrispondono generalmente di 10 in 10 libri o multipli di 10. Quindi l’espressione di Plinio (Ep. VI, 20): posco librum ΤΙΝ Livii,, molto probabilmente non vuol significare un libro isolato come l’abbiamo noi, ma bensì uno di questi gruppi e alla parola liber, un senso generico di porzione, di partizione astratta di un’opera, indipendentemente dallo spazio che occupa.

Tacito per contro, che tratta una materia ben differente da quella di Livio ed anche con un altro scopo, ha individualizzato i libri delle

(1) A. Eussner, 1. c., pag. 210: Hatte Caesar auf annàhernde Gleichheit des Umfanges der einzelnen Biicher Gewicht gelegt, so hitte er auch III teilen miissen oder 1 und II nicht trennen dirfen... Demnach werden wir Birt zustimmen, wenn er die mangelnde Riicksicht des Autors auf ebenmiissigen Umfang der einzelnen Biicher aus dem anspruchslosen Charakter derselben erklirt. Die weiteren Folgerungen, dass sich die Biicher de bello gall. als Einzelschriften darstellen und dass jene de bello civili den Charakter von Memoiren aufgiben, missen wir ab- lehnen ,. Giova rammentare che secondo i calcoli del Birt i formati più grossi erano contenuti fra le 4200 e le 5184 righe, e quelli straordinari potevano salire fino a 5698.

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sue opere storiche racchiudendo in ciascuno un qualche importante av- venimento, che con crisi decisive, con catastrofi ricche di pathos , drammatico, producono una violenta commozione. E tutti del resto gli storici, quali seguendo un criterio, quali un altro a seconda della ma- teria trattata, dello scopo propostosi del loro speciale temperamento, diedero autonomia ed indipendenza ai libri delle loro opere. Così Ap- piano, per esempio, segue nella composizione dei suoi libri di storia romana il criterio etnologico, Polibio invece nella sua Storia universale quello sincronistico. Uno del tutto speciale adotta Velleio Patercolo. Come Livio, egli scrive tutta di seguito la sua storia, in un solo vo- lume (1), ma la divide in due libri ponendo come limite l’anno 146 a.C., che è senza dubbio importantissimo nella storia di Roma: statui priorem huius voluminis posterioremque partem non inutili rerum no- titia in artum contracta distinguere , (I, 14). Si tratta dunque di un vo- lume che contiene due libri, in enorme sproporzione fra loro, non solo per il disuguale periodo di tempo che comprendono, ma anche per la loro disuguale estensione. È ben vero che nella prima parte, che è brevis- sima, pur abbracciando la storia di circa duemila anni, c'è una lacuna, ma è chiaro che essa non può essere molto notevole: difatti in questa prima parte la narrazione non è che una compilazione frettolosa e som- maria; solo coll’avvicinarsi ai tempi più recenti, cioè verso la fine della seconda parte, essa va allargandosi e diffondendosi in minuti partico- lari, per finire poi colla glorificazione di Tiberio. Ed io credo che l’adu- lazione per l'Imperatore abbia appunto determinata la divisione della storia di Velleio, il quale, con questa voluta sproporzione fra i fatti antichi e pur famosi e quelli più recenti e relativi a Tiberio, ha cercato di mettere questi ultimi in migliore e maggior luce, per poter anche meglio raggiungere il suo scopo.

Le vite dei XII Cesari di Svetonio abbracciavano otto libri: di essi i primi sei contenevano ciascuno una vita, il settimo quelle di Galba, Otone, Vitellio, l'ottavo di Vespasiano, Tito, Domiziano, v'è chi non veda la ragionevolezza di questi aggruppamenti. Anche il De viris illustribus, del medesimo autore è una specie di storia letteraria, in cui Svetonio tratta, in tante distinte sezioni, corrispondenti ad altret- tanti libri, dei romani illustri nella poesia, nell’ eloquenza, nella poesia, ecc., facendo precedere ad ognuno di essi una breve introdu- zione sul genere letterario a cui era dedicato.

(1) Così egli conclude (II, 131): © Voto finiendum volumen sit , col- l'augurio cioè che gli dei vogliano conservare hanc Romani imperi molem ,, che si è venuta costruendo attraverso a lungo corso di se- coli ed in mezzo a tante lotte.

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Gli Seriptores hist. Aug. fanno generalmente corrispondere ad ogni

vita o gruppo di vite in intima relazione tra loro un liber, ed era questa probabilmente una consuetudine generale (1), poichè quando da essa devono derogare sentono il bisogno di giustificarsi: Ne fasti- diosum esset clementiae tuae, Constantine Maxime, singulos quosque principes vel principum liberos per libros singulos legere, adhibui mo- derationem, qua in unum volumen duos Maximinos, patrem filiumque, congererem , (XIX, 1, 1). “Sed improbum visum est vel pietatem tuam multitudine distinere librorum, vel meum laborem plurimis volu- minibus occupare , (XX, 1, 3). © Quos ego in unum volumen idcirco contuli, ne de singulis, 51 singula quaeque narrarem, nascerentur indigna fastidia et ea, quae ferre lector non posset , (XXIV, 31, 5). E come si vede, le giustificazioni sono varie, il desiderio di non annoiare il prin- cipe, la tema di abusare della sua bontà, il rammarico di dover lavorar troppo, la ripugnanza, il ribrezzo che l'argomento produce, ma mai le esigenze dello spazio: così pure non per esigenze di spazio, ma per più elevate ragioni di convenienza talora si inducono a separare certe vite, che magari dovrebbero essere unite: Nunc in alio libro, et quidem brevi, de Firmo et Saturnino et Bonoso et Proculo dicemus : non enim dignum fuit, ut quadrigae tyrannorum bono principi miscerentur. Post inde si vita suppetit, Carum incipiemus propagare cum liberis , (XXVIII, 24, 7).

Giunti al termine della nostra breve rassegna, noi possiamo con sicu- rezza conchiudere, almeno per gli autori presi a considerare, che liber , e © volumen , conservarono sempre un significato ben distinto, anche se talvolta si scambiano fra di loro per un facile e spiegabile passaggio di una parola da un senso materiale ad uno astratto o viceversa; che vi è un'infinita varietà nelle dimensioni dei “libri, tanto di opere diverse che di una stessa opera; che nessun autore non fu mai schiavo nella composizion dei suoi libri del formato dei copisti; che liber, non fu mai una porzione forzata e materiale di un’opera, ma bensì una sezione astratta, avente unità di contenuto, e che se per lo più ebbe pure autonomia di spazio, ciò è dovuto essenzialmente alle speciali condizioni dell'industria libraria di quei tempi; che infine allora, come adesso, nella distribuzione e divisione dell'argomento, oltrechè alla comodità materiale, si aveva sopratutto riguardo a quella intellet-

tuale dell’autore e del lettore. BexepbETTO Romano.

(1) II, 7,5; XX, 1,1: fuerat quidem consilium, ut singulos quosque imperatores exemplo multorum libris singulis ad tuam clementiam

destinarem: nam id multos fecisse vel ipse videram vel lectione con- ceperam ,.

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RECENSIONI

Remicio SaBBADINI. Storia e critica di testi latini. Cicerone. Donato. Tacito. Celso. Plauto. Plinio. Quintiliano. Livio e Sallustio. Commedia ignota. Catania, Francesco Battiato, 1914, di pp. x-458 (Biblioteca di Filologia classica diretta da Carlo Pascal).

La materia di questo libro non è nuova, ma rinnovata e riordinata. Come il Sabbadini stesso ci avverte nel proemio premesso al libro, le larghe indagini di carattere cronologico e storieo-biografico su l’uma- nesimo, alle quali egli pose mano fino dal 1876, lo portarono a tutta una serie, per così dire, parallela di studi propriamente filologici i quali videro la luce via via nel defunto Museo di antichità classica e negli Studi italiani di filologia classica per i quali tante benemerenze si è acquistato l’Istituto superiore di Firenze, poi in questa Rivista e nel Bollettino di filologia classica di Torino e in rendiconti e atti di acca- demie di Roma Torino e Milano. Questi studi filologici misero capo ai due volumi su Le scoperte dei codici greci e latini nei sec. XIV e XV, e con insistenza richiesti da privati e da librai hanno indotto l’autore a riprodurre nel presente volume gli opuscoli suoi più difficili oramai a rintracciare o irreperibili addirittura. Ma nel riprodurli la materia è stata, come dicevo di sopra, messa al corrente e riordinata in varii capitoli che si denominano dagli autori, la cui tradizione viene sotto- posta ad esame. Premessa alla trattazione è la ristampa e la breve disa- mina del Commentarium del Niccoli, cioè una specie di indice di ma- noscritti da ricercare in Germania che il Niccoli consegnò nel 1481 a Giuliano Cesarini cardinale di S. Angelo quando egli si recava a dare ordine alla crociata contro gli Ussiti. Le notizie derivarono al Niccoli da Poggio e riguardano quattro monasteri tedeschi, di Reichenau, onde tanti codici son passati a Karlsruhe, di Hersfeld, Fulda e Colonia, più uno in Dacia (= Dania) senza più precisa indicazione, nel quale si sareb- bero trovate X decades Titi Livi în quinque codicibus vetustissima (sic ! almeno nel Sabbadini) ex litteris longobardis.

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Riassumere un libro di questo genere, come di leggieri s'intende, è impossibile. Basta, sorvolando, segnalare agli studiosi qualcuna delle nuove aggiunte o qualcuno dei resultati più interessanti a cui è giunto il critico milanese. A p. 49 è introdotto nella trattazione dei codici ci- ceroniani un paragrafo nuovo sul codice Vat. Basilicano H 25, il quale fu scoperto dal cardinale Giordano Orsini nel suo viaggio in Germania del 1426: a p. 70 e segg. ragionevolmente il Sabbadini insiste nel negare che a Verona nel sec. XIV potessero esistere due codici antichi delle Epistulae ad Atticum; a p. 91 e segg. un altro nuovo paragrafo assegna con probabilità ad Ambrogio Traversari la paternità del Corpus ad Atticum, quale si trova nel codice Classense 469 di Ravenna, gemello del Vat. Pal. 1510. Similmente nuova è la polemica contro il Novati il Lafaye e il Mercati, con la quale a p.118 e sgg. si insiste nel soste- nere che Cosimo Raimondi cremonese abbia copiato il codice Laudense delle opere retoriche di Cicerone a Milano negli anni 1421-1422 alla scuola del Barzizza; rinnovato (p. 122 e sgg.) il paragrafo già pubbli- cato in questa Rivista (XVI p. 113-118) su l’apografo che dal Laudense fu tratto per uso del Barzizza, oggi diviso in due codici, il Vat. Pal. 1469 e il Napoletano IV B 43; e nuovo il paragrafo che segue su l’Ottob. 2057, tratto nell’anno medesimo 1422 di sul medesimo archetipo dal vescovo di Como Francesco Bossi. Infine, per restare sempre a Cicerone, alla fine della nota su 1 codici Ambrosiani del ‘De officiis’ (una volta ‘I co- dici milanesi’ in Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scienze e Let- tere, Sez. II, vol. XL, 1907, p. 508 e sgg.) si legge una breve postilla nella quale su la scorta della nota di C. Marchesi Un nuovo codice del De officiis’ in Memorie del R. Istituto Lombardo, XXII, 1911, p. 187 e sgg. è ammessa la filtrazione di lezioni della classe X nei codici im- puri della classe Z.

E questa parte ciceroniana del volume che chiude con la riprodu- zione dall’ Atene e Roma, XII, 1909, p. 2-6, di un gustoso capitolo sul trattato De virtutibus e La salade di Antonio de La Sale, è quella che presenta la maggior copia di modificazioni e aggiunte. Nel capitolo in- titolato a Donato sono riprodotti gli scritti del Sabbadini, che prelusero alle edizioni delle Interpretationes Vergilianae di Tiberio Claudio Donato per opera del Georgii e del Commento di Elio Donato a Terenzio per opera del Wessner: è inserito dal Giornale storico della lett. ital., 45, 1905, p. 172 e sgg. un capitoletto su l'autenticità o piuttosto non au- tenticità del commento di Donato alle Bucoliche che possedeva il Pe- trarca, secondo le chiose autografe al suo Vergilio ambrosiano. Il capi- tolo su Tacito è diviso in due parti: Opere maggiori e Opere minori, questa ultima specialmente ritoccata e trasformata in base al Commen- tarium del Niccoli, dal quale si ricava la prova perentoria che il codice

3 DI

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contenente le opere minori di Tacito proviene da Hersfeld (p. 275), mentre l’antica convinzione del Sabbadini che Enoch di Ascoli avesse portato a Roma non un apografo del codice germanico, ma proprio l’ar- chetipo, fu nel 1902 confermata dalla scoperta di otto carte originali dell’Agricola nel codice Balleani di Jesi. Il capitolo quarto su Celso termina con una storia e classificazione dei codici del Cicero medicorum, per venire alla conclusione che la nuova edizione critica di Celso dovrà poggiare su quattro manoscritti: gli excerpta del cod. Parigino 7028 (sec. X-XI) ampiamente illustrati dal povero C. Vitelli e due codici in- tegri del sec. X, L= Laurenziano 73, 1 e V = Vat. Lat. 5951, (sec. X), più il cod. Laurenziano 73, 7 (N) che è del secolo XV, ma da un perduto esemplare, copiato prima di L e V dal medesimo archetipo, derivò per mano di Niccolò Niccoli. Il capitolo su Plauto si aggira sulle vicende del codice Orsiniano (= Vat. Lat. 3870) e descrive un suo apografo, il Vat. Barber. Lat. 146; nega la possibilità che il Panormita possa essere stato l’autore della recensione italiana di Plauto, invitando gli studiosi a prendere in esame con la speranza di una più precisa e positiva con- clusione in proposito il cod. Vat. 1629 che è l’esemplare di Poggio. Nel capitolo su Plinio è negata l’autenticità della lettera di Leonardo Bruni, pubblicata dal Gamurrini, nella quale l’Aretino dichiara di esser venuto in possesso di clarissimas orationes Sec. Plinii numero viginti’ addu- cendo di questo pseudo-Bruni altre lettere dal cod. Laurenz. Stroz- ziano 104 e dal cod. 761 della biblioteca comunale di Verona (1). Il capi- tolo su Quintiliano riproduce da questa Rivista (XXXIX, 1911, p. 540-541) la prova che prima delle scoperte di Poggio un Quintiliano integro era noto a Nicola Clémangis in Francia, onde pure un esemplare fu tratto dal nostro Andreolo Arese verso il 1396. Il capitolo su Livio e Sallustio tortura ‘la nostra curiosità, riproducendo ancora una volta la lettera di Pier Candido Decembrio al segretario Visconteo Luigi Crotto, in cui, mandandogli l’epistola sallustiana di Pompeo al senato, gli dice d’averla trovata in un vetustissimus codex (scrittura carolingia, suppone il Sabbadini) che conteneva plurima e Livio sumpta,... ex his potissimum libris qui iam pridem periere ’. E il nostro rammarico cresce ancora, se è possibile, rileggendo alla fine il capitolo, riprodotto dal Museo di antich. class., II, 1886, p. 81-96, su una commedia latina per- duta, ispirato da una lettera che un tal Candido, da distinguersi da Pier Decembrio, scrive a Niccolò Niccoli negli anni 1412-1413, annunziandogli, tra l’altre cose che v'erano nella biblioteca di Giovanni Corvini, la

(1) Su lo stesso argomento il Sabbadini è tornato anche ieri in questa Rivista (XLIII, 1915, p. 308 e sgg.).

DE VARIE I SRO ITER, NO DREI BRONI NI TAST LETTE

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presenza di una comoedia antiqua senza nome d'autore, in cui come nel Querolus ricorreva Lar familiaris multum loquax’ (1).

Debbo aggiungere qualche osservazione ? Facciamone una di ordine generale. Da qualche tempo contro questo genere di studii, al quale appartiene il libro del Sabbadini e in fondo la veramente solida ope- rosità di lui, si muove in Italia la critica che questa non sia la filo-

logia. Io penso invece che essa non sia tutta la filologia, ma che ne formi una parte cospicua, come contributo alla storia generale della cultura e particolare della filologia stessa. Non omnia possumus omnes; ma questa è ragione di più perchè quelli i quali non posseggano le

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doti e la inclinazione a un determinato ordine di studii, debbano ve- dere con piacere quasi per una provvidenziale divisione del lavoro

questo genere di ricerche coltivato con paziente e proficua fatica da

altri. Osservazioni più particolari se ne potrebbero fare, come avviene, più

di una, essendosi l’indagine del Sabbadini esercitata su un territorio così vasto. A p. 101, per es., farà inarcare la ciglia a più d’uno l’af- fermazione che ‘il De inventione e la Rhetorica ad Herennium (di Cor- nificio, dice il Sabbadini) interessarono molto il medioevo, ma interes- sano meno noi, l’una perchè opera giovanile di Cicerone, l’altra perchè non sua’. La Rhetorica ad Herennium è, se io non m’inganno, un libro interessantissimo nella storia dell’arte romana e tale è parso dopo la edizione del Marx anche a un maestro negli studii di lingua e di sti- listica, il Norden (Antike Kunstprosa, I°, p. 175). A p. 177 si descrive un codice delle opere filosofiche di Cicerone, dovuto alla mano di Mo- desto Decembrio, cioè l’Ambr. D 113. sup. Esso è illustrato anche con caricature, una delle quali con la iscrizione frater Bernardinus in cor- rispondenza a Tuscul. II, 11-12 si riferisce a S. Bernardino da Siena: ‘Il luogo delle Tusculane scrive il Sabbadini biasima quei filosofi, le cui azioni non sono in armonia con le dottrine professate; e fra’ Ber- nardino, probabilmente, mirabile esempio di quell’armonia, fulmina i correligionari che davano invece spettacolo di disarmonia ’. Il ragio-

ASIA eta toa e λα ϑυκοθ ουσει

(1) Parlando del Corvini, il Sabbadini è tratto a ragionare di tre co- dici dell’Ambrosiana che gli appartennero e da uno di questi, H 14 inf, trae la collazione di un esemplare del Querolus. Colgo l'occasione per richiamare l’attenzione sopra un altro esemplare del Querolus, che si trova nell’Ottobon. 1549, tardo apografo del Vat. Lat. 4929. Tra le pa- role nuove che dalla commedia perduta adduce la lettera di Candido, il Sabbadini annovera gallulare (p. 425; la lettera ‘gallus nondum gal- lulat ’). Attestato è però garrulare (cfr. J. Samuelsson in Glotta, VI, p. 242) e potrebbe trattarsi di un errore di pronunzia o di grafia.

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namento non mi persuade. Il luogo citato delle Tusc. non biasima i filosofi, le cui azioni non sono in armonia con le dottrine professate ; ma gli Epicurei qui summum malum dolorem dicunt e gli Stoici che negano l’esistenza del dolore. La cosa è diversa. Poi, se San Bernardino è in caricatura, a seguire il Sabbadini bisognerebbe concludere che in lui ancora fra’ Bernardino, il caricaturista, volesse ritrarre non già colui che fulmina gli ipocriti, ma l’ipocrita stesso. Ma io non ho sotto gli occhi il codice e non vorrei arzigogolare nel vano. A p. 208 in una de- scrizione del codice Ambros. L 53 sup. una conferma dell’origine gal- lica del manoscritto è trovata nell’uso di satis che in una nota del trascrittore è adoperato a dar valore di superlativo a due avverbi (satis prolixe—confuse satis). In questi due ‘satis’ il Sabbadini sente il fran- cese assez. Io vi sentirei più semplicemente una reminiscenza del latino biblico e scolastico. A p. 251 si legge che Sicco Polenton dovè cono- scere il contenuto del codice Mediceo II di Tacito, se scrive nel libro I degli Scriptores: fragmenta equidem libri undecimi et reliquos deinceps ad vigesimum primum vidi’. Donde allora gli proveniva la notizia che leggiamo in fine della vita polentoniana da me pubblicata nella Intro- duzione al mio commento dei libri XV-XVI degli Annali (p. 13-14 della 25 edizione): ‘Divo namque a Tulio Caesare orsus ex ordine rerum ac temporum ad Traianum usque congredi et complecti omnia pollicetur”? A p. 282 il Sabbadini esprime l’opinione che il codice hersfeldese delle opere minori di Tacito contenesse il dialogo De oratoribus senza nome di autore : conclusione che sarebbe importante per la polemica su l’au- tenticità o meno dell’opera ma non pacifica (cfr. Gudeman, Wochenscehr. f. Klass. Philol., 1913, col. 929 e segg.). Nel capitolo su Quintiliano andava forse notato che i dubbi del Valla su la nazionalità di Quin- tiliano hanno trovato tra noi un recente prosecutore nel Gamur- rini e a p.400 che il verso di Marziale, I, 61,7 Binosque Senecas et unum Lucanum’ non solo non risponde ai codici, come il Sabbadini annota, ma è sbagliato, così come, per es., sbagliata metricamente è la citazione egualmente a memoria in De Latinae linguae elegantia, 1 5, di Apuleio, Apol. Sarritorem (1) pridianae reliquiae’. Quando la me- trica si complica, uscendo dalle consuete forme dattiliche, anche la squi- sita scienza metrica dei nostri umanisti, che era pur sempre scienza e

(1) Cito dalla edizione veneta del 1526. 1 codici noti hanno Conver- ritorem ’. E che il codice di cui si serviva il Valla fosse identico ad essi resulta dal fatto che la sua citazione della poesia incomincia col secondo verso Misi, ut petisti’. Il primo verso doveva dunque figurare nell’esemplare vallense separato dagli altri, come nei manoscritti nostri.

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non senso, falliva talvolta. A p. 407, in nota, citandosi delle Declama- zioni maggiori attribuite a Quintiliano la novissima edizione teubne- riana, bisognava forse aggiungere che essa ha tutt'altro che soddisfatto quel valoroso filologo che è il Reitzenstein.

Ma queste e altre simili osservazioni sono quisquilie che nulla tol- gono al merito dell’industriosa fatica, per la quale da queste pagine io sono lieto di inviare le mie congratulazioni al valoroso insegnante di Milano. Così gli fosse riuscito di fondere e amalgamare meglio le varie parti composte in vario tempo, da cui spesso uno stesso paragrafo ri- sulta. Ma il Sabbadini risponderebbe secondo una sua teoria che questo non è riuscito spesso nemmeno al divino Vergilio (1).

Vincenzo UssanI.

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Vincenzo Cosranzi. Studi di storia macedonica sino a Filippo. Pisa, Stabi- limento tipografico toscano, 1915, di pp. virr-136 (estr. dagli An- nali delle Università toscane ,, Tomo XXXIII).

Vengono, questi Studi, a coronare tutta una serie di ricerche feconde che in varii tempi già il Costanzi ha dedicato alla storia della Grecia del Nord. Tutti conoscono il Saggio di storia tessalica in cui egli per primo, si può dire, raccogliendo e sceverando con acume critico il ma- teriale, gettava le basi di una più certa conoscenza delle cose tessa- liche. Al Saggio si connettono in molti punti, come necessario ed utile complemento, i presenti studii. L'Autore afferma di non aver voluto dare con ciò una storia completa della Macedonia sino a Filippo, ma soltanto lumeggiare i punti più soggetti a discussione. Per le linee ge- nerali dello svolgimento storico egli si attiene difatti, in massima, alle direttive del Beloch o del Meyer. Ma, appunto, era conveniente inve- stigare la non lieve massa degli elementi e delle questioni che codesti storici hanno lasciato in tacere, e per le quali gli anteriori studiosi di cose macedoniche, come lo Abel, rappresentano uno stadio di critica ormai antiquata. Dalla necessità di sottoporre problemi svariati alla luce di conoscenze e di procedimenti più moderni trae la sua ragion

(1) Aggiungo qui in nota due inesatte scritture: a p. 115 Παΐ. per kal. che imputeremo al tipografo e a p. 197 7. C. Donato per Tiberio Claudio Donato.

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d'essere l’opera del Costanzi. Soprattutto nel periodo della preistoria e nelle questioni etnografiche numerosissime, che il tema della Macedonia porta con sè, si esplica, illuminata, la competenza dell’autore. Dei culti e dei riti più antichi egli offre un lucido esame, con ricchezza di ma- teriale e con opportunità di induzioni. Se qualcosa ci lascia esitanti, è la tendenza a riconoscere indigene e cioè appartenenti al patrimonio etnico primitivo anzichè importate per molteplici contatti la maggior parte delle divinità venerate in questa o in quella parte della Macedonia. Sembra che particolarmente i culti e gli Dei della Tracia, studiati non ha molto con singolare dottrina dal Perdrizet Cultes et mythes du Pangée in Annales de l'Est ,, 1910, avrebbero potuto suggerire qua e qualche diversa soluzione, come d’altra parte essi spiegano, senza dubbio, alcuni elementi frigii, che il Costanzi stesso riscontra, nella mi- tologia macedonica.

Prima del secolo V osserva l'A. una tradizione storica vera e propria sulla Macedonia non doveva esistere. Quindi l’opera sua per non breve tratto si risolve in un esame di leggende, di racconti diversi e vaghi, ricavati or dai logografi ora dai poeti. Lo studio è condotto con equilibrio di critica moderata: e, mentre trae partito di ogni ri- posto elemento, sfugge nello stesso tempo al difetto, così frequente in simili indagini, di attribuire valore di storia a ciò che ha valore pura- mente novellistico. Se singole osservazioni si vogliano fare, dirò che nell’Archelao di Euripide gli elementi leggendarii debbono avere molto maggior parte che non gli elementi inventivi proprii del poeta. Infatti è assai dubbio che Euripide abbia composto questa tragedia per il re suo contemporaneo: certo i nuovi frammenti della Vita di Euripide scritta da Satiro la mostrano composta prima della dimora in Macedonia (cfr. Kuiper Mnemosyne ,, 1913, p. 242).

Ma la parte più cospicua del lavoro è dedicata ai regni di Perdicca, di Archelao, di Aminta III: particolarmente, anzi, al regno di Archelao, per il quale l’A. ha modo di convalidare, con speciali appendici sulla tagia di Daoco I di Tessaglia e sull’orazione di Erode Περὶ πολιτείας, quei dati di cronologia e di storia ch'egli aveva già altrove proposto. Del regno di Filippo, infine, il Costanzi non si è voluto occupare se non brevemente e a brani, soffermandosi su alcune questioni in cui avesse a portare il suo contributo originale, come nello studio dell’ingerenza di Filippo in Tessaglia e nella cronologia della Guerra sacra, e pel resto contentandosi di ribadire, con una Appendice sulla politica pan- ellenica di Filippo e sul programma di Isocrate, la tesi ben nota del Beloch, del Meyer, del Wendland. Non è qui il caso di sottoporre a discussione il problema, tanto più che non avrei una parola da aggiun- gere o da togliere a quelle che altrove scrissi e contro le quali il Co-

stanzi combatte (1). Solo, per dovere di critico, osserverò che a mettere in pericolo una teoria fondata su tutta una diversa concezione del pen- - siero isocrateo non basta contraddire ai piccoli argomenti per stessi controvertibili e opinabili sempre: ma occorre risolvere il quesito fon- damentale, cioè dare del Punatenaico quella spiegazione sodisfacente che non vi lasci sussistere i tanto lamentati enigmi , : spiegazione a cui, io credo, la tesi generalmente consentita è incapace di condurre. Allora soltanto il convincimento potrà formarsi che la Lettera III a Filippo sia o no autentica, che questa o quella mossa sia o no conforme all’animo dello scrittore. Aucusto RosTAGNI.

Lurcr Pareti. Studi siciliani ed italioti. Firenze, Libreria internazionale B. Seeber, 1914, di pp. 356, con tre tavole.

Questo libro di forma maestosa è primo volume di una nuova colle- zione che, col titolo Contributi alla scienza dell’antichità e sotto gli auspicii di Gaetano De Sanctis e del Pareti stesso, si propone di pub- blicare “con unità di indirizzo e di metodo... quei lavori di carattere rigorosamente scientifico sull’antichità i quali per la loro ampiezza mal trovano posto negli articoli di periodici o nelle memorie accademiche ,. Se anche non si acceda appieno alla concezione di ‘scienza dell’an- tichità’ che sembra essere alla base del nascente edificio, ad ogni modo non si può non salutare con gioia la nuova pubblicazione come segno della rinfrancata energia con la quale per molteplici vie i nostri studii vengono ormai ad affermarsi. E sebbene il presente volume, consistendo di saggi disgregati ed in gran parte indipendenti, non sodisfi alla con- dizione di un tutto ampio, di un tutto non frammentabile negli articoli delle Riviste e delle Accademie, tuttavia è da godere che l’arringo si apra con opera di così varia importanza ed innegabili pregi.

La storia della Sicilia e della Magna Grecia aveva avuto già studiosi abbastanza frequenti, ma per parecchi punti non era ancora stata sotto- posta ad una critica che penetrasse nel garbuglio e nell’incertezza delle testimonianze e scotesse la morta gora sia delle tradizioni con troppa

(1) Mi sia lecito avvertire, a scanso di equivoco, che a p. 121, per uno spostamento forse della n. 5, appare a me attribuita un’ afferma-

zione erronea contro la quale, come il Costanzi, così io stesso già mi ero rivoltato.

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facilità accettate, sia dei giudizii arbitrarii. Questo si è proposto di fare il Pareti, e vi ha portato le caratteristiche del suo pensiero, che erano singolarmente adatte all'uopo. Egli avverte, a principio, di avere scansato ogni sintesi prematura. Certo, da una collezione di Contributi noi non attendiamo che lavori d'indagine e di propedeutica. Solo è da vedere se questi stessi lavori d’indagine e di propedeutica, i quali si limitano alla discussione dei documenti e rimandano a tempo più pro- pizio la ricostruzione della realtà storica, possano essere scissi da ogni norma di sintesi, da ogni direttiva interiore, o non debba, piuttosto, nello sceveramento e nel lavorìo critico dei testi, attuarsi già, inconsa- pevole, una concezione determinata. Lo si comprenderà in seguito dal- l'indole appunto con cui il Pareti conduce le proprie ricerche.

Sono dodici Saggi, dei quali soltanto alcuni già editi: la maggior parte vedono qui per la prima volta la luce. Di essi un buon mazzo appartiene ad un trentennio circa di storia siciliana, sulla fine del VI e sul principio del V secolo av. Cr., che è infatti il periodo più irto di questioni e più vago di notizie; dalla spedizione di Dorieo, mezzo riverberata nella leggenda, alla Grande guerra contro i Cartaginesi, alla tirannide dei primi Dinomenidi, alle lotte interne dei Sicelioti: I. Dorieo, Pentatlo ed Eracle nella Sic. occidentale; Il. Per la cronologia siciliana del principio del V sec. av. Cr.; III. 11 nome di Messene ed i Messenì del Peloponneso; IV. I precedenti della battaglia di Imera; V. Theognidea; VI. La battaglia di Imera; VII. I tripodi dei Dinomenidi e le questioni connesse. Gli Studii rimanenti sono più isolati, sebbene prendano le mosse da questioni notabilissime, gettando luce or sulla storia dei culti, or sulla topografia, ora sulla cronologia: VIII. Per la storia e per la topografia di Gela; IX. Per una storia dei culti della Sicilia antica; X. L’etimo di Regio calcidese in Strabone e V’elemento sannitico nel Bruzzio; XI. La cronologia della prime colonie greche in Sicilia; XII. I Galeotai, Megara Iblea ed Ibla Geleatide.

Difficile sarebbe riferire, nella varietà della materia, le molteplici resultanze e le ricche induzioni a cui il Pareti perviene, resultanze ed induzioni le quali rendono l’opera sua non pure utile, ma indispensa- bile davvero. Poichè affermiamolo subito -— l’originalità, l’acume delle trovate è la dote precipua di questo libro: signoreggia nel grosso della questione e si propaga, con lusso di particolari, nei meandri infi- niti. Dove non ha nulla di nuovo da dire, il Pareti tace. Ma il caso è raro. Di Dorieo egli è giunto a rintracciare le vicende con molto mag- giore compiutezza e determinazione che non fosse fatto sinora: piace soprattutto la sua idea di desumerne gli elementi dal mito di Eracle ad Erice e dalla tradizione su Pentatlo, poichè (egli pensa) questo mito e questa tradizione ebbero presso gli antichi la sorte di essere rimpol-

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 82

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pati con particolari attinti alla storia di Dorieo. Sulla cronologia poi delle tirannidi di Cleandro, Ippocrate, Gelone, per via di una minu- ziosa disamina degli avvenimenti egli suggerisce uno spostamento ge- nerale, che, quand’anche non sia del tutto rassicurante e possa essere accettato o no, certo pone in grave pericolo l’opinione sin qui consen- tita. Per tutta intera la astrusa trama dei fatti che si collegano col sorgere della tirannide in varie città della Sicilia e con la battaglia di Imera, l’autore spiega la copia delle sue combinazioni, inseguendo con pronta agilità le notizie più riposte e fugaci, riconnettendole in seducente guisa. Ciò ch’egli dice, ad esempio, delle lotte tra Selinunte ed Agrigento e dei Sicelioti alleati con i Cartaginesi, può ritenersi ac- certato. Estremamente dubbia rimane invece, a mio credere, la data della battaglia d’Imera, che il Pareti vuol fissare nell’anno 479. Ma fra i varii saggi importantissimo è quello che riguarda i culti della Sicilia, nel quale, a differenza dei suoi predecessori, l'Autore si propone, non pure di raccogliere le testimonianze delle divinità venerate, ma di cer- carne la provenienza, per ogni città, per ogni luogo: e, a dimostrazione del metodo, ci egli stesso, per Selinunte e per Megara Iblea, una raccolta di testimonianze assai più compiuta di quante sieno state date sinora. Poichè e non in questo saggio soltanto, ma in ogni parte del libro il Pareti ha a suo sussidio, oltrechè l’analisi minuta e sa- gace delle fonti letterarie, una sicura conoscenza delle fonti numisma- tiche ed archeologiche. I problemi egli li indaga sotto tutti gli aspetti. Esempio ammirevole di codesta facoltà è lo studio sui Tripodi dei Di- nomenidi.

Erudizione dunque ricchissima, non morta, non passiva, ma avvivata da una singolare originalità di trovate, da una continua elasticità di spedienti, è il pregio evidente di questo libro. Sarebbe vano voler op- porre, sui singoli punti, tesi ed opinioni diverse: non c’è nulla nel libro del Pareti, anche in materia quanto mai discutibile, che non sia legit- timamente affermato o almeno proposto o tentato per via di conget- ture. Piuttosto, il mio compito è di guardare più addentro nella natura dell’opera e dire in che cosa essa contraddistingua e in che cosa per avventura pecchi. Il libro del Pareti è un giuoco di logica: di qui trae il suo valore, ma deriva in pari tempo i suoi difetti. È notevole che ciascuno di questi saggi consiste di un complesso di parecchie soluzioni possibili che l’autore tenta e moltiplica in atto di disarmare fino al- l’ultimo gli eventuali avversarii, e fra le quali sceglie man mano con criterio razionale. In fondo, tutte le soluzioni gli si presentano sur un medesimo piano: egli non entra con un punto di vista fortemente do- minatore; ama invece spiegare il lusso prezioso dei suoi espedienti, sorprendere il lettore con la moltiplicata varietà dei suoi esercizii. Ac-

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cumula spesso, oltre il bisogno, le prove. Questo alla sua opera un’impressione di prolissità talvolta penosa, che stanca e disperde la nostra attenzione. Molte tesi, che il critico con ogni mezzo si affatica a scalzare, sfumerebbero al suo sguardo s’egli procedesse con ferma e risoluta visione. Il Pareti forse non pensa che l’effetto lasciato in noi da tanta solerzia e scrupolosità di dialettica è più scettico che non sarebbe dopo uno studio nel quale una veduta organica e determinata accentrasse alle proprie mire la varietà degli elementi. Tanto che questa o quella soluzione ch’egli alla stregua del puro ragionamento abbia scartato, assorbita ed agitata da altri in un rinnovato contesto d'idee, può talora diventare senza difficoltà la base di un nuovo edi- ficio. I criterii del probabile e del verisimile, su cui, in sostanza, la storia dell'antichità si fonda, fanno ricorso a ben altri elementi che non siano quelli della logica astratta: si nutrono e si plasmano col lievito di tutta una complessa e crescente concezione dell’antico.

Battere la via maestra, senza troppo disperdersi nei sentieri laterali, ed intensificando nel vivo della questione la sua mira, questo dovrebbe essere fatto dal Pareti, che possiede vista così acuta e spirito così indi- pendente.

Al carattere che ho ora osservato un altro è connesso e riguarda la forma. Infatti, non ostante la perfetta lucidità della dimostrazione, i contorni dei singoli saggi non appaiono sempre eon bella evidenza, le loro linee sono spesso sparenti od ineguali. Eppure si sa che anche la fredda indagine può diventare organismo ben costituito ed armonico, quando sia oggetto di una più intensa contemplazione dello spirito.

Queste osservazioni si possono fare al volume del Pareti: ma solo ad un patto, di riconoscere ch’esso è opera di nerbo.

Avuausto RosrAGnI.

ParLopemi περὶ παρρησίας libellus. Edidit Arexanper OLIvieri. Lipsiae, in aed. B. G. Teubneri, MCMXIV, di pagg. x-83 (Bibliotheca scri- ptorum graecorum et romanorum Teubneriana).

Anche questa, come la precedente dell’Olivieri di un altro papiro ercolanese (v. Rivista XXXVII 557-558), è una buona edizione ; e anche per questa, come per quella, l’opera sua, assai meritevole, fu, senza dubbio, facilitata molto e dal lavoro degli Accademici Ercolanesi (C. P. V, parti I il papiro e II), i cui supplementi delle lacune sono bene spesso non solo probabili in sommo grado, ma addirittura sicuri, e dagli

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studi dell’Usener, del Kòrte, del Crònert, e dagli aiuti che egli ebbe dal compianto Sudhaus, dal Mewaldt, dal Mutschmann. Debbo aggiungere che lo stato di conservazione dell’originale è abbastanza buono, soprat- tutto nella parte contenente le colonne’, e buoni, cioè quasi sempre esatti, sono anche i disegni.

Nella prefazione l’Olivieri dice che i disegni furono eseguiti da Fran- cesco Casanova nel 1808. Si vede che egli non ha tenuto conto (forse la sua prefazione era già stampata, perchè da almeno due anni la casa Teubner annunciava come imminente la pubblicazione del volumetto) dell'elenco dei © Papiri ercolanesi disegnati” edito da me in questa Rivista (XLI. 1913, pp. 427-464; cfr. p. 459), dal quale risulta che il suo papiro, 1471, fu bensì svolto nel 1808 da Francesco Casanova, ma venne dise- gnato da Francesco e da G. Battista Casanova (non dal solo Francesco) non prima del 1809, e parte non dopo il 1811, parte non dopo il 1817: sono date e dati che io potei desumere da documenti ufficiali (ignoti al Martini, il quale per la compilazione del suo Catalogo generale si valse quasi unicamente dell’Inventario manoscritto del 1853, dove ab- bondano sviste e purtroppo anche errori di fatto), e hanno quindi un valore assoluto. Però l’Olivieri ha tratto profitto, per la sticometria del papiro, delle ricerche mie ; e io sono ben contento che queste gli abbiano servito. Solo non sarebbe stato male, mi sembra, che egli almeno in omaggio all’unicuique suum avesse notato (bastava un semplice inciso, p. e. ut primus vidit) che fui io il primo a scoprire che le lettere alfa- betiche marginali in 1471 non sono, come altri supposero, indicazioni di capitoli, bensì note sticometriche; e fui anche io il primo a indo- vinare (H marginale essendo ripetuto, cioè trovandosi due volte) che la numerazione sticometrica marginale alfabetica non è unica in cotesto papiro : si ha, cioè si aveva, la serie A-Q completa, e poi A-K (Rivista XXXVII. 1909, pp. 494-496). A proposito di H ripetuto, osservo che secondo l’Olivieri (pp. vi e 67) sarebbe ripetuto anche I. Non so se si tratti di un semplice errore tipografico, benchè torni due volte in pagine diverse; comunque, nel margine del frustulum dopo il frammento 15, cioè, come avevo indicato più esattamente io, fr. 1562, c'è T chiaris- simo, con la lineetta orizzontale tuttora intera, appunto come avevo letto e dato io, e non I. Ma in fondo è cosa di poca importanza; e a ogni modo non riguarda l’edizione del papiro, fatta con grande cura e commendevole soprattutto per la prudenza, con cui ha proceduto l’Olivieri nel supplire di suo varie lacune.

Napoli, 9 maggio 1915. Domenico Bassi.

Cia

Codicum Casinensium manuscriptorum Catalogus, cura et studio Mona- chorum S. Benedicti Archicoenobii Montis Casini. Vol. I. Pars I (Codd. 1-100). Montis Casini (Romae, ex typographia pontificia Insti- tuti Pii IX), MCMXV, di pagg. vin-100.

Con vero piacere annunzio il principio di cotesta importantissima pubblicazione, opera del p. Mauro Inguanez, e auguro di tutto cuore che possa essere condotta a termine nel più breve tempo. So che il Catalogo comprenderà la descrizione di tutti i manoscritti di Monte- cassino, anche di quelli greci, di cui già si è occupato il Saydak (v. Ri- vista XLI 354), e degli orientali, e sarà quindi utilissimo a più categorie di studiosi: la parte ora uscita ne è garanzia sicura.

Come è noto, dei manoscritti di Montecassino esiste un gran Catalogo (Bibliotheca Casinensis seu Codicum manuscriptorum qui in tabulario Ca- sinensi asservantur series... M. Casini, voll. I-V, 1873-94); ma, anche a non voler tener conto che la sua monumentalità” sît venia verbo di altri tempi è un inconveniente, per più ragioni, molto grave, e per giunta vi comparisce appena un terzo, 858 su oltre un migliaio, dei codici posseduti, esso non risponde certo alle esigenze attuali della scienza: ed è pur già un gran merito dei monaci dottissimi della ce- lebre abbazia aver capito ciò e aver provveduto.

L’opera non poteva avere più degno inizio: la recensione del conte- nuto dei vari manoscritti è di una chiarezza e insieme di una sobrietà addirittura mirabili; e lo stesso va detto della descrizione esterna. Fran- camente credo che il p. Inguanez abbia assolto il suo difficile compito proprio come doveva assolverlo. Senza dubbio potrei specificare meglio i pregi del suo lavoro se avessi sott'occhio alcuni dei codici da lui re- censiti e descritti, mentre, non avendone, sono costretto a tenermi sulle generali; ma pur la semplice lettura di pagine qua e del libro l'impressione esatta che l’opera non potrebbe essere migliore di quello che è, e a ogni modo non si può coscienziosamente pretendere che un Catalogo abbia altre doti in più o diverse da quelle che ha il Catalogo dell’Inguanez. Per non tacer nulla: credo di aver notato che, sebbene di rado, egli non si è valso di tutti i sussidi scientifici necessari per un lavoro come il suo, e che non mancano errori di stampa. Ma non è certo colpa sua se gli hanno fatto difetto (purtroppo, capita a tutti) libri di consultazione; e per fortuna egli può rimediare o negli indici o nelle Addenda, indispensabili in opere di cotesto genere, o negli uni e nelle altre. Quanto agli errori di stampa, dipendono evidentemente soltanto dal fatto che l’Inguanez ha dovuto correggere le bozze lontano dalla tipografia...; e potrà provvedere a lavoro compiuto. Del resto la

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stampa è buona, e la veste tipografica è in tutto degna della pubbli- cazione.

Napoli, 8 giugno 1915. Domenico Bassi.

Joser KiòcaLING. De coronarum apud antiquos vi atque usu (= Religionsge- schichtliche Versuche und Vorarbeiten, B. XIV, H. 2). Giessen, A. Tò- pelmann, 1914, di pp. 98.

Il libro ci più di quanto non prometta il titolo, poichè il Kéchling non limita 16 sue ricerche entro la stretta cerchia della vita dei popoli classici, ma per raffermare le sue ipotesi e le sue interpretazioni dei

vari simboli ed usi si rivolge alle costumanze analoghe di altri popoli antichi e moderni, specialmente di stirpe tedesca. soltanto l’A. ci parla delle corone, o delle parti di che sono o possono essere composte (fiori, fronde, rami, ecc.), ma, tratto dall’analogia della materia, passa anche ad altri riti e credenze o superstizioni che hanno in fondo lo stesso valore e significato. Ed è naturale, perchè uno in fondo è il senti- mento ed il motivo principale che spinge l’umanità alla credenza ed alla superstizione, cioè l'interesse di propiziarsi la divinità che lo preservi

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dai mali, il che, alla fin fine, è la più semplice espressione del prin- cipio della conservazione dell’individuo e della specie. Così io credo che si debbano spiegare tutti quei riti così vari e diversi nelle loro forme, che in fondo ammettono un'unica spiegazione, tendendo ad un solo scopo. I vari riti assumono con l’andare del tempo forma e carat- tere e spesso significato diverso, quando si va oscurando il primitivo scopo, ed intrecciandosi talvolta dànno motivo a nuove espressioni che presentano significati tra loro apparentemente contraddittorî e che diffi- cilmente si riesce a capire come si possano conciliare in un medesimo rito, se non risalendo alla fonte originaria. L’analogia pertanto induce l'A. ad uscire spesso dalla via diretta per raccogliere da altre fonti raggi di luce più viva onde illuminare un lato ben oscuro della coscienza umana, risa- lendo a tempi nella cui storia può penetrare soltanto l’intuizione del critico. Ma il Kéchling, pur tentando di chiarire la ragione prima del- l’uso dei fiori e delle corone, non risale direttamente al principio ge- nerale, cui è portato dalle sue ricerche di tratto in tratto: questo fatto l'impressione che l'A. più volte si ripeta e ritorni sul medesimo concetto. Invece questo dipende da ben altra causa, poichè, studiando lA. le varie forme del rito in e per sè, è condotto per necessità a risalire sempre al medesimo principio: il che prova come sia desso il

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fondo comune e primitivo dal quale devesi partire per ogni ricerca di tal natura. Ma in un lavoro analitico quale è quello del Kéchling non diremo che questo sia un difetto grave, poichè ne un vantaggio non piccolo con la indubbia conferma del principio stesso. Il guaio è che non sempre al lettore apparisce chiara la conclusione, dopo così minuta illustrazione di tanti e così vari fatti messi a riscontro l’un dell’altro: ed il Kòchling avrebbe fatto bene a riassumere in breve il resultato della sua laboriosa e dotta ricerca.

Il lettore, che deve rifare tutto il cammino fatto dall’A., si sente alia fine stanco di tanto lavoro e spesso corre rischio di perdere di vista l'argomento principale, non ostante i frequenti richiami che lA. stesso sente la necessità di fare e di notare per ricordare al lettore quanto precedentemente ha dimostrato. Tanto più che il materiale è farragi- nosamente raccolto ed accumulato, compiacendosi quasi l'A. di una certa ostentazione di erudizione, qualche volta punto necessaria e per la quale si sente indotto a riportare brani dai vari autori dai quali trae i do- cumenti, formando del suo libro, scritto in latino, un mosaico di varie lingue. Meno però che dell’italiana, poichè dagli usi e dalle tradizioni italiane il Kòchling non crede di poter trarre nulla che giovi al suo lavoro. Eppure certi riti dei popoli classici era ben naturale che tra- passassero, sia pur modificati profondamente, anche negli usi e nelle credenze dei popoli, che ne sono i primi e diretti eredi.

Ad es. a p.26, dove si parla della virtù protettrice dell’ulivo, come non ricordare con quanta religiosa cura si conserva nelle famiglie, spe- cialmente di campagna, l’ulivo benedetto nella Domenica delle Palme, e che ha tanto potere contro il demonio quanto l’acqua santa? E la stessa festa delle Palme, che nel culto cristiano ha un valore affatto particolare, forse che non risale a qualche più antico rito, interpretato di poi conformemente allo spirito della nuova religione, come avvenne per tanti altri riti che la religione cristiana adottò, modificandone il significato primitivo? Così, come esempio della φυλλοβολία, per la quale si spargevano di fiori o petali di fiori il pavimento del tempio o la via (p. 36), si poteva ricordare come nella festa del Corpus Domini, ancor da noi, si usi spargere di fiori e di petali di rose, gettati dalle finestre delle case o dalle bambine o dai bambini che, vestiti da angio- letti, e, in generale, coronati di fiori, precedono la processione, sulla via lungo la quale passa il sacerdote con la sacra reliquia. E parimente il lancio di fiori, rose specialmente, che una volta si faceva nella chiesa durante la festa della Pentecoste, particolarmente in S. Giovanni Late- rano, e di poi soppresso perchè aveva assunto carattere troppo profano, e continuato, secondo il Magri, fino agli ultimi tempi in Messina, tanto che la Pentecoste fu chiamata la Pasqua delle rose, e tale è chiamata

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ancor oggi dai Francesi. Non parlo poi dell'uso dei fiori, specialmente della corona o del mazzo di fior d’arancio, nelle feste nuziali, e del- l’uso delle corone di fiori nelle feste funebri: corone da deporsi sulla bara, e da appendersi alla tomba. Tali corone in generale sono stam- pate anche sugli annunci mortuari, intrecciate sovente con la croce. E tutti questi usi risalgono indubbiamente agli usi antichi, rimasti nella tradizione e nella coscienza popolare, sebbene la nuova religione abbia voluto dare una nuova interpretazione, poichè non li poteva sop- primere. Ma non dobbiamo però chiedere all’A. più di quanto voleva darci insistere su questi difetti, che riguardano solo una delle parti secondarie del suo lavoro, il quale è lodevole per la diligenza, l’accu- ratezza anche tipografica, se ne togli qualche svista, come superstiosi a p.20,r.14, ed un λήμψηται a p.91, r. 1. Al Kòchling avevano già aperto la via tanti altri studiosi, i cui meriti egli rettamente riconosce, e dei quali si serve a buon dritto, segnando sempre la fonte cui attinge, quando non apporta ricerche o conclusioni proprie; ma al materiale nuovo ordinamento, per rendere più chiaro il concetto inspiratore del- l'usanza, secondo l’interpretazione ch’egli vuol dare.

Partendo dall’analisi della radice stessa ozeg, viene a dichiarare il valore originario delle parole che ne sono derivate, indicando sulla scorta di tale significato primitivo la natura dell’obbietto e l’uso cui era destinato: e per tale ricerca egli viene a conchiudere ad es. che la στεφάνη di cui parla Omero in 11]. XVIII, 597 non era già una corona, bensì ornamentum capitis aut fibula crinis mulierum, escludendo così, contro l’opinione dello Schleiden, che all’età di Omero fosse l’uso delle corone. Ed è buona e ragionevole interpretazione quella del Kéchling: quanto grande ne sia l’importanza ognun capisce facilmente. Poichè il significato primo di στέφανος, corona, ecc., è quella di legare, riunire in circolo, ecc., 11 Kéchling afferma che il significato primo della corona in e per era quello di legare, di avvincere a qualcuno o qual- cosa (sempre, naturalmente, favorevole all’interessato, e, per contrario, di respingere ogni male); forza magica accresciuta, avvalorata, secondo le varie credenze, dalla materia stessa di cui era composta la corona. Questo è l'argomento del primo capitolo, che è il più importante ed il più originale. Nel secondo capitolo l’A. si occupa dell'uso delle corone nei riti sacri, religiosi ed in quelli privati, superstiziosi, mostrando come sempre la ragione ed il valore del rito sia di allontanare il male, il malocchio sovra tutto, e di espiare un fatto cattivo com- messo contro qualcuno, specialmente rispetto ai morti. Chiude il lavoro una breve storia dell’uso delle corone nell'antichità e del mutamento di significato che la corona ebbe presso i Cristiani. L'A. è di una accu- ratezza scrupolosa sia nella determinazione del materiale che adopera,

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sia nell'uso che ne fa: e si può ben dire che non riesce mai di coglierlo in fallo per qualche interpretazione o non del tutto esatta, o, come più di sovente avviene in lavori di tal fatta, audace troppo e inaccettabile. Per questo la tesi sostenuta dal Kéchling apparisce vera e confermata dalle testimonianze, anche se non in tutto si potrà essere di accordo con l’Autore nei particolari. Il lavoro pertanto motivo a qualche os- servazione, sebbene questa nulla possa togliere all'importanza ed al va- lore vero del libro.

Ad es. a p. 7 non credo che il verso 525 sg. dell’Eracle di Euripide con quel suo éÉeoreuuéva possa bastare a giustificare l’uso di στέμμα anzichè di στέφανος. A p. 6 fra gli altri significati di corona era da ricordare quello di circolo di spettatori (cfr. Horat., epist., I, 18, 53; II, 3, 381). A p. 27,3, seguendo il Ritter, a proposito dell’uso del cuore, del fegato, dei reni, ecc. nei riti sacri, ricorda il fatto di Arpalico, che nutre la figliola Arpalice, dopo la morte della madre, vaccarum equa- rumque ... uberibus, come dice Igino (fr. 193). Ma quell’udberibus sta, io credo, metaforicamente per Zacte, non perchè Arpalice abbia proprio mangiato le mammelle delle sue nutrici: è il solito tipo della bimba, educata maschiamente e di cui nelle nostre letterature abbiamo parecchi esempi da Atalanta a Marfisa, da Camilla a Clorinda. A p. 56 si ricorda la patera cirenaica conservata a Parigi nella quale gli uccelli con testa umana io credo che si possano identificare con Je Sirene, quali erano nella primitiva concezione dei Greci, spiriti infernali che rapivano le anime, come sono rappresentate in qualehe bassorilievo, e per cui si spiega la relazione fra le Sirene e Core nella leggenda del rapimento quale è adombrata in Ovidio e in Igino. A p. 57 si parla della rela- zione fra il culto delle piante e quello dei morti per la credenza che gli spiriti dei morti passassero nelle radici delle piante. Non vi ha forse qui una relazione con la credenza che faceva derivare gli uomini dalle piante, della quale fa cenno, quasi deridendola, Omero in 77. XXII, 126 e più ancora in Od. XIX, 163 ed Esiodo, Theog. 352? Rientrerebbe così questo fatto nella credenza generale che fa ritornare, con la morte del corpo, lo spirito donde s’era dipartito in origine. Notano gli scoliasti a tali passi ch’essa era una formula usata proverbialmente, ma appunto tale diffusione e popolarità indica quanto per l’addietro tale credenza fosse radicata nell’animo del popolo, tanto che l’eco si risente ancora in Virgilio, Stazio, Giovenale. Ed altre osservazioni si potrebbero fare: ma questo, come dicevo, non toglie affatto importanza al volumetto : che anzi sono i libri densi di contenuto e di pensiero quelli che dànno luogo a maggiori discussioni e per l’importanza della materia e per l’ori- ginalità delle ricerche, ed allettano, per il valore anche delle questioni

secondarie, a soffermarsi di più persino sui particolari. CamiLro Cressi.

Gusrav Leseune DiricaLeT. De veterum macarismis (= Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten, B. XIV, H. 4). Giessen, A. Tòpelmann, 1914, di pp. 71.

Lo scopo che s'è prefisso il Lejeune Dirichlet con questo libro è di indicare e di studiare le espressioni con le quali gli antichi esprime- vano il concetto della beatitudine (= macarismo) e l’uso che di tali espressioni è stato fatto. Il libro, per questo, è diviso in due parti, delle quali la prima studia il valore dei vocaboli che servirono ad indicare l’uomo beato (μακάριος, μάκαρ, ὄλβιος. εὐδαίμων, εὐτυχής), la seconda l’uso che si fa delle formule indicanti il macarismo. Lo scopo ultimo, l’utilità che sarebbe derivata da una tale ricerca era appunto di quae- rere, per dirla con le parole stesse dell’A., denique num quid ex his de religione et disciplina morali, quam vocamus, cognoscatur. Ma se la ricerca è condotta con rigore sistematico, e con sagacia e diligenza per quanto riguarda la raccolta, la distribuzione, l’interpretazione del materiale, non possiamo d’altra parte dire che grande profitto se ne sia ricavato riguardo all’utilità, che pareva ripromettersene l’autore stesso. Alla fine della sua laboriosa ricerca egli conchiude che si può provare essere macarismum primam stabilemque loquendi formam... et litterarum τόπον, ma si può dubitare ch’egli abbia anche provato come esso sia stato communis veterum de felicitate opinionis speculum, almeno secondo quanto pare volesse dimostrare l’A. con le sue minuziose distinzioni sul valore da darsi ai vari aggettivi indicanti il macarismo, ed all’uso peculiare di alcune formule in determinate circostanze. Che se egli vuol conchiu- dere, come io credo che legittimamente si possa soltanto affermare, che ben presto le formule perdettero il loro primitivo e distinto valore (e non si può dubitare che da principio ogni aggettivo avesse un suo va- lore specifico) e furono usate indifferentemente da poeti e prosatori ogni qual volta volevano esprimere il loro senso di ammirazione e di congratulazione con altri per le felici e liete loro condizioni, che de- stano sempre in fondo all’ animo di chi si congratula un senso intimo di invidia, per quanto benevola, si può dubitare se valesse la pena così lunga e minuta discussione, per la quale resulta chiaro che è vana ogni sistematica classificazione. Si reputa felice, beato, chiunque gode di quei beni de’ quali noi manchiamo, siano essi beni morali, spirituali o materiali, e perciò tante sono le forme della beatitudine stessa quante sono le aspirazioni ed i desideri dell'anima umana, mentre le formule con le quali essa è espressa, poichè dipendono in fondo da un unico precipuo sentimento (aspirazione a desiderare quanto non si ha, invidia per chi lo possiede), si riducono a ben poche e sono quasi stereotipe. In

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507

questo, io credo, devesi ricercare la natura, la ragione, la varietà del ma- carismo e da questo anche la contraddizione nella considerazione del macarismo in un fatto che da altri invece è considerato un danno, un guaio, ecc.: come la ricchezza, la figliuolanza, il matrimonio. Non si può risalire pertanto ad un criterio fisso, determinato. Tutt’al più si può notare che nell’antichità v'era quella stessa disparità di pensare e di sentire quale è ancor oggi, e si osserva presso ogni popolo ed in ogni tempo: quot capita tot sententiae. La ragione va trovata nella na- tura stessa della psiche umana.

Il Lejeune Dirichlet invece 81 sforza nel primo capitolo di voler tro- vare il valore specifico delle singole formule, e di determinarne i signi- ficati, ma poi egli stesso si trova costretto a notare che una vera di- stinzione nell’uso letterario e popolare non v'è, e che gli esempi rimasti non si possono sistematicamente classificare; ma pure egli tenta di ricercare, per quanto è possibile, il concetto primitivo e questo precon- cetto lo induce ad essere troppo sottile nell’esegesi dei testi che apporta. Ad es. voler studiare il valore causale o condizionale delle formule del macarismo anche nel rispetto grammaticale, è troppo dif- ficile e forse vano. Gli è naturale che in ogni determinazione di maca- rismo (quando non si tratti di una semplice esclamazione) sia indicata la ragione d’esso e quindi l’uso costante delle formule ὄλβιος (μακά- gios) ὅς con le quali si introduce la spiegazione della beatitudine. Se così non fosse, anche il macarismo rimarrebbe oscuro e senza valore, data la ragione puramente subbiettiva, personale di chi lo esprime. E però tale formula assume la forma stessa di ogni pensiero che tenda ad una espressione consimile: ad es. anche μέγας in Callim. hymn. 2,10 ὃς ἔδῃ ... μέγας οὗτος. Raccolto il materiale, noi ci saremmo aspettato appunto che fosse messa in luce la natura del macarismo (e quindi l’uso suo) nelle sue intime ragioni: come dal significato primi- tivo di ogni vocabolo si sia passato ad un significato diverso, per il quale trapasso avvenne quindi la confusione tra di loro.

Qua e la questione è accennata, specialmente dove si ricerca il significato di μακάριος, di εὐδαίμων, di εὐτυχῆς : ma l’autore è tormen- tato dalla ricerca di un sistema per il quale arrivi a notare nella cor- rente della coscienza popolare, quando essa ha già fuso i vari elementi costitutivi, ancora i filoni originari, senza averci però dimostrato come appunto quei filoni si siano fusi in un tutto indistinto. E questo fatto lo induce ad un’interpretazione spesso troppo arguta e speciosa dei luoghi degli autori ne’ quali cerca quasi la conferma della sua tesi: credo che sempre si possa convenire con lui nell’esegesi proposta. Così a p. 12 in Eschilo, Pers. 710 sg. (non 701) ζηλωτός, ζη non hanno già notionem praedicandi beatum ma hanno il loro vero valore primo di invidiato

PACCANS | ΣΧ Ομ ἐμ ΝΜ τ φῆ Ν τ A x

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508

(perciò = ammirato) e di invidio, sempre in senso buono, come nel passo di [Lys.] II, 79 (riportato a p. 45) dove l’espressione μωκαρέζω καὶ ζηλῶ indica appunto la relazione di causa e di effetto nel significato primo di ambedue i verbi. Nel fr. 157 di Sofocle (p. 13) 1 εὐδαίμων in con- fronto con 1᾿ἀϑλεώτατος non rappresenta punto la natura regia di Edipo, ma la sua condizione di uomo ben amato dalla divinità da prima e quindi precipitato nella sventura; che εὐδαίμων non credo che per se regiam nobilitatem significare posset, ma è considerato tale il re (cfr. Aesch. Pers. 759 ed Agam. 508) perchè con la potenza regale è unita la ricchezza e nella ricchezza il popolo, misero, povero, crede sia la fonte prima della felicità. Per questo in Eurip. Suppl. 166 mi pare che l’eddatu@v indichi e la potenza regia e la ricchezza ad un tempo; e parimente mi pare che voglia andar troppo oltre l’Autore quando nel- ᾿᾽ εὐδαίμονες di Soph. Ant. 583 sg., ritrova praeter felicitatem etiam veterem illam genii notionem ,. A proposito dei poeti ellenistici era da notare che anche dai tragici è usato μακάριος (cfr. Diogen. in Stob. 75, 1) e che il μακαριωτάτην di Polibio III, 91, 6 (riportato a p. 23, 1) derivò probabilmente dall’uso abbreviato della formula εὐδαίμων καὶ μαλχάριος. Troppo sottile è ancora la distinzione che si fa a proposito del passo omerico Od. VI, 153 a p. 25 sg., e che risente più del precon- cetto e del sentimento personale dell’interprete che non della verità, quale trasparisce chiara dalla più comune esegesi del passo. È un motivo così comune anche nel nostro parlare e sentire familiare! Con acutezza invece e con grande interesse per lo studioso sono messe in luce le formule del macarismo negli inni nuziali e specialmente nei riti religiosi. Ma anche in questo caso conviene non essere troppo as- soluti e non dimenticare che la rigidità della formula è derivata dal- l’uso popolare, per il quale ancor oggi si mandano immancabilmente agli sposi novelli le felicitazioni e gli augurî (come nel caso inverso, nelle tristi congiunture, le condoglianze) con espressioni viete, stereo- tipe! Quanto ai riti religiosi, dove la formula acquista un valore spe- ciale, il Lejeune Dirichlet dimostra con maggior copia di esempi e più fermamente quanto avea appena accennato il Norden, Agnostos Theos p. 100, 3. Che anche negli oracoli si ricorra alla solita formula, è na- turale: essa ha per sua natura un certo valore enfatico che bene si adatta a tali circostanze: non è raro il caso di sentirla ancor oggi in bocca ai ciarlatani che predicono l’avvenire sulle nostre piazze.

A p. 39 l’autore dichiara che saepissime non diiudicari possit, utrum divitias regum magis admirati sint an potentiam (i Greci) nelle loro for- mule di macarismo; ma è chiaro che nel concetto della beatitudine i Greci comprendevano la ricchezza e la potenza ad un tempo, collegate fra loro da vincolo di reciprocità. Egli riferisce il passo omerico 1]. III, 182

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per dimostrare come ai vivi si applicava il concetto di μάκαρ, e sta bene: ma quanto ad Od. XI, 482 si deve notare che quivi si parla di un morto, e che è un vero μάκαρ nel senso originario della parola, poichè si trova nell’isola nei beati, come è per l’epigr. AP. VII, 41 di Diodoro (riportato a p. 65), riferito a Callimaco morto. E mi pare an- cora troppo assoluta l'affermazione che Omero, celebrando la potenza dei re, non riguardi tanto la condizione presente quanto uno stato pas- sato, quippe qui ipse veteris dignitatis non nisi reliquias viderit. Il desi- derio che vive nel μάκαρ di Il. III, 182 è una condizione di Priamo (e se ne intende facilmente la ragione, è una pennellata da maestro, come sa fare Omero!), non una condizione del poeta. A p. 40 n. 2 l’espres- sione: qui te imperatorem videmus degli Acta fratr. arv. (p. 197 Henzen), che è rituale e punto adulatoria, non mi pare 851 possa confondere con quelle realmente adulatorie di Ov., ex Pont. II, 2, 93 e Vit. Alex. Sev. 6, 5.

A p. 52-53 fra gli esempi delle morti fortunate per coloro che non videro tempi tristi, non dovevano mancare quelli di Ortensio in Cicerone, Brut. 1sg., e Tacit. Agr. 46. È importante la ricerca e la conclusione del Lejeune Dirichlet a proposito dell'uso fatto dagli Orfici del maca- rismo e quanto ora opportunamente egli mette in viva luce conferma ancor più quanto altra volta nella mia nota Simieum notava dell’orfismo di Simia, riferendomi appunto alla formula τρὶς μάκαρ nella Secure, vv. 9-10.

Qualche altra osservazione si potrebbe fare all'Autore, ma non vorrei che il lettore potesse per queste note minute (forse troppo!) discono- scere il valore che la dissertazione ha nel suo complesso. soltanto per la raccolta diligente, ma per l’originalità e l’importanza di certe interpretazioni di taluni luoghi, quali ad es. Esiodo Op. 140 sg., 170 sg. a pp. 8-9, Senofonte, Inst. Cyr. VIII, 3, 48 a p. 19, ecc. Si noti che chi tenta una ricerca nuova, quale è quella appunto del Lejeune Dirichlet, si trova di fronte a mille difficoltà oltre che nella raccolta del materiale, anche, e più, nella cernita e nella classificazione d’esso, e non è possibile sfugga a certe contraddizioni, errori od incertezze che si potranno cor- reggere da chi ha sottomano il materiale raccolto e già vagliato da altri. Così il Lejeune Dirichlet ha preparato ed indicato la strada ad altri.

CamiLLo Cessi.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Greek and Latin Inscriptions by WirLiam KeLLy Prentice. Published by the Century Co. New York, MCMVIII (Part III of the Publications of an American Archaelogical Expedition to Syria in 1899-1900), di pp. x1v-352, in-4° gr.

Greek and Latin Inscriptions in Syria by Enno Lirtwann and Wiruiam KeLLy PrentIcE, 1908, di pp. 20 e 41; by Wirciam KeLLy PRENTICE, 1909, di pp. 118; by Enno Lirtwann, Davip Maere and Duane ReeD Stuart, 1910 e 1913, di pp. 129, xxvin, e 130-223 (con Ancient Ar- chitecture in Syria by Howarp Crossy BurLer, di pp. 148, xxv, e 149-213); by Wirriam KeLLy PrevntIcE, 1914, di pp. 135-168 (con Ancient Arch. ecc., di pp. 211-260). Leyden, Late E. J. Brill (Pu- blications of the Princeton University Archaeological Expeditions to Syria in 1904-1905 and 1909).

Il primo volume di questa dottissima silloge delle iscrizioni di Siria costituisce la parte III delle pubblicazioni della spedizione archeologica americana nel 1899-1900, “under the patronage of V. Everit Macy, Clarence M. Hyde, B. Talbot, B. Hyde, and I. N. Phelps Stokes. È una magnifica opera che comprende 488 iscrizioni, parte già edite, altre ine- dite, tutte ampiamente illustrate e tradotte. Peccato che le epigrafi, per essere relativamente recenti, non contribuiscano a crescere luce al pe- riodo preromano della storia siriaca!

Dopo un’ampia introduzione sugli intenti e sul metodo della pubbli- cazione ed un capitolo intitolato The character and purpose of the in- scriptions of Northern Central Syria, seguono altre quattro sezioni, in cui sono rispettivamente raggruppate le inscriptions of the Dijebel Il-A “La, Djebel Bariîsh& and Djebel Halakah, le inscriptions of the Djebel Riîhà, le inscriptions of Selemiyeh and Kinnesrin and of the Djebel Il-Hass and the Djebel Shbét, le inscriptions of the Djebel Hauran.

Sotto l’aspetto letterario appare assai importante l'iscrizione 375 di Shakka. E siccome la pubblicazione del Prentice non è facilmente ac- cessibile, credo opportuno riprodurre l'interessante documento :

lic

7-3 DI cid ecs i città μον ἊΝ i 2 Tiri eil ri rasi Ser e vene ne ct ra e e

ie a me

dil

Πρόκλον, κυδήεντα σοφιστὴν EARdd πάσῃ, κεῖϑι λιπόντα βίον δέξατο σῆμα τόδε.

Ὡς ἄρα μόρσιμον ἦεν ἑνὶ κλειναῖσιν ᾿Αϑήναις ϑυμὸν ἀποπτῆναι ᾿Δττικοῦ ἐκ στόματος.

Questo epigramma vuol essere avvicinato all’epitaffio che Proclo stesso si era composto e che ci venne conservato dal suo biografo Marino e nella Anthologia Palatina, VII, 341; sembra improbabile che il Proclo dell’epigrafe di Shakka sia veramente il celebre filosofo neoplatonico.

Di minore importanza e meno numerose sono le iscrizioni latine, nelle quali ricorrono talora peculiarità grammaticali degne di nota. Nell’iscri- zione 131 di Κα! αὐ il-Mudîk, singolare l’espressione ..... faciendu[m] cu- ravit in acceptis(s)imo.

Il volume si chiude con gl’indici dei nomi propri greci, dei nomi latini, delle parole greche, delle parole latine, di frasi greche caratteristiche, delle abbreviazioni o dei simboli, delle particolarità ortografiche e gram- maticali greche, delle date secondo l’era cristiana, dei luoghi.

Gli altri fascicoli appartengono alle Publications of the Princeton Uni- versity Archaeological Expeditions to Syria in 1904-1905 and 1909.

Per facilitare la pubblicazione il territorio fu diviso in due sezioni, A, Southern Syria, e B, Northern Syria. Della sezione A sono pubblicate od almeno pervenute alla Rivista le parti 1 Ammonitis, 2 Southern Haurdn, 3 Umm idi-Djimàl; della sezione B le parti 1 The ‘Ala and Kasr Ibn Wardan, 2 l-Anderin, Kerratîn, Maratà, 3 The Djebel Riha and the Djebel Wastaneh, 5 The Djebel Halakah. Le iscrizioni della prima sezione sono state raccolte ed illustrate da Enno Littmann, David Magie Jr. e Duane Reed Stuart; quelle della seconda furono curate dal Prentice. M. L.

Antonino CrieoLLa. Cajo Sallustio Crispo e lo scandalo attribuitogli da Marco Terenzio Varrone nel frammento del logistorico Pius aut de pace. Cremona, Tipo-Lit. P. Fezzi e C., 1915, di pp. 28.

A proposito dell’accusa di adulterio, che venne mossa a Sallustio da Varrone nel logistorico Pivs aut de pace ed è ricordata da Aulo Gellio (1), sulla cui testimonianza la ripeterono poi quasi tutti quelli che si occu- parono dello storico latino, il dott. Antonino Cipolla presentò fin da trent'anni or sono una memoria all'Accademia dei Lincei, che la premiò nell’adunanza dell’11 giugno 1885 dandone un giudizio assai lusinghiero.

(1) Noctes Atticae, XVII, 18.

πα ἐν IRIODIZINC ALI

2512

Ora finalmente il Cipolla si è deciso a pubblicare, se non la memoria intera, almeno un riassunto, che basta del resto a far comprendere su quali ragioni egli si fondi per negar fede al racconto varroniano che Annio Milone abbia sorpreso Sallustio con sua moglie Fausta e l’abbia sferzato e costretto a pagare il suo riscatto (1).

È un'indagine accurata, in cui lo studio della vita di S. va sempre di pari passo con quello delle condizioni di Roma e dei partiti allora ferocemente in lotta tra loro. Il non essersi fatto alcun cenno di quella pretesa immoralità dello storico da Cicerone, che pure era suo avver- sario, nella difesa di Milone dopo l’uccisione di Clodio, il non essere egli nominato neppure da Orazio (2) tra i seduttori di Fausta (era, del resto, tal donna che d'esser sedotta non aveva più bisogno), da Va- lerio Massimo (8) tra gli adulteri puniti delle loro colpe, il silenzio di Asconio Pediano (4) intorno a cause particolari di rancore tra Milone e Sallustio, infine il contegno stesso di quest’ultimo, durante il pro- cesso contro di quello, sono per il Cipolla, e mi pare giustamente, tante prove dell’infondatezza dell'accusa.

Ma di questa l'A. vuole anche spiegare l'origine. Prima di tutto egli ricorda che Varrone scrisse moltissimi logistorici (S. Agostino li dice 76), il cui titolo constava del nome di un personaggio e di un soggetto, p.es. qui Pius e de pace, i quali erano componimenti da lui ideati sulle tracce di Eraclide Pontico allo scopo di diffondere “la scienza e pro- pugnare i suoi propositi morali e politici, drammatizzando la sua esposizione col far discutere dal personaggio del titolo il soggetto che lo integra e facendo centro della trattazione il soggetto stesso ,, al modo stesso del Laelius e del Cato maior di Cicerone.

Adduce poi ragioni plausibili della sua opinione che il Pius debba essere Sesto Pompeo e la pace quella che fu fatta sperare dal convegno di Brindisi e conchiusa nel 39 a Miseno, e che a Sesto Pompeo doveva dare la facoltà di partecipare al governo. Varrone adunque, con quel- l'accusa provocata da passione partigiana e mossa a Sallustio soltanto allora e non nel 50 quand’era stato radiato dal Senato, avrebbe voluto contestargli il diritto di elevarsi a censore del padre suo, il Magno Pompeo.

Non credo di poter meglio conchiudere questa breve recensione che con le parole efficacissime usate dal Comparetti, dall’Ascoli e dal Mo-

(1) loris bene caesum dicit, et, cum dedisset pecuniam, dimissum. (2) Sat., I, 2.

νεῖ:

(4) Cfr. Arg. ad Milonianam, pp. 35 e 48.

513

naci, quando nella relazione ai Lincei sulla memoria del Cipolla dissero l’indagine ben condotta e conseguite con sicurezza, o almeno con grande verisimiglianza, le eonclusioni che Sallustio fosse calunniato e che Sesto

Pompeo sia il Pio del logistorico ,. TuLLio ΤΈΝΤΟΕΙ.

Furieme. Jone, con note di Errore De Marcni. Torino, Paravia, 1914, di pagg. xvi-147 (Biblioteca scolastica di scrittori greci).

Buona l’introduzione e buono il commento, e adatti in sommo grado alla scuola. Nell’introduzione si discorre brevemente, ma quanto basta per i giovani dei nostri licei, della materia del “Jone °,, della genesi e degli intenti ,, del valore drammatico ed estetico ,, e délla data della composizione, della tragedia. Sono osservazioni originali del De Marchi e notizie attinte alle fonti migliori e più recenti. Originale è anche in gran parte il commento, come ho potuto constatare raffron- tandolo qua e con due stranieri, uno inglese, del Bayfield, e uno tedesco, del Wecklein. Dell’uno e dell’altro si è valso, e ha fatto bene, il De Marchi, ma se n'è valso con molta discrezione. Le sue note, di qualunque genere siano, grammaticali, dichiarative, mitologiche, rac- comandano per la loro sobrietà e chiarezza e precisione, e saranno senza dubbio un ottimo sussidio ai giovani per la retta intelligenza del pen- siero euripideo. Certo qualche piccolo appunto si può muovere a qual. cuna di esse (per esempio, in quella al v. 28 trovo un ‘Mercurio’, che è invece ‘Ermes’, tantopiù che si dice sempre Zeus, Atena ecc. e non Giove, Minerva ecc.), ma per vere inezie che non mette conto di rile- vare. Piuttosto giova, anzi è doveroso avvertire che cotesta è la prima edizione italiana del Jone di Euripide, e quindi saranno grati al loro collega gl’insegnanti dei nostri licei di poter far gustare nel testo ori- ginale ai loro allievi un’altra tragedia greca, che se non è un capola- voro è pur sempre una bella opera d’arte.

Il libro del De Marchi chiude con una prima appendice, critica, e con una seconda “Il tempio di Apollo in Delfo e l’oracolo ,.

D. Bassi.

J. Epwarp Harry. The Greek tragic poets. Emendations, discussions, and critical notes. Published by the University of Cincinnati. Cincinnati (Ohio), 1914, di pagg. 254.

I tre tragici, e tutte le tragedie superstiti, esclusi i frammenti, di ciascuno di essi. Riguardo a Euripide in particolare, l’ Harry (professore di greco nell'Università di Cincinnati) si dice convinto col Mekler che siamo von einem Euripides restitutus auch heute noch weit entfernt, ma è convinto, in pari tempo, col Murray che plus interpretationis eget Eu-

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 89

ah

514

ripides quam emendationis. Sembra o può sembrare un paradosso; co- munque, l’Harry si è attenuto, nel far le sue proposte, non solo per Euripide, bensì anche per Eschilo e per Sofocle, a cotesti criteri e, in- sieme, al canone veramente fondamentale posto da uno dei maggiori, anzi massimi critici, Henri Weil, alla critica congetturale: “alla resti- tuzione del testo servono” les manuscrits, les scholies, et le bon sens. Disons mieux, c'est le bon sens, aidé des manuscrits, ou le bon sens, aidé des scholies, ou le bon sens cherchant d’autres secours, quand ceux-ci vien- nent lui manquer. Soprattutto, dunque, il buon senso, che in molti casi, anche nella critica dei testi è poi il semplice senso comune; il quale lascia stare le cose come sono quando come sono stanno bene, non si accanisce a proporre emendamenti per il gusto di cambiare (e il cambiamento troppo spesso si risolve in una toppa), non fa dire sciocchezze controsensi a nessuno, non afferma mai nulla senza prove, rispetta fin dove è possibile l’autorità dei manoscritti, ecc. ecc. ecc. Di cotesto buon senso prova costantemente l’Harry nel volume quassù annunziato, che oltre ai suoi numerosi articoli intorno ai tre tragici greci pubblicati da parecchi anni in qua in vari periodici europei di filologia classica, compresa la nostra Rivista, e nei suoi Studies in So- phocles (University of Cincinnati Studies VII), ne contiene molti nuovi. Nuovi e, diciamo, vecchi possono rendere ottimi servigi a tutti gli stu- diosi dei tragici greci, si occupino di ricerche di alta filologia o vogliano tradurli o più modestamente attendano ad approntarne edizioni sco-

lastiche. D. Bassi.

R. v. PònLmann. Griechische Geschichte. Fiinfte, umgearbeitete Auflage. Miinchen, Beck, 1914, di pagg. vi-877 (Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft I. v. MiiLer-R. v. PonLMANN, II 4).

Ricordo di aver letto in periodici stranieri (un bibliotecario deve te- nersi al corrente del movimento scientifico anche attraverso alle ‘recen- sioni’) giudizi molto favorevoli delle precedenti edizioni di cotesta opera, che è giunta alla quinta in poco più di un ventennio. Le cure poste dall'autore nell’aggiornarle e migliorarle di volta in volta culminano nella presente, che è davvero un lavoro poderoso, e meriterebbe di essere tradotto in italiano. Ho confrontato questa nuova edizione con la terza (la quarta non mi fu accessibile) e ho veduto che i mutamenti e le aggiunte sono in gran numero, così nel testo come nelle indicazioni delle fonti e nelle note. Naturalmente il Pòhlmann ha tenuto conto di tutte le scoperte archeologiche e di tutte le pubblicazioni degli ultimi anni; e piace che, a differenza di molti, troppi suoi connazionali, egli non abbia dimenticato che anche in Italia si studia e si lavora e si

ΕΣ a I SS

515

produce. Trovo citati il De Sanctis, il Niccolini, il Pareti, il Pais, il Costanzi, il Solari, la Lanzani, il Pedroli, il Lumbroso, il Breccia, il Salvetti, il Cardinali, ecc.; ben inteso, l’autore non si limita a citarli, ma si è valso delle loro pubblicazioni e più di una volta ha fatto propri i risultati delle loro ricerche. Più che nelle precedenti edizioni (certo più che nella terza) egli si è adoperato a mettere in rilievo nella pre- sente “il contenuto spirituale della storia greca, e il lato politico e sociale della stessa, come avverte nella breve Prefazione, richiamando l’attenzione dei lettori particolarmente sui numerosi paragrafi in cui sono più visibili le linee e le prove di cotesto indirizzo. D. Bassi.

ALrreD Hoare. An Italian Dictionary. Cambridge: at the University Press, 1915, di pp. xv, 663 in 8 coll. e cxxxv in 4 coll. (in-4°).

Sebbene quest'opera non tocchi direttamente il campo degli studì cui la nostra Rivista si riferisce, merita tuttavia di essere segnalata ai nostri filologi, sia perchè, per i singoli vocaboli italiani, l'illustrazione etimo- logica, molto particolareggiata e fondata sui risultati più recenti delle ricerche linguistiche, non può non interessarli, sia perchè il dizionario nella sua ampiezza e sicura bontà può tornare di notevole aiuto a coloro i quali intendono approfondirsi nella conoscenza della lingua inglese, conoscenza che si rende sempre più necessaria al filologo italiano, in quanto ogni giorno dall’Inghilterra e dall'America si apportano rilevan- tissimi contributi agli studîì classici. Ma lo splendido volume pratica- mente non serve soltanto quale dizionario italiano-inglese, poichè le cxxxy pagine in 4 colonne, che ne formano l’ultima parte, costituiscono un Concise english-italian vocabulary, dove se Derivatives, such as adverbs in -/y, adjectives formed on similar lines in both languages and so on, are omitted ,, trovansi invece vocaboli e frasi dell'uso mo- derno inglese, che indarno si cercano in altri dizionarìî manuali delle

due lingue. X.

= 516 Ἷ

ἘΣ σα ον

PINETE

RASSEGNA DI PUBBLICAZIONI PERIODICHE

The Classical Quarterly. IX. 1915. 1. G. Norwoon, Pindarica, pp. 1-6 [0]. III 43-5 (CarIst): οὔκοϑεν significa “on the homeward side’ VI 87-90: φεύγομεν è adoperato nel suo senso legale “we are arraigned XII 25-8: βαστάζεις è usato nel senso naturale della parola e quindi ‘thou dost carry the hot baths of the Nymphs in thy arms’ Pyth. Il 89-92 : fra altro, propone σπάϑας “a sword” invece di στάϑμας IV 213: sta bene Αϊήτᾳ παρ᾽ αὐτῷ, il re stesso presiedendo alla gara ib. 234: i σπασσάμενος significa (o implica) dragging back again’). A. Pranr, î Two passages in Aristotle, pp. 7-9 [Poetica XXII. 9. 1468 5: pro- } pone οὔτε καϑηράμενος ὃν ἔχει νοῦν ἐλλεβόρῳ. de partibus animalium ' I. τ. 14-18. 604a 10 sgg.: scrive ὁμοίως δὲ καὶ ἐπὶ τῶν αὐτομάτως δο- DI κούντων yivecdar, (καϑάπερ καὶ ἐπὶ τῶν τεχναστῶν, ἔνια γὰρ καὶ ἀπὸ ταὐτομάτου γίνεται ταὐτὰ τοῖς ἀπὸ τέχνης, οἷον ὑγίεια. τῶν μὲν οὖν è προῦπάρχει τὸ ποιητικὸν ὅμοιον, οἷον ἀνδριαντοποιητική, οὐ γὰρ γένεται αὐτόματον, δὲ τέχνη Λόγος τοῦ ἔργου ἄνευ τῆς ὕλης ἐστίν. καὶ τοῖς ἀπὸ τύχης ὁμοίως: ὡς γὰρ τέχνη ἔχει οὕτω γίνεται). Seguono com- mento e traduzione]. R. C. Sraron, On Apollonius Rhodius, pp. 10-14 [I 906-909 τοῖο ἄνακτος si riferisce a Giasone; πορσύνωνται è medio, ma non è però necessario emendare col Brunck ἔφέστιοι in

ἐφέστιον ΠῚ 158-163 passo imitato dal Milton Paradiso perd. IV ì 543 sgg.; commento; fra altro 158 propone βῆ Διὸς μεγάλοιο ϑέειν ij πάγκαρπον ἀλωήν IV 678-680 il poeta segue la teoria di Empedocle δ᾿

su la formazione del mare IV 784-790 riguardo a πλαγκτάς, che il poeta chiama usualmente Κυάνεαι πέτραι. Nei tre ultimi luoghi il SeaToN si riporta alle dichiarazioni del Pratt in Journal of Philology n. 65 (cfr. Rivista XLII 397)]. T.W. ALren, Mss. of Strabo at Paris and Eton, pp. 15-26 [Descrizione di 13 manoscritti, di cui 11 Parigini, 1 di Oxford e l’Etonensis 141; quest’ultimo è descritto minutamente. Continueràl]. B. Τὶ ULLman, Some type-names in the © Odes”° of Horace, pp. 27-30 [Nomi tipici, in genere, di etere sono in Orazio G?ycera, Pholoe, Lycoris, Myrtale, Rhode, Neaera, Galatea, (Charybdis e Chimaera), nomi che hanno quasi tutti i corrispondenti greci, propri di simili donne].

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A. E. Housman, Oviîd “Ibis” 512 and È Tristia© IMI 6, 8, pp. 81-38 [Ampio commento al primo luogo, soprattutto riguardo a stella e a viro; in fondo la spiegazione è quella data dall’Owen nel fascicolo preced. di Classical Quarterly (v. Rivista fasc. preced. p. 396). In Tristia 6, propone di sostituire Zoui a wiro). H. W. Garrop, Notes on the ° Na- turales Quaestiones? of Seneca, pp. 39-49 [(Continuazione; v. Rivista fasc. preced. p. 397). Note di critica del testo a poco meno di 80 luoghi (sempre sull’edizione del Gercxe), da 77, 3 a 266, 20]. C. R. Hames, Some notes on the text of Fronto, pp. 50-54 [Sull’edizione del NaseR; luoghi presi in esame oltre a 40, da p. 17, 2 a p. 251, 19]. H.W. GreENE, The eloquence of Odysseus, pp. 55-56 [Commento a Iliade II 221 sgg. a proposito della traduzione errata del Pope, che fraintese com- pletamente la comparazione νιφάδεσσιν ἐοικότα χειμεριῇσιν].--- S. ALten, Note on Horace Odes” I. xn. 45-48, p. 56 [Invece di occulto (che non basta mutare in occulte, come vuole l’Owen in Class. Quarterly VIII 146 sg.; v. Rivista XLIII 192) propone obducto : obducto aeuo by length of time’. inter omnes può essere una corruzione di asterodes, usato predicativamente con micat; micat asterodes °shines asteroidal’]. H. 1. ConnincHam, Claudius. and the “primores Galliae”, pp. 57-60 [Ri- sposta all’Harpy (v. Rivista fase. preced. p. 397); anche il CunninGHAM tien fermo, in fondo, alle proprie conclusioni).

Idem. 2. 6. H. Macurpy, The ὄδυνήφατα φάρμακα of Iliad” V. 900, and their bearing on the prehistoric culture of old Servia, pp. 65-71 [Com- mento a Iliade V 899-904, sulla base, oltrechè di altri passi omerici, del folk-lore della vecchia Serbia, della quale faceva parte la Peonia, contigua alla Dardania: alle due regioni erano comuni divinità mediche. Il Chirone e la Circe di Omero sono grandi concezioni epiche a questo riguardo, e gli ὀδυνήφατα φάρμακα di Peone nel passo omerico citato segnano il principio dell’arte medica in Europa]. T. D. Goopett, Corrigenda. Χρή and δεῖ, p. 71 [Correzioni all’ ‘articolo’ indicato, in Classical Quarterly VIII 91-102; v. Rivista XLIII 191]. H. G. Everyw- Wurre, Hesiodea, II, pp. 72-76 [(Continuazione ; v. Rivista XLII 184). Note, la maggior parte, critiche: Opere e giorni 172-181. 191-192 (192 ἀνέρες αἰνήσουσι). 361 e 363 (363 va premesso a 361). Teogonia : 886-900, 924-929 (nuovo ordinamento). fram. (Rzaca, 1908) 96. Papiri greci e latini, n.° 131 (fra altro: ν. 7 κῦδος 17 βοῦσιν ἐπ᾽ εἰ λιϊπόδεσσιν, ἐπεὶ va[*]va[... ἐπεὶ invece di #4eîv)]. G. Norwoon, Notes on the ‘Agamemnon’, pp. 77-81 [32 sg. (Sinewick) a proposito di ϑήσομαι : τί- deuor è la vox propria per indicare le mosse nel giuoco dei πεσσοί, a cui si allude ivi. 312-814: soltanto nei due primi versi si descrive il metodo della trasmissione del messaggio. 390-395: πρόστριμμα con- tiene un accenno al fanciullo che la caccia all’uccello. 414 sg.:

iatale ΡΥ METRI. INTO VITI RATIO SPENTI CE ων δεν ἐς

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φάσμα è accusativo retto da δόξει. 437 sg.: δορός dipende da ταλαν- τοῦχος 696-698: forse “E invece di ἔρυν, con riferimento al giudizio di Paride 1242-1244: ἐξῃκασμένα può significare © wearing a mask”; ἀληϑῶς significa “come promettete’. 1385-1387 a proposito di νερῶν σωτῆρος: σωτῆρος è un’ ‘orribile ironia’). A. Part, Sophoclea, VIII, pp. 82-85 [E. T. 328 sg.: è giusta la “costruzione dell’ Ermsrey οὐ μή ποτε τὰ σὰ ἐκφήνω κακὰ ἵνα εἴπω ἐμὰ ἔπη, e il secondo μή

ari oa sì, nia pe τ

ie dita artrite

è semplicemente un’enfatica ripetizione del primo 489 sgg.: il miglior partito è ancora quello di restaurare il coriambo dopo βασάνῳ 719 sgg. a proposito di ἐνταῦϑα e di ἤνυσεν 772 sg.: co)... ἐών entering into such relations with you’). T.W.Atten, Mss. of Strabo at Paris and Eton, pp. 86-96 [(Continuazione; v. quassù fasc. preced. di Class. Quarterly). Relazioni fra’ vari manoscritti e lacune, le quali per lo più rimontano all'originale. P 5 (= 1397) sta a ed era meno lacunoso. Concorda più spesso con P 1 (= gr. 1393) P 9 (cioè la mano posteriore di P 5) che non con i mss seriori. P1 P9 concordano con Vat. 175, Mose. e Escor. (apud Kramer). Eton. sembra parente di Ρ 2 (= gr. 1394) e di Vat. 173. Eton. P2 sono lacunosi. P3 (= gr. 1395) P4 (= gr. 1396) concordano con Laur. 28, 5 e diedero origine all’Aldina. P3 P4 presentano lacune. P 6 (= gr. 1398) P. 8 (= gr. 1739) sono l’epitome di Gemisto. P 7 (= gr. 1408) concorda con Vat. 482 e con Ven. 377). A. W. De Groor, Notes on Procopius of Caesarea, pp. 97-98 [Su le clausole ritmiche. L’articolo non si può riassumere. Debbo limitarmi a far notare che l’autore reca due esempi da Bella Gothica I 2, 11 e Bella Persica II 29, 29]. J. P. Posteate, Texrtual notes on Lucan VIII and Seneca © Dialogi°, pp. 99-103 [Luoghi presi in esame: Lucano VIII 102 sgg. 383 sg. 639 sgg. 800sgg. (53 sg. 517 sgg.); dato il genere delle note non posso dire di più. Seneca Dialogus X 14,3: auribus invece di labris ib. 18, 9: sarta invece di farta

XI 18, 5: ne ex toto maereas = ut maerorem ex toto deponas e quindi ci aspetteremmo ex foto ne maereas XII 9,2 contererint invece di por- rexerint (ms Ambrosiano correxerint)]. E. W. Fay, Indo-european initial variants DY- (Z-)|Y-]D-, pp. 104-114 [Studio di glottologia pura].

The Classical Review. XXIX. 1915. 1. M. N. Top, Notes on some inscriptions from Asia Minor, pp. 1-4 [Inscriptiones Graecae ad res Ro- manas pertinentes IV 1398 = CIG 3173 πατρομύστης (la parola, che va confrontata con la sua affine πατρογέρων, denota un membro ereditario della società di cui si tratta nell’iscrizione). ib. πρεσβύτερος (ha, senz'altro, il senso usuale, cioè senior, contrapposto a νεώτερος, junior).

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Dedica edita da M. A. J. RemmacH in Revue épigraphique Il 38, ἐπι- τυγχάνων (᾿Εἰπιτυγχάνοντος va scritto cioè con la maiuscola, perchè è nome di persona e propriamente cognomen col praenomen e nomen T. DAaoviov).. CIG 3887 Φιλόπατρις un titolo onorifico, comune nel periodo imperiale, spesso unito con titoli simili, quali φιλόκαισαρ, φιλορώμαιος, φιλοσέβαστος ecc.). Titoli imperiali (in quanto possono servire a determinare le date delle iscrizioni). J. R. WarpALE, De- mosthenes Περὶ τῶν συμμοριῶν, pp. 5-8 [Commento ai $$ 17, 19 (soprattutto riguardo a τέμημα τῆς χώρας) e 29, dove propone οἷδε μέν ye τ’ (tgranociars) τριήρεσιν ὧν ρ΄ (ἑκατὸν ὀγδοήκοντα) παρεσχό- ued ἡμεῖς]. C. R. Harnes, Note on the parallelism between the Pro- metheus vinctus° of Aeschylus and the ‘Antigone’ of Sophocles, pp. 8-10 [Creonte e Antigone corrispondono a Zeus e a Prometeo, ti- ranni il primo e il terzo, ribelli la donna e il Titano; Creonte però è falso, mentre Zeus è giusto, dove Antigone e Prometeo hanno in comune il difetto 461} αὐϑαδέα. Ciò quanto alla concezione dei due drami. Quanto alla forma, vi sono 1) parole usate nel medesimo senso (ciò che dimostra la dipendenza dell’ Antigone dal Prometeo), fra cui: ἀπιστεῖν ° disobbedire” P. 640, A. 219 ταγός “re” P. 96, A. 1057 ἐπέχειρα ἡ“ ricompensa P. 319, A. 820 ἄϑλος “cimento” P. 702, 752, A. 856 ecc. 2) notevoli rassomiglianze di costruzione A. 259 sg., P. 200; A. 127 (cfr. 473), P. 318 e 360. 3) evidenti reminiscenze A. 492, P. 446; A. 780, Ρ 383 ecc. 4) richiami A. 652, P. 1069; A. 722, P. 511 ecc. Il Prometeo ha mag- giori pregi dell’ Antigone. Come carattere Prometeo 81 guadagna la nostra affezione e ia nostra ammirazione più che non faccia Antigone, mentre il Coro del Prometeo dimostra altrettanto eroismo quanto quello del- l’Antigone). H. Riczarps, Varia, pp. 10-12 [Eschilo Pers. 184 ἐκ- πρεπεστέρα 537-540 vanno posposti a 545. Sofocle fr. 787 ἄρχεται invece di ἔρχεται O. T. 814 forse προσῆλχε Aristofane Nu. 470 ἄξια va con πράγματα Inno a Afrodite 228 κὰκ invece di ἔκ Apol- lonio Rod. 4, 1604 δραξάμενος invece di ὀρεξάμενος 1,43 677 46- τατος 3, 613 forse μειλέσσοιτο ib. 676 ϑευμορίῃ Babrio 10, 5 ἔσην invece di πᾶσαν Plutarco Rom. 5 probabilmente εἰσεόντος αὐτῇ Platone Leggi 965 A κεκτημένην Demostene de Cor. 289 81 può benissimo adottare la lezione congetturale del WEIL πάτρας μὲν ἑκὰς σφετέρας ma bisogna trasporre il primo e il terzo distico ; nell’at- tuale v. 3 il genitivo è retto da 80087 F. L. 284 preferibile ἤδειν Symmor. 24 ὑπάρξειν Leptin. 36 ὅσην 55 non si dovrebbe inserire ἐφάνημεν dopo ποιοῦντες 125 πανουργότατον invece di καπουργότατον Philipp. I 10 λέγοιτ᾽ ἄν invece di γένοιτ᾽ ἄν]. F. Granger, The in- fluence of the interjection on the development of +he sentence, pp. 12-18 [Trattazione generale, che riguarda soltanto incidentemente il greco e

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il latino]. Notes: R.J. SnacxLe, Theocritus, Idyll. XV, 112, p. 18 [Forse l'originale era πὰρ μὲν ὅσ᾽ ὥρια κεῖται, ὅσα δρυὸς ἄκρα φέροντι Beside him lie the season’s fruits, even all that the oaksprays bear]. J. S. Paramore, Terence, Eunuchus, 835-839, pp. 18-19 [Propone: vide amabo si non, cum aspicias 0s impudens, | videtur monstrum, quae eius confidentiast].. Lo stesso, Horace, Epistles, II. I. 113-117, p. 19 [Scrive : quod modicorum est | promittunt modici (cfr. Giovenale V 108 modicis quae mittebantur amicis. Ta cito Ann: III 72 pecuniae modicus)].

Idem. 2. J. T. SneppARD, Notes on Aeschylus ° Persae’, pp. 33-35 [13 commento, riguardo soprattutto al soggetto di fade, che è real- mente ϑυμός, involgendo troppe difficoltà il tentar di farne soggetto ἰσχύς. 332 forse Eschilo scrisse: τοσόνδε ταγῶν τῶνδ᾽ ὑπεμνήσϑην πέρι. 231 πάντ᾽ ἐφήσομεν invece di πάντα ϑήσομεν 357-360 bisogna interpungere : μή co. δοκῶμεν τῇδε Λειφϑῆναι μάχῃ, | ἀλλ᾽ ὧδε" δαί- uov n. τ. 1.1. A. F. Hort, Three emendations in Theophrastus Historia plantarum’, pp. 35-37 [I 13, 5 ἑἕτεροῖος, οἷος δέωτος μικρὸς invece di ἕτεροι δι᾽ ὧν ὡς μικρὸν TI 8, 3 κωρύκους invece di πκυπαΐ- ρους III 18, 12 παρεγγίζει παραϑριγκισμὸς πρὸς τὴν σταφυλήν]. A. ὅβεένγαν, The waterfowl goddess Penelope and her son Pan, pp. 37-40 [Penelope, come anche Ulisse, era connessa con Mantinea, e fu in ori- gine un uccello acquatico-dea. Che sia stata una dea di Mantinea è però dubbio, e luogo a dubbi la supposizione di mitologi tedeschi che sia stata madre di Pane]. J. S. PartLIimore, In Propertium retractationes selectae, pp. 40-46 [(Continuazione; v. Rivista XLIII 186). I m 35-36, 35 fene vicem invece di tandem x 2 probabilmente #ha- lamis col Huscuxe invece di Zacrimis xmi 21-24, 28 confestim invece di caelestem e Hebe xvi 5-12 successione dei versi: 5. 6. 9. 10. 7. 8. 11. 12; 11-12 famae, | stuprorum facilis vivere luxuria. ib. 39 ignoto invece di irato e tuta col BrroaLpus II mr 1 qui (p)aullum tibi dicebas iam posse vocare τχ 13 curva favillam invece di corpus Achillis xx 39-40 aut si forte irata meo sint fata ministro | ut sciat esse aliam, XXVI 253 favisae invece di Cambysae III vi 38 iram, non fraudes, esse in amore meam. vini 30 Tyndaridis x 27-28 commento: fra altro, nobis si riferisce a Properzio e a Cinzia]. W. Warpe FowLer, Note on Ovid, Tristia® III. 6. 8 (Augustus et Iuppiter), pp. 46-47 [A proposito della nota dell’Housman in Classical Quarterly TX. 1915. 1 (v. quassù p. 517). Riesame degli otto luoghi ovidiani da lui citati, in cui il poeta assimi- lerebbe Augusto a Giove. Mentre l’Housman sostituisce in Tr. III. 6. 8 Ioui a viro, il FowLER sostituirebbe deo, come in IV. 4. 45 idque deus sentit cioè Augustus). Notes: J. E. Harry, ἀστὴρ Zeipuos in Eur. 1. A. 7-8, pp. 47-48 [Risposta all’ Housman (v. Rivista fasc. preced. p. 400).

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Continua a ritener giusta la propria affermazione che si tratti della stella ‘Aldebaran’, perchè, secondo Teone, era conosciuta come ἐγγὺς Πλειάδος]. S. GaseLre, Greek elegiacs. The break after a trochee in the fourth foot of the hexameter, p. 48 [Su 16,000 esametri dell’ Antologia greca sono appena ventinove i casi di cesura dopo il trocheo nel quarto piede]. R. T. C., Notes on Vespa”, pp. 48-49 [P. L. M. (BAEHRENS) IV p. 379: v. 1 forse uarias sanctae quae 11 lumina (invece di numina)

30 molitorem tirone temptas, 81 forse cereales invece di Cerealis 32 cunctas è forse errore, invece di sanctas 82 certamente qualis in- vece di quasi). Obituary, p. 62: C. 6. Borrima, Necrologia di R. Ὁ. Seaton, collaboratore della Classical Review, editore, fra altro, di Apol- lonio Rodio (Oxford classical texts, nuova serie).

The American Journal of Philology. XXXV. 1914. 3. 139. E. W. Fay, Varroniana. De lingua latina. Part II, pp. 245-267 [(Continuazione -- v. Rivista XLNI 195 e fine). Libri VI-X. Sono presi in esame poco meno di 200 luoghi]. Ca. Κναρρ, Studies in the syntax of early Latin, pp. 268-293 propriamente una recensione dell’opera di Cu. E. Bennett, Syntax of early Latin. Vol. I (1910). The verb. Vol. II (1914). The cases. Il recensente in più luoghi non accetta le conelusioni dell'autore]. B. O. Foster, The duration of the Trojan war, pp. 294-308 [Raccolta ed esame di nuovi argomenti forniti dall’IZiade a conferma della ipotesi del van Leeuwen (in Mnemosyne 1910; cfr. Rivista XXXIX 149. Il ca- pitolo De Iliadis compositione fu ripubblicato in principio delle Commen- tationes Homericae del filologo olandese, Leida, 1911) che “trium fere mensium sive unius aestatis bellum sibi finzit poeta Iliadis,. È una ‘teoria iconoclastica?, ma soltanto in apparenza; dal racconto del poema risulta che realmente la spedizione di Achille contro Lesbo precede im- mediatamente gli avvenimenti con cui si apre l’Iliade]. J. A. Scorr, Two homerie personages, pp. 309-325 [Hector as a Theban hero in the light of Hesiod and Pindar da escludere in modo assoluto, contro ciò che sostennero vari filologi tedeschi, il BerHE, il DiimmLeR, il CAUER, che in Esiodo e in Pindaro Fttore comparisca come un eroe tebano). Pandarus in Homer (“ Pandaro comparisce in tre differenti scene del- l’Iliade,... di cui la prima può stare senza la seconda, ma non senza la terza, la seconda richiede insieme la prima e la terza, mentre la terza non ha contenuto razionale senza la prima e la seconda ,)]. A. Ca. Jonnson, The date of Menander's Andria, pp. 326-329 [Fu composta e rappresentata fra il 295 e il 293 a. C.; delle due date la seconda è la più probabile, e a ogni modo l’ Andria, se non l’ultima, è fra le ultime comedie di Menandro].

Ξφ΄΄α- ΒΡ --

Idem. 4. 140. --- E. G. ὅτησβε, Caesar, Cicero and Ferrero, I, pp. 379-399 [Il Ferrero molto spesso esagera, e non di rado generalizza. Inoltre tratta la storia romana da un punto di vista ‘giornalistico’ e giudica il mondo antico con criteri esclusivamente moderni, applicando teorie materialistiche e sociologiche dei nostri giorni ad avvenimenti di tut- t'altra civiltà). H. Martin, Spanish inscriptions. Additional comment, pp. 400-420 [Supplemento al lavoro dello stesso autore: Notes on the syntax of Latin inscriptions found in Spain (1909). I. Forme. II. Vocabo- lario. Estensione del significato. Raccolta di parole e di costrutti con os-

servazioni analoghe]. H. Lanerorp Wirson {, R. van DemAN MaGOFFIN, Latin inscriptions at the Jonns Hopkins University, VIII, pp. 421-434 [(Continuazione; v. Rivista XLI 178). Altre ventinove iscrizioni,

ni 112-140). W. A. Hemper, Aristarchus of Samos, pp. 446-455 [Recensione, con molti appunti, dell’opera di Ta. ξατη, Aristarchus of Samos, the ancient Copernicus. A history of Greek astronomy to Aristar- chus... Oxford, 1918]. ΟΟ W. E. MrxLer, Ne extra oleas, pp. 456-462 [La frase o il motto comparisce per la prima volta nell’emblema delle edizioni di L. Elzevir nel 1642; era certo corrente nel tempo in cui ad Amsterdam venne fondata la celebre casa degli Elzeviri; proviene, come fu dimostrato, dalle Rane di Aristofane, 998-995 (si veda anche lo scolio ad 1.) e può benissimo significare, secondochè afferma il Prerers, Annales de l’Imprimerie Elsévirienne... Ὁ. 173, ne passez pas les bornes o noli altum sapere.. W. Suerwoon Fox, Mummy-labels in the royal Ontario Museum, pp. 463-466 [(Continuazione; v. Rivista XLII 636). Tre greci, inediti (n! 10-12), il terzo trascurabile (94 senz'altro), del ΠῚ sec. ἃ. C. Seguono note supplementari ai ni 1-9].

Eranos. Acta philologica Suecana. XIV. 1914. 2. B. Rissero, Osser- vazioni critiche al ‘Libro di Giuditta’, pp. 65-74 (in lingua svedese). P. Persson, Zu Ciceros Briefen, pp. 75-80 [ad fam. VI I, 1 quisquis certamente è corrotto, per quanto stia bene in altri luoghi ciceroniani corrispondenti o paralleli; a ogni modo quocumque in loco quisquis est non è ὅπου ἂν 7 ἕκαστος bensì ὅπου ἂν ὁστισοῦν. ad Att. I 16,3 a me tamen ex ipso initio è detto parenteticamente, e quindi nulla α᾽ il- logico’, come altri crede. ad Att. III 10, 2 sostiene e conferma contro il KLorz la propria proposta ecquis umquam tam extemplo tam ex amplo statu tam in bona causa]. C. TaranpER, 44 Oedipum Coloneum adnota- tiones, pp. 81-89 [589-590 : in 589 ze dipende ad un tempo da κομέζειν e da ἀναγκάζουσι, di modo che si può tradurre “illi, ut me illuc tra- ducant, me uiolare conantur,. In 590 basta leggere: ἀλλ᾽ ἤϑελον τἄν

Satie ici

Mt. ero, fe nuaia AR

523 γ᾽ οὐδὲ σοὶ φεύγειν καλόν at “uellent saltem nimirum (te illuc tradu- cere), neque tibimet pulchrum est exulare ,. 1117 sg.: 1118 καὶ coi

ye τοὔργον τοῦτο μῶν ἔσται βραχύ; et num tibi quidem haec res leuis erit?, 1189sgg.: 1192 ἄλλαι γονεῦσι χἀτέροις γοναὶ sanai (sottint. εἰσέν). 1579 sgg.: 1584 κεῖνον γ᾽ ὃν αἰδεῖ invece di κεῖνον τὸν del 1697 sgg.: 1702 yeg@v invece di γέρων e il senso delle parole οὐδὲ yeoòv ἀφίλητος ἐμοὶ καὶ τᾷδε μὴ κυρήσῃς è questo: “(non modo ca- rissimus nobis et fuisti et semper futurus es, sed) ne honoribus quidem (caritatem nostram demonstrantibus) umquam carebis ,]). V. Lunp- stròm, Intorno alla lingua di Columella: 11. dum tamen; 12. pleo- nasmo num quis quispiam; 13. adsiccesco; 14. imporcire; 15. runca ; 16. una contaminazione, II 14; 17. doppio comparativo; 18. nom. plur. in -îs?, pp. 90-96 (in lingua svedese).

Napoli, 19 giugno 1915.

Domenico Bassi.

ARONA

PUBBLICAZIONI RICEVUTE DALLA DIREZIONE

Codicum Casinensium manuscriptorum catalogus cura et studio Mona- coruaum ὃ. Benedicti archicoenobii Montis Casini. Vol. I. Pars I (Codd. 1-100). Montis Casini, MCMXV, di pp. vin-100, in-8° gr.

Antonino Crporra. Cajo Sallustio Crispo e lo scandalo attribuitogli da Marco Terenzio Varrone nel frammento del logistorico Pius aut de pace. Cremona, Stab. tipo-lit. P. Fezzi e C., 1915, di pp. 28.

Antike Technik. Sechs Vortrige von Hermann Diers. Mit 50 Abbildun- gen und 9 Tafeln. Leipzig und Berlin, B. G. Teubner, 1914, di pp. vii-140.

Anronio Amante. Contributo allo studio della poesia cristiana dei se- poleri (Estratto dall’ ‘Athenaeum ,, Anno III, Fasc. II), di pp. 27.

Ernst Honr. Zur Textgeschichte der Historia Augusta. Ein kritisches Nachwort (Estr. da Klio ,, Bd. XV, pp. 1-21).

L. Anneo Seneca. Dei terremoti con note di Vittorio Brugnola. Milano- Roma-Napoli, Albrighi ecc., 1916, di pp. 1x-51.

SorocLe. Elettra con introduzione e commento di Gustavo Boralevi. Città di Castello, S. Lapi, 1914, di pp. 256.

Cicerone. Per la sua casa con commento di Attilio Barriera. Città di Castello, S. Lapi, 1914, di pp. 195.

Trro Lrvro. Il libro XXV delle Storie con note di Giovanni Edoardo Casolati. Città di Castello, S. Lapi, 1915, di pp. 127.

Libro II delle Storie con note di Giovanni Palotta. Città di Ca- stello, S. Lapi, 1915, di pp. 190.

La terza deca. Letture proposte e commentate da Giorgio Castel- lani. Città di Castello, S. Lapi, 1915, di pp. 189.

Sruvio Ferri. La Sibilla. Saggio sulla religione popolare greca. Pisa, Tip. Nistri, 1915, di pp. 109 (Estratto dagli “Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa ,, Vol. XXVI).

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ii, da

525

Enrico Coccaia. L'elemento osco nella Campania e la tomba di Virgilio. Nuova serie di note glottologiche. Parte prima. L’assibilazione dei participii latini e la presunta nasalizzazione dei gruppi gn e gm in greco e in latino. Con un’Appendice sulla preservazione del gruppo -f{- ancora intatto in latino (Estratti dagli “Atti R. Acca- demia Arch. Lett. Bell. Arti, di Napoli, Vol. IV, 1915, pp. 253-265 e 269-290).

ELranor SaipLey Ducgert. Studies in Ennius. A dissertation. Bryn Mawr, 1915, di pp. 78 (Bryn Mawr College Monographs. Vol. XVIII). Ausert Bauer. Lukians ΔΗΜΟΣΘΕΝΟΥ͂Σ ETKQMION. Paderborn, Ferdinand Schòningh, 1914, di pp. 106 (Rhetorische Studien. Heraus-

gegeben von E. Drerup. 3. Heft.).

De scholasticarum declamationum argumentis ex historia petitis disser- tationem praemio ornatam scripsit Ricarpus Konr. Paderbornae, Ferdinand Schòningh, 1915, di pp. 116 (Rhetorische Studien cit. 4. Heft.).

Q. Horarius Fraccus. Erklàrt von Adolf Kiessling. Dritter Teil: Briefe. Vierte Auflage bearbeitet von Richard Heinze. Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1914, di pp. 365.

SopHokLes erklirt von F. W. Schneidewin und A. Nauck. Sechstes Bind- chen: Trachinierinnen. Siebente Auflage. Neue Bearbeitung von Ludwig Radermacher. Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1914, di pp. 186.

C. ἵστα Carsaris De bello gallico commentari VII. Fiir den Schulge- brauch herausgegeben von Wilhelm Fries. Mit einem Anhang: Das ròmische Kriegswesen zu Caesars Zeit. Mit 20 Abbildungen und einer Karte von Gallien. Zweite, verbesserte Auflage. Wien, F.Tempsky; Leipzig, G. Freitag, 1915, di pp. 1x-220.

C. VaLerIo CaruLLo. Epitalamio per le nozze di Tetide e Peleo. Carme LXIV. Commento e traduzione poetica di Tito Gironi. Torino-Roma ece., G. B. Paravia e C., di pp. 56 [senza data].

Ex libro C. VaLern CaruLLI carmina selecta. Commento di Tito Gironi. Torino-Roma ecc., G. B. Paravia e C., di pp. x1-100 [senza data].

Uxserto Moricca. Le fonti della Fedra di Seneca (Estratto dagli Studi italiani di Filologia classica ,, Vol. XXI, pp. 158-224).

EmanueLe Craceri. Per lo studio dei culti dell’antica Sicilia a proposito d’una pubblicazione recente. Osservazioni (Estratto dagli Studi Storici per l’antichità classica ,. Vol. VI, Fase. III-IV, pp. 422-488).

Gli imperatori Claudio e Nerone nelle Historiae di Plinio il Vecchio (Estratto dagli Studi storici, cit., Vol. e Fasc. cit., pp. 369-421).

Il processo di perduellione di C. Rabirio nel 63 a. C. in Roma

ὅς 526

(Estratto dal Vol. XXXI, Disp. III e IV degli “Atti e Memorie, della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Padova, pp. 183-205). Tommaso Moxnrawari. Note critiche, storiche e filologiche, sui passi di Strabone e di T. Livio relativi alle Alpi occidentali ed al passaggio d’Annibale. Aquila, Officine Grafiche Vecchioni, 1914, di pp. 28.

Le attitudini topogeografiche degli antichi e le vicende e la cro- nologia dei loro errori circa la via d’Annibale (Estratto dagli “An- nali della Società degli Ingegneri e degli Architetti italiani ,, Num. 10, 11, 12-16 Maggio 1-16 Giugno 1914), di pp. 27, in-4°.

Lettre M. le chev. Henri Ferrand propos de ses Recherches pour déterminer le Col des Alpes franchi par Hannibal ,. Aquila, Officine grafiche Vecchioni e Figli, 1914, di pp. 8 e 3 tavole.

Francesco D’'Ovipio. Benvenuto da Imola e la leggenda Virgiliana (Estratto dagli Atti R. Accademia Arch. Lett. Bell. Arti, di Na- poli, Vol. IV, 1915, pp. 85-122).

Caro Pascar. Elementi rettorici nella poesia Catulliana (Estratto dai Rendiconti, del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Vol. XLVIII, fasc. 9, pp. 424-486).

Vincenzo Ussani. Note alla Fedra di Seneca e al suo apparato critico (Estratto dagli “Atti R. Accademia Arch. Lett. Bell. Arti, di Na- poli, Vol. IV, 1915), di pp. 28.

I canti di Trrreo [testo e trad. it.]. Milano, Tipo-lit. Figli della Prov- videnza ,, di pp. 20 (Sezione Milanese dell’ “Atene e Roma ,. VI).

AxeL W. Persson. Zur Textgeschichte Xenophons. Lund, C. W. K. Gleerup; Leipzig, Otto Harrassowitz, 1915, di pp. rv-175 (Lunds Universitets Arsskrift. N. F. AFD. 1. Bd 10. Nr 2).

Ugo Enrico Paori. La questione della Lingua Universale. Vigevano, Tip. A. Borrani, 1915, di pp. 26.

Francesco Risezzo. Il cippo del foro romano e le epigrafi di lettera greca nel latino arcaico (Estratto da Neapolis ,, Anno I, Fasc. 11), di pp. 20.

Questioni italiche di storia e preistoria (Estratto da Neapolis ,, Anno I, Fasc. II-ITI, pp. 379-403).

La nuova defixio , osca di Cuma (Estratto da Neapolis ,, Anno II, Fasc. III), di pp. 12.

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of Latin), di pp. 86.

Ba ἃ] XA hi %

527 AIONYZIOY H AOTTINOY ΠΕΡῚ Υ̓ΨΟΥ͂Σ. Della sublimità. Testo

greco d’incerto autore con proemio e note italiane di Francesco Zambaldi. Livorno, Raffaello Giusti, 1915, di pp. xx-78.

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Pa A AT RA ii RS TMT RI Σ ΝΩΝ κι TAI TT) Po

Bulletin de correspondance Hellénique. Ann. XXXVII, nn. 7-12. Byzantinische Zeitschrift. Vol. XXHI, nn. 1 e 2.

Bibliotheca philologica classica. Vol. XXXX, n. 4.

Atene e Roma. Ann. XVIII, nn. 195-198.

Bollettino di filologia classica. Ann. XXI, nn. 11 e 12. Ann. XXII, n. 1. Rivista d’Italia. Ann. XVIII, nn. 4-6.

Didaskaleion ,. Studi filologici di Letteratura Cristiana antica. Ann. IV, nn. 1 6 2.

Athenaeum. Studii periodici di letteratura e storia. Ann. III, n. 3.

Rivista storica italiana. Ann. XXXII, nn. 1 e 2.

Torino, 11 luglio 1915.

ἜΠΟΣ ἀπ LO peta __ n_ _oo0acnteteooe—eeeee-e

GiusePPE MaaRrINI gerente responsabile. Tip. Vincenzo Bana - Torina

529

NUOVI STUDI SU TESTI E DOTTRINE EPICUREE

Dell’opera di Filodemo περὶ ᾿Εἶπικούρου, sono a noi rimasti frammenti in due papiri ercolanesi (1232 e 1289): dopo al- cuni saggi offerti dal Crònert, che ampiamente spigolò nei resti dei papiri di Ercolano, diede un’edizione compiuta di questi papiri Domenico Bassi (1). Con nuova cura rivide poi alcuni frammenti Achille Vogliano, che lesse abilmente luoghi assai difficili. Neppure a lui però riescì di assolvere intera- mente il compito dell’integrazione di testi così mal conservati.

Preso dunque dall’interesse che hanno per gli studiosi questi residui di scritti epicurei, in cui è l’eco della dottrina del maestro e spesso sono le stesse parole di Epicuro, ho riesa- minati alcuni di questi frammenti, per giungere ad una com- piuta integrazione del testo, nel che mi giovò pure lo studio diretto dei papiri, potuto fare a Napoli nell’estate 1912, mentre studiavo il περὶ ϑεῶν di Filodemo stesso, su cui, in altra occasione, darò conto delle mie ricerche.

Esaminerò anzi tutto il fr. IV. Il Vogliano (Herculanensia, in “Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino ,, vol. XLVII, 1912, p. 101 = p. 13 dell’Estratto), così pubblica il testo (2) :

(1) © Miscellanea Ceriani ,, Hoepli, 1910, p. 513 sgg.

(2) Il Vogliano un fac-simile e una trascrizione in corsivo. Ma per le difficoltà tipografiche il fac-simile non riproduce esattamente la di- mensione delle lacune. Anche nella trascrizione, nei luoghi da lui non integrati, qualche lacuna è un poco più o un poco meno ampia del vero. Del resto è sempre difficile, specialmente in un papiro, come questo, in cui sono frequenti le pieghe, determinare esattamente il numero delle lettere mancanti, sino a che non si ha la riprova dell’integrazione da sovrapporre. Le mie integrazioni sono fatte secondo lo studio del papiro.

Rivista di filologia, ece., XLIII. 84

Pe RR RIOT SR Ti - ᾿Ξ ν᾽ 7 dh %

τὰ ΠΝ:

σι τοῖς τοῦ βίου κ]αιροῖς [μ]α-

κρὸν εὐδιῳκή] ϑησαν] è-

n αὐτοῦ κατὰ τὸ ὀ»ν]ησιφό- 10 ρον Ti φύοσ[ε]ι. Τ] ελεί]ως γὰρ

ἐλπίδος καιρὸΪς ἐϊψιλώϑη

καὶ τῆς χ[ ατ]ὰ σα ρκα] ἡδονῆς

nal ἐπίμ! Φ.. ὑπ]ελείφϑη

Ct ]ov χάρι- Ibxcocto[natanà Ἰησαιμισ..

UE ESSO) |e κατάστη-

ua φυϊσικόν, πε]οὶ μὲν ὅσου

Le integrazioni del Vogliano sono quasi tutte convenienti, resta però da saldare le molte e maggiori lacune, che ren- dono ancora inintelligibile la massima parte della colonna. Ma prima occorre dare qualche cenno di nuova lettura. A. linea 8, nel fine, mi riescì di leggere ENY invece di .. Y, cioè dell’E appena le tracce e del N l’ultimo elemento e tracce del se- condo ; nella linea 15, in fine, invece di MZC.. si deve leg- gere W)C.. Per il resto la lettura del Vogliano è accuratis- sima, ciò che è anche più lodevole, perchè il papiro è quanto mai difficile da decifrarsi, particolarmente per le pieghe che ne deformano le lettere.

Ciò posto credo di essere giunto, con il sussidio dei testi epicurei, ad un’integrazione soddisfacente di tutto il fram- mento ; eccola :

534

[Katapgovoduer] γὰρ [τ]οῦ μὴ σοφοῦ] κἀπὶ δυν[η- ϑὲν προσπ|τύομεν τὰ κενὰ] καὶ χαλεπὰ [κρίνοντες τάλη]-

5 ϑῆ καὶ πρὸς [αἰσϑήσεις) καὶ πρὸς] πάϑη, κί αϑ' γ᾽ quelis πᾶ- σι τοῖς τοῦ βίου κ])αιροῖς [u]a- κρὸν εὖ dpi ϑημ]εν ὃ- n αὐτοῦ κατὰ τὸ ὀΪ ν]ησιφό-

10 ρον τ[ἢ]ν. φύοσϊε]ι. Τ[ ελεί]ως γὰρ ἐλπίδος καιρὸς ἐψιλώϑη, καὶ τῆς χατ]ὰ σάϊρκ]α ἣδονῆς, καὶ ἐπιμονὴ οὐκ] ἐλείφϑη τῆς τῶν γεγονότ]ων χάρι-

15 τος, ἄϊνευ τοῦ τηρ]ῆσαι ὡς [δεῖ μήτ ε χαρὰν μήτ]ε κατάστη- ua φυϊσικόν " περὶὶ μὲν ὅσου

᾿ς δ ΟΣ 0, ge 6 SR e 16". ὍΔ ΠΟ Θὲ σον

Aggiungerò anche qualche nota di commento.

Per προσπτύω con l’accusativo vedi Luc., Conv., 33 προ- σέπτυσε τὸν Ζηνόϑεμιν. Per il concetto epicureo cfr. Metr., fr. 49K. e fr. 62 ibid.; Ep., ep. III 130, τὸ μὲν φυσικὸν πᾶν εὐπόριστόν ἔστι, τὸ δὲ κενὸν δυσπόριστον fr. 469, fr. 181 προσπτύω ταῖς ἐκ πολυτελείας ἡδοναῖς... διὰ τὰ ἐξακολουϑοῦντα αὐταῖς δυσχερῆ e fr. 470 sgg. κυρ. δόξ. XXV, XXX; fr. 462-5; 456; Lucr., VI 9 sgg.; II 20 sg. ergo corpoream ad naturam pauca videmus Esse opus omnino, quae demant cumque dolorem ... Quapropter quoniam nil nostro in corpore gazae Proficiunt ...animo quoque ril prodesse putandum.

Il frammento è un piccolo atto di fede epicureo contesto dei precetti del maestro, ed insieme un rendimento di grazia al maestro stesso. Primo fra i precetti (1. 1 sg.) viene il limite imposto ai desiderî (cfr. x. ὃ. XXVI, XXX); poi il criterio canonico su cui deve essere basata tutta la morale e la

25 532

scienza; con 1. 4, xgivovtes τἀληϑῆ... cfr. Epic., Ep., II p. 62 sg. τὴν ἡδονὴν ἀρχὴν καὶ τέλος λέγομεν εἶναι... καὶ ἐπὶ ταύτην καταντῶμεν ὡς κανόνι τῷ πάϑει πᾶν ἀγα- ϑὸν κρίνοντες. Ep. I, 63 (p.19 Us.) δεῖ συνορᾶν ἀνα- φέροντα ἐπὶ τὰς αἰσϑήσεις καὶ τὰ πάϑη.

Segue la riconoscenza ad Epicuro, che ha saggiamente or- dinata con le sue dottrine tutta la vita. Con εὖ διῳκήϑημεν (1.8 sg.), cfr. x. δόξ. XVI: βραχέα σοφῷ τύχη παρεμπίπτει, δὲ μέγιστα καὶ κυριώτατα λογισμὸς διῴκησε κατὰ τὸν συνεχῆ χρόνον τοῦ βίου (κ. ὃ. ΧΧ τὸν παντελῆ βίον παρεσκεύασεν.). Una medesima lode è in Lucr., V 8 sgg.: deus ille fuit, deus, inclyte Memmi, Qui princeps vitae ra- tionem invenit eam quae Nunc appellatur sapientia, quique per artem Fluctibus e tantis vitam tantisque tenebris In tam tranquillo et tam clara luce locavit.

Viene in fine la riprova della necessità di questa disciplina della vita, per cui solo si può sperare di godere il piacere corporeo che è il piacere fondamentale (v. Epicurea, p. 271, 10; p. 293, 32 sg., fr. 409 sg.), e di renderlo stabile e du- raturo nel grato ricordo della felicità passata ; così che solo da tale disciplina si può godere quella che è la vera gioia e l’atarassia (κατάστημα φυσικόν).

Con la teoria a cui si accenna in l. 13 sgg. conviene con- frontare i seguenti luoghi di Epicuro: ep., III, p. 59, 7 sg. φιλοσοφητέον καὶ νέῳ καὶ γέροντι, τῷ μὲν ὅπως γηράσκων νεάζῃ τοῖς ἀγαϑοῖς διὰ τὴν χάριν τῶν γεγονότων, cfr. fr. 436 τὸ μεμνῆσθαι τῶν προτέρων ἀγαϑῶν μέγιστόν ἐστι πρὸς τὸ ἡδέως ζῆν οἷν. Cic., de fin., II 32, 106 init. (1).

Va ora notato che questi due elementi, cioè la speranza del piacere futuro (ν. 1. 11 sg. χαιρός ἐλπίδος .. .) ed il ri- cordo dei piaceri passati, erano stati aggiunti da Epicuro all’edonismo antico dei Cirenaici, che solo ammetteva la μο- νόχρονος ἡδονή presente, e perciò tali elementi sono posti

(1) Vedi anche Lucr., III 1005 sgg., e Sent., 17, del gnomologio Vati- cano (“ Wiener Studien ,, 1888), con le osservazioni mie in “Atene e Roma ,, anno XI, col. 312 sg., part. 313 n. 1.

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in rilievo da Filodemo, il quale mostra come essi dipendano da quella disciplina di tutta la vita che è appunto la saggezza epicurea. Occorre esaminare le testimonianze che stabiliscono queste differenze, per comprendere meglio il testo di Filodemo :

Fr. 452, L. Diog., X 137 ἔτι πρὸς τοὺς Kvonvaizovs: οἱ μὲν (cioè i Cirenaici) γὰρ χείρους τὰς σωματικὰς ἀλγηδόνας τῶν ψυχικῶν... (cioè Epicuro) τὰς ψυχικάς" τὴν γοῦν σάρκα τὸ παρὸν μόνον χειμάζειν, τὴν δὲ ψυχὴν καὶ τὸ παρελθὸν καὶ τὸ παρὸν καὶ τὸ μέλλον οὕ- τως οὖν καὶ μείζονας ἡδονὰς εἶναι τῆς ψυχῆς (1); ibid., Il 90 πολὺ μέντοι. τῶν ψυχικῶν (ἡδονῶν λέγουσιν οἱ Κυρηναΐκοὶ) τὰς σωματικὰς ἀμείνους εἶναι.

Lact., div. inst., IN 7, 7 Epicurus summum bonum in vo- luptate animi esse censet, Aristippus in voluptate corporis.

Laert. Diog., Il 89 ἀλλὰ μὴν οὐδὲ κατὰ μνήμην τῶν ay a- dov προσδοκίαν ἡδονήν φασιν (oi Kvonvaixoi) ἀποτελεῖσθαι, neo ἤρεσκεν ᾿Επικούρῳ. ἐκλύεσϑαι γὰρ τῷ χρόνῳ τὸ τῆς ψυχῆς κίνημα.

Come si vede dunque, i Cirenaici ammettevano come supe- riore il piacere corporeo, e solo valevole il piacere dell'istante presente, Epicuro stimava invece che il piacere supremo fosse il piacere dell'anima, e che questo dovesse accrescersi dei due elementi : del passato (χάρις τῶν γεγονότων) e della speranza del piacere futuro (ἐλπίς = προσδοκία), e per di più stimava che la felicità del filosofo dovesse estendersi a tutta la vita (x. δόξ. XXVII εἰς τῆν τοῦ ὅλου βίου μακαριότητα). Perciò dice Filodemo, nella nostra colonna, che coloro i quali (come i Cirenaici) sono incapaci di applicare quell’arte e disciplina di tutta la vita donde derivava la gioia (χαρά) e l’atarassia (κατ. pvo.) si sminuiscono anche (1. 12 καί) la speranza di godere quel piacere corporeo, che i Cirenaici pure ammet- tono, e non possono renderlo stabile e di vero dominio del- l’anima per mezzo del riconoscente ricordo del passato.

(1) La cui origine è però in uno stato corporeo che si riflette sulla coscienza psichica, fr. 451 πᾶσαν χαρὰν τῆς ψυχῆς οἴεται ἐπὶ πρωτοπα- ϑούσῃ τῇ σαρκὶ γενέσϑαι.

534

A questa medesima impossibilità, in cui si trovano i Cire- naici, di godere del vero bene, allude la polemica epicurea contro di essi, che ci è serbata da Diogene Laerzio (II 89 Us., p. 271 n.) δύνασϑαι φασι καὶ (cfr. nella nostra colonna l. 12 καὶ...) τὴν ἡδονήν τινας μὴ αἱρεῖσϑαι κατὰ διαστροφήν.

Abbiamo così nel nostro frammento un diretto documento epicureo di quella polemica contro i Cirenaici che Diogene Laerzio ci ha brevemente riassunta, ciò che rende appunto prezioso questo nuovo testo,

Con le ultime due linee della colonna confronta il fr. 68 del περὶ τέλους di Epicuro, che riassume appunto la più piena formula del sommo bene epicureo: τὸ γὰρ εὐσταϑὲς σαρκὸς κατάστημα καὶ τὸ περὶ ταύτης πιστὸν ἔλπισμα τὴν ἀκροτάτην χαρὰν καὶ βεβαιοτάτην ἔχει τοῖς ἐπιλο- γίξεσϑαι δυναμένοις.

E si noti che χαρά è il piacere spirituale e che il χατά- στημα φυσικόν (cioè l’atarassia) insieme riassume la condi- zione di tranquillità dello spirito e dell'anima che è il fine epicureo. I Cirenaici solo accettavano come sommo bene Τ᾿ ἡδονὴ ἐν κινήσει, il piacere in moto, e stimavano che il κατάστημα φυσικόν, l’atarassia, fosse uno stato di incoscienza simile a quella d’un morto (1). Perciò Filodemo pone questo fine morale epicureo come impossibile a raggiungersi dai Ci- renaici.

“* RE

Un problema finora insolubile era rappresentato dalla co- lonna XIIa (pap. 1289) (2). Il Vogliano ne ha dato a stampa un fac-simile diligentissimo, in cui anche nella riproduzione tipografica ha potuto fedelmente riprodurre le lacune, ap- punto per la loro stessa brevità. Non si attenta però ad una

(1) Fr. 451 οὗτοι οἱ Kvonvainoi, τὸν ὅρον τῆς ἡδονῆς ᾿Επικούρου, τοῦτ᾽ ἔστι τὴν τοῦ ἀλγοῦντος ὑπεξαίρεσιν ἀϑετοῦσι, νεκροῦ κατάστασιν ἀποκαλοῦντες.

(2) Bassi, Zoc. cit., p. 525 sg. Cfr. Vogliano, Note papirologiche, Rend. R. Ace. dei Lincei ,, V. XIX, p. 283 = p. 3 dell’Estratto.

535

ricostruzione, perchè nella prima parte il testo, pur material- mente leggibile ormai, deve avere subìto già qualche guasto originario nella lezione del papiro stesso, forse per la caduta di un rigo; mentre nella seconda parte, di cui intendo dare la restituzione, mancavano sin ora i riferimenti necessari su cui basarci.

Utili sono le due integrazioni del Bassi w@4[A]ov dè] 1. 10 sg. e α[ὐτ]ούς 1. 13; dopo μᾶλλον (1. 10 sg.) giusta- mente supplì il Vogliano war[ia]v, e nella linea 12 vide giu- stamente doversi leggere 0vv70|d]ovro.

La chiave dell’integrazione credo sia appunto in τὴν ἀλο- yiav μᾶλλον μανίαν. In fatti, per buona sorte, sono riescito a trovare una testimonianza epicurea, che ci attesta quale sia la dottrina di Epicuro trattata in questa colonna, e ci guida a supplire il testo ; eccola :

Seneca, epist. 24, 22 sg. Obiurgat Epicurus non minus eos qui mortem concupiscunt, quam eos qui timent, et ait [fr. 496 e 498]... his adicias et illud eiusdem notae licet, tantam hominum imprudentiam esse, immo dementiam, ut quidam timore mortis cogantur ad mortem. Ecco dunque come credo si possa supplire la seconda parte della colonna:

ἄλλοις μεϑώδευεν λό- 10 γοις τὴν ἀλογίαν, μᾶλ- Ajov δὲ] μαν[ία]ν, ἐπεκλ[ύε- σϑ᾽] ἄν (1), εἰ συνήσί ϑήοντο τ[ῆ]ς βιαζ]ούσης αἰ ὑτ]οὺς λ[ὑ]τ- της ἐκ]πνε[ἴν], ποίων 9]

LATO δι γῆ δ, δὲ τον τοὺ RON A LR

Debbo il supplemento ἐκπνεῖν (1. 14) al mio caro amico Robert Philippson: se le parole ἄλλοις μεϑώδευεν λόγοις appartengano a questo periodo (e se sia da leggere ἄλλοις

(1) La composizione con ἐπὶ (é72%4.) è giustificata dal fatto che nella colonna stessa si parlava di un’altra forma di ἀλογία. Per la struttura ipotetica vedi p. e. Herod., V, 45 εἰ συνελάβετο, δοϑῆναι ἄν οἱ (sc. ἀπο- δείκνυσι); Arist. de sensu 2, 437b 12.

ΡΥ le δὰ ΓΕ oa 4 εν LA 7 De a ee ac. " VI ἐν ᾿ς Δ cda ἐμ Ἷ

—n 536

o ἀλλ᾽ οἷς), o al precedente, non è certo, perchè il testo è incompiuto in fine. La sentenza è disgraziatamente interrotta; può supporsi, come pura possibilità, che seguisse ποίων [ἅπτεται μετεωρισμῶν (1)... λέγων... Ci giova tuttavia avere trovata la rispondenza epicurea della citazione di Seneca.

Questa testimonianza va connessa ad altri frammenti epi- curei e particolarmente al fr. 498, che è citato pur esso da Seneca: quid tam ridiculum quam adpetere mortem, cum vitam inquietam tibi feceris metu mortis ?

La teoria è esposta più integralmente da Lucrezio (III 59 sgg.):

Denique avarities et honorum caeca cupido quae miseros homines cogunt transcendere fines iuris et interdum socios scelerum atque ministros noctes atque dies niti praestante labore

ad summas emergere opes, haec vulnera vitae non minimam partem mortis formidine aluntur. Turpis enim ferme contemptus et acris egestas semota ab dulci vita stabilique videtur

et quasi iam leti portas cunctarier ante ;

unde homines dum se falso terrore coacti effugisse volunt longe longeque remosse,

: . . rem conflant divitiasque iii ΝΠ πε τὶ τ" N Consimili ratione ab eodem pe e macerat invidia: ante oculos illum esse potentem, illum aspectari, claro qui incedit honore, ipsi se in tenebris volvi caenoque queruntur. intereunt partim statuarum et nominis ergo :

Et saepe usque adeo, mortis formidine, vitae percipit humanos odium lucisque videndae, ut sibi consciscant maerenti pectore letum (2).

(1) V. il papiro ercolanese edito dal Kérte nella sua edizione di Me- trodoro, p. 580, col. IV 4 sg. μετεωρισμὸς ἀναπλασμός ἐστι dravoius.., (2) Circa i rapporti di questi versi con le x. δόξ. di Epicuro e con

4.

ΤΣ CT

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nni cin nia i ite e e i παν σαν ca - = 1

9

537

È questa una delle più sottili ed acute analisi psicologiche che ci abbia lasciata l’antichità, ed essa fa onore alla scuola epicurea. Secondo Epicuro dunque è l’amore della vita che si nasconde in tutte le nostre brame; e non per altro, se non per sentirsi sicuri e forti contro le necessità, gli uomini bramano fama e ricchezza (1). Se non che questo, che in ori- gine era considerato come un mezzo, diventa, per un’intima illusione, un fine, e l’uomo, ambizioso e avido, disilluso nei suoi desideri, se ne addolora fino a cercare la morte, prefe- rendola a quella che è la rovina quotidiana dei suoi desiderî e delle sue brame. In tal modo il suicidio è la conseguenza del troppo amore della vita, 0, come dice con acuto contrap- posto Epicuro, dell’eccessivo timore della morte. Un prece- dente di questa dottrina di Epicuro si può del resto trovare in una sentenza di Democrito : fr. 203 Ὁ. ἄνϑρωποι τὸν ϑάνα- τον φεύγοντες διώκουσιν. Se non che, mancandoci l’intero passo di Democrito, non possiamo sapere fino a qual punto l’analisi democritea convenisse con quella di Epicuro. È invece inte- ressante notare come la dottrina di Epicuro riappare nello Schopenhauer, il quale dimostra (nel 69 del IV libro del- l’opera sua maggiore) che il suicidio è la più energica affer- mazione di quella volontà della vita che costituisce l'elemento metafisico della sua dottrina (2). Se non che lo Schopenhauer, come pessimista, proclama il vero annullamento della volontà, nell’ascesi, nella cessazione di ogni volere; Epicuro invece, in conformità con lo spirito greco alessandrino, raccomanda la disciplina intima del desiderio, nell’astenersi da tutto quanto

gli elementi epicurei contenuti in Porphyr., de abst., I 54, vedi il mio studio sulle Κύριαι δόξαι di Epicuro in Rend. Ist. Lomb. di Scienze e Lettere ,, vol. XLI, 1908, p. 802 sg.

(1) x. δ. VII ἔνδοξοι καὶ περίβλεπτοί τινες ἐβουλήϑησαν γενέσϑαι, τὴν ἐξ ἀνθρώπων ἀσφάλειαν οὕτω νομίζοντες περιποιήσεσθϑαι...

(2) Schopenhauer, Die Welt als W. τι. V., IV, $ 89 (p. 510, ed. Griseb.): Weit entfernt, Verneinung des Willens zu seyn, ist dieser (il suicidio) ein Phaenomen starker Bejagung des Willens: cfr. su questo argomento, oltre che l’intero $, anche vol. II 280 sgg.; III 507 sg.; IV 368 sg.; V 320 sgg.

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non è assolutamente necessario alla vita ed è nocivo alla tran- quillità dello spirito.

ΕΞ τ

Meglio conservato è il frammento IX, e già il Vogliano riescì a darne una ricostruzione in massima parte compiuta. Restano però in principio e in fine delle lacune che si pos- sono colmare ; ma anzitutto conviene premettere qualche nota di lettura del papiro. Nella fine della linea 3, come già mi aveva avvertito il Vogliano, nel suo fac-simile a stampa e nella trascrizione, non era segnata la mancanza di quattro lettere dopo TAC; nel papiro si vede 7’, ciò che induce ad integrare π|[ερὶ τῶν. Così pure, nella linea 20, invece di YAPIAI nel papiro ho letto KAPIAI, cioè u[azagig. Ecco ora il testo.

ἘΝ ΙΧ:

[τ]ο[ ὑτων (Ὁ), [μήτε τοῖ]ς μη[ϑὲν δι- τ αἰράχους μ[ οἰχϑοῦσι τὰς περὶ τ]ῶν ἀρίστων καὶ μακ[α]οισ-

τῶν φύσεων - ἐν μ[έρει dè] ϑέ]λειν εὐωχ|εῖσ]ϑαι αὐτοὺς γε- λ]ανῶς καὶ το[ὺς] ἄλλους, τούς γε κ]ατὰ τὴν οἰκίαν] ἅπαντας, καὶ τ]ῶν ἔξωϑέν {τινας μὴ πἸαραλεί-

10 πίοντας, ὅσοι τ[ὰϊς [εὐν]οίας [καὶ] π]αρ᾽ ἑαυτοῦ xa]ji παϊρὰ τ]ῶν ἕαυ- τ]οῦ φίλων ἔχουσιν. Οὐ γὰρ δη- μαγωγήσειν τοῦτο πράττον- τας τὴν κενὴν καταφυσιο] λ]ό-

15 γητον d|n]uay[|wy|iav, ἀλλ᾽ ἐν τοῖς [t]7s φύσεωΪς τελ]είοις ἐνερ- γοῦντας μνη σϑή]σεσϑαι πάντων

539

τῶν τὰς eùv[oiag] ἡμῖν ἐχόν- των ὅπως συϊγκαϑ)αγίζωσιν τὰ

20 ἐπὶ [τ|ῆι ξαυτ[ οὔ μ]ακαρίαι σἰυμφι]λο- c[o]po[dor καϑήϊκοντα. ...... ..

Miei supplementi sono quelii della 25 linea; π[ερὶ 1. 3; ἐν μέρει 1.5 |w]1.9, e quelli delle linee 20 sg., eccetto συμφιλοσοφοῦσι che è del Bassi.

Ho trascritto tutto il frammento, perchè merita qualche nota esplicativa. Il τάς della linea 3 (che il Vogliano riferiva a ψυχάς sottinteso) si deve riferire a δόξας o ὑπολήψεις precedente, perchè ἀρίστων καὶ μακαριστῶν φύσεων certa- mente è un'espressione che indica gli dei; vedi infatti: Us. fr. 387 (Philod. s. εὐσεβ. p. 126 G.) μηϑὲν ταῖς δόξαις αὑτοὺς ἐν τοῖς περὶ τῶν ἀρίστων καὶ σεμνοτάτων dr a- ταράττοντες, dove appunto si parla degli dei; cfr. anche Epic., ep., I 78, p. 29, 4 sg. Us. ἀλλ᾽ ἁπλῶς μὴ εἶναι ἐν ἀφϑάρτῳ καὶ μακαρίᾳ φύσει τῶν διάκρισιν ὑποβαλλόν- των τάραχον μηϑέν. Similmente Luer., II 646 sg. omnis enim per se divom natura necessest Immortali aevo summa cum pace fruatur; Cic., de nat. deor., I 18, 47 cum praestan- tissimam naturam, vel quia beata est, vel quia sempiterna, con- venire videatur eandem esse pulcherrimam. Ibid., I 20 56 pie sancteque colimus naturam excellentem atque praestantem ; Seneca, De beneficiis, IV 19 Propter maiestatem, inquis, eius eximiam singularemque naturam. Cfr. anche il papiro epicureo di Ossirinco sugli dei, in Fraccaroli, Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino ,, 1900, p. 513 sgg. col. I πανάριστον ἔν τοῖς odor διανοηϑῆναι δυνάμεϑα.... σέβου (1).

(1) Questi confronti ci possono dar modo di comprendere meglio la n. d6£. XX, ove quando si dice che l'intelligenza del saggio non sente dinanzi alla morte alcuna invidia τοῦ ἀρίστου βίου, si deve intendere che non invidia la vita immortale divina, come prova l’ep. III 135 ζή- σεις δὲ ὡς ϑεὸς ἐν ἀνθρώποις. οὐϑὲν γὰρ ἔοικε ϑνητῷ ζῴῳ ζῶν dv- ϑρωπος ἐν ἀϑανάτοις ἀγαϑοῖς. Cfr. la sentenza di Epicuro in Gnom. Vat. c. 8., ϑ8 Zaouòs φωνὴ τὸ μὴ πεινῆν, τὸ μὴ διψῆν, τὸ μὴ ῥιγοῦν ταῦτα

AMA E

Ciò posto, si può comprendere facilmente il principio del frammento e il suo valore per la filosofia epicurea. Dice Filodemo, che a coloro che vivono tranquilli, cioè ai saggi, non recano perturbamento (ἐνόχλησιν παρέχειν o simili) le opinioni volgari su gli dei.

Abbiamo qui un punto della dottrina epicurea che appare nella epistola III 124, ove dopo aver detto che dagli dei vengono ai malvagi i maggiori mali, per le vane opinioni che ne hanno, e ai buoni i maggiori beni, perchè godono della contemplazione della loro vita beata, si aggiunge: ταῖς γὰρ ἰδίαις οἰκειούμενοι διὰ παντὸς ἀρεταῖς τοὺς ὅμοίους ἀποδέ- χονται, πᾶν τὸ μὴ τοιοῦτον ὡς ἀλλότριον νομίζοντες. Cioè i saggi sanno comprendere quale è la beatitudine divina, ap- punto perchè essi sono, per la loro stessa natura, simili agli dei beati, e non attribuiscono ad essi nessuna di quelle qua- lità (ira, invidia, ecc.) che loro attribuisce il volgo. L’atarassia (nella nostra colonna μηϑὲν διὰ ταράχους μοχϑοῦσι), come si vede, è la condizione necessaria per comprendere la natura divina, e perciò per non temerne. Con il passo dell’epistola di Epicuro, citato ora, diventa anche chiara una breve notizia sul contenuto del libro XIII del π. φύσεως di Epicuro; vedi fr. 88 Us. ἔν τε τῷ τρεισκαιδεκάτῳ περὶ τῆς οἰκειότητος ἣν πρός τινας ϑεὸς ἔχει καὶ τὴς ἀλλοτριότητος : le somiglianze e le dissomiglianze che qui si rilevano, sono dunque rispet- tivamente verso i saggi e gl’ignoranti. Così pure si vede in che senso si parlava dell’utilità degli dei verso gli uomini nel fr. 91 che riferisce un passo del libro XXXV della me- desima opera. Ancora di questo si doveva occupare Epicuro nel περὶ εἱμαρμένης : v. fr. 23 χάν τῷ γε Περὶ τῆς εἱμαρμέ- vns ὑπὲρ τῆς ἐκείνων (sc. τῶν ϑεῶν) συνεργίας ἀποφαίνεται.

Ciò che abbiamo detto ci permette ora di correggere un testo epicureo che fu integrato dall’Usener in modo non con- veniente : fr. 85, Philodemus, π. δὖσ. p. 124, 1 G. ἐν τῷ

γὰρ ἔχων τις καὶ ἐλπίζων ἕξειν κἂν (Ar) ὑπὲρ εὐδαιμονίας μαχήσαιτο cfr. fr. 602. La stessa frase οὐδὲν ἐλλείποντα τοῦ ἀρίστου βίου vedi in Cronert, Kol. et Men., p. 60, pap. n. 1027.

54I δωδεκάτῳ Περὶ φύσεως, ds οὐδέ] τιν᾽ αἰτίαν [βλάβης] καὶ σωτηρίαϊς ἀνθρώ]ποις διὰ τοῦ ϑεῖ οὔ κα]ταλειπτέον....

Come si vede, οὐδὲ è una integrazione arbitraria, e si deve togliere, perchè anche Epicuro ammette che dagli Dei ven- gano beni e mali agli uomini, non già perchè essi si occupino delle cose umane, ma perchè gli uomini stessi, con le loro false o giuste opinioni sugli dei, sono causa a stessi di massimi mali o beni, donde quella ovvegyia che abbiamo visto trattata nel π. εἱμαρμένης. E ciò dice appunto nell’epistola III 124 ἔνϑεν αἱ μέγισται βλάβαι te τοῖς κακοῖς ἐκ ϑεῶν ἐπάγονται καὶ ὠφέλειαι (cfr. σωτηρίας) (τοῖς dyadoîs). Cfr. Lucr., VI 68 sg. Philod., x. εὖσ, col. 25, 11 sgg., p. 145 G., ibid., p. 86, 13 sgg. G.

Ritorniamo ora al nostro frammento filodemeo: τούτων della prima linea deve riferirsi ai non filosofi. Possiamo così con qualche probabilità immaginare ciò che precedeva, cioè presso a poco: Diceva Epicuro che ai saggi non possono recare danno le credenze dei non filosofi (sulla natura, ecc.), e che similmente non possono perturbare i filosofi che vivono nella quiete dello spirito le opinioni volgari su gli dei ,.

Ciò che segue (6 sgg.) è una lode della φιλοφροσύνη e della vita privata epicurea. Con ϑέλειν εὐωχεῖσθαι αὐτοὺς γελανῶς... κατὰ τὴν οἰκίαν... τοῖς τῆς φύσεως τελείοις ἐνερ- γούντας confronta le stesse parole di Epicuro : Sent. Vat. 41 (“ W. Stud. ,, 1. c.) l'eX@v (così giustamente conserva il testo il Gomperz, mentre l’Usener corregge γέλων, e aggiunge la parola alla sentenza precedente) ἅμα δεῖν καὶ οἰκονομεῖν καὶ τοῖς λοιποῖς οἰχειώμασι χρῆσϑαι καὶ μηδαμῇ λήγειν ἐκ τῆς ὀρϑῆς φιλοσοφίας φωνὰς ἀφιέντας. Con δημαγωγήσειν (1. 18) cfr. Philod., Voll. Rheth. Sudhaus, ν. II, p. 290, col. XIV τὰς γνώμας μήτε πὶ τὸ δημαγωγεῖν καὶ ἀνασείϊειν τ]ὰ πλήϑη πρὸς τὸ χεῖρον, che indica quale sia la χενὴ δημαγωγία. Ho serbato nel testo καταφυσιολόγητον, quantunque non sia del tutto persuaso del composto con κατὰ = contro; va no- tato però che (v. Plut., Adv. Col. XVII, 5, 1117 B) leggendo καὶ ἀφυσιολόγητον si avrebbe un iato perfettamente legittimo appunto perchè ammettente la crasi, cfr. κἀπὶ δυνηϑέν fr. IV 2 cit. sopra. Lo scrupolo del Vogliano rispetto a questo iato

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è veramente eccessivo ; del resto che Filodemo non eviti sempre il iato mostrò il Philippson, Rh. Mus. ,, 1909, p.7 sgg.; vedi anche i miei Epicurea (in “Atti della Reale Accademia delle Scienze ,, vol. XLII, 1912, p. 679 = p. 12 dell’Estratto).

Interessante è poi il fine della colonna συγκαϑαγίζωσιν τὰ ἐπὶ τῇ ἑαυτοῦ μακαρίᾳ συμφιλοσοφοῦσι καϑήκοντα. Abbiamo qui una testimonianza di quel mutuo σεβασμός dei saggi, che è ricordato da Plutarco, Adv. Col., p. 1117 B, il quale cita anche le parole di Colote ad Epicuro ἐποίεις... καὶ ἡμᾶς ἀν- ϑιεροῦν σὲ αὐτὸν καὶ ἀντισέβεσϑαι, cfr. Epicurea, p. 405 ὁ. Ciò che è naturale, perchè, come abbiamo visto, i saggi rap- presentano fra i mortali gli esseri dotati della beatitudine divina, l'ideale cioè dell’umanità.

Credo opportuno aggiungere, in appendice a queste ricerche, l'esame di un altro testo epicureo, che si riferisce alle que- stioni già trattate sopra. Intendo cioè di prendere in esame una κυρία δόξα assai oscura e discussa; essa è la XXXIX; ‘0 τὸ μὴ ϑαρροῦν ἀπὸ τῶν ἔξωϑεν ἄριστα συστησάμενος οὗ- τος τὰ μὲν δυνατὰ δμόφυλα κατεσκευάσατο᾽ τὰ δὲ μὴ δυνατὰ οὐκ ἀλλόφυλά ye: ὅσα δὲ μηδὲ τοῦτο δυνατὸς ἦν, ἀνεπίμι- κτος ἐγένετο, καὶ ἐξωρίσατο ὅσα τούτων λυσιτελῆ πράττειν (1).

Il Philippson, nel suo bello studio sulle teorie epicuree sul diritto (loc. cit., p. 304), traduce Der, welcher dem Volks- stamm, der sich von den aussen wohnenden bedroht fiihIte (τὸ μὴ ϑαρροῦν sc. ἔϑνος ἀπὸ τῶν ἔξωϑεν sc. ἐϑνῶν) am besten ordnete, verfuhr so, dass er die dazu fihigen (πϑ τ] 0 Volksstimme) zu Stammensgenossen machte, die nicht dazu

(1) ᾿ξωρίσατο è congettura dello Stefano per H. ἐξορίσατο, gli altri Mss. hanno ἐξηρέίσατο, donde l’Usener pubblicò ἐξηρέσατο; giustamente credo abbia osservato il Philippson (“Archiv. f. G. d. Ph.,, 1910, 304) che la lezione dello Stefano è preferibile, col confronto di Ermarco (Porph. de abst., I 90, p. 93, 2 N.) πρὸς τὸν τῶν ἀλλοφύλων ἐξορισμὸν

ζῴων.

543

fihigen wenigstens nicht zu Stammensfremden. Mit allen aber, die er auch dazu zu machen nicht fihig war, mied er die Gemeinschaft und schoss sie, soweit es nitzlich war, aus ,. E intende che questa sentenza si riferisca alla società pa- triarcale, in quello sviluppo della civiltà di cui parla anche Lucrezio nel libro V.

Per quanto acuta essa sia, non posso però accogliere questa interpretazione del mio amico Philippson. Anzi tutto egli deve spiegare la sentenza come riferentesi ad uno stato sociale che non è il presente, e cioè considerarla tolta da un con- testo senza cui essa non sarebbe nettamente intelligibile.

Ora che le χύριαι δόξαι siano state raccolte per opera di epicurei seniori, un poco a caso, dalle opere del maestro, è quello che credo di avere dimostrato falso altrove (1), contro l'opinione dell’Usener. E poichè costituiscono un manuale pre- parato dallo stesso maestro, esse dovevano essere tutte per intelligibili e chiare (almeno per quanto lo concede lo stile alquanto contorto di Epicuro) e riguardare non stadi anteriori della società, ma la vita presente, per rettamente dirigerla. K tale è infatti questa sentenza, come tutte le altre, a quel che vedremo. Di più il Philippson è costretto a spiegare τὸ μὴ θαρροῦν, riferendolo ad ἔϑνος che nel testo non c’è, e τῶν ἔξωϑεν sottintendendo ἐϑνῶν, onde si restringe la si- gnificazione di τὰ ἔξωϑεν che generalmente indica tutte le circostanze esterne: v. p. e. Philod., de ira, col. XLII W. οὐδ᾽ ἔστιν γέ πώς τι παρὰ μέγα τῶν ἔξωϑεν, cfr. ibid. XLVII 88; LXVIII 18 e particolarmente Philod., V. H.? VII 177 cit. Us. p. 306 n. τὸ undèv εἶναι παρὰ μέγα τῶν ἔξωϑεν εἴ περ ὀρϑῶς λέγεται... μόνην ἔστι τὴν φιλοσοφίαν εὐεργέ- tv λέγειν τῶν προσπελαζόντων τὰ πράγματ᾽ dyadà παρα- σκευάζουσαν. Da questo passo si desume, che è la filosofia che può bene ordinare la vita rispetto le circostanze esterne, e che queste non hanno grande importanza per i saggi, ciò che dice anche Epicuro nella x. ὃ. XVI βραχέα σοφῷ τύχη παρεμπίπτει, τὰ μέγιστα καὶ κυριώτατα λογισμὸς διῴκησε

(1) Vedi il mio studio sulle x. ὃ. citato sopra.

ΡΥ τ

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5442

κατὰ τὸν συνεχῆ χρόνον τοῦ βίου. Ciò posto, abbiamo già alcuni elementi per ben comprendere la sentenza. Abbiamo veduto infatti come il saggio può difendersi dalle circostanze esterne, assai bene, ma non da escludere ogni pericolo : perciò nella nostra sentenza la prima frase si deve intendere così: Colui (cioè il saggio) che nel miglior modo possibile è riescito a comporre l’inquietudine che può venire dalle cir- costanze esterne ,. Τὸ μὴ ϑαρροῦν è appunto l’opposto di τὸ daggodv (1); e come questo vuol dire “la tranquillità ,, così τὸ μὴ daggodv ἀπὸ τῶν ἔξωϑεν vuol dire l’inquietu- dine che viene da ogni circostanza esterna , (2). Perciò τὸ μὴ ϑαρροῦν ἀπὸ τῶν ἔξ. συστ. è senz'altro il saggio, che ha raggiunto l’araoagia e Ἰ᾽᾿ ἀσφάλεια (cfr. x. ὃ. XIII; XIV): vedremo poi per qual ragione appunto in questo passo si parli dell’ ἀσφάλεια e dell’ ἀταραξία rispetto il saggio.

Resta ora a vedere: 1) in che senso si debbano intendere le espressioni ὁμόφυλα e ἀλλόφυλα ; 2) chi siano questi esseri che sono indicati con queste espressioni neutre (τὰ δυνατὰ... ὁμόφυλα e μὴ δυν. οὐκ ἀλλόφυλα ye); 3) come si debba intendere il limite di possibilità indicato in queste espres- sioni; 4) quali siano le tre categorie che sono indicate in questa sentenza.

Per risolvere la prima questione è anzitutto utile ricercare negli scritti epicurei. Ora appunto nel περὶ ϑεῶν διαγωγῆς di Filodemo (fr. 18 Scott, μὴ... ἀλλόφυλον δέχεσθαι δ᾽ οἰκεῖα πάντα, cfr. fr. 32,3) ἀλλόφυλον è usato come con- trapposto di οἰκεῖον cioè --Ξ ἀλλότριον : similmente in Ermarco ap. Porphyr., de abst.,1 10 ἀλλοφύλων ζῴων è usato in senso di animali nocivi, ed anche nell’epistola II di Epicuro, $ 106 (τὰ δὲ πνεύματα συμβαίνει γίνεσϑαι κατὰ χρόνον ἀλλοφυλίας τινὸς ἀεὶ καὶ κατὰ μικρὸν παρεισδυομένης) ἀλλοφυλία ha senso

(1) Cfr. Plut., Cat. min. 44 τῷ ἱταμῷ καὶ τῷ ϑαρροῦντι τῆς ὄψεως ἐκράτησε τοῦ ϑορύβου.

(2) Dal non avere compreso ciò deriva la correzione 46]]᾽ Θἀϊσίοπο del Cobet, τὸ ϑαρροῦν invece di τὸ μὴ ϑαρροῦν, il quale poi intende la sentenza in senso politico, e traduce ὁμόφυλα κατ. suae genti miscuit, e similmente ἀλλόφυλα xt. non alienos certe ab gente fecit ,.

atene Metti

545

di materia estranea: allo stesso modo ἀλλόφυλον è usato come opposto ad οἰκεῖον in Plut., Quaest. conv., VI 2, 2, p. 688 c. Posta così l'equazione ἀλλόφυλον = ἀλλότριον, ne viene di conseguenza quella di ὅμόφυλον = οἰκεῖον (1). Abbiamo così un mezzo sicuro di risolvere la nostra questione. Basta infatti ricordare il frammento 88, citato sopra (p. 540), in cui si parla della affinità (οἰκειότης), ed estraneità (ἀλλοτριότης), che gli dei hanno rispettivamente verso i saggi e gli uomini volgari, e il passo dell’epistola III di Epicuro ($ 124, citato sopra p. 540), dove si dice che il saggio stima a simili tutti gli esseri che hanno le sue stesse virtù, e contrarii (ἀλλότρ.) coloro che non le hanno, per capire perfettamente il senso della nostra sentenza.

Possiamo ora tradurre: “Il saggio che ha nel miglior modo possibile composta l’inquietudine che può provenire dalle cose esterne, si rende affini tutti quegli esseri che pos- sono essere a lui affini (e fra essi anche gli dei, τὰ μακάρια καὶ ἄφϑαρτα ζῷα, cfr. x. δι I, donde si spiega il neutro τὰ δυνατὰ... cfr. anche sopra ζῷον nella citazione di Ep. III, $ 135 a p.589n.), e quegli che non possono essere tali non però li stima assolutamente estranei; quelli infine che egli non può considerare neppur come solo non estranei [cioè che gli sono assolutamente avversi, come gli animali selvaggi, i nemici e i malvagi (2)], li evita e se ne tiene lontano quanto è possi- bile ,. Come si vede, qui si fa una più accurata distinzione dei rapporti fra il saggio e gli altri esseri, che non nel passo citato (p. 540) dell’epistola III; ciò che è affatto naturale, poichè ivi si aveva solo una osservazione incidentale, mentre qui si ha, di proposito, una trattazione più completa. Infatti si distinguevano solo i limiti estremi, di affinità e di estra- neità; qui invece si nota anche il limite medio della pura

(1) Cfr. anche Hippocr. 7. ἀέρων dé. τόπ. 12 dove ἀλλόφυλος e ὁμό- φυλος sono = otuetos e ἀλλότριος.

(2) Infatti Ermarco, 1. cit., pone fra gli esseri da cui bisogna tenersi lontani non solo gli animali selvaggi ἀλλόφυλα ζῷα ma anche ἄνϑρωποι ἐπὶ βλάβῃ παραγιγνόμενοι.

Rivista di filologia, ece., XLIII. 85

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IS 546

comunità di natura (umana) che stabilisce la non estraneità ,, senza giungere alla vera affinità specifica, che è data dalla saggezza.

Anche è chiaro ora quale sia il limite che determina l’af- finità fra i saggi e gli altri esseri: esso è infatti la comune saggezza epicurea, od atarassia, appunto perchè solo coloro che hanno raggiunto questo grado di sicurezza, non son ten- tati mai di fare ad altri del male, per ottenerne un guadagno o per sfuggire un male essi stessi. È ciò infatti che si dice nella x. ὃ. XXVIII, da me già studiata e spiegata altrove (1): αὐτὴ γνώμη ϑαρρεῖν τε ἐποίησεν ὑπὲρ τοῦ μηϑὲν αἰώνιον εἶναι δεινὸν μηδὲ πολυχρόνιον, καὶ τὴν ἐν αὐτοῖς τοῖς ὧρι- σμένοις ἀσφάλειαν φιλίας [φιλίας libri; φιλίαις Usener, ma Cicerone traduce praesidium amicitiae|], μάλιστα κατεῖδε συν- τελουμένην. Cioè, la persuasione del non essere alcun male durevole (ciò che appunto produce l’ ἀταραξία), e la sicurezza che ha il saggio nella vita, rende salda la fiducia che il saggio ha dell’amicizia nelle contingenze della sorte: confronta anche Cicerone, de finib., I 45, 49: Mortis metu omnis quietae vitae status perturbatur,...ob eamque dedilitatem animi multi amicos ...perdiderunt, e Lucrezio, III 83 sg., che osserva come il timore della morte è la ragione per cui multi vincula amicitiai rum- punt (2).

Questa medesima considerazione rispetto l’amicizia fa De- mocrito : fr.107 φίλοι οὐ πάντες οἱ ξυγγενέες, ἀλλ᾽ οἱ Evu- povéovtes περὶ τοῦ ξυμφέροντος, 286 ὁμοφροσύνη φιλίην ποιεῖ.

E che precisamente in questa sentenza si tratti dei rap- porti del saggio con i suoi simili, è mostrato anche dalla x. ὃ. seguente (XL): ὅσοι τὴν δύναμιν ἔσχον τοῦ τὸ ϑαρρεῖν ud- dota (cfr. τὸ μὴ ϑαρροῦν ἄριστα συστ.) ἐκ τῶν δμορούντων παρασχευάσασϑαι, οὕτω καὶ ἐβίωσαν μετ᾽ ἀλλήλων ἥδιστα τὸ

(1) Vedi il mio scritto citato sulle Κύριαν δόξαι, p. 804 sgg.

(2) Cfr. pure x. ὃ. XIV Τῆς ἀσφαλείας τῆς ἐξ ἀνϑρώπων γενομένης μέχρι τινὸς δυνάμει τινὶ ἐξερειστικὴ καὶ εὐπορία εἰλικρινεστάτη γίνεται ἐκ τῆς ἡσυχίας καὶ ἐκχωρήσεως τῶν πολλῶν ἀσφάλεια. Per gli Dei cfr. i passi citati dell’epistola III e x. ὃ. I.

PRI AS OO

547

βεβαιότατον πίστωμα ἔχοντες. Si riprova così, anche per queste due sentenze, quell’unità ed armonica disposizione del- l’intera operetta delle κύριαι δόξαι, di cui già mi sono occu- pato nello scritto più volte citato. Infatti nella prima sentenza si stabiliscono in generale i rapporti che il saggio ha con gli altri esseri, e poi nella seconda, in particolare, quelli che ha con i suoi affini, cioè i saggi a lui amici. Ed è bello e giusto che quest’operetta termini trattando dell’amicizia, che Epicuro vanta come un bene immortale, superiore alla saggezza (Sent. 78, Gnom. Vat., Wien. St. ,, loc. cit.): γενναῖος περὶ σοφίαν καὶ φιλίαν μάλιστα γίγνεται, ὧν τὸ μέν ἐστι, ϑνητὸν ἀγαϑόν, τὸ δ᾽ ἀϑάνατον (1).

ἘΤΤΟΒΕ BIGNONE.

Cumiana (Torino).

(1) Per ἀϑάνατος e il senso in cui va inteso vedi ep. III, 8 135 cit. sopra, p. 539 n.

ETIMOLOGIA E SEMANTICA

gloria

A tentar l'etimologia ancora oscura di questa parola mi ha determinato una della bella serie di note etimologiche che il prof. Ὁ. Nazari vien pubblicando in questa Pivista (1). Messa da parte con lo Stolz ZF, X, 70 (2) e col Walde LEW? s. v. (3) la riconnessione di essa ad a.i. cravasyam fama, gesta’, gr. xAéFos ‘fama, gloria’, lat. clueo etc. fatta dal Kuhn (4) sulla base di un ide. kleuesia, italicamente ridotto a klouesia (5), il prof. Nazari pensa ad un protoital. gloi-s-ia, con la radice gloi-: glei- che appare in gli-scere crescere’ Paul.- Fest. 70, ThdP.-Lindsay pag. 87. Questo g07- ritengo io ora affine a gr. γλοιός e famiglia, da una base gloi- son pingue, grasso, glutinoso, lucente’ con oi in 7, data la na- tura dei suoni vicini, contro l’& di glas, glutis ‘colla’ da gloîit-s etc. (6). Potrebbe però anche trattarsi della forma metafonetica glei-.

(1) LXII (1914), p. 99 sgg.

(2) Indogermanische Forschungen hg. v. K. Brugmann u. W. Streitberg.

(8) Lateinisches Etymologisches Worterbuch v. Alois Walde, 2 Aufl. Heidelberg, 1910.

(4) K(uhn's) Z(eitschrift fiir vergleichende Sprachforschung), III, 398.

(5) Il surrogato Xlovesia del Kretschmer ΚΖ, XXXI, 454, si dimostra inutile dopo gli Studien del Solmsen, p. 92, anche se da modificare se- condo il punto di vista dell’Ernout ΕἾ. dial. lat. 89 sgg. Superfluo poi è il ripetere che οἷ- iniziale si conserva ben saldo in clamare, clarus, ecc. L'esempio di gladius acc. a clades è tanto strano che deve ritenersi im- prestito e deformazione del celtico-ir. claided ecc. ‘spada’: Vendryes, Mélang. Saussure, 310 sgg.; Schrader, Sprvgl. u. Urgesch., 13, 110.

(6) V. Sommer, Handbuch der lat. Laut- u. Formenlehre, p. 91.

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EIPIREZENNE PRETORIA SEPA ERA SEE SIR SII TRPRAE ATTI I Δ SIAE DIRI

549

A conforto della riduzione di οἱ in 0 il prof. Nazari allega non da lat. arc. noen(um), dove però il trattamento eccezio- nale di οἱ, ordinariamente ridotto ad %, si giudica ora deter- minato dalla tautosillabicità del dittongo, come in sescancia, accanto al seriore #ncia da *oinicia ‘unità’, donde *oincia, *oncia, ancia v. Walde LEW? s. v. Da escludere pare una possibile, ma fin ora non avanzata giustificazione di ordine dialettale, e cioè una mediazione prenestina, dialetto in cui CORA CIL I, 73 è da coisa-, lat. cara, pel. coisantens cu- raverunt’, 1. arc. coiravit, e ciò perchè gloria non ha il carat- tere di parola importata.

Un nuovo punto di vista ha schiuso inconsapevolmente lo Stolz l. c., raccordardo gloria alla glossa glaris uvdoA6yog ’, col rapporto metafonetico che corre tra gnosco e gnarus. Ma lo Stolz non dice d’altra parte che cosa sia comparativamente od in se stesso quel glaris, e tutto il discorso si riduce ad un bell’ignotum per ignotum! Or io credo che, almeno seman- ticamente, non si possa staccar questo glaris da un verbo denominativo gnario, da cui è derivato lo gnari(v)isse = ‘narrasse’ che, accanto a gnarigavit, si leggeva in Livio An- dronico Paul.- Fest. 68 ThdP. Quel verbo, come vestio : vestis, suppone un nome graris accanto a gnarus (1), coppia di cui sembra una sovrapposizione lo gnaruris di Plauto e la glossa ignarures.

Foneticamente glaris non è se non un’assimilazione parziale regressiva di n-r in /-r. Tra l’una e l’altra forma, cioè tra uno graris ed un glaris, esistette forse un termine medio graris, con assimilazione totale di n-r in r-r. Fenomeni simili di reat- tività tra liquide e nasali nel corpo di una parola appartengon troppo alla storia di tutti i dialetti, perchè se ne debba di- mostrar qui la possibilità (2). Certo è che » di sillaba pre-

(1) Cfr. lat. similis, humilis contro gr. ὁμαλός, χϑαμαλός.

(2) Lavori speciali, oltre ai capitoli concernenti dei trattati di fone- tica, sono: Grammont, La dissimilation consonantique dans les langues indoeuropéennes et dans les langues romanes, Dijon, 1895; K. Brugmann, Das Wesen der lautlichen Dissimilationen in Abhandl. k. Stichs. Gesell. ἃ. Wiss., Phil.-Hist. KI., 27, 139 sgg.

eli geo,

cedente in certe combinazioni si dimostrò abbastanza sensi- bile innanzi a nasali o liquide di sillaba seguente anche nel latino. Così creper o creperus ‘crepuscolare, oscuro’: gr. κνέφας oscurità’ v. Walde LEW? 5. v. ed Ernout Elém. dialect. lat. 145 sg.; lat. volg. groma, gràma da gr. yvoua e forse lat. gramiae cispa’ : gr. γλήμη. Avvenuta poi un’assimilazione totale di n-r in r-r, la possibilità di una nuova dissimilazione in (-r è data da glarea, certo un primitivo grareia, graro- con gra- identico a quello di gra-num ‘lo stritolato, il maci- nato’, ide. gera- e g*era- ‘corrodere, stritolare’; glarans ‘cisposo’ da *grarans Walde LEW? 8. v., gr. vavalagia da γναυκραρία etc.

Su questa via uno *gnòros, *gnoris, divenuto groros, -is, poi ridissimilato in g/0ros, -îs, generò nel volgare un derivato gloria, glorior in cui non parrà ora più difficile vedere il cor- rispondente fonetico e semantico del gr. γνώρι-μος nobilis, clarus’. Così nell’equazione virtualmente impostata dallo Stolz :

*gnorus : gnarus = gloria : glaris

tra i due membri non corre un rapporto solo metafonetico, ma identità sostanziale ed etimologica.

Lar

Le etimologie fin ora tentate di questa parola vengon tutte, quale più, quale meno, dichiarate insoddisfacenti dal Walde LEW? 4. ν. Il metodo è buono: non stare alla semplice ed astratta possibilità fonetica, ma porre sulla bilancia i momenti storici ed archeologici della parola. Non bisogna però limi- tarsi, come fa il Walde, al punto di vista interno del latino, quando il contenuto della parola è una credenza o costume di carattere indoeuropeo, e quando di conseguenza essa può trovare la sua spiegazione nella terminologia comparativa di quella credenza e di quel costume stesso.

È oramai dimostrato che al culto dei Lares italici risponde perfettamente quello delle anime degli antenati e degli eroi

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nelle religioni degli altri popoli indoeuropei (1). Lo stesso uso di collocare le nicchie o tabernacoli dei Lari sui crocevia delle strade suburbane e rurali par che alluda al costume antichissimo di seppellire lungo di esse. I compitalia che al Calendimaggio si celebravano specialmente dai contadini in onore dei Lari (i quali hanno spesso un corno da bere in mano), par che rispondano mirabilmente alle feste che si ce- lebravano ad Atene nelle Anthesterie, a cui si convitavano le anime o Κῆρες, ed alla pasqua de’ morti (véliu, vel/kos, cfr. russ. velikodne) celebrata da’ Lituani il Giovedì santo per i veles o spiriti degli antenati (2). ΑἹ lit. veles risponde metafonicamente l’a. isl. valr cadaveri, spiriti’, da cui i com- posti valkyria e Valholl paradiso dove la Valkiria conduce le anime degli eroi caduti in battaglia ’, toch. A và? morire’, a cui non so se non si debba aggiungere l’a. lat. vallessit pe- rierit’ Paul.- Fest. 577 ThdP. (3), alb. vale canti de’ morti ’, ags. vel ‘morti sul campo’, a. a. t. wal ‘sconfitta, distruzione’, russ. valjava ‘campo seminato di cadaveri’. Da un amplia- mento o variazione radicale v2/4-s acc. a vela- potrebbe como- damente derivarsi il lat. Las, come lorum ‘correggia’, gr.

(1) Lares son dette anche le anime de’ defunti: i Manes ‘ombre de’ morti’ sono Zares, se buoni, larvae se cattivi; v. anche Wissowa, Rel. u. Kult. ἃ. Ròm., 148 sgg.; Otto, Arch. f. lat. Lex., XV, 116; Ehrlich, ΚΖ, XLI, 295 sgg. Come dii inferi sono caratterizzati i Lari in Paul.-Fest., 805 ThdP., Varr., apd. Arnob., 3, 41.

(2) Feist., Kultur τι. 8.10. der Indogerm., 328 sg.

(3) La metafonesi è quella di palus : lit. pélXé ; valles: gr. ἐλύω piego, curvo’; valvae : volvo, e vedi Sommer, Hdb., p. 70 n.

[Avevo già spedito questo articolo quando nell'ultima annata delle 11 a p. 333 sgg. compariva un articolo del Leskien sulla retta lezione della parola lituana. Il Leskien giudica v2lés, sg. vele la retta grafia, traen- done le prove dall’antico scritto del Lasicius De diis Samogitarum (1580) ed. Mannhardt Magazin der lettisch. liter. Gesellsch. 14 Bd. (1869) p. 82. Il tratto di costume comparativamente più importante è nel passo a p. 90 Vielona deus animarum, cui tum oblatio offertur, cum mortui pa- scuntur, dari autem illi solent frixae placentulae, quatuor locis sibi oppo- sitis, ete. La formula di evocazione relativamente più fedele mi par quella di p. 111: Velone' su veléms ateik muln)s[um]up una stala V. veni cum mortuis nobiscum ad mensam’. Altrimenti Leskien /. c.].

_ 50 _

εὔληρα, dor. αὔληρα, ἄβληρα ἡνία, da ulor- : uler-, arm. lar; lacer (:vello, volnus), da ulacero-. Ma potrebbe meglio pen- sarsi ad un’altra possibilità, e cioè che un tema wv%/s nella forma debole avesse dato un u/st (p. e. nom. v2/s, gen. ulsos o ulsés) che nel latino foneticamente doveva approdare a las-, come lana da ulna, a.i. urna, lit. vilna, a. sl. olina etc. ri- spetto a vellus (vel-n-). Una seria difficoltà potrebbe costi- tuire l'é di Làris gen. di Lar, ma la quantità di essa in larua da las-oua ‘spettro’, Larentalia, Larentia ci dice che Lar :*Laris dovette esser analogicamente ricalcato su par : pàris etc., onde la vocale radicale breve dei casi ubliqui.

telum

Secondo l’opinione più comune #/um, generalmente inteso come ‘arma da getto, freccia scoccata tendendo l’arco’, sa- rebbe derivato da un *tendslom Walde LEW? 5. ν. In un frammento della tav. 88 delle leggi delle dodici tavole esso è invece inteso come arma difensiva: Lucî....si se telo de- fenderit.....endoque plorato. Questo c'indurrebbe a pensare, invece che a *tends-lom, a *tegs-lom, tenendo presente il Sal- lustiano tegere aliquem armis. Allora tegs- sarebbe da conce- pire come la forma sincopata del tema in -s: gr. τέγος, στέγος.

Ma, più che altrove, il contenuto di #lum si determina e caratterizza nella combinazione arma et tela : ‘armi protet- tive, aderenti alla persona’ le prime (ἀραρίσκω), armi offen- sive, aggressive’ le seconde. L’inventario di queste comin- ciava dalle frecce e finiva al pugnale, alla spada, alla scure (Georges). Siccome però le armi ed il loro linguaggio, anche attraverso i mutamenti di materiale e di tecnica, son cosa generalmente appartenente alla cultura preistorica del popolo, e come tale comune ad altri popoli indoeuropei, sui criteri di ordine filologico bisogna dare anche qui la precedenza a quelli di ordine antiquario e comparativo.

Ad un n. pl. tela, dove lo derivassimo da teksl4 e lo inten- dessimo come un originario collettivo in -@, risponderebbe a capello l’a. sl. tesla da *teksla ‘ascia’, a. ir. tal da tokslo-,

A MES Υ LEVI n, nat

CL enrgie

a. a. t. dehsa, dehsala ‘scure, zappa’, av. tafa ‘ascia’. La voce celtica, nonostante la produzione della vocale radicale, ci richiama al gr. τόξον ‘arco’, pl. τόξα ‘strali, dardi”. È stato notato che in Omero il costruttore dell’arco è detto τέχτων, così in A, 109-110 per l’arco di Pandaro :

τοῦ κέρα ἐκ κεφαλῆς ἑκκαιδεκάδωρα πεφύκχειν καὶ τὰ μὲν ἀσκήσας κεραοξόος ἤραρε τέχτων

Se ora potesse dimostrarsi che τόξον e τέχτων sono fone- ticamente attinenti, il carattere ergologico e quindi generico di telum sarebbe definitivamente dimostrato. Ma contro la de- rivazione di τόξον dalla base di a. i. tdksan, av. ta3an- ma- nifattore, scultore’, taksati ‘fabbrica’, lat texo, lit. tasati scolpire’, lit. tesatiî battere ’, sta il fatto che alla combina- zione ide. -ἀ2- di questa radice il greco risponde già con -x7- in τέχτων, il che ci dimostra che la spirante dentale dopo la gutturale era indoeuropea, v. Brugmann Grdr. 13, 790 sgg. Ad ide. -ks- il greco risponde invece con -xo-, -É-.

La continuità etimologica dei due termini e quindi l’argo- mento su d’essa fondato sussisterebbe solo nell'ipotesi che τόξον sia da téxtjov, caso in cui quello deriverebbe da questo come δόξα da déxrja etc. Ciò a complemento del Feist, Kultur d. Idg., p. 112, il quale senz'altro combina τόξον con τέκτων. Con quel che ho detto ogni difficoltà fonetica parrebbe eli- minata.

FRANCESCO RIBEZZO.

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L'ORIGINE DELL'UNICO CASO OBLIQUO

DEL DUALE NEL GRECO

Due sono oggi, dopo altri meno felici tentativi (1), le spie- gazioni meglio quotate dell’origine della desinenza in -ow dell'unico caso obliquo del duale dei temi in -o nel greco, ad imitazione del quale si foggiò poi l'uscita in -@:v del caso corrispondente dei temi in -a: quella del Brugmann (2) e quella del Hirt (3). Partendo dalla forma omerica di questo caso, ch'è costantemente -owv, il Brugmann cominciò con altri per ritenere che p. e. un om. ἵπστοιιν risulti da una com- binazione ἵπποι-ιν, la cui base è costituita dalla forma in -oî del caso retto duale dei neutri in -ὸ presso gl’Indoeuropei, impiegata come tema, invece dello stesso tema in -0, che nel- l'esempio greco sarebbe stato ἵσσπο-. Il fenomeno è indoeuropeo : i gen.-loc. duali dell’indoiranico p. e. a. i. vr'kay-0s dei, nei

(1) Fick BB (Bezzenberger's Beitrige z. Kunde d. idg. Spr.) I, 67; Baunack, Mém. Soc. Ling., V, 25; Studien, I, 174; Inschr. Gortyn., 70 sg.; Ber. sàchs. Ges. Wissensch., 1893, p. 111; Thurn- eysen ΚΖ (Kuhn’s Zeitschr. vergl. Sprf., XXVII, 177; Torp, Beitr. 2. geschlechtlos. Pronom., 47 sg.; Brugmann, Griech. Grmè, 124, Grundr. d. vgl. Grm. d. idg. Spr., II, 658 sg.; Hirt IF (Indogerma- nische Forschungen), V, 251; Wheeler IF, VI, 136; Brugmann, Gr.Gr.3,232; Hirt IF, XII, 238 sg.; Solmsen, Berl. phil. Wochenschr., 1903, col. 1005; Brugmann, Distr. u. Kollect. Num., 62 sg.; Ber. sàchs. Ges. W., 1908, p. 28 sg. e p. 25 sg.

(2) Definitivamente in Grdr., II°, 2, $ 215, p. 209: cfr. Kurze vgl. Gramm., p. 390.

(3) Definitivamente in IF, XII, 240, non più in Handbuch der griech. Laut- u. Formenlehre?.

555 due lupi’, yugdy-0s ‘dei, nei due gioghi’, f. dgvay-ds delle 2 cavalle’, av. loc. du. 2astay-0, gen. du. viraya sottendono come temi nom.-ace. duali neutri del tipo a.i. yug?, a. sl. ize etc., con -d= οἵ.

Pare che la sede propria e naturale di questo fenomeno, più che i sostantivi ed i pronomi, fossero numerali in cui il concetto ingenito della dualità, coppia, pariglia di due esseri fin per gravitar tutto sul formante o desinenza, propagan- dosi poi, come carattere funzionale, ai nomi e pronomi del medesimo caso ad essi congiunti nella proposizione (1). Nello slavo-baltico e nel germanico, infatti, questo fenomeno lo troviamo localizzato e circoscritto a casi come dvoju dei due ’, toju = a. i. t4yos di loro due’, lit. doéjau, dvéjaus (con dvéj- da dvaj-), abèju = a. 1. ubhdyos, a. sl. oboju di ambedue ’, got. tvaddje = a. a. t. 2wejò * duorum”’ etc.

Nella decomposizione ἵπσποι-ιν del Brugmann restava però oscura l’origine e la natura di -ἐν. Il Brugmann aveva prima | pensato ad una desinenza duale ide. -vi(m), Grdr., 111, 659; in seguito ha identificato questa desinenza nell’-1v di νῶ-ἵν ‘di noi due’, cp®-iv di voi due’ da lui ricostruiti in νῶ-ιν, opò-Fiv. Questo -Fiv sarebbe identico, secondo lui, al vîm- che compare nell’a. i. vi-cat venti’, beot. Fixari, lat. vi-ginti da ide. *u-eî, u-î, con ἔμ = ‘2’, (cfr. got. wi-t noi due’ da *wet (a. norv. vet), ide. *ue-d, got. weis ‘noi’, lit. ve, vè-du ‘noi due’). Essi prefissi contengono un ide. *u? ‘due, noi due etc.’ conservato ancora in a. i. separatamente, in due ’, vaya ‘ramo’, a. sl. veja ‘ramo ’; lat. vi-tricus secondo padre, padrigno (cfr. a. i. vi-matar-), a. sl. viitorà secondo da ide. vi-tero-, cfr. a. i. vitaràm ‘inoltre’, got. wisra ‘rimpetto, contro’; a. i. vi-sva ‘d'ambo le parti’ (2). Dal caso obliquo

(1) Zahlwòrter verbinden sich oft mit Nomina in gleichen Casus im Satz, und so diirften die Wòrter fur zwei’ und È beide’ mit ihrer dua- lischen Flexion bfters auf Nomina und Pronomina heribergewirkt haben ,, Brugmann, Grdr., Il, 2, p. 280, cfr. p. 201.

(2) V. Hirt IF, XVII, 62, 78; Brugmann, Ber. sàchs. Ges. Wiss., l. c. (vol. LX), 27, non ostante i dubbi dello Jacobsohn, Hermes, XLIV, 89 sg.

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duale dei pronomi personali -.v sarebbesi poi esteso ad altri pronomi e numerali, presi al tema in -o:, che altro non era se non un nom.-acc. duale del neutro, e di qui a tutti i nomi ed aggettivi in -o (1).

L’ipotesi del Hirt ha, se non altro, questo con sè, ch'è più semplice e naturale. Accanto a gen.-loc. duali come lit. dvéju, a. sl. dvoju, toju etc. le lingue slavo-baltiche ed il germanico

hanno dativi duali come lit. dvé'm, dvém, tém in tim-dvém ‘a

loro due’, adè'm ‘ad ambedue ’, a. sl. dvema, tema, got. twaim, baim, baim ‘ai due’ a cui ben potrebbero corrispondere gr. δυοῖν, τοῖν, ἀμφοῖν. In seguito par che la rapida e fuggevole intuizione del Hirt abbia urtato contro la vera forma di questo caso in Omero ch’è -04 e non -01v, desinenza questa che nell’attico parrebbe derivata, ma secondo lo Hirt stesso non necessariamente, da contrazione. Così si spiega com'’egli nella seconda edizione del suo pregevole manuale (2), dopo aver detto che la base del caso obliquo duale dev'essere uscita da temi di senso duale come dvor-, ἀμφοι- (ancora nel δύο prevalentemente neutro acc. a δύω τη.) (3) etc., per ciò che riguarda l’-1v lo dichiara oscuro o problematico, riconoscendo così da se stesso fondato lo scetticismo del Brugmann, Kurze vgl. Gr., p. 390, rispetto alla sua derivazione di δυοῖν da δυοῖμ etc.

A me pare, invece, che sia possibile una giustificazione, dirò così, postuma del punto di vista del Hirt, giacchè per quanto non mi dissimuli le difficoltà di ordine comparativo e storico che una simile derivazione ha contro di sè, tuttavia queste difficoltà o non sono così irrimediabili da rendere in- sostenibile l’ipotesi, o, al paragone di quelle sollevabili contro

(1) ©“ Den Ausgang τοῖν, -ovv haben die griech. Formen wie ἵπποιιν, ἕπποιν und toùv, τοῖν wahrscheinlich zuniichst von δυοῖεν, δυοῖν, ἀμφοῖεν, ἀμφοῖν bezogen ,, Brugmann, Grdr., 115, 2, p. 280; e p. 215: Vom Zahlwort ging -ouw auf die Nomina tiber ,.

(2) Handbuch der griechischen Laut- τι. Formenlehre®, p. 351: Zur Erklirung wird man von den Stimmen dvoi-, ἄμφοι- ausgehen miissen, die genau in Gen. a. i. dvày-oh, lit. dvé-jù ete. wiederkehren ,.

(3) V. Hirt I7, XII, 240.

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la combinazione del Brugmann, sono meno gravi e più facil- mente eliminabili.

Inammissibile mi pare innanzi tutto l’identificazione del -Fiv nel vim- a sua volta oscurissimo di a. i. vi-cati (ma avest. visaiti-), che comparativamente è un ide. vi-knti, in cui il Brugmann vede la forma di un caso, Grdr., 115, 2, p. 31, cioè una formazione duale vi-m col -m che troviamo nell’a. a. t. zwein-zug ‘20’. Esso vi-m sarebbe perciò un antico dativo- strumentale, cfr. got. dat. du. tvdim, a. a. t. zweim: Grdr., II, p. 649-650. Or ciò è affatto problematico, specialmente finchè il υἱ- resta isolato e circoscritto al solo indiano antico, e la nasale estesa anche a tri-cdt- ‘30’, catvari-cdt- ‘40’. È inoltre un fatto che in tutti gli altri esempi che risultano da com- posizione questo υἷ- ha carattere costantemente prepositivo ed indeclinabile (i). Chi sa, invece, se quella nasale non sia una epentesi o ripercussione interna dialettale del 7 della parola seguente in un protoar. vi(m)-Enti !

Più naturale e verosimile mi pare pensare che v@î v®ft sia da decomporre in vòf-1 con voF- antevocalico uguale ad a. i. du. nau ‘noi due’ = ide. nò(U), gr. v®, con τῳ even- tualmente caduto come nei dittonghi lunghi. L’-1 epitetico per me non è se non una sovrapposizione, probabilmente già indo- europea, di un carattere dualizzatore o pluralizzatore alla base del duale, forse quello che vediamo in a. sl. noi due’ = ide. ve ἢ, rispetto al ve- di lit. vè-du ‘noi due’, a.i. vay-dm noi’, got. weîs da ide. μοὶ. Il Brugmann stesso Grdr., 115, 2, p. 881 sg., pensa che l’-î di questo ide. *uei noi’ sia uguale all’-î dei nom. pl. *ei, ir. è, e *toi = gr. τοί delle par- ticelle pronominali corrispondenti.

(1) Più facilmente potrebbe pensarsi che lo -m sia uscito da #rt-cdt, dove trim- sarebbe un dativo-strumentale ide. tri-m, cfr. got. Pri-m, a. a. t. drim, a. isl. Prim(r). Ma tri- è di numero plurale e nell’a. i. ci aspetteremmo tribh- (tribhis), ir. trib, lat. tribus, senza dire che anche tri- come primo membro d’un composto apparisce costantemente inde- clinabile negli esempi che possono risalire all’indoeuropeo : a. i. tri-pdd-, gr. τρί-πους, lat. tri-pes, gall. tri-garanus ete., v. Brugmann, Grdr., II° 2, p. 11 sg. Comunemente a. i. trim- οὔθ, giudicasi modellato su wim-

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Se ora si pensa che l’ide. now, come l’enclitico nau del- l’a. i., oltre che come accusativo (usato poi come nominativo), doveva verosimilmente valere anche come dativo e genitivo, si comprende benissimo donde il protoell. v@F- v@ft etc., in senso dativo (1), possa aver ricevuto il suo -v. Evidente- mente dai dativi plurali lesb. ἄμμιν, ὕμμιν, dor. @uiv, “δμίν, ion.-att. ἡμῖν, “duîv con lo stesso -n di a. i. tasmi-n ‘in lui (2), in esso’ contro lesb. ἄμμι, ὄμμι, gort. ὄττιμι (= ὕτῳ, da ὄ-τι-σμι), variazione visibile anche in ogiv : σφί. Questi con- tatti tra dativo duale e dativo plurale son frequenti, special- mente in pronomi e numerali, cfr. gr. dvoîs, δυσί per δυοῖν, el. dvotots per δυοῖν (cfr. G. Meyer, Gr. Gr.*, p. 496), lit. dvisè per dvé'm.

Entriamo ora brevemente nel merito dell’altra affermazione del Brugmann, che cioè 1’-1v del caso obliquo duale nei nomi, aggettivi, numerali e pronomi come gli om. où», ἵπποιιν, ἀλλήλοιιν, ἀμφοτέροιιν, βλεφάροιιν, μαρναμένοιιν, ὀφϑαλ- μοῖιν, ἡμιόνοιιν, σταϑμοῖιν, ὥμοιιν sia derivato la prima volta dal caso obliquo corrispondente dei pronomi personali come νῶ-ἵν, cpò-iv. Questa ipotesi supporrebbe una di queste tre cose: che il protoellenico non avesse un caso obliquo duale, che avesse un mezzo morfologico diverso di cui non resta traccia, che il semplice tema come tor, dvor ete. cumulasse le funzioni di caso retto ed obliquo, il che non fu certo il caso nell’indoeuropeo (3). Or tutto ciò è impossibile. Le forme duali epigrafiche att. παίδοι, ϑανό(ν)τοι, arg. τοῖ Favazor 0 sono riduzioni di παίδοιν, τοῖν ete. con -v omesso

(1) L'uso prevalente di νῶϊν, σφῶϊν come dativi si ricava dalla stati- stica omerica; quello è usato 22 volte come dativo e solo una volta come genitivo (X 88), questo 11 volte come dativo e 3 come genitivo : νῶϊ, σφῶϊ in origine erano solo nominativi (il primo 38 volte contro 18 in Omero), vò, σφώ accusativi. V. G. Meyer, Gr. Gr.3, 516.

(2) Cfr. lit. (dial.) fami; a. lit. tamim(-pi), contro av. ae-tahmi ete. Sul- l'origine di -n v. P. Persson IF, II, 235 sgg.; Nazari, Del suffisso loca- tivo in -n, Torino, 1896.

(3) Per i casi di δύο indeclinabile in greco v. G. Meyer, Gr. Gr.i, p. 496.

ὃς F ἐπ 4 I » va N

it eri

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come fosse semplicemente efelcustico (sull’analogia dei dativi plurali specialmente dei pronomi personali, nonchè dei casi in -g@L e -gu), o sorsero in combinazione sintattica con de- terminati suoni iniziali di parola seguente, o son semplici varianti grafiche (1). D'altra parte se è vero che el. δυοίοις può presupporre un δυοῖ-τεν, in cui alla desinenza del duale siasi sostituita quella del dativo plurale, può però anche darsi che δυοίοις sia sorto per influsso del dativo plurale di δοιοί ‘duo, ambo’ acc. a do® usato invece di δύω in Omero (p. e. in Il., III, 57). Come per Velico così il postulato di un ante- cedente -00v non par necessario nell’argivo, nel beotico (arc. to]îv Διοσκόροιν Inser. Graec. sept., I, 1792 e 2875, cfr. Collitz, 652) e nell’attico, dove la desinenza del caso obliquo concer- nente non è necessario che sia considerata come contrazione di -ouwv neanche dove è accentata -oîv, come p. e. in τοῖν, δυοῖν ete., perchè il circonflesso o può esser indoeuropeo (cfr.

lit. tém etc.) o analogico (dal gen. pl. τῶν, dat. τοῖς etc.) (2). Non è, dunque, ardito pensare che il protoellenico come de- sinenza del caso obliquo del duale avesse semplicemente -oc».

Io penso che la forma in -owu»v sia un prodotto della con- gruenza formale, specialmente nei casi, utpote numerabiles, da cui le desinenze dei casi duali si dimostrano generalmente uscite. Loro sede originaria furono infatti pronomi e nume- rali in cui il concetto della dualità stava di casa nel loro stesso etimo. Nelle combinazioni come τοῖν- δὲ νῶϊν (nom. τώδε vo, a. i. a-va(m) = ide. o(u)-ud(u) ‘noi due’), νῶ-ἵν δυοῖν c'era evidentemente una incongruenza grammaticale, giacchè mentre in νῶϊν l’-1v era eterosillabico, così da esser concepito nel suo tutto come un suffisso del caso, specialmente rispetto a ψώ, in τοῖν, δυοῖν lor era invece tautosillabico e come desinenza presentava (specialmente se proseguì a vivere a lungo un dvo(:) femminile e neutro) solo -v. La perequazione

(1) V. Schulze, Quaest. ep., 60; G. Meyer, Gr. Gr, 481; Brugmann, Gr. Θ᾽... 232.

(2) Un simile influsso venne messo avanti anche per spiegarsi l’ac- cento di att. ἡμῖν etc. contro fuiv ete.; v. G. Meyer, Gr. Gr.5, p. 515.

560

di τοῖν, δυοῖν a vò-iv etc. era dunque un fatto inevitabile,

δυοῖν, τοῖν etc. vennero deformati in dvoîtv, toùv etc. Contro l'intuizione balenata disgraziatamente solo per breve

tempo alla mente di H. Hirt, che gr. δυοῖν, τοῖν, ἀμφοῖν etc.

rispondano a lit. dvèm, tim, abi m, a. sl. dvema, tema, got. twaim (a. a. t. 2weim), Saim, baim (n. pl. bai beide') da ide. duoî-m, toî-m, u-bhoî-m, vi è solo una difficoltà, ed è che nel greco non si conserva altra traccia di -m (1) come suffisso di dativo-strumentale accanto all’ordinario -bhi, gr. -qt.

Ma finchè le opinioni sull'argomento sono a questo punto, che il suffisso -m da alcuni non vien ritenuto di conio indo- europeo, ma limitato solo al lituslavo ed al germanico, mentre altri credono più verosimilmente di origine indoeuropea tanto -bh (2) che -m, distribuiti probabilmente al duale questo, al plurale e singolare quello, così non è da far troppo grandi meraviglie che una traccia di -m in greco siasi conservata proprio nella sua sede originaria.

Francesco RIBEZZO.

(1) Altrimenti starebbero le cose se il gr. -gev contro -ge del dat.- strum. omerico fosse da ide. -bhim come vuole il Leskien, Ber. 5 68. G. ἃ. W., 1884, p. 102; cfr. Brugmann, Gr. Gr.}, 239; -bhim decomposto in -bhi+-m potrebbe rappresentare una sovrapposizione dei due suffissi strumentali dell’indoeuropeo. Per simili contaminazioni v. Hirt IF, V, 251 sgg. Una traccia del suffisso -b4, con valore dativo-genitivo, come talvolta in Omero, credo io d'aver riscontrato nelle monete siculo- greche di Segeste ed Erice: σεγεσταζιβ cui, ερυμκαζιβ eur = Σεγεστα- σίων εἰμέ οἷο.

(2) Saggia è la parte conclusiva d’una nota del Meillet, Intr. Vét. d. 1. ide. (1903), p. 270: © Les désinences en *-bh- ne sont d’ailleurs pas inconnues au slave et au baltique puisque le slave a les datifs tebè toi”, sebé “ἃ soi’, et de méme le vieux prussien tebbei, sebbei en regard de lat. tibi, sibi. 11 est évidemment impossible de poser ici des formes indo- européennes ..... on est en présence d'une situation profondément troublée ...

pr

LA LATINITÀ DEL NUOVO PSALTERIUM

EDITO DAL CODEX CASINENSIS 557

Natura ed età della recensione del Psalterium Casinense.

È stato pubblicato un nuovo Psalterium: Collectanea Biblica latina cura et studio monachorum 5. Benedicti vol. I. Liber psalmorum iuxta antiquissimam latinam versionem nunc primum ex Casinensi cod. 557 curante D. Ambrosio M. Amelli O. 5. B. abbate 5. M. Florentinae in lucem pro- fertur’ (Romae, 1912).

Il cod. Casinensis 557 è, secondo che afferma l’editore, del sec. XII. Esso codice contiene tra l’altro un quadruplice Psalterium : il primo secondo la versione di S. Gerolamo ivxta Hebraeos, il secondo conforme alla versione detta Gallicana, il terzo che è appunto quello ora dato alla luce di incerto autore, il quarto secondo la versione detta Romana.

Riguardo alla natura della nuova recensione l’Amelli scrive (XX 5): Nec minoris pretii ad eamdem Psalterii antiqui- tatem comprobandam alia aestimantur vocabula quae pariter ibi permixta, ab africanae latinitatis indole recedunt, et potius europeae seu italae versionis biblicae aliquid praeseferre viden- tur. Siquidem, voces lectionesque huiusmodi saltem saec. IV-V propriae, idest Hieronymo, Ambrosio, Rufino et Augustino familiares, censendae sunt ,. Questa asserzione comprova con un elenco di voces africanae e non africanae. E poi: “Non enim agitur de simplici versione vel recensione veteris Psalterii africani ad italam iuxta LXXviralem editionem, sed

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 36

= ade δος

χὰ ἀφ᾿ ς.-

τι

STO, rta Saia an AS

SE id, e ὃν», ΠΡ ΌΣ

562

saltem de tentamine seu specimine quodam criticae editionis Psalterii africani ad hebraicam veritatem et ad Hexaplas Origenis undequaque exacti ,. Nella “emendationem iuxta hebraicum textum a quodam nobis ignoto, sed eiusdem linguae satis perito factam , scorge dei vestigia della translatio di Aquila, che desume tra l’altro dall’uso di cum, come in grec. σύν, e ablat. con funzione oggettiva (ebraismo) quod quidem inter characteristicas Aquilae versionis formas prae- cipue dinoscitur ,, ciò affermando sull’autorità del Swete e del Burkitt. A chiarire ancora e sviluppare la tesi dell’afri- canità l’Amelli instituisce dei confronti 601 Psalterium Vero- nense e Augustinus, con Tertullianus e Cyprianus ete., am- mettendo, come facilmente s’intenderà, l’origine africana del Psalterium Veronense (1).

Postulando poi l’autore della nostra recensione, l’Amelli come probabile Rufinus presbyter Aquileiensis, di cui cita: per raffronti Origenis homiliae in psalmos ed altre opere. Per verità l’Amelli stesso riconosce che la sua è una mera ipotesi, e che sarebbe pronto a ritrattarsi, dove altri dimostrasse il con- trario. Non vogliamo insistere su ciò, per quanto devesi per l’onestà della critica osservare che le prove sono desunte da elementi formali di niuno o molto dubbio valore. Εἰ comunque, ipotesi per ipotesi, perchè non pensare anche ad altri che pur scrissero delle enarrationes expositiones in psalmos

Con la questione dell’autore è legata direttamente o indi- rettamente quella dell’età. È chiaro che, supposto autore Rufinus (945 +410), non si potrebbe non riferire la recen- sione del Psalterium Casinense al sec. IV-V. Ciò che lAmelli

(1) Il fondo africano, ossia la dipendenza della recensione del Psal- terium Casinense da una delle versioni del Salterio latino usato in Africa, è riconosciuto anche dal Capelle nel recentissimo libro Le texte du Psautier latin en Afrique (Rome [impr. Auguste Godenne], 1913) che forma il vol. IV dei Collectanea Biblica etc. sopra citati. Dappoichè l’Amelli basa la più parte della sua argomentazione sul confronto col Psalterium Veronense, è utile avvertire che il Capelle si propone appunto di dimostrare l’origine africana del Psalterium Veronense. Ciò che, am- messo dagli studi anteriori, ora veniva revocato in dubbio o affatto negato per opera del Hastings.

ἘΣ ΕΘΝ Ἐς

fa, e con troppa presunzione di certezza. À noi invece sembra che la nuova recensione, nella forma almeno in cui ci è con- servata dal cod. Casinensis, metta capo ad una copia posteriore al sec. IV, e precisamente o del sec. V o piuttosto del sec. VI, se non del VII. Il che è lecito desumere da molti fatti, e specialmente dall'uso delle voci adlentasti (occorre in Gloss. Il Vollmer nel Thes. annota: verbum sine dubio re- centissimum ,), ascensa = ascensio o ascensus (occorre nel Sacramentarium Leonianum sec. V-VI e nel Sacramentarium Gelasianum tit. sec. VI), celsa=‘ morum”’ (occorre in Caelius Aurelianus sec. V ?, Soranus sec. V-VI, Dioscorides Latinus sec. VI, cf. anche Gloss. e Isidorus), condamina (Not. Tir. 38, 44° e Du Cange 5. v.: la forma conduma occorre in Gre- gorius Magnus, condoma nell’'Itinerarium Antonini Placentini rec. A intorno all’a. 570) etc.

Questa fonte ad ogni modo recenziore spiega uno (volga- rismo) dei caratteri più rilevanti del Psalterium Casinense, che sono ebraismo, grecismo e volgarismo.

IL

Esame critico del testo.

L’editore non mostra un criterio sempre costante nel se- guire o pur no la lezione del codice. Non faciamo esempi particolari. E taciamo pure di molte e gravi sviste. Per es., nell’Index nominum et verborum si registrano i verbi confun- dari e exiliari : laddove a 24,3 non confundentur (= confun- dantur) così come a 9, 33 ne exilient (= exiliant) trattasi pro- priamente di fut. invece di congiunt. pres., scambio, come vedremo a suo luogo (Sintassî 51), frequentissimo nel nostro Psalterium. Ciò premesso, passiamo a discutere taluni luoghi di maggiore importanza.

30, 14 quoniam audivi inproperium multorum incolantium in circuitu congregare se simul super me, accipere (paupere cod.) animam meam concitaverunt.

AO +7 I A dee |

Mu ᾿ ΝΎ

ΠΝ ἤν ΑΝ ΔΎ ΑΨ n Ν

di ti Ì ft, (Ut NR ΑΝ Ù ti UA μι Τὰ RUE πὴ" Roo

li

564

L’Amelli in Addenda et corrigenda scrive: concitave- runt = cogitaverunt (cum hebr ?) ,. Ma non sembra, cf. Psalt. Hebr. ed. de Lagarde cum inirent consilium adversus me et ut auferrent animam meam cogitarent (1. v. cogitarunt). Anche perchè concitaverunt = inirent consilium + cogitarent. È da in- tendere pertanto concitaverunt = concitaverunt (inter se) 0 = concitati sunt (cf. Sintassi 47).

30, 20 quam (qua cod.) multitudo bonorum, quam abscon- disti timentibus te.

Se si corregge, come fa l’Amelli, qua = quam, 51 avrebbe l’avverbio usato in luogo dell’aggettivo (cf. Sintassi 45). Nel caso poi particolare quam multitudo bonorum si potrebbe spie- gare per contaminazione di quam multa bona + quanta mul- titudo bonorum. O è da leggere qua = quKi)a (con Psalt. Hebr.)? Cioè quia multitudo (scil. est) bonorum.

36, 10 et adhue modicum, et non est impius, et species super eum, nec invenitur.

L’Amelli par che non intenda species. Dacchè in Addenda et corrigenda si domanda: et species (= quaeres) unde- nam? ,, e nell’/ndex non si registra affatto questa voce. Evi- dentemente species fut. da specio (con species super cf. inspi- cere super passim). Per specio cf. esempi nel periodo arcaico. E comunque species spiegasi per l’uso, non infrequente negli scrittori seriori, del semplice pel composto.

39, 16 dissipentur in postremis confusionis suae qui dicunt michi : euge euge.

L’Amelli annota: fortasse legendum confusiones ,. Ma a torto (a parte l’uso nel nostro Psalterium del nominat. e accusat. plur. in -îs = -es). Perocchè în postremis confusionis suae vale a un dipresso = post confusionem suam, cf. Psalt. Hebr. pereant post confusionem suam qui dicunt mihi : vah vah. Questo luogo riceve e a sua volta luce ad un altro luogo: 103, 12 ascensioni eorum (= super ea) volatilia caeli inha- bitabunt. Per cui in în postremis e ascensioni è da vedere un costrutto preposizionale. Ossia în postremis confusionis non è = in postrema confusione, ma sibbene = post. confu-

sionem οἷο. E però ascensioni eorum: super ea = in conspectu eorum : coram eis.

58, 8 ecce latrabunt in ore suo gladiat in labiis suis quoniam dicent quis audet. Così Amelli. E annota: gladiatin in forte leg. gladiat in ,, e per audet: pro audiet? ,. Ma audet = audit (cf. Fono- logia 1). E gladiatin im è da correggere così: gladi o gladi(î) (per i= di cf. passim) autem (at = at) in [in: dittografia]. Ossia ecce latrabunt in ore suo, gladiù autem in labiis suis, quoniam ete. = Psalt. Hebr. ecce loquuntur in ore suo, gladii in labiis eorum, quasi nemo audiat.

106, 43 quis sapiens et custodit haec et contemplabunt misericordias domini ?

Così Amelli. Ma intenderei piuttosto : quis sapiens (scil. est), et custodit haec, et contemplabunt misericordias domini (per cu- stodit in unione con contemplabunt cf. Sintassi 7 e 49). Ossia quis relativo = qui. Ad ogni modo, se si volesse mante- nere il punto interrogativo presunto dall’Amelli, meglio sa- rebbe interpungere (come de Lagarde): quis sapiens? et cu- stodit haec, et contemplabunt misericordias domini. In altri due luoghi l’Amelli non fa uso del punto interrogativo : 24, 12 quis est homo timens dominum, legem ferat illi in via, quam voluit. 105, 2 quis loquitur potentias domini, exaudiet omnes laudes eius. E va bene, ancorchè non sappiamo come intenda quis l’Amelli. A chiarimento osserviamo che l’uso di quis e quid relativo del lat. antico e della lingua volgare fino al- l'età tarda è dovuto alla sostituzione della forma dell’inter- rogativo sostantivale quis, quid alla forma dell’in- terrogativo aggettivale qui, quae, quod = relativo: ora quis = qui e quid = quod sembrano avere un certo qual valore dubbiamente relativo (cf. osc. pîs οἷο. = quis), quasi implicassero un’aggiunta o limitazione mentale: quis = qui (|- qui? ο quis), quid = quod (+ quid ? 0 si quid).

149, 12 divitiae partus nostri ut nos elevans te in pue- rita sita vero ut illi angulis foraminos assimi- lantes templum.

566

Così Amelli, annotando per ili: ead. τη. del. ill ,, e per

assimilantes templum: issimilantes. Templum ,. Ma il verso è variamente corrotto, e forse la lezione issimilantes, se meglio spiegasi, il modo di una molto probabile emendazione : correggendo fe in se, sita in sua, vero ut illi in illi vero ut (per trasposizioni di parole cf. passim), angulis in anguli (per s finale da espungere cf. passim), foraminos issimilantes in fo- raminosi similantes (per false divisioni di parole cf. passim ; la correzione poi similantes è tanto più attendibile, in quanto che similare occorre altre 5 volte, e adsimilare invece 1 sola volta). Ossia divitiae partus nostri ut nos (Ὁ) elevans se in pueritia sua, illi vero ut anguli foraminosi similantes templum = Psalt. Hebr. ut sint filii nostri quasi plantatio crescens in adolescentia sua, filiae nostrae quasi anguli ornati ad similitu- dinem templi. Interessante è la lezione così emendata fora- minosi per l'eventuale critica di altri testi.

FONOLOGIA Vocali.

1. E frequentissimo lo scambio di vocali

a=e: 101,8 passar= passer, cf. Prob. app. passer, non passar e spag. pdjaro ‘avis’, portg. passaro. È dunque forma volgare.

e=1: 31, 9 accidentes = accedentes. 33, 6 accidite, cf. Thes. s. v. accedo: apud scriptores inferioris aetatis accedere et accidere maxime inter se confundebantur, ita ut modo formis verbi accidere vim verbi accedere insitam esse (cf. να. Mare. 6, 21 cum dies opportunus accidisset...), modo accessi, ac- cessit ut idem atque accidi, accidit ut valere videas ,. Così al contrario 71,9 procedent = procident (per confusione di procedo con procido ?). Ancora 56,9 deluculo = diluculo. 24,18 de- mitte = dimitte. 9,22 destas = distas. Per cui è da confron- tare la riduzione, non infrequente, romanza de(s)- di lat. di(s)-. E 101, 27. 108, 29 palleum = pallium. 101,7 pelecano = pe- licano. 109,4 penetetur = paenîtetur. 131,11 penetebitur. 77,72

567

semplicitate = simplicitate (cf. ital. semplicità). 88, 51 senu = sinu. 128, 7 senum (cfr. ital. seno, prov. sen-s se-s etc.). 34, 12 sterelitatem = sterilitatem etc. Volgari anche sono senza dubbio le forme verbali: 58,8 audet = audit. 93, 11 cognoscet. 38,7 colliget. 51,9 confidet. 47, 14 ponete οἷο.

i=e: 40, 10 e altrov. calcanium = calcaneum. 59, 10 calciamentum = calceamentum. 9,6 delisti = delesti. 29,10 e altrov. descindo = descendo. 107,8 diliciarum = deliciarum. 65, 15 pinguidinis = pinguedinis. 72,13 possiderunt = posse- derunt etc. Forme come delisti, descindo etc. attestano senza dubbio una pronunzia volgare o dialettale.

o=u: 62, 6 froniscat = fruniscat. 71, 10. 96, 1 însole= insulae (cf. ital. isola). 36, 21 motuo = mutuo etc.

u=o0: 55,9 putabis = potabis (cf. sard. pudare). 18, 5 urbis= orbis (per confusione di «rds con ordis, siccome al contrario 126, 1 ordem = urbem Ὁ) etc.

Vocali e dittonghi non affievoliti in composizione.

2. E questo un fatto più che altro fonologico. Nei doppioni poi la forma forte resulta parallela o si svolge dal vocabolo semplice ; la forma debole è una composizione in cui il vo- cabolo semplice, per la subìta modificazione, è più intima- mente unito all’altra parte componente. Il fenomeno, cioè della forma forte di contro alla debole, può essere un ar- caismo o un arcaismo-volgarismo o un volgarismo (formazioni nuove 0 seriori). Esclusi i casi sporadici di mere forme scritte, dovute ad analogia etimologica o ad altro.

Osserviamo : 24, 5 sustenui = sustinui da una forma sus- tenere (cf. ital. sostenere, prov. sostener etc.) per sustinere, come con-tenere (cf. ital. contenere) per continere, v. Kòrting Lat. rom. Wéort.3 2461 e 9297 dove *conteneo e sus*tenere. Ancora 47,13 circum-claudite= circumeludite. Di forme non affievo- lite di altri composti di claudo (v. Thes. s. v. concludo etc.) si hanno esempi, ma è dubbio se trattasi di un fatto nuovo e relativamente recente o più antico. E 30, 22 mira-ficavit = mirificavit. 31, 8 pro-facies (1 m. corr. da proficies) = proficies

STERNO

= proficisceris. Or, se miraficavit e profacies sono lezioni vere, miraficavit (mirificus) è fatto secondo mirari e profacies se- condo facere.

Un fenomeno opposto a quello osservato presenta 17, 11 siluit = saluit con indebolimento della vocale radicale come in composizione silvit : ad-siluit desiluit etc.

Epentesi di vocale.

3. E da notare con la vocale epentetica: 44,9 tempolis (corr. da temporis) = templis, cf. tempulum in iscrizioni dell'età tarda (Corp. inscr. III, 10955; 14972. VIII, 21665).

Consonanti.

4. È molto comune lo scambio ὧν e » d. È scritto per lo più aliut, illut, ipsut, idipsut, aput (raro apud), set (raro sed). Normale però quid di contro a 113,5 quit. Non mancano esempi di s (volgare) =x: 135, 15 escussit = ercussit. 5, 6 iusta = iuxta (cf. ital. giusta e giusto, prov. josta, ant. frane. Juste e joste). Così anche di f= ph, come contrariamente e falsamente di pa =f. E scritto peraltro rettamente 104, 31 cinipes= κνῖπες (: scniphes οἷο. = σκνῖφες).

Dissimilazione ed assimilazione delle consonanti in composizione.

5. È usata tanto la dissimilazione quanto l’assimilazione delle consonanti in composizione, e certo prevale la prima per ad. Da osservare per οὗ le forme assimilate: 35, 4 om- motuit. 32, 2 ommotues (cf. Morfologia 6). E per sub poi: 53, 6 supsceptione. 58, 18. 90, 2 supsceptor.

Caduta e raddoppiamento di consonanti.

6. Esempi passim. Osserviamo solo del primo fenomeno : 53, 9 aversariis= adversariis (cf. ant. frane. aversier).

“τ τ ποτε Pe I Te ver ΠΣ

sere ec

Aferesi di consonante o sillaba.

È 7. Da notarsi: 73, 17 verna = vernam hiemem’ (cf. Sin- __—tassì 36) da hiberna (cf. ital. inverno verno).

to Forme dubbie.

8. Tralasciando molte altre, osserviamo : 57,5 columbrae È _ = colubrae. 73,18 destraxit. 77,19 dextraxerunt (regolarmente però 106, 11 detraxerunt) etc. È troppo ardito vedere in de- ὯΝ straxit una forma distrahere per detrahere, e in dextraxerunt 1 una forma de-ex-trahere?

MORFOLOGIA

> Nome. τ 1. Esponiamo per ordine alfabetico : Μ absconsum. ablat. sing. secondo la decl. in -u: 100, 5

absconsu.

altarium = altare : 83, 4 cum altariis tuis. 117,27 usque caranoth altari (altariis cod.). La forma altarium occorre in Corp. inser. VI, 414° (a. 191). Ps. Cic. exil. 24 e frequente in Itala e scrittori cristiani recenziori. Pel fenomeno altare al- tarium cf. exemplar (ecemplare) eremplarium ete., e inversa- mente alvarium alvare, alvearium alveare etc. È lo stesso fe- nomeno che osservasi nella doppia forma degli aggettivi in -aris -arius anche in funzione sostantivale -are -arium : s4a- lutare salutarium salus’ da salutaris (84, 5 converte nos, deus, salutarium nostrorum [sic]) etc.

aures= aurîs : 91, 12. Così anche oves= ovîis: 118, 176.

condamina. genit. sing. in -as: 106, 41 oves condaminas (Psalt. Hebr. gregem familias). Secondo familias.

deus. vocat. sing. di: 17, 31. Senza dubbio di è fatto per analogia con mi: meus= di: deus.

570

dorsum. ablat. plur. in -idus = -is: 65, 11 dorsidus, cf. anche 70, 22 vasibus.

Euphrates. ablat. sing. in -a: 131, 6? Eufrata. Forma che occorre anche nel Psalt. Hebr. Ephrata, mentre la forma più antica e più comune si è Euphrate.

facinus. ablat. sing. secondo la decl. in -u: 50, 4 facinu. Certamente facinu(s)-us nuova forma per facinus-oris. Un ana- logon di doppia forma potrebbe offrirci pecu-us e pecus-oris.

gressus-us. accusat. plur. secondo la decl. in -0: 16, 5. 118, 153 gressos etc.

iubilatus-us. ablat. sing. secondo la decl. in -0: 32,3 iuvilato.

lacus-us. ablat. sing. secondo la decl. in -0: 39,3 Zaco.

maceries= macerta : 61, 4 macheries. 79,13 macheriem.

manus-us. genit. plur. in -um = -vum : passim. Così anche 64, fluctum.

os-oris. ablat. sing. in -#=-e: 16, 10. 61, 5 orî. Così 90, 16 longitudini. 131,16 exrultationi. 130, 20 vanitati. Ed anche 9, 28 dolori (= dolore = dolor) et defectioni (= defe- ctione = defectio). 17, 33 grandini (= grandine = grando). ΟΥ̓. Virg. gramm. epist. 1 p. 117 ed. Huemer: non ergo debet dici ablativo ab hac arti vel monti, licet et hoc quidam corruptis- sime dixerint.

pauper-eris. Casi da una forma pauper -a -um: passim.

pecor = pecus-oris : 49, 10. Forma certamente rifatta dai casi obliqui (pecus-orîs : pecor = decus-oris : decor).

pulver n. = pulvis-eris f. : 71,9. 102, 14. Forma certa- mente rifatta dai casi obliqui. Si potrebbe confrontare per un analogon vomer: vomis-eris.

sanguen n. = sanguis m.: 9,13 sanguina. Da notare piut- tosto la forma del plur., chè del resto sanguen (cf. unquen οἷο. e pollen : pollis) è forma arcaica con qualche imitazione nei periodi successivi.

spiritum = spiritus-us : 76,7 spiritum. 103, 4 spirita.

stratus-us = stratum: 131,3 stratus genit. sing.

totus-a-um. genit. sing. in -î1="-ius: 19, 4 doti.

ventus. genit. sing. secondo la decl. in -w: 17, 45 ventus.

voca = vox : 143, 14 vocae = vocis. Pel fenomeno cf. doca

pre

da δου (βῶξ) e riflessi romanzi etc. e in genere nomi della decl. in consonante passati alla decl. in -a nel dominio neo- latino.

etc. cf. Lessico.

Pronome.

2. Ipsut (ipsut idipsut)= ipsum, che è forma seriore fatta secondo l'analogia di illud, istud. Ipso (ipso tibimetipso) = ipsi ete.

Verbo.

3. Coniugazioni.

È da notare: 57, 5 obturens. 106, 42 obturit da una even- tuale forma obturére = obturare ? Così 57, 11 vindictos (0 vin- dic(a)tos Ὁ) da wvindicére= vindicare? Insomma obturere e vin- dicére son rifatte da forme romanze in -er (cf. franc. venger = vindicare etc.), succedanee di -are? Al contrario si ha 77,36 mentiabantur = mentiebantur. La quale se è lezione vera, si può pensare alle doppie forme in -?re -are così come a forme volgari o romanze in -are da -ére, cf. Psalt. Hebr. 118 (117), 13 cod. G pellabar= pellebar e parimenti riflessi romanzi di minuare per minuère, *statuare per statuère etc. Ancora 46, 2 plaudete = plaudite da una forma plaudeo = plaudo, o è da vedervi un semplice fatto fonologico e=i, come in altre consimili forme verbali (cf. Fonologia 1) Vol- gari senza dubbio sono le forme in -7- per -ὅ- : 68, 33 vidite etc. Peraltro per 121, 6 spondite è da osservare : spondite = spon- dete, o spondite da una forma spondère per spondere postulabile nel campo romanzo (ant. franc. espondre: v. Kòrting 8968 a)? Parimenti 91, 13 floriet (= floriat cf. Sintassi 51). 131, 18 floriat (= floriet) da una forma florîre = florere (cf. Georges Lex. der lat. Wortform. 282). E interessante 91, 8 in/lorientes da in-florîire= in-florere per in-florescere.

4. Presente. Forme rifatte dal perf.: 8,5 meminis. Cf. del resto 6.

572

5. Futuro.

Forme di verbi della coniug. in -è- fatte per analogia con quelle della coniug. in -é-: 17,43 deleam = delebo. 24,9 doceat = docebit. 33, 12. 50, 15 doceam etc.

Forme di verbi irregolari fatte seconde le regolari o altri- menti : 9, 4 perient = peribunt secondo audient etc. Così 9, 37 perierunt (fut. Ὁ) = peribunt secondo erunt.

Forme in -ibo : 113, 17 parturibit = parturiet. 59, 8 partibo = partiar. 31, 8 stabilibo = stabiliam.

6. Perfetto.

Forme in -avi per -uz: 9, 6. 67,31. 118, 21 increpasti (forma sincopata = increpavisti). 105, 9 increpavit. 82,3 sonaverunt. Forme in -avi per -i: 106, 41 adiuvavit (27, 7 adiuvatus sum). 72, 13 lavavi (lavare = lavi : lavére).

Forme fatte per varia analogia: 3,8 conterwisti = contri- visti. 104, 16 conteruit. 104, 29 evertuit = evertit. 84, 3 teguisti = texisti. 142, 9 oculi = occului. 20, 3. prohiberas = prohi- bueras. 104, 29 occisit = occidit senza dubbio secondo il part. perf. occisus. 2, 13 erarzxerit = exarsertt.

Forme con la » nasale come al pres.: 26, 10 derelinque- runt. 88, 31 derelinquerint. E interessante 29, 12 circumcin- cisti dal tema del pres., cioè = circumcing-isti per circum- cina-isti ?

Forme senza raddoppiamento : 9, 6 perdisti = perd-id-isti.

Forme verbali rifatte dal tema del perf. Da od(é) + re odire: 37,20 odiunt. 100,3 odivit = odit (80, 16 erodivit = ex-odit). 104, 25 odire infinit. = imperat. 88, 24 odientes. In- vece odiare è denominativo da odium : 119, 6 odiantibus. E in- teressante da obmutescere ob-mutu(î) + tre = ommututre om- motutre secondo metutre, statuére etc. : 35, 4 ommotuit pres. 82, 2 ommotues fut. = congiunt. pres.

ἡ. Participio. Da notare: 90, 6 iente = cunte. 67,22 transiente secondo la forma del nominat. iens etc.

LESSICO

abdormire: 12,4 ne quando abdormiam in mortem.

Di abdormire si hanno esempi in Gloss., ma nell’accezione = ἀφυπνῶ cf. abnocto pernocto ’. Notevole dunque il nostro esempio, nel quale a0-dormiam = obdormiam addormiam. Pel fenomeno cf. absoleo ‘inquino, sordido (G/oss.), per cui il Vollmer osserva nel Thes.: vulgariter ut videtur pro obsoleo ,, e così prov. abdurar da *ab-durare per ob-durare ete.; e d'altra parte ant. franc. avoutre da abulter per adulter etc.

acceptibilis: 5,13. 101, 15. 144, 16; 19. 149,4 (in- vece acceptabilis!).

Non se ne hanno esempi nel Thes. Acceptibilis dal part. perf. acceptus (accipere): laddove acceptabilis da acceptare. O acceptibilis per acceptabilis come *capibilis (cf. ital. capibile e capevole) per capabilis (Ascoli Arch. glott. I, 14, n. 3)?

adlentasti: 88,45 destruxisti a mundis sedem eius, in terra adlentasti.

Esempio notevolissimo che conferma allentavit di Gloss. e per cui il Volimer in Thes. annota: verbum sine dubio re- centissimum opinor redire ad lentus, ut cum deicere et destruere fere conveniat ,.

adnumerostitas: 89, 12 adnumerositatis dierum nostro- rum ita cognoscere, et feramus in corde sapientiam.

Non se ne hanno esempi nel Thes. Da ad senza alcun va- lore e numerositas rifatto da numerosus per numerus.

arcanuisti: 88, 40 arcanuisti (= evertisti ᾽) testamen- tum servi tui.

arguus-i 0 -us?: 37, 15 et factus sum sicuti homo, qui non audit et non habens in ore suo arguos. 72,14 et factus sum ververatus tota die et arguus meus in matutino.

Non se ne hanno esempi nel Thes. Argu-us dal tema del pres. argu-o sta ad argut-io dal tema del part. perf. o sup. come corusc-us: corusc-0 a corusc-a-tio. Così anche corrusc-a, e titinn-a da titinn-are.

cela: 34,2 arripe scutum et cela (=‘arma’ e simm.).

ΡΟΝ +

La CI

PARETE dita AE ἊΣ ἜΝ ΗΜ ΠΡ ΤΝ pi ἘΣ RE LUANA

574

conpensator: 74,4 ego sum conpensator columnarum (Psalt. Hebr. ego adpendi columnas) eius. Da con-pensare intensivo di pendère. cordatim: 72,1 electis cordatim. Non se ne hanno esempi nel Thes. Cordatim = corde. cornuans: 68,32 vitulum cornuantem et ungulatum. Non se ne hanno esempi nel Thes. Cornuans = cornua- tus (1) = cornutus.

corrusca: 76, 19 inluminate sunt corruscae tuae orbe terrarum. Non se ne hanno esempi nel Thes. Bensì di coruscus. Per la formazione v. l'osservazione a arguus.

denseri: 67,4 et iusti inucundentur et denseantur coram deo et letentur et exultentur. 7 Esempio veramente notevole: denseantur =‘ exsultent ? cf. ant. alt. ted. danson e ital. danzare, prov. dansar, franc. danser etc.

estare: 68, 24 estabunt (Vulg. obscurentur, Psalt. Hebr. contenebrentur) oculi eorum, ne viderent. Cf. grec. ἐξ-ίστημι. exrpassare: 123, 7 fossa dissipata est, nos ipsi expassa- vimus (Vulg. liberati sumus). Ex-passare da passus part. perf. di pandere, cf. Kòrting 3438 s. v. *expasso, anche 6905 5. v. *passo ete. fiduciari: 79, 2 qui sedis super Cherubin fiduciare (Psalt. Hebr. ostendere, Vulg. manifestare). frugiferre: 91, 14 frugiferant (Qugiferant cod.). Frugi-ferre forma rifatta da frugi-ferens frugi-fer secondo ferre, mentre in delligerare (cf. belli-ger di uso posteriore) da bellum e gerere trattasi di una vera composizione (belligerare : gerere = aedificare : facere).

(1) Tuttavia neppur di cornuatus si hanno esempi (per cornuatus che è congettura di 0. Miller a Trag. ine. 221 cf. Thes. TV, 975, 27 s.), benchè ci possa essere attestata dalla forma corniatus: Virg. gramm. (sec. VII) epist. 3 p. 184 tauri ceu fronte corniata.

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γ

575 --

impietare: 105, 6 impietavimus.

Impietare da impietas=‘impietatem (‘iniquitatem’) facere”. inpauperare: 78,8 inpauperavimus valde.

Inpauperare da in e pauper =' pauperem fieri’. instabilitus: 111,8 instabilitum cor eius.

Instabilitus = constabilitus confortatus ?.

insusurratus-us: 57,6 insusurratu veneni astuti. Josì iuvilatus = iubilatio : 32, 2. 46, 6 e altrov.

investiganter: 118, 33 custodiam eam investiganter. Investiganter semper’ fatto forse secondo incessanter (cf. ibid. 44 custodiam legem tuam incessanter). Per altri avverbi in -ter da part. pres. cf. 83, 10 inl/uminanter ostende vul- tum Christi tui.

laudabilis: 17,4 laudabilis invocabo dominum. Laudabilis in senso attivo = laudans.

longificare: 128,3 longificantes sulcum eorum. Da longus e facere =‘ prolongare ’.

lubricosus: 67,7 habitaverunt în lubricosis (ἐν λεω- πετρίᾳ). Da lubdricus. manipulator: 128,7 et non compleat manum suam se- cator nec senum eius manipulator. Manipulator = manipulos faciens ’. nundescere: 64, 13 nundescent (= pinguescent ’) opima deserte.

nutribilis: 143, 14 pecora nostra nutribiles. Nutribilis = nutritus pinguis’, mentre nutridilis (Cael. Aur.) detto di sostanze = qui nutrit, qui magno nutrimento est. offectio: 44,10 in offectione aurea (ἐν βάμματι). Offectio da officere=' veste tinta’, cf. offector, infector etc. ossefieri: 68, 5 ossefacti sunt (= confortati sunt ’). Nel medesimo significato 141, 7 ossuati sunt, cf. 67, 36 ossa fundabit (=*fortitudinem dabit ’) populo suo.

perlactatus: 150, 2 perlactatus super matrem suam. Perlactatus = ablactatus.

576 permeditare: 118, 70 ego legem tuam permeditavi. pietarìi o pietare (1): 115,7 pietare, domine. Pietari=‘ misereri’ da pietas misericordia’. Altro esempio (pietet) leggiamo nella Vita Alerandri Magni di Leo secondo

la recensione interpolata! del cod. Cavensis 36 (sec. XIV): v. Riv. XLI, 288.

plosa: 143,9 deus, canticum novum cantabo tibi, in nabla decem plosa (Vulg. in psalterio decachordo) psallam tibi. Plosa da plodere = plaudere. In decem plosa è da vedere una forma nominale composta ?

possibilis: 111, 12 possibile in terra semen (Nomen cod.) eius. Possibilis = potens.

psaltor: 67,26 antecedent principes retrorsum psaltores, penes eum iuvenes tympanistrices. Psal-t-or da psallo (ψάλλω) col suffisso lat. Così tympani- strix per tympanistria == τυμπανίστρια. rauciare: 68, 4 rauciavit guttur meum. Da raucus, cf. raucio-ire e raucor (Gloss.) e Finrauco (franc. enrouer etc.).

superciliari: 67, 17 ut quid certatis, montes superci- liati (rà ὅρη ὠφρυωμένα) 5 130, 1 domine, ne supercilietur amma mea. Da supercilium.

suspensatio: 41,8. 92, 4 suspensationes. Suspensatio *suspensare intensivo da suspensus part. perf. di suspendere, laddove suspens-io suspens-ura direttamente da suspensus.

timeries: 118, 74 timeriem tuum (sic) videbunt. T'imeries da (infinit.) timer(e) + ies, mentre temper-ies tem- per-o, diger-ies diger-o etc.

(1) Abbiamo dato entrambe le forme infinitivali, perchè pietare po- trebbe essere sia una vera forma di imperat. che infinit. = imperat. (cfr. Sintassi 54).

577

titinna: 150, 6 laudate in titinnis (= cymbalis tinnien- tibus ’) iuvilatus. Da titinno (tinnio ete.). V. l'osservazione a arguus.

tremificare: 103, 32 inspiciens terram et tremificans {Vulg. qui respicit terram et facit cam tremere). Da tremere e facere forse a traverso un tremi-ficus (: horri- ficus etc.).

iympanistrix : v. psaltor.

Oltre a queste ricordiamo altre voci di qualche momento, di cui, se anche non di tutte, troviamo esempi in Seriori: 103,3 ascensa=ascensio o ascensus. 83,4 aucella= avis (diminutivo con valore di semplice cf. riflessi romanzi di aucellus). 77,47. 104, 33 celsa = ‘morum’. 128, 6 cepula (cf. ital. cipolla etc. e v. aucella). 21, 17. 67,31 coagulatio = congregatio’. 88, 24 coassare=‘ percutere”’. 59, 10. 105, 23; 29; 30 coassatio =‘ percussio, confractio, ruina e simm. 20,8 comerrare (in misericordia altissimi non co- merrabit | Psalt. Hebr. decipietur, Vulg. commovebitur]). 106, 41 condamina (facilmente da com e domus secondo il grec. cv- voizia, come osserva il Thurneysen in Thes. s. v. conduma). 36, 37 directus= rectus, cf. 25,7 exaudire = audire (9,22 destas longe per stas longe o semplicemente destas = distas) etc. 21, 18 enarrare (enarraverunt |‘numeraverunt, dinu- meraverunt | omnia ossa mea). 95, 12 exlaudare. 101, 5 erxoblivisci. 93, 4 garrulare (= cat. spag. garlar: altro esempio in Fulg. myth. 1 praef. p. 11 ed. Helm.). 29,10 pro- feetio = profectus utilitas’. 44, 13 reddere (reddidisti [‘tradidisti, vendidisti’|] populum tuum sine pretio) ete. Per confronti in special modo con Tertullianus: 113, 1 exho- dus (in erhodo Israel ex Egypto). 21,7 nullificamen (nul- lificamen populi). 64,10. 88, 15. 110, 6 paratura. 104, 29 piscatura= piscis etc.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 37

«dazi

ὧν δ

Nomi propri.

ν Aggarenses: 82,7. Di Aggarenses = Ag(g)areni non ἐν si hanno esempi nel Thes.

a Cadensis: 28,8 desertum Cadensem. Da Cad. Non se hanno esempi nel Thes. etc.

Parole ebraiche.

«REI aloth (αλωϑ): 44,9 murra et aloth et cassia.

hi aththa=tu: 108, 27 ipsa aththa, domine, fecisti cam. ; | bacum: 123,2 nisi quod dominus erat nobis bacum super εἰ nos homines.

ie caranoth = cornua: 117,27 usque caranoth altarii.

ta = domini SASA nabla = psalterium: 143,9 in nabla decem plosa.

AT Ed i bh

; ζ-»

rathamin: 119,4 cum carbonibus rathamin.

ec

safari= cogitationes : 138, 13 et scito safari. etc.

fece e τὰν

n ΕΣ Dial

pepe

SINTASSI

Pie 55

Ἂς

Sostantivo.

ur

1. Genere.

Masch. per neutr.: 42, 4. 50, 21 altarem, cf. peraltro Thes. s. v. altare: ace. altareom frequenter legitur in ITALA et apud christianos recentiores, sed plerumque pro neutro videtur habitus esse y. 149, 5 cubiles suos (gli esempi che si danno nel Thes. della forma masch. sono accusat. in -em: Itala e a.). 115, 6 letus. 21, 15. 77, 53 mariîs. 73, 13 marem. 113, 8 stagnos. 134, 8 usque ad pecore = pecorem = pecus.

Femm. per neutr.: 136, 4 super arvas peregrinas. 145, 4 i: exiens spiritus eius convertitur in arva sua (= arvam suam), in die illo pereunt cogitationes eorum. Arva = arvum è forma

e ET er

=

πτττστσ τ τ aliene eni Lia cisti dalai

579

arcaica, cf. umbr. arvam-en ‘in arvum’. Ma si ha anche qualche esempio di arva ‘terra’ in scrittori seriori, cf. Ven. Fort. carm. 9, 2, 18 quem arca tulit, nunc gravis arva (arca per lo più codd.) premit. Onde a confermar questo molto op- portunamente soccorrono i nostri. Inoltre 64, 13 deserte genit. sing. 127,3 oleastrae nominat. plur. (cf. accanto ad oleastrum la forma classica oleaster). 78, 1 pomarum (cf. frane. pomme f.).

2. Numero.

Sing. per plur.: 54, 12 insidia. 111, 3 substantia et divitia. 118, 4 super omni divitia etc.

Plur. di sostantivi concreti che si trovano più comunemente al sing. : 9, 13 requirens sanguina eorum ete. Plur. di sostan- tivi astratti: 64, 10 plenitudines aquarum. 118, 136 medietates aquarum etc. Così anche di astratti verbali: 115,9 2 con- spectibus universorum populorum etc.

3. Collettivo. Sing. (collettivo) pel plur.: 48,3 dives (= divites) et pau- peres (con inconcinnitas) etc.

4. Astratto.

Astratto per concreto di persona : 8,3 μέ destruas adversa- rium et vindicationem (= ultorem : da osservare l’inconcin- nitas). 10,3 quoniam novitates dissipabuntur, iustitiam (= iu- stitia = iustus) aliquid speratur. 10, 5 dominus iustitiam (= iustum) probat (prohabet cod.) et impietatem (= impium) et amorem = (amantem) iniquitatis odit anima eius. 11, 2 quoniam minoratae sunt veritates (= fideles) a filiis hominum. 18, 14 a superbiis (0 superbis? A ἀπὸ ὑπερηφάνων). 30, 24 diligite dominum, omnes iusti eius, veritates (= fideles) custodit do- minus. 35, 2 dixit nequitia impii in medio cordis sui. 42, 4 ad altarem deitatis (= dei). 45, 5 multitudinis festivitatis (ὄχλου ἑορταζόντων). 106, 42 videbunt iusti et gaudebunt, et omnis iniquitas (= omnes iniqui) obturit os suum etc. E in funzione predicativa : 6, 6 quoniam non est in mortem qui me- moria (= memor) sit ἐμ.

Pia :

ai api 580

Concordanza.

5. Masch. con femm.: 17, 16 vise sunt meatus nudum aqua- rum. 43,19 gressus nostrae. 54, 5 pavores mortifere. 119, 5 incolatus mea. Facilmente questi sostantivi sono considerati come femm., perchè astratti: cf. per es. incolatus con inco- latio è pavor con romanzo *pavura. Inoltre 17,9 carbdones accense sunt. 139, 11 carbones ignifere. 23, 1 orbis terrarum et omnes inhabitantes in ea (o per sinesi del genere, cioè ea : orbis = terra Ὁ). 39,9 ventris meae. 131,11 ventris tuae. 77,21 ignis accensa est. 103, 4 ignis nimia.

Masch. con neutr.: 8, 9 pisces maris transeuntia semitas

marium. 9,16 in laqueo isto, quod. 67, 16 mons pingue. 67, 17 mons illut. 77,54 mons hoc, quod. 77, 68 mons Sion, quod (come attesta Augustinus mons era anche considerato di ge- nere neutr. secondo ὅρος).

Femm. con masch.: 36, 65 cedrum opimum accusat. (0 neutr. ?). 60, 4 turris fortissimus etc.

Femm. con neutr.: 79, 16 ardorem, quod.

Neutr. con masch. : 19, 5 omnem desiderium. 104, 16 omnem firmamentum. 118,39 inproperium meum, quem. 50, 18 holo- causta non sunt acceptabiles. 103, 95 animalia pusilli. 143, 14 pecora nostra nutribiles (o femm. ?).

Neutr. con femm. : 60, 3. 72, 26. 100, 2 cordîs meae. 73, 22 inproperia, que sunt stulte.

In alcuni di questi sostantivi osservati è da vedere forse addirittura un genere diverso. Così per es. venter doveva essere femm. in qualche zona dialettale. E per gli astratti, come pavor ete., v. l'osservazione sopra fatta.

6. Sinesi del genere: 9, 18 convertantur peccatores in in- ferno, omnes gentes qui (: gentes = homines) obliviscuntur deum. 117, 10 omnes gentes circumierunt me...ulciscar eos etc.

7. Sinesi del numero. Soggetto al sing. col predicato al

plur.: 9, 7 inimici mei defecerunt framea (0 frameake) Ὁ) etc. Naturalmente ciò spiegasi dal fatto che il sostantivo è quasi

considerato come collettivo. E col verbo al plur. in unione di un altro verbo al sing. (inconcinnitas): 9, 34 ad quid incitat impius deum, dicentes (: impius = impi) in corde eorum. 58, 5 sine impietatem currentem (= currentes = currebant) et parabantur. 106,3 quis sapiens, et custodit haec, et contempla- bunt (: quis sapiens 501]. est = qui sapientes scil. sunt) miseri- cordias domini.

8. Predicato al sing. riferito a soggetto plur. : 31, 10 multa est verbera (verba cod.) peccatoris. 88, 22 brachia mea confor- tavit eum. 90, 10 non accedent ad te mala, et flagella non ad- propinquavit tabernaculo tuo etc. E anche con sostantivi non di genere neutr.: 72, 16 labores est.

In questo caso potrebbero rientrare anche le forme parti- cipiali ed altrettali. Per es. 65,3 negantem te inimici = ne- gantibus te inimicis. Dove negantem vuolsi considerare pro- priamente come una forma irrigidita di caso = negando.

9. Ellissi del verbo esse: 43, 14 his, qui în circuitu nostro (scil. sunt). 106, 3 quis sapiens (scil. est), et custodit haec etc. E specialmente col part. pres. : 31, 9 qui non accidentes (= ac- cedentes sunt = accedunt) ad te. 54, 24 ego autem confidens in te etc.

Casi.

10. E da rilevare lo scadimento dei casi, e in ispecie la livellazione accusat. = ablat. = nominat.

Nominat. per accusat. : 9, 12 adnuntiate in gentibus custodia (= custodiam) eius. 16, 8 custodi me ut pupilla (= pupillam) oculi. 79, 12 extendit densitas (= densitatem) eius. 89,9 con- summati sumus anni nostri (= annos nostros) ete.

Nominat. per ablat.: 9, 28 maledictum os eius plenum est fraus (= fraude) et dolus (= dolo) etc.

Accusat. per nominat.: 54, 11 nequitiam (= nequitia) et dolor. 67, 14 pinnae columbine argentate argento οἱ scapulas (= scapulae) pallore aureo. 68, 21 et non fuit consolantem (= consolans) eum ete.

Accusat. per ablat.: 3, 5 vocem meam (= voce mea) ad do-

fini

da πω :

+

3

582

minum clamavi. 26,7 vocem meam, quam (= qua) clamavi. 108, 3 verdbum (= verbo) odii circueuntes me etc. CÉ. preposizioni.

Ablat. per nominat.: 9, 28 sub lingua eius dolori (= do- lore = dolor) et defectioni (= defectione = defectio). 20, 10 con- sumet eos igni (1 m. corr. da ignis). 150, 6 omni (= omnis) spiritus οἷο.

Ablat. per accusat.: 76,19 <nluminate sunt corruscae tuae orbe (= orbem) terrarum etc. Cf. inoltre preposizioni.

Promiscuità di casi (sostantivo e attributo): 7, 10 deus iustum (= iustus). 25, 6 circumdabo ipsut altare tuo (= tuum). 105, 46 coram omnibus captivantes (= captivantibus) eos. 146,11 cum timentibus eum etiam expectantes (= expectantibus) etc.

Accusativo.

11. Accusat. per dat. : passim bdenedicere (raro col dat.). 84, 2 beneplacuisti, domine, terram tuam (nessun esempio con l’accusat. si registra nel Thes.). 77,38 indulgens iniquitates eorum. 60, 1 eraudi, deus meus, preces meas, intende oratio- nem meam (per orationi meae o ad orationem meam). 14, 4 qui iurat proximos suos (o prorimo suo?) et non fallit. 120, 6 nocebit te. 18, 14 parce famulum tuum etc. Naturalmente in questo uso, come in quello dell’accusat. per ablat. etc., i verbi reggenti sono considerati come transitivi.

12. Accusat. per ablat. (instrumentalis): 118, 77 legem tuam fruebar. & da osservare ancora 50,16 gaudebit lingua mea iustitiam tuam. Dove però gaudebit potrebbe avere il valore di laudabit (Psalt. Hebr. etc.) o meglio un valore pregnativo gaudens laudabit.

13. Accusat. per genit.: 29, 11 exaudivit dominus et mi- sertus est me. 58, 6 si misereris omnes impios et iniquos.

14. Accusat. dell'oggetto interno : 36, 40 et salvans salvabit ab impiis salutem eorum.

Sono del resto frequenti i casi di figura etymologica: 117, 13 pulsu inpulsus sum ad cadendum. 67, 14 argentate ar- gento. 54,9 procellarum procellae etc. Così ancora 48, 13 con- paratus est imumentorum et similitudini (cf. ibid. 21 comparatus est ammalibus et adsimilatus est).

583

15. Accusat. di relazione (strumento). Con verbi medi: 44, 14 amicta varietatem. 70, 13 coperientur inproperium et pudorem querentes a me mala. 89, 14 impleti sumus mane mi- sericordiam tuam. 34, 26 induantur pudorem et confusionem. 25, 10 dextera eorum repleta est munera. 92, 1 vestitus est do- minus virtutem et cinctus est. 103, 2 vestitus est lumen ut tu- nicam. 108, 18 vestitus maledictum ut tunicam. 108, 29 vestian- tur ut pallium. Con verbi attivi: 79, 6 cibasti nos panem lacrimarum. 17, 40 cinnisti me virtutem. 17,33 deus ipse cir- cumcinxit me virtutem. 45, 10 arma conburet ignem. 103, 6 abyssum ut amictum coperuisti. 102, 4 coronantem te miseri cordiam et humilitate (con inconcinnitas). 83,13 dominus non fraudavit bona ambulantes innocenter. 82,17 imple facies eorum confusionem. 131, 15 pauperos eius implebo panem. 131, 16 sacerdotes eius induas salutare. 131,18 inimicos eius in- duam confusionem. 35,9 torrentem deliciarum tuarum putabis (= potabis) cos. 15, 11 satiabis me iucunditatem etc.

16. Accusat. di moto a: 34, 14 μέ prorimum (= ad prozi- mum), ut fratrem (= ad fratrem) mihi profectio mea.

17. Accusat. avverbiale: 145, 7 custodiens veritatem perenne. Forse a questo caso è da riportare 17,16 vise sunt meatus nudum aquarum.

Genitivo.

18. Genit. oggettivo : 58, 9 et tu, domine, in ridiculo eorum (= deridebis eos).

19. Genit. inhaerentiae : 30, 3 in auzilio protectionis.

20. Genit. partitivo con aggettivi di grado positivo e par- ticipi: 10, 2 dn tenebroso lune (ἀσελήνῳ νυκτί). 74,7 a deserto montium (= desertis montibus) etc.

21. Genit. coi verbi memorari e commemorari memorem esse, recordari’: 19, 4 memoretur toti sacrificii tui. 76, 4 me- moratus sum dei. 110, 5 memorentur in aeternum sui (cf. 41, 5 ista memoratus sum). 104,8 commemoratus est in aeternum te- stamenti sui verbi (οἵ. 70, 7 commemoratus ignorantias meas) ete.

22. Genit. per accusat.: 44, 12 concupiscet rex decoris ἐμ.

17,7 exaudivit...vocis meae. 27, 6 exaudivit vocis deprecationis mee e altrov. 54, 2 inaurire, domine, orationis meae. È un gre- cismo. E notevole soprattutto il primo luogo, giacchè nessun esempio di concupiscere col genit. è registrato nel Thes.

23. Genit. per ablat.: 64, 7 cinctus virtutum. 77, 30 non fraudati sunt concupiscentiae tuae. 64, 12 regiones saturabuntur pinguedinis. 103, 28 saturabuntur bonitatis. È parimenti un grecismo (ablat. instrumentalis=genit.).

Dativo.

24. Dat. dovuto all’accezione speciale del verbo: 34, 24 non iucundentur (= insultent) mihi. 93, 13 mitescere (secondo mitis) illi a diebus pravis. 139, 3 totum diem incolaverunt proe- lis etc. E 43, 6 resurgentes (secondo insurgere) nobis. 58, 2 resurgentibus mihi. 138, 21 resurgentibus tibi (cf. 53, 5 resur- rexerunt contra me). Così anche con verbi che d’ordinario si uniscono con preposizioni: 26, 2 dimicantes michi. 34, 1 pre- liantes michi οἷο.

25. Dat. con verbi transitivi : 96, 7 adorate illi, omnes dii. 98, 5 adorate scabello pedum eius. 151, 7 adoremus scabillo pedum eius (per adorare = προσκυνεῖν col dat. cf. Thes. I, 819, 83 ss.). 96, 17 confundentur omnes colentes sculptilibus. 4,2 in tribulatione dilatasti michi. 17,36 lenitas tua dilatavit michi. 34, 33 vigilanter excitare iudicio meo. 68,4 defecerunt oculi mei expectantes deo meo. 9, 6 increpasti gentibus. 67, 31 increpasti bestiis. 118, 21 increpasti supervis. 90,8 oculis tuis videbis et retributioni peccatorum inspicies (inspiciens cod.). 70, 21 multiplicans multitudini tuae. 139,8 obumbrasti capiti meo. 16, 5 visitabor vultui tuo.

26. Dat. possessivo del pronome personale pel pronominale (aggettivo) possessivo : 34, 14 mihi profectio mea (= mihi pro- fectio + profectio mea).

27. Dat. agentis: 62, 3 sic în sancto visus tibi (= visus sum tibi : apparui tibi).

28. Dat. del pronome personale abundans: 119,6 plu- rimum habitavit sibi anima mea cum odiantibus pacem. Cf.

585

Bened. reg. 43 sedit sibi etc. Questo uso si estese sempre più nel latino volgare o romanzo.

29. Dat. per genit. con verbi di memoria: 88, 48 memento mihi.

30. Dat. per genit. con maisereri: 9, 14 miserere michi. 102, 23 μέ miseretur pater super filios, ita misertus dominus timentibus eum. 122,3 miserere nobis.

81. Dat. locale : 83, 11 ambdulare veritati tuae (= în veritate tua). È un grecismo (locativo = dat.).

Ablativo.

32. Ablat. di modo con omissione della preposizione cum : 16, 10 locuti sunt superbia. 77, 58 zelo provocaverunt. È un uso del latino seriore, conosciuto anche alla lingua antica. Forse esprime il modo più come qualità dell’azione (avverbio) che qualità a sè.

33. Ablat. di strumento retto dalla preposizione in : 64, 5 fruniscamur in bonis domus tuae etc.

34. Ablat. coi verbi inopiae retto dalla preposizione αὖ: 99, 11 mon egebunt ab omni bono.

90. Ablat. assoluto.

È da osservare l’accusat. assoluto, anche con un altro accusat. dell'oggetto, specialmente col gerundio retto da in: 13, 7 în convertendo dominum conversione (= convertente do- mino conversionem) populi cius. 38,2 in resistendo peccatorem adversus me. 67,15 in discernendo celestem reges ete.

Non raro è anche il nominat. assoluto : 33, 21 custodiens omnia ossa eorum, unum de ipsis non confringetur etc. Peraltro la ràgione del nominat. assoluto potrebbesi talvolta ricercare in un certo qual valore coordinato, anzi che subordinato, dell'espressione. Ossia cusfodiens omnia ossa eorum, unum de ipsis non confringetur sarebbe da una parte = custodiente (do- mino) omnia ossa eorum, unum de ipsis non confringetur e dall'altra = custodit (dominus) omnia ossa eorum, unum de ipsîs non confringetur (Vulg. custodit dominus omnia ossa eorum, unum ex ipsis non conteretur). Questa osservazione ad ogni

586

modo ha valore generico. Un esempio notevole per l’incon- cinnitas dei casi sarebbe 65, 3 negantem te inimici = ne- gante o negantibus te inimicis.

Aggettivo.

36. Aggettivi con valore sostantivale αὐ indicanti luogo: 105, 14 in aquoso. 106, 4 in aquosis. 67,7 habitaverunt in lu- bricosis (cf. Lessico). 30,9 constituisti în spatioso pedes eius. 118, 45 ambulavi in spatiosis. 81, 5 in tenebrosis (= tenebris) perambulantes etc. ὁ) indicanti tempo : 54, 11 diurno et noc- turno. 89, 4 in nocturno. 29, 6 in matutino. 45, 6 circa matu- tinum. 54, 18 vespere et matutino et meridiano. 36, 6 ut meri- dianum (= meridiem). 73, 17 estatem et verna (= vernam ‘hiemem’ : da hibernus-a-um, cf. sost. ital. inverno verno, rum. carni, vtr. imvérn umviérn, prov. ivern-s etc.) etc.

37. Gradi di comparazione. Positivo per comparativo : 36, 16 donum (= melius) modicum iusto quam multitudo peccato- rum magna. 117,8 bonum est sperare în domino quam sperare in Adam. 117,9 bonum est confidere in domino quam sperare in spontaneis etc.

Pronome.

38. Quis relativo (v. II a 106, 43). Alter = alienus : 48, 11 et relinquent alteris copias suas (cf. Thes. I, 1738, 9 ss.) etc.

Preposizioni. Preposizioni con l’accusativo.

39. Ad= in: 5,8 introibo in domum tuam, adorabo ad templum sanctum tuum. Per ad causale da notare ad quid (εἰς τί) = qua re: 41,12 ad quid tristis es, anima mea, et quid conturbas super me? e passim (cf. Thes. I, 538, 23 ss.). Con ad quid cf. ut quid, anche in unione con ad quid: 41,10 ad quid oblitus es mei? ut quid ambulo, me (me ambulo cod.) tribulante inimico? Ut quid leggesi nel Psalt. Ver. e Aug. Ad con dat. o ablat.: 11,3 vaniîtatem locuti sunt unusquisque ad

Le A Dc le i prorimo suo. 77,32 non crediderunit ad mirabiliis eius. 45,10 usque ad novissimis terrae etc.

Extra: 17,32 quia nemo extra dominum et quis (da os- servare l’inconcinnitas memo...quis) fortis sine deo meo ? Dove extra = praeter, nisi, e così sine.

Infra= intra: 61,5 in ore suo benedicebant et infra se (al. corde suo) maledicebant. 108, 22 cor meum infirmatum est infra me. 134, 9 misit signa et portenta infra te (al. in medio sui), Egypte, in Pharao et in omnibus servis eius.

Io Inter con l’ablat.: 103, 12 inter medio ramorum. Forse ᾿ secondo in medio. dee Praeter: 30, 12 preter omnes tribulantes me factus sum

inproperium et vicinis meis valde et timor mnotis meis. 64, 4 verba iniquorum potuerunt praeter (al. super, adversum) me.

Ultra: 34, 10 liberans pauperem a fortiore ultra eum. 44, 3 pulcherrimus ultra filios hominum etc.

δ Preposizioni con l’ablativo.

40. 46: 21, 26 a (al. apud) te laus mea. 33, 11 non egebunt ab omni bono. 106, 41 adiuvavi pauperem ab egestate (Vulg. de inopia : unico esempio che si registra nel Thes. I, 723, 68 di adiuvare con la preposizione de, mentre nessun esempio si registra con ab) etc. Ancora 37, 12 a longinquo = e lon- ginquo etc. Ab con l’accusat.: 34, 5 faciem. 44,8 a par- ticipes ete.

Coram: 75,8 quis resistet coram te (= tibi)? Coram col genit.: 22, 5 coram tribulantium me. In coram: 87,3 in co- ram te.

Cum e ablat. = oggetto: 13, 2. 52,3 requirens cum do- mino. 78,1 inquinaverunt cum templo sancto tuo. 88,39 di- stulisti cum Christo tuo e passim. Così ancora 136, 1 in com- memoratione cum Sion. Dove cum domino = dominum, cum © templo sancto tuo = templum sanctum tuum etc. È un ebraismo. i Nessun esempio ne il Thes.

Ex: 17,23 precepta eius non deficiant ex me.

Sine: v. extra. Sine con l’accusat.: 58, 5 sine impietatem. Per sine = non v. 61.

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Preposizioni con l’accusativo e l’ablativo.

41. In instrumentalis: 36, 11 perfruantur in multitudine pacis. 64, 5 fruniscamur in bonis domus tuae. In finale: 14, 5 pecunia sua non dedit in usuris. 21,20 adiutorio meo et în auxilio meo (= aurilium meum : o è dat., e in riferiscesi ἀπὸ χοινοῦ e ad adiutorio meo e ad auxilio meo 9) etc. In modale (‘inquanto a’) con avverbi: 50, 4 în multum (pel semplice multum) laba me. Da notare 54,19 in plurimis (= plurimi) erant mecum. Per dat.: 36,1 nolî emulari in pravis neque celare in operantibus iniquitatem. Per accusat.: 21, 18 ipsi respexerunt, viderunt in me. 63, 9 omnes videntes în ipsis. 143, 5 tange in montibus ete. In con accusat. per ablat. e viceversa passim. col dat.: 78, 1 venerunt gentes in hereditati tuae = in hereditatem tuam.

Super =in: 4,6 sperate super dominum. 90, 2 speravimus super eum. Per dat.: 71,13 parcet super egenum et pauperem. 102, 153 ut miseretur pater super filios. Per accusat.: 41,12 ad quid tristis es, anima mea, et quid conturbas super me ? Super comparativa: 62, 4 quoniam bona (= melior) miseri- cordia tua super (= quam) vita, cioè propriamente = dona misericordia tua super quam vita est.

Preposizioni col genitivo. 42. Usque: 112, 3 ex ortu solis usque ingressionis eius (μέχρι εἰσόδου αὐτοῦ). E un grecismo (: μέχρι). Preposizioni con avverbi.

43. Osserviamo : 34, 4 convertantur in retro. 39,15 aver- tentur in retrorsum. 58, 6 in obviam mihi. 110, 3 permanet in adhuc. 103, 23 usque ad vespere οἷα.

Avverbio.

44. È da osservare l’uso dell’avverbio per l’aggettivo : 30, 20 quam (= quanta cf. II a q. 1.) multitudo bonorum. 64, 6 omnium finium terrae marisque longe (= longinqui).

LESIONE

Verbo.

Genere.

45. Forma attiva per media: 85, 17 auriliasti. 117, 13 auriliavit. 104, 14 calumniare. 29,6 commoravit. 66,4 confi- tebunt®. 85, 17 consiliasti. 70, 21 consolasti. 86,7. 106, 43 con- templabunt. 44,13 deprecabunt. 105, 41 dominaverunt. 62, 6 froniscat. 35,3 insidiat. 104, 25 insidiare. 10, 2 iaculare. 75,9 iaculasti. 20, 7 letabis. 91,5 letasti (ma sempre laetari in senso medio-riflessivo). 104,15 malignetis. 70,24 meditabit. 142,5 me- ditavi. 73,19; 23. 102, 2 obliviscas. 76, 10 obliviscebat. 77, 57 obliviscant. 49, 21 opinabas. 60,9 paciscere. 118,70 permedi- tavi. 141, 2 praecavi. 77, 57 prevaricaverunt. 31, 8 profacies (1 m. corr. da proficies) = proficies = proficisceris. 43, 10 pro- gredies. 141, 6 vociferavi etc.

46. Forma media per attiva: 6,1 ego conservatus sum viam prevaricationis. 89, 9 consummati sumus anni nostri. 68, 21 desperatus sum. 12,5 exultentur e altrov. 48, 2 inau- rimini. 76, 19 inluminatae sunt corruscae tuae orbe terrarum. 99, 4 introimini portas. 109, 4 penetetur. 131, 11 penetebitur. 77,64 plorabuntur. 37,19 soniabor. 43, 23 somniaris. 77, 65 somniatus = somnians. 10,3 iustitiam (= iustitia = iustus) ali- quid speratur. 16, 15 visitabor vultui tuo etc.

47. Attivo = riflessivo : 16, 9 imimici mei in animam curva- verunt contra me. 17,27 cum perverso subvertes. 30, 14 accipere animam meam concitaverunt. 43, 23 exurge...expergefac. 78, inpauperavimus. 142, 7 conparabo cum descendentibus lacum etc.

48. Verbo intransitivo usato transitivamente (causativo): 36, 8 quiesce a furore iram. 45, 10 muitescens proelia. 106, 29 placuit (= placavit) fluctus eius etc. Al contrario causativo pel semplice: com-monere (moneo causativo da radice *men- : memini, miniscitur, comminiscor etc.) = comminisci : 19, 8 com- moneamus (μνησϑησόμεϑα).

Tempi.

49. Pres. per e in unione con fut.: 2, 5 tune loquitur (= loquetur) ad eos et in furore suo conturbabit eos. 20, 4 can-

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tabimus et psallimus (= psallemus). 106, 3 quis sapiens, et cu- stodit (= custodiet) haec, οὐ contemplabunt misericordias do- mini etc. Al contrario fut. per e in unione con pres. : 36, 32 observat impius iustum et queret (= quaerit) mortem eius etc. Per quest'uso senza alcuna differenza o promiscuo del pres. e del fut. cf. Greg. Tur. (anche iscrizioni Gallicane) e a.

50. Pres. per imperf.: 17, 42 et non fuit qui salvet (= sal- varet). T7, 44 et mutavit in sanguine flumina corum et cisternas, ne possint (= possent) libere. 39, 2 antequam montes nascerentur et parturient (= parturiant = parturirent) terram et orbem ter- rarum. 105, 23 ut averteret... ne corrumpat (= corrumperet) etc. Al contrario imperf. per pres.: 38, 14 parce mihi, ut refri- gerem, antequam irem (= cam) et non sum. 68, 24 estabunt oculi corum, ne viderent (= videant) etc.

51. Fut. per congiunt. pres. : 9, 21 scient (= sciant) gentes, quoniam homines sunt. 9, 33 ne cezxilient (= exiliant) manus tuae, ne oblivisceris (= obliviscaris) pauperum. 52, 4 non est qui faciet (= faciat) bonitatem ete. Anche in unione : 25, 7 ut exaudiam vocem laudis et enarrabo (= enarrem). 27, 1 ne quando conticeas a me et similabor (= similer) ete. Al con- trario congiunt. pres. per fut. : 9,27 minime commobear (= com- movebor). 22, 1 dominus reget me et nil mi desit (= deerit) etc.

Modi.

52. Indicat. per congiunt. passim. In unione: 34, 22 ne conticescas, dominator, ne longinquas (= longinques) ete. Da notare congiunt. per e in unione di indicat.: 48, 17 reticeas, quando copiosus fiat (= fit forse per allitterazione) homo et cum multiplicatur gloria domus eius.

53. Infinit. con preposizione: 31, 3 a clamare (: clamando + a clamore).

Infinit. per congiunt. : 32, 22 fieri misericordiam tuam (= fiat misericordia tua), domine, super nos, sicut confidimus in te. 79, 18 fieri manum tuam (= fiat manus tua) super virum dexterae tuae. 89, 12 adnumerositatis dierum nostrorum ita co- gnoscere (= adnumerositates dierum nostrorum ita cognoscamus), et feramus in corde sapientiam οἷο.

59

Infinit. = imperat.: 7, 10 dirige et probare. 33, 17 extermi- nare. 54, 23 excitare. 39, 14 statuere...propera. 93,13 mite- scere. 104, 25 odire. 107,7 respondere etc. | Infinit. finale anche in unione con μέ e congiunt.: 9, 29 | habitat insidians cum cum divitibus in absconso, occidere inno- centem. 9, 30 insidians ut rapiat inopem, rapere egenum. 26, 4 ut viderem iucunditatem domini et visitare templum eius. 60, 9 ita psallam nomini tuo, paciscere (Vulg. ut reddam) vota mea die în die. 101, 21 ut audiret gemitum conpeditorum, resolvere i filios hominum οἷα.

54. Gerundio finale: 62, 8 sic in sancto. visus tibi videndi (= ut viderem o videam) virtutem tuam et gloriam tuam.

Congiunzioni.

55. Et. È da osservare ef che spesso congiunge un part. pres. con un tempo di modo finito : 33, 14 quiescens linguam tuam et (quiescens : quiesce) labia tua ne loquantur fraudem. 58, 5 sine impietatem currentem (= currentes : currebant) et pa- rabantur. 4,3 qui diligitis vanitatem et querentes (: qui quae- ritis) mendacium. 37, 15 factus sum sicuti homo, qui non audit et non habens {:qui non habet) in ore suo arquos οἷο.

Et neque = neque: 17,37 et neque defecerunt cadavera mea.

ΞΘ ΩΝ δὴ Ξε δὲ etiam ᾿ς 148, 12 duvenes sed et virgines.

tas i si τ

rar #

SRO

56. δὲ enim = st: 80,9 si enim audieris me.

Nisi quia e nisi quod= nisi: 123, 1 nisi quia domi- nus erat in nobis, dicat pius Israel. 123, 2 nisi quod (da quia) dominus erat nobis bacum super nos homines.

57. Quod. Da notare: 108, 16 propterea quae = pro- pterea quod.

58. Cum. Da notare l’unione in cum: 26,2 in cum pro- _ aimant (= in proximando + cum proximant) super me mali- È gnantes ..., ipsi infirmati sunt et ceciderunt. δῇ 59. Ut ita finale = ut: 47, 14 ut ita narretis. 50, 6 ut ita ᾿ iustificeris. 67, 24 ut ita calcat (= calcet) pes tuus în sanguine.

77,6 ut ita sciat. 104, 45 ut ita custodiant. 118, 11 ut ita ne peccarem.

no a ta

Particelle avverbiali etc.

60. Ne= non: 113,9 ne nobis, domine, non nobis. Neque = ne: 69,6 domine, neque tardaveris. Ne= num: 77,19 et dixerunt: ne poterit altissimus parare mensam in deserto? Neve = numquid : 84, 6 neve semper irasceris nobis? Sine (:@-, ἄνευ) = non: 43, 20 in loco sine habitato (ἐν τόπω ἀοικήτῳ).

61. Ibi (cf. ital. ivi vi etc.) pleonastico : 22, 2 in loco pa- vuli ibi me constituit. 136,1 super flumina Babilonis ibi sedimus.

ΟἿ γὴν ΞΞΞ ἐπῆν: 99. 8. δ, 21:

Adhuc: da notare la geminazione 91, adhuc et adhuc (nessun esempio nel Thes.). Ancora adhue ‘* praeterea in unione con etiam: 8, 8 adhuc etiam (cf. Thes. I, 662, 57 ss.). È questo della geminazione o pleonasmo un fatto ab- bastanza notevole nel nostro Psalterium non solo con avverbi e congiunzioni: 6, 11 celerius velociter. 39,15 in uno simul. 48, 19 ut quasi etc., ma anche con nomi e verbi: 16,8 sud umbra tegumento (cf. Vulg. sub umbra, Psalt. Hebr. in umbra, Psalt. Ver. in tegmine) alarum tuarum. 51, 12 diligentes qui diligunt etc. etc.

FRANCESCO STABILE.

IL PITTORE MARCUS PLAUTIUS

Or non è molto W. Fròhner rimise sul tappeto (1) una questione che da un pezzo dormiva, che anzi, secondo alcuni, era considerata addirittura come non più esistente, come definitivamente risoluta. Si tratta del famoso epigramma in onore del pittore che aveva decorato il tempio di Iuno Regina in Ardea e che, scritto antiquis litteris Latinis, esisteva ancora ai tempi di Plinio il vecchio în ipsa pictura (2).

Com'è noto, in seguito alle congetture del Lachmann (3) e del Bergk (4), Martino Hertz aveva nel modo seguente ri- stabilito il testo dell’epigramma (5):

Dignis digna. Loco picturis condecoravit

Reginae lunoni’ supremi coniugi’ templum,

Plautiu’' Marcu’, cluet Asia lata esse oriundus : Quem nunc et post semper ob artem bane Ardea laudat.

E tale, salvo la dovuta restituzione della s finale in /umonis, comugis, Plautius, Marcus e due varianti nella punteggiatura,

(1) Cfr. le sue Kleinigkeiten in Philologus, v. LXXI (N. F. XXV), a. 1912, p. 165.

ΕἸ N: HH, XXV; 115.

(3) Za Lucr., IV, 53, p. 216. Il Lachmann per altro congetturava Dignis digna loces, e inseriva qui tra cluet e Asia.

(4) Exercitationum Plinianarum Spec. II, Marburg, 1851, p. X, opuscolo che non mi fu accessibile. Cito perciò dal Hertz (vedi nota seg.).

(5) De M. Plautio poeta ac pictore commentatio (In Index lectionum in Univ. litt. Vratislaviensi per aestatem a. MDCCCLXVII... habendarum), p. 12.

. Rivista di filologia, ecc., XLIII. 88

χον De vi

Ù x Da lip ELITE di SUO IRR QUIETE FCE sn

594

è la lezione data dal Mayhoff nel rifacimento della ed. dello Tan (1). Secondo tale lezione, la forma Loco, sostituita dal Hertz alla grafia Luco proposta dal Bergk come equivalente al greco Λύκων, rappresenterebbe il nome primitivo dell’asiatico pit- tore, il quale, dopo il suo passaggio nella gente Plautia, si sarebbe chiamato M. Plautius Loco; onde più tardi, per la so- stituzione di forma più fedele alla greca, il nome completo sarebbe stato M. Plautius Lycon.

Ora è incredibile a dirsi quale immeritata fortuna abbia avuto questo nome di Licone, che appioppato dal Bergk e dal Hertz al pittore del tempio di Ardea e accettato da filologi e storici ad occhi chiusi, ἃ. cominciare dal Mommsen (2), fu introdotto in trattati di storia letteraria (3), e in altri di storia dell’arte (4). Intanto giova aver presente come nessun codice giustifichi la forma Luco (5) che sarebbe stata, ai tempi del pittore di cui si tratta, la sola forma latina pos- sibile, accanto ad una più piena Lucon, se doveva equivalere a Abxov. I codici dànno unanimi loco, e le argomentazioni linguistiche del Hertz, per quanto fondate sulle ricerche del Fleckeisen (6), del Biicheler (7) e dell’Usener (8), non conclu- dono nulla. Pretendere che, in un tempo certamente posteriore

(1) Il volume V contenente i libri XXXI-XXXVII è del 1897.

(2) Rom. Gesch., 1°, 1907, p. 943.

(3) Mi basti citare Otto Ribbeck, Geschichte der ròm. Dichtung, 15, Stuttgart, 1894, p. 291.

(4) Per es. il manuale di Antonio Springer. Cfr. la 28 ed. ital. Vol. I, Bergamo, 1910, p. 425. E Loco accolse pure nel suo testo (cfr. anche la nota 8 a pag. 147) E. Sellers, The elder Pliny's chapters on the history of art, London, 1896, p. 146.

(5) Ciò non ostante la accettò il Baehrens in Fragm. poetarum lat., Lipsiae, 1886, p. 138.

(6) Zur lateinischen lautlehre in griechischen lehnwòrtern in Neue Jahrbb. fiir Philol., vol. XCIII, a. 1866, p.9 segg.

(7) Plautinisches nel vol. cit. dei Neue Jahrbb., p. 242. = Kleine Schriften, I, Leipzig, 1915, p. 623.

(8) In Pseudoli Plautinae scaena secunda (Index scholarum in Univ. litt. Gryphisw. an. MDCCCLXVI, p. 8 = Kleine Schriften, II, Leipzig, 1913, p. 132).

τὴν νον x

Li agi dai pallio te Rai ae e e

-

è 595

ad Ennio, per quanto a lui vicinissimo, l’v greco in sillaba tonica passasse in una o latina, è pretendere l’assurdo ; mentre il latino di Ennio ci dà, secondo la pronunzia popolare, Bruges = Φρύγες, Burrus = Πύῤδος (1), burum = πύξος ; mentre vocaboli come κύβος, κύμβη (κύμβος). κύμινον, δρύππα, μύλλος, μύρτον ecc. presero il marchio latino nelle forme cubus, cumba, cuminum, druppa, mullus, murtum, sempre con «, non mai con o. Aggiungo che, anche risalendo a tempi ante- riori ad Ennio, non si trova traccia di siffatto preteso feno- meno fonetico in sillaba tonica, se non per influenza del suono r, mentre è pur rarissimo in sillaba atona. Che se nella manipolazione popolare di forme greche, per influenza della r, È si ha il fatto innegabile che στύραξ diventò storax (2), non è men vero che lo stesso vocabolo “Σύρος, che fu nome di tanti schiavi, ebbe, come il Burrus di Ennio, la sua latinizzazione, malgrado la 7, prima in Surus e poi in Syrus (così pure Sura, Surisca).

Non mi meraviglio adunque che il Fròhner pensasse a dare diversa interpretazione al loco dei codd. che tutto consiglia a non toccare. Se non che noi ci troviamo da lui condotti ad altre non meno inaccettabili ipotesi. Anzi tutto egli crede che si deva leggere dignis digna loco(r). Sarebbe quindi loco una forma arcaica equivalente a loquor. Ma, lasciando stare

(1) Vedi la dotta nota del Valmaggi in Q. Ennio, i frammenti degli Annali, Torino, 1900, p. 50. (2) Cfr. Oscar Weise, Die griechischen Worter im Latein, Leipzig, 1882, ì p. 35 seg.; Giinther Alexander Saalfeld, Die Lautgesetze der griechischen Lehnworter im Lateinischen, Leipzig, 1884, p. 75 seg. E forse si tratta di disturbo fonetico per associazione analogica. Quanto a cocles = κύκλωψ, deve aver influito, malgrado il diverso avviso del Walde (Lat. Etym. Wòr- terbuch*, Heidelberg, 1910), l'idea e il suono del paleolatino *oclos = oculus, piuttosto che il suono di coclea, come pensava il Keller (in Lateinische ’olkesetym. und Verwandtes, Leipzig, 1891, p. 273). Certo il Saalfeld non lo riguarda come un Lehnwort ,, e nel suo Tensaurus italograecus, Wien, 1884, alla voce hibrida respinge il preteso rapporto tra Cocles e Κύκλωψ, accettato ungliickseligerweise, dal Mommsen, riferendosi invece al Curtius e al Vanicek. Vedi, del resto, la letteratura dell’ar- gomento in Walde, op. cit.

ἣν

—- 596

il senso stranissimo che vien fuori da siffatta ipotesi, si vor- rebbe sapere ma il Fròhner non lo dice come si possa documentare cotesta forma, specialmente in uno scrittore che non è male ripeterlo è posteriore ad Ennio e ne’ suoi quattro versi mostra evidente l’imitazione del poeta degli Annales. Poi il Fròhner, partendo dalla lezione cluetas alata del cod. di Bamberger {dalla quale invece, seguendo quello che io chiamo, in fatto di critica verbale, il metodo dei mi- nimi mezzi, si ottiene benissimo la lezione cluet as|i]a lata), propone di leggere :

Plautius Marcus, cluet |L]as[a] alata esse oriundus.

Pertanto, secondo questa novella congettura, il pittore da buon etrusco e discendente di nobile famiglia tale lo ri- tiene il Frohner si vanterebbe von der gefliigelten Lasa abzustammen, der Schwanenjungfrau, die wir so hàufig auf den etruskischen Spiegeln sehen ,. E continua il Fr., per dar rincalzo alla sua proposta, notando che similmente Parrasio pretendeva di discendere da Apollo, come Euergo da Leto, e soggiunge, in fine, che anche i patrizi romani credevano alla origine divina di molte delle loro schiatte.

Esaminiamo queste idee del Fròhner. Anzi tutto che Plautius fosse nome di origine etrusca (1) a nessuno viene in capo di negare; ma devo subito soggiungere come la gens romana, che portava cotesto nomen, fosse di origine plebea, onde solo nel 358 a. Cr. (396 di R.) troviamo fra i consoli un C. Plautius P. f. P. n. Proculus, a otto anni di distanza dalla nomina del primo console plebeo nella persona di L. Sextius Lateranus

(1) Cfr. Wilhelm Schulze, Zur Geschichte lateinischer Eigennamen (in Abhandlungen der kònigl. Gesellschaft der Wissensch. zu Gòottingen. N. F. Bd. V, 2), Berlin, 1904, p. 211. Come è noto, accanto a Plautius s'in- contra la forma Plotius, propria di iscrizioni latine di Clusium, Volcii, Sutrium, Tarquinii, Caere. Cfr., del resto, il Glossarium italicum in Corpus inscriptionum italicarum antiquioris aevi di Ariodante Fabretti, Aug Taur., 1867, col. 1408 sg. e 1413; inoltre W. Deecke, Die Falisker, Strass- bourg, 1888, nell’Exkurs ἰδοῦ die Entstehung der italischen Familien- namen, p, 285.

w

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(366 a Cr., 388 di R.). E se si tratta di un vero etrusco, come opina il Frohner, si domanda quale prova vi sia che i Plautii, cui il pittore avrebbe appartenuto, fossero di un’an- tica nobiltà e discendenti, per giunta, da una divinità mu- liebre, di nome Lasa. E poi sembra non poco strano che un nobile etrusco, il quale credesse di avere sangue divino nelle vene, lasciasse il suo paese per venire a fare il pittore in Ardea, e ne accettasse la cittadinanza. Domando pure come mai cotesto nobile etrusco, invece di portare un prenome del suo paese, come, p. e., quel Lars o Lar, vero prenome nazionale che si trova congiunto ad una infinità di nomi in titoli etruschi, avesse un prenome, Marco, di vera origine e conio latino (1), anzi uno di quei prenomi che non rimasero ristretti a particolari schiatte, ma si trovano generalizzati nelle più diverse stirpi romane (2), un prenome, inoltre, che non si trova, per regola, nelle iscrizioni etrusche, ma solo per rarissima eccezione in quelle dell’ Etruria marittima (3). Inoltre da quale connubio di cotesta Lasa, la cui figura, generalmente alata, appare su specchi etruschi (4), sarebbe venuta la stirpe

(1) Cfr. Schulze, op. cit., p. 464, ove si nota come Mareus derivi da un Mart-co-s e si colleghi con Mamercus τεῦ τς dall’osco Mamers, onde ai Marcii corrispondono i Mamerctì.

(2) Th. Mommsen, Romische Forschungen, I, Berlin, 1864, pp. 17, 26.

(3) Cfr. Ariodante Fabretti, Primo supplemento alla raccolta delle an- tichissime ‘iscrizioni italiche. Parte seconda, Fasc. I, Roma ecc., 1874, p. 236. Non ho potuto, per mancanza di indici, valermi del CIE del Pauli; ma gli indici del Gamurrini in Appendice al C. I. Ital. del Fabretti ed ai suoi Supplementi mi confermano l’estrema rarità del prenome in questione nei titoli etruschi. Due esempi incerti ho notato nei titoli n. 8267 e 8235 di Falerii veteres in CIE (Sect. II. Fase. 1, cur. G. Herbig), mentre nei titoli di Falerii novi il prenome Marcus diviene più fre- quente, specialmente in forma abbreviata (CZE, Sect. e Fasc. cit., nn. 8343, 8546, 8352, 8353, 8374, 8403 a), e se ne comprende facilmente la ragione. E parimente non è raro nei titoli falisci il nome Marcius, pel quale cfr. pure Deecke, Die Falisker, p. 282, e R. S. Conway, The italic dialects, Cambridge, 1897, nn. 314, 352 Ὁ.

(4) Cfr. il Glossarium italicum cit., col. 1020; Miiller-Deecke, Die Etrusker, 115, Stuttgart, 1877, p. 97, n. 50, e l’articolo Lasa in Roscher, Ausfiihrliches Lexikon der griech. und rim. Mythologie, II, col. 1902 seg.

ci an

PIRA SII PAU PARI II PRIORI, LE ra era

ἴχτῶ Υ̓ ᾿

bed ΝΜ O ἜΘῸΝ Ser ONE ΜΉΝ

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Plautia di Etruria? Bisognerebbe, per lo meno, allegare qualche iscrizione, in cui una discendenza di tal maniera fosse indicata per un altro semplice mortale, quale fu il pittore di Ardea, di cui, fatto cittadino di quella città, non si ricorderebbe la patria di nascita, il padre, l’avo, ma solo la discen- denza da una delle divinità femminili serventi proprie del- l’Etruria, che non si sa poi con qual uomo abbia avuto com- mercio per generare la stirpe Plautia !

Son troppe le cose che bisognerebbe provare per rendere verosimili queste idee del Fròhner, laddove un’altra spiega- zione si può dare della iscrizione senza nulla toccare al testo, lasciando stare intatta la felicissima restituzione cluet Asia lata esse oriundus del Bergk (1), e conservando la lezione perfettamente documentata Plautius Marcus (2). Leggendo il testo Pliniano ho sempre avuto l'impressione che loco sia un ablativo dipendente da digna e che si deva intendere la prima sentenza così : ai degni onore degno del luogo ,. E per vero gli Ardeati erano stati altamente soddisfatti dell’opera del pittore che aveva decorato il loro tempio prediletto, il tempio di Juno Regina, la moglie di Iuppiter rex, la Matrona Tonantis

(1) Non so davvero quale restituzione possa essere più sicura, più felice, e ottenuta col minor impiego di mezzi. Lo stesso Fròhner è co- stretto a riconoscere che essa “schliesst sich zwar eng genug an die Ueberlieferang an ,. Di fatto, come già si è detto, cluetas alata esse oriundus è la lez. del Bambergense del sec. X, che è il più importante dei codd. per buona parte del testo Pliniano. E gli fanno corona il Riccardiano del sec. XII do et asia lata etc., il Monacense (Pollingano) del sec. XV cletas ialata praeneste oriundus a cui corrisponde la lez. del cod. Torinese membr. I, I, 23 del sec. XV (= n. 888 dell’Inventario pubblicato in questa Rivista, v. XXXII, a. 1904, p. 478), che è cletasia lata Pneste oriundus (ma esse oriundus è in quasi tutti i codd., compreso il Torinese membr. I. I. 25 del sec. XIV = n. 336 dell’In»., ove è asia letesse oriundus e manca la lezione rispondente a cluet). Bastano queste indicazioni per vedere quanto eccella la restituzione del Bergk sulle lezioni che tenevano il campo prima di lui.

(2) Una grandissima parte dei codd. ripete il Marcus (anche con grafia errata mareus, oppure marius come nel Tor. del sec. XIV) davanti a Plautius (plaucius Bamb., plautis Rice., plaustis Tolet. sec. XIII, plancus Torin. sec. XIV, plauitus Torin. sec. XV).

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(Ovid. Fast. VI, 33), la protettrice della città (1). Perciò, oltre a conferirgli, come narra Plinio, la cittadinanza, vollero mostrargli il loro sommo compiacimento con un singolare onore consacrando la memoria del suo nome nel tempio stesso, nel luogo dalla sua mano così meravigliosamente decorato. Ma si badi bene a ciò altro è consacrare un ricordo in una piazza, in un portico, erigendo, p. e., un busto o una statua, altro è in un luogo riservato alla divinità. Un busto, una statua nel tempio di Iuno fegina al suo pittore non era possibile, era un onore vietato anzi sacrilego : non così una iscrizione posta, come dice Plinio, in ipsa pictura. Il pittore po- teva esser degno bensì di più grande monumento; ma in quel luogo l’iscriziono messa nella sua stessa pittura era il solo onore degno dei suoi meriti. Così comprende che, facendo una aggiunta al proverbio popolare digna dignis conservatoci dallo scoliaste di Giovenale (2), per adattarlo alla speciale circostanza di luogo che imponeva una certa restrizione nel tributare il meritato onore, l’autore della iscrizione abbia scritto dignis digna loco. Il sèguito non offre difficoltà, mettendo un punto dopo Marcus: decorò di pitture il tempio di Giunone Regina moglie del supremo [dio] Plautius Marcus ,. Finalmente il testo

cluet Asia lata esse oriundus, quem nunc et post semper ob artem hanc Ardea laudat

è abbastanza chiaro : “è noto che è oriundo dell’ampia Asia l’uomo cui ora e sempre di poi per quest'arte si badi che l'iscrizione era in ipsa pictura Ardea esalta ,. Appena è d'uopo avvertire che cluet ... esse significa è noto che è ,,

(1) Cfr. Preller-Jordan, Ròm. Myth, Berlin, 1881, I, p. 284; Roscher, op. cit., II, col. 600 e 604; Georg Wissowa, Religion und Kultus der Romer*, Minchen, 1912, pp. 48, 187.

(2) Cfr. l’ed. Iahn-Buecheler-Leo (Berl., 1910) a V, 3; Baehrens, 7ragm. poet. rom., Ὁ. 349. Anche Plauto a Poen., 1270 ha aggiunto una parola: eveniunt digna dignis (cfr. Pseud. 1013 : salutem scriptam dignum est dignis mittere).

n VO)

perchè l’unione del verbo eluet con un infinito talora non aggiunge altro all’idea espressa da questo che il concetto della notorietà. Così Ennio in Ambracia (Scen. 366 Vahlen?) :

Esse per gentes cluebat omnium miserrimus

che vale era noto nel mondo come il più misero degli uomini , (1).

E qui mi fermo alquanto sulla imitazione dell’arte enniana, che ho già detto essere evidente nei quattro versi dell’iscri- zione. Il verso di Ennio ora citato ne è già una prova: un’altra è data dalla chiusa picturis condecoravit (cfr. Enn. Ann., I,10V.2: Ova parire solet genus pennis condecoratum) : un’altra è riposta nel quarto verso che, come notava il Bergk (2), è una offenbare Reminiscenz aus Ennius [Amn. 315 V. = θη ἈΝ:

Ergo postque magisque viri nune gloria claret ,.

Ma ce n'è un’altra prova, che il Fròhner doveva meditare, ed è l’uso dell’epiteto Zatus così caro ad Ennio e adoperato da lui qual vero epiteto ornans, come è nella nostra iscrizione. Cfr. Ann. 238 V.2 indu foro lato; 389 Litora lata sonunt ; 3 Nam latos populos res atque poemata nostra ... cluebant ; 507 sicilibus latis ; inoltre Sat. 10 seg. : testes sunt Lati campi quos gerit Africa terra politos,

(1) Cfr. Plaut., Bacch., 925: Atridae duo fratres cluent fecisse facinus maximum, vale a dire: “I due fratelli Atridi son noti per aver compiuta una grandissima impresa ,. Il Munro* poi spiega il cluet vagari di Lucrezio a IV, 53 come equivalente al semplice vagatur. È vero; ma forse bisogna, come ho detto, aggiungere il con- cetto della notorietà dell'azione espressa da vagatur, per quanto, in realtà, possa essere trascurato. Onde il Giussani al v. cit. annotava che cluet è un φαένεται, ridotto, come spesso, a un semplice est, ma conservante la costruzione propria del suo significato primitivo ,.

(2) Anecdoton Parisinum in Zeitschrift fiir die Alterthumswiss. III, 1845, N. 11. 14-17, 123 = Kleine philologische Schriften, I, Halle, 1884, p. 605 nota).

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per non dire che la stessa collocazione, in fin di verso, di oriundus ci richiama a identiche chiuse di esametri in Ennio (efr. 0 sanguen dis oriundum in Ann. 113 V.?, Poenos Sarra oriundos 220; Poenos Didone oriundos 290).

Ma mi resta ancor altro a dire. Accettata come sicurissima la lezione Asia lata ... oriundus, ne viene di conseguenza che può considerare M. Plautius come un lidertinus, o un figlio di un Zibertinus, che, appunto per la sua condizione sociale, potè trovar conveniente di abbandonare la cittadinanza ro- mana per quella di Ardea. È cosa notoria che i cittadini romani avevano piena facoltà di cambiare a loro piacimento la loro qualità con quella di cittadino d’un’altra città, ave- vano cioè il ius exsilié; ma tale cambiamento equivaleva al- l'abbandono volontario della cittadinanza romana (reiectio ci- vitatis), in virtù di quel principio invariabile del diritto romano che nessuro può appartenere nel tempo stesso a due stati indipendenti (1), anche se si tratti di municipii e di colonie di dritto latino. Non si comprende perciò facilmente da parte di M. Plautius la reiezione della cittadinanza romana, se non si ammette in lui una bassa condizione sociale, ciò che è anche indirettamente ma efficacemente confermato da Plinio stesso, il quale, dopo aver ricordato che un Fabio, clarissimae gentis, princepsque eius cognominis ipse aedem Salutis pinxtit anno urbis conditae CCCCL, e che il poeta Pacuvio dipinse del pari il tempio di Ercole nel foro boario, soggiunge che quest'arte postea non est spectata honestis manibus, nisi forte quis Turpilium equitem Romanum e Venetia nostrae aetatis velit referre (2). Dunque Plinio implicitamente non riconosce fra

(1) Il principio è affermato recisamente da Cicerone (Pro L. Corn. Balb., 11,27): Iure enim nostro neque mutare civitatem quisquam invitus potest neque, si velit, mutare non potest, modo adsciscatur ab ea civitate, cuius esse se civitatis velit... 28. Duarum civitatum civis noster esse iure civili nemo potest; non esse huius civitatis, qui se alii/civitati dicarit, potest. Vedi del resto l'eccellente Manuel des institutions romaines di A. Bouché- Leclercq, Paris, 1886, p. 172, n. 3; 869 segg.; Th. Mommsen, Le droît public romain (trad. di P. F. Girard), VI, 1, Paris, 1889, p. 51 seg.

(2) N. H., XXXV, 19 seg. Cicerone in Tusc., I, 2, 4 dimostra che non

fu certo lodata in Fabio tale occupazione (An censemus, si Fabio, nobi-

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le honestae la mano di colui che dipinse il tempio di Ardea. E ciò rincalzo alla giustezza della ricostituzione del testo nelle parole Asia lata ... oriundus, le quali possono tanto in- dicare che M. Plautius fu nativo dell'Asia (Minore), quanto oriundo (nel senso italiano) di quel paese. Se nativo, come propendo a credere, egli era sicuramente uno schiavo che, verosimilmente portato giovanissimo a Roma all’epoca del trionfo di Cn. Manlio Vulsone (cos. 565 di R. 189 a. Cr.) da quell’esercito Astatico da cui, come narra Livio, l'ururiae pe- regrinae origo ... invecta in urbem est (1), più tardi sarebbe stato manomesso da uno della gente Plautia, e avrebbe forse conservato a guisa di cognomen il suo nome personale deri- vato da qualche città o località dell'Asia (Minore), che il poeta della iscrizione indicò soltanto vagamente dopo il nomen e il praenomen ; se solo oriundo, era probabilmente figlio di un liberto greco dell'Asia, avesse o no conservato il nome ori- ginario paterno, essendo noto che, come i libertini cercavano di piegare a nome romano il loro primitivo nome di schiavo, così i loro discendenti potevano rinunciare all’antico nome servile (2).

E non avrebbe peso, secondo me, l’obbiezione che, se

lissimo homini, laudi datum esset quod pingeret, non multos etiam apud nos futuros Polyclitos et Parrhasios fuisse? E Valerio Massimo, VIII, 14, 6, dopo aver ricordato che Fabio scrisse il suo nome sulle pareti stesse da lui dipinte, soggiunge : ceterum sordido studio deditum ingenium qualemcumque illum laborem suum silentio obliterari noluit. Onde giusta- mente scriveva il Saalfeld (Der Hellenismus in Latium, Wolfenbiittel, 1883, p. 111): fast kònnte man nach alle dem vermuten, Fabius habe seinen Beinamen Picetor zuerst als Spottnamen, “der Farben- kleckser,, ‘der Anstreicher, gefihrt,.

(ΠΧ ΧΧ ΧΕ ὍΣ 7:

(2) Joach. Marquardt, La vie privée des Romains (trad. di V. Henry), Paris, 1892, p. 27; Ermanno Ferrero, Dei libertini, Torino, 1877, p. 139. Del resto si comprenderebbe perfettamente l'assenza di una seconda denominazione individuale, che sin verso la metà del sec. VII di R. gli affrancati, al pari dei plebei, non solevano portare (Mommsen, Le droît publ., VI, 2, p. 7 seg.), come anche per parecchie generazioni un certo numero di case appartenenti alla nobiltà plebea si astenne dall'uso del cognomen (Mommsen, op. cit., VI, 1, p. 236).

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M. Plautius già fosse stato cittadino romano, diventava auto- maticamente cittadino di Ardea trasportando la sua residenza in questa città, occorreva un atto speciale, per sancire un tale diritto, e ciò in base alla ἰσοπολιτεία, ossia al patto federale che sin dalla formazione della Confederazione Latina assicurava ai membri di essa, e continuò ad assicurare anche dopo la sua dissoluzione, la facoltà di scambiare una citta- dinanza con un’altra, facoltà nel cui esercizio i Romani non si può dire che abbiano sempre trattato le civitates foederatae, nel cui numero figuravano le colonie latine (1), col dovuto riguardo alla uguaglianza e alla reciprocità del diritto. Ma se Plautius non era verosimilmente, come libertino o figlio di libertino, un civis optimo iure (2), non poteva nella nuova re- sidenza godere di tutti quei diritti che gli venivano invece conferiti da un decreto speciale della città di Ardea, col quale, oltre ad ottenere un distinto particolare onore, senza dubbio veniva investito di tutti i diritti congiunti alla qualità di cittadino di quella città.

È, per altro, possibile anche una seconda ipotesi, ed è che il pittore greco dell’Asia (Minore) abbia avuto direttamente, senza prima essere stato cittadino romano, la cittadinanza ar- deate, prendendo in Ardea stessa il nome latino di M. Plautius; quantunque, trattandosi di una piccola città del Lazio, parmi molto meno probabile che gli Ardeati ricorressero alla lon- tana Asia, anzichè a Roma, ove da tempo la pittura greca

(1) Cfr. Marquardt, Organisation de l’empire romaine (trad. Weiss e Louis-Lucas), vol. I, Paris, 1889, p. 64. Ardea, nel paese dei Rutuli, di- venne colonia latina nel 312 di R. = 442 a. Cr. prima della dissoluzione della Confederazione latina (416 = 338); ma ciò non toglie che, sciolta la Confederazione, essa conservasse, come le altre colonie comprese sotto il nomen latinum che designa non una unità politica ma una classe pri- vilegiata di sociî (Marquardt, p. 71), una parte almeno dei vantaggi assicurati alle città latine dalla Confederazione cassiana (sulla quale vedi Gaetano De Sanctis, Storia dei Romani, vol. II, Torino, 1907, pp. 96-98).

(2) Sulla condizione inferiore dei cittadini usciti di schiavitù cfr. anche Mommsen, Le droit publ., VI, 2, p. 3 segg.

aveva già non pochi rappresentanti (1). A meno che si abbia qui un caso analogo, o quasi, a quello che si verificò pres sd vi sochè un secolo dopo, cioè a quello del poeta Archia, cui ef Tarentini et Regini et Neapolitani civitate ceterisque praemiis. i 1 donarunt (Cic., pro Arch., 2, 5), come pure i Locresi e gli

E

Di Eracleesi (4, 6 e 5, 10). Vero è che sarebbe questione, non solo di tempi diversi, ma anche di città della Magna Grecia, È le quali mediocribus multis et aut nulla aut humili aliqua arte x praeditis gratuito civitatem ... impertiebant (5, 10). Se non che di ea nec adfirmare nec refellere in animo est. | Conchiudendo, come il M. Plautius Luco (o Loco) cacciò di seggio il M. Ludius Elotas Aetolia oriundus di vecchie edi- zioni (2), cacciato alla sua volta dal Plautius Marcus Cleoetas Sea Italia exoriundus del Sillig (3) che poi trasformò /talia in ui Alalia (4), così resterà solo assicurato alla storia il prenome e il nome di M. Plautius, e così solo chiameremo, senza altra denominazione individuale, il vecchio pittore della fine del Di sec. VI di Roma, come del resto già parecchi s'erano indotti a chiamarlo senza aggiungere alcun cognomen, come il Brunn (5) e il nostro De Sanctis (6). E perciò una sola cosa sono di- sposto a concedere al Fròhner, cioè che il pittore M. Plautius

(1) Vedi, fra altri, la densa e dotta trattazione di Gaetano De Sanctis i in Storia dei Romani, vol. cit., p. 510 seg. (2) Anche nel testo dato da D[avid] D[urand] nella sua Histoire de I la peinture ancienne, extraite de l’Hist. Naturelle de Pline, A Londres, 1725, pp. 90 e 286.

(3) In Catalogus artificum ... graecorum et romanorum, Dresdae et Lipsiae, 1827, p. 248 seg.

(4) Cfr. la sua ed., vol. V (Lipsiae, 1836).

(5) Im Geschichte der griechischen Kiinstler, II°, Stuttgart, 1889, p. 204, ove è bensì dato il testo del Sillig, ma son recate, senza esprimer giu- dizio, le congetture del Bergk e del Lachmann.

(6) Pag. cit. Se Plinio, il quale dice che l'iscrizione era scritta antiquis litteris Latinis, ne abbia confusa la grafia con quella di altra più antica iscrizione del tempio stesso, non è qui il caso di indagare. Tale confu- sione, tuttavia, nulla infirma di ciò che si è affermato a proposito del pittore e della sua età, che è da ascrivere alla fine del sec. VI di Roma (Ennio morì nel 585 di R.= 169 a. Cr.), come sembra universalmente riconosciuto. Del resto non sarebbe per nulla strano che Plinio chia-

È non fu il poeta della iscrizione, ritenendo io che nulla giusti- fichi questa supposizione fatta dal Hertz (1) e da molti accet-

tata. E la iscrizione dell'ignoto poeta dovrà, a mio avviso,

Dignis digna loco. Picturis condecoravit

reginae Iunonis supremi coniugis templum

Plautius Marcus. Cluet Asia lata esse oriundus, quem nunc et post semper ob artem hanc Ardea laudat.

Torino, 1 settembre 1915.

ErtTORE STAMPINI,

masse ‘antiqua’ una scrittura che certamente non oltrepassava gli ul- timi anni del sec. VI di R., confrontata con le belle monumentali lettere del tempo suo.

(1) Op. cit., p. 14 seg. Anche senza giungere a negar fede, come fa- ceva tra altri F. Ritter in RA. Mus., v. V, a. 1847, p. 223 segg., alla testimonianza di Gellio (N. A., III, 3, 10): In eodem libro Varronis [de comoediis Plautinis primo) id quoque scriptum et Plautium fuisse quempiam poetam comoediarum, non se ne può trarre la conchiusione che il pittore M. Plautius sia stato quel poeta, e tanto meno l’autore della iscrizione, mancando ogni altra testimonianza. Quello stesso Plautium ... quempiam è un'espressione che accenna a persona sulla quale non si hanno dati certi ma regna alquanta, anzi molta, oscurità.

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Sulla dibattuta questione del significato di ὀξύρυγχος χαρακτήρ ritorna Arthur Mentz nel vol. 68, N. F. del Rhei- nisches Museum fiir Philologie herausg. von August Brink- mann (Frankfurt 1913) in un articolo dal titolo ὀξύρυγχος χαρακτήρ, che è il primo dei Beitrige zur Geschichte der an- tiken Schrift (pp. 610-614). Dopo l’esauriente ed aggiun- giamo subito accurata discussione che Νῖκος A. Béys ha pubblicata nel vol. 66, N. F. della medesima rivista ed in cui ribadiva con maggior copia d'argomenti l’interpretazione di ὀξύρυγχος χαρακτήρ data dal Wilcken già nel 1901 (Hermes, 36, 315: ὀξύρυγχος χαρακτήρ (1)) si poteva ritenere che la quistione fosse oramai risolta (2). Ma il Mentz ritorna ora ad agitarla adoperando degli argomenti che non sono altro che delle interpretazioni grossolanamente erronee dei pochi passi di scrittori greci, in cui ricorrono le parole surriferite. Vale la pena di rilevare gli errori in cui è caduto il Mentz, per dimostrare la giustezza della tesi del Wilcken.

Egli crede anzitutto di dover respingere l’interpretazione, data da tutti coloro che hanno trattato quest'argomento, del significato primo d’ ὀξύρυγχος, come risulta dall’etimologia della parola. Però i suoi argomenti non sono troppo convin- centi e si basano su d’un manifesto errore. Ammettiamo anche noi ben volentieri che si possa denominare una scrittura da

(1) Il Wilcken parla di spitze Unciale,... die statt des Kreises das Oval mit der Neigung zu Spitzen zeigt (1. c., p. 316).

(2) Νῖκος A. Βέης 1. c., pp. 636-640: Was ist die sogenannte ὀξύρυγχος Schrift 2

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una città, per esempio dal luogo dove era più usata oppure dove è sorta. Infatti leggiamo negli atti del quarto concilio di Costantinopoli dell’anno 869 (Mansi, XVI, p. 284): yodu- μασιν ἀλεξανδρίνοις τὴν ἀρχαϊχὴν ὅτι μάλιστα χειροϑεσίαν μιμησάμενος. Ma allora si dovrebbe parlare di un ὀξυρύγχειος χαρακτήρ e non di ὀξύρυγχος, poichè soltanto ὀξυρύγχειος può essere un aggettivo derivato dal nome della città di Ὀξύρυγχος, come d’altronde ὀξυρυγχίτης significa un abitante α᾽ ᾽᾿Οξύρυγχος. Quindi ὀξύρυγχος χαρακτήρ non può interpre- tarsi per carattere proveniente da oppure in uso nella città d'’0500vyyos ,. E non si può addurre in favore di questa tesi come fa il Mentz il τοῦ ὀξυρυχιτῶν (ἀλφάβητος) del codice greco parigino 2316 (fol. 417) (1), perchè il passo è tanto oscuro da non permettere neppure una congettura. Non c’è quindi motivo alcuno di ritenere ὀξύρυγχος derivato dalla città d’ ᾿Οξύρυγχος.

Ma il Mentz interpreta erroneamente anche un passo di una sentenza di Michele Psello (K. N. ΣΑΘΑ͂Σ, Μεσαιωνικὴ βιβλιοϑήκη, vol. V, Μιχαὴλ Φϑελλοῦ ἱστορικοὶ λόγοι, ἐπιστολαὶ χαὶ ἄλλα ἀνέκδοτα, pp. 198-199) : συνεκρίϑη δὲ καὶ τὰ γράμ- ματα πρὸς ἄλληλα, αὐτοῦ δὴ τοῦ ἐγκαλέσαντος τοῦτο προ- τειναμένου, καὶ ἣν δμοιότης ἀπαράλλακτος - οὐ γὰρ μόνον αὐτὸς χαρακτὴρ τοῖς γράμμασιν ἐπεφαίνετο, οὐδὲ τὸ αὐτὸ ἰδίωμα τῆς χειρὸς, ἀλλὰ καὶ παρὰ τὴν κανόνα γραφὴ αὐτή, καὶ ἣν τις 6bodoyoagpia ἐν μὴ ὀρϑογραφίᾳ ὥς περ γὰρ oi τὸν ὀξύρυγχον στρογγύλον χαρακτῆρα ἐπιτηδευσά- μενοι αὐτοματίσαντες, τὸν αὐτὸν ἀεὶ ἐπισημαίνονται γρά- φοντες, οὕτω δὴ καὶ τοῦ ὑπογράψαντος χείρ, ὥς πέρ tiva ἰδιάζοντα χαρακτῆρα τῆς ἰδιωτίας, ἴσον πρὸς ἑαυτὸν καὶ σύμ- φωνον ἐφυλάξατο. Il Mentz afferma che questo passo non dimostra che 1’ ὀξύρυγχος χαρακτήρ era diverso dallo στρογ- γύλος, che Psello non distingue dunque tra queste due specie di scrittura. 2790yy0405 può essere benissimo una aggiunta esplicativa (erklirender Zusatz) di ὀξύρυγχος ! Psello suole ado- perare dei termini rari a cui fa poi seguire la spiegazione.

(1) Serruys in Mélanges Chatelain, p. 486.

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"H significa dunque cioè , (1). 2700yyvZos ed ὀξύρυγχος χαρακτήρ sono la medesima cosa! Però il Mentz non ha os- servato alcune circostanze che sono contrarie alla sua tesi. I due termini in questione ricorrono in una sentenza, la cui prima qualità dev’esser quella d’essere comprensibile alle parti, ciò che sarebbe escluso se si adoperassero dei ter- mini rari ed in una parte della sentenza, che vuol essere una spiegazione e delucidazione di un altro passo meno chiaro. La proposizione che comincia con ὥσπερ spiega meglio con un esempio preso evidentemente da quella cerchia di cogni- zioni che il giudice reputava in possesso delle parti, la pro- posizione che comincia con οὕτω δὴ καί e di cui le parole τινὰ ἰδιάζοντα χαρακτῆρα τῆς ἰδιωτίας potevano presentare per le parti qualche difficoltà nella loro comprensione. Cre- diamo quindi di dover escludere che ὀξύρυγχος e στρογγύλος fossero termini rari o almeno il primo, poichè, come detto, secondo il Mentz, στρογγύλος serve soltanto da spiegazione ad ὀξύρυγχος. Da una retta comprensione di questa parte della sentenza emerge però anche chiaramente che Psello fa una netta distinzione tra i due termini. Non voglio dilungarmi in una narrazione della fattispecie , del caso giudicato dal nostro autore. Basterà che io osservi che il giudice è venuto nella persuasione che i due documenti esibitigli dalle parti sono stati firmati dalla stessa mano, che uno di questi è stato quindi falsificato. Per accertarsi del fatto egli ha esaminato attentamente le due scritture. I risultati di questo esame sono contenuti nel passo da noi citato. Egli ha constatato che la loro ὁμοιότης è ἀπαράλλακτος per i seguenti motivi : 1) Il χαρακτήρ è il medesimo in tutti e due i casi, cioè in tutti e due i casi o carattere onciale o corsivo (2) ecc. 2) In tutti e due i casi 1᾿ ἰδίωμα τῆς χειρός è uguale. ᾿δίωμα τῆς χειρός è la peculiarità del ductus della mano di Tizio o di Caio, e per cui appunto ogni persona ha un proprio ductus che le è ἴδιος. 3) L'ortografia o meglio la μὴ ὀρϑογραφία 0 παρὰ

(1) lion pi 611: (2) Trattandosi di un documento sarà stato corsivo.

τὴν κανόνα γραφή è uguale nei due documenti, cioè vi ricor- ΤΌΠΟ i medesimi errori d’ortografia. Perciò egli fa il giuoco di parole: τὶς ὀρϑογραφία (il falsificatore si è attenuto scioc- camente alle regole della propria falsa ortografia, c'è dunque qualche cosa di ὀρϑός nell’ortografia del documento falsificato, poichè essa combina con quella del documento autentico) ἐν μὴ ὀρϑογραφίᾳ. Queste sono tre constatazioni di fatto. A queste constatazioni di fatto egli fa seguire la regola generale tratta dall’arte calligrafica, che dice che la scrittura, l’ ἰδίωμα τῆς χειρός, di una persona rimane sempre la medesima, per trarne mediante la desunzione dei fatti da lui constatati sotto la medesima la conclusione, che uno dei documenti è falsificato. Per spiegar meglio questo fatto, che tanto il documento A quanto il documento B sono stati vergati dalla medesima mano, quantunque questa si sia sforzata di scrivere con un ductus diverso, egli adduce l'esempio dell’amanuense che presenta sempre il medesimo ductus sia che egli scriva τὸν ὀξύρυγχον oppure τὸν στρογγύλον χαρακτῆρα. Alla diversità dei documenti corrisponde quindi la diversità dei due χαρακτῆρες, cioè di ὀξύρυγχος e di στρογγύλος. La tesi del Mentz crolla dunque.

Le due soscrizioni che egli arreca in conforto delle sue opinioni non dicono nulla, perchè non sappiamo che cosa significano : cod. Barber. I 15, fol. 15° λοιπὸν τὸ βιβλιάριον ποῦ εἶχες παραγγείλει τὸ ἔγραψα καϑὼς δρᾷς ἐξωριχοστρο- γύλι e cod. 16 della Χριστιανικὴ ἀρχαιολογικὴ ἑταιρία di Atene: 4oîmòv 0 vmuoxdvovas ποὺ ἢχες παραγγῆἤλει ἔγραψα xddos ὡρὰς dÉdorgav στρογγῆλει.

Egli crede però di trovare la conferma della sua tesi in alcuni passi di Giovanni Filopono. Guardiamo ! Anzitutto dal commento agli ἀναλυτικὰ πρότερα d’Aristotele (1). Trascrivo tutto il passo, a differenza del Mentz il quale crede di poter accontentarsi di due righe soltanto. ἐπειδὴ dé, ὡς ἔφαμεν, τρεῖς gior τῶν συλλογισμῶν ai διαφοραί, δεῖ τὸν μέλλοντα

(1) Ioannis Philoponi in Aristotelis Analytica Priora commentaria, ed. Wallies (Comm. in Arist. graeca, XIII, 2) p. 5, 4-14.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 39

MPA NNO Ὧι λῶν RITO II Late TINO, À ἀνὰ

610

τούτων τινὰ μαϑεῖν εἰδέναι πρότερον τί ποτέ ἐστιν ἁπλῶς συλλογισμὸς καὶ τίνα τρόπον συντιϑέμενοι oi ἅπλοϊῖ λόγοι, τουτέστιν ai προτάσεις, ποιοῦσι συλλογισμόν, καϑάπερ καὶ τὸν μέλλοντα μαϑεῖν τὴν Δώριον τὴν Λύδιον ἁρμονίαν δεῖ πρότερον μαϑεῖν τὸ ἁπλῶς κιϑαρίζειν καὶ τί δήποτε ὅλως ἐστὶν ἁρμονία, καὶ τὸν βουλόμενον εἰδέναι γράφειν ὀξύρυγχον στρογγύλον χαρακτῆρα πρότερον εἰδέναι τὸ ἀπλῶς γράφειν. εἰ οὖν καὶ αὐτὸς διδάσκει ἐνταῦϑα μὲν περὶ τοῦ ἁπλῶς συλλογισμοῦ, ἐν δὲ τοῖς “Yotéoors ἀναλυτικοῖς σερὶ τοῦ ἀποδεικτικοῦ, ἐν δὲ τοῖς Τόποις περὶ τοῦ διαλεκτικοῦ καὶ ἐν τοῖς Σοφιστικοῖς ἐλέγχοις περὶ τοῦ σοφιστικοῦ, εἶκό- τως ἕπεται μὲν τῷ Περὶ ἑρμηνείας τόδε τὸ σύνταγμα, προη- γεῖται δὲ τῶν λοιπῶν. Qui l’autore fa menzione della scrit- tura in questione nel corso di una comparazione, precisamente . come aveva fatto Michele Psello. Ciò che dimostra nuova- mente che questi termini erano tutt’altro che rari, anzi ben noti, se si credeva di poter ricorrere ad essi per spiegar meglio il proprio pensiero. Dal nostro passo risulta che Gio- vanni pone in parallelismo i seguenti termini

Δώριος ἁρμονία Λύδιος ἁρμονία

e ὀξύρυγχος χαρακτήρ στρογγύλος χαρακτήρ.

Ora siccome la Δώριος ἁρμονία è diversa dalla Δύδιος ἃρ- uovia, dev'essere pure diverso 1᾿ ὀξύρυγχος χαρακτήῤ, dallo στρογγύλος χαρακτήρ. È assolutamente falso quindi che mar scheint fast formelhaft diese Schriftart den ὀξύρυγχος στρογ- γύλος χαρακτήρ genannt zu haben (1). Ripetiamo quindi che si tratta di due cose diverse.

Un altro passo di Giovanni Filopono gli serve per affer- mare delle cose strabilianti: De anima, p. 227, 14-22 (2): Hored γὰρ οὐδ᾽ ἀποδεικτικὸν συλλογισμὸν εἰδέναι δυνατὸν τὸν μὴ ἁπλῶς τί ἐστι συλλογισμὸς εἰδότα, οὐδὲ τὸν ὀξύρυγχον τύπον γράφειν τὸν μὴ ἁπλῶς εἰδότα γράφειν (συγκεχυμένον

\

(1) Mentz, 1. c., p. 611. (2) Ioannis Philoponi in Aristotelis de anima libros commentaria ed. Hayduck (Comm. in Arist. graeca, XV).

611

δὲ τοῦτο, ἁπλῶς συλλογισμός - πλείονες γὰρ τούτου dia- φοραί: δμοίως δὲ καὶ τὸ ἁπλῶς γράφειν, διηρϑρωμένον δὲ τῶν εἰδῶν ἕχαστον), οὕτως οὖν τὸν μὴ ἁπλῶς τί ἔστι σῶμα εἰδότα ἀδύνατον εἰδέναι τί ἐστι πυρὸς σῶμα ἀέρος οὐ- ραγνοῦ, καὶ τὸν μὴ ἁπλῶς εἰδότα τί ἐστι ψυχὴ ἀδύνατον εἶ- δέναι τί ἐστι λογικὴ ἄλογος puri: συγκεχυμένον δὲ τὸ ἁπλῶς σῶμα καὶ ἁπλῶς ψυχή, διηρϑρωμένα δὲ τῶν εἰδῶν ἕχαστον. Ed il Mentz, che di nuovo cita naturalmente 50]- tanto alcune righe, a chiosare: Hier wird also der Oxy- rynchos-Typ der einfachen Schrift als eine hòhere Stufe ge- geniibergestellt... Aber ebensogut kiònnte darunter eine hohere Stufe der Unziale verstanden sein, die eben erst ein geiibter Schreiber erreichte. Und nun will der Vergleich doch offenbar (povero offenbar!) sagen, dass bei dem Oxyrynchos-Typ der Buchstabe aus mehr Strichen besteht als in der gewòhnlichen Schrift (1). Par di sognare!

AnAiòs συλλογισμός, ἁπλῶς γράφειν, ἁπλῶς σῶμα e ἅπλῶς ψυχή non vuol dire sillogismo semplice, scrittura semplice, corpo semplice ed anima semplice in opposizione al sillogismo composto, corpo composto ecc., ma sillogismo tout court, scrit- tura tout court ecc. Chi vuol sapere che cosa è 1᾿ ἀποδεικτικὸς συλλογισμός deve prima sapere che cosa è in generale, in astratto (συγκεχυμένως) un συλλογισμός. Così pure prima di sapere che cosa è il fuoco o l’anima vegetativa si deve sa- pere che cosa è in generale un corpo e l’anima. E prima di serivere l’ ὀξύρυγχος τύπος si deve in generale saper scrivere. Questo è il significato di τὸ &77©5 γράφειν. Dico ἁπλῶς e non ἁπλοῦν. Τὸ ἁπλοῦν γράφειν vorrebbe dire certamente einfache Schrift. Ma τὸ ἁπλῶς γράφειν vuol dire semplice- mente scrivere ,, senza riguardo alcuno ai differenti εἴδη della scrittura. Il nostro passo ci permette dunque di stabilire la seguente proporzione : ἀποδεικτικὸς συλλογισμός : ἁπλῶς συλλογισμός = τὸ ὀξύρυγχον τύπον γράφειν : τὸ ἁπλῶς γρά- φειν = τὸ πυρὸς σῶμα: τὸ ἅπλῶς σῶμα = λογικὴ ψυχή: ἁπλῶς ψυχή.

ἘΠΕῚ, ὁ... Ὁ: 612.

612

Filopono dice ancora che 1᾿ ἀποδεικτικὸς συλλογισμός è una

διαφορά ἀ6}1᾿ ἁπλῶς συλλογισμός e che τὸ ὀξύρυγχον τύπον

e

γράφειν è uno degli εἴδη un altro εἶδος sarebbe στρογ

γύλος χαραχτήρ di τὸ ἁπλῶς γράφειν (righe 17-18). Τὸ

ἁπλῶς γράφειν è dunque il γένος che ha sotto di gli εἴδη

τὸ di. e τὸ στρ. γράφειν. E noto che il rapporto tra γένος

ed εἶδος è un rapporto logico e non reale e per niente affatto identico o magari soltanto somigliante a quello intercedente tra semplice e composto. Come il Mentz sia riuscito a tra-

durre διηρϑρωμένον con aus mehr Strichen bestehend è per

me un mistero (1). Tirando dunque le somme dal fin qui detto constateremo che ὀξύρυγχος e στρογγύλος χαρακτήρ sono due εἴδη della

LS

scrittura greca. Sappiamo che στρογγύλος è l’onciale ro- tonda. Che cosa è allora ὀξύρυγχος Non il corsivo cer- tamente, perchè Palladio ci narra che Evagrio ἐποίει εὐχὰς ἑχατόν, γράφων τοῦ ἔτους τὴν τιμὴν μόνον ὧν ἤσϑιεν " eù- φυῶς γὰρ ἔγραφε τὸν ὀξύρυγχον χαρακτῆρα (2). Si tratta dunque di una scrittura calligrafica, come ha già rilevato il Wilcken ; è quindi escluso il corsivo (3).

(1) Mi dispiace di non poter dilungarmi sul significato filosofico dei termini cvyxegvuevos e διηρϑρωμένος nella fisica aristotelica. Per ora rimando all’indice del Bonitz. Così pure per l’uso di ἁπλῶς.

(2) The Lausiac History of Palladius, II by Dom Cuthbert Butler, Cambridge 1909 (Texts and Studies, contributions to biblical and patristie literature edited by I. Armitage Robinson, vol. VI, 2), p. 120, 11-12.

(3) Le versioni antiche della Mistoria lausiaca o parafrasano soltanto questo passo così fa per esempio il Paradiso d’Andin-îsò (E. A. W. Budge: The Book of Paradise, II, 278, London 1904) oppure l’omet- tono, oppure trascrivono, semplicemente ὀξύρυγχος sia in latino, sia in siriaco. La versione armena according to the likeness of orunirika , e la versione latina Z% librale manu ciò che conferma la nostra interpretazione. Vedi Butler, 1. c., p. 120, n. 12. La parafrasi copta dice che Evagrio era un γραφεὺς τεχνίτης (Butler, 1. c., p. 143). Il Gardthausen

non afferra il significato di libralis manus (Griechische Paliographie, IP, εὐ

p. 114), egli vorrebbe leggere Zibrariî manus. Ma libralis mi sembra un aggettivo regolarissimo. Poichè ho parlato del Gardthausen vorrei osser- vare che la sua tesi circa il significato d’ ὀξύρυγχος è del tutto stram- palata come parecchie altre cose della sua Paliographie.

613

Che 1᾿ ὀξύρυγχος χαρακτήρ non era una scrittura corsiva mi sembra risultare anche da una circostanza che non è stata rilevata da nessuno di coloro che hanno trattato di una no- tizia contenuta sul f. 71a del codice 562 del chiostro di Pan- teleimon sul monte Athos: I'vootòv ἔστω πᾶσιν ὑμῖν ἀδελφοί, ὅτι οὗτοι οἱ ϑείοι λόγοι τοῦ Edvayyediov ὕπῆρχον ὀξύριχοι εἰς τὸ μέγα βιβλίον τὸ Χρυσοστομικὸν τοῦ ΠΙ|ρωτάτου καὶ διὰ τὸ δυσδιήγητον ἐξέλομεν αὐτοὺς ἔκ μέσου, ἐχαράξαμεν αὐτοὺς ὧδε πῶς ἀκαλλάεις κάλλεσι γραφήσι, καὶ συγγνώμην αἰτῷ, τῇ ὑμῶν ὅσιότητι: ζρλη,, χεῖρ Σωφρονίου, τοῦ ἀδαῆ. (Spyr. P. Lambros, Catalogue of the greek manuscripts on

. Mount Athos, vol. II, Cambridge 1900, p. 396). Va rilevato

che l’amanuense non dice affatto che egli ha copiato il codice perchè esso era difficile alla lettura per il fatto che era scritto in ὀξύρυγχος. Egli osserva invece anzitutto che esso era in ὀξύρυγχος quasi questa circostanza fosse meritevole di menzione, e poi mediante un xaé egli prosegue dicendo che lo ha copiato διὰ τὸ δυσδιήγητον ecc. Non c'è dunque alcun rapporto tra 1᾿ ὀξύρυγχος ed il δυσδιήγητον ecc. Ma per quale motivo egli rileva dunque la circostanza della scrittura ὀξύ- 9vyyos? Senza dubbio perchè egli non si sarà imbattuto troppo spesso in codici scritti in questo carattere. Che 1’ ὀξύρυγχος non era il corsivo risulta necessariamente dal fatto che egli rileva la circostanza che si trattava α᾽ ὀξύρυγχος. Il dire: “ho copiato questo codice da un codice scritto in 6éU9vyyos , implica quasi necessariamente il fatto che io non ho scritto il mio codice in ὀξύρυγχος. Ora il codice in questione è scritto in corsivo, quindi l’ ὀξύρυγχος non è il corsivo, ma, come ha già detto il Wilcken, l’onciale appuntita.

ΑἹ Mentz vogliamo ancora osservare che prima di poter interpretare questo o quello scrittore greco si deve conoscere ἁπλῶς il greco.

Gruseppe FURLANI.

Londra, nel giugno 1915.

ἀν πο EPATICO TA COTE οἰ ἐς I RPVDI CONA ao EV): "9A al tw ni d 1 È ἌΝ; ΠΡ ἘΝ NT δῷ ut sa USM aule

614

DE LATEBRIS LITTERARUM IN GLANDE SAXEA

SAEPINATI OSCE INSCRIPTIS

In IF. 32. 196 sq. optime recensuit vir doctus, R. G. Kentius, huius inscriptionis interpretationes priores, cum ipse duas nonnullius momenti rationes adferret: primam (I), eam di- ligentissime atque laboriosissime exsculptam glandem per manum scurrae ac lusoris cuiusdam esse confectam ; alte- ram (II), glandis verba amatorie vel potius, ut quae ego puto plane dicam, obscenissime scripta esse. Quae tamen verba Osca altera in linea inventa, ITV (HH1): KVRV, per emen- dationem in +V()}) convertit atque postea cea : amica La- tine interpretatus est, haec eum doctum valde fefellerunt: ita a sensu et scurrili dicacitate omnis generis abhorrent. Abhorret etiam a re grammatica vel potius ab apta concin- nitate quod hoc ‘ea’, quo res interrogata respondet, in illud ‘tu’ in priore linea ab interrogante adhibitum non quadrat. Qui eas litterarum figuras diligenter perscrutatus erit ipse enumerare poterit quot mutationes per emendationem sint factae, quam rem si cum interpretatione minus idonea ex ea emendatione effecta coniunxeris omnis ratio indigna cui credas videbitur. Videtur vero mihi interpretatio a Kentio ipso laudata Buecheleri, qui kuru per ‘glans’ reddit, longe a dubio remota. Nunc restat ut eius demonstrare verbi ki ru significationem conemur, id quod nisi verbis aliarum lingua- rum comparatis efficere non possumus. Haec autem verba mihi comparanda esse videntur :

1) Ser. karaka grando’, karambha- puls’ (Angl. ‘grits’: Theod. gries ‘glarea ’), karkara-s ‘durus, asper’, karafika-s calvaria’, &draka-s ‘urna e putamine nucis facta”’.

ΚΝ ΝΗ E ATO TSOTOUOI IAN CIAO AIN STERRU ITAMOIGZIAE ASIA E po dA NU sa) I fl δ ν - + si hi a

615

2) carkara-s ‘e glarea factus’, cdrkara glarea, carnis glandium ’, carava-s operculum vasis putaminis simile’ (cf. phaselus faba, navicula’, Angl. shell putamen, navicula ’), gari- calcalus’ (in ludo tabulari). His in verbis et e- et &- litterae extant, pro quibus nos, cum nos in tempus longe antiquius recepimus, £ et % litteris utimur. Quae tamen ut videas quo modo inter se coniungendae sint velim conferas verba Hirtii in BB. 24, 218, sq.: Gr. Gram.?, p. 188. Fortasse etiam his in verbis r et / litterae inter se commutatae sunt assumendae, si carkara- propius a Lat. caleulus (sed confer κροχάλη κρόκη ‘glarea’, cum fracta ut dicitur reduplicatione), garava- propius a κάρυ-ον nux’ (= Lat. carina) distare iu- dicaveris. Quod quidem ad xdgvov attinet cave tamen exi- stimes a vocalem re vera primigeniam esse, id quod (pace Waldii?, s. v. cornus, dixerim) xé0vos ‘lanx’(:gcarava-) plane refutat.

Ad rem quae nunc disputatur nihil interest utrum verbum Oscum kuru cum Scr. karaka ‘grando’ an cum cdrkara glarea’ coniunges. Nonne Anglici hadl-stones (grandinis saxa) quasi in unum contrahunt ? Ita fit ut in glande illa Saepinati Κάτι vel verbo IE. kora quasi ‘grando’ vel verbo ora glarea’ adaequare possimus. Neque praetermittendum est verbum Ser. carkara idem quod Lat. testula valere.

Sed ut omnia quae supra dixi breviter in unum colligam, haec fere puto. Osc. kiuru formam habuit primigeniam *kora non longius a *koru- distantem, cf. Lat. gena: γένυ-ς (genu-ini), porta : angi-portu-s ; significationem vero hoc in loco quasi ‘nux’ habet quae obscene dicta, ut saepe vox illa Angl. nut ‘nux’ paene innocenter inter nostros puellos adhibita, ‘te- sticulus’ significat. Quod haec glans sive saxum globosum se pugni instar habet, minime inter puellos nostros lasci- vientes qui per utres natant , inauditum est testiculos cum pugnis adaequari. Omnia vero verba Anglica quae ‘nuces saxa pilae’ significant ita adhibentur ut testiculos reddere possint. Similiter fit e contrario ut gemma quaedam Adadu nephros sive renes nominetur.

De litteris ITV quae ante kuru stant, hae Osce scripta hanc fere formam habent, HH], quae quidem mihi quid velint

616

conicienti hoc in mentem venit, has latebras litterarum idem valere ac figuras numerorum IIV vel potius per ligaturam coniunctas I-I-V, i. e. duo de quinque, vel tres (III). Nec vero quod ad hanc notationem attinet analogiae desunt. Habemus enim in inscriptionibus Latinis IIX et XIIX pro VIII et XVIII idque in initio septimi urbis conditae saeculi (cf. CIL. 1, 623, 834). Quod autem ad ligaturam in mediis numerorum figuris attinet nonne ea in -X- (denarius) et in I-I-S (sestertius) primo in sexto saeculo invenitur (CIL. 1, 305 sq.)? Cum autem tam paucae numerorum Oscorum figuraé extent non potest fieri quin eadem notatio in hanc scripturam ita admittatur ut sit credendum ++] in latebris litterarum pro I-1-V scriptum esse.

Quae si ita sunt haec restant quae exquiramus: primum (I), cur miles scurra ita per ambages scripserit ; deinde (II), quod verbum per H+] significare voluerit. Scripsit, ut puto, HJ pro ΠῚ ut ambiguitatem quandam idque prima pudoris specie faceret quae alios aliasve quasi ludificaret. Quod verbum per HH] voluit testis’ erat. Verbum quidem Latinum testis (index) originem a forma antiquiore *tristis habuit valuitque idem ac ‘tertius’ (cf. verbum Hispan. tercero tertius, qui in medio adstat’). Equidem ut spero paucis ante annis ostendi (ΚΖ. 43, 156) quem in modum festis ‘testiculus’ a festis ‘index’ sit derivatum. Cum verbo testis ‘tercero’ verbum Hibern. tress ‘tertius’, a forma antiquiore *tristos derivatum, compa- randum est, eademque forma *tristos in Osca lingua ut trstus testes’ (n. pl.) extat. Neque praetermittendum est Pompo- nium, poetam comicum, cum “ne quis esset testis tertius praeter nos , scripserit (Ribb.? vs. 149) fortasse significasse aliquam inter verba tertius ac festis coniunetionem etiam tum in lingua Latina existere, id quod in Osca lingua, in qua ut putatur ?rsto- et ‘testis’ et ‘tertius’ (quamquam nulla forte huius sensus forma extat) valebat, nullo modo dubitari potest. Postremo (III), quis dubitare potest quin huius inscriptionis auctor aut Baetus ipse aut ludificator fuerit Baeti? Nescio an nomen Baetus (:Cret. βαίτη ‘capra, caprina pellis ’) irri- sionis causa inditum esse putem.

Denique ut hanc rem omnem concludam ita totam inseri- ptionem interpretemur :

ΠΡ 1 5ΞΞΞ quis tu? i kiuru= ili (testis), nux.

: baiteis = Cuia? Baeti. iieis: al'i'fineis = Adii Aedini.

Nec tamen viro docto Kentio non concedendum est ut pro ‘IC x ‘testis, nux’ ‘testis, puella’ apte dici potuerit. Quod ad {i ca obscenitatem attinet confer inscriptiones in glandibus Peru- τ ΜΝ sinis inventas in quibus ‘peto landicam’ ‘pet(e) culum ν᾿ pa

| “laxe sede” (? pro laxa sede(m)) extant. Duae inter has —£qlandes aut formam ipsius phalli aut imaginem phalli in- _ sculptam habent. Cum verbo Κύττα ‘calculus’ vel ‘nux’ TPQI'ALION illud a Kentio prolatum, comparandum est.

Di. Epwin W. Fay.

Σὺ University Station, Austin, Texas.

618

A PROPOSITO D’UN LUOGO D’ARISTOTELE

Alla lezione degli editori ἀεὶ πλατυτέρα nei Meteorologica, II, 3 (ed. Berol. 358b 12}, benchè se ne ottenga un senso eccellente, si può opporre Vobbiezione che non rappresenta propriamente le lezioni dei codici.

Aristotele espone qui la sua teoria del mare. Dice che gli elementi, dei quali si compone il mare, cambiano costante- mente. Il sale del mare, così dice, deriva dalla terra, per mezzo d’esalazione e di conseguente pioggia. Alla tendenza dei fiumi di temperare sempre il mare si oppone la tendenza dell’evaporazione di renderlo ancor più salso, togliendo via moltissima acqua e pochissimo sale. Il sale, poichè deriva dalla combustione, porta seco, dalla terra al mare, del calore latente donde il calore del mare. do@v δ᾽ ἔξεστι 8 za τὴν κονίαν καὶ τὴν τέφραν καὶ τὴν ὑπόστασιν τῶν ζῴων 9 καὶ τὴν ξηρὰν καὶ τὴν ὕγράν καὶ τῶν ϑερμοτάτων ye 10 κατὰ τὴν κοιλίαν ζῴων συμβαίνει ϑερμοτάτην εἶναι τὴν 11 ὑπόστασιν. γίγνεται μὲν οὖν ἀεὶ πλατυτέρα διὰ ταύτην τὴν 12 αἰτίαν, ἀνάγεται δ᾽ ἀεί τι μέρος αὐτῆς μετὰ τοῦ γλυκέος " 13 ἀλλ᾽ ἔλαττον τοσούτῳ ὅσῳ καὶ ἐν τῷ ϑομένῳ τὸ ἁλμυρὸν 14 καὶ πλατὺ τοῦ γλυκέος ἔλαττον. διόπερ ἰσάζει ὡς ἐπίπαν 1 εἰπεῖν. ὅτι δὲ γίγνεται ἀτμίζουσα πότιμος καὶ οὐκ εἰς ϑά- 10 λατταν συγκρίνεται τὸ ἀτμίζον, ὅταν συνιστῆται πάλιν, 11 πεπειραμένοι λέγομεν. 18

Invece 461] ἀεὶ πλατυτέρα degli editori si trovano nei codici le lezioni seguenti : dei te καὶ ἑτέρα Vindobonensis phil. 100, Matritensis 41, Ambrosianus E. 93. sup.; ae τὲ πλατὺ καὶ eteou E,; ἀεὶ πλατύτερα E corr., Parisinus suppl. 314, H corr. ; dei te πλατύτερα F; ἀεὶ H,, N.

619

In tutti e tre i rami dello stemma (Vindobon., F; Matrit., Ambros., H, N; E, 314; vedasi Classical Philology, X (1915), pp. 194-201) occorrono τε, καί, e ἑτέρα, che stavano dunque verisimilmente nell’archetipo. Ma di queste tre voci τὲ sola- mente, 510 non m’inganno, appartiene al testo autentico.

Se det te πλατυτέρα è la vera lezione, bisogna che ve sia correlativo a δ᾽ (13), ἀνάγεται, per un cambiamento di co- struzione, essendo messo innanzi in tale maniera che la sua clausola pare essere parallela, non a dei πλατυτέρα, ma a γίγνεται μὲν οὖν x. τ. À. Bisogna allora che μέν si contrap- ponga a δέ (16). L’uso assai raro dei te e correlativi non avrebbe probabilmente cagionato delle difficoltà, se non fosse congiunto con un anacoluto ; la combinazione di questi rari correlativi e di anacoluto, suggerendo una correlazione fra δ᾽ (13) e μέν, avrebbe facilmente potuto, nel genitore del nostro archetipo, cagionare la correzione dei te καὶ πλατυτέρα, il zai essendo soprascritto. Questa correzione aveva lo scopo di schivare il τὲ dondolante e senza significato. Ma non schivò una seconda difficoltà: se mettiamo una virgola dopo οὖν, leggendo γίγνεται μὲν οὖν, dei te καὶ (= etiam) πλατυτέρα, o dopo τε, Ieggendo γίγνεται μὲν οὖν dei te, καὶ (= et) πλατυτέρα, bisogna sottintendere o γίγνεται o ἐστί, repren- sibili tutt'e due, l’uno perchè involge uno zeugma mezzo espresso (il γέγνεται iniziale intendendosi assolutamente, come nel commentatore Alessandro (ed. Hayduck, 68, 1)), e l’altro per causa della somiglianza dei due verbi.

Se è vero ciò che ho proposto, il καί soprascritto parve senza dubbio al copista del nostro archetipo essere una cor- rezione (o variante) di πλατυ-. Adottata questa correzione o variante se ammettiamo che non poteva essere difficile il supplire un ὃ- il copista scrisse poscia dei re καὶ ἑτέρα nella linea, e sopra la linea πλατυ-. La lezione dell’archetipo discese inalterata (1) nel genitore del Vindobonensis e di 7, e nel Vindobonensis, (2) nel genitore di £ e del Parisinus suppl. 314. F preferì la variante. E assorbì e la lezione del testo e la variante, slogando il πλατυ- ; il Paris. 314 (se la sua lezione non deriva dal correttore di £) preferì la variante e, emendando se stesso, omise il te. Il genitore dei quattro

ΤῊΝ

ΑΝ

PES AE .

a; =

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STE SR πρτεσν πος : "ER NERE

ei αἰ, È "3 τ λὰ

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SR

dle

620

codici restanti disprezzò la variante πλατυ- ; dei te καὶ ἑτέρα discese allora inalterato nel Matritensis e nell’Ambrosianus ; in H e N diventò ἀεί.

Se questi processi, che ho schizzato, non sono improba-

bili e a mio avviso non v'è improbabilità che in rapporto ad é rimane solamente da ricercare se dalla frase ἀεί te πλατυτέρα si ottenga un senso così plausibile come dalla frase ἀεὶ πλατυτέρα.

ἀλλ᾽ ἔλαττον (14) fino a εἰπεῖν (16) si può considerare come parentesi. ἀνάγεται δ᾽ x. τ. À., invece di essere correlativo (per zeugma) con πλατυτέρα, può farsi benissimo, come nelle edizioni, correlativo con γίγνεται μὲν οὖν x. τ. Δ. Ma la sen- tenza che incomincia con ὅτε γίγνεται ἀτμίζουσα πό- τιμος, si contrappone logicamente non meno a γίγνεται μὲν οὖν κ. τ. Δ. che a ἀνάγεται δ᾽ x. τ. λ., fatto che, oscurato dalla lezione degli editori, mi pare confermare decisivamente la lectio difficilior dei te πλατυτέρα.

Francis H. FoBEs.

Lexington, Mass., U.S.A.

AESCH. AG. 1119-1124

Di questo luogo fra i più oscuri e i più tormentati dalla critica del gran dramma eschileo sono state date molte e varie interpretazioni: ma soddisfano esse ? Rifacciamone in breve la storia e vediamo se è possibile gettare un po’ di luce.

Cassandra invasa dallo spirito profetico ha in visione la prossima e tragica fine del reduce eroe e grida al Coro atterrito le parole rivela- trici: ed esso raccapriccia e sbigottito prorompe nelle parole :

ποίαν ρινὺν τήνδε δώμασιν κέλῃ ἐπορϑιάζειν; οὔ με φαιδρύνει λόγος. ἐπὶ δὲ καρδίαν προκοβαφὴς δράμε σταγὼν, ἅτε καὶ δορὶ πτωσέμοις ξυνανύτει βίου

δύντος αὐγαῖς. ταχεῖα δ᾽ ἄτα πέλει.

3 Ho riportato i versi secondo il testo del Weil, ma la lezione genuina Lie : dei codici ci è data nell’edizione del Wecklein-Vitelli (vv. 1108-1114):

) ποίαν “Eguwdv τήνδε δώμασιν μέλῃ

È ἐπορϑιάζειν; οὔ ue φαιδρύνει Adyos. Ba ἐπὶ καρδίαν ἔδραμε κροκοβαφὴς μ᾿ σταγὼν, ἅτε καὶ δορία πτώσιμος ξυνανύτει βίου

δύντος αὐγαῖς. ταχεῖ-

α δ᾽ ἄτα πέλει.

pod Il senso dei primi due versi è facile: “quale Erinni chiami tu n levarsi su questa casa? Le tue parole non mi fanno lieto., oppure, «| ‘come vuole l’Ubaldi, e mi sembra più esattamente, qual'è questa Erine

che tu ecc. chiami,

La difficoltà comincia a voler tradurre la similitudine che segue, e questa difficoltà, se ci si attiene alla lezione dei codici, è insormonta- bile in quel ἅτε καὶ dogia πτώσιμος, Solo l’Heathius vuol tentare una traduzione mantenendo quel δορία, a cui il valore di δοριάλωτος, e mutando però il xa e l’adyaîs dei codici rispettivamente in γᾷ

622

e in αὐγὰς, e spiega: “atque etiam captiva haee'humi procumbens una deliquio perdit vitae occidentis splendores ,. Ch. G. Schiitz, che riporta questa versione combattendola, aggiunge : Fingit nimirum Cassandram post v. 1126 [We 1118] animi deliquium passam et collapsam esse ,.

Ognuno vede che a parte l’arbitraria interpretazione, non sorretta da testimonianze, di dogia per δοριάλωτος lo sforzo dell’Heathius per man- tenere il δορέα πτώσιμος dei codici è vano : non se ne ricaverebbe alcun senso possibile. Per questa ragione fu esclusa da tutti la lezione δορία e accettato da molti l'emendamento del Casaubon e dello Stanley: δορὶ πτωσίμοις.

Il De Pauw dice che per ottenere un senso bisogna modificare così il testo: Φιαγὼν, ἅτε κ᾽ avogéa πτώσιμος, Evvaviter βίου δύντος adyds, e traduce così: “stilla, quae ipsi strenuitati caduca interimit vitae oc- cidentis radios ,. Il De Pauw ad ἄνύτειν e a ξυνανύτειν il significato di interimere, occidere, ed aggiunge : sic ἔννοια est Tragica et Tragica etiam sunt ipsa verba. Ex viris constabat Chorus, sed senibus, quibus fvogéa iam exciderat, quique proinde ita hic loquuntur apte,. Ma chi oserebbe sostenere, anche a non voler discutere sul liberissimo ri- maneggiamento del testo, di aver con ciò spiegato il passo di Eschilo ?

Vediamo invece che dice un altro e dotto commentatore di Eschilo : Ch. G. Schiitz. Egli nota: his verbis inest summi timoris et anxietatis descriptio. Praecordia autem nostra invadit gutta ceroco tinceta, qualis etiam iis, qui proelio cadunt, eorum scilicet oculis effusa, occidentis vitae radios condit ,. Accettiamo per un istante le parole dello Schiitz, ne uscirebbe questa strana similitudine: che al Coro il sangue (poichè son tutti d'accordo che per crocea goccia 5᾽ intenda il sangue) si ritira nel cuore, così come il sangue vela gli occhi dei moribondi. Sincera- mente io non scorgo i termini del raffronto, nemmeno colle parole, che lo Schiitz aggiunge per spiegare meglio il suo pensiero : ut enim iis qui Azodvuiav patiuntur, sie moribundis fere accidit, ut oculis eorum varii colores offundantur. Nostri dicunt: Es wird ihnen griin und gelb vor den Augen ,.

G. Hermann propone di emendare il testo in questa maniera: ἅτε γᾷ δορὶ πτώσιμος e dando a ξυνανύτει il retto significato di desinit pre- tende di aver risolto così il problema: tangit cor meum purpurea gutta, quae ferro humi profusa cum occidentis vitae lumine finiet ,. La sosti- tuzione del γᾷ al καὶ è molto comoda, ma nessuno sosterrebbe che essa sia altrettanto legittima; già lo Schneidewin diceva strana questa inter- pretazione del Hermann, accolta invece dal Dindorf nell’edizione Didot di Eschilo e da E. A. Ahrens, che nella stessa edizione traduceva: gutta, quae per hastam in terram profusa cum intereuntis vitae radiis commoritur ,.

Une Umm τον κοσπθν σένα rv 177 A E E TI E I e e E e

I

623

Lo Schneidewin non crede di dover leggere secondo i codici αὐγαῖς, ma αὐγὰς e interpreta che al Coro per l’angoscia mortale il sangue giallastro scese nel cuore così come esso esce gialloverde dagli occhi di chi muore improvvisamente. Neli’ Appendice poi lo Schneidewin pro- pone un altro emendamento, ossia di sostituire a καὶ dogè un καιρίᾳ ed il verso significherebbe: come i caduti lasciano uscire il sangue gial- lastro insieme al raggio della vita che se ne va,.

Im questa versione come in quella dello Schiitz, seguìta dal nostro Bellotti quando traduce :

SR e intorno al cor rapido il sangue corre, come a’ trafitti, a cui su gli occhi offusca i rai della cadente vita

io non capisco a che cosa si riduca o in che si voglia più far consistere la similitudine eschilea. Che senso ha mai dire che il sangue ritira nel cuore così come δὲ ferma sugli occhi dei caduti in guerra ad offu- scare i raggi della cadente vita? La similitudine io non la vedo più e mi appare solo una frase senza senso comune.

Per non correre questo pericolo il Wilamowitz, nel vol. II delle sue Griechische Tragoedien (1), ci di questo brano una versione che non corrisponde al testo greco ; eccola :

Welch’ einen Fluchgott heisst du ber dieses Haus frohlocken? Deine Rede bringt mir keinen Trost. Eiskalter Hauch

zieht lihmend durch die Adern mir.

So fasst der starre Frost

totwunder Krieger wenn des Lebens Schimmer weicht. Rasch kommt der Tod.

Dopo ciò, tralasciando altre proposte di minore importanza, m’affretto ad esprimere modestamente il mio parere. Anzitutto cerchiamo di con- servare più che è possibile la lezione dei codici anche in questo brano in cui troppi si sono abbandonati voluttuosamente al piacere degli emen- damenti. Un solo d’essi è necessario perchè il codice è evidentemente errato : è quello, del Casaubon e dello Stanley, di mutare il δορία πτώ- σιμος in δορὶ πτωσέμοις : tutte le altre correzioni sono state fabbricate

(1) Devo far notare che nel recente volume del Wilamowitz Aeschylos Interpretationen (Berlin, 1914) non si accenna al passo in questione ; e nell’altro volume dello stesso Aeschyli Tragoediae (Berl., 1914) si leggono, in nota al v. 1123, poche parole già altra volta scritte dal Wil. e da me discusse.

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arr

Di arbitrariamente e inutilmente. Io parto quindi dalla lezione così come δον ce l’offre anche l’Ubaldi nella sua bella e recente edizione italiana : Di;

i AD ἐπὶ δὲ καρδίαν ἔδραμε κροκοβαφὴς

«RA r o x x , i

J γι σταγών, ἅτε καὶ δορὶ πτωσίμοις i PREVIA ξυνανύτει βίου

δύντος αὐγαῖς. ταχεῖα δ᾽ ἄτα πέλει.

Il Coro aveva appena sentito una profezia terribile, tanto terribile ch’era per lui come aver ricevuto improvvisamente un colpo formidabile, mortale. E il poeta colle sue parole vuol esprimere solo questo e per rappresentarlo meglio ricorre a una similitudine. Anche noi, per dire che abbiamo provato una grande paura, usiamo. due frasi; o diciamo “il sangue mi si è gelato nelle vene ,, o usiamo l’altra espressione “non ho più sangue nelle vene ,. È evidente a voler tradurre anche le sole prime parole che qui Eschilo fonda la sua similitudine sulla seguente immagine : il Coro per la paura provata non ha più sangue nelle vene. Invece di dire semplicemente così Eschilo dice, il che è lo stesso, che il sangue si è tutio ritirato nel cuore. Traduciamo let- teralmente: “la crocea stilla corse al cuore ,. Il Wilamowitz non ripro- duce l’immagine di Eschilo perchè all'immagine del sangue che si è ritirato dalle vene del Coro per il colpo improvviso sostituisce l’altra

TA del sangue che si gela nelle vere: ma essa non apparisce affatto dal

se testo greco. Così il Wilamowitz viene ad allontanarsi dallo spirito e È A dalla lettera del testo greco, mentre a spiegazione della sua versione È ì egli nota semplicemente che “der gelbe Tropfen ist die Kilte erzeu- Ag gende Galle, e rimanda a pag. 176 delle sue Coefore ove riporta l’an- tica credenza che la bile si forma quando una flussione dal capo discende ' Ϊ

ἣν nel petto, il che è un effetto di freddo. Ed io dubito che il Wilamowitz [ Aa abbia fatto tutto questo ragionamento per certe parole del vecchio | ir. - Schitz, dove questi dice: “gutta croco tincta ex flavae bilis, ut tum.

putabant, in sanguinem effusione ,.

Ma ritorniamo a questa benedetta similitudine. Il poeta vuol dire, ripeto, che il Coro per il colpo improvviso non ha più sangue nelle ΐ vene, come chi venga colpito improvvisamente in battaglia. È chiaro, ' secondo me, che la chiave di tutta la similitudine sta in quel ξυνανύτει È che fu variamente interpretato. Paolo Ubaldi nel suo comento traduce : _2 “e (a me) la crocea goccia affluisce al cuore, la quale ... finisce (= si PI ferma) con i raggi della cadente vita ,. O forse meglio, osserva ancora È: l’Ubaldi, è intendere ξυνανύτει non già si ferma, ma compie l’ultimo 9 | atto con. n:

Tradotto così il ξυνανύτει la similitudine non esiste più e lo stesso Ubaldi la sopprime nella versione che ho dato sopra, 0, se poco dopo Ò

di istituire la similitudine, allora si accosta alla versione del Wi-

imowitz, ma si discosta dal testo greco. Secondo me, ripeto, conviene legare quel SIE a cui non darei il valore, certamente legittimo,

R LEA, finisce ,, di si ferma, come fa l’Ubaldi, tanto meno quello ingiustificato di condit, interimit, offusca, vela , che ho già notato per Ξυνανύτω è usato qui soltanto e συνανύω è di uso assai raro : lo ado-

E perano, se non erro, solo Plutarco nelle vite di Alcibiade e di Lisandro | e Aristotele. Il semplice ἀνύω è molto usato nel senso di condurre a 3 termine, compiere ecc. ,, ma anche, e specialmente presso i tragici, nel

| senso di verbo di moto andure, viaggiare ecc. , ; a me sembra che possa quindi aver non solo il valore di perficio, perago, conficio ecc., ma anche

quello del latino cedere, che se significa riuscire, aver effetto, significa pure andare, sparire. Ed il composto συνανύω perchè dovrebbe avere solo il significato che ci danno concordi i vocabolari di simul efficio, simul perficio , 0 mit, zugleich vollenden, vollbringen ,, e non potrebbe | avere il significato del latino concedere? Il ξυνανύτει si riferirebbe ad adyaîs così come concedere nell'accezione di ritirarsi, allontanarsi da, scomparire , richiede l’ablativo. Il dativo αὐγαῖς si spiega in due modi: o esso è retto da quel σύν di cui è composto il verbo e il ξυνανύτει si- gnificherebbe cessa di essere insieme con , quindi anche svanisce, scomparisce da ,, oppure il dativo αὐγαῖς è un dativo di luogo e il ξυνανύτει αὐγαῖς vale: “il sangue svanisce, scomparisce negli occhi , | ossia “nel viso,. Ma la prima interpretazione mi sembra migliore e | più naturale.

Ora se così si può spiegare il συνανύω (e l'analogia col latino mi sostiene nell’idea), tale potrebbe essere il senso del travagliato brano eschileo : il Coro, che ha udito le profetiche parole di Cassandra, ne ha

ricevuto un colpo in pieno petto e per quest’improvviso colpo non ha

più sangue nelle vene; il sangue si è ritirato al cuore così come (tra- duco letteralmente) il sangue scomparisce dal viso anche ai colpiti in guerra, allor che si spegne la vita.

Così la similitudine avrebbe l’intero valore di una similitudine e l’im- magine si accrescerebbe di tragicità. Il Coro non si accontenta di dire che la paura gli ha tolto il sangue dalle vene, ma aggiunge che esso è scomparso come scompare dagli occhi, ossia dal viso, di chi muore trafitto in battaglia. Una tale similitudine dipinge a meraviglia l’effetto delle parole di Cassandra sui vecchi d’Argo. Essi, a parole tremende e inaspettate, rimangono fissi, immoti, senza vista, coll’espressione ter-

| ribile dei morti dagli occhi vitrei, esangui. Ταχεῖα δ᾽ dra πέλει.

Gran Lurer Brsorri.

Rivista di filologia, ecc., XLIII. 40

RECENSIONI

P. Masqueray. Bibliographie pratique de la litterature grecque, des ori- gines la fin de la période romaine. Paris, C. Klineksieck, 1914, di pagg. v-334.

Da ciò che l’autore dice, nelle prime linee della prefazione, dell’im- preparazione bibliografica degli studenti della facoltà di lettere del- l’Università di Bordeaux, dove egli è professore di letteratura greca, noi italiani possiamo dedurre con legittimo orgoglio che le cose vanno assai meglio da noi, e non soltanto ora. Ricordo che fin dal 1882, la bellezza di trentatrè anni fa, quando io conseguii la laurea in lettere, quelli fra noi laureandi nell’ Università di Torino che studiavano, cioè che studiavamo, non incontravamo soverchie difficoltà nel campo biblio- grafico per i nostri lavori; consultavamo assai spesso la farraginosa Bibliotheca scriptorum classicorum dell’Engelmann già nell’edizione del Preuss, e facevamo lo spoglio di riviste filologiche straniere, il Hermes, il Philologus, il Rheinisches Museum, la Revue de philologie con la sua Revue des Revues, ecc.: non c'è che da gettare uno sguardo sulle nostre prime pubblicazioni, valgano scientificamente quello che valgono, per persuadersi che avevamo davvero, come suol dirsi, le mani in pasta. S'intende che si era incominciato parecchi anni innanzi del fatto sono prova innegabile i primi lavori del Barco, dell’ Eusebio, del Ferrero, dello Stampini, del Cerrato, del Ramorino e di altri laureati in lettere a Torino, per non parlare che di una sola nostra Università, prima di noi e si continuò poi sempre di bene in meglio, man mano che fra gl’insegnanti universitari si affermavano nuovi valori e le condizioni delle nostre biblioteche venivano migliorando. Al progresso contribuì anche largamente l’istituzione delle biblioteche delle scuole di magistero delle facoltà di lettere, biblioteche delle quali alcune, fra cui quella dell’Ateneo torinese, mercè il costante interessamento, che sa superare ogni sorta di ostacoli e di difficoltà, dei loro direttori, sono divenute ‘veri modelli del genere ”.

Ma torniamo, anzi veniamo al libro del Masqueray (al quale chiedo

è A dici 3 P = δ} ere e DE renne ii ri ee te pe n ΚΜ n AD

scusa della digressione; me ne ha dato occasione egli stesso, pur senza volerlo), che è stato certamente molto ben concepito e renderà senza dubbio ottimi servigi ai giovani e potrà essere utile anche ai professori. ΤΠ Masqueray però ha lavorato soltanto per i giovani; a cui ha inteso di fornire su tutti gli scrittori greci, principalmente su quelli più letti, le notizie pratiche indispensabili. Leur indiquer sur chaque auteur

le livre capital, l'article important, l’édition dont il faut se servir, le manuscrit,..., auquel il est nécessaire de remonter; puis, leur dire pour chaque auteur, pour chaque ouvrage, ce qu’on sait, ce qu’on ne sait pas, ce qu'on cherche, les principales questions qu’on tàche de résoudre ,. Come si vede, lo scopo del Masqueray è lodevole in sommo grado potrebbe essere più pratico; e che egli lo abbia pienamente raggiunto è cosa da non mettere nemmeno in discussione. Ma il suo libro è una bibliografia, e le bibliografie sono per forza sempre imperfette, cioè lacunose, e anche fanno nascere in chi le studia certi dubbi che non si sa come sciogliere.

Comincio da questi. Io non riesco a comprendere perchè il Masqueray (intendiamoci però bene fin da principio : non gliene faccio carico) cita l'edizione dell'Iliade e di Anacreonte dello Zuretti, di Bacchilide del Taccone, di Eschilo, © Sette a Tebe”. dell’Imama, di Euripide, © Alcesti del Brugnola, di Isocrate, © Per la pace’, del Tincani, e © Panegirico ’, del

?

Setti, di Licurgo del Cima, di Lisia di Ferrai-Fraccaroli, di Luciano del Setti, di Senofonte, ᾿ Memorie socratiche’, di Corradi-Landi, e nes- suna delle altre edizioni della medesima collezione Léscher. E fra queste altre ci sono Eschilo, ᾿ Persiani’, dello stesso Inama, Antologia della Melica greca dello stesso Taccone, quattro opere di Platone degli stessi Ferrai- Fraccaroli-Zuretti. O tutte o nessuna, dico io; hanno tutte (come del resto avviene per ogni collezione) i loro pregi, hanno tutte i loro difetti; e purtroppo qualcuna di quelle citate dal Masqueray è assai meno pregevole di altre che egli non ricorda. A ogni modo, l’edizione scien- tifica, che può reggere al confronto con qualunque straniera, nessuna eccettuata, del Cesareo dell’°Antigone’ di Sofocle è addirittura doveroso registrarla. E perchè mai accanto al Nazari, Il dialetto omerico. Gram- matica e Vocabolario (questo è il titolo esatto) non figura il Bonino, Manuale omerico (Torino, Clausen, 1893)? nel quale per giunta è detto anche della prosodia e della metrica. Qua e trovo citate traduzioni italiane; poche, naturalmente, in una bibliografia che deve servire a studenti universitari francesi, ma quelle poche ci sono. E mi domando per qual ragione non si accenna alle traduzioni, due capolavori, del Fraccaroli di Pindaro (Verona, Franchini, 1894) e del Romagnoli di Aristofane (ora si dovranno citare anche le seconde edizioni, dell'Istituto editoriale italiano di Milano). L’Aristofane fa parte della stessa colle-

zione, IZ pensiero greco (Torino, Bocca, 1906-1914), a cui appartiene l'Eraclito del Bodrero, noto al Masqueray. Ne fanno parte anche e vanno registrate le traduzioni del Fraccaroli / lirici greci (Elegia e giambo. Poesia melica), Platone, “Il Timeo” e “Il sofista e l’uomo politico’; e del Taccone Teocrito. Non parlo del Calderini, Caritone di Afrodisia, ‘Le avventure di Cherea e Calliroe’, perchè il Masqueray dei roman- zieri non si occupa, e aggiungo che egli non poteva, se mai, citare la Poesia melica tanto meno Teocrito, i due volumi essendo usciti troppo tardi per lui. Sarà per una nuova edizione della sua Bibliographie, e le traduzioni ricordate dovranno o dovrebbero comparire tutte (meno, s'intende, quella del Calderini), sia per sono fra le nostre migliori, mentre fra quelle che il Masqueray registra ve ne ha di poco buone sia soprattutto per gli ampi prolegomeni e i commenti filologici. Sono notizie coteste che avrebbe potuto procurarsi e dalla nostra Rivista e specialmente dal Bollettino di filologia classica del Valmaggi è davvero spiacevole che non lo conosca, trattandosi di un periodico che ha oramai più di venti anni di vita ed è per eccellenza bibliografico e da altri periodici italiani. Egli invece si è limitato troppo spesso a consultare quelli tedeschi, che alla bibliografia italiana fanno sempre poca parte e non sono certo informati intorno alle cose nostre come siamo noi, e talora danno giudizi errati o addirittura falsi, non di rado con lodi fuori posto e con appunti o insulsi o ridicoli. Mi prendo la libertà di con- sigliare il Masqueray a fare, per una seconda edizione della sua opera, lo spoglio dei nostri periodici di filologia classica, compresi quelli ces- sati, fra cui la Rivista di storia antica e scienze affini del Tropea e Classici e neolatini del Pellini, e dei Rendiconti e delle Memorie delle nostre Accademie e degli Annali delle nostre Università: ciò che lo metterà in grado di colmare non poche lacune. Ne indico qualcuna, anche di pubblicazioni non italiane, restringendomi però, per economia di spazio, a dire dei soli poeti della période créatrice pp. 21-124, esclusa quindi anche l’introduzione, chiamiamola così, della Bidliographie: Ou- vrages généraue, dove pure ho notato parecchie omissioni e citazioni di opere oramai inutili e, comunque, antiquate. Seguo l’ordine del Masqueray.

Questione omerica: M. Valeton, De Iliadis fontibus et compositione in Mnemosyne XL. 1912 e sgg. V. Inama, Omero nell’età micenea. Milano, Hoepli, 1913. Lavori speciali intorno a Omero: C. 0. Zuretti, La percezione visiva in Omero in questa Rivista XXVIII. 1900, pp. 369-405. G. Setti, 11 paese e la caccia in Omero, ib. XXIX. 1901, pp. 193-248. Dell’Omero del Drerup è preferibile all’originale tedesco la traduzione italiana (Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1910) con aggiunte dell'autore e appendice del Pernier.

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Mt. "NR

629

Il cielo epico. Edizione dei frammenti: Th. W. Allen, Homeri opera, V

: (Oxonii, Clarendon, 1912), pp. 93-147 (-151, e Additions to the Epic Cycle

in The classical Review XXVII. 1913, pp. 189-191), da citare anche per la Batracomiomachia, il Margite e le altre composizioni poetiche attribuite

τα Omero, pp. 152-183. Lavori da consultare: E. Romagnoli, Proclo

e il ciclo epico in Studi italiani di filologia classica IX. 1901, pp. 35-123. C. Cessi, De cyclo epico atque homerico in Classici e neolatini VIII. 1912, pp. 155-169. U. Mancuso, La ‘Tabula iliaca” del Museo Capitolino in Memorie dell’Accademia dei Lincei. Scienze morali..., s. V, vol. XIV. 1911, pp. 662-731. Dello stesso Mancuso va registrata a suo luogo l’opera La lirica classica greca in Sicilia e nella Magna Grecia. Pisa, Nistri, 1912.

G. Setti, Esiodo (Modena, Formiggini, 1911?) con Bibliografia?. E. Meyer, Hesiods Erga und das Gedicht von den fiinf Menschengeschlechten in C. Robert...: Genethliakon (Berlin, Weidmann, 1910), pp. 157-187. A. M. Pizzagalli, Mito e poesia nella Grecia antica. Saggio sulla Teogonia di Esiodo. Catania, Battiato, 1913.

Poesia lirica: E. Piccolomini, La simulata pazzia di Solone e Velegia ZaRauis in Museo italiano di antichità classica del Comparetti, II. 1887, pp. 509-558. Arnaldo Beltrami, Spirito giudaico e specialmente essenico della Silloge Pseudofocilidea in questa Rivista XLI. 1913, pp. 513-548, e Studi Pseudofocilidei. Firenze, Brogi-Buccianti, 1913. G. Setti, Archiloco ed Omero. Messina, D'Amico, 1897 (estratto dalla Rivista del Tropea, Il); e dello stesso, Simonide di Ceo e l'autenticità de’ suoi epigrammi (a pro- posito del libro dell’Hauvette, citato dal Masqueray a p. 62) in questa

| Rivista XXVIII. 1900, pp. 471-482. D. Comparetti, Saffo nelle antiche

rappresentanze vascolari in Museo ital. cit. 11. 1886, pp. 41-80. G. Frac- caroli, Bacchilide in questa Rivista XXVI. 1898, pp. 70-113; e dello stesso, ib. XXXIX. 1911, pp. 223-236: Note critiche ai ° Persiani’ di Timoteo. E. Romagnoli, Bacchilide. Saggio critico e versione poetica. Roma, Léscher, 1909. Per i frammenti dei lirici: Frammenti della Melica greca da Terpandro a Bacchilide, riveduti, tradotti ed annotati da L. A. Michelangeli. Bologna, Zanichelli, 1882-97.

Il teatro: F. Guglielmino, Arte e artifizio nel dramma greco. Catania, Battiato, 1912. F. Cipolla, Della religione di Eschilo e di Pindaro in questa Rivista VI. 1878, pp. 366-418. Ch. R. Post, The dramatie art of Sophocles in Harvard Studies in classical Philology XXIII. 1912, pp. 71-127. Per la bibliografia relativa all’Aiace e all’Antigone in particolare, dove nel Masqueray ci sono parecchie lacune che vanno assolutamente colmate, mi permetto di rimandare alle mie recentissime edizioni scola- stiche delle due tragedie. A. Taccone, Sophoclis tragoediarum locos

. melicos... descripsit... Torino, Clausen, 1905; e dello stesso, L’"Antiope’ di Euripide in questa Rivista XXXIII. 1905, pp. 32-65, 225-263. W. Crònert,

RA),

630

Die Medeia des Neophron,... in Archiv fir Papyrusforschung... III. 1906, pp. 1-5. Su gli Uecelli di Aristofane è registrafo del Setti uno solo dei tre articoli che egli vi dedicò; occorre citare anche gli altri due, per cui v. in questa Rivista XXXVIII. 1910, p. 576. Con gli articoli del Setti sono da ricordare anche i vari del Romagnoli, del quale a me sembra addirittura indispensabile che sia fatta menzione del lavoro Origine ed elementi della commedia di Aristofane in Studi italiani ecc. XIII. 1905, pp. 83-268.

Potrei indicare altre pubblicazioni sfuggite al Masqueray, ma il tempo stringe e lo spazio manca (una ancora però credo di non dover passare sotto silenzio: C. Cessi, La poesia ellenistica. Bari, Laterza, 1912), e del resto ho voluto dare soltanto un saggio delle lacune. Che le lacune siano tali e tante da scemar valore all'opera del dotto e laborioso grecista dell’Università di Bordeaux s'intende da che va escluso in modo assoluto; e come non ne scemano il valore, così non ne diminuiscono punto l'utilità. Tuttavia è certo che la sua Bibliographie pratique sarebbe più pregevole e quindi anche più utile se registrasse talune pubblica- zioni che in un libro di tal genere debbono figurare, quasi direi, per forza.

Il Masqueray, a cui bisogna essere molto grati per l’eccellente stru- mento di lavoro che ha procurato agli studiosi, vedrà quale conto può fare delle mie osservazioni; io sono disposto a fornirgli privatamente altre indicazioni esatte (in una bibliografia l’esattezza è un requisito necessario in sommo grado), e a richiamare anche la sua attenzione su parecchi errori di stampa che ho notato qua e la. Il suo libro avrà senza dubbio una seconda edizione, ed è facile prevedere che sarà di gran lunga migliore della prima.

Napoli, 23 agosto 1915.

Domenico Bassr. ti

Arisrorane. Gli uccelli, con note del prof. Silvio Perini. Città di Castello, S. Lapi, 1913, di pagg. 216 (Collezione di Classici greci e latini. Serie greca. N. 2).

Eccellente edizione scolastica, fatta con molta cura e con piena cono- scenza di tutto ciò che si richiede per un commento destinato agli alunni dei nostri licei. Era facilissimo trasmodare, pubblicando una comedia di Aristofane, così nell’introduzione come nelle note; il Pellini non ha trasmodato mai.

L'introduzione, o prefazione, L'argomento e il significato della com- | p ; 80:

631

«media ,, non potrebbe essere, data l’indole scolastica del lavoro,

migliore più sobria. L'argomento è esposto con una chiarezza e un ordine e una precisione addirittura ammirabili; e in modo altrettanto pregevole è detto del significato degli Uccelli. Il Pellini coscienziosa- mente dichiara ciò che purtroppo non tutti fanno di essersi valso delle pubblicazioni altrui; e tiene a far sapere che qua e ha riportato quasi ad litteram giudizi e commenti del Romagnoli e del Setti, poichè non si potrebbe dir meglio di loro’: è giusto e non c'è nulla da eccepire. Anche si è valso del Comparetti, di cui reca testualmente alcune linee riguardanti il personaggio del πατραλοίας, come ne reca, ora tradotte ora nell’originale, di Paul De Saint Victor, Les deux masques, infra- mezzate con osservazioni proprie, buone e quali appunto si desidera trovare in un libro per le scuole.

Per le scuole è adatto, quanto mai, il commento, dove il Pellini con sano criterio non ha esitato a inserire anche note di grammatica elemen- tare, relative a casi di anastrofe, di crasi, ece. È vero: son cose che i giovani debbono sapere; ma possono averle dimenticate, ed è pur sempre bene spianar loro la via a intendere subito, e del resto il lin- guaggio di Aristofane non è quello di Senofonte. Anche in edizioni com- mentate scientifiche straniere di classici greci, non esclusi i prosa- tori, s incontrano note dello stesso genere. Il commento del Pellini è copioso, come” è necessario che sia per una comedia di Aristofane da leggersi nelle classi liceali (tuttavia può giovare anche agli studenti delle nostre facoltà universitarie di lettere), ma non ha nulla di soverchio, d’inutile. Spiega, chiarisce, illustra tutto in modo semplice, piano, perspicuo; scioglie ogni dubbio; mette il giovane in grado d’intendere ogni cosa di primo acchito e di penetrare nel pensiero del poeta. Insomma è un lavoro per ogni riguardo meritevolissimo, coscienzioso e in gran parte anche originale. Delle sue fonti, fra cui l’ottima traduzione del Romagnoli e gli studi critici dello stesso, del Piccolomini, del Setti, e di altri, il Pellini ha fatto largo uso, pur tenendosi sempre entro quei certi denique fines, che troppo spesso è assai facile, e anche comodo oltrepassare.

Questo annunzio del libro del Pellini io lo avevo già in pronto, quando mi giunse dolorosissima la notizia della sua morte. Povero e buon amico! Era nato a Milano il 6 luglio del 1867 e si spense a Veggia (Reggio Emilia), fra le braccia della eletta donna, che gli fu per diciannove anni compagna nobilissima della vita, il 14 luglio us. Dottore in lettere, egli

fu dapprima supplente nel ginnasio Parini della sua città, dove lo co-

nobbi e ci stringemmo di sincera amicizia, di cui io ebbi non dubbie prove. Poi insegnò nelle classi superiori dei ginnasi di Mazzara del

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Vallo (1894), di Casalmaggiore (1895) e di Novara (1899), donde passò | (1903) ad Aosta, come professore di greco e latino nel liceo, e da Aosta per concorso a Modena (1912). Fu, senza discussione, uno dei nostri migliori docenti di filologia classica nelle scuole medie, fornito di una cultura larga, sicura, profonda, che aveva acquistata e arricchiva ogni giorno più con uno studio indefesso. Lavoratore di un’attività addirittura prodigiosa esercitò in vari campi delle discipline classiche il suo forte ingegno. Diede alle stampe numerosissimi opuscoli e volumi, il cui elenco potrebbe essere a mala pena contenuto in due pagine della Rivista: tavole sinottiche della storia delle letterature greca e latina, esercizi di versione e nozioni di sintassi e stilistica latina per le classi ginnasiali, lavori esegetici e critici intorno a vari autori greci e latini, traduzioni, paralleli letterari, manuali di bibliografia, testi inediti, studi paleogràafici, ricerche linguistiche, indagini storiche, tutta una rigogliosa messe di pubblicazioni in più modi utilissime. Da parecchi anni aveva ripreso ad occuparsi degli Umanisti, che erano stati oggetto delle sue prime cure; e nel 1911 in collaborazione con un altro professore compilò un’opera molto pregevole in due volumi, Humanae litterae: I. Prosatori e poeti latini del Rinascimento, con introduzioni storico—letterarie e biblio- grafiche. II. Temi tratti dagli Umanisti dei sec. XV e XVI e tradotti in italiano per uso di retroversione. Fondò per puro amore della scienza, a sue spese, e diresse con larghezza di vedute, senza odiosi esclusivismi di scuole, serenamente, coscienziosamente un periodico trimestrale, che- attirò subito l’attenzione e incontrò, come meritava in tutto e per tutto, il favore degli studiosi: Classici e Neolatini. Gli diede egli, il Pellini, molte delle cose sue, articoli, dirò così, di curiosità, di poche linee, e studi poderosi; vi collaborarono anche professori universitari, fra cui il Rasi, il Valmaggi, il Michelangeli, il Cessi, il Taccone, il Giri. Ne uscirono otto annate (1905-1912) con parecchie Appendici. In principio dell’anno corrente il Pellini, non ostante la malferma salute, intraprese la pubblicazione di un altro periodico, scolastico questo, Optimae litterae, con saggi di versioni dal greco e dal latino e notizie di vario genere; non ne venne a luce che il primo fascicolo.

Con gli occhi della mente lo rivedo, il mio caro amico, curvo sui mano- scritti dell’Ambrosiana e della Trivulziana; lo rivedo in casa sua, a Milano, fra’ suoi libri, che furono con la scuola e la famiglia il grande amore della sua vita troppo breve; lo stringeva veramente “gran desio di sapere’. Nel febbraio del 1914 di ritorno da un viaggio di salute in Sicilia con la sua buona signora fu a trovarmi e mi parlò di vari lavori che aveva in pronto, commenti a classici greci, studi su Aristofane, un volume di soggetto umanistico, un altro, se ben ricordo, di raffronti fra l'italiano e il francese, che credo abbia pubblicato pochi

e; e

mesi prima di morire. Non vedeva l’ora di rientrare fra le quiete pareti

del suo studio, di rioccupare la sua cattedra nel liceo di Modena, di 3 x riprendere l'insegnamento, al quale era affezionatissimo. 25 Galantuomo a tutta prova, di carattere mite, d'animo sincero, con i suoi modi affabili e garbati seppe conciliarsi la stima e l’affetto di quanti lo conobbero; i suoi allievi ebbero per lui una vera venerazione. Onore alla sua indimenticabile memoria!

Napoli, 14 agosto 1915. Ra x Domenico Bass.

RASSEGNA DI PUBBLICAZIONI PERIODICHE

Classical Philology. X. 1915. 1. G. Mrtter CaLHoun, Perjury before Athenian arbitrators, pp. 1-7 [A proposito dello pseudo-Demostene contro Formione 19 οὐ γὰρ ὅμοιόν ἔστιν ...d τι ἂν βούλωνται : da testi-

monianze antiche risulta in modo indubbio che non si procedeva legal- mente contro chi spergiurasse davanti agli arbitri), E. TruespELL MerriLL, The tradition of Pliny's letters, pp.8-25 [Plinio pubblicò le sue lettere non singolarmente, ma in tre o quattro gruppi (forse I-II, II-VI, VII-IX) a successivi intervalli fra gli anni 97 o 98 e 108 o 109. Così l’intero corpus fu completato e edito prima che Plinio si met- tesse in viaggio per la Bitinia. Eccettuato Apollinare Sidonio (circa 430-80), bisogna giungere fino a Raterio (890-974) per trovare menzione delle lettere di Plinio; prima di Raterio non ve ne ha alcuna diretta indiretta. La nostra tradizione manoscritta risale al secolo IX e si divide in tre famiglie di codici, le quali comprendono le lettere distribuite nella prima in 9 libri, nella seconda in 10, nella terza in 8. Rassegna dei manoscritti principali di ciascuna famiglia con . motizie storiche sulla loro provenienza e altri cenni di vario genere]. di È 1. P. Posreate, Observations on Latin poets, pp. 26-33 [1. Terenzio | Andria 971-972: num... uoluit ? non ha nulla a fare, come altri erede, | con Menandro fr. 734 K. (a cui richiamano invece Accio ad. | praetext., Brutus II, 29 R. o Lucrezio IV 962 sgg.), bensi va confron- tato con Plauto AmpàA. 697 sg., Capt. 848, Pseud. 385 sg., Publio

METIS ΚΗ ΤΣ E EOS BOT Τῶν ΟΣ TE

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Siro 14, Lucrezio III 1047 sg., Quintiliano 1. O. VI 2, 30, a proposito di somniat uigilans; tutti cotesti luoghi stanno a dimostrare che somniat è da unire a uigilans per iperbato. 2. Lucrezio II 391 sgg.: 398 va posto immediatamente dopo 391 con virgola dopo semina, virgola che non ci vuole dopo artus 3. ib. 894-980: 912-918 vanno posti fra 893 e 894; quindi si avrà 893. 912-918. 894-911. 919 sgg.]. Arven B. West, The chronology of the years 432 and 431 B. C., pp. 34-53 [Rivolta di Potidea e partenza per mare di Archestrato, circa 25 marzo. Arrivo di Callia in Macedonia, circa 25 aprile. Arrivo di Aristeo a Potidea, 4-8 maggio. Battaglia di Potidea, decimo mese, circa 15 maggio. Spedizione di Formione, circa 15 giugno. Spedizione di Eucrate, prin- cipio di settembre. Concilio a Sparta, agosto. Sinodo a Sparta, settembre. Attacco di Platea, 5 marzo. Invasione peloponnesiaca, circa 27 maggio. Partenza della flotta ateniese, 27 giugno. Partenza dei Peloponnesii dall’Attica, circa 1 luglio), {. J. ScuLicuer, The historical infinitive. III. Imitation and decline, pp. 54-74 [(Continuazione v. Rivista fasc. preced. p. 394 e fine). Valerio Flacco, Stazio, e Silio Italico nell’uso dell'infinito storico imitano Virgilio. Tornano a usarlo i poeti cristiani, fra’ quali e i tre poeti pagani nominati non c’è che Claudiano che lo adopera, ma alquanto liberamente. I prosa- tori dell’età imperiale hanno tutti gl’infiniti storici dei loro predecessori cioè gli stessi verbi usati da questi col valore d’infiniti storici, meno tre, prohibere, commovere e fateri (gli altri sono, in ordine di frequenza: habere, orare, hortari, mirari, circumire, audire, agere, polliceri, abnuere, credere, dare, extollere, monere, terrere, caedere, gratulari, instare, incu- sare, meditari, obtruncare, opperiri, perstare, praebere, precari, resistere, sedare, urgere). I Ammiano Marcellino occorrono soltanto due esempi d’infinito storico; in Orosio uno; mentre sono numerosi in Aurelio Vittore, Egesippo, Ditti e Sulpicio Severo]. Notes and discussions: α. MirLer CaLHoun, The will of Pasion and its seals. Demosthenes XLV. 17, pp. 75-76 [I suggelli, a cui ac- cenna l’oratore 1. c., erano quelli che furono apposti quando il testa- mento ebbe la sua esecuzione]. F. EeLesron Rossrns, Προλαμβάνειν c. gen.; note on Demosthenes XVIII 26, pp. 77-80 [Con προλαμ- βάνειν in senso figurato con un genitivo, questo può anche dipendere dalla preposizione; ma quando il verbo è adoperato in senso proprio, il genitivo è possessivo]). W. A. Hemetr, Note on Euripides Iph. Taur” 61 ff., p. 81 [Propone 65 οὐ γάρ τινος invece di οὔπω τινός]. --- Lo stesso, Note on Sophocles ‘Antigone’ v. 1281, pp. 81-82 [Legge i τέ δ᾽; ἔστιν αὖ κακίον κακῶν ἔτι; invece di τέ δ᾽ ἔστιν αὖ κακίον È x. ἔς; cfr. Platone Rep. 396 B. 469 C. Sophist. 248 E]. J. C. RoxeE, On the meaning of biduum” in certain phrases, pp. 82-84 [Tien fermo,

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contro le obiezioni di Οὐ. C. Conrap in Classical Philology TX. 1914. pp. 78-83 (v. Rivista XLII 405 sg.), alle proprie conclusioni (v. Rivista XLI 369)]. E. Hampson Brewster, On Suetonius " De grammaticis” 5, pp. 84-87 [Per il secondo esametro di Sevio Nicanore propone Saevius Posthumius vero idem ac Marcus docebit, cioè : ma Sevio Postumio, che è poi una persona sola con Marco,...].. P. SHorey, Note on the sixth Platoniec epistle, pp. 87-88 [Commento a 322 πρὸς τῇ... γέρων ὦν, e a 323D; in questo secondo luogo propone di sostituire ἑπονομάζοντας al secondo ἐπομνύντας].

The Classical Review. XXIX.1915. 3. F. Warson, Clenard as an educational pioneer. I, pp. 65-68 [Notizie intorno a Nicholas Cley- naerts o Clernardus, nativo di Diest, che fu a Lovanio dal 1519 al 1521 in rapporti col Collegium trilingue di Erasmo]. J. T. SnePPARD, Note on Euripides, ᾿ Hercules furens’, 773-780, pp. 68-69 [Propone pdoveîv invece di φρονεῖν]. G. A. Davies, Plato, Phaedo” 62 A, pp. 69-70 [A proposito del commento di miss TayLor al luogo indicato, in Class. Review XXVII p. 193 (cfr. Rivista XLII 180). Fra altro, propone ἔστι (uè)v ὅτε καὶ οἷς]. G. Harrier Macurpy, The water gods and Aeneas in the twentieth and twenty-first bool:s of the Iliad”, pp. 70-75 [Nei due libri indicati del poema omerico c’è ‘antitesi’ fra le divinità dell’ “alto ?, del nord, e quelle delle acque, del sud. Rappresentante più significativa, come protettrice degli Achei, delle prime è nell’Iliade Atena, il cui nome va connesso con la radice donde derivano ἀϑήρ, punta, e “A3@s, la montagna luminosa; anche l'epiteto della dea, yZ@v- κῶπις, e quello degli Achei, δλικῶπες, accennano all’impressione fatta dall’occhio di colore grigio-turchino del nord su un popolo del sud. Nei libri XX e XXI Poseidone abbandona i suoi Achei e interviene a sal- vare Enea. Afrodite, Artemide, Apollo, tutti e tre connessi col mare, con le acque correnti, con le paludi, stanno dalla parte dello Xanto, il dio del fiume ; mentre Atena ed Era, dee dell’alto, stanno con Efesto, il dio del fuoco, contro Xanto. Enea, quale figlio di Afrodite, dea d’ori- gine acquatica, rappresenta in sommo grado il potere delle tribù europee che avevano il culto dei fiumi, delle acque. I suoi Dardani della Troade erano indubbiamente parenti, benchè Omero non parli di questa con- nessione, dei Dardani d'Europa]. J. Gow, Horatiana, pp. 75-76 [Sat. I 1,108 qui nemo aut rarus invece di ut avarus A. P.120 scriptor an orator invece di scriptor honoratum Carm. I xx 10 tu iubes invece di tu bibes Il xx 6 iocas invece di vocas III xxiv 4 et Metaponticum (il golfo di Taranto) invece di et mare ponticum]. Notes: R. G. Bury,

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Pindar, Pyth. II 90 ff., p. 77 [Non è necessario sostituire, come pro- pone il Norwoon in Classical Quarterly IX. 1915, 1, pp. 1 sgg. (v. Rivista fase. preced. p. 516), σπάϑας a στάϑμας: στάϑμη è vocabolo connesso con ζυγόν, e la frase ἕλκειν σταϑμόν, far calare la bilancia, dimostra appunto la fondatezza della connessione accennata. Nel luogo pindarico l’espressione è metaforica]. H. Rackmam, Note on Plato, Republic”, VII. 514 B, pp. 77-78 [ὥσπερ .... δεικνύασιν. Ogni difficoltà viene tolta traducendo τοῖς ϑαυματοποιοῖς “at the marionettes° da mettere con ac- voîs τραγῳδοῖς dello psefisma presso De mostene 18, 116]. H.J. Rose, On the text of Plato, Republic”, IV 442 A, p. 78 [μὴ ... γένει (0 γενῶν 0 γένη). Come generalmente si crede, γένει. non è dativo singo- lare, bensì accusativo duale, retto da καταδουλώσασθαι, e ὧν è corru- zione invece di ©]. Ri F. Crook, A note on the meaning of exilis via (Tristia I. II 86), pp. 78-79 [Exilis via può interpretarsi “un rapido passaggio, trapasso’ ‘opposto a via longa]. L. C. Purser, Notes on Cicero, p.79 [Ad Atticum XIII 37, 2 commulcare me belabours me ° invece di cum multa de me ib. XV 29, 2 Asinium non è a suo luogo; forse Favonius Asinium è una corruzione di amanuensi di un superlativo comico Favoniissimum o Favonianissimum un super-Favonius ]. Εἰ W. G. Foar, Note on Varr. L. L. 5 $ 178, Mir. (As given 5. v. Sestertius in L. and S.), ib. [Commento a proposito di sestertius = semis tertius]. Obituaries: pp. 94-95, Necrologia (di L. C. Purser) di C. H. KeenE, - 1847-1915. Correspondence, p.95. Fra altre: A.0.PrIcKARD, Aeschylus, Persae”, 332-3 [A proposito dell'emendamento dello SuepPARD nel fasc. preced. di Class. Review pp. 33 sgg. (v. Rivista fasc. preced. p. 520). In 332 vvv di M è uno scolio al secondo verso Ζεέπει τὸ κακῶν e ἀρχόντων ‘è una glossa; tutto 3382 è “un povero verso’, da omettere. In 333 è puramente intrusivo). Lo stesso, Plutarco [de defectu oraculo- rum c. 20, p.4200 forse καὶ τιϑεμένη οὐ πολλὰ fram. da Stobeo + attribuito a Temistio, ma del dialogo di Plutarco περὶ ψυχῆς (Wwrr., V p. 724; ed. Teubn. VII p. 22) forse ἂν #07, καὶ σώματος invece di ἂν δὲ ἔρημαι σώματος]. R. T. C(rark) dichiara di ‘ritirare senza riserve” il suo terzo emendamento a Vespa (v. Rivista fasc. preced. p. 521), cioè molitorem tirone di v. 30.

Idem. 4. F. Warson, Clenard as an educational pioneer. II, pp. 97-100 [(Continuazione ; v. quassù fasc. preced. di Class. Review). Cenni intorno alle opere del Clenard e particolarmente alle Zusti- tutiones). H. Ricnarps, Notes on Greek: Orators, pp. 100-104 [D e m ο- stene Οἱ. 2, 15 forse τοιαῦϑ᾽ invece di ταῦϑ'᾽ (14 τὸ συναμφ. inv. di τοῦτο cvvaup.) ib. 30 il pronome davanti a ἔπιτάττειν dovrebbe essere dativo dipendente appunto da cotesto infinito PA. 1, 32. ib. 48 (ἐτέ- g0vs) ἕκαστος ib. 51 forse διὰ τὸ inv. di ἐπὶ τῷ . De pace 11 εἴτε ... εἴτε

637 ἕλον _ inv. di οὔτε... οὔτε Ph. 2, 25 ταύτης inv. di ταύτῃ ἴθ. 87 καὶ ξημίας Sa e. 9 τὴν δίκην [De Halon.] 18 (ἂν) ἀμφισβητῆσαι De Cherson. 14 probabil- ἜΣ 3 __——0mente ἐπὶ τῆς ἀνοίας τῆς αὐτῆς ἧσπερ (non ὥσπερ) νῦν ib. 75 ἐπιστά- "-- ο΄ μενον inv. di ἐπιστήμῃ Ph.3,30 forse γνησέως inv. di γνησίων Ph.4,19 : 0 λεκτέον o νομιστέον inv. di δέον nei due luoghi ib. 39 τῆς... βοηϑείας i i a «_—7eyovvias cioè secondo l’usuale costruzione con φϑονῶ ib. 52 (odx) di: Mes οἰκείως (= ἐχϑρῶς 0 ὑπόπτως) -De Megalop. 11 a evitare il iato “L0@- fo. i πὸν nouicacder De foedere 16 ve inv. di τὸ (dopo δείξω De co- ἕν È; rona 50 ἀπολούσασϑαι inv. di ἀπολύσασϑαν —De falsa leg. 16 ϑήσει +00 = καὶ γράψει ib. 76 συνεσκευάσϑη {τὸν τοῦ ib. 89 forse καὶ ὅπλων ra- Ret τῷ Pe: τασχευαῖς ib. 200 ἀλλὰ δῆτα τῆς ἐξουσίας ib. 209 πολλῶν καὶ ua- al sE πρῶν 45,86 ταὔϑ'᾽ inv. di rada” 47, 73 forse γυναῖκα (nelederv) ὀμόσας pa o διομόσασϑαι 58,59 iogder (τῶν ἀποβησομένων ἀπὸν τῆς παρρησίας Lisia 2, 35 δεινοῦ (μεγάλου, τοσούτου) τοῦ προσιόντος κινδύνου ib. 61 κινδύνοις = μάχαις, ma dovremmo aspettarci ἐν μάχαις, non sem- i Ses plicemente μάχαις 6, 21 (ὀλίγου ἀπολλύναι ἐδέησεν ἑαυτόν 7, 6 a ἀλλ᾽ ὡς inv. di ἄλλως te ib. 33 μικροῖς inv. di μεγάλοις 12, 60 καὶ “ΕΣ; (ἄλλας te) πόλεις 20, 12 ὑμῶν ἐστέ {τιςὴ πολίτης, because so and so 1 is a fellow-citizen of yours tr. 1, 5 (oî) τούτων μάρτυρες 271 (90) co 5.

(τὴν) τάξιν Λίπῃ τῆς aldods? Andocide 1,25 ὑμῖν inv. di ὑμῶν

Isocrate 7, 14 ἔστι γὰρ οὐδὲν ἕτερον ψυχὴ πόλεως πολιτεία o 7 πολιτεία 12, 40 παραπλησίαν dovrebbe stare dopo καὶ o δύναμιν ΣΑΣ o ἐχούσας 1ὅ, 28. (85) ὧν οὐδέν 19, 48 φεύγειν inv. di φυγεῖν -- Eschine 2 (fine) è possibile παραδέδωσιν con ἐγὼ sarebbe da pre- ferire zagadidouev 3, 156 forse bisogna cambiare di luogo τάφους o Me. ἱερά]. G. E. K. Braunmorrz, The nationality of Vergil, pp. 104-110 È [Per l'indagine prende le mosse da un’affermazione del Conineron È Vergil 15, XVII: “the name Andes is Keltic, and so apparently is Ver- gilius ,, e in nota al nome Vergilius: Vergilius and Magius were common

names in Cisalpine δα] ,. Il nome Vergilius è ad un tempo celtico e VT «533 etrusco-latino, ma il maggior numero di esempi dati dall’etrusco-latino > ‘x ΦΗΣΙΝ ci induce a stabilire che è etrusco-latino. Maro etrusco. Magia (la

i madre di Vergilio) è nome celtico, ma non è probabile che la madre del poeta fosse una donna celtica. Silo era frequente specialmente nei 34 paesi celtici. Andes (Vicus Andicus) è celtico senza alcun dubbio. Con Pas fe tutto ciò, la questione della nazionalità di Vergilio non può essere ri- | Fal solta con certezza assoluta, e occorre tenersi paghi delia probabilità, È È: che è poi quella espressa dal Conineron benchè non troppo chiaramente. | τς Intanto è fuori di dubbio per ciò che riguarda le iscrizioni che nella dg ' Gallia Cisalpina Vergilius si trova comparativamente di rado, Magius ; A Tetso invece con estrema frequenza ,]. Notes: W. L. Lorimer, Aristotle, : πος Da ‘de mundo’, 399 a, 7, p. 111 [σελήνη .... pdivovoa: è probabile che uecov- ΟΣ ἧς.

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μένη sia una corruzione di μεσουμένη e μεσουμένη una corruzione di uecodoa, la forma vera da ristabilire ivi]. Lo stesso, Aristophanes, ‘Aves’, 488-498, ib. [Il passo, da confrontare con Andocide I, 37 sgg., contiene un’allusione al fatto degli Ermocopidi]. F. A. WricsT, Note on the phrase ὄρχαμος ἀνδρῶν, pp. 111-112 [Significa “il primo balle- rino della compagnia, (d0y-06 : χορ-ός :: ὀρχεῖσϑαι : χορεύειν) e nul- l’altro). J. E. Harry, Sophocles, Trachiniae?, 331, p. 112 [οἴσουσι invece di τοῖς οὖσι]. --- W.M.Linpsay, Sabinus edition of Persius pp. 112-118 [A proposito della soscrizione di Sabinus nel famoso codice di Persio nell'Archivio di S. Pietro a Roma (B degli editori)].

Mnemosyne. Bibliotheca philologica batava. N. ὃ. XLII. 1915. 1. J. v. BinseerGEN, De servitute praediorum donationis causa constituendà, pp. 1-3 [A proposito di un luogo di Papiniano Pand.1.17D. 8. 5]. G.V., Ad indicem Stoicorum Herculanensem, p. 3 [ArnIm, Stoîcorum veterum fragm. I p. 12, 32 (Papiro 1018 col. vi 8): ἐπηρεασμούς invece di εἶκα- σμούς, congettura del filologo cit. o di χλευασμούς proposto dal WrreLM in Wiener Eranos Ὁ. 133 (ma χλευασμούς era già stato dato dal Cowm- PARETTI nell'edizione di tutto il papiro in questa Rivista III p. 479. D. B.)]. J.J. Hartman, Ad Plutarchi Moralia annotationes criticae, pp. 4-48 [(Continuazione ; v. Rivista fasc. preced. p. 407). De curiositate. De cupiditate divitiarum. De vitioso pudore. De invidia et odio. De se ipsum citra invidiam laudando. Dei cinque opuscoli sono presi in esame com- plessivamente poco meno di 100 luoghi]. Lo stesso, Emendatur in- scriptio christiana in patria nostra inventa, Ὁ. 48 [L'iscrizione è castis- simi dei habitaculo non nisi casta mente to dove un amico di HARTMAN propone mementote]. C. P. Burcer Jr., Studia Horatiana, pp. 49-72 [A proposito delle Odi III 8.16.29. I 1.20. II 12.17. 20, tutte dirette a Mecenate, male interpretate dal PrerLKAMP e da altri dopo di lui, Haec carmina non recte legit (il P.) neque intellexit; non vidit, nobis hic reliquias esse servatas commercii poétici pretiosissimi, quas negligere minime licet. Imo accuratius examen postulant; ostendunt nobis vivum illed amicitiae vinculum inter Horatium et Maecenatem; illustrissimo testimonio nos edocent de hoc praeclaro literarum patrono... Haec car- mina omnia respondent ad Maecenatis scripta sive versibus sive prosa oratione composita... Quoties... (Mecenate) scribit vel versus facit, toties amico responsum extorquet 9]. G. V., Ad Sophoclis È Indagatores”, p. 72 [33 sg. cfr. Aristofane VUce. 80, Acar. 513; Reso 140. Invece di παρ ἐσταται ora propone πάρεστ᾽ ἀνήρ πάρεστι νῦν 0 anche πάρε- oti που]. --- M. Vareron, De Iliadis compositione, pp. 18-1.54 [(Continua-

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zione; v. Rivista fasc. preced. p. 404). e. Epilogus. Riassumere in breve non è possibile, e dovrei recare intere pagine del testo, ciò che non mi è consentito per mancanza di spazio. Mi limito pertanto a no- tare che l’“epilogo’ comprende due parti: nella prima il VaLETON com- batte la teoria degli unionisti e specialmente del Berne (die Einheit unserer Ilias in Neue Jahrb. f. d. Klass. Alt.): Die Ilias ist nicht eine Achilleîs, sie ist in Wahrheit eine Ilias. Und sie ist das micht durch Zufall geworden, sondern durch den Willen und durch die Kunst ihres Dichters... ,. Nella seconda tratta della redazione pisistratica, e contro l’opinione soprattutto del Cauer (Grundfr. der Hom. Krit.® pp. 123 sgg.) e del Ronre (Die Iias als Dichtung p. 7) dimostra che non ebbe luogo. Segue un ZExeursus: Achilleis principalis (vide Mnem. 1914, p. 80; v. Rivista XLII 520 sg.): tutto il testo da A 1...a... T 276, come lo ri- costruì il VaLeron]. P. H. D(amsré), Boomerangae usus apud gentes europaeas, p. 154 [Aggiunta all’ ‘articolo’, dello stesso, De telo quodam in Mnemosyne XXXVIII 225-233 (v. Rivista XXXIX 147): rimanda a Plutarco, Praec. Reip. ger. p. 8105 καϑάπερ... πάσχειν].

Napoli, 10 agosto 1915.

Domenico Bassi.

PUBBLICAZIONI RICEVUTE DALLA DIREZIONE

PericLe Ducati. Di un vaso attico con la rappresentazione di una co- lonna a foglie di acanto. Nota (Estratto dai “Rendiconti, della Reale Accademia dei Lincei, Vol. XXIV, fasc. 1°, pp. 16-27).

C. SaLLusri Crispi Bellum Iugurthinum recensuit Axel W. Ahlberg. Go- toburgi, Eranos’ Férlag; Lipsiae, Otto Harrassowitz, [1915], di pp. 1v-152 (Collectio scriptorum veterum Upsaliensis).

P. Arserro Vaccari. Un commento a Giobbe di Giuliano di Eclana. Roma, Pontificio Istituto Biblico, 1915, di pp. vi-218.

WixLiam A. OLpraTtHER and Howarp Vernon Canrer. The Defeat of Varus and the German Frontier Policy of Augustus, di pp. 118 (University of Illinois Studies in the Social Sciences. Vol. IV. No. 2. 1915).

Escniro. Le Coefore. Prima edizione italiana con testo riveduto e com- mento esplicativo per cura di G. Attilio Piovano. Città di Castello, S. Lapi, 1915, di pp. 219.

640

Oris Jonnson Tonpp. Quo modo Aristophanes rem temporalem in fabulis

suis tractaverit (Printed from the Harvard Studies in Classical Do Philology ,, Vol. XXVI, 1915), di pp. 71. ΟΣ

Gerranpo Lentini. Catullo e il suo canzoniere con un saggio di versione metrica. Napoli, A. Morano, 1915, di pp. 107.

Lurcr Fòrrano. Antologia Vergiliana. Testo latino con note. Torna; Lib. ed. internazionale, 1915, di pp. 184.

Monror E. Deursca. The Year of Caesar's Birth (Extracted from Tran- sactions of the American Philological Association, Vol. XLV, 1914, pp. 17-28).

C. Ivrir Carsaris Commentarii de bello civili. Testo e note di E. Garizio e G. A. Piovano. Torino, F. Casanova, 1916, di pp. 128.

Eranos. Acta philologica Suecana. Vol. XIV, n. 2.

Transactions and Proceedings of the American Philological Association, 1913. Volume XLIV.

Harvard Studies in Classical Philology. Volume XXV, 1914.

Classical Philology (The University of Chicago Press). Vol. X, n. 3.

The Classical Review. Vol. XXIX, nn. 4-6.

The Classical Quarterly. Vol. IX, n. 3.

The Journal of Philology. Vol. XXXIII, n. 66.

The American Journal of Philology. Vol. XXXVI, n. 2 (142).

Modern Language Notes. Vol. XXX, nn. 4-6.

Mnemosyne. Bibliotheca philologica Batava. Vol. XLIII, n. 3.

Revue de l’ Instruction publique en Belgique. Vol. LVII, nn. 2 e 3.

Le Musée Belge. Vol. XVIII, nn. 1 e 2. E:

Bulletin bibliographique et pédagogique du Musée Belge. Vol. XVIII, È nn. e 7. :

Revue des études anciennes. Vol. XVII, n. 3.

Atene e Roma. Ann. XVIII, nn. 199-201.

Bollettino di filologia classica. Ann. XXII, nn. 2-4.

Rivista d’Italia. Ann. XVIII, n. 7.

Didaskaleion ,. Studi filologici di Letteratura Cristiana antica. Ann. IV, nn. le 2. rig

Athenaeum. Studii periodici di letteratura e storia. Ann. III, n. 3.

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