Anna Maria Micks
Racconti scritti a matita
I racconti della Romola
Pescara, 2002
Laschi Micks, Anna Maria (191 1-2003)
Racconti scritti a matita. I racconti della Romola.
La Regina, Silvia (org).
Salvador, 2013.
38 pp.
Anna Maria Micks
Racconti scritti a matita
I racconti della Romola
raccolti e pubblicati da Silvia La Regina
Salvador, 2013
Quando avevo sei anni la Romola era un piccolo paese di tremila
anime, ad una trentina di chilometri da Firenze, e dico era perché già
venticinque anni fa, quando andai nella mia città per l'ultima volta -
forse perché disgustata dal Me Donald's in Via Tornabuoni, o dai
gruppi degli hippies accucciati sul ponte Vecchio, a vendere le loro
collanine davanti alle antiche botteghe degli orefici - mi dissero che,
mentre Chiesa Nova dove finiva il percorso dell'autobus, ne era
diventata un lontano sobborgo, il paese era ormai disabitato. Erano
invece aumentate le ville - le seconde case di tanti fiorentini - nelle
pinete circostanti, da tempo ricresciute dopo la totale distruzione
subita durante il lungo assedio di Firenze da parte degli alleati.
Gli abitanti della Romola erano divisi in tante famiglie, molte
delle quali con lo stesso cognome, ma io ricordo solo i Papini, forse
perché un amico dei miei disse una volta che se a Roma c'era il Papa
era giusto che alla Romola ci fossero i Papini. Gli altri, del resto,
erano quasi tutti chiamati con il nome del mestiere o dell'attività che
esercitavano, spesso a carattere famigliare. Il macellaio che aveva il
negozio moderno e ben tenuto, proprio davanti a casa nostra. La
domenica mattina quando venivano anche quelli di fuori a comprare
la carne, c'erano ad aiutarlo le due figlie, belle ragazze, la maggiore
alta e dall'aspetto severo, portava i lunghi capelli neri pettinati
all'antica, mentre la seconda figlia, più spigliata, attraente anche se
meno bella, aveva i capelli rossi tagliati corti all'ultima moda.
Il magnano, che mi avrebbe causato il più grande dolore della
mia infanzia, aveva la sua piccola fucina a sinistra della casa; la
merciaia sulla balsa che si alzava di fronte, protetta da un muretto e
accanto, l'ortolana, erano tutti chiamati così e penso che perfino in
paese fossero in pochi a ricordarne il cognome. L'ortolana che
vendeva in casa aiutata dalla vecchia madre pochi prodotti non
sempre freschissimi non era certo importante e la ricordo solo per
una piccola storia che racconterò più avanti perché aveva tanto
divertito noi ragazzi che avevamo continuato a ripeterla ogni volta
che si ne presentava l'occasione per fare una battuta.
A ricordarlo ora, capisco che il paese era bellissimo, costruito
su due grossi poggi - il Poggio di Sopra e il Poggio di Sotto, che ne
costituiva il centro ed era attraversato dalla strada principale che
appena fuori dall'abitato diventava la carrozzabile fiancheggiata dai
boschi e portava a Chiesa Nova dove imboccava la provinciale per il
capoluogo, S. Casciano in Val di Pesa.
Per giungere alla Romola si prendeva la SITA, l'autobus di
color verde che aveva il deposito a Piazza Maso Finiguerra. Si
scendeva a Chiesa Nova e da lì si proseguiva a piedi per il paese che
si poteva raggiungere sia per la strada maestra che allungava il
percorso di qualche chilometro, e il comodo sentiero fra gli alberi
profumati e di specie diverse, come i ricchi cespugli del sottobosco
mediterraneo. Il sentiero era il percorso che la mamma sceglieva più
spesso, specie a giugno, quando il bagaglio - un grosso baule e un
paio di valigie- era già stato spedito e noi eravamo felici di correre e
di sbizzarrirci liberi all'aperto dopo un anno passato in città. A un
certo punto il sentiero incontrava la pineta e l'attraversava per
raggiungere la strada dove sboccava più o meno all'altezza della
Madonnina una cappella in muratura con un piccolo patio circondato
da un muretto che permetteva alla mamma di riposarsi per un po'
prima di riprendere il cammino verso il paese. La Maddonnina
sorgeva ai margini della pineta ed era meta abituale delle passeggiate
di tutte le signore in villeggiatura nel paese; sedute sul muretto o
anche sul panchetto pieghevole sferruzzando tranquillamente
qualche indumento di lana colorata che traevano dalle capaci borse
di paglia, insieme alla bottiglietta dell'acqua e alla merenda dei
ragazzi, intenti a correre nel bosco dove si potevano raccogliere sia
le coccole profumate del ginepro sia le more, a lugli già nere e
sugose. Ma quelle che ci piacevano di più erano le pine cadute dagli
alberi già aperte e ricche di pinoli dove in estate c'erano i pinoli già
maturi che andavamo subito a schiacciare su un sasso.
Sul Poggio di Sotto, dove penso fosse nato il primo nucleo
abitativo, le case erano più antiche essenziali e un po' severe,
fittamente aggruppate ai due lati della strada, mentre gli edifici del
Poggio di Sopra più pianeggiante e spazioso, erano più moderni e
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distanti fra loro. C'era perfino una specie di piazza o meglio uno
slargo, dove cresceva l'erba mentre sull'altro poggio non si vedeva
un filo di verde.
Ma la vera bellezza era il bosco e la campagna - specie
vigneti- era completamente fuori, più vicini gli orti poi i frutteti di
mele, pere e pesche che noi ragazzi si andava a cogliere di nascosto
- insomma a rubare - ancora acerbe con un gusto tutto toscano che
non condivido più.
Non c'erano giardini, tranne forse in un paio di ville già
abbastanza lontane dal centro e i fiori che ricordo sono solo le
margherite, le ginestre e gli altri fiori che crescono selvatici nei
boschi. I boschi erano infatti la vera bellezza della Romola, quella
che me l'hanno resa tanto cara e indimenticabile al di là di tutti i
cambiamenti e le vicende della vita adulta che mi hanno portato
talvolta anche a vivere per anni in paesi lontani e diversi, la Romola
che ho continuato a rivisitare nei sogni.
Erano soprattutto magnifiche pinete che a maggio
assumevano un aspetto nuovo, come scoprii quel anno che avevo
preso la tosse convulsa e la mamma mi aveva portato alla Romola su
consiglio del medico che aveva suggerito un cambiamento d'aria.
Ogni erba aveva messo su un suo fiorellino che seppure modesto e
inodore contribuiva alla freschezza del tutto. Sulle prode scoppiava
l'intenso azzurro dei giaggioli dall'odore così forte che si avvertiva
già da lontano, prima di giungere all'aperto della strada. Nel chiuso
di una stanza quell'odore diventava quasi acre e faceva venire il mal
di testa, o addirittura stordiva come successe alla mamma e a me
quel giorno che al ritorno della passeggiata mattutina avevamo
sistemato un gran mazzo di giaggioli nella camera da letto dove più
tardi eravamo andate a riposare.
Nei boschi, le profumate svettanti pinete dove ogni tanto si
aprivano morbide vallette erbose che alle prime piogge di settembre
si dipingevano del rosa vivo dei ciclamini e ingrossavano i piccoli
torrenti bordati di lucide felci e di capelvenere leggero come trina.
Nelle radure, al piede degli alberi, sempre all'improvviso
spuntavano sempre i funghi. C'erano i prataioli dal cappello piatto di
color marrone chiaro, i porcini più bassi e corposi col cappello
leggermente arrotondato, di un marrone più scuro e un po'
marezzato; meno frequenti erano gli ovuli dalla forma ovale cui
devono il nome, bianchi all'esterno e rossi al centro come tante uova
sode sgusciate. Si organizzavano subito spedizioni di grandi e
ragazzi per la raccolta dei funghi che poi sarebbero stati cucinati con
olio aglio e nipitella, una pianta aromatica dalle piccole foglie
rotonde vellutate come quelle della salvia cui somigliava anche nel
colore. L'aglio, qualche spicchio sbucciato, serviva non solo a dar
gusto, ma anche e, soprattutto, perché si affermava che se nella
cottura fosse diventato nero voleva dire che i funghi erano velenosi,
magari perché erano stati raccolti vicino ad un pezzo di metallo o di
cuoio. Non so se la cosa avesse qualche base scientifica, ma sta di
fatto che i funghi raccolti da noi e cotti con l'aglio rimasto sempre
rigorosamente bianco, non fecero mai morire nessuno.
A quell'epoca nei boschi della Romola vivevano ancora
numerosi animali, soprattutto belle lepri dal folto pelame e dalle
carni tenere, che fornivano agli uomini ed alle donne del paese
rispettivamente lo svago domenicale della caccia e la materia prima
per preparare gustosi piatti ma anche caldi colli di pelliccia per il
cappotto delle feste.
I cani
Quasi in ogni famiglia gli uomini possedevano un cane da caccia,
generalmente di buona razza, begli animali ben addestrati che se non
accompagnavano il padrone al lavoro nei campi venivano lasciati
vagare per il paese. In estate, riuniti in gruppo giocavano con noi
ragazzi e ci seguivano nelle lunghe scorribande nei boschi. Alcuni
avevano nomi che rivelavano il carattere o addirittura le tendenze
politiche del padrone come ad esempio la Troskina, un bel setter da
riporto, nero e marrone, giovane e ancora giocherellone che mi si era
subito affezionato e veniva a cercarmi già di prima mattina. I cani
seguivano sempre il nostro gruppo di ragazzi nelle gite che ad ogni
stagione ci portavano in zone sempre più lontane e meno conosciute
attraverso boschi sempre più fitti di alberi di cui spesso ignoravamo
il nome. Anche se correvano avanti e indietro nelle loro ricerche fra i
cespugli a caccia di qualche piccola preda, i cani tornavano sempre
vicino a noi, talvolta per aiutarci se si era fatto tardi e nell'oscurità
incombente di un bosco non riuscivamo a ritrovare la strada.
Eravamo in quattro, mio fratello, che non mancavo mai di seguire
nelle nostre spedizioni, e altri due ragazzi come lui più grandi di me,
quel giorno che ci eravamo spinti in una zona lontanissima dal paese
e assolutamente sconosciuta. Con noi c'era proprio la Troskina e fu
proprio lei a metterci nei pasticci. Era già pomeriggio inoltrato
quando, attraversato un bosco rado di non so quali alberi, venimmo a
trovarci in una campagna un po' selvaggia e assolutamente deserta.
Sul lato più lontano dal bosco si intravedeva tra fitti cespugli, il
lungo tratto di una rete di ferro nero e al di dà il basso edificio di una
casa colonica. C'era stato appena il tempo di vedere queste cose
quando successe il finimondo. La Troskina si era scagliata come un
fulmine verso la rete e stava scavando furiosamente in un punto del
terreno sottostante dove riuscì ben presto ad aprirsi un passaggio per
l'interno del recinto. Un attimo dopo la vedemmo piombare su un
grosso coniglio che proprio in quel momento lo stava attraversando.
Per il coniglio non ci fu scampo, un secondo ed era steso immobile
sul terreno, sorvegliato a breve distanza dalla Troskina che, perfetto
cane da riporto, restava in attesa vicino alla preda. Ma intanto, a
tutto quel fracasso erano comparsi sulla scena due nuovi personaggi:
un uomo e una donna che appena videro il coniglio morto
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cominciarono ad urlare furiosamente e mentre l'uomo afferrato un
bastone si dava a inseguire il cane che subito aveva cercato di
fuggire, ma purtroppo nella direzione opposta a quella del buco da
cui era entrato, la donna aveva raccolto il coniglio e continuava a
guardarlo, cullandolo quasi fosse stato una creatura.
Noi intanto c'eravamo avvicinati per cercare di capire e
spiegare la situazione -soprattutto per salvare la colpevole dalla
giusta furia dei padroni del coniglio, che come riuscimmo a capire
era una femmina e per di più gravida. Un po' placati alla vista di
quel gruppo di ragazzi per bene, i due capirono che ormai non
restava che farsi pagare il danno non indifferente per la morte di una
coniglia gravida, e chiesero cinque lire da pagare subito se volevamo
riprenderci il cane che intanto l'uomo era riuscito a rinchiudere nella
cascina, forse la stalla, dove ormai impaurito era corso a rifugiarsi.
Noi naturalmente non avevamo neanche un soldo e a nulla valsero le
promesse che saremmo tornati la mattina dopo a portare le cinque
lire che dovevamo chiedere ai nostri genitori. Pretesero i nostri nomi
e indirizzi: il cane lo avrebbero restituito solo dopo aver ricevuto i
soldi. Tutto quello che ci riuscì di ottenere fu che nell'attesa non gli
avrebbero fatto del male.
Intanto si era fatto tardi e quando arrivammo a casa
trovammo le nostre mamme preoccupate e poi arrabbiate. Bisognò
spiegare il fatto anche al padrone della Troskina, pure lui arrabbiato.
Disse che non avrebbe più lasciato che la canina venisse con noi, che
cinque lire erano una cifra spropositata e che sarebbe andato lui a
riprendersi il cane e a sistemare la faccenda, pagando il prezzo
giusto. I soldi naturalmente gliel' avrebbero restituiti le nostre
mamme. Le cose devono essere andate come aveva detto lui perché
la Troskina tornò sana e salva e i nostri genitori pagarono per la sua
liberazione un prezzo molto inferiore a quello richiesto a noi ragazzi.
Ma per tutta quell'estate Troskina non ci accompagnò più nelle
nostre scorribande; il suo padrone fu di parola fino all'ultimo; la
portava tutte le mattine con sé quando andava a lavorare nei campi.
Finì invece tragicamente l'avventura che ha per protagonista
un altro cane della Romola: Bill, un grosso bracco marrone con una
vistosa macchia bianca sul petto, un cane di cui si diceva che fosse
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feroce e che il suo padrone teneva legato a catena in un angolo della
sua fucina dove spesso andavano i ragazzi del paese, ma soprattutto
quelli del gruppo di villeggianti che come Nanni erano curiosi e
ammirati dallo spettacolo del pezzo di ferro incandescente battuto e
forgiato sull'incudine a colpi di maglio dal magnano, un omone
brusco e di poche parole. Un giorno mio fratello che si era
avvicinato troppo all'incudine, urtò nel tirarsi indietro una zampa del
cane che lo azzannò al polpaccio. La mamma preoccupata, chiamò il
dottore - un signore di mezza età sempre elegante e dignitoso con
bianchi baffetti arricciati, che abitava con la sua governate in una
bella palazzina subito fuori dal paese. Il dottore medicò la ferita e
disse che era necessario controllare il cane per diversi giorni ed
accertarsi che non avesse la rabbia. Fu così che durante tutta una
settimana la mamma andò ogni giorno alla fucina per sorvegliare il
cane a cui portava acqua e cibo per controllare se mangiava e
soprattutto se beveva in maniera normale. Io avevo cominciato ad
accompagnarla per curiosità e ben presto Bill mostrò di riconoscermi
e addirittura a farmi le feste dimostrando, disse il dottore tornato a
visitarlo che il cane era perfettamente sano e non certo feroce come
pretendeva il suo padrone. Dopo il controllo, dichiarata finita la
quarantena, finirono anche le visite della mamma, ma Nanni ed io
c'eravamo oramai affezionati a Bill e continuammo ad andare e
trovarlo. Passò altro tempo, il cane sempre più festoso al nostro
arrivo cominciò a tirare la catena nel tentativo di seguirci, a guaire
ed anche a brontolare minacciosamente quando ci vedeva andar via.
Bill era ormai completamente domato, lo capì anche il fabbro tanto
che un giorno mi riuscì di convincerlo a lasciarlo venire con noi e gli
aprì la catena. Da allora Bill mi seguì sempre come un cagnolino
fedele. Grande e silenzioso era diventato la mia ombra, con
meraviglia e in certi casi paura, di quanti lo avevano creduto feroce;
io andavo ogni mattina a prenderlo alla fucina, lui mi salutava con
qualche lenta slinguazzata e non mi lasciava più. Io ero naturalmente
ero fiera e contenta di quella conquista. Nel corso di quell'estate non
mancarono da parte di Bill indubbie prove della sua incondizionata
devozione. La prima si ebbe quel pomeriggio che avevo aperto la
credenza per prendere la merenda e lui, sdraiato come al solito dietro
di me con la testa appoggiata sulle zampe anteriori era rimasto
presto sotto lo sportello che ora gli premeva sempre più forte sul
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collo, mentre cercava di alzare il suo testone, lanciando feroci
mugolìi che mi facevano gelare il sangue. Tutta la grande credenza
tremava in maniera terribile, lo sportello pareva sul punto di uscire
dai cardini; piatti, ciotole e tazze sistemati nella parte superiore,
sbattevano tra loro, barattoli e bottiglie si rovesciavano sui ripiani
più bassi. Nel silenzio pomeridiano della cucina il chiasso era
infernale. Ancora oggi se ci penso non so come trovassi il coraggio
di voltarmi verso il cane e con dolci parole premendo con la mano
tremante su quel testone ringhioso riuscissi pian piano a farglielo
abbassare sulle zampe tanto da permettergli di passare nuovamente
sotto lo sportello. Bill si allontanò subito, andando ad accucciarsi
dignitosamente nell'angolo più lontano dalla credenza, tornata
immobile e silenziosa col suo sportello intatto che avevo richiuso
senza prendere la merenda: la paura mi aveva fatto passare
l'appetito.
L'altra prova di affetto Bill me la offrì forse un paio di
settimane più tardi, quella volta che mi ero soffermata sulla porta di
casa ad aspettare la mamma che sbrigava qualche faccenda prima
della passeggiata mattutina. Bill era sdraiato dietro di me con le
zampe distese in vigile attesa, così silenzioso e immobile che non mi
ero accorta di nulla. Fu così che quando spiccai a pie pari un bel
salto all'indietro gli piombai in pieno sulle zampe. Ci fu un ruggito
feroce e io mi ritrovai scaraventata di lato dentro la stanza, dove
rimasi impietrita a guardare il cane che si era alzato di scatto e stava
anche lui immobile a testa bassa a fissarmi di sotto in su con uno
sguardo cattivo negli occhi: apriva e richiudeva le potenti mascelle
da cui usciva un roco brontolio che in linguaggio canino voleva dire
sicuramente: "se non fossi stata tu..."; rimanemmo così per un po',
io ero ipnotizzata dal suo sforzo per vincere l'istinto che lo avrebbe
portato a gettarsi su di me. Vinse l'affetto e Bill si allontanò
continuando a mugolare cupamente. Non ricordo se quella mattina
mi accompagnò nella passeggiata o se tornò a rifugiarsi nella fucina
per dimenticare il suo risentimento contro quella bambina troppo
vivace e sbadata a cui lui voleva tanto bene.
Quando tornammo alla Romola l'estate successiva corsi
subito alla fucina a chiedere notizie del mio amico, ma l'angolo dove
lui rimaneva accucciato rimaneva vuoto, c'era solo la catena che
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pendeva dal muro. Chiesi naturalmente al fabbro dove fosse il cane e
lui mi rispose seccamente che era morto; gli aveva sparato un giorno
che aveva morso un cliente e quello aveva minacciato di denunciarlo
ai carabinieri; poi, senza aggiungere una parola di più aveva
continuato a lavorare. Inorridita forse anche un po' spaventata corsi
subito via per andare a casa a piangere - a raccontare alla mamma e
a Nanni quella storia terribile che il mio cuore di bambina non
sapeva accettare. Quella fu la vacanza più triste delle tante estati
della mia infanzia passate alla Romola. Bill mi mancava molto, non
potevo dimenticare il dolore cocente della sua morte, anche perché
c'era la fucina così vicina alla mia casa; o forse perché quello era
stato il mio primo contatto con la cattiveria degli uomini, così
diversa da quella delle streghe e del lupo cattivo che i bambini
incontrano nelle favole.
La paura del buio
L'estate passò senza altri accadimenti degni di nota, se non fosse il
fulmine che una domenica mattina colpì il campanile della chiesa
per fortuna senza causare troppi danni tranne la caduta di molte
tegole. Era una mattina grigia di fine settembre e l'aria era già quasi
fredda. Ci stavamo preparando per andare alla messa, quando una
luce accecante invase all'improvviso le stanze rivelandone
brevemente ogni particolare; seguì un colpo assordante, così vicino
da far tremare la casa, un momento prima tanto ferma e sicura. Un
attimo e a tutto quel frastuono seguì un silenzio assoluto presto
infranto dallo scrosciare della pioggia che continuò a cadere fitta,
insistente tutto il pomeriggio. Nella vita ho poi assistito ad altri
temporali ma ricordo soltanto quello, forse perché fu il primo di cui
presi conoscenza, o perché capitò alla Romola a quell'epoca in cui
tanti avvenimenti che oggi giudicherei insignificanti si sono fissati
nella mia mente per non essere mai più dimenticati.
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Come non ho dimenticato la prova di coraggio che m'imposi
quell'estate che decisi di farla finita con tutti gli scherzi e i
punzecchiamenti di Nanni per la mia invincibile paura del buio.
Fin dalla prima infanzia, raccontava la mamma, non appena
imbruniva smettevo di parlare, lasciavo i giochi e correvo a
rifugiarmi in braccio a lei, nascondendo il viso alla vista di un
corridoio scuro o di una stanza dove non era stata ancora accesa la
luce. A tutte le domande su cosa avessi e perché facessi così la
risposta era sempre la stessa: "c'è il buio". Quando fui più grande a
nulla erano valse le spiegazioni e le assicurazioni che anche ad
entrare in una stanza buia non succedeva niente di male -bastava
stare attenti a non sbattere nei mobili -. Poi erano venuti gli scherzi e
le prese in giro del fratello maggiore, ma sebbene capissi ormai
l'assurdità del mio comportamento non potevo farci nulla: avevo
paura.
Quella sera dunque, qualcuno del gruppo dei ragazzi propose
di fare una gara per vedere chi sarebbe stato il più veloce a fare il
giro della chiesa, una passeggiata che anche i grandi facevano spesso
al chiaro di luna, nei vuoti dopo cena dell'estate.
Io ero rimasta zitta: nessuno dei miei compagni sapeva che
avevo paura del buio e ora provavo una grande vergogna all'idea di
venire scoperta e bollata come la fifona del gruppo, io che ero
sempre pronta a proporre i piani più avventurosi e discutere e
criticare quelli degli altri, tanto che spesso venivo accusata di voler
fare il capo. Non potevo rifiutare. Dovevo fare il giro e quando
Nanni disse che siccome ero la più piccola avrei fatto meglio a
restare allo sbocco della strada per vedere chi sarebbe stato il più
veloce, risposi che volevo fare come tutti gli altri. Quando arrivò il
mio turno mi avviai non senza qualche esitazione perché il cuore
aveva cominciato a battermi forte e temevo di non farcela.
Invece all'inizio la strada non fu troppo difficile perché
l'avevo percorsa tante volte insieme alla mamma e alle sue amiche
nelle loro passeggiate al chiaro di luna e anche quella sera c'era la
luna e un chiarore diffuso tanto che riuscivo bene a vedere dove
mettere i piedi.
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La strada per la chiesa partiva diretta in salita dal Poggio di
Sopra per un primo tratto alberato che all'inizio dava sui campi e
non era troppo buio, ma giunta al sagrato dove svoltava per tornare
al paese, era in lieve discesa rispetto al primo tratto da cui la
separava un alto terrapieno che in qualche modo la rendeva più buia.
Ora la strada costeggiava un bosco che verso la metà del percorso si
apriva in un profondo burrone dai fianchi scoscesi ricchi di cespugli
ma più radi sul fondo dove di notte si accendevano i fuochi fatui -
quelle "putride fiamme" che per il Carducci "guizzano" nei cuori
degli uomini "battuti dal pensiero". Io quella sera non sapevo nulla
della poesia, sapevo solo che giunta a quel punto del giro, sebbene
mi fossi tenuta subito dal lato opposto al burrone, con gli occhi fissi
davanti a me, le gambe fin allora sciolte e scattanti nella corsa, si
erano fatte di piombo. Mi pareva di rimanere sempre allo stesso
punto, che non ce la avrei mai fatta ad arrivare al paese divenuto ora
lontanissimo. Invece dopo un po' ero lì alle prime case pallidamente
illuminate da una lampadina. Davanti a tutti c'era Nanni che doveva
essersi un po' preoccupato, mentre tutti gli altri quasi indifferenti
forse perché ormai già stanchi del gioco, dissero solo che ero stata
brava e abbastanza veloce per essere una femmina. Io ero affannata,
stordita e ci misi un bel po' prima di capire che avevo vinto il buio:
ora non ne avrei più avuto paura.
E ripensandoci ora, dopo più di ottant'anni, mi rendo conto di
come sia stata dura per la bambina di sette, e di quanta forza
d'animo ci fosse voluta per superare la prova. Ho anche ricordato
che quella non era stata la prima volta che il mio carattere
cominciava a mostrare una certa capacità di autodisciplina perché
già l'anno prima - sempre alla Romola - avevo saputo vincere il
vizio della golosità cosa che non era riuscita né ai rimproveri della
mamma, né al mese di febbri intestinali, il "gastricismo", causate da
una solenne indigestione di ciliegie mangiate di nascosto. Anche
quel giorno alla Romola dov'eravamo arrivate da poco, stavo
divorando con gusto una fetta di pane e marmellata che avevo
preteso più abbondante del solito dalla donna di allora - non giovane
e un po' arcigna - che guardandomi con evidente disapprovazione
mi disse: "Oddio, ma tu se' proprio ingorda sai!". Non so perché
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questo rimprovero da parte di un'estranea che oggi giudicherei
piuttosto sprezzante constatazione, mi colpisse al punto che
mortificata andai subito da qualche altra parte a finire la mia
merenda, diventata d'un tratto meno appetitosa. Continuavo a
pensare a quelle parole e provavo tanta vergogna all'idea di quello
che gli altri pensavano di me, ma poi forse ricordando gli
insegnamenti della mamma e delle maestra, mi dissi che se volevo
potevo correggere da sola quel brutto difetto. Presa questa decisione,
cominciai subito a metterla in opera riuscendo, non senza sacrifici, a
frenare il mio desiderio di dolci e di frutta come ho poi fatto per tutta
la vita. Ad eccezione bisogna riconoscere delle ciliegie a cui non
sono mai riuscita. L'ultima scorpacciata, per fortuna senza
conseguenze, risale a una sera verso le undici di ormai tanti anni fa
quando eravamo tornati a Firenze da Zagabria, all'inizio delle
vacanze estive. Con i miei suoceri che erano venuti a prenderci alla
stazione, andammo a casa loro e la mamma mise in tavola una
capace ciotola di fresche ciliegie pistoiesi di un bel rosso chiaro
lucide e sode appese a coppia al verde picciolo come se fossero state
appena colte. Io ero in cinta già alla fine del settimo mese e accolsi
con raddoppiato piacere i miei frutti preferiti abbandonandomi
subito a piluccarli due a due sotto gli occhi prima compiaciuti e poi
sempre più preoccupati della mamma che delicata com'era non
osava esprimere il timore che quel circa mezzo chilo di ciliegie alle
undici di sera e alla fine di un estenuante viaggio in treno potesse
causare seri danni allo stomaco fragile della mammina in attesa. Ma
questo me lo disse solo tempo dopo quando c'era ormai la certezza
che tutto era andato bene. A me però è continuato a rimanere un
dubbio: che quella ingestione prenatale dei deliziosi succhi di
ciliegia possa essere all'origine della passione che anche mia figlia
ha sempre nutrito per quei frutti.
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Manrico da Fucecchio
Alla Romola ebbi anche la mia prima dichiarazione d'amore. Avevo
nove anni, ma questo era il solo tratto in comune con la celebre
eroina dantesca perché a differenza di Beatrice ero una ragazzina
magra dalla corta zazzeretta nera e tutta pepe, come dicevano in
famiglia, che non poteva assolutamente parere "una cosa venuta di
cielo in terra a miracolo mostrare". Lui era un ragazzo più grande di
forse tre o quattro anni che quell'estate si era unito al gruppo. Si
chiamava Manrico e si sapeva che era venuto da Fucecchio, un paese
toscano allora famoso per i carciofi tanto che io una volta per
punzecchiarlo, gli avevo chiesto se era arrivato in cesto della mia
verdura preferita, cosa che era sembrata spiritosa e aveva fatto ridere
tutti. Lui però non doveva essersi offeso se qualche tempo dopo. . .
Era andata così: durante la passeggiata di quel pomeriggio
eravamo rimasti un po' indietro rispetto agli altri - forse per una
scusa da parte di Manrico che, dopo qualche passo era entrato in un
gruppo di alberi, anzi mi pare fossero canne che crescevano al bordo
della strada. Fu da dietro quella verde cortina che mi giunsero chiare
e inequivocabili queste testuali parola: "signorina, io l'amo".
Immagino ora che l'effetto di questo messaggio assolutamente
inaspettato sia stato del tutto diverso da quello sperato dal mio
spasimante perché io scoppiai a ridere e subito corsi via a
raggiungere il gruppo.
Manrico non si fece più veder nel corso di quella passeggiata
e io non dissi nulla a nessuno per non farmi prendere in giro da tutti
per chissà quanto tempo. Di lì a poco partì senza altre avances e alla
Romola non tornò più. Erano passati vari anni quando venni a sapere
che Manrico era il nome del romantico protagonista dell'opera di
Verdi: che anche quel ragazzo di Fucecchio fosse un romantico
trovatore in erba? Molto in erba visto anche il luogo da cui aveva
pronunziato le famose parole, così poco romantiche che seppure
rimaste nella mente non avevano mai colpito il cuore.
Trasportata dai ricordi quasi sgorgati con urgenza dalla
memoria, forse perché rimasti da troppi anni in attesa di venir
rivelati nel racconto, mi sono accorta di non aver detto nulla della
casa alla Romola dovo ho strascorso tutte quelle estati felici della
mia infanzia.
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La casa
Incastrata sulla sinistra, proprio al centro della strada principale del
Poggio di Sotto era una casa molto piccola che il babbo aveva
comprato una domenica di primavera quando era andato alla Romola
a cercare una casa da affittare per l'estate e gli avevano offerto
quella, che sebbene priva di comodità - non c'era nemmeno la luce
elettrica- era solida e in ottimo stato, ma soprattutto a un prezzo
molto conveniente. Insomma, un affare come disse la sera alla
mamma che era sembrata assai dubbiosa. Dopo qualche piccola
riparazione e una completa imbiancatura la casa venne rapidamente
arredata con i mobili necessari e fornita di grandi lumi a carburo,
tanto che potemmo già andare ad abitarvi alla chiusura delle scuole.
A noi ragazzi piacque subito per la grande cucina a pian terreno col
basso camino all'antica dall'ampia cappa e il largo fornello centrale
dove si poteva cucinare anche a legna e le due piccole finestre alte
che si aprivano sulla facciata, ai lati della porta di casa. Vicino al
camino c'era l'acquaio di pietra dove poggiavano anche i due
contenitori dell'acqua fresca, le svelte mezzine di rame che la donna
- come tutte le donne del paese - provvedeva a riempire mattina e
sera alla sorgente appena fuori dall'abitato, in fondo alla lunga e
ripida discesa sassosa dove era stato costruito il grande lavatoio
coperto.
Sulla parete di fronte al camino si aprivano sia un comodo
ripostiglio e il bagnetto che la scala con in alto un piccolo vano
chiuso da una tenda scorrevole, dove dormiva mio fratello, e l'ampia
camera matrimoniale con la finestra sulla strada. Arredata di tutto
punto con comodi mobili tra cui un lettino per me e un armadio che
sarebbe stato al centro di una delle avventure della mia infanzia alla
Romola, indimenticabile come il suo protagonista -che una volta
tanto era un gatto.
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Il gatto "Bucchino"
Bucchino, era questo il suo nome, perché l'epoca in cui cani e gatti
venivano chiamati con i nomi delle persone e viceversa era ancora
molto lontana. Era un bel gattino bianco e grigio dal musetto rotondo
con grandi occhi verdi piccole orecchie e il corto nasino rosa. Svelto
e giocherellone come lo sono tutti i gattini, avrà avuto infatti quattro
o cinque mesi quella mattina al ritorno della passeggiata con la
mamma e altre due signore e i loro ragazzi quando, ancora
abbastanza distanti dal paese, c'era quel gattino che sembrava
aspettarci in mezzo alla strada. Infatti quando lo raggiungemmo
invece di scappare, si unì al gruppo e ci seguì per un breve tratto con
grande sorpresa e piacere specie dei più piccoli. Dopo un po' il
gattino spiccò una rapida corsa per tornare a fermarsi a breve
distanza davanti a noi in un evidente giochetto che si ripetè diverse
volte prima di giungere al paese. Io e Nanni eravamo ormai
completamente conquistati e riuscimmo -con poca fatica a dire la
verità- a convincere la mamma per entrare in casa dargli un po' di
latte e vedere come si sarebbe comportato. Si comportò benissimo -
come se la cucina fosse stata la sua casa da sempre, dove tornava
dopo una breve assenza, disse la mamma vedendolo esplorare ogni
angolo. Bevuto il latte con entusiasmo, andò ad accomodarsi su una
seggiola dove si addormentò pacificamente svegliandosi solo
all'odorino della carne portata in tavola. Cominciò così la nostra vita
con Bucchino che si comportò subito da gatto esemplare, entrando e
uscendo di casa senza mai sporcare, giocando in mille modi per la
delizia di noi ragazzi e l'evidente piacere della mamma. Bisognava
solo stare attenti che non rubasse il latte e la carne. Tutto andò avanti
regolarmente per più di una settimana finché un giorno non era
ritornato dal suo breve giro mattutino e a nulla erano valse le nostre
ricerche sempre più affannose in casa e nel vicinato, dove
chiedevamo a tutti se lo avessero visto. Dopo un paio di giorni
bisognò convincersi che Bucchino era perduto: da prima delusi e poi
addolorati le avevamo pensate tutte - si era smarrito, stanco di quella
vita pacifica e aveva seguito qualcuno, come aveva fatto con noi,
che lo aveva portato lontano e ci aveva dimenticati; oppure era
rimasto chiuso in qualche cantina dove sarebbe morto di fame di lì a
poco. "Mah 'che" disse la Maria che essendo del paese ne conosceva
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a menadito i fasti e i nefasti, "l'avranno preso quei ragazzi cattivi
che si sono divertiti a fargli del male e poi l'hanno ammazzato come
fanno tante volte anche con gli uccellini.", avevamo dovuto
rassegnarci -io avevo anche pianto- a non vedere più quello che
ormai avevamo considerato il nostro micetto; invece, dopo forse una
settimana da quella terribile sentenza, ce lo ritrovammo in cucina
anche se in uno stato pietoso che parzialmente la confermava:
tremava, trascinava una delle zampe posteriori, gli occhi erano rossi
e lacrimosi, aveva abrasioni e bruciature su tutto il corpo,
specialmente alle orecchie e sulla coda e -cosa che ci sembrò
veramente orribile- dei baffetti spiritosi, le magiche vibrisse dei
gatti, restavano solo due piccoli mozziconi bruciacchiati. Eravamo
tutti inorriditi da tanta crudeltà, compresa la mamma che però fu la
prima a riprendersi e cominciò subito a curare il povero Bucchino
che si lasciava fare tutto come se capisse. Olio, arnica, acqua
ossigenata (o forse qualche altro cicatrizzante) il prezioso acido
borico produssero presto il loro benefico effetto mentre il gattino
riprendeva la sua vivacità, solo i baffetti sembravano refrattari e ci
misero un paio di mesi prima di cominciare a ricrescere.
Quell'estate non ci furono fortunatamente altre disavventure
per Bucchino, che continuò a crescere sano e robusto tanto che alla
fine delle vacanze era già diventato un giovane gatto di taglia media
affettuoso e giocherellone. Era piaciuto anche al babbo che si
divertiva a giocare con lui il sabato sera, quando chiuso il suo
negozio di antiquario, veniva alla Romola per passare la domenica in
famiglia, e ci aveva dato il consenso di portarlo con noi al momento
del ritorno in città. Finito settembre arrivò anche il giorno della
partenza, appunto una domenica: il grande baule era stato spedito, la
casa preparata per restare chiusa tutto l'inverno il calesse ordinato in
anticipo stava per giungere davanti alla porta, si trattava ormai solo
di prendere Bucchino e chiudere il portoncino verde tornato a suo
posto dopo la vetrata estiva. Ma Bucchino non si riusciva a trovarlo
da nessuna parte e rimaneva sordo alle nostre chiamate. Com'era
successo all'inizio dell'estate sembrava svanito nel nulla, mentre lo
avevamo visto poco tempo prima -ma forse poteva essere solo
immaginazione- un po' appartato in un angolo della cucina dove si
era ritirato forse perché infastidito da tutto quel movimento
inconsueto. Tutte le ricerche più volte ripetute furono inutili e ormai
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si stava facendo tardi, dovevamo rassegnarci a partire, non prima
però di aver raccomandato alla Maria di continuare a cercare il gatto
in paese e avvertirci se lo avesse trovato. Eravamo già saliti sul
calesse e il cocchiere stava già per schioccare il colpo di frusta
quando il babbo si ricordò all'improvviso di aver dimenticato il suo
bastone da passeggio. Nanni ed io fummo felici di rientrare in casa
per dare un'ultima occhiata a Bucchino, ma questa ultima speranza
si mutò quasi subito in amara delusione e così salimmo nella camera
dei miei genitori per riprendere il bastone e andar via. Aprii
l'armadio e restai a bocca aperta: dentro c'era il bastone del babbo,
ma c'era anche Bucchino che dormiva beatamente acciambellato su
uno dei materassi di lana coperti da un panno e arrotolati per
l'inverno. Non si era accordo di nulla, tutto lo scompiglio dei
preparativi per la partenza e delle nostre affannose ricerche non lo
aveva minimamente disturbato. Lo svegliammo felici e senza
nemmeno pensare a quello che avrebbe potuto succedere
richiudemmo l'armadio e ci precipitammo col gattino tra le braccia a
dare l'incredibile notizia ai nostri genitori. Dopo di che di potè
partire felici e contenti per Firenze.
A Firenze Bucchino visse con noi per lunghissimi anni
affezionato e fedele amico di tutti fu il compagno instancabile di
giochi per noi ragazzi e per i nostri compagni, ma specie per me cui
era particolarmente affezionato tanto che venne sempre considerato
mio, quello che io ricordo come il primo vero gatto della mia vita.
I nostri giochi andavano dalle sfrenate galoppate sul cavallo a
dondolo a cui lui partecipava stretto con un braccio al mio petto, alle
corse e alla caccia negli angoli e sotto i mobili in tutta la casa, finché
Bucchino stanco e seccato prima di noi andava a rifugiarsi sui piedi
della mamma, al sicuro sotto la coperta che nei lunghi pomeriggi
invernali teneva sulle ginocchia mentre seduta sulla sua poltrona
sferruzzava a qualcuno dei suoi complessi e perfetti lavori a maglia.
Ma c'erano anche i giochi tranquilli, da bambina diceva
Nanni con sufficienza allontanandosi subito magari per andare a
trafficare con i pezzi di qualche giocattolo più complicato che aveva
smontato per vedere come era fatto dentro.
A me questo non interessava né punto né poco perché avevo
Bucchino che partecipava sempre a questi dove spesso figurava da
originale e paziente protagonista, come ad esempio in quello della
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"scuola" forse il mio preferito. Dopo averlo vestito con gli abiti della
mia bambola più grande, prendevo Bucchino per mano e facendolo
camminare ritto sulle zampe di dietro lo conducevo in camera mia
dove seduta al tavolino con lui sulle ginocchia, gli tenevo la zampa
che "impugnava" una matita e lo facevo scrivere e far di conto in dei
quadernini preparati appositamente per lui. Un altro di questi giochi
che sicuramente gli piaceva almeno un po' era il tè delle bambole
perché nel corso del trattenimento gli versavo ripetutamente del latte
in uno dei piattini del piccolo servizio di porcellana bianco a fiori
azzurri e lui lo beveva con entusiasmo, senza allontanarsi di corsa da
quelle riunioni di "signore" quasi sempre immaginarie, il che non mi
impediva di intrattenerle in rapida e fluente conversazione.
Col passare degli anni, passarono anche i giochi e Bucchino
divenne sempre più il compagno affettuoso e fedele delle mie letture
e delle ore di studio che trascorreva accoccolato sulle mie ginocchia,
o acciambellato con eleganza, o anche seduto a sfinge con le zampe
stese in avanti, su un angolo del famoso tavolino in camera mia.
Non mancarono gli episodi in cui il gattino della Romola
seppe dimostrare in altri modi il suo affetto per me, ma ricordo
chiaramente quello forse più clamoroso di una rigida sera invernale
quando appoggiata la testa sul tavolo appena sparecchiato, mi ero
abbandonata a disperati singhiozzi per l'insopportabile bruciore
causatomi dai geloni su entrambi i calcagni, piaga che allora
tormentava tanti bambini. Quella sera poi si trattava della reazione a
un rimedio casereccio, per altro veramente efficace un bagno caldo
in acqua e ammoniaca suggerito da una amica della mamma che
avevo subito insistito per sperimentare. Come dicevo, la reazione era
stata terribile: con la testa abbandonata sulle braccia, il viso coperto
tra i capelli continuavo a singhiozzare con preoccupazione dei miei
ed evidente terrore di Bucchino, che saltato subito sul tavolo,
correva su e giù sul lungo fratino 1 , fermandosi ogni volta per
cercare di farmi alzare la testa frugandomi col musetto tra i capelli.
Non ebbe pace finché non riuscì a vedermi il viso e solo allora si
fermò vicino a me dove rimase finché non mi fui calmata.
Ci sono stati poi tanti momenti che poco a poco tornano alla
mente: la scoperta per lui deliziosa dell'olio di fegato di merluzzo,
Tavolo lungo e stretto così chiamato dall'uso dei frati
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altro tormento della nostra infanzia - secondo solo all'olio di ricino-
che Bucchino fece una mattina, attratto dall'odore del cucchiaio
appoggiato sul piattino in attesa di venir lavato a parte. Visto che gli
piaceva la mamma cominciò a dargliene una piccola dose ogni
mattina, cosa che alla fine risultò in una dimostrazione delle qualità
curative del disgustoso prodotto, guarendolo dell'infiammazione alle
ghiandole del collo che all'inizio dell'inverno gli si erano sempre
gonfiate, conseguenza aveva detto il veterinario delle sevizie sofferte
in tenera età.
BUCCHINO E LA CACCIA MANCATA
Quando ero malata Bucchino stava sempre accoccolato ai
miei piedi, in quelle occasioni col permesso della mamma e così
anche quella notte che avevo la febbre alta per gli orecchioni e lei
era rimasta a sorvegliarmi seduta in poltrona al lato del letto. Ad un
tratto lo vide con la coda dell'occhio alzarsi di scatto e puntare dritto
pronto a lanciarsi verso l'alzata del comodino da dove veniva un
leggerissimo fruscio che ora avvertiva anche lei ma che aveva già
colpito l'orecchio finissimo del gatto tanto da svegliarlo. La mamma
guardò e nella lieve luce diffusa dalla lampada da notte vide una
scena che, raccontandola diceva incredibile e che oggi entrerebbe in
qualche bel cartone animato. Appoggiato all'alzata del comodino
c'era un pacchetto di biscotti già aperto e davanti a questo, il
corpicciolo ben proteso sulle zampine di dietro per cercare di
raggiungere quel cibo appetitoso, codina sottile distesa e piccole
orecchie dritte nell'ascolto c'era un topolino grigio che
all'esclamazione soffocata della mamma voltò il musetto appuntito
verso di lei e in meno di un secondo era sparito con rapidissima
corsa silenziosa attraverso la finestra socchiusa della camera
lasciandola sbigottita; anche Bucchino che si mise subito a leccarsi
una zampa e poi se la passò sui baffi con falsa indifferenza per
nascondere il disappunto di quella caccia mancata.
LA STORIA DELLA TORTA
Poi, naturalmente, c'è la storia della tortora a testimoniare
della felinità evidentemente immancabile anche in un gatto così
dolce e addomesticato come Bucchino. Eravamo appena tornati dalle
Romola quell'anno che ci avevano regalato la piccola tortora grigia,
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morbida e ben pettinata, che naturalmente avevamo chiesto e
ottenuto di portare con noi in città. Bucchino, sorvegliato a vista da
noi ragazzi l'aveva accolta di buon grado e molta curiosità, cosicché
tutto sembrava procedere senza problemi. Dopo un paio di giorni
però ci avvertirono che la zia Virginia - sorella del babbo e unica
parente - era gravemente ammalata. La zia vedova e senza figli,
viveva da sola all'ultimo piano del grande appartamento del
quattrocentesco palazzo di Americo Vespucci in Borgo Ogni Santi.
Saputo della malattia, i miei decisero di trasferirsi, donna compresa a
casa della zia dove c'era posto per tutti in modo da poter assistere
l'ammalata anche la notte; si trattava di una malattia non infettiva
ma che procurava altissima febbre. Si sarebbe rimasti fino al
superamento della crisi; degli animali si sarebbe occupato il babbo la
mattina prima di recarsi al negozio, in Via Maggio (una delle strade
allora famose per i negozi degli antiquari) dove avevamo anche
l'abitazione. La zia guarì dopo qualche giorno e tornammo a casa
anche perché stava per cominciare la scuola e riprendemmo la nostra
vita normale contenti di ritrovare Bucchino e la tortora che avevano
convissuto benissimo, come del resto ci aveva assicurato il babbo.
Ma qui commettemmo un errore irreparabile: vedendo Bucchino che
seguiva la tortora mentre zampettava impettita per la cucina, e ogni
tanto le dava dei colpetti con la zampa - invece di capire che stava
giocando e che se avesse voluto farle del male avrebbe potuto farlo
benissimo quando erano soli, cominciammo a rimproveralo con
grida di "brutto il gatto"; "lascia stare la bambina" e a rinchiuderlo
in un'altra stanza se lui non smetteva di tormentarla. Le cose
andarono avanti così per qualche giorno fino a quella mattina che
entrando in cucina ci accorgemmo che la tortora non c'era più, c'era
solo un mucchietto di penne grigie sotto la finestra: Bucchino si era
vendicato.
Ci volle del tempo prima che riuscissimo a perdonarlo e alla
fine ci riuscì anche perché bisognò convincersi che la colpa
maggiore era stata nostra ma eravamo ancora piccoli e non avevamo
capito l'istinto vendicativo dei gatti una cosa che io avrei fatto solo
molti anni, e tanti gatti dopo.
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L'ESAMINO
Devo anche riconoscere che fu grazie a Bucchino se a dieci
anni non ancora compiuti vissi un sia pur breve momento di gloria
durante l'esamino di stato per il passaggio dalla quarta elementare
alle superiori o meglio alle preparatorie - le medie di allora - così
come aveva consigliato la maestra che mi riteneva abbastanza
matura. L'enunciato del tema d'italiano diceva più o meno così:
"arrivata davanti alla porta aperta del salotto, la mamma lanciò un
grido di sgomento. Che cosa era successo?"
Fu proprio ripensando alle molte e svariate marachelle che
poteva combinare il mio vivacissimo gatto specie se gli capitava a
portata di zampa un pezzetto di spago o meglio ancora "un rocchetto
di filo" momentaneamente caduto per terra che, d'un tratto mi si
presentò alla mente tutta la scena da descrivere nello svolgimento
del tema, "guardando nel salotto la mamma vide il pavimento
attreaversato da un coloratissimo groviglio di fili di lana, di seta e di
cotone che correvano in tutte le direzioni, girati e rigirati intorno alle
gambe delle sedie e delle poltrone, ma anche a quella del tavolo e di
vari altri mobili. La mamma non tardò a capire che cosa aveva
causato quel disastro. Bucchino, il gatto di casa, aveva fatto cadere il
tavolino da lavoro rovesciando il contenuto del cassetto: morbidi
gomitoli di lana, affusolate spagnolette di seta, rotolanti rocchetti di
cotone si erano sparsi sul pavimento e avevano cominciato a
srotolarsi. Bucchino aveva fatto il resto, correndo pazzamente su e
già per la stanza spingendo e finendo di srotolare gomitoli e
rocchetti. Chissà quanto si era divertito con tutti quei fili colorati che
si intrecciavano sempre di più sul lucido pavimento del salotto."
Il mio svolgimento finiva qui; non diceva che cosa avesse
fatto quella mamma; se avesse inflitto la giusta punizione al
colpevole, ma ripensandoci ora direi che lo abbia perdonato come
faceva quasi sempre la mia con Bucchino in carne ed ossa.
Comunque sia il mio tema piacque molto all'esaminatore che come
si venne a sapere, continuava a lodarne la fantasia, l'originalità e la
proprietà del linguaggio ai colleghi, tanto che questi, forse
giustamente annoiati, finirono col chiamarmi "la Laschi del
professore", qualifica che mi rimase appiccicata per tutta la durata
degli esami. L'entusiasmo di quel signore si spense però
immediatamente all'inizio dell'orale, quando avendomi chiesto a
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quale liceo mi sarei iscritta dovetti rispondere che sarei andata
all'Istituto Commerciale e niente servì aggiungere che la scelta era
del mio babbo a cui serviva un ragioniere per il suo negozio di
antiquario e per il laboratorio di restauro. È un errore disse
seccamente il professore e mi liquidò con poche e indifferenti
domante. Sic transit gloria mundi.
Di quell'esame forse perché fu il primo della mia vita ho
conservato un altro ricordo che non ha nulla a che fare coi gatti e con
gli effimeri momenti di gloria infantile, ma è comunque legato alla
prova d'italiano. Si tratta infatti del dubbio sull'ortografia della
parola donde allora assolutamente nuova per me, che compariva
nella frase finale del dettato o dettatura come si chiamava ai miei
tempi: con l'apostrofo o senza? Ci avevo pensato fugacemente prima
di scriverla e mi ci ero soffermata di nuovo al momento della
rilettura del testo da parte dell'insegnante, ma senza riuscire a
decidere e così la lasciai come l'avevo scritta, senza l'apostrofo. Ma
avevo continuato a ripensarci e a tormentarmi un po' finché non
venni a sapere che si poteva scrivere in tutti e due i modi, ma non ho
mai dimenticato quei momenti di dubbio causati da quelle parola,
così come l'intera frase in cui l'avevo incontrata per la prima volta:
"Chi non ha patria è come belva che non sa donde sia nata, scrive il
grande Tommaseo che per la patria soffrì prigionia ed esilio"
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La parlata della Romola
Alla Romola la parlata era del più puro vernacolo non becero ma
con tutte le sue caratteristiche più peculiari al posto loro come la e
sfumata ma mai inesistente, e addirittura raddoppiata facendola
precedere da una i ad esempio in quella parola tutta particolare
"icchè" per cosa; o l'elisione di lettere come la stessa i
('ntanto,'nvece) o della "n" magari sostituita e raddoppiata con la
"u" (unn'e vero?) e così via. C'erano poi tutti i detti tradizionali del
toscano, ma anche fantasiose espressioni locali come ad esempio
"mi manca i' fiato alle gambe" per dire che uno si sentiva debole. In
generale del resto, le descrizioni di semplici fatti da parte dei
romolini erano sempre abbastanza pregnanti e io ne ricordo ancora
alcune come quella della risposta dell'ortolana, cui avevo accennato
all'inizio, alla domanda della mamma su come aveva passato
l'inverno la bambina più piccola un po' delicata di salute. "Eh, l'ha
avuto la bronchite - l'è stata la nonna che a Natale la gli volle lavare
'piedi; io glielo avevo detto ma lei la disse vien via almeno pe'
ceppo lavamognene va! la prese la febbre, e ..."
Non mancavano poi altri episodi che giravano in paese e che
io ho potuto , diciamo cos', apprezzare solo a distanza di anni, come
le parole di quella ragazza bruttina per convincere a sposarla il
fidanzato che l'aveva lasciata, '"n guardare se son brutta di viso,
perché di sotto e 'ho i' paradiso!"
Doveva essere vero, dicevano i paesani maliziosi, perché lui
ci aveva ripensato e dopo averla sposata era diventato gelosissimo.
E ora mi tornano alla mente altre storie collegate in qualche
modo con l'argomento come il mio "discorso" tenuto una mattina in
quella casa colonica anche se a ripensarci capisco che più delle
particolarità linguistiche degli abitanti si tratta dell'interesse
dimostrato anche dai contadini della Romola per questioni del tutto
al di fuori della loro quotidianità ai tempi in cui la TV non li aveva
ancora tratti nel bene e nel male dal loro silenzio intellettuale. Avrò
avuto, credo, dodici anni la mattina in cui, stanchi dalla lunga
passeggiata, ci eravamo fermati a quella casa per chiedere da bere.
C'erano quattro o cinque persone nella fresca cucina, tra cui due
uomini uno dei quali ancora abbastanza giovane. Io mi ero
soffermata per rispondere alla massaia che aveva chiesto se eravamo
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in villeggiatura alla Romola e a una precisa domanda che non
ricordo da parte del giovanotto che aveva voluto sapere a quale
scuola andavo e quali argomenti si studiassero avevo cominciato a
spiegare del sole, di Giove di Marte e della Luna questi immensi
corpi celesti che gravitano nell'universo intorno a noi. Ero poi
passata all'atomo e alle particelle delle materia, tutte cose che avevo
imparato proprio quell'anno nelle ultime lezioni di storia naturale e
di geografia. Anche se non ricordo più come avessi strutturato il mio
discorso ricordo benissimo la frase di chiusura, forse un po' ingenua
ma sicuramente sincera: "è affascinante pensare che nel mondo
intorno a noi esistono insieme l' infinitamente grande e
l' infinitamente piccolo". Gli abitanti della cucina che mi avevano
ascoltato in silenzio non dissero nulla, il solito giovanotto disse che
sì, era molto interessante e i ragazzi del gruppo quando li raggiunsi
sull'aia dove erano andati ad aspettarmi mi dissero che ero sempre la
solita chiacchierona.
L'anno dopo tornammo dalle parti di quella fattoria, ma non
ebbi modo di sfoggiare la mia eloquenza e forse non ci saremmo
neanche fermati se non fosse che Nanni dovette andare a chiedere
aiuto proprio per me: ero infatti scivolata sull'erba mentre
scendevamo la collina ed ero caduta col piede sinistro sotto di me,
slogandomi malamente la caviglia che si era subito gonfiata e mi
faceva un male tremendo. Visto inutile ogni tentativo di camminare
si era deciso di chiedere aiuto agli abitanti della casa per fortuna non
lontana dal luogo dell'incidente, i quali non si fecero certo pregare:
la massaia mandò subito a chiamare gli uomini al lavoro nei campi,
due dei quali tornati a casa attaccarono subito un bove al carro
agricolo, mi caricarono su un morbido strato di fieno, sistemando
anche gli altri in qualche modo e ci trasportarono lentamente, ma
sicuramente tutti a casa attraverso i boschi.
La caviglia continuò a farmi male per vari giorni, sebbene
fossi rimasta con la gamba distesa e malgrado l'applicazione di
ripetuti impacchi d'arnica e, quando fu evidente la loro inutilità
nonostante la chiarata una specie di ingessatura casalinga preparata
con un pezzo di stoffa ben inzuppato nel bianco sbattuto di due o tre
uova. Bene o male dopo circa una settimana di questo trattamento
certo primitivo, fui di nuovo in grado di camminare. La caviglia però
ha continuato per anni a farmi male ad ogni cambiamento del tempo,
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spesso col rischio di farmi cadere, come avvenne clamorosamente
una volta mentre attraversavo la pineta di Viareggio. Ero all'ottavo
mese di attesa di Gabriella e d'un tratto la caviglia si piegò
facendomi cadere mollemente sul terreno coperto di aghi di pino,
come una mongolfiera -pensai- cui fossero stati tagliati gli ormeggi
quando non era ancora pronta per il volo, mentre i pochi passanti
spaventati si davano da fare per rialzarmi. Per fortuna non mi ero
fatta nulla e la caviglia deve essersi aggiustata perché non ricordo
altri casi del genere.
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L'operosità della gente della Romola
La gente della Romola era di una operosità eccezionale; durante la
settimana gli uomini giovani o vecchi che fossero, non si vedevano
mai in paese, tranne naturalmente quelli che vi lavoravano e, quanto
alle donne non ricordo di averne mai vista una - come suol dirsi -
con le mani in mano. A parte le comuni occupazioni domestiche e la
cura dei figli erano le donne a provvedere, come ho già detto, ogni
giorno, estate e inverno, mattina e sera al faticoso rifornimento
dell'acqua per uso domestico; una volta la settimana poi facevano il
pane in casa e lo portavano a cuocere al forno pubblico accomodato
sia da crudo in morbide forme di pasta, che da cotto in rotonde
pagnotte su una lunga asse coperta da un panno bianco ben
bilanciata sulla testa. Negli intervalli tra queste quotidiane
operazioni - il loro tempo libero come si dice oggi- le donne della
Romola e anche le bambine dai sette anni in su facevano la treccia,
quei bei nastri di fili di paglia dorati più o meno sottili a seconda
della abilità, perfettamente intrecciati che le donne traevano dalla
capace tasca dell'immancabile grembiule nero. Via via che si
allungava il perfetto nastro di treccia di varia larghezza a seconda
del numero dei fili, veniva legato nelle altrettanto perfette mannelle
che gli restavano appese finché raggiunta una determinata
lunghezza, i fili ben legati all'estremità, le mannelle venivano
riposte delle scatole di cartone in attesa di essere vendute in città
dove in un domani più o meno lontano la treccia della Romola
sarebbe stata trasformata nei tradizionali mitici cappelli di paglia di
Firenze, venduti a loro volta sotto le Logge del Porcellino, le antiche
arcate al centro di Firenze così chiamate per la statua del
cinghialotto che ne orna la parte centrale dell'ingresso. Sul quei
banchi bene attrezzati che comparivano sotto le antiche Logge un
paio di giorni la settimana -non ricordo più quali - con la mercanzia
al riparo dalla pioggia e dal freddo, oltre ai cappelli, alle borse, alle
ventole e ai soffietti e altri oggetti di paglia, veniva esposto anche un
altro prodotto dell'industriosità delle donne della Romola, le
tovaglie di lino ricamate a mano con complesse merlature e raffinati
ricami a punto inglese intagliati secondo precisi modelli. Queste
tovaglie, più spesso, da dodici venivano ricamate quasi
esclusivamente da ragazze o da giovani spose riunite a cerchio in
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gruppetti da due a quattro o anche cinque, abbigliate ognuna di un
ampio grembiule questa volta bianco e intenta a ricamare il suo
pezzo di tovaglia, mentre la parte già fatta pendeva al di sotto
accuratamente accolta in carta velina bianca. Questo laboratorio
tutto al femminile si trovava in una grande e ariosa stanza in casa di
una delle ragazze e costituiva anche il centro di chiacchiere e
pettegolezzi del paese e dintorni ma anche della lettura del giornale
che almeno una volta alla settimana veniva portato in paese dagli
uomini che lavoravano in città, letto e commentato in comune dalle
donna di cui ho già parlato in precedenza.
Il panico
L'anno della marcia su Roma che naturalmente suscitò grande
interesse alla Romola dove come abbiamo visto abbondavano i
socialisti, la lettura del giornale che ora veniva portato in paese quasi
ogni sera, fu richiesta alla mamma che aveva accettato di buon
grado. Fu in una di queste letture pomeridiane che avvenne
l'episodio del 'timor panico' descritto nel giornale a proposito di un
tumulto scoppiato in una piazza di Firenze. La mamma naturalmente
aveva letto quella parola con l'accento giusto, ma con evidente
disapprovazione delle lettrici che erano scambiate sguardi di stupore
e una più ardita della altre aveva sussurrato in tono di rimprovero,
'panico!'. La mamma aveva spiegato la questione e la lettura era
ripresa normalmente ma, giunta a casa aveva raccontato divertita
l'incidente a noi ragazzi che subito eravamo scoppiati a ridere a
crepapelle perché se allora non sapevamo nulla di etimologie e altre
sottigliezze linguistiche, conoscevamo benissimo il panico che ogni
mattina era mio compito versare nelle cassettina della gabbia del
canoro fringuello di casa che aveva i miei anni perché mi era stato
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regalato il giorno della nascita da una amica della mamma,
evidentemente ignara di ornitologia, che lo aveva chiamato capinera
per il capino e le alucce nere come i miei capelli. Per anni ci aveva
rallegrati ogni mattina con i suoi canti e i gorgheggi fino a quel
giorno tristissimo quando al ritorno da scuola la mamma mi era
venuta incontro per dirmi che la donna cui era toccato di pulire la
gabbia perché io avevo dormito un po' più a lungo del solito, doveva
aver chiuso male lo sportello e Capinera aveva preso il volo. Non era
andata lontana però perché si era posata davanti alla finestra di
cucina, sul cornicione di un'ala della grande chiesa di Santo Spirito
da dove continuò a giungerci il suo canto come sempre armonioso e
forse - diceva la mamma - più felice. Lo fa per consolarmi del
dispiacere, pensavo io che ne mio egoismo di bambina avrei
preferito tenerlo vicino per poterlo vedere e salutare tutti i giorni.
La storia continuò finché lasciammo la casa per andare ad
abitare nel grande appartamento al primo piano in Piazza Santo
Spirito che il babbo aveva comprato insieme all'altro a piano terra
col suo piccolo giardino chiuso dai muri al posto del solito cortile.
Le finestre del primo piano guardavano su un parco pubblico anche
questo non grande ma ombroso e ben provvisto di panchine, che ha
l'ingresso principale è proprio davanti alla casa ornato dalla statua di
qualche importante personaggio che fa bella mostra di se
dignitosamente abbigliato in un'attillata redingote ottocentesca.
Oltre il giardino che ho attraversato tante volte al ritorno da scuola la
vista spaziava fino alla bella facciata della chiesa di Santo Spirito,
opera del Brunelleschi (?) , e all'imponente scalinata che le da
accesso. Siccome quando entrammo nell'appartamento certi lavori di
rinnovo non erano ancora finiti, per alcuni giorni i mobili sistemati
senza ordine in varie stanze si erano coperti di polvere. La cosa dette
origine a un'altra piccola storia, non di capinera ma di Bucchino, il
gatto della Romola, che essendo l'ultima di cui ho un preciso
ricordo, vale forse la pena di raccontare. Naturalmente, fatto il
trasloco l'avevamo portato nella casa nuova e lui in tutta quella
confusione e inevitabile trambusto dei primi giorni era andato
immediatamente a rifugiarsi, come fanno i gatti, qualche angolo ben
nascosto e protetto dietro casse e mobili impolverati, fra i quali
spiccava il pianoforte con la sua superficie una volta lucida e nera
ma ormai coperta di un impalpabile strato di polvere bianca, dal suo
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nascondiglio che non lasciava mai durante il giorno nemmeno per
venire a mangiare o bere, Bucchino usciva solo nella calma e nel
silenzio della notte per andare in ricognizione in ogni angolo delle
varie stanze senza esser visto da nessuno. Così credeva lui perché
nei suoi ripetuti andirivieni le morbide zampette lasciavano impronte
ben precise sulla superficie impolverata dei mobili, in particolare su
quella del pianoforte, che la mattina dopo permisero a Nanni e a me
di ricostruire tutto il percorso e andare a scoprirlo nel suo
nascondiglio e di riportarlo fra noi. Non servì a nulla però perché
dopo un po' e non si fece più vedere finché l'ordine e la calma non
vennero ristabiliti nella nuova casa.
L'inverno alla Romola
Anche se, parafrasando il poeta delle Ricordanze ora che 'breve la
speme e lungo alla memoria il corso', sono tante le cose che ricordo
di quegli anni alla Romola, ce ne sono altre che invece ho
dimenticato, come ad esempio se allora esistesse in paese un edificio
adibito alle scuole elementari. O forse non l'ho mai saputo perché
d'inverno non c'eravamo mai andati tranne un infelice tentativo di
andarvi a passare le vacanze di Natale, fidando nel fuoco di legna
che avremmo acceso nel cammino per scaldarci di giorno e i tre
capaci scaldini di notte, tentativo che era finito miseramente dopo
due giorni, sotto le gelide ventate che spazzavano la cucina e
s'infiltravano fin su per le scale ogni volta che veniva aperta la
vetrata dell'ingresso per far entrare e uscire qualcuno.
Comunque sia a ricordo che l'educazione elementare veniva
impartita ai bambini da un maestro inviato in trasferta dal capoluogo
o forse da Firenze dove - e questo lo so di sicuro - andavano i
ragazzi, ma non le ragazze che desideravano proseguire gli studi,
quasi generalmente alle Commerciali.
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Anche come divertimenti il paese offriva ben poco d'inverno,
tranne lo struscio domenicale in su e in giù per la strada centrale e, a
cominciare dall'autunno in concerti della banda paesana in
occasione delle ricorrenze, diretta dal maestro che già a fine
settembre tornava alla Romola e il sabato sera teneva le prove in uno
stanzone all'estremità del paese, forse adibito, ora che ci penso,
anche a scuola. Fu qui che una volta alla fine di una giornata fredda
e piovosa di settembre eravamo andate con la mamma e altre signore
ancora in villeggiatura come noi a passare un'ora prima di andare a
letto; io, dopo un po' mi ero addormentata e avevo dormito
saporitamente per tutta la durata delle prove nonostante il rimbombo
degli ottoni, interrotto di tanto in tanto, mi raccontava la mamma, da
i non meno risonanti richiami del maestro. Beato sonno
dell'infanzia, quante volte mi è occorso di rimpiangerlo quando,
ormai vent'anni fa, ho cominciato ad essere tormentata dall'insonnia
specie in quelle lunghe ore ancor prima dell'alba! Ore tormentose in
cui si continua a pensare alle cose che avresti voluto o dovuto fare e
che non hai saputo o voluto fare. Sono quelle le ore di angoscia o
anche soltanto di ansia che niente può vincere: non la volontà, non i
pensieri positivi e nemmeno quei rimedi pratici come la monotona
ripetizione al buio di forse un centinaio di versi in varie lingue delle
poesie che ho imparato a scuola; anche le letture magari noiose alla
luce della lampada del comodino. Come dicevo, le cose sono andate
avanti così per anni, specie da quando non mi è stato più possibile
alzarmi alle prime luci del giorno e impegnarmi in qualcosa di utile
come, ad esempio, la correzione delle bozze di stampa di articoli e
libri di Gabriella o di Silvia - o di un'amica cara . Un anno fa però
tutto questo è cambiato; quella mattina e poi tante altre mattine verso
le quattro, sveglia e istantaneamente vigile cominciai, e poi
continuai a scrivere con la matita del cruciverba questi racconti, che
sono riusciti a colmare quelle ore interminabili con l'impegno del
fare e il rinnovato interesse per la memoria del vissuto che
stimolando la fantasia lo arricchisce e l'organizza il racconto,
appunto.
Dato che abbiamo abitato per anni proprio al centro del paese
i nostri rapporti con la gente erano continui e cordiali: la mamma,
chiamata rispettosamente la Soremma, godeva di molta
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considerazione da parte delle donne che venivano sempre a chiederle
notizie e consigli, ma anche medicine e rimedi introvabili sul posto
di cui portava sempre buona scorta all'inizio della stagione, per
curare ammaccature, ginocchia sbucciate, ferite di vario genere e
bruciature nonché coliche e indigestione specialmente dei più
giovani.
Io bambina allegra e socievole sempre pronta a giocare con
quelle della mia età, ero ben vista da tutti e forse ammirata quando
fui più grande, se devo credere a quella signora della Romola che
incontrai più di una trentina di anni dopo sul tram a Firenze, e disse
di avermi riconosciuto subito perché ero una persona che non si
dimentica.
Per Nanni i rapporti con gli abitanti ebbero sempre carattere
molteplice e talvolta conflittuale. Buon compagno dei ragazzi per i
giochi e le gite nei boschi, dagli uomini voleva sempre sapere tutto
sui mestieri e i lavori dei campi, mentre con le donne non tutte le
cose andavano bene, perché a volte le faceva arrabbiare con qualche
brutto scherzo e allora arrivavano perfino a rincorrerlo con male
parole e minacce inutili, visto che poi erano pronte a perdonarlo
quando regalava alle vittime una delle sue acquasantiere ricavate da
grossi pezzi di scorza di pino raccolte nei boschi fra quelle cadute al
piede degli alberi. Queste acquasantiere, realizzate con una abilità
che già preludeva allo scultore di domani piacevano molto e
consistevano in un pezzo di scorza orizzontale arrotondato ai bordi e
scavato al centro per contenere l'acqua benedetta, cui faceva da
alzata un altro pezzo fissato verticalmente al primo e ornato con
un'immagine ritagliata da qualche santino e attaccata con cura
mediante un po' di colla.
Lo scherzo più cattivo di tutti era secondo me quello di
mettersi ad aspettare qualcuna delle più giovani in cima alla strada in
salita che portava alla fonte dell'acqua da bere, dove arrivavano
stanche e accaldate con le mezzine colme e proprio mentre le
abbassavano verso terra per riposarsi un po' lui si avvicinava
dicendo con un bel sorriso "guardate che bella collana vi ho portato"
e allungava le mani dove teneva una piccola biscia che da poco
aveva ucciso nel bosco sulla riva di qualche borro, come a recingere
il collo delle malcapitate che naturalmente si tiravano indietro con
grida di spaventato ribrezzo e alzavano le mani per difendersi dal
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pericolo. Naturalmente così facendo lasciavano la presa sul manico
delle mezzine che cadevano rovesciando il loro prezioso contenuto e
cominciavano a rotolare giù per la discesa inseguite dalle donne
giustamente furiose che ora sarebbero dovute tornare a riempirle di
nuovo. L'autore della bravata si allontanava lasciando sul posto il
povero e doppiamente innocuo serpentello soddisfatto di se e
incurante dei severi rimproveri che lo aspettavano a casa quando la
mamma avrebbe saputo di quella storia.
Le vacanze dell'estate passavano e si ripetevano rapidamente
- noi cominciavamo da diventare grandi e a cambiare non solo i
giochi ma anche compagni e a conoscerne di altri spesso più grandi
di noi. Il primo di questi incontri per me fu quello con Wanda, la
giovane figlia di un noto sarto per uomo di Firenze che dopo due
volte in cui non ci eravamo scambiate un saluto alla messa della
domenica si era avvicinata a me all'uscita della chiesa e avevamo
cominciato a parlare delle solite cose che, immagino, si dicono in
questi casi. Lei era arrivata da meno di un mese quando suo padre
aveva comprato una villa nelle vicinanze e non conosceva ancora
nessuno; avrebbe avuto piacere se ci fossimo incontrate per fare
qualche passeggiata e anche di conoscere i miei amici come quel
ragazzo che aveva visto alla messa insieme a me e così via, io avevo
risposto che, certo, sì poteva fare, che quel ragazzo era mio fratello e
che avremmo sistemato tutto organizzando tutto per bene. Le cose
andarono così e cominciò subito un'amicizia che continuò per anni
anche a Firenze e venduta la casa per molto tempo dopo che erano
ormai finite le nostre felici vacanze alla Romola.
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Cervia e Grazia Deledda
Avevo circa quindici anni quando mio padre decise di vendere la
casa della Romola che da troppo tempo era diventata assolutamente
insufficiente e inadeguata alle necessità della famiglia: anche allora
provai un vivo dispiacere (o precoce rimpianto di quegli anni felici
dell'infanzia?). Che non valse a consolare l'acquisto della casa al
mare, naturalmente a Viareggio, all'epoca meta delle vacanze di
tanti fiorentini, fino al mio matrimonio tranne però quell'anno in cui
fu deciso di andare a passare l'agosto a Cervia, uno dei nuovi centri
di vacanze che come il vicino Milano marittima avevano cominciato
a sorgere sulle spiagge della Romagna. A Cervia tutto era davvero
diverso a cominciare dall'acqua da bere, gialla di zolfo che sgorgava
dalla fonte del paese antico, alla spiaggia più vasta, ma soprattutto al
mare, ora non più azzurro come il Tirreno che era invece
quell'Adriatico selvaggio "che verde è come i pascoli dei monti", e
se lo dice D'Annunzio verde doveva essere anche a Pescara dove
oggi di quel bel colore agreste rimane solo una breve fascia poco
lontana dalla spiaggia.
Il villaggio delle vacanze era costituito mi pare, da sei casette
a un piano o cottage - ben distanti fra loro, con un proprio spazio nel
grande e ombroso bosco di vero e proprio parco vicino al paese
tra questo e la spiaggia larga e ancora abbastanza sgombra da cabine
e ombrelloni, cui si arrivava direttamente dal bosco abitando nei
cottage - sebbene assolutamente indipendenti anche per i servizi-
avevamo finito col conoscerci tutti; ma anche durante le serate a
"Villa Igea" il dancing sulla spiaggia che con l'attigua zona giochi
per bambini formava il parco divertimenti del villaggio.
Fu così che dopo pochi giorni dal nostro arrivo a Cervia
incontrammo un compagno di scuola che mi fece conoscere sua zia,
Grazia Deledda, anche lei in villeggiatura in un cottage abbastanza
vicino al nostro. La scrittrice sarda, da poco vincitrice del Nobel, di
cui avevo già letto due dei romanzi più noti, era una signora piccola
e rotondetta con una massa di capelli bianchi e la faccia intelligente
e benevola, di modi semplicissimi e gentili che amava circondarsi di
ragazzi e ragazze giovani e che invitava al cottage nei pomeriggi
verso sera intrattenendosi con loro a parlare delle cose più disparate
compresi i film e gli attori del momento. Dopo che il nipote ci ebbe
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presentati anch'io e mio fratello venimmo subito inclusi in quegli
inviti che io naturalmente accettavo con grandissimo piacere e
interesse. E ricordo sempre la gioia della prima volta che andai al
cottage anche perché su un mobile dell'ingresso c'era una bellissima
gatta d'angora che immobile come una statua di lucida porcellana
bianca sembrava accogliere con benevolenza e grande dignità
l'ammirazione dei visitatori. Di quelle interessanti e piacevoli visite
al cottage rammento in particolare quella di un pomeriggio più caldo
del solito in cui la nostra ospite offrì a tutti un bel bicchiere di fresca
Albana - il buon vino bianco leggero e frizzante romagnolo,
frizzante e adatto anche come aperitivo. Sebbene non fossi abituata a
bere del vino fuori pasto, quella sera - ricordo che la pentola stava
già battendo le 19:00- avevo vuotato il bicchiere un po' alla volta e
quasi senza accorgermene. Di lì a poco avevo cominciato a parlare
più vivamente con sempre maggiore rapidità del solito - senza
riprender fiato, disse poi Nanni che aveva capito subito la situazione:
per la prima volta nella vita sua sorella era sbronza. Anche se per
fortuna non pare che quel flusso inarrestabile di parole contenesse
grosse sciocchezze, Nanni preoccupato della figura che avrei potuto
fare se la cosa fosse peggiorata cercò di convincermi che si stava
facendo tardi e che bisognava tornare a casa per la cena. Dopo un
po' pareva aver ottenuto lo scopo senza ulteriori problemi e ce ne
eravamo tornati a casa dove avevo continuato a chiacchierare senza
interruzioni che avvertita si astenne dai rimproveri.... e dopo avermi
fatto mangiare qualcosa mi accompagnò a letto dove mi ero
immediatamente addormentata e continuai a dormire come un sasso
fino alla mattina successiva. La mamma mi fece un serio discorso
non proprio di rimprovero ma di avvertimento su come comportarsi
in certe occasioni e sui pericoli delle bevande alcoliche, vino
compreso. Agli amici che ci avevano aspettato invano al dancing la
sera prima, dicevo che avevo avuto un gran mal di testa senza
pensare che se avessero capito la causa delle mie irruenti
chiacchiere, questo avrebbe confermato la loro opinione. Comunque
nessuno disse mai nulla e le nostre visite al cottage ripresero
regolarmente vivaci e cordiali come al solito ma, ora che ci penso,
senza altre offerte di libagioni da parte della nostra ospite, fino alla
fine di quelle vacanze per più versi rimaste scolpite nella mia mente.
Grazia Deledda continuò sempre a mostrarmi grande simpatia e
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forse anche un maggiore interesse rispetto agli altri ragazzi: mi
parlava, chiedeva la mia opinione su vari argomenti e inoltre una
volta espresse anche il suo. . .
Queste breve memorie furono scritte da Anna Maria Micks a
Pescara durante il 2002, interrotte bruscamente, a metà frase, perché a fine
anno si ammalò gravemente e, dopo un illusorio miglioramento nella
primavera del 2003, morì improvvisamente in un pomeriggio di maggio.
Era una magnifica affabulatrice, che raccontava con maestria,
senso del pathos, suspence, ma non aveva mai voluto scrivere,
ritenendosene non capace. Però, poiché tutti glielo chiedevano, aveva
cominciato a comporre le sue memorie, che idealmente avrebbero dovuto
arrivare per lo meno agli anni '50 ed includere quindi gli anni all'estero col
marito Paolo, che lavorava presso gli istituti di cultura italiana (Cluj, in
Romania, Sofia, Tunisi, Zagabria), i terribili momenti della guerra, il
nuovo inizio in una Firenze semidistrutta. Ma anche innumerevoli
personaggi e animali: fra i primi, cameriere incomunicabili, allievi del
marito, soldati americani, direttori burberi, filosofi eccentrici, operai
comunisti e tanti altri; fra i secondi, il cagnolino bulgaro Bibi Bibonzi, il
meraviglioso gatto Kim, Martina, la gatta bianca dai cinque figli "neri
come la pece", altri cani, gatti, cavalli... E aneddoti a non finire: i parenti
triestini di Paolo, alcuni dei quali "matti come la Fiorina", il matrimonio
per procura, il viaggio sull'Orient Express, la famiglia ebrea nascosta in
casa, molti ceffoni dati senza paura, gli incontri con Montale e Benedetto
Croce...
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Scrivo a Salvador nel 2013, con nostalgia e paura di dimenticare.
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