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Full text of "Anna Maria Micks I Racconti Scritti A Matita"

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Anna Maria Micks 



Racconti scritti a matita 



I racconti della Romola 



Pescara, 2002 



Laschi Micks, Anna Maria (191 1-2003) 
Racconti scritti a matita. I racconti della Romola. 
La Regina, Silvia (org). 
Salvador, 2013. 
38 pp. 



Anna Maria Micks 



Racconti scritti a matita 



I racconti della Romola 



raccolti e pubblicati da Silvia La Regina 



Salvador, 2013 



Quando avevo sei anni la Romola era un piccolo paese di tremila 

anime, ad una trentina di chilometri da Firenze, e dico era perché già 
venticinque anni fa, quando andai nella mia città per l'ultima volta - 
forse perché disgustata dal Me Donald's in Via Tornabuoni, o dai 
gruppi degli hippies accucciati sul ponte Vecchio, a vendere le loro 
collanine davanti alle antiche botteghe degli orefici - mi dissero che, 
mentre Chiesa Nova dove finiva il percorso dell'autobus, ne era 
diventata un lontano sobborgo, il paese era ormai disabitato. Erano 
invece aumentate le ville - le seconde case di tanti fiorentini - nelle 
pinete circostanti, da tempo ricresciute dopo la totale distruzione 
subita durante il lungo assedio di Firenze da parte degli alleati. 

Gli abitanti della Romola erano divisi in tante famiglie, molte 
delle quali con lo stesso cognome, ma io ricordo solo i Papini, forse 



perché un amico dei miei disse una volta che se a Roma c'era il Papa 
era giusto che alla Romola ci fossero i Papini. Gli altri, del resto, 
erano quasi tutti chiamati con il nome del mestiere o dell'attività che 
esercitavano, spesso a carattere famigliare. Il macellaio che aveva il 
negozio moderno e ben tenuto, proprio davanti a casa nostra. La 
domenica mattina quando venivano anche quelli di fuori a comprare 
la carne, c'erano ad aiutarlo le due figlie, belle ragazze, la maggiore 
alta e dall'aspetto severo, portava i lunghi capelli neri pettinati 
all'antica, mentre la seconda figlia, più spigliata, attraente anche se 
meno bella, aveva i capelli rossi tagliati corti all'ultima moda. 

Il magnano, che mi avrebbe causato il più grande dolore della 
mia infanzia, aveva la sua piccola fucina a sinistra della casa; la 
merciaia sulla balsa che si alzava di fronte, protetta da un muretto e 
accanto, l'ortolana, erano tutti chiamati così e penso che perfino in 
paese fossero in pochi a ricordarne il cognome. L'ortolana che 
vendeva in casa aiutata dalla vecchia madre pochi prodotti non 
sempre freschissimi non era certo importante e la ricordo solo per 
una piccola storia che racconterò più avanti perché aveva tanto 



divertito noi ragazzi che avevamo continuato a ripeterla ogni volta 
che si ne presentava l'occasione per fare una battuta. 

A ricordarlo ora, capisco che il paese era bellissimo, costruito 
su due grossi poggi - il Poggio di Sopra e il Poggio di Sotto, che ne 
costituiva il centro ed era attraversato dalla strada principale che 
appena fuori dall'abitato diventava la carrozzabile fiancheggiata dai 
boschi e portava a Chiesa Nova dove imboccava la provinciale per il 
capoluogo, S. Casciano in Val di Pesa. 

Per giungere alla Romola si prendeva la SITA, l'autobus di 
color verde che aveva il deposito a Piazza Maso Finiguerra. Si 
scendeva a Chiesa Nova e da lì si proseguiva a piedi per il paese che 
si poteva raggiungere sia per la strada maestra che allungava il 
percorso di qualche chilometro, e il comodo sentiero fra gli alberi 
profumati e di specie diverse, come i ricchi cespugli del sottobosco 
mediterraneo. Il sentiero era il percorso che la mamma sceglieva più 
spesso, specie a giugno, quando il bagaglio - un grosso baule e un 
paio di valigie- era già stato spedito e noi eravamo felici di correre e 
di sbizzarrirci liberi all'aperto dopo un anno passato in città. A un 
certo punto il sentiero incontrava la pineta e l'attraversava per 



raggiungere la strada dove sboccava più o meno all'altezza della 
Madonnina una cappella in muratura con un piccolo patio circondato 
da un muretto che permetteva alla mamma di riposarsi per un po' 
prima di riprendere il cammino verso il paese. La Maddonnina 
sorgeva ai margini della pineta ed era meta abituale delle passeggiate 
di tutte le signore in villeggiatura nel paese; sedute sul muretto o 
anche sul panchetto pieghevole sferruzzando tranquillamente 
qualche indumento di lana colorata che traevano dalle capaci borse 
di paglia, insieme alla bottiglietta dell'acqua e alla merenda dei 
ragazzi, intenti a correre nel bosco dove si potevano raccogliere sia 
le coccole profumate del ginepro sia le more, a lugli già nere e 
sugose. Ma quelle che ci piacevano di più erano le pine cadute dagli 
alberi già aperte e ricche di pinoli dove in estate c'erano i pinoli già 
maturi che andavamo subito a schiacciare su un sasso. 

Sul Poggio di Sotto, dove penso fosse nato il primo nucleo 
abitativo, le case erano più antiche essenziali e un po' severe, 
fittamente aggruppate ai due lati della strada, mentre gli edifici del 
Poggio di Sopra più pianeggiante e spazioso, erano più moderni e 

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distanti fra loro. C'era perfino una specie di piazza o meglio uno 
slargo, dove cresceva l'erba mentre sull'altro poggio non si vedeva 
un filo di verde. 

Ma la vera bellezza era il bosco e la campagna - specie 
vigneti- era completamente fuori, più vicini gli orti poi i frutteti di 
mele, pere e pesche che noi ragazzi si andava a cogliere di nascosto 
- insomma a rubare - ancora acerbe con un gusto tutto toscano che 
non condivido più. 

Non c'erano giardini, tranne forse in un paio di ville già 
abbastanza lontane dal centro e i fiori che ricordo sono solo le 
margherite, le ginestre e gli altri fiori che crescono selvatici nei 
boschi. I boschi erano infatti la vera bellezza della Romola, quella 
che me l'hanno resa tanto cara e indimenticabile al di là di tutti i 
cambiamenti e le vicende della vita adulta che mi hanno portato 
talvolta anche a vivere per anni in paesi lontani e diversi, la Romola 
che ho continuato a rivisitare nei sogni. 

Erano soprattutto magnifiche pinete che a maggio 
assumevano un aspetto nuovo, come scoprii quel anno che avevo 



preso la tosse convulsa e la mamma mi aveva portato alla Romola su 
consiglio del medico che aveva suggerito un cambiamento d'aria. 
Ogni erba aveva messo su un suo fiorellino che seppure modesto e 
inodore contribuiva alla freschezza del tutto. Sulle prode scoppiava 
l'intenso azzurro dei giaggioli dall'odore così forte che si avvertiva 
già da lontano, prima di giungere all'aperto della strada. Nel chiuso 
di una stanza quell'odore diventava quasi acre e faceva venire il mal 
di testa, o addirittura stordiva come successe alla mamma e a me 
quel giorno che al ritorno della passeggiata mattutina avevamo 
sistemato un gran mazzo di giaggioli nella camera da letto dove più 
tardi eravamo andate a riposare. 

Nei boschi, le profumate svettanti pinete dove ogni tanto si 
aprivano morbide vallette erbose che alle prime piogge di settembre 
si dipingevano del rosa vivo dei ciclamini e ingrossavano i piccoli 
torrenti bordati di lucide felci e di capelvenere leggero come trina. 
Nelle radure, al piede degli alberi, sempre all'improvviso 
spuntavano sempre i funghi. C'erano i prataioli dal cappello piatto di 
color marrone chiaro, i porcini più bassi e corposi col cappello 
leggermente arrotondato, di un marrone più scuro e un po' 



marezzato; meno frequenti erano gli ovuli dalla forma ovale cui 
devono il nome, bianchi all'esterno e rossi al centro come tante uova 
sode sgusciate. Si organizzavano subito spedizioni di grandi e 
ragazzi per la raccolta dei funghi che poi sarebbero stati cucinati con 
olio aglio e nipitella, una pianta aromatica dalle piccole foglie 
rotonde vellutate come quelle della salvia cui somigliava anche nel 
colore. L'aglio, qualche spicchio sbucciato, serviva non solo a dar 
gusto, ma anche e, soprattutto, perché si affermava che se nella 
cottura fosse diventato nero voleva dire che i funghi erano velenosi, 
magari perché erano stati raccolti vicino ad un pezzo di metallo o di 
cuoio. Non so se la cosa avesse qualche base scientifica, ma sta di 
fatto che i funghi raccolti da noi e cotti con l'aglio rimasto sempre 
rigorosamente bianco, non fecero mai morire nessuno. 

A quell'epoca nei boschi della Romola vivevano ancora 
numerosi animali, soprattutto belle lepri dal folto pelame e dalle 
carni tenere, che fornivano agli uomini ed alle donne del paese 
rispettivamente lo svago domenicale della caccia e la materia prima 
per preparare gustosi piatti ma anche caldi colli di pelliccia per il 
cappotto delle feste. 



I cani 

Quasi in ogni famiglia gli uomini possedevano un cane da caccia, 

generalmente di buona razza, begli animali ben addestrati che se non 
accompagnavano il padrone al lavoro nei campi venivano lasciati 
vagare per il paese. In estate, riuniti in gruppo giocavano con noi 
ragazzi e ci seguivano nelle lunghe scorribande nei boschi. Alcuni 
avevano nomi che rivelavano il carattere o addirittura le tendenze 
politiche del padrone come ad esempio la Troskina, un bel setter da 
riporto, nero e marrone, giovane e ancora giocherellone che mi si era 
subito affezionato e veniva a cercarmi già di prima mattina. I cani 
seguivano sempre il nostro gruppo di ragazzi nelle gite che ad ogni 
stagione ci portavano in zone sempre più lontane e meno conosciute 
attraverso boschi sempre più fitti di alberi di cui spesso ignoravamo 
il nome. Anche se correvano avanti e indietro nelle loro ricerche fra i 
cespugli a caccia di qualche piccola preda, i cani tornavano sempre 
vicino a noi, talvolta per aiutarci se si era fatto tardi e nell'oscurità 
incombente di un bosco non riuscivamo a ritrovare la strada. 
Eravamo in quattro, mio fratello, che non mancavo mai di seguire 



nelle nostre spedizioni, e altri due ragazzi come lui più grandi di me, 
quel giorno che ci eravamo spinti in una zona lontanissima dal paese 
e assolutamente sconosciuta. Con noi c'era proprio la Troskina e fu 
proprio lei a metterci nei pasticci. Era già pomeriggio inoltrato 
quando, attraversato un bosco rado di non so quali alberi, venimmo a 
trovarci in una campagna un po' selvaggia e assolutamente deserta. 
Sul lato più lontano dal bosco si intravedeva tra fitti cespugli, il 
lungo tratto di una rete di ferro nero e al di dà il basso edificio di una 
casa colonica. C'era stato appena il tempo di vedere queste cose 
quando successe il finimondo. La Troskina si era scagliata come un 
fulmine verso la rete e stava scavando furiosamente in un punto del 
terreno sottostante dove riuscì ben presto ad aprirsi un passaggio per 
l'interno del recinto. Un attimo dopo la vedemmo piombare su un 
grosso coniglio che proprio in quel momento lo stava attraversando. 
Per il coniglio non ci fu scampo, un secondo ed era steso immobile 
sul terreno, sorvegliato a breve distanza dalla Troskina che, perfetto 
cane da riporto, restava in attesa vicino alla preda. Ma intanto, a 
tutto quel fracasso erano comparsi sulla scena due nuovi personaggi: 
un uomo e una donna che appena videro il coniglio morto 

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cominciarono ad urlare furiosamente e mentre l'uomo afferrato un 
bastone si dava a inseguire il cane che subito aveva cercato di 
fuggire, ma purtroppo nella direzione opposta a quella del buco da 
cui era entrato, la donna aveva raccolto il coniglio e continuava a 
guardarlo, cullandolo quasi fosse stato una creatura. 

Noi intanto c'eravamo avvicinati per cercare di capire e 
spiegare la situazione -soprattutto per salvare la colpevole dalla 
giusta furia dei padroni del coniglio, che come riuscimmo a capire 
era una femmina e per di più gravida. Un po' placati alla vista di 
quel gruppo di ragazzi per bene, i due capirono che ormai non 
restava che farsi pagare il danno non indifferente per la morte di una 
coniglia gravida, e chiesero cinque lire da pagare subito se volevamo 
riprenderci il cane che intanto l'uomo era riuscito a rinchiudere nella 
cascina, forse la stalla, dove ormai impaurito era corso a rifugiarsi. 
Noi naturalmente non avevamo neanche un soldo e a nulla valsero le 
promesse che saremmo tornati la mattina dopo a portare le cinque 
lire che dovevamo chiedere ai nostri genitori. Pretesero i nostri nomi 
e indirizzi: il cane lo avrebbero restituito solo dopo aver ricevuto i 



soldi. Tutto quello che ci riuscì di ottenere fu che nell'attesa non gli 
avrebbero fatto del male. 

Intanto si era fatto tardi e quando arrivammo a casa 
trovammo le nostre mamme preoccupate e poi arrabbiate. Bisognò 
spiegare il fatto anche al padrone della Troskina, pure lui arrabbiato. 
Disse che non avrebbe più lasciato che la canina venisse con noi, che 
cinque lire erano una cifra spropositata e che sarebbe andato lui a 
riprendersi il cane e a sistemare la faccenda, pagando il prezzo 
giusto. I soldi naturalmente gliel' avrebbero restituiti le nostre 
mamme. Le cose devono essere andate come aveva detto lui perché 
la Troskina tornò sana e salva e i nostri genitori pagarono per la sua 
liberazione un prezzo molto inferiore a quello richiesto a noi ragazzi. 
Ma per tutta quell'estate Troskina non ci accompagnò più nelle 
nostre scorribande; il suo padrone fu di parola fino all'ultimo; la 
portava tutte le mattine con sé quando andava a lavorare nei campi. 

Finì invece tragicamente l'avventura che ha per protagonista 
un altro cane della Romola: Bill, un grosso bracco marrone con una 
vistosa macchia bianca sul petto, un cane di cui si diceva che fosse 

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feroce e che il suo padrone teneva legato a catena in un angolo della 
sua fucina dove spesso andavano i ragazzi del paese, ma soprattutto 
quelli del gruppo di villeggianti che come Nanni erano curiosi e 
ammirati dallo spettacolo del pezzo di ferro incandescente battuto e 
forgiato sull'incudine a colpi di maglio dal magnano, un omone 
brusco e di poche parole. Un giorno mio fratello che si era 
avvicinato troppo all'incudine, urtò nel tirarsi indietro una zampa del 
cane che lo azzannò al polpaccio. La mamma preoccupata, chiamò il 
dottore - un signore di mezza età sempre elegante e dignitoso con 
bianchi baffetti arricciati, che abitava con la sua governate in una 
bella palazzina subito fuori dal paese. Il dottore medicò la ferita e 
disse che era necessario controllare il cane per diversi giorni ed 
accertarsi che non avesse la rabbia. Fu così che durante tutta una 
settimana la mamma andò ogni giorno alla fucina per sorvegliare il 
cane a cui portava acqua e cibo per controllare se mangiava e 
soprattutto se beveva in maniera normale. Io avevo cominciato ad 
accompagnarla per curiosità e ben presto Bill mostrò di riconoscermi 
e addirittura a farmi le feste dimostrando, disse il dottore tornato a 
visitarlo che il cane era perfettamente sano e non certo feroce come 



pretendeva il suo padrone. Dopo il controllo, dichiarata finita la 
quarantena, finirono anche le visite della mamma, ma Nanni ed io 
c'eravamo oramai affezionati a Bill e continuammo ad andare e 
trovarlo. Passò altro tempo, il cane sempre più festoso al nostro 
arrivo cominciò a tirare la catena nel tentativo di seguirci, a guaire 
ed anche a brontolare minacciosamente quando ci vedeva andar via. 
Bill era ormai completamente domato, lo capì anche il fabbro tanto 
che un giorno mi riuscì di convincerlo a lasciarlo venire con noi e gli 
aprì la catena. Da allora Bill mi seguì sempre come un cagnolino 
fedele. Grande e silenzioso era diventato la mia ombra, con 
meraviglia e in certi casi paura, di quanti lo avevano creduto feroce; 
io andavo ogni mattina a prenderlo alla fucina, lui mi salutava con 
qualche lenta slinguazzata e non mi lasciava più. Io ero naturalmente 
ero fiera e contenta di quella conquista. Nel corso di quell'estate non 
mancarono da parte di Bill indubbie prove della sua incondizionata 
devozione. La prima si ebbe quel pomeriggio che avevo aperto la 
credenza per prendere la merenda e lui, sdraiato come al solito dietro 
di me con la testa appoggiata sulle zampe anteriori era rimasto 
presto sotto lo sportello che ora gli premeva sempre più forte sul 

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collo, mentre cercava di alzare il suo testone, lanciando feroci 
mugolìi che mi facevano gelare il sangue. Tutta la grande credenza 
tremava in maniera terribile, lo sportello pareva sul punto di uscire 
dai cardini; piatti, ciotole e tazze sistemati nella parte superiore, 
sbattevano tra loro, barattoli e bottiglie si rovesciavano sui ripiani 
più bassi. Nel silenzio pomeridiano della cucina il chiasso era 
infernale. Ancora oggi se ci penso non so come trovassi il coraggio 
di voltarmi verso il cane e con dolci parole premendo con la mano 
tremante su quel testone ringhioso riuscissi pian piano a farglielo 
abbassare sulle zampe tanto da permettergli di passare nuovamente 
sotto lo sportello. Bill si allontanò subito, andando ad accucciarsi 
dignitosamente nell'angolo più lontano dalla credenza, tornata 
immobile e silenziosa col suo sportello intatto che avevo richiuso 
senza prendere la merenda: la paura mi aveva fatto passare 
l'appetito. 

L'altra prova di affetto Bill me la offrì forse un paio di 
settimane più tardi, quella volta che mi ero soffermata sulla porta di 
casa ad aspettare la mamma che sbrigava qualche faccenda prima 
della passeggiata mattutina. Bill era sdraiato dietro di me con le 



zampe distese in vigile attesa, così silenzioso e immobile che non mi 
ero accorta di nulla. Fu così che quando spiccai a pie pari un bel 
salto all'indietro gli piombai in pieno sulle zampe. Ci fu un ruggito 
feroce e io mi ritrovai scaraventata di lato dentro la stanza, dove 
rimasi impietrita a guardare il cane che si era alzato di scatto e stava 
anche lui immobile a testa bassa a fissarmi di sotto in su con uno 
sguardo cattivo negli occhi: apriva e richiudeva le potenti mascelle 
da cui usciva un roco brontolio che in linguaggio canino voleva dire 
sicuramente: "se non fossi stata tu..."; rimanemmo così per un po', 
io ero ipnotizzata dal suo sforzo per vincere l'istinto che lo avrebbe 
portato a gettarsi su di me. Vinse l'affetto e Bill si allontanò 
continuando a mugolare cupamente. Non ricordo se quella mattina 
mi accompagnò nella passeggiata o se tornò a rifugiarsi nella fucina 
per dimenticare il suo risentimento contro quella bambina troppo 
vivace e sbadata a cui lui voleva tanto bene. 

Quando tornammo alla Romola l'estate successiva corsi 
subito alla fucina a chiedere notizie del mio amico, ma l'angolo dove 
lui rimaneva accucciato rimaneva vuoto, c'era solo la catena che 



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pendeva dal muro. Chiesi naturalmente al fabbro dove fosse il cane e 
lui mi rispose seccamente che era morto; gli aveva sparato un giorno 
che aveva morso un cliente e quello aveva minacciato di denunciarlo 
ai carabinieri; poi, senza aggiungere una parola di più aveva 
continuato a lavorare. Inorridita forse anche un po' spaventata corsi 
subito via per andare a casa a piangere - a raccontare alla mamma e 
a Nanni quella storia terribile che il mio cuore di bambina non 
sapeva accettare. Quella fu la vacanza più triste delle tante estati 
della mia infanzia passate alla Romola. Bill mi mancava molto, non 
potevo dimenticare il dolore cocente della sua morte, anche perché 
c'era la fucina così vicina alla mia casa; o forse perché quello era 
stato il mio primo contatto con la cattiveria degli uomini, così 
diversa da quella delle streghe e del lupo cattivo che i bambini 
incontrano nelle favole. 



La paura del buio 

L'estate passò senza altri accadimenti degni di nota, se non fosse il 

fulmine che una domenica mattina colpì il campanile della chiesa 
per fortuna senza causare troppi danni tranne la caduta di molte 
tegole. Era una mattina grigia di fine settembre e l'aria era già quasi 
fredda. Ci stavamo preparando per andare alla messa, quando una 
luce accecante invase all'improvviso le stanze rivelandone 
brevemente ogni particolare; seguì un colpo assordante, così vicino 
da far tremare la casa, un momento prima tanto ferma e sicura. Un 
attimo e a tutto quel frastuono seguì un silenzio assoluto presto 
infranto dallo scrosciare della pioggia che continuò a cadere fitta, 
insistente tutto il pomeriggio. Nella vita ho poi assistito ad altri 
temporali ma ricordo soltanto quello, forse perché fu il primo di cui 
presi conoscenza, o perché capitò alla Romola a quell'epoca in cui 
tanti avvenimenti che oggi giudicherei insignificanti si sono fissati 
nella mia mente per non essere mai più dimenticati. 



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Come non ho dimenticato la prova di coraggio che m'imposi 
quell'estate che decisi di farla finita con tutti gli scherzi e i 
punzecchiamenti di Nanni per la mia invincibile paura del buio. 

Fin dalla prima infanzia, raccontava la mamma, non appena 
imbruniva smettevo di parlare, lasciavo i giochi e correvo a 
rifugiarmi in braccio a lei, nascondendo il viso alla vista di un 
corridoio scuro o di una stanza dove non era stata ancora accesa la 
luce. A tutte le domande su cosa avessi e perché facessi così la 
risposta era sempre la stessa: "c'è il buio". Quando fui più grande a 
nulla erano valse le spiegazioni e le assicurazioni che anche ad 
entrare in una stanza buia non succedeva niente di male -bastava 
stare attenti a non sbattere nei mobili -. Poi erano venuti gli scherzi e 
le prese in giro del fratello maggiore, ma sebbene capissi ormai 
l'assurdità del mio comportamento non potevo farci nulla: avevo 
paura. 

Quella sera dunque, qualcuno del gruppo dei ragazzi propose 
di fare una gara per vedere chi sarebbe stato il più veloce a fare il 



giro della chiesa, una passeggiata che anche i grandi facevano spesso 
al chiaro di luna, nei vuoti dopo cena dell'estate. 

Io ero rimasta zitta: nessuno dei miei compagni sapeva che 
avevo paura del buio e ora provavo una grande vergogna all'idea di 
venire scoperta e bollata come la fifona del gruppo, io che ero 
sempre pronta a proporre i piani più avventurosi e discutere e 
criticare quelli degli altri, tanto che spesso venivo accusata di voler 
fare il capo. Non potevo rifiutare. Dovevo fare il giro e quando 
Nanni disse che siccome ero la più piccola avrei fatto meglio a 
restare allo sbocco della strada per vedere chi sarebbe stato il più 
veloce, risposi che volevo fare come tutti gli altri. Quando arrivò il 
mio turno mi avviai non senza qualche esitazione perché il cuore 
aveva cominciato a battermi forte e temevo di non farcela. 

Invece all'inizio la strada non fu troppo difficile perché 
l'avevo percorsa tante volte insieme alla mamma e alle sue amiche 
nelle loro passeggiate al chiaro di luna e anche quella sera c'era la 
luna e un chiarore diffuso tanto che riuscivo bene a vedere dove 
mettere i piedi. 

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La strada per la chiesa partiva diretta in salita dal Poggio di 
Sopra per un primo tratto alberato che all'inizio dava sui campi e 
non era troppo buio, ma giunta al sagrato dove svoltava per tornare 
al paese, era in lieve discesa rispetto al primo tratto da cui la 
separava un alto terrapieno che in qualche modo la rendeva più buia. 
Ora la strada costeggiava un bosco che verso la metà del percorso si 
apriva in un profondo burrone dai fianchi scoscesi ricchi di cespugli 
ma più radi sul fondo dove di notte si accendevano i fuochi fatui - 
quelle "putride fiamme" che per il Carducci "guizzano" nei cuori 
degli uomini "battuti dal pensiero". Io quella sera non sapevo nulla 
della poesia, sapevo solo che giunta a quel punto del giro, sebbene 
mi fossi tenuta subito dal lato opposto al burrone, con gli occhi fissi 
davanti a me, le gambe fin allora sciolte e scattanti nella corsa, si 
erano fatte di piombo. Mi pareva di rimanere sempre allo stesso 
punto, che non ce la avrei mai fatta ad arrivare al paese divenuto ora 
lontanissimo. Invece dopo un po' ero lì alle prime case pallidamente 
illuminate da una lampadina. Davanti a tutti c'era Nanni che doveva 
essersi un po' preoccupato, mentre tutti gli altri quasi indifferenti 



forse perché ormai già stanchi del gioco, dissero solo che ero stata 
brava e abbastanza veloce per essere una femmina. Io ero affannata, 
stordita e ci misi un bel po' prima di capire che avevo vinto il buio: 
ora non ne avrei più avuto paura. 

E ripensandoci ora, dopo più di ottant'anni, mi rendo conto di 
come sia stata dura per la bambina di sette, e di quanta forza 
d'animo ci fosse voluta per superare la prova. Ho anche ricordato 
che quella non era stata la prima volta che il mio carattere 
cominciava a mostrare una certa capacità di autodisciplina perché 
già l'anno prima - sempre alla Romola - avevo saputo vincere il 
vizio della golosità cosa che non era riuscita né ai rimproveri della 
mamma, né al mese di febbri intestinali, il "gastricismo", causate da 
una solenne indigestione di ciliegie mangiate di nascosto. Anche 
quel giorno alla Romola dov'eravamo arrivate da poco, stavo 
divorando con gusto una fetta di pane e marmellata che avevo 
preteso più abbondante del solito dalla donna di allora - non giovane 
e un po' arcigna - che guardandomi con evidente disapprovazione 
mi disse: "Oddio, ma tu se' proprio ingorda sai!". Non so perché 

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questo rimprovero da parte di un'estranea che oggi giudicherei 
piuttosto sprezzante constatazione, mi colpisse al punto che 
mortificata andai subito da qualche altra parte a finire la mia 
merenda, diventata d'un tratto meno appetitosa. Continuavo a 
pensare a quelle parole e provavo tanta vergogna all'idea di quello 
che gli altri pensavano di me, ma poi forse ricordando gli 
insegnamenti della mamma e delle maestra, mi dissi che se volevo 
potevo correggere da sola quel brutto difetto. Presa questa decisione, 
cominciai subito a metterla in opera riuscendo, non senza sacrifici, a 
frenare il mio desiderio di dolci e di frutta come ho poi fatto per tutta 
la vita. Ad eccezione bisogna riconoscere delle ciliegie a cui non 
sono mai riuscita. L'ultima scorpacciata, per fortuna senza 
conseguenze, risale a una sera verso le undici di ormai tanti anni fa 
quando eravamo tornati a Firenze da Zagabria, all'inizio delle 
vacanze estive. Con i miei suoceri che erano venuti a prenderci alla 
stazione, andammo a casa loro e la mamma mise in tavola una 
capace ciotola di fresche ciliegie pistoiesi di un bel rosso chiaro 
lucide e sode appese a coppia al verde picciolo come se fossero state 
appena colte. Io ero in cinta già alla fine del settimo mese e accolsi 



con raddoppiato piacere i miei frutti preferiti abbandonandomi 
subito a piluccarli due a due sotto gli occhi prima compiaciuti e poi 
sempre più preoccupati della mamma che delicata com'era non 
osava esprimere il timore che quel circa mezzo chilo di ciliegie alle 
undici di sera e alla fine di un estenuante viaggio in treno potesse 
causare seri danni allo stomaco fragile della mammina in attesa. Ma 
questo me lo disse solo tempo dopo quando c'era ormai la certezza 
che tutto era andato bene. A me però è continuato a rimanere un 
dubbio: che quella ingestione prenatale dei deliziosi succhi di 
ciliegia possa essere all'origine della passione che anche mia figlia 
ha sempre nutrito per quei frutti. 



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Manrico da Fucecchio 

Alla Romola ebbi anche la mia prima dichiarazione d'amore. Avevo 

nove anni, ma questo era il solo tratto in comune con la celebre 
eroina dantesca perché a differenza di Beatrice ero una ragazzina 
magra dalla corta zazzeretta nera e tutta pepe, come dicevano in 
famiglia, che non poteva assolutamente parere "una cosa venuta di 
cielo in terra a miracolo mostrare". Lui era un ragazzo più grande di 
forse tre o quattro anni che quell'estate si era unito al gruppo. Si 
chiamava Manrico e si sapeva che era venuto da Fucecchio, un paese 
toscano allora famoso per i carciofi tanto che io una volta per 
punzecchiarlo, gli avevo chiesto se era arrivato in cesto della mia 
verdura preferita, cosa che era sembrata spiritosa e aveva fatto ridere 
tutti. Lui però non doveva essersi offeso se qualche tempo dopo. . . 

Era andata così: durante la passeggiata di quel pomeriggio 
eravamo rimasti un po' indietro rispetto agli altri - forse per una 
scusa da parte di Manrico che, dopo qualche passo era entrato in un 
gruppo di alberi, anzi mi pare fossero canne che crescevano al bordo 
della strada. Fu da dietro quella verde cortina che mi giunsero chiare 



e inequivocabili queste testuali parola: "signorina, io l'amo". 
Immagino ora che l'effetto di questo messaggio assolutamente 
inaspettato sia stato del tutto diverso da quello sperato dal mio 
spasimante perché io scoppiai a ridere e subito corsi via a 
raggiungere il gruppo. 

Manrico non si fece più veder nel corso di quella passeggiata 
e io non dissi nulla a nessuno per non farmi prendere in giro da tutti 
per chissà quanto tempo. Di lì a poco partì senza altre avances e alla 
Romola non tornò più. Erano passati vari anni quando venni a sapere 
che Manrico era il nome del romantico protagonista dell'opera di 
Verdi: che anche quel ragazzo di Fucecchio fosse un romantico 
trovatore in erba? Molto in erba visto anche il luogo da cui aveva 
pronunziato le famose parole, così poco romantiche che seppure 
rimaste nella mente non avevano mai colpito il cuore. 

Trasportata dai ricordi quasi sgorgati con urgenza dalla 
memoria, forse perché rimasti da troppi anni in attesa di venir 
rivelati nel racconto, mi sono accorta di non aver detto nulla della 
casa alla Romola dovo ho strascorso tutte quelle estati felici della 
mia infanzia. 

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La casa 

Incastrata sulla sinistra, proprio al centro della strada principale del 

Poggio di Sotto era una casa molto piccola che il babbo aveva 
comprato una domenica di primavera quando era andato alla Romola 
a cercare una casa da affittare per l'estate e gli avevano offerto 
quella, che sebbene priva di comodità - non c'era nemmeno la luce 
elettrica- era solida e in ottimo stato, ma soprattutto a un prezzo 
molto conveniente. Insomma, un affare come disse la sera alla 
mamma che era sembrata assai dubbiosa. Dopo qualche piccola 
riparazione e una completa imbiancatura la casa venne rapidamente 
arredata con i mobili necessari e fornita di grandi lumi a carburo, 
tanto che potemmo già andare ad abitarvi alla chiusura delle scuole. 
A noi ragazzi piacque subito per la grande cucina a pian terreno col 
basso camino all'antica dall'ampia cappa e il largo fornello centrale 
dove si poteva cucinare anche a legna e le due piccole finestre alte 
che si aprivano sulla facciata, ai lati della porta di casa. Vicino al 
camino c'era l'acquaio di pietra dove poggiavano anche i due 
contenitori dell'acqua fresca, le svelte mezzine di rame che la donna 



- come tutte le donne del paese - provvedeva a riempire mattina e 
sera alla sorgente appena fuori dall'abitato, in fondo alla lunga e 
ripida discesa sassosa dove era stato costruito il grande lavatoio 
coperto. 

Sulla parete di fronte al camino si aprivano sia un comodo 
ripostiglio e il bagnetto che la scala con in alto un piccolo vano 
chiuso da una tenda scorrevole, dove dormiva mio fratello, e l'ampia 
camera matrimoniale con la finestra sulla strada. Arredata di tutto 
punto con comodi mobili tra cui un lettino per me e un armadio che 
sarebbe stato al centro di una delle avventure della mia infanzia alla 
Romola, indimenticabile come il suo protagonista -che una volta 
tanto era un gatto. 



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Il gatto "Bucchino" 

Bucchino, era questo il suo nome, perché l'epoca in cui cani e gatti 

venivano chiamati con i nomi delle persone e viceversa era ancora 
molto lontana. Era un bel gattino bianco e grigio dal musetto rotondo 
con grandi occhi verdi piccole orecchie e il corto nasino rosa. Svelto 
e giocherellone come lo sono tutti i gattini, avrà avuto infatti quattro 
o cinque mesi quella mattina al ritorno della passeggiata con la 
mamma e altre due signore e i loro ragazzi quando, ancora 
abbastanza distanti dal paese, c'era quel gattino che sembrava 
aspettarci in mezzo alla strada. Infatti quando lo raggiungemmo 
invece di scappare, si unì al gruppo e ci seguì per un breve tratto con 
grande sorpresa e piacere specie dei più piccoli. Dopo un po' il 
gattino spiccò una rapida corsa per tornare a fermarsi a breve 
distanza davanti a noi in un evidente giochetto che si ripetè diverse 
volte prima di giungere al paese. Io e Nanni eravamo ormai 
completamente conquistati e riuscimmo -con poca fatica a dire la 
verità- a convincere la mamma per entrare in casa dargli un po' di 
latte e vedere come si sarebbe comportato. Si comportò benissimo - 



come se la cucina fosse stata la sua casa da sempre, dove tornava 
dopo una breve assenza, disse la mamma vedendolo esplorare ogni 
angolo. Bevuto il latte con entusiasmo, andò ad accomodarsi su una 
seggiola dove si addormentò pacificamente svegliandosi solo 
all'odorino della carne portata in tavola. Cominciò così la nostra vita 
con Bucchino che si comportò subito da gatto esemplare, entrando e 
uscendo di casa senza mai sporcare, giocando in mille modi per la 
delizia di noi ragazzi e l'evidente piacere della mamma. Bisognava 
solo stare attenti che non rubasse il latte e la carne. Tutto andò avanti 
regolarmente per più di una settimana finché un giorno non era 
ritornato dal suo breve giro mattutino e a nulla erano valse le nostre 
ricerche sempre più affannose in casa e nel vicinato, dove 
chiedevamo a tutti se lo avessero visto. Dopo un paio di giorni 
bisognò convincersi che Bucchino era perduto: da prima delusi e poi 
addolorati le avevamo pensate tutte - si era smarrito, stanco di quella 
vita pacifica e aveva seguito qualcuno, come aveva fatto con noi, 
che lo aveva portato lontano e ci aveva dimenticati; oppure era 
rimasto chiuso in qualche cantina dove sarebbe morto di fame di lì a 
poco. "Mah 'che" disse la Maria che essendo del paese ne conosceva 

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a menadito i fasti e i nefasti, "l'avranno preso quei ragazzi cattivi 
che si sono divertiti a fargli del male e poi l'hanno ammazzato come 
fanno tante volte anche con gli uccellini.", avevamo dovuto 
rassegnarci -io avevo anche pianto- a non vedere più quello che 
ormai avevamo considerato il nostro micetto; invece, dopo forse una 
settimana da quella terribile sentenza, ce lo ritrovammo in cucina 
anche se in uno stato pietoso che parzialmente la confermava: 
tremava, trascinava una delle zampe posteriori, gli occhi erano rossi 
e lacrimosi, aveva abrasioni e bruciature su tutto il corpo, 
specialmente alle orecchie e sulla coda e -cosa che ci sembrò 
veramente orribile- dei baffetti spiritosi, le magiche vibrisse dei 
gatti, restavano solo due piccoli mozziconi bruciacchiati. Eravamo 
tutti inorriditi da tanta crudeltà, compresa la mamma che però fu la 
prima a riprendersi e cominciò subito a curare il povero Bucchino 
che si lasciava fare tutto come se capisse. Olio, arnica, acqua 
ossigenata (o forse qualche altro cicatrizzante) il prezioso acido 
borico produssero presto il loro benefico effetto mentre il gattino 
riprendeva la sua vivacità, solo i baffetti sembravano refrattari e ci 
misero un paio di mesi prima di cominciare a ricrescere. 



Quell'estate non ci furono fortunatamente altre disavventure 
per Bucchino, che continuò a crescere sano e robusto tanto che alla 
fine delle vacanze era già diventato un giovane gatto di taglia media 
affettuoso e giocherellone. Era piaciuto anche al babbo che si 
divertiva a giocare con lui il sabato sera, quando chiuso il suo 
negozio di antiquario, veniva alla Romola per passare la domenica in 
famiglia, e ci aveva dato il consenso di portarlo con noi al momento 
del ritorno in città. Finito settembre arrivò anche il giorno della 
partenza, appunto una domenica: il grande baule era stato spedito, la 
casa preparata per restare chiusa tutto l'inverno il calesse ordinato in 
anticipo stava per giungere davanti alla porta, si trattava ormai solo 
di prendere Bucchino e chiudere il portoncino verde tornato a suo 
posto dopo la vetrata estiva. Ma Bucchino non si riusciva a trovarlo 
da nessuna parte e rimaneva sordo alle nostre chiamate. Com'era 
successo all'inizio dell'estate sembrava svanito nel nulla, mentre lo 
avevamo visto poco tempo prima -ma forse poteva essere solo 
immaginazione- un po' appartato in un angolo della cucina dove si 
era ritirato forse perché infastidito da tutto quel movimento 
inconsueto. Tutte le ricerche più volte ripetute furono inutili e ormai 

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si stava facendo tardi, dovevamo rassegnarci a partire, non prima 
però di aver raccomandato alla Maria di continuare a cercare il gatto 
in paese e avvertirci se lo avesse trovato. Eravamo già saliti sul 
calesse e il cocchiere stava già per schioccare il colpo di frusta 
quando il babbo si ricordò all'improvviso di aver dimenticato il suo 
bastone da passeggio. Nanni ed io fummo felici di rientrare in casa 
per dare un'ultima occhiata a Bucchino, ma questa ultima speranza 
si mutò quasi subito in amara delusione e così salimmo nella camera 
dei miei genitori per riprendere il bastone e andar via. Aprii 
l'armadio e restai a bocca aperta: dentro c'era il bastone del babbo, 
ma c'era anche Bucchino che dormiva beatamente acciambellato su 
uno dei materassi di lana coperti da un panno e arrotolati per 
l'inverno. Non si era accordo di nulla, tutto lo scompiglio dei 
preparativi per la partenza e delle nostre affannose ricerche non lo 
aveva minimamente disturbato. Lo svegliammo felici e senza 
nemmeno pensare a quello che avrebbe potuto succedere 
richiudemmo l'armadio e ci precipitammo col gattino tra le braccia a 
dare l'incredibile notizia ai nostri genitori. Dopo di che di potè 
partire felici e contenti per Firenze. 



A Firenze Bucchino visse con noi per lunghissimi anni 
affezionato e fedele amico di tutti fu il compagno instancabile di 
giochi per noi ragazzi e per i nostri compagni, ma specie per me cui 
era particolarmente affezionato tanto che venne sempre considerato 
mio, quello che io ricordo come il primo vero gatto della mia vita. 

I nostri giochi andavano dalle sfrenate galoppate sul cavallo a 
dondolo a cui lui partecipava stretto con un braccio al mio petto, alle 
corse e alla caccia negli angoli e sotto i mobili in tutta la casa, finché 
Bucchino stanco e seccato prima di noi andava a rifugiarsi sui piedi 
della mamma, al sicuro sotto la coperta che nei lunghi pomeriggi 
invernali teneva sulle ginocchia mentre seduta sulla sua poltrona 
sferruzzava a qualcuno dei suoi complessi e perfetti lavori a maglia. 

Ma c'erano anche i giochi tranquilli, da bambina diceva 
Nanni con sufficienza allontanandosi subito magari per andare a 
trafficare con i pezzi di qualche giocattolo più complicato che aveva 
smontato per vedere come era fatto dentro. 

A me questo non interessava né punto né poco perché avevo 
Bucchino che partecipava sempre a questi dove spesso figurava da 
originale e paziente protagonista, come ad esempio in quello della 

19 



"scuola" forse il mio preferito. Dopo averlo vestito con gli abiti della 
mia bambola più grande, prendevo Bucchino per mano e facendolo 
camminare ritto sulle zampe di dietro lo conducevo in camera mia 
dove seduta al tavolino con lui sulle ginocchia, gli tenevo la zampa 
che "impugnava" una matita e lo facevo scrivere e far di conto in dei 
quadernini preparati appositamente per lui. Un altro di questi giochi 
che sicuramente gli piaceva almeno un po' era il tè delle bambole 
perché nel corso del trattenimento gli versavo ripetutamente del latte 
in uno dei piattini del piccolo servizio di porcellana bianco a fiori 
azzurri e lui lo beveva con entusiasmo, senza allontanarsi di corsa da 
quelle riunioni di "signore" quasi sempre immaginarie, il che non mi 
impediva di intrattenerle in rapida e fluente conversazione. 

Col passare degli anni, passarono anche i giochi e Bucchino 
divenne sempre più il compagno affettuoso e fedele delle mie letture 
e delle ore di studio che trascorreva accoccolato sulle mie ginocchia, 
o acciambellato con eleganza, o anche seduto a sfinge con le zampe 
stese in avanti, su un angolo del famoso tavolino in camera mia. 

Non mancarono gli episodi in cui il gattino della Romola 
seppe dimostrare in altri modi il suo affetto per me, ma ricordo 



chiaramente quello forse più clamoroso di una rigida sera invernale 
quando appoggiata la testa sul tavolo appena sparecchiato, mi ero 
abbandonata a disperati singhiozzi per l'insopportabile bruciore 
causatomi dai geloni su entrambi i calcagni, piaga che allora 
tormentava tanti bambini. Quella sera poi si trattava della reazione a 
un rimedio casereccio, per altro veramente efficace un bagno caldo 
in acqua e ammoniaca suggerito da una amica della mamma che 
avevo subito insistito per sperimentare. Come dicevo, la reazione era 
stata terribile: con la testa abbandonata sulle braccia, il viso coperto 
tra i capelli continuavo a singhiozzare con preoccupazione dei miei 
ed evidente terrore di Bucchino, che saltato subito sul tavolo, 
correva su e giù sul lungo fratino 1 , fermandosi ogni volta per 
cercare di farmi alzare la testa frugandomi col musetto tra i capelli. 
Non ebbe pace finché non riuscì a vedermi il viso e solo allora si 
fermò vicino a me dove rimase finché non mi fui calmata. 

Ci sono stati poi tanti momenti che poco a poco tornano alla 
mente: la scoperta per lui deliziosa dell'olio di fegato di merluzzo, 



Tavolo lungo e stretto così chiamato dall'uso dei frati 



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altro tormento della nostra infanzia - secondo solo all'olio di ricino- 
che Bucchino fece una mattina, attratto dall'odore del cucchiaio 
appoggiato sul piattino in attesa di venir lavato a parte. Visto che gli 
piaceva la mamma cominciò a dargliene una piccola dose ogni 
mattina, cosa che alla fine risultò in una dimostrazione delle qualità 
curative del disgustoso prodotto, guarendolo dell'infiammazione alle 
ghiandole del collo che all'inizio dell'inverno gli si erano sempre 
gonfiate, conseguenza aveva detto il veterinario delle sevizie sofferte 
in tenera età. 

BUCCHINO E LA CACCIA MANCATA 

Quando ero malata Bucchino stava sempre accoccolato ai 
miei piedi, in quelle occasioni col permesso della mamma e così 
anche quella notte che avevo la febbre alta per gli orecchioni e lei 
era rimasta a sorvegliarmi seduta in poltrona al lato del letto. Ad un 
tratto lo vide con la coda dell'occhio alzarsi di scatto e puntare dritto 
pronto a lanciarsi verso l'alzata del comodino da dove veniva un 
leggerissimo fruscio che ora avvertiva anche lei ma che aveva già 
colpito l'orecchio finissimo del gatto tanto da svegliarlo. La mamma 



guardò e nella lieve luce diffusa dalla lampada da notte vide una 
scena che, raccontandola diceva incredibile e che oggi entrerebbe in 
qualche bel cartone animato. Appoggiato all'alzata del comodino 
c'era un pacchetto di biscotti già aperto e davanti a questo, il 
corpicciolo ben proteso sulle zampine di dietro per cercare di 
raggiungere quel cibo appetitoso, codina sottile distesa e piccole 
orecchie dritte nell'ascolto c'era un topolino grigio che 
all'esclamazione soffocata della mamma voltò il musetto appuntito 
verso di lei e in meno di un secondo era sparito con rapidissima 
corsa silenziosa attraverso la finestra socchiusa della camera 
lasciandola sbigottita; anche Bucchino che si mise subito a leccarsi 
una zampa e poi se la passò sui baffi con falsa indifferenza per 
nascondere il disappunto di quella caccia mancata. 

LA STORIA DELLA TORTA 

Poi, naturalmente, c'è la storia della tortora a testimoniare 
della felinità evidentemente immancabile anche in un gatto così 
dolce e addomesticato come Bucchino. Eravamo appena tornati dalle 
Romola quell'anno che ci avevano regalato la piccola tortora grigia, 

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morbida e ben pettinata, che naturalmente avevamo chiesto e 
ottenuto di portare con noi in città. Bucchino, sorvegliato a vista da 
noi ragazzi l'aveva accolta di buon grado e molta curiosità, cosicché 
tutto sembrava procedere senza problemi. Dopo un paio di giorni 
però ci avvertirono che la zia Virginia - sorella del babbo e unica 
parente - era gravemente ammalata. La zia vedova e senza figli, 
viveva da sola all'ultimo piano del grande appartamento del 
quattrocentesco palazzo di Americo Vespucci in Borgo Ogni Santi. 
Saputo della malattia, i miei decisero di trasferirsi, donna compresa a 
casa della zia dove c'era posto per tutti in modo da poter assistere 
l'ammalata anche la notte; si trattava di una malattia non infettiva 
ma che procurava altissima febbre. Si sarebbe rimasti fino al 
superamento della crisi; degli animali si sarebbe occupato il babbo la 
mattina prima di recarsi al negozio, in Via Maggio (una delle strade 
allora famose per i negozi degli antiquari) dove avevamo anche 
l'abitazione. La zia guarì dopo qualche giorno e tornammo a casa 
anche perché stava per cominciare la scuola e riprendemmo la nostra 
vita normale contenti di ritrovare Bucchino e la tortora che avevano 
convissuto benissimo, come del resto ci aveva assicurato il babbo. 



Ma qui commettemmo un errore irreparabile: vedendo Bucchino che 
seguiva la tortora mentre zampettava impettita per la cucina, e ogni 
tanto le dava dei colpetti con la zampa - invece di capire che stava 
giocando e che se avesse voluto farle del male avrebbe potuto farlo 
benissimo quando erano soli, cominciammo a rimproveralo con 
grida di "brutto il gatto"; "lascia stare la bambina" e a rinchiuderlo 
in un'altra stanza se lui non smetteva di tormentarla. Le cose 
andarono avanti così per qualche giorno fino a quella mattina che 
entrando in cucina ci accorgemmo che la tortora non c'era più, c'era 
solo un mucchietto di penne grigie sotto la finestra: Bucchino si era 
vendicato. 

Ci volle del tempo prima che riuscissimo a perdonarlo e alla 
fine ci riuscì anche perché bisognò convincersi che la colpa 
maggiore era stata nostra ma eravamo ancora piccoli e non avevamo 
capito l'istinto vendicativo dei gatti una cosa che io avrei fatto solo 
molti anni, e tanti gatti dopo. 



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L'ESAMINO 

Devo anche riconoscere che fu grazie a Bucchino se a dieci 
anni non ancora compiuti vissi un sia pur breve momento di gloria 
durante l'esamino di stato per il passaggio dalla quarta elementare 
alle superiori o meglio alle preparatorie - le medie di allora - così 
come aveva consigliato la maestra che mi riteneva abbastanza 
matura. L'enunciato del tema d'italiano diceva più o meno così: 
"arrivata davanti alla porta aperta del salotto, la mamma lanciò un 
grido di sgomento. Che cosa era successo?" 

Fu proprio ripensando alle molte e svariate marachelle che 
poteva combinare il mio vivacissimo gatto specie se gli capitava a 
portata di zampa un pezzetto di spago o meglio ancora "un rocchetto 
di filo" momentaneamente caduto per terra che, d'un tratto mi si 
presentò alla mente tutta la scena da descrivere nello svolgimento 
del tema, "guardando nel salotto la mamma vide il pavimento 
attreaversato da un coloratissimo groviglio di fili di lana, di seta e di 
cotone che correvano in tutte le direzioni, girati e rigirati intorno alle 
gambe delle sedie e delle poltrone, ma anche a quella del tavolo e di 
vari altri mobili. La mamma non tardò a capire che cosa aveva 



causato quel disastro. Bucchino, il gatto di casa, aveva fatto cadere il 
tavolino da lavoro rovesciando il contenuto del cassetto: morbidi 
gomitoli di lana, affusolate spagnolette di seta, rotolanti rocchetti di 
cotone si erano sparsi sul pavimento e avevano cominciato a 
srotolarsi. Bucchino aveva fatto il resto, correndo pazzamente su e 
già per la stanza spingendo e finendo di srotolare gomitoli e 
rocchetti. Chissà quanto si era divertito con tutti quei fili colorati che 
si intrecciavano sempre di più sul lucido pavimento del salotto." 

Il mio svolgimento finiva qui; non diceva che cosa avesse 
fatto quella mamma; se avesse inflitto la giusta punizione al 
colpevole, ma ripensandoci ora direi che lo abbia perdonato come 
faceva quasi sempre la mia con Bucchino in carne ed ossa. 
Comunque sia il mio tema piacque molto all'esaminatore che come 
si venne a sapere, continuava a lodarne la fantasia, l'originalità e la 
proprietà del linguaggio ai colleghi, tanto che questi, forse 
giustamente annoiati, finirono col chiamarmi "la Laschi del 
professore", qualifica che mi rimase appiccicata per tutta la durata 
degli esami. L'entusiasmo di quel signore si spense però 
immediatamente all'inizio dell'orale, quando avendomi chiesto a 

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quale liceo mi sarei iscritta dovetti rispondere che sarei andata 
all'Istituto Commerciale e niente servì aggiungere che la scelta era 
del mio babbo a cui serviva un ragioniere per il suo negozio di 
antiquario e per il laboratorio di restauro. È un errore disse 
seccamente il professore e mi liquidò con poche e indifferenti 
domante. Sic transit gloria mundi. 

Di quell'esame forse perché fu il primo della mia vita ho 
conservato un altro ricordo che non ha nulla a che fare coi gatti e con 
gli effimeri momenti di gloria infantile, ma è comunque legato alla 
prova d'italiano. Si tratta infatti del dubbio sull'ortografia della 
parola donde allora assolutamente nuova per me, che compariva 
nella frase finale del dettato o dettatura come si chiamava ai miei 
tempi: con l'apostrofo o senza? Ci avevo pensato fugacemente prima 
di scriverla e mi ci ero soffermata di nuovo al momento della 
rilettura del testo da parte dell'insegnante, ma senza riuscire a 
decidere e così la lasciai come l'avevo scritta, senza l'apostrofo. Ma 
avevo continuato a ripensarci e a tormentarmi un po' finché non 
venni a sapere che si poteva scrivere in tutti e due i modi, ma non ho 
mai dimenticato quei momenti di dubbio causati da quelle parola, 



così come l'intera frase in cui l'avevo incontrata per la prima volta: 
"Chi non ha patria è come belva che non sa donde sia nata, scrive il 
grande Tommaseo che per la patria soffrì prigionia ed esilio" 



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La parlata della Romola 

Alla Romola la parlata era del più puro vernacolo non becero ma 

con tutte le sue caratteristiche più peculiari al posto loro come la e 
sfumata ma mai inesistente, e addirittura raddoppiata facendola 
precedere da una i ad esempio in quella parola tutta particolare 
"icchè" per cosa; o l'elisione di lettere come la stessa i 
('ntanto,'nvece) o della "n" magari sostituita e raddoppiata con la 
"u" (unn'e vero?) e così via. C'erano poi tutti i detti tradizionali del 
toscano, ma anche fantasiose espressioni locali come ad esempio 
"mi manca i' fiato alle gambe" per dire che uno si sentiva debole. In 
generale del resto, le descrizioni di semplici fatti da parte dei 
romolini erano sempre abbastanza pregnanti e io ne ricordo ancora 
alcune come quella della risposta dell'ortolana, cui avevo accennato 
all'inizio, alla domanda della mamma su come aveva passato 
l'inverno la bambina più piccola un po' delicata di salute. "Eh, l'ha 
avuto la bronchite - l'è stata la nonna che a Natale la gli volle lavare 
'piedi; io glielo avevo detto ma lei la disse vien via almeno pe' 
ceppo lavamognene va! la prese la febbre, e ..." 



Non mancavano poi altri episodi che giravano in paese e che 
io ho potuto , diciamo cos', apprezzare solo a distanza di anni, come 
le parole di quella ragazza bruttina per convincere a sposarla il 
fidanzato che l'aveva lasciata, '"n guardare se son brutta di viso, 
perché di sotto e 'ho i' paradiso!" 

Doveva essere vero, dicevano i paesani maliziosi, perché lui 
ci aveva ripensato e dopo averla sposata era diventato gelosissimo. 

E ora mi tornano alla mente altre storie collegate in qualche 
modo con l'argomento come il mio "discorso" tenuto una mattina in 
quella casa colonica anche se a ripensarci capisco che più delle 
particolarità linguistiche degli abitanti si tratta dell'interesse 
dimostrato anche dai contadini della Romola per questioni del tutto 
al di fuori della loro quotidianità ai tempi in cui la TV non li aveva 
ancora tratti nel bene e nel male dal loro silenzio intellettuale. Avrò 
avuto, credo, dodici anni la mattina in cui, stanchi dalla lunga 
passeggiata, ci eravamo fermati a quella casa per chiedere da bere. 
C'erano quattro o cinque persone nella fresca cucina, tra cui due 
uomini uno dei quali ancora abbastanza giovane. Io mi ero 
soffermata per rispondere alla massaia che aveva chiesto se eravamo 

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in villeggiatura alla Romola e a una precisa domanda che non 
ricordo da parte del giovanotto che aveva voluto sapere a quale 
scuola andavo e quali argomenti si studiassero avevo cominciato a 
spiegare del sole, di Giove di Marte e della Luna questi immensi 
corpi celesti che gravitano nell'universo intorno a noi. Ero poi 
passata all'atomo e alle particelle delle materia, tutte cose che avevo 
imparato proprio quell'anno nelle ultime lezioni di storia naturale e 
di geografia. Anche se non ricordo più come avessi strutturato il mio 
discorso ricordo benissimo la frase di chiusura, forse un po' ingenua 
ma sicuramente sincera: "è affascinante pensare che nel mondo 
intorno a noi esistono insieme l' infinitamente grande e 
l' infinitamente piccolo". Gli abitanti della cucina che mi avevano 
ascoltato in silenzio non dissero nulla, il solito giovanotto disse che 
sì, era molto interessante e i ragazzi del gruppo quando li raggiunsi 
sull'aia dove erano andati ad aspettarmi mi dissero che ero sempre la 
solita chiacchierona. 

L'anno dopo tornammo dalle parti di quella fattoria, ma non 
ebbi modo di sfoggiare la mia eloquenza e forse non ci saremmo 
neanche fermati se non fosse che Nanni dovette andare a chiedere 



aiuto proprio per me: ero infatti scivolata sull'erba mentre 
scendevamo la collina ed ero caduta col piede sinistro sotto di me, 
slogandomi malamente la caviglia che si era subito gonfiata e mi 
faceva un male tremendo. Visto inutile ogni tentativo di camminare 
si era deciso di chiedere aiuto agli abitanti della casa per fortuna non 
lontana dal luogo dell'incidente, i quali non si fecero certo pregare: 
la massaia mandò subito a chiamare gli uomini al lavoro nei campi, 
due dei quali tornati a casa attaccarono subito un bove al carro 
agricolo, mi caricarono su un morbido strato di fieno, sistemando 
anche gli altri in qualche modo e ci trasportarono lentamente, ma 
sicuramente tutti a casa attraverso i boschi. 

La caviglia continuò a farmi male per vari giorni, sebbene 
fossi rimasta con la gamba distesa e malgrado l'applicazione di 
ripetuti impacchi d'arnica e, quando fu evidente la loro inutilità 
nonostante la chiarata una specie di ingessatura casalinga preparata 
con un pezzo di stoffa ben inzuppato nel bianco sbattuto di due o tre 
uova. Bene o male dopo circa una settimana di questo trattamento 
certo primitivo, fui di nuovo in grado di camminare. La caviglia però 
ha continuato per anni a farmi male ad ogni cambiamento del tempo, 

26 



spesso col rischio di farmi cadere, come avvenne clamorosamente 
una volta mentre attraversavo la pineta di Viareggio. Ero all'ottavo 
mese di attesa di Gabriella e d'un tratto la caviglia si piegò 
facendomi cadere mollemente sul terreno coperto di aghi di pino, 
come una mongolfiera -pensai- cui fossero stati tagliati gli ormeggi 
quando non era ancora pronta per il volo, mentre i pochi passanti 
spaventati si davano da fare per rialzarmi. Per fortuna non mi ero 
fatta nulla e la caviglia deve essersi aggiustata perché non ricordo 
altri casi del genere. 



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L'operosità della gente della Romola 

La gente della Romola era di una operosità eccezionale; durante la 

settimana gli uomini giovani o vecchi che fossero, non si vedevano 
mai in paese, tranne naturalmente quelli che vi lavoravano e, quanto 
alle donne non ricordo di averne mai vista una - come suol dirsi - 
con le mani in mano. A parte le comuni occupazioni domestiche e la 
cura dei figli erano le donne a provvedere, come ho già detto, ogni 
giorno, estate e inverno, mattina e sera al faticoso rifornimento 
dell'acqua per uso domestico; una volta la settimana poi facevano il 
pane in casa e lo portavano a cuocere al forno pubblico accomodato 
sia da crudo in morbide forme di pasta, che da cotto in rotonde 
pagnotte su una lunga asse coperta da un panno bianco ben 
bilanciata sulla testa. Negli intervalli tra queste quotidiane 
operazioni - il loro tempo libero come si dice oggi- le donne della 
Romola e anche le bambine dai sette anni in su facevano la treccia, 
quei bei nastri di fili di paglia dorati più o meno sottili a seconda 
della abilità, perfettamente intrecciati che le donne traevano dalla 
capace tasca dell'immancabile grembiule nero. Via via che si 



allungava il perfetto nastro di treccia di varia larghezza a seconda 
del numero dei fili, veniva legato nelle altrettanto perfette mannelle 
che gli restavano appese finché raggiunta una determinata 
lunghezza, i fili ben legati all'estremità, le mannelle venivano 
riposte delle scatole di cartone in attesa di essere vendute in città 
dove in un domani più o meno lontano la treccia della Romola 
sarebbe stata trasformata nei tradizionali mitici cappelli di paglia di 
Firenze, venduti a loro volta sotto le Logge del Porcellino, le antiche 
arcate al centro di Firenze così chiamate per la statua del 
cinghialotto che ne orna la parte centrale dell'ingresso. Sul quei 
banchi bene attrezzati che comparivano sotto le antiche Logge un 
paio di giorni la settimana -non ricordo più quali - con la mercanzia 
al riparo dalla pioggia e dal freddo, oltre ai cappelli, alle borse, alle 
ventole e ai soffietti e altri oggetti di paglia, veniva esposto anche un 
altro prodotto dell'industriosità delle donne della Romola, le 
tovaglie di lino ricamate a mano con complesse merlature e raffinati 
ricami a punto inglese intagliati secondo precisi modelli. Queste 
tovaglie, più spesso, da dodici venivano ricamate quasi 
esclusivamente da ragazze o da giovani spose riunite a cerchio in 

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gruppetti da due a quattro o anche cinque, abbigliate ognuna di un 
ampio grembiule questa volta bianco e intenta a ricamare il suo 
pezzo di tovaglia, mentre la parte già fatta pendeva al di sotto 
accuratamente accolta in carta velina bianca. Questo laboratorio 
tutto al femminile si trovava in una grande e ariosa stanza in casa di 
una delle ragazze e costituiva anche il centro di chiacchiere e 
pettegolezzi del paese e dintorni ma anche della lettura del giornale 
che almeno una volta alla settimana veniva portato in paese dagli 
uomini che lavoravano in città, letto e commentato in comune dalle 
donna di cui ho già parlato in precedenza. 



Il panico 

L'anno della marcia su Roma che naturalmente suscitò grande 

interesse alla Romola dove come abbiamo visto abbondavano i 
socialisti, la lettura del giornale che ora veniva portato in paese quasi 
ogni sera, fu richiesta alla mamma che aveva accettato di buon 
grado. Fu in una di queste letture pomeridiane che avvenne 
l'episodio del 'timor panico' descritto nel giornale a proposito di un 
tumulto scoppiato in una piazza di Firenze. La mamma naturalmente 
aveva letto quella parola con l'accento giusto, ma con evidente 
disapprovazione delle lettrici che erano scambiate sguardi di stupore 
e una più ardita della altre aveva sussurrato in tono di rimprovero, 
'panico!'. La mamma aveva spiegato la questione e la lettura era 
ripresa normalmente ma, giunta a casa aveva raccontato divertita 
l'incidente a noi ragazzi che subito eravamo scoppiati a ridere a 
crepapelle perché se allora non sapevamo nulla di etimologie e altre 
sottigliezze linguistiche, conoscevamo benissimo il panico che ogni 
mattina era mio compito versare nelle cassettina della gabbia del 

canoro fringuello di casa che aveva i miei anni perché mi era stato 

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regalato il giorno della nascita da una amica della mamma, 
evidentemente ignara di ornitologia, che lo aveva chiamato capinera 
per il capino e le alucce nere come i miei capelli. Per anni ci aveva 
rallegrati ogni mattina con i suoi canti e i gorgheggi fino a quel 
giorno tristissimo quando al ritorno da scuola la mamma mi era 
venuta incontro per dirmi che la donna cui era toccato di pulire la 
gabbia perché io avevo dormito un po' più a lungo del solito, doveva 
aver chiuso male lo sportello e Capinera aveva preso il volo. Non era 
andata lontana però perché si era posata davanti alla finestra di 
cucina, sul cornicione di un'ala della grande chiesa di Santo Spirito 
da dove continuò a giungerci il suo canto come sempre armonioso e 
forse - diceva la mamma - più felice. Lo fa per consolarmi del 
dispiacere, pensavo io che ne mio egoismo di bambina avrei 
preferito tenerlo vicino per poterlo vedere e salutare tutti i giorni. 

La storia continuò finché lasciammo la casa per andare ad 
abitare nel grande appartamento al primo piano in Piazza Santo 
Spirito che il babbo aveva comprato insieme all'altro a piano terra 
col suo piccolo giardino chiuso dai muri al posto del solito cortile. 
Le finestre del primo piano guardavano su un parco pubblico anche 



questo non grande ma ombroso e ben provvisto di panchine, che ha 
l'ingresso principale è proprio davanti alla casa ornato dalla statua di 
qualche importante personaggio che fa bella mostra di se 
dignitosamente abbigliato in un'attillata redingote ottocentesca. 
Oltre il giardino che ho attraversato tante volte al ritorno da scuola la 
vista spaziava fino alla bella facciata della chiesa di Santo Spirito, 
opera del Brunelleschi (?) , e all'imponente scalinata che le da 
accesso. Siccome quando entrammo nell'appartamento certi lavori di 
rinnovo non erano ancora finiti, per alcuni giorni i mobili sistemati 
senza ordine in varie stanze si erano coperti di polvere. La cosa dette 
origine a un'altra piccola storia, non di capinera ma di Bucchino, il 
gatto della Romola, che essendo l'ultima di cui ho un preciso 
ricordo, vale forse la pena di raccontare. Naturalmente, fatto il 
trasloco l'avevamo portato nella casa nuova e lui in tutta quella 
confusione e inevitabile trambusto dei primi giorni era andato 
immediatamente a rifugiarsi, come fanno i gatti, qualche angolo ben 
nascosto e protetto dietro casse e mobili impolverati, fra i quali 
spiccava il pianoforte con la sua superficie una volta lucida e nera 
ma ormai coperta di un impalpabile strato di polvere bianca, dal suo 

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nascondiglio che non lasciava mai durante il giorno nemmeno per 
venire a mangiare o bere, Bucchino usciva solo nella calma e nel 
silenzio della notte per andare in ricognizione in ogni angolo delle 
varie stanze senza esser visto da nessuno. Così credeva lui perché 
nei suoi ripetuti andirivieni le morbide zampette lasciavano impronte 
ben precise sulla superficie impolverata dei mobili, in particolare su 
quella del pianoforte, che la mattina dopo permisero a Nanni e a me 
di ricostruire tutto il percorso e andare a scoprirlo nel suo 
nascondiglio e di riportarlo fra noi. Non servì a nulla però perché 
dopo un po' e non si fece più vedere finché l'ordine e la calma non 
vennero ristabiliti nella nuova casa. 



L'inverno alla Romola 

Anche se, parafrasando il poeta delle Ricordanze ora che 'breve la 

speme e lungo alla memoria il corso', sono tante le cose che ricordo 
di quegli anni alla Romola, ce ne sono altre che invece ho 
dimenticato, come ad esempio se allora esistesse in paese un edificio 
adibito alle scuole elementari. O forse non l'ho mai saputo perché 
d'inverno non c'eravamo mai andati tranne un infelice tentativo di 
andarvi a passare le vacanze di Natale, fidando nel fuoco di legna 
che avremmo acceso nel cammino per scaldarci di giorno e i tre 
capaci scaldini di notte, tentativo che era finito miseramente dopo 
due giorni, sotto le gelide ventate che spazzavano la cucina e 
s'infiltravano fin su per le scale ogni volta che veniva aperta la 
vetrata dell'ingresso per far entrare e uscire qualcuno. 

Comunque sia a ricordo che l'educazione elementare veniva 
impartita ai bambini da un maestro inviato in trasferta dal capoluogo 
o forse da Firenze dove - e questo lo so di sicuro - andavano i 
ragazzi, ma non le ragazze che desideravano proseguire gli studi, 
quasi generalmente alle Commerciali. 

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Anche come divertimenti il paese offriva ben poco d'inverno, 
tranne lo struscio domenicale in su e in giù per la strada centrale e, a 
cominciare dall'autunno in concerti della banda paesana in 
occasione delle ricorrenze, diretta dal maestro che già a fine 
settembre tornava alla Romola e il sabato sera teneva le prove in uno 
stanzone all'estremità del paese, forse adibito, ora che ci penso, 
anche a scuola. Fu qui che una volta alla fine di una giornata fredda 
e piovosa di settembre eravamo andate con la mamma e altre signore 
ancora in villeggiatura come noi a passare un'ora prima di andare a 
letto; io, dopo un po' mi ero addormentata e avevo dormito 
saporitamente per tutta la durata delle prove nonostante il rimbombo 
degli ottoni, interrotto di tanto in tanto, mi raccontava la mamma, da 
i non meno risonanti richiami del maestro. Beato sonno 
dell'infanzia, quante volte mi è occorso di rimpiangerlo quando, 
ormai vent'anni fa, ho cominciato ad essere tormentata dall'insonnia 
specie in quelle lunghe ore ancor prima dell'alba! Ore tormentose in 
cui si continua a pensare alle cose che avresti voluto o dovuto fare e 
che non hai saputo o voluto fare. Sono quelle le ore di angoscia o 
anche soltanto di ansia che niente può vincere: non la volontà, non i 



pensieri positivi e nemmeno quei rimedi pratici come la monotona 
ripetizione al buio di forse un centinaio di versi in varie lingue delle 
poesie che ho imparato a scuola; anche le letture magari noiose alla 
luce della lampada del comodino. Come dicevo, le cose sono andate 
avanti così per anni, specie da quando non mi è stato più possibile 
alzarmi alle prime luci del giorno e impegnarmi in qualcosa di utile 
come, ad esempio, la correzione delle bozze di stampa di articoli e 
libri di Gabriella o di Silvia - o di un'amica cara . Un anno fa però 
tutto questo è cambiato; quella mattina e poi tante altre mattine verso 
le quattro, sveglia e istantaneamente vigile cominciai, e poi 
continuai a scrivere con la matita del cruciverba questi racconti, che 
sono riusciti a colmare quelle ore interminabili con l'impegno del 
fare e il rinnovato interesse per la memoria del vissuto che 
stimolando la fantasia lo arricchisce e l'organizza il racconto, 
appunto. 

Dato che abbiamo abitato per anni proprio al centro del paese 
i nostri rapporti con la gente erano continui e cordiali: la mamma, 
chiamata rispettosamente la Soremma, godeva di molta 

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considerazione da parte delle donne che venivano sempre a chiederle 
notizie e consigli, ma anche medicine e rimedi introvabili sul posto 
di cui portava sempre buona scorta all'inizio della stagione, per 
curare ammaccature, ginocchia sbucciate, ferite di vario genere e 
bruciature nonché coliche e indigestione specialmente dei più 
giovani. 

Io bambina allegra e socievole sempre pronta a giocare con 
quelle della mia età, ero ben vista da tutti e forse ammirata quando 
fui più grande, se devo credere a quella signora della Romola che 
incontrai più di una trentina di anni dopo sul tram a Firenze, e disse 
di avermi riconosciuto subito perché ero una persona che non si 
dimentica. 

Per Nanni i rapporti con gli abitanti ebbero sempre carattere 
molteplice e talvolta conflittuale. Buon compagno dei ragazzi per i 
giochi e le gite nei boschi, dagli uomini voleva sempre sapere tutto 
sui mestieri e i lavori dei campi, mentre con le donne non tutte le 
cose andavano bene, perché a volte le faceva arrabbiare con qualche 
brutto scherzo e allora arrivavano perfino a rincorrerlo con male 
parole e minacce inutili, visto che poi erano pronte a perdonarlo 



quando regalava alle vittime una delle sue acquasantiere ricavate da 
grossi pezzi di scorza di pino raccolte nei boschi fra quelle cadute al 
piede degli alberi. Queste acquasantiere, realizzate con una abilità 
che già preludeva allo scultore di domani piacevano molto e 
consistevano in un pezzo di scorza orizzontale arrotondato ai bordi e 
scavato al centro per contenere l'acqua benedetta, cui faceva da 
alzata un altro pezzo fissato verticalmente al primo e ornato con 
un'immagine ritagliata da qualche santino e attaccata con cura 
mediante un po' di colla. 

Lo scherzo più cattivo di tutti era secondo me quello di 
mettersi ad aspettare qualcuna delle più giovani in cima alla strada in 
salita che portava alla fonte dell'acqua da bere, dove arrivavano 
stanche e accaldate con le mezzine colme e proprio mentre le 
abbassavano verso terra per riposarsi un po' lui si avvicinava 
dicendo con un bel sorriso "guardate che bella collana vi ho portato" 
e allungava le mani dove teneva una piccola biscia che da poco 
aveva ucciso nel bosco sulla riva di qualche borro, come a recingere 
il collo delle malcapitate che naturalmente si tiravano indietro con 
grida di spaventato ribrezzo e alzavano le mani per difendersi dal 

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pericolo. Naturalmente così facendo lasciavano la presa sul manico 
delle mezzine che cadevano rovesciando il loro prezioso contenuto e 
cominciavano a rotolare giù per la discesa inseguite dalle donne 
giustamente furiose che ora sarebbero dovute tornare a riempirle di 
nuovo. L'autore della bravata si allontanava lasciando sul posto il 
povero e doppiamente innocuo serpentello soddisfatto di se e 
incurante dei severi rimproveri che lo aspettavano a casa quando la 
mamma avrebbe saputo di quella storia. 

Le vacanze dell'estate passavano e si ripetevano rapidamente 
- noi cominciavamo da diventare grandi e a cambiare non solo i 
giochi ma anche compagni e a conoscerne di altri spesso più grandi 
di noi. Il primo di questi incontri per me fu quello con Wanda, la 
giovane figlia di un noto sarto per uomo di Firenze che dopo due 
volte in cui non ci eravamo scambiate un saluto alla messa della 
domenica si era avvicinata a me all'uscita della chiesa e avevamo 
cominciato a parlare delle solite cose che, immagino, si dicono in 
questi casi. Lei era arrivata da meno di un mese quando suo padre 
aveva comprato una villa nelle vicinanze e non conosceva ancora 
nessuno; avrebbe avuto piacere se ci fossimo incontrate per fare 



qualche passeggiata e anche di conoscere i miei amici come quel 
ragazzo che aveva visto alla messa insieme a me e così via, io avevo 
risposto che, certo, sì poteva fare, che quel ragazzo era mio fratello e 
che avremmo sistemato tutto organizzando tutto per bene. Le cose 
andarono così e cominciò subito un'amicizia che continuò per anni 
anche a Firenze e venduta la casa per molto tempo dopo che erano 
ormai finite le nostre felici vacanze alla Romola. 



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Cervia e Grazia Deledda 

Avevo circa quindici anni quando mio padre decise di vendere la 

casa della Romola che da troppo tempo era diventata assolutamente 
insufficiente e inadeguata alle necessità della famiglia: anche allora 
provai un vivo dispiacere (o precoce rimpianto di quegli anni felici 
dell'infanzia?). Che non valse a consolare l'acquisto della casa al 
mare, naturalmente a Viareggio, all'epoca meta delle vacanze di 
tanti fiorentini, fino al mio matrimonio tranne però quell'anno in cui 
fu deciso di andare a passare l'agosto a Cervia, uno dei nuovi centri 
di vacanze che come il vicino Milano marittima avevano cominciato 
a sorgere sulle spiagge della Romagna. A Cervia tutto era davvero 
diverso a cominciare dall'acqua da bere, gialla di zolfo che sgorgava 
dalla fonte del paese antico, alla spiaggia più vasta, ma soprattutto al 
mare, ora non più azzurro come il Tirreno che era invece 
quell'Adriatico selvaggio "che verde è come i pascoli dei monti", e 
se lo dice D'Annunzio verde doveva essere anche a Pescara dove 
oggi di quel bel colore agreste rimane solo una breve fascia poco 
lontana dalla spiaggia. 



Il villaggio delle vacanze era costituito mi pare, da sei casette 
a un piano o cottage - ben distanti fra loro, con un proprio spazio nel 

grande e ombroso bosco di vero e proprio parco vicino al paese 

tra questo e la spiaggia larga e ancora abbastanza sgombra da cabine 
e ombrelloni, cui si arrivava direttamente dal bosco abitando nei 
cottage - sebbene assolutamente indipendenti anche per i servizi- 
avevamo finito col conoscerci tutti; ma anche durante le serate a 
"Villa Igea" il dancing sulla spiaggia che con l'attigua zona giochi 
per bambini formava il parco divertimenti del villaggio. 

Fu così che dopo pochi giorni dal nostro arrivo a Cervia 
incontrammo un compagno di scuola che mi fece conoscere sua zia, 
Grazia Deledda, anche lei in villeggiatura in un cottage abbastanza 
vicino al nostro. La scrittrice sarda, da poco vincitrice del Nobel, di 
cui avevo già letto due dei romanzi più noti, era una signora piccola 
e rotondetta con una massa di capelli bianchi e la faccia intelligente 
e benevola, di modi semplicissimi e gentili che amava circondarsi di 
ragazzi e ragazze giovani e che invitava al cottage nei pomeriggi 
verso sera intrattenendosi con loro a parlare delle cose più disparate 
compresi i film e gli attori del momento. Dopo che il nipote ci ebbe 

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presentati anch'io e mio fratello venimmo subito inclusi in quegli 
inviti che io naturalmente accettavo con grandissimo piacere e 
interesse. E ricordo sempre la gioia della prima volta che andai al 
cottage anche perché su un mobile dell'ingresso c'era una bellissima 
gatta d'angora che immobile come una statua di lucida porcellana 
bianca sembrava accogliere con benevolenza e grande dignità 
l'ammirazione dei visitatori. Di quelle interessanti e piacevoli visite 
al cottage rammento in particolare quella di un pomeriggio più caldo 
del solito in cui la nostra ospite offrì a tutti un bel bicchiere di fresca 
Albana - il buon vino bianco leggero e frizzante romagnolo, 
frizzante e adatto anche come aperitivo. Sebbene non fossi abituata a 
bere del vino fuori pasto, quella sera - ricordo che la pentola stava 
già battendo le 19:00- avevo vuotato il bicchiere un po' alla volta e 
quasi senza accorgermene. Di lì a poco avevo cominciato a parlare 
più vivamente con sempre maggiore rapidità del solito - senza 
riprender fiato, disse poi Nanni che aveva capito subito la situazione: 
per la prima volta nella vita sua sorella era sbronza. Anche se per 
fortuna non pare che quel flusso inarrestabile di parole contenesse 
grosse sciocchezze, Nanni preoccupato della figura che avrei potuto 



fare se la cosa fosse peggiorata cercò di convincermi che si stava 
facendo tardi e che bisognava tornare a casa per la cena. Dopo un 
po' pareva aver ottenuto lo scopo senza ulteriori problemi e ce ne 
eravamo tornati a casa dove avevo continuato a chiacchierare senza 
interruzioni che avvertita si astenne dai rimproveri.... e dopo avermi 
fatto mangiare qualcosa mi accompagnò a letto dove mi ero 
immediatamente addormentata e continuai a dormire come un sasso 
fino alla mattina successiva. La mamma mi fece un serio discorso 
non proprio di rimprovero ma di avvertimento su come comportarsi 
in certe occasioni e sui pericoli delle bevande alcoliche, vino 
compreso. Agli amici che ci avevano aspettato invano al dancing la 
sera prima, dicevo che avevo avuto un gran mal di testa senza 
pensare che se avessero capito la causa delle mie irruenti 
chiacchiere, questo avrebbe confermato la loro opinione. Comunque 
nessuno disse mai nulla e le nostre visite al cottage ripresero 
regolarmente vivaci e cordiali come al solito ma, ora che ci penso, 
senza altre offerte di libagioni da parte della nostra ospite, fino alla 
fine di quelle vacanze per più versi rimaste scolpite nella mia mente. 
Grazia Deledda continuò sempre a mostrarmi grande simpatia e 

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forse anche un maggiore interesse rispetto agli altri ragazzi: mi 
parlava, chiedeva la mia opinione su vari argomenti e inoltre una 
volta espresse anche il suo. . . 



Queste breve memorie furono scritte da Anna Maria Micks a 
Pescara durante il 2002, interrotte bruscamente, a metà frase, perché a fine 
anno si ammalò gravemente e, dopo un illusorio miglioramento nella 
primavera del 2003, morì improvvisamente in un pomeriggio di maggio. 

Era una magnifica affabulatrice, che raccontava con maestria, 
senso del pathos, suspence, ma non aveva mai voluto scrivere, 
ritenendosene non capace. Però, poiché tutti glielo chiedevano, aveva 
cominciato a comporre le sue memorie, che idealmente avrebbero dovuto 
arrivare per lo meno agli anni '50 ed includere quindi gli anni all'estero col 
marito Paolo, che lavorava presso gli istituti di cultura italiana (Cluj, in 
Romania, Sofia, Tunisi, Zagabria), i terribili momenti della guerra, il 
nuovo inizio in una Firenze semidistrutta. Ma anche innumerevoli 
personaggi e animali: fra i primi, cameriere incomunicabili, allievi del 
marito, soldati americani, direttori burberi, filosofi eccentrici, operai 
comunisti e tanti altri; fra i secondi, il cagnolino bulgaro Bibi Bibonzi, il 
meraviglioso gatto Kim, Martina, la gatta bianca dai cinque figli "neri 
come la pece", altri cani, gatti, cavalli... E aneddoti a non finire: i parenti 
triestini di Paolo, alcuni dei quali "matti come la Fiorina", il matrimonio 
per procura, il viaggio sull'Orient Express, la famiglia ebrea nascosta in 
casa, molti ceffoni dati senza paura, gli incontri con Montale e Benedetto 
Croce... 

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Scrivo a Salvador nel 2013, con nostalgia e paura di dimenticare. 



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