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Full text of "Albertino Mussato; studio storico e letterario"

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ALBERTINO  MUSSATO 


ANTONIO  ZARDO 


ALBERTINO  MUSSATO 


STUDIO  STORICO  E  LETTERARIO 


PADOVA 

ANGELO  DRAGHI  LIBRAIO  -  EDITORE 

1884 


P4 


Proprietà  letteraria 


775498, 


Padova  1884,  Tip.  del  Seminario. 


PADOVA 

DI   CUI  FU    SOMMA    GLORIA 

ALBERTINO    MUSSATO 

CON  AFFETTO  FIGLIALE 
L'AUTORE 


AVVERTENZA 


Di  Albertino  Mussato  scrissero  parecchi,  cosi 
italiani  come  stranieri  ;  ma  nessuno  con  quella  lar- 
ghezza che  un  tale  personaggio  meriterebbe,  ne  con 
quella  esattezza  che  in  lavoro  di  tal  genere  sarebbe 
richiesta.  La  mancanza  di  documenti,  molti  de'  quali 
e  importantissimi,  furono  pubblicati,  in  questi  ultimi 
anni,  dal  Gloria  e  dal  Nevati,  fece  sì  che  anche  i 
migliori  fossero  costretti  a  ripetere  i  vecchi  errori. 

Io  debbo  alla  squisita  gentilezza  del  Gloria,  so- 
lerte ricercatore  e  dotto  illustratore  dei  patrii  ri- 
cordi, se  ho  potuto  correggere  alcune  date  e  chia- 
rire alcuni  punti  oscuri  della  vita  del  grande  Pa- 
dovano. E  poiché  questi  visse  nell'epoca  gloriosa 
della  padovana  Repubblica,  ed  ebbe,  sempre  ani- 
mato dal  desiderio  del  bene  di  essa,  tanta  parte 
nelle  funeste  vicende  che  ne  cagionarono  la  rovina, 
mi  piacque  ritessere  largamente,  dietro  le  scorte  più 
sicure  e  coll'aiuto  dei  documenti,  quel  tratto  di  sto- 
ria padovana  che  corre  dalla  venuta  di  Enrico  VII 
in  Italia  al  principio  della  Dominazione  Carrarese 
in  Padova. 


4 

Le  storie  del  Mussato  stesso,  confrontate  colle 
narrazioni  dei  cronisti  suoi  contemporanei,  fra  i 
quali  i^rimi  i  Cortusii,  sono  le  fonti  a  cui  attinsi 
l^rincipalmente.  Per  ciò  che  riguarda  i  casi  parti- 
colari della  vita  di  Albertino  mi  fornirono  suffi- 
cienti notizie  le  opere  tutte  di  lui,  la  biografia  che 
ne  scrisse  Secco  Polentone,  quale  fu  pubblicata  ul- 
timamente dal  Nevati,  che  la  riprodusse  da  un  co- 
dice Ricciardiano,  e  i  documenti  messi  in  luce  ed 
illustrati  dal  Gloria,  dal  Rajna  e  da  altri.  Non  ho 
mancato,  oltre  a  ciò,  di  consultare  quanto  di  me- 
glio fu  scritto  fino  ai  dì  nostri  sul  Mussato  e  le 
sue  opere,  e  in  modo  speciale  i  lavori  recenti  dello 
Zanella,  del  Dall'Acqua  Giusti,  del  Toews,  del 
"Wychgram,  del  Friedensburg,  lavori  degni  sopra 
lutti  gli  altri  di  molta  considerazione. 

L'Autore 


Capitolo  Prlmo. 


Incoronazione  di  Enrico  VII  di  Lussemburgo  in  Milano  —  Con- 
dizioni di  Padova  in  quel  tempo  —  Prima  ambasceria  del 
Mussato  all'Imperatore  —  Nascita  di  Albertino  Mussato  — 
Sua  paternità  —  Strettezze  in  cui  ebbe  a  trovarsi  dopo  la 
morte  del  padre  —  Diviene  notaio  —  Sposa  Mabilia,  figlia 
di  Paolo  Dente  —  Vien  nominato  cavaliere  —  Entra  a  far 
parte  del  Consiglio  della  Repubblica  —  Sua  ambasceria  a 
Papa  Bonifazio  Vili  —  Guelfismo  di  Padova  — Costituzione 
della  Repubblica  —  Legge  contro  i  chierici  —  Gualpertino 
Mussato  abate  di  Santa  Giustina  —  Albertino  esecutore 
degli  ordinamenti  di  giustizia  in  Firenze  —  Podestà  di 
Lendinara. 


Nell'anno  1311  Enrico  VII  di  Lussemburgo 
cingeva  in  Milano  la  corona  ferrea.  Alla  cere- 
monia,  ch'ebbe  luogo  il  giorno  6  di  gennaio  nella 
Chiesa  di  Sant'Ambrogio,  assistevano  gli  amba- 
sciatori di  quasi  tutte  le  città  della  Lombardia 
e  della  Marca  Trivigiana  e  Veronese,  alle  quali 
l'Imperatore  stesso  aveva  mandato  l'invito.  Pa- 
dova, anch'essa,  benché  guelfa,  più  per  onorare 
l'Imperatore  che  per  riconoscerne  il  dominio, 
aveva  eletto    alcuni  ambasciatori,   perchè    ren- 


6  ALBERTINO    MUSSATO 

dessero  più  solenne  colla  loro  presenza  la  regia 
incoronazione  ^). 

Era  Padova  allora  nel  pieno  suo  fiore.  Pv,etta 
a  repubblica,  godeva,  dalla  caduta  degli  Ezzeli- 
ni  (1256),  cioè  da  più  di  mezzo  secolo,  di  una 
pace  non  mai  interrotta,  che  le  aveva  dato  agio 
di  riacquistare  la  popolazione  e  le  ricchezze  , 
delle  quali  era  stata  spogliata  dal  crudele  Ez- 
zelino. Tra  le  città  della  Marca  Trivigiana  essa 
era  la  prima.  Signora  di  Vicenza,  Rovigo,  Len- 
dinara,  Badia  era  forte  in  armi,  e  perciò  rispetta- 
ta. La  sua  potenza  invitava  entro  alle  sue  mura 
i  fuorusciti  d'altre  città,  come  ad  asilo  sicuro; 
il  suo  Studio,  che  avea  di  già  acquistato  grande 
riputazione,  vi  chiamava  non  pochi  scolari  non 
solo  dall'Italia,  ma  da  tutta  l'Europa.  Non  è 
quindi  meraviglia,  s'essa,  allorché  il  Vescovo 
di  Costanza  le  annunziò  la  prossima  discesa  in 
Italia  dell'Imperatore,  non  si  sgomentò  punto  ; 
avea  troppa  fiducia  nelle  sue  forze,  per  credere 
che  altri  potesse  recare  nocumento  alla  sua  po- 
tenza ~). 


1)  Albertini  Mussati,  Hisf.  Ang.  Lib.  I.  Rub.  XII. 

2)  Licei  ergo  hcec  nunciatio  fuisset  tremor  omnibus 
Lombardice,  sola  Paclua  non  ci'.ravit,  sperans,  quod 
sua  potentia  non  valeat  aliquibus  adversilatibus  im- 
mutari.  Cortusii  Lib.  I.  Gap.  XI. 


CAPITOLO   PRIMO  7 

Tra  gii  ambasciatori,  che  Padova  inviò  per 
queir  occasione  a  Milano,  figura  un  uomo ,  il 
quale,  per  l'altezza  dell'ingegno  e  per  le  emi- 
nenti virtù  cittadine  è,  senza  dubbio ,  uno  dei 
più  grandi  italiani  del  suo  tempo.  Storico,  poe- 
ta, oratore  e  soldato ,  Albertino  Mussato  ebbe 
tanta  parte  nelle  vicende  di  Padova  a  que'  gior- 
ni, che  non  è  possibile  parlare  di  lui,  senza  ri- 
fare tutto  quel  tratto  di  storia  padovana,  che 
corre  dalla  venuta  in  Italia  di  Arrigo  VII  alla 
morte  di  Cangrande. 

Colla  venuta  dell'Imperatore,  le  cose  di  Pa- 
dova cominciarono  a  mutare  ;  di  liete  si  volsero 
in  tristi  ;  alle  dissensioni  interne  tennero  dietro 
le  guerre  al  di  fuori,  ed  a  queste,  con  funesta 
vicenda,  nuove  lotte  intestine,  finché  la  città 
perdette  il  suo  libero  governo  e  fu  assogget- 
tata al  potere  di  un   solo. 

Dal  fondo  oscuro  degli  avvenimenti  di  que' 
giorni  si  stacca  luminosa  la  figura  del  Mus- 
sato che,  provvido  consigliere  nei  giorni  della 
prospera  fortuna,  non  abbandonò  nemmeno  un 
istante  nell'avversa  i  suoi  concittadini,  anche 
quando  si  opposero  a'  suoi  assennati  pareri. 
Prode  della  lingua  e  del  braccio,  impiegò  l'una 
e  l'altro  a  benefizio  della  patria  ;  ma  la  sua 
eloquente  parola    rimase,  pur    troppo,  inascol- 


8  ALBERTINO   MUSSATO 

tata,  e  il  suo  braccio  valoroso  non  bastò  ad 
impedire  la  rovina  de'  suoi.  A  tanti  meriti  egli 
s'ebbe  per  ricompensa  l'esiglio,  nel  quale  fini 
l'intemerata  sua  vita. 

Nacque  Albertino  nell'  autunno  del  1 262 
in  San  Daniele  d'Abano,  villaggio  del  Pado- 
vano ^).  Chi  sia  stato  il  vero  suo  padre  è  que- 


1)  Tutti  i  biografi  del  Mussato  han  detto  e  ripetuto, 
esser  egli  nato  in  Padova  nell'autunno  del  1261,  fon- 
dando questa  loro  asserzione  sui  versi  dell'elegia,  che 
egli  scrisse  intorno  alla  propria  nascita:  De  celebra- 
tione  suce  diei  nativitatis  fiencla  vel  non.  In  essa  ci  fa 
sapere  come  nell'anno  1317,  quando  si  pigiava  l'uva, 
cadesse  il  cinquantesimo  sesto  suo  giorno  natalizio  : 

Sexta  dies  htec  est  et  quinquagesima  nobis, 
(Tempora  narrabat  si  mihi  vera  parens) 

Musta  reconduntur  vasis  septemque  decemque 
Nunc  nova  post  ortum  mille  trecenta  Deum. 

I  biografi,  invece,  hanno  interpretato  erroneamente 
che  neirautunno  del  1317  cadesse  l'anno  cinquantesimo 
sesto  dell'età  sua.  Primo  il  Gloria,  nei  Nuovi  documenti 
intorno  ad  Albertino  Mussalo,  pubblicati  negli  Atti  del 
E.  Istituto  veneto  di  scienze,  lettere  ed  arti.  Tomo  I 
Serie  VI,  notò  l'errore,  nel  quale  egli  stesso  era  incorso 
in  altri  suoi  scritti  sul  Mussato.  «Credo,  egli  scrive,  il 
primo  giorno  natalizio  di  noi  quello  in  cui  siamo  nati,  e 
reputo  che  affermando  egli  nella  citata  sua  elegia  essere 
avvenuto  nella  vendemmia  dell'anno  1317  il  suo  cinquan- 
tesimo sesto  giorno  natalizio,  si  debba  ammettere  lui  nato 
nella  vendemmia  dell'anno  1262.  E  per  venire  a  un  ter- 
mine più  concreto  laccio  notai^e  che,  giusta  il  calenda- 
rio giuliano,  si  computarono  ogni  anno  undici  minuti  e 
quindici  secondi  di  più  del  tempo  impiegato  dal  sole  nel 


CAPITOLO   PRIMO  9 

stione  molto  dibattuta.  Gli  scrittori  antichi  che 
s'occuparono  di  lui,  alcuni  contemporanei  al 
Mussato,  altri  di  poco  posteriori,  non  sono  d'ac- 


fare  l'annua  sua  evoluzione;  che  a  correggere  tale  er- 
rore si  passò  di  balzo  nell'anno  1582  dal  5  al  15  ottobre 
giusta  la  riforma  gregoriana,  e  che  perciò  la  vendemmia 
dev'essere  avvenuta  nell'anno  1262  otto  giorni  poco  meno 
dopo  il  tempo  in  cui  avviene  oggidì.  E  prendendo  la  me- 
dia di  questo  tempo  secondo  le  annate,  e  con  riguardo 
ai  luoghi  di  colline,  non  di  bassa  pianura,  parmi  poter 
dire  che  Albertino  Mussato  abbia  avuto  i  natali  verso  il 
principio  dell'ottobre  dell'anno  1262  secondo  il  computo 
odierno,  ovvero  otto  giorni  dopo  quel  principio,  secondo 
il  computo  d'allora.  » 

Del  luogo,  poi,  dove  il  Mussato  ebbe  i  natali,  scrive 
lo  stesso  Gloria:  «  Riguardo  al  luogo  della  nascita  di  lui, 
niuno  finora  mise  in  dubbio  che  sia  nato  tra  le  padovane 
mura,  e  io  stesso  ho  creduto  sempre  questo.  Ma  oggi 
non  posso  affermarlo  più.  »  A  questo  punto  mi  piace  no- 
tare come  il  prof.  Luigi  Busato,  prima  del  Gloria,  in  un 
suo  dotto  lavoro:  Aponus  (Abano)  Scavi  e  Studi,  pub- 
blicato per  la  prima  volta  nella  Rivista  periodica  dei 
lavori  della  R.  Accademia  di  scienze,  lettere  ed  arti 
in  Padova,  Trimestre  primo  e  secondo  del  1880-81 
Voi.  XXXI,  abbia  dimostrato  esser  nato  Albertino  in  S. 
Daniele  di  Abano,  cioè  in  quella  terra  donde,  come  di- 
ceva l'epitaflo  che  i  padovani  ponevano  sulla  tomba  di 
lui  in  S.  Giustina,  il  Timavo  trasportale  acque  pado- 
vane al  mare.  Continua  il  Gloria:  «L'epitaflo  ora  per- 
duto, che  in  S.  Giustina  di  Padova  era  stato  apposto  a 
onore  del  nostro  poeta  reca,  ch'egli  fu  partorito  nella 
terra  da  cui  il  Timavo  partendo  si  avviava  verso  il  mare: 

Condita  Trojugenis  post  diruta  Pergama  tellus 

In  mare  fert  Patavas  unde  Timavus  aquas, 
Hunc  "enuit  vatem. 


10  ALBERTINO    MUSSATO 

cordo  SU  questo  punto.  Chi  lo  vuol  figlio  di 
Viviano  dal  Musso,  chi  di  Giovanni  Cavalerio. 
I  più  lo  fanno  figlio  illegittimo  del  primo  ;  ma 
anche  costoro,  alla  lor  volta,  sono  discordi  nel- 
r  indicare  la  causa  di  questa  illegittimità  ed  i 
rapporti  che  tenevano  legato  Albertino  col  Ca- 
valerio. 

Nei  varii  documenti  che  possediamo  del  Mus- 
sato, non  pochi  de'  quali  e  importantissimi  fu- 
rono messi  in  luce  dal  prof.  Gloria,  il  Nostro 
è  nominato  costantemente  Albertino  Musso  o 
Mussato  del  fu  Giovanni  Cavalerio;  in  taluni 
vi  è  aggiunta  la  indicazione  di  notaio^  di  sto- 
riografo, di  poeta.  In  una  carta  notarile  del 
10  ottobre  1282,  il    Mussato  stesso    si   sotto- 


Ormai  è  dimostrato  che  gli  antichi  appellarono  li- 
mavo Euganeo  le  stesse  acque  termali  di  Abano,  le  quali 
scaturiscono  dal  clivo  chiamato  Montirone  e  unendosi 
costituiscono  il  lìumicello  detto  Rio  Caldo,  ch'era  molto 
abbondoso  di  quelle  acque  ai  tempi  romani.  Il  Montirone 
sorge  ai  confini  del  tenere  di  S.  Daniele  d'Abano,  appel- 
lato anticamente  Moutaone.  Anzi  un  documento  dell'anno 
1304  pone  in  quel  tenere  il  molino  che  oggi  sta  a' piedi 
del  Montirone  ed  ò  condotto  dalle  stesse  acque  termali, 
le  quali  unite  nel  Rio  Caldo  traversano,  per  avviarsi  al 
mare,  il  tenere  medesimo. 

Dunque  emei'ge  chiaro,  mi  sembra,  che  questo  te- 
nere, cioè  il  villaggio  di  S.  Daniele  d'Abano,  sia  la  terra 
indicata  dall'epitatio  predetto  e  quella  che  partorì  il  no- 
stro poeta. » 


CAPITOLO    PRIMO  11 

scrive:  Io  Albertino  Musso  notaio  figlio  di  Gio- 
vanni Cavalerio  precone  del  sacro  palazzo  '). 
Questo  documento  merita  speciale  attenzione , 
poiché  ci  fa  sapere  come  nel  1282,  cioè  quando 
il  Mussato  aveva  vent'anni,  il  Cavalerio  fosse 
ancor  vivo. 

Ma  quale  dei  due  che  abbiamo  nominati  fu 
il  vero  padre  di  Albertino?  Giambono  d'Andrea 
dei  Favafoschi,  coetaneo  al  Nostro ,  dice  che 
fu  Giovanni  Cavalerio  precone,  morto  nel  1300, 
e  che  Albertino  diede,  pel  primo,  lustro  alla 
sua  famiglia.  Un  anonimo  aggiunse  più  tardi, 
nella  cronaca  del  Favafoschi,  al  nome  di  Gio- 
vanni Cavalerio  le  parole  «abbastanza  ricco» 
{satis  dives)  ~).  Secco  Polentone,  vissuto  nel  se- 
colo decimoquinto,  contrariamente  al  Favafo- 
schi, in  un'aggiunta  alla  cronaca  di  questo,  dice 
che  il  padre  di  Albertino  fu  Viviano  dal  Mus- 
so, il  quale,  oltre  che  di  Albertino,  fu  padre 
dei  frateUi  di  lui  Gualpertino,  che  fu  poi  Aba- 
te di  S.  Giustina,  e  Pietro  Buono,  che  fu  no- 
taio. 


1)  Vedi:  Appendice  Dee.  I.  Esso  è  tratto  dai  Bocu- 
meyitiineditiintorno  a  Francesco  Petrarca  e  Albertino 
Mussato  raccolti  dal  Prof.  Andrea  Gloria.  Estr.  dal  Voi. 
VI.  Ser.  V  degli  Atti  del  R.  Istituto  veneto  di  scienze, 
lettere  ed  arti,  Venezia  1879. 

2)  Gloria  op.  cif.  Doc.  XIX. 


12  ALBERTINO   MUSSATO 

Morto  Viviano,  quando  i  figli  erano  ancor 
tenerelli,  questi  vennero  accolti  da  Giovanni 
Cavalerio,  la  cui  moglie  era  stata  balia  ad  Al- 
bertino. A  questo  il  Cavalerio  lasciò,  morendo, 
i  propri  beni.  Né  la  nobiltà  dei  Mussato  co- 
mincia con  Albertino  ;  i  suoi  antenati ,  che  si 
cognominavano  dal  Musso,  erano  stati  investiti 
d' un  feudo  dal  Vescovo  di  Padova  fino  dal- 
l'anno 1111  '):  «Paolo  Dente,  soggiunge  inol- 
tre il  Polentone,  uomo  magnifico  e  potente  non 
avrebbe  data  la  propria  figlia  legittima  con  pin- 
gue dote  ad  Albertino,  se  questi  non  fosse  stato 
di  nobile  e  antichissima  famiglia,  come  si  sa 
dall' istrumento  della  dote,  ch'io  stesso  vidi  e 
lessi  -)  » . 

Ma  questa  figlia  di  Paolo  Dente  che  il  Po- 
lentone chiama  legittima  è  detta,  per  lo  con- 
trario, illegittima  in  un  altro  documento  di  Gio- 
vanni da  Naone  o  da  Nono,  il  quale  si  mostra 
nemico  acerrimo  del  Mussato  ^). 


1)  Ciò  accadde  invece,  secondo  un  documento  (n.°  213) 
pubblicato  dal  Gloria  nei  suo  Codice  diplomatico,  nel- 
l'anno 1130. 

2)  Gloria  op.  cit.  Doc.  XX. 

3)  Tra  l'altro  male  che  dice  del  Mussato,  vorrebbe 
far  credere  malignamente  che  abbia  usurpato  l'incoro- 
nazione e  che  siasi  appropriato  un  libro  composto  da 
Giambone  d'Andrea,  dopo  che  questi  fu  morto.  11  docu- 


CAPITOLO   PRIMO  13 

Il  da  Naone  la  fa  inoltre  figlia  di  Gugliel- 
mo e  non  di  Paolo  Dente.  Parlando  poi  dell'ori- 
gine del  Mussato,  lo  dice  figlio  di  Viviano  dal 
Musso,  mentre  ritiene  figli  legittimi  del  Cava- 
lerio,  Gualpertino  e  Pietro  Buono.  Per  provare 
la  illegittimità  di  Albertino,  racconta  una  sto- 
riella, riprodotta  anche  dal  Gloria,  che  la  dice 
narrata  da  un  cronista  anonimo,  posteriore  al 
Mussato,  nel  supplemento  che  fece  alla  cronaca 
del  Cortellerio.  Narra,  cioè,  come  Giovanni  Ca- 
valerio  si  sia  nascosto  sotto  il  letto  della  mo- 
glie, oppressa  da  grave  malattia,  mentre  si  con- 
fessava ad  un  sacerdote  di  S.  Giacomo,  ed  ab- 
bia udito  dalla  bocca  di  lei,  che  Albertino  era 
figlio  di  Viviano  dal  Musso.  Partito  il  sacer- 
dote, Giovanni  trascinò  la  moglie  pei  piedi  fuori 
del   letto  si   che  n'ebbe    a  morire  ^).  In    altro 


mento  che,  segnato  col  n°  II,  io  credo  opportuno  ripro- 
durre con  altri  in  Appendice  al  mio  libro,  è  tratto  dal 
Liber  de  generatione  aliquorum  civiuni  urbis  Paduce, 
■  tamnobiliuììi  quam  igìiobiliumàì  Johannes  de  progenie 
dominorwn  a  Naone.  Esso  fu  già  riprodotto  da  P.  Rajna 
in  appendice  a  un  suo  scritto:  Le  origini  delle  famiglie 
Padovane  e  gli  eroi  dei  romanzi  cavallereschi,  pubbli- 
cato nella  Romania  4^  année  1875. 

1)  La  stessa  storiella  narra  il  Tiraboschi  in  una  nota 
al  Gap.  VI.  Lib.  II  della  sua  Storia  della  letteratura 
italiana.  La  dice  di  Giovanni  Buono  Moto,  del  quale  - 
cosi  il  Tiraboschi  -  conservasi  presso  il  sig.  Giovanni  Ro- 


14  ALBERTINO    MUSSATO 

documento  pubblicato  dal  Gloria,  lo  slesso  Gio- 
vanni «  attesta  che  i  dal  Musso  furono  in  ori- 
gine barcaiuoli  e  mugnai  ;  che  Viviano  dal  Mus- 
so sposò  una  signora  del  villaggio  di  Ottavo^ 
ch'egli  (Giovanni)  vide  poi  crocefissa  per  ere- 
sia ;  ch'essa  partorì  Gualpertino,  Nicolò  e  Vi- 
viano, quest'ultimo  postumo  al  padre,  ai  quali 
lasciò  molti  terreni  nella  villa  di  Ottavo  ;  e  che 
Albertino  Mussato  assunse  nel  proprio  stem- 
ma l'asinelio  figurato  nello  stemma  della  detta 
famiglia  dal  Musso  ^)». 

Finalmente  un  cronista  anonimo  del  secolo 
decimoquinto  dice  Albertino  figlio  di  un  mu- 
gnaio ;  ma  poiché  soggiunge  aver   ciò    riferito 


berto  Pappafava  una  Storia  m.  s.  delle  Famiglie  di  Pa- 
dova. Il  Buono  Moto  dice  inoltre  che  Albertino  ebbe  in 
sua  moglie  Mabilia  figlia  naturale  di  Guglielmo  Dente. 
Il  Colle  nella  sua  Notizia  della  vita  e  degli  scritti  di 
A.  Mussato  pubblicata  nelle  Memorie  delV Accademia 
di  Padova,  anno  1809,  cita  un  Giovanni  Bono,  di  poco 
posteriore  al  Mussato,  che  scrisse  un  supplemento  alle 
famiglie  padovane  del  Cortellerio.  Questo  Giovanni  Bono 
narra  egli  pure  la  storiella  dell'infedeltà  della  moglie  di 
Gio.  Cavalerio,  ed  asserisce  che  Albertino  sposò  Mabilia 
figlia  naturale  di  Guglielmo  Dente.  È  chiaro  che  Tano- 
nimo  citato  dal  Gloria,  il  Buono  Moto  del  Tiraboschi,  il 
Bono  del  Colle  e  il  da  Naone  non  sono  che  una  sola, 
identica  persona.  Il  Liber  de  generatione  ecc.  secondo 
il  Rajna  non  può  essere  nò  anteriore  al  1325,  nò  poste- 
riore al  1328. 

1)  Gloria  op.  cit.  pag.  13  e  Doc.  XVIII. 


CAPITOLO    PRIMO  15 

Albertino  stesso  nella  sua   storia,  l'asserzione, 
come  vedremo,   non  ha  alcun  valore. 

Da  tutto  questo  arruffio  di  notizie,  la  più 
parte  discordanti  Tuna  dall'altra,  che  cos'è 
che  noi  possiamo  dedurre  di  certo  ? 

Il  Gloria,  appoggiandosi,  oltre  ai  citati,  ad 
altri  documenti  che  esistono  nella  Biblioteca 
del  Seminario  vescovile  di  Padova,  tra  i  quali 
uno  da  cui  emerge  che  Viviano  dal  Musso  mori 
nella  fine  del  1276  o  nel  principio  del  1277, 
quando  cioè  Albertino  aveva  quattordici  anni, 
conchiude,  che  Albertino,  Gualpertino  e  Pietro 
Buono,  i  quali  tutti  si  cognominavano  Mussato 
nel  tempo  stesso  che  si  diceano  figli  di  Gio- 
vanni Cavalerio,  siano  stati  figli  illegittimi  di 
Viviano  dal  Musso  ^),  che  morto  questi,  senza 
aver  provveduto  al  loro  sostentamento,  Giovanni 
Cavalerio  li  abbia  accolti  in  sua  casa,  forse  ad 
istanza  della  moglie,  già  balia  di  Albertino,  e 
ch'essi  l'abbian  chiamato  padre,  tanto  più  che 
egli,  morendo,  lasciava  Albertino  erede  di  tutti 
i  suoi  averi. 


1)  Certo  per  questa  ragione,  cioè  per  essere  stato  fi- 
glio illegittimo,  Albertino  si  chiama,  nelle  sue  Storie, 
plebeo;  (Vedi  Hist.  Aug.  Lib.  II,  Rub.  VII.)  quantunque 
i  Mussato  fossero  di  nobile  e  antichissima  famiglia,  come 
asserisce  Secco  Polentone. 


16  ALBERTINO   MUSSATO 

Ciò  comprova  il  vedere  in  alcuni  documenti 
premesso  al  cognome  Mussato  la  voce  detto,  la 
quale  non  si  legge  mai  allorché  è  nominato 
l'uno  0  l'altro  dei  figli  di  Viviano ,  e  V  esser 
questi  morto  quando  Albertino  aveva  circa  quat- 
tordici anni,  il  che  s'accorda  con  le  parole  del 
poeta  stesso,  che  dice  defunto  suo  padre  quan- 
d'egli non  era  ancor  pubere. 

Il  fatto  poi  che  Albertino  si  chiamasse  Mus- 
sato, vivente  il  Cavalerio,  dimostra  ad  evidenza, 
come  la  infedeltà  della  moglie  di  questo  sia  una 
pretta  invenzione  di  alcuni  cronisti.  Giovanni  Ca- 
valerio, come  osserva  il  Gloria,  non  avrebbe  tol- 
lerato quel  cognome  (Mussato) ,  né  fatto  suo 
unico  erede  il  frutto  dell'adulterio  della  mo- 
glie. 

In  quanto  poi  all'esser  stato  Albertino  figlio 
di  un  mugnaio,  come  il  cronista  anonimo  dice 
risultare  dalla  Storia  stessa  del  Nostro,  basta 
osservare  che  di  ciò  il  Mussato  non  fa  mai  pa- 
rola ;  egli  dice  soltanto  di  aver  posseduto  un 
mulino. 

Molti  biografi  del  Mussato,  male  interpre- 
tando alcuni  versi  di  lui,  hanno  asserito  aver 
egli  sortito  i  natali  da  povera  famiglia  ;  men- 
tre, se,  come  abbiamo  dimostrato,  fu  figlio  di 
Viviano    dal    Musso,   uomo   dovizioso,  ciò    non 


CAPITOLO   PRIMO  17 

può  essere.  Egli  divenne  bensì  povero  dopo  la 
morte  del  padre,  che  mori  intestato,  senza  quin- 
di  aver  provveduto  ai  suoi    figli  illegittimi  ^). 


1)  Ecco  i  versi  del  Mussato: 

Editus  in  lucem  mundi  contagia  Aevi, 

Inque  statu  natus  pauperiore  fui. 
Esse  miser  didici  teneris  infantulus  annis. 

Cuique  miser  tribui  vix  elementa  pater. 

(Elegia  I) 

«Questi  versi- osserva  il  Gloria -non  sono  stati  fi- 
nora intesi  bene  dagli  scrittori.  Ei  significò,  mi  pare, 
che  venuto  al  mondo  ebbe  a  piangere  i  contatti  o  con- 
nubii  illegittimi;  che  per  questi  ei  nacque  in  una  delle 
più  misere  condizioni  ;  che  imparò  ad  essere  infelice  ne' 
suoi  più  teneri  anni  ;  e  che  a  lui  fanciullo  potè  l'infelice 
padre  porgere  appena  i  primi  rudimenti  del  sapere.  »  E 
più  innanzi  :  «  Egli,  a  mio  vedere,  oltreché  dinotò  col 
vocabolo  contagia  i  connubii  illegittimi,  e  perciò  quello, 
da  cui  ebbe  i  natali,  non  esjDresse  con  le  parole  miser 
pater  un  padre  indigente,  ciò  che  innnaginarono  taluni. 
Anche  noi,  parlando  dei  nostri  genitori  che  furono,  di- 
ciamo il  povero  ìnio  padre,  la  povera  mia  madre,  av- 
vegnaché morti  ricchi.  E  dopo  ciò  miser  significa  sven- 
turato, non  mendico,  e  forse  il  poeta  usò  quelPaddiet- 
tivo,  avendo  avuto  Viviano  dal  Musso  morte  miseranda, 
quale  sarebbe  la  istantanea,  di  che  è  indizio  che  egli 
ricco  non  abbia  provveduto  con  testamento  al  vivere 
della  sua  illegittima  prole.  E  quindi  non  m'accordo  nem- 
meno con  quelli,  che  facendo  dire  al  poeta  ciò  che  non 
ha  detto,  vogliono,  per  far  credere  la  mendicità  del  pa- 
dre, sostituire  il  vocabolo  alimenta  a  quello  elementa 
recato  dal  testo.  Il  Mussato  significò,  penso,  che  da  suo 
padre,  morto  troppo  presto,  non  ebbe  che  i  primi  rudi- 
menti 0  elementi  del  sapere,  che  gli  servirono  poi  a  far 
da  copista  agli  scolari.  Anche  Orazio  scrisse:  Hoc  quo- 

2 


i8  ALBERTINO    MUSSATO 

Viviano  cessò   di    vivere   prima   che   Albertino 
avesse  raggiunto  la  pubertà  ^),  ed  essendo  que- 


que  te  manet,  ut  pueros  elementa  docentem  —  Occupet 
extremis  invicis  balba  senectus  (J^^'\&\,.  20,  17)»  Op.  cit. 

1)  Ciò  è  dimostrato  ad  evidenza  dal  Gloria  nell'opu- 
scolo citato;  ma  non  ne  fu  persuaso  il  signor  Dietrico 
Kònig,  il  quale  in  un  suo  scritto:  Ueber  die  Herkunft 
des  Albertino  Mussato  giudicò  Albertino  non  già  figlio 
illegittimo  di  Viviano  dal  Musso,  ma  figlio  illegittimo  di 
Giovanni  Cavalerio,  male  interpretando  le  parole  del  Fa- 
vafoschi  e  sostenendo  l'ipotesi  che  Albertino  nell'auto- 
grafo 10  ottobre  1282,  da  noi  citato,  abbia  omesso  per 
trascuratezza  l'avverbio  quondaìn  innanzi  al  nome  di 
Giovanni  Cavalerio  suo  padre.  Per  combinare  poi  l'auto- 
grafo con  ciò  che  scrive  il  poeta  nell'elegia  I:  Quam  fie- 
rem  pubes,  sic  pater  ante  fui,  il  Kònig  fa  l'altra  sup- 
posizione che  il  Cavalerio  sia  morto  nell'anno  1275.  Il 
Gloria  rispose  vittoriosamente,  con  un  nuovo  scritto,  alle 
mal  fondate  supposizioni  del  Kònig,  pubblicando  dei  nuovi 
documenti  intorno  al  Mussato. 

Il  Wychgram,  nella  sua  dotta  monografia:  Albertino 
Mussato  -  Ein  Beitrag  zur  italienischen  Geschichte  des 
vlerzehnten  lahrhunderts  -  Leipzig,  ISSO,  nota  come  il 
Cavalerio  sia  morto  prima  del  1282.  Di  questo  errore  egli 
va  compatito,  poiché  non  conosceva  il  documento  pub- 
blicato più  tardi  dal  Gloria,  il  quale  nella  risposta  al 
Kònig  inclinerebbe  a  credere  che  il  Cavalerio  fosse  an- 
cor vivo  nel  1294.  Secco  Polentone  nella  biografia  che 
scrisse  del  Mussato,  e  che  il  Muratori  riprodusse  dal  Co- 
dice Ambrosiano  come  prefazione  alla  Historia  Augu- 
sta, {Rerum  Italicarum  Scriptores  X)  mentre  tace 
della  illegittimità  di  Albertino,  dice  che  gli  moriva  il 
padre,  quand'egli  aveva  ventun'anno.  Ammesso  che  tal 
padre,  com'è  evidente,  sia  il  Cavalerio,  questi  sarebbe 
morto  nel  1283,  il  che  non  contraddirebbe  punto  al  do- 
cumento IO  ottobre  1282. 


CAPITOLO   PRIMO  19 

sti    il  maggiore,    dovette    far    le    veci    di    pa- 
dre a  due    fratelli  e  ad   una    sorella    come  ci 


Di  recente  il  signor  F.  Novati  in  un  suo  importante  ' 
scritto:  La  biografia  di  Albertino  Mussato  nel  de  scri- 
PTORiBUS  iLLUSTRiBus  di  Secco  Polentone,  pubblicato 
neW  Archivio  Storico  per  Trieste,  l'Istria  e  il  Tren- 
tino Voi.  II,  fascicolo  I  gennaio  1883,  riprodusse  dal 
codice  Rieciardiano  una  nuova  copia  della  biografia 
scritta  dal  Secco,  diversa  in  molti  punti  dall'altra;  vi 
sono  cose  meno  importanti  taciute,  altre  più  notevoli 
aggiunte.  In  essa  fra  l'altre  è  detto  che  Albertino  alla 
morte  di  suo  padre  aveva  venti  anni  ;  il  che  non  toglie 
che  nel  10  ottobre  1882  il  Cavalerio  fosse  ancor  vivo. 
Fa  meraviglia  tuttavia  che  il  Novati,  dotto  e  giudizioso 
com'è,  dopo  aver  riportato  le  parole  del  Tiraboschi: 
«  Par  dunque  falso  che  gli  morisse  il  padre  mentre  con- 
tava ventun'anni  di  vita,  come  dice  il  Polentone,  per- 
ciocché non  direbbe  Albertino  ch'era  divenuto  padre  pri- 
ma di  giungere  alla  pubertà;»  osservi:  «che  però 
Albertino  avesse  alla  morte  di  suo  padre  ventun'anni 
(o  venti,  secondo  il  R.)  con  tutto  il  rispetto  per  l'auto- 
rità del  Tiraboschi,  parmi  sia  lecito  il  crederlo,  senza 
andar  contro  la  testimonianza  del  Mussato  medesimo, 
il  quale  poeticamente  scrivendo  e  per  non  perder  l'oc- 
casione di  dire  un'  arguzia  (!)  può  aver  sacrificato  un 
pochino  la  verità  ed  affermato  di  esser  divenuto  pa- 
dre ancora  impubere.  »  Pare  che  il  Novati  non  sospetti 
nemmeno  che  abbia  esistito  Viviano  dal  Musso,  e  che 
questi  possa  esser  stato  padre,  benché  illegittimo,  di 
Albertino!  Egli  anzi  è  tanto  lontano  dal  creder  questo 
che,  dopo  avere  in  una  nota  al  suo  articolo,  manifestato 
il  sospetto  che  Cavalerius  non  sia  che  la  traduzione  della 
parola  italiana  Cavallaro,  dal  da  Naone  barbaramente 
latinizzata,  (Cavallaro  infatti  -  so n  sue  parole  -  diceasi 
anticamente  per  corriere:  e  in  questo  caso  meglio  che 
il  prceco,  aggiunto  dal  da  Naone  a  dinotar  la  professione 


20  ALBERTINO   MUSSATO 

fa   sapere    egli    stesso    nella    sua    prima    ele- 
gia ^). 


di  Giovanni,  servirebbe  il  vialor  usato  dal  Secco)  sog- 
giunge :  «  Osservo  inoltre  che  accettando  questa  opi- 
nione si  avrebbe  forse  mezzo  d'intender  meglio  l'origine 
del  nome  Mussatus,  che  probabilmente  vien  da  ìnusso 
(asino  nei  dialetti  veneti):  ed  un  asino  infatti  portava 
Albertino  nel  suo  scudo.  »  Si  vegga  a  qual  razza  di  con- 
clusioni possa  condurre  una  ipotesi  mal  fondata  I  Poiché 
avrò  occasione  di  riportarmi  più  volte  nel  mio  lavoro 
alla  biografia  del  codice  Ricciardiano,  stimo  opportuno 
riprodurla  in  Appendice  sotto  il  n.°  III.  Il  Gloria  final- 
mente a  sciogliere  la  questione  che  Albertino  non  ori- 
ginò dal  sangue  dei  Cavalerio,  ma  da  quello  dei  Musso 
0  Mussato  cita  la  iscrizione  che  Albertino  stesso  compilò 
a  onore  dell'abate  Gualpertino  suo  fratello,  pel  trasferi- 
mento delle  reliquie  di  S.  Luca  nella  Chiesa  di  S.  Giu- 
stina, iscrizione  che  si  vede  ancora  in  Padova  all'arca 
di  S.  Luca,  nella  chiesa  di  quella  santa,  e  che  si  legge 
pure  tra  i  frammenti  delle  opere  del  Nostro.  Dice  schiet- 
tamente quell'iscrizione  che  quell'abate  Gualpertino,  a 
guisa  che  il  nostro  poeta  suo  fratello,  discendeva  dalla 
famiglia  dei  Mussato 

, abbas, 

Gratia  cui  fratrem  tribuit  divina  poetam, 
Atque  pios  mores  et  sacras  noscere  leges, 
Mussatosque  dedit  claro  cognomina  cives 
Urbis  honoratos  patavime  sanguine  junctos. 

1)  Bina  mihi  fratrum  series  ad.juncta  sorori. 
Et  tamen  illorum  de  grege  major  eram. 
His  pater,  ut  major,  patris  post  fata  relinquor: 

Le  sette  sorelle  attribuite  dal  Polentone  al  Mussato, 
secondo  il  codice  Ambrosiano,  sono  un  errore.  Il  Nevati 
in  nota  all'articolo  citato,  scrive:  «  0  per  inavvertenza 
o  per  strano  errore  di   lettura,  il  Muratori  o  altri,  se 


CAPITOLO   PRIMO  21 

Nelle  strettezze  in  cui  lo  aveva  lasciato  la 
morte  del  padre,  Albertino  provvedeva  a  sé  ed 
a'  suoi,  copiando  libri  per  gli  scolari  del  pub- 
blico Studio,  fatica  dalla  quale  ritraeva  uno 
scarso  guadagno  ^).  Più  tardi,  eruditosi,  per  la 
sua  stessa  occupazione,  nella  legge,  divenne  no- 

altri  copiò  per  lui  il  brano  dal  codice  Ambrosiano,  tra- 
scrisse sorore  septem  per  septenni  e  lo  corresse  soro- 
ribus  septem.  y>  11  codice  Ricciardino  ha  sorore  septene 
che  il  Nevati  corresse  in  septenni.  V.  Appendice,  Doc.  111. 

1)  Parva  mihi  vietu  prcebebant  lucra  Scholares, 
Venalisque  mea  littera  facta  maiiu. 

(Elegia  D 

Il  Colle  nella  Memoria  citata  scrive:  «Incontrasi  ne- 
gli antichissimi  statuti  della  città  e  nei  monumenti  di 
questo  Studio  (di  Padova)  un  uffizio  pubblico  di  copista 
di  libri  ad  uso  delle  scuole,  col  titolo  di  esemplare  e 
stazionario  coU'aunuo  salario  di  lire  sessanta,  al  qual 
uffìzio  per  le  scuole  di  legge  fu  destinato  nel  1275  dai 
Rettori  dello  Studio  un  certo  Pietro;  e  si  può  sostenere 
0  che  a  quel  Pietro  succedesse  il  Mussato,  o  che  l'ufiìzio 
medesimo  vi  sostenesse  contemporaneamente  per  le  scuo- 
le delle  Arti,  provvedute  esse  pure  del  loro  copista,  lo 
che  sembra  indicato  da  Gio.  Bono  nel  suo  manoscritto.» 

Secondo  Gio.  da  Kaone,  il  Mussato  fuit  repetitor  sco- 
larium,  eosque  per  scolas  padiianas  mìttebat,  qui  ca- 
iones  scribebat  vendendo.  Vedi  Appendice  Doc.  IL  Osser- 
va il  Novati  :  «  La  curiosa  frase  del  da  Naone  scribebat 
catones  dee  intendersi  così,  che  Albertino  ricopiava  pre- 
cipuamente libri  scolastici:  ora,  com'è  noto,  fra  i  libri 
singolarmente  adoperati  per  l'istruzione  dei  fanciulli  in 
tutto  il  medioevo,  stanno  i  noti  versi  morali  attribuiti  a 
Catone  l'antico,  e  che  sono  invece  di  Dionisio  Catone, 
lìorito  il  160  dopo  C.  » 


22  ALBERTINO    MUSSATO 

taio  e  trattò  le  cause  nel  foro  ^),  essendo  al- 
lora i  notai  addetti  anche  agli  uffici  forensi,  e 
venne  in  tanta  fama  che  Paolo  Dente,  ricchis- 
simo cittadino,  gli  diede  in  isposa  la  propria 
figlia  Mabiha  -).  A  trentacinque  anni,  fa  fatto 
cavaliere,  e  chiamato  a  far  parte  del  pubblico 
Consiglio,  che  si  componeva  allora  di  mille  cit- 
tadini ^j.  Era  del  resto  naturale  che  un  inge- 
gno come  il  suo  si  aprisse  per  tempo,  non  ostan- 
te le  difficoltà  gravissime  ch'ebbe  a  superare 
dapprincipio,  la  via  agli  onori.  Oratore  e  poe- 


1)  Ad  bona  fortunse  veni  labentibus  annis, 

Yelaque  sunt  magno  tunc  mea  tenta  mari. 
Transtulit  ad  causas  Invenem  sors  prima  forenses, 
Et  me  verbosi  mersit  in  ora  fori. 

(Eleg.  cit.) 

-)  Che  fosse  o  no  legittima  non  è  dato  precisare.  Il 
Polentone,  nella  citata  aggiunta  alla  cronaca  del  Fava- 
foschi,  dice  ch'essa  fu  legittima.  Che  sia  poi  stata  figlia 
di  Paolo  Dente,  come  vuole  il  Polentone,  e  non  di  Gu- 
glielmo, come  asserisce  il  da  Naone  (V.  Appendice  Doc. 
II  e  111)  è  cosa  evidente.  Guglielmo  infatti  fu  ucciso  nel 
1325,  quando  cioè  Albertino  contava  63  anni,  e  se  fu  uc- 
ciso, come  vedremo,  in  causa  di  un  amorazzo,  non  si  può 
credere  che  fosse  troppo  vecchio.  Albertino  inoltre  prese 
moglie  ancor  giovane,  per  cui  non  ò  possibile  che  abbia 
avuto  a  suocero  Guglielmo  Dente. 

3)  Nostra  per  ambages  jetas  me  transtulit  illas. 
Integra  vix  septem  dura  mihi  lustra  forent. 
His  raptus  jam  factus  Eques  loca  celsa  Senatus 
Sortitus,  me  sic  sorte  ferente,  fui. 

(Eleg.  cit.) 


CAPITOLO  PRIMO  23 

ta,  egli  attirò  a  sé,  ben  presto,  gli  sguardi  dei 
suoi  concittadini.  Le  condizioni  della  sua  città 
natale  erano  le  più  favorevoli  a  sviluppare  la 
sua  attitudine  alla  eloquenza,  la  quale,  come 
avviene  sempre  nei  governi  liberi,  facendolo  co- 
noscere al  popolo,  gli  procacciò  favore. 

Dal  momento  che  occupa  un  seggio  nel  pub- 
blico Consiglio,  egli  diviene  l'uomo  principale 
di  Padova;  non  c'è  avvenimento  nella  storia 
padovana  dei  primi  venticinque  anni  del  secolo 
decimoquarto,  in  cui  egli  non  abbia  parte  gran- 
dissima. 

E  gli  avvenimenti,  in  quel  primo  quarto  di 
secolo,  si  tennero  dietro  1' un  T  altro  a  danno 
della  città,  la  quale  aveva,  per  lo  innanzi,  go- 
duto d'un  lungo  periodo  di  pace. 

Poco  dopo  che  Albertino  entrò  nella  vita  pub- 
blica, noi  vediamo  le  cose  di  Padova  grande- 
mente mutarsi,  e  la  pace  dar  luogo  a  guerre 
lunghe  e  feroci.  Per  ritardare  la  rovina  della 
città,  non  ci  voleva  che  l'ingegno  ed  il  cuore 
del  Mussato,  il  quale  parve,  in  più  circostanze, 
mandato  dalla  Provvidenza.  Ma  se  valse  a  ri- 
tardare, non  potè  impedire  la  rovina  della  cara 
sua  patria;  cotanto  gli  animi  erano  agitati  dalla 
discordia  I  È  grandemente  probabile  che  se  i 
Padovani  si    fossero  fin   da    principio    attenuti 


24  ALBERTINO    MUSSATO 

a'  suoi  saggi  consigli,  la  potenza  della  loro  città 
non  sarebbe  tramontata  si  presto.  Ma  la  sua 
fu  voce  di  chi  predica  al  deserto  ;  che  se  spesso 
nei  momenti  diffìcili  ebbe  il  plauso  della  mol- 
titudine, che  vedeva  in  lui  1"  unico  atto  a  sal- 
varla dalle  imminenti  sciagure,  fu  spesso  ezian- 
dio fatto  segno  all'iniquo  furore  della  plebe  ^). 
Pel  dono  singolare  ch'egli  aveva  dell'eloquen- 
za, lo  vediamo  spesso  adoperato  da'  suoi  con- 
cittadini nelle  pubbliche  ambascerie,  e  primie- 
.ramente  fu  ambasciatore  a  papa  Bonifazio  Vili. 
Ce  lo  fa  sapere  egli  stesso  neW Invettiva  con- 
tro la  plebe  pìO'dovana,  nella  quale  volgendo 
il  discorso  ai  tribuni  della  plebe,  agli  artieri, 
ai  capi  della  Repubblica,  dice,  alludendo  a  sé  : 
«  Non  parlo  a  quella  turba  ignava  ed  infesta 
che  non  accolse  colui  che  seppe  rendere  verso 
di  sé  placato  e  munilico  papa  Bonifazio  ^  III, 
uomo  ai  nostri  giorni  formidabile  al  mondo  ")  » . 

1)  Ssepe  fluens  in  me  populi  gauientis  abuude 
Ingruit  impensus  trans  mea  vota  favor: 
Ssepe  ruens  in  me  vulgi  clamantis  inique 
Invaiai  t  properaas  in  mea  damna  furor. 

(Eleg.  cit.) 

-)  yon  eam  ignavam  Inrbam  adloquor,  quce  eum, 
qui  Bonifaciinn  i^apam  ootavum,  virum  nostri  tempo- 
ris  mi'.ndo  formidabilem,  sibi  placabilem  ac  munifi- 
citm....  ejfecit non  accepit. 

De  Gestis  Italicorum  post  Henricum  VII.  Ccesareni 
Lib.  IV.  Rub.  II. 


CAPITOLO  PRIMO  25 

Il  Mussato  non  dice  in  quale  anno  né  perchè 
sia  stato  mandato  ambasciatore  a  Bonifazio. 
Pare  tuttavia  che  in  quell'occasione  egli  abbia 
chiesta  al  Papa  ed  ottenuta  pel  fratello  Gual- 
pertino  l'Abazia  di  Santa  Giustina.  Secondo  il 
Gennari,  Gualpertino  sarebbe  stato  abate  di 
Santa  Giustina  circa  il  1297  ^j,  per  cui  veri- 
similmente,  come  nota  pure  il  Wychgram  -),  Al- 
bertino sarebbe  stato  mandato  a  Roma  per  rac- 
comandare al  Papa  la  composizione  delle  lotte 
fra  Azzo  d'Este  e  Bologna,  alle  quali  pren- 
deva parte  anche  Padova.  Secondo  il  Cavacio, 
invece,  Gualpertino  sarebbe  stato  nominato  aba- 
te nel  principio  del  secolo  decimoquarto  ^).  Se 
fu  cosi,  è  molto  probabile,  come  pare  anche  al 
Colle  ^),  che  il  Mussato  sia  stato  ambasciatore 
a  Bonifazio  nel  gennaio  del  1302,  insieme  col 
vescovo  Ottobono  e  con  altri,  per  frenai'e  gli 
abusi  dell'Inquisizione  esercitata  dai  frati  mi- 
nori. 

Non  è  a  credere  che  Padova,  benché  guelfa, 
lasciasse  che  preti  e  frati  spadroneggiassero 
a    loro  talento.  Tutt'altro  !    Il   popolo    italiano 


1)  Vedi  Annali  di  Padova  —  Parte  terza. 
~)  Pag.  4  del  libro  cit. 

3)  Cavacium,  Histor.  Coenob.  D.  lustince  Lib.  III. 

4)  3Ieìn.  cit. 


26  ALBERTINO  MUSSATO 

preferiva  generalmente  il  partito  guelfo,  «non 
già  nel  senso  di  volere  im  Papato  imperiale, 
ma  nel  senso  d'amare  un  Papato  spirituale, 
come  necessario  e  benefico  ancora  nella  vita 
presente  ^)  » .  Il  popolo  padovano  poi  nella  cui 
memoria  erano  ancor  vive  le  atrocità  di  Ezze- 
lino, vicario  imperiale,  aveva  una  speciale  ra- 
gione per  essere  guelfo,  Padova  tuttavia,  come 
avverte  giustamente  il  De  Leva,  «non  riteneva 
del  gueltìsmo  che  il  bene  del  reggimento  a  po- 
polo, ma  costituito  per  modo  che  vi  potessero 
avere  grado  e  voce  i  più  valenti  ed  autore- 
voli *)».  La  Repubblica  era  rappresentata  dal 
Podestà,  supremo  magistrato  esecutivo:  c'era 
inoltre  un  consiglio  minore  di  sessanta  pubblici 
officiali,  ed  uno  maggiore  composto,  come  di- 
cemmo, di  mille  cittadini  ^).  Il  popolo  costituiva 
un'associazione  politica  detta  comunanza  od  an- 
che coiiiune  del  ])opolo.  Ad  essa  presiedevano 
gli  Anziani,  coadiuvati  da  un  consiglio  minore 


1)  Baldassare  Labanca  —  Marsilio  da  Padova,  rifor- 
matore politiGO  e  religioso  del  secolo  XIV,  Padova  1882. 
pag.  96. 

2)  Dante  e  Padova,  Studi  storico-critici  —  Padova 
1865,  pag.  244. 

3)  Fu  sollevato  a  tal  numero  nel  1277  ;  prima  era  di 
soli  seicento  cittadini. 


CAPITOLO    PRIMO  27 

di  quaranta,  da  imo  maggiore  di  duecento  e 
finalmente  dall'  assemblea  generale  di  tutti  i 
soci.  Gli  Anziani  sostenevano  gli  interessi  del 
popolo  nei  consigli  del  comune  e  presso  il  po- 
destcà,  del  quale  divennero  in  breve  gli  ordi- 
nari consiglieri  nelle  cose  quotidiane  ^). 

Che  ai  chierici  poi  non  si  lasciasse  troppo 
libero  il  freno,  lo  provano  le  leggi  del  1274, 
per  le  quali  essi  venivano  obbligati  a  pagare 
le  imposte  e  a  sottostare,  se  rei  di  qualche  de- 
litto, alle  pene  minacciate  a  tutti  gii  altri  cit- 
tadini. Una  volta  s'andò  perfino  all'esagerazione 
contro  gli  ecclesiastici^  esagerazione  provocata 
dal  contegno  poco  edificante  di  alcuni  di  loro  : 
chiunque  avesse  ucciso  un  prete  non  veniva 
multato  che  di  un  solo  grosso  (32  denari  pic- 
coli). La  città  per  questa  ordinazione  (1282) 
s'ebbe  da  Papa  Nicolò  IV  la  scomunica.  Cio- 
nonostante il  decreto  contro  i  chierici  non  fu 
revocato  che  nel  1289  per  interposizione  di 
frate  Bonaventura  dell'ordine  dei  minori  ^). 


1)  Vedi:  Gloria,  Statuti  del  Comune  di  Padova  dal 
secolo  XII  all'anno  1285,  ed  Antonio  Fertile  ,  Degli 
ordinamenti  politici  ed  amministrativi  della  città  di 
Padova  nel  secolo  XIII.  Annuario  della  R.  Università 
degli  studi  di  Padova  per  l'anno  scolastico  1882-83. 

2)  Vedi:  Gloria,  Controversie  fra-  il  Clero  ed  il  Co- 
mune di  Padova  nel  secolo  XIII  ecc.  Padova,  1855. 


28  ALBERTINO   MUSSATO 

La  stessa  ripetuta  difesa  che  Padova  fece 
di  Pietro  d'Abano,  morto  nel  1315,  contro  le 
accuse  dell'  Inquisizione  ,  mostra  com'  essa  non 
si  lasciasse  menomamente  imporre  dagli  eccle- 
siastici ^). 

Ma,  per  tornare  a  Gualpertino,  non  sembra  che 
questi  fosse  uomo  di  rigorosi  costumi,  né  fatto 
certamente  per  la  vita  monastica.  Anche  senza 
tener  calcolo  delle  gravi  accuse  che  gli  sca- 
glia contro  il  da  Naone,  secondo  il  quale  avrebbe 
avvelenato  un  Tobia  priore  del  monastero  di 
S.  Paolo,  ottenuta  l'Abazia  di  S.  Giustina  per 
simonia,  ucciso  due  monaci  ed  avuto  più  fi- 
gli-)  ;  le  stesse  parole  di  Albertino  bastano  a 


1)  Per  ciò  che  riguaixla  questo  grande  Padovano, 
vedi:  Ronzoni,  Della  vita  e  delle  opere  di  Pietro  d'A- 
bano, Roma  1878. 

2)  Vedi:  Appendice,  Documento  IL 

Il  Colle  cita  le  stesse  accuse  contro  Gualpertino,  at- 
tribuendole a  Giovanni  Bono,  e  dice  che  il  Cavacio,  che 
lo  ril'erisce,  non  trovò  nel  ricchissimo  archivio  del  suo 
monastero  alcun  documento,  giacché  è  costretto  ad  af- 
lidarne  la  verità  all'unica  fede  di  Giovanni  Bono.  Che 
Gualpertino  avesse  figli  illegittimi  attestano  anche  i  Cor- 
tusii,  laddove  registrano  i  nomi  di  coloro  che  furono  ban- 
diti dopo  r  uccisione  di  Guglielmo  Dente  :  Post  civile  bel- 
lum  Abbas  Sanctce  Justince  fraler  Mussati  poetm  op- 
imgnatus  ad  locum  sicwn  clam  fugit,  qui.  spollaio  a 
Tlieotonicis  loco  sacro,  fuit  cnm  duobus  filiis  spuriis 
forbannilus.  Lib.  111.  Gap.  VI. 


CAPITOLO    PRIMO  29 

convincerne  come  sarebbe  riuscito  miglior  sol- 
dato che  monaco.  Albertino,  infatti,  nella  ci- 
tata Invettiva  contro  la  plebe  padovana,  ci  fa 
sapere  come  il  fratello  abate  abbia  consumato, 
per  tutto  il  tempo  della  guerra,  (contro  Can- 
grande)  gii  inverni  e  le  estati  in  diurne  e  not- 
turne vigilie  sotto  l'armatura,  insieme  con  la 
turba  dei  soldati  ;  come  spesso  abbia  messi  in 
fuga  dalle  mura  i  nemici  inseguendoli  audace- 
mente; come  abbia  provveduto,  secondo  il  co- 
stume dei  laici,  nelle  adunanze  dei  cittadini,  al 
bene  della  città,  deposto  Tabito  e  quasi  dimen- 
tico, per  amor  della  patria,  della  canonica  di- 
sciplina ^). 

.  Narra  il  Polentone  che  la  fama  del  Mussato 
usci  ben  presto  dai  confini  della  sua  terra,  e 
che  fu  chiamato  a  Firenze,  libera  e  potente 
città  d'Italia,  quale  esecutore  degli  ordinameìiti 
di  giustizia'),  carica  importantissima,  alla  quale 


J)  Qui  pei'  totius  belli  tempora  hijemes  cesUisque, 
diurnis  nocturnisque  vigiliis  sub  casside  cmn  militmn, 
pedihmique  caterva  consumpserat?  Qui  hostes  a  moe- 
niis  veluti  furiosa  persmpe  insecutione  fugaverat,  Urbi 
consultans,  laicali  more,  in  Civium  conventibus,  misso 
liabilu,  fereque  oblitus  canoniccQ  amore  liatriw  disci- 
plincB?  —De  Gestis  Hai.  post  Henricum  ecc.  Lib.  IV. 
Rub.  II. 

2j  Vedi:  Appendice  Dee.  II.  e  III. 


30  ALBERTI>'0   MUSSATO 

venivano  nominati  anche  i  forastieri.  Il  Novali, 
nel  citato  articolo  sul  Mussato,  riproduce  un 
documento  tratto  dal  R.  Archivio  di  Stato  in 
Firenze,  indice  Strozziano,  dal  quale  si  rileva 
che  Albertino  fu  in  Firenze  fra  gli  esecu- 
tori degli  ordinamenti  di  giustizia  per  un  se- 
mestre decorrente  dal  primo  aprile  1309  ^).  Il 
Wychgram  poi  ci  fa  sapere  come  nell'Archivio 
fiorentino  sia  conservata  una  sentenza,  nella 
quale  Albertino  ]\russato  di  Padova  comanda, 
come  esecutore  degli  ordinamenti  di  giustizia, 
che  sette  pennonieri  della  lega  di  S,  Donato 
in   Foce,  i  quali  avevano  gridato:  raoia  il  i^o- 


1)  Offlciales  forenses  Civ.  Fior.,  e.  i9 :  <s.D.  Alber- 
Unus  Musciattus  de  Padua  pì^o  semestre  incepto  pri- 
oìio  aprilis  1309,  ind.  7 .  L'anno  preciso  in  cui  Alber- 
tino ebbe  questa  carica  era  fino  ad  oggi  ignorato.  È  falsa 
pertanto  la  supposizione  del  Friedensburg,  che  il  Mus- 
sato l'abbia  occupata  dopo  la  morte  di  Enrico  VII:  Denn- 
wenn  gleicli  seine  Verwaltung  des  Amtes  eines  esecu- 
tore degli  ordinamenti  della  giustizia  zu  Florenz  mò- 
glicherweise  erst  in  die  Zeit  nacli  dem  Tode  Heinrichs 
VII  zu  setzen  istecc.  {Zur  Kritik  der  Hi  storia  Augusta 
des  Albertino  Mussato  nelle  Forscìiungen  zur  Deutschen 
Geschichte  XXIII,  1  pag.  46.  Gòttingen  1882. 

Lo  stesso  Novati  dà  notizia  di  un  altro  sconosciuto 
documento  riguardante  Albertino  Mussato,  dov'è  pure 
ricordato  Antonio  da  Tempo  padovano,  l'espositore  in 
lingua  latina  delle  regole  della  poetica  volgare.  È  tratto 
anch'esso  dal  R.  Archivio  di  Stato  in  Firenze.  Farmi 
prezzo  dell'opera  il  riprodurlo  in  Appendice  sotto  il  n.IV. 


CAPITOLO    PRIMO  31 

j^olo  fiorentino  ed  e vv ivano  i  cp'cm  eh  sia.no  im- 
piccati come  rei  di  tradimento. 

Secondo  il  Bronziero,  sull'autorità  di  Vi- 
viano Fantoni,  il  Mussato  sarebbe  stato  inoltre 
Podestà  di  Lendinara  «  a'  tempi  che  il  Comune 
di  Padova  era  padrone  di  questa  terra  ^)». 


1)  Historia  delle  origini  e  condizioni  principali  del 
Polesine  di  Rovigo  di  Giangirolamo  Bronziero. 

Vedi  inoltre  Appendice.  Doc.  IL 

Lo  Scardeone  nel  libro:  De  antiquitate  urbis  Fata- 
va et  Claris  civibus  patavinis,  parlando  del  Mussato, 
scrive:  Prcelerea  Lendenarice  et  Florentice  Preturam 
simima  cum  laude  gessit. 

Lendinara  fu  data  dai  Marchesi  d'Este  al  Comune  di 
Padova  nel  1293.  Vedi  :  Corf  Lib.  I  Gap.  IX. 


Capitolo  Secondo 


Seconda  ambasceria  del  Mussato  all'Imperatore.  —  Vicenza 
si  sottrae  al  dominio  di  Padova.  —  Lotta  fra  Padova  e 
Vicenza.  —  I  Vicentini  deviano  il  Bacchigliene  a  danno 
di  Padova.—  Progressi  dell'Imperatore  in  Lombardia. — 
Timori  dei  Padovani.  —  Terza  ambasceria  del  Mussato 
ad  Enrico.  —  Suo  discorso  all'Imperatore.  —  Condizioni 
imposte  da  Enrico  ai  Padovani.  —  Doni  dei  Padovani  al- 
l'Imperatore. —  La  nomina  del  Vicario  imperiale.  —  Ai- 
mone vescovo  di  Ginevra.  —  Sua  morte.  —  Quarta  am- 
basceria del  Mussato  all'Imperatore  in  Genova.  —  Ri- 
torno in  Padova.  —  Il  Mussato  espone  al  Senato  l'esito 
dell'ambasceria.  —  Nomina  di  Cangrande  a  Vicario  di  Vi- 
cenza. —  Discorso  di  Rolando  da  Piazzola  al  Consiglio.— 
Discorso  del  Mussato.  —  Defezione  di  Padova  all'  Impero. 


Colla  venuta  in  Italia  di  Enrico  VII  co- 
mincia pel  Mussato  il  periodo  più  glorioso  della 
sua  vita.  E,  poiché  egli  stesso  ci  narra  gli  av- 
venimenti d'Italia,  e  specialmente  di  Padova, 
in  que'  giorni,  così  noi,  dietro  la  sua  scorta 
e  quella  dei  cronisti  a  lui  contemporanei,  potre- 
mo, con  maggiore  facilità  e  sicurezza  che  non 
abbiam  fatto  toccando  de'  suoi  primi  anni,  —  ri- 

3 


34  ALBERTINO    MUSSATO 

guardo  ai  quali  sono  cosi  scarse,  incerte  e  con- 
tradditorie le  notizie,  —  narrare  le  principali  vi- 
cende della  sua  vita,  le  quali  vanno  stretta- 
mente congiunte  con  quelle  della  Repubblica 
padovana. 

Dicemmo  com'egli  sia  stato  eletto  uno  degli 
ambasciatori  che,  in  nome  di  Padova,  si  reca- 
rono a  Milano  per  rendere  più  solenne,  colla 
loro  presenza,  la  incoronazione  dell'Imperatore. 
Quest'onorevole  incarico,  ch'egli  ebbe  comune 
con  altri  dei  principali  cittadini  '),  mostra  di 
già  in  Cjual  conto  lo  tenesse  la  Pi,epubblica, 
Queir  ambasceria,  del  resto,  non  fn  che  un  sem- 
plice atto  di  cortesia  della  città  verso  il  Mo- 
narca. Pensavano  i  Padovani  ch'egli  era  ve- 
nuto in  Italia  per  mettere  in  pace  fra  loro  i 
guelfi  e  i  ghibellini,  e  che,  per  conseguire  que- 
sto scopo,  doveva  superare  gravissimi  ostacoli, 
i  quali  gli  avrebbero  impedito  di  rivolgere  il 
pensiero  esclusivamente  alla  città  loro.  Non 
mancarono    tuttavia    adi   ambasciatori  di  scan- 


1)  Ecco  i  nomi  dei  componeuti  quell'ambasceria, 
quali  li  registrano  i  Cortusii  nella  loro  Cronaca  :  Henri- 
cus  Scrovegnus,  liolandus  de  Giiarnarinis,  Joannes 
de  Yigontia,  Petrus  de  Mursis  milites,  Jo:  Henricus 
de  Capite  Vaccce  ludex,  Baricus  de  Lengua  de  Vacca 
leguni  Doctor,  et  Mussafus  Poeta.  Lib.  I.  cap.  XII. 


CAPITOLO    SECONDO  35 

dagliare  1"  intenzione  di  Enrico,  ed  egli  fece 
loro  intendere  che  i  Padovani  avrebbero  fatto 
bene  a  sottomettersi  devotamente  a  lui  ed  al- 
l'Impero. 

Ritornati  in  patria,  gli  ambasciatori  rife- 
rirono ogni  cosa  ai  loro  concittadini,  i  quali 
mostrarono  non  darsene  per   intesi. 

I  Torriani  intanto  furono  cacciati  da  Mi- 
lano per  tradimento  soprattutto  dei  Visconti, 
che  s'erano  uniti  ai  Tedeschi.  Crema,  Cremo- 
na, Brescia,  Lodi  e  Como  si  allearono  con 
Guido  della  Torre  e  co'  fuorusciti  milanesi  e 
si  ribellarono  ad  Enrico  ;  ma  tosto,  spaventate 
del  loro  stesso  ardire,  una  dopo  l'altra  gli  apri- 
rono le  porte  ed  implorarono  la  sua  clemenza. 
La  sola  Brescia  gli  oppose  resistenza,  finché, 
per  r  interposizione  dei  cardinali  legati,  che  ac- 
compagnavano r  Imperatore,  e  per  mancanza  di 
vettovaglie,  dovette  cedere  dopo  aver  sostenuto 
valorosamente  l'assedio  per  quattro  mesi.  At- 
traverso le  sue  mura  smantellate  fece  il  suo 
ingresso  Enrico  AH,  il  quale  passò  poi  a  Cre- 
mona, a  Piacenza  e  a  Pavia,  finché  il  21  di 
ottobre  di  queir  anno  arrivo  a  Genova. 

I  Padovani,  poco  dopo  l'incoronazione  del- 
l'Imperatore, allorché  videro,  contro  ogni  loro 
previsione,  che  le  cose  di  lui  progredivano    di 


36  ALBERTINO   MUSSATO 

bene  in  meglio,  incominciarono  a  sentirsi  non 
più  tanto  sicuri,  come  per  lo  addietro,  e  pensa- 
rono di  voler  scoprire,  se  fosse  stato  possibile 
senza  compromettersi,  quali  fossero  le  sue  in- 
tenzioni verso  la  loro  città.  Affidarono  il  dif- 
ficile incarico  a  due  monaci,  senza  dar  loro 
autorità  di  proporre  o  di  accettare  cosa  alcu- 
na. Questo  tentativo  rimase  infruttuoso,  per- 
ciocché i  due  monaci^  essendo  discordi  fra  loro, 
eseguirono  la  commissione  con  poca  diligenza, 
tradendo  cosi  la  speranza  di  chi  li  aveva  man- 
dati. Uno  di  essi  riferì,  aver  saputo  dall'Impe- 
ratore che  questi  non  avrebbe  trattato  che  con 
un  sindaco,  che  gli  fosse  stato  spedito  a  tal 
uopo  dai  Padovani,  e  che  era  disposto,  purché 
si  fossero  adempiute  tutte  le  formalità,  a  lar- 
gheggiar di  favori  col  Comune  di  Padova. 

Solleciti  i  Padovani  spedirono  allora  all'Im- 
peratore due  plebei,  uomini  di  espèrimentata 
fede,  Antonio  Vigodarzere  ed  Albertino  Mus- 
sato, affidando  loro  lo  stesso  incarico  che  ave- 
vano prima  affidato  ai  due  monaci  ^).  Non  eb- 
bero adunque  nemmcn  quelli  un  preciso  man- 


1)  Luos  plebeios  probaku  /idei  viros,  Antonium  de 
Vicoaggeris  et  Albertinum  Mussaluni  ilio  etiam  prò  fi- 
cisci  jussere  eadein,  quce  pr ce fatis  Religio sis  commissa 
fuerant,  perquisiluros.  Hist.  Aug.  Lib.  11  Rub.  VII. 


CAPITOLO    SECONDO  37 

dato,  poiché  la  città  non  voleva  in  nessun 
naodo  sottomettersi  all'Imperatore  ;  cercava  sol- 
tanto la  maniera  di  evitare  che  i  suoi  interessi 
avessero  ad  urtare  contro  quelli  di  Enrico,  per 
modo  che  a  lei  ne  potesse  derivare  alcun  dan- 
no ^).  A  differenza  dei  due  monaci,  i  nuovi 
ambasciatori  ottennero  tuttavia  facoltà  di  prov- 
vedere, secondo  che  loro  meglio  paresse,  al 
maggiore  vantaggio  della  città.  Presentatisi  al- 
l'Imperatore  n'ebbero  i  patti  seguenti:  Che  al 
termine  d' ogni  sei  mesi  dovessero  i  Padovani 
eleggere  quattro  cittadini  fedeli  all'  Im.pero,  uno 
dei  quali  sarebbe  confermato  dall'  Imperatore 
stesso  se  si  fosse  trovato  in  Italia  o,  in  caso 
diverso,  dal  suo  Vicario  di  Lombardia,  ed 
avrebbe  il  titolo  di  Vicario  imperiale;  che  fosse 
concesso  ai  Padovani  di  godere  investiture  feu- 
dali valevoli  in  perpetuo  nel  territorio  di  Vi- 
cenza ;  che  i  Vicarii  dovessero  conservare  le 
leggi,  i  costumi,  le  consuetudini  e  le  franchi- 
gie del  Comune.  In  compenso  di  ciò  1"  Impera- 
tore esigeva,  per  sé  e  pe'  suoi  successori,  Tan- 


ij   Tunc   et  Palavi   nimium   rebus   secunclìs   elati 
Legatos   diws,  7ion  quod  Ccesari  parere  cuperent,  sed 
explorandi  causa,  ne  incaute  pereanf,  studiose  diri- 
gunt.  Ferretus   Vicentinus  (Murat.   Rerum  Italicarum 
Scriptores  X). 


38  ALBERTINO   MUSSATO 

mia  somma  di  quindici  mila  fiorini  d'oro;  al 
•presente  poi,  per  le  spese  del  viaggio  e  per 
quelle  dell'incoronazione  in  R.oma,  fiorini  d'oro 
sessantamila.  Oltre  a  ciò,  ogni  cinque  mesi,  i 
Padovani  avrebbero  dovuto  pagare  cinquemila 
fiorini  d' oro,  come  stipendio,  al  Vicario  di  Lom- 
bardia '). 

Gli  ambasciatori,  uditi  i  patti,  li  accetta- 
rono colla  riserva  che  venissero  approvati  dal 
popolo  padovano  e,  licenziati  con  larghe  pro- 
messe dall'Imperatore,  se  ne  partirono  coli" in- 
tenzione di  ritornar  quanto  prima  colla  rispo- 
sta, Non  si  può  negare  che  le  condizioni  im- 
poste dall'Imperatore  ai  Padovani  non  fossero 
gravose;  ma  Padova  era  città  guelfa,  e  come 
tale,  osserva  il  Toews,  non  poteva  aspettarle 
gran  fatto  diverse  -). 

A  Padova  intanto  era  giunta  la  notizia 
che  Alboino  della  Scala  e  Cane  suo  fratello 
erano  stati  nominati  vicarii  imperiali  di  Ve- 
rona, 0  che  Ptizzardo  da  Camino  aveva  ottenuto 
gii  stessi   privilegi  in  Treviso,  Feltre  e  Bellu- 


1)  Hist.  Ai'.fj.  Uh.  Il  Rub.  VII. 

2)  Lo  stesso  Toe^^'s  propende  a  far  cadere,  con  molta 
probabilità,  quest'ambasceria  nella  prima  settimana  del- 
l'aprile 1311.  Albertinus  Mussatus  v.nd  Heinrich  VII 
von  Liuremburg ,  Inauguralclissertation  Greifswald^ 
1874  pag.  12. 


CAPITOLO    SECONDO  39 

no.  Questa  notizia  aveva  grandemente  turbato 
gli  animi  dei  Padovani;  sicché  i  legati,  al  loro 
ritorno  in  città,  avevano  trovato  il  popolo  assai 
male  disposto  ad  accogliere  le  condizioni  del- 
l' Imperatore.  Ciò  non  ostante  essi  le  esposero 
dapprima  ai  Magistrali^,  poscia  al  Senato;  ma 
le  loro  parole  furono  accolte  dalle  risa  e  dai 
fischi  della  moltitudine. 

Quei  patti  parvero  iniqui  e  dannosi  alla 
città;  insopportabile  la  gravezza  di  esborsare 
tanto  danaro;  si  ordinò  la  difesa  di  Padova  e 
di  Vicenza,  si  stabili  di  allargare  le  fosse  nei 
confini,  di  munire  gli  accampamenti,  di  prov- 
vedere armi  e  cavalli  per  far  fronte,  nel  caso 
di  guerra,  al  nemico,  si  volle  conservati  alla 
città  gli  antichi  costumi  e  le  antiche  leggi  ; 
una  sola  co$a  si  sarebbe  concessa  all'  Impera- 
tore, quella  di  chiamare  i  rettori  della  città  col 
nome  di  Vicarii  imperiali;  ma  nuli' altro  che 
col  nome. 

Il    Mussato    ')    tentò   di    piegare    gli    animi 


1)  Albertino  non  dice  veramente  esser  stato  lai  a  par- 
lare  in  quella  occasione;  egli  dice  soltanto  uno  dei  le- 
gati: Nec-  alter  legatorum  tacnit',  ma  che  sia  stato 
proprio  lui  noi  rileviamo  dalla  Epistola  II  nella  quale,  al- 
ludendo a  quella  circostanza,  dice: 

Multa  peroranti  dudum,  frustraque  roganti 
Exhibita  est  nulla  prò  mihi  parte  fìdes. 


40  ALBERTINO    MUSSATO 

esacerbati  de'  suoi  concittadini  a  più  miti  con- 
sigli ;  volle  farli  persuasi,  ma  invano,  eh'  essi 
avevano  un'opinione  affatto  erronea  della  po- 
tenza dell' Imperatore  ;  ciò  egli  poteva  asserire 
con  certezza,  egli  ch'era  stato  presso  Enrico 
ed  avea  veduto  ogni  cosa  davvicino.  L' Impe- 
ratore si  sarebbe  certamente  sentito  offeso  da 
tanta  arroganza  dei  Padovani  e  da  tanto  di- 
sprezzo alle  sue  proposte.  Si  rammentassero 
che  se  si  fosse  venuti  ad  una  guerra,  l'esito 
sarebbe  stato  molto  incerto  ;  si  piegassero  adun- 
que pel  loro  meglio  alla  volontà  dell'Impe- 
ratore. 

Queste  parole,  se  non  ottennero  il  loro  ef- 
fetto, ammansarono  gli  animi  dei  più,  ai  quali 
parve  opportuno  di  aspettare  quindici  giorni 
prima  di  dare  a  Cesare  la  risposta;  gli  avve- 
nimenti avrebbero  intanto  suggerito  salutari 
consigli.  Prevalse  l'opinione  di  costoro. 

Parrà  strano  come  al  Mussato,  a  cui  sta- 
vano tanto  a  cuore  la  libertà  e  la  grandezza 
della  patria ,  potessero  parere  accettabili  le 
proposte  imperiali:  ma  la  cosa  non  farà  più 
meraviglia,  quando  si  vegga  più  innanzi  le  tristi 
vicende  toccate  a  Padova,  per  non  averle  ac- 
cettate. (Hielle  proposte,  se  non  conservavano 
alla  città,  come  osserva  giustamente    il    Tira- 


CAPITOLO    SECONDO  41 

boschi,  tutta  la  forma  di  repubblica  libera,  po- 
tean  nondimeno  per  le  circostanze  dei  tempi 
jjarere  onorevoli  ^).  Oltre  a  ciò  Albertino,  ben- 
ché guelfo,  vedeva  in  Enrico  VII  il  legittimo 
discendente  degli  Imperatori  romani,  un  uomo 
mandato  dalla  Provvidenza  per  stabilire,  come 
dice  uno  storico  tedesco,  su  base  imperiale  la 
nazionale  formazione  dell'  Italia  ').  Ma  ciò  che 
lo  fece  inclinare  ancor  più  ad  Enrico,  senza 
tuttavia  fargli  omaggio  de'  suoi  principi,  fu 
l'averlo  conosciuto  davvicino  e  l'essergli  en- 
trato in  grazia.  Ora  è  facile  pensare,  quanto 
disgusto  debba  avergli  recato  1"  accoglienza  fatta 
dai  Padovani  alle  proposte  dell'  Imperatore.  Egli 
dà  sfogo  al  suo  sdegno  contro  di  essi  in  un'  E- 
2iìstola  nella  quale  profonde  elogi  ad  Enrico  ^). 
Non  erano  ancora  passati  i  quindici  giorni, 
che    i    Padovani    aveano    stabilito   lasciar    tra- 


1)  Storia   della  letteratura  italiana.  Lib.  II  Gap.  VI. 

2)  Albertinus  Mussatus  gehòrtezujenen  idealistischen 
Geistern,  -n-elche  die  nationale  Gestaltung  Italiens  auf 
kaiserlicher  Grimdlage  von  einen  Manae  ewarteten, 
der  auch  seiner  persònliclien  Herkunft  nach  als  ein  ganz 
besonders  von  der  Vorsehung  auserwilhltes  "NVerkzeug 
erschien. 

0.  Lorenz  Deutschlands  Geschichtsqiiellen  in  Mit- 
telaller. 

3)  Epistola  II.  In  laudem  D.  Henrici  imperatoris 
et  commendationem  sui  operis  de  gestis  ejusdem. 


42  ALBERTINO   MUSSATO 

scorrere  prima  di  dare  la  risposta  ad  Enrico 
VII,  che  un  grande  avvenimento  gettò  d' im- 
provviso lo  scompiglio  negli  animi  loro,  ed  essi 
che  presumevano  tanto  di  sé,  incominciarono 
a  dubitare  della  loro  potenza  ed  a  temere  quella 
dell'Imperatore,  che  fino  a  quel  punto  avevano 
reputata  quasi  nulla  ^).  A^icenza,  che  dal  1266 
fino  a  questo  tempo  era  stata  soggetta  al  do- 
minio di  Padova,  se  ne  sottrasse  il  15  aprile 
di  quest'anno   1311    ~). 

Da  lungo  tempo  i  Vicentini  erano  stanchi 
di  obbedire  ai  Padovani,  e  molti  fuorusciti  vi- 
centini s'erano  già  ricoverati  presso  Cangrande, 
che  aspettava  con  ardore  il  momento  opportuno 
per  impadronirsi  di  A'^icenza.  Questo  non  tardò 
a  presentarsi.  L'Imperatore  desideroso  di  ven- 
dicarsi dell'oltraggio  ricevuto  da  Padova,  non 
appena  seppe  l'intenzione  dei  Vicentini,  pensò 
di  cogliere  l'occasione,  che  la  sorte  propizia  gli 
presentava,  per  umiliare  i  Padovani  e  per  ac- 
crescere la  propria  potenza. 


1)  Reputaris  Imperatoris  potenliam  quasi  nullani. 
Cort.  Lib  I  Gap  XIII. 

-)  Con  questa  stessa  data  leggiamo  nei  Libri  com- 
memoriali della  Republica  di  Venezia  nnAocv'agnàv- 
dante  Baiamonte  Tiepolo,  che  chiede  aiuti  ai  Padovani 
per  vendicarsi  di  Venezia.  Fra  gli  altri  nominati  in  quel 
doc.  e'  è  Albertino  Mussato.  Vedi:  Appendice.  Doc.  V. 


CAPITOLO    SECONDO  43 

Fino  dalla  sua  venuta  in  Italia,  i  ghibel- 
lini di  Vicenza  avevano  progettato  di  sottrarsi, 
col  suo  favore,  al  dominio  di  Padova  ;  ma  non 
si  sarebbero  forse  mossi  così  tosto,  se  Sigilfredo 
di  Novello  conte  di  Ganzerà,  fuoruscito  vicen- 
tino, essendo  di  passaggio  per  recarsi  al  Papa, 
come  ambasciatore  del  Re  di  Cipro,  non  aves- 
se, sotto  mentite  spoglie,  visitata  la"  sua  città 
e,  conosciuto  le  stato  delle  cose  e  viste  le  forze 
dei  congiurati,  non  si  fosse  deciso  di  recarsi 
egli  stesso  dall'Imperatore,  il  quale,  assogget- 
tata Lodi,  s'incamminava  verso  Cremona  ^). 
Enrico  accolse  l'invito  di  Sigilfredo,  e  chiamato 
a  sé  Aimone  vescovo  di  Ginevra,  uno  de'  suoi 
consiglieri,  uomo  destro  e  valoroso,  gli  affidò 
l'incarico  d'impadronirsi  di  Vicenza,  usando 
dell'astuzia  maggiore.  Questi  prese  con  sé  buon 
numero  di  soldati,  coi  quali  si  recò  a  Mantova 
e  poscia  a  Verona,  sotto  pretesto  di  condurli, 
per  ordine  dell'Imperatore,  all'assedio  di  Cre- 
mona. Giunto  in  Verona,  messosi  d'accordo  con 
Cane  e  coi  fuorusciti  vicentini,  a  un  dato  gior- 
no, essendo  le  porte  aperte  per  tradimento  dei 
cittadini  e  per  l'ignavia   dei   Padovani  -),   en- 


1)  Gennari  -  Annali  di  Padova,  Parte  terza,  pag.  134. 
-)  I  Padovani  non  si  curarono  di  scongiurare  il  pe- 
ricolo, non  ostante  clie  il  JMussato  li  avesse   ammoniti 


44  ALBERTINO    MUSSATO 

trò  in  Vicenza.  I  soldati  che  erano  a  dife- 
sa della  città,  corsero  spaventati  a  nascon- 
dersi chi  qua  chi  là  nelle  vie  più  remote,  nelle 
case,  nei  templi.  Alcuni  si  rinchiusero  nel  ca- 
stello, alle  porte  del  quale  Cane  appiccò  il  fuo- 
co, per  cui  furono  costretti  ad  arrendersi.  I 
vincitori  vi  entrarono  depredando  ogni  cosa. 
Molti  Padovani  stretti  nelle  funi  furono  con- 
dotti prigionieri  a  Verona  e,  per  redimersi, 
dovettero  pagare  una  grossa  taglia:  erano  tutti 
degni  di  morte  —  esclamano  con  nobile  sdegno  i 
Cortusii  —  poiché  per  vigliaccheria  avevano 
perduta  la  città  ^). 

A  Padova  la  notizia  non  fu  dapprincipio 
quasi  creduta  vera.  I  cittadini  armati  mossero 
in  fretta  fino  a  Barbano  per  acquistar  certezza 
del  fatto,  e  sarebbero  andati  più  in  là,  se  le 
strade   allagate   non  l'avessero    loro  impedito. 

Ritornati  in  città,  convocarono  il  Consiglio, 
il  quale  ordinò  che  la  città  fosse  ben  munita, 
e  stabili  nuove  gabelle  per  sopperire  alle  spese 
gravissime  della  guerra  imminente. 


con   centinaia  di  lettere,  clie  terminavano  sempre:  Cu- 

slodile  Yicensa:  Vicentiam  custodite. 

De  Gestis  Hai.  post  Henricum  ecc.  Lib.  IV  Rub.  II, 
1)  Erant  omnes  digni  viorle,  quia  x>ropter  vilitatem 

2ierdide)-ant  Civitatem.  Lib.  I  Capo  XIII. 


CAPITOLO   SECONDO  45 

Preceduti  dal  Carroccio,  i  cittadini,  in  nu- 
mero grandissimo,  s'avviarono  quindi  verso 
Vicenza,  fuori  le  mura  della  quale  i  Vicentini, 
capitanati  dallo  Scaligero,  li  stavano  aspettando. 

La  battaglia  fu  sanguinosa  e  la  vittoria 
rimase  ai  Vicentini,  i  quali  uccisero  e  fecero 
prigioneri  quanti  più  nemici  poterono,  e  quasi 
ciò  non  bastasse,  andati  a  Longare,  divertirono 
con  argini  le  acque  del  Bacchiglione,  perchè 
non  scorressero  più  verso  Padova.  I  Padovani, 
per  vendicarsi,  depredarono  il  territorio  vicen- 
tino, e  quei  di  Vicenza,  alla  lor  volta,  il  ter- 
ritorio di  Padova  ^) 

L' Imperatore  intanto  s' impadroniva  di  Lodi 
e  di  Cremona  e  già  moveva  all'  assedio  di  Bre- 
scia. Spaventati  i  Padovani  da  tanti  e  così 
rapidi  progressi  di  lui,  non  vedendo  in  qual 
maniera  poterglisi  opporre  quando,  dopo  assog- 
gettata Brescia,  si  fosse,  com'  era  probabile, 
rivolto  a  Padova,  si  pentirono  di  aver  agito 
con  tanta  imprudenza  nel  respingerne  i  patti 
e,  senza  por  tempo  in  mezzo,  cercarono  un 
efficace  rimedio. 

Il  loro  pensiero,  com'è  naturale,  corse  tosto 
ad  Albertino  Mussato  e  ad  Antonio  Vigodarzere, 


1)  Gennari.  Annali  di  Padova,  Parte  terza  pag.  136. 


46  ALBERTINO   MUSSATO 

dei  quali,  mentre  poco  tempo  innanzi  aveano 
accolto  coi  fischi  e  colle  risa  i  saggi  consigli, 
ora  esaltavano  la  prudenza;,  la  bontà  e  la  so- 
lerzia, maledicendo  a  coloro  che  avevano  sug- 
gerito l'opposto  parere  ').  Albertino,  benché  for- 
temente sdegnato^  godette  in  cuor  suo  di  que- 
sto rinsavire  de'  suoi  concittadini.  Essi  lo  scon- 
giurarono di  recarsi  di  nuovo  presso  l'Impera- 
tore, al  quale  si  offrivano  disposti  di  accettare 
qualunque  patto,  pur  di  evitarne  la  vendetta. 
Non  è  a  dire  come  il  nome  di  Albertino  Mus- 
sato suonasse  in  que'  giorni  sulle  bocche  di 
tutti,  accompagnato  dai  più  grandi  elogi.  Si 
diceva  eh'  egli  solo  poteva  salvar  la  P^epubblica 
e  caduta  rialzarla  ;  il  popolo  supplicante  non 
sapeva  staccarsi  dalla  sua  casa,  e  Vitaliano  de 
Basilii,  che  reggeva  quasi  a  suo  senno  il  volgo, 
circondato  dai  Tribuni,  a  mani  giunte,  pian- 
gendo, gli  s' inginocchiò  dinanzi  per  suppli- 
carlo di  recarsi  dall'Imperatore.  Albertino  stette 
alquanto  perplesso.  L'oltraggio  ricevuto  pochi 
giorni  prima  e  la  difficoltà  dell'impresa  lo  re- 
sero dapprima  incerto  pur  dinanzi  a  tanta  di- 
mostrazione ;  ma  l'amore  di  patria  la  vinse  sul- 
l'animo   suo,  e,   dimentico    delle  offese,    accet- 


1)  Hisl.  Aug.  Lilj.  III.  Riib.  VI. 


CAPITOLO    SECONDO  47 

tò,  insieme    con    Antonio   Vigodarzere,  il    gra- 
voso incarico  ^). 

Aimone,  che  da  Vicenza  seppe  l'intenzione 
dei  Padovani,  fece  loro  conoscere,  che  se  aves- 
sero voluto  prestare  obbedienza  all'Imperatore, 
pur  conservando  la  loro  libertà,  avrebbero  po- 
tuto, col  suo  mezzo,  ottenere  facilmente  la  cle- 
menza di  lui  ;  gli  facessero,  pertanto,  note  le 
loro  intenzioni.  Fu  tenuto  per  ciò  un  abbocca- 
mento a  Barbano,  paesello  fra  i  confini  di  Pa- 
dova e  quelli  di  Vicenza.  Mussato  espose  ad 
Aimone  com'egli  fosse  disposto  a  recarsi  di 
nuovo  all'Imperatore,  in  nome  dei  Padovani, 
per  ottenere  i  patti  di  prima.  Dopo  di  ciò  i 
Padovani  elessero  gli  ambasciatori'  che,  con- 
dotti da  Aimone,  dovevano  presentarsi  ad  En- 
rico. Gli  ambasciatori  eletti  furono  sei,  fra  i 
quali  Albertino  Mussato  e  Antonio  da  Vigo- 
darzere; due  di  essi,  per  cause  indipendenti 
dalla  loro  volontà,  dovettero  arrestarsi  per  via, 
sicché  quattro  soli  si  presentarono  all'Impera- 


')  De  Gestis  Hai.  ecc.  Lib.  IV  Rub.  II.  Vedi  pure  Epi- 
stola III  Ad  Rolandum  ludicem  de  Placiola: 

0  mihi  cara,  Deum  tester,  Respublica,  vivum, 

Opportuna  subit  tunc  mihi  cura  tui. 
Pro  te,  digna  parens,  fuerit  si  forte  necesse 

Mens  fuit  instanti  subdere  colla  neci. 


48  ALBERTINO   MUSSATO 

tore,  che  si  trovava  al  campo  dinanzi  a   Bre- 
scia. 

Toccò  al  Mussato,  per  voto  unanime  dei 
suoi  colleghi,  rivolgere  la  parola  ad  Enrico  ^). 
Prima  tuttavia  di  parlare  all'  Imperatore,  egli 
cercò  destramente  di  rendersi  benevoli  coloro 
che  più  l'avvicinavano,  primo  fra  i  quali  Ame- 
deo conte  di  Savoia  secretarlo  del  reale  Con- 
siglio. Introdotto  alla  presenza  del  Monarca, 
egli  vide  seduti  da  un  lato  Alboino  Signor  di 
Verona,  Federico  e  Cane  della  Scala,  dall'al- 
tro i  Vicentini.  Non  si  perdette  d'animo  per 
questo  ;  ma  si  arrestò  innanzi  al  trono  ;  ob- 
biettò,  difese  ed  esaltò  instancabile  le  forze  dei 
Padovani,  ed  ogni  qualvolta  quei  potenti  ne- 
mici prorompevano  in  ingiurie  contro  i  suoi 
concittadini  e  la  padovana  Repubblica,  egli  ri- 
spose con  parole  ancora  più  gravi,  al  loro  co- 
spetto ^).  Nel  suo  discorso  blandì  dapprima 
l'Imperatore,  per  indurlo  a  prestare  benigno 
orecchio  alle  sue  parole;  poscia  tentò  con  fine 
astuzia,  persuaderlo  della  devozione  dei  Pado- 
vani verso  di  lui  ;  cercò  di  scusare  il  ritardo 
della  città  nel  rendergli  grazie  delle  miti  condi- 
zioni ad  essa  imposte:  —  S'era  stabilito,  è  vero, 


1)  Hist.  Aug.  Uh.  Ili  Rub.  VI. 

2)  De  Gestis  ìtal.  ecc.  Lib.  IV  Rub.  II. 


CAPITOLO    SECONDO  49 

che  i  legati  padovani  sarebbero  ritornati  ad  un 
dato  giorno  per  la  risposta;  ma  si  dovette  pri- 
ma interrogare  il  voto  non  di  una  sola  per- 
sona, bensì  di  un  popolo  numeroso  che  difficil- 
mente potè  essere  riunito  dalle  colonie,  dai  ca- 
stelli, dai  municipi,  dalle  borgate,  il  quale,  poi- 
ché intese  la  liberalità  di  tanti  benetìzii,  alzò 
grida  di  giubilo  fino  alle  stelle.  Ma  ciò  che 
principalmente  aveva  trattenuto  i  Padovani  dal 
comparire  innanzi  a  Cesare  nel  giorno  prescrit- 
to, era  stata  la  discussione,  che  s' era  protratta 
a  lungo,  sul  modo  di  meglio  onorarlo  e  di  fargli 
palese  la  riconoscenza  della  città.  Quand'  ecco 
una  grave  sventura  venne  a  colpire  la  Repub- 
bhca.  Cane  s'era  impadronito  di  Vicenza  e  ne 
aveva  scacciato  il  presidio.  Oh,  quanto  meglio 
se  i  Padovani  si  fossero  affrettati  ad  obbedire 
all'Imperatore  !  Del  resto  che  importava  loro 
la  perdita  di  Vicenza,  quando  pensavano  che 
potevano  vivere  in  pace,  come  gli  altri  popoli, 
sotto  la  salvaguardia  di  Cesare?  Essi  sottomet- 
tevano adunque  sé  stessi  e  la  città  all'impero 
di  lui;  volesse  egli  lasciarli  vivere  nelle  loro 
leggi,  permettesse  che  si  sceghessero  abili  Pre- 
tori, secondo  il  vecchio  costume,  uno  dei  quali 
sarebbe  confermato  da  lui  stesso  al  termine 
cF  ogni    semestre  ;    concedesse    loro    di    godere 


50  ALBERTINO   MUSSATO 

dei  beni,  dei  quali  erano  stati  improvvisamen- 
te spogliati  ^).  — 

Nel  discorso  del  Mussato  non  si  può  non  am- 
mirare l'accortezza  dell'oratore,  il  quale  seppe 
rappresentare  all'Imperatore  le  cose  sotto  un 
aspetto  ben  diverso  dal  reale.  La  finzione  po- 
trà parere  perfino  soverchia,  quasi  egli  volesse 
farsi  beffe  d'Enrico;  ma  chi  pensi  al  grande 
amore  che  il  Mussato  nutriva  per  la  sua  città 
e  alla  ferma  sua  persuasione,  che  non  ci  fosse 
per  Padova  altra  via  di  salvezza,  che  quella 
di  rendersi  amico  l'Imperatore,  converrà  ch'egli 
non  poteva  parlare  altrimenti,  e  che  il  discorso 
da  lui  pronunciato,  —del  quale  noi  abbiamo  ten- 
tato di  rendere  brevemente  il  concetto  —  era  il 
più  opportuno  per  raggiungere  lo  scopo.  E  una 
colpa  la  sua  di  cui  merita  pieno  compatimento, 
seppure  non  gli  torna  ad  onore,  quando  la  si 
metta  specialmente  a  confronto  di  tante  altre 
consimili  di  quei  tempi,  commesse  per  fini  bassi 
od  iniqui. 

Il  Wychgram  fa  alcune  considerazioni  sul 
discorso  del  Mussato,  colle  quali  cerca,  fra  le 
altre  cose,  di  mettere  in  evidenza  l'abilità  di- 
plomatica del  Nostro.  EgU  nota    infatti    come 


•)  Ilist.  Aug.  Lib.  Ili  Rub.  VI. 


CAPITOLO    SECONDO  51 

Albertino  con  singolare  accortezza,  faccia  bensì 
l^arola  del  Pretore,  il  quale  sarebbe  confermato 
dall'Imperatore  e  della  restituzione  ai  Padovani 
dei  beni  ch'essi  possedevano  nel  territorio  vi- 
centino, dei  quali  erano  stati  spogliati,  ma  tac- 
cia allatto  dei  danari  che  Padova  avrebbe  do- 
vuto pagare  ad  Enrico,  argomento  cotesto,  sul 
quale,  com' era  da  temersi,  l'Imperatore  avrebbe 
usato  la  massima  pressione   ^). 

Enrico  ascoltò  di  buon  grado  il  discorso  di 
Albertino,  e  i  Principi  che  sedevano  al  lato 
dell'  Imperatore  mostrarono  di  approvare  la  di- 
fesa che  il  Mussato  aveva  sostenuta  della  sua 
cittcà  -).  Terminata  l'orazione,  l'Imperatore  si 
ritirò  insieme  coi  Principi  a  discutere  sul  da 
farsi,  e  solo  dopo  tre  giorni  diede,  per  iscritto, 
agli  ambasciatori  la  risposta. 

Concesse  di  nuovo  ai  Padovani  di  eleggere, 
ogni  sei  mesi,  quattro  cittadini  fedeli  all'  Im- 
pero, l'elezione  dei  quali  sarebbe  tosto  notifi- 
cata a  lui,  se  si  fosse  trovato  in  Italia   o,  in 


1)  Der  Geldpunkt,  auf  den  jetzt,  wie  man  fiirchteii 
niusste,  der  Kònig  den  gròssten  Druck  ausiiben  wùrde, 
Avird  rnit  keinem  Worte  erwiihnt. 

Ein  Beitrag  zur  italienischen  Geschichte  cles  vier- 
zehnten  lahì-liunderts.  Leipzig  1880  pag.  18. 

2)  De  Gestis  Hai.  ecc.  Lib.  IV.  Rub.  II. 


52  ALBERTINO   MUSSATO 

caso  diverso,  al  suo  Vicario  generale  di  Lom- 
bardia. Egli  poi  0  il  Vicario  avrebbero  scelto 
uno  dei  quattro  a  Pvettore  della  città  col  ti- 
tolo di  Vicario  imperiale.  Questi  avrebbe  fatto 
giuramento  innanzi  al  Vescovo  o  ad  altra  per- 
sona autorevole  della  città  di  esercitare  il  go- 
verno di  questa  legalmente  e  fedelmente  ad 
onore  ed  utilità  dell'  Impero.  Stabilì  che  questa 
concessione  avesse  valore  per  soli  sei  anni,  par- 
tendo dal  giorno  in  cui  venne  data  ;  starebbe 
poi  nella  sua  clemenza  prolungarne  il  termine. 
Il  Vicario  reggerebbe  la  città  ed  il  distret- 
to in  nome  dell'  Imperatore  e  secondo  le  leggi, 
le  consuetudini  e  gli  ordinamenti  approvati  e 
da  approvarsi,  purché  non  fossero  contro  Dio, 
né  in  pregiudizio  dell'  onore  di  Cesare  e  del- 
l' Impero.  I  Padovani,  per  vivere  sotto  la  pro- 
tezione dell'  Imperatore  e  per  essere  esenti  da 
ogni  gabella  verso  il  Vicario  generale,  paghe- 
rebbero ogni  anno,  in  compenso,  alla  regia 
Camera  ventimila  fiorini  d' oro.  In  un  secondo 
diploma  l' Imperatore  ordina  che  i  cittadini  pa- 
dovani, i  quali,  nel  giorno  in  cui  Vicenza  si 
era  sottratta  al  dominio  di  Padova  o  in  ap- 
presso, fossero  stati  spogliati  dai  Vicentini  dei 
loro  beni,  li  abbiano  a  ricuperare,  coli* obbligo 
tuttavia  di  venderli  per  giusto   prezzo    al    Co- 


CAPITOLO   SECONDO  53 

mane  o  ai  cittadini  di  Vicenza,  se  quello  o 
questi  avessero  voluto  comperarli.  Stabili  inol- 
tre che  i  Padovani  avrebbero  pagato,  per  una 
sola  volta,  entro  a  un  dato  termine,  centomila 
fiorini  d' oro  alla  Camera  imperiale.  I  diplomi 
portano  entrambi  la  data  del  9  giugno  1311  ^). 

Questi  nuovi  patti  dovevano  parere,  come 
infatti  parvero,  assai  miti  ai  Padovani,  i  quali 
avevano  tutte  le  ragioni  per  sospettare  che  En- 
rico si  sarebbe  mostrato  severo  verso  di  loro. 
Il  Mussato,  alla  cui  destrezza  erano  principal- 
mente dovuti,  ne  fu  contento;  e  questa  volta, 
allorché  li  espose  in  Senato,  n'  ebbe  lodi  gran- 
dissime. Su  550  voti,  17  soli  furono  contrari 
alla  accettazione  di  essi. 

Pochi  giorni  dopo  il  vescovo  Aimone  rice- 
vette, a  nome  dell'  Imperatore,  dai  Padovani  il 
giuramento  di  fedeltà.  Ciò  fu  nel  20  giugno, 
il  giorno  medesimo  in  cui,  come  osserva  il  Mus- 
sato, cinquantasei  anni  prima  la  città  aveva 
abbandonato  l'Impero  per  darsi  alla  Chiesa  '). 


1)  Erra  il  Wychgram  che  li  dice  in  data  del  IO  giu- 
gno (Vedi  pag.  19  in  nota).  11  Mussato  li  riporta  testua- 
li nella  sua  storia.  Essi  terminano:  Dal.  in  Castris  ante 
Brixiam  V  Idus  Jan.  anno  Uomini  MCCCXI. 

Indictione  nona,  Regni  vero  nosh'i  anno  lertio. 

2)  Hist.  Aug.  Lib.  III.  Rub.  VI.  Aggiunge  il  Gennari 
che  nello  stesso  mese  di  giugno  l'anno  1164,   il  popolo 


54  ALBERTINO   MUSSATO 

A  meglio  confermare  i  Padovani  nel  loro 
giuramento  di  fedeltà  air  Imperatore,  avvenne 
che  proprio  in  quei  giorni  fossero  di  ritorno 
gli  ambasciatori  spediti  al  Pontefice,  i  quali 
recarono  al  Senato  il  papale  responso;  che  si 
dovesse  obbedire  in  tutto  all'  Inclito  Be  figlio- 
di  Santa  Chiesa  ^).  Aimone  intanto  avea  pro- 
posto ai  Vicentini,  secondo  il  desiderio  dei  Pa- 
dovani, di  lasciar  scorrere  il  Bacchigliene  pel 
suo  letto.  Quelli  gli  risposero  negativamente, 
ed  avendo  egli  insistito,  gli  si  sollevarono  con- 
tro ed  avrebbero  assalito  il  suo  palazzo,  se  al- 
cuni assennati  cittadini  non  li  avessero  distolti 
dal  feroce  proposito.  11  Vescovo  si  partì  indi- 
gnato, ed  i  Padovani,  cogliendo  l'occasione  per 
meglio  entrare  nelle  grazie  dell'  Imperatore , 
vollero  aggiungere  a  ciò  che  gli  dovevano  se- 
condo le  condizioni  imposte,  un'  offerta  spon- 
tanea, della  quale  fa  menzione  il  Mussato  nella 


padovano  cacciò  gli  ufficiali  cesarei,  da"  quali  era  per 
istrane  guise  aspreggiato,  e  diede  forma  di  repubblica 
al  suo  governo:  da  che  forse  è  venuto  in  processo  di 
tempo,  che  l'elezione  dei  Podestà  succeduti  ai  Consoli, 
appunto  in  questo  mese  facevasi.  Annali  di  Padova. 
Parte  terza. 

1)  Senatuique  papale  responsura  retulere,  ut  scilicet, 
Inclyto  Regi  Ecclesiae  Sanctae  fdio  pareatur  omnino. 
Hist.  Aug.  Lib.  HI.  Uub.  VI. 


CAPITOLO   SECONDO  55 

sua  storia,  come  di  cosa  memorabile  e  che  gii 
recò  sommo  piacere,  poiché  vedeva  per  essa, 
stringersi  ancor  più  la  buona  relazione  fra  Pa- 
dova ed  Enrico.  Addussero  i  Padovani  innan- 
zi air  Imperatore  otto  cavalli  giovani  di  cin- 
que anni  e  di  una  bellezza  straordinaria,  ric- 
camente bardati,  che  furono  la  meraviglia  di 
tutti.  Quattro  n'  ebbe  in  dono  Enrico,  due  Ame- 
deo di  Savoia  e  gli  altri  due  Guido  di  Fian- 
dra. Tanto  l'Imperatore  che  i  Principi  si  mo- 
strarono gratissimi  del  presente  ^). 

Per  tutto  questo  parrebbe  che  il  legame  tra 
i  Padovani  ed  Enrico  dovesse,  nonché  rom- 
persi, nemmeno  rallentare  ;  eppure  non  fu  cosi. 
Ben  sei  sapeva  Albertino,  il  quale  viveva  in- 
certo sulla  fermezza  de'  suoi  concittadini.  Egli 
è  vero  che  avevano  accettato  con  entusiasmo 
le  condizioni  imperiali  ;  ma  passato  quel  timo- 
re, pel  quale  s' erano  affrettati  ad  accoglierle, 
quando  fosse  venuto  il  momento  di  mettere  in 
pratica  ciò  eh'  esse  prescrivevano ,  si  sareb- 
bero essi  adattati  ad  ubbidire  senza  lamento  ? 
essi  che  da  tanto  tempo  erano  abituati  non 
già  a  sottomettersi  all'  altrui  volontà ,  bensì 
ad  imporre  agli    altri    la    propria?   L' occasio- 


1)  Hist.  Aiig.  Lib.  IV.  Paib.  II. 


56  ALBERTINO    MUSSATO 

ne  che  confermò  tali  sospetti  non  tardò  a  pre- 
sentarsi. 

Verso  la  fine  di  settembre  di  quell'  anno  ^), 
il  Podestà  Rodolfo  da  San  Miniato  cessò  dal- 
l'incarico, e  dei  quattro  eletti  dai  Padovani, 
secondo  l'imperiale  rescritto,  fu  da  Enrico  no- 
minato vicario  Gherardo  da  Enzola  parmigia- 
no. Ma  quella  mutazione  improvvisa  di  nomi, 
quelle  formalità  riguardanti  la  nuova  carica, 
alle  quali  non  erano  avvezzi,  il  ricordo  di  ciò 
che  aveano  sofferto  —  non  era  passato  molto 
tempo  —  sotto  i  vicari!  ionperiali,  e  specialmen- 
te sotto  l'ultimo  di  esecrata  memoria;  l'idea, 
per  lo  contrario,  di  libertà,  di  grandezza  e  la 
memoria  di  tante  domestiche  glorie,  che  loro 
risvegliava  in  mente  il  nome  di  Podestà,  fece- 
ro sì  che  gli  aniuii  popolari  fremessero  e  ri- 
manessero per  alcun  tempo  incerti  innanzi  alla 
novità  delle  cose,  né  s' acquetassero  che  per 
opera    dei    principali  cittadini,  i  quali  si  sfor- 


1)  lY.  Kal.  Od.  Hist.  Aug.  Lib.  IV.  Rub.  IV.  I  Cor- 
tiisi  (Lib.  I.  Gap.  XIV.),  con  evidente  errore,  mettono 
in  luglio  la  nomina  del  Vicario  imperiale.  Il  Verci  nel 
Libro  IV  della  sua  Storia  della  Marca  Trivigiana  e 
Veronese  trova  in  errore  anche  il  Mussato,  e  prova 
con  documenti,  che  Gerardo  era  Vicario  di  Padova  fino 
dal  21  di  settembre. 


CAPITOLO    SECONDO  57 

zarono  dimostrare  esser  necessario  adattarsi  alle 
imposte  condizioni. 

Era  in  que'  giorni,  per  buona  ventura,  in 
Padova  il  vescovo  Aimone,  mandatovi  dall'  Im- 
peratore a  farvi  riconoscere  il  suo  potere  e  a 
togliere  ogni  occasione  di  dissidio  tra  i  Pa- 
dovani e  i  Vicentini,  col  cercare  che  le  pos- 
sessioni di  quelli  nel  vicentino,  venissero  da 
questi  restituite  a  norma  del  regio  editto,  e  che 
il  Bacchiglione  tornasse,  per  l' antico  alveo,  a 
scorrere  nel  territorio  dei  Padovani.  Ma  poi- 
ché le  cose  tra  quelli  e  questi,  anziché  com- 
porsi, s'inasprivano  ogni  di  più,  Aimone  volle 
condur  seco  il  Mussato  innanzi  ad  Enrico,  per- 
chè gli  facesse  fede,  insieme  con  lui,  della  man- 
suetudine e  della  fedeltà  dei  Padovani.  Si  mi- 
sero entrambi  in  cammino,  ma  non  toccarono 
la  meta,  poiché  il  Vescovo  ammalò,  e  mentre 
si  riduceva  in  patria,  per  ricuperar  la  salute, 
morì  per  via  ad  Ivrea.  Questa  morte  dev'  essere 
spiaciuta  grandemente  al  Mussato,  poiché  con 
Aimone  egli  vedeva  mancarsi  un  mezzo  poten- 
tissimo per  raggiungere  lo  scopo  vagheggiato 
di  unire,  più  che  fosse  possibile,  Padova  al- 
l' Imperatore.  Egli  è  perciò  che  noi  lo  vedia- 
mo in  istretto  rapporto  col  A'escovo  di  Ginevra, 
come  ne  fa  fede  la  sua  Storia  Augusta,  nella 


58  ALBERTI>-0    MUSSATO 

quale  gli  tributa  parole  di  moltissima  lode, 
specialmente  per  ciò  che  fece  a  vantaggio  dei 
Padovani  ^). 

Morto  Aimone,  pare  che  il  Mussato,  rimasto 
solo,  vedendo  di  non  poter  conchiudere  nulla, 
sia  ritornato  in  Padova  senz'  altro  ^). 

Poco  tempo  appresso  egli  fu  inviato  insie- 
me con  altri,  per  la  quarta  volta  ad  Enrico, 
il  quale  era  passato  a  Genova  per  muovere  di 
là  a  Rom.a.  Insieme  cogli  ambasciatori  delle 
altre  città  e  con  quelli  di  Roberto  di  Napoli, 
che,  spinto  dai  progressi  che  faceva  l' Impera- 
tore in  Italia,  aveva  creduto  conveniente  man- 
dargli le  sue  felicitazioni,  prima  che  andasse 
a  cingere  in  Roma  la  corona  imperiale,  si  tro- 
varono in  Genova  anche  i  legati  padovani,  i 
quali,  oltre  a  quello  di  accompagnare  l' Impe- 
ratore a  Roma,  avevano  l'incarico  di  niuover 


h  Is  qiiippe  Gebenensis  mansuetudine  multa,  v.t 
ci'jusque  generis  homines,  sic  et  Paduanos  ad  sv.os^ 
Regisque  amore  alliciebat.  Tir  hilaris  faciei,  verbo- 
rum  cuique  gratissimorum,  et  effector  studiosus  eo- 
rum,  qi'.ce  spondebat,  laudem  multam  emeruit  in  his 
commerciis  memorici  celernce  Paduanis  commendan- 
dam.  Hisf.  Aug.  Lib.  IV.  Rub.  IV. 

2)  Questo  non  rileviamo  dalla  sua  storia,  ma  possia- 
mo facilmente  immaginare,  poiché,  dopo  aver  detto  del- 
la morte  di  Aimone,  egli  non  fa  più  parola  della  sua 
ambasceria. 


CAPITOLO   SECONDO  5& 

lagno  dinanzi  a  lui  contro  i  Vicentini,  che 
non  solo  ricusavano  di  restituire  ai  Padovani 
i  beni  che  questi  possedevano  nel  territorio  di 
Vicenza,  ma  non  volevano  rimettere  il  Bacchi- 
gliene nel  suo  letto,  con  danno  gravissimo  del- 
la vicina  Padova.  Le  sponde  del  Bacchigliene, 
furono  il  teatro  delle  principali  battaglie  fra 
Padova  e  Vicenza  ;  quel  liume,  in  quelle  fu- 
neste fazioni  fu,  come  scrive  lo  Zanella,  più  fa- 
moso che  il  Simoenta  nella  guerra  di  Troia  ^). 


1)  Guerre  fra  Padovani  e  Yicentini  al  tempo  di 
Dante  nel  libro  Dante  e  Padova,  Padova  1865.  Mi  pia- 
ce riprodurre  il  seguente  tratto  in  cui  lo  Zanella  de- 
scrive, oltre  il  corso  del  Bacchigliene  e  la  pianura  cir- 
costante, il  modo  con  cui  i  -Vicentini  impedivano  alle 
acque  di  scorrere  verso  Padova. 

«Dopo  avere  co'  suoi  tortuosi  avvolgimenti  bagnate 
le  frapposte  campagne,  il  Bacchiglione  entra  in  Padova 
a  porre  in  movimento  i  mulini  della  città.  Ogni  volta" 
che  si  rompeva  1'  amicizia  fra  le  due  rivali,  era  cura  dei 
Vicentini  l'impedire  che  l'acque  del  tìume  scorressero 
verso  Padova. 

A  questo  fine  presso  il  ponte  di  Longare  piantava- 
no alcune  palafitte,  guardate  da  due  grosse  torri  di  le- 
gno ;  le  acque  straripando  dilagavano  le  vicine  pianure, 
non  bastando  a  raccoglierle  il  canale  del  Bisato,  che  a 
que'  giorni  non  andava  oltre  il  ponte  di  Barbarano. 
Quella  lingua  di  terra  che  è  posta  fra  i  colli  Berici  e  gli 
Euganei  naturalmente  bassa  e  piena  d'  acquitrini  si  can- 
giava in  una  vasta  palude,  di  cui  restano  tracce  nei  ca- 
nali che  si  fecero  per  asciugarla:  scolo  di  Gora,  Fossa 
Bandigà,  scolo  Arnalda,  scolador  di  Lezzo,  Canaletto  ed 


W  ALBERTINO   MUSSATO 

Quattro  furono  gli  ambasciatori  che  Padova 
inviò  questa  volta  ad  Enrico  :  Rolando  da  Piaz- 
zola,  Jacopo  degli  Alvarotti,  Enrico  di  Capo- 
divacca  ed  Albertino  Mussato.  Circa  cento  gior- 
ni essi  stettero  in  Genova,  senza  ottener  nulla. 
Invano  esposero  all'  Imperatore  le  difficoltà  del 
rimanere  più  a  lungo;  egli  si  mostrava  restio 
a  conceder  loro  il  permesso  del  ritorno. 

Finalmente  il  Mussato,  che  godeva  la  stima 
e  r  affetto  di  Enrico,  gli  fece  conoscere  V  im- 
possibilità in  cui  erano  di  ricevere  dalla  lon- 
tana Padova  i  necessarii  sussidii  per  prolun- 
gare la  loro  dimora  in  Genova,  e  come  per 
ciò  fossero  costretti  ad  andarsene,  e  gli  pro- 
mise che  sarebbero  ritornati  pel  tempo  della 
incoronazione.  L'Imperatore  non  accordò  espres- 
samente la  licenza,  ma  neppure  la  negò  ').  Gli 


iiltri.  Chi  visita  quelle  campagne  ora  seminate  di  vil- 
laggi si  accorge  del  latto,  nel  vedere  che  vi  mancano 
edifici  di  vecchio  tempo,  i  quali  sorgono  in  quella  vece 
sui  colli  vicini.  È  questo  il  palude  di  cui  parla  Dante, 
le  cui  acque  pur  troppo  rosseggiarono  molte  volte  di  san- 
gue fraterno». 

Vedi  inoltre  il  dotto  scritto  di  Fedele  Lampertico: 
Bella  interpretazione  della  terzina  16  nel  Canto  IX 
del  Paradiso,  pubblicato  nel  II.  Volume  de"  suoi  Scritti 
storici  e  letterari,  Firenze,  Successori  Le  Monuier,  1883. 

1)  Si  non  licentiam  jiì'cebuit  e.vj^ressius,  tanien  non 
negava.  Hist.  Aug.  Lib.  V.  Rub.  X.  I  Cortusii  dicono  che 


CAPITOLO   SECONDO  61 

ambasciatori  padovani  fecero  tosto  ritorno  in 
patria,  non  senza  prima  aver  ottenuto  un  re- 
scritto imperiale  (27  gennaio  1312),  che  or- 
dinava ai  Vicentini  di  rimettere  il  Bacchiglio- 
ne  nell'antico  suo  letto,  e  di  restituire  ai  Pa- 
dovani i  beni  convenuti;  Non  appena  giunti  in 
Padova,  dopo  un  viaggio  disastroso,  Albertina 
Mussato  espose  dapprima  agli  otto  sapienti  ') 
e  ai  primati  della  città,  poscia  al  pieno  Sena- 
to l'esito  dell'ambasciata  ad  Enrico  in  Geno- 
va, facendo  conoscere  la  condizione  dell'  Impe- 
ratore. Poiché  ebbe  finito  di  parlare,  si  levò 
nella  sala  un  mormorio.  Diverse  erano  le  opi- 
nioni dei  consiglieri  ;  pochi  soltanto,  desiderosi 
di  pace  e  nemici  di  ogni  novità,  insistevano  non 
essere  opportuno  rompere  l' amicizia  coli'  Im- 
peratore ;  i  più,  sapendolo  lontano,  occupato 
dell'  andata  a  Roma  ed  esausto  di  finanze , 
sicché  ne  presagivano  vicina  la  caduta,  sug- 
gerivano apertamente  la  ribellione. 


gli  ambasciatori  partirono  da  Genova  secretamente:  Am- 
basciatores  de  Padua  secrete  de  Imperatoris  Curia 
recesserunt.  Lib.  I.  cap.  XIV. 

1)  Questo  magistrato  veniva  eletto  per  vegliare  alle 
novità  che  agitavano  la  Repubblica  ed  ovviare  a'  peri- 
coli, che  alla  medesima  potevano  soprastare.  Vedi  Giam- 
battista Verci,  Storia  della  Marca  Trivigiana  e  Vero- 
nese. Libro  IV. 


62  ALBERTINO    MUSSATO 

Il  Consiglio  si  protrasse  a  lungo,  né  si  venne 
in  quel  giorno  a  conclusione  veruna.  Forse  in 
quella  sua  relazione  il  Mussato,  come  osserva 
il  Wychgrani  fece  un  passo  imprudente.  Egli, 
die  conosceva  troppo  bene  V  umore  de'  suoi  con- 
cittadini, avrebbe  dovuto  tacere  della  condizio- 
ne dell'Imperatore,  la  quale,  malgrado  lo  splen- 
dore di  Genova ,  non  era  certo  la  migliore, 
com'  è  dato  rilevare  dalle  fonti  di  quel  tem- 
po ^).  Si  direbbe  quasi  che  Albertino  s'  è  que- 
sta volta  dimenticato  della  consueta  destrezza, 
se  non  si  pensasse  che  ì"  amore  eh'  egli  por- 
tava a'  suoi  concittadini  non  poteva  permetter- 
gli di  fingere  al  loro  cospetto,  come  aveva  fat- 
to dinanzi  all'  Imperatore.  Oltre  a  ciò  dell'am- 
basciata di  Genova  avevano  fcitto  parte  con 
lui  altri  cittadini,  fra  cui  Rolando  da  Piazzo- 
la,  oratore  dei  più  valenti  e  punto  amico  a 
Cesare,  i  quali  non  avrebbero  taciuto  s'  egli 
avesse  esposto  le  cose  quali  non  erano. 

E  ammesso  pure  che  avesse  potuto  ricorre- 
re air  astuzia,  quale  vantaggio  avrebbe  otte- 
nuto? Nessuno;  poiché  i    fatti   che   avvennero 


1)  Vielleicht  war  es  eia  unkluger  Schritt.  dass  er  aucli 
der  momentanen  Lage  cles  Kònigs,  die  trotz  ali  des  ge- 
nuesischen  Glanzes  nach  den  gleichzeitigen  Quelleii  dodi 
keine  giiustige  war  Erwiibnung  tliat.  pag.  23. 


CAPITOLO    SECONDO  C3 

subito  dopo,  avrebbero  distrutta  completamente 
r  eftìcacia  delle  sue  parole. 

I  Padovani,  come  notammo,  non  volevano 
saperne  di  soggezione  all'  Imperatore.  S'  erano 
indotti,  è  vero,  pochi  mesi  prima  a  tentare,  per 
mezzo  del  Mussato,  una  conciliazione  con  lui  ; 
ma  avevano  fatto  ciò  in  un  momento  di  pau- 
ra, passato  il  quale  s"  erano  pentiti,  nonostan- 
te che  Enrico  avesse  mostrato  una  speciale  be- 
nevolenza a  loro  riguardo.  Non  lasciavano  per- 
tanto di  cogliere  ogni  occasione,  per  far  cono- 
scere, com'  essi  obbedissero  a  malincuore  alle 
pretese  imperiali.  Quando  si  trattò  della  no- 
mina del  Vicario  si  levarono  a  tumulto  ;  quan- 
do poi  seppero  €om'  erano  stati  trattati  in  Ge- 
nova gli  ambasciatori,  si  agitarono  di  nuovo 
e  maggiormente  ;  non  ci  voleva  che  un'  occa- 
sione per  farli  prorompere  in  aperta  rivolta  ; 
e  questa  non  tardò  a  manifestarsi. 

II  giorno  appresso  al  Consiglio,  del  quale 
abbiamo  narrato  testé,  pervennero  al  Comune 
di  Padova  lettere  di  Cangrande,  nelle  quali 
annunziava  esser  egli  stato  eletto  dall'  Impe- 
ratore a  Vicario  di  Vicenza.  La  notizia  si  dif- 
fuse in  un  baleno  per  la  città,  e  con  essa  cor- 
se voce  che  lo  stesso  Cane  fosse  stato  segre- 
tamente nominato  Vicario  di  Padova,  Treviso 


64  ALBERTINO    MUSSATO 

e  Feltre  '').  Non  ci  volle  di  più  perchè  i  cit- 
tadini si  levassero  a  tumulto.  Fra  le  grida  del 
popolo,  fu  radunato  immediatamente  il  Consi- 
glio, per  discutere  sul  partito  da  prendersi  in 
tanto  frangente.  Quando  i  consiglieri  furono  al 
posto,  Rolando  da  Piazzola,  grandemente  agi: 
tato,  ascese  la  tribuna  e  pronunciò  una  vee- 
mente orazione  contro  V  Imperatore  : 

—  Dopo  aver  taciuto  per  quasi  cento  giorni, 
ora  che  avea  fatto  ritorno,  per  divino  aiuto, 
ai  patri  lari  da  quella  Curia,  ove  il  timore 
gli  avea  negata  la  facoltà  di  parlare,  ora,  che 
rivedeva  i  dolci  aspetti  de'  suoi  concittadini, 
avrebbe  finalmente  parlato.  Aveva  veduto,  pur 
troppo,  quel  Re  mandato  per  la  rovina  del 
mondo  ;  ne  avea  veduto  cogli  occhi  ì"  aspetto, 
mentre  l'anima  rifuggiva  dal  guardarlo;  quel 
Re  dinanzi  a  cui  gli  elementi  stessi  inorri- 
divano ;  la  terra  negava  i    suoi    frutti,    l' aria 


^)  Il  Mussato  la  ritiene  un'invenzione:  vet'-is  falsa 
ipsa  eadem  instans  fama  permiscuit,  ut  Rex  iniquus 
illuni  iCanem)  non  modo  Yeronce,  sed  Paduce,  Tarvi- 
sio, Fellroque  praefecerit.  Hist.  Avg.  Lib.  VI.  Rnb.  I. 

II  Wycligram,  in  una  nota,  osserva  che  quella  voce 
non  poteva  esser  che  falsa,  poiché,  prima  di  tutto  Enri- 
co sapeva  che  Cane  era  nemico  di  Padova,  e  in  secon- 
do luogo  Treviso,  in  quel  tempo,  era  soggetta  a  nizzar- 
do da  Camino. 


CAPITOLO    SECONDO  65 

divenuta  infetta,  irrespirabile  sofìbcava  i  viven- 
ti, il  fuoco  distruggeva  gli  edilizi  e  inceneriva 
al  suolo  ogni  cosa.  Aveva  veduto  città,  poco 
prioia  iiorentissime,  ridotte  in  rovine,  campa- 
gne deserte,  i  volti  dei  nobili  inselvatichiti  dal- 
l'inedia,  la  plebe  morta  di  fame.  La  Lombar- 
dia, terra  feracissima,  resa  incolta  e  selvag- 
gia, e  retta  da  tiranni  che,  col  nome  di  Vica- 
ri! imperiali,  ne  consumavano  perfino  le  estre- 
me reliquie.  Genova,  la  stessa  Genova,  città 
fiorente  di  ricchezze,  di  cittadini,  egli  avea  ve- 
duto, in  soli  tre  giorni,  mutare  totalmente  d'a- 
spetto. Come  se  —  continuava  —  licenziato 
questo  nostro  presidente  venisse  a  lui  sostituito 
un  ignoto,  e  i  vostri  plebisciti  e  le  leggi  fos- 
sero abrogati,  e  questo  Senato  disciolto,  e  i 
tribuni  turpemente  e  ignominiosamente  deposti; 
cosi  fu  fatto  a  Genova,  dove  il  Podestà  e  l'Aba- 
te conservatore  della  città  furono  scacciati,  di- 
spersi gli  ordini  dei  popolari,  abolite  le  anti- 
chissime costumanze.  Tardi  se  ne  avvidero,  e 
invano,  i  cittadini,  che  or  piangono  la  loro  sven- 
tura e  maledicono  la  loro  inerzia.  Essi  che  avea- 
no  respinto  dai  loro  confini  l' Imperatore  Fe- 
derico armato,  accolsero  costui  inerme. 

Questi  tuttavia  sono  vani   lamenti,   imper- 
ciocché, perdute  le  forze,  si  sottomisero  al  gio- 


66  ALBERTINO  MUSSATO 

go  e  pagarono  al  regio  fisco  sessantamila  fio- 
Tini.  Ma  si  taccia  delle  altrui  sventure  e  si 
parli  deir  Imperatore.  Qual  ragione  rende  for- 
midabile costui?  Non  è  egli  forse,  per  flagel- 
lo di  Dio,  privo  di  soldati?  Duecento,  soli  due- 
cento gliene  sono  rimasti,  i  quali  non  pagati 
da  sei  mesi  incominciarono  ad  alzare  la  voce 
contro  r  Imperatore.  Egli  stesso  avea  veduto 
il  popolaccio  gridare  alle  porte  del  palazzo,  per 
essere  soddisfatto  del  prezzo  dei  cibi  e  dei  vini 
somministrati,  e  l' Imperatore  tenerlo  a  bada 
e  intanto  vendere  le  cariche  e  gli  offici  per 
danaro.  Non  ebbe  vergogna  di  nominar  Cane, 
uomo  scellerato,  a  Vicario  di  Vicenza,  perchè 
poi  si  faccia  tiranno  anche  di  Padova  e  vi  su- 
sciti la  guerra  intestina.  Si  rammentassero  i 
Padovani  delle  stragi  nefande  commesse  da  Ez- 
zelino da  Romano,  figlio  di  Satana  ^). 

Cane,  se  ben  riguardassero  alla  sua  vita, 
a'  suoi  costumi  sin  dagli  anni  più  teneri,  non 
era  da  meno  di  Ezzelino  ;  anzi  di  questo  ancor 
più  feroce.  Fatto  adulto  s"  era  lordato  le  mani 
nel   sanane  de'  suoi  ;    né   avrebbe    certo    usato 


1)  Era  credenza  popolare  che  Ezzelino  fosse  figlio  del 
demonio.  Questa  credenza  suggerì  al  Mussato  la  mera- 
vigliosa scena  dell'atto  primo  della  sua  tragedia  Ec- 
ccrinis. 


CAPITOLO    SECONDO  67 

indulgenza  cogli  odiati  Padovani,  egli  nato  ed 
educato  in  quella  cittcà,  dove  undecimila  de'  loro 
padri  —  e  la  memoria  n  era  ancor  fresca  • — 
aveano  subito,  ad  un  tempo,  morte  nefanda  ^). 
Ma  i  ricordi  abbondano  ;  meglio  tacerli,  e  pas- 
sare ad  un  consiglio  opportuno  sul  da  farsi. 
E  qui  l'oratore  consigliò  di  negare  obbedienza 
all'  Imperatore,  di  resistergli,  di  abbattere  le 
aquile  da  tutti  i  pubblici  e  privati  edifìzi,  di 
armargli  contro  la  città,  i  castelli  e  le  colonie, 
di  sacrificare  la  vita  per  la  libertà.  Finalmente, 
rivoltosi  a  Gherardo  da  Enzola,  2rli  intimò  di 
rinunziare  al  vicariato  e  di  riprendere,  insieme 
col  dolce  e  santo  nome,  1"  ufficio  di  Podestà  ;  se 
ciò  non  gli  piacesse,  s' avesse  il  suo  stipendio 
e  se  ne  andasse  :  avrebbero  chiamato  di  nuovo 
Rodolfo  da  San  Miniato  ~),  — 

11  Consiglio  applaudi  fremendo  all'  orazione 
di  Rolando,  convinto  si  dovesse  fare  ciò  eh'  egli 
suggeriva.  Ma  poiché  il  remore  si  fu  calmato 
alquanto,  si  rizzò  il  Mussato,  che  volle  far  sen- 
tire ancora  una  volta  la  sua  voce  per  ritrarre 
l'amata  sua  patria  dall'orlo  del  precipizio    in 


1)  Di  questa  strage  fa  menzione  il  Mussato  nel  bel- 
lissimo Coro,  col  quale  chiude  V  atto  terzo  della  sua 
tragedia. 

2)  HisL  Aug.  Lib.  Vi.  Rub.  I. 


68  ALBERTINO   MUSSATO 

cui  stava  per  cadere  ;  benché  fosse  persuaso 
che  pochi  lo  avrebbero  ascoltato.  L' autorità 
del  suo  nome  impose  silenzio: 

—  Non  si  giudicasse  stolta  audacia  la  sua, 
se  tentava  rivolgere  la  mente  di  tanti,  persuasi 
dall'eloquente  parola  di  Rolando,  a  consigli  più 
miti  ;  pure  non  rincrescesse  a'  suoi  concittadini 
di  ascoltare  colui,  che  altre  volte  s'eran  pentiti 
di  non  aver  ascoltato  ;  forse  le  buone  ragioni 
avrebbero  avuto  vittoria  sugli  animi  esaltati. 
Egli  non  negava  essere  stato  mal  suggerito 
r  Imperatore  nella  scelta  di  Cane  a  Vicario  di 
Vicenza  ;  ma  certo  ignorava  Enrico  di  quai  tri- 
sti conseguenze  sarebbe  stata  cagione  quella 
nomina.  E,  dopo  tutto,  non  aveva  egli  il  diritto 
di  nominare  chi  meglio  gli  piacesse?  Che  si 
debba  fare,  ciò  importa  discutere.  Rolando  aveva 
esortato  i  Padovani  alla  rivolta,  aveva  fatto  cre- 
dere l'Imperatore  povero,  abbandonato,  odioso 
a'  suoi  popoli.  Non  negava  egli  (il  Mussato) 
esser  ciò  vero  ;  ma  fino  a  un  certo  punto.  En- 
rico non  era  cosi  oppresso  dalle  sventure  che 
non  potesse  rialzare  il  capo.  Non  era  egli  forse 
favorito  dalla  Chiesa?  Lo  potrebbe  attestare 
lo  stesso  Rolando,  che  vide  coi  propri  occhi 
sedergli  allato  quattro  Cardinali  inviati  dal  Pon- 
tefice. Oltre  a  ciò,  se  i  Re  di  Francia  e  di  Pu- 


CAPITOLO   SECONDO  69 

glia  non  erano  andati  d'accordo,  come  correva 
voce,  intorno  agli  sponsali,  non  ne  avevano  tut- 
tavia respinti  i  trattati.  Pertanto  s'egli  volesse 
conceder  loro  alcuni  doni  regali  ;  cioè  al  Re 
di  Francia  il  regno  di  Arles  e  quel  tratto  di 
paese  che  si  stende  dal  Rodano  fino  ai  conlini 
dell'Allemagna,  e  al  Re  di  Puglia  il  vicariato 
della  Toscana  e  della  Lombardia,  non  gli  sa- 
rebbe forse  aperta  la  via  di  Roma  ?  Egli  di- 
verrebbe allora  di  nuovo  potente.  Non  creda 
Rolando  poter  provare  cosi  abbandonato,  cosi 
povero,  com'  egli  asserisce,  l' Imperatore,  a  cui 
tutti  i  ghibellini  d' Italia  rivolgono  lo  sguardo 
come  a  loro  stella,  e  a  cui  nelle  stesse  città 
guelfe  le  intestine  fazioni  rivolgono  di  nascosto 
il  desiderio.  Finché  egli  viva  e  tinche  le  na- 
zioni riconosceranno  in  lui  il  Re  e  l' Impera- 
tore dei  Romani,  1'  avranno  i  Padovani  sempre 
minaccioso  e  terribile  sul  loro  capo.  Vogliono 
essi  un  rimedio  giusto  ed  efficace?  Non  si  fac- 
ciano ribelli,  come  vorrebbe  Rolando  ;  lodino 
ed  accettino  i  decreti  che  ordinano  sia  rimesso 
il  Bacchiglione  nel  suo  letto  e  siano  loro  re- 
stituiti i  beni  che  posseggono  nel  Vicentino. 
Che  ne  avverrà?  Certamente  Cane  e  gli  osti- 
nati Vicentini  non  obbediranno  all'imperiale 
decreto  ;  poiché  se  ritornassero  ai  Padovani  le 


70  ALBERTINO  MUSSATO 

loro  possessioni,  chi  potrebbe  resistere  alla  co- 
storo potenza  ?  I  Padovani  posseggono  castelli 
e  luoghi  fortificati  sparsi  per  tutto  il  territorio 
vicentino,  e  il  loro  potere  si  farebbe  sentire 
nel  seno  stesso  di  Vicenza.  Che  se,  contro  il 
comando  di  Cesare,  i  Vicentini  negheranno  la 
restituzione,  facciano  i  Padovani  sentire  i  loro 
giusti  lamenti  all'  Imperatore  ;  si  valgano  delle 
loro  forze  per  ottenere,  in  nome  del  sacro  Im- 
pero, r  una  e  l' altra  delle  cose  a  cui  hanno 
diritto.  Agiscano  sotto  lo  scudo  del  diritto  ciò 
che  Rolando  persuaderebbe  loro  di  fare  in  di- 
sprezzo dell'  Imperatore.  Che  importa  dare  il 
nome  di  Podestà  al  Vicario  dell'  Impero,  quan- 
do r  officio  ed  il  potere  sono  i  medesimi  ?  Per- 
chè atterrare  le  aquile?  Si  prepongano  gli  atti 
virtuosi  alle  parole  ;  si  cerchi  raggiungere  lo 
scopo  colle  opere  non  con  le  vane  ostentazio- 
ni, si  segua  sempre  il  diritto,  anche  se  il 
Re  fosse  malvagio  ;  il  diritto  è  costante  ed  im- 
mortale, il  Re  incerto,  mortale  ;  esso  cade  co- 
me cadono  i  fiori  nel  verno.  Conchiudeva  il 
Mussato  :  dovessero  i  Padovani  obbedire  ai  de- 
creti  imperiali  ;  che  cosi  avrebbero  potuto  non 
solo  respingere  indietro  quel  Cane  loro  nemi- 
co che  li  inseguiva,  ma  convincere  della  sua 
fallacia   e   della  sua   iniquità   lo   stesso    Impe- 


CAPITOLO   SECONDO  71 

ratore,  se  si  fosse  scostato  dalla  via  della  giu- 
stizia ^).  — 

L'eloquente  parola  di  Albertino  non  produs- 
se, com'era  da  aspettarsi,  grande  effetto  sugli 
animi  degli  uditori,  la  più  parte  dei  quali  era 
già  con  R,olando,  prima  ancora  che  questi  pro- 
nunciasse il  suo  discorso.  Pochi  soltanto,  quelli 
di  etcà  più  matura  e  di  maggior  senno,  resta- 
rono colpiti  dalle  serie  argomentazioni  del  Mus- 
sato ~),  e  discussero  incerti  su  ciò  che  si  do- 
vesse fare.  Eran  d'avviso  non  doversi  prendere 
cosi  tosto  una  risoluzione  ;  ma  doversi  aspet- 
tare alcuni  giorni,  finché  gli  avvenimenti  stessi 
indicassero  il  partito  migliore.  Si  passò  alla 
votazione.  La  proposta  di  Rolando  fu  appro- 
vata da  quasi  due  terzi  dei  votanti. 

La  plebe,  sempre  vaga  di  cose  nuove,  non 
appena  seppe  la  decisione  del  Consiglio,  prima 


1)  Il  Mussato  scrisse  più  tardi  un'  Epistola  a  Rolan- 
do, per  riconciliarsi  con  lui  della  pubblica  contesa  avuta 
in  questa  occasione.  L'Epistola  s' intitola:  Ad  Rolanchim 
ludicem  de  Placiola  amicwn  suum  sibi  conciliandum 
de  contentione  Inter  se  habita  de  rebus  publicis  altero 
existente  Indice  Jntianorum,  altero  Priore  Gastal- 
dionmn. 

2)  Il  Barthold  giudica  1"  orazione  del  Mussato  «degna 
dei  più  bei  tempi  della  liberta  di  Grecia  o  di  Roma». 
Wohl  der  Bliìthezeit  griecMscher  oder  romischer 
Freiheit  loùrdig. 


72  ALBERTINO    MUSSATO 

ancora  che  questo  si  sciogliesse,  corse  furibon- 
da, con  iucomposte  grida,  ad  atterrare  le  aquile 
dai  pubblici  e  privati  edifizii  e  dalle  porte  della 
città  ;  né  pur  troppo  si  astenne,  come  accade 
sovente  in  simili  circostanze,  dagli  incendii  e 
dalle  rapine  (15  febbraio   1312). 

Questi  fatti  misero  uno  sgomento  profondo 
neir  animo  di  Albertino,  il  quale,  malgrado 
tutti  i  generosi  suoi  sforzi  per  salvarla,  vedeva 
la  patria  correre  a  certa  rovina.  Ciononostante 
non  gli  diede  il  cuore  di  abbandonare  V  ingrata 
e  tanto  meno  di  farsele  nemico  ^).  In  cospetto 
del  bene  eh"  egli  avrebbe  ancora  potuto  recarle, 
fece  tacere  nell'  animo  ogni  privato  rancore,  e, 
benché  in  opposizione  a  quanto  egli  stesso  aveva 
suggerito,  stette  con  essa  contro  l'Imperatore, 
al  quale  pur  lo  legavano  tante  prove  di  fidu- 
cia e  di  affetto,  facendo,  per  tal  modo,  cono- 
scere a'  suoi  concittadini,  che  s'egli  avea  con- 
sigliato la  soggezione  di  Padova  all'  Impero, 
avea  ciò  fatto  non  per  ingraziarsi  Enrico  e  per 
speranza  che  avesse  di  ottenere  qualche  van- 
taggio personale  ;  ma  unicamente  pel  bene  della 
sua  città.   La  quale,  pur  avendo  cercato  tutte 


l)  Non  mihi  cum  Patria  liceat  contendere  nostra. 

Epist.  IL 


CAPITOLO   SECONDO  73 

le  vie  per  nuocere  a  sé  stessa,  fu  ancora  tanto 
avventurata,  che  in  quel  momento  l' Imperato- 
re, per  essere  distratto  da  gravissime  occupa- 
zioni, non  potesse  pensare  a  punirla  ;  né  più 
tardi,  avendo  egli  pubblicato  un  terribile  editto 
contro  di  essa,  fosse  in  tempo  di  mandarlo  ad 
esecuzione,  per  essere  stato  colpito  da  morte 
immatura. 


Capitolo  Terzo. 


I  Padovani  si  riconciliano  col  Mussato  —  Uccisione  di  Gu- 
glielmo Novello  dei  Paltanieri  —  Si  vuole  la  guerra  con 
Cane  —  Cominciano  le  ostilità  fra  Padova  e  Cane  —  I 
Padovani  tentano  di  riprendere  Vicenza  —  Assalto  di  Ma- 
rostica  —  Atto  di  valore  del  Mussato  —  Cane  espugna  il 
castello  di  Mota  —  Si  volge  a  Camisano  —  Quindi  a  Pa- 
dova —  Viene  respinto  —  Uccisione  di  Rizzardo  da  Ca- 
mino —  Alleanza  dei  Padovani  con  Guecello  da  Camino 
—  Nuovo  tentativo  per  ricuperare  Vicenza  —  Cane  fa 
straripare  il  Bacchigliene  —  I  Padovani  lo  rimettono  nel 
suo  letto  —  Assalto  di  Lonigo  —  Assedio  di  Poiana  — 
Valore  del  ^lussato  —  Cane  devasta  il  territorio  pado- 
vano —  Viene  respinto  —  Esigenze  di  Guecello  —  Oppo- 
sizione dei  Padovani  —  Guecello  viene  cacciato  da  Tre- 
viso —  Congiura  di  Nicolò  da  Lezzo  —  Ribellione  di  So- 
limano de'  Rossi  —  Padova  è  messa  al  bando  dell'  Impe- 
ro —  Si  riaccende  la  guerra  con  Cane  —  Il  Conte  di  Go- 
rizia viene  in  aiuto  di  Cane  —  Sconfìgge  i  Trevisani  sulle 
rive  del  Montegano  —  Morte  di  Enrico  VII. 


Dopo  quanto  era  accaduto,  se  il  Mussato 
aveva  tutte  le  ragioni  per  essere  malcontento 
de'  suoi  concittadini,  questi  vedevano  in  lui  un 
nemico  della  libertà  della  patria,  un  fautore  di 
Enrico,  al  quale  cercava  appianare  la  via,  per- 
chè potesse  meglio  raggiungere  il  fine  delle  sue 


76  ALBERTINO    MUSSATO 

mire  ambiziose.  Sennonché  la  ragione  stava  tut- 
ta dalla  parte  di  Albertino  e  il  torto  da  quella 
de' suoi  concittadini;  poiché  s'egli,  nel  consi- 
gliare ad  essi  la  sommissione  all'Imperatore, 
avesse  avuto  di  mira,  piuttosto  che  il  bene  di 
Padova,  il  proprio  interesse  personale,  nessuna 
occasione,  meglio  di  questa,  avrebbe  potuto  spin- 
gerlo ad  abbandonare  la  sua  città  per  schierarsi 
dalla  parte  dei  nemici.  Ma,  appunto  per  sal- 
varla da  questi  e,  in  modo  particolare,  da  Ca- 
ne, il  più  formidabile  di  tutti,  ei  la  voleva  uni- 
ta all'  Imperatore. 

Nessuno  forse  dei  Padovani  odiava  Cangran- 
de  più  del  Mussato,  poiché  nessuno  meglio  di 
lui  vedeva  a  che  mirasse  l'irrequieto  Signore 
di  Verona.  Cane,  infatti,  aveva  a  cuore  non 
tanto  gli  interessi  dell'Imperatore  quanto  i  pro- 
pri ;  egli  cercava  di  allargare  il  suo  dominio 
e  di  aumentare  la  sua  potenza,  e  poiché  sapeva 
che  il  Mussato  aveva  penetrato  questo  suo  di- 
segno,  lo  ricambiava  di  pari  odio. 

Stando  le  cose  in  questi  termini,  essendo, 
cioè,  il  Mussato  tanto  nemico  a  Cane,  a  quel 
Cane,  che  era  l' oggetto  principale  dell'  odio  dei 
Padovani,  e  contro  al  quale  una  guerra  era 
divenuta  inevitabile,  lo  sdegno  de'  suoi  concit- 
tadini verso  di  lui  si  calmò  ben  tosto.  Sulle  pri- 


CAPITOLO    TERZO  77 

me  il  Podestà,  come  narra  il  Ferreto,  avea 
dovuto  salvarlo  dal  furore  del  popolo,  ma  non 
appena  gli  animi  furono  tranquilli,  i  cittadini 
si  volsero  di  nuovo  a  lui,  come  al  solo  capace 
di  condurre,  nel  miglior  modo,  le  cose  ;  ed  egli, 
riacquistata  l'antica  influenza,  s'adoperò  con 
tutti  i  mezzi,  dapprima  come  Gastaldione  ^),  poi 
come  Anziano  della  Repubblica  "),  al  vantaggio 
maggiore  della  sua  città,  non  ostante  che  que- 
sta si  fosse  messa  per  una  china  pericolosa. 

Una  prova  dell'odio  suo  contro  Cane  l'ab- 
biamo nel  fatto  che  egli,  dopo  l' uccisione  di 
Guglielmo  Novello,  insieme  con  gli  altri  reg- 
gitori della  città,  mandò  a  confino  Marco  For- 
zate, Gaboardo  Scrovegno,  Traverso  dei  Dale- 
smanini  e  molti  altri,  i  quali  avevano  mostrato 
apertamente  di  parteggiare  per  Cane  e  di  ac- 
crescere, con  le  loro  male  arti,  la  potenza  di 
lui.  I  Cortusii,  nel  far  menzione  del  fatto,  dicono 
che  quei  cittadini  furono  banditi  non  per  giu- 
stizia, ma  per  vendetta  di  partito  ^).  Chi  pensi 
tuttavia  all'uccisione  del  Novello,  favorita  dal 
popolo,  e  all'amicizia  che  i  banditi  ostentavano 


1)  Vedi:  Epistola  111. 

2)  Vedi:  De  Gestis  Ital.  ecc.  Lib.  IV.  Rub.  II. 

3)  Nofi  per  justitiain,  sed  per  partem.  Lib.  I.  Cap^ 
XV. 


78  ALBERTINO    MUSSATO 

per  Cane,  dovrà  convenire  essere  stato  quello 
dei  reggitori  di  Padova  atto  di  suprema  pru- 
denza, col  quale  impedirono,  forse,  novelli  di- 
sordini, che  nella  città  ostile  allo  Scaligero  si 
sarebbero  in  breve  manifestati. 

Guglielmo  Novello  dei  Paltanieri  di  Monse- 
lice,  notissimo  pe'  suoi  sentimenti  ghibellini,  era 
considerato  come  uno  dei  capi  del  partito.  Un 
giorno,  mentre  si  trovava  nella  sala  del  Con- 
siglio, fu  improvvisamente  assalito  ed  ucciso 
da  alcuni  assassini  per  ordine  di  Antonio  da 
Carmignano.  Si  disse  queiruccisione  essere  stata 
commessa  per  atterrire  i  partigiani  dell'Impero  ; 
fatto  sta  che  gli  uccisori,  e  per  la  potenza  di 
chi  li  aveva  mandati  e  pel  favore  del  popolo, 
poterono  uscire  incolumi  dalla  città.  All'annun- 
zio della  morte  di  Guglielmo,  Rinaldo  Scrove- 
gni,  altro  dei  capi  del  partito  ghibellino,  fuggi 
a  Vicenza  ed  offerse  sé  stesso  e  il  suo  castello 
di  Trambache  a  Cane  ;  ma  questi,  temendo  la 
potenza  dei  Padovani,  non  volle  accettare  ;  onde 
Rinaldo  fu,  per  ordine  di  Padova,  mandato  in 
esiglio  a  Capodistria  ^).  Tutto  questo  avvenne 
nella  seconda  metà  di  febbraio  del   1312. 

Il  partito  imperiale,  che  vedemmo  cosi  scarso 


1)  Cort.  Lib.  I.  Gap.  XV 


CAPITOLO   TERZO  79 

nella  votazione  del  famoso  consiglio,  tenuto  il 
15  febbraio,  andava  perdendo  terreno  ogni  gior- 
no più.  I  giovani  particolarmente  si  mostravano 
avversi  all'  Imperatore  ed  ardevano  dal  desiderio 
di  venire  alle  mani  con  Cane,  nella  certezza  di 
riacquistare  alla  Repubblica  ciò  che  aveva  per- 
duto e  di  ritornarla  alla  potenza  di  pochi  anni 
innanzi.  I  vecchi,  ammaestrati  dall'esperienza, 
prevedevano  invece  la  totale  rovina  della  città, 
e  disapprovavano  altamente  la  defezione  di  que- 
sta all'Imperatore;  sennonché  i  loro  consigli  ve- 
nivano accolti  dai  giovani  con  sorrisi  di  scher- 
no. Erano  appena  incominciate  le  ostilità  con 
Cane,  e  i  giovani  andavano  dicendo,  che  il  ter- 
ritorio di  Vicenza,  devastato  dal  fuoco,  sarebbe 
caduto  in  potere  di  Padova,  che  Cane  avea  po- 
sto ogni  fiducia  nei  luoghi  fortificati,  perchè  non 
avrebbe  mai  osato  di  venire  alle  armi  in  campo 
aperto  coi  Padovani;  tanto  era  grande  il  va- 
lore di  questi  !  Vicenza  in  breve  sarebbe  stata 
.presa  ;  Verona  e  la  Lombardia  avrebbero  obbe- 
dito ai  comandi  di  Padova.  Consigliassero  adun- 
que i  vecchi,  cui  la  tarda  età  è  maestra,  di 
muovere  verso  Vicenza,  né  di  tornare  indietro 
se  non  dopo  averla  vinta.  Il  ferro  si  doma  men- 
tre é  caldo  ;  l' ingiuria  si  vendica  mentre  è  re- 
cente. 


80  ALBERTINO   MUSSATO 

Alle  inliammate  parole  dei  giovani,  i  vecchi 
rispondevano  :  Avesse  voluto  il  cielo  che  i  Pa- 
dovani, signori  di  Vicenza,  avessero  procurato 
di  sostenere  i  Vicentini  nella  loro  libertà  anche 
col  soccorrerli.  Padova  ora  vivrebbe  in  pace: 
ne  il  Signor  di  Verona  sarebbe  stato  collocato 
dall'Imperatore  in  Vicenza,  il  che  può  essere 
causa  della  rovina  della  Marca  Trivigiana  ;  poca 
favilla  gran  fiamma  seconda.  Non  v'  ha  nulla 
che  si  faccia  agli  altri  che  non  possa  esser  fatto 
a  noi  stessi.  A  che  rallegrarsi  che  Vicenza  e 
Verona  vengano  devastate  dal  fuoco  ?  La  stes- 
sa cosa  potrebbe  accadere  a  Padova.  Si  faccia 
adunque  la  pace,  a  cui  tende  ogni  uomo,  come 
ad  ultimo  fine,  e  senza  cui  nulla  può  esservi 
di  lieto  !  Essi  avean  veduto  i  tempi  di  Ezzeli- 
no da  Romano,  erano  stati  spettatori  delle  cru- 
deltà di  quel  feroce.  Chi  poteva  assicurare  che 
in  causa  della  guerra  non  si  ritornasse  sotto 
un  dominio  pari  a  quello?  I  giovani  allevati 
in  pace,  alieni  da  ogni  arte  guerresca,  cercas- 
sero la  pace  ;  poiché  nella  guerra  il  loro  ardore 
giovanile  potrebbe  condurre  a  rovina. 

Tali  saggi  consigli  i  giovani  schernivano 
dicendo  :  (Costoro  sono  rimbambiti,  poiché  non 
vogliono  vendicarsi  dei  nemici  di  Padova  ;  a- 
scoltiamo    il    consiglio    di    coloro    che    voglio- 


CAPITOLO    TERZO  81 

no  Vicenza  o  che  bramano  di  vivere  con 
onore. 

L' entusiasmo  per  la  guerra  s' era  fatto  in 
breve  così  grande  che  nessuno,  per  timore  della 
morte,   osava  far  parole  di  pace   ^). 

La  defezione  di  Padova  ad  Arrigo  era  già 
stata  notilicata  il  21  febbraio  1312,  per  let- 
tera a  Firenze,  eh'  era  il  capo  del  partito  guel- 
fo ~),  e  le  ostilità  fra  Padova  e  Cane  ruppero 
col  principio  di  marzo  dello  stesso  anno.  Il  Mus- 
sato ebbe,  come  vedremo,  parte  grandissima  in 
quelle  lotte;,  nelle  quali  si  mostrò  non  meno  va- 
loroso colla  spada  di  quello  che  si  fosse  mo- 
strato colla  parola  nelle  ambascerie  e  nelle 
pubbliche  adunanze. 

I  Padovani  fecero  dapprima  scorrerie  nel  ter- 
ritorio vicentino  e  veronese,  ove  devastarono  e 
abbruciarono  ogni  cosa.  Capitanati  dal  Conte 
Rizzardo  Vinciguerra  veronese,  nemico  acerri- 
mo di  Cane,  s' impadronirono  dei  castelli  di 
Montagnana  e  di  Cologna.  Imbaldanziti  da  que- 
sti successi,  volsero  quindi  il  pensiero  a  Vicen- 
za. Da  certe  congetture  stimavano  che  i  Vicen- 
tini fossero  già  stanchi   della  signoria  di  Cane 


1)  Cori.  De  Bisputatione  semiin   cion  jiivenibus  et 
quasi  prophetia  futurorian.  Lib.  I.  Gap.  XVI. 

2)  Bonaini  Ada  Henrici  VII.  1877. 

6 


82  ALBERTINO    MUSSATO 

e  pentiti  d^ essersi,  con  poca  prudenza,  sottratti 
al  dominio  di  Padova.  Pensavano  i  Padovani: 
se  noi  ci  accostiamo  con  grosso  esercito  alla 
città  e  promettiamo  ai  Vicentini  di  perdonar 
loro  ogni  trascorso,  purché  si  sottomettano  di 
nuovo  al  nostro  potere,  è  certo  eh'  essi  si  ri- 
bellano a  Cane  e,  scosso  l'abborrito  giogo,  si 
danno  a  noi.  Animati  da  questa  speranza,  ca- 
valcarono verso  Vicenza.  Giunti  al  ponte  di 
Quartesolo  si  soffermarono  e,  non  vedendo  no- 
vità alcuna  dalla  parte  di  Vicenza,  mandarono 
innanzi  un  drappello  di  fanti  leggeri  ad  esplo- 
rare come  stessero  le  cose  di  là  dal  fiume.  Fatti 
mille  passi,  i  fanti  videro  venirsi  incontro  i  Vi- 
centini, coi  vessilli  imperiali  e  colle  insegne  de- 
gli Scaligeri,  divisi  in  due  schiere,  l'una  a  poca 
distanza  dall'altra.  Gli  esploratori  non  si  per- 
dettero d'animo  ;  ma,  senza  por  tempo  in  mez- 
zo, vennero  a  lotta,  benché  ineguale,  coi  ne- 
mici. La  battaglia  fa  incominciata  con  alte  gri- 
da da  una  parte  e  dall'altra.  I  Vicentini,  dopo 
breve  combattimento,  furono  volti  in  fuga  ;  non 
pochi  rimasero  morti  sul  campo. 

Cangrande,  intesa  la  disfatta,  volò  da  Ve- 
rona a  Vicenza,  e  poiché  sospettava  che  ne 
avesse  avuto  colpa  la  fazione  dei  guelfi  Vicen- 
tini, ne  dannò  a  morte  parecchi,   ad  altri  im- 


CAPITOLO    TERZO  83 

pose  grosse  taglie  ;  quelli  che  s' erano  sottrat- 
ti colla  fuga  alla  •  vendetta,  n'ebbero  pubbli- 
cati i  beni  e  furono  dichiarati  nemici  dell"  Im- 
pero ^). 

I  Padovani  incoraggiati  dalla  vittoria,  si  vol- 
sero con  tutto  Tesercito  a  Marostica,  terra  del 
distretto  vicentino,  e,  dopo  averla  espugnata, 
tentarono  di  muovere  l'assalto  alla  rocca,  posta 
in  luogo  eminente.  Due  giorni  durò  quell'as- 
salto, dopo  i  quali,  vedendo  gli  assedianti  che 
le  spese  avrebbero  superato  di  gran  lunga  il 
vantaggio  della  vittoria,  desistettero  dall'im- 
presa. Il  Mussato  fu  veduto  in  quell'occasione, 
aiutato  da'  suoi,  spingere  sull'  ultima  cima  di 
quel  colle  un  ariete  da  collocarsi  alle  porte  del 
castello.  L'ariete  in  mezzo  alla  grandine,  onde 
lo  saettavano  quei  terrieri^  già  stava  per  toc- 
care la  cima,  allorché  Albertino,  guardandosi 
intorno,  si  vide  abbandonato  con  soli  dodici  va- 
lorosi. Sentendosi  impotente  alla  diffìcile  impre- 
sa, dovette  cedere  e  ritirarsi  -).  Questi  fatti 
avvennero  nell'aprile  del   1312. 

Cangrande,  desideroso  di  vendetta,  riunì  un 
grosso  esercito,  composto  di  Mantovani,  di  Ve- 


1)  Hist.  Aiig.  Lib.  IV.  Rub.  VI.  Cort.  Lib.  I.  Cap.  XV, 

2)  De  Geslis  Hai.  ecc.  Lib.  IV.  Rub.  II. 


84  ALBERTINO   MUSSATO 

ronesi,  di  Vicentini,  e  corse  ad  espugnare  il 
castello  di  Mota  che  apparteneva  ai  Padovani. 
In  breve  il  castello  s' arrese,  e  Demetrio,  clie 
n'  era  il  Signore,  fu  fatto  prigione  e  mandato 
à  Vicenza,  dove  mori  in  carcere.  Lo  Scaligero 
si  volse  quindi  a  Camisano  ;  ma,  respinto  da 
Martino  Cane,  dovette  ritirarsi  ^).  Poco  ap- 
presso prese  col  suo  esercito  la  via  diretta  per 
Padova  e  devastò  lungo  il  cammino  quante  più 
ville  potè.  I  Padovani  già  se  lo  vedevano  alle 
porte  della  città,  e  n'erano  spaventati,  allorché 
il  valoroso  Rizzardo  Vinciguerra,  riunito  l'eser- 
cito padovano,  seppe  opporsi  a  Cane,  con  tanta 
efficacia,  che  questi  non  potendo  sostenerne  l'im- 
peto, mandò  in  fretta  per  soccorso  a  Guarnieri 
di  Homburg,  vicario  imperiale  di  Lombardia. 
A'enne  tosto  Guarnieri  e,  dopo  avere  per  un 
giorno  e  mezzo  devastato  col  suo  esercito  il 
territorio  padovano  e  abbruciate  le  ville  di  Ro- 
volon  e  di  Zovon,  carico  di  bottino,  ritornò 
senz'  altro  alla  sua  sede  ~). 

I  Padovani  intanto  s' erano  uniti  col  mar- 
chese Francesco  d'Este  e  con  Guecello  da  Ca- 
mino, Sicrnore  di  Treviso,  Feltro  e  Belluno,  af- 


1)  Hist.  Aug:  Lib.  VI.  Rub.  II.  e  III. 
2j  Hist.  Aug.  Lib.  VI.  Rub.  Vili,  e  IX. 


CAPITOLO    TERZO  85 

fine  d'intraprendere  una  nuova  spedizione  con- 
tro Vicenza.  Padova  a  que'  giorni  era  piena 
di  fiducia  nelle  sue  forze  e  presagiva  bene  del 
suo  avvenire,  poiché  gli  avvenimenti  le  si  vol- 
gevano favorevoli.  L' Imperatore  era  lontano  ; 
Rizzardo  da  Camino,  vicario  imperiale  di  Tre- 
viso, Feltre  e  Belluno,  era  stato  ucciso,  e  suo 
fratello,  che  gli  era  successo  nella  Signoria, 
aveva  rinnovato  immediatamente  l'alleanza  con 
Padova. 

Stava  Rizzardo  giuocando  agH  scacchi,  come 
era  costume  dei  nobili  d' allora,  quando  gli  si 
avvicinò  un  contadino  che,  tratta  di  sotto  la 
veste  una  ronca,  lo  percosse  mortalmente  nel 
capo.  Il  contadino  fu  fatto  a  brani  dagli  astan- 
ti. Si  disse  che  fosse  stato  mandato  da  alcuni 
nobili  trevigiani,  che  erano  fra  i  più  diletti  a 
Rizzardo  ^).  Guecello,  successo  a  lui  nella  Si- 
gnoria per  voto  comune,  rinnovò,  come  dicem- 
mo, l'alleanza  coi  Padovani,  i  quali,  col  suo 
aiuto   e   con   quello   del   Marchese  di   Este,   si 


1)  Cort.  Lib.  I.  Gap.  XVIII. 

A  costui  e  alla  sua  morte  allude  l'AUgbieri  nei  versi 

E  dove  Sile  e  Cagnan  s"  accompagna 
Tal  signoreggia  e  va  con  la  test'  alta 
Che  già  per  lui  carpir  si  fa  la  ragna. 

(Paradiso  IX). 


86  ALBERTINO   MUSSATO 

avanzarono  di  nuovo  nel  giugno  1312  verso 
il  ponte  di  Quartesolo,  depredando  ogni  cosa  al- 
rintorno.  Furono  n:iandati  innanzi  alcuni  uomi- 
ni, fra  i  quali  il  Mussato,  ad  esplorare  se  Vi- 
cenza potesse  essere  espugnata.  Questi  riferi- 
rono non  doversi  insistere  nell'idea  d'asse- 
diare la  città,  poich'  essa  era  fortemente  mu- 
nita all'  intorno,  ed  oltre  a  ciò  Cane,  al  di 
dentro,  con  grande  numero  di  soldati,  ne  ve- 
gliava alla  difesa.  Fu  stabilito  di  ritirarsi;  ma 
alcuni  audaci  vollero  spingersi  prima  al  ponte 
di  Longare,  devastando  i  campi  dei  nemici. 
Benadossio  da  Parma,  eh'  era  a  capo  di  quelli, 
gridava  perchè  desistessero  dalla  temeraria  im- 
presa^ essendo  i  nemici  nascosti  dentro  le  tor- 
ri; ma  poiché  vide  che  nessuno  gli  dava  ascol- 
to, corse  anch'  egli  sul  ponte.  I  Vicentini  usci- 
rono d'improvviso  dalle  torri  e  si  scagliarono 
addosso  ai  Padovani,  molti  dei  quali-  precipi- 
tarono nel  fiume  e  fra  gli  altri  Benadossio, 
che  mori  annegato. 

Saputa  la  trista  nuova,  i  Padovani  manda- 
rono in  soccorso  dei  loro  fratelli  buon  numero 
di  mercenarii,  che  mutarono  le  sorti  della  bat- 
tagha.  I  nemici  furono  messi  in  fuga  ;  moltis- 
simi restarono  sul  campo.  L' esercito  padovano 
andò  ad  accamparsi  alla  villa  di  Longare,  col- 


CAPITOLO   TERZO  87 

r intenzione  di  abbattere  l'argine,  oltre  il  quale 
i  Vicentini  aveano  fatto  deviare  il  Bacchigliene 
a  danno  di  Padova.  Cane  volò  da  Vicenza  a 
difesa  di  quell'argine  e,  respinti  i  nemici,  fece 
uscir  le  acque  del  fiume  che  allagarano  le  cir- 
costanti campagne.  I  Padovani,  veduto  riuscir 
vano  ogni  tentativo,  fortificato  il  castello  di 
Montegalda,  a  presidio  dei  loro  confini,  dopo 
piccole  rappresaglie,  si  ritirarono  in  città  ^). 
Ma  il  desiderio  di  rimettere  nell'  antico  alveo 
il  Bacchiglione  non  li  lasciava  aver  pace.  Verso 
la  fine  di  luglio  di  quell'anno,  essi  costruirono 
di  nottetempo  presso  Longare  un  ponte  di  le- 
gno, e  sul  far  dell'  aurora  passarono  il  fiume, 
avanzandosi  con  suoni  di  trombe  e  con  gridi 
di  allegrezza.  Giunti  a  Longare  fecero  sosta, 
e  mandarono  innanzi  alcuni  esploratori,  perchè 
vedessero  se  dalla  parte  di  Vicenza  si  manife- 
stasse nessun  movimento.  Questi  s'abbatterono 
per  via  in  alcuni  nemici  a  cavallo,  parte-^dei 
quali  misero  in  fuga,  parte  fecero  prigionieri. 
Dopo  di  ciò  i  Padovani  fecero  intendere,  per 
la  seconda  volta,  ai  Vicentini  che  avrebbero 
loro  perdonato  ogni  cosa,  purché  fossero  ritor- 


1)  Hist.  Aug.  Lib.  VI.  Rub.  XI.  e  XII.  Con.  Lib.  I. 
Gap.  XVIII 


88  ALBERTINO    MUSSATO 

nati  all'antica  obbedienza;  ma,  non  avendo 
avuto  risposta,  si  diedero  a  devastare  i  campi 
e  ad  incendiare  le  ville  del  territorio  di  Vi- 
cenza, dopo  di  che  rimisero  il  Bacchiglione  nel 
suo  letto. 

L'esercito  si  volse  quindi  a  Lonigo.  Alcuni 
degli  abitanti,  che  parteggiavano  pel  Conte  Vin- 
ciguerra, avevano,  d'intesa  coi  Padovani,  ap- 
piccato il  fuoco  alla  villa,  perchè  coloro  che 
erano  a  difesa  della  rocca,  percossi  dal  terro- 
re, si  arrendessero  più  facilmente.  Ma  la  cosa 
non  ebbe  effetto;  poiché,  non  ostante  la  villa 
ardesse  quasi  per  intero,  la  rocca  fu  difesa 
con  tanto  valore  dal  presidio  veronese,  postovi 
da  Cane,  che  i  Padovani  dovettero  abbando- 
nare r  impresa.  Il  Mussato  ascrive  a  colpa  dei 
suoi  concittadini  il  non  aver  superato  quella 
rocca.  Egli  dice  che,  vinto  Lonigo,  sarebbe  ca- 
duta anche  Vicenza  e  che  la  guerra  sarebbe 
stata  finita  ;  ma  i  Padovani  non  vollero  sfor- 
zarsi di  raggiungere  la  fortuna,  che  loro  arri- 
deva. In  quel  giorno  i  terrieri  aveano  già  ab- 
bandonato i  ripari  e  le  adiacenze  ali"  intorno, 
quando  il  Mussato  si  gettò  nelle  fosse,  ecci- 
tando i  soldati  a  seguirlo.  Neil'  uscire  vide  le 
soldatesche  che  fuggivano.  Come  furibondo  le 
richiamò  indietro   e   le   rimproverò    acremente, 


CAPITOLO    TERZO  89 

additando  loro  il  castello  mezzo  espugnato.  In- 
vano !  Cariche  di  preda  continuavano  la  fuga  ^). 
L'esercito  si  rivolse  quindi  all'assedio  di  Poiana 
terra  fortissima,  dove  Albertino  diede  novella 
prova  del  suo  valore. 

Era  Poiana  tra  i  confini  di  Padova  e  quelli 
di  Vicenza.  In  essa  riparavano,  come  a  sicuro 
asilo,  quanti  eran  ladri  ed  assassini  nei  din- 
torni, i  quali  uscivano,  di  tempo  in  tempo,  a 
depredare  le  circostanti  campagne,  mettendo  lo 
spavento  negli  abitanti.  Ai  Padovani  importava 
moltissimo  l'occupar  quella  terra,  una  delle  più 
munite  di  Cane,  per  aver  libero  il  passo,  ogni 
qualvolta  avessero  voluto  entrare  per  quella 
parte  nel  territorio  vicentino,  il  che  fino  a  quel 
punto  era  stato  loro  impedito.  La  cinsero  per- 
tanto d'assedio.  I  difensori  opposero,  per  una 
intera  giornata,  valida  resistenza,  scagliando 
pietre  e  frecce  senza  numero  sugli  assedianti, 
per  modo  che  questi  cominciavano  a  disperare 
della  riuscita.  Quand'  ecco,  sul  far  della  sera, 
sopraggiunse  Mussato,  il  quale,  impugnata  la 
bandiera  del  quartiere  di  Ponte  molino  e  fatte 
gettare  attraverso  le  fosse  lunghe  travi  che 
servissero    come  di  ponte,  s'aperse  la  via   col 


1)  De  Gestis  Ital.  ecc.  Lib.  IV.  Rub.  II. 


90  ALBERTINO  MUSSATO 

ferro  e  superò  le  mura.  I  difensori,  atterriti 
dallo  spavento  e  dalla  violenza  dell'attacco^  ce- 
dettero, ed  Albertino  fece  gettare  il  fuoco  sui 
tetti  delle  case.  Accorso  in  suo  aiuto  il  rima- 
nente dell'  esercito  padovano,  i  nemici  furono 
inseguiti  fin  dentro  la  rocca,  espugnata  la  qua- 
le, la  vittoria  fu  completa. 

Il  Mussato,  che  parla  nelle  sue  storie  con 
giusta  compiacenza  di  questo  fatto,  si  lagna 
che  i  vinti  nemici,  i  quali  dovevano  esser  te- 
nuti prigioni, -siano  stati,  nel  giorno  seguente, 
lasciati  partire  con  ciò  che  possedevano  ^). 

Mentre  l'esercito  padovano  intendeva  all'as- 
sedio di  Poiana,  Cangrande,  con  forte  numero 
di  soldati;,  devastava  il  territorio  di  Padova. 
Aveva  già  preso  il  ricco  villaggio  di  Curtarolo, 
mettendolo  a  fuoco  e  facendo  strage  degli  abi- 
tanti, allorché,  avendo  inteso  che  Guecello  da 
Camino,  Pagano  della  Torre,  vescovo  di  Pa- 
dova, e  Gualpertino  Mussato,  abate  di  Santa 
Giustina,  venivano  in  soccorso  di  Curtarolo, 
abbandonò  la  preda  e  si  rifugiò  in  Vicenza.  I 
Padovani,  ritenendosi  superiori  di  forze  a  Ca- 
ne, capitanati  da  Guecello,  cavalcarono  a  Vil- 

t 
-^-  «^      > 

1)  nisf.  Aufj.  Li-b.  VII.  Rub.  X.  De  Geslis  Hai.  Lib. 
IV.  Rub.  II. 


CAPITOLO    TERZO  91 

laveria  e  quindi  proseguirono  fino  alle  porte 
di  Vicenza,  devastando  ed  incendiando  ogni 
cosa.  Cane  usci  dalla  città,  e  Guecello  avrebbe 
voluto  appiccar  battaglia  con  lui,  ma  ne  fu 
sconsigliato  per  la  vicinanza  della  città.  Verso 
la  fine  di  settembre  (1312)  per  la  via  di  Cit- 
tadella, l'esercito  ritornò  in  Padova   ^). 

Fino  a  questo  punto  le  sorti  della  guerra 
si  erano  mostrate  favorevoli  a  Padova,  tanto 
eh'  essa  si  riteneva  ormai  sicura  del  buon  esi- 
to, credendo  le  proprie  forze  superiori  a  quelle 
di  Cane,  di  cui  s' era  formato  un  assai  me- 
schino concetto  ')  ;  nò  la  sua  fiducia  sarebbe 
stata  fuori  di  proposito,  se  tutti  coloro  che  le 
si  professavano  amici,  fossero  stati  tali  vera- 
mente. Eir  ebbe  ad  accorgersi  ben  presto  che 
alcuni  di  coloro  ne'  quali  aveva  posta  maggior 
fede,  e  che,  meglio  degli  altri,  avrebbero  po- 
tuto giovarle,  piuttosto  che  essere  animati  dal 
desiderio  del  bene  di  lei,  miravano  al  proprio 
interesse  personale,  pronti  a  tradirla  ogniqual- 
volta si  fosse  presentata  ì"  occasione  propizia. 

Dicemmo  come  Guecello  da  Camino    avesse 


i)  Hisf.  Aug.  Lib.  VII.  Rub.  X.  e  XI.  Cort.  Lib.  I. 
Gap.  XYIII. 

2)  Paduani  relevanlur  in  alluni,  quasi  Dominum 
Canem  prò  nihilo  reputantes.  Cort.  Lib.  1.  Gap.  XIV. 


92  ALBERTINO    MUSSATO 

stretta  amicizia  coi  Padovani,  affine  di  com- 
battere con  essi  contro  Cangrande.  Di  quel- 
l'amicizia accolta  con  grande  entusiasmo,  i  Pa- 
dovani ebbero  a  pentirsi  ben  presto,  poiché  le 
esigenze  del  Signore  di  Treviso  divenivano,  di 
giorno  in  giorno,  più  esorbitanti.  I  meglio  av- 
veduti, tra  i  quali  il  Mussato,  capivano  molto 
bene  a  che  tendesse  Guecello,  e  gli  tenevano 
di  continuo  gli  occhi  addosso.  Lo  scopo  suo 
era  quello  di  farsi,  a  poco  a  poco,  Signore  di 
Padova  :  ma  questo  egli  intendeva  conseguire 
in  modo  che  i  Padovani  si  fossero  trovati  un 
bel  giorno,  quasi  senza  accorgersene,  sotto  il 
potere  di  lui,  impotenti  a  liberarsene.  La  sua 
intenzione,  pertanto,  non  differiva  punto  da  quel- 
la di  Cangrande,  sennonché  questi  era  un  ne- 
mico aperto  contro  il  quale  si  poteva  combat- 
tere fino  air  ultiuio,  prima  di  cedere  ;  mentre 
Guecello  copriva  i  suoi  malvagi  propositi  sotto 
la  maschera  dell'  amicizia. 

Con  un  tal  verme  roditore  nel  seno,  la  Re- 
pubblica non  avrebbe  potuto  durare  a  lungo, 
se  gli-  avveduti,  di  cui  dicemmo,  non  avessero 
posto  un  limite  alle  esigenze  di  Guecello.  Esa- 
gerando di  continuo  l'importanza  del  suo  aiuto 
ai  Padovani,  i  quali,  pur  di  tenerselo  amico, 
cercavano  di  onorarlo  in  tutti  i   modi  e  di  sod- 


CAPITOLO    TERZO  93 

disfare  ogni  suo  desiderio,  egli  aveva  ottenu- 
to, oltre  un  palazzo  in  città,  molte  e  ricche 
possessioni  dei  fuorusciti,  nonché  la  facoltà  di 
eleggere  il  Podestà,  come  difatti  lo  elesse  nel- 
la persona  di  Bornio  dei  Samaritani  bolognese 
suo  favorito.  Non  contento  di  tutto  questo, 
voleva  essere  nominato  capitano  supremo  della 
guerra,  con  pieno  potere  di  punire  i  trasgres- 
sori degli  ordini  militari,  adducendo  non  essere 
i  Padovani  avvezzi  alle  discipline  militari,  e 
quindi  poter  riuscire  dannosi  alla  Repubblica, 
qualora  non  avessero  chi  obbedire.  Nel  timore 
di  perdere  la  libertà,  i  Padovani  s'opposero  a 
questo  suo  desiderio,  ed  egli  tentò  allora  di 
pervenire  al  dominio  della  città,  allettando  a 
sé  i  più  valenti.  Ma  quando  vide  di  non  riu- 
scire a  nulla,  svelò  l'animo  suo  ambizioso:  Poi- 
ché gli  veniano  negate  quelle  cose  che  solo  a 
vantaggio  del  popolo  padovano  egli  chiedeva, 
avrebbe  provveduto  a  sé  stesso  ;  a  lui  bastava 
allontanare  i  nemici  da'  suoi  confini  e  difendere 
i  campi  trevigiani  ;  avrebbe  prestato  omaggio 
all'Imperatore,  né  avrebbe  nociuto  a  sé  stesso 
per  giovare  a  degli  ingrati.   — 

Egli  credeva  che,  all'intender  le  sue  minac- 
ce, i  Padovani,  disperando  delle  loro  forze,  gli 
avrebbero    concesso     quanto    domandava  ;    ma 


94  ALBERTINO   MUSSATO 

s'ingannò.  Essi  gli  mostrarono  apertamente  di 
non  curarsi  di  lui.  Guecello  sdegnato  si  ri- 
volse a  suo  cognato  Enrico  conte  di  Gorizia  e 
all'Arcidiacono  di  Aquileia,  che  parteggiava  per 
lo  Scaligero ,  affine  di  trattare  segretamente 
con  esso  loro,  per  far  lega  con  Cane  ;  la  qual 
cosa  non  appena  seppero  i  cittadini  di  Treviso 
si  sollevarono,  nella  tema  che  Cane  potesse 
diventare  signore  della  città  loro,  e,  prese  le 
armi  ,  cacciarono  Guecello  nel  dicembre  del 
1312    '). 

Le  trame  di  Guecello  contro  la  libertà  di 
Padova  furono  sventate  in  tempo  ;  ma  egli  non 
era  il  solo  che  cospirasse  a  danno  della  Re- 
pubblica, col  proponimento  di  farsi  signore  della 
città;  c'era  qualcun  altro  che  mirava  allo  stesso 
scopo,  usando  della  maggiore  astuzia. 

S'era  già  manifestata  in  molte  città  d'Ita- 
lia, che  si  reggevano  liberamente,  la  tendenza 
di  alcuni  fra  i  pricipali  cittadini  ad  acquistare 
la  signoria  assoluta.  Per  raggiungere  questo 
fine,  essi  cercavano  di  mostrarsi  più. che  mai 
teneri  della  libertà  e  grandezza  della  patria, 
largheggiavano  in  munificenze ,  profondevano 
in  lussi  e  in  feste,  alle  quali   potesse  prender 


1)  Hisl.  Aug.  Lib.  X.  Rub.  I. 


CAPITOLO   TERZO  95 

parte  anche  il  popolo,  affine  di  rendersi  a  que- 
sto sempre  più  accetti.  Per  tal  via  toccavano, 
a  poco  a  poco,  la  meta,  e  il  popolo  ingannato 
sentiva,  quando  meno  se  lo  sarebbe  aspettato, 
gravarsi  sul  collo  il  giogo  impostogli  dal  no- 
vello Signore.  In  Padova  c'era  più  d'uno  che 
aspirava  alla  Signoria,  e  che  vedeva  per  ciò, 
con  molto  piacere,  farsi,  di  giorno  in  giorno, 
peggiore  la  condizione  della  città  in  mezzo  a 
tanti  nemici.  Ma  qui  non  era  così  facile  riu- 
scire nell'intento  come  altrove.  Quei  cittadini, 
che  non  aveano  voluto  sottomettersi  all'Impe- 
ratore, non  avrebbero  sofferto  giammai  che  un 
loro  pari  esercitasse  sovr'essi  un  comando  as- 
soluto ;  coloro  poi  che  aveano  consigliato  la 
sommissione  ad  Enrico ,  primo  fra  i  quali  il 
Mussato,  avrebbero  impedito  con  ogni  sforzo 
la  Signoria  di  un  solo,  per  evitare  la  quale, 
più  che  per  altro ,  avevano  forse ,  con  tanta 
insistenza,  patrocinata  la  causa  dell'  Imperato- 
re. E  poi  l'assoggettarsi  alla  tirannia  di  una 
sola  famiglia  era  per  Padova,  come  osserva  il 
AVychgram,  un  regresso  ;  ben  altra  cosa  era 
l'assoggettarsi  all'alta  Signoria'  dell'  Imperato- 
re, sotto  la  quale  ciascuna  città  non  era  che 
un  membro  di  un  gran  tutto,  senza  esser  co- 
stretta a  rinunziare  alla  propria  particolare  co- 


96  ALBERTINO    MUSSATO 

stituzione  ^).  Egli  è  per  ciò  che  il  Mussato,  al 
quale  non  isfuggivano  le  intenzioni  dei  malva- 
gi, strappò  dal  viso  la  maschera  ad  uno  di 
questi  pretendenti,  il  quale,  mentre  avrebbe  po- 
tuto tornare  col  suo  ingegno  e  colle  siie  ric- 
chezze di  utilità  grandissima  alla  patria,  se- 
gretamente la  tradiva  per  porre  sé  stesso  a 
capo  della  città.  Era  questi  Nicolò  da  Lozzo, 
del  quale  Albertino  ci  dà  nella  sua  Storia  il 
seguente  ritratto  : 

«  V'era  in  Padova  un  uomo  di  nobilissima 
stirpe,  Nicolò  da  Lozzo,  di  mirabile  eloquenza, 
di  profondissimo  ingegno,  d'immensa  magna- 
nimità, di  liberalità  profusa.  Ma  lo  stimolo 
d' una  irrequieta  invidia  e  un'ambizione  senza 
conlini  traviavano  queste  virtù.  Egli  abborriva 
le  civili  istituzioni,  ad  eccezione  di  quelle  di 
cui  era  stato  autore  egli  stesso  :  segretamente 
intollerante  di  chiunque  gli  fosse  pari  o  mag- 
giore nella  città,  riteneva  suo  biasimo  l'altrui 
lode,  e  perciò  soleva  odiare  i  buoni  ed  amare 


1)  Dass  die  Unterordiiung  uuter  die  Tyrannis  eines 
einzigeu  Geschleclites,  wie  die  Dinge  lagen,  fiir  Padua 
einen  Riickschritt  bezeicdiiien  iiiusste  war  klar.  Ein  An- 
deres  war  die  Oberherrscliart  des  Kaisers,  untar  die 
jede  Stadt  nur  das  Gleid  eiaes  ungelieuren  Gaazen  oline 
Verzicht  auf  selbstàndige  Verfassung  bedeutete.  pag.  34. 


CAPITOLO   TERZO  97 

gli  adulatori.  Nessuno  era  migliore  di  lui,  quan- 
do l'occasione,  non  la  virtù,  lo  volgesse  al  be- 
ne ;  nessuno  peggiore,  quando  si  trattasse  di 
nuocere.  Quante  volte  in  Senato  la  sua  elo- 
quenza corroborava  cause  inferme  !  Nell'uscir 
dal  Pretorio  coloro  stessi,  i  quali  avevano  san- 
cito coi  loro  voti  i  decreti  sostenuti  da  lui,  li 
detestavano;  né  il  frequente  pentimento  li  ri- 
teneva dal  ricadere  in  appresso  nella  stessa 
colpa.  Scoperto  infedele,  superava  con  inganne- 
vole astuzia,  gli  sforzi  di  chi  s'era  fidato  in 
lui.  Comperava  i  fautori  coi  doni,  quali  arric- 
chendo, in  onta  alla  religione,  con  sacre  pre- 
fetture e  convertendo  per  abuso  le  ceremonie 
divine  a  comodo  dei  secolari,  quali  con  annue 
largizioni,  fino  a  consumare  i  suoi  granai  e  le 
sue  vettovaglie  ;  alcuni  arricchiva  colle  perdite 
della  Repubblica,  altri  col  patrimonio  dei  po- 
veri. Macchinatore  di  grandi  cose,  coll'aiuto  di 
costoro  faceva  in  città  ciò  che  meglio  gli  pia- 
ceva, e  molto  giovava  alle  sue  imprese  la  fa- 
cilità che  eravi  allora  di  servire.  Ma  quantun- 
que fazioso,  non  era  mai  stabile  in  un  par- 
tito ;  seguiva  sempre  gli  eventi  più  fortunati. 
Ossequente  alla  plebe  contro  gli  ottimati,  men- 
tre prevalsero  i  plebisciti;  in  consorzio  cogli  ot- 
timati e  feroce  contro  la  plebe,  se  questa  soc- 


98  ALBERTINO    MUSSATO 

combesse,  passava,  con  alterna  vicenda,  al  par- 
tito più  felice,  fosse  questo  guelfo  o  ghibellino. 
Ora  amico  ora  nemico  dei  Signori  di  Verona, 
secondo  le  varie  vicissitudini  dei  tempi.  Era 
tenuto  grande  per  questo  miscuglio  di  vizii  e 
di  virtù.  Né  deesi  lasciar  da  parte  T  esterno 
d"  un  uomo  cosi  singolare.  Biondo ,  rossigno, 
aveva  occhi  bianchi,  mobili,  sporgenti,  labbra 
tumide,  petto  largo^  ventre  voluminoso,  gambe 
gonfie,  pustolose,  sempre  infermicele  ;  statura 
piccola,  ma  robusta,  vesti  lunghe  sino  a  terra 
sovraccariche  d'ornamenti  ^).» 

Costui,  contro  gli  sforzi  del  Mussato  per  per- 
suaderli del  contrario ,  aveva  istigato  i  Pado- 
vani a  ribellarsi  all'Imperatore,  non  già  per- 
ch'egli  credesse  di  salvare,  in  tal  modo,  la  P^e- 
pubblica,  ma  per  giovare,  se  fosse  stato  pos- 
sibile a  sé  stesso  nei  rivolgimenti  che,  in  causa 
della  defezione ,  sarebbero  avvenuti.  Allorché 
Vicenza  cadde  in  potere  di  Cangrande  corse 
fama  ch'egli  fosse  stato  complice  di  quel  fatto. 
Il  popolo  lo  voleva  morto,  e  fu  necessaria  tutta 
l'autorità  dei  principali  cittadini,  fra  i  quali  il 
Mussato,  per  salvarlo  dalla  proscrizione.  Pri- 
ma di   tutto   non  v'era    piena    certezza  ch'egli 


1)  Hist.  Ai'Q.  Lib.  X.  Rub.  II. 


CAPITOLO    TERZO  ^  99 

fosse  colpevole;  in  secondo  luog-o ,  potente  co- 
m'era, avrebbe  potuto,  insieme  coi  nemici,  sov- 
venire i  ribelli  a  danno  della  città.  Ma  la  le- 
zione" non  ebbe  alcuna  efficacia  suir  animo  di 
lui,  poiché  non  cessò  di  cospirare  continuamente 
insieme  coi  faziosi,  fìngendosi  ghibellino  coi 
ghibellini,  guelfo  coi  guelfi,  per  meglio  coprire 
le  sue  trame  e  riuscire  nell'intento.  Nelle  pub- 
bliche adunanze  sparlava  di  Cane,  lo  diceva  ve- 
nuto su  dal  fango,  disceso  da  un  sordido  ven- 
ditore di  olio,  lo  chiamava  atroce,  scellerato, 
intollerabile  e,  quasi  ciò  non  bastasse,  propose 
in  Consiglio  di  dare  diecimila  fiorini  d'oro,  in- 
sieme con  molti  privilegi,  a  chi  lo  avesse  uc- 
ciso. Frattanto  in  segreto  trattava  collo  Sca- 
ligero a  danno  della  Repubblica.  D'accordo  col 
suo  degno  amico  Antonio  da  Curtarolo,  il  quale 
reggeva  Este  in  nome  di  Padova,  aveva  sta- 
bilito di  dare,  a  un  dato  giorno,  in  mano  a 
Cane  Lozzo,  Este  e  Monselice,  ed  intanto  mu- 
niva il  suo  castello  a  spese  dei  Padovani.  Nelle 
taverne  e  nelle  piazze  già  s'incominciava  a  su- 
surrare  di  tradimento,  allorché  i  principali  della 
città,  vedendo  come  fosse  stoltezza  il  fidarsi  di 
colui,  dal  quale  erano  stati  ingannati  tante  vol- 
te, si  riunirono  in  consiglio  a  discutere  sul  mo- 
do di  evitare  il  pericolo.  I  più  furono  d'avviso 


100  ^  ALBERTINO   MUSSATO 

si  dovesse  dissimulare  la  cosa  e  mandare  a  Ni- 
colò due  messi,  che  lo  invitassero  a  Padova 
per  affari  della  Repubblica.  Al  Mussato,  ch'era 
il  più  avveduto  del  Consiglio,  e  che  compren- 
deva molto  bene  a  che  tendesse  isicolù,  parve  in- 
sufficiente tale  misura,  e,  pur  approvando  che 
si  mandassero  a  Nicolò  i  due  messi ,  propose 
che  si  spedisse  nascostamente,  di  notte,  parte 
della  milizia  padovana  a  Lozzo,  affinchè  occu- 
passe il  castello  prima  che  vi  entrassero  i  ne- 
mici; si  lasciasse  poi  piena  libertà  a  Nicolò  di 
recarsi  a  Padova,  o  di  rimanere  a  Lozzo.  Il 
provvedimento  parve  esagerato  al  Consiglio, 
né  fu  accolto  ;  si  temeva  la  potenza  di  Nicolò, 
e  si  cercava  renderlo  benigno  alla  Repub- 
blica. 

Quanto  avesse  ragione  il  Mussato  e  come  la 
sua  proposta  fosse  assennata  dimostrarono  i 
fritti  non  molto  dopo.  Furono  adunque  spediti 
a  Lozzo  i  due  raess^'i/  ai  quali  Nicolò  promise 
ch'entro  tre  giorni  si  sarebbe  recato  a  Padova. 
Frattanto  stette  aspettando  il  Conte  di  Ilom- 
burg,  che  doveva  comparire  col  suo  esercito 
e  con  Cane;  ma  poiché  vide  che  tardava, 
stette  incerto  sul  da  farsi.  Este  era  bene  assi- 
curata dalle  milizie  padovane,  ed  egli  pensò  di 
affrettare  la  venuta  di  Cane  a  Lozzo,  il  qua- 


CAPITOLO   TERZO  101 

le  vi  andò.  Ciò    avvenne  ai  22    dicembre    del 
1312. 

Appena  saputa  la  cosa,  i  Padovani  cavalca- 
rono verso  Lozzo.  Per  via  scorsero  globi  di 
fumo  innalzarsi  dalla  villa  di  Arqucà,  incendiata 
dalle  milizie  di  Cane,  capitanate  da  Antonio 
da  Curtarolo.  Fatti  certi  del  sito  pel  quale 
erano  passati  i  nemici^  ne  chiusero  tutti  gli 
aditi,  sicché  quelli  furono  costretti  ad  arren- 
dersi. Antonio  da  Curtarolo  dovette  alla  cono- 
scenza ch'egli  avea  di  quelle  strade  e  alla  ce- 
lerità del  cavallo,  se  potè  sfuggire  alla  vendetta 
dei  Padovani  e  ricoverarsi  in  Lozzo.  Esultanti 
per  la  vittoria,  si  ridussero  questi  coi  prigio- 
nieri, sul  far  della  sera,  in  Este,  donde,  colle 
macchine  da  guerra  e  con  un  grosso  esercito, 
mossero  all'assedio  di  Lozzo.  Ma  la  fortuna  fu 
loro  nemica  ;  poiché  il  freddo  intenso  di  quella 
notte  impedì  che  potessero  prendere  il  castello. 
Il  giorno  appresso  corse  voce  che  il  Conte 
Guarnieri  di  Homburg  si  avvicinava  a  Verona, 
coi  soldati  di  Lombardia,  in  aiuto  di  Cane.  A 
questa  notizia  i  Padovani  s'affrettarono  di  mu- 
nire Este  e  Monselice.  Guarnieri,  accompagnato 
da  Cane,  entrò  infatti  poco  dopo  in  Lozzo.  Di 
là  uscì  co'  suoi  a  devastare  le  ville  poste  ai 
piedi  di  Venda,  e  prese   d'assedio    il    castello 


102  ALBERTIXO   MUSSATO 

di  Nicolò  di  Castelnovo,  difeso  invano  da  suo 
figlio  Albertino.  I  Signori  di  Castelnovo  erano 
consanguinei  del  traditore  di  Lozzo  ^). 

Cane,  fatto  baldanzoso  pei  lieti  avvenimen- 
ti, invitò,  per  lettera,  i  Padovani  ad  una  bat- 
taglia in  campo  aperto.  Confortati  dal  loro  va- 
loroso Podestà,  Bornio  de'  Samaritani,  essi  ac- 
cettarono e  gli  risposero,  che  scegliesse  egli 
stesso  il  luogo  opportuno.  Cane  scelse  la  pia- 
nura a  pie  di  Montegalda  :  ma  voleva  la  bat- 
taglia nel  giorno  seguente.  I  Padovani,  che 
aveano  l'esercito  disperso  parte  ad  Este  parte 
a  Monselice  e  in  altri  luoghi,  domandarono 
tre  giorni  di  tempo.  Lo  Scaligero  non  ne  volle 
sapere  e,  lasciato  Lozzo,  andò  co'  suoi  a  Vi- 
cenza ;  Guarnieri  fece  ritorno  in  Lombardia  *).' 

A  vendicarsi  di  Cane,  che  avea  loro  tolto 
Lozzo,  i  Padovani  cavalcarono  segretamente  a 
Legnago  ;  ma  non  avendo  potuto  prenderlo, 
perchè  difeso  valorosamente,  distrussero  ogni 
cosa  all'intorno  ed  abbruciarono  molte  ville  bel- 
lissime, dopo  di  che  ritornarono  ad  Este  ca- 
richi di  preda.  Ciò  avvenne  il  2  feb.  1313  ^). 

Il    traditore    di    Lozzo    ebbe    la    ricompensa 


1)  Hist.  Aug.  Lib.  X.  Rub.  IV. 

2}  Eisl.  Aug.  Lib.  X.  Rub.  V. 

3)  Hist.  Av.g.  Lib.  XIL  Rub.  L  Cort.  Lib.  l.  Gap.  XIX. 


CAPITOLO   TERZO  103 

che  si  meritava.  Cane,  nonché  mostrargU  gra- 
titudine, gli  abbruciò    il  castello    ed  i  palazzi. 

Duplice  ragione  ve  lo  indusse  :  le  spese  in- 
sopportabili e  la  paura  d'un  assedio  da  parte 
dei  Padovani  ^). 

Né  Nicolò  fa  il  solo  nemico  interno,  contro 
cui  Padova  dovette  lottare.  La  tendenza  a  ri- 
bellarsi alla  Repubblica  si  manifestava  in  molti 
dei  principali  cittadini  ogni  giorno  più..  Soli- 
mano de  Rossi,  benché  nato  di  famiglia  guelfa, 
aderiva  alla  fazione  dei  ghibellini,  e  perciò 
era  malcontento  del  modo  con  cui  veniva  retta 
la  città.  Possedeva  un  forte  castello  nella  villa 
di  Brazolo  e,  poiché  non  voleva  pagare  le  im- 
poste che  le  condizioni  della  Repubblica  in  que' 
giorni  esigevano,  sofferse  di  demolire  le  proprie 
case  in  città,  e  si  ritrasse  superbamente  nel 
suo  castello.  I  Primati  stabilirono  di  richia- 
marlo all'ordine  e  di  venire  con  esso  lui  ad  una 
conciliazione,  ma  egli  si  recò  dall'Abate  di  S. 
Giustina  e  lo  assicurò  non  avere  alcuna  mal- 
vagia intenzione  contro  la  Repubblica.  Gli  diede 
in  pegno  un  proprio  tiglio  giovinetto,  cui  l'Abate 
avrebbe  potuto  flagellare  e  perfino  uccidere,  se 


1)  Hist.  Aug.  Lib.  XII.  Rub.  III.  Il  Ferreto  dice  che 
fu  Nicolò  stesso  che  diede  fuoco  al  castello,  vedendosi 
impotente  a  difenderlo. 


104  ALBERTINO    MUSSATO 

egli  avesse  mai  tentato  di  ribellarsi  alla  Re- 
pubblica ;  invocava,  in  cambio,  il  patrocinio  del- 
l'Abate contro  i  propri  avversarli  e  principal- 
mente in  difesa  del  suo  castello.  L'Abate  ac- 
colse benignamente  le  discolpe  di  Solimano,  ab- 
bracciò padre  e  figlio  e  li  presentò  ai  Primati. 
Combinata  ogni  cosa,  Solimano,  lasciato  il  fi.- 
glio  in  ostaggio  all'Abate,  se  ne  tornò  a  Bra- 
zolo.  In  quella,  fece  ritorno  da  Legnago  col- 
l'esercito  il  Podestà  Bornio,  il  quale,  saputa 
la  cosa,  disse  non  potersi  permettere  che  un 
cittadino,  per  aver  dato  in  ostaggio  il  proprio  fi- 
glio, vivesse  secondo  una  legge  particolare,  con- 
tro i  costumi  e  le  istituzioni  della  Repubblica. 
Solimano  citato  a  scolparsi  ed  invitato  all'ob- 
bedienza, fìnse  malattia,  per  cui  Bornio,  per 
decreto  dei  Primati,  mosse  di  nottetempo  colla 
milizia  dal  quartiere  di  Torricelle  verso  Bra- 
zolo,  conducendo  seco  il  figlio  di  Solimano  e 
due  figliolette,  una  di  cinque  e  l'altra  di  tre 
anni,  per  appenderli  alle  forche  in  cospetto  del 
padre,  o  per  opporli  a'  suoi  dardi,  s'egli  non 
si  fosse  arreso.  Solimano  tenne  testa  dapprima 
a'  suoi  concittadini  ;  ma,  poiché  vide  tornargli 
inutile  ogni  sforzo,  ricorse  ad  un'astuzia:  do- 
mandò di  consultare  l'Abate  di  S.  Giustina  e 
Zauiboneto  Capodivacca  suo  parente.  Fatto  ca- 


CAPITOLO    TERZO  105 

lare  il  ponte  levatoio,  andò  loro  incontro-  con 
placido  volto;  quand'ecco,  nell'atto  che  stava 
per  abbracciare  l'Abate,  il  ponte  fu  alzato,  se- 
condo l'istruzione  che  egli  avea  data  a'  suoi, 
e  r  Abate  e  Zamboneto  rimasero  suoi  prigio- 
nieri. 

I  Padovani  indignati  posero,  con  tanta  vio- 
lenza, l'assedio  al  Castello ,  che  Solimano  fu 
costretto  a  chieder  la  pace;  se  non  gli  veniva 
accordata,  spinto  dalla  disperazione,  per  ven- 
dicare i  propri  tigli,  avrebbe  esposto  l'Abate 
e  Zamboneto  alle  spade  dei  loro  concittadini. 
Stettero  i  Padovani  alquanto  incerti  sul  da  farsi. 
Albertino,  non  ostante  l'amore  grandissimo  che 
portava  al  fratello,  come  si  rileva  da  più  luoghi 
delle  sue  opere,  insisteva  si  dovesse  pensare, 
anzi  tutto,  al  bene  comune.  Dopo  lunga  incer- 
tezza, fu  stabilito  che  Solimano  se  ne  partisse 
co'  suoi.  Egli,  fiducioso,  commise  sé  e  le  sue 
cose  a  Zamboneto.  Non  l'avesse  mai  fatto! 
Nell'uscir  dal  Castello,  Zamboneto,  infiammato 
di  sdegno  al  pensiero  del  perfido  tradimento  che 
Solimano  gli  avea  ordito  contro,  diede  a' suoi, 
che  n'erano  grandemente  desiderosi,  l'assenso 
di  ucciderlo.  Sohmano,  coperto  di  ferite,  cadde 
nel  luogo  stesso,  dove  avea  sedotto  l'Abate  e 
Zamboneto.  A  questo  il  popolo  perdonò  la  man- 


106  ALBERTINO    MUSSATO 

cata  fede,  sentenziando  che  la  frode  dee  ven- 
dicarsi colla  frode  ^).  Ciò  avvenne  nel  febbraio 
del  1313.  Il  Castello  di  Brazolo  fu  distrutto, 
i  beni  di  Solimano  confiscati,  i  figli  banditi  '). 
Non  è  a  dire  se  Cane  godesse  di  queste 
guerre  intestine  della  nemica  Repubblica;  egli 
si  vedeva,  per  tal  modo,  agevolata  la  via  a  di- 
venire Signore  di  Padova  ^).  Aveva  egli  stesso 
lusingata,  con  promesse,  l'ambizione  di  que'  ri- 
belli, che,  fidenti  nella  potenza  di  lui,  s'erano 
opposti  alle  leggi  della  Repubblica,  Quando  poi 
si  videro  ridotti  a  mal  partito,  senza  ch'egli 
pensasse  menomamente  a  soccorrerli,  s'accor- 
sero troppo  tardi  di  essersi  ingannati  e  di  aver 
cooperato,  danneggiando  se  stessi,  alle  mire  del 
Vicario  imperiale.  Le  cose  di  Padova  volgevano 
alla  peggio;  le  dissensioni  interne  ne  avevano 
stremato  le  forze,  e  Cane,  vedendosi  prossimo 
a  raggiungere  il  suo  intento,  coglieva  l'occa- 
sione propizia,  per  rendere  ancora  più  misera 
la  condizione  della  città,  coll'indurre  Enrico  VII 
a  promulgare  contro  di  essa  una  terribile  sen- 


1)  Uisl.  Aug.  Lib.  XII.  Rnb.  II. 

2)  Cort.  Lib.  I.  Gap.  XIX. 

3)  Exortaque  Cani  Grandi  Icelitia,  dum  impUcilos 
hostes  viieritjam  commodius  ac  facilius  coìifligendos. 
Hist.  AuiT.  Lib.  XII.  Rub.  II. 


CAPITOLO   TERZO  107 

tenza,  la  quale,  per  fortuna,  non  ebbe  effetto 
veruno.  Quella  sentenza  parve  cotanto  severa, 
anzi  cotanto  ingiusta,  ai  Padovani,  che  l' odio 
loro  contro  lo  Scaligero,  dal  quale  ritenevano 
fosse    stata    provocata,   toccò  il  sommo. 

11  popolo,  più  fedele  alla  Repubblica,  l'aveva 
sempre  odiato  a  morte.  Prima  di  questo  tem- 
po. Cane  cavalcava  un  giorno  poco  lungi  da 
Padova,  oltre  le  Brentelle,  seguito  da  due  dei 
suoi,  quand'ecco  fa  circondato  improvvisamente 
da  tre  contadini  di  quei  luoghi,  che  gli  uc- 
cisero il  cavallo  e  fecero  stramazzare  a  terra 
il  cavaliere. 

Guai  a  lui  se  i  suoi  non  l'avessero  sottratto, 
senza  indugio,  alle  mani  di  quei  villici  furibon- 
di !  ^).  Un'altra  volta  i  Padovani  si  recarono 
di  nottetempo,  con  numeroso  esercito,  tìn  quasi 
sotto  le  mura  di  Vicenza  e  si  nascosero  in 
un'imboscata,  donde  mandarono  innanzi  alcuni 
fanti  leggeri,  per  istigar  Cane  ad  uscire  dalla 
città.  Speravano  di  potergli  chiudere  la  via  al 
ritorno  e  farlo  prigione;  ma  al  chiarir  dell'alba 
furono  scoperti,  ne  Cane  si  mosse  da  Vicenza  ^). 

L'Imperatore,  come  è    chiaro  dopo    quanta 


1)  Hist.  Aug.  Lib.  Vili.  Rub.  IX. 

2)  Hist.  Aug.  Lib.  XIII.  Rub.  X. 


108  ALBERTINO   MUSSATO 

siamo  venuti  narrando  fin  qui ,  aveva  le  sue 
buone  ragioni ,  per  dichiarare  i  Padovani  ri- 
belli dell'Impero;  s'aggiunga  che  questi  ave- 
vano mandato  di  recente  aiuti  a  Firenze  con- 
tro di  lui.  Ma  forse  non  sarebbe  venuto  si  pre- 
sto nella  determinazione  di  emanare  contro  di 
loro  la  sentenza,  se  non  vi  fosse  stato  indotto 
dalle  continue  querele  degli  esuli,  e  quel  che 
è  più,  dalle  instigazioni  di  Cangrande,  al  quale, 
come  osserva  il  Wychgrara,  diede  forse  un  fa- 
vorevole appiglio  lo  scambio  di  lettere  fra  Ro- 
berto di  Napoli  e  Padova,  lettere  che  il  Mus-. 
sato  riproduce  nella  sua  Hìstoria  Augusta,  e 
nelle  quali  Padova  non  mostra  cosi  chiaramen- 
te il  desiderio  di  un'alleanza  con  Roberto,  che 
Cane  potesse  farne  giusto  fondamento  di  ac- 
cusa ^).  Nella  terribile  sentenza,  l'Imperatore, 
dopo  di  avere  enumerato  tutti  i  torti  dei  Pa- 
dovani verso  l'Impero,  passa  alle  pene  che 
vuol  loro  inflitte.  Toglie  ad  essi  il  diritto  di 
eleggersi  il  Podestà,  abolisce  il  pubblico  Stu- 
dio, ]i  priva  del  diritto  di  conferire  la  laurea, 
nonché  delle  franchigie,  privilegi,  immunità, 
onori,  feudi  e  diritti  d'ogni  sorta,  che  da  lui 
o  da'  suoi  predecessori  fossero  •  stati    loro  con- 


1)  Wychgram.  Op.  cif.  pag-.  37. 


CAPITOLO   TERZO  109 

cessi,  0  ch'essi  avessero,  in  qualunque  modo, 
acquistati;  comanda  che  sieno  atterrate  le  mura 
e  le  fortificazioni  della  città,  cosicché  sia  li- 
bero l'entrare  e  l'uscire  a  chiunque  e  da  tutte 
le  parti.  Oltre  a  ciò  impone  che  il  Comune  e 
r Università  paghino  alla  regia  Camera  dieci- 
mila libbre  d'oro  ;  dichiara  banditi  da  tutto 
l'Impero  i  Padovani,  che  potranno  venire  of- 
fesi impunemente  da  chiunque,  presi  e  fatti 
schiavi;  quelli  poi  che  un  giorno  o  l'altro  aves- 
sero a  cadere  nelle  mani  dell'Imperatore  sa- 
ranno sospesi  alle  forche.  Priva  i  giudici,  gli 
avvocati,  i  notai  del  diritto  di  esercitare  il  loro 
officio,  vieta  alle  città,  ai  castelli,  alle  ville 
soggetti  all'Impero  di  dare  apertamente  o  na- 
scostamente aiuto,  consiglio  o  favore  a  Padova 
0  a'  suoi  cittadini,  pena  grossissime  multe;  scio- 
glie dalle  loro  obbligazioni  tutti  coloro  che  ne 
avessero  contratto  con  la  città  o  con  alcuno 
dei  cittadini,  dichiara  finalmente  immuni  dalle 
pene  gli  appartenenti  alla  famiglia  imperiale, 
gli  esuli  dalla  città  per  ragione  di  partito  o  di 
fedeltà  all'Imperatore  e  tutti  coloro,  ch'entro 
due  mesi,  si  fossero  assoggettati  fedelmente  ai 
mandati  dell'  Impero  ^). 


1)  Hist.  Aug.  Lib.  XIV.  Rub.  VII. 


liO  ,  ALBERTINO   MUSSATO 

Dicemmo  cpme  i  Padovani  rimanessero  in- 
dignati alla  notizia  di  questo  bando.  Esso  parve 
loro ,  oltre  ogni  dire,  esagerato  ed  ingiusto, 
benché  le  pene  minacciate  difficilmente  potes- 
sero, né  allora  né  poi ,  essere  dall'  Imperatore 
inflitte.  Una  sentenza  consimile  esli  avoa  a:ià 
pronunciato  contro  i  Fiorentini  dal  suo  tribu- 
nale eretto  in  Pisa.  Ad  essi,  oltre  i  privilegi 
annullati,  i  giudici  ed  i  notai  cassati,  aveva  in- 
flitto una  multa  di  centomila  fiorini  e  avea 
tolto  il  diritto  di  batter  moneta  ^).  Ma  più  ter- 
ribile ancora  fu  la  sentenza  che  Enrico  pro- 
nunciò contro  Roberto  re  di  Napoli  (7  mag- 
gio 1313),  nella  quale  lo  dichiarò  decaduto 
dal  trono,  come  colpevole  di  lesa  maestà  verso 
di  lui,  e,  nello  stesso  tempo,  sciolse  i  sudditi 
dall'obbligo  di  obbedienza,  vietando  loro  di  più 
prestargli  omaggio  ;  che  se,  per  caso,  gli  fosse 
caduto  nelle  mani,  gli  avrebbe  fatto  tagliare 
la  testa. 

Ma  la  condizione,  in  cui  si  trovava  l'Impe- 
ratore, era  tale  da  togliere  aflatto  il  timore  a 
coloro  contro  i  quali  le  condanne  venivano  pro- 
nunciate; che  anzi  quanto  più  erano  terribili 
nelle  parole,  tanto  più  venivano  accolte  con  de- 


1)  Giovanni  Villani  Lib.  IX.  Gap.  XLVIII. 


CAPITOLO    TERZO  111 

risione.  Enrico,  infatti,  ridotto  quasi  senza  eser- 
cito, era  stato  costretto  a  spedire  TArcivescovo 
di  Treveri,  suo  fratello,  in  Germania,  per  for- 
marne uno  di  nuovo,  afline  di  muovere  col- 
l'aiuto  di  Federico  re  di  Sicilia  e  dei  Geno- 
vesi contro  Roberto  di  Napoli,  il  quale  godeva 
la  protezione  di  Filippo  il  Bello  re  di  Francia 
e  di  Clemente  V. 

Ma  più  che  contro  l' Imperatore,  lo  sdegno 
*  dei  Padovani  era  contro  Cangrande.  Essi  non 
avevano  inteso  di  mostrarsi  ribelli  a  quello, 
ma  soltanto  di  difendersi  da  questo,  che  li  mi- 
nacciava di  continuo,  e  che  avrebbe  voluto  farsi 
Signore  di  Padova,  per  rinnovare,  come  dice- 
vano, le  atrocità  di  Ezzelino.  Esacerbati  dal 
suo  modo  di  procedere  a  loro  riguardo,  nonché 
mostrarsi  spaventati  delle  pene  minacciate,  de- 
siderosi di  conservare  la  libertà  e  di  riacqui- 
stare il  perduto,  stabilirono  di  raccogliere  tutte 
le  loro  forze  e  di  rivolgerle  contro  di  lui.  I 
mille  padri  del  Consiglio,  con  mirabile  concor- 
dia, votarono  unanimi  la  guerra  contro  Can- 
grande. 

Ai  cittadini  e  ai  mercenarii  si  unirono  gli 
abitanti  della  campagna,  muniti  di  falci  e  di 
forche,  e  il  numeroso  esercito  nel  mese  di  giu- 
gno di  quell'anno  (1313),    mosse   per   Este  e 


112  ALBKRTINO    MUSSATO 

Montagnana,  ed  oltrepassò  i  confini  Veronesi, 
ponendo  l'assedio  ad  Arcole,  che  dopo  breve 
lotta,  s'arrese.  Di  là  si  volsero  i  Padovani  a 
Verona,  dinanzi  la  quale  s'  arrestarono.  Era 
nel  loro  esercito  il  Conte  Vinciguerra  di  San 
Bonifazio,  esule  veronese,  desideroso  di  rimpa- 
triare. 

Ottenne  questi  il  permesso  di  avanzarsi,  con 
una  coorte  di  mercenari,  lino  alle  porte  della 
città,  che  trovò  chiuse.  Una  valida  resistenza 
era  inoltre  preparata  dal  Podestà  Federico  della 
Scala  ;  per  cui  i  Padovani,  dopo  un  inutile  ten- 
tativo, pensarono  di  abbandonare  V  impresa. 
Nel  ritorno  abbruciarono  i  palazzi  che  Cane 
possedeva  a  Montorio,  a  Caldiero,  a  Soave,  ad 
Illasi,  facendo  strage  degli  abitanti  e  traendo 
seco  gli  armenti. 

Sostarono  a  Montagnana,  indi  per  timore 
di  Enrico  conte  di  Gorizia,  che  s'apparecchia- 
va a  venire  dalla  parte  di  Treviso  in  aiuto  di 
Cane,  fecero  ritorno  in  città  '). 

L'entusiasmo,  col  quale  i  Padovani  s'era- 
no accinti  alla  guerra  contro  Cangrande,  venne 
meno  alla  notizia  della  venuta  del  Conte  di 
Gorizia.  Ed  è  naturale.  Essi  speravano  di  aver 


^)Hist.At({/.Uh.XlY,  Rub.  IX;  Cort.  Lib.  I,  cap.  XIX. 


CAPITOLO   TERZO  113 

a  combattere  contro  il  solo  Cane  e,  per  vin- 
cerlo, si  sentivano  abbastanza  forti  ;  ma  quando 
seppero  ch'egli  s'era  procacciato  un  alleato  tanto 
potente,  compresero  che  non  era  ancor  giunto 
il  momento  di  fiaccare  l'orgoglio  del  Signor  di 
Verona.  Il  Conte  di  Gorizia,  giunto  col  suo 
esercito  a  Sacile,  domandò  ai  Trevisani  il  pas- 
saggio, affine  di  potersi  unire  con  Cane,  e,  poi- 
ché gli  fu  negato,  si  dispose  ad  ottenerlo  per 
forza.  I  Trevisani,  per  poterglisi  opporre,  chie- 
sero aiuti  a  Padova,  la  quale  ne  mandò  loro, 
e,  nel  medesimo  tempo,  spedi  buon  numero  dei 
suoi  a  Bassano,  per  impedire  che  Cane  si  avan- 
zasse da  quella  parte.  I  Trevisani  si  accam- 
parono di  là  dalla  Piave  alle  rive  del  Mnnte- 
gano  ^),  dove  aspettarono  l'esercito  del  Conte, 
che  non  stette  molto  a  comparire.  La  lotta  fu 
accanita  da  ambe  le  parti,  sennonché  gli  al- 
leati furono  messi  in  fuga.  Molti  restarono  sul 


?)  «  Tale,  scrive  il  Gennari,  ò  la  vera  lezione  del 
passo  dei  Cortusii  (Lib.  1,  cap.  XX),  malamente  leggen- 
dosi nell'edizione  dell'Oslo  Tarvisini  equitaverunt  ad 
partes  Mcntagnanae,  e  poco  appresso  transire  Matita- 
gnanam.  E  meravigliomi  assai  che  il  eh.  Muratori  ab- 
bia ritenuta  nel  testo  la  falsa  lezione,  e  si  sia  conten- 
tato di  notare  la  vera  a  piò  di  pagina,  come  una  va- 
riante tratta  da  un  Codice  M.S.  di  casa  Collalto  ».  Let- 
'  tera  sopra  la  famiglia  de  Maccaruffì,  Padova,  Bian- 
chi 1857. 


114  ALBERTINO    MUSSATO 

campo,  altri  furono  fatti  prigionieri,  non  pochi 
fuggendo  affogarono  nella  Piave.  Il  Conte  di 
Gorizia,  anziché  approfittare  della  vittoria  per 
unirsi  a  Cane,  forse  impaurito  dalla  notizia  che 
un  grosso  esercito  di  Padovani  era  accampato 
tra  Cittadella  e  Bassano,  lasciò  che  i  suoi  de- 
predassero i  campi  situati  fra  Montegano  e  la 
Piave  ed  abbruciassero  i  villaggi  dei  Trevi- 
sani, i  quali  mandarono  due  ambasciatori  a 
Padova,  perchè  non  li  abbandonasse  in  tanta 
sventura.  I  Padovani  accorsero  in  loro  difesa  ; 
ma  i  Trevisani,  eccitati  dagli  ambasciatori  di 
Cesare,  che  si  trovavano  allora  in  Treviso, 
prestarono  giuramento  di  fedeltà  all'Imperatore, 
non  senza  meraviglia  dei  loro  alleati.  Il  Conte 
di  Gorizia  tentò  allora  pratiche  di  pace  coi 
Trevisani,  e,  ritornato  a  Sacile,  licenziò  il  suo 
esercito,  nel  quale  s'era  manifestato  un  morbo 
contagioso  ;  ma  i  Trevisani  dopo  essere  stati 
alquanto  incerti,  trovarono  più  conveniente  di 
stringere  un'alleanza  offensiva  e  difensiva  coi 
loro  vecchi  amici,  i  Padovani,  eccettuando 
l'Imperatore,  al  quale  avevano  giurato  obbe- 
dienza. 

Pochi  giorni  appresso,  il  24  agosto  1313, 
mentre  l'esercito  padovano  si  trovava  accam- 
pato in  Montebello,  nel  territorio    di  Vicenza, 


CAPITOLO    TERZO  115 

si  sparse  improvvisa  la  notizia  che  l' Impera- 
tore era  morto.  Non  è  a  dire  se  ai  Padovani 
riusci  grata  la  nuova,  non  ostante  che  oggetto 
principale  del  loro  odio  non  fosse  Enrico,  bensì 
Cane,  ch'essi  ritenevano  cagione  precipua  di 
tutte  le  loro  sventure.  In  Padova,  al  dire  dei 
Cortusii  ^),  fu  fatta  una  gran  festa,  quasiché  per 
la  morte  dell'  Imperatore,  la  cittcà  non  avesse 
j)iù  nulla  a  temere  per  la  sua  libertà,  né  do- 
vesse essere  più  funestata  da  Cane.  Stolta  il- 
lusione !  poiché  il  Signor  di  Verona,  dopo  la 
morte  di  Cesare,  anziché  desistere  dalla  sua 
inimicizia  contro  i  Padovani  e  dalle  sue  pre- 
tensioni sulla  città  loro,  si  mostrò  più  acca- 
nito, e,  mentre  prima  fingeva  dì  agire  per  l'in- 
teresse dell'  Impero,  adesso  fece  vedere  aper- 
tamente che  agiva  per  proprio  conto. 

Mussato,  ammiratore  di  Cesare,  provò  gran- 
dissimo dispiacere  alla  nuova  della  morte  di 
lui,  e  nella  Historia  Augusta  se  ne  occupa 
come  di  cosa  di  grandissima  importanza,  quale 
era  infatti.  I  particolari,  ch'egli  dà  con  tanta 
cura  della  malattia,  della  morte  e  della  tu- 
mulazione di  Enrico,  mostrano  l'affetto  ch'egli 
nutriva  per  quell'  uomo. 


1)  Lib.  I,  Gap.  XXII. 


116  ALBERTINO   MUSSATO 

Non  fa  cenno  della  voce  ch'era  corsa  di  av- 
velenamento ;  osserva  soltanto  come  l' Impera- 
tore abbia  cessato  di  vivere  il  giorno  di  San 
Bartolomeo,  vicino  alla  Basilica  dedicata  a 
quel  Santo,  il  giorno  istesso  nel  quale,  molto 
tempo  innanzi,  Corradino  di  Svevia  era  caduto 
sotto  la  mannaia  di  Carlo  d'Angiò. 

Della  immatura  morte  dell'  Imperatore  che 
dava  tante  speranze  di  sé,  il  nostro  storico, 
riverente  alla  Chiesa  cattolica,  vede  una  delle 
cause,  e  forse  la  principale,  nell'essersi  Enrico 
messo  in  lotta  col  Papa.  Finché  si  lasciò  gui- 
dare dalla  Chiesa,  la  fortuna  gli  arrise,  quando 
le  si  fece  ribelle  ebbe  a  naufragare  ^). 


1)  Hist.  Au(j.  Lib.  XVI,  Rub.  Vili. 


Capitolo  Quarto. 


Continuano  le  ostilità  fra  Padova  e  Cane  —  Cane  devia  nuo- 
vamente il  Baccliiglione  a  danno  dei  Padovani  —  I  Guelfi 
in  Padova  hanno  il  potere  della  Repubblica  —  Abbocca- 
mento fra  Bailardino  Nogarola,  Albertino  Mussato  e  Mar- 
silio Polafrissana  —  Pace  tra  i  Padovani  e  il  Conte  di 
Gorizia  —  Cane  occupa  Montegalda  —  Gli  Alticlini  e  gli 
Agolanti  —  Vendetta  di  Nicolò  ed  Obizzo  da  Carrara  — 
Il  popolo  assedia  la  casa  di  Albertino  Mussato  —  Questi 
si  rifugia  a  Vigodarzere  -  Orribili  stragi  di  quei  giorni 
—  Albertino  viene  richiamato  in  città  —  Sua  invettiva 
contro  la  plebe  —  Il  podestà  Ponzino  dei  Ponzoni  —  Ca- 
nale da  Limena  a  Brusegana  —  Tentativo  di  riprender 
Vicenza  —  Atti  eroici  del  Mussato  —  Vien  fatto  prigio- 
niero —  Sconfitta  dei  Padovani  —  Proposte  di  pace  — 
Opposizione  di  Maccaruffo  —  La  pace  viene  sancita  — 
Ritorno  del  Mussato  in  Padova  —  Sua  incoronazione 
poetica. 


Alla  nuova  della  morte  di  Arrigo,  l'esercito 
padovano,  che  trovavasi  accampato  a  Monte- 
bello,  coir  intenzione  di  ricuperare  Vicenza, 
corse  a  porre  l' assedio  prima  al  castello  di 
Barbarano  poi  a  quello  di  Longare,  ma  senza 
alcun  risultato,  poiché  l' uno  e  l'altro  erano 
ben  difesi  dalle  milizie  di  Cane.  Capitanati  dal 


118  ALBERTINO   MUSSATO 

loro  podestà  Nicolò  da  Calbolo,  i  Padovani 
fecero  ritorno  in  città,  non  senza  prima  aver 
dato  alle  fiamme  alcuni  villaggi  dei  Vicentini. 
Cane,  che  non  aveva  forze  sufficienti  per  com- 
battere in  campo  aperto  i  nemici,  fece,  per 
vendetta,  una  scorreria  nel  loro  territorio,  de- 
vastando e  depredando  ogni  cosa  ^).  Più  tardi 
egli  deviò  nuovamente  a  Longare  le  acque  del 
Bacchigiione,  perchè  non  scorressero  verso  Pa- 
dova '). 

Il  Conte  di  Gorizia  avea  mosso  guerra,  in 
quel  frattempo,  ad  Ottobono  Patriarca  di  Aqui- 
leia,  il  quale  domandò  soccorso  a  Treviso  ed 
a  Padova.  In  quest'  ultima  città  il  Conte  mandò 
nn  suo  messo  per  trattar  di  pace,  nella  quale 
erano  compresi  anche  i  Trevisani. 

Vi  fu  una  tregua  di  quindici  giorni,  dopo 
la  quale  furono  ripigliate  le  ostilità,  che  du- 
rarono sino  alla  fine  dell'anno.  Il  Patriarca, 
non  ostante  l'aiuto  di  Treviso  e  di  Padova,  si 
vide  costretto  a  domandare  la  pace  ^). 

Poco  tempo  innanzi  avvenne  in  Padova  un 
cambiamento,  pel  quale  i   guelfi    ebbero    nelle 


1)  De  Gestis  Hai.  ecc.  Lib.  1,  Rub.  IV.  Cort.  Lib.  I, 
Gap.  XXI. 

2)  De  Geslis  Hai.  ecc.  Lib.  I,  Rub.  IX. 

3)  De  Gestis  Ital.  ecc.  Lib.  Ili,  Rub.  IV. 


CAPITOLO   QUARTO  119 

mani  il  potere.  La  fazione  dei  ghibellini,  che 
pareva  spenta  dopoché  la  città,  liberatasi  dalla 
tirannia  di  Ezzelino,  s'era  costituita  in  Repub- 
blica, nella  lunga  pace  di  circa  mezzo  secolo, 
aveva,  a  poco  a  poco,  alzata  di  nuovo  la  te- 
sta. Continue  risse  funestavano  la  città  ;  né  per 
l'uccisione  di  Guglielmo  Novello  dei  Paltanie- 
ri,  né  per  esser  stati  cacciati  in  bando  i  capi 
della  fazione  ghibellina  si  potè  mai  ristabilire 
completamente  la  pace.  Avvenne  pertanto  che 
sulla  fine  d'ottobre  di  quest'anno  (1313)  fu 
abolito  il  magistrato  tribunizio  e  trasferito  ogni 
diritto  pubblico  e  privato  nei  principali  guelfi  ; 
il  nome  ghibellino  non  doveva  essere  neppure 
pronunciato  ;  parte  guelfa  e  Comune  di  Padova 
doveano  suonare  la  stessa  cosa.  Il  Senato  fu 
accresciuto  a  mille  uomini,  quasi  tutti  guelfi  ; 
di  soli  guelfi  fu  creato  un  nuovo  magistrato, 
colla  facoltà  di  rescindere  i  decreti  del  Senato 
e  di  trattare  le  faccende  della  guerra.  Da  que- 
sto magistrato  doveansi  eleggere  i  quattro  An- 
ziani Conservatori  della  libertà  e  gli  otto  Sa- 
pienti, ai  quali  era  affidato  il  governo  della 
città  ^). 


1)  Anciani  Conservatores  quatuor  Libertalis  et  Sta- 
tus, octoque  secretorum  conscii.  —  Be  Gestis  Ital. 
ecc.  Lib.  II,  Rub.  IL 


120  ALBERTINO   MUSSATO 

In  quei  giorni  Bailardino  Nogarola,  man- 
dato da  Cane,  significò  ai  Padovani  come  il 
suo  Signore  fosse  disposto  a  trattare  di  pace. 
Fatta  una  tregua,  i  Padovani  elessero  Marsi- 
lio Polafrissana  ed  Albertino  Mussato,  i  quali, 
com'era  stato  convenuto,  s'abboccarono,  nel  no- 
vembre di  quest'anno,  con  Bailardino  ai  piedi 
di  Montegalda  ^). 

Cane  aveva  domandato,  pel  primo,  la  pace. 
Si  sentiva  egli  forse  inferiore  di  forze  ai  Pa- 
dovani, cosi  da  prevedere  che  la  lotta  non  gli 
sarebbe  in  avvenire  favorevole  ?  oppure  si  senti 
vinto  dalla  stanchezza  del  lungo  guerreggiare? 
Né  r  una  cosa,  né  l'altra.  I  Padovani  credet- 
tero, sulle  prime,  che  la  causa  di  questa  de- 
terminazione da  parte  di  Cane  fosse  stata  la 
morte  dell'  Imperatore,  per  la  quale  lo  Scali- 
gero, sentendosi  a  mal  partito,  credesse  più 
conveniente  far  la  pace  con  Ptdova;  ma  eb- 
bero tosto  ad  accorgersi  che  s'erano  ingannati. 
La  ragione,  che  adduce  il  ^Yychgram,  del  de- 
siderio di  pace  con  Padova,  manifestato  dallo 
Scaligero,  è  forse  la  più  probabile.  «  Le  inno- 
vazioni, egh  dice,  introdotte  nel  governo  della 
Repubblica    erano    dovuto    a    forti    turbamenti 


i)  De  Geslis  Ital.  ecc.  Lib.  II,  Rub.  II. 


CAPITOLO    QUARTO  121 

interni,  ai  quali  dobbiamo  ascrivere  la  inten- 
zione di  Cane  di  metter  fine  alle  ostilità,  poi- 
ché egli,  più  che  in  queste,  sperava  nelle  lotte 
intestine  ^)  ».  Se  cosi  fu.  Cane  ha  dato  prova 
di  somma  avvedutezza,  perciocché  le  lotte  in- 
testine non  tardassero,  come  vedremo,  a  ma- 
nifestarsi .terribili  in  seno  alla  città. 

I  due  messi  padovani  si  recarono  a  Mon- 
tegalda,  col  mandato  di  insistere  sulla  restitu- 
zione di  Vicenza.  A  questo  patto  soltanto  sa- 
rebbe stato  possibile  un  accordo  fra  i  Pado- 
vani e  lo  Scaligero.  Ma  era  proprio  su  questo 
punto  che  Cane  non  intendeva  di  cedere,  per 
cui  l'abboccamento,  che  durò  fino  a  sera,  non 
ostante  l' eloquente  parola  del  Mussato,  non 
ebbe  esito  veruno. 

Fu  dapprincipio  conteso  alquanto  chi  do- 
vesse parlare  per  primo  ;  disse  finalmente  Bai- 
lardino  : 

«  —  Non  mi  vergognerò,  in  presenza  d'Ita- 
liani, d'essere  io   il   primo  a  parlare  di  pace. 


1)  Starke  innere  Unruhen  waren  mit  diesen  Neue- 
ruQgen  verbunden;  iliuen  Iiaben  wir  es  wolil  zuzuschrei- 
ben,  dass  Cane,  hoffend  aus  dern  verwirrten  Zustande 
irgend  welchen  Nutzen  ziehen  zu  kònnen,  jetzt  zum 
ersten  Male  seit  dem  Begiun  dar  Feindseligkeiten  Frie- 
den  zu  schliessen  beabsichtigt. 


122  ALBERTINO   MUSSATO 

Domando  pace,  a  nome  di   Cane   Vicario  del- 
l' Impero. 

—  A  che  tanto  schermirti  di  parlare  pel 
primo,  gli  rispose  Mussato,  se  Cane  stesso  è 
quegli  che  cerca  la  pace  ?  Noi  pure  vogliamo 
la  pace.  Esponi  le  condizioni. 

—  Che  si  depongano  le  armi,  disse  Bai- 
lardino,  affinchè  ognuno  possa  libero  e  securo 
andar  per  le  vie  e  per  le  città. 

—  Sei  un  cattivo  medico,  soggiunse  Mus- 
sato, che  vuoi  curare  il  male,  senza  prima  e- 
stirparne  la  radice.  Cane  ceda  Vicenza;  deesi, 
anzitutto,  toglier  la  causa  della  dissensione. 

—  Vuoi  tu,  rispose  Bailardino,  che  Cane 
ceda  Vicenza,  che  è  sua  ? 

—  Sua?  interruppe  il  Polafrissana ;  è  sua 
patria  ?  vi  nacque  ? 

—  Non  è  possibile,  rispose  Bailardino,  ch'ei 
possa  rinunziare  al  dominio  di  essa.  Gliel'  ha 
data  r  Imperatore  in  ricompensa  de'  suoi  ser- 
vigi, né  può  cederla  ad  alcuno.  Vi  lagnate  a 
torto,  s'egli,  per  comando  di  Cesare,  s' impa- 
dronì della  città  ;  il  torto  l'avete  voi.  Padova- 
ni, che,  colle  guerre  e  cogl'incendii,  avete  de- 
vastato il  territorio  di  Vicenza  e  quello  di 
Verona .... 

—  E    Mussato    all'incontro:    Tu    vorresti 


CAPITOLO   QURATO  123 

coprire,  con  oneste  parole,  gli  orrendi  fatti. 
Smetti  di  lodar  Cane,  che,  violato  il  diritto  di 
alleanza,  quale  aveva  stretto  coi  Padovani,  sic- 
come ladro,  occupò  Vicenza,  trasse  schiavi  i 
nostri  concittadini,  ne  uccise  alcuni  e,  compera- 
to da  Cesare  il  falso  titolo  di  Vicario,  ci  mos- 
se atroce  guerra ....  Sazio  di  sangue  e  di  scel- 
leratezze omai  ceda,  ritorni  Vicenza  a  Padova, 
impetri  supplichevole  la  pace,  mentre  le  circo- 
stanze e  la  clemenza  degli  offesi  gliene  por- 
gono il  destro.  Si  renda  benevoli  i  Padovani, 
che  gli  perdoneranno,  se  si  mostrerà  pentito  »  ^). 

La  discussione  non  fu  sempre  seria,  tanto 
poco  erano  persuasi  i  messi  d'ambedue  le  parti 
di  poter  raggiungere  lo  scopo,  pel  quale  s'era- 
no riuniti.  Mussato  non  mancò,  tuttavia,  di 
sostenere,  con  la  maggiore  eloquenza,  le  ra- 
gioni della  sua  patria.  Ai  Padovani,  del  resto, 
non  era  punto  spiaciuto  che  le  trattative  di  pace 
con  lo  Scaligero  fossero  riuscite  vane;  essi  sti- 
mavano venuto  il  tempo  di    ritorgli  Vicenza. 

Il  Papa  aveva  nominato  Vicario  imperiale 
per  tutte  le  provincie  d' Italia  soggette  al- 
l'Impero  Roberto  re  di  Napoli.  Per  questo 
fatto,   il   partito    guelfo   aveva   preso   ardire  e 


1)  De  Gestis  Ital.  ecc.  Lib.  II,  Rub.  II. 


12 i  ALBERTINO    MUSSATO 

credeva  che  i  ghibellini  non  avrebbero  più  sa- 
puto resistergli.  Ma  le  speranze  elei  Padovani 
rimasero  ben  presto  deluse.  S'era  offerto  a  co- 
storo, ({ual  mediatore  di  pace   tra  essi  e  Cane, 
il  Duca  di  Carinzia,  il  quale  aveva  spedito  un 
messo  al  Senato.  Nel  medesimo  tempo  il  Conte 
di    Gorizia    avea    proposto    ai    Padovani,    per 
mezzo  di  un  ambasciatore,   di   far  la  pace  con 
lui  e  di  stringere   una  lega  offensiva   e  difen- 
siva. Essi  chiesero  consiglio  ai  Trevisani  loro 
alleati,  i  quali,  dopo  lunga   incertezza,    rispo- 
sero doversi  accettare    la    pace,    non    la   lega. 
Entrambi  i  messi  partirono  indignati   da    Pa- 
dova, la  quale  diede  la  colpa  a  Cane  del  cattivo 
esito  della   pratica.   Cane  la  riversò  sui  Trevi- 
sani ed  invase  il  loro  territorio,  fino  a  Castel- 
franco, devastando  alcune  ville.  Sennonché  i  trat- 
tati di  pace  fra  i  Padovani  e  il  Conte  di  Gori- 
zia furono  ripigliati  e  la  pace  conchiusa;  per  cui 
lo  Scaligero  tralasciò  di  molestare  i  Trevisani. 
Colla  nuova  stagione  (1314)  i  Padovani  si 
spinsero  oltre  l'Adige,  e,  dopo  aver  devastato 
campagne  ed  incendiato  villaggi,  ricchi  di  preda, 
fecero  ritorno  in  città.  Cane,  con  grosso  eser- 
cito, accresciuto  degli  aiuti    de'  suoi    amici   di 
Lombardia,  si  avanzò  nel   territorio   padovano 
fino  ad  Abano,  che  diede  alle  fiamme. 


CAPITOLO    QUARTO  125 

I  Padovani  ricorsero  per  aiuto  a  Treviso, 
fortificarono  Monselice  e  impedirono  a  Cane  di 
passare  il  fiume.  Questi,  veduta  vana  T  impre- 
sa, incendiò  i  circostanti  villaggi  e  si  rivolse 
a  Montegalda,  dove  i  Padovani  avevano  eretta 
una  fortezza.  Antonio  Malizia,  con  cinquanta 
uomini,  la  difendeva;  ma,  tradito  da'  suoi,  fa 
consegnato  a  Cane  e  condotto  prigioniero  a  Ve- 
rona.  La  fortezza  fu  distrutta  dai  fondamenti  ^). 

Poco  appresso  avvennero  in  Padova  fatti 
gravissimi,  i  quali  misero  a  soqquadro  l'intera 
città.  Fin  dall'ottobre  dell'anno  antecedente, 
per  i  mutamenti,  che,  come  notammo,  erano 
stati  introdotti  nel  governo  della  Repubblica, 
il  potere  era  caduto  interamente  nelle  mani 
dei  guelfi,  che  ne  abusarono  a  danno  special- 
mente dei  ghibellini,  molti  de'  quali  vennero 
mandati  a  confino. 


^)  Cos'i  il  Ferreto  vicentino.  Il  Mussato,  invece,  at- 
tribuisce la  perdita  di  quel  luogo  alla  viltà  del  Malizia 
(De  Gestis  Ital.  ecc.  Lib.  II,  Rub.  VII).  I  Cortusii  an- 
ch'essi fanno  il  Malizia  traditore  (Lib.  \,  Gap.  XXI). 
Il  Verci  (Storia  della  Marca  Trivigiana  e  Veronese 
Lib.  V),  e  il  Gennari  (Annali  di  Padova,  Parte  terza) 
stanno  col  Ferreto.  «  L'autorità  degli  scrittori,  dice  il 
Verci,  è  grande,  perchè  contemporanei;  ma  se  è  vero 
che  il  Malizia  fu  condotto  prigioniero  a  Vicenza,  come 
vuole  il  Ferreto,  convien  riportarsi  a  quanto  scrisse 
questo  scrittore».  Tomo  V,  pag.  28,  nota  1). 


126  ALBERTINO    MUSSATO 

Fra  i  più  prepotenti  dei  guelfi,  ch'erano  sa- 
liti al  potere,  primeggiavano  due  plebei,  Pie- 
tro degli  Alticlini  e  Ronco  degli  Agolanti,  fat- 
tisi ricchi  col  continuo  usureggiare,  e  capaci 
d'ogni  azione  più  malvagia.  Il  primo,  insieme 
con  altri  dell'ordine  militare  e  plebeo,  era  stato 
citato  in  giudizio  da  Albertino  Mussato,  come 
reo  di  concussione.  Albertino  era  allora  degli 
Anziani.  A  questo  onorevole  officio,  che,  come 
egli  scrive,  pareggia  il  consolato  romano,  era 
stato  eletto  nel  dicembre  1313.  Pietro  degli 
Alticlini  fu  posto  in  carcere,  convinto  del  reato, 
e  costretto  inesorabilmente  a  restituire  all'era- 
rio il  tolto  danaro.  Egli  aveva  tre  tìgli,  e  Ronco 
ne  aveva  uno,  pari  in  tutto,  se  non  peggiori, 
ai  loro  padri.  Oggetto  principale  dell'odio  di 
costoro  erano  i  Carraresi,  famiglia  potente,  va- 
lorosa e  stimata. 

A  capo  di  essa  erano  Giacomo  ed  Uberti- 
no, uomini  di  molto  senno,  i  quali,  per  non 
recare  maggior  danno  alla  patria,  travagliata 
da  tante  guerre,  fingevano  di  non  curare,  a 
costo  di  parer  pusillanimi,  le  calunnie  che  sul 
loro  conto,  spargevano  gli  Alticlini  e  gli  Ago- 
lanti ;  ma  due  giovani  ardenti  della  loro  stirpe, 
Obizzo  figliuolo  di  Marsilio  Papafava  da  Car- 
rara e  Nicolò  figlio  di  Ubertino  non  potevano 


CAPITOLO   QUARTO  127 

sopportare  in  pace  le  ingiurie  dei  loro  nemici, 
e  meditavano,  in  cuor  loro,  terribile  vendetta. 
Avvenne  un  giorno  ^)  che  il  Consiglio  degli 
Otto  alla  presenza  del  Podestà  Dino  de'  Rossi 
da  Rimini,  stabilisse,  per  suggestione  dei  Ron- 
chi e  di  Pietro  degli  Alticlini,  di  bandire  do- 
dici ghibellini  della  fazione  dei  Carraresi.  Non 
ci  volle  di  più,  perchè  Obizzo  e  Nicolò  si  de- 
cidessero all'agognata  vendetta.  Invano  Giaco- 
mo ed  Ubertino  tentarono  d' indurre  il  Pode- 
stà ed  il  Consiglio  a  revocare  il  decreto,  invano 
ricorsero  all'eloquenza  di  Albertino  Mussato  e 
di  Rolando  da  Piazzola,  i  quali  non  ottennero 
nulla  da  quei  magistrati  severi  ed  ostinati. 
Nicolò  ed  Obizzo,  col  favore  della  notte,  in- 
trodussero in  città  quanti  più  poterono  dei  loro 
coloni.  La  mattina  seguente,  mentre  recavansi 
al  Pretorio,  avendo  incontrati  sulla  pubblica 
piazza  Pietro  e  i  suoi  figli,  li  assalirono.  Pie- 
tro, ferito  nel  capo,  dovette  alla  celerità  del 
suo  cavallo,  se  potè  sottrarsi  alla  morte.  Que- 
sto fatto  fu  il  segnale  della  rivolta.  Tutta  la 
città  fu  in  armi  ;   i   partigiani    dei    Carraresi, 


1)  Secoudo  il  Mussato  questo  giorno  sarebbe  stato  il 
VII  Kal.  majas  (De  Gestis  Ital.  ecc.  Lib.  IV,  Rub.  I), 
secondo  invece  un  documento  citato  dal  Verci  (num.  669) 
il  17  dello  stesso  mese. 


128  ALBERTINO    MUSSATO 

fra  i  quali  il  Mussato  a  capo  della  prima  cen- 
turia del  Quartiere  di.  Pontemolino  ^),  eccitati 
da  Nicolò  e  da  Obizzo,  gridavano:  viva  il pO' 
jjolo,  e  i  loro  contr'arii  :  muoiano  i  Carrared. 
Il  Podestà  ed  il  Vescovo  Pagano  della  Torre, 
accorsi  a  .sedare  '  il  tumulto,  non  furono  ascol- 
tati. Obizzo  alzò  il  vessillo  del  popolo,  e  al 
grido  di  viva  il  popolo,  muoiano  i  traditoìH, 
la  moltitudine  corse  furibonda  alle  case  degli 
Alticlini. 

Quivi  ogni  cosa  fu  messa  a  ruba  e  a  sacco, 
furono  rovistati  tutti  gli  angoli  della  casa  e, 
in  oscuri  sotterranei,  furono  scoperti  cadaveri 
di  ogni  età,  di  ogni  sesso,  quali  in  istato  di 
putrefazione,  quali  ancor  freschi,  sulle  cui  livide 
carni  stavano  impressi  i  segni  delle  sofferte 
torture. 

L'indignazione  e  il  furore  del  popolo  non 
ebbero,  a  tal  vista,  più  limiti.  Tutto  quel  gior- 
no fu  consumato  nelle  stragi. 

Trascorsa  la  notte,  fra  lo  spavento  dei  cit- 
tadini, Nicolò  ed  Obizzo,  coi  loro  seguaci,  mos- 
sero, sull'alba,  in  cerca  di  Pconco.  Stava  questi 
appiattato  in  casa  d'un  amico,    il    quale,    per 


1)  Primus    Quarterii  Pontis    Molendinorum  pilus 
[De  Gcstis  Ital.  ecc.  Lib.  IV,  Rub.  I). 


CAPITOLO   QUARTO  129 

timore,  lo  svelò  al  popolo.  Trafitto  da  mille 
spade,  Plonco  fu  trascinato  cadavere,  per  le 
vie  della  città,  fino  alla  piazza  ;  spettacolo  mi- 
serando! Quel  giorno  le  case  degli  amici  dei 
Ronchi  e  degli  Alticlini  furono  spogliate  senza 
distinzione.  E  poiché  il  popolo,  quando  si  lascia 
trascinare  alla  rapina  ed  al  sangue,  non  ismette 
facilmente,  né  sa  distinguere,  nella  sua  vendetta, 
i  veri  dai  falsi  amici,  anzi  spesso  giudica  ne- 
mico chi  gli  é  amico  sincero  e  disinteressato  ; 
così  la  plebe  padovana,  in  quel  giorno,  dopo 
aver  sfogato  le  giuste  sue  ire  sopra  gli  Alti- 
clini-  e  i  Ronchi,  rivolse  ingiustamente  il  suo 
furore  contro  Albertino  Mussato,  dimenticando, 
a  un  tratto,  i  benefizii  ricevuti  da  lui,  e  come 
egli  fosse  stato  il  primo  a  rivelare  le  infamie 
di  quegli   usurai. 

Poco  tempo  innanzi,  Albertino,  per  soppe- 
rire ai  gravi  dispendii  della  guerra,  aveva  pro- 
posto in  Consiglio  una  tassa  sui  contratti,  che 
era  stata  approvata  alla  quasi  unanimità.  Ad 
un  tratto,  in  mezzo  alla  moltitudine  inferocita 
s'alza  una  voce,  che  ricorda  il  promotore  della 
tassa.  A  quella  voce  mille  altre  rispondono,  e 
la  folla,  senza  esitare,  si  riversa  impetuosa  sulla 
via,  che  conduce  alle  case  del  Mussato,  poste 
nel  Quartiere  di  Pontemolino. 


130  ALBERTINO    MUSSATO 

Si  trovava  Albertino,  in  qnell'istante,  nel- 
l'atrio di  Alberto  Dente,  col  quale  era  unito 
in  parentela.  L' abitazione  di  costui  era  vicina 
alle  mura  della  città  ed  era  ben  munita.  Stette 
alquanto  incerto  il  Mussato  se  difendere  di  colà 
la  casa  sua^  ch'era  di  fronte,  dagli  insulti  della 
plebaglia;  ma  l'animo  altamente  generoso  ne 
lo  dissuase.  Alberto  Dente  avrebbe  voluto  che 
si  nascondesse  in  un  sotterraneo  ;  ma  egli,  co- 
raggioso, rifiutò,  e,  fattosi  allestire  un  cavallo, 
gli  salse  in  groppa  e,  ficcatigli  nei  fianchi  gli 
sproni,  si  slanciò  fuori  del  palazzo,  fendendo  la 
moltitudine  che,  attonita  si  trasse  in  disparte. 
Per  la  vicina  porta  della  città,  si  condusse  in 
salvo  a  Vigodarzere. 

Il  Quartiere  di  Pontemolino,  come  seppe 
dell'ingiuria  che  si  voleva  recare  al  Mussato, 
fu  tutto  in  armi.  11  Podestà  Dino  de"  Rossi  ac- 
corse egli  pure  con  la  milizia,  e  quelli  della 
famiglia  s'erano  posti  con  ardore  alla  difesa 
dalle  finestre  e  dal  tetto;  ma  ogni  sforzo  sa- 
rebbe tornato  inutile,  se  non  fossero  giunti  in 
tempo  Nicolò  ed  Obizzo,  i  quah,  parte  colle 
promesse,  parte  colle  minacce,  indussero  il  po- 
polo feroce  a  desistere  dalla  sconsigliata  im- 
presa. 

Orribili   ^ragi,  oltre    alle    narrate,  furono 


CAPITOLO   QUARTO  131 

commesse,  in  que'  giorni.  Guercio,  figlio  di  Ron- 
co, fu  trucidato,  mentre  travestito  tentava  fug- 
gire dalla  città.  Pietro  degli  Alticlini  e  i  suoi 
figli  s'erano  rifugiati  nel  palazzo  vescovile  ;  ma 
poiché  il  popolo  minaccioso  li  domandava,  il 
Vescovo  li  consegnò  ad  Obizzo,  che  promise  di 
condurli  in  salvo.  Questi  li  accompagnò  di  not- 
tetempo alla  porta  delle  Torricelle,  che  trovò 
chiusa.  Sopravvenne  in  quella  Nicolò,  seguito 
da'  suoi,  che,  riconosciutili,  mise  loro  le  mani 
addosso.  Il  giorno  appresso  furono  fatti  morire 
sulla  pubblica  piazza,  con  ogni  sorta  di  strazii, 
nò  si  permise  che  i  loro  cadaveri  fossero  sep- 
pelliti ^). 

Poco  appresso  gli  Anziani,  i  Gastaldioni  e 
i  cittadini  dell'ordine  nobile  e  popolare  si  riu- 
nirono in  Consiglio,  per  trovar  modo  di  rendere 
la  pace  alla  città.  Fu  stabilito  di  abolire  le 
riforme  e  di  ritornare  all'antico  reggimento.  La 
città  sarebbe  stata  governata,  come  per  lo  in- 
nanzi, da  diciotto  Anziani,  e  la  potestà  tribu- 
nizia sarebbe  stata  ristabilita.  Fu  fatto,  inoltre, 
un  pubblico  decreto,  mercè  il  quale  Albertino 
Mussato  sarebbe  stato  richiamato  in  patria  ed 


1)  De  Gestis  I/al.  Lib.  IV.  Rub.  1.  Cort.  Lib.  I.  Gap. 
XXII. 


132  ALBERTINO    MUSSATO 

accolto  colle  maggiori  dimostrazioni  di  onore, 
per  risarcirlo  della  immeritata  ingiuria.  Fra 
coloro  che  parlarono  più  efficacemente  in  favore 
di  lui  fu  Giacomo  da  Carrara.  Il  decreto  venne 
approvato  a  voti  unanimi. 

Ritornato  in  Padova,  il  Mussato  pronun- 
ciò dinanzi  al  Consiglio  un'orazione  veemente, 
ch'egli  chiama:  Invettiva  contro  la  plebe  ]ìa- 
dovana  ^).  Questa  invettiva  che  rivela  una  volta 
di  più  quanta  fosse  l'eloquenza  di  Albertino  è 
per  noi  di  singolare  importanza,  poiché  ne  offre 
molte  notizie  sulla  vita  di  lui,  che  invano 
avremmo  cercate  altrove.  Di  essa  abbiamo  fin 
qui  fatto  menzione  più  volte  ;  ora  ci  piace  dirne 
qualche  cosa  in  particolare. 
-  Rivolgendosi  ai  Tribuni  della  plebe,  agli  Ar- 
tieri, ai  Capi  della  Repubblica  :  «  Dovrò  ver- 
gognarmi, egli  dice,  ed  arrossire,  se  pure  ac- 
quistai qualche  merito,  di  recitar  da  me  stesso, 
dopo  tanta  ingratitudine,  le  mie  lodi?>.  Ri- 
corda il  fatto  per  cui  dovette  fuggire  dalla  città, 
parla  della  sua  ambasciata  all'  Imperatore  e 
dell'accoglienza  avuta,  al  suo  ritorno,  dalla  pa- 
tria cieca  ed  ingrata,  rammemora  la  meritata 


1)  Invectiva  in  plebeni  paduanam.  De  Geslis  Ital. 
ecc.  Lib.  IV.  Rub.  II. 


CAPITOLO    QUARTO  133 

perdita  di  Vicenza  e  le  centinaia  di  lettere 
colle  quali  egli  ammoniva  i  suoi  concittadini 
di  stare  in  guardia.  Essi,  in  tanto  frangente, 
s'erano  di  nuovo  rivolti  a  lui,  per  piegar  l'animo 
di  Cesare,  ed  egli  aveva  accettato  l'incarico 
ed  avea  conseguito  lo  scopo.  E  perchè  dunque 
tanta  ira  della  plebe  contro  di  lui  ?  Si  rese 
egli  colpevole  verso  la  Repubblica?  Consumò 
il  pubblico  danaro  ?  Arricchì  forse  a  danno  dei 
privati?  «  Se  v'è  un  solo,  egli  esclama,  che  sia 
stato  molestato  o  spogliato  da  me,  mi  citi  pure 
in  giudizio  ».  E  qui  narra,  come,  eletto  degli 
Anziani,  abbia  svelato  reo  di  concussione  Pie- 
tro degli  Alticlini.  Avrebbe  tanto  osato,  mac- 
chiato di  simil  colpa  e  dimentico  di  sé  stesso 
al  punto  di  non  stimare  dovuta  a  sé  quella 
pena  che  voleva  inflitta  agli  altri?  Nessuno  po- 
trà mai  dire  ch'egli,  fornito  di  bastanti  for- 
tune per  condurre  una  vita  agiata,  abbia  messo 
le  mani  nel  pubblico  patrimonio.  Eppure  il  fu- 
rore della  plebe  gii  si  scagliò  contro,  confon- 
dendolo coi  malvagi.  «  Una  torma  di  vilissimi 
contadini,  egli  dice,  cui  l'indigenza  e  la  fame, 
nella  desolazione  della  guerra,  aveano  spinto 
in  città,  un  gregge  di  baldracche  e  di  stranieri 
che,  cupidi  di  novità  e  venuti  in  cerca,  quali 
soldati,  de'  nostri  stipendii,  s'erano  riuniti,  come 


134  ALBERTINO   MUSSATO 

in  sentina,  in  questa  nostra  Padova,  gridavano: 
Muoia  lo  spregiatore  e  il  dileggiatore  del  po- 
polo, collii  che,  colla  voragine  della  Carpella, 
ha  aggravato  del  peso  d'intollerabile  contri- 
buzione il  popolo  padovano.  Queste  voci  s'ac- 
crebbero ed  eccitarono  al  saccheggio  della  mia 
casa  » .  Non  nega  il  Mussato  di  aver  scagliato 
vituperi  contro  la  plebe,  né  di  aver  aderito  al- 
l'onere della  Carpella.  Per  giustificarsi  della 
prima  accusa,  ricorda  gli  atti  di  valore  da  lui 
compiuti  a  Marostica,  a  Poiana,  a  Legnago, 
dove  i  plebei,  che  ora  lo  perseguitavano,  per 
non  seguire  il  nobile  esempio  di  lui,  s'erano 
lasciati  sfusfoire,  tutte  le  volte,  una  bella  oc- 
casione,  per  conseguire  una  segnalata  vittoria. 
«  Dopo  il  ritorno,  egli  soggiunge,  la  vostra 
inescusabile  colpa  e  i  miei  frizzi  contro  la  vo- 
stra dappocaggine  mi  vi  resero,  come  stimo, 
odioso  ».  Si  paragona,  non  sempre  opportuna- 
mente, a  Camillo,  a  Scipione,  a  Seneca,  e  passa 
quindi  alla  Carpella. 

Per  sopperire  alle  spese  sempre  crescenti 
della  guerra  fu  tenuto  un  consiglio  tra  i  Pri- 
mati. Vi  fu  chi  disse,  che  i  Toscani  e  i  Lom- 
bardi, nei  bisoa'ni  di  iiruerra,  facevano  uào  della 
Carpella  '),  dazio  dei  più    giusti  e  tollerabili, 

1)  Dal  verbo  latino  carpo. 


CAPITOLO   QUARTO  135 

perciocché  aggravi,  a  seconda  delle  sue  forze, 
tanto  il  ricco  quanto  il  povero.  «  Esso  consiste, 
nota  il  Mussato,  in  questo:  che  uno,  due,  tre, 
quattro  o  più  denari  vengano  distratti,  per  ogni 
libbra,  in  qualunque  contratto,  tanto  da  colui 
che  sborsa,  quanto  da  colui  che  riceve,  e  sic- 
come quelli  che  posseggono  di  più,  spendono 
e  riscuotono  di  più;  cosi  quest'onere  veniva  a 
pesare  maggiormente  sui  ricchi  » .  Tre  parti 
dell'adunanza  convennero  nell'opportunità  di 
adottarlo.  Albertino,  col  consenso  degli  altri, 
lesse  al  Senato  gli  atti  del  Consiglio,  e  Tini- 
posta  fu  sancita  a  pieni  voti.  E  dovea  la  con- 
tribuzione di  questo  dazio,  in  mezzo  ai  gridi 
della  plebagha,  essere  causa  della  sua  rovina? 
No:  poiché  né  i  Tribuni,  né  i  Patrizii,  né  1 
consriunti,  né  q:ìì  amici,  né  Dio,  né  i  Santi  lo 
permisero.  Ma  più  che  tutto  fu  la  sua  casa 
ben  difesa  che  eccitò  il  desiderio  della  pleba- 
glia. Difatti  in  quanti  palazzi,  in  quanti  tem- 
pli non  si  cacciò  il  furor  popolare?  Quante  faci 
incendiarie  non  istava  per  iscagliare  contro  le 
case?  Tentò  perfino  di  irrompere  nel  monastero 
di  S.  Giustina,  per  saccheggiarlo  e  per  ucci- 
derne l'abate.  Qui  l'oratore  s'intrattiene  alquan- 
to sui  meriti  di  suo  fratello  Gualpertino  verso 
la  Repubbhca,  alla  quale  aveva  consegnato  vo- 


]36  ALBERTINO   MUSSA.TO 

lontariamente  quel  fondo  ricchissimo  per  l"uso 
di  fabbricare  il  sale,  che  le  era  stato  negato 
dagli  abati  predecessori  ^).  Ritornando  quin- 
di a  sé  stesso,  cosi  chiude  il  Mussato  Tinvet- 
tiva  :  «  Ritorno  a  me  stesso ,  o  Fratelli ,  o 
Tribuni  della  plebe ,  o  Magnati ,  o  Cittadi- 
ni, qui  riuniti  per  vedermi ,  per  consolarnai , 
per  abbracciarmi.  Non  parlo  a  quella  turba 
ignava  ed  infesta  che  ricusò  di  accogliere  co- 
lui, che  seppe  placare  e  render  munifico  papa 
Bonifacio  Vili,  uomo  dei  più  temuti  al  mondo, 
che  condusse  a'  suoi  consigli  il  magnanimo  En- 
rico A^II  principe  della    terra,  che  sostenne   il 


1)  «.Calcinarìa  chiamasi  la  Penisola  confinante  alla 
veneta  laguna  ceduta  dall'abbate  di  Santa  Giustina  al 
Comune  di  Padova,  per  costruirvi  le  saline.  Il  Senato 
veneto  vide  ciò  di  mal  occhio  per  il  danno  che  ne  pati- 
vano il  pubblico  patrimonio  e  le  saline  di  Chioggia.  Quin- 
di essendo  stati  inutili  gli  amichevoli  trattati  per  indur- 
re i  Padovani  alla  demolizione  e  all'abbandono  delle  sa- 
line, venne  lor  contro  colla  forza  aperta  nel  1304  in- 
sieme colle  truppe  alleate  del  Patriarca  d'Aqaileia  e  del 
Marchese  di  Ferrara,  e  devastate  le  saline  e  diroccato 
il  castello,  costruitosi  per  difesa,  costrinse  i  Padovani  a 
chieder  la  pace  con  patto  che  fossero  a  perpetuità  di- 
strutte le  saline,  nò  mai  più  si  potesse  in  quel  luogo 
edificare  castello  o  rocca  di  sorte  alcuna  ». 

Nota  di  F.  Colle  alla  Notizia  della  vita  e  degli 
scritti  di  Albertino  Mussato.  Memorie  dell'Accademia 
di  Padova,   1809. 


CAPITOLO    QUARTO  137 

manto  purpureo  ad  una  somma  Imperatrice, 
dalla  quale  fu  accolto  tra'  suoi  più  cari  nel- 
l'intime sue  stanze,  che  rese  Vicenza  soggetta 
a  Padova,  e  che  difese,  nei  momenti  supremi, 
la  libertà  della  patria.  A  ragione  certamente 
il  gregge  sozzo  abborrisce  il  vello  d'aureo  mon- 
tone. Stia  lontana  da  voi,  o  Tribuni,  la  fero- 
cia delle  vili  belve  sitibonde  di  sangue  inno- 
cente. Io,  salvato,  consacro  la  mia  salute  ,  le 
mie  fortune,  tutto  quello  che  ancora  possono 
il  mio  ingegno  e  le  mie  facoltà  ai  Padri,  ai 
Magnati,  al  popolo  più  sano  ^).  » 

Questa  invettiva  è  senza  dubbio,  uno  dei 
tratti  più  eloquenti  della  seconda  storia  del 
Mussato  ;  ma,  per  semplicità  e  per  brevità,  ri- 
mane al  di  sotto  delle  orazioni ,  che  abbiamo 
ammirate  nella  Historia  Augusta.  Un  po'  di 
manierismo  e  un  po'  di  rettoricurne  fanno  qua 
e  là  capolino,  a  mostrare  come  l'oratore  aves- 
se studiato  i  classici  e  ne  avesse  subito  l'in- 
fluenza. 

Dopo  i  fatti  che  abbiamo  narrato,  il  Pode- 
stà Dino  de'  Rossi  fu  licenziato  come  fautore 
degli  Alticlini  e  dei  Ronchi,  e  fu  chiamato,  in 
sua  vece,  Ponzino  dei  Ponzoni  cremonese.  Co- 


1)  Be  Gestis  Ital.  ecc.  Lib.  IV.  Rub.  II. 


138  ALBERTINO   MUSSATO 

stili  aveva  a'  suoi  stipendi  un  uomo  fortissimo 
Beltrando  Guglielmi,  il  quale,  dopo  aver  com- 
battuto a  lungo  in  favore  di  Padova  contro 
Cane,  col  pretesto  di  mercedi  che  non  gli  erano 
state  soddisfatte,  passò  al  nemico,  e  da  Vicenza 
faceva  continue  scorrerie  sul  territorio  pado- 
vano, portando  la  strage  dappertutto.  Ponzino, 
raccolto  buon  numero  di  soldati,  mosse  un 
giorno  ad  incontrarlo.  Lo  colse  presso  le  rive 
della  Brenta  e  lo  mise  in  fuga  con  tutti  i  suoi. 
Beltrando  tentò  sottrarsi  all'ire  de'  suoi  inse- 
cutori ,  ma  fu  raggiunto  da  Paolo  Dente,  che 
lo  feri  a  morte  (giugno  1314)  ^).  Incoraggiato 
da  questa  vittoria.  Ponzino  munì  dapprima  il 
castello  di  Abano,  poi  di  nottetempo  si  con- 
dusse dinanzi  alle  porte  di  Vicenza  ;  ma  poiché 
erano  ben  difese  fece  ritorno  in  Padova,  non 
senza  prima  aver  depredato  il  bestiame,  che 
trovò  sparso  nel  paese  nemico  (luglio  1314)  -). 
Ponzino,  come  ben  si  comprende,  aveva  in 
mente  di  ricuperare  Vicenza,  e  questo  suo  pen- 
siero non  lo  lasciava  tranquillo.  Ma  prima  di 
venire  ad  un  nuovo  tentativo,  i  Padovani  si 
volsero  ad  un'opera  utilissima,  anzi  necessaria 


1)  De  Gestis  Hai.  ecc.  Lib.  IV.  Paib.  II. 

2)  De  Gestis  Ital.  ecc.  Lib.  IV.  Rub.  IV. 


CAPITOLO   QUARTO  139 

in  que'  giorni  alla  loro  città;  opera  mirabile 
pel  breve  tempo  in  cui  fu  compiuta.  Il  fatto 
che  le  acque  del  Bacchiglione  venissero  da  Cane 
deviate  a  Longare,  perchè  non  scorressero  verso 
Padova,  si  rinnovava  troppo  di  frequente,  e  il 
danno  che  la  città  ne  soffriva  era  grandissimo. 
Per  ovviare  a  tanto  inconveniente,  i  Padovani 
scavarono  un  canale  tra  Limena  e  Brusegana, 
per  unire  le  acque  della  Brenta  con  quelle  del 
Bacchiglione,  cosicché  quando  queste  fossero  ve- 
nute a  mancare  sopperissero  quelle  al  bisogno 
della  città.  L'opera  fu  fatta  ai  primi  di  luglio, 
e  perchè  i  nemici  non  potessero  impedire  il  la- 
voro, l'esercito  padovano  andò  ad  accamparsi 
di  là  dal  nuovo  canale,  che  fu  detto  la  Bren- 
tella  ^).  Fatte  questo.  Ponzino  si  recò  coU'eser- 
cito  a  Bassano,  donde  uscì  a  devastare  il  paese 
nemico.  ').  Secondo  il  Ferreto,  l'esercito  pado- 
vano si  sarebbe,  in  questa  occasione  ,  avvici- 
nato a  Vicenza  per  assalirla  ;  ma  sarebbe  stato 
fugato  da  Cane  e  da  Bailardino  Nogarola  ^). 
Irritato  lo   Scaligero ,  cavalcò  fino  a    Montec- 


1)  Vedi:  Gennari  — Dell'antico   corso  del  fiumi  in 
Padova,  pag.  82.  Cort.  Lib.  I.  eap.  XXII. 

2)  De  Geslis  hai.  ecc.  Lib.  IV.  Rub.  V. 

^)  Bistoria  Rerum  gestarum  in  Italia  ecc.  nei  Re- 
rum Italicarum  Scriplorcs,  Tomo  IX,  II40. 


140  ALBERTINO    MUSSATO 

«hio,  coir  intenzione  di  dare  una  battaglia  ai 
Padovani,  ma  ne  fu  dissuaso,  per  essere  in- 
feriore di  forze.  Intanto  gli  giunsero  soccorsi 
da  Verona,  da  Mantova  e  da  Castelbarco,  ed 
«gli  allora  si  spinse  sino  alle  porte  di  Padova. 
Il  vescovo  Pagano  della  Torre  e  Gualpertino, 
abate  di  S.  Giustina,  accorsero,  col  clero  e  coi 
cittadini,  in  difesa  della  città;  ma  la  plebe 
stolta  volle  uscire  contro  Cane,  stimando  di  po- 
terlo vincere.  Invano  il  Vescovo  e  l'abate  cer- 
carono di  trattenerla  ;  essa  aperse  le  porte.  Cane 
le  fu  sopra  ;  molti  furono  gli  uccisi ,  molti  i 
prigionieri  ^).  All'annunzio  che  l'esercito  pado- 
vano, stanziato  in  Bassano,  s'era  mosso  contro 
di  lui.  Cane,  raccolte  le  sue  genti,  carico  di  bot- 
tino, fece  ritorno  in  Vicenza  ^). 

Poco  tempo  dopo  parve  a  Ponzino  giunto 
il  momento  di  mandare  ad  effetto  la  vagheg- 
giata impresa. 

Poiché  Cane  aveva  spedito  soccorsi  a  Maffeo 
Visconti  contro  i  Pavesi,  ed  alcune  differenze 
tra  Padova  e  Venezia  erano  state  accomodate, 
egli,  senza  metter  tempo  in  mezzo  e  senza  far 


ij  De  Gestis  Hai.  ecc.  Lib.  IV.  Rub.  VI.  Cort.  Lib.  I. 
Cap.  XXII. 

2)  Ferreto  Tomo  IX.  col.  Mur. 


CAPITOLO    QUARTO  141 

noto  ad  alcuno  il  suo  progetto,  raccolse  ni  breve 
quanti  più  soldati  potè,   e  fece    allestire   mille 
e  cinquecento  carri.  I  cittadini  osservavano,  pieni 
di  stupore,  i  grandi  apparecchi  e  non  sapevano 
indovinarne    il   vero    motivo.  Quand'ecco  verso 
l'alba  del   16  settembre  i  carri  cominciarono  a 
sfilare    per  la    via   che    conduce    a   Monselice. 
Molti  credevano  che  avrebbero  passato  l'Adige; 
ma,  sul  far  della  sera,  senza  suono  di  trombe 
e  senza  rumore  alcuno,  l'esercito  mutò  improv- 
visamente direzione.   Quando  furono  certi  i  Pa- 
dovani, dalla  strada  che  tenevano,  che  la  loro 
meta  sarebbe  stata   Mcenza,   un'allegrezza   fe- 
roce s'impadronì  degli  animi   loro,  e,  pieni  di 
una  stolta  fiducia,  deposero  le  armi   sui  carri, 
ed  inermi  proseguirono  il  cammino.  Ebbe  Pon- 
zino la  cautela  di  far  custodire  gli  angoli  delle 
vie,  affinchè  nessuno    potesse    portare,  innanzi 
tempo,  la  nuova  a  Vicenza.  Giunto    l'esercito, 
sul  far  dell'aurora,  al  ponte  di  Quartesolo,  s'ar- 
restò, affinchè  il  nitrito  dei  cavalli  non  guastas- 
se il  disegno,  e  furono  mandati  innanzi  alcuni 
esploratori    al    sobborgo    di  S.  Pietro.  Tacita- 
mente essi  valicarono  il  fosso,  e,  vedute  le  sen- 
tinelle addormentate,  ne  avvertirono  tosto  Pon- 
zino, che,  con  uno  scelto  drappello,  rapidissimo 
accorse  ed  ammazzate  le  guardie  sonnacchiose 


142  ALBERTINO    MUSSATO 

e  fatto  calare  il  ponte,  entrò,  fra  le  grida  de' 
suoi,  nel  sobborgo.  Il  tumulto,  che  ne  nacque, 
fu  grandissimo;  le  guardie,  che  tentavano  op- 
porre resistenza,  furono  uccise;  i  cittadini  si 
svegliarono  di  soprassalto;  le  trombe  e  le  grida 
dell'esercito  irrompente  risuonavano  altissime 
per  l'aria.  I  borghigiani  stettero  dapprima  in- 
certi^ se  i  Padovani  intendessero  liberarli  da 
Cane  o  dar  loro  il  saccheggio;  ma  poiché  Pon- 
zino li  rassicurò,  proibendo  a'  suoi  di  uccidere  e 
di  far  bottino,  essi  gridarono  ad  una  voce:  Viva 
i  Padovani. 

Reggeva  in  que"  giorni  Vicenza,  Antonio 
Nogarola,  fratello  di  Bailardino  allora  per  caso 
assente;  Cane  si  trovava  in  Verona.  Accorse 
C'ue^li,  con  alcune  schiere  di  Catalani  e  di  Te- 
deschi,  a  difesa  della  porta  della  città  e  mandò 
immediatamente  ad  avvisare  Cane  del  pericolo 
in  cui  si  trovava  Vicenza;  fece  quindi  gettare 
il  fuoco  sopra  le  case  del  sobborgo,  per  costrin- 
gere il  nemico  ad  uscirne.  Ponzino,  in  tanto  fran- 
gente, chiese  il  parere  dei  principali  dell'eser- 
cito. Mussato  consigHò  di  tenere  il  preso  sob- 
borgo, di  munirlo,  di  asserragliare  le  vie,  per 
impedire  l'uscita  ai  Vicentini;  né  frattanto  si 
deponessero  le  armi,  ma  si  tenessero  di  conti- 
nuo rivolte  ai  nemici;  facilmente  poi  si  avrebbe 


CAPITOLO    QUARTO  143 

potuto  circondar  la  città,  dar  fuoco  agli  altri 
sobborghi  e  costringer  Cane  a  ritirarsi.  I  più 
degli  astanti  convennero  in  questo  parere  ;  ma 
Vanni  de"  Scornazzani  di  Pisa,  condottiero  del- 
l'esercito, propose  di  abbandonare  il  sobborgo 
€  di  accamparsi  a  due  miglia  dalla  città.  Muse 
il  consiglio  di  costui,  nomo  assai  reputato  in 
cose  di  guerra,  e  tutto  Tesercito,  quantunque 
a  malincuore,  uscì  dal  sobborgo  per  accamparsi 
all'aperto.  Non  un  segno  d'allegrezza  nei  sol- 
dati; ma  generale  silenzio.  Quand'ecco  Vanni, 
uscendo  dal  sobborgo,  si  fece  innanzi  a  Ponzino, 
a  Giacomo  da  Carrara  e  a  molti  dei  principali, 
e  disse  loro:  «Che  modo  è  il  vostro  di  far  la 
guerra,  o  Padovani?  Perchè  perdonare  ai  vinti 
nemici?  Voi  non  sapete  usare  della  vittoria  e 
la  vostra  dannosa  dolcezza  sarà  giudicata  da 
tutti  pusillanimità.  Allorché  i  vostri  furono  vinti 
dai  nemici  sono  stati  forse  risparmiati?  Hanno 
usato  i  nemici  verso  di  voi  questa  indulgenza, 
0,  a  meglio  dire,  questa  viltà?  In  una  guerra 
contro  capitali  nemici  non  devesi  rifuggire  "né 
dal  ferro,  né  dal  fuoco,  né  dal  saccheggio.  Con- 
cedete ai  vostri  il  bottino  del  sobborgo,  prima 
che  gii  abitanti  mettano  in  salvo  i  loro  averi  » . 
Ponzino  e  gli  altri  risposero  risolutamente  di 
no  ;   ma  i  soldati,  spinti  dal  desiderio  della  pre- 


144  ALBERTINO    MUSSATO 

da,  avevano  già  incominciato  l'orribile  saccheg- 
gio. I  borghigiani,  contro  la  fede  lor  data,  si 
videro  improvvisamente  fatti  segno  al  più  bru- 
tale furore.  I  mercenari,  che  custodivano  la 
porta  della  città,  l'abbandonarono  e  si  sparsero 
per  le  case  ;  a  questi  s'aggiunsero  gli  avidi  Pa- 
dovani, sopraggiunti  dal  campo.  Non  s'ebbe  ri- 
spetto né  a  chiese,  né  a  monasteri;  a  quelle 
furono  rubate  le  reliquie  e  i  sacri  arredi,  a 
questi  rapite,  a  viva  forza,  le  vergini,  per  es- 
sere contaminate  ne'  modi  più  nefandi.  Sfogata» 
in  tal  modo,  l'avarizia  e  la  libidine,  i  Padovani, 
stanchi,  si  diedero  alla  crapula  e  al  vino,  fin- 
ché, gravi  di  cibo  e  di  bevanda,  si  sdraiarono 
qua  e  là  sull'erba  e  si  abbandonarono  al  sonno. 
La  parte  migliore,  ahimè  troppo  piccola!  de- 
plorando grandemente  in  cuor  suo  la  cecità  de- 
gli altri,  stette  in  armi  contro  ogni  possibile 
evento  ^). 

Cangrande  sedeva  al  banchetto  di  nozze  di 
suo  nipote  Franceschino,  che  avea  sposato  una 
figlia  di  Lucchino  Visconti,  allorché  ricevette 
la  nuova  che  il  sobborgo  di  S.  Pietro  era  stato 
occupato    dai    Padovani.  Senza   por    tempo    in 


i)  De  Gestis  Hai.  ecc.  Lib.  VI.  Rub.  I.  Ferreto.  Tomo 
IX.  col.  Mur.  Cort.  Lib.  I.  Cap.  XXIII. 


CAPITOLO   QUARTO  145 

mezzo,  egli  abbandona  la  comitiva,  raccomanda 
Verona  al  nipote,  e  gettatosi  in  ispalla  l'arco, 
ch'era  solito  portare  all'usanza  dei  Parti,  in- 
forca un  veloce  destriero  e,  seguito  da  un  solo 
de'  suoi  ^),  corre  a  Vicenza.  A  Montebello  muta 
in  fretta  il  cavallo  già  stanco  col  fresco  giu- 
mento di  un  contadino,  ed  arriva  sul  tramonto 
alla  città.  Veduto  lo  scompiglio  ed  il  terrore 
degli  abitanti,  si  fa  addurre  dalle  stalle  del 
cognato  Bailardino  un  generoso  cavallo  e,  be- 
vuto un  bicchiere  di  vino  offertogli  da  una  fem- 
minetta,  cogli  occhi  rivolti  al  cielo,  fece  pre- 
ghiera alla  Vergine,  in  onore  della  quale  di- 
giunava due  giorni  per  settimana,  di  farlo  riu- 
scir vincitore,  o  di  fargli  trovare  la  morte  sul 
campo  ^).  Seguito  da  un  centinaio  appena  di 
cavalieri,  usci  quindi  dalla  porta  Lisiera. 

Era  corsa  tra  i  Padovani  la  notizia  della 
venuta  di  Cane  ;  ma  Vanni,  senza  darsene  per 
inteso,  abbandonata  la    custodia  del  sobborgo. 


t)  Secondo  il  Ferreto  sarebbero  stati  tre. 

2)  0,  inquit,  e  Coelis,  Dei  Maria  Geneirix,  cuius  no- 
men  biduano  ieiunio  singxdis  confemplor  liebdomadis, 
adesto  proìvia  tnihi  Diva  parens,  si  digna  peto:  sin 
autem,  dum  aninm  tnisereare,  sii  ineis  ocidis  lux  ista 
novissima. 

De  Gestis  Ital.  ecc.  Lib.  VI.  Rub.  II. 

10 


146  ALBERTINO  MUSSATO 

lasciava  che  i  suoi  andassero    vagando  qua  e 
là  per  l'accampamento. 

Cane,  nell'  uscire,  scorto  Ponzino  circondato 
da  picciol  numero,  a  sciolte  briglie  gli  si  av- 
ventò contro;  ma  Ponzino  fu  presto  a  ridursi 
in  salvo.  Pochi  soltanto,  e  tra  questi  Albertino 
Mussato,  si  opposero  all'impeto  dello  Scaligero; 
ma,  inferiori  di  numero,  dovettero  cedere,  e, 
voltati  i  cavalli,  si  diedero  a  fuga  precipitosa. 
Il  Mussato  volò  sul  ponte  che  attraversava  la 
fossa;  voleva  rattenere  i  fuggenti  e  far  fronte 
ancora  una  volta  al  nemico;  ma  il  cavallo,  es- 
sendosi rotta  un'asse  del  ponte,  incespicò  e  cadde. 
Albertino,  coperto  di  undici  ferite,  si  gettò  nella 
fossa  per  salvarsi;  ma  circondato  dai  nemici, 
malgrado  eroici  sforzi  per  sfuggire  alle  loro 
mani,  fu  fatto  prigioniero  e  condotto  in  città. 
Cane,  imbaldanzito  pel  lieto  evento,  fece 
alzare  la  bandiera  della  Scala  e,  attraversato 
il  ponte,  precipitò  nell'accampamento  dei  Pado- 
vani, gettando  lo  scompiglio  nelle  schiere  av- 
vinazzate e  sonnacchiose.  Giacomo  da  Carrara 
tentò  di  resistergli,  ma  invano;  Barnaba  Mac- 
caruffo  fece  altrettanto,  ma,  sopraftatto  dai  ne- 
mici, mori  sul  campo.  Molti  furono  gli  uccisi  e, 
tra  questi,  non  pochi  delle  famiglie  più  illustri; 
moltissimi  i  prigionieri,  e,  tra  gli  altri,  Giacomo 


CAPITOLO   QUARTO  147 

da  Carrara,  Marsilio  suo  nipote,  Vanni  de' 
Scornazzani  e  Rolando  da  Piazzola.  Sicuro  or- 
mai della  vittoria,  lo  Scaligero  inseguì  i  Pado- 
vani, che  s'erano  dati  a  vergognosa  fuga,  fino 
al  ponte  di  Quartesolo.  Quivi  s'arrestò,  che  i 
nemici  s'erano  tutti  dispersi  per  le  campagne, 
pei  boschi  e  pei  monti.  Per  tre  giorni  continui 
fu  loro  data  la  caccia,  e  il  numero  dei  pri- 
gionieri fu  considerevole  ^).  Condotti  a  Verona 
sotto  una  pioggia  dirotta,  scontarono  fra  i  tor- 
menti la  loro  viltà.  Inestimabile  fu  la  preda 
fatta  dai  vincitori.  Circa  settecento  carri,  ca- 
richi di  preziose  suppellettili,  furono  condotti  nel- 
lo spazio  di  due  giorni  entro  le  mura  di  Vi- 
cenza ~). 

Non  è  a  dire  se  Cane,  di  ritorno  dalla  vinta 
battaglia,  sia  stato  accolto  con  festa  dai  Vicen- 
tini. Ma  egli,  nonché  esser  pago  della  vittoria 
conseguita,  lusingato  dalla  fortuna,  pensava  di 
non  lasciarsi  sfuggire  l'occasione  favorevole  di 
farla  finita  coi  Padovani,  impadronendosi  della 
città  loro.  A  tale  scopo  si  rivolse  a'  suoi  amici 
ed  alleati,  i  quali  tutti  accorsero  pronti  in  suo 


1)  Secondo  il  Ferreto  sarebbero  stati  700,  secondo  il 
Mussato  663,  secondo  i  Cortusii  e  il  Vergerio  1500. 

2)  De  Gesiis  Hai.  ecc.  Lib.  VI.  Rub.  II. 


148  ALBERTINO   MUSSATO 

aiuto,  e  riunì  sotto  le  sue  insegne  quanti  ve- 
ronesi e  vicentini  erano  atti  a  portare  le  armi. 

Alla  nuova  della  disfatta  il  più  profondo 
sgomento  aveva  occupato  gli  animi  dei  Padova- 
ni. Nessuna  schiera,  delle  molte  che  erano  par- 
tite contro  Vicenza,  avea  fatto  ritorno  in  città; 
solo  comparivano  tratto  tratto,  a  due,  a  tre  i 
soldati  feriti  ed  inermi,  e  nessuno  sapea  dire 
che  fosse  avvenuto  di  Ponzino.  La  notte  fu  pas- 
sata fra  il  terrore  e  le  lagrime.  Il  Vescovo  e 
l'Abate  di  S.  Giustina,  insieme  coi  chierici  e 
con  molti  cittadini,  vegliarono  alla  custodia 
della  città.  Lettere  dai  paesi  vicini  annunzia- 
rono, frattanto,  come  in  essi  fossero  ricoverati 
molti  dei  fuggitivi.  Più  tardi  lo  stesso  Podestà, 
che,  mediante  una  grossa  somma,  s'era  riscat- 
tato da  due  soldati  nemici  che  lo  aveano  fatto 
prigioniero,  ritornò  a  rialzare,  colla  sua  pre- 
senza, gli  animi  abbattuti  dei  cittadini. 

Radunato  immediatamente  il  Consiglio,  Pon- 
zino decretò  che  fossero  spediti  messi  a  Treviso, 
a  Bologna,  a  Ferrara,  a  Firenze  per  chiedere 
aiuti.  Oli  aiuti  vennero  e  numerosi.  Intanto  i 
Padovani  fortificarono  le  mura  della  città,  prov- 
videro alla  difesa  della  riviera  di  Monsclice, 
perchè  Cane  non  potesse  passare  il  fiume,  e 
munirono  le  principali  fortezze  sparse  nel  ter- 


CAPITOLO   QUARTO  149 

ritorio.  A  Monselice,  in  luogo  di  Giacomo  da 
Carrara,  a  cui  n'era  stata  affidata  la  custodia, 
fu  mandato  il  Conte  Vinciguerra.  In  que'  giorni 
cadde  una  pioggia  dirotta,  che  fece  straripare 
i  fiumi  e  mutare  in  una  laguna  tutto  il  terri- 
torio di  Padova,  sicché  lo  Scaligero  non  potè 
muoversi  col  suo  esercito  da  Vicenza.  In  questa 
città.  Cane  onorava  nel  suo  stesso  palazzo  Gia- 
como da  Carrara,  Vanni  de'  Scornazzani  ed  al- 
tri illustri  prigionieri,  e  s'intratteneva  con  esso 
loro  in  giuochi  e  in  discorsi,  il  più  delle  volte 
faceti  e  mordaci.  Albertino  Mussato,  fatto  pri- 
gioniero da  Gregorio  da  Poiana,  era  custodito 
nella  casa  di  costui  ^).  Cane,  accompagnato  dai 
principali  della  sua  corte,  si  recava  di  frequente 
a  visitarlo,  parlava  a  lungo  insieme  con  lui 
delle  cose  dell'Imperatore  e  prendeva  diletto  a 
stuzzicarlo  con  motti  pungenti,  come  avea  fatto 
alla  corte  di  Enrico.  Albertino,  non  ostante  la 
prigionia  e  le  ferite,  non  si  perdeva  d'animo, 
e  rispondeva  con  franchezza  all'acre  Signore 
di    Verona  ^).   Un    giorno    gli    disse    com'  egli 


1)  Secondo  il  Ferreto,  il  Mussato  non  sarebbe  stato 
accolto  nel  palazzo  di  Cane,  perchè  non  aveva  ancora 
riportata  la  corona  poetica  :  Nondmn  ille  lauro  hedera- 
que  virenti  sub  poetoe  titulo  decoratus  coronani  attu- 
lerat. 

2)  Il  Dall'Acqua  Giusti  nei  Cenni  sulla    Yila  di  Al- 


150  ALBERTINO   MUSSATO 

avrebbe  sparso  il  sangue  per  la  libertà  della 
patria,  per  la  quale  avrebbe  dato,  se  fosse  stato 
necessario,  la  vita.  Lo  Scaligero  ascoltava,  con 
molta  tolleranza,  le  generose  parole  '). 

In  que'  giorni,  calmate  alquanto  le  ire,  si 
cominciò  a  parlare  di  pace.  Due  fidi  consiglieri 
di  Cane,  spinti  da  Giacomo  da  Carrara  e  da 
Vanni,  proposero  al  loro  Signore  di  far  la  pace 
coi  Padovani.  Cane  dapprima  si  oppose  ;  ma,  in- 
dotto dalle  buone  ragioni,  acconsentì.  Furono 
spediti  messi  a  Padova  per  far  note  al  Senato 
le  intenzioni  dello  Scaligero.  Radunato  il  Con- 
siglio, Maccaruffo,  dolente  per  la  morte  del 
fratello  Barnaba,  consigliò  la  guerra,  mentre 
Ubertino  da  Carrara  parlò  in  favore  della  pace. 
Ne  nacque  uno  scompiglio,  e  l'adunanza  si  sciol- 
se senza  aver  nulla  conchiuso.  Giacomo,  che 
seppe  ogni  cosa,  ottenne  dallo  Scaligero  il  per- 
messo di  recarsi  in  persona  a  Padova  con  Van- 
ni ;  egli  fidava  grandemente  nell'autorità  sua. 
I  Padovani  lo  accolsero  con  grande  festa.  Mac- 


bertino  Mussato,  che  precedono  la  sua  traduzione  ù.e\- 
V Eccelinicle  (Venezia,  Antonelli  1878)  osserva  giustamen- 
te che  «al  Signore  di  Verona  dovettero  essere  abituali 
le  celie  provocatrici:  ben  si  sa  come  per  esse  dovette 
udire  qualche  risposta  assai  acerba  dal  grand'esule  fio- 
rentino». 

1)  Be  Gestis  Ital.  Lib.  VI.  Rub.  IV. 


CAPITOLO   QUARTO  I5l 

carufFo  sostenne  di  nuovo  in  Senato  la  sua  pro- 
posta di  proseguire  la  guerra;  ma  Giacomo 
difese,  con  si  eloquenti  parole,  la  pace,  che 
tutti  votarono  in  favore  di  essa.  Vanni  ebbe 
Tincarico  di  riferire  allo  Scaligero  le  delibera- 
zioni del  Senato,  tra  le  quali  la  condizione  che 
i  banditi  padovani  non  potessero  ritornare  in 
città.  All'  udire  tale  condizione,  Cane  fu  sul 
punto  di  rompere  ogni  trattativa;  ma  le  pru- 
denti parole  de'  suoi  consiglieri  riuscirono  a 
calmarlo.  La  pace  fu  sancita  il  7  ottobre  1314, 
e  Venezia  se  ne  costituì  mallevadrice  ^).  I  patti 
furono:  che  ognuna  delle  due  parti  ritenesse 
quei  luoghi  che  possedeva;  che  ai  Padovani 
fossero  restituite  le  possessioni  che  avevano  nel 
vicentino,  e  ai  Vicentini  quelle  che  avevano  nel 
padovano;  ch'entro  tre  mesi  fossero  sciolte  so- 
vr'esse  le  lit^  se  per  avventura  ne  insorges- 
sero; che  i  prigionieri  fossero  lasciati  dall'una 
parte  e  dall'altra  in  libertà;  che  le  strade  fos- 
sero aperte  a  vantaggio  scambievole;  che  i  Ve- 
neziani fossero  arbitri  in  caso  di  contese  ;  ai 
trasgressori  pena  ventimila  marche  d'argento  ^). 
Padova  accolse,  con  vero  giubilo,  la  notizia 


1)  Cori.  Lib.  I.  Gap.  XXIII. 

-)  De  Gestis  Ital.  Lib.  VI.  Rub.  X.  Cort.  Lib.  I.  Gap. 
XXIII. 


152  ALBERTINO  MUSSATO 

della  pace.  Stanca  della  lunga  guerra  con  lo 
Scaligero  ed  abbattuta  quasi  dalla  terribile 
sconfitta  che  le  era  toccata,  sentiva  prepotente 
il  bisogno  di  un  po'  di  tranquillità,  per  ristorare 
le  forze. 

Volle,  anzitutto,  ricompensare,  almeno  in 
parte,  i  danni  di  que'  luoghi  che  più  avevano 
sofferto  durante  la  guerra;  distribuì  danari, 
compartì  onori,  concesse  esenzioni  e  privilegi, 
rimise  debiti,  dando^  per  tal  modo,  un  nobilis- 
simo esempio,  che  fu  imitato  di  raro.  Né,  ces- 
sate le  angustie  della  guerra,  dimenticò  di  ono- 
rare colui  che  più  l'aveva  soccorsa  col  consi- 
glio e  col  valore  del  braccio:  Albertino  Mus- 
sato. 

In  quei  primi  giorni,  dopo  conchiusa  la  pace, 
egli  s'era  acquistato  un  titolo  di  più  alla  rico- 
noscenza della  patria  sua;  le  avea  fatto  dono 
di  due  opere,  alle  quali,  in  modo  particolare, 
è  affidato  il  suo  nome  ;  Vllistoria  Augusta  e 
la  tragedia  Eccerinis.  Padova  volle,  in  ricam- 
bio, cingergli  la  fronte  dell*  alloro  poetico.  Il 
vescovo  Pagano  della  Torre  ed  Alberto  di  Sas- 
sonia, rettore  dell'Università  avevano  dato  ope- 
ra, perchè  un  tanto  onore  fosse  decretato  ad 
Albertino.  La  ceremonia  fu  solenne.  Quel  giorno 
tutta  la  città  fu  in  festa;  furono  chiusi  i  pub- 


CAPITOLO    QUARTO  153 

blici  uffici,  i  fondachi  e  le  officine  ^).  Il  Poeta, 
che,  per  modestia,  si  schermiva,  fu  incoronato 
d'alloro  nel  pubblico  Studio,  e  si  volle  che  il 
fatto  fosse  registrato  negli  atti  pubblici.  Poscia 
al  suono  delle  trombe  fu  accompagnato  solen- 
nemente alle  sue  case  -).  Il  Rettore,  portando 
due  cerei  ^),  apriva  il  corteo,  e  dietro  a  lui  la 
gioventù  studiosa  batteva,  con  lieto  piede,  la 
terra  ;  le  mani  del  Poeta  erano  coperte  di  guan- 
ti di  capretto,  simbolo  della  tragica  poesia  *). 
Fu  fatta  una  legge  che,  ogni  anno  nel  giorno 
di  Natale^  si  rinnovassero  al  Poeta  gli  onori 
e  si  leggesse  pubblicamente  la  sua  tragedia  ^). 
Questo  particolare,  notato,  con  tanta  precisione, 
dal  Mussato  nella  sua  Epistola  I,  mi  fa  credere, 
con  tutta  ragione,  che  l' incoronazione  abbia 
avuto  luogo  nel  giorno  di  Natale  dell'anno 
1314,  a   dififerenza    del    Dall'Acqua  Giusti,  il 


1)  Albertini  Mussati  Epistola  IV. 

2)  Ibid. 

3)  II  Burckardt  nel  suo  libro:  La  Civiltà  del  secolo 
del  Rinascimento  in  Italia^  Voi.  I,  citando  in  nota,  a 
proposito  dell'incoronazione  del  nostro  poeta,  lo  Scar- 
deone  De  urb.  Fatav.  antiq.  dice  essere  incerto  se  si 
debba  leggere  cereis  muneribus,  o  per  avventura  certis 
ìnuneribus.  La  Epistola  I  del  Mussato  parla  chiaro  : 

Prsepoaitus  binae  portans  hastiiia  ceree. 

4)  Epistola  I. 

5)  Ibid.  Epistola  IV. 


154  ALBERTINO    MUSSATO 

quale  vorrebbe  che    fosse   avvenuta    nell'  anno 
seguente  ^). 

Taccio  del  Tiraboschi  che,  con  evidente  er- 
rore, la  pone  innanzi  la  prigionia  del  Poeta  ^). 
Contro  cotesta  asserzione,  oltre  la  testimonianza 
del  Ferreto,  abbiamo  quella  di  Giovanni  da 
Naone,  il  quale  nel  suo  Liber  de  generatione 
etc.  parlando  con  malignità  dell'incoronazione 
del  Mussato,  quasi  l'avesse  usurpata,  dice  :  es- 
sere avvenuta  dopo  conchiusa  la  pace  tra  Cane 
della  Scala  e  i  Padovani  ^).  Il  Mussato  non  ne 
fa  cenno  nella  sua  storia;  ma  è  da  notare  che, 
dopo  la  pace  con  Cane,  in  quella  storia  c'è  una 
interruzione.  Per  quanti  anni  sia  stata  rinno- 
vata la  festa,  non  si  saprebbe  dire.  Pare  fino 
all'anno  1318  ^).  Le  agitazioni  della  città,  la 
guerra  con  Cane,  le  novelle  legazioni  del  Mus- 
sato devono  averne  impedita,  negli  anni  suc- 
cessivi la  celebrazione.  Lo  Scardeone  vorrebbe 


^)  Alcuni  Scritti  letterari  e  scientifici,  Venezia  1878. 
pag.  52. 

2)  Il  Tommasino,  con  so  con  qual  fondamento,  dice  che 
il  Mussato  fu  coronato  nel  1302,  e  TOngarello  nel  1316. 

3)  Vedi:  Appendice,  Doc.  II. 

4)  Così  fanno  credere,  per  tacere  di  altri,  Giovanni 
da  Naone,  TOngarello  e  il  Cagna  nel  suo  Sommario  del- 
l'origine et  nobiltà  d'alcune  famiglie  della  città  di  Pa- 
dova. 


CAPITOLO   QUARTO  155 

che  la  festa  fosse  stata  sospesa  per  riguardo 
ai  poco  amici  Carraresi.  Forse  egli  deduce  ciò 
dall'esser  stato  eletto,  in  quell'anno,  Giacomo 
da  Carrara  a  Capitano  e  Signore  di  Padova; 
ma,  come  osserva  il  Colle,  «  le  gare  e  i  di- 
sgusti del  Mussato  con  tal  famiglia  si  debbono 
certamente  tardare  di  alcuni  anni  ». 

Albertino  Mussato  è  forse  il  primo,  a  cui, 
dopo  il  risorgimento  delle  lettere,  sia  stata  de- 
cretata la  corona  poetica,  il  che  torna  ad  onore 
grandissimo  di  lui   e  della  sua  città  ^). 


1)  Il  Savonarola  scrive  che  il  Nostro  non  mori  coro- 
nato (Vedi:  Script.  Rer.  Ital.  Tom.  XXIV).  Egli  mostra 
di  non  conoscere  le  Epistole,  nelle  quali  il  Mussato  parla 
chiaramente  deironore  ottenuto.  Forse  fu  tratto  in  errore 
dal  diploma  della  coronazione  del  Petrarca,  dove  ò  detto: 
«la  memoria  di  quest'uso  è  talmente  abolita,  che  da  1300 
anni  non  se  ne  trova  vestigio  ».  Lo  Scardeone  vorrebbe 
che  il  Mussato  avesse,  per  la  prima  volta,  mutato,  in 
questa  occasione,  il  nome  di  Musso  con  quello  di  Musato, 
quasi  a  dire  atto  alle  Muse  {musis  aptus);  ma  questa 
è  una  pura  fantasia  del  canonico  padovano,  perciocché 
il  nostro  poeta  si  chiami  Mussato  -  e  non  Musato  -  più 
frequentemente  che  Musso,  anche  nei  documenti  che 
precedono  la  sua  incoronazione  (Vedi:  Gloria  Bocu- 
ìiienti).  Nello  stesso  errore  cadde  il  Facciolati  [Fasti 
Gymnasii  patavini,  1757)  e  il  Tommasini  {Gymn.  Pat.y 
che  scrisse:  Albertinus  poeta  creatus  est,  atque  cogno- 
men  auctum,  ut  deinceps  ex  Musso  Poeta  Mussatus 
diceretur,  quasi  Musis  charus,  et  subinde  ejus  posteri 
ex  eo  cognomento  aliquandiu  Poetce,  seti  Mussati  dicti 
sunt. 


Capitolo  Quinto. 


Nuovo  tentativo  di  ricuperare  Vicenza  —  Sconfìtta  dei  Pado- 
vani —  Cane  occupa  Monselice  —  Ambasceria  del  Mussato 
a  Bologna,  a  Firenze,  a  Siena  —  Cane  s'impadronisce  di 
Este  e  di  Montagnana  —  Si  rivolge  verso  Padova  —  Nuo- 
va pace  tra  Padova  e  Cane  —  1  fuorusciti  ritornano  in 
città  —  Albertino  Mussato  fugge  da  Padova  —  Giacomo 
da  Carrara  eletto  principe  —  Abboccamento  di  Iacopo 
con  Cane  —  Mussato  viene  richiamato  in  città  —  Cane 
rinnova  le  ostilità  contro  Padova  —  Ambasceria  del  Mus- 
sato in  Toscana  —  Tentativi  inutili  di  pace  —  Iacopo  cede 
la  città  al  Conte  di  Gorizia  rappresentante  Federico  d'Au- 
stria —  Tregua  con  Cane  —  Cane  tenta  sorprendere  di 
nottetempo  Padova  —  Viene  respinto  —  Vittoria  dei  Pa- 
dovani —  Fuga  di  Cane  —  Pace  —  Mussato  ambasciatore 
in  Allemagna  —Il  Duca  di  Carinzia  vicario  di  Padova  — 
Nuove  ostilità  di  Cane  —  Nuova  pace  —  Frate  Paolino  —  Il 
Duca  di  Carinzia  scende  in  Italia  —  Tregua  con  Cane  — 
Morte  di  Iacopo  —  Mussato  ambasciatore  a  Lodovico  il 
Bavaro  —  Tregua  fra  Cane  e  Padova  —  Il  Mussato  di  nuo- 
vo ambasciatore  al  Duca  di  Carinzia  e  a  Lodovico  il  Ba- 
varo —  Congiura  di  Paolo  Dente  —  Vendetta  di  Ubertino 
da  Carrara. 


La  sconfitta  toccata  ai  Padovani  fu  cagione 
di  grande  allegrezza  non  solo  ai  Ghibellini  di 
Lombardia,  ma  di  tutta  l'Italia.  Si  stimò  re- 
ciso il  capo  ai  Guelfi,  poiché  Padova  favoriva 


158  ALBERTINO  MUSSATO 

tutta  la  fazione  guelfa,  posta  ali*  oriente.  Ne 
esultò  particolarmente  Maffeo  Visconti  vicario 
di  Milano.  Giberto  da  Correggio,  Signore  di 
Parma,  guelfo  fino  a  quel  punto,  intimorito 
dalle  ultime  vicende,  strinse  amicizia  con  Pas- 
serino vicario  di  Mantova  e  con  Cane  *).  Non 
è  a  dire  se  questi,  per  la  vittoria  ottenuta,  sia 
salito  in  maggiore  rinomanza  presso  i  suoi  e 
divenuto  più  formidabile  agli  avversarli.  Il  fatto 
si  è  che  i  Padovani,  non  ostante  la  pace  che 
avean  fatto  con  lui ,  non  vivevano  per  nulla 
tranquilli,  e,  insieme  con  essi,  si  sentivano  poco 
sicuri  i  Trevisani  loro  fedeli  alleati.  Cane  non 
cessava  dal  favorire  la  fazione  ghibellina  e  dal 
recarle  soccorso  ovunque  ne  avesse  bisogno; 
ogni  suo  atto  dava  a  divedere  chiaramente  l'in- 
tenzione sua  di  farsi  sempre  più  grande  e  po- 
tente. 

Per  munirsi  contro  ogni  possibile  evento, 
Padovani  e  Trevisani  pensarono  di  rinnovare 
l'antica  alleanza.  A  tale  uopo  fu  spedita  dai 
Padovani  a  Treviso  un'ambasciata,  dopo  la 
quale  i  Podestà  d' entrambe  le  città  s'  abboc- 
carono insieme.  Nel  documento  dell'ambasciata 
e  nella  lettera  scritta  dalla  Repubblica  di  Pa- 


1)  De  Gestis  Hai.  Lib.  VII.  Rub.  I. 


CAPITOLO   QUINTO  159 

dova  ai  Trevisani  il  Mussato  è  detto:  Difen- 
sore del  i^opolo  2^culovano  ').  II  rinnovamento 
di  questa  alleanza  porse  occasione  ad  un'  altra 
maggiore,  per  la  quale  i  Padovani  s'unirono 
con  Bologna  e  con  Ferrara.  Essi  munirono,  nel 
tempo  istesso,  i  loro  castelli,  e  fu  saggio  con- 
siglio, perciocché  lo  Scaligero  aveva  fatto  lega 
coi  Bonacossi  e  con  Uguccione  dalla  Fagiuola. 
Quest'ultimo,  poco  appresso,  cacciato  dalla  Si- 
gnoria a  furore  di  popolo  per  opera  di  Castruc- 
cio  Castracani,  trovò  rifugio  presso  Cangrande, 
che  lo  fece  suo  capitano  generale. 

II  Signor  di  Verona  non  cessava  frattanto 
di  attizzare,  col  mezzo  de'  suoi  partigiani,  le 
discordie  civili  in  Padova  e  nella  Lombardia, 
desideroso  di  muovere  contro  quelli,  che  primi 
gli  avessero  offerto  occasione  *).  I  Padovani, 
d'altra  parte,  aspettavano  anch'essi  il  momento 
opportuno  di  prendere  la  rivincita  su  Cane  e 
di  ricuperare  Vicenza,  alla  perdita  della  quale 
non  sapevano  in  niun  modo  rassegnarsi.  Av- 
venne che  Io  Scaligero  campeggiasse  col  suo 
esercito  il  Bresciano.  Senza  perder  tempo,  i  Pa- 


1)  Vedi  il  documento  767  pubblicato  dal  Verci  nel 
Tomo  VII  della  sua  Storia  della  Marca  Trivigiana  e  Ye- 
ronese. 

2)  De  Gesiis  Ital.  Lib.  VII.  Rub.  XXI. 


160  ALBERTINO  MUSSATO 

dovani,  d'accordo  con  molti  dei  principali  cit- 
tadini di  Vicenza,  stabilirono  di  sorpendere  que- 
sta città  e  di  impadronirsene.  A  capo  dell'im- 
presa fu  chiamato  il  Conte  Vinciguerra  di  Sam- 
bonifazio,  al  quale  s'unirono  molti  banditi  ve- 
ronesi, vicentini  e  d'altre  città.  Con  un  grosso 
esercito,  spargendo  voce  di  recarsi  a  Ferrara, 
egli  si  diresse  verso  Vicenza  ;  pareva  che  l'im- 
presa dovesse  riuscire  a  meraviglia:  ma  fu  al- 
trimenti. Cane  era  stato   avvertito  d'ogni  cosa  ^) 
e  di  nascosto  s'era  introdotto  in  città.   Al  se- 
gnale   convenuto,    i    Padovani    cominciarono  a 
scalare  le  mura;  quand'ecco  Cane  si  rivelò  ad 
essi  improvvisamente.  Grande  fu  lo  scompiglio 
che  ne  nacque  ;  quelli  che  erano  già  dentro  le 
mura,  non  potendo  uscire,  perchè  erano  chiuse 
le  porte,  furono    parte    uccisi,  parte  fatti  pri- 
gioni. Sopravvenne  intanto  in    aiuto   di    Cane 
Uguccione  con  l'esercito.  Cane  allora  aperse  la 
porta  della  città,  e  si  scagliò  contro  l'esercito 
padovano,  che  stava  aspettando  di  fuoiù.  Breve 
fu  il  combattimento;  i   Padovani,  colti  all'im- 


i)  Il  Ferreto  vorrebbe  che  fossero  stati  i  Carraresi  a 
spedire  segreti  messaggeri  a  Cane,  per  far  onta  a  Mac- 
caruffo,  elle  avea  promossa  e  diretta  la  faccenda  (Hist. 
Lib.  VI);  ma  i  Cortusii  dicono  la  trama  esser  stata  ri- 
velata a  Cane  da  alcuni  Vicentini  (Lib.  I.  Gap.  XXY.). 


CAPITOLO   QUINTO  161 

pensata,  si  diedero  a  fuga  precipitosa.  Lo  Sca- 
ligero li  insegui  fino  a  Montegalda,  uccidendone 
e  facendone  prigioni  moltissimi.  11  Conte  di 
Sambonifazio,  ferito  mortalmente,  cadde  nelle 
mani  di  Cane,  il  quale  gli  usò  ogni  riguardo  ; 
pochi  giorni  dopo  egli  moriva.  Tal  fatto  accadde 
il  22  maggio   1317,  giorno  di  Pentecoste. 

Secondo  le  condizioni  della  pace  conchiusa 
tre  anni  innanzi,  lo  Scaligero  si  rivolse  ai  Ve- 
neziani, che  n'erano  mallevadori,  perchè  gli  ve- 
nissero consegnate  le  ventimila  marche  d'ar- 
gento, che  i  Padovani,  per  aver  primi  violati 
gli  accordi,  erano  obbligati  a  pagare.  L'astuto 
Scaligero  s'era  trattenuto  dall' inseguirli  oltre 
i  confini  del  vicentino,  affinchè  non  potessero 
addurre  pretesto  alcuno  per  esimersi  dalla  pena^, 
nella  quale  erano  volontariamente  incorsi.  I  Pa- 
dovani, com'è  facile  supporre,  ricusarono  di  pa- 
gare la  multa,  e  Cane  ne  fu  lieto,  che,  in  tal 
modo,  vedevasi  offerta  buona  ragione  per  muo- 
ver loro  apertamente  la  guerra.  Chiese  pertanto 
"soccorsi  alle  città  ghibelline  della  Lombardia, 
sotto  colore  di  muover  contro  Brescia,  per  non 
destar  sospetto  nei  Padovani,  ed  invocò  l'aiuto 
del  Conte  Enrico  di  Gorizia.  Apparecchiata  ogni 
cosa,  mosse  da  Verona  il  20  dicembre,  ed  uni- 
tosi con  Uguccione,  con  Bailardino,  col  conte 

u 


162  ALBERTINO    MUSSATO 

eli  Gorizia  e  con  altri  capitani  ch'erano  partiti 
da  Vicenza,  attraversò  di  nottetempo  i  colli 
Euganei  ed  arrivò  verso  il  mattino  del  21  a 
Monselice,  prima  ancora  che  i  Padovani  potes- 
sero sospettar  nulla  della  sua  trama.  Un  tra- 
ditore, col  quale  avea  patteggiato  innanzi,  gli 
aperse  una  porta,  e  l'esercito,  senza  incontrar 
resistenza  alcuna,  s'impadronì  del  luogo.  Giunta, 
coll'alba,  la  notizia  a  Padova,  i  cittadini  ne 
furono  grandemente  costernati;  i  più  timorosi, 
prevedendo  che  Cane  si  sarebbe  rivolto  alla 
città  loro,  fuggirono  più  presto  che  di  fretta, 
portando  seco  quanto  aveano  di  più  prezioso, 
e  si  ricoverarono  in  Venezia  ').  Ma  non  si  per- 
dettero d' animo  i  Padri,  i  quali  mandarono 
dapprima  messaggeri  a  Montagnana,  a  Castel- 
baldo,  a  Rovigo,  per  incuorare  quei  Podestà  ed 
eccitarli  alla  vigilanza  e  alla  difesa,  poscia  in- 
viarono ambasciatori  a  Treviso  per  chiedere 
soccorsi,  e,  nello  stesso  tempo,  spedirono  Al- 
bertino Mussato  e  Tisone  de'  Torcoli  ad  implo- 
rare aiuti  da  Bologna,  da  Firenze,  da  Siena. 
Ecco  pertanto  il  Mussato  adoperarsi  un'  altra 
volta  pel  bene  della  sua  patria.  Quale  sia  stato 
l'esito  dell'ambasciata  non  sappiamo,  poiché  nò 


1)  Cort.  Lib.  II.  Gap.  I. 


CAPITOLO   QUINTO  163 

egli  né  altri  ce  ne  hanno  tramandato  notizia. 
Il  solo  particolare  di  essa,  che  il  Mussato  re- 
gistri nella  sua  storia  si  è  :  aver  egli  dovuto 
recarsi  a  Chioggia  per  poi,  con  faticoso  viag- 
gio, lungo  le  coste  dell'Adriatico  ed  attraverso 
la  Romagna,  arrivare  a  Bologna,  essendoché 
la  via  diretta  era  intercettata  dairesercito  di 
Cane  ^).  Non  pare  che  Bologna  né  Firenze  ab- 
biano mandato  soccorsi  di  sorta  alla  Repubblica 
padovana  ;  Treviso,  alia  quale  la  presa  di  Mon- 
selice  destò  grande  terrore,  quasi  avesse  Cane 
alle  porte,  spedi  agli  alleati  duecento  cavalli 
ed  ottocento  fanti  ^j.  Noi  non  sappiamo  nem- 
meno se  il  Mussato  sia  giunto  fino  a  Firenze; 
ma  forse  la  sua  ambasciata  non  fu  del  tutto 
infruttuosa  ;  poiché  come  si  spiega  altrimenti 
il  fatto  che  Cane,  occupata  Monselice,  invece 
di  rivolgersi  a  Padova  si  volse  ad  Este  ?  «  Può 
facilmente  supporsi,  scrive,  non  senza  qualche 
fondamento,  il  Wychgram,  che  Bologna  abbia 
ciò  operato  in  qualche  maniera  ^)  »  .  Il  giorno 
appresso  alla  occupazione  di  Monselice,  Cane 
si  diresse  coll'esercito  ad  Este.  Eroica  resistenza 


1)  De  Gestis  Ital.  Lib,  Vili.  Questo  libro  è  un  fram- 
mento, né  è  diviso  in  Rubriche. 

2)  De  Gestis  Ital.  Lib.  Vili. 

3)  Drittes  Kapitel,  pag.  48. 


164  ALBERTINO    MUSSATO 

oppose  questa  fortezza  allo  Scaligero,  il  quale 
fu  ferito  in  un  piede;  ma  il  giorno  seguente 
essa  cadde  in  potere  del  nemico,  e  fu  data, 
per  vendetta,  alle  fiamme.  Da  Este  il  vincitore 
passò  a  Montagnana,  abbondonata  vilmente  dal 
suo  Podestà,  che  s'era  rifugiato  a  Badia.  In 
pochi  giorni  trentaquattro  tra  castelli  e  fortezze 
del  territorio  padovano  caddero  in  potere  di 
Cane  ^).  Imbaldanzito  da  tanta  fortuna,  lo  Sca- 
ligero si  rivolse  verso  Padova  e  s'accampò  a 
Terradura,  a  sei  miglia  dalla  città.  Padova 
intimorita  gli  domandò,  per  mezzo  di  quattro 
ambasciatori  veneti,  una  tregua,  per  poi  trat- 
tare di  pace.  La  tregua  fu  accordata,  ma  non 
combinata  la  pace.  Ben  due  volte  furono  man- 
dati da  Padova  ambasciatori  a  Cane;  ma  le 
trattative  riuscirono  infruttuose.  Ai  25  gennaio 
1318  lo  Scaligero  entrò  nel  Pievato  di  Sacco, 
mettendo  in  fuga  i  nemici.  Dopo  essersi  impa- 
dronito di  tutti  i  villaggi,  dando  alle  fiamme 
quelli  che  opponevano  resistenza,  fermò  l'eser- 
cito presso  il  Ponte  di  S.  Nicolò,  donde  faceva 


')  Secondo  il  Mussato  la  presa  di  Este  sarebbe  av- 
venuta dopo  quella  di  Montagnana  {De  Gestis  Ital.  Lib. 
Vili);  ma  i  Cortusii,  il  Ferreto  e  Pier  Paolo  Vergerlo 
(Vilce  Princiinwu  Carrariensium)  affermano  il  con- 
trario. 


CAPITOLO    QUINTO  165 

continue  scorrerie  fino  alle  porte  della  vicina 
città  ^).  Invano  i  Trevisani  ed  i  Veneziani  ten- 
tarono ogni  mezzo  per  indurre  la  Repubblica 
padovana  a  chieder  la  pace  allo  Scaligero  ;  essa 
era  ostinata  nel  volergli  resistere.  Frattanto 
sempre  nuovi  soccorsi  arrivavano  da  tutte  le 
parti  al  campo  di  Cane,  sicché  in  breve  il  suo 
esercito  divenne  formidabile.  Il  Duca  d'Austria 
e  quello  di  Carinzia  gli  offersero  anch'essi  il 
loro  aiuto.  I  Padovani,  vedendosi  a  mal  par- 
tito, ottenuta  col  mezzo  di  ambasciatori  vene- 
ziani una  tregua  di  otto  giorni,  si  decisero  fi- 
nalmente alla  pace. 

Radunato  il  Maggior  Consiglio,  Giacomo  da 
Carrara  parlò  in  favore  della  pace.  A  lui  s'op- 
pose ferocemente  Maccaruffo  dei  Maccaruffi,  as- 
serendo che  i  da  Carrara  volevano  la  pace, 
perchè  erano  d'accordo  coi  Ghibellini  ').  Ciò 
nonostante  il  consiglio  di  Giacomo  fu  accettato 
alla  quasi  unanimità,  ed  egli,  Rolando  da  Piaz- 
zola,  Enrico  Scrovegno  e  Giacomo  da  Vigenza 


1)  Cort.  Lib.  II,  Gap.  I. 

2)  Osserva  il  Ferreto  che  le  case  e  le  possessioni  dei 
Carraresi,  sparse  pel  territorio  devastato  da  Cane  in  que- 
sta guerra,  rimasero  illese  da  ogni  danno,  il  che  aumentò 
il  sospetto  della  segreta  intelligenza,  che  si  vuole  passasse 
fra  essi  e  lo  Scaligero. 


166  ALBERTINO    MUSSATO 

furono  deputati  a  trattare  gli  accordi.  Dopo 
lungo  parlamento  con  Cane,  ritornati  in  città, 
presentarono  al  Consiglio  i  capitoli  per  l'appro- 
vazione. Maccaruffo  allora  sollevò  il  popolo  al- 
l'armi, che  corse  furibondo  alle  case  di  coloro 
che  aveano  consigliata  la  pace,  e  le  derubò  e 
le  distrusse  ;  fu  salva  quella  di  Iacopo,  perchè 
protetta  dai    molti    suoi    amici. 

Lo  Scaligero ,  informato  dei  trambusti,  s'era 
presentato  con  tutto  l'esercito  dinanzi  alle  mura 
della  città,  disposto  a  darle  l' assalto.  A  quella 
vista  anche  i  più  accaniti  tra  gli  oppositori  si 
tranquillarono  immediatamente,  ed  i  capitoli  del- 
la pace  furono  approvati  a  grande  maggioran- 
za ^).  Iacopo,  banche  di  notte,  si  recò  co'  suoi 
compagni  al  campo  nemico  ed  ottenne  che  la 
pace  fosse  confermata  da  Cane.  Essa  consisteva 
in  ciò  :  che  lo  Scaligero  ritenesse  e  custodisse 
a  vita  Monselice,  Torre  Estense ,  Castelbaldo , 
Montagnana,  riservatane  la  giurisdizione  ai  Pa- 
dovani, che  Bassano  dovesse  rimanere  ai  Pa- 
dovani e  che  i  fuorusciti  fossero  ricevuti  in 
patria,  rimessi  nei  loro  beni  ed  ammessi  a  tutti 


1)  Di  mille  seicento  e  più  che  diedero  i  loro  voti,  soli 
cento  e  sessanta  sette  i'urono  contrarli. 

Verci,  Storia  della  Marca  Trivigiana  e  Veronese^ 
Doc.  858. 


CAPITOLO   QUINTO  167 

gli  onori.  Quest'ultima  condizione  palesa  chia- 
ramente r  intenzione  dello  Scaligero  ;  egli,  non 
che  dare  la  pace  alla  città  nemica,  voleva  in- 
trodurre in  essa  i  germi  di  nuove  e  terribili 
discordie,  che  gliene  avrebbero  agevolata  la 
conquista.  La  pace  fu  sottoscritta  in  febbraio, 
ed  ai  fuorusciti  venne  assegnato  il  termine  di 
due  mesi  pel  ritorno  in  città/Essi  v'entrarono 
solennemente  il  giorno  di  Pasqua.  Il  Maccaruf- 
fo,  che  s' era  opposto,  con  tanto  ardore,  alla 
pace,  prevedendo  ciò  che  gli  sarebbe  toccato 
al  ritorno  dei  fuorusciti,  abbandonò  prudente- 
mente la  città  e  si  rifugiò  in  Ferrara  presso 
il  Marchese  Rinaldo  d'Este  ;  e  fece  bene,  per- 
ciocché, appena  entrati,  i  fuorusciti  volsero  l'a- 
nimo a  vendicarsi  delle  ingiurie  ricevute,  spo- 
gliando le  case  dei  loro  nemici  ed  uccidendo 
quelli  che  tentavano  di  oppor  resistenza  ^).  Mol- 
ti, per  timore  o  per  togliere  la  causa  di  mag- 
giori discordie,  fuggirono  dalla  città,  e  tra  gli 
altri  Albertino  Mussato  e  suo  fratello  Gual- 
pertino  -).  Obizzo  degli  Obizzi  pisano,  ch'era  ca- 
pitano   del    popolo,  poiché    vide    le  dissensioni 


1)  II.  Maccaruflfo  poi,  quando  seppe  che  la  Repubblica 
avea  dato  la  Signoria  a  Jacopo  da  Carrara,  suo  odiato 
competitore,  si  uni  con  Cane  :  e  qui  fece  male  ! 

2)  Cort.  Lib.  IL  Cap.  II. 


168  ALBERTINO  MUSSATO 

farsi  di  giorno  in  giorno  maggiori,  né  esservi 
modo  di  farle  cessare,  rinunziò  al  proprio  ufficio. 
I  tumulti  nella  città  continuarono  fino  agli  ultimi 
giorni  di  luglio,  nei  quali  venne  eletto  principe 
Giacomo  da  Carrara  ').  «È  da  notarsi  in  que- 
sto fatto  -  scrive  lo  Zanella -che  l'incontami- 
nato vessillo  della  libertà  padovana  era  posto 
in  mano  al  Carrarese  da  quel  Rolando  da 
Piazzola ,  che  abbiamo  veduto  propugnatore 
delle  patrie  franchigie  contro  i  più  cauti  con- 
sigli del  Mussato.  Se  suprema  necessità  della 
patria,  già  sbattuta  e  rotta  da  tante  burrasche, 
non  condusse  Rolando  a  quel  passo,  noi  diremo 
che  la  costanza  non  sempre  si  accoppia  coll'au- 
dacia  delle  opinioni;  e  che  alla  salute  d'un  po- 
polo meglio  provvede  la  temperanza  del  senno, 
che  l'avventata  temerità  del  coraggio  »  ^). 

Del  resto,  poiché  le  condizioni  infelici  della 
città  esigevano,  affinchè  essa  non  avesse  a  pe- 
rire, che  l'autorità  e  la  potenza  venissero  poste 
nelle  mani  di  un  solo,  su  quale  altro,  meglio 
che  sul  Carrarese,  avrebbe  potuto  cadere  la 
scelta?  Egli,  con  arte  sottilissima,  aveva  saputo 


1)  Cori.  Lib.  II.  Gap.  III. 

2)  Guerre  fra  Padovani   e  Yicentini  al   tempo  di 
Dante. 


CAPITOLO   QUINTO  169 

rendersi  accetto  ad  entrambe  le  fazioni,  e,  con 
la  sua  generosità,  cattivarsi  l'animo  del  popolo 
che  lo  salutò,  con  entusiasmo.  Signore  di  Pa- 
dova. 

Piacque  la  nomina  anche  a  Cangrande,  non 
tanto  perchè  avesse  speciale  stima  di  Jacopo, 
quanto  perchè  sperava  di  trovarlo  docile  ai 
suoi  comandi.  Le  prove  di  amicizia  che  il  Car- 
rarese gli  avea  date  lo  facevano  persuaso  che 
gli  sarebbe  rimasto  fedele,  sicché  vedeva  in  lui 
un  mezzo  potente  a  meglio  raggiungere  i  suoi 
fini.  Jacopo,  alla  sua  volta,  era  ben  lieto  di 
vivere  in  pace  con  lo  Scaligero  e  coi  Vene- 
ziani, vicini  formidabili  tutti  e  due,  fin  tanto 
almeno  che  avesse  potuto  rendere  solide  le  basi 
del  suo  principato. 

Cane  mostrò  desiderio  di  abboccarsi  con  Ja- 
copo, e  questi  lo  appagò  di  buon  grado.  Il 
giorno  7  settembre  1318  si  trovarono  insieme 
a  Montegalda.  Cane  voleva  persuadere  il  Car- 
rarese a  bandire  come  traditori  i  fuorusciti  pa- 
dovani, tra  i  quali  il  Mussato;  ma  Jacopo,  con 
sorpresa  dello  Scaligero,  ricusò.  Finse  costui 
di  adattarsi  al  rifiuto  e  rivolse  il  discorso  ad 
altri  argomenti  ;  ma  in  cuor  suo  giurò  di  ven- 
dicarsi. Jacopo  credette  di  averlo  rabbonito  col 
proporre  la  propria  figlia  Taddea  in  moglie  a 


170  ALBERTINO   MUSSATO 

Mastino  nipote  di  lui  ^),  Dopo  di  ciò  si  sepa- 
rarono con  molte  proteste  di  amicizia. 

Albertino  Mussato  fu  presto  richiamato  in 
Padova  insieme  con  gli  altri  fuorusciti.  Jacopo 
conosceva  troppo  il  valore  di  lui,  per  non  cer- 
care di  averlo  a  sé  vicino:  nelle  circostanze 
poco  favorevoli  in  cui  si  trovava,  il  consiglio 
e  l'opera  del  Mussato  gli  potevano  tornare  di 
utilità  grandissima. 

Cane,  frattanto,  dopo  aver  tentato  invano  di 
assoggettare  Treviso,  che  s'era  data  ad  En- 
rico conte  di  Gorizia^  vicario  di  Federico  d'Au- 
stria, unitosi  coi  Marchesi  d'Este  e  coi  fuoru- 
sciti padovani,  nemici  del  Carrarese,  pensò  di 
trovar  modo  di  romper  la  pace  con  Padova, 
non  avendo  un'  onesta  cagione  per  muoverle 
direttamente  la  guerra.  Egli  andava  insinuando 
essere  sua  intenzione  di  cacciare  dal  dominio 
i  Carraresi,  affine  di  ridare  alla  città  l'antico 
reggimento  ^). 

Pertanto  mandò  lettere  a  Iacopo ,  perchè, 
senza  indugio,  richiamasse  in  città  i  fuorusciti 
suoi  partigiani  e  li  restituisse  nei  loro  beni. 
Con  meraviglia  di  Cane,  l'astuto  Carrarese  gli 


1)  Cori.  Lib.  II.  Gap.  III. 
2j  Cort.  Lib.  II.  Gap.  V. 


CAPITOLO   QUINTO  171 

significò,  per  mezzo  di  ambasciatori,  ch'era  di- 
sposto a  richiamarli.  Ciò  non  ostante  lo  Scali- 
gero, volendo  mettere  ad  effetto  il  suo  disegno, 
si  diresse  dapprima  contro  Bassano.  D'accordo 
con  un  traditore  si  sarebbe  impadronito  della 
terra,  senza  colpo  ferire,  se  la  trama,  scoperta 
a  tempo,  non  fosse  stata  sventata  ^).  Cane  di- 
vise l'esercito  in  due  ;  egli  stesso  con  una  parte 
s'avviò  a  Monselice,  donde  mosse  verso  Pado- 
va, presso  la  quale,  con  grande  terrore  dei 
cittadini,  il  giorno  5  agosto  1319,  stabili  il  suo 
campo.  Bailardino  Nogarola,  a  capo  dell'altra, 
pose  l'assedio  a  Cittadella. 

Presso  la  torre  di  Bassanello,  Cane  fece  co- 
struire un  fortissimo  castello  di  legno,  che  de- 
nominò Isola  della  Scala;  vi  pose  a  capo  un 
suo  soldato,  e  fece  deviare  il  fiume  ,  affinchè 
non  scorresse  verso  la  città  ;  le  campagne  al- 
l'intorno furono  tutte  devastate.  A  ciò  s'aggiun- 
ga che  i  Marchesi  d'Este,  secondo  che  erano 
rimasti  d'intelligenza  con  Cane,  avevano  occu- 
pato Badia,  Lendinara  e  Rovigo. 

In  tanto  frangente,  il  Carrarese  non  si  per- 
dette d'animo,  e,  poich'ebbe  cercato  invano  di 
mitigare   l' animo    dello    Scahgero  e  d' indurlo 


3)  Verci  op.  cit.  Uh.  Vi.  Doc.  4S9-490-491. 


172  ALBERTINO   MUSSATO 

alla  pace,  convocò  una  pubblica  assemblea  di 
tutti  i  cittadini.  Dopo  aver  detto  '  brevemente 
ed  efficacemente  com'egli  avesse  tentati  tutti 
i  mezzi  per  conservare  la  pace  alla  città,  il  cui 
dominio  aveva  accettato  solo  per  provvedere  ad 
essa,  siccome  un  padre,  conchiuse:  Poiché  Cane 
ingiustamente  ci  assale,  combattiamo  per  la  li- 
bertà, teniamoci  apparecchiati  nell'armi,  e  quan- 
do venga  il  momento  opportuno,  cavalchiamo 
virilmente  contro  i  nemici.  —  Comanda,  gli  ri- 
sposero ad  una  voce  gli  astanti,  noi  siamo  pronti 
ad  obbedire  ^). 

In  pochi  giorni  la  città  fu  munita  di  spaldi 
e  di  fosse.  Timore  di  fame  non  c'era,  poiché, 
ai  primi  rumori  di  guerra,  i  cittadini  aveano 
trasportato,  dai  dintorni  in  città,  quante  più 
vettovaglie  avevano  potuto;  i  molini,  in  man- 
canza di  acqua,  venivano  fatti  girare  col  mezzo 
di  macchine.  La  custodia  notturna  della  città 
era  affidata  ad  alquanti  dei  nobili,  ed  una  terza 
parte  dei  cittadini  vegliava  di  continuo.  Si  man- 
dò ambasciatori,  per  aver  soccorso,  in  Toscana, 
a  Bologna  e  al  Conte  di  Gorizia  in  Treviso. 
Quelli  mandati  in  Toscana  furono  Ubertino  da 
Carrara,    Giovanni    da    Vigonza    ed    Albertino 


1)  Cort.  Lib.  II.  Gap.  VI. 


CAriTOLO    QUINTO  173 

Mussato.  Nulla  sappiamo  dell'esito  di  questa 
ambasceria  ;  la  storia  del  Mussato,  dopo  l'oc- 
cupazione di  Monselice  da  parte  di  Cane,  ha 
una  lacuna  di  circa  tre  anni,  ed  i  Cortusii,  i 
soli  tra  i  cronisti  che  ne  facciano  menzione, 
s'accontentano  a  un  semplice  cenno  ^).  Ma  se 
nulla  sappiamo  dell'esito  dell'ambasceria,  non 
ignoriamo  ciò  che  è  toccato  ad  Albertino  in 
questo  suo  viaggio  a  Firenze.  Ce  lo  narra  egli 
stesso  in  una  sua  elegia  intitolata  :  il  Sogno  '). 
Colto  da  fortissima  febbre  in  un  albergo  vicino 
a  Firenze,  fu  trasportato  in  questa  città,  dove 
giacque  qualche  tempo  ammalato  e  fece  il  sogno, 
dal  quale  s'intitola  l'elegia.  Altro  non  sappiamo. 
I  Bolognesi,  per  giovare  all'amica  città,  spe- 
dirono ambasciatori  a  Ferrara,  affine  di  acco- 
modare ogni  vertenza  fra  i  Marchesi  d'Este  e 
il  Comune  di  Padova  ^).  Ma  il  Conte  di  Gori- 
zia, al  quale  i  Padovani  offrivano  Bassano  e 
Cittadella  oltre  a  una  somma  di  danaro,  perchè 
venisse  in  loro  aiuto,  s'era  frattanto  amicato 
con  Cane,  dal  quale  aveva  avuto  Asolo,  Mon- 
tebelluna  e  i  castelli  del  distretto  di  Treviso, 
fatta  eccezione  di  Noale.  Il  Conte  stesso  scrisse 


I)  Lib.  II.  Gap.  Vili. 

~)  Somniuin  in  mgritudine  apud  Florentiam  ecc. 

3)  Verci  op.  cit.  Lib,  VI. 


174  ALBERTINO   MUSSATO 

ai  Padovani  di  questa  amicizia,  manifestando 
le  sue  intenzioni  ostili  verso  Padova;  per  la 
qual  cosa  il  Carrarese  fece  dare  alle  fiamme 
Vigonza,  Peraga  e  molte  altre  ville,  temendo 
che  contro  di  esse  si  volgesse  il  Conte  dap- 
prima. Gli  ambasciatori  veneti  cercavano  frat- 
tanto di  metter  la  pace  fra  Cane  e  i  Padovani; 
ma  le  esigenze  di  quello  erano  esorbitanti,  sic- 
ché nulla  fu  potuto  conchiudere. 

In  quel  torno  (1  nov.  1319)  Cittadella  cadde 
in  potere  dello  Scaligero  ^),  e  la  vicina  Bas- 
sano,  per  timore,  si  diede  al  Conte  di  Gori- 
zia ^).  Iacopo,  in  tanta  rovina,  non  vide  altro 
scampo  che  quello  di  rivolgersi  di  nuovo  al 
Conte,  tentando  ogni  via  per  farselo  amico  ;  ma 
prima  di  venire  a  ciò,  volle  vedere  se  gli  riu- 
sciva, col  mezzo  degli  ambasciatori  veneziani, 
di  combinare  la  pace  con  Cane.  Questi  si  man- 
tenne fermo  nelle  sue  pretensioni  e  voleva  di 
più  che  i  Padovani  gli  dessero  Passano  in  cam- 
bio di  Cittadella.  Iacopo  inteso  questo,  diede, 
per  secreto  accordo,  Padova  in  potere  del  Conte 
di  Gorizia,  come  a  rappresentante  di  Federico 
duca  d'Austria.   Il  Conte,  alla  sua  volta,  pro- 


1)  Cort.  Lib.  II.  Gap.  YIII. 

2)  Vedi  la  Cronichella  Trivigiana  di  Liberal  di  Le- 
vada. 


CAPITOLO    QUINTO  175 

mise  di  mettere  in  fuga  Cane  e  di  ricuperare 
ai  Padovani  Monselice,  Montagnana,  Rovigo  e 
tutti  quei  luoghi  che  il  Comune  di  Padova 
aveva  posseduto  per  lo  innanzi  ^), 

Prima  che  la  notizia  di  questo  accordo  si 
divulgasse,  il  Conte  di  Gorizia,  fingendosi  amico 
a  Cane,  mandò  al  castello  di  Bassanello  cento 
soldati  tedeschi,  avendo  comandato  segretamen- 
te al  loro  duce,  che,  vedendo  levarsi  una  ban- 
diera rossa  sulle  mura  di  Padova,  ritenesse  i 
Padovani  amici,  e  consegnasse  Cane  nelle  lo- 
ro mani,  il  che  gli  verrebbe  fatto  assai  facil- 
mente, poiché  questi  era  solito  di  preceder 
l'esercito  nel  correre  contro  gli  inimici.  Cane, 
avvistosi  a  tempo  del  tradimento,  spogliò  i  te- 
deschi dell'armi  e  dei  cavalli,  e  fece  prigionieri 
quanti  non  riuscirono  a  sottrarsi  colla  fuga. 
Dopo  di  ciò  pose  ii  suo  campo  vicino  al  ponte 
di  Vigodarzere  e  mandò  a  Peraga  Traverso 
dei  "Dalesmanini,  affinchè  nessuno  potesse  caval- 
care liberamente  da   Treviso  a  Padova. 

In  quest'  ultima  le  vettovaglie  incominciavano 
a  mancare,  e  il  pericolo  della  fame  era  imminen- 
te. Continui  messi  venivano  spediti  al  Conte  di 
Gorizia,  perchè  affrettasse  il  suo  soccorso.  Egli 


i)  Cort.  Lib.  II 


176  ALBERTINO    MUSSATO 

stava  per  muoversi,  allorché  capitò  in  Treviso 
Ulrico  di  Waldsee,  capitano  della  Stiria^  insieme 
cogli  ambasciatori  del  Duca  di  Carinzia,  per 
combinare,  a  nome  di  Federico  d'Austria,  la  pa- 
ce tra  lui  e  Cangrande.  Quest'ultimo  fu  persuaso 
dalle  parole  di  Ulrico,  ed  aderì  ad  una  tregua 
coi  Padovani,  che  avrebbe  durato  fino  alla  metà 
di  quaresima  ;  dopo  il  qual  termine  si  sarebbe 
tenuto  un  parlamento  a  Bolzano,  per  meglio 
disporre  ogni  cosa.  Piacquero  le  condizioni,  e 
il  giorno  5  gennaio  1320,  il  Signor  di  Waldsee 
ricevette  il  dominio  di  Padova  in  nome  del 
Duca  d'Austria.  Cane,  muniti  i  castelli  dei  Pa- 
dovani ch'erano  rimasti  in  suo  potere,  si  ritirò 
a  Vicenza,  e  il  Conte  di  Gorizia  diede  licenza 
a"  suoi  di  ritornare  alle  loro  case  ^). 

I  Duchi  d'Austria  e  di  Carinzia  non  poterono 
intervenire,  nel  giorno  stabilito,  al  parlamento 
in  Bolzano  ;  il  primo  scrisse  ai  Padovani  ed  a 
Cane  di  voler  prolungata  la  tregua  fino  all'ot- 
tava di  Pasqua.  Quelli  desiderosi  di  obbedire 
ai  comandi  di  lui  mandarono  ambasciatori  a 
Verona  per  significare  allo  Scaligero  com'essi 
fossero  disposti  ad  osservare  la  tregua;  ma 
Cane,  con  poco  riguardo  al  Duca,  impose  loro, 


1;  Cort.  Lib.>L  Gap.  XI. 


CAPITOLO   QUINTO  177 

per  questa  dilazione,  condizioni  tali  ch'essi  non 
poterono  accettare.  La  tregua  per  tanto  fu 
rotta.  Cane,  unito  a  Guecello  da  Camino,  ri- 
tolse dapprima  Asolo  e  MontebelUina  al  Conte 
di  Gorizia,  e  corse  quindi  a  porre  l'assedio  a 
Padova,  che,  turbata  da  intestine  discordie  e 
da  omicidi,  mostrava  che  non  avrebbe  potuto 
resistere  lungamente.  Fu  tenuto  allora  un  par- 
lamento a'  Bolzano  ^),  al  quale  intervenne  il 
Duca  d'Austria.  Lo  Scaligero,  che  s'era  risolto 
d'andarvi,  giunto  a  Trento  si  pentì  e  fece  ri- 
torno. Svanita  ogni  speranza  di  accomodamento 
con  lui,  Federico  rimandò  in  Italia  il  Conte  di 
Gorizia,  con  promesse  di  aiuti  ai  Padovani  ^). 
Ulrico  radunava  frattanto  in  Germania  quante 
più  genti  poteva,  per  scendere  con  esse  al  soc- 
corso di  Padova.  Lo  seppe  Cangrande,  e  volle 
tentare  se  gli  venisse  fatto  di  sorprendere  di 
nottetempo  la  città,  prima  che  giungessero  gli 
aspettati  soccorsi. 

Era  la  notte  del  3  giugno,  e,  fatto  gettare 
un  ponte  di  tavole  sopra  il  canale,  che  scor- 
reva vicino  agli  orti  del  monastero  di  S.    Giu- 


1)  Così  la  Cronichetta  del  Levada.  I  Cortusii  vorreb- 
bero che  il  parlamento  fosse  stato  tenuto  in  Trento  nel 
maggio  1320  (Lib.  IL  Gap.  XIII.). 

2)  De  Gestis  Ital.  Lib.  IX. 

12 


178  ALBERTINO   MUSSATO 

stina,  egli  intromise  furtivamente  in  città,  che 
da  quel  lato  non  avea  mura,  buon  numero  de' 
suoi,  i  quali,  uccise  le  sentinelle,  s'avanzavano 
minacciosi.  Un  soldato  li  scorse,  e,  non  potendo 
loro  opporsi,  si  diede  alla  fuga.  Fuggendo,  s'ab- 
battè in  Nicolò  da  Carrara,  che,  con  un  eletto 
drappello,  girava,  com'era  suo  costume,  intorno 
alle  mura  per  custodia  della  città.  Alla  funesta 
notizia,  egli  precipitò  furibondo  co'  suoi  addosso 
agli  inimici,  che,  atterriti  dall'improvvisa  com- 
parsa e  sopraffatti  dal  numero,  si  diedero  a 
fuga  disordinata.  Il  ponte  si  ruppe;  molti  an- 
negarono miseramente,  altri  furono  fatti  a  pez- 
zi ^).  Per  questa  vittoria  i  Padovani  fecero  il 
giorno  di  poi  una  gran  festa  nella  Chiesa  di 
Santa  Giustina. 

Cane,  irritato  per  la  mala  riuscita  dell'im- 
presa, fece  scavare  una  fossa  dal  ponte  di  Bas- 
sanello  fino  a  quello  dei  Graici,  presso  al  quale 
fece  erigere  un  nuovo  castello:  intendeva  di 
chiudere  la  città  da  tutte  le  parti,  sicché  nes- 
suno potesse  uscirne.  Ma  ben  presto  entrò  in 
Padova,  mandato  dal  Signore  di  Waldsee,  il 
Conte  di  Fàlemberg  con  buon  numero  di  soldati 
tedeschi.    I    Padovani,   incoraggiati    da    questo 


1)  De  Gestis  Ital.  Lib.  IX.  Cori.  Lib.  II.  Cap.  XIY. 


CAPITOLO   QUINTO  179 

soccorso  ed  approfittando  dell'assenza  di  Cane, 
che  era  andato  a  Vicenza,  uscirono  dalla  città 
per  la  porta  di  Pontecorvo,  ed  arrestatisi  vi- 
cino alla  chiesa  di  Sant'Jacopo,  mandarono  in- 
nanzi i  pedoni  a  riempiere  la  fossa  fatta  dai 
nemici.  Se  n'avvide  Simon  Filippo  podestà  del 
Bassanello,  ed  accorse  con  cinquecento  soldati 
a  cavallo  per  impedire  quell'operazione.  Sennon- 
ché Altenerio  degli  Azzoni,  podestà  di  Padova, 
venuto  a  tempo  in  aiuto  de'  suoi,  riportò  una 
gloriosa  vittoria  ,  colla  quale  tolse  ai  nemici 
quattordici  bandiere  e  fece  molti  prigionieri,  tra 
i  quali  Simon  Filippo.  Ciò  avvenne  il  12  luglio, 
nella  festa  dei  Santi  Ermagora  e  Fortunato  ^). 
Volò  Cane  da  Vicenza,  munì  la  fossa  e  vi  fece 
scorrere  l'acqua  che  deviò  dal  canale  di  Mon- 
selice;  credette  cosi  d'impedire  ogni  sforzo  de' 
Padovani  e  fece  ritorno  a  Vicenza.  Padova  si 
vide  ben  presto  alle  strette  per  mancanza  di 
viveri  ;  cionondimeno  tenne  fermo,  né  volle  por- 
gere ascolto  a  chi  le  consigliava  la  pace.  Ai 
25  d'agosto,  finalmente,  con  grande  allegrezza 
degli  assediati,  entrarono  in  città  il  Conte  di 
Gorizia  ed  Ulrico  di  Waldsee,  accompagnati  da 
un  grosso  esercito.   Fu    stabilito  che  il  giorno 


1)  Cort.  Lib.  II.  Gap.  XVI. 


180  ALBERTINO   MUSSATO 

seguente  avrebbero  tentato  di  aprirsi  un  passo, 
per  introdurre  in  città  quante  più  vettovaglie 
fosse  stato  possibile.  Lo  seppe  Cane,  e  la  notte 
stessa  fece  ritorno  in  fretta  al  Bassanello.  Visti 
i  nemici,  che  aveano  incominciato  a  passare  la 
fossa,  usci  loro  incontro  con  mille  cavalli.  S'ac- 
cese un  tìero  combattimento  fra"  le  due  parti, 
e  Cane  stava  per  riportare  vittoria,  allorché 
il  Conte  di  Gorizia,  varcata  la  fossa,  mosse 
contro  di  lui  e  mise  lo  scompiglio  ne'  suoi,  che 
si  diedero  alla  fuga.  Cane  potè  salvarsi  a  stento 
dalle  mani  dei  tedeschi.  Ferito  in  una  coscia, 
fuggi  verso  Monselice,  e  fu  bene  avventurato 
che  un  mugnaio  gli  offrisse,  per  via,  la  propria 
giumenta  ancor  fresca  in  cambio  del  suo  ca- 
vallo ormai  stanco.  Il  castello  di  Bassanello  fu 
preso,  spogliato  di  ogni  cosa  e  distrutto;  l'ac- 
qua tornò  a  scorrere  secondo  l'usato  ^).  Tra  i 
fuorusciti  padovani,  condotti  prigionieri  in  città, 
fu  Maccaruffo  dei  Maccaruffi,  l'oppositore  dei 
Carraresi,  il  quale  venne  ferito  da  Marsilio  da 
Carrara  ed  ucciso  miseramente  da  Tartaro  da 
Lendinara  ^). 


•1)  Cori.  Lib.  II.  Gap.  XVII.  De  Gesiis  Ital.  Lib.  IX. 

2)  «Tuie,  scrive  il  Gennari,  è  stato  il  miserabile  fine 

di  quest'uomo  magnanimo  e  valoroso,  ma  trojipo  più  elio 

non  conveniva  fazioso,  ardente,  e   della   grandezza  dei 


CAPITOLO    QUINTO  181 

Per  otto  giorni  festeggiarono  questa  vittoria 
i  Padovani.  Frattanto  il  loro  esercito  pose  l'as- 
sedio a  Monselice,  donde  Cane,  per  timore, 
s'era  allontanato.  Sospettando  mali  peggiori, 
egli  mostrò  desiderio  di  pace,  alla  quale  sospi- 
ravano gli  stessi  Padovani  estenuati  dalla  lunga 
lotta.  Mandò  pertanto  suoi  ambasciatori  al 
Conte  di  Gorizia  e  al  Signore  di  Waldsee  in 
Este.  11  Conte,  dopo  l'abboccamento  cogli  am- 
basciatori, abbandonato  l'esercito,  fece  ritorno 
in  Padova.  Tal  fatto  insospettì  i  Padovani,  i 
quali,  ritenendosi  traditi  per  non  esser  stati 
chiamati  a  parte  dei  maneggi,  levato  l'assedio 
a  Monselice,  si  rifugiarono  nella  città  loro.  Gli 
Estensi,  pieni  di  sospetto  anch'essi,  fuggirono 
dalla  loro  terra,  la  quale,  rimasta  senza  difesa, 
fu  invasa  dai  fuorusciti  padovani  che,  dopo 
averla  spogliata,  la  diedero  alle  fiamme.  Ciò 
accadde  nel  settembre  del   1320  ^). 

Le   trattative    di  pace,   naturalmente    inter- 


Carraresi  odiatore.  Di  cotesta  sua  sventurata  morte  non 
fa  motto  il  Mussato;  forse  perché  essendo  amico  di  lui 
e  del  medesimo  popolare  partito,  non  poteva  parlarne 
senza  dargli  biasimo  e  mala  voce  di  aver  congiurato 
contro  la  patria;  ma  i  Cortusii  ce  ne  lasciarono  lame- 
moria  (Lib.  II.  Gap.  XVIII.)».  Lettera  sopra  la  famiglia 
de'  Maccaruffi,  Padova,  Bianchi  1857. 
1)  Cort.  Lib.  IL  Gap.  XIX. 


182  ALBERTINO   MUSSATO 

rotte,  furono  ripigliate  dopo  non  molto,  mercè 
l'opera  efficace  di  Ulrico  di  Waldsee.  Verso 
la  line  d'ottobre  la  pace  fu  stipulata  ed  annun- 
ziata ai  popoli,  che  l'accolsero  con  esultanza. 
Per  essa  i  beni  dei  Padovani,  posti  nei  distretti 
di  Vicenza  e  di  Verona,  doveano  essere  ritor- 
nati ai  loro  proprietarii,  e  i  prigionieri  d'ambe 
le  parti  rilasciati  in  libertà.  Cane  avrebbe  con- 
tinuato a  possedere  Monselice,  la  Torre  del 
passo  di  Este,  Montagnana  e  Castelbaldo,  col- 
i'obbligo  di  lasciare  aperti  i  fiumi  e  le  strade, 
finché  il  Duca  d'Austria  avesse  dichiarato  a 
chi  dovessero  spettare  quelle  fortezze  ;  lo  stesso 
Duca  avrebbe  dato  inoltre  sentenza  intorno  ai 
fuorusciti  padovani  e  ai  loro  beni;  pena,  mille 
marchi  d'argento  a  quella  delle  due  parti  che 
avesse  violato  i  patti.  A  questi  s'aggiunsero 
delle  condizioni  scerete,  che,  cioè,  il  Conte  di 
Gorizia  cedesse  Bassano  allo  Scaligero  in  cam- 
bio di  Asolo  e  Montebelluna,  e  che  Cittadella 
fosse  restituita  al  Comune  di  Padova,  il  che 
avvenne  il  primo  febbraio  del   1321  ^). 

Dopo  questa  pace,  Federico  restituì  alla  città 
di  Padova  tutti  i  privilegi  che  Enrico  VII  le 
avea  tolti  con  la  terribile  sentenza  del   1313, 


1)  Cort.  Lib.  II.  Gap.  XX. 


CAPITOLO   QUINTO  183 

e  confermò  all'Università  gli  onori,  che  le  avea 
conceduto  con  altro  suo  decreto. 

Ma  le  cose  non  erano  ancora  perfettamente 
tranquille.  Entrambe  le  parti  avevano  delle  pre- 
tensioni scambievoli,  alle  quali  non  intendevano 
rinunziare.  Si  volsero  pertanto  a  Federico,  come 
ad  arbitro.  Il  Signore  di  Waldsee,  accompa- 
gnato da  tre  ambasciatori  padovani,  andò  a 
costui  verso  la  fine  di  febbraio  del  1321  ;  nello 
stesso  tempo  vi  andarono  gli  ambasciatori  di 
Cane  ;  ma  né  quelli  né  questi  ottennero  nulla. 
Ulrico,  a  cui  premeva  di  mettersi  d'accordo  con 
lo  Scaligero,  si  recò,  nel  mese  di  maggio,  con 
alcuni  nobili  della  città  a  Vicenza  ;  ma,  come 
pare,  senza  frutto.  I  Cortusii  dicono  che  non 
si  potè  ben  sapere  che  cosa  il  Signore  di  Wald- 
see abbia  trattato  con  Cane  ^).  Il  fatto  si  è 
che,  nel  mese  di  luglio,  Ulrico  ritornò  in  Ger- 
mania, e  con  lui  vi  andarono  Nicolò  da  Car- 
rara, Giovanni  da  Camposampiero,  Giovanni  da 
Vigenza,  Aleardo  de'  Basilii  ed  Albertino  Mus- 
sato. Essi  domandavano  che  i  ribelli  di  Padova 
fossero  condannati  come  ribelli  dell'  Impero,  e 
che  Cane  restituisse  tutti  i  casteUi  del  distretto 
padovano,  che   teneva  occupati.  Gli  ambascia- 


1)  Cort.  Lib.  III.  Gap.  I. 


184  ALBERTINO  MUSSATO 

tori  di  Cane,  presenti  anch'essi,  obbiettavano 
essere  i  fuorusciti  padovani  fedeli  all'  Impero, 
e  Cane,  a  giusto  titolo,  possedere  quei  castel- 
li. Essi  offrivano  inoltre  al  Duca  d'Austria  la 
loro  devozione  e  grande  quantità  di  danaro, 
purch'  egli  volesse  nominare  Cangrande  suo  vi- 
cario in  Padova.  Inteso  questo,  Ulrico  ricusò 
di  tornare  a  Padova,  e  Federico  stette  incerto 
su  ciò  che  dovesse  fare,  perciocché  pensava  che 
l'aiuto  di  Cane  gli  poteva  tornare  efficacissimo 
nella  guerra  ch'egli  aveva  col  Bavaro.  Prestò 
tuttavia  ascolto  alla  voce  della  coscienza  e  alle 
istanze  degli  ambasciatori  padovani,  e  nominò 
suo  vicario  in  Padova  il  Duca  di  Carinzia  suo 
fratello.  Questi,  il  giorno  5  settembre  1321, 
accettò  l'incarico,  e  giurò  di  hberare  il  di- 
stretto di  Padova  dal  dominio  di  Cane  ^).  Non 
v'  ha  dubbio  che  a  tale  decisione  di  Federico, 
tanto  favorevole  ai  Padovani,  deve  aver  con- 
tribuito r  eloquenza  del  Mussato. 

Nel  novembre  di  quell'anno  Corrado  di  Oven- 
stein,  vicario  del  Duca  di  Carinzia,  entrò  in 
Padova  con  duecento  cavaheri  ^).  Cane  fu  as- 
sai malcontento  della  sentenza  di  Federico,  e, 


i)  Cort.  Lib.  III.  Gap.  I. 
2)  Ibid. 


CAPITOLO   QUINTO  185 

non  potendo  in  altro  modo  vendicarsi,  eccitò 
i  fuorusciti  a  rinnovare  le  scorrerie  nel  terri- 
torio padovano.  Approfittando  dell'  assenza  di 
Corrado  di  Ovenstein,  il  quale,  con  alcuni  am- 
basciatori padovani,  era  andato  in  Carinzia  per 
trattare  intorno  alla  maniera  di  reprimere  la 
prepotenza  dello  Scaligero,  i  fuorusciti,  con  a 
capo  Corrado  da  Vigonza,  nel  febbraio  del  1322, 
s'accamparono  ad  Este,  e,  dopo  fatta  gran  pre- 
da nei  dintorni,  andarono  a  fortificarsi  in  Vi- 
ghizzolo.  Arquà,  Pernuraia,  Tribano,  Conselve 
e  tutti  i  villaggi  all'  intorno  fino  a  Bovolenta 
caddero  in  loro  potere.  I  Padovani  scrissero 
al  Duca  di  Carinzia,  che  mandò  in  loro  soc- 
corso quattrocento  soldati,  i  quali  furono  spe- 
diti immediatamente  ad  Este.  Tutto  quell'anno 
durarono  le  lotte  tra  i  Padovani  e  i  fuorusciti. 
L'anno  appresso  (1323)  questi,  resi  più  forti 
dall'aiuto  di  Cane,  riuscirono  a  scacciare  da 
Este  e  da  Santa  Maria  delle  Carceri  l'esercito 
padovano.  Dio  sa  quanto  a  lungo  sarebbero 
durate  le  discordie,  se  un  frate  Paolino  dell'or- 
dine dei  minori  non  avesse  cercato  d'indurre 
alla  pace  le  parti  contendenti.  La  pace  fu  con- 
fermata dal  Duca  di  Carinzia  colle  condizioni, 
che  i  fuorusciti  fossero,  senza  indugio,  richia- 
mati in  patria,  che  i  più  potenti  dovessero  stare 


186  ALBERTINO  MUSSATO 

ai  confini  per  sei  mesi,  termine  che  fu  poi  ab- 
breviato, e  che  coloro  che  avevano  inimicizie 
capitali,  come  i  Maccaruffi,  i  Dalesmanini,  Ga- 
boardo  degli  Scrovegni  ed  altri  molti,  dovessero 
stare  ai  mandati  per  un  anno  e  più,  finché  si 
fossero  messi  d'accordo  cogli  intrinseci  ;  condi- 
zioni che  non  furono  interamente  rispettate.  La 
pace  fu  approvata  in  Padova  dal  Maggior  Con- 
siglio il  19  maggio  del  1323  ^).  Frate  Pao- 
lino, mentre  si  recava  in  Carinzia  cogli  altri 
ambasciatori,  fu  colto,  per  via,  dalla  morte.  La 


1)  Cort.  Lib.  III.  Gap.  II. 

Vedi  :  Gloria,  La  pace  del  1323  tra  i  Padovani  in- 
trinseci ed  estrinseci. 

Lo  stesso  Gloria  pubblicò  più  tardi  un  documento  (2 
giugno  1323)  in  cui  Corrado  di  Ovenstein,  alla  presenza 
di  frate  Guido  abate  del  monastero  della  Vangadizza, 
di  Giovanni  Camposampiero,  di  Albertino  Mussalo  poeta 
e  storiografo  padovano,  decreta  «  che  essendo  seguita 
nella  festa  di  San  Pietro  2ylartire  di  quell'anno  la  pace 
tra  i  Padovani  e  i  loro  concittadini  ribelli  e  fuorusciti, 
si  debba  tenere  quella  festa  per  solenne  ogni  anno  in 
Padova,  e  il  capitano  o  vice-capitano,  il  podestà,  gli 
anziani,  i  gastaldi  delle  fraglie  (capi  dei  collegi  delle 
arti),  i  componenti  quesf  ultime  e  gli  officiali  del  Co- 
mune di  Padova  debbano  ogni  anno  nella  detta  festa 
udire  la  messa  all'  altare  dedicato  a  quel  Santo  nella 
chiesa  di  S.  Agostino  di  Padova,  e  far  ad  esso  altare 
quella  offerta  che  vogliano  i  gastaldi  e  gli  anziani  sud- 
detti». 

nocumenti  inediti  intorno  a  Francesco  Petrarca 
e  Albertino  Mussalo.  Doc.  X.  Vedi:  Appendice  Doc.  VI. 


CAPITOLO    QUINTO  187 

sua  fine  immatura  fu  pianta  amaramente  dai 
Padovani.  In  questo  frattempo  moriva  pure  il 
Conte  di  Gorizia.  S'avvicinava  frattanto  il  ter- 
mine in  cui  i  fuorusciti  dovevano  essere  riam- 
messi in  patria  ;  ma  i  Padovani,  fra  i  quali 
principalmente  Nicolò  e  Marsilio  da  Carrara 
coi  loro  aderenti,  Albertino  Mussato,  Giovanni 
da  Camposampiero  e  l'Abate  di  S.  Maria  della 
Badia,  non  intendevano  assolutamente  di  aprir 
loro  le  porte.  Fecero  pertanto  un  Consiglio, 
nel  quale  stabilirono  di  mandare  segretamente 
l'Ovenstein  al  Duca  di  Carinzia  per  indurlo  a 
venire  in  Italia.  L'Ovenstein  vi  andò,  e  seppe 
esporre  cosi  bene  la  cosa,  facendo  conoscere 
al  suo  Signore  le  ingiurie,  che  Cane  recava 
di  continuo  ai  Padovani,  che  il  Duca  lo  man- 
dò innanzi  con  quattrocento  cavalli,  coi  quali 
entrò  in  Padova  l'ultimo  di  maggio  del  1324. 
Il  Duca,  accompagnato  da  Ottone  d'Austria 
e   da  Ulrico  di  AValdsee,  gli  tenne  dietro. 

Dappertutto  dove  passava,  il  suo  esercito 
metteva  lo  spavento  negli  abitanti  e  devastava 
ogni  cosa.  Il  Friuli,  Treviso,  Castelfranco,  Cur- 
tarolo  furono  particolarmente  saccheggiati  da 
quelle  barbare  genti.  Cane,  temendo  il  furore 
dei  tedeschi,  invocò  l'aiuto  de'  suoi  alleati  e  ten- 
tò col  mezzo  di  danari,  di  piegare  il  Duca  dalla 


188  ALBERTINO  MUSSATO 

sua  ;  ma  i  Padovani  lo  prevennero  col  dare  ai 
tedeschi  trenta  mila  fiorini  d"oro.  11  Duca  entrò 
in  Padova  il  21  giugno  per  porta  Ognissan- 
ti e,  nello  stesso  tempo.  Ottone  d'Austria  per 
quella  di  Pontemolino  ;  poco  appresso  uscirono 
entrambi,  ed  andarono  ad  accamparsi  a  Mon- 
selice.  Non  desistette  l' esercito  dalle  rapine, 
dagli  omicidi  e  dagli  incendi,  talché  i  Pado- 
vani ebbero  a  dire,  che  le  guerre  di  Cane  avreb- 
bero loro  nociuto  assai  meno. 

Poco  dopo,  0  pei  maneggi  dello  Scaligero,  o 
perchè  la  fortezza  di  Monselice  gli  paresse  ine- 
spugnabile, il  Duca  fece  ritirare  l'esercito  verso 
Padova  e  si  accampò  sulle  rive  della  Brenta. 
Temettero  i  Padovani  che  volesse  saccheggiare 
la  città,  e  perciò  s'armarono  e  fecero  ingiuria 
ad  alcuni  tedeschi  che  si  trovavano  dentro  le 
mura.  Per  questo  eccesso,  taluni  cittadini  in- 
nocenti furono  condannati  alla  forca. 

Ai  26  di  luglio,  fatta  tregua  con  Cane  fino 
al  Natale  ^),  il  Duca  fece  ritorno  in  Allema- 
gna,  lasciando  la  città  in  custodia  al  Conte  di 
Falemberg  -).  Per  tal  modo,  osservano  i  Cor- 
tusii,  il  Duce  di  tante  genti,  senza  aver  fatto- 


1)  E  non  fino  a  Pasqua,  come  scrive  nelle  sue  Cro- 
niche Giovanni  Villani. 

2)  Cori.  Lib.  III.  Gap.  IV. 


CAPITOLO    QUINTO  189 

ingiuria   ai    nemici,  con  danno    gravissimo  dei 
Padovani,  fece  turpemente  ritorno  ^). 

Ai  22  novemÌ3re  (1324)  moriva  Giacomo  da 
Carrara,  in  età  di  sessant'anni,  lasciando  erede 
Marsilio  suo  nipote.  Egli  moriva  compianto  da 
tutti  per  le  sue  eminenti  virtù.  Poco  appresso 
spirava  la  tregua  che  il  Duca  di  Carinzia  aveva 
conceduta  a  Cane.  Tutti  gli  abitanti  dei  villaggi 
del  territorio  padovano,  fatta  eccezione  di  quelli 
dei  villaggi  di  Pedevenda  fino  ad  Abano,  che 
s'erano  dati  a  Cane,  si  rifugiarono,  per  timore, 
in  città,  portando  seco  le  vettovaglie.  I  Pado- 
vani, per  scongiurare  la  procella  che  loro  so- 
vrastava, scrissero  al  Duca  di  Carinzia,  il  quale 
fece  loro  grandi  promesse  e  nulla  più.  Cane 
mandò  Ribaldo  suo  capitano  nel  territorio  di 
Treviso  e  il  marchese  Malaspina  in  quello  di 
Padova.  Prese  il  primo  ed  abbruciò  Brusaporco 
il  13  gennaio  1325;  assediò  il  secondo  Vighiz- 
zolo,  e  se  ne  impadronì  il  20  dello  stesso  mese. 
Dopo  di  ciò  lo  Scaligero  pose  il  suo  campo  a 
Conselve  e  scrisse  ai  Padovani  che  mandassero 
a  lui  alcuni  popolani  per  trattare  di  pace  ;  egli 
frattanto  si  sarebbe  astenuto  dagli  incendii  '). 


i)  Lib.  III.  Gap.  IV. 

2)  Cosi  i  Cortusii  Lib.  III.  Gap.  V.  L'Anoaimo  Foscari- 
niano  dice  che  i  fuorusciti,  che  erano  nel  campo  di  Ga- 


190  ALBERTINO  MUSSATO 

Gli  risposero  i  Padovani  :  essere  ben  contenti 
di  fare  la  pace,  purché  Cane  avesse  pazienza 
fino  a  che  intendessero  il  parere  dei  loro  ami- 
ci, i  Trevisani.  Parve  allo  Scaligero  che  respin- 
gessero, in  tal  maniera,  la  sua  proposta,  e  co- 
mandò che  fossero  dati  alle  fiamme  tutti  i  vil- 
laggi del  Pievato  e  devastate  le  campagne  fino 
alle  porte  della  città.  Spaventati  i  Padovani 
per  tanta  audacia  di  Cane,  e  non  sentendosi 
in  grado,  senza  gli  aiuti  del  Duca,  che  avea- 
no  attesi  invano  fino  allora,  di  opporgli  resi- 
stenza, si  rivolsero,  come  sempre  nei  momenti 
più  difiicih,  al  senno  del  loro  grande  concittadi- 
no Albertino  Mussato,  e  lo  spedirono,  insieme 
con  Pietro  Campagnola,  ambasciatore  a  Lodo- 
vico il  Bavaro. 

Dopo  la  vittoria  di  Miihldorf  sopra  Federi- 
co d' Austria,  Lodovico  era  ritenuto  solo  e  le- 
gittimo sovrano,  e  tanto  maggiormente  dopo- 
ché Federico,  per  essere  liberato  dalla  prigione, 
aveva  rinunziato,  in  favore  dell'avversario,  ad 
ogni  pretensione.  Lodovico  prestò  benigno  orec- 
chio agli  ambasciatori  padovani,  e  mandò  al- 
cuni suoi  fidati  a  Cane,  per  indurlo  ad  un  ac- 


ne, s'  erano  offerti  al  Consiglio  di  Padova  a  trattar  di 
pace  e  di  accordo. 


CAPITOLO   QUINTO  191 

comoclamento  con  Padova.  A  Rovereto  fu  sta- 
bilita una  tregua  fra  le  due  parti,  fino  al  San 
Martino  di  quell'  anno.  Cane  avrebbe  ritenuto 
frattanto  tutte  le  ville  del  Padovano  che  ave- 
va fino  allora  occupate.  La  tregua  fu  annun- 
ziata ai  Padovani  il  6  giugno  da  Albertino 
Mussato  e  da  Pietro  Campagnola. 

Poco  dopo,  invitati  dal  Duca  di  Carinzia,  che 
trovavasi  in  Inspruck  per  essere  incoronato  re 
di  Boemia,  i  Padovani  mandarono  cplà  i  due 
ambasciatori,  affinchè  facessero  valere  i  diritti 
della  città  loro  dinanzi  a  Lodovico  il  Bavaro 
e  a  Federico  d'Austria,  rimettendosi  alla  co- 
storo decisione.  Altrettanto  fece  Cangrande.  I 
due  principi  stabilirono,  che  Padova  riavrebbe 
le  ville  di  Pedevenda  e  tutte  le  altre  che  pos- 
sedeva al  tempo  di  Ulrico  di  Waldsee,  finché 
essi  d'accordo  componessero  ogni  lite  fra  le 
parti,  la  qualcosa  promisero  di  fare  entro  il 
termine  di  un  anno  ;  le  parti,  frattanto,  dove- 
vano desistere  da  ogni  ostilità. 

Il  solo  Pietro  Campagnola  potè  riferire  ai 
Padovani  l' esito  dell'  ambasciata.  Albertino 
Mussato  fu  costretto  ad  arrestarsi  in  Vicenza, 
poiché  nella  sua  città  erano  accaduti  tali  fatti, 
che  avrebbero  reso  assai  pericoloso  il  suo  ri- 
torno. 


192  ALBERTINO    MUSSATO 

Cagione  della  guerra  civile,  che  in  quei  gior- 
ni funestava  Padova,  era  stata  1'  uccisione  di 
Guglielmo  Dente.  Questi  ed  Ubertino  da  Car- 
rara, uniti  per  doppia  parentela  ed  amicissimi 
dapprima,  erano  divenuti  nemici,  causa  una  bal- 
dracca,  che  entrambi  avvicinavano.  La  discor- 
dia era  andata  tant'  oltre  che,  il  17  giugno 
1325,  Ubertino,  insieme  con  Tartaro  da  Len- 
dinara,  uccise  Guglielmo.  Il  fatto  non  poteva 
rimanere  impunito,  nonostante  che  Ubertino  e 
Tartaro  pretendessero  di  rimanere,  armata  ma- 
no, in  cittcà.  Il  Podestà  PoUione  dei  Beccadelli 
di  Bologna,  coli'  assenso  dello  stesso  Marsilio 
da  Carrara,  li  bandi  entrambi  e  ne  fece  spo- 
gliare le  case.  Indignati  i  banditi  e  desiderosi 
di  vendetta  si  rivolsero  a  Cane,  promettendo- 
gli di  farlo  Signore  di  Padova,  e  dandogli,  per 
ciò,  in  ostaggio  i  tìgli  ed  i  nipoti  ;  ma  le  pre- 
ghiere di  Marsilio  e  degli  altri  Carraresi  li 
fecero  desistere  dal  feroce  proposito.  Paolo  Den- 
te, fratello  naturale  di  Guglielmo,  non  conten- 
to della  punizione  inflitta  agli  uccisori,  suscitò 
una  terribile  congiura  contro  tutti  i  Carraresi. 

Il  22  settembre  i  congiurati  si  sollevarono 
al  grido  di:  muoiano  i  traditori  da  Carrara. 
L'Abate  di  Santa  Giustina  si  unì  con  Paolo 
Dente,  e  il  Podestà  anch'  esso  favori  la   con> 


CAPITOLO    QUINTO  193 

giura,  eccitando  il  popolo  all'  armi  col  suono 
della  campana  del  Comune.  I  Carraresi,  dinan- 
zi a  tanto  pericolo^,  non  si  perdettero  d'  animo  ; 
ma,  armati,  a  cavallo,  si  fecero  coraggiosamente 
incontro  agli  inimici.  Allora  s'appiccò  fra  le 
due  parti  una  fierissima  zuffa,  che  durò  un'  ora 
e  più,  finché  i  Tedeschi,  eh'  eran  di  guarni- 
gione, non  accorsero  a  farla  cessare.  Questi 
favorivano  Paolo;  per  ciò  fingendo  voler  com- 
porre a  pace  le  parti,  mentre  comandavano  ai 
Carraresi  di  ritirarsi,  non  impedivano  ai  solle- 
vati d' incalzarli.  I  Carraresi,  non  vedendo  al- 
tra via  di  salvezza,  e  confortati  dal  popolo,  che 
s'  era  stretto  intorno  ad  essi  per  l' amore  che 
portava  a  quella  famiglia,  riappiccarono,  con 
ardore  incredibile,  la  lotta,  finché  costrinsero 
Paolo  a  ritirarsi,  il  quale  si  rifugiò  a  Treville. 
Se  Paolo,  osservano  i  Cortusii,  non  fosse  sta- 
to abbandonato  dai  congiurati  avrebbe  fatto 
lagrimoso  quel  giorno  ai  Carraresi  ^}.  Ma  la 
vittoria  costò  a  questi  assai  cara,  perciocché 
perdettero  molti  dei  loro  più  cari  amici,  ed 
essi  stessi  riportarono  gravissime  ferite.  Mar- 
silio ebbe  ucciso  due  cavalli  e,  per  le  molte 
ferite,  fu  presso  a  morte.  11  giorno  di  poi  gli 


1)  Lib.  III.  Gap.  VI. 

13 


194  ALBERTINO   MUSSATO 

uccisori  di  Guglielmo  Dente  rientrarono  in  Pa- 
dova, e,  poiché  aveano  saputo  che  il  Podestà 
aveva  prestato  favore  a  Paolo  contro  i  Carra- 
resi, eccitato  il  popolo,  corsero  ad  assalire  la 
sua  casa. 

Pollione,  spaventato,  s' era  vilmente  nasco- 
sto. Tutti  di  sua  famiglia  furono  trucidati  senza 
misericordia  ;  alcuni,  in  preda  alla  disperazio- 
ne, per  sfuggire  alle  mani  degli  uccisori,  si 
precipitarono  dall'  alto  del  palazzo.  Lo  stesso 
Podestà,  tratto  dal  suo  nascondiglio  ed  inse- 
guito dai  nemici,  si  gettò  dal  tetto,  ed  anco- 
ra semivivo  fu  crudelmente  scannato.  Il  palazzo 
del  Comune  venne,  in  quel  giorno,  saccheg- 
giato dal  furore  popolare,  e  le  pubbliche  scrit- 
ture furono  date  tutte  alle  fiamme.  I  Carraresi 
vincitori  chiamarono  a  Podestà  Corrado  de'  Boc- 
chi bresciano,  col  patto  che  non  avrebbe  fatto 
ragione  dei  malefizii  perpetrati  innanzi  la  sua 
elezione. 

Neil'  ottobre  seguente  al  Conte  di  Fàlem- 
berg  fu  sostituito,  quale  vicario  di  Padova, 
Corrado  di  Ovenstein.  Per  la  venuta  di  costui 
Paolo  Dente  fu  lietissimo,  essendoché  Corrado 
gli  si  professava  amico  ;  ma  ebbe  a  rimanere 
disingannato.  I  Carraresi  furono  tosto  dattor- 
no ali'  Ovenstein,  lo  colmarono   di    blandizie  e 


CAPITOLO   QUINTO  195 

lo  indussero  a  pronunziare  sentenza    di   bando 
contro   Dente    e    i    suoi    seguaci. 

La  sentenza  fu  pubblicata  il  14  dicembre, 
ed  in  essa  furono  compresi  l' Abate  di  Santa 
Giustina  con  due  suoi  figli  illegittimi,  Corrado 
da  Vigonza,  Aicardino  Malizia  coi  figli,  Vita- 
liano figlio  di  Albertino  Mussato  ed  altri  molti. 
Albertino,  che  s'era  trattenuto  in  Vicenza,  fu, 
per  colpa  del  fratello  e  del  figlio,  confinato  a 
Chioggia  ^) 


i]  Cori.  Lib.  III.  Gap.  VI.  Vergerlo  YUa  libertini. 


Capitolo  Sesto. 


Mussato  esule  a  Chioggia  —  È  visitato  da  Marsilio  da  Car- 
rara —  Corrado  di  Ovenstein  vicario  di  Padova  —  I  Car- 
raresi lo  colmano  di  doni  e  di  blandizie  —  Engelmario 
di  Villandres  —  Il  Podestà  Iacopino  de'  Bocchi  —  Soprusi 
di  Ubertino  da  Carrara  —  Corrado  da  Vigonza  dà  l'as- 
salto alla  Torre  di  Curano  —  Viea  fatto  prigioniero  e 
decapitato  —  Scelleratezza  di  Ubertino  da  Carrara,  di 
Tartaro  da  Lendinara  e  di  Engelmario  —  Lodovico  il 
Bavaro  discende  in  Italia  —  Cane  gli  domanda  il  vica- 
riato di  Padova  —  Non  l'ottiene  —  Prolunga  di  due  anni 
la  tregua  col  Duca  di  Carinzia  —  Congiura  di  Nicolò  da 
Carrara  —  Marsilio  ricorre  per  aiuti  al  Duca  di  Carinzia 

—  Condizione  miseranda  di  Padova  —  Nuove  scelleratezze 
di  Ubertino  e  di  Tartaro  —  Congresso  a  Verona  —  Di- 
scordia fra  Marsiiieto  ed  Ubertino  —  Marsilio  affida  sé 
e  la  città  nelle  mani  di  Cane  —  Che  pensi  il  Mussato  di 
questa  determinazione  —  Marsilio  Signore  di  Padova  — 
Solenne  ingresso  di  Cane  in  Padova  —  Nozze  di  Mastino 
e  Taddea  —  Mussato  fa  ritorno  segretamente  in  Padova 

—  Marsilio  non  acconsente  alla  sua  venuta  —  Albertino 
fa  ritorno  in  Chioggia  —  Riceve  nuove  ingiurie  da  Mar- 
silio —  Muore. 


Da  questo  punto  il  Mussato  non  ha  più 
parte  nelle  faccende  della  sua  città;  una  sola 
volta,  come  vedremo,  mette  piede  in  essa, 
colla    speranza  di   potervisi    fermare;   ma  ben 


198  ALBERTINO   MUSSATO 

tosto,  deluso,  ricalca  la  via  dell'esilio,  e,  poco 
appresso,  muore,  ancor  giovane,  in  Chioggia. 
Da  questa  città  egli  segui,  con  occhio  at- 
tento, tutti  gli  avvenimenti  che  si  succedevano 
in  Padova,  e  ne  tramandò  la  notizia  ai  po- 
steri. V  ha  chi  dice,  ch'egU  non  sia  veritiero 
nella  sua  narrazione,  specialmente  in  ciò  che 
riguarda  i  Carraresi,  avendo  concepito  un  grave 
odio  contro  di  essi,  ch'erano  stati  causa  della 
sua  sventura;  sicché  dove  prima  li  aveva  Iot 
dati,  ne  disse  poi  tanto  male.  Cosi  afferma,  fra 
gii  altri,  il  Verci  ^),  e  c'è  chi  soggiunge,  che 
il  libro  XII  De  Gesfis  lialicorwn  post  Hen- 
ricum  VII  Ccesarem  —  quello  appunto  in  cui 
è  detto  questo  male  —  si  fa  conoscere  scritto 
con  una  penna  intinta  nel  veleno  ^). 


1)  Storia  della  Marca  Trivigiana  e  Veronese.  — 
Libro  Vili,  Venezia  1788. 

2)  Vedi:  Difesa  di  Marsilio  da  Carrara  secondo 
Signor  di  Padova  contro  le  maldicenze  di  Albertino 
Mussato,  compilata  dall' ab.  Giuseppe  Bianchi  parroco 
di  Albignasego.  —  Padova,  coi  tipi  del  Seminario  1835. 

Anche  Giovanni  Cittadella,  nel  Capitolo  XII  della  sua 
Stoì'ia  della  Dominazione  Carrarese  in  Padova,  dopo 
aver  detto  che  Albertino  si  sdegnò,  e?  giustamente,  del- 
l'esilio, soggiunge:  «né  avendo  altre  arme  a  riscuotersi 
dei  da  Carrara,  i  quali  del  crudele  decreto  furono  au- 
tori principalissimi,  usò  la  sola  che  era  da  lui,  oltrag- 
giandone cioè  cogli  scritti  il  nome  e  la  ricordanza.  De- 
gno di  biasimo  per  la  viltà  sempre  compagna  al  ricatto, 


CAPITOLO    SESTO  199 

Che  il  Mussato,  mosso  da  giusto  sdegno 
contro  i  Carraresi,  abbia  esagerato  nel  dirne 
male,  è  assai  probabile;  ma  non  possiamo  am- 
mettere assolutamente  che  nella  sua  narrazione 
c'entri  la  mala  fede. 

L'animo  di  lui,  nobilissimo  in  ogni  circo- 
stanza della  sua  vita,  non  poteva  discendere 
a  così  bassa  vendetta.  Che  se  talvolta,  per  av- 
ventura, non  ha  detto  il  vero,  deve  esser  stato 
tratto  in  inganno  da  coloro  che  gli  riferivano 
gli  avvenimenti. 

Nel  seguire  pertanto  la  narrazione  del  Mus- 
sato in  quest'ultima  parte  della  sua  storia,  noi 
andremo  assai  cauti,  affine  di  scoprire,  se  ci  sarà 
possibile,  la  pura  verità.  Intorno  a  ciò,  del 
resto,  ch'egli  ebbe  a  soffrire  da  Marsilio,  alla 
relazione  che  mantenne  per  qualche  tempo  con 


e  per  avere  in  ta!  guisa  di  una  sola,  ma  negra  macchia, 
contaminato  le  sue  benemerenze  a  prò  della  patria. 
Troppi  erano  i  suoi  diritti  alla  comune  riconoscenza, 
troppo  oltraggioso  il  ricambio  ch'ei  n'ebbe  per  dubitare 
di  non  trarne  la  più  bella  delle  vendette,  l'ammirazione 
di  tutti  alle  sue  virtù,  di  tutti  la  riprovazione  contro 
la  sancita  condanna».  In  una  nota  poi  riproduce  una 
specie  di  prefazione  di  autore  anonimo  contro  il  Mus- 
sato e  in  difesa  dei  principi  Carraresi  premessa  al  li- 
bro XII  De  Gestis,  trascritto  in  un  Codice  membrana- 
ceo della  Raccolta  Piazza,  prefazione  stimata  dal  Bian- 
chi un'apologia  dettata  da  Pier  Paolo  Vergerlo  in  onore 
della  famiglia  Carrarese. 


2C0  ALBERTINO   MUSSATO 

lui,  alle  promesse  che  n'  ebbe,  non  mai  poscia 
adempiute,  non  mettiamo  punto  di  dubbio  che 
la  sua  narrazione  sia  vera  :  sono  cose  che  lo 
toccarono  direttamente,  ed  egli  n'è  il  testi- 
monio più  sicuro. 

Gravissimo  è  il  lagno  che  egli  muove  per 
la  condotta  di  Marsilio  verso  di  lui  ;  ma  chi 
potrebbe  dargli  torto  ?  Se  e'  era  uomo  al 
quale  Marsilio  dovesse  mostrare  gratitudine, 
questi  era  il  Mussato,  il  quale,  nella  lotta 
contro  Cane,  gli  aveva  prestato  valido  aiuto 
e  segnalati  servigi.  Marsilio  invece,  per  tutta 
ricompensa,  lo  fece  bandire,  e  ciò  con  aper- 
ta ingiustizia  ;  perciocché  qual  colpa  aveva 
Albertino,  se  suo  fratello  e  suo  tìglio  avevano 
favorito  i  ribelli?  Il  Wychgram  è  d'avviso 
doversi  cercare  una  spiegazione  di  questo  con- 
tegno di  Marsilio  verso  Albertino  non  tanto 
nel  fatto  che  l'Abate  di  Santa  Giustina  si  sia 
schierato  a  favore  di  Paolo  Dente  contro  i  da 
Carrara,  quanto  nell'improvviso  mutamento  della 
politica  dei  Carraresi  verso  Cane.  MarsiHo  in- 
fatti nell'ultima  ribellione  avea  veduto  come 
la  sua  Signoria  si  fondasse  su  troppo  deboli 
basi,  e  come  V  opposizione  sua  al  potente  vi- 
cino avrebbe  affrettata  la  sua  rovina.  Egli 
pertanto  stabilì  in  cuor    suo    di    dare,  quando 


CAPITOLO    SESTO  201 

fosse  il  momento  opportuno,  la  città  in  po- 
tere dello  Scaligero,  perchè  questi  ne  inve- 
stisse lui  della  Signoria.  A  mandare  ad  effetto 
questo  divisamente  era  necessario  allontanare 
tutti  coloro  che  avrebbero  potuto  opporvisi,  tra 
i  quali  primo  il  Mussato.  Ora  quale  pretesto 
migliore  per  liberarsi  di  quest'uomo,  che  quello 
della  partecipazione  di  suo  fratello  e  di  suo 
figlio  alla  congiura  contro  i  Carraresi?'). 

E  l'astuto  Marsilio  non  si  lasciò  sfuggire 
un  tale  pretesto.  Vide  tuttavia  egli  stesso  che 
l'esigiio  di  Albertino  era  un'aperta  ingiustizia, 
e,  temendo  lo  storico,  che  l'avrebbe  fatta  co- 
noscere alla  posterità,  volle,  alla  prima  occa- 
sione, giustificarsi  con  lo  stesso  Mussato,  il 
quale,  uomo  di  buona  fede,  credette,  in  sulle 
prime,  alla  sincerità  delle  parole  di  Marsilio. 

Non  appena  risanato  dalle  ferite  ricevute 
nella  lotta  contro  Paolo  Dente,  il  Carrarese, 
essendosi  recato  a  Venezia  per  faccende  sue  par- 
ticolari, nel  ritorno  si  condusse  in  Chioggia, 
dove,  fatta  ricerca  del  Mussato,  si  presentò  a 
lui,  e,  dopo  averlo  salutato  amichevolmente  ed 
abbracciato,  gli  si  mostrò  dolente  della  sua 
lontananza  da  Padova.  Gli  disse  «  eh'  egli  desi- 


Wychgram.  Drittes  Kapitel. 


202  ALBERTINO   MUSSATO 

derava  ardentemente  di  rivederlo  in  città,  dalla 
quale,  senza  colpa  veruna,  era  stato  allonta- 
nato. Tuttavia  non  osava  richiamarlo  per  la 
perversità  di  Tartaro  e  de'  suoi  malvagi  con- 
giunti, i  quali,  ammesso  pure  che  assentissero 
al  ritorno  di  lui,  non  desisterebbero  dall'idea 
di  ucciderlo,  ed  allora,  non  ostante  il  dolore 
ch'egli,  Marsilio,  ne  proverebbe,  il  Mussato  non 
ritornerebbe  a  vita.  Ben  sapeva  questi  come 
Tartaro  ed  Ubertino,  fìngendo  amicizia  per  Gu- 
glielmo Dente,  lo  uccidessero,  eccitando  il  pò-, 
polo  alla  ribellione  e  tradendo,  per  tal  modo, 
lo  stesso  Marsilio.  Avesse  pertanto  sofferenza 
di  rimanere  in  Chioggia  fino  a  che  le  cose,  in 
Padova,  tornassero  tranquille,  che  verisimil- 
mente  in  quello  stato  non  potevano  a  lungo 
durare.  Gli  prometteva  e  gli  si  obbligava  con 
tutta  la  fede,  non  appena  vedesse  il  tempo 
opportuno,  di  procurare,  con  ogni  sforzo,  il  ri- 
torno di  lui,  senza  la  cui  presenza  non  gli  dava 
il  cuore  di  vivere  in   patria  ». 

Il  Mussato,  poiché  le  parole  ed  il  volto  di 
Marsilio  dimostravano  somma  benevolenza,  che 
egli  d'altra  parte  sapeva  di  meritare,  lo  rin- 
graziò con  lagrime  copiose:  «  Sapeva  bene 
Marsilio,  com'egli  avesse  impedito  che  la  città 
si  levasse  a  rumore  per  V  uccisione  di  Gugliel- 


CAPITOLO   SESTO  203 

mo,  mentre  il  popolo,  la  plebe  e  i  cittadini  di 
ogni  classe  ardevano  di  fare  tumulto,  e  come 
avesse,  da  solo,  placato  la  moltitudine,  temen- 
do che  il  furore  della  plebe  non  trascorresse 
a  danno  degli  innocenti  e  specialmente  di  Mar- 
silio, che  reputava  innocente  e  teneva  in  conto 
d'amico  e  di  fratello.  Era  stato  lui,  Albertino, 
che,  fatte  chiudere  le  porte  della  casa,  aveva 
trattenuto  Paolo  Dente  che,  furibondo  per  la 
morte  del  fratello,  era  apparecchiato  a  correre 
in  piazza,  seguito  da  molti  de'  suoi.  Già  in 
armi  era  salito  a  cavallo,  ed  egli  l'avea  in- 
dotto a  ritirarsi  disarmato  a  Treville.  Dopo  di 
ciò  aveva  sedato  ogni  tumulto  nel  popolo,  e  ne 
aveva  avuto,  in  ricambio,  delle  maledizioni. 

Poco  dopo,  costretto  da  tutto  il  popolo  e 
per  necessità  della  patria,  avea  dovuto  recarsi 
malauguratamente  in  AUemagna,  e  quella  sua 
lontananza  era  stata  la  rovina  della  città,  poi- 
ché s'egli  fosse  restato  non  sarebbe  accaduto 
nulla  di  ciò  ch'era  accaduto.  A  Marsilio,  che 
il  persuadeva  ad  affrettare  il  suo  viaggio  pel 
bene  della  città,  egli  avea  detto  :  Marsilio,  io  : 
vado  e,  a  Dio  piacendo,  condurrò  a  buon  ter- 
mine le  commissioni  del  Comune  contro  di 
Cane.  Tu  veglia,  frattanto,  con  ogni  cura  la 
città;  bada  che  Paolo  Dente  non  presuma  di. 


204  ALBERTINO   MUSSATO 

troppo,  né  faccia  novità.  Io  so  che  quell'  uo- 
mo è  ferito  nelle  viscere  per  la  morte  del  fra- 
tello ;  egli  è  audace,  forte  e  capace  di  osare 
ogni  cosa,  siccome  disperato  che  non  bada  più 
a  nulla.  Tu  —  continua  il  Mussato  —  sorri- 
dendo sprezzasti  le  mie  parole,  lo  devi  ricor- 
dare troppo  bene.  Andai,  vinsi  Cane  e  i  suoi 
ambasciatori.  Vittorioso  ritornava,  dopo  di  aver 
procurato  un  saiutare  rimedio  alla  città,  al- 
lorché tu,  per  vergognosa  inerzia  ed  ignoran- 
za, m' ingannasti  ;  tu  perdesti  il  tuo  sangue, 
ed  io  perdetti  la  vista  della  mia  città,  le  mie 
case  e  gli  onori  che  mi  diede  la  patria.  Ma  a 
che  lamentare  i  passati  danni,  ai  quali  non  ci 
è  dato  di  porre  rimedio?  Tu  inoltre  ti  trovi 
in  maggiori  pericoli  ch'io  non  ho  nell'esiglio. 
Abbi  pietà  di  me  e,  se  puoi,  mi  giova  ». 

Marsilio  commosso,  siccome  parve,  disse  : 
«  Se  io  non  avrò  di  te  e  delle  cose  tue  quella 
stessa  cura  e  diligenza  che  ho  di  me  e  delle  cose 
mie,  che  Dio  mi  nieghi  la  sua  protezione  » . 

Dopo  di  ciò,  Marsilio  parti.  Nel  primo  anno 
si  ricordò  dell'amico  ;  gli  spedi  messi  con  frutta 
ed  altri  cibi,  lo  esonerò  da  molti  aggravi  cosi 
pubblici  come  privati,  accolse  benevolmente  i 
messi  di  lui  ;  ma  poi,  a  poco  a  poco,  cominciò 
a   intiepidire  nei  benefizi,  mostrando    quasi    di 


CAPITOLO    SESTO  205 

infastidirsi,  allorché  il  Mussato  gli   faceva    ri- 
chiesta del  puro  necessario  ^). 

Corrado  di  Ovenstein,  mandato  in  sostitu- 
zione di  Enrico  di  Fàìemberg,  quale  vicario 
di  Padova,  per  scoprire  la  verità  intorno  al- 
l' uccisione  di  Guglielmo  Dente  e  per  punire  i 
colpevoli,  fu,  come  dicemmo,  circondato,  con 
ogni  cura,  dai  Carraresi,  i  quali  gli  esposero 
le  cose  come  meglio  lor  piacque,  e  si  offersero 
di  stargli  al  lianco  e  di  assisterlo.  Egli  avreb- 
be comandato  in  nome  del  Re,  ed  essi  l'avreb- 
bero obbedito,  come  suoi  satelliti,  sia  contro 
Cane,  che  contro  qualunque  altro  nemico  cosi 
interno  che  esterno. 

Oltre  a  ciò,  conoscendo  essi  la  natura  ed 
i  costumi  deirOvenstein,  a  cui  il  danaro  stava 
più  a  cuore  che  ogni  altra  cosa  al  mondo, 
più  che  Tonore  stesso  del  Re  ed  il  suo,  gli 
sottomisero  la  città,  la  quale,  benché  smunta  da 
tante  imposte,  era  ancora  abbastanza  ricca.  Cor- 
rado, vinto  dalle  lusinghe,  si  mostrò  loro  af- 
fabile, rialzò  le  loro  speranze,  ed  abbracciava 
talvolta  pubblicamente  Ubertino  e  Tartaro,  il 
che  moveva  a  sdegno  i  cittadini. 

Mussato,    che    aveva  conosciuto  l'Ovenstein 


1)  De  Gestis  Ital.  Uh.  XII. 


206  ALBERTINO  MUSSATO 

alla  corte  di  Federico,  ed  avea  perorato  in  suo 
favore,  perchè  fosse  nominato  vicario  di  Pa- 
dova, gli  scrisse  da  Chioggia  :  «  Si  ricordasse 
a  che  e  per  quali  cagioni  fosse  stato  mandato 
a  Padova^  condannasse  i  colpevoli,  assolvesse 
gli  innocenti,  richiamasse  in  città  coloro  che  non 
avevano  avuto  parte  nei  delitti  e,  fra  gli  al- 
tri, lui  che  gli  scriveva,  relegato  ingiustamente 
in  Chioggia  ».  Corrado,  quantunque  corrotto 
dal  danaro  dei  Carraresi,  provò  rimorso  e  gli 
rispose  :  «  saper  bene  esser  le  cose  come  di- 
ceva il  Mussato,  al  quale  era  grandemente  ob- 
bligato, per  aver  ottenuto,  col  suo  mezzo,  il 
vicariato  di  Padova,  servigio  del  quale  non  si 
sarebbe  mai  dimenticato.  Aspettasse  il  momen- 
to opportuno  per  rimpatriare,  né  gli  rincresces- 
se frattanto  dimorare,  ancora  per  poco  tempo, 
in  Chioggia  ».  Queste  cose  fece  sapere  l'Oven- 
stein  al  Mussato  per  mezzo  di  un  ambascia- 
tore, che  d'affidarle  allo  scritto  non  ebbe  co- 
raggio, temendo  che,  per  qualche  errore,  i  Car- 
raresi ne  venissero  a  conoscenza. 

Questi  frequentavano,  di  giorno  e  di  notte,  la 
casa  di  lui,  gli  offrivano  cibi,  bevande  e  soprat- 
tutto gli  promettevan  danaro,  sicché,  in  breve, 
fecer  tutto  loro  quell'  uomo  avarissimo,  cui  le 
virtù,  i  vizii  e  la  fortuna  contribuirono  a  render 


CAPITOLO   SESTO  2(>7 

singolare.  «  Valoroso  nell'armi,  eloquente  nelle 
curie,  solerte  nell'opera,  formidabile  a'  nemici, 
era,  oltre  a  ciò,  così  avido  di  danaro,  che  non 
badava  a  giustizia  pur  di  accumulare.  In  quei 
giorni  avea  fatto  vendere  all'asta  i  frumenti, 
i  vini,  le  suppellettili  dell'Abbazia  di  Santa  Giu- 
stina, e  ne  avea  tenuto  per  sé  il  danaro,  il 
che  non  avrebbe  potuto  fare  nemmeno  per  ma- 
nifesti delitti  dell'Abate.  Ed  oh  irrisione  !  — 
esclama  il  Mussato  —  quest'  uomo  ascoltava 
religiosamente,  ogni  mattina,  tre  messe,  e,  con 
sospiri  profondi  e  torcendo  le  labbra  e  picchian- 
dosi il  petto  e  alzando  gli  occhi  al  cielo,  si  pre- 
parava, nelle  udienze,  a  parlare  ;  né  prima  di 
pranzo  discendeva  giammai  ad  umani  colloquii, 
come  rapito  in  divine  speculazioni.  E  vid'  io,  con 
i  miei  occhi,  com'egh,  con  queste  ed  altre  ra- 
pine, abbia  fatto  costruire  chiese  e  basiliche  e 
monasteri  sontuosi  in  più  luoghi  della  Carinzia  ». 

Poco  appresso  Corrado  mandò  Engelmario  de 
Villandres,  suo  gentiluomo  di  camera,  con  let- 
tere del  Comune  e  con  fidi  legati,  all'  Impera- 
tore, perchè  questi  confermasse  sentenza  capitale 
contro  Paolo  Dente  e  i  suoi  complici  ;  vi  andò 
quindi  egli  stesso,  per  meglio  ottenere  l' intento. 

Engelmario  fu  mandato  di  ritorno  in  Pa- 
dova a  far  le  veci  di  Corrado,   coli' istruzione 


208  ALBERTINO   MUSSATO 

di  aderire  privatamente  ai  consigli  ed  ai  cenni 
dei  Carraresi.  Appena  in  città,  egli  e  i  legati 
fecero  nota  ogni  cosa  ai  Carraresi,  e  convoca- 
rono il  giorno  seguente  l'adunanza. 

Il  popolo  e  la  plebe,  poich'ebbero  inteso  di 
che  si  trattava,  lamentarono  dapprima  la  Re- 
pubblica soggetta  ai  Carraresi  ;  quindi,  per  ti- 
more, cercarono  d' ingraziarsi,  coi  doni,  i  ti- 
ranni, compassionando  i  profughi.  Alcuni,  pre- 
sagendo le  scelleraggini  e  gli  eccidii,  che  avreb- 
bero funestato  la  città,  si  ricoverarono  alla 
campagna  ;  altri  si  nascosero  nelle  proprie  case 
ed  evitarono  i  luoghi  pubblici. 

I  Carraresi  tennero  un  consiglio  di  fami- 
glia, per  discutere  su  ciò  che  dovessero  fare. 
I  giovani,  approfittando  della  fortuna,  volevano 
vendicarsi  dei  loro  nemici  ed  impadronirsi  del 
governo  dello  Stato.  Marsilio,  più  cauto,  con- 
sigliò doversi  mantenere  l'ordine  antico  ed  e- 
leggere  un  Podestà  forastiero,  pur  ritenendo 
il  potere  nella  famiglia  dei  Carraresi.  Prevalse 
questa  opinione,  e  fu  nominato  Podestà  Iaco- 
pino de'  Bocchi  bresciano,  colle  condizioni  che 
abbiamo  accennate  sulla  fine  del  capitolo  antece- 
dente, quali  ci  sono  fatte  conoscere  dai  Cortusii'). 


1)  Lib.  Ili,  Gap.  VI. 


CAPITOLO   SESTO  209 

Iacopino  cadde  ben  presto  in  disgrazia  di 
Ubertino  da  Carrara,  poiché  avea  condannato 
un  suo  satellite,  per  manifesto  delitto,  alla 
pena  capitale,  ed  avea  negato  di  lasciargli  li- 
bero un  altro  condannato  all'  ergastolo  per 
grave  colpa.  Più  tardi  Ubertino,  per  istigazione 
e  coir  aiuto  di  Tartaro,  rapì  di  notte,  fra  il 
pianto  e  le  grida  dei  genitori,  una  fanciulla, 
figlia  di  un  sarte  della  Riviera  di  San  Leo- 
nardo. Il  Podestà,  per  tanto  delitto,  chiamò  a 
sé  Ubertino,  il  quale,  insieme  con  Tartaro  e 
con  buon  numero  de'  suoi,  si  presentò  in  Pre- 
torio, minacciando  di  morte  Iacopino,  se  non  a- 
vesse  desistito  dal  processo.  «  Si  rammentasse 
ciò  ch'era  toccato  a  Paglione  dei  Beccadelli  ; 
il  medesimo  toccherebbe  a  lui,  se  intendesse 
persistere  nelle  ricerche  ».  Il  Podestà  non  si 
perdette  d'animo,  chiamò  i  famigli,  e,  fatta  toc- 
care tre  volte  la  campana  del  Comune,  disse 
che  avrebbe  rinunziato  al  suo  offizio,  se  gli  fosse 
stato  impedito  di  fare  giustizia.  In  quella  en- 
trò nella  sala  Marsilio,  accompagnato  da  co- 
spicui cittadini  e,  tratto  in  disparte  il  Podestà, 
gli  disse:  «non  convenire  ad  uomo  saggio  e 
nobile,  com'era  lui,  mettere  a  subbuglio  la  città, 
per  la  sconsideratezza  del  giovine  Ubertino. 
Piacere  alla  plebe,  al  popolo,  ai  Carraresi  che 

li 


210  ALBERTINO   MUSSATO 

fosse  fatta  la  luce  sul  ratto,  e  che  si  multasse 
Ubertino  colla  sanzione  delle  leggi  » .  Conciliato 
come  potè  il  Podestà,  condusse  fuori  Ubertino 
e  Tartaro,  e  li  riunì,  con  Nicolò  e  con  gli  al- 
tri di  quella  stirpe,  in  casa  dei  Papafava  presso 
San  Martino.  Colà,  con  parole  ora  severe  or 
dolci,  placò  l'ostinato  Ubertino,  e  con  molte 
promesse  lo  condusse  di  nuovo  al  Podestà  e 
lo  persuase  a  dire  :  esser  egli  pentito  di  quanto 
avea  fatto  e  detto.  Procedesse  il  Podestà  nel 
suo  diritto  di  giudice  ;  egli  obbedirebbe  alla 
sentenza,  qualunque  si  fosse.  Il  Podestà  lo  con- 
dannò a  cinquecento  lire,  che  non  furono  mai 
pagate. 

In  que'  giorni  Corrado  da  Vigenza,  il  quale, 
dopo  essere  stato  confinato  a  Venezia  come 
complice  della  congiura  di  Paolo  Dente,  avea 
rotti  i  confini  e  s'era  ricoverato  in  Ferrara, 
raccolti  alcuni  ferraresi  e  molti  fuorusciti  pa- 
dovani, scendendo  pel  Po,  s'era  condotto  a 
Chioggia  e,  nel  penultimo  giorno  di  febbraio 
del  1326,  avea  dato  l'assalto  alla  Torre  di 
Curano,  forte  castello  dei  Padovani  ai  confini 
di  Venezia,  e  l' avea  presa.  Giunta  in  Padova 
la  notizia,  i  Carraresi  accorsero  pronti,  e,  col- 
l'aiuto  dei  Tedeschi,  ricuperarono  la  Torre. 
Corrado    fu  fatto  'prigioniero    e   decapitato    in 


CAPITOLO   SESTO  211 

abito  militare  nel  Palazzo  della  pubblica  resi- 
denza, il  giorno  3  di  marzo  del  1326  ^).  Gli 
fu  data  onorevole  sepoltura.  Egli  era  amato 
dal  popolo,  scrive  il  Mussato,  né  aveva  avuto 
parte  alla  congiura  di  Paolo  Dente,  come  cre- 
devano i  Carraresi,  che  lo  avevano  bandito. 

Lo  scellerato  Tartaro  era  sempre  al  fianco 
di  Ubertino,  e  lo  eccitava  alle  maggiori  nequi- 
zie. Sprecavano  in  libidini,  in  lusso,  e  si  rifa- 
cevano rubando.  Circondati  da  lenoni,  da  fa- 
cinorosi, da  assassini,  s'aggiravano  armati  per 
le  vie  della  città.  I  cittadini,  spaventati,  spia- 
vano attraverso  le  fessure  degli  usci,  e  li  ve- 
devano passare  con  vesti  ricamate  d' oro  e  d' ar- 
gento e  seguiti  da  que'  ribaldi.  Non  c'era  scel- 
lerata impresa,  ch'essi  non  compissero,  o  a  com- 
piere la  quale  non  prestassero  il  loro  braccio. 

Engelmario  ardeva  di  libidine  per  una  gen- 
tildonna di  nome  Pietra  degli  Scrovegni,  mo- 
glie di  Marino  dei  Maccaruffi,  assente  e  ban- 
dito ^).  Non  potendo  l' infame  vincerla  coli'  oro, 
cercò  di  ricorrere  alla  forza. 


1)  Cori.  Lib.  ITI,  Gap.  VI. 

2)  Secondo  alcuni  questa  gentildonna  sarebbe  stata 
conosciuta  ed  amata  da  Dante  nella  sua  dimora  in  Pa- 
dova. Vedi:  Anton  Maria  Amadì,  Ayinotazioni  sopra 
una  canzone  morale,  e  lo  scritto  di  Enrico  Salvagnini: 


212  ALBERTINO   MUSSATO 

Unitosi  a  Tartaro  ed  Ubertino,  circondò  di 
notte  la  casa  di  lei,  e,  con  suoni  di  trombe  e 
con  cembali,  fìngendo  una  serenata,  fece  at- 
terrare le  porte,  e  s' introdusse  nei  più  segreti 
appartamenti.  Alcuni  vogliono  la  donna  polluta, 
altri  abbandonata  semiviva,  per  essersi  difesa. 
Un'altra  notte  quei  sacrileghi  irruppero  in  un 
chiostro  di  monache  dedicato  a  Sant'Agata, 
fuori  delle  mura  cittadine,  e,  non  contenti  delle 
ricche  spoglie,  fecero  forza  alle  vergini,  ferendo 
le  renitenti.  La  città,  al  mattino,  udì  con  rac- 
capriccio il  fatto.  Nicolò  e  Marsilio  domanda- 
rono giustizia  al  Podestà,  e  questi  fece  so- 
spendere alle  forche  uno  dei  più  abbietti,  dan- 
nando nel  capo  molti  altri,  che,  dopo  pochi 
giorni,  furono  lasciati  in  libertà. 

Tutti  gli  impudichi,  gli  adulteri,  gli  spergiu- 
ri, che  avevano  consumato  il  loro,  che  avevano 
commesso  orrendi  delitti,  che  erano  stati  accu- 
sati della  morte  di  Guglielmo  Dente,  sicuri  si 
rifugiavano  presso  Tartaro  ed  Ubertino.  Di 
giorno  si  facevano  vedere  per  le  vie  cittadine  ; 
ma  di  notte  uscivano   dalle  mura  per   rubare 


Cunizza  da  Romano,  Pierina  Scrovegni  e  le  donne 
padovane  al  tempo  di  Dante,  pubblicato  nel  libro  Dante 
e  Padova. 


CAPITOLO   SESTO  213 

nelle  campagne.  Spesso  uccidevano  i  viandanti 
per  ispogliarli,  e  portavano  ogni  cosa  ai  loro 
Signori,  clie  spendevano  immoderatamente  nelle 
laute  mense.  Il  solo  Marsilio,  al  dire  dello 
stesso  Mussato,  si  tratteneva  in  casa,  ascoltava 
i  lamenti  degli  oppressi,  intercedeva  per  loro  e 
li  sussidiava,  cercando,  per  tal  modo,  di  co- 
prire le  scelleratezze  de' suoi  congiunti. 

In  que'  giorni  era  sceso  in  Italia,  con  grande 
seguito,  Lodovico  il  Bavaro,  chiamatovi  dai 
Ghibellini,  ed  aveva  tenuto  parlamento  in  Trento 
con  molti  Signori  d' Italia.  Cangrande,  che  fu 
tra  i  presenti,  dichiarò  apertamente  a  Lodovico 
che  si  sarebbe  accordato  col  Pontefice,  se  non 
gli  veniva  concesso,  senza  indugio,  il  vicariato 
di  Padova,  pel  quale  egli  offriva  al  Bavaro 
il  proprio  aiuto  e  duecentomila  fiorini.  Lodo- 
vico ricusò,  non  volendo  toglier  quel  vicariato 
a  suo  zio,  il  Duca  di  Carinzia.  Cane  se  ne 
partì  indignato  ;  ma  poco  appresso,  per  le  pre- 
ghiere dei  Ghibellini,  fece  ritorno  a  Trento, 
dove  fu  persuaso  da  Lodovico  a  prolungare  an- 
cora per  due  anni  la  tregua  col  Duca  di  Ca- 
rinzia ^). 

Poco  tempo  innanzi,  cioè  verso    la    fine    di 


1)  Cort.  Lib.  Ili,  Gap.  X. 


214  ALBERTINO   MUSSATO 

dicembre  del  1326,  erano  stati  confinati  a  Ve- 
nezia alcuni  illustri  cittadini  padovani,  per- 
chè accusati  falsamente  di  aver  trattato  con 
Nicolò  da  Carrara  di  dare  la  città  a  Cane  e 
di  uccidere  Marsilio.  Nicolò,  che  vedeva  di  mal 
occhio  la  crescente  grandezza  di  Marsilio,  si  recò 
ad  ingiuria  questo  fatto  di  lui,  e,  nel  2  luglio 
1327,  abbandonò  la  città  ed  andò  a  Venezia, 
dove  fece  alleanza  con  Cane  e  coi  fuorusciti 
contro  Padova. 

Appena  fu  nota  questa  alleanza,  i  figli,  ch'e- 
gli avea  lasciati  in  Padova  come  ostaggi,  fu- 
rono mandati  prigionieri  in  Allemagna,  e  le 
sue  case  furono  spogliate  e  distrutte.  Non  con- 
tento di  ciò,  Marsilio,  temendo  l'audacia  dei 
fuorusciti,  ai  quali  lo  Scaligero  prestava,  di 
nascosto,  soccorsi,  propose  si  mandassero  am- 
basciatori al  Duca  di  Carinzia.  Egli  stesso  fu 
eletto  dell'ambasceria,  ed  ebbe  promessa  dal 
Duca  che  un  grosso  esercito  sarebbe  stato,  tra 
breve,  mandato  in  aiuto  dei  Padovani.  Nicolò 
frattanto,  a  capo  dei  fuorusciti,  aveva  invaso 
il  Pievato  di  Sacco,  e  ai  13  di  ottobre  s'era 
accostato  coli'  esercito  alla  città  dinanzi  alla 
Porta  di  Santa  Croce,  nella  speranza  che  i  cit- 
tadini si  levassero  a  tumulto. 

Ma  i  cittadini  non  si  mossero  per  timore  di 


CAPITOLO   SESTO  215 

Cane,  che,  con  V  esercito,  -stava  appiattato  in 
Monselice,  donde,  benché  asserisse  di  non  voler 
rompere  le  tregue,  favoriva  nascostamente  i 
fuorusciti.  Questi,  poiché  videro  di  non  poter 
impadronirsi  della  città,  sfogarono  tutta  la  loro 
rabbia  sul  Pievato,  mettendo  ogni  cosa  a  ruba 
ed  a  fuoco  e  commettendo  d' ogni  maniera  scel- 
leratezze. Dopo  aver  sottomesso  e  ^distrutto 
tutto  il  paese  all'intorno,  ai  15  novembre  si 
ridussero  in  Este,  e  ne  fortificarono  il  castello 
con  argini  e  con  fosse  ^). 

I  Padovani,  rinchiusi  entro  le  mura  della 
città,  cominciarono  ben  presto  a  soffrir  penuria 
di  vettovaglie.  I  soli  Carraresi,  al  dir  di  Mus- 
sato, coi  loro  seguaci,  trasportavano  dai  luo- 
ghi vicini  alla  città,  col  mezzo  dei  soldati  te- 
deschi, grani  e  biade  ai  loro  granai.  Tartaro 
ed  Ubertino  ne  trasportavano  dai  loro  e  dagli 
altrui  campi,  né  rifuggivano  da  altro  genere  di 
rapine.  Invitavano  a  pranzo  i  più  ricchi,  e  poi 
domandavan  loro  danari  in  proporzione  di  ciò 
che  possedevano;  se  ricusavano,  h  chiudevano 
in  prigione,  finché,  per  fame,  erano  costretti  a 
cedere.  Chi  di  buon  mattino  si  fosse  trovato 
fuori  di  casa,  veniva  ravvolto  improvvisamente 


1)  Cori.  Lib.  Ili  Gap.  XII. 


216  ALBERTINO   MUSSATO 

in  un  sacco,  che  gli  toglieva  la  vista  e  gli 
impediva  di  gridare,  e,  trascinato  in  luoghi 
nascosti,  veniva  costretto  a  redimersi  con  da- 
nari, se  non  voleva  esser  condannato  a  morire 
di  fame. 

Tale  violenza  fu  fatta  —  racconta  Alber- 
tino —  ad  un  pio  sacerdote  della  Cattedrale, 
che  si  recava  alla  chiesa  con  due  nipoti.  Corse 
voce  esserne  stati  autori  alcuni  giovani  di  casa 
Capodivacca,  i  quali  fecero  tali  minacce  al 
prete,  che,  dopo  pochi  giorni,  morì  di  paura. 

Uno  dei  più  orrendi  delitti,  commessi  in  quei 
giorni,  fu  l'uccisione  di  Ugolino,  Priore  di  Santa 
Maria  di  Vanzo.  Costui  era  stato  invitato  a 
pranzo  da  Tartaro  ed  Ubertino.  Finito  il  pran- 
zo,-fu  rimandato  al  Cenobio  in  compagnia  di 
quattro  sicarii,  i  quali,  non  appena  egli  mise 
piede  sul  vestibolo  del  monastero,  lo  trucida- 
rono e  lo  seppellirono  ancora  semivivo.  Scas- 
sinati i  suoi  scrigni,  ne  rapirono  tutto  il  da- 
naro e  lo  portarono  ai  loro  padroni.  Da  una 
Bolla  di  Giovanni  XXII  contro  i  Carraresi  ^), 
risulterebbe  aver  avuto  parte  in  questo  delitto 


ly  Questa  Bolla,  riprodotta  in  parte  dall' Ab.  Giu- 
seppe Bianchi  nella  citata  Difesa  di  Marsilio  contro 
le  maldicenze  del  Mussato,  è  stampata  negli  Annali 
Camaldolesi,  T.  V.  Ap.  col.  477. 


CAPITOLO   SESTO  217 

anche  Marsilio  ;  ma,  poiché  il  Mussato  non 
ne  fa  parola,  possiamo  esser  sicuri  che  fu  in- 
nocente ^). 

L'abate  Giuseppe  Bianchi,  troppo  tenero  del- 
l' onor  di  Marsilio,  nella  difesa  che  ne  scrisse 
contro  le  maldicenze  di  Albertino  Mussato,  dopo 
aver  detto  che  non  si  sa  chi  sieno  stati  i  denun- 
ciatori dei  Carraresi  al  Papa,  soggiunge  :  «Forse 
i  molti  ribelli  che  furono  banditi  e  confiscati, 
e  i  loro  parenti  ed  amici  si  accordavano  a  se- 
gnare r  accusa  (preparata  forse  dalla  energica 
penna  del  Mussato)  contro  gli  odiati  Carraresi, 
per  renderla  più  imponente  e  di  fede  più  de- 
gna » .  Cotesta  è  una  insinuazione  maligna,  la 
quale,  oltre  di  essere  un'  offesa  gravissima  alla 
memoria  di  Albertino  Mussato,  la  figura  più 
grande  ed  intemerata  che  la  Storia  padovana 
di  quei  tempi  ci  faccia  conoscere,  toglie  efiì- 
cacia  agli  argomenti  di  cui  si  vale  il  buon  par- 


1)  «  Una  gran  prova,  scrive  il  Bianchi,  è  questa  per 
dichiarare  immune  il  nostro  Marsilio  dal  sacrilego  de- 
litto, se  il  Mussato  non  lo  chiama  né  autore  né  com- 
plice neppur  per  conghiettura  ».  Per  mostrarlo  poi  «  im- 
mune dall'  invasione  dei  beni  del  priorato  »  cita  due  do- 
cumenti pubblicati  dal  Ceoldo  nelle  sue  Memorie  della 
Chiesa  ed  Abbazia  di  S.  Stefano  di  Carrara,  pag.  159 
i  quali,  al  dire  del  Ceoldo,  «  ci  obbligano  a  formare  al- 
tra idea  di  Ubertino  certamente  diversa  da  un  invasore 
e  da  un  sacrilego  parricida  ». 


218  ALBERTINO  MUSSATO 

roco,  per  iscolpare  Marsilio  dalle  altre  accuse 
del  Mussato,  che,  secondo  il  Bianchi,  si  fa  cono- 
scere «  un  mendace  ovunque  impiega  a  disonor 
di  Marsilio  Y  avvelenata  sua  penna  ».  Più  giu- 
dizioso e  più  giusto  del  Bianchi,  il  Ceoldo, 
dopo  aver  difeso  Marsilio  dall'  accusa  di  aver 
ucciso  il  Priore  di  S.  Maria  di  Vanzo  e  di 
avere  usurpati  i  beni  di  quel  Priorato,  e  dopo 
aver  osservato  che  Albertino  non  fa  parola  di 
lui  nella  narrazione  di  quel  fatto,  soggiunge: 
«  É  dunque  credibile  che  quello  storico  avesse 
risparmiato  il  suo  fiele,  se  qualche  disturbo  fosse 
nato  anche  al  da  Carrara,  e  con  estro  poetico 
non  avesse  cavati  dagli  avelli  gli  antenati  Car- 
raresi institutori  e  benefattori  del  monastero^,  e 
nottetempo  tutti  spinti  non  li  avesse  in  camera 
di  Marsilio  a  rimproverarlo  aspramente  delle 
sue  ladrerie  ?  »  ^).  Questa  osservazione  del 
Ceoldo  basta,  parmi,  a  distruggere  la  maligna 
supposizione  del  Bianchi. 

Ma  le  scelleratezze  dei  Carraresi  in  que'  gior- 
ni, quali  le  registra  il  Mussato,  non  si  limitano 
alle  narrate  fin  qui.  Due  donne,  madre  e  figHa, 
abitavano  nelle  vicinanze  di  S.  Maria  di  Vanzo. 
Ubertino,  invaghitosi  della  giovinetta,  la  fece 


1)  Memoria  cit. 


CAPITOLO   SESTO  219 

rapire  a  viva  forza.  La  madre  corse  dietro  alla 
figliuola  gridando  e,  poiché  anche  questa  grida- 
va, furono  uccise  tutte  e  due. 

Un  onesto  popolano  avea  preso  moglie,  e,  ad 
una  data  sera,  dovea  condurla,  per  la  prima 
volta,  a  casa  sua.  Prima  del  crepuscolo,  a 
nome  di  Ubertino,  gli  fu  susurrato  all'orecchio, 
che  lasciasse  intatta  la  donna,  se  avea  cara  la 
vita,  poiché  Ubertino  desiderava  colei  per  sua 
amante.  Il  poveretto,  non  sapendo  a  qual  par- 
tito appigliarsi,  si  presentò  prima  di  sera,  ac- 
compagnato da  pochi  onesti  parenti,  ad  Uber- 
tino. Questi  lo  rimproverò  acremente,  e  gli  disse 
che  dovea  pagare  col  suo  sangue  l' ardire  di 
aver  sposato  una  donna  eh'  egli  amava,  e,  sguai- 
nata la  spada,  voleva  ucciderlo  ;  ma  poi  si  trat- 
tenne e  s'accontentò  di  fargli  pagare  cinque- 
cento lire. 

Il  giudice  Alberto  Rossi,  uomo  sapiente  ed 
eloquente,  aveva  una  cognata  nubile.  Lo  scel- 
lerato Obizzo  da  Carrara,  allettato  dalla  ricca 
dote,  l'avea  chiesta  in  isposa.  I  genitori,  per 
consiglio  di  Alberto,  la  maritarono  tosto  ad 
un  onesto  popolano.  Saputa  la  notizia,  il  Ba- 
stardino  —  così  era  chiamato  l' Obizzo  per  es- 
sere illegittimo  —  ricorse  ad  Ubertino,  perché  lo 
vendicasse.  Il  giudice  Alberto,  mentre  un  giorno 


220  ALBERTINO  MUSSATO 

se  ne  andava  tranquillo  per  via  accompagnato 
da  un  suo  servo,  fu  assalito  improvvisamente 
dai  satelliti  di  Ubertino,  e  lasciato  cadavere 
sulla  pubblica  strada,  ove  stette  fino  alla  sera, 
senza  che  nessuno  avesse  il  coraggio  di  acco- 
starglisi.  Due  frati  degli  Eremitani,  chiesta  li- 
cenza ad  Ubertino,  lo  portarono,  di  notte,  a 
seppellire  nel  loro  cimitero. 

Giunse  a  que'  giorni  dalla  Germania  Corrado 
di  Ovenstein  con  buon  numero  di  soldati  a 
cavallo  in  difesa  dei  Padovani  ^).  Ai  25  no- 
vemhre  1327,  egli  mosse  ad  assalire  i  fuorusciti, 
che  s'erano  fortificati  in  Este.  Nicolò,  che  di- 
sarmato se  n'  andava  a  diporto  fuori  delle  trin- 
cee, fu  sul  punto  di  essere  sorpreso  da  Corrado; 
ma  fortunatamente  potè  sottrarsi  all'inimico  e 
ridursi  in  salvo.  Una  fiera  zuffa-  s'appiccò  tra 
i  Padovani  da  un  lato  e  i  fuorusciti  dall'  altro, 
che  durò  fino  a  sera.  Stanchi  i  Padovani  si 
ritiravano  dall'assalto,  allorché  fu  sparsa  tra 
le  lor  file  la  voce,  che  Paolo  Dente,  con  un 
grosso  esercito,  stava  nascosto  presso  il  mo- 
nastero di  S.  Maria  delle  Carceri,  pronto  a 
piombare  sovr'  essi.  A  questa  notizia,  colti  da 


1)  I  Cortusii  dicono  con  quattrocento  elmi.  Lib.  Ili  Gap. 
XIII. 


CAPITOLO   SESTO  221 

improvviso  spavento,  si  diedero  a  fuga  disor- 
dinata e  precipitosa  verso  la  città. 

Marsilio,  che  stava  alla  difesa  delle  mura, 
visto  l'esercito  ritornare  a  quel  modo,  né  sa- 
pendo indovinarne  la  cagione,  comandò  che  le 
porte  non  venissero  aperte,  finché  tutti  i  sol- 
dati non  si  fossero  radunati  sotto  le  loro  ban- 
diere. Dopo  questo  fatto,  Corrado,  pieno  di  ver- 
gogna e  sfiduciato  di  poter  riuscire  nell'impresa, 
pensò  di  far  ritorno  in  Germania,  adducendo 
il  pretesto  di  un  solenne  parlamento  tra  il  Duca 
di  Carinzia  e  quelli  d'Austria,  al  quale  egli 
pure  dovea  trovarsi  presente.  Lo  accompagna- 
rono alcuni  dei  più  illustri  Padovani,  per 
chiedere  aiuti  al  Duca  di  Carinzia  contro  i 
ribelli.  N'  ebbero  molte  promesse,  ma  nessun 
aiuto.  Scrisse  tuttavia  il  Duca  a  Lodovico  impe- 
ratore, che  si  trovava  in  Roma,  perchè  frenasse 
l'ardire  dei  fuorusciti  Padovani,  ed  inducesse 
lo  Scaligero  a  non  prestar  loro  soccorso.  Lodo- 
vico mandò  a  tale  uopo  un  suo  legato  a  Verona; 
dove  intervennero  anche  gii  ambasciatori  Pado- 
vani, fra  i  quali  uno  dei  Cortusii.  Le  discussioni 
furono  molte  e  lunghe;  ma  non  si  venne  a 
conclusione  veruna  "). 

Le  condizioni  di  Padova,  frattanto,  si  faceva- 

1)  Cort.  Lib.  Ili  Gap.  XIII. 


222  ALBERTINO  MUSSATO 

no  di  giorno  in  giorno  più  miserabili;  i  fuoru- 
sciti devastavano  o  raccoglievano  per  sé  le 
biade  nei  dintorni,  sicché  la  scarsezza  dei  vi- 
veri si  faceva  sempre  maggiore  in  città.  A 
ciò  si  aggiunga  le  discordie  fra  i  cittadini,  i 
furti,  gli  omicidii,  il  cui  numero  aumentava 
ogni  giorno,  e  la  prepotenza  dei  soldati  tedeschi, 
avidi  di  danaro,  per  accumulare  il  quale  non 
rifuggivano  dai  mezzi  più  nefandi. 

In  tanta  tristezza  di  cose,  Marsilio  non  sapeva 
a  qual  partito  appigliarsi.  La  sua  potenza  era  ri- 
dotta agli  estremi,  i  fuorusciti  imbaldanzivano 
ogni  giorno  più,  e  Cane,  desideroso  d'impadro- 
nirsi della  città,  li  soccorreva  di  nascosto.  Invano 
egli  era  ricorso  per  aiuti  al  Duca  di  Carinzia  ; 
invano  s'era  rivolto  al  Pontefice  in  Avignone, 
al  suo  legato  in  Bologna  e  al  figlio  del  Re 
Roberto  in  Firenze;  invano  aveva  trattato  se- 
cretamente  col  Signore  di  Mantova  e  coi  Mar- 
chesi d'Este;  i  Trevisani  anch'essi  gii  avevano 
negato  il  loro  soccorso  ^).  Avea  saputo  inol- 
tre che  Nicolò,  per  unirsi  più  strettamente  con 
Cane,  voleva  dare  in  moglie  la  propria  figlia 
a  Mastino  nipote  di  lui,  promettendogli  la  Si- 
gnoria di  Padova. 

In  questa  città,  fra  le  altre  discordie,  gravis- 


1)  Cort.  Lib.  IV  Gap.  I. 


CAPITOLO   SESTO  223 

sima  era  quella  insorta  fra  Marsilieto  ed  Uber- 
tino, avente  per  causa  remota  l' uccisione  di 
Guglielmo  Dente,  col  quale  Marsilieto  era  unito 
in  parentela.  Il  popolo,  secondo  il  Mussato,  go- 
deva di  tal  dissensione  dei  Carraresi  ;  ma  si 
mostrava  più  propenso  a  Marsilieto.  Marsilio 
si  studiava  di  metter  la  pace  fra  i  contendenti  ; 
ma  di  nascosto  favoriva  Ubertino,  poiché  ve- 
deva che,  se  i  due  fossero  venuti  alle  mani, 
il  popolo  si  sarebbe  messo  dalla  parte  di  Mar- 
silieto, nel  qual  caso  la  potenza  di  lui  avrebbe 
corso  pericolo,  essendo  egli  inviso  a  quasi  tutti 
i  cittadini  e  sospetto  di  volersi  insignorire  di 
Padova.  Ma  il  fatto  sta,  osserva  il  Mussato, 
che  se  il  popolo  si  fosse  sollevato,  Ubertino, 
Tartaro  e  Marsilio  sarebbero  periti;  ma  nemme- 
no Marsilieto  avrebbe  avuto  il  dominio,  perchè 
incapace,  e  la  città  sarebbe  tornata  libera,  e 
conchiude  :  «  Marsilio,  consapevole  di  tutto , 
circospetto,  scorgendo  che  al  più  lieve  tumulto 
il  suo  stato  repentinamente  cadrebbe,  non  pensò 
che  a  sé  solo  e  alle  cose  sue,  niente  curandosi 
del  bene  comune  e  dei  privati,  ancorché  con- 
sanguinei, ancorché  fedeli  ed  antichi  amici,  e 
fece  fermo  proposito  (tale  era  il  fine  de'  suoi 
pensieri)  di  dare  la  città  a  Cangrande,  né  di 
differirne  più  oltre  la  consegna  ». 


224  ALBERTINO    MUSSATO 

I  difensori  di  Marsilio  non  possono  perdo- 
nare al  Mussato  di  avere  interpretato  cosi  si- 
nistramente l'atto  del  Carrarese,  pel  quale,  se- 
condo essi,  nonché  pensare  esclusivamente  a  sé 
stesso  senza  badare  all'altrui  danno,  avrebbe 
mostrato  quanto,  più  che  il  proprio  vantaggio, 
gli  stesse  a  cuore  il  bene  de' suoi  concittadini. 
«E  da  ammirarsi,  scrive  il  Bianchi,  l'amor 
patrio  di  Marsilio,  che  potendo  sì  facilmente 
ottenere  la  Signoria  di  Padova,  e  a  sé  con- 
servarla, anche  prima  di  venire  a  trattati 
collo  Scaligero,  siasi  contentato  di  restar  sud- 
dito, onde  per  comun  bene  avesse  fine  la  guer- 
ra, ch'era  durata  diciassette  anni,  quattro  mesi 
e  venticinque  giorni  ;  e  nel  tempo  stesso  aves- 
sero a  cessare  i  disordini  gravissimi  che  di  con- 
tinuo succedevano  »  ^).  Io  non  dirò,  questa  volta, 
che  i  difensori  di  Marsilio  abbiano  torto,  poiché 
sa  Dio  quanto  di  peggio  avrebbe  potuto  toccare 
a  Padova,  se  l' accorto  Marsilio  non  fosse  ve- 
nuto a  quella  determinazione,  e  se  Cane  aves- 
se, com'  era  molto  probabile,  conquistata  la  città 
colle  armi.  I  Cortusii  stessi  si  mostrano  per 
quest'  atto  favorevoli  a  Marsilio,  e  ritengono 
ch'egli  abbia  compiuto  un  atto  generoso,  poiché 

1)  Op.  cit. 


CAPITOLO   SESTO  225 

gli  fanno  dire:  <x  Potrei  vivere  ricco  in  Venezia; 
ma,  a  costo  della  morte,  voglio  giovare  alla 
mia  Patria»  \ì.  Non  so  tuttavia  indurmi  a  cre- 
dere, che  il  modo  col  quale  il  Mussato  inter- 
preta r  azione  di  Marsilio,  ed  il  severo  rim- 
provero che,  per  conseguenza,  gli  muove,  gli 
siano  suggeriti  da  mal  animo  o  da  desiderio 
di  vendetta  verso  colui,  ch'era  stato  causa  della 
sventura.  Il  dolore  di  veder  cadere  la  libertà 
della  sua  patria,  quella  libertà,  per  la  quale  egli 
aveva  tanto  perorato  e  combattuto  e  sofferto, 
gli  ha,  senza  dubbio,  fatto  pensar  male  di  Marsi- 
lio, più  che  questi,  per  avventura,  non  meritas- 
se. Dice  il  Villani,  che  Marsilio  trattò  collo 
Scaligero  «quasi  per  necessità,  non  potendo  bene 
tenere  la  terra»  ~}.  Questa  circostanza,  se  mitiga 
la  colpa  del  Carrarese,  non  la  cancella;  poiché, 
come  bene  osserva  il  Cipolla,  privato  cittadino 
non  poteva  da  sé  solo  trattare  col  vincitore  ^). 
Il  Carrarese,  dopo  essersi  conlidato  con  al- 
cuni dei  principali  della  città,  mandò  un  suo 
fidato  a  Cane,  per  fargli  sapere  ch'egli  inten- 


1)  Possem  in  Yenetiis  in  diviUis  viceré  abioulcmter\ 
sed  etiamsi  me  'inori  conveniate  volo  mece  Palrice  sub- 
venire. Lib.  IV.  Gap.  I. 

2)  Libro  X  Capitolo  CIV. 

3)  storia  delle  Signorie  Italiane  dal  1313  al  1530, 
Milano,  Vallardi  1881,  pag.  40. 

15 


226  ALBERTINO    MUSSATO 

deva  affidare  liberamente,  e  senza  alcun  patto, 
la  propria  persona  e  Padova  nelle  mani  di  Cane, 
ma  che  voleva  per  ciò  che  il  matrimonio,  pro- 
messo un  tempo  a  Giacomo  suo  zio,  tra  sua 
figlia  e  Martino  della  Scala  si  compisse.  Piaces- 
se inoltre  a  Cane  porre  in  dimenticanza  tutte 
le  ingiurie  che  dai  Padovani,  e  in  particolare 
e  in  comune,  avesse  ricevuto,  e  conservasse 
tutti  i  cittadini  nei  loro  diritti,  affinchè,  sotto  la 
protezione  di  lui,  potessero  condurre  vita  si- 
cura. Ai  Tedeschi,  ch'erano  di  presidio  alla 
città,  fosse  permesso  un  libero  ritorno,  dopo  es- 
sere stati  soddisfatti  completamente  del  loro  sti- 
pendio, affinchè  il  Duca  di  Carinzia  non  avesse 
motivo  di  lagnarsi  di  Cane;  i  soli  colpevoli  fos- 
sero assoggettati  alle  pene,  essendo  contrario 
non  solo  alle  leggi,  ma  all'equità  il  molestare 
alcuno  pegli  altrui  delitti.  Per  queste  cose  Mar- 
silio non  voleva  da  Cane  né  giuramento,  né 
scrittura,  ma  soltanto  la  sua  fede  ^). 

Ben  diversi,  secondo  il  Mussato,  sono  i  patti 
coi  quali  Marsilio  propose  allo  Scaligero  la  ces- 
sione di  Padova:  «Che  seguir  dovesse  il  ma- 
trimonio fra  Taddea  e  Martino  della  Scala,  col- 
la dote  di  diecimila  lire,  secondo  eh'  era  stato 


1)  Cort.  Lib.  IV.  Gap.  II. 


CAPITOLO    SESTO  227 

altra  volta  stabilito  con  Iacopo  suo  zio  ;  che 
Marsilio,  consegnata  la  città,  venisse  nominato 
vicario  per  Cane;  che  i  beni  dei  Guelfi  fuorusciti, 
cioè  dei  Maccaruffi,  dei  Terradura,  dei  Malizia 
e  di  tutti  gli  altri  senza  distinzione,  che,  dopo 
l'insulto  di  Paolo,  erano  fuggiti  per  paura  dalla 
città,  e  medesimamente  i  beni  dei  figli  e  degli 
eredi  dell'  ucciso  Guglielmo  Dente  fossero  di 
Marsiho,  rimanendo  privi  quei  fanciulli  del  pa- 
dre e  dei  beni  paterni;  che  i  beni  del  monastero 
dei  Santi  Prosdocimo  e  Giustina,  mobili  ed 
immobili  dovunque  si  trovassero,  fossero  di  Mar- 
silio e  ne  venisse  escluso  completamente  l'Aba- 
te; che  fossero  esclusi  i  fuorusciti  Padovani, 
sì  banditi  che  relegati,  come  pure  quelli  che, 
senza  alcun  delitto,  per  solo  timore  dei  Carra- 
resi, s'erano  allontanati,  rimanendo  in  città 
quei  soli  che  Marsilio  volesse». 

Non  c'è  dubbio  che  questi  patti,  come  li  re- 
gistra nella  sua  storia  il  Mussato,  sarebbero  assai 
più  gravi  di  quelli  notati  dai  Cortusii,  e,  facendo 
conoscere  la  poca  onestà  di  Marsilio,  giustifiche- 
rebbero pienamente  le  severe  parole,  con  le  qua- 
le il  Mussato  giudica,  come  vedemmo,  la  ces- 
sione della  città  allo  Scaligero.  Ma  Albertino 
era  lontano  da  Padova,  né  di  tutto  poteva  es- 
sere informato  con  esattezza.  Egli  stesso  confes- 


228  ALBERTINO    MUSSATO 

sa  ingenuamente,  come  queste  condizioni  di  pace 
siano  state  conosciute  dappoi,  perchè  vennero 
manifestate  dalia  esecuzione  delle  cose.  Tale 
confessione,  che  altri  ritiene  mancanza  di  logi- 
ca, ^)  è  una  prova  evidente  della  sincerità  dello 
scrittore.  Difatti  è  vero,  lo  dicono  i  Cortusii  ^), 
che  Marsiho  ebbe  da  Cane  tutti  i  beni  confi- 
scati ai  ribelli,  ed  è  vero  altresì  eh' ebbe  tutte 
quante  le  possessioni  di  Santa  Giustina  ^).  Di 
quelli  Cane  avrà  fatto  dono  a  Marsilio  ;  di  que- 
sti il  Carrarese  sarà  stato,  come  vogliono  ta? 
Inni,  un  sempHce  amministratore;  ma  che  im- 
porta? Mussato  non  poteva  sapere  tutte  queste 
cose;  egli  ritenne  fermamente  che  così  fosse 
stato  pattuito  tra  Cane  e  Marsilio.  A  che  dun- 
que gridargli  tanto  la  croce  addosso  e  chiamarlo 
impostore,  come  fanno  i  troppo  zelanti  difen- 
sori di  Marsilio? 

Mussato  vorrebbe,  inoltre,  far  credere  che 
Marsilio  abbia  costretto  i  monaci  di  Santa  Giu- 
stina ad  eleggere  per  abate  un  figlio  spurio  di 
Giacomo  da  Carrara,  notizia  ripetuta  dal  Cava- 
ciò  ^),  dal  Verci  ^)  e  da  altri.  Il  Bianchi,  in  di- 

^)  Vedi:  Bianchi  Op.  cit.  pag.  15. 

2)  Lib.  IV  Gap.  V. 

3)  Cort.  Lib.  V.  Gap.  VII. 

4)  Hist.  Caenob.  S.  Just.  pag.  157. 

5)  Storia  della  Marca  ecc.  Tomo  X  pag.  108. 


CAPITOLO  SESTO  229 

fesa  di  Marsilio,  cita  il  testamento  di  Marsilio 
stesso,  rogato  agli  8  di  marzo  del  1338,  in  cui 
lascia  a  Perenzano— tale  è  il  nome  dello  spurio 
—  delle  possessioni,  purché  consegua  l'Abbazia 
di  Santa  Giustina  od  altra,  che  gli  dia  un  egual 
reddito.  «Se  Perenzano,  osserva  il  Bianchi,  nel 
1338  non  era  abate,  dunque  è  falso  che  lo 
fosse  circa  due  lustri  innanzi  ;  dunque  è  falso 
che  Marsilio  avesse  costretti  i  monaci  ad  eleg- 
gerlo». Su  questo  non  si  può  asserire  nulla 
di  sicuro;  ma  egli  è  certo,  che  Marsilio,  se  non 
altro,  desiderava  ardentemente  di  veder  eletto 
Perenzano  a  quella  sede.  Dalla  Bolla  di  Giovan- 
ni XXII,  in  cui  Marsiho  è  accusato  di  aver 
avuto  parte  nell'  uccisione  del  Priore  di  S.  Ma- 
ria di  Vanzo,  e  di  essersi  appropriati  i  beni  di 
quel  priorato,  risulterebbe  altresì,  aver  egli  u- 
surpato  i  beni  del  monastero  di  Santa  Giustina, 
col  discacciarne  l'abate,  e  di  aver  fatto  la 
stessa  cosa  contro  il  monastero  di  S.  Stefano 
di  Carrara  e  contro  quello  della  Vangadizza, 
quanto  ai  fondi,  che  possedevano  nel  territorio 
padovano  ^).  Di  quest'ultime  usurpazioni,  cioè 
di  quelle  dei  beni  di  S.  Stefano  di  Carrara  e 
del  monastero  della  Vangadizza,  il  Mussato  non 
fa  parola. 


')  Vedi  :  Bianchi,  pag.  27. 


230  ALBERTINO    MUSSATO 

A  questo  punto  s'arresta  la  difesa,  che  di 
Marsilio  fanno  i  suoi  ammiratori  contro  le  ac- 
cuse del  Mussato.  Ma  altre  più  gravi  accuse 
lancia  Albertino  contro  il  Carrarese,  nelle  ul- 
time pagine  della  sua  storia,  accuse,  che  met- 
tono in  piena  evidenza  l'ingratitudine  di  Mar- 
lio  verso  il  grande  suo  concittadino.  Da  queste 
principalmente  avrebbero  dovuto  scolparlo  i  suoi 
difensori:  invece  hanno  creduto  bene  di  passarle 
sotto  silenzio.  Né  è  a  dire  che  il  Mussato,  per 
queste,  possa  esser  stato  tratto  in  inganno  da 
relatori  poco  esatti  o  maligni;  ciò  che  narra 
è  toccato  a  lui  stesso,  ed  egli  era  incapace  di 
esagerare,  e,  tanto  meno,  di  mentire. 

Cane,  coni' ebbe  inteso  dal  messo  i  patti,  coi 
quali  Marsilio  voleva  cedergli  Padova,  se  ne 
mostrò  soddisfatto,  e^,  poiché  vedeva  adempirsi 
il  suo  desiderio,  promise  di  osservarli  integral- 
mente, e  di  tenere  come  fratello  MarsiHo.  Que- 
sti andò  di  nascosto  a  Cane,  per  mettersi  d'ac- 
cordo con  lui  sul  modo  col  quale  gli  avrebbe 
consegnatola  città:  in  quell'abboccamento  fu 
stabilito  che  Marsilio  si  sarebbe  fatto  procla- 
mare Signore  di  Padova.  Di  ritorno  in  città, 
il  Carrarese  mise  in  opera  ogni  mezzo  per  far 
conoscere  questo  suo  desiderio  al  popolo,  e, 
quando  vide  la  cosa  bene    avviata,   introdusse 


CAPITOLO   SESTO  231 

in  città  buon  numero  di  contadini  armati,  sotto 
pretesto  di  assalire,  con  essi  e  coi  tedeschi,  i 
nemici  che  depredavano  i  raccolti.  Allorché 
si  tenne  sicuro  del  fatto  suo,  radunò  il  Consi- 
glio, in  cui,  per  unanime  assenso,  gli  fu  data 
la  Signoria  della  città.  Ciò  avvenne  il  3  set- 
temÌ3re   1328. 

In  quello  stesso  giorno  il  Podestà  Griffo, 
fratello  di  Engelmario,  presentò  a  Marsilio 
le  chiavi  della  città,  e,  ricevuto  lo  stipen- 
dio, ebbe  licenza  di  partire  co'  suoi  tedeschi. 
In  sua  vece  fu  eletto  a  Podestà  Marsilio  de' 
Rossi  da  Parma,  nipote  di  Marsilio,  il  quale 
entrò  in  Padova  con  duecento  elmi.  Giunse 
frattanto  la  notizia  delle  nozze  fra  Taddea 
e  Mastino,  celebrate  in  Venezia  alla  presen- 
za del  Doge.  Marsilio  allora,  sotto  colore  di 
ambasceria,  mandò  a  Vicenza  alcuni  dei  prin- 
cipali della  città,  che  sapeva  a  sé  contra- 
rli, per  istabilire  con  Cane  la  pace,  quale  po- 
co dopo  fu  solennemente  pubbHcata.  Il  giorno 
7  Mastino  entrò  in  Padova  con  cento  elmi  ^). 
Marsilio  lo  accolse  con  grande  onore  ed  ap- 
presso, d'accordo  co'  suoi,  convocò  il  Consiglio, 
al  quale  espose,  come,  per  salvare  la  città  op- 


1)  Cort.  Lib.  IV.  Cap.  III.  Secondo  altri  gli  elmi  erano 
duecento.  Vedi:  Gattari,  Istoria  Padovana, 


232  ALBERTINO  MUSSATO 

pressa  da  tante  sventure,  intendesse  darne  il 
dominio  a  Cane;  pregava  parenti  e  amici  a  voler 
sottoporsi  al  mite  giogo.  I  più  degli  astanti  si 
guardarono  stupefatti  l'un  l'altro  in  viso,  senza 
saper  che  rispondere.  Solo  il  timore,  scrive  il 
Mussato,  fece  tacere  il  dolore  di  alcuni  e  tenne 
loro  ferme  le  mani.  Comune  era  il  lamento  di  do- 
ver cedere  a  Cane,  senza  contrasto,  quella  città, 
che  aveano  difesa  per  tanto  tempo  col  ferro,  e 
per  la  libertà  della  quale  aveano  sparso  tanto 
sangue  ed  avevano  sofferto  la  fame.  Ma  poiché 
vedevano  ch'era  impossibile  opporsi,  tentavano 
consolarsi  pensando  -  cosi  il  Mussato  -  che  pas- 
savano dal  giogo  di  molti  a  quello  di  un 
solo. 

Combinata  ogni  cosa  secondo  il  suo  desiderio, 
Marsilio,  con  molti  dei  principali  padovani,  andò 
il  giorno  8  di  settembre  a  Vicenza,  per  porre 
nelle  mani  di  Cane  il  dominio  di  Padova,  e 
n'ebbe  ogni  dimostrazione  d'onore.  Due  giorni 
appresso,  lo  Scaligero  fece  il  suo  solenne  in- 
gresso in  Padova  per  Porta  di  Pontemolino.  11 
popolo  e  il  Clero  mossero  ad  incontrarlo.  Mar- 
silio ed  Ubertino  gli  cavalcavano  ai  lati,  e 
dietro  tutti  gli  altri  della  famiglia  Carrarese  ^). 


1)  Cort.  Lib.  IV  Gap.  III. 


CAPITOLO   SESTO  233 

Smontato  al  Pretorio  ^),  gli  fa  presentato  dai 
Giudici  e  dagli  Anziani  il  vessillo  della  Comu- 
nità, ch'egli  consegnò  nelle  mani  di  Marsilio, 
nominandolo  suo  vicario  della  città  ;  passò  quin- 
di ad  alloggiare  nel  Palazzo   vescovile. 

Continue  furono  le  feste  nei  giorni  eh'  egli  si 
trattenne  in  Padova.  Il  14  settembre  furono 
compiute  solennemente  le  ceremonie  dello  sposa- 
lizio fra  Mastino  e  Taddea,  e  m.olti  e  grandi, 
in  quell'occasione,  furono  i  doni  di  Marsilio 
a  Cane,  e  di  Cane  a  Marsilio  e  a  molti  nobili 
Padovani.  Poich'ebbe  ordinate  tutte  le  cose. 
Cane  intimò  una  Curia  solenne  in  Verona  pel 
novembre  di  quell'anno,  e  ai  vent'otto  di  set- 
tembre fece  ritorno  a  Vicenza  ^). 

Dei  fuorusciti  padovani,  Nicolò  da  Carrara, 
per  volontà  di  Cane,  partì  da  Este  e  si  ritirò  in 
Venezia,  senza  essere  tuttavia  spogliato  de'  suoi 
possedimenti,  Enrico  degli  Scrovegni,  tornato  a 
Padova  senza  averne  avuto  il  permesso,  fu  ri- 
mandato di  nascosto  a  Venezia.  I  Maccaruffi,  i 
Dente,  i  Terradura,  gli  Altechini,  i  Malizia  ed 
altri  furono  spogliati    dei    loro    beni,  dei  quali 


^)  Secondo  i  Cort.  sarebbe  andato  al  Pretorio  il  giorno 
appresso  alla  sua  entrata  in  Padova.  Lib.  IV.  Gap  IV. 
2)  Cort.  Lib.  IV  Gap.  IV. 


234  ALBERTINO  MUSSATO 

Cane  fece  dono  a  Marsilio,  che,  per  tal  modo, 
divenne  il  più  ricco  di  Padova. 

Il  Mussato,  ch'era  esule  a  Chioggia,  non 
appena  intese  che  Cane  era  divenuto  Signore 
di  Padova,  ed  aveva  proclamata  la  pace,  ve- 
dendo inutile  opporsi  agli  avvenimenti,  piegò 
rassegnato  il  capo,  e  sperò  di  poter  passare  gli 
ultimi  giorni  di  sua  vita,  se  non  lieti,  tranquilli 
nella  sua  città  diletta.  Fidando  nella  propria  in- 
nocenza e  nelle  promesse  di  Marsilio,  si  recò  egli 
segretamente  a  Padova  ^).  Appena  arrivato  in 


1)  I  Cortusii  registrano  erroneamente  il  tentativo  di 
Albertino  di  rimpatriare  nell'  anno  1329,  ed  aggiungono 
eh'  egli  mori  in  Chioggia,  1'  ultimo  giorno  di  Maggio  del- 
l'anno  seguente.  SuU' autorità  dei  Cortusii,  la  più  parte 
degli  scrittori  moderni  ripete  l'errore;  ma  «da  chiunqne 
conosca  un  poco  la  storia  di  quel  tempo  è  facile,  osserva  il 
Gloria.  [Documenti  inediti  intorno  a  Francesco  Petrarca 
e  Albertino  Mussato  —  Nuovi  Documenti  intorno  ad, 
Albertino  iì/?«5sa^o),  lo  scorgere  errato  quell'anno  1329 
invece  che  1328,  essendo  avvenuti  in  questo  e  non  nel- 
l'anno 1329  i  fatti  narrati  in  quella  storia  poco  prima 
o  poco  dopo  il  ricordo  di  quel  tentativo».  «Aftermando 
i  Cortusii  avere  alloggiato  Cangrande  della  Scala  quando 
divenne  Signore  di  Padova,  dal  10  al  28  settembre  1328, 
nel  palazzo  vescovile  di  essa  città,  ed  affermando  es- 
sersi portato  il  nostro  Albertino  da  Chioggia  a  Padova 
senza  la  permissione  di  lui,  mostrano  conseguentemente 
che  lo  stesso  Albertino  debba  aver  fatto  quella  gita  per 
impetrare  giustizia  dallo  Scaligero,  mentre  questi  in  Pado- 
va dimorava,  È  facile  perciò  comprendere  che  quella  gita 
narrata  al  capo  V  libro  IV  della  storia  dei  Cortusii  debba 


CAPITOLO   SESTO  235 

città,  andò  in  cerca  di  Marsilio,  e  non  avendolo 
trovato  in  casa,  poiché  siili'  imbrunire  era  an- 
dato da  Cane  nel  Palazzo  vescovile,  smontò  ad 
una  sua  casetta,  e  mandò  tosto  un  servo  a  Mar- 
silio che  gli  annunciasse  la  sua  venuta.  Il  servo 
trovò  Marsilio  che  passeggiava  con  Cane  sopra 
una  loggia,  e,  fattogli  un  profondo  inchino,  gli 
disse  della  venuta  del  Mussato.  Marsilio  all'  an- 
nunzio rimase  stupefatto,  cangiò  di  volto  e  do- 
mandò tre  volte  al  servo  se  fosse  veramente 
venuto.  Avendogli  questi  risposto  di  si,  trasse 
Cane  in  disparte,  col  quale  scambiò  alcune  pa- 
role ;  indi,  chiamato  un  messo,  lo  spedì  imme- 
diatamente al  Mussato,  per  chiedergli  con  quale 
audacia  e  fidando  in  chi  fosse  venuto  a  Padova. 


■essere  avvenuta  verso  la  metà  del  settembre  1328,  tanto 
più  che  in  quest'anno  pure,  nel  27  del  novembre,  avvenne 
la  grande  festa  fatta  poi  per  ordine  di  Cangrande  in  Ve- 
rona e  narrata  al  Capo  VI  della  storia  stessa».  «È 
inoltre  facile  rilevare  l'anno  1328  di  quella  gita  del  no- 
stro Mussato  dal  racconto  011'  egli  stesso  ne  fo  nel  suo 
libro  De  Gesiis  Italicorum  post  Heny^icum  Vlf.  Egli 
dice  che  si  recò  da  Chioggia  a  Padova  tosto  che  Can- 
grande, divenuto  Signore  di  Padova,  proclamò  in  Padova 
la  pace,  e  quando  questi  alloggiava  ancora  nel  detto 
palazzo  vescovile  di  Padova.  E  aggiunge  che  non  avendo 
ottenuto  ciò  che  ambiva,  tornò  a  Chioggia  e  che  Can- 
grande si  restituì  poi  a  Verona,  ove  celebrò  il  Natale 
del  Signore  in  quell'anno  stesso  1328». 

«Bisogna  quindi  correggere  l'anno  1329  messo  in  te- 
sta dei  Capi  V,  VI  e  VII  del  libro  IV  della  Storia  dei  Cor- 


236  ALBERTINO   MUSSATO 

Rispose  il  Mussato  :  Averlo  indotto  a  venire 
l'annunzio  della  pace  proclamata,  la  sua  inno- 
cenza, la  giustizia  di  Cane,  novello  Signore,  e 
la  fiducia  in  Marsilio,  eh'  egli  reputava  quale 
amico  e  fratello.  Il  messo  riferi  ogni  cosa  a 
Cane  ed  a  Marsilio,  i  quali,  tenuto  consiglio, 
lo  rimandarono  al  Mussato  per  dirgli  che,  non 
ostante  la  sua  nota  saggezza,  s' era  mostrato 
poco  prudente  col  venire  a  Padova,  e  che  si 
trattenesse  per  quel  giorno,  nella  casa  ov'era 
disceso,  fino  a  nuovi  ordini. 

Il  Mussato,  pieno  di  stupore,  passò  in  veglia 
quella  notte;  sul  far  dell'alba  mandò  il  servo  alla, 
casa  di  Marsiho,  per  pregarlo  gli  facesse  sapere- 
ciò  ch'era  stato  stabilito  sulla  sua  venuta.  Marsi- 
lio, al  comparire  del  servo,  volgendo  altrove  la 
faccia  ed  arrossendo  di  stizza,  rispose:  Non  vo- 
lerne sapere  del  Mussato  che,  contro  il  suo  con- 
siglio, avea  voluto  far  ritorno  in  città.  Provve- 
desse a  sé  stesso,  come  meglio  gli  piaceva,  senza 
ricorrere  a  Marsilio.  Ed  avendo  osato  il  servo 
affettuoso  di  chiedergli,  se  il  fallo  di  Albertina 
fosse  così  grave,  ch'egli  dovesse  far  ritorno  colà. 


tusii,  e  porvi  invece  l'anno  1328,  errore  derivato  proba- 
bilmente da  amanuensi,  e  ripetuto  nell'edizione  fatta 
nell'anno  1636  in  Venezia  e  in  quella  del  T.  XII  della 
grande  opera  Rerum  italicarmn  Scriplores  del  Mura- 
tori ». 


CAPITOLO   SESTO  237 

dond'era  venuto;  Marsilio  rispose,  che  «farebbe 
assai  bene,  se  cosi  facesse».  All'udire  questa  ri- 
sposta, il  Mussato  -  lo  narra  egli  stesso  -  tremò 
dalla  paura,  quasi  gli  fosso  minacciato  il  carcere 
o  la  morte.  Tisone  da  Camposampiero,  giovane 
di  animo  nobilissimo,  mosso  a  compassione  di 
lui,  volle  vedere  se  gli  veniva  fatto  di  combi- 
nare la  cosa.  Si  rivolse  dapprima  a  sua  madre 
Cunizza,  sorella  di  Marsilio,  indi  a  Marsilio, 
dal  quale  andò  e  tornò  più  volte,  insieme  con 
un  buon  religioso,  che  la  madre  gli  avea  dato 
per  compagno.  N'ebbe  in  risposta:  «Non  temes- 
se il  Mussato  ne  di  carcere,  né  di  morte;  ri- 
tornasse a  Chioggia,  e  stesse  colà  tranquillo 
fino  a  nuovi  ordini  ;  i  suoi  beni  non  gli  sareb- 
bero tolti;  Marsilio  se  ne  faceva  garante  ».  Al- 
bertino pertanto  dovette  ricalcare  la  dura  via 
dell' esiglio.  Il  Carrarese  gli. fece  sapere:  esser 
quella  una  sua  vendetta,  «  perchè  il  Mussato, 
in  un  codice  che  stava  scrivendo  sui  fatti  di  quel 
tempo,  lo  aveva  chiamato  traditore».  —  Gli 
rispose  lo  storico  :  «  Non  pensi  o  tema  Mar- 
silio ch'io  abbia  inserito  cosa  alcuna  nelle  mie 
carte,  se  non  vera.  I  fatti,  quali  avvennero,  sa- 
ranno tramandati  alla  posterità,  la  quale  darà 
la  lode  0  il  biasimo,  testimonio  il  Mussato  non 
giudice  ». 


238  ALBERTINO  MUSSATO 

Da  due  o  tre  giorni  Albertino  aveva  fatto 
ritorno  in  Chioggia,  allorché  gli  fu  riferito  es- 
sergli stata  fatta  gravissima  ingiuria  da  Mar- 
silio. Gli  aveva  questi  occupato  un  mulino, 
dal  quale  il  Mussato  -  son  sue  parole  -  traeva 
il  principale  suo  sostentamento  '),  sotto  pretesto 
che  apparteneva  ai  beni  del  monastero  di  Santa 
Giustina,  che  Cane  gli  aveva  regalati.  Albertino 
mandò  a  Padova  un  suo  fidato,  con  documenti, 


i>  Cvjus  maxima  emolumento  vescebalur.  Nota  il 
Gloria  {Boc.  inecl.  inlorno  a  F.  Petrarca  e  ad  A.  Mus- 
sato) che  «il  poeta  non  disse  il  vero,  se  teniamo  Tad- 
diettivo  maxima,  stampato,  od  esagerò,  ove  supponiamo 
invece  l'avverbio  ìnaxitne,  risultando  nel  primo  caso  olia 
il  gran  reddito  di  quel  mulino  fosse  l'unico,  e  nel  se- 
condo caso  il  principale  suo  sostentamento».  Che  Alber- 
tino abbia  esagerato  sono  d'accordo  col  Gloria;  ma  non 
sono  d'  accordo  con  lui  che,  ove  il  poeta  abbia  scritto 
onaximo  abbia  inteso  dire  V unico;  tale  non  sarebbe 
certo  il  valore  della  parola  maxima!  Anche  lo  Zanella 
nel  suo  scritto  Guerre  fra  Padovani  e  'Vicentini  al  tem- 
po di  Dante  dice  a  questo  proposito,  che  «  Marsilio  tol- 
se al  Mussato,  già  vecchio  ed  infermo,  l'unico  provento 
.che  avesse  a  campare  la  vita  »  ;  ma  ciò  egli  dice  non 
perchè  interpreti  viaximo  nel  significato  di  imico\  ma 
perchè  il  Mussato  stesso,  dopo  aver  narrato  l' occupazio- 
ne del  suo  mulino  da  parte  di  Marsilio,  soggiunge:  sicque 
Mussato  alimonia,  quib US  in  Clugia  et  alibi  ali  posset, 
surripuit;  facendo  credere,  per  tal  modo,  che  quel  mu- 
lino fosse  1'  unico  mezzo  dal  quale  egli  traesse  il  suo  so- 
stentamento. Che  ciò  non  fosse,  risulta  chiaramente,  come 
osserva  il  Gloria,  dal  fatto  «che  Albertino  ereditò  dal 
Cavalerio  non  iscarsa  fortuna;  che  sposò  Mabilia  Dente 


CAPITOLO   SESTO  239 

per  far  valere  i  suoi  diritti,  ma  né  il  messo 
venne  ascoltato,  né  i  documenti  furono  letti. 

Abbandonato  da  tutti  e  in  mezzo  alle  stret- 
tezze, passò  il  Mussato  in  Chioggia  gli  ultimi 
giorni  della  sua  vita,  forse  abbreviata  dalle 
tante  amarezze,  alle  quali  s'  aggiunse  la  mala 
condotta  del  figlio  Vitaliano.  Ciò  ne  fa  sapere 
il  Mussato  stesso,  nella  introduzione  alla  sua 
Storia  di  Lodovico  il  Bavaro,  con  queste  acerbe 
parole  rivolte  al  figlio  :  «  Affidare  la  semente 
a  terreno  sterile  è  atto  di  somma  follia  ;  ci  si 
rimette  insieme  la  fatica  e  le  spese.  Non  mi  par- 
ve dover  tramandare  ai  posteri  la  memoria 
delle  tue  crapule  e  delle  tue  turpi  azioni,  poi- 
ché sarebbe  di  dolore  a  me  e  di  vergogna  ai 
congiunti  ed  agli  amici  » . 

Unico  conforto  a  tante  sventure  trovava  Al- 


coli ricca  dote;  che  possedea  non  pochi  terreni  nei  vil- 
laggi di  Cona,  Candiana,  Agna,  Vaccarino  e  altrove,  e 
che  nei  suo  testamento  lasciò  ad  pias  caiisas  beni  del 
valore  di  lire  666  -  Vedi  Appendice,  Doc.  VII  -  ond'egli 
stesso  cantò  :  ad  bona  fortume  veni  labenlibiis  annis. 
Perciò  non  emergendo  che  questi  beni  gli  siano  stati  con- 
fiscati 0  mancati  mai  fuor  che  il  mulino,  ne  viene  eh'  ei 
li  tenesse  ognora  tìnchè  visse,  e  traesse  anco  da  questi, 
non  dal  molino  soltanto,  il  proprio  vivere».  Lo  stesso  Glo- 
ria, da  uno  dei  documenti  su  Albertino  da  lui  pubblicati, 
e  che  noi  riproduciamo  in  Appendice  sotto  il  n.°  Vili, 
inferisce  che  il  mulino  sia  stato  restituito  subitamente 
al  Mussato  dal  Carrarese. 


240  ALBERTINO   MUSSATO 

bertino  ne'  suoi  studi  prediletti.  Neil' esiglio  egli 
scrisse  il  libro  XII  De  Gestis  Italicorum  j)Ost 
Eìiricum  VlICcesarem,  nel  quale  se  sparge  un 
po'  di  fiele  contro  coloro  che  furono  causa  della 
sua  fine  infelice,  merita  tutto  intero  il  nostro 
compatimento.  Compose  inoltre  la  Storia  di 
Lodovico  il  Bavaro,  che  lasciò  incompiuta,  e 
buon  numero  di  versi. 

Il  31  maggio  dell'anno  1329  ^)  cessò  di  vive- 


^)  Dopo  quanto  ha  dimostrato  il  Gloria,  coli"  appoggio 
dei  documenti,  non  si  può  più  mettere  in  dubbio  l'esat- 
tezza di  questa  data.  Se  il  Mussato  tentò  di  rimpatriare 
nel  1328  e  non  nel  1329,  come  notano  erroneamente  i 
Cortusij,  e  se,  come  questi  asseriscono,  mori  nell' ultimo 
giorno  di  maggio  dell'  anno  seguente,  quest'  anno  non  può 
essere  che  il  1329.  Prima  del  Gloria,  il  Colle,  nella  sua 
Memoria  su  Albertino  Mussato,  dopo  aver  detto  che 
questi  mori  nell'  ultimo  giorno  di  maggio  dell'  anno  1330, 
in  età  d'anni  presso  a  70,  si  ricrede,  e  soggiunge;  «Os- 
servo peraltro  dopo  scritta  la  presente  (Memoria),  che 
il  Mussato  probabilmente  mori  nel  1329  in  età  d'anni 
69  (Egli  lo  fa  nato  nel  12òl)  anche  secondo  i  Cortusii,  e 
che  deve  essere  corso  errore  nel  millesimo  da  essi  posto 
in  fronte  del  capo  quinto,  libro  quarto,  dovendosi  leggere 
1328  invece  di  1329.  In  fatti  narrano  essi  in  quel  capo, 
che  Mussato  tornato  vergognosamente  alla  relegazione 
di  Chioggia,  vi  mori  l'anno  appresso  1'  ultimo  di  maggio. 
Ma  se  il  Mussato  venne  in  Padova  appena  data  la  città 
allo  Scaligero,  come  dice  egli  stesso  e  confermano  i  Cortu- 
sii, ciò  segui  nel  settembre  del  1328;  e  quindi  il  Mussato, 
morto  l'anno  appresso,  mori  nel  1329.  Tanto  più  che  lo 
Scaligero  mori  egli  pure  nel  luglio  del  1329,  dopoché 
Marsilio  Carrarese  avea   passato   servilmente  il  verno 


CAPITOLO    SESTO  241 

re,  nell'età  d'anni  sessantasei  e  mesi  otto  circa. 
La  sua  salma  fu  trasportata  in  Padova  e  se- 


a4itecedente  in  Verona  alla  corte  di  lui,  come  il  Mussato 
tornato  a  Chioggia  acerbamente  gli  rinfaccia  nell'ultimo 
libro  della  sua  Storia»  Lo  Scardeone,  anch' egli,  registra 
la  morte  del  Mussato  nell"  ultimo  giorno  di  maggio  del 
1329:  Obiit  Clodioe  post  triennium  MCCCXXIX  ullimo 
die  Mail,  e  cosi  pure  il  Vossio  Obiit  Clodii  exul  pr. 
kal.  lun.  anno*  1329.  A  farci  ritenere  esatta  l'epoca  in 
cui  asseriamo  avvenuta  la  morte  di  Albertino  contri- 
buisce inoltre  il  documento  9  luglio  1329,  allegato  dal 
Gloria  e  da  noi  riprodotto  in  Appendice  sotto  il  n.^  Vili, 
in  cui  si  leggono  le  parole  niolendinum  quondam  domini 
Albertini  Muxati  poete.  Il  Kònig  nel  suo  opuscolo  Ueber 
die  Herkunft  des  Albertino  Mussato  sostiene  il  parere 
contrario  a  quello  del  Colle  e  del  Gloria,  cioè  che  il  Mus- 
sato sia  morto  nel  31  maggio  1330,  e  vorrebbe  che  l' av- 
verbio quondam  del  documento  citato,  denotasse  ch'esso 
mulino  spettava  un  tempo  ad  Albertino,  e  non  che  questi 
fosse  già  morto  nel  9  luglio  1329.  11  Gloria,  confutando 
le  ipotesi  del  Konig,  osserva  fra  le  altre  cose:  «esser  re- 
gola non  solo  paleografica  e  diplomatica,  ma  comune,  che 
gli  avverbi  quondam  ed  olim  aggiunti  nudamente  al  no- 
me di  una  persona,  indicano  sempre  nei  documenti  quella 
persona  già  morta.  Lo  Zanella  poi  e,  con  lui,  il  Dall'  Acqua 
Giusti  e  il  Wychgram  vorrebbero  ancor  vivo  il  Mussa- 
to nel  13  agosto  1330,  trovandosi  il  suo  nome  segnato 
in  un  documento  che  porta  quella  data.  (Vedi  :  Appendice 
Doc.  IX).  Quel  documento,  come  dimostra  ad  evidenza  il 
Gloria,  si  riporta  senza  ambagi  al  mutuo  stipendiato  ven- 
t'anni  innanzi,  di  cui  è  parola  in  un  altro  documento 
28  gennaio  1310,  pure  pubblicato  dal  Gloria,  e  che  noi  ri- 
produciamo in  Appendice  sotto  il  u.?  X.  Il  Wj^chgram,  che 
conosce  il  doc.  9  luglio  1329,  lo  riporta  in  Appendice  al 
suo  scritto,  e  darebbe  al  quondam  il  valore  che  dà  il 
Kònig. 

16 


242  ALBERTINO  MUSSATO 

polta  in  Santa  Giustina  ^).  Così  ebbe  fine  la 
vita  fortunosa  di  questo  Grande,  che,  simile 
per  ingegno  e  per  sventure  all'  Alighieri,  con- 
sumò, al  pari  di  lui,  nell'esiglio  gli  ultimi  anni 
di  sua  vita  sulla  stessa  riva  del  mare  Adriatico. 


t)  Sulla  tomba  e'  era  la  seguente  iscrizione,  riportata 
dallo  Scardeone: 

Condita  Trojugenis  post  diruta  Pergama  tellus 
In  mare  fert  Patavas  unde  Timavus  aquas, 

Hunc  genuit  vatem,  tragica  qui  voce  tyranni 
Edidit  Archilocis  impia  gesta  modis. 

Prfebait  aitati  vitce  monumenta  futurse 
Ut  sit  ab  externis  cautior  illa  maiis. 

Il  Gloria  la  reputa  d' ignoto  autore  e  non  di  Alber- 
tino stesso,  come  aveva  detto  a  pag.  91  del  suo  opuscolo: 
Studi  intorno  al  corso  dei  fiumi  ecc.  (Vedi  :  Boc.  ined. 
intorno  a  F.  Petrarca  ed  A.  Mussato  pag.  19,  nota  1). 

Nella  ricostruzione  del  tempio,  le  ceneri  del  poeta  an- 
darono disperse,  e  nel  luogo  della  sua  sepoltura,  fu  posta 
questa  iscrizione,  che  oggi  più  non  esiste:  Manibus  Al- 
bertini  Mussati.  Il  Cittadella  nel  volume  I  pag.  451  della 
sua  Storia  della  Dominazione  Carrarese  in  Padova 
nota:  Gli  antichi  scrittori  clodiensi  dicono  che  Albertino 
ebbe  tomba  nell'antica  cattedrale  di  Chioggia. 


Capitolo  Settimo. 

Le  Storie. 

I  fatti,  che  siam  venuti  narrando,  li  abbia- 
mo raccolti,  per  la  maggior  parte,  dallo  stes- 
so Albertino  Mussato,  il  quale  fu  storico  de*  suoi 
tempi  conscienzioso  e  valente  ;  i  pochi  e  lievi 
errori,  nei  quali  è  caduto,  non  gli  scemano  au- 
torità, e  possono  essere  corretti  facilmente  col- 
r  aiuto  delle  altre  fonti. 

h' Historm  Augusta  è  il  principale  de' suoi 
lavori  storici.  Secondo  l' ipotesi  assai  probabile 
del  Wychgram,  essa  sarebbe  stata  compiuta  pri- 
ma dell'aprile  1314.  E  evidente  —  nota  lo  scrit- 
tore tedesco  —  eh'  essa  fu  finita  dopo  la  morte 
di  Enrico  VII  (24  agosto  1313)  che  vi  è  de- 
scritta,  e  prima  di  quella  di  Filippo  il  Bello, 
(29  novembre  1314)  che  vi  è  ricordato  come 
vivente.  Ma  io  credo,  egli  soggiunge,  di  poter 
ancora  restringere  questo  spazio  di  tempo  e  di 
stabilire  ch'essa  sia  stata  compiuta  prima  del- 


244  ALBERTINO   MUSSATO 

l'aprile  1314.  Infatti  al  principio  di  questo 
mese,  la  casa  del  Mussato  venne  saccheggiata 
dal  popolo  sollevato  per  la  carrella.  Sarebbe 
strano  eli'  egli,  scrivendo  dopo  questo  avveni- 
mento, non  avesse  manifestato  ai  Padovani  il 
suo  dispiacere  ;  tanto  più  che  negli  ulteriori 
scritti  prende  volentieri  occasione  di  dare  sfogo 
al  suo  corruccio  ^). 

La  pubblicazione  di  questa  storia  e  della  tra- 
gedia Eccerinis  gli  meritò  la  laurea  poetica, 
della  quale  venne  cinto,  come  vedemmo,  il 
giorno  di  Natale  dell'anno   131-1. 

L' Historia  Augusta  narra  i  fatti  accaduti 
in  Italia  dalla  discesa  di  Enrico  VII  di  Lus- 
semburgo fino  alla  sua  morte,  e  si  divide  in 
sedici  libri.  Si  credeva  generalmente  che  la 
venuta  dell'  Imperatore  avrebbe  posto  fine  alle 
discordie  tra  Guelfi  e  Ghibellini,  ed  invece 
contribuì  a  rinfocolarle  maggiormente.  Tutte  le 
buone  intenzioni  di  Enrico  non  approdarono 
a  nulla,  seppure  non-  servirono  ad  allontanar- 
lo sempre  più  dal  suo  fine.  Invano  egli  cercò 
di  legarsi  in  amicizia  col  Pontefice,  dal  quale 
ottenne  T  assenso  di  venire  in  Itaha  e  di  cinge- 
re la    doppia  corona    a    Milano    ed    a    Roma. 

I)  Pag.  60. 


CAPITOLO    SKTTIMO  245 

Il  partito  guelfo  vide  in  ciò  un'  astuzia  del- 
l' Imperatore  jfer  far  prevalere  più  facilmente 
in  Italia  la  fazione  ghibellina.  Le  nomine  dei 
vicarii  imperiali  nelle  città  che  gli  prestavano 
omaggio  confermarono  il  sospetto  dei  guelfi,  e 
fu  questa  la  ragione  per  cui  molte  città  si  rifiu- 
tarono di  accoglierlo,  ed  altre,  che  pur  V  ave- 
vano accolto,  gli  si  ribellarono.  Da  ciò  guerre 
sanguinose  e  terribili  assedii.  Principale  nemi- 
co dell'  Imperatore  era  Roberto  re  di  Napoli, 
il  quale  cercava  ogni  mezzo  per  impedire  che 
quello  acquistasse  potenza  in  Italia.  L'inimici- 
zia di  costoro  stava  per  rompere  in  aperta 
guerra,  allorché  l'Imperatore  mori  a  Buon- 
convento. 

Tutto  ciò  narra,  con  molti  particolari,  il 
Mussato  nella  sua  Historia  Augusta,  e  sicco- 
me egli  stesso  fu  testimonio  dei  fatti  princi- 
pali che  sono  oggetto  della  sua  narrazione,  cosi 
è  scrittore  degnissimo  di  fede,  e  la  sua  sto- 
ria è  fonte  copiosa  e  sicura  delle  cose  acca- 
dute in  Italia  alla  venuta  di  Enrico  VII.  L'  am- 
mirazione ch'egh,  che  pur  si  professa  guel- 
fo ^),  dimostra  per  l' Imperatore,  e'  è  garanzia 


1)  Hsec  referens  Gelfa  non  me  de  parte  negavi. 
In  laudem  D.  Henì'ici  hnperatoris  et  commenda- 
iioneni  sui  operis  de  gestis  eiusdem.  Epist.  II. 


246  ALBERTINO   MUSSATO 

della  sua  imparzialità  nel  giudicare  degli  uo- 
mini e  delle  cose.  Egli  stesso  si'  vanta  con  ra- 
gione di  questa  sua  dote  ').  L'  essere  stato  poi 
ambasciatore  più  volte  ad  Enrico  gli  ha  dato 
occasione  di  conoscere  molti  particolari  intorno 
alla  dinastia  di  lui,  al  luogo  della  sua  nascita 
e  ai  suoi  costumi  ;  cose  tutte  delle  quali  tratta 
nel  principio  del  libro  primo  della  sua  Storia. 

Ma  come  si  spiega  l' ammirazione  del  Mus- 
sato per  r  Imperatore,  mentre,  cittadino  di  una 
città  guelfa  e  chiamato  a  sostenerne  i  diritti, 
avrebbe  dovuto  considera,rlo,  direi  quasi,  come 
nemico? 

Albertino  Mussato,  benché  si  professi  guel- 
fo, non  è  propriamente  tale.  Egli  non  è  un 
partigiano  volgare,  ma  si  eleva  al  di  sopra  dei 
partiti  ;  i  pregiudizii  non  fanno  velo  agli  occhi 
suoi;  vede  ciò  che  può  tornare  di  maggiore 
utilità  alla  sua  patria,  e  si  sforza  di  raggiun- 
gerlo, malgrado  V  opposizione  de'  suoi  concitta- 


1)  Me  super  his  scriptis,  ccelestia  Xumiaa  tester, 
Non.  timor  aut  odium,  nec  superavit  amor. 

Gesta  super  vero  semper  sine  crimiue  scripsi, 
Zelus  in  hac  quisquam  non  mihi  parte  fuit. 

Scripta  milii  videas  rerum  discrimina,  lector. 
Et  tibi  nunc  Gelfus  nunc  Gibolengus  ero. 

Vive  liber  puri  testis  fidissime  veri. 

Ibidem. 


CAPITOLO   SETTIMO  247 

dini.  Non  è  a  credere  tuttavia,  come  crede  il 
Lorenz,  eh'  egli  fosse  stato  guadagnato  all'  Im- 
peratore, prima  ancora  della  venuta  di  questo  in 
Italia  ^).  Il  Mussato,  come  possiamo  rilevare  da 
quanto  scrive  egli  stesso  in  una  sua  epistola, 
non  sapeva  come  dovesse  riguardare  il  futuro 
avvenimento,  e  domandava  consiglio  a  Giam- 
bono  d' Andrea,  come  ad  uomo  di  molto  sen- 
no, per  sapere  che  dovesse  sperare  o  temere. 
«Odi,  0  Giambono,  gli  scrive,  questi  rumori  che 
vengono  dal  settentrione?  L'Imperatore  ger- 
manico sta  per  venire  in  Italia,  a  cingere  il 
diadema  col  consenso  del  Papa,  e  senza  che  il 
grande  Gallo  (Filippo  il  Bello)  gli  si  opponga. 
Tutti  gli  Italiani  sono  commossi  dal  grande  av- 
venimento. V  ha  chi  ricorda  i  danni  recati  alla 
Chiesa  da  Federico  e  le  innumerevoli  stragi 
commesse  dal  feroce  Ezzelino  ;  v'  ha,  per  lo  con- 
trario, chi,  di  opposto  parere,  esaltando  Y  Im- 
pero come  salutare  e  il  nome  di  (tesare  pari 
a  quello  degli  Dei,  ricoiiosce  la  Chiesa  cagio- 
ne di  tutti  i  mali.  Essa  avrebbe  potuto  goder 
pace  e  tener  soggetto  l' Impero  al  suo  sacro 
giogo  ;  ma  il  desiderio  ardente  di  dominare  su 
tutto  il  mondo  e  la  sfrenata  voglia  di  un  se- 


1)  Deutschlands  Geschichtsquellen  in  MiltelatLer 


248  ALBERTINO   MUSSATO 

condo  potere  pervertirono  l'animo  del  Ponte- 
fice ;  mentre  la  crudele  Tesifone  accende,  con 
potenti  stimoli,  le  ire  nefande.  E  si  dovrà  in- 
veire contro  Ezzelino,  ed  imputare  ogni  cosa 
all'  Imperatore  ?  Ma,  ammesso  pure  che  fosse- 
ro entrambi  iniqui,  ne  viene  di  conseguenza  che 
tutti  gli  Imperatori  debbano  esser  tali  ?  Augu- 
sto ed  altri,  è  comune  opinione,  risplendono, 
fulgide  stelle,  nel  cielo.  Venga  adunque  il  Prin- 
cipe col  nome  di  Signore  del  mondo,  e  possa 
con  mano  gagliarda,  mite  a  un  tempo  e  se- 
vero, perdonare  ai  soggetti  e  debellare  i  su- 
perbi. Di  tai  voci,  continua  il  Mussato,  la  ple- 
be empie  in  giro  la  città  intimorita,  e  giovani 
e  vecchi  contendono  per  diverse  opinioni».  Si 
rivolge  quindi  all'amico,  che  ha  mente  presa- 
ga del  futuro,  perchè  coi  consigli  rialzi  l'ani- 
mo suo  combattuto  ^). 

Malgrado  questi  dubbi,  il  poeta  fa  capire  da 
qual  parte  inclinerebbe  l' animo  suo.  Allorché 
poi  r  Imperatore  venne  in  Italia,  ed  egli  fu 
mandato  a  lui  come  ambasciatore  della  sua 
città,  fu  talmente  preso  dalla  amabilità  di  En- 
rico, che  ne   divenne   ammiratore    sincero.  Ciò 


1)  Epistola  V.  Ad  Jambonum  de  Andrea  notarium 
super  advenfu  D.  Henrici  Imperatoris  in  Italiani. 


CAPITOLO   SETTIMO  249 

non  ostante  egli  non  dimenticò  mai  quale  era 
la  sua  posizione  dinanzi  all'Imperatore,  e  quale 
missione  gli  aveva  affidato  la  sua  Repubblica. 
Quando  poi,  mercè  la  confidenza  che  gli  accor- 
dava Enrico,  potè  scoprire  quali  fossero  le  sue 
mire  politiche,  desiderò  pel  bene  della  sua  cit- 
tà, che  questa  si  unisse  a  lui.  E  poiché  vide 
riuscire  inutile  ogni  tentativo,  essendoché  vi 
si  opponevano  i  desiderii  della  maggior  parte 
dei  cittadini,  cercò  almeno  eh'  essa  serbasse 
rispetto  ad  Enrico  un  contegno  neutrale.  Co- 
testo era  quanto  di  meno  potesse  far  Padova 
a  quei  giorni,  per  evitare  danni  gravissimi. 
Agire  diversamente  era  un  disconoscere  il  pro- 
prio vantaggio,  e  Padova  lo  disconobbe  pur 
troppo!  Noi  sappiamo  dai  fatti,  che  cosa  essa 
abbia  ottenuto  con  la  sua  ostinata  opposizione 
ad  Enrico.  Il  Mussato,  per  questo,  non  cessa 
dalle  sue  lodi  verso  l' Imperatore,  e  rimprovera 
acremente,  ogniqualvolta  gliene  capita  il  destro, 
i  suoi  concittadini,  i  quali,  piuttosto  che  voler- 
lo amico,  avevano  provocato  lo  sdegno  di  lui. 
Egli  parla,  con  favore,  di  Enrico  in  più 
luoghi  delle  sue  opere.  Dicemmo  come  si  oc- 
cupi di  lui  e  della  sua  schiatta  nella  introdu- 
zione della  Storia  Augusta  ;  ora  aggiungeremo 
eh'  egli  manifesta  principalmente  i  suoi   senti- 


250  ALBERTINO   MUSSATO 

menti  verso  T  Imperatore  nelle  Epistole  I,  li, 
V  e  XVII.  La  II,  alla  quale  abbiamo  accenna- 
to più  sopra,  è  in  lode  eli  Enrico.  Il  poeta  la 
scrisse  dopocliè,  per  la  sua  Storia,  ebbe  otte- 
nuto la  laurea  poetica,  per  la  quale  si  profes- 
sa grato  all'  Imperatore  ;  benché  gli  cliiegga 
perdono  di  avere  osato  di  scrivere  le  sue  ge- 
sto, degne  di  essere  narrate  da  altra  penna  ^). 
In  questa  Epistola  egli  dichiara,  nessuno  di  qua 
dall'  Alpe  esser  più  caro  di  lui  ad  Enrico  ^)  ; 
chiama  ingrati  e  stolti  i  Padovani,  per  aver 
respinto  i  patti  favorevoli  proposti  loro  dall'  Im- 
peratore, il  quale,  capo  del  mondo,  s' era  sot- 
toposto ad  essi  ;  così  in  breve  tempo  fu  cen- 
tuplicata quella  piccola  somma  che  avrebbero 
sborsato  ;  oltre  a  ciò  perdettero  Vicenza,  e  le 
guerre  con  Cane  ebbero  principio.  Se  Padova 
avesse  ascoltato  i  suoi  consigli,  avrebbe  evitato 
tante  stragi.  Termina  col  voto,  che  la  futura 
gioventù  padovana  divenga  più  cauta  all'esem- 
pio di  tanti  mali  ^). 

1)  Jure  tibi  teneor,  Rex  invictissime  ;  prò  te 

Accedit  capiti  nexa  corona  meo. 
Farce  tamen,  bone  Rex,  nimium  mlhi  fortiter  auso 
Si  fuerant  alia  gesta  notanda  manu. 

2)  Quod  tibi  cis  Alpes  non  me  dilectior  alter, 

Carior  aut  nostra  sub  regione  fuit. 

3)  Ingrati  Fatavi,  quaa  vestra  insania?  Vobis 

Is  se  subiecit,  qui  caput  orbis  erat. 


CAPITOLO   SETTIMO  251 

Il  Friedensburg  è  d' avviso,  che  non  si  deb- 
ba dare  troppa  importanza  a  questa  Epistola 
per  ciò  che  riguarda  i  rapporti  del  Mussato 
coir  Imperatore;  che  s'egli  si  vanta  superiore 
ai  partiti,  non  v'  è  storico  che  non  presuma 
altrettanto.  Nemmeno  dal  punto  di  vista  sto- 
rico vorrebbe  che  si  desse  ad  essa  troppo  peso. 
Egli  non  è  d' accordo  col  Wychgram,  il  quale 
vede  in  Mussato  un  partigiano  dell'Impero  e 
trova  che  le  sue  idee  politiche  non  differisco- 
no da  quelle  dell' Ahghieri.  La  politica  del  Mus- 
sato, nota  il  Friedensburg,  piuttosto  che  nel- 
r  Epistola  II,  deve  cercarsi  nelle  sue  Storie, 
dov'  egli  ce  la  espone  francamente  ^).  Fra  le 
altre  cose  osserva,  che  il  Mussato,  di  ritorno 
dalla  seconda   legazione    all'Imperatore,    allor- 


Sed  male  concordes  et  longa  pace  superbi 
Cessistis  paetis  per  vaga  vota  bonis. 

Summula  Principibus  parvfe  desponsa  monetse 
Tempore  sub  parvo  centuplicata  fuit. 

Accessit  damnis  ammissa  Vicentia  nostris, 
Bellaque  cum  Grandi  capta  fuere  Cane. 

Cum  Cane  vitasset  moraenta  per  omnia  clades 

Urbs  mea,  Consilio  si  foret  usa  meo. 
Tuque  stude  solers,  Padufe  ventura  Juventus, 
Cautior  ut  nostris  efficiare  malis. 
1)  Zur  Krilik  der  Historia  Augusta  des  Albertino 
Mussalo  nelle  Forschungen  zur  Deutschen  Geschichte 
Band.  XXIII.  Heft  I.  pag.  9. 


252  ALBERTINO  MUSSATO 

che  trova  i  suoi  concittadini  quasi  risoluti  di 
respingere  le  condizioni  imposte  loro  da  Enri- 
co, arrischia  appena  alcune  timide  osservazio- 
ni, e  li  consiglia  a  salvare  almeno  la  forma, 
per  non  andare  incontro  ad  una  guerra,  il  cui 
esito  non  era  prevedibile  ^),  Più  tardi  quando 
per  la  defezione  di  Vicenza,  Padova  atterrita 
si  decise  di  accordarsi  con  l' Imperatore,  si  ri- 
corse di  nuovo  al  Mussato,  non  perchè  questi 
paresse  il  miglior  patrocinatore  della  politica 
favorevole  all'Impero;  ma  perchè  egli,  insieme 
con  Antonio  da  Vigodarzere,  che  fu  suo  com- 
pagno in  questa  come  nell'  antecedente  legazio- 
ne, per  aver  già  iniziate  le  trattative  con  En- 
rico, affine  di  ottenere  un'  unione  fra  Padova 
e  lui,  era  in  certo  modo  impegnato  a  prose- 
guirle e  condurle  a  buon  fine  ^).  Nemmeno  nel- 
r orazione,  dopo  il  ritorno  da  Genova,  colla 
quale  il  Mussato  cerca  distogliere  i  suoi  con- 
cittadini dal  ribellarsi  all'Imperatore,  come  li 
avea  consigliati  Rolando  da  Piazzola,  il  Frie- 
densburg  trova  nessun  accenno  che  dia  indi- 
zio di  un  sentimento  e  di  una  tendenza  favo- 
revoli ad  Enrico  ^).  S'era,  è.  vero,  perla  sua 


1)  Ibid. 
8)  Ibid. 
3)  Pag.  10. 


CAPITOLO   SETTIMO  253 

personale  conoscenza  dell'Imperatore,  volto,  per 
breve  tempo,  con  simpatia  alla  persona  di  lui; 
ma  molto  più  forti  di  questa  simpatia,  che  il 
Friedensburg  giudica  in  Albertino  come  una 
bella  visione,  erano  i  legami  che  lo  tenevano 
stretto  alla  sua  patria,  nella  quale,  povero  ed 
ignoto,  era  salito  in  onore  ed  in  grandezza  ; 
in  essa  erano  le  radici  della  sua  forza,  e  in 
servigio  di  essa  consacrò  tutta  la  sua  vita  ^). 

Tra  il  modo  del  Wychgram  e  quello  del  Frie- 
densburg  di  giudicare  i  rapporti  del  Alussato 
con  Enrico  ci  corre  !  Ma  se  il  primo  esce  dal 
vero,  parmi  che  il  secondo,  pur  cogliendo  nel 
segno,  esageri  alquanto,  e  che  l' affetto  di  Al- 
bertino verso  r  Imperatore  fosse  più  forte  e  più 
duraturo  di  quanto  egli  vorrebbe   far  credere. 

Morto  Enrico,  per  la  cui  fine  immatura  il 
Mussato  provò  dolore,  non  ostante  che  Pado- 
va vedesse,  per  tal  modo,  dileguarsi  la  nube 
minacciosa  del  bando  promulgato  contro  di 
essa  ;  solo  nemico  di  Padova,  sotto  pretesto  di 
sostenere  i  diritti  dell'  Impero,  restava  Cangran- 
de.  Dinanzi  a  questo,  Albertino  non  ci  appa- 
risce più  ora  guelfo  ora  ghibellino;  egli  ci  si 
mostra  completamente  ed  apertamente    guelfo, 

1)  Pag.  54. 


254  ALBERTINO  MUSSATO 

opponendosi  con  tutte  le  sue  forze  ed  eccitan- 
do i  suoi  concittadini  ad  opporsi  alle  preten- 
sioni dell'audace  Scaligero.  Ciò  che  Albertino 
abbia  operato  noi  lo  sappiamo,  e  se,  malgrado 
tutti  i  suoi  sforzi^  la  patria  sua  perdette  la  li- 
bertà, .ciò  fu  conseguenza  del  non  aver  quella 
ascoltato  i  suoi  consigli,  allorché  tentò  di  ren- 
derle propizio  r  Imperatore. 

Ben  sei  sapevano  i  suoi  concittadini,  i  qua- 
li gli  decretarono  T  onore  della  corona  d' allo- 
ro, oltre  che  per  V  Eccermis,  per  quella  Sto- 
ria stessa,  nella  quale  egli  mette  in  piena  evi- 
denza i  loro  errori.  Essi  lo  festeggiano  col- 
r  incoronazione,  ed  egli  in  cambio  accresce,  in 
un'epistola,  la  misura  dei  rimproveri.  «Ren- 
diamo giustizia  —  scrive  il  Dall'Acqua  Giusti, 
del  quale  mi  piace  citare  le  parole  —  per  una 
parte,  alla  coraggiosa  franchezza  dello  scrit- 
tore, e  per  Y  altra,  a  una  longanimità  di  giu- 
dizi nei  cittadini  di  quella  RepubbHca,  che  non 
si  trova  di  frequente  nemmeno  nelle  età  più 
civili.  Premesso  ciò,  badiamo  che  Cane  era 
sempre  là  minaccioso.  Era  questo  l'argomento 
potente  che  dava  ragione  al  Mussato.  Forse 
già  da  lunga  pezza  molti  convenivano  negli 
stessi  pensieri.  E  frattanto,  s'egli  ritornava  vo- 
lentieri, e  con  un    poco    di    vanità,    su    quelle 


CAPITOLO   SETTIMO  255 

cause,  intendeva  di  dedurne  non  già  sterili  re- 
criminazioni, aia  la  necessità  del  rimedio.  C  era 
stato  un  tempo,  in  cui  avrebbe  voluto  che  la 
sua  città  divenisse  un  po'  ghibellina  ;  ma  quel 
tempo  era  passato  ;  ora  egli  la  voleva  più  che 
mai  guelfa  neir  indomita  resistenza  allo  Scali- 
gero e  negli  estremi  sforzi  per  cacciarlo  da  Vi- 
cenza» ^). 

Della  veracità  della  Storia  Augusta  abbia- 
mo toccato  nel  principio  di  questo  capitolo  ;  ora 
per  dare  una  prova  non  dubbia  di  quanto  fos- 
se conscienzioso  il  Mussato,  aggiungeremo  come, 
dopo  i  primi  sette  libri,  nei  quali  narra  avveni- 
menti eh'  egli  stesso  vide  o  dei  quali  potè  ave- 
re notizia  sicura,  dichiari,  nel  principio  dell'ot- 
tavo, come  sia  venuto  a  sapere  indirettamente, 
per  mezzo  altrui,  le  cose  che  sta  per  narrare. 
Ciò  non  ostante  dice  aver  cercato  colla  mag- 
gior cura  di  attenersi  alla  verità,  poiché  vuole 
piuttosto  essere  rimproverato  di  omissioni  che 
d'aver  falsato  il  vero  ^).  Ma  poiché,   dopo   la 


1)  Alcuni  sludi  letterari  e  storici.  —  Venezia,  Aiito- 
nelli  1878. 

3)  Veniam  profitenti  non  abnegel  leclura  xiosteri- 
tas,  si  res  gesta  nostri  Ccesaris  a  meis  remota  notioni- 
bus,  ab  hinc  minus  seriose  descripserim,  cum  investi- 
gationi  per  internuncios,  amicorumque  et  peregrino- 
rum  documenta  solliciludo  non  defuerit.  Ea  propter 


256  ALBERTINO   MUSSATO 

defezione  di  Padova  air  Imperatore,  il  Mussato 
non  si  reca  più  presso  la  corte  imperiale,  e 
tutto  fa  credere  eh'  egli  non  abbia  abbandonato 
la  Marca  Trivigiana,  e  poiché  l' Imperatore, 
dopo  quella  defezione,  si  mosse  verso  il  mezzo 
giorno  d' Italia  ;  il  Friedensburg,  pel  quale  la 
narrazione  delle  gesta  d'Enrico  ha  un  inte- 
resse speciale,  dividerebbe  la  Storia  Augusta 
in  due  parti,  la  prima  delle  quali,  dal  primo 
al  quinto  libro,  egli  considera  come  una  fonte 
di  primo  ordine.  In  essa  infatti  All)ertino  nota 
fedelmente  ciò  che  vide  ed  osservò  egli  stesso  ; 
né  manca  di  avvertire  il  lettore  ogniqualvolta 
narra  per  udita.  Il  Dònniges,  confrontando  le 
notizie  date  dal  Mussato  con  gli  Atti,  non  ha 
potuto  fare  ad  esse  che  poche  aggiunte,  ed  ha 
conchiuso  doversi  prestare  al  nostro  Autore 
intera  fede  ^). 

Anche  riguardo  alla  forma,  la  Storia  Au- 
gusta tiene  il  primo  posto  tra  i  lavori  storici 
del  Mussato.  Malgrado  quel  latino  semibarba- 


operos  pretium  sit  saltem  veritati  sludiosius  allenta  fi- 
delitas.  Maini  quippe,  si  quid  demeruerim,  de  omis~ 
sis   argui,  quaììi  de  male  dicUs. 

1)  Kritik  der  Quellen  far  die  Geschichle  Heinrichs 
VII  des  Làtzelburgers. 


CAPITOLO   SETTIMO  257 

ro  e  quello  stile  rude,  l' espressione  n'  è  il  più 
delle  volte  efficacissima;  talune  oscurità  sono 
da  attribuirsi,  più  che  ad  altro,  alle  scorrezio- 
ni del  testo.  I  critici  tutti  sono  d'accordo  nel 
lodarne  la  locuzione  vigorosa  ed  eloquente. 

Osserva  il  Tiraboschi  :  «  benché  lo  stile  del 
Mussato  si  risenta  non  poco  della  rozzezza  dei 
tempi  nei  quali  scriveva,  egli  ha  nondimeno 
una  forza  e  una  eloquenza  tutta  sua  propria, 
alla  quale  se  si  congiungesse  una  espressione 
più  elegante  e  qualche  maggior  precisione,  ei 
dovrebbe  aver  luogo  tra  gli  storici  più  rino- 
mati» ^).  Egli  cita  inoltre  il  giudizio  di  Gu- 
glielmo da  Pastrengo,  di  Pier  Paolo  Vergerlo 
e  di  Michele  Savonarola,  il  quale  ultimo  non 
dubita  di  chiamare  il  Mussato  un  altro  Livio 
nella  eloquenza.  Il  Vossio  lo  giudica  storico 
prudente  e  grave,  e,  pe'  suoi  tempi,  elegante 
e  facondo,  ed  aggiunge  che  fu  amantissimo 
della  verità,  la  quale  fu  detta  a  ragione  l'a- 
nima della  Storia  '). 

Il  Muratori  per  la  bellezza  e  purità  dello 
scrivere,  giudica  il  Mussato  inferiore    al   Fer- 


^)  Storia  della  letteratura  italiana,  Libro  II,  Capi- 
tolo VI. 

~)  Be  historicis  latinis. 

17 


258  ALBERTINO  MUSSATO 

reto,  eh'  egli  chiama  precursore  del  Petrarca, 
e  non  pone  mente  l'illustre  erudito  come  quelli 
che  a  lui  fanno  tanto  piacente  lo  stile  del 
Ferreto,  dai  rotondi  periodi,  siano  tutti  vezzi 
d' accatto,  i  quali  allontanano  lo  storico  da 
quella  semplicità  e  naturalezza,  che  più  sareb- 
bero state  convenienti  al  soggetto  che  tratta. 
Il  Mussato,  per  lo  contrario,  se  non  conse- 
gue r  eloquenza,  riesce  meglio  a  manifestare 
tutto  intero  il  suo  pensiero  ;  poiché  l' espres- 
sione che  adopera  corrisponde  assai  meglio  ad 
esso,  che  non  le  forme  dei  classici  antichi,  le 
quali  non  potevano  adattarsi  al  mutato  pen- 
siero di  quei  giorni.  «  Io  dirò  —  scrive  lo  Za- 
nella —  che  in  Ferreto  mi  pare  l' artificio  mag- 
giore, più  copioso  lo  stile,  il  periodo  più  ro- 
tondo; ma  la  lettura  del  Mussato  più  mi  di- 
letta, perchè  dipinge  le  cose  del  suo  tempo  con 
più  colore  di  verità,  come  quegli  che  non  si 
briga  di  raffazzonarle  e  vestirle  all'  antica  :  per- 
chè corre  più  spedito  e  disinvolto  :  in  una  pa- 
rola, perchè  più  si  accosta  all'aureo  candore 
de'  nostri  cronisti  del  trecento.  In  quel  semi- 
barbaro latino  scopri  il  germe  di  molti  fiori  di 
dire  itahani,  vi  senti  come  l'aria  di  un  nuovo 
giorno  che  si  avvicina  ;  mentre  in  Ferreto  ti 
affanna  lo  stento,    come   d'uomo   che   con   an- 


CAPITOLO   SETTIMO  259 

tiche  mine  s'ingegna  costruire  un  edilizio  mo- 
derno» ^). 

Il  Donniges,  nel  suo  dotto  lavoro,  mette  fuo- 
ri di  dubbio,  che  il  Ferreto,  per  ciò  che  ri- 
guarda i  fatti  di  Enrico  VII,  abbia,  nella  sua 
storia,  copiato  il  Mussato.  Ciò  è  vero  in  parte. 
Ma  come  si  spiega  la  dichiarazione  che  fa  lo 
storico  vicentino  di  non  aver  mai  veduto  la 
Storia  del  Padovano?  Ch'egli  eviti  diligente- 
mente che  il  lettore  possa  scoprire  il  suo  pla- 
gio, come  vorrebbe  il  Donniges^  non  si  può 
ammettere,  poiché  nella  prefazione  parla  già 
della  Storia  Augusta,  e  nel  principio  del  quar- 
to libro  nota  come,  per  avere  il  Mussato  scritto 
con  molta  larghezza  di  Enrico  VII,  della  sua 
origine  e  della  sua  elezione,  egli  ne  parlerà 
brevemente  ~).  Soggiunge  tuttavia  eh'  egli  non 
ebbe    dinanzi    agli    occhi   il    lavoro    del   Pado- 


1)  Di  Ferreto  de'  Ferrei i  storico  e  poeta  vicentino. 
—  Memoria  pubblicata  nel  volume  di  Scritti  varii.  — 
Firenze,  Successori  Le  Monnier  1877. 

~)  Secl  de  Iiis,  quoniam  a  Patavino  poeta  et  histo- 
rico  Albertino  Muxalo  diffuse  conscriptum  est^  com- 
pendiose tractabimus  ;  potuit  enim  ille,  prò  patria  sua 
legatus  ad  Ccesareni,  omnia  sui  generis  priniordia, 
quce  nos  lalenf,  ad  unguem  perscrutari  et  ea  mani- 
feste disserere. 


260  ALBERTINO   MUSSATO 

vano  ^).  E  in  tal  caso  come  poteva  sapere  che 
questo  avea  scritto  diffusamente  di  Enrico  e 
della  sua  stripe  ?  Non  altrimenti,  senza  dubbia, 
che  per  fama,  come  attesta  lo  stesso  vicenti- 
no, la  quale  invero  esagerava,  perciocché  le  no- 
tizie che  dà  il  Ferreto  su  Enrico  non  sono  meno 
diffuse  di  quelle  del  Mussato.  Non  si  può  ne- 
gare tuttavia  che  il  Ferreto,  in  alcuna  parte 
della  sua  Storia,  non  copii  liberamente  il  Mus- 
sato, come  ad  esempio  nella  descrizione  dell'  as- 
sedio di  Brescia.  E  in  qual  maniera  potremo 
noi  spiegare  i  suoi  plagi,  quando  ammettiamo 
che  egli  non  conoscesse  la  Storia  Augusta? 
L'  unica  spiegazione,  come  osserva  il  Friedens- 
burg,  ci  vien  data  dal  supporre  che  il  Ferreto 
conoscesse  a  tratti  la  Storia  Augusta  ").  Del  re- 


1)  Scripsit  itaque,  primum  ab  origine  hnjus  exor- 
dium  sui  laboris  assumerti,  non  quod  oculis  nostris 
editum,  sed  fama  velut  diclat,  accepiinus:  Lucenibur- 
(ji  oppiduni  est  Francorwìi  fines  ab  Germanis  diri- 
mens  ecc. 

2)  Scrive  il  Ferreto:  Albertinus  Mussatus sui 

temporis  gesta  ìuemoratu  digna conscripsit 

forte  et  alti  in  eadem  materia  versati  fuere,  quorum 
opus  nondum  palam  est  editum  [tanta  eventuum  die- 
tim accidit  multiludo).  Nam  iìnperfecta  vulgo  expli- 
care  non  decet,  sed  hic  famte  avidus  vix   incceplum 
opus  ìnuUis  non  tamen  edidit  sed  ostendit. 

Ammesso  —  scrive  Friedensburij  —  che  più  tardi 


CAPITOLO   SETTIMO  261 

sto,  oltre  il  settimo  libro,  non  si  trova  nel  Fer- 
reto  traccia  di  plagio  ;  né  pare  che  abbia  co- 
nosciuti nemmeno  i  primi  due  libri  della  Sto- 
ria Augusta.  Con  tale  spiegazione  è  giustifica- 
to il  passo  del  quarto  libro  della  sua  Storia, 
sul  quale  il  Dònniges  fonda  il  suo  rimprovero. 
Tuttavia  il  Ferreto  —  nota  il  Friedensburg  — 
non  dice  quello  che  gli  fa  dire  il  Dònniges, 
che,  cioè,  r  opera  del  Mussato  gli  era  ignota  ; 
egli  sostiene  soltanto  di  non  essere  informato 
del  principio  dell'  opera  che  per  fama. 

Inferiore,  per  molti  riguardi,  alla  Storia  Au- 
gusta, la  quale  forma  la  principal  gloria  di 
Albertino  come  storico^  è  l'altra  che  s'intito- 
la :  De  Gestis  Italicorum  post  Henricum  Cce- 
sarem.  Questa  storia,  la  quale  è  una  conti- 
nuazione della  prima,  si  divide  in  dodici  libri. 
Lo  scrittore  si  prefigge,  in  •  essa,  di  narrare 
tutti  gli  avvenimenti  d"  Italia  ;  ma,  non  ostan- 
te la  sua  buona  volontà  per  riuscire  nell'in- 
tento, arrivato  a  un  certo  punto,  vien  meno 
all'impresa,  e  si  hmita  a  narrare  le  cose  di 
Padova. 


la  Storia  Angusta  sia  stata  formalmente  pubblicata,  le 
parole  di  Ferreto  inducono  la  supposizione,  eli'  egli  pure 
appartenesse  a  que' molti,  ai  quali  l'Autore  faceva  co- 
noscere a  tratti  la  sua  opera. 


2G2  ALBERTINO  MUSSATO 

Nei  primi  sette  libri,  infatti,  che  vanno  dal- 
l'agosto  1313  al  principio  del  1316,  il  Mus- 
sato, benché  dia  la  parte  principale  alla  sto- 
ria della  sua  città,  non  dimentica  gli  avveni- 
menti degli  altri  luoghi  d' Italia,  come,  ad  esem- 
pio, le  rivoluzioni  di  Roma,  di  Brescia,  di  Mi- 
lano, di  Napoli,  di  Sicilia,  di  Toscana,  nota  il 
prevalere  or  dell'  uno  or  dell'  altro  partito,  né 
passa  sotto  silenzio  le  discordie  dell'  Impero  per 
r  elezione  dell'  Imperatore  dopo  la  morte  di  Ar- 
rigo; ma  col  libro  ottavo  si  occupa  esclusiva- 
mente dei  fatti  di  Padova,  i  quali,  per  vero, 
erano  tali  da  meritare  tutta  la  sua  attenzione. 

La  guerra  contro  Cane  è  il  soggetto  degli  ul- 
timi cinque  libri.  Dapprima  l' occupazione  di 
Monselice,  di  poi  l' assedio  di  Padova^  finalmen- 
te le  guerre  civili  e  la  sommissione  della  città 
allo  Scaligero  per  consiglio  del  Carrarese.  Ma 
la  narrazione  di  questi  fatti  è,  pur  troppo,  qua 
e  là  interrotta  da  grandi  lacune.  Dopo  il  setti- 
mo libro  ve  n'  è  una  di  circa  due  anni  ;  il  libro 
ottavo,  che  narra  l' occupazione  di  Monselice, 
non  è  che  un  frammento,  dopo  il  quale  e'  è 
un  altro  vuoto  di  circa  tre  anni.  I  libri  nono, 
decimo  e  undecime  sono  scritti  in  versi  e  nar- 
rano l'assedio  di  Padova  del  1320;  a  questi 
segue  una  lacuna  di  più  anni,  e  la  storia  non 


CAPITOLO   SETTIMO  263 

viene  ripigliata  che  al  1325   per   essere   con- 
dotta sino  alla  primavera  del   1329. 

Per  qual  ragione  il  Mussato  abbia  scritto  i 
i  tre  libri  nono,  decimo  e  undecime  in  versi 
eroici,  lo  dice  egli  stesso  in  un  prologo  in  pro- 
sa^  premesso  al  nono  libro  e  indirizzato  alla  So- 
cietà Palatina  dei  notai  di  Padova.  Egli  affer- 
ma esservi  stato  indotto,  con  importuna  istan- 
za, dalla  società  stessa,  affinchè  quei  libri  po- 
tessero essere  letti  dai  notai  e  dai  chiericuzzi, 
mentre  gli  altri  avrebbero  servito  ai  più  dotti. 
E  strano  che  i  versi  latini  paressero  più  fa- 
cili a  intendersi  della  prosa  ;  eppure  è  cosi  ! 
Non  sembra  del  resto  che  il  Mussato  fosse  mol- 
to persuaso  dell'opportunità  di  verseggiare  la 
storia  ;  ma,  a  quanto  scrive  egli  stesso  nei 
primi  versi  del  libro  decimo,  la  Società  sullo- 
data  avrebbe  voluto  che  deponesse  la  corona 
poetica  e  restituisse  i  beni  che  gli  erano  stati 
donati,  se  ricusava  di  celebrare  in  versi  gli 
eroi  padovani.  «E  che  debbo  fare?»  soggiun- 
ge il  poeta:    Quid  per plexus  agam? 

L'importanza  storica  di  quei  tre  libri  non 
è  molto  grande  ;  una  maggiore,  secondo  il  Lo- 
renz, se  ne  trova  nelle  Cronache  dei  Cortusii. 
Sennonché  il  Mussato  si  diiferenzia  dagli  altri 
numerosi  storici  in  esametri  di  quel  tempo  pel 


2G4  ALBERTINO   MUSSATO 

fatto,  eh*  egli  ci  dà  nei  versi  la  continuazione 
della  sua  storia  ;  mentre  quelli  non  fanno  che 
riprodurre  semplicemente  in  versi  le  cose  già 
raccontate  in  prosa  da  altri. 

Nei  libri  IX  e  X  narra  il  poeta  le  opere 
e  gli  atti  eroici  dei  Padovani  per  difendere  la 
città  da  Cangrande,  nonché  le  privazioni  e  i 
patimenti  che  dovettero  soffrire  durante  l'as- 
sedio: nel  libro  XI  Santa  Giustina,  mossa  a 
compassione  de'  suoi  protetti,  accompagnata  dal 
coro  delle  Vergini,  si  presenta  al  trono  di  Cri- 
sto, ed  implora  soccorso  in  favore  dei  Pado- 
vani: 

Pone  manum  pharetrse,  et  saltem  quacumque  sagitta 
Fige  Canem,  victumque  mea  fac  cedere  terra. 

Sorride  il  Figliuolo  di  Dio  alla  santa  fan- 
ciulla, le  asciuga  con  la  palma  gli  occhi  ba- 
gnati di  pianto,  e  le  pone  una  mano  sul  capo. 
Non  è,  le  risponde,  ch'io  mi  sia  dimenticato 
di  venire  in  soccorso  di  Padova  ;  ma  in  que- 
sta città  per  la  lunga  pace  germogliò  la  su- 
perbia, donde  le  ire,  le  invidie,  le  lussurie,  le 
usure,  le  stragi,  gli  odi  intestini  e  tutta  la 
generazione  dei  mali  che  suol  crescere  in  una 
città  malvagia.  Per  questo  io  V  ho  punita  ;  ma 
poiché  tu  intercedi  in  suo  favore.  Cane  sarà 
vinto  e  la  città  avrà  pace  : 


CAPITOLO   SETTIMO  265 

Saucius  ecce  Canis  superatus  Marte  recedet, 
Ut  petis,  Hsec  hodie  iam  iam  te  supplice  flent. 
Pax  erit,  et  ssevum  vobis  placabimus  hostem. 

Il  Gennari  ha  tradotto  in  versi  sciolti  ita- 
liani tutto  intero  il  decimo  libro  di  questa  sto- 
ria. Egli  si  è  assoggettato  alla  diffìcile  impre- 
sa, non  ostante  qualche  oscurità  del  poeta,  «la 
quale  —  son  sue  parole  — ■  in  parte  è  da  attri- 
buirsi alle  manifeste  scorrezioni  del  testo  gua- 
stato dall'  ignoranza  dei  copiatori,  in  parte  alla 
barbaria  del  secolo  nel  quale  visse  l'Autore  e 
in  parte  finalmente  a  qualche  segreta  allusio- 
ne, che  difficilmente  può  intendersi»  ').  La  pro- 
va gli  è  riuscita  felicemente,  così  da  far  la- 
mentare che  non  abbia  tradotto  gli  altri  due 
libri,  che  comprendono  il  principio  e  la  fine  del- 
l'assedio,  traduzione  che  il  valente  uomo  ave- 
va in  animo  di  fare,  e  che,  non  so  per  quali 
ragioni,  non  fece. 

Del  libro  duodecimo,  che  fu  scritto  dal  Mus- 
sato in  esiglio,  dicemmo  nel  capitolo  antece- 
dente, allorché  tentammo  difendere  lo  storico 
dall'  accusa  di  maldicenza,  che  gli  fu  data  da 
alcuni  per  aver  giudicato  severamente  le  azio- 
ni di  Marsilio,  Qui  ci    basta  ripetere,    che    se 


1)  Raccolta  cf  opuscoli  filologici  e  scientifici.!  omo 
36.  Venezia,  Ocelli  1781. 


266  ALBERTINO   MUSSATO 

pure  lo  storico  ha  esagerato  a  carico  dei  Car- 
raresi e  specialmente  di  Marsilio,  va  compa- 
tito. Che  r  abbia  fatto  scientemente,  non  è  nem- 
meno da  supporre.  Lontano  da  Padova,  egli 
veniva  informato  di  quanto  in  essa  accadeva 
da'  suoi  congiunti,  i  quali  non  erano  per  nulla 
amici  dei  Carraresi.  Egli  riposava  interamente 
sulla  loro  buona  fede,  ed  è  naturale  che  cre- 
desse a  quanto  di  peggio  essi  gli  riferivano 
sui  Carraresi  e  su  Marsilio,  il  quale  s'  era  mo- 
strato così  ingrato  ed  ingiusto  verso  di  lui,  da 
dargli  motivo  di  ritenerlo  capace  di  qualunque 
azione  malvagia.  La  prova  più  evidente  del- 
l' onestà  di  Albertino  sono  le  parole  colle  quali 
risponde  a  Marsiho  ;  allorché  questi  si  lagna 
che,  nella  sua  storia,  lo  chiami  traditore  ^). 
Per  rispondere  a  quel  modo  bisognava  avere 
la  coscienza  netta.  Del  resto  quest'  ultimo  libro 
della  storia  del  Mussato  va  consultato  con  mol- 
ta cautela  ;  cosa  che  noi,  dal  canto  nostro,  ab- 
biamo tentato  di  fare. 

Ma  non  è  soltanto  in  esso  che  lo  storico  ci 
si  mostra  piuttosto  acre  ;  bensì  in  tutta  la  sto- 


1)  Non  putet,  aut  vereatur  Marsilius,  se  qiddquam, 
nisi  veruni  suis  inseruisse  chirographis.  Ada,  ut  fuere^ 
tradita  esse  posteritati,  secundum  quce  laudes  et  pro- 
tra judicabit,  Mussato  teste,  non  judice. 


CAPITOLO   SETTIMO  267 

ria,  nella  quale  gli  sfoghi  vivaci  e  le  invetti- 
tive  sono  abbastanza  frequenti  ;  valga  ad  esem- 
pio quella  lunga  e  terribile  contro  la  plebe  di 
Padova.  Le  amare  delusioni  che  Albertino  ebbe 
a  provare  da'  suoi  stessi  concittadini,  il  vedere 
dileguate,  colla  morte  dell'  Imperatore^,  tutte  le 
sue  belle  speranze,  contribuirono  ad  eccitargli 
lo  sdegno,  che  prorompe  tratto  tratto  in  quasi 
tutti  i  suoi  scritti  e  specialmente  nella  storia 
di  cui  parliamo,  la  verità  della  quale  per  altro, 
fatta  eccezione  del  libro  duodecimo,  non  ne 
viene  menomamente  a  soffrire. 

La  morte  di  Enrico,  inoltre,  fu  causa  che 
il  Mussato,  in  questa  sua  storia,  perdesse  tosto 
di  vista  i  fatti  generali  d' Italia,  per  non  oc- 
cuparsi che  dei  particolari  di  Padova.  Enrico 
infatti  è  il  personaggio  intorno  a  cui  nella  Sto- 
ria Augusta  si  raccolgono  tutti  gli  avvenimen- 
ti ;  nel  nuovo  lavoro  questo  personaggio  manca, 
e  lo  storico  si  trova  come  imbarazzato  a  se- 
guire tutti  i  fatti  che  accadono  fuori  della  sua 
Repubblica  ;  tanto  più  eh'  essi  non  hanno  al- 
cun interesse  per  lui,  ora  che  è  spento  quel- 
r  uomo,  sulle  sorti  del  quale  potevano  grande- 
mente influire.  Egli  è  per  ciò  che  la  sua  sto- 
ria, la  quale  vorrebbe  essere  generale  d' Italia, 
si  muta,  dopo  i  primi  sette   libri,    in    partico- 


268  ALBERTINO   MUSSATO 

lare  della  Repubblica  padovana.  Quei  sette  li- 
bri, secondo  l'opinione  molto  probabile  del  Wy- 
chgram,  sarebbero  stati  scritti  innanzi  il  1319. 
Pei  primi  cinque  il  critico  desume  ciò  dalla 
lettera  di  dedica  al  Vescovo  Pagano  della  Tor- 
re premessa  al  libro  quinto.  E  poiché  questi  — 
egli  scrive  —  fu  nominato  patriarca  di  Aqui- 
leia  nel  1319,  quei  libri  devono  esser  stati 
scritti  prima  di  quest'  anno.  Pel  sesto  libro,  nel 
quale  si  parla  dei  rapporti  fra  Cane  e  Pado- 
va fino  alla  pace  dell'ottobre  1314  e  pel  set- 
timo, nel  quale  sono  riassunte  in  generale  le 
cose  italiche,  si  può  fare  la  medesima  suppo- 
sizione, che,  cioè,  siano  stati  scritti  prima  del 
1319  '). 

Questa  storia,  malgrado  tutti  i  difetti  che 
abbiamo  notato,  oltre  che  essere  importantis- 
sima per  chi  voglia  conoscere  le  cose  di  Pado- 
va in  quel  tempo,  è  degna  di  molta  conside- 
razione, perchè  il  Mussato  usa  in  essa  di  una 
maggiore  libertà  nel  giudicare  degli  uomini  e 
delle  cose,  e  modifica  alquanto  qualche  giudi- 
zio troppo  favorevole  che  aveva  dato  nella  sto- 
ria antecedente  su  Arrigo  VII  e  su  alcuni  fatti 
di  lui.    L' Imperatore   era   morto,    e   lo   storica 

1)  Pag.  62. 


CAPITOLO    SETTIMO  269 

non  era  più  vincolato  da  riguardi  di  sorta  ver- 
so il  monarca. 

Un  terzo  lavoro  storico  di  grandissima  im- 
portanza, che  il  Mussato  lasciò  incompiuto,  è 
la  Storia  di  Lodovico  il  Bavaro.  Questa  storia 
egli  scrisse  in  esigilo,  negli  ultimi  anni  della 
sua  vita,  perciocché  in  essa  parli  dell'elezione 
dell'antipapa  Nicolò  V,  avvenuta  nell'aprile  del 
1328,  e  dell'uccisione  di  Passarino  de' Bona- 
cossi,  Signore  di  Mantova  e  Vicario  imperiale, 
per  mano  del  Gonzaga,  succeduta  nell'  agosto  di 
quell'anno  medesimo.  Non  ostante  che  il  Mus- 
sato si  trovasse  allora  in  Chioggia,  lontano 
cioè  dagli  avvenimenti,  potè  avere  notizie  esat- 
te di  ciò  che  voleva  narrare.  Abbiamo  di  lui 
due  lettere  in  versi  a  Marsilio  da  Padova. 
Nella  prima  lo  rimprovera  della  sua  incostan- 
za negli  studi  ')  ;  nella  seconda  gli  raccoman- 
da, poiché  era  salito  in  tanta  potenza  presso 
Lodovico,  di  ricordarsi  di  Padova  sua  patria 
e  di  dargli  notizia  dei  fatti  che  stavano  per 
accadere  ').  Marsilio,  insieme  con  un  altro  ita- 

1)  Ad  Magistrum  Marsilium  Pliysicum  ejiis  incon- 
stantiam  arguens.  Epistola  XII. 

2)  Unum,  oro,  dilecte  mihi,  si  castra  sequeris 
Progressus,  actusque  notes,  et  fortia  facta, 
Quaì  mandare  meo  possim  distincta  libello. 

Ad  Magistrum  Marsilium  Physicuin  Paduaniim. 
Epistola  XVI. 


270  ALBERTINO   MUSSATO 

liano,  era  fra  coloro  che  avevano  grandemente 
cooperato  alla  risoluzione  di  Lodovico,  che  gli 
si  erano  messi  al  fianco,  e  dei  consigli  dei 
quali  r  Imperatore  principalmente  si  giovava  ^). 
Non  pare  tuttavia  che  Marsilio  abbia  potuto 
appagare  il  desiderio  del  suo  concittadino  ed 
amico.  Secondo  il  Labanca,  la  lettera  di  Mus- 
sato a  Marsilio  sarebbe  stata  indirizzata  pro- 
babilmente a  Monaco,  siccome  sembra  dal;Con- 
tenuto,  e  sarebbe  partita,  forse,  l'anno  1326 
da  Chioggia.  11  Mussato  mori,  come  vedemmo, 
nell'anno  1329,  ragione  per  cui  la  sua  storia 
è  rimasta  incompiuta  ;  Marsilio  morì  forse  poco 
prima,  forse  poco  dopo  del  1330  ^).  Ciò  non- 
dimeno il  Mussato  ebbe  mezzo  di  conoscere 
esattamente  i  fatti  che  narra.  Quel  tratto  di 
storia  che  ha  potuto  scrivere,  malgrado  alcuni 
lievi  errori,  è  tenuto  in  gran  conto.  Il  AVichert 


1)  In  iis  Italici  duo  erant,  qui  Ludovici  procluctio- 
ni  operas  viidtas,  dedei^ant,  ejusque  lateri  sese  adjun- 
xerant,  quorum  consiliis  potissimum  fruebatur,  Mar- 
silius  de  Raymundinis  civis  Paduanus,  plebeius,  Phi~ 
losophice  gnarus  et  ore  disertus,  et  Ubertimis  de  Ca- 
sali Januensis  monachus  vir  similiter  astutus  et  in- 
geniosus.  Ludovicus  Bavarus  ad  fllium. 

2)  Marsilio  da  Padova  riformatore  politico  e  reli- 
gioso del  secolo  X[V.  Padova,  1882. 

Il  Labanca  nota  con  errore  che  il  Mussato  mori  nel- 
1'  anno  1330. 


CAPITOLO  SETTIMO  271 

lo  ritiene  una  fonte  importante,  anzi  la  più 
importante  per  la  venuta  a  Roma  di  Lodovi- 
co il  Bavaro  ^). 

Il  Mussato  giudica  severamente  la  condotta 
dell'  Imperatore  contro  la  Chiesa  ;  né  ciò  fa 
meraviglia,  perciocché  sincero  cattolico,  egli 
non  poteva,  per  nessuna  ragione,  approvare  le 
proteste  dell'  Imperatore,  il  quale,  dopo  essere 
stato  scomunicato  per  non  essersi  sottomesso 
all' assòluta  obbedienza  della  Sede  Apostolica, 
aveva  dichiarato  il  Papa  «nemico  della  pace» 
ed  avea  fatto  eleggere  un  antipapa  ^).  Lo  sto- 
rico gli  nega  perfino  il  titolo  d' Imperatore, 
poiché  r  avea  demeritato  ■ —  son  sue  parole  — ■ 
per  la  nera  perfidia  e  per  la  ribellione  spinta 
tant'  oltre  contro  la  Chiesa.  Non  dee  nemme- 
no far  meraviglia  che  il  Mussato,  il  quale  si 
mostra,  nella  sua  Storia,  così  nemico  al  Ba- 
varo, ne  parli  invece  con  entusiasmo  nella  se- 
conda lettera  a  Marsilio.  Egli  allora  credeva 
che  Lodovico  sarebbe  venuto  in  Italia,  colla 
stessa  intenzione  con  la  quale  era  venuto  Ar- 
rigo VII,  quella  cioè  di  comporre  i  partiti.  I 
fatti  lo  disingannarono,  ed  egli  condannò  quel- 


1)  Forschungen  zur  deutschen  Geschichte  Bd.  XVI. 
-)  Lcabanca.  Op.  cit. 


272  ALBERTINO  MUSSATO 

la  venuta,  che  prima  aveva  mostrato  deside- 
rare. In  questo  modo  parmi  spiegata  l'appa- 
rente contraddizione  del  Mussato  ;  né  si  creda 
che  la  sua  maniera  di  pensare  nuoccia  alla 
imparzialità  della  sua  storia  ;  perciocché,  non 
ostante  che  egli  si  dichiari  nemico  al  Bavaro, 
ne  riconosce  tutte  le  doti  cavalleresche. 

Questa  storia  é  dedicata  al  figlio,  ed  è  pre- 
ceduta da  alcune  parole  molto  severe,  colle  qua- 
li il  Mussato  ci  fa  conoscere  la  mala  condotta 
di  lui.  Toccando  degli  ultimi  anni  di  Alberti- 
no, dicemmo  qualche  cosa  di  questo  figlio,  che 
contribuì  a  rendere  più  doloroso  l' esigilo  del 
padre,  ed  abbiamo  riprodotto  parte  del  gravis- 
simo lagno  che  l'infelice  genitore  muove  sul 
suo  conto  nell'introduzione  alla  Storia  di  Lo- 
dovico il  Bavaro.  Pare  che  il  Mussato  stesse 
scrivendo  un  libro  De  Bttdìmentis  a  vantag- 
gio del  tiglio,  allorché  il  variare  delle  cose  del 
mondo,  il  mutamento  avvenuto  nello  stato  della 
sua  città  e  la  depravazione,  quale  egli  non 
avrebbe  mai  creduta  nei  costumi  del  figho  ^), 


1)  Difatti  nel  Centone  Ovidiano,  che  non  dev'  essere 
stato  scritto  gran  tempo  innanzi  la  Storia  del  Bavaro, 
il  Mussato  fa  elogi  grandissimi  del  figlio,  e  si  ripromet- 
te che  abbia  a  seguire  le  orme  del  padre  ed  imitarne 
i  costumi. 


CAPITOLO   SETTIMO  273 

lo  distolsero  dal  suo  proposito,  che  sarebbe  tor- 
nato inutile,  e  gli  fecero  interrompere  la  se- 
rie dei  Rudimenti  per  scrivere  la  storia  del 
Bavaro  ^).  Egli  stesso  ci  avverte  come  questa 
storia  si  aggiunga  al  suo  libro  De  Rudimeniis 
ad  filili m  ^). 

Dalla  biografia  del  Mussato  scritta  dal  Po- 
lentone, quale  si  trova  nel  codice  Ricciardia- 
no,  veniamo  a  sapere,  come  fra  gli  scritti  in 
prosa  di  Albertino,  a  noi  sventuratamente  non 
pervenuti,  ci  sia  un  libro  De  natura  et  mori- 
bus  suis,  del  quale  è  a  rimpiangersi  grande- 
mente la  perdita,  poiché,  secondo  il  Novati,  sa- 
rebbe stato  «  una  vera  autobiografìa ,  dalla 
quale  Secco  che  la  conobbe,  attinse  certamente 
le  più  importanti  notizie  sulla  vita  di  Alber- 
tino » .  Oltre  a  ciò  il  Secco  nella  medesima  bio- 
grafia del  Mussato,  cita  come  fonte  delle  sue 
informazioni  un  libro  Ad  Filiuni.  Questo  libro, 
secondo  il  Novati,  sarebbe  una  cosa  sola  con 
quello  De  natura  et  moribus  suis  e  con  l' altro 


1)  Et  rerum  viundanarum  variatio,  filii,  et  Urbis 
7iostrce  status  immutatìo  ;  nec  non  et  morum  tuorum 
vix  unquam  mihi  eredita  depravatio,  7ios  a  Rudimen- 
torwn  tuorwn  serie,  et  proposito  inanis  utilitatis  ab- 
duxit. 

2)  Addantur  lice  hislorice  libro  meo  de  Rudimentis 
ad  filium. 

13 


274  ALBERTINO  MUSSATO 

De  BucUmentis  ad  Filium,  del  quale  la  Sto- 
ria di  Lodovico  il  Bavaro  non  sarebbe  che  un 
frammento.  Comunque  sia,  del  resto,  la  cosa, 
fa  meraviglia  grandissima  che  un  padre,  per 
quanto  sdegnato,  rimproveri  così  apertamente 
il  proprio  figlio  in  uno  scritto  eh'  egli  intende 
tramandare  alla  posterità.  Egli  è  come  innal- 
zare alla  memoria  di  questo  figlio  un  perpe- 
tuo monumento  d' infamia.  Non  è  possibile  am- 
mettere che  quelle  parole  sieno  state  scritte  non 
pei  lettori  della  storia,  ma  soltanto  pel  figlio, 
e  che  quindi  non  dovessero  far  parte  del  libro. 
Esse  sono  scritte  in  modo  da  non  lasciar  dub- 
bio sulla  intenzione  del  padre,  il  quale  dichia- 
ra che  non  avrebbe  potuto  tacere  ^).  Non  ci 
resta  che  supporre  :  le  mancanze  del  figlio  es- 
sere state  cosi  gravi  da  vincere  affato  la  tol- 
leranza del  padre,  il  quale,  per  le  sventure 
toccategli  e  per  la  condizione  in  cui  si  trovava, 
era  divenuto  facilmente  irritabile,  e  sentiva  tal- 
volta prepotente  il  bisogno  di  sfogare  l' ani- 
mo esarcerbato. 

Tra  gli  scritti    in  prosa   del    Nostro,    che  a 


1)  Pigeat  ergo  hoc  ipsiim  tantum  de  te  super  dicen- 
doruui  prcvmisisse  sermonem,  quem  subtiouisse  inco- 
ercibilis  nostri  cordis  efflagitatio  non  permisit.  Ludo- 
vicus  Bavarns  ad  fllium. 


CAPITOLO   SETTIMO  275 

noi  non  pervennero,  oltre  ai  citati  dobbiamo  ri- 
cordare un  libro,  che  il  Mussato  avrebbe  scritto 
negli  anni  del  suo  esigilo,  e  del  quale  egli  stes- 
so fa  menzione  nel  principio  del  libro  decimo- 
secondo De  Gesiis  ^).  Secondo  lo  Scardeone 
sarebbe  stato  in  forma  di  dialoghi  ').  In  esso 
il  Mussato  avrebbe  cercato  di  dimostrare  — 
cosi  ci  fa  sapere  egli  stesso  —  che  «le  uma- 
ne vicende  non  soggette  ad  alcuna  necessità 
dipendono  dalla  virtù  o  dal  consiglio  degli  uo- 
mini, ai  quali  concesse  Iddio  nel  crearli  un  li- 
bero arbitrio  ad  oprare,  quantunque  affievolito 
questo  e  turbato  dalla  prevaricazione  de'  primi 
progenitori»    ^). 

Il  Secco,  nella  citata  biografia  secondo  il 
codice  Ricciardiano,  ricorda  anch'  egli  questo 
scritto,  e  lo  chiama  semplicemente  De  Natura 
et  Fortuna.  E  probabile  del  resto  che  tutti 
quelli  che  ne  parlano,  compréso  lo  Scardeone, 
il  quale  sa  dirci  perfino  che  il  Mussato  invei- 
va in  esso  contro  i  Carraresi,  ne  abbiano  at- 


i]  De  ordine  Causarum  Fatorumque  serale  in  opere 
nostro  de  Lite  Natura  et  Fortume  tractavimus,  qua- 
tenus  materia  illa  suppetiit. 

2;  Scripsit  elegantes  dialogos  de  lite  inter  Naturam 
et  Fortnnam. 

3)  Colle,  Meni,  cit. 


276  ALBERTINO   MUSSATO 

tinta  semplicemente  la  notizia  dall'  ultimo  libro 
delle  Cose  Italiche.  Un  altro  scritto  in  prosa 
del  Mussato,  non  pervenuto  a  noi,  che  il  Sec- 
co ricorda  nella  sua  biografia  del  grande  Pa- 
dovano, è  un  trattato  De  Casibus  fortuitis,  il 
quale  è  pure  ricordato  dallo  Scardeone  ^).  Se- 
condo costui,  il  Mussato  avrebbe  scritto  inol- 
tre una  storia  della  tirannide  di  Ezzelino  ;  ma 
di  tale  storia  non  fa  menzione  nessun  altro 
dei  biografi  del  Nostro.  Una  cronaca  di  Ez- 
zelino scrisse  invece  il  grammatico  Rolandino, 
ed  è  verisimile,  nota  il  Vossio,  che  lo  Scar- 
deone, abbattendosi  in  un  codice  senza  nome 
di  autore,  sia  stato  tratto  in  errore  dalla  si- 
militudine dello  stile,  e  l'abbia  creduta  opera 
del  Mussato  '). 

Considerato  fin    qui   il    prosatore,    passiamo 
a  considerare  il  poeta. 


1)  Scripsit centra  fortuitos  casus. 

2)  De  historicis  latinis. 


Capitolo  Ottavo. 

Le  poesie  minori. 

Oltre  alla  tragedia ,  della  quale  ci  occupe- 
remo particolarmente,  il  Mussato  scrisse  buon 
numero  di  poesie  minori,  come  epistole,  elegie, 
soliloqui  religiosi  ed  egloghe.  Le  epistole  e 
le  elegie  hanno  per  noi  un'  importanza  specia- 
le, poiché  in  esse  il  poeta  ci  dà  molte  notizie 
intorno  alla  sua  vita,  e  ci  fa  sapere  con  quali 
illustri  personaggi  del  suo  tempo  avesse  ami- 
cizia. 

L'amore  alla  poesia  si  manifestò  in  lui,  co- 
me avverte  il  Secco,  fin  dall'età  più  tenerella. 
È  assai  probabile  che  suo  maestro  nel  poetare 
sia  stato  il  Levato,  intorno  al  quale  sono  scarse 
ed  incerte  le  notizie.  La  j^iù  parte  di  coloro 
che  ne  parlano  ripete  il  giudizio  che  ha  dato  di 
lui  il  Petrarca,  il  quale  dice  che  sarebbe  stato 
di  leggeri  il  primo  di  tutti  i  poeti  del  suo  se- 
colo e  dell'anteriore,  se  non  si  fosse  dato  allo 


278  ALBERTINO   MUSSATO 

studio  del  diritto  civile  e  non  avesse  mesco- 
late insieme  le  dodici  Tavole  colle  nove  Muse  ^). 
Nulla  di  lui  ci  è  pervenuto,  se  si  eccettui,  co- 
me vogliono  alcuni,  T  iscrizione  posta  sul  suo 
sepolcro  e  quella  sulla  pretesa  tomba  d'Ante- 
nore, che  fu  scoperta  in  Padova  al  suo  tem- 
po. Né  l'una  né  l'altra  di  quelle  iscrizioni  ci 
fanno  del  resto  concepire  una  grande  idea  di 
chi  le  scrisse;  non  ostante  che  il  merito  del 
Lovato,  se  prestiamo  fede  al  Petrarca,  fosse 
tanto  grande,  che  il  suo  nome  suonava  cele- 
bre non  solo  in  Padova,  ma  per  tutta  l'Ita- 
lia ').  Cotanta  rinomanza  gli  avrà  forse  pro- 
curato il  poema,  a  noi  non  pervenuto  :  De 
conditionibus  urbis  Padim  et  peste  Guelfi  et 
Gibolengi  nominis,  ch'egli  aveva  indirizzato  al 
suo  nipote  Rolando  da  Piazzola  ^).  Il  Mussato 
fa  parola  del  Lovato,  ne'  suoi  scritti,  una  volta 


1)  Lupatus  patavinus  fuit  nv.per  poetar um  omnium, 
quos  tiostra  vel  patrum  nostrorum  vidit  ceias,  facillime 
princeps:  nisi  juris  civilis  sludium  amplexus  esset  et 
novem  Musis  duodecim  Tabulas  immiscuisset.  Lib.  II. 
De  rebus  memorandis. 

2)  Cuius  nomen  ea  tempestate,  non  Patavii  tantum 
erat  celebre,  sed  eliam  per  totam  Italiam  insigni  glo- 
ria ferebatur.  Ibid. 

3)  li  poema  era  contenuto  nella  Cronaca  posseduta 
dai  fratelli  Nicolò  ed  Antonio  degli  Ovetari.  Una  copia 
ne  possedeva  Gianfrancesco  Capodilista,  com'egli  asserì- 


CAPITOLO   OTTAVO  279 

soltanto,  ricordando  alcuni  discorsi  che  avea 
tenuto  con  esso  lui  intorno  alla  condizione  di 
Padova  ^).  Chi  ci  fa  meglio  conoscere  i  rap- 
porti dell'uno  coll'altro,  specialmente  per  ciò  che 
riguarda  la  poesia,  è  Giovanni  del  Virgilio,  il 
quale  in  un'  egloga  latina  ad  Albertino  Mus- 
sato dice  che:  «  Alfesibeo,  cinto  il  capo  di  ver- 
deggiante fronda  canta  con  zampogna  d'oro, 
cui  gli  diede  morendo  Licida  in  pegno  d'amore, 
dicendo  :  poiché  ti  mostri  atto  alle  Muse,  sarai 
Musactus;  Tollera  ti  cingerà  la  fronte»  ^). 
Com'è  facile  capire,  Alfesibeo  è  il  Mussato,  e 
Licida  il  suo  maestro  Levato  ^). 

Giovanni  del  Virgilio,  oltre  che  di  Mussato, 


sce  nella   Cronaca   della    sua   famiglia   scritta    nell'an- 
no 1434. 

Queste  notizie  io  devo  alla  gentilezza  squisita  del  pro- 
fessore Andrea  Gloria. 

1)  Memmerinque  ego  Lovatwn   valem,  Rolandum- 
que  nepofem,  cium  siepe  in  diversoriis  cum  sodalibus 
obversaremur  inquientes  etc.  Lib.  IL  De  Gestis  Ital.  ecc. 
2ì  Auratis  qui  fronde  vlrens  quoque  cantat  avenis^ 
Quas  illi  moriens  Lycldas  in  pignus  amoris 
Dimisit  dicens:  quia  Musis  cerneris  aptus 
His  Musactus  eris  :  hederse  tua  tempora  lambent. 

Ecloga  Magìstri  lohannis  de  'Virgilio  de  Ccesana 
missa  Domino  Mussato  de  Padua  poetie  ad  pelitionem 
Rainaldi  de  Cinciis.  Catalogus  codicum  latinorum  Bi- 
bliothecce  Medicece  Laurentianoe.  Tomus  II,  Floren- 
tiae,  1775. 

3)  Dal  greco  lycos  lupo. 


280  ALBERTINO   MUSSATO 

fu  ammiratore  ed  amico  di  Dante.  Abbiamo  di 
lui  un'  epistola  e  un'  egloga  al  divino  Poeta. 
Nella  prima  gli  muove  dolce  rimprovero,  per- 
chè cantando  dei  regni  d'oltretomba  non  usa 
della  lingua  dei  dotti,  e  getta  al  volgo  i  suoi 
sublimi  pensieri.  «  Non  gettare,  gli  scrive,  le 
margherite  ai  porci,  né  coprire  di  veste  inde- 
gna le  sorelle  Castalie....  Sono  molti  gli  argo- 
menti che  domandano  di  essere  illustrati  dalla 
tua  poesia  »,  e  fra  gli  altri  gli  addita  «  le  fri- 
gie caprette  lacerate  dal  dente  dei  mastini  »  ^), 
le  quali  caprette  non  sono  altro  che  i  Pado- 
vani caduti  in  potere  degli  Scaligeri.  Finisce 
col  pregarlo  di  degnarsi  a  rispondergli  e  di  ap- 
pagare i  suoi  voti:  Dante  gli  avea  dato  spe- 
ranza di  recarsi  a  Bologna". 

L'Ahghieri  gli  risponde  con  un'  egloga  la- 
tina, nella  quale  si  scusa  di  non  poter  adem- 
piere la  promessa  di  recarsi  a  Bologna,  per 
esservi  incoronato  poeta;  «meglio  assai  se  po- 
trà, ritornando  in  riva  all'  Arno,  cingere  colà 
della  fronda  poetica  i  suoi  Ccipelli  fatti  già 
bianchi...  Quell'onore  gli   sarà    grato,    allorché 


1)  Nec  raargaritas  profliga  prodigus  apris, 

Nec  preme  Castalias  indigna  veste  sorores  .  .  . 
Et  jam  multa  tuis  lucem  narratibus  orant  .  .  . 
Die  Phrigias  damas,  laceratas  dente  molosso. 


CAPITOLO   OTTAVO  281 

avrà  compiuto  anche  il  Paradiso  »  ^).  É  d'accordo 
con  Giovanni  sulla  inferiorità  dei  versi  volgari 
rispetto  ai  latini,  pure  gli  promette  di  mandar- 
gli ancora  di  quelli.  Giovanni,  nella  seconda 
egloga,  si  congratula  con  lui  di  aver  scritto 
in  latino  con  versi  cosi  dolci  che,  da  lungo 
tempo,  l'Arcadia  non  aveva  inteso  gli  eguali; 
lo  compiange,  perchè  esule  dalla  patria,  che 
gli  si  mostrò  cotanto  ingrata,  e  lo  conforta  a 
sperare  nel  ritorno;  frattanto,  per  fuggire  la 
noia,  potrebbe  recarsi  a  Bologna,  affine  di  ri- 
posare e  di  cantare  con  lui  -).  Sarà  accolto  cor- 
dialmente; giovani  e  vecchi  hanno  desiderio  di 
ascoltare  i  suoi  versi  e  di  ammirare  la  sua 
dottrina.  Colà  potrà  spegnere  la  sete  nelle  ac- 
que del  padovano  Mussato,  egli  uso  a  bere  nel 
fiume  avito  ^). 

Quest'ultime  parole  racchiudono   un   grande 


1)  Nonne  triumphales  melius  pexare  capillos, 

Et  patrio  redeam  si  quando,  abscondere  canos 
Fronde  sub  incerta  solitum  flaveseere  Sarno?  .  . 
.  .  .  quuin  mundi  circumflua  corpora  cantu 
Astricoleeque  meo,  velut  infera  regna,  patebunt, 
Devincire  caput  hedera  lauroque  juvabit. 

2)  Ast  intermedium  pariat  ne  tsedia  tempus, 
Letitise  spoetare  potes,  quibus  otior  antris 
Et  mecum  pausare;  simui  cantabimus  ambo, 

3)  .  .  .  sitim  Phrigio  Musone  levabo: 
Scilicet  hoc  nescis,  fluvio  potator  avito. 


282  ALBERTINO  MUSSATO 

elogio  pel  Mussato,  cui  il  del  Virgilio  teneva  in 
conto  del  primo  poeta  latino  del  suo  tempo,  e 
im  rimprovero  per  Dante,  rimprovero  che  lo 
stesso  Mussato  avrebbe  voluto  meritare,  se 
avesse  potuto  prevedere  qual  gloria  era  serbata 
all'Alighieri  per  aver  scritto  in  volgare.  Al 
Mussato  invece  compete  la  gloria,  che  il  Tira- 
boschi  attribuisce  a  Dante,  di  avere  cioè  richia- 
mato, come  meglio  poteva,  la  poesia  latina  al- 
l'antica eleganza  ^).  Dante  non  scrisse  versi  la- 
tini che  negli  ultimi  anni  della  sua  vita,  quando 
il  Mussato  era  già  celebre  pe'  suoi.  Giovanni 
infatti  indirizzò  i  suoi  versi  all'Alighieri,  quando 
questi  si  trovava  in  Ravenna.  È  curioso,  del 
resto,  notare,  che  mentre  i  contemporanei  del 
Mussato  salutarono  in  lui  il  restauratore  della 
latina  eloquenza,  il  Petrarca,  che,  come  vedem- 
mo, fu  cosi  largo  di  lodi  al  Lovato,  lo  ricordi 
appena,  chiamandolo  semplicemente:  historicus 
novarum  reruui  satis  anxius  inquisitor  ^j.  Ma 
se  il  Petrarca  mostrò  di  non  riconoscere  il  me- 


1)  Scrive  il  Tiraboscln:  «Dante  Alighieri,  che  fu  il 
primo  a  sollevare  la  poesia  italiana  a  quello  splendore  di 
cui  non  avea  fln  allora  goduto,  fu  il  primo  ancora  che 
si  accingesse  a  richiamare,  come  meglio  poteva,  la  poesia 
latina  all'antica  eleganza».  Storia  della  Leiteratura  Ita- 
liana, Libro  III.  Gapo  III. 

2)  De  rebus  memorandis,  Lib.  IV. 


CAPITOLO   OTTAVO  283 

rito  del  Mussato,  lo  riconobbero  altri  del  suo 
tempo,  fra  i  quali  Coluccio  Salutati,  che,  in  al- 
cune sue  lettere,  ne  fa  elogi  grandissimi  e  lo 
chiama  il  primo  cultore  dell'eloquenza  '). 

Uno  degli  argomenti  più  forti,  coi  quali  il 
del  Virgilio,  nella  seconda  sua  egloga,  spera 
d'indurre  l'Alighieri  a  recarsi  a  Bologna,  è, 
come  vedemmo,  la  promessa  di  fargli  leggere 
le  poesie  del  Mussato  e,  quantunque  noi  dica 
espressamente,  di  fargli  fare  la  conoscenza  per- 
sonale del  celebre  padovano;  che,  se  si  fosse 
trattato  di  fargli  leggere  semplicemente  le  poe- 
sie, non  ci  sarebbe  stato  bisogno  d'invitarlo  a 


1)  «  Coluccio  Salutati,  scriveado  nel  1399  al  padovano 
Francesco  Zabarella,  cosi  incominciava:  «  Duos  doctores 
memini,  qui  stylo  et  eloquentia,  hoc  clecimoquarto  sai- 
culo  floruerunt:  unus  scilicet  compatriota  ticus,  Alber- 
tus Mussatus,  CKjus  admiratur  historias  et  habemus 
poeniata:  alter  fuit' Gerius  Aretinus  ("cod.  Amb.  B  116, 
e  P  256);  e  anche  più  apertamente  dava  al  Mussato  il 
vanto  di  aver  fatto  risor^^ere  lo  studio  della  latinità  in 
altra  lettera  pur  inedita  Cardinali  Patavino  (cod.  Laur. 
pi.  XC  41(3)  f  IH*  ]  Et  prinius  eloqiientice  ciUtor  fuit 
conterraneus  tuus,  Mussatus  patavinus.  Coluccio  Salu- 
tati trascrisse  inoltre  di  propria  mano  VEccerinis  e  la 
poesia  latina  Somniiim  in  cegritudine  apud  Fior,  in  un 
codice  delle  tragedie  di  Seneca  passato  al  Museo  Britan- 
nico». F,  No  vati  -  La  biografia  di  Albertino  Mussato  ecc. 
Archivio  Storico  per  Trieste,  Tlstria  e  il  Trentino  Voi.  IL 
Fase.  I.  Gennaio  1883. 


284  ALBERTINO   MUSSATO 

Bologna  ^).  Non  pare  tuttavia  che  Dante  ri- 
manesse molto  solleticato  dalla  promessa  di  Gio- 
vanni, né  che  il  suo  desiderio  di  conoscere  il 
Mussato  e  di  leggerne  i  versi  fosse  molto  gran- 
de, perciocché  nell'egloga  colla  quale  risponde 
a  quella  dell'amico  non  fa  nemmeno  parola  del 
poeta  padovano.  Insiste  nuovamente  sul  propo- 
sito-di non  muoversi  da  Ravenna,  dimostra  al- 
l'amico il  grande  desiderio  che  ha  di  vederlo- 
ma  dice  che  n'è  impedito  dalle  preghiere  degli 
amici  e  dalla  paura  delle  armi  di  re  Roberto; 
l'incoronazione  la  conseguirci  altrove.  Anche 
Guido  Novello,  il  suo  protettore  ed  amico,  lo 
sconsiglia  dal  recarsi  a  Bologna. 


1)  Noi  sappiamo  che  il  Mussato  fu  a  Bologna  come 
ambasciatore  nel  1317;  ma  questa  data  sarebbe  ante- 
riore di  molto  a  quella  nella  quale  il  Balbo,  il  Fraticelli, 
il  Wegele  pongono  Tandata  di  Dante  a  Ravenna.  (Non 
parlo  del  Boccaccio  clie  la  pone  subito  dopo  la  morte  di 
Arrigo  VII).  Essi  infatti  vanno  d'accordo  nel  dire  ch'egli 
vi  andò  nel  principio  del  1320.  Il  Pelli  e  il  Troya  tutta- 
via opinano  che  vi  andasse  nel  1319,  ed  altri  ancora  nel 
1318.  Queste  ultime  ipotesi  mi  paiono  più  probabiili,  poi- 
ché, se  così  fa,  si  potrebbe  ammettere  che  il  Mussato,, 
spedito  nel  1319  come  ambasciatore  in  Toscana  per  ot- 
tener soccorsi  contro  lo  Scaligero,  si  soffermasse  qualche 
giorno  anclie  a  Bologna.  I  cronisti  noi  dicono;  ma  è  fa- 
cile supporlo  pei  rapporti  che  Padova  aveva  con  Bolo- 
gna. Da  ciò  consegue  che  tanto  ai  versi  di  Giovanni 
quanto  a  quelli  di  Dante  dovrebbe  assegnarsi  l'anno  1319. 


CAPITOLO   OTTAVO  285 

Da  tutto  questo  parrebbe  che  Dante  e  Mus- 
sato non  si  fossero  mai  conosciuti.  Esiste  tut- 
tavia un  documento,  illustrato  dal  Gloria,  dal 
quale  risulta  che  il  grande  poeta  fiorentino  fu 
in  Padova  per  alcun  tempo  nell'anno  1306  ^). 
Con  molta  probabilità,  il  Gloria  ne  fissa  la  di- 
mora dai  primi  di  marzo  ai  primi  d'ottobre  di 
quell'anno.  Mussato  in  quel  tempo  non  s'era 
per  anco  fatto  conoscere  co'  suoi  scritti  storici 
e  poetici,  ma  già  da  parecchi  anni  sedeva  nel 
patrio  Consiglio,  al  quale  aveva  potuto  perve- 
nire mercè  la  fama  che  s'era  acquistata  con  la 
sua  dottrina  ed  eloquenza.  Non  sarebbe  per- 
tanto improbabile  che  i  due  poeti  si  fossero,  in 
quell'occasione,  conosciuti;  pure  abbiamo  ragione 
di  dubitarne  pel  fatto  che  né  l'Alighieri  ricorda 
mai  nelle  sue  opere  il  Mussato,  né  il  Mussato 
l'Alighieri.  Ciò  non  ostante  nell'egloga  al  Mus- 
sato, da   noi  citata,  Giovanni    del   Virgilio  ri- 


t)  È  questo  lui  contratto  di  mutuo  in  data  27  agosto 
1306,  nel  quale,  fra  gli  altri  testimonii,  è  segnato:  Dan- 
tino  q.  AlUgeriis  de  florentia  et  mine  stat  paduce  in 
contrada  sancii  laiirentij. 

Vedi  lo  scritto  del  Gloria:  Sulla  dimora  di  Dante 
in  Padova,  inserito  nel  libro  Dante  e  Padova,  Wegele, 
Dante"  s  Leben  und  Schriften  e  Adolfo  Bartoli,  Storia 
della  letteratura  italiana  Tomo  V.  Capitolo  XI,  Firenze, 
Sansoni  editore  1884. 


286  ALBERTINO   MUSSATO 

corda  al  padovano  il  poeta  fiorentino,  che  al- 
lora dormiva  sull'Adriaco  lido,  dove  la  pineta 
distende  le  sacre  sue  ombre,  e  gli  dà  il  vanto 
di  avere,  pel  primo  dopo  Virgilio,  fatta  rivivere 
l'egloga  ^).  Era  di  grande  conforto  al  del  Vir- 
gilio il  pensiero  che  Dante  negli  ultimi  anni 
di  sua  vita  avesse  scritto  in  versi  latini,  ben- 
ché, nello  stesso  tempo,  questo  pensiero  gli  fa- 
cesse lamentare  maggiormente  la  perdita  del 
grande  poeta.  Nei  versi  ch'egli  scrisse  per  la 
tomba  dell'amico,  dopo  aver  detto  che  aveva 
cantato  la  Divina  Commedia  in  volgare,  sog- 
giunge, come  a  conforto,  che  finalmente  cantava 
i  pascoli  colle  pierie  zampogno,  quando  l'invi- 
diosa Atropo  interruppe  il  giocondo  lavoro  ^). 
Ma  se  il  Mussato,  com'è  probabile,  non  ebbe 
rapporto  alcuno  con  l'Alighieri,  ne  conobbe  al- 
meno le  opere  ?  Troviamo  noi  nessun  indizio  ne' 
suoi  scritti  che  ci  faccia  supporre  aver  egli  co- 
nosciuta la  Divina  Commedia? 


1)  Fistula  non  posthac  nostris  inflata  poetis, 
Donec  ea  mecura  certaret  Tytirus  olim 
Lydius  Adriaco  qui  nunc  in  littore  dormit, 
Qua  pineta  sacras  prjetexunt  saltibus  umbras. 

2)  Qui  loca  defunctis  gladiis,  regnumque  gemellis 
Distribuit  laicis  rethoricisque  modis, 

Pascua  pieriis  demum  resonabat  avenis  : 
Atropos  heu  !  Isetum  livida  rupit  opus. 


CAPITOLO   OTTAVO  287 

Tra  le  sue  elegie  ve  n'  ha  una  intitolata 
il  Sogno,  nella  quale  il  poeta  narra  la  ma- 
lattia avuta  in  Firenze,  allorché  vi  fu  spe- 
dito a  chiedere  aiuto  contro  lo  Scaligero,  che, 
dopo  aver  guasto  il  territorio  di  Padova,  era 
venuto  ad  accamparsi  sotto  le  mura  della 
città.  L'elegia  contiene  pure  le  lodi  di  Anto- 
nio dell'  Orso  vescovo  di  Firenze,  per  le  cure 
del  quale  il  Mussato  ebbe  a  ricuperare  la 
salute  ^).  Narra  il  poeta  come,  giunto  ad  un 
albergo  presso  Firenze,  sia  stato  colpito  da  for- 
tissima febbre  accompagnata  da  un  freddo  tale, 
che  né  il  fuoco  di  una  fornace  atta  a  liquefare 
i  metalli,  né  le  stesse  acque  sulfuree  di  Abano 
avrebbero  potuto  scacciarlo.  Trasportato  in  let- 
tiga a  Firenze,  e  sottoposto  alla  cura  di  due 
valenti  medici,  uno  de'  quali  Dino  del  Garbo, 
cadde  in  una  specie  di  letargo  ed  ebbe  un  so- 
gno, in  cui  gli  parve  di  essere  trasformato  in 
colomba.  Dopo  avere  spaziato  liberamente  nel- 
l'alto, discende  e  gli  viene  desiderio  di  vedere 
da  qual  parte  escano  le  anime  da  questo  mondo, 
e  i  regni  d'oltre  tomba.  Dapprima  vede  volare 
rapidamente   stormi  di    piccoli    uccelli,  anzi  di 


1)  Somnium  in  cegritudine  apucl  Florentiam,  et  com- 
mendano venerabilis  patris  D.  Anlonii  de  Vrso  epi- 
scopi fiorentini,  ci'jus  beneficio  liberatus  fuit. 


288  ALBERTINO    MUSSATO 

cicale,  col  mormorio  che  fanno  le  api,  verso 
la  parte  dove  il  sole  si  tuffa  nel  mare.  «  Entra 
quindi  a  descrivere  la  porta  dell'Inferno,  Cer- 
bero, Caronte  con  occhi  di  bragia,  incensis  ocu- 
lis,  che  vedutolo  solleva  il  remo  a  percuoterlo; 
tocca  di  una  pioggia  che  si  riversa  sonante 
per  l'aria  senza  stelle;  osserva  i  diversi  com- 
partimenti delle  pene  che  delinea  con  tratti  di 
vigore  dantesco.  Pone  nel  fondo  più  cupo  i  tra- 
ditori della  patria,  poi  viene  al  cospetto  di 
Plutone  e  di  Proserpina.  Stanno  a*  loro  piedi 
alcune  schiere  con  armatura  candida,  il  cui  capo 
tiene  in  mano  la  chiave  che  apre  gli  Elisi.  Vi 
entrano  le  anime  che  hanno  lavate  le  macchie 
del  mondo:  le  musiche  e  le  danze  che  vi  si 
fanno  sono  con  grazia  descritte  dal  poeta,  che 
spende  quasi  duecento  versi  nella  narrazione  di 
tutto  il  sogno  » .  Ho  riprodotto  questo  sunto 
dallo  Zanella,  il  quale  osserva  ;  «  Che  sia  stato 
sogno  fortuito?  Che  gli  sia  stato  suggerito  dalla 
lettura  di  Dante?  Che  abbia  voluto  misurarsi 
con  altre  armi  e  come  per  gioco,  con  quel  sommo 
del  cui  poema  si  parlava  per  tutta  l'Italia?  » 
Le  due  ultime  ipotesi  mi  paiono  le  più  proba- 
bili. Egli  è  certo,  anzi  tutto,  che  il  divino 
poema  era  noto  a  tutta  la  penisola,  e  che  il 
popolo  ne  ripeteva  i  versi.  La  storiella  del  fab- 


CAPITOLO   OTTAVO  289 

bro  ferraio  che  batteva  suirincudine  e  insieme 
cantava  i  versi  di  Dante,  storpiandoli,  e  quella 
dell'asinaio,  che  andava  dietro  all'asino  cantan- 
do il  libro  di  Dante,  e  quando  avea  cantato  un 
pezzo,  toccava  la  bestia  e  diceva  arr?',  vere  o 
no,  sono  una  prova  della  popolarità  che  aveva 
acquistata  la  Divina  Commedia^  o  dirò  meglio 
quella  parte  di  essa  che  poteva  essere  divul- 
gata. E  ammesso  pure  col  Balbo  che  per  quei 
versi  cantati  si  debba  intendere  i  sonetti  e  le 
canzoni,  non  il  poema  *),  a  comprovare  la  po- 
polarità di  questo,  basta  la  testimonianza  di 
Giovanni  del  Virgilio,  il  quale,  nell'Epistola  a 
Dante,  dice  essere  impossibile  che  il  popolo 
idiota  raffiguri  il  profondo  inferno  e  gli  arcani 
del  cielo ,  ai  quali  arrivò  appena  Platone ,  e 
che  ciò  non  ostante  l'istrione,  che  caccerebbe 
Orazio  dal  mondo,  gracida,  pe'  trivii,  senza  ca- 
pirli, i  versi  della  Divina  Commedia  ~).  Ora 
non  è  possibile  supporre  che  il  Mussato,  per 
quanto  fosse  nemico  della  poesia  volgare,  igno- 
rasse affatto  il  poema  di  Dante,  tanto  più  ch'egh 


1)  Non  sono  punto  d'accordo  col  Balbo,  il  quale  dice 
che  il  poema  «  non  era  allora  probabilmente  conosciuto». 
—  Yita  di  Dante  Libro  Primo,  Capo  Decimoterzo. 

2)  Quse  taraen  in  triviis  nunquam  digesta  coaxat 
Comicomus  nebulo,  qui  Flaccuia  pelleret  orbe. 

ly 


290  ALBERTINO  MUSSATO 

stesso  non  sdegnò,  come  vedremo,  di  scrivere 
versi  volgari.  E  probabile,  del  resto,  ch'egli  non 
abbia  attinta  menomamente  l'idea  del  suo  Sogno 
dalla  Divina  Commedia;  ma  che  quell'idea  gli 
sia  stata  suggerita  dalle  leggende  dei  visionarli 
sui  regni  d'oltretomba  e  dal  poema  virgiliano, 
leggende  e  poema  che  suggerirono,  come  fu  di- 
mostrato, allo  stesso  Dante,  l'idea  della  sua 
Divina  Commedia  ^).  «  Quel  passaggio  -  osserva 
lo  Zanella  -  delle  anime  oltre  i  mari  dell'occi- 
dente, che  è  l'idea  fondamentale  del  Purgatorio 
dantesco,  si  trova  nelle  antichissime  tradizioni 
di  tutti  i  popoli,  che  collocavano  i  regni  della 
morte,  ove  vedeano  ogni  giorno  discendere  e 
spegnersi  il  padre  della  vita  ». 

Dicemmo  che  le  epistole  e  le  elegie  del  Mus- 
sato hanno  importanza  grandissima  per  chi  vo- 
glia conoscere  molti  particolari  della  vita  di  lui 
e  gli  illustri  personaggi  coi  quali  ebbe  rapporti. 
Diciotto  sono  le  epistole,  quali  in  versi  elegiaci 
e  quali  in  esametri.  Di  alcune  di  esse,  quelle 
che  manifestano  più  particolarmente  i  sentimenti 
del  poeta  verso  l'Imperatore,  abbiamo  fatto  pa- 
rola nel  capitolo  antecedente.  Esse  sono  la  I 
indirizzata  al  Collegio  degli  artisti,  nella  quale 

1)  Vedi:  Alessandro  D'Ancona-  I precursori  di  Dante. 


CAPITOLO   OTTAVO  291 

il  Mussato  ci  dà  notizie  della  sua  incoronazione; 
la  II  in  lode  dell'Imperatore  e  la  V  a  Giam- 
Lono  d'Andrea  notaio,  della  quale  abbiamo  an- 
che tentato  di  riassumere  il  concetto.  L'Epi- 
stola XVII  è  indirizzata  a  Paolo  giudice  di 
Teolo,  il  quale  aveva  pregato  il  Mussato  che 
volesse  rispondere  a  Benvenuto  de'  Campesani 
di  Vicenza  contro  un  poema  latino,  che  questi 
aveva  scritto  in  lode  di  Cangrande  e  in  biasi- 
mo dei  Padovani,  allorché  lo  Scaligero  s'era 
impadronito  di  Vicenza  ^).  Del  poema  di  Ben- 
venuto non  rimangono  che  pochi  versi  conser- 
vati nella  Cronaca  del  Pagharini.  Esso -se- 
condo lo  Zanella  -  esisteva  nel  secolo  decimoset- 
timo, quando  da  Marcantonio  Romiti,  giurecon- 
sulto vicentino,  donato  a  Lorenzo  Pignoria  di 
Padova,  andò  deplorabilmente  perduto  ^). 

L'epistola  è  riboccante  di  finissima  ironia, 
quale  poteva  pai  tire  dall'animo  di  un  grande 
patriota,  che   vedeva    in   Cane   il   nemico  acer- 


1)  Ad  Fauluni  hidiceni  de  Tilulo  rogantem,  ut  re- 
sponderet  Benvenuto  de  Campesanis  de  Yicentia  adver- 
sus  opus  metricum,  pei-  eum  factum  in  laudein  Domini 
Canis  Grandis  et  vituperium  Paduanoìvan,  cum  ca- 
pta fuit  yicentia. 

~)  Di  Ferve to  de'  Ferreti  storico  e  poeta  vicenlino. 
Memoria  pubblicata  nel  volume  di  Scritti  varii,  Firenze. 
Le  Mounier  1877. 


292  ALBERTINO   MUSSA.TO 

rimo  della  patria  sua  e  la  causa  principale 
della  prossima  rovina  di  essa.  Peccato  che  la 
soverchia  erudizione  mitologica  scemi  qua  e  là 
naturalezza  e  spontaneità  al  verso  !  Non  pare 
tuttavia  che  i  due  poeti  diventassero,  per  questo, 
nemici,  o  se  pure  entrò  fra  loro  discordia,  ch'essa 
durasse  a  lungo;  perciocché  qualche  anno  dopo, 
essendo  morto  Benvenuto,  il  Ferreto  scriveva 
un'  Epistola  al  Mussato,  nella  quale  lo  invitava 
ad  onorare,  co'  suoi  versi,  il  sepolcro  di  quel- 
l'egregio poeta, 

Cui  cognomen  avis  campus  dedit,  et  bene  nomen 
Cum  VENio,  Patriaque  fuit  sat  magniis  in  illa, 
Qua  retro  pene  flueus  patavo  delabitur  ariinis. 

«  Permetterai,  gli   scrive,  che    marcisca  in  un 

sepolcro    indegno  quel   poeta    che    risplendette 

chiarissimo  per  tutto  il  mondo  ?  E  se  tu  neghi 

di  lodarlo,  chi  potrà  lodarlo  convenientemente? 

Tu  solo  puoi  dare  fama  eterna  co'  tuoi   versi. 

Forse,  quando  sarai  morto,  sarà  concesso  a  te 

pure  eguale  onore,  e  vi  sarà  chi  osi  degnamente 

lodarti  »  ^]. 

Il  Ferreto  fu  grande    ammiratore  ed  amico 

del  Mussato,  del    quale    fa,  nella    sua    Storia, 

elogi  grandissimi.  È  probabile  che  il  Vicentino 


^)  Ferretiis  vicenlinus  ad  Massalum  patavinum  de 

morte  Benvenuti  Campesani  vicentini  poelce. 


CAPITOLO    OTTAVO  293 

abbia  conosciuto  il  Padovano,  quando  questi  fu 
prigioniero  in  Vicenza  nella  casa  di  Gregorio 
da  Poiana,  dopo  la  sconfitta  del  1314.  Il  Fer- 
rato, nato  nel  1295,  era  più  giovane  del  Mus- 
sato di  trentatrè  anni.  Ebbe  a  maestro  di  poe- 
sia Benvenuto  dei  Campesani,  donde  forse  la 
sua  grande  ammirazione  per  lui;  fu  il  primo 
che  in  Italia  studiasse  la  Divina  Commedia 
e  ne  facesse  onorevole  menzione  ne'  suoi  scritti  ; 
benché  dal  titolo  di  eruditissimo  uomo  che  dà 
all'Alighieri  «  possiamo  argomentare  ch'egli  ri- 
sguardava  quel  poema  non  tanto  come  un  lavoro 
di  immaginazione,  quanto  come  un'  opera  di 
profonda  e  varia  dottrina,  da  cui  si  poteva  at- 
tingere senza  tema  di  errare,  ogni  sorta  di  no- 
tizie filosofiche  e  storiche  »  ^). 

Come  storico,  al  quale  ufficio  s'era  dedicato 
dopo  aver  atteso  lungamente  alla  poesia,  ap- 
parisce piuttosto  narratore  vivace  che  interprete 
accurato  dei  documenti.  La  verità,  non  ostante 
ch'egli  professi  nel  Proemio  di  voler  essere 
veridico  in  tutto  e  per  tutto,  né  di  lasciarsi  se- 
durre dall'amore  o  dall'odio,  gli  fa  spesso  di- 
fetto, il  che,  coni'  è  naturale,  scema  autorità 
alla  sua  storia,  il  testo  della  quale  per  giunta. 


1)  Zanella  Mem.  cit. 


294  ALBERTINO    MUSSATO 

causa  la  mancanza  di  buoni  codici,  è  scorrettis- 
simo. 

Il  principale  de'  suoi  lavori  poetici  è  un  poema 
suir  Orìgine  della  gente  Scaligera.  Avrebbe 
inoltre  composto  un  carme  In  morte  di  Dante, 
che  fatalmente  non  ci  è  pervenuto. 

Celebre  poeta  di  quel  tempo  è  stato  pure  il 
bassanese  Castellano,  autore  di  un  poema  la- 
tino sulla  pace  fatta  in  Venezia  tra  Alessan- 
dro III  e  Federico  Barbarossa.  Egli  avrebbe 
fatto  i  suoi  studi  e  sarebbe  vissuto  a  lungo  in 
Padova.  Non  è  pertanto  improbabile  che  abbia 
avuto  rapporti  d'amicizia  col  Mussato,  benché 
faccia  meraviglia  -  come  osserva  il  Tiraboschi  - 
che  il  grande  padovano  non  ne  faccia  mai 
menzione. 

Altro  poeta,  contemporaneo  al  Nostro  e  vis- 
suto in  Padova,  fu  Bonatino,  del  quale  non  si 
ha  nessuna  notizia  certa.  Forse  -  come  opina  il 
Tiraboschi  -  parla  di  lui  il  Petrarca  in  alcuni 
suoi  versi  latini  : 

Saecula  •Pergameum  viderunt  nostra  Poetam, 
Cui  rigidos  strinxit  laurus  Paduana  capillos 
Nomine  reque  bonum. 

Delle  Epistole  XII  e  XVI  a  Marsilio  da 
Padova  dicemmo  nel  capitolo  antecedente,  fa- 
cendo parola  della    Storia  di  Lodovico  il    Ba- 


CAPITOLO   OTTAVO  295 

varo.  Dopo  di  queste  meritano  essere  ricor- 
date la  III  a  Rolando  da  Piazzola  per  con- 
ciliarsi con  esso  lui  della  pubblica  contesa  avu- 
ta nel  febbraio  1312,  dopo  che  entrambi  avea- 
no  fatto  ritorno  dall'ambasciata  all'  Imperatore 
in  Genova.  Rolando,  come  sappiamo,  eccitò  il 
popolo  a  ribellarsi  all'Imperatore;  mentre  Mus- 
sato cercò  d' indurlo,  benché  inutilmente,  a  ri- 
manere soggetto.  Il  fine  di  tutti  e  due  era  il 
bene  della  Repubblica  ;  ma  all'  uno  pareva  po- 
terlo meglio  conseguire  in  una  maniera ,  al- 
l'altro in  un'altra  '). 

L'Epistola  I\"  è  indirizzata  a  Giovanni  pro- 
fessore di    grammatica   in  Venezia  ').  In    essa 

1)  Secondo  alcune  notizie  comunicatemi  dal  Gloria  e 
che  entreranno  a  far  parte  dell'opera  ch'egli  sta  scri- 
vendo :  Monumenti  intorno  alla  Università  di  Padova, 
Rolando  da  Piazzoia  sarebbe  stato  ascritto  al  collegio 
dei  giudici  nel  1285;  onde,  ammesso  che  pel  suo  inge- 
gno ^-bbia  ottenuto  questo  onore  appena  raggiunta  l'età 
fissata,  si  può  calcolare  nato  nel  1265,  poiché  nessuno 
prima  dei  vent'anni  poteva  essere  eletto  a  far  parte  del 
Collegio  dei  giudici.  Il  Gloria  oltre  a  ciò  dimostra  come 
Rolando  non  sia  mai  stato  professore,  quale  il  vorreb- 
bero, dietro  l'autorità  del  Papadopoli  {Hist.  Gymn.  pa- 
tav.)  e  del  Facciolati  (Fasti  Gymn.  patav.),  il  Tirabo- 
schi  nella  sua  Storia  della  letteratura  italiana  e  il 
Colle  in  quella  dello  studio  di  Padova,  e  come  non  sia 
l'autore  dell'opera  sui  Feudi  e  di  quella  sui  Re  consa- 
crati, a  lui  falsamente  attribuite. 

2)  Ad  loannemgrammaticaeprofessoreni  docentem 
Vene  tu  s. 


296  ALBERTINO  MUSSATO 

il  Mussato  parla  a  lungo  della  sua  incorona- 
zione a  poeta,  e  si  profonde  in  elogi  della  poe- 
sia: «Son  privi  di  senno  coloro  ai  quali  è 
in  odio  la  poesia,  che  fu  un  tempo  una  secon- 
da filosofìa  *).  Come  l'alloro  verdeggia  sempre, 
né  perde  mai  foglia,  cosi  la  poesia  conserva 
eterno  il  suo  decoro  :  donde  avviene  che  si  cin- 
gano di  lauro  le  tempie  dei  poeti ,  perchè  la 
loro  fama  duri  eterna')».  Chi  sia  stato  que- 
sto Giovanni  professore  di  grammatica  non  sap- 
piamo. Il  Tiraboschi  lo  ricorda  nella  sua  Sto- 
ria della  letteratura  italiana  ^),  ma  non  sa 
darne  alcuna  notizia  :  «  Esso  è  tra  coloro  de' 
quali  — cosi  lo  storico -sappiamo  che  furono  pro- 
fessori di  grammatica  e  di  rettorica  nelle  pub- 
bliche scuole  d'Italia;  ma  de'  quali  poco  più 
potremmo  produrre  che  il  solo  nome,  e  credia- 
nao  più  opportuno  passarli  sotto  silenzio». 


1)  Hi  ratione  carent,  quibu?  est  invisa  Poesis, 

Altera  quas  quondam  Philosophia  fuit. 

Questo  stesso  concetto  è   ripetuto  dal   Mussato   nel- 
l'Epistola VII: 

Gymnasiis  olim  studiis  inventa  Poesis, 
Altera  jampridem  Philosophia  fuit. 

2)  Utque  viret  Laurus  semper,  nec  fronde  caduca 

Carpitur,  aeternum  sic  habet  illa  decus. 
Inde  est,  ut  vatum  cingantur  tempora  Lauro, 
Pergat  ad  seternos  ut  sua  fama  dies. 

3)  Lib.  III.  Cap.  IV. 


CAPITOLO   OTTAVO  297 

Ma  non  solo  questo  Giovanni,  al  quale,  ol- 
tre l'Epistola  IV,  il  Mussato  scrive  la  XV, 
bensì  altri  due  sono  i  professori  di  gramma- 
tica, a  ciascuno  dei  quali  il  poeta  indirizza  una 
sua  epistola:  Bonincontro  Mantovano  e  Guiz- 
zardo.  Al  primo  scrive  l' Epistola  XIII  ^)  e  al 
secondo  la  XIV  ^).  In  quella,  composta  senza 
dubbio  nell'esiglio,  il  poeta  fa  conoscere  la  sua 
miserabile  condizione,  nella  quale  deve  ringra- 
ziar la  fortuna  se  riceve  talvolta  qualche  do- 
no. Egli,  avvezzo  a  mangiar  lautamente,  è  co- 
stretto ad  appagarsi  di  poco  cibo ,  e  mentre 
prima  s'accontentava  appena  del  vino  euganeo, 
deve  bere  acqua  mescolata  coli'  aceto  ;  secchi 
giacciono  in  piccolo  spazio  entro  il  suo  corpo 
i  raggrinzati  intestini  ;  le  gradite  occupazioni 
d'un  tempo  cessarono  ;  l'ira  sola  gli  è  rimasta 
a  torturargli  il  cuore.  Che  la  sua  condizione 
fosse  veramente  miserabile,  é  ch'egli  avesse  bi- 
sogno dell'altrui  soccorso  veniamo  a  conoscere 
eziandio  dai  versi,  co'  quali  Matteo  Piegaferro, 
notaio  vicentino,  gli  manda    in  dono  una    mi- 


1)  Ad  Magistrwn  Bonincontruìn  Manluanum  grarri' 
ììiaticoe  professorem. 

2)  Ad  Magislrum  Guizardum  grammatica  profes' 
sorem,  cum  ab  eo  libitum  Yirgilu  sibi  accommodatum, 
repeteret. 


298  ALBERTINO   MUSSATO 

sura  di  olio:  «Perchè  tu  valga,  gli  scrive,  a 
sopportare  i  giorni  ne'  quali  non  ti  è  concesso 
cibo  migliore ,  e  perchè  i  ruvidi  erbaggi  non 
ti  pungano  la  gola ,  ricevi  questo  lieve  dono 
del  naio  monte  ;  olio  migliore  di  questo  non 
v'è  in  tutto  il  mondo  ».  Ed  il  Mussato  ricono- 
scente: «Mangiai  l'erbe  condite  col  tuo  olio: 
il  suo  sapore  mi  raddolcisce  le  labbra ,  come 
l'affetto  dell'offerente  mi  raddolcisce  il  cuore  ; 
ma  se  quello  in  breve  svanisce  dalla  bocca,  il 
gustato  affetto  rimane  nel  cuore  ^)». 

Nell'Epistola  XIV,  il  poeta  domanda  a  mae- 
stro Guizzardo  che  gli  ritorni  un  Virgilio  pre- 
statogli. Questa  Epistola  deve  esser  stata  scrit- 
ta nel  tempo  in  cui  Albertino  fu  richiamato 
in  Padova  da  Iacopo  da  Carrara,  dopoché  ne 
era  fuggito  insieme  con  Gualpertino  e  con  al- 
tri, per  la  pace  fatta  con  Cangrande  nel  1318, 


^)  Mattheus  Plegaferro  notarius  vicentinus   niisit 
unum  medrum  olei  Mussato  cum  his  versibus: 

Ut  valeas  tolerare  dies,  quibus  ampia  vetantur 
Fercula,  nec  iMgidum  guttura  pungat  olus, 

Levia  dona  meo  capias  de  monte  Minervse, 
Hsec  Dea  non  toto  dulcior  orbe  venit. 

Mussalus  respondil  eidem  his  versibus: 

Suxi  Palladium  tenera  cum  caule  liquorem, 
Leniit  ora  sapor,  cor  quoque  dantis  amor: 

lUe  sed  exiguo  momento  cessit  ab  ipso 
Ore  sapor,  cordi  permanet  esuj  amor. 


CAPITOLO   OTTAVO  299 

in  forza  della  quale  i  fuorusciti,  ch'erano  ne- 
mici al  Mussato,  furono  ricevuti  in  patria  e  ri- 
messi nei  loro  beni.  Mi  fanno  creder  ciò  le 
parole  del  poeta  stesso.  Egli  dice  infatti  che 
quel  Virgilio  gli  fu  compagno  nell'esigiio,  ed 
ora  ch'egli  è  ritornato  in  patria  vuole  che  ri- 
torni sicuro  esso  pure,  e  che  gli  sia  compagno 
come  per  lo  innanzi  ^). 

L'Epistola  VII  è  indirizzata  a  Giovanni  da 
Vigonza  *)  uomo  di  molta  autorità  per  la  sua 
dottrina  e  per  le  dignità  sostenute;  nel  1319 
fu  mandato,  con  Mussato  e  con  Ubertino  da 
â–   Carrara,  in  Toscana,  per  domandar  soccorso 
contro  lo  Scaligero.  Due  Epistole  oscene  una 
su  Priapo  e  l'altra  sulla  moglie  di  Priapo  ave- 
va dedicato  Albertino  a  Giovanni,  il  quale  se 
n'era  mostrato  offeso,  ed  aveva  rimproverato 
il  poeta  di  tanta  immoralità.  Neil'  Epistola  VII 
il  Mussato,  con  versi  onestissimi ,  gli  chiede 
scusa,  e  adduce  a  propria  discolpa  l' aver  egli 
cantato  anche  di  cose  sacre.  Del  resto  si  me- 


1)  Virgilius  thalamo  mecum  versatus  in  uno, 
Tempore  quo  Fatava  pulsus  ab  urbe  fui,, 
Exul  ad  externas  ultro  se  contuli t  oras, 

Exilii  pcenas  sustinuisse  volens. 
In  patriam  redii,  redeat  securus  et  ipse, 
Et  Comes,  et  civis  sit,  velut  ante  fuit. 
2)  In  laudem  poeticcB  ad  D.  Ioannein  de  Yiguntia 
simulantem  se  abhoì'ruisse  seria  Priapeice. 


300  ALBERTINO   MUSSATO 

raviglia  che  Giovanni  sia  rimasto  cosi  scan- 
dolezzato  :  «  Io  non  ti  persuasi,  gli  scrive ,  di 
far  quelle  cose  che  ho  immaginato,  dalle  quali, 
quando  non  ti  piacciano,  puoi  astenerti.  Vo- 
lesse il  cielo  che  tu  odiassi  ciò  che  ricusi  di 
ascoltare  I  Oh ,  quanto  spesso  facciamo  quelle 
cose  che  a  dirle  ci  vergogniamo  I  »  ').  Né  l'una 
né  r  altra  delle  due  epistole  oscene  furono,  a 
quanto  io  sappia,  mai  pubblicate.  Nell'edizio- 
ne veneta  curata  dal  Pignoria  e  dall'Oslo  fu- 
rono omesse  per  non  offendere  le  caste  orec- 
chie -).  Il  Tiraboschi,  secondo  il  quale  il  Mus- 
sato oltre  a  queste  due  avrebbe  scritto  delle 
altre  poesie  oscene,  nota  che  si  leggono  in  un 
codice  del  secolo  XV  allora  esistente  presso  il 
Sig.  D.  Iacopo  Morelli,  e  che  hanno  per  ti- 
ntolo Friapeia  Musati  Poetce  Palavi  e  Cun- 
neia  Domini  Musati  ^). 

L'Epistola  X  è  scritta  agli    amici  ch'erano- 


1)  Non  ego  quod  finsi,  non  htec  facienda  probavi, 
QuiB  si  non  placeant,  abstinuisse  potes. 
Oderis,  o  utinam,  quse  sic  audire  recusas  ! 
Heu  quam  ssepe  agimus,  dicere  qute  puduit! 

2)  Epistolas  cluas  ad  D.  Ioannem  de  Yiguntia  Pa- 
tavinum,  quarwn  una  Priapum  expressit^  uxoreìn 
J'riapi  altera  commentus  est,  consulto  prceterinisùnus 
in  gratiam  auriuni  honeslarum. 

3J  Storia  della  letteratura  italiana,  Lib.  III.  Gap.  III. 


CAPITOLO    OTTAVO  301 

rimasti  in  città,  mentr'egli  avea  preferito  di 
andar  esule  dalla  Repubblica  che  già  più  non 
esisteva  ^).  È  chiaro  che  il  poeta  la  compose 
dopo  la  pace  con  Cangrande  nel  1318.  In  quel- 
l'occasione, per  non  essere  esposto  agli  insulti 
de'  fuorusciti  suoi  nemici,  che  avevano  ottenuto 
il  permesso  di  rimpatriare,  egli  andò,  come  di- 
cemmo, esule  volontario  insieme  col  fratello 
Gualpertino  e  con  altri.  Assai  eloquente  è  la 
espressione  Repuhllca  iam  nulla,  poiché  si  può 
dire  ch'essa  in  que'  giorni  già  più  non  esi- 
stesse. Ne  rimaneva  la  forma  ;  ma  anche  que- 
sta doveva  tosto  cessare.  Difatti,  negli  ultimi 
giorni  di  Luglio  di  quell'anno  medesimo,  Gia- 
como da  Carrara  veniva  eletto  principe  di  Pa- 
dova. «Poiché  osai,  scrive  il  poeta,  assumere 
imprese  superiori  alle  mie  forze,  fui  meritamen- 
te colpito  da  caso  acerbo.  Insofferente  caddi 
sotto  il  fascio  de'  miei  pesi.  Confesso  il  mio 
grave  fallo,  se  tale,  per  avventura,  può  dirsi  ; 
quando  non  lo  giustifichi  l'amore  della  libertà 
e  l'ardente  desiderio  della  giustizia  ')  » ,  e  chia- 

1)  Ad  socioì   in    Urbe   eccistentes   cicni  Repuòlica 
jani  nulla  exilium  ipse  sibi  ascivisset. 

2)  111  e  ego,  qui  merito  casu  coiicussus  acerbo 
Qaod  maiora  meis  assumere  viribus  ausim, 
Impations  onerum  cecidi  sub  fasce  meorum.... 
Confiteor  grave  forte  nefas,  nisi  leniat  illud 
Libertatis  amor,  justique  ignita  cupido. 


302  ALBERTINO  MUSSATO 

ma  in  testimonio  tutta  la  gioventù  pretoria,  se 
mai  desiderio  di  lucro  o  di  lode  o  di  gloria 
fallace  abbia  distratta  la  sua  mente  dal  sen- 
tiero del  retto  ^). 

Delle  altre  Epistole  sopra  soggetti  di  poca 
0  nessuna  importanza,  quella  che  merita  essere 
considerata  di  preferenza  è  la  XVIII ,  poiché 
ci  dà  un  esempio  delle  questioni  puerili  ed  in- 
concludenti, intorno  alle  quali  anche  i  migliori 
di  quell'età  sprecavano  talvolta  tempo,  inge- 
gno e  dottrina. 

Un  frate  Giovannino  da  Mantova  dell'ordine 
dei  predicatori  aveva  recitato  nel  giorno  di  Na- 
tale un  discorso  in  lode  della  Teologia.  Per 
meglio  esaltare  questo  studio,  egli  aveva  bia- 
simato tutti  gli  altri,  ad  eccezione  di  quello 
della  poesia.  Se  ne  lamentarono  i  dottori  delle 
altre  scienze,  ed  il  Mussato  si  prendea  giuoco 
di  loro,  dicendo  che  il  frate  non  avea  trovato 
nulla  a  ridire  sulla  poesia ,  la  quale  doveva 
esser  considerata  come  parte  della  sacra  teo- 
logia. Venuto  a  sapere  questa  cosa  per  mezzo 
di  Paolo  giudice  di  Teolo,  il  frate  protestò  che 
solo  per  dimenticanza  non  aveva  biasimato  la 


1)  Testis  adest  nobis  oninis  Pretoria  pubes 
Si  qusestus,  si  laudis  amor,  si  gloria  fallax 
Divertere  meam  recti  de  tramite  mentem. 


CAPITOLO   OTTAVO  303 

poesia.  Paolo  riferi  le  parole  del  frate  a  Mus- 
sato, e  questi  scrisse  a  Giovannino  un'Epistola 
in  versi,  nella  quale,  con  nove  argomenti,  pren- 
de a  difendere  la  poesia  e  a  dimostrare  co- 
m'essa debba  considerarsi  arte  divina.  Questa 
Epistola  non  esiste  in  nessuna  edizione  delle 
opere  del  Mussato,  e,  per  dichiarazione  degli 
annotatori  della  edizione  veneziana,  nemmeno 
nei  manoscritti.  La  risposta  del  frate  ci  fa  co- 
noscere del  resto  gli  argomenti  addotti  dal 
Mussato,  nonché  alcuni  dei  versi  dell'Epistola, 
molti  dei  quali  sono  riprodotti,  con  leggere  mO' 
dificazioni,  nell'Epistola  IV  e  taluno  anche  nel- 
l'Epistola VII.  Frate  Giovannino ,  nella  sua 
lunga  lettera  in  prosa ,  ribatte ,  con  certa  fi- 
nezza, ad  uno  ad  uno,  gli  argomenti  del  Mus- 
sato. La  lettera  comincia  con  quattro  versi  del 
frate,  dopo  i  quali  egli  dice  aver  pensato  me- 
glio di  scrivere  in  prosa,  per  non  parere  di 
fare  oltraggio  alla  sacra  teologia,  obbligandosi 
alle  regole  della  poesia. 

Ecco,  in  breve,  gli  argomenti  del  Mussato, 
per  dimostrare  la  poesia  arte  divina  : 

1.  E  divina  quell'arte   che  da  principio  fu 
detta  teologia  ;  la  poetica  è  tale, 

2.  È  divina  quell'arte   che  tratta  degli  Dei 
e  delle  cose  celesti  ;  la  poetica  è  tale. 


304  ALBERTINO   MUSSATO 

3.  È  divina  quell'arte,  i  cultori  della  quale 
si  chiamano  vati;  i  poeti  son  detti  vati. 

4.  È  divina  quella  scienza  che  proviene  da 
Dio;  la  poetica  è  tale. 

5.  E  divina  quella  scienza  che  è  degna 
di  somma  ammirazione  e  che  arreca  diletto  ; 
tale  è  la  poetica. 

6.  È  divina  quella  scienza,  della  quale  si 
servi  Mosè  per  lodare  il  Signore,  allorché 
trasse  il  suo  popolo  di  schiavitù;  tale  è  la 
poetica. 

7.  Dee  dirsi  divina  quell'arte  che,  nel  suo 
modo  di  procedere,  va  grandemente  d'accordo 
con  la  Sacra  Scrittura  ;  tale  è  la  poetica. 

8.  È  divina  quella  scienza  che  vive  di 
eterno  splendore  ;  tale  è  la  poetica. 

9.  E  divina  quella  scienza  per  mezzo  della 
quale  fa  svelata  la  fede  cristiana  ^)  ;  tale  è  la 
poesia. 

Il  frate  oppone: 
1.  La  poetica  fu  detta  dapprincipio  teo- 
logia, perchè  i  primi  poeti,  tra  i  quali  Orfeo, 
furono  i  primi  filosofi,  e  trattarono  in  versi  de- 
gli Dei.  Ma  essi  non  cantarono  il  vero,  bensì 
il  falso.  Fecero  Dei  l'Oceano  e    Teti,  chiama- 


1)  Allude  ai  Centoni  di  Omero  e  di  Virgilio. 


CAPITOLO    OTTAVO  305 

reno  lo  Stige  giuramento  degli  Dei  ;  per  ciò 
non  tramandarono  la  vera  teologia,  né  possono 
chiamarsi  veri  teologi. 

2.  Attribuirono  divini  onori  agli  uomini  e 
ai  corpi  celesti  che  sono  cose  create,  il  che  è 
sacrilegio. 

3.  I  poeti,  secondo  i  sacri  dottori ,  sono 
detti  vati  da  vieo  che  significa  legare,  poiché 
devono  unire  insieme  i  piedi  ed  i  metri  ;  cosi 
i  filosofi  a  vi  mentis  y  ma  i  sacerdoti  ed  i  pro- 
feti son  detti  vati  non  solo  a  vi  mentis,  ma  a 
vas  et  3£5c,  perchè  sulle  labbra  e  nel  cuore 
devono  aver  sempre  Iddio. 

4.  La  poesia  non  proviene  da  Dio,  ma  fu 
inventata  dagli  uomini  come  le  altre  scienze. 
Presso  gli  antichi  intorno  all'origine  del  mon- 
do, al  diluvio  e  a  molti  altri  fatti,  essa  è  con- 
traria alla  verità  divina. 

5.  La  poesia  è  degna  di  ammirazione,  per- 
chè fìnge  cose  meravigliose,  delle  quali  si  di- 
lettano gli  uomini ,  non  perchè  descriva  cose 
eccellenti,  e  perciò  degne  di  essere  ammirate. 
Arreca  diletto  non  per  la  verità  che  in  sé  con- 
tenga, ma  per  le  finzioni  e  per  Tornamento 
esteriore  delle  parole. 

La  scienza  divina,  per   lo  contrario,  è  am- 
mirabile e   soave  soprattutto  per   la  verità  di- 

20 


206  ALBERTINO   MUSSATO 

vina  che   in    se    contiene,  benché    possa    esser 
tale  anche  per  gli  esterni  ornamenti. 

6.  Mosè  compose  il  suo  cantico  in  versi, 
perchè  fosse  cantato  dai  cori.  Ma  dato  pure 
che  tutta  la  sacra  teologia  fosse  ridotta  in 
versi,  come  alcuni  tentarono  di  fare,  non  per 
questo  la  poetica  potrebbe  dirsi  divina. 

Come  né  la  scienza  naturale,  né  qualsiasi  al- 
tra può  dirsi  Logica,  benché  usino  dalla  ma- 
niera di  dimostrazione  che  la  Logica  insegna  ; 
cosi  qualunque  scienza  può  essere  esposta  in 
versi,  senza  che  perciò  possa  chiamarsi  poe- 
tica. 

7.  La  Divina  Scrittura  usa  è  vero  delle 
metafore  come  la  poesia  ;  ma  con  questa  dif- 
ferenza, che  la  poesia  ne  usa  per  dilettare, 
mentre  la  Sacra  Scrittura  vela  con  esse  il  rag- 
gio della  verità,  perché  questa  venga  ricercata 
con  più  cura  da  coloro  che  ne  sono  degni ,  e 
rimanga  occulta  agli  indegni. 

8.  La  poetica  non  ha  eterno  lustro,  poi- 
ché i  primi  poeti  Orfeo,  Museo,  Lino  vissero 
lungo  tempo  dopo  Mosè ,  mentre  la  teologia 
data  dal  principio  del  mondo.  I  poeti  inoltre 
non  venivano  incoronati  d'alloro  per  sé  stessi, 
ma  perché  rappresentavano  coloro  le  cui  gesta 
poeticamente  cantavano.  La   corona  era  circo- 


CAPITOLO   OTTAVO  307 

lare  a  dimostrare  che  la  poetica  va  in  cerca 
del  vario,  e  s'allontana  quanto  più  può  dalla 
verità  che  sta  nel  mezzo  ;  era  poi  di  lauro, 
che  è  verde  ed  odoroso  al  di  fuori ,  ma  nel- 
r interno  amaro;  i  suoi  frutti  sono  amarissimi. 
Cosi  la  poesia  ha  un  certo  ornamento  di  pa- 
role all'esterno,  ma  al  di  dentro  l'amarezza 
della  vanità. 

9.  I  centoni  di  Virgilio  e  di  Omero,  come 
osserva  S.  Gerolamo  nella  lettera  a  Paolino 
premessa  ai  libri  della  Bibbia,  sono  fatti  di 
versi  tolti  all'uno  e  all'altro  ed  uniti  insieme 
a  significare  cose  che  quei  poeti  non  intende- 
vano. Se  fosse  altrimenti,  dovremmo  conside- 
rare Virgilio  cristiano  senza  Cristo,  il  che  è 
una  contraddizione.  Que'  centoni  adunque  non 
sono  che  dehrii,  puerilità,  simili  ai  giuochi  dei 
cantambanchi. 

Non  persuaso  il  Mussato  delle  ragioni  del 
frate,  gli  rispose  con  una  lunga  Epistola  in 
versi,  che  è  appunto  la  XVIII.  Ad  essa  pre- 
mise una  dichiarazione  in  prosa,  nella  quale, 
come  poi  ne'  versi,  ma  con  maggiore  ampiezza, 
tenta  mostrare  l'insussistenza  degli  argomenti 
addotti  dal  frate  per  combattere  i  suoi. 

1.  I  primi  poeti  che  trattarono  di  teologia 
non  cantarono  soltanto  "li  Dei  falsi.  É  chiaro 


308  ALBERTINO   MUSSATO 

ch'essi  cantarono  il  vero  Dio,  e  con  esso  gli 
altri  che  sapevano  esser  falsi.  Quando  dicevano 
che  rOceano  è  Dio  e  Teti  Dea  non  facevano 
né  più  né  meno  di  quello  che  facciain  noi,  quando 
diciamo  che  nell'acqua  del  battesimo  e  nell'olio 
della  cresima  v'é  Dio.  Né  dicevano  che  Stige 
è  Dio  ;  ma  giuravano  per  Stige,  come  noi  che 
giurando  diciamo:  Possa  io  andare  all' inferno 
se  non  farò  la  tal  cosa. 

2.  Chiamavano,  è  vero,  Dei  gli  uomini  buoni 
ch'erano  premorti  ed  anche  i  corpi  celesti  ;  noi 
invece  chiamiamo  Santi,  non  Dei,  coloro  che 
crediamo  partecipi  di  Dio. 

3.  E  un'  etimologia  a  capriccio  quella  per 
la  quale  vuoisi  chiamare  vati  quasi  vasa  Del 
ì  sacerdoti  e  i  profeti  piuttosto  che  i  poeti;  la 
Sacra  Scrittura  chiama  vati  quasi  vasa  Dei 
tutti  gli  inspirati  e  quelli  che  predicono  il  fu- 
turo, come  le  Pitonesse  e  le  Sibille. 

4.  Se  i  primi  poeti  tìlosoh  e  teologi  non 
concordano  colle  Sacre  Scritture,  non  è  mera- 
viglia. Prima  di  Cristo  nemmeno  gli  altri  filo- 
soli furono  illuminati.  Quelli  sostennero,  é  vero, 
opinioni  diverse  intorno  all'origine  del  mondo; 
ma  se  qualcuno  fra  essi  cadde  in  errore,  come 
ad  esempio  Ovidio,  l'arte  per  questo  non  dee 
giudicarsi   reproba. 


CAPITOLO   OTTAVO  309 

5.  I  poeti  ricorrono  sempre  a  mirabili  fin- 
zioni per  coprire  taluna  verità,  e  come  noi  se 
vogliamo  significar  Cristo  in  una  parete,  dipin- 
giamo un  agnello  ;  così  essi  fingono  una  figura 
e  ne  intendono  un'  altra.  Le  loro  favole  non 
sono  che  allegorie,  con  le  quali  alludono  a  cose 
vere. 

6.  e  7.  Come  le  altre  scienze  si  dividono 
in  pratica  e  teoretica,  cosi  anche  la  poesia  è 
teoretica  quando  sotto  il  velo  della  favola  copre 
la  verità,  come  le  parabole  di  Cristo  ;  è  pratica 
quando  altri  narri  in  versi  e  per  traslati  ciò 
che  fu  detto  ed  operato.  Come  teoretica  la  poe- 
sia è  divina,  come  pratica  è  pari  alle  altre 
scienze  artificiali. 

8.  Non  consta  che  Orfeo,  Museo  e  Lino 
fossero  i  primi  poeti  ;  ma  è  da  ritenere  che  la 
poetica  sia  antica  quanto  le  altre  scienze.  È 
poi  fuori  di  proposito  il  dire  che  la  poetica  non 
ha  eterno  lustro,  mentre  ciò  è  comprovato  dal 
consenso  universale.  Non  è  vero  che  i  poeti 
venissero  coronati  per  coloro  dei  quali  canta- 
vano le  lodi.  Stazio  fu  coronato  a  Roma  per 
la  Tebaide,  ed  altri  ancora  ebbero  la  corona 
per  le  opere  loro.  Non  è  poi  verisimile  che  i 
grandi  capitani,  i  quali  ottenevano  la  corona 
per  le  loro  gesta  gloriose,  soffrissero  che  i  poeti 


310  ALBERTINO   MUSSATO 

che  cantavano  le  loro  lodi  venissero  per  ciò 
solo  incoronati  con  egual  pompa.  Le  parole  sul- 
l'amarezza del  lauro  e  sulla  forma  circolare 
della  corona  non  hanno  significato.  Per  la  me- 
desima ragione  altri  potrebbe  dire  le  stesse  cose 
sulla  tonsura  di  molti  chierici,  il  che  sarebbe 
sconveniente. 

9.  Anche  Isaia,  Ezechiele,  Daniele  e  gli 
altri  profeti  potrebbero  dirsi  cristiani  senza  Cristo 
come  Virgilio,  poiché  al  loro  tempo  Cristo  non 
era  per  anco  venuto.  E  chi  vorrà  negar  lode 
a  chi  seppe  unire  cosi  bene  i  versi  di  antichi 
poeti,  come  Virgilio,  Seneca,  da  farli  suonare 
quali  profezie  della  venuta  di  Cristo? 

Egli  è  certo  che  né  gli  argomenti  primi  del 
Mussato  per  mostrare  la  poesia  arte  divina,  né 
le  obbiezioni  di  frate  Giovannino,  né  la  replica 
del  Nostro  hanno  grande  valore,  —  non  vi  man- 
cano i  sofismi,  né  le  asserzioni  gratuite,  —  pure 
dimostrano  nell'uno  e  nell'altro  un'acutezza  non 
comune  d'ingegno,  la  quale  si  rivela  forse  mag- 
giore nel  Mussato. 

Le  altre  Epistole,  che  rimangono,  trattano 
argomenti  di  nessuna  importanza,  e  poiché  mi 
sono  soffermato  a  lungo  su  questa,  la  quale  forse 
non  meritava  vi  si  spendesse  intorno  tante  pa- 
role, mi  terrò  pago  a  citare  di  quelle  sempli- 


CAPITOLO   OTTAVO  311 

cernente  i  titoli.  L'Epistola  VI  a  Giovanni  Su- 
peranzio  doge  di  Venezia  tratta  della  scoperta 
di  un  pesce  avente  sulla  fronte  una  punta  a 
somiglianza  di  spada  ^)  ;  la  Vili,  sopra  l'appa- 
rizione di  una  stella  cometa,  è  indiritta  a  un 
frate  Benedetto  dell'  ordine  dei  predicatori  -)  ; 
la  IX  è  in  risposta  alla  risposta  dello  stesso 
frate  ^)  ;  la  XI  è  dedicata  a  frate  Alberto  de 
Ramedello,  il  quale,  per  offrire  al  Mussato  ma- 
teria di  scriver  versi,  gli  avea  mandato  una 
cagnolina  che  aveva  sei  dita  con  sei  unghie 
per  ciascun  piede  "*)  ;  la  XV  finalmente  è  in 
risposta  a  Giovanni  professore  di  grammatica, 
il  quale  gli  aveva  chiesto  in  versi  come  fosse 
avvenuto,  che  un  leone  e  una  leonessa  in  Ve- 
nezia avessero  generato,  e  che  la  leonessa  avesse 
partorito  vivi  i   feti,    contrariamente    a    coloro 


1)  Ad  D.  Ducem  Venetiarmn  loannem  Super antiuìn 
de  pisce  invento  habente  in  fronte  gladiuni  ad  simili- 
tudinem  ensis. 

2)  Super  ortu  stellos  cometce  ad  F.  Benedictum  le- 
ctoreni  fratrwn  Prcedicatorum. 

3)  Responsio  ad  responsum  ejusdem. 

4)  Ad  fratrem  Albertiim  de  Ramedello,  qui  sibi  ca- 
tulam  unam  miserai,  ut  prceberet  ei  materiam  aliquid 
jnelrice  conscribendi. 

Habel  siquidem  cattila  senos  digitos  cwn  senir;  un- 
gulis  in  unoquoque  pede. 


312  ALBERTINO  MUSSATO 

che  dicono  che  sogliono  nascer  morti.  Il  poeta 
mette  sulla  bocca  ad  Urania  la  risposta  ^). 

Tre  sono  le  elegie  del  Mussato,  che  noi  co* 
nosciamo.  Della  prima  abbiamo  avuto  occasione 
di  far  parola  nel  principio  del  nostro  lavoro. 
In  essa  il  poeta  ci  dà  notizie  intorno  alla  sua 
nascita  e  alla  sua  prima  giovinezza,  notizie  im- 
portantissime, molte  delle  quali  avremo  cercato 
invano  nelle  altre  fonti. 

Della  seconda,  intitolata  il  Sogno,  abbiamo 
esposto  rintero  concetto  in  questo  stesso  capi- 
tolo. La  terza  è  un  centone  ovidiano  fatto  con 
versi  tolti  dai  libri  dei  Tristi,  e  qua  e  là  leg- 
germente modificati.  Il  Centone,  la  più  lunga 
delle  poesie  minori  del  Nostro,  è  dedicato  al 
figlio,  al  quale  il  poeta  dà  saggi  ed  utili  am- 
maestramenti, che  l'esperienza  gli  aveva  sug- 
gerito. Questa  poesia  merita  di  essere  conside- 
rata più  che  non  abbiano  fatto  finora  quelli 
che  hanno  scritto  intorno  al  Mussato  e  alle  sue 
opere.  É  probabile  che  il  poeta  l'abbia  com- 
posta nel   1318,  dopo  la  pace  con  Cangrande, 


1)  Ad  Ioannem  grammaticce  professorem  cum  quie- 
sisset  ab  eo  per  tnetra^  qualiter  contigerit,  qiiod  leo 
et  lea  qu(je  erant  coniìnunis  Veneliarum  genuissent, 
et  peperisset  lea  vivos  foetas  cantra  auctores  loquenles, 
quod  mortui  nasci  solent,  et  introducilur  Urania  lo- 
quens. 


CAPITOLO   OTTAVO  313 

allorché  dovette  allontanarsi  da  Padova  ^).  Egli 
mostra  desiderio  ardenti ssimo  di  rivedere  il  fi- 
glio, dal  quale  è  forzatamente  lontano;  tocca 
di  alcuni  tra  i  fatti  principali  della  sua  vita, 
e  parla  de'  suoi  scritti  di  maggiore  importanza. 
11  figlio  era  allora  la  consolazione  del  padre, 
il  quale  afierma  che  era  fornito  di  aurei  co- 
stumi, di  felice  ingegno  e  d'ogni  bella  dote  ^). 
Tuttavia  lo  consiglia  di  vivere  a  sé  stesso,  di 
fuggire  i  grandi  nomi,  di  guardarsi  da  coloro 
che  siedono  in  alto,  poiché  dall'alto  cade  il  ful- 
mine. Egli  stesso  che  ora  gli  detta  i  consigli, 
se  fosse  stato  consigliato  a  tempo  si  troverebbe 


^)  Che  Albertino  scrivesse  il  Centone  nelF  esigilo  lo 
comprovano,  fra  gli  altri,  i  versi  nei  quali  fa  voto  che 
il  cielo  conceda  al  Aglio  suo  di  riposare  tranquillo  nella 
sua  casa  e  di  vivere  in  patria,  cosa  ch'egli  vorrebbe  an- 
che per  sé,  mentre  è  costretto  andar  vagando  per  terra 
e  per  mare: 

Dii  libi  dent  nostri  porta  guadere  Palati 

Molliter,  et  patria  vivere  posse  tua. 
Ut  mihi,  sic  tibi  sit,  quamvis  terraque  marique 

Longinquo  referam  lassus  ab  orbe  pedem. 

L'augurio  non  s' è  avverato.  Poco  tempo  appresso, 
Vitaliano  fu  mandato  in  esigilo,  e  per  sua  cagione  anche 
il  padre  andò  esule  a  Chioggia. 

2)  Nani  tibi  cura  fatis  mores  Natura  pudicos, 
Atque  bonas  dotes  ingeniumque  dedit. 


314  ALBERTINO  MUSSATO 

in  condizione  migliore  ').  Sulla  fine  del  Centone, 
il  poeta  parla  della  festa,  che  veniva  fatta  ogni 
anno  in  suo  onore,  il  giorno  di  Natale.  In  tal 
giorno  pare  ch'egli  terminasse  di  scrivere  il 
Centone,  e  forse  in  quell'  anno,  per  la  prima 
volta,  fu  sospesa  la  festa. 

Benché  il  merito  letterario  di  questo  genere 
di  componimenti  sia  molto  discutibile,  pure  nel 
caso  nostro  non  possiamo  non  ammirare  il  Mus- 
sato, per  Tartifizio  col  quale  ha  saputo  unire 
i  versi  del  poeta  latino  a  manifestare  i  suoi 
concetti.  Chi  ne  avesse  vaghezza  potrebbe,  senza 
difficoltà,  confrontare  i  versi  del  Centone  con 
quelli  dei  Tristi.  Nella  edizione  veneziana  delle 
opere  del  Nostro,  accanto  a  ciascun  verso  del 
Centone,  sono  notati  in  margine  il  numero  del 
libro  e  quello  dell'elegia  dei  Tristi,  dove  si  trova 
il  verso  ovidiano  corrispondente  '). 

Meno  felici  tra  le  poesie  minori  del  Mussato 


1)      Vive  tibi,  et  longe  nomina  magna  fuge. 
Vive  tibi,  quantumque  potes  praelustria  vita, 
Ssevum  praelustri  fulmen  ab  igne  venit. 

Hsec  ego  si  monitor  monitus  prius  ipse  fuissem, 
In  qua,  non  ego  sum,  prosperitate  forem. 

2)  Il  Centone  fu  tradotto,  non  troppo  felicemente,  in 
versi  italiani  da  Niccola  Mussato  NeWoccasione  del  dot- 
torato In  ambe  le  leggi  di  Alvise  di  lui  figliuolo  -  Pa- 
dova 1802. 


CAPITOLO   OTTAVO  315 

sono  quelle  di  soggetto  religioso.  In  esse  egli 
fa  più  volte  confessione  delle  proprie  colpe,  e  si 
manifesta  pentito  e  si  raccomanda  con  fervide 
preci  a  Dio,  alla  Vergine  e  ai  Santi.  Ma^,  di- 
penda dalla  qualità  del  soggetto  poco  propizio 
alla  poetica  ispirazione,  oppure  dall'età  troppo 
avanzata  del  poeta,  il  quale,  per  giunta,  era 
stato  fatto  segno  ai  colpi  dell'avversa  fortuna, 
esse  non  hanno  quel  vigore  di  cui  son  fornite 
le  altre  ;  bensì  appaiono  piuttosto  languide.  E 
che  il  Mussato  le  abbia  scritte  quand'era  innanzi 
cogli  anni,  ce  lo  fa  sapere  egli  stesso  nel  Soli- 
loquio quarto  ai  Santi  Paolo  ed  Agostino,  quan- 
do dice  di  aver  toccati  i  sessanta  ^).  Oltre  a 
questo,  il  poeta  scrisse  altri  Soliloqui  alla  SS. 
Trinità,  allo  Spirito  Santo,  alla  B.  Vergine  Ma- 
ria, in  lode  della  Croce,  nel  quale  ultimo  ma- 
nifesta il  desiderio  che  il  sacro  vessillo  abbia 
a  sventolare  glorioso  in  Terrasanta,  un  inno 
sulla  passione  del  Signore,  e  una  perorazione 
nella  quale  raccomanda  l'osservanza  dei  precetti 
dei  vecchio  e  del  nuovo  testamento. 


1)  Carnis  in  obscuris  tenebris,  et  carcere  casco 
Sedit  agens  binis  addita  lustra  decem, 
Vergitur  ad  senium,  vicinaque  tempora  morti, 
Crastina  nec  superest  certa  vivenda  dies. 

Ad  beatos  Paulum  apostolum  et  Aiigustinum  Christi 
confessorem,  Soliloquium  IV. 


316  ALBERTINO  MUSSATO 

Di  minore  importanza,  benché  forse  di  mag? 
gior  pregio  letterario,  sono  le  egloghe,  ch'egli 
compose  in  numero  di  dieci  *). 

Secondo  la  citata  biografia  del  Mussato  scritta 
dal  Secco,  quale  trovasi  nel  Codice  Ricciardiano, 
il  Nostro  avrebbe  scritto  un  poemetto  sulla  nar 
scita  di  Alberico  e  di  Ezzelino  da  Romano, 
Secco  li  farebbe  generati  dagli  amori  di  Plutone 
con  Proserpina  *)  ;  ma,  come  osserva  il  Novati, 
lo  contraddice  il  Mussato  stesso,  nel  Prologo 
della  sua  tragedia,  che  li  dice  nati  dagli  infer- 
nali amori  di  Plutone  con  la  loro  madre.  Po- 
trebbe essere  che  questo  poemetto  fosse  tutta 
una  cosa  col  Pròlogo,  o,  a  megho  dire,  col  primo 
atto  della  tragedia,  come  lo  chiama  il  Mussato. 

Lo  stesso  Novati  suppone  che  Albertino  abbia 
scritto  un  altro  poema  sulle  cagioni  delle  sue 
sventure,  e  ciò  deduce  dall'aver  letto  in  un  co- 
dice veneto,  nella  chiusa  delle  storie,  queste; 
parole:  Contumeìiarum  mearum  notiones,  cum 
verarum  adiectione  causarum  his  centenis  di' 
rigo  meiris,   Benti   carissime  ecc.  ^).  La    sup- 


1)  Eccone  i  titoli:  1.  Nuinen  ignolum2.  Cenfaurus 
3.  Creusa  4.  Galeaz  5.  Nais  6.  Amores  7.  Baxes  8.  Echo 
et  Ege  9.  Barnabos  et  Galeaz  10.  Apofheosis. 

2)  Vedi:  Appendice,  Doc.  III. 

3)  Vedi:  Archivio  Storico  per  Trieste,  V Istria  e  il 
Trentino  Voi.  II.  Fase.  I.  Gennaio  1883. 


CAPITOLO   OTTAVO  317 

posizione  ha  buon  fondamento.  A  tutte  queste 
opere  poetiche  minori  del  Mussato  ci  sarebbe 
da  aggiungere  gli  argomenti  alle  tragedie  di 
Seneca  che,  secondo  una  notizia  raccolta  dal 
Gennari,  si  troverebbero  in  un  codice  della  Bi- 
blioteca Ambrosiana  ^). 

In  tutte  le  poesie,  che  abbiamo  considerato, 
lo  studio  e  la  imitazione  di  Ovidio  si  rivelano 
di  continuo.  Ben  dice  il  Colle  che  «  un  tal  mae- 
stro non  infelicemente  da  lui  ricopiato  nella 
ricchezza  e  varietà  delle  immagini,  abbondanza 
di  pensieri,  felicità  di  uscite  e  facile  fluidità 
di  sale  giovogii  ancora  unitamente  ai  soccorsi 
del  metro  a  renderlo  più  castigato  nell'espres- 
sione, e  molto  più  chiaro  nella  dicitura.  Sa- 
rebbe indiscreta  pretensione  l'esiger  da  lui  la 
grazia  e  cultura  dei  buoni  tempi;  ma  nei  pen- 
sieri, nella  dignità,  ricchezza  e  connessione  di 
questi,  non  avranno  difticoltà  gii  autori  migliori 
di  accoglierlo  a  lor  compagno  »  ~). 

1)  Gennari  —  Notizie  storiche  di  Padova  Tomo  I. 
Manoscritto  esistente  nella  Biblioteca  comunale  di  Pa- 
dova.—  Vedi  pure:  Catalogus  codicum  latinorum  Bi~ 
bliotheae  Medicece  - Laio'entiance  T.  II.  Esso  sarebbe  pre- 
cisamente il  Cod.  1.  Pluteo  XXXVII.  Argwìienta  in  de- 
cem  Senacce  tragcedias.  Tali  Arguraenta  si  trovano  pure 
nel  Cod.  XXIII,  Plut.  91  sup.  dei  Gaddiani  a  e.  43.  Nello 
stesso  Cod.  a  e.  49  e  segg.  stanno  gli  argomenti  delle  Epi- 
stole di  Ovidio  con  Prologo,  che  si  ritengono  del  Mussato. 

2)  Mem.  cit. 


Capitolo  Nono. 

L' Eccerinis. 

L' opera  per  la  quale  è  principalmente  noto 
il  nome  di  Albertino  Mussato  è  la  tragedia 
Eccerinis.  I  vecchi  critici,  per  la  maggior  par- 
te, ne  parlano  con  poco  favore,  poiché  non  è 
fatta  secondo  le  pretese  leggi  della  dramma- 
tica; ma  i  più  recenti,  i  quali  si  sono  spo- 
gliati di  certi  pregiudizii,  che  furono  dimostrati 
assurdi,  la  esaltano  oltre  ogni  dire,  e  non  sen- 
za ragione,  come  una  delle  più  belle  creazioni 
poetiche  del  secolo  XIV.  E  tale  pare  la  ritenes- 
sero i  contemporanei  del  Mussato,  se  per  essa, 
in  modo  particolare ,  lo  incoronarono  poeta. 
Quando  T  abbia  composta  non  sapremmo  dire  ; 
è  certo  per  altro  che  non  la  fece  di  pubblica 
ragione  che  nel  1314,  dopo  che  fu  prigionie- 
ro di  Cangrande.  Abbiamo  di  ciò  -la  testimo- 
nianza nel  Ferreto,  il  quale  dice,  che  in  quel 
tempo  r  Eccellinide  non  era  stata  ancora  pub- 


320  ALBERTINO   MUSSATO 

blicata  dal  Mussato  ^).  È  assai  probabile  T  opi- 
nione del  Dall'Acqua  Giusti,  il  quale  la  stima 
anteriore  alle  altre  opere  del  Nostro  e  anche 
eseguita,  almeno  in  gran  parte,  nella  sua  gio- 
vinezza. 

La  mente  di  Albertino,  fino  dall'  età  prima, 
dev'  essere  stata  piena  dei  racconti  delle  cru- 
deltà commesse  da  Ezzelino  III  contro  i  Pa- 
dovani. Solo  poco  tempo  prima  eh'  egli  nasces- 
se, cioè  nell'anno  1260,  era  avvenuta  la  gran- 
de catastrofe  degli  Ezzelini,  e  Padova  ne  ave- 
va esultato.  Da  quel  momento  essa  era  entra- 
ta in  un  periodo  di  pace,  di  prosperità  e  di 
grandezza,  quali  non  aveva,  per  lo  innanzi,  go- 
duto. E  naturale  che,  per  lungo  tempo,  i  cit- 
tadini non  facessero  che  parlare  del  grande 
avvenimento,  e,  paragonando  lo  stato  loro  pre- 
sente a  quello  di  pochi  anni  innanzi,  maledi- 
cessero alla  memoria  dell'  esecrabile  tiranno,  e 
ricordassero,  quasi  con  compiacenza,  la  sua  fine 
terribile.  Pei  Padovani,  in  modo  particolare, 
egli  era  stato  qualche  cosa  di  così  straordina- 
riamente mostruoso  per  la  sua  efferata  crudel- 
tà, che  la  fantasia  popolare,  lui  vivente,  ave- 
va incominciato   a   ricamare    intorno    alla   sua 


1)  Rer.  Hai.  Script.  Voi.  IX. 


CAPITOLO   NONO  321 

origine  e  intorno  a  lui  stesso  delle  favole  non 
meno  mostruose,  per  far  vedere  eh'  egli  non 
era  della  stessa  pasta  di  tutti  gli  altri  uomi- 
ni ;  egli  cosi  nemico  del  genere  umano  !  Da 
ciò  la  leggenda  che  fosse  stato  generato  per 
opera  del  demonio. 

Tutti  questi  racconti,  ripetuti  di  continuo  alle 
orecchie  del  giovinetto  Mussato,  non  potevano 
non  fare  grandissima  impressione  suU'  animo 
di  lui  ed  eccitargli  la  fantasia,  che  da  natu- 
ra aveva  sortito  pronta  e  vivace.  La  terribile 
figura  del  tiranno,  quale  noi,  non  senza  ribrez- 
zo, ammiriamo  nella  sua  tragedia,  dev'  esser- 
si fin  d'allora  disegnata,  a  poco  a  poco,  nella 
sua  mente  ;  al  giovinetto  poeta  non  restava 
che  di  trovare  la  forma  sotto  la  quale  presen- 
tarla ai  lettori. 

E  la  forma  fu  ben  presto  trovata. 

Dicemmo  che  nella  sua  giovinezza,  dopo  la 
morte  del  padre,  dovette  esercitare  1'  ufficio  di 
copista,  per  provvedere  il  giornaliero  sostenta- 
mento a  sé  ed  ai  fratelli.  Per  esercitare  quel- 
r  ufficio  era  necessaria  la  conoscenza  della  lin- 
gua latina,  la  quale  conoscenza,  per  l' eserci- 
zio stesso,  doveva  aumentare  di  giorno  in  gior- 
no ;  sicché  in  breve  egli  dovette  essere  in  gra- 
do di   gustare    i   mighori    scrittori  latini    allo- 

21 


322  ALBERTINO    MUSSATO 

ra  conosciuti.  «  In  sulle  prime  —  osserva  il 
Dall'  Acqua  Giusti  —  dovettero  piacergli  le 
tragedie  di  Seneca,  tragedie  sulle  cui  decla- 
mazioni si  declamerà  sempre  senz'  altro  esame, 
essendo  difficile  che  qualche  critico  voglia  leg- 
gerle per  sceverare  le  molte  gonfiezze  retori- 
che da  alcune  bellezze  innegabili  » .  Quella  for- 
ma gli  parve  convenire  al  suo  soggetto,  ed  egli 
se  ne  fece  imitatore. 

Ch'  egli  sia  stato  studioso  delle  tragedie  di 
Seneca,  è  cosa  comprovata  dal  fatto  che  in  un 
codice  di  quelle,  come  accennammo  nel  capi- 
tolo antecedente,  gli  argomenti  di  ciascuna  tra- 
gedia sono  scritti  da  lui.  Ora,  perch'  egli  s'in- 
ducesse a  far  questo  lavoro,  è  necessario  am- 
mettere che  di  quelle  tragedie  abbia  fatto  uno 
studio  particolare  ').  Ci  affrettiamo,  del  resto, 
a  soggiungere  che  l'imitazione  si  riduce  alla 
sola  forma  esteriore  ;  il  contenuto  è  ben  diver- 
so da  quello  delle  tragedie  di  Seneca. 

Nel  Mussato  il  concetto  è  affatto  originale. 


1)  Nota  Alessandi'o  d'Ancona:  «Albertino  Mussato  non 
avrebbe  scritto  il  suo  Ezzelino  se  non  avesse  proseguito 
di  lungo  studio  e  di  grande  amore  queir  autore  dram- 
matico, che  r  età  media  conobbe  e  meditò  sopra  tutti 
gli  altri:  vo'  dire  lo  scrittore,  qualunque  ei  siasi,  delle 
tragedie  che  vanno  sotto  il  nome  di  Seneca».  Origini 
del  teatro  italiano  Voi.  I.  Successori  Le  Mounier,  1877. 


CAPITOLO   NONO  323 

è,  come  scrive  il  Settembrini,  un  concetto  più 
largo  che  quello  dei  Greci,  ed  è  proprio  il  con- 
cetto del  dramma  moderno,  meno  armonioso, 
ma  più  vasto  ed  ardito  '). 

Per  questo  rispetto  la  tragedia  del  Mussato 
è  di  gran  lunga  superiore  a  tutte  le  tragedie 
di  Seneca,  né  può  considerarsi  una  semplice 
imitazione  di  quelle,  come  fu  detto  troppo  leg- 
germente. 

Riguardo  all'epoca  nella  quale  fu  scritta, 
nota  il  Dall'Acqua  Giusti,  che  vi  si  trova  l'uso 
di  alcune  parole,  sulla  cui  legittimità  classica 
possono  essere  messi  dei  dubbi,  ciò  che  non 
avviene,  o  avviene  in  tutt' altro  modo,  nelle 
altre  opere  dell'autore,  nuovo  indizio  questo 
dell'  anteriorità  dell'  Eccerinis. 

Ma,  se  ciò  è  vero,  per  qual  ragione  il  Mus- 
sato tardò  a  pubblicarla  fino  oltre  al  cinquan- 
tesimo anno  dell'età  sua?  Non  sarebbe  stato 
più  opportuno  che  V  avesse  messa  in  luce,  ap- 
pena composta  ;  allorché  ne'  Padovani  era  più 
fresca  la  memoria  delle  atrocità  commesse  dal 
Vicario  imperiale  contro  di  loro  ? 

Questa  sarà  stata  dapprima  l' intenzione  del 
poeta  ;  ma,  compiuto  il    lavoro,    si    sarà   forse 


1]  Lezioni  di  Lederalura  italiana.  Gap.  XXVII. 


324  ALBERTINO    MUSSATO 

accorto  che  gli  animi  de'  suoi  concittadini  si 
erano  fatti  più  calmi,  e  che  l' avversione  all'  Im- 
pero andava  di  giorno  in  giorno  scemando,  spe- 
cialmente nella  nuova  generazione,  alla  quale 
egli  pure  apparteneva.  Interrogato  l'animo  suo, 
questo  gli  avrà  risposto,  che  non  era  conve- 
niente richiamare  alle  menti  tristi  ricordi  e 
risvegliare  nei  cuori  odii  sopiti,  tanto  più  che 
qualche  bene  avrebbe  potuto  derivare  air  Ita- 
lia dall'  Impero,  il  quale  alla  fin  fine,  chi  ben 
considerasse,  non  era  stato  l' unica  causa  dei 
mali  che  1'  avevano  travagliata  fino  a  quel 
punto.  C  era  perfino  chi  tentava  scusare  Ez- 
zelino delle  sue  crudeltà,  considerandolo  come 
vendicatore  piuttosto  che  come  autore  di  scel- 
leratezza ').  Che  se  negli  ultimi  suoi  anni  si 
era  mostrato  feroce  oltre  ogni  dire,  la  colpa 
n'  era  del  partito  guelfo,  che  gli  era  stato  sem- 
pre fieramente  avverso,  ed  aveva  commesso  di 
ogni  maniera  scelleratezze  contro  i  suoi.  In 
breve,  se  Ezzelino  aveva  fatto  del  male,  e'  era 
stato  tirato  pei  capelli  ^). 

Più  tardi  la  elezione  di  Enrico  VII  e  la  sua 


1)  Vedi  r  Epistola  V  del  Mussato,  della  quale  abbia- 
mo fatto  parola  nel  capitolo  antecedente. 

2)  Il  Verci  nella  sua  Storia  degli  Eccelini  teata  an- 
ch'egli  di  scusare  Ezzelino  111. 


CAPITOLO  ^•0N0  325 

venuta  in  Italia  trattennero  ancor  più  il  No- 
stro dal  far  pubblico  il  suo  lavoro.  Egli  eh 3 
aveva  riposto  tante  speranze  in  quell'  Impera- 
tore, pel  quale  sentiva  affetto  sincero  ed  am- 
mirazione grandissima,  come  avrebbe  potuto 
dargli  argomento  di  sospettare  sulla  sincerità 
dei  sentimenti,  che  gli  avea  professato  a  viva 
voce  nelle  ambasciate  ?  Di  più  quella  tragedia, 
posto  che  fosse  stata  accolta  favorevolmente 
dai  suoi  concittadini,  li  avrebbe  dissuasi  ancor 
più  dal  rendersi  amico  V  Imperatore,  cosa  che 
sarebbe  stata  affatto  contraria  ai  suoi  deside- 
rii,  mentr'egli  non  vedeva  altra  via  di  salvezza 
che  quella  d'unirsi  a  lui  più  strettamente  che 
fosse  possibile. 

Morto  sul  più  bello  della  sua  impresa  En- 
rico VII,  le  cose  cambiarono  d'aspetto.  Can- 
grande,  novello  Ezzelino,  rninacciava  la  rovi- 
na di  Padova.  I  cittadini  lo  vedevano  aggi- 
rarsi intorno  alle  mure  della  città,  come  leo- 
ne affamato  che  s' aggira  intorno  alla  preda 
per  cogher  il  momento  opportuno  di  divorarla. 
Tutte  le  sevizie  commesse  da  Ezzelino  contro 
i  loro  padri  ritornavano,  con  terribile  evidenza, 
alla  memoria  dei  Padovani,  ed  essi  fremevano 
al  pensiero  di  dovere,  un  giorno  o  l' altro,  ri- 
maner vittime  del  Vicario  imperiale  di  Verona. 


326  ALBERTINO   MUSSATO 

In  que'  giorni,  dopo  una  lotta  sanguinosa  e 
fatale  ai  Padovani,  era  stata  conchiusa  la  pace 
con  Cangrande;  ma  una  pace  foriera  di  più. 
grave  tempesta. 

Ognuno  era  perplesso,  ognuno  vedeva  l'im- 
minente rovina.  Gli  animi  avevano  bisogno  di 
essere  rialzati,  di  essere  colmati  d' odio  verso 
colui  che  tendeva  insidie  alla  libertà  della  pa- 
tria, perchè,  all'occasione,  potessero  resistergli 
fino  all'estremo.  Quale  momento  più  opportu- 
no per  pubblicare  1'  EcceUinide  ? 

In  Ezzelino  i  Padovani  avrebbero  ravvisato 
Cangrande;  nelle  sevizie  da  quello  commesse, 
le  crudeltà  che  questi  avrebbe  usato  coi  vinti, 
allorché  si  fosse  fatto  Signore  di  Padova.  Di- 
nanzi a  un  quadro  così  spaventoso,  gii  animi 
di  tutti  sarebbero  stati  compresi  di  terrore,  ed 
ognuno  avrebbe  giurato  di  morire,  piuttosto  che 
cadere  nelle  mani  dello  Scahgero. 

Il  Mussato,  mosso  da  vero  sentimento  di  pa- 
tria, piuttosto  che  da  desiderio  di  gloria,  non 
contento  di  aver  cooperato  al  bene  della  Re- 
pubblica colla  parola  eloquente  nelle  concioni  e 
nelle  ambasciate,  e  colla  spada  nel  campo,  volle 
tentare  di  giovarle  anche  con  questo  mezzo  ;  e, 
per  meglio  riuscire  nel  nobile  intento,  volle, 
senza  dubbio,  fare  alla  sua  tragedia  alcune  mo- 


CAPITOLO   NONO  327 

dificazioni  ed  alcune  aggiunte,  le  quali  allu- 
dessero chiaramente  alla  condizione  di  Pado- 
va a'  quei  giorni  rispetto  a  Cangrande  ed  a 
Cangrande  istesso.  Neil'  esame  che  faremo  della 
tragedia  potremo  accorgerci  facilmente  di  queste 
allusioni. 

Per  esse  la  tragedia,  la  quale,  pubblicata 
innanzi,  non  poteva  riuscire,  col  semplice  ricor- 
do dei  fatti  passati,  che  un  utile  ammaestra- 
mento per  l'avvenire,  diveniva,  con  le  nuove 
modificazioni  ed  aggiunte,  un  lavoro,  come  si 
direbbe  oggigiorno,  di  piena  attualità,  che  non 
poteva  non  destare  nei  Padovani  il  massimo 
interesse,  e  farli  fremere  di  sdegno,  ed  infiam- 
marli dell'  amore  della  libertà.  Più  che  la  rap- 
presentazione dei  Persiani  di  Eschilo  sulF  ani- 
mo degli  Anteniesi,  dev'  essere  stata  efficace 
la  lettura  àQÌV EcceyHnis  sull'animo  dei  Padova- 
ni. Le  memorie  di  Maratona  e  di  Salamina  era- 
no, è  vero,  ancor  fresche,  quando  Eschilo  fa- 
ceva rappresentare  la  sua  tragedia  in  Ate- 
ne, ma  i  Persiani  non  mettevano  più  tanta  pau- 
ra; mentre  non  solo  la  memoria  di  Ezzelino 
era  ancor  fresca  pei  Padovani  ;  ma  un  altro 
Ezzelino,  e  non  meno  formidabile,  loro  sovra- 
stava. Per  tutte  queste  ragioni  la  tragedia  ha 
un'importanza  storica  grandissima.  Non  è  poi 


328  ALBERTINO  MUSSATO 

improbabile  che  il  Mussato  l' abbia  riveduta  an- 
che letterariamente.  Una  certa  ineguaglianza 
di  stile  —  osserva  il  Dall'Acqua  Giusti  — 
sembra  annunziarlo. 

Nell'atto  primo  Adeleita  svela  ai  figli  Ez- 
zelino ed  Alberico  il  terribile  arcano  della  loro 
nascita,  non  senza  prima  venir  meno  per  l' or- 
rore dell'infame  ricordo.  Riposava  ella  nell'e- 
burneo talamo,  accanto  al  marito  Ezzelino  il 
Monaco,  là  nella  rocca  di  Romano  ;  quand'  ec- 
co, sulla  prima  ora  della  notte,  ndi  un  mug- 
gito dal  profondo  della  terra,  come  ne  scop- 
piasse il  centro  e  s'aprisse  il  caos,  mentre  al 
di  sopra  rimbombava  il  cielo.  Un  vapore  di 
solfo  si  diffuse  per  V  aria  e  si  restrinse  in  nube, 
e  un'improvvisa  luce,  simile  a  quella*  del  ful- 
mine seguito  dal  tuono,  illuminò  la  casa  ;  la 
fumosa  nube  involge  il  letto  e  lo  riempi  di 
fetore,  ed  ella  si  sentì  avvinta  e  pressa  da 
ignoto  adultero.  Era  grande  costui  come  un 
toro,  aveva  la  corna  adunche  sul  capo  irsuto 
e  incoronato  di  setolose  ispide  chiome;  sangui- 
gna lue  gli  colava  da  entrambi  gli  occhi  ;  le 
narici  con  frequenti  sbuffi  vomitavano  fuoco,  e 
le  faville  gli  salivano  ai  larghi  orecchi  ;  la  bocca 
anch'  essa  vibrava  leggera  fiamma,  e  continuo 
fuoco  gli  lambiva  la  barba. 


CAPITOLO  NONO  329 

Poiché  tal  mostro  ebbe  sazie  le  sue  voglie, 
con  gran  rovina  si  lanciò  dal  letto,  e  si  profondò 
nel  terreno.  Da  questo  infame  congiungimento 
nacque  Ezzelino,  dopoché  la  madre  lo  portò  nel 
grembo  per  dieci  lunghi  mesi  di  lagrime^,  di  an- 
goscio e  di  dolori.  La  sua  nascita  fu  mostruo- 
sa ;  egli  apparve  fanciullo  cruento,  foriero  di 
strage,  minacciante  con  la  fronte  crudele,  ed 
annunziante,  terribile  a  vedersi  I  atroce  porten- 
to. Alberico  anch'  egli  nacque,  con  egual  stu- 
pro, dal  medesimo  adultero. 

Ezzelino,  nonché  sentirsi  compreso  di  orro- 
re, incoraggia  il  fratello,  che  sembra  titubante, 
e  «  arrossiresti,  o  stolto,  gli  dice,  di  tanto  pa- 
dre? Rinnegheresti  l'origine  divina?  Siamo  pro- 
le di  Dei.  Nemmen  Romolo  e  Remo,  ch'ebbero 
Marte  per  padre,  possono  vantarsi  di  progenie 
così  elevata.  Maggior  Dio  e  di  più  vasto  re- 
gno è  il  padre  nostro ,  re  delle  vendette  ;  al 
suo  cenno  i  potenti,  i  principi ,  i  re ,  i  duchi 
scontano  le  pene  ;  nel  paterno  foro  saremo  giu- 
dici degni,  se  colle  opere  vendicheremo  il  re- 
gno del  padre ,  a  cui  piacciono  le  guerre ,  le 
morti,  le  stragi,  le  frodi,  gli  inganni  ed  ogni 
danno  dell'uman  genere». 

Detto  ciò,  Ezzelino  scende  nell'  ima  parte  del- 
la   casa ,  ove    non    penetra    raggio   di    luce,  e 


330  ALBERTINO   MUSSATO 

prostrato  bocconi  al  suolo,  morde,  digrignando 
i  denti,  la  dura  terra,  e  con  fiera  voce  invoca 
il  padre  Lucifero.  L'invocazione  -  come  ben  dice 
r  Emiliani  Giudici  -  pare  concepita  da  Mil- 
ton '). 

La  traduco  letteralmente  :  «  0  cacciato  da- 
gli astri,  già  risplendente  in  cielo  sul  mattino, 
padre  superbo  che  tieni,  triste  regno ,  il  caos 
profondo,  e  sotto  il  cui  impero  i  morti  scon- 
tano i  delitti,  dall'imo  speco  accogli,  o  Vulca- 
no ,  le  degne  preci  del  supplicante  figlio  :  io, 
tua  certa  e  indubitata  prole,  t'invoco.  M'empi 
del  tuo  spirito,  esperimenta  se  può  qualche  cosa 
r  innata  volontà  che  ferve  entro  il  mio  petto. 
Lo  giuro  per  le  livide  e  nere  acque  di  Stige, 
io  negai  sempre  Cristo,  l'abborrito  Cristo,  odiai 
sempre  il  nome  della  croce  a  me  nemico.  Mi 
sieno  compagne  al  fianco  le  ministre  dei  de- 
litti; li  consigli  Aletto,  Tesìfone  li  spieghi,  in 
truci  atti  prorompa  la  crudele  Megera  e  la  diva 
Persefone  assecondi  le  mie  imprese.  Non  man- 
chi nessuno  che  aneli  alla  rapina,  né  nessuno 
degli  spiriti  infernali  ;  essi  incitino  gli  animi 
all'ire,  agli  odii  ed  all'invidie.  A  me  si  dia  la 
spada  sanguinosa:  io    stesso  solo  esecutore    fi- 


M  Stoì'ia  della  letteratura  italiana  -  Lezione  Vili. 


CAPITOLO   NONO  331 

nirò  le  liti  ;  la  mano  sicura  non  tremerà  per 
nessun  delitto.  Acconsenti,  o  Satana,  e  approva 
un  tal  figlio». 

Al  Mercantini  uno  dei  traduttori  in  versi 
deìVEccermis  ^),  pare,  né  forse  a  torto,  che 
questa  bellissima  apostrofe  sia  alquanto  offesa 
dairartifiziata  distinzione  degli  uffici  che  dovreb- 
bero fare  verso  Ezzelino ,  Tesifone  ,  Megera , 
Aletto,  alle  quali  si  aggiunge  anche  Persefone, 
che  il  traduttore  ha  creduto  bene  di  togliere, 
<3ome  soverchia,  dalla  traduzione  ').  Tutta  que- 
sta scena,  del  resto,  che  noi  abbiamo  cercato 
di  far  conoscere  letteralmente,  è  quanto  di  più 
bello  nel  suo  genere  si  possa  immaginare  ;  è 
tale,  quale  avrebbero  potuto  concepirla  soltanto 
i  maggiori  tragici  greci  o  il  grande  tragico 
inglese. 

Il  realismo  che  vi  predomina  ricorda  quello 
di  alcuni  canti  della  Divina  Commedia,  rea- 
lismo efficace  ed  altamente  artistico. 


1)  Tre  SODO  le  traduzioni  italiane  in  versi  di  questa 
tragedia,  a  me  note.  Una  del  Mercantini,  che  è  la  meglio 
verseggiata,  una  del  Dall'Acqua  Giusti,  che  è  la  più  fe- 
dele all'originale,  ed  una  di  Federico  Balbi  che,  non  ostan- 
te qualche  tratto  l'elice,  avrebbe  bisogno  di  essere  rive- 
duta dal  traduttore. 

2)  Ezzelino  Iragedia  latina  di  Albertino  Mussato 
da  PrtcZoua  tradotta  da  Luigi  Mercantini -Palermo  1868. 


332  ALBERTINO    MUSSATO 

L'atto  si  chiude  con  un  Coro,  nel  quale  le 
allusioni  a  Cangrande,  ai  nobili,  ai  potenti,  alla 
plebe  sono  evidenti.  Cangrande,  non  contento  di 
avere  allargato  il  suo  dominio  colla  conquista  di 
Vicenza,  anelava  pure  alla  conquista  di  Padova. 
Il  Coro  canta  :  «  Qual  mai  furore  ti  commuove, 
o  razza  dei  mortali?  ove  presumi  di  salire? 
quale  ambizione  ti  trasporta  ?  non  essere  troppa 
ingorda.  Perchè,  affrontando  mille  pericoli, 
cerchi  di  raggiungere  il  lubrico  soglio?  Mei 
credi:  tu  non  vai  in  cerca  che  di  paure  e  di 
continue  minacce  di  morte  ;  la  paura  e  la 
morte  sono  compagne  alla  tirannide.  Ma  che 
vale  rammentare  queste  cose  ?  Tant'è  :  cosiffat- 
to é  l'animo  umano!  quando  possiede  un  be- 
ne, ne  vuole  uno  maggiore,  e  non  è  mai  sa- 
zio». Chi  vorrà  negare  che  queste  parole  non 
potessero  essere  applicate  a  Cangrande?  E,  ri- 
volgendosi ai  nobili,  il  Coro  continua  ;  «  E  voi, 
o  nobih,  l'atroce,  ardente  invidia  vi  trascina 
nelle  contese  ;  non  soffrite  che  nessuno  vi  sia 
pari  » .  Non  è  improbabile  che  il  poeta,  con  que- 
sti versi,  prendesse  di  mira  i  Carraresi,  che 
agognavano  a  divenire  signori  di  Padova  :  «  E 
noi,  prosegue  il  Coro,  plebe  vilissima  aggiun- 
giamo stimolo  ai  potenti  ;  alziamo  quelli  alle 
stelle,  gettiamo  questi  nella   polvere,  facciamo 


CAPITOLO   NONO  333 

leggi  e  patti,  e  poi  li  disfacciamo,  tendiamo  reti 
a  noi  stessi,  diamo  aiuti  fatali,  siamo  schermo 
fallace,  e  coloro  che  in  noi  si  fidano  ne  pagano 
quindi  il  fio  colla  strozza,  traendo  seco  noi  pure  ; 
essi  cadono,  e  noi  cadiamo  con  essi:  cosi  gira  la 
ruota  continuamente,  e  nulla  dura».  Qui  il  poe- 
ta pare  voglia  alludere  alle  stragi  poco  prima 
avvenute  degli  Alticlini  e  degli  Agolanti.  U 
Coro  termina:  «Ahi  perchè  freme  questa  no- 
bile Marca  Trivigiana?  Da  ogni  parte  risuo- 
nano trombe  guerresche,  il  ridestato  furore  in- 
fiamma le  genti  e  le  trae  da'  suoi  riposi  ;  i  cit- 
tadini abbandonano  i  queti  ozii  ;  tal  frutto  or- 
rendo produsse  la  pace.  Bolle  il  sangue  impe- 
tuoso e  chiede  battaglie,  le  fazioni  commettono 
apertamente  delitti,  si  chiede  il  ferro  alle  città, 
violata  è  la  giustizia  ».  Quest'era  la  condizione 
precisa,  nella  quale  s'era  già  trovata,  a  cagio- 
ne di  Cangrande,  la  Marca  Trivigiana,  e  nella 
quale  dovea  trovarsi  ancora,  poco  appresso  la 
pubblicazione  deWBccerims. 

Nell'atto  secondo  un  Nunzio  narra  al  Coro, 
come  Ezzelino  abbia,  con  inganni  ed  astuzie, 
sottomessa  Verona  al  proprio  giogo,  e  come  la 
nobile  città  di  Padova,  comprata  a  prezzo,  ob- 
bedisca al  tiranno.  «Già  il  feroce  vi  tiene  lo 
scettro  col  titolo  superbo  di  Vicario  imperiale  ; 


334  ALBERTINO  MUSSATO 

egli  minaccia  ai  popoli  stragi,  carceri,  roghi, 
croci,  tormenti,  morti,  esilii  e  farai  crudeli.  Ma 
Dio  punisce  le  scelleratezze,  e  i  Nobili,  che  ven- 
dettero la  patria,  ne  pagano  essi  per  primi  la 
meritata  pena  !  »  Quale  ammonimento  severo 
per  coloro  che  avevano  in  animo  di  patteggiare 
con  lo  Scaligero  la  cessione  della  città  !  Nel 
racconto  del  Nunzio  sono  frequenti  gli  accenni 
a  Cangrande  e  alla  lotta  di  Padova  con  lui  ; 
talune  esclamazioni  sono  minacce  terribili  agli 
astanti  :  «  0  atroci  odii  de'  Nobili,  esclama  il 
Nunzio,  0  furore  del  popolo,  è  giunto  il  fine 
desiderato  delle  vostre  liti.  Il  tiranno ,  cui  ci 
diede  la  vostra  rabbia ,  è  qui  !  »  Parlando  di 
Verona,  sede,  prima,  di  Ezzelino  e,  quando  fa 
pubblicata  la  tragedia,  di  Cangrande,  il  Nun- 
zio così  si  esprime  :  «  0  Verona,  o  antica  scia- 
gura di  questa  Marca ,  soglia  di  nemici ,  via 
aperta  ad  ogni  guerra,  sede  del  tiranno,  o  che 
il  tuo  sito  sia  acconcio  alla  guerra ,  o  che  il 
suolo  per  se  stesso  produca  tal  razza  di  uo- 
mini». Allusione  a  Cangrande  più  evidente  di 
questa  non  si  potrebbe  desiderare  ;  egli  è  certo 
che,  air  udirla ,  gli  ascoltatori  dimenticavano , 
per  un  momento,  Ezzelino,  e  correvano  tutti, 
col  pensiero,  allo  Scahgero. 

Ciò  appunto  desiderava  il  poeta.  Il  Coro,  che 


CAPITOLO   NONO  335 

chiude  quest'atto,  si  volge  a  Cristo  che,  assiso 
alla  destra  del  Padre  e  assorto  nei  gaudii 
del  cielo,  forse  non  degna  guardare  ciò  che 
avviene  sotto  gli  astri.  «Perchè,  esso  dice,  se 
udisti  il  lamento  che  si  levò  a  te  dal  sangue 
di  Abele,  se  punisti  col  fuoco  le  sozzure  di  So- 
doma e  di  Gomorra,  perchè,  o  Moderatore  del 
giusto,  non  guardi  agli  errori  degli  uomini  pre- 
senti ?  »  Questa  apostrofe  a  Cristo  richiama  alla 
memoria  quella  di  Dante  nel  Canto  VI  del 
Purgatorio  : 

E^  se  licito  m'ò,  o  sommo  Giove, 
Che  fosti  in  terra  per  noi  crocifisso, 
Son  li  giusti  occhi  tuoi  rivolti  altrove?  ecc. 

Il  Coro  enumera  quindi  le  crudeltà  commesse 
da  Ezzelino  :  «  11  fratello,  per  accondiscendere 
al  tiranno,  uccide  il  fratello,  il  figliuolo  sotto- 
pone colle  proprie  mani  le  fiamme  al  rogo  del 
padre  ;  né  ciò  bastando  all'ira  del  feroce,  egli 
stesso  comanda  che  i  fanciulli  sieno  evirati,  af- 
finchè perisca  il  seme  della  prole  futura,  e  che 
alle  donne  vengano  tagliate  le  mammelle.  Un 
coro  d'innocenti  dentro  le  cune  geme  mutilato 
con  labbro  inesperto,  ed  acciecato  cerca  la  luce 
nelle  tenebre  fitte».  Tale  enumerazione  di  de- 
litti  ricorda  quella  che    il    poeta ,  parlando  di 


336  ALBERTINO   MUSSATO 

Ezzelino,  fa  nell'Epistola  V  ^).  E  qui  giova  no- 
tare come  il  Mussato  si  ripeta  talvolta  ne'  suoi 
versi,  mutando  appena  qualche  vocabolo. 

L'atto  terzo  si  apre  con  una  scena  tra  Ez- 
zelino ed  Alberico,  che  si  narranno  a  vicenda 
le  conquiste  già  fatte,  e  parlano  di  quelle  che 
hanno  in  animo  di  fare.  «Verona,  Vicenza  e 
Padova,  dice  Ezzelino^,  già  obbediscono  al  mio 
comando;  ma  io  vo'  andare  più  innanzi.  La 
promessa  Lombardia  m' invoca  a  Signore ,  ed 
io  stimo  d'averla.  Né  qui  voglio  arrestarmi: 
r  Italia  intera  deve  essere  mia.  Né  ciò  mi  ba- 
sta ancora:  volgerò  i  miei  vessilli  all'oriente, 
dove  cadde  un  giorno  Lucifero  mio  padre ,  e 
dove  forse,  fatto  potente,  io  mi  vendicherò  del 


1}  Canta  il  Coro  : 

Proli  dolor!  patrem  rogitat  cremandum 
Natus,  ardentes  subici tque  flammas. 
lUe  tantum  scelerum  superstes 
Aspirans  sfevas  Ecerinus  iras, 
Prolis  ut  semen  pereat  futurte, 
Censet  infantum  genital  recidi, 
Foeminas  sectis  ululare  mammis. 

E  nelI'Epistsla  V. 

Vidi  ego  vivorum  pendentia  corpora  patrum 
Suppositis  arsisse  rogis,  natosque  paventes 
Taiibas  officiis  diro  placuisse  Tyranno. 
Vagitus  infantum,  et  foemineos  ululatus 
Uberibus  sectis,  et  csesa  virilia  quis  non 
Viderit  ad  vetitas  in  ssecula  posterà  proles? 


CAPITOLO    NONO  337 

cielo.  Cotanta  guerra  non  mossero  un  tempo 
a  Giove  né  Tifeo,  né  Encelado,  né  nessun  ai- 
altro  gigante.  Poi  volgerò  ad  Austro  le  mie 
bandiere,  dove  di  mezzogiorno  sfolgora  il  sole  ». 
Alberico,  alla  sua  volta ,  dice  che  Treviso  è 
già  sua,  e  che,  appena  si  sarà  impadronito  di 
Feltro,  muoverà  verso  il  Friuli  e  sottometterà 
tutte  le  genti  del  settentrione.  Ma  ciò  è  poco 
al  suo  desiderio  :  vincerà  ancora  la  triplice 
Gallia  e  quella  parte  d'Occidente  dove  il  sole 
si  tuffa  nel  mare.  Ezzelino,  per  meglio  ingan- 
nare i  nemici,  lo  consiglia  a  fìngersi  adirato 
con  lui.  Questa  falsa  apparenza  trarrà  quinci  e 
quindi  molti  fuorusciti  a  perire.  Sia  lungi  sempre 
la  fede  e  la  pietà  dagli  atti  nostri  »  !  La  più 
parte  degli  storici,  anche  contemporanei  ad  Ez- 
zelino, dubitano,  che  questa  inimicizia,  che  durò 
diciott'anni,  fosse  soltanto  apparente  ;  eh'  essa 
fosse  reale  lo  dimostrano  i  fatti  e  i  documenti. 
Nella  scena  seconda  entra  dapprima  Zira- 
monte,  fratello  naturale  di  Ezzelino,  per  annun- 
ziare che  a  Monaldo  fu  tagliata  la  testa  sulla 
pubblica  piazza,  e  che  nessuno  s'è  ribellato.  Ez- 
zelino ne  gioisce:  «  Abbiam  vinto,  esclama,  ora 
n'è  lecita  ogni  cosa,  la  città  senza  difesa  é  ab- 
bandonata al  nostro  ferro.  Tutti  i  nobili  peri- 
scano insieme  colla  plebe  » .  jMonaldo,  osserva  in 

22 


338  ALBERTINO    MUSSATO 

una  nota  alla  sua  versione  dell'  Eccerinls  il  Dal- 
l'Acqua  Giusti,  potrebbe  essere  dei  Lemizzoni 
soprannominato  Capodivacca.  Questo  Monaldo 
fu  il  primo  che  aveva  proposto  fossero  aperte 
ad  Ezzelino  le  porte  di  Padova;  poi  congiurò  e 
fu  decapitato  ^).  Entra  quindi  un  Frate  Luca, 
il  quale  parla  di  Dio  ad  Ezzelino,  che  mostra 
dapprima  di  non  conoscere  chi  sia  questo  Dio, 
e  poi  viene  a  conchiudere  che  s'Egli,  pur  avendo 
la  potenza  di  rintuzzare  le  opere  sue,  permette 
che  le  compia,  vuol  dire,  lui  essere  venuto  al 
mondo  per  suo  comando,  affine  di  vendicare  le 
scelleratezze.  «Difatti  Iddio,  a  punire  le  inique 
genti,  mandò  sovr'esse  diluvi,  grandini,  insetti, 
fuoco  e  fame,  come  attesta  la  Scrittura,  e  alle 
città  tiranni  che  ruotassero,  senza  freno,  le  spade 
nel  sangue  dei  popoli.  Nabucco,  Faraone,  Sani- 
le, Alessandro,  Nerone  di  quante  stragi  non  in- 
sanguinarono il  mondo!  di  quanto  sangue  non 
tinsero  il  mare!  Eppure  Iddio,  che  ciò  vedeva, 
non  li  trattenne,  ma  permise  che  facessero». 
Queste  parole  in  bocca  di  Ezzelino  sono  la  giu- 
stificazione medesima  che  delle  sue  crudeltà  face- 
vano i  suoi  partigiani.  Fa  meraviglia  del  resto 
ch'egli,  il  quale,  nel  primo  atto,  va  superbo  di 

\)  Verci.  Storia  degli  Eccelini  Libro  XIX. 


CAPITOLO  NONO  339 

sapersi  figlio  del  demonio  e  dice  di  odiare  Cri- 
sto e  il  nome  della  Croce,  qui  si  consideri  come 
strumento  di  Dio,  e  ne  meni  vanto.   Chi  fosse 
frate  Luca  non  è  dato  precisare.  Il  Settembrini 
dice  che  forse  fu  Sant'Antonio  di  Padova;  ma 
non  è  di  questo  avviso  il  Mercantini,  il  quale, 
con  maggiore  probabilità  di  aver  colto  nel  se- 
gno, scrive  che  Frate  Luca  è  personaggio  sto- 
rico, e  certamente  quel  frate  Luca  Belludi  pa- 
dovano,  che   fu   discepolo  di   Sant'Antonio,    il 
quale  era  morto  già  da  più  anni,  quando  Ez- 
zelino ebbe  Padova.  Forse  non  è  né  l' uno  né 
l'altro.  I  frati,  e  specialmente  i  Minori,  erano 
nemici  implacabili  di  Ezzelino,  e,    come  scrive 
il  Verci,  non  avevano  timore  di  presentarsi  a 
lui  e  di  rimproverarlo  audacemente  de' suoi  mali 
portamenti,  e  minacciarlo  ancora  se  faceva  bi- 
sogno.  Osserva  poi  il  Dall'  Acqua  Giusti  che  le 
parole  di  Frate  Luca  ricordano  espressioni   di 
epistole  di  Papi  a   Ezzelino,   come   si  può   ve 
dere  in  alcuni  documenti  pubblicati  dal  Verci  ^) 
Entra  un  Nunzio  e  reca  ad  Ezzelino  Tinfau 
sta  nuova  che  una  grossa  schiera  di  esuli  pa 
dovani  e  ferraresi,  preceduta  dal  legato  del  Papa 
ha,  col  favore  dei  Veneziani,  occupata  Padova 


1)  Cod.  Diplom.  Eccl.  doc.  CXXIV  e  CCCXI. 


340  ALBERTINO   MUSSATO 

Freme  Ezzelino  di  sdegno,  e  comanda  che  al 
Nunzio  sia  mozzato  un  piede,  premio  condegno 
alla  riferta.  Gli  storici  dicono  che  Io  fece  im- 
piccare ad  un  albero.  In  quella  entra  Anse- 
disio,  il  quale  conferma  la  notizia.  «E  tu  so- 
pravvivi, gli  grida  Ezzelino,  tu  la  cui  faccia  il- 
lesa è  indizio  della  colpa?  Vattene:  per  te  la 
morte  non  è  pena  che  basti».  Ansedisio  infatti, 
per  avere  vilmente  abbandonata  la  città  che  gli 
era  stata  affidata  e  verso  la  quale  s'era  mo- 
strato più  feroce  di  Ezzelino  stesso,  fu  fatto 
morire  in  mezzo  ai  tormenti.  I  soldati  consi- 
gliano Ezzelino  a  chiudere  i  Padovani  in  un 
carcere  a  Verona  e  a  minacciarli  di  morte.  Ac- 
corra quindi  rapido  a  Padova  e  la  stringa  d'as- 
sedio :  la  fortuna  gli  si  volgerà   propizia! 

L' atto  termina  con  uno  stupendo  coro,  forse 
il  più  bello  della  tragedia.  Dopo  un  breve  esor- 
dio sul  bugiardo  antivedere  degli  uomini,  esso 
narra  l'inutile  tentativo  del  tiranno  di  assalire 
Padova.  «Ecco  rapido  vola  l'atroce  Ezzehno,  e 
trova  Padova,  avvezza  un  giorno  al  suo  giogo, 
nemica  e  sprezzatrice  de' suoi  comandi.  Vuol  cin- 
gerla d'armi,  e  spinge  i  suoi  alle  rive  del  fiume. 
Gli  sta  di  contro  un'ordinata  schiera  di  soldati 
che  gli  fissano  gli  occhi  in  faccia.  Egli  urla,  im- 
va  sfociando  con  bestemmie  la  sua  rab- 


CAPITOLO   NONO  34  L 

bia  feroce.  Poiché  non  gli  rimane  più  alcuna 
speranza  d' aver  la  città,  volge  indietro  il  caval- 
lo e  leva  il  campo.  Torna  in  fretta  a  Verona,  a 
sfogare  l'ira  sua  nelle  stragi.  Fa  morire  nelle 
segrete  di  fame  e  di  sete  i  padovani  prigionieri 
e,  per  tal  modo,  toglie  la  vita  a  undicimila.  I 
carri  trascinano  corpi  sformati,  cui  nessun  più 
ravvisa.  La  madre  più  non  raffigura  il  figlio, 
la  moglie  il  marito;  si  confondono  le  lagrime 
sugli  estinti  ;  la  terra  non  basta  a  coprire  tanti 
cadaveri  ;  il  lezzo  corrompe  l' aria.  Mira  il  ti- 
ranno, e  si  lagna  della  mite  sentenza,  mentre 
rimane  ancora  chi  rinnovi  la  schiatta  pado- 
vana» ^). 

Mirabile  è  veramente  questo  Coro,  che,  nella 
sua  brevità ,  rappresenta,  con  tanta  efficacia , 
una  cosi  terribile  scena;  i  Padovani  non  pote- 
vano non  fremere  di  orrore  all'udirlo  recitare. 
Alcuni  degli  ultimi  versi,  osserva  il  Mercantini, 


1)  M'è  parso  bene  di  tradurre  a  questo  modo  i  due 
ultimi  versi  del  Coro: 

Spectator  queritur  iudicii  parura, 

Dum  restat,  Patavum  quod  reparet  genus. 

Il  Mercantini  li  interpreta  diversamente,  allontanan- 
dosi, a  mio  giudizio,  dal  concetto  del  poeta: 

Mancan  gli  spettatori^  appena  avanza 
Chi  a  Padova  ravvivi  il  nobil  seme 
Di  sua  cittadinanza. 


342  ALBERTINO   MUSSATO 

fanno  ricordare  quel  luogo  di  Tacito  in  cui  è 
descritto  il  compianto  dei  Romani  che  trovano 
le  ossa  di  Varo  e  della  sua  legione  distrutta 
da  Arminio. 

L'atto  quarto  comincia  con  un  monologo  di 
Ezzelino,  il  quale  dice  che  Padova  sarà  vinta 
a  suo  tempo.  Nella  scena  seconda  un  Nunzio 
narra  al  Coro,  come  Ezzelino,  avendo  occupata 
Brescia  col  favore  dei  Cremonesi,  rotta  la  fede, 
ne  li  abbia  esclusi,  ed  abbia  pure  teso  insidie 
di  morte  a  Pallavicino,  che  gli  era  amico.  Lu- 
singato dai  nobili,  si  rivolse  quindi  a  Milano, 
sperando  di  penetrarvi  ad  inganno  ;  ma  fu  de- 
luso nella  sua  speranza.  Cremona,  Mantova, 
Ferrara,  Buoso  e  Pallavicino  aveano  giurato 
insieme  la  sua  rovina.  «  I  Collegati  s' apposta- 
no al  varco  dell'Adda,  donde  Ezzelino  avrebbe 
dovuto   retrocedere;    dall'altra    parte    l'audace 


Peggio  Federico  Balbi: 

eppur  uà  santo 
Pensier  l'alme  conforta!  alla  primiera 
Vita  Padova  riede,  e  questo  in  breve 
Sangue  riface  che  il  crudel  le  beve. 

11  Dall'Acqua  Giusti  s'avvicina  più  di  tutti  alla  vera 
interpretazione: 

Il  Tiran  ciò  mira,  e  dice 
La  sentenza  troppo  umana, 
Finché  resti  la  radice 
Della  schiatta  padovana. 


CAPITOLO   NONO  343L 

Martino  della  schiatta  dei  Torriani,  circondato 
da'  suoi,  ricaccia  indietro  il  vecchio  tiranno,  che 
dubitante  retrocede  all'  Adda  ;  ma  viste  al  ponte 
le  nemiche  insegne  rimane  incerto.  Digrigna  i 
denti,  come  lupo  satollo  inseguito  dai  cani,  che 
ruota  gli  occhi  ed  ha  la  spuma  alla  bocca. 
Racchiuso  da  ogni  parte,  non  vuole  avventu- 
rarsi air  ineguale  conflitto;  il  ponte  occupato 
gli  nega  il  passo,  e  quinci  e  quindi  i  nemici, 
pronti  alla  lotta ,  lo  provocano  con  gli  ol- 
traggi. Mentre  egli  cerca,  indugiando,  da  qual 
parte  fuggire,  una  freccia  gli  trapassa  il  piede 
sinistro.  Chiede  ai  soldati  il  nome  del  luogo. 
Questo  è  il  fiume  Adda,  gh  viene  risposto,  e 
questo  il  guado  di  Cassano.  Ahi  Cassam,  As- 
sara,  Bassam qui  la  mia  morte,  grida  Ez- 
zelino ;  me  l' hai  predetto,  o  madre  !  Ciò  detto, 
sprona  il  cavallo ,  scende  nelf  onde ,  tocca  la 
riva  opposta  e  addita  a'  suoi  la  via.  Ma  pronta 
una  schiera  di  soldati  gli  sta  di  contro,  che  fa 
strage  de'  suoi.  Ezzelino  resiste  invano  ;  è  pre- 
so. Uno ,  né  si  sa  chi  sia  stato ,  gli  fracassa 
d' un  colpo  la  testa.  Tratto  di  là,  rifiuta  ogni 
farmaco,  e  muore  minacciando  con  la  fronte 
terribile.  Volontario  egli  scende  alle  ombre  in- 
fernali del  padre,  ed  in  Soncino  una  tomba 
racchiude  il  suo  cadavere  » . 


.344  ALBERTINO    MUSSATO 

A  questa  narrazione,  alla  quale  il  Coro  pre- 
sta l'attenzione  più  viva,  come  dimostrano  le 
domande  colle  quali  interrompe  tratto  tratto 
il  Nunzio  0  lo  eccita  a  proseguire,  tien  dietro 
un  inno  di  ringraziamento  a  Dio  per  la  morte 
del  tiranno  e  pel  ritorno  della  pace. 

Qui  la  tragedia  dovrebbe  aver  fine  ;  ma  il 
poeta  non  è  pago  :  vuole  aggiungere  ancora 
un  atto,  in  cui  venga  narrato  lo  sterminio  di 
tutta  la  famiglia  degli  Ezzelini.  Egli  è  forse 
per  questo  che  ha  intitolato  la  tragedia  Ecce- 
rinis,  Eccelinide,  come  ben  traduce  il  Dall'Ac- 
qua Giusti,  e  non  Ezzelino,  come  hanno  tra- 
dotto gli  altri. 

L'  atto  quinto  è  una  sola  scenn .  «  Alberico  - 
così  narra  il  Nunzio -a  tal  rovescio  non  veden- 
dosi sicuro  da  nessuna  parte  -  poiché  come  non 
aveva  serbato  fede  ad  alcuno,  cosi  non  l' ebbe 
da  nessuno  —  si  rifugiò  nella  forte  rocca  di  San 
Zenone,  insieme  con  la  moglie  e  i  figli  tutti. 
Tre  città,  avide  di  vendetta,  Treviso,  Vicenza 
e  Padova  s'accamparono  intorno  al  monte; 
ad  esse  si  uni  il  marchese  Azzo  con  gli  altri 
illustri  Signori  della  Marca.  Ma  poiché  a  quei 
di  dentro  non  rimaneva  speranza  di  resistere, 
e  già  serpeggiava  la  sedizione  ed  incalzava  la 
fame,  e  la  paura  della    morte  era  imminente. 


CAPITOLO   NONO  345 

la  rocca  fu  presa  senza  lotta.  Le  schiere  ir- 
rompono nel  castello;  un  bambino  viene  strap- 
pato dalle  poppe  della  madre,  preso  per  i  piedi 
e  sbattuto  il  molle  capo  contro  un  duro  tronco: 
schizzano  le  cervella,  e  il  sangue  sprizza  in  volto 
alla  madre;  Ezzelino  Novello,  fanciullo  di  tre 
anni,  corre  incontro  ad  uno  che  ha  la  spada  in 
pugno,  chiamandolo  zio,  e  quegli; -Tuo  zio  c'in- 
segnò di  dare  a' suoi  nepoti  tal  dono  -  e  gli  se- 
ga la  gola,  e  per  far  nota  a  tutti  l'immane  sua 
scelleratezza,  affigge  sopra  una  lunga  asta  lo 
squallido  capo  che  increspa  le  labbra  e  ruota 
gli  occhi,  mentre  insozza  di  sangue  la  mano 
di  chi  lo  porta;  altri  frattanto  dilania  il  fegato 
palpitante  ^).  Alberigo,  suU'  alto  della  rocca,  vie- 
ne nelle  mani  del  popolo,  e  mentre  sta  per  vol- 
gere parole  ingannatrici  al  volgo,  gli  vien  sbar- 
rata con  un  freno  V  aperta  bocca,  e  viene  tra- 
scinato vivo  a  contemplare  l'eccidio  de'suoi.  Ed 
ecco  la  sua  donna,  strappata  all'alte  sue  stanze 
dalla  turba  feroce,  venire  innanzi  con  le  chiome 


1)  In  questa  narrazione  mancano  evidentemente  al- 
cuni versi,  poicliè  dice  il  Nunzio  :  «Tale  fu  la  dira,  atroce, 
orrida  strage  dei  tre  tìgli  maschi  di  Alberico: 

Hsec  masculina  prolis  Albrici  hon-ida 
Sic  dira  et  atrox  triplicis  clades  fuit; 

mentre  non  è  narrato  che  il  supplizio  di  due  soli. 


346  ALBERTINO   MUSSATO 

diffuse,  gli  occhi  al  cielo  e  le  mani  avvinte  da 
stretta  fune.  Dietro  a  lui  cinque  vergini,  prole 
consacrata  alle  fiamme,  erano  tratte  anch'esse 
coi  capelli  disciolti,  innanzi  agli  occhi  paterni. 
Rinfacciando  i  crudi  atti  commessi,  s' accalca  il 
volgo  intorno  a  costoro,  come  turba  di  caccia- 
tori intorno  a  rapaci  lupi,  se  li  abbia  costretti 
dentro  la  tana:  ricorda  i  danni  commessi,  aizza 
i  cani,  e,  a  bella  posta,  indugia  la  strage  per 
vieppiù  gustarla  ').  Ardeva  un'alta  catasta  di 
grosse  roveri  ;  le  faci  sottoposte  spandevano 
odor  di  pece,  e  il  pingue  olio  diffuso  alimen- 
tava le  fiamme;  il  fumo  copriva  d'oscura  nube 
il  cielo.  Il  fuoco  rumoreggiava  al  par  del  tuono, 
gli  antri  gemeano,  sicché  ognuno  credeva  es- 
sere là  dentro  il  Dio  dell'inferno:  parean  boc- 
che di  fornaci  che  vomitassero  fiamme.  Oh  mi- 
serando spettacolo  agli  occhi  dei  genitori!  Dap- 
prima viene  posta  sul  rogo  la  schiera  delle  in- 
nocenti. Non  appena  il  fuoco  offese  i  giova- 
netti seni  ed  arse  le  bionde  chiome,  balzano 
indietro  chiedendo  aiuto  ai  genitori  ...  ma  que- 


1)  Patrata  memorans  damna  et  adducens  canes. 
A  caede  gratas  sponte  subducens  moras. 

Il  Mercantini  traduce  non  bene: 

E  già  i  feroci 
Mastini  aizzan,  perchè  tarda  a  tutti 
L'  ebrietà  del  sangue. 


CAPITOLO   NONO  347 

sti  non  possono  abbracciarle  .  .  .  Una  vana  spe- 
ranza quinci  e  quindi  raggira  le  forsennate.  Ma 
tosto  il  feroce  littore  mette  loro  addosso  le  mani 
violente,  e  trascinando  insieme  con  esse  anche 
la  madre,  le  sospinge  sul  rogo».  «E  con  qual 
volto  -  domanda  il  Coro  -  sostenne  Alberico,  poi- 
ché parlar  non  potea,  lo  strazio  della  moglie 
e  delle  fighe?». 

«L'atroce,  quasi  per  gioco,  scuoteva  il  capo, 
mostrando  coi  cenni  come  ciò  gli  importasse  po- 
co. Allora  più  dardi  a  gara  fischiarono  su  lui. 
Fuvvi  chi  gli  cacciò  la  spada  nel  destro  fianco  e 
uscir  la  fece  dal  sinistro;  largo  sangue  fluì  da 
entrambe  le  ferite;  un  altro  gii  fulmina  un  fen- 
dente sul  collo  e  ne  spicca  la  testa,  che  mor- 
mora rotolando  per  terra  ;  il  tronco  stette  va- 
cillante a  lungo  pria  di  cadere;  il  volgo  strac- 
ciò a  brani  le  membra,  e  le  diede  in  pasto  ai 
cani  » . 

Non  ho  saputo  astenermi  dal  riprodurre  per 
intero  e  quasi  letteralmente  la  narrazione  del 
Nunzio,  che  è  quanto  di  più  terribile  si  possa 
immaginare.  Del  resto  se  il  poeta  ha  saputo  dare 
al  quadro  la  tinta  più  conveniente  e  disporre 
le  figure  nel  modo  migliore,  ciò  che  in  esso  rap- 
presenta non  è  parto  della  sua  fantasia.  1  fatti 
erano  troppo  recenti,  perch'egli  potesse  scostarsi 


?AS  ALBERTINO    MUSSATO 

dalla  pura  verità.  La  tragedia  pertanto,  oltre 
il  valore  poetico,  ha  un  valore  storico  grandis- 
simo, da  meritare  -  e  di  ciò  ben  s'avvide  il  Mu- 
ratori -  di  essere  considerata,  in  gran  parte,  co- 
me documento  per  la  storia.  Il  Coro  chiude  la- 
tragedia  coir  incoraggiare  i  buoni  ad  aver  fede. 
«Se  la  fortuna  talvolta  innalza  il  malvagio, 
la  legge  per  ciò  non  erra  ;  ognuno  sarà  rime- 
ritato secondo  le  opere  sue.  V'ha  un  giusto  Giu- 
dice, ora  severo  or  mite,  che  premia  i  buoni  e 
punisce  i  malvagi  ;  ai  primi  è  serbato  il  cielo, 
ai  secondi  V  inferno  » . 

Come  ognun  vede,  in  questa  mirabile  trage- 
dia la  narrazione  prevale  sull'  azione,  e  le  fa- 
mose regole,  falsamente  attribuite  ad  Aristotile, 
sono  violate  di  continuo,  specie  quelle  risguar- 
danti  le  unità  di  tempo  e  di  luogo.  In  quanto 
al  tempo,  l'azione  si  estende  almeno  per  due 
anni,  e  in  quanto  al  luogo,  essa  si  svolge  -  se 
non  sempre  per  ciò  che  viene  rappresentato,  per 
ciò  che  viene  narrato  -  dapprima  in  Verona,  poi 
in  Padova,  poi  di  nuovo  in  Verona,  poi  in  Mi- 
lano, poi  a  Soncino  e  finalmente  nel  Castello 
di  San  Zenone.  L'azione,  più  che  gli  ultimi 
anni  di  Ezzelino,  abbraccia  tutta  la  vita  di  lui, 
toccandone  i  punti  principali  dalla  nascita  alla 
morte;  né  qui  s'arresta,  ma  termina  coll'ecci- 


CAPITOLO   NONO        .  349 

dio  della  famiglia  di  Alberico.  Accanto  al  pro- 
tagonista, se  non  in  piena  luce  come  lui,  sorge 
un'altra  figura,  quella  di  Alberico,  la  quale  nel- 
r  ultimo  atto  rivolge  a  sé  tutta  l'attenzione  de- 
gli uditori.  Per  tutte  queste  ragioni  e  per  altre 
ancora,  i  vecchi  scrittori,  fatta  eccezione  di  po- 
chi, ^)  danno  della  tragedia  un  giudizio  sfavo- 
revole. Per  tacere  di  altri,  il  Tiraboschi  vede 
in  essa  che  «l'autore  si  sforza  non  infelicemente 
d' imitare  lo  stile  di  Seneca  ;  ma  un  cattivo  ori- 
ginale non  potea  fare  che  una  più  cattiva  co- 
pia. Infatti  le  tragedie  del  Mussato  [V  Ecceri- 
nis  e  V  AchiUeis;  di  questa  noi  diremo  più  in- 
nanzi) non  hanno  alcuno  dei  pregi,  che  a  un  tal 
genere  di  componimenti  sono  richiesti,  e  han 
tutti  quasi  i  difetti  che  soglionsi  in  essi  ripren- 
dere tf  ;  il  Ginguenè  la  chiama  una  cattivissima 
tragedia  sotto  ogni  rispetto  ~),  e  il  Colle  dice 
che  «chi  esamini  questa  tragedia  la  troverà 
tutt'  altro  che  un  lavoro  non  dirò  perfetto,  ma 
tollerabile  nel  suo  genere,  non  degno  certamente 
di  quegli  elogi  che  prodighi  gli  profondono  lo 
Scardeone  ed  il  Vossio» .  Secondo   lui  la   tra- 


1)  Fra  questi  pochi  è  giusto  ricordare  lo  Scardeone, 
il  Vossio,  il  Mafifei,  il  Napoli-Siguorelli. 

2)  C'est  donc  à  tous  égard  une  forte  mau^aise  tra- 
gedie —  Tom.  IV.  pag.  14,  Paris  1813. 


350  ALBERTINO    MUSSATO 

gedia  pecca,  oltre  che  nel  protagonista  e  con- 
tro le  unità  di  luogo  e  di  tempo,  nella  forma 
e  nell'interesse  del  dialogo,  «giacché  la  mas- 
sima parte  si  eseguisce  per  mezzo  di  messag- 
geri che  narrano  colla  frapposizione  soltanto  di 
qualche  cW  su,  narra,  come  avvenne  ;  ma  pecca 
molto  più  per  essere  priva  quasi  affatto  di  azio- 
ne, di  sviluppo,  di  scioghmento». 

Quale  differenza  tra  questi  giudizi  e  l' entu- 
siasmo col  quale  ne  parlano  gli  storici  moderni 
della  nostra  letteratura!  Essi  non  badano  più 
che  tanto  alle  regole  violate  ;  essi  ammirano  il 
concetto  elevato  del  poeta,  e  riconoscono  in  lui 
la  potenza  di  Dante  e  di  Michelangelo  nel  ma- 
nifestarlo. Che  importa  che  il  latino  sia  rozzo, 
che  i  trapassi  sieno  scabri,  che  l'arte  faccia 
sovente  difetto  all'artista!  Alcuni  tratti  magi- 
strali sono  compenso  bastante  a  questi  difetti, 
e  se  VEccerinis  non  è  un  lavoro  finito,  è  come 
una  statua  di  Michelangelo  rimasta  sbozzata. 
Il  Coro  poi  è,  quasi  sempre,  d'una  bellezza  li- 
rica non  comune  e,  come  nota  il  Settembrini, 
«vi  sta  meglio  che  in  tutte  le  tragedie  moderne, 
perchè  esprime  appunto  quello  che  presso  i  Gre- 
ci, il  riflesso  dell'azione  nella  coscienza  popo- 
lare; il  Coro  vi  è  attore  e  narratore;  è  parte 
insomma  integrale  del  dramma». 


CAPITOLO   NONO  351 

E  questo  dramma  fu  egli  mai  rappresen- 
tato? Non  esiste  nessun  documento,  il  quale  ci 
provi  ch'esso  sia  stato  posto  sulla  scena.  I  più 
son  d'avviso  che  non  sia  mai  stato  rappresen- 
tato, ma  semplicemente  letto,  e  citano,  a  soste- 
gno della  loro  opinione,  i  versi  coi  quali,  dopo 
la  prima  scena,  il  poeta  entra  a  narrare,  come 
Ezzelino  sia  disceso  nell'ima  parte  della  casa, 
ad  invocare  Lucifero  suo  padre: 

Sic  fatus  ima  parte  recessit  domus 
Petens  latebras,  luce  et  exclusa  caput 
Tellure  pronum  sternit  in  faciem  cadeas 
Tunditque  solidam  dentibus  freadens  humum, 
Patremque  saeva  voce  Luciferum  ciet. 

Un'altra  prova,  a  convalidare  la  loro  ipotesi, 
la  trovano  in  un  verso  dell'Epistola  I,  dove  il 
poeta    dice,    che  se  Roma  non  vorrà    porlo    a 
fianco    de'  suoi    poeti,    egli    verrà   letto  almeno 
nella  sua  città  :    Hac  salteni  palava    tutiis    in 
urbe  legar,   e  in  un  altro   verso    dell'Epistola 
IV ,  dove  dice    essere  stato  decretato,  eh'  egli 
dovesse  essere  letto  sempre  nella  sua  città  .  . 
ut  nostra  seniper  in  urbe  legar.  Noi  osservia 
mo  inoltre  che  la  tragedia,  pel  modo  stesso  col 
quale  è  condotta,  non  poteva  essere  rappresen 
tata  ;    due   atti  soltanto ,  il  primo  ed   il  terzo 
sono  veramente  drammatici,   gli  altri  non  sono 


352  ALBERTINO    MUSSATO 

che  dialoghi  tra  il  Nunzio  ed  il  Coro.  Tutte 
queste  ragioni  bastano,  parmi,  a  convincere  che 
la  tragedia  non  fu  mai  rappresentata;  essa  ve- 
niva semplicemente  letta  sul  teatro  colla  modu- 
lazione del  canto,  nel  modo  istesso  che  veni- 
vano letti  i  tre  libri  in  versi  De  Gesti's  Ita- 
Ucorum  'post  Henricum  VII  Ccesarem.  Nel 
Prologo  al  libro  IX,  il  poeta,  volgendosi  alla 
società  palatina  dei  notai,  scrive:  «Voi  mi  dite 
che  le  grandi  imprese  dei  Re  e  dei  Duci,  per 
meglio  adattarle  alla  inteUigenza  del  volgo,  si 
sogliono  stringere  a  misura  di  piedi  e  di  sil- 
labe, ed  esporre  sul  teatro  e  sulla  scena  colla 
modulazione  del  Canto:  et  in  theairis  et  pul- 
pitis  caniilenarwn  moduìatione  proferri,  e  nel 
Centone  Ovidiano  al  figlio:  I  miei  poemi  furono 
cantati  sovente  dal  popolo  fra  le  danze  e  di- 
lettarono spesso  i  tuoi  occhi  : 

....  mea  sunt  populo  saltata  poemata  saepe  : 
Saepe  oeulos  etiam  detinuere  tuos. 

Fra  questi  poemi  è  compresa  la  tragedia , 
ed  è  chiaro  che  venisse  semplicemente  cantata 
sulla  scena;  che  se  il  canto,  com'è  detto  nel 
Centone,  era  accompagnato  dalla  danza,  è  na- 
turale che  offrisse  spettacolo  agli  occhi  degli 
uditori.  L'Ezzelino,  scrive  Zanella,  più  che  una 
tragedia  è  Tinno  della  libertà  padovana.  Come 


CAPITOLO   NONO  353 

tale  pare  a  me  pure  debba  essere  considerato. 
Le  sue  bellezze  infatti  sono  più  veramente  li- 
riche, e  però  veniva  pubblicamente  cantato  come 
un  inno  di  Tirteo  e  di  Pindaro. 

Al  Mussato  fu  pure  attribuita  falsamente, 
per  lungo  tempo,  un'altra  tragedia:  V  Achillcis. 
L'errore  provenne  dal  fatto  che  l'OsiO;,  avendo 
trovata  in  un  codice  questa  tragedia  dopo  V  Ec- 
cerinis,  la  pubblicò  come  opera  del  Nostro.  Que- 
sto errore  data  dal  secolo  XVII,  e  a  confer- 
marlo valse  l'autorità  del  Muratori,  del  Maf- 
fei  e  del  Tiraboschi,  che,  senza  muovere  alcun 
dubbio,  ritennero  del  Mussato  entrambe  le  tra- 
gedie. Il  professore  Giuseppe  Todeschini  di  Vi- 
cenza in  una  dotta  sua  lettera  ^)  provò  lumi- 
nosamente non  essere  VAchilleis  opera  del  poeta 
padovano,  bensì  del  vicentino  Antonio  Loschi, 
che  la  compose  verso  la  fine  del  secolo  XIV. 
Non  è  pertanto  del  nostro  compito  l'occuparci 
di  essa. 

Torniamo  dlVEccerinis.  Nota  l'Emiliani  Giu- 
dici: «La  forma  latina,  in  cui  è  scritta  la  tra- 
gedia   del    Mussato,    ammirata    da'   contempo- 


1)  Del  vero  autore  della  tragedia  V  Achille  attri- 
buita ad  Albertino  ^lussato,  Lettera  di  Giuseppe  Tode- 
schini al  Chiarissimo  Sig.  Professore  Ab.  Antonio  Mene- 
ghelli  -Vicenza  1832. 

23 


354  ALBERTINO  MUSSATO 

ranei  e  secondata  dagli  sforzi  de'  posteri ,  che 
afifannavansi  a  riprodurre  il  dramma  dotto  in 
una  stagione  non  ancora  adatta_  a  gustarlo, 
non  ebbe  influenza  diretta  sul  popolo  che  con- 
tinuò ad  appassionarsi  vie  maggiormente  alle 
sue  sacre  rappresentazioni».  L'osservazione  è 
giusta  ;  il  popolo  infatti  più  non  intendeva  a 
quel  tempo  la  lingua  latina.  Che  ciò  sia  vero 
lo  prova,  con  tutta  evidenza,  il  Gloria  nel  suo 
importante  ed  erudito  studio:  Del  Volgare  il- 
lustre dal  secolo  VII  fmo  a  Dante.  Egli,  dopo 
aver  m'ostrato  che  nel  secolo  X  il  linguaggio 
parlato  si  teneva,  e  doveva  essere,  un  linguag- 
gio diverso  dal  latino,  soggiunge:  «parmi  che 
il  volgo  allora  e  anche  qualche  secolo  prima, 
non  dovesse  intendere  il  latino  stesso.  Certo  non 
lo  intendeva  nel  secolo  XII.  Una  carta  del  1 189 
dice  che  il  patriarca  d'Aquileia  predicò  in  quel 
r  anno  e  in  buona  lingua  latina  nella  Chiesa 
delle  Carceri,  villaggio  padovano,  ma  che  Ge- 
rardo vescovo  di  Padova  dovette  spiegare  quella 
predica  in  volgare  al  popolo  astante  che  nulla 
aveva  inteso».  L'Ambrosoli,  toccando  in  un  suo 
scritto  della  tragedia  del  Mussato,  osserva  : 
«Scrivere,  com'egli  fece,  in  latino  una  trage- 
dia sugli  Ezzelini,  non  fu  tutt'uno  come  chia- 
mar la  moltitudine  a  udir  qualche  cosa  di  gran 


CAPITOLO   KONO  355 

momento;  e  poi  susurrarla  alF orecchio  di  po- 
chi? ') 

E  come  si  spiega  Tentusiasmo  che  destò  quel- 
la tragedia,  tosto  che  fu  pubblicata?  Noi  sap- 
piamo quali  feste  furono  fatte  al  poeta,  quale 
onore  gli  fu  decretato,  e  come  l'intera  città  ri- 
suonasse del  suo  nome.  Tutto  questo  ci  fareb- 
be sospettare,  che  il  suo  lavoro  fosse  compreso 
e  gustato,  non  solo  dalle  persone  colte,  ma  an- 
che dal  popolo.  Una  prova  della  celebrità,  sta- 
rei per  dire,  della  popolarità  acquistata  dairj^c- 
cerinis  l'abbiamo  nel  fatto,  che  i  Cortusii,  nella 
loro  Cronaca,  fanno  parlare  il  tiranno  colle  pa- 
role stesse  della  tragedia  ') ,  il  che  dimostra 
pure,  se  ce  ne  fosse  bisogno,  l'importanza  sto- 
rica di  quel  lavoro.  Ora  se  la  lingua  latina  non 
era  intesa  dal  popolo,  come  poteva  questo  en- 
tusiasmarsi al  sentir  leggere  o  cantare  quei 
versi  ^). 


1)  Considerazioni  generali  sulla  Storia  della  Lett.  Ital. 
Voi.  IV.  Manuale  di  St.  della  Letteratura. 

2)  Lib.  I.  Gap.  III.  e  IV. 

3)  Che  il  popolo  non  intendesse  il  latino  ce  lo  dice  il 
Mussato  stesso.  Noi  sappiamo  com'egli  sia  stato  indotto 
a  scrivere  in  versi  1  libri  IX,  X  e  XI  delle  cose  italiche 
dopo  la  morte  di  Eurico  VII  dalla  Società  palatina  dei 
notai  di  Padova,  affinchè  quei  libri  potessero  essere  letti 
dai  notai  e  dai  chiericuzzi,  mentre  gli  altri,  scritti  in 
prosa,  avrebbero  servito  ai  più  dotti;  abbiamo  anche  os-^ 


356  ALBERTINO    MUSSATO 

Se  il  Mussato  ebbe  feste  ed  onori  per  la 
pubblicazione  della  tragedia,  ciò  avvenne  per 
iniziativa  dei  dotti,  i  quali  erano  in  grado  di 
valutarne  il  merito  ;  il  popolo  non  ha  fatto  che 
assecondare  quella  iniziativa,  e  tanto  più  di 
buon  grado,  inquantochè  si  trattava  di  un  uo- 
mo accetto  ai  più  per  aver  cooperato  al  bene 
della  patria,  e  che  tornava  allora  dall'  esser 
stato  prigioniero  di  Cangrande,  contro  il  quale 
aveva  combattuto  da  valoroso.  In  quanto  poi 
al  comprendere  la  tragedia,  ammesso  pure  che 
il  comprenderla  non  fosse  privilegio  di  pochi, 
che  anche  le  persone  di  mezzana  cultura  sa- 
ranno state  in  grado  di  comprenderla  e  di  gu- 
starla, egli  è  certo  che  il  popolo  non  poteva 
capirla  assolutamente.  Forse    sarà    stata    spie- 


servato  parer  strano  che  i  versi  latini  fossero  allora  più 
facilmente  intesi  che  la  prosa.  Forse  che  il  Mussato  riu- 
scisse a'  suoi  contemporanei  più  chiaro  e  più  facile  nei 
versi  che  nella  prosa;  forse  che  unendosi  in  quelli  alla 
chiarezza  la  soavità  del  metro,  come  osserva  il  Tiraboschi, 
anche  i  men  colti  potessero  leggerli  con  piacere.  Ma 
quello  che  a  noi  importasi  è  che,  parlando  del  linguaggio 
che  intende  usare  ne"  suoi  versi,  il  poeta  vuole  che  suoni 
facile  e  quasi  intelligibile  al  volgo:  molle  et  vulgi  in- 
tellectioni  propinquum,  il  che  vuol  dire  che  se  poteva 
essere  inteso  dai  meno  dotti,  come  i  notai  e  i  chiericuzzi, 
non  era  tale  ancora  che  il  volgo  Io  potesse  intendere; 
prova  evidente  che  il  volgo  più  non  comprendeva  il  latino. 


CAPITOLO    NONO  357 

gata  ad  esso  in  qualche  occasione  dai  dotti  ;  ma 
è  più  probabile  che  la  ritenesse  senz'altro  un 
gran  che  per  le  lodi  che  ne  intendeva  fare  da 
quelli. 

E  non  poteva  il  Mussato  far  uso  del  vol- 
gare nella  sua  tragedia?  Nota  il  Dall'Acqua 
Giusti  che  chiedere  oggidì  al  Mussato  perchè 
usasse  il  latino  ;,  sarebbe  anacronismo.  Ma  la 
lingua  italiana  non  era  di  già  formata  ?  La 
Divina  Commedia  scritta  in  que'  giorni  è  lì  a 
provarlo  ;  né  il  volgare  illustre  risiedeva  sol- 
tanto in  Firenze  ;  ma  era  comune  a  tutte  le 
città  d'Italia.  «Il  linguaggio  parlato,  scrive  il 
Gloria,  giunto  ad  essere  volgare  quasi  del  tutto 
Lei  secolo  X,  si  guastò  sempre  più  nella  bocca 
delle  plebi  ignoranti,  mentre  dagli  uomini  colti 
si  conservò  d'un  tipo  corretto  nella  essenza  e 
nella  forma  per  tutta  Itaha».  Questo  suo  pa- 
rere egli  sostiene  con  molte  e  sode  ragioni,  e 
ciò  che  più  mi  fa  piegare  ad  esso  si  è,  che 
s'accorda  perfettamente  con  quanto  dice  l'Ali- 
ghieri nel  suo  De  vulgari  eloquio  ^),  cosicché. 


1)  Di  questo  avviso  non  è,  fra  gli  altri,  Alessandro 
Manzoni,  il  quale  in  una  lettera  a  Ruggero  Bonghi,  ten- 
tò dimostrare  come  l'opinione,  che  Dante,  nel  De  vul- 
gari eloquio,  abbia  inteso  di  definire,  o  abbia  definito 
quale  sia  la  lingua  italiana,  opinione  talmente  radica- 


358  ALBERTINO   MUSSATO 

dopo  il  ragionamento  del  Gloria,  quel  libretto 
non  pare  più    pieno  di  sconcordanze  e  dettato 


ta,  che  non  si  suppone  generalmente  che  possa  neppure 
essere  messa  in  dubbio,  sia  falsa,  e  conviene  col  Boc- 
caccio, il  quale,  nella  sua  Vita  di  Dante,  dice  che  que- 
sti «già  vicino  alla  sua  morte,  compose  un  libretto  iù 
prosa  latina,  il  quale  egli  intitolò  De  vulgari  eloquen- 
tia  dove  intendeva  di  dare  dottrina  a  chi  imprender  la 
volesse,  del  dire  in  rima».  Alla  lettera  del  Manzoni  ri- 
espose con  altra  il  valente  G.  B,  Giuliani,  il  quale  alle 
sentenze  di  Dante,  citate  dal  Manzoni  a  conferma  del 
suo  asserto,  mette  in  riscontro,  con  tutta  riverenza,  al- 
tre sentenze  dello  stesso  Dante,  dalle  quali  si  discende 
a  conclusioni  diverse.  Egli  afferma  che  Dante  nel  suo 
Trattato  volle  bensì  dare  specialmente  dottrina  del  dire 
in  rima,  ma  che  non  escluse  da  cotal  benetìzio  i  Pro- 
satori. Dice  che  sarà  il  vero  che  Dante  non  abbia  in- 
teso di  detìnire  quale  sia  la  lingua  italiana,  ma  che  non 
può  consentire  nell'opinione  che  non  l'abbia  al  modo 
suo  definita  di  fatto,  e  che  anzi  in  esso  Trattato  non 
si  parli  di  lingua  italiana,  né  punto,  né  poco,  come 
vorrebbe  il  Manzoni.  Gino  Capponi  scrisse  anch'egli  al- 
cune gravissime  parole  al  suo  degno  amico  Alessandro 
sul  Concetto  di  Dante  intorno  al  volgare  illustre,  la 
conchiusione  delle  quali  è  che  l'Alighieri  «scrisse  il  li- 
bro De  vulgari  eloquio  non  a  vendetta  contro  a  Firen- 
ze, ma  come  colui  che  le  incertezze  o  insuftìcienze  quan- 
to all'uso  della  lingua  tentava  risolvere,  ad  essa  guar- 
dando, come  di  fuori,  per  dottrina  e  speculazione:  va- 
gante Italiano  cercava  un  Volgare  che  in  nessun  luo- 
go riposasse ,  tuttavia  ritenendo  nello  scrivere  quel- 
lo medesimo  che  era  stato  congiungitore  de'  suoi  pa- 
renti». 11  Giuliani  non  ù  d'accordo  nemmeno  col  Cap- 
poni. 


CAPITOLO  NONO  359 

dall'odio  del  poeta  ghibellino  contro  la  sua  cit- 
tà natale,  come  stimarono  alcuni,  né  tanto  me- 
no indegno  del  nome  di  così  grande  autore. 
Che  in  Padova  poi,  come  in  tutte  le  altre  cit- 
tà d'Italia,  ci  fosse  un  volgare  illustre  fino  dai 
primordii  della  letteratura  italiana,  ci  è  dimo- 
strato all'evidenza  dalle  rime  di  Ildebrandino 
0  Bandino  quasi  contemporaneo  ai  poeti  di  Si- 
cilia, del  quale  parla  con  onore  Dante  nel  suo 
De  vidgari  eloquio,  per  essersi  quegli  «sforzato 
partire  dal  suo  materno  parlare ,  e  ridursi  al 
volgare  cortigiano  ^)  ».  Contemporaneo  a  Dante 
e,  come  ritengono  alcuni,  discepolo  a    lui,  ab- 


EglL  dice,  che  per  Volgare  illustre  l'Alighieri  vuol  de- 
notarci la  parte  più  eletta  che  si  riscontra  nel  proprio 
volgare  e  che,  mercè  l'arte  e  la  coltura  de'  Valentuo- 
mini, acquista  eccellenza,  riforbendosi  dai  rozzi  voca- 
boli, dalle  costruzioni  perplesse,  dalle  varie  difettive 
pronuncie,  dai  molti  accenti  rusticani  e  da  più  altre 
imperfezioni  degli  Idiomi,  lasciati  in  balia  della  plebe. 
Questo  Volgare -ià\e  è  il  concetto  dantesco -ove  gli 
Italiani  potessero  avere  una  sola  Reggia,  che  è  quasi  la 
casa  di  tutti  i  sudditi  e  il  diritto  comune,  dovrebbe 
quivi  essere  prescelto,  e  indi  nobilitarsi  e  prender  no- 
me di  Aulico  o  Cortigiano.  Se  poi  l'Alighieri  scrisse  il 
suo  libro  in  latino,  ciò  è  naturale  «ove  si  pensi  che  gli 
dovette  parer  necessario  di  prima  indirizzarlo  ai  Lette- 
rati, che  senza  dubbio  l'avrebbero  sgradito,  quando  fos- 
se stato  composto  in  Volgare». 

1)  Lib.  I.  Gap.  XIV.  Trad.  di  G.  G.  Trissino. 


360  ALBERTINO  MUSSATO 

tiamo  quindi  in  Padova  Antonio  da  Tempo, 
che  scrisse  in  latino  dell'arte  ritmica  volgare  ') 
e  fu  autore  di  sonetti  ^). 

Di  questi  e  di  altri  posteriori ,  fra  i  quali 
Francesco  il  Vecchio  da  Carrara,  autore  di  un 
poemetto  in  terza  rima,  fa  cenno  Antonio  To- 
lomei  in  un  suo  scritto  :  Del  volgare  illuslre  in 
Padova  al  tempo  di  Dante  ^). 

E  perchè  adunque  il  Mussato  non  ha  pre- 
ferito il  volgare  al  latino  ?  Abbiamo  di  lui  un 
sonetto  pubblicato  dal  Nevati,  che  lo  riprodus- 
se da  un  frammento  di  un  codice  di  Bobbio, 
che  si  conserva  nell'Ambrosiana  ^).  Esso  è  in 
risposta  ad  uno  amoroso  di  Antonio  da  Tem- 
po. Poiché  si  tratta  di  una  cosa  rara,  e  per- 
chè si  vegga  come  scrivesse  in  volgare  il  Mus- 
sato, stimo  opportuno  di  farlo  conoscere  ai  let- 
tori. I  due  primi  versi  sono  quasi  illeggibili, 
per  essere  guasta  la  parte  del  foglio  in  cui 
sono  scritti. 


1)  De  rythmis  vulgaribus. 

2j  Vedi  gli  scritti  :  Poeti  veneti  nel  trecento  di  F. 
Novali  e  Rime  inedile  di  Giovanni  Quirini  e  Antonio 
da  Tempo  di  S.  Morpurgo  pubblicati  nel  Voi.  1.  Fase.  II 
àoiV  Archivio  storico  per  Trieste,  V Istria  ed  il  Trentino. 

3)  Questo  scritto  dottissimo  fa  parte  del  libro:  Dante 
e  Padova. 
.   â– *)  Vedi  lo  scritto  citato  del  Novali. 


CAPITOLO    NONO  361 

R[espo]nsio  Al[ber]tini  i) 

Fora  volaro  dy  spirti  y  valore 
Per....  p[er]  le  elene  2) 
Per  la  fiumana  vostra  che  fé  mene 
Bagnar  non  raro  lor  de  la  sua  rore. 

Gli  se  segnaro  temendo  el  signore 
Che  lalma  spana  for  degni  ben  spene 
E  che  distana  qo  chel  cor  distene 
Con  Man  davaro  pò  par  che  divore. 

Die  si  non  mento  di  p[er]chò  saManta 
Amor  si  forte  ver  My  cho  soferto 
Con  luy  contento  sempre  star  con  tanta 

Voglia  che  in  sorte  tal  mi  trovo  Inserto 
Ch'io  vegno  spento  et  ancor  del  cor  spanta 
Da  sangue  asporte  questel  vero  exp[er]to. 

Come  di  sigila  cerchio  le  disoglia 

Amor  la  tiglia  par  che  del  cor  teglia  3). 

Dopo  la  lettura  di  questo  sonetto  è  facile 
capire,  senza  bisogno  di  dimostrazioni,  come  il 
Mussato   non    potesse    usare    la    nuova    lingua 


1)  Il  Nevati  riprodusse  fedelmente  in  tutte  le  sue  par- 
ticolarità la  grafia  del  m.  s.  limitandosi  a  sciogliere  le 
abbreviazioni. 

2)  La  lezione  di  questa  parola,  scrive  il  Novati,  è  molto 
incerta. 

3)  Faccio  grazia  ai  lettori  del  sonetto  di  A.  da  Tempo, 
del  quale  quello  di  Albertino,  com'era  legge,  ripete  le 
rime.  «  La  lingua  poetica  del  da  Tempo,  osserva  il  No- 
vati, ben  lungi  dall'aver  sapore  di  toscanità,  non  è  che 
un  miscuglio  di  idiotismi  veneti  e  lombardi  ». 


362  ALBERTIXO   MUSSATO 

nelle  sue  storie  e  nella  tragedia  ^).  «  Egli,  os- 
serva il  Dall'Acqua  Giusti,  si  sarebbe  trovato 
tra  mani  uno  strumento  più  indocile  del  latino, 
non  ostante  che  fosse  costretto  ad  italianizzare 
tratto  tratto  questa  lingua  d'altri  tempi  per 
manifestare  cose  nuove  e  pensieri  nuovi  » . 

Non  è  dunque  fuori  di  proposito  il  rimpian- 
to di  alcuni  che  il  Nostro  non  abbia  sortito 
i  natali  in  Firenze  ;  poiché  è  indubitato,  che 
il  volgare  illustre  aveva  raggiunto  in  Tosca- 
na un  maggior  grado  di  perfezione  che  al- 
trove, come  ne  son  prova  gli  scritti  migliori 
dei    Toscani  di   quel    tempo,  e    principalmente 


1)  In  un  mio  scritto  sul  libro  di  Licurgo  Cappelletti: 
Albertino  Mussato  e  la  sua  tragedia  Eccerinis,  che 
feci  per  incarico  avuto  dalla  R.  Accademia  di  Scienze^ 
Lettere  ed  Arti  in  Padova,  e  che  fu  pubblicato  nel  1882, 
manifestai  il  parere  contrario.  Studi  nuovi  e  più  accu- 
rati m'hanno  convinto  di  avere,  per  lo  meno,  esagerato 
nelle  mie  conclusioni.  Non  so  poi  capire  come  il  Sig.  Ugo 
Balzani  nel  suo  libro:  Le  Cronache  italiane  nel  tnedio 
evo,  Milano,  Hoepli  1884,  parlando  del  Mussato,  citi  in 
nota  questo  mio  scritto  insieme  con  quelli  del  Wychgram 
e  del  Cappelletti,  dichiarandoli  tutti  e  tre  inferiori  al 
soggetto.  11  Balzani  prende  errore.  Il  mio  non  è  che  la 
critica  di  una  parte  di  quello  del  Cappelletti,  della  parte 
cioè  nella  quale  l'Autore  tratta  delle  opere  del  Mussato, 
che  della  storica  ha  rilevato  gli  errori  il  Gloria,  uomo 
competentissimo  in  materia.  Esso  non  può  essere  per- 
tanto ne  inferiore,  ne  superiore  al  soggetto! 


CAPITOLO  NONO  363 

la  Divina  Commedia,  nella  quale,  per  la  pri- 
ma volta, 

Mostrò  ciò  che  potea  la  lingua  nostra  i). 


1)  Purgatorio,  Canto  VII. 


APPENDICE 


DOCUMENTI 
I. 

1282,  10  Ottobre.  (Autografo  n.'  28  e  31. 
T.  I.  dei  Documenti  della  famiglia  Mussato, 
n.^  746  nella  Biblioteca  del  Seminario  di  Pa- 
dova). 

In  nomine  D.  D.  eterni,  anno  eiusd.  nat.  mil- 
les.  ducent.  octuages.  secundo.  indict.  decima, 
die  decima  intrante  mensse  Octubri,  Padue  in 
contracta  Caudelonge  sub  porticu  fìliorum  q.  d. 
Viviani  de  Muxo  —  Ibique  d.  Armerina  uxor 
q.  d.  Viviani  de  Muxo  et  tidrix  fìliorum  suo- 
rum  Gualpertini,  Nicolai  et  Viviani  -  nomine 
permutationis  -  investivit  d.  Francischinum  fil. 
q.  predicti  d.  Viviani  de  Muxo  de  centrata 
Caudelonge  de  campis  decera  et  novera  et  di- 
midio  -  Et  ex  adverso  dictus   d.   Franciscus  - 


366  APPENDICE 

investivit  dictam  d.  Armerinam  de  carnpis  tre- 
decim  terre  vel  circa  aratoria  -  iacentibus  in 
territorio  de  Supracornio  -  coherent  a  mane 
heredes  q.  d.   Viviani  de  Muxo. 

Ego  Aìhertinus  Muxus  fil.  lohannis  Cava" 
lerii  precoìiis  sacri  yalatii  noi.  interfui  et  ea 
que  dixerunt  dicti  'permiUatores  intellexi  et  jus- 
su  eorum  bona  fide  scrissi. 

IL 

De  2^oet?s,  sive  de  Muxatis. 

Albertinus  Miixatus,  qui  se  fecit  poetam,  Pe- 
trus Bonus  notarius,  et  frater  Gualpertinus  fra- 
tres  fuerunt;  duo  quorum  fuerunt  filii  lohan- 
nis Cavalerii,  preconis  comitis  paduani.  Fertur 
prò  ventate  quod  hic  lohannes  Cavalerius,  uxo- 
re  grave  infirmitate  oppressa  sub  lecto  tunc 
latitavit,  quando  sacerdos  Sancti  lacobi  venite 
prò  audienda  confessione  peccatorum  illius;  at 
ipse  audiit  uxorem  confitentem,  quod  Alberti- 
nus Muxatus  erat  fìlius  Viviani  de  Muxo. 

Ille  recesso,  traxit  uxorem  per  pedes  usque 
in  lectum;  et  ipsa  que  adultera  fuit,  de  hac 
infirmitate  mortua  est.  Albertinus  Muxatus  fuit 
repetitor  scolarium,  eosque  per  scolas  padua- 
nas   mittebat  :   qui    catones    scribebat    venden- 


APPENDICE  367 

do.  Set  cum  ipse  diligenter  gramaticam  sciens 
in  palatio  paduano  conversaretur  continue  ex 
offitiis  notane  lucrandi  causa,  sapienti  Guil- 
lielmo  de  Dente  placebat  multum.  Et  cum  una 
die  Albertinus  Muxatus  per  ante  domum  Guil- 
lielmi  Dentis  transiret,  vocavit  eum  et  quesi- 
vit  si  volebat  uxorari.  At  illi  respondenti  quod 
siC;  iterura  ait:  Ego  volo  tibi  dare  unam  meam 
filiam  naturalem  et  quadringentas  libras.  Al- 
bertinus Muxatus  desponsavit  Mabiliam,  tiliam 
naturalem  Guillielmi  Dentis,  et  ex  ea  genuit 
fìlium  unum  Vitalianum  nomine,  et  plures  fi- 
lias.  Vitalianus  desponsavit  unam  filiam  Au- 
tomi de  Cona,  divitis  hominis.  Morto  Guilliel- 
mo  de  Dente  successit  ei  Vitalianus  fìlius  ejus; 
et  cum  eo  procuravit  Muxatus  quod  frater  su- 
us  malorum  morum  maleque  condictionis  frater 
Gualpertinus  ordinis  cistricensis,  de  ilio  exivit, 
et  factus  est  prior  monasterii  Urbane.  Qui,  dum 
quodam  die  iret  ad  hunc  suum  prioratum,  per 
Nicolaum  de  Capitibus  Vaccee  fuit  fortiter  ver- 
beratus.  Hic  frater  Gualpertinus,  manens  in  loco 
monasterii  Sancti  Pauli  di  Padua,  venenavit  sa- 
pientem  et  discretum  virum  Tobiam ,  priorem 
illius.  Qui  ob  istantiam  Vitaliani  de  Dente  fa- 
ctus est  nunc  hujus  loci  prior.  Set  cum  vacaret 
sedes  abbatie  Sancte  Instine   urbis  Padue,  Vi- 


368  APPENDICE 

talianus  de  Lemizis  prò  quatuordecim  millibus 
libris  parvorum  fecit  fieri  hunc  Gualpertinura 
abbatem  nominati  loci.  Et  postquam  fuit  in  pos- 
sessione hujus  abbatie,  ultra  duos  homines  fe- 
cit occidi.  Filios  ex  concubinis  habuit  plures. 
Discordiam  etiam  habuit  cum  monachis  suis, 
de  quibus  duos  fecit  mori  ;  et  non  iniuste,  quia 
ejus  tractabant  mortem:  videlicet  fratrem  Hen- 
selraum  Latronem  de  Camisano,  et  fratrem  la- 
cobum  de  Mandugavilano. 

Tantum  est  exaltatus  Albertinus  Aselus,  quod 
primitus  factus  fuit  potestas  ville  Lendenarie. 
Deturpabatur  tunc  ejus  clipeus  uno  asello  la- 
zuro  in  colore  lazuro,  Set  quum  factus  fuit  no- 
bilis  civitatis  Florentie  executor ,  tunc  dimisit 
asellum  et  iterum  clipeum  suum  fecit  deturpari, 
una  dimidietate  per  longum  illius  deducta,  la- 
zuri  et  glauci  coloris.  Eo  tempore  quo  primi- 
tus facta  fuit  pax  inter  Catulum  dela  Scala  et 
Patavos,  imposuit  sibi  sertum  elere  cum  alio- 
rum  doctorum  gramatice,  dialectice  et  medicine 
consensu  :  et  fecit  fieri  statutum,  quod  omnes 
doctores  nominatarum  scientiarum  deberent  pro- 
cessionaliter  ire  ad  domum  suam  in  festis  na- 
talis  domini  cum  dopleriis.  Doctores  magni 
gramatice,  dialectice  et  medicin  hoc  statutum 
servarunt    usque    ad   cursum   annorum    domini 


APPENDICE  369 

MCCCXVIII.  Sapiens  Zamboniis  Anclree  cora- 
posuit  librum  unum,  cuius  composicionem  hic 
Aselus  poeta  sibi  appropriavit  post  mortem  il- 
lius.  Et  quando  nomen  poete  accepit  erant  ibi 
presentes  Paganus  de  la  Turre,  episcopus  pa- 
duanus  et  nobilis  Albertus ,  dux  Saxonie  ,  re- 
ctor  studii  paduani. 

III.  *) 

Posteriorem  istis  (se.  Alano  et  Guafredo  An- 
gle) annos  supra  centum  Albertinum  Mussatum 
patavinum ,  poetam  laureatum  ac  scriptorem 
historiarum  habemus.  lana  enim,  poesis,  quae 
perdiu  sopita  iacuerat  (Cod.  iacuerit),  paulum 
excitata  erat,  et,  uti  solent  qui  somnio  pieni 
sunt,  movere  lacertos  et    aperire   oculos   cepe- 


1)  Il  Codice  Ricciardiano,  dal  quale  è  tratto  questo 
documento,  «è  un  ms.  cartaceo,  di  mano  non  calligra- 
fica del  secolo  XV,  di  f.  74  num.  antic.  Appartenne  prima 
al  Crinito  che  vi  scrisse  il  proprio  nome  (f.  I.  Petri  Cri- 
niti et  amicorwn)  poi  al  Varchi.  È  mutilo,  perchè  in 
luogo  dei  XVIII  libri  di  cui  consta  1'  opera  di  Secco,  non 
ne  contiene  che  cinque  e  il  principio  del  sesto.  Di  esso 
si  servì  il  Mehus  che  ne  trasse  le  vite  di  Dante,  Petrarca, 
Boccaccio  da  lui  pubblicate  nella  Vita  di  A.  Traversari 
(cfr.  p.  XXXIV  Specimen  histor.  lett.  Fior.  FlorenticB 
MAI  pag.  18)»  {Nota  del  Novali) 

24 


370  APPENDICE 

rat.  Matrem  hic  plebeiam,  patrem  viatorem  sibi 
ad  filami  fuisse  scribi!  ;  verum  ipse  fortunas 
parentium,  quse  nullae  magis  quam  exiles  es- 
sent,  ingenio  ejus  ac  prudentia  honestavit.  Pri- 
ma quidem  setate,  quas  litteras  didicisset,  pue- 
ros  erudivit,  panemque  aliquot  annis  munere  isto 
et  industria  mendicavit.  Hoc  in  statu,  et  tenuis- 
simo  statu,  tandem  et  vigesimum  annum  natus 
senem  {senene  (sic))  patrem  amisit,  matre  vetula, 
sorore  septenni  [septene)  uno  fratrum  trimulo , 
altero  adolescente,  vivis.  Erat  philosopbiae  opera 
daturus,  nisi  alio  deniigrare  atque  secus  quam 
animo  statuisset  flectere  ingenium  res  dome- 
stica ac  presertim  borum  alendornm  cura  et  pie- 
tas coegisset.  Itaque  sarcinis  bis  onustus,  tabel- 
las  scriptitare  primum,  inde,  lege  patria  eru- 
ditus,  patrocinari  in  caussis  coepit.  Erat  qui- 
dem  sibi  prseter  literas^  ingenium  bonum  ac  pru- 
dentia qusedam  et  facundia  naturalis,  ut  sine 
metu  se  vel  doctoribus  adsecquaret.  Opibus  (ac 
(?))  diligentia  et  artificio  cumulatis ,  vix  jam 
maturus  gravis  et  sapiens  celebratur  ista  in 
civitate,  qu8e  libera  tu  ne  et  popolosa  esset  ;  ne- 
que  domi  modo,  verum  etiam  foris  virtus  ejus 
et  fama  audita  est:  Florentise  quidem,  liberse 
ac  potentis  in  terra  italica  [italia)  urbis,  Exe- 
cutor  lustitise  (sic  appelant  magistratum)  fuit. 


APPENDICE  371 

Quocumque  in  loco  esset,  miiltuin  honoris  ac 
venerationis  addebat  metri  faciendi  ars,  quam 
tenellus  retate,  ut  solent  pueri,  primis  studiis 
percepisset  et  multa  cum  gratia  uteretur  ac 
scriberet.  Eodemque  loci  venit  quod,  rebus  edi- 
tis,  quse  nomini  suo  inscriptae  essent,  ex  sen- 
tentia  peritorura  et  maxime  Lovati,  cujus  au- 
ctoritas  et  scientia  magna  et  Celebris  haberetur, 
Mussatus  hic  noster  multo  conventu,  multo  ap- 
paratu,  multa  pompa,  uti  civitas  hsec  literarum 
prope  genetrix  et  alumna  [ahma)  resque  ipsa 
perdiu  intermissa  deposceret,  poeta  laureatus 
est. 

Scriptorum  ejus  traga3dia  est  Ecerinis  inscri- 
pta:  opus  certe  egregium  et  laude  poetse  dignum  ; 
libro  {libero)  altro  Ecerino  natum  [natum  na- 
tura) Proserpina  et  Plutone  fìnxit.  Is  enim  sse- 
vissimus  tyramnus  proxirais  ante  annis  crude- 
lissimo dominatu  patavinam  urbem  et  omnem 
lume  Italise  tractum  oppresserat  ;  itaque  libe- 
rati tandem  populi^  quos  depulissent  fratres 
[fratris]  Ecerinum  et  Albericum,  Plutonis  {Flu- 
tionis)  fìlios  vocitarunt  (vocitare).  Ilinc  poetse 
materia  utriusque  operis  scribendi  orta.  Sunt 
prseterea  libri  ejus,  soluta  dictione  et  delimata, 
scripti  rerum  quas  Henricus  septimus  in  Italia 
gessit:  quasne,  postea  quam  Csesar  vita  defun- 


372  APPENDICE 

ctus  est,  (esse)  Italia  fecit.  Hanc  omnera  rem 
Mussatus  noster  libri  uno  et  triginta  comple- 
xus  est.  Praeterea  De  Natura  et  Fortuna,  De 
Casihus  fortuiti?..  De  vita  ejus  ac  moribus  li- 
bro ceque  uno  dixit. 

Muneribus  autem  in  populo  ac  legationibus 
prseclaris  et  ad  pontificem  maximum  et  ad 
Csesarem  functus,  imperitabat,  quem  ante  pau- 
lum  nominavi,  Henricum  septimura,  apud  quem 
ob  facundiam  eius  ac  prudentiam  tantum  gra- 
tiae  ac  benignitatis  invenit,  quod  buie  civitati 
suse,  quse  novo  Caesari  aliena  videretur  et  su- 
specta  esset,  liberam  pacem  ac,  praìter  omnium 
spem,  amplas  libertates  et  lata  privilegia  im- 
petraret.  Sed  Padua  urbs  antiqua,  ne  quemad- 
modum  alias  deciperetur,  metu  ducta  et  factio- 
ne  varia  primatum  et  plebis  infecta,  non  modo 
non  probavit  sed  sprevit  derisi tque  quse  poeta 
multo  studio  et  industria  prò  salute  publica  ira- 
petrasset. 

Proinde,  stomacbato  Caesare,  civitas  haec 
quae  neque  parere  vellet  neque  adversari  pos- 
set,  mox  Vicentiam ,  civitatem  sibi  vicinam  et 
vectigalem,  inde  Rhodigium  {Rhodiginum)  et 
reliquas,  quse  su£e  dictioni  oboedirent  (anni  su- 
pra  centum  in  prsesentia  non  multi  sunt)  uno 
fere  simul  et  libertatem  prorsus  amisit,  ut  quae 


APPENDICE  273 

dominari  consuevisset,  deinceps  alieni  iuris  fa- 
cta  parere  didicerit  (didicii)  et  coacta  sit.  Pos- 
tea  vero,  profligata  patria  atque  destructa  {dis- 
tructa)  republica  ,  in  qua  versari  multo  cuni 
honore  et  dignitate  consuevisset,  rebus  adver- 
sis  cessit  et,  quod  reliquum  vitse  fuit,  iam  se- 
nex   literis  Clugise  moratus  dedit. 


IV. 


1306,  Settembre  20,  Ind.  IV.  Nel  Consiglio 
Generale  dei  CCC  e  speciale  dei  XC  e  delle 
Capitudini  delle  XII  arti  maggiori,  convocato 
per  mandato  del  potestà  Gante  Gabbrielli  da 
Gubbio,  si  elegge  siudaco  e  procuratore  del 
Comune  di  Firenze  Ser  Restoruni  Bencivenni, 
cittadino  e  notaio  fiorentino,  assente  ad  com- 
'parendum  prò  ipso  Coni.  Fìorentiiio  coram  do- 
minis  Fotestate  Civ.  Padue  ejiisque  iudicihus 
7nilitibus  et  officialibus,  ac  etiam  dorninis  An- 
cianis  et  aìiis  Regiminihus  Consdiis  et  Comu- 
nis  civitalis  predtcte  et  ad  opponenduìà  dicen- 
dura  et  protesianduiu  quod  peì^  ipsum  Comu- 
ne Padue  rei  aliquod  regimen  seu  offìcialem 
dtcti  Coiiiums  ad  petitioìwm  dominorum  Vi- 
ctaliani  de  Lemicis,  Anthonii  de  Tempio,  Belo- 
ni   et    Bonamentis    fratrum    condam    domim's 


374  APPENDICE 

Vendraniis,  Zavini  condam  lustinelli  de  Villa, 
Albertixi  Muxacti_,  Alberti  D.  Bocii  A  fino 
et  Patti  condam  Zamboni,  civium  ejusdem  Civ. 
Padiie  vai  alicuius  eorum  seu  aliorum  quo- 
rumcumqae  represallie  concedi  non  debeant 
contra  Cora.  Fior,  seu  cives  et  districtuales 
ipsias  ;  e  a  trattare  e  agire  ecc.  in  giudizio  e 
fuori  di  giudizio.  In  Firenze  nel  palazzo  del 
Comune.  Rog.  Guido  Capponus  q.  d.  Bonin- 
segne,  notaro  modenese,  scrittore  dei  consigli 
del  Comune  di  Firenze. 


V. 


(Predelli  R.  I  libri  commemoriali  della  Re- 
pubblica di  Venezia.  Venezia,  1876  T.  1,  n.  476) 
«1311  ind.  IX,  Aprile  15 -e.  162t.'^-^t/  eter- 
nam  rei  memoriam:  si  nota  che  il  venerdì 
santo  Baiamonte  Tiepolo,  della  casa  di  Tiso  da 
Camposampiero  (in  Padova)  ove  alloggiava,  si 
portò  a  quella  di  Albertino  fratello  del  fu  Boni- 
facio e"  di  Marsilio  da  Carrara,  ove  solevano 
radunarsi  i  partigiani  del  Camposampiero,  che 
convenuti  ivi  Iacopo  ed  Albertino  da  Carrara, 
Enrico  Scrovegno,  Marsilio  Polafrisana,  Mac- 
caruffo  e  Bernabò  de'  Maccaruffì,  Freo  Malizia, 
Mussato  fratello  dell'abate  di  S.  Giustina,  Al- 


APPENDICE  375 

bertino  Mussato  '),  due  figli  di  Zilio  de'  San- 
guinacci ,  Pietro  degli  Alticlini ,  Rolando  da 
Piazzola,  Matteo  Filarolo,  due  inviati  di  Riz- 
zardo  da  Camino ,  Nicolò  e  Giovanni  chierico 
figlio  di  Turino  Querini,  due  frati  neri  ed  al- 
tri. Baiamente  chiese  aiuti  per  vendicarsi  di 
Venezia,  e  quindi  partì  rimettendosi  a  quanto 
farebbero  gl'inviati  del  da  Camino  ;  che  questi 
appoggiarono  la  dimanda  ;  che  lo  Scrovegno  si 
offrì  con  800  persone  ;  che  Maccaruffo  figlio 
di  Ziliolo  consigliò  prudenza  ;  che  Matteo  Fi- 
larolo stette  per  l'azione,  onde  rinforzare  il  par- 
tito che  aveva  dominato  per  50  anni,  ma  che 
ora,  per  la  defezione  di  casa  d'Este  e  la  di- 
scesa dell'imperatore,  trovavasi  indebolito  ». 

V.  Tentori,  il  vero  carattere  ec.  89 -Ro- 
manin  St.  doc.  III,  43,  riferisce  questo  docu- 
mento V()]t;tro  ili  italiiìao^- 


1)  Se  non  è  corso  errore  nell'originale,  dovremo  dire 
che  in  compagnia  di  Albertino  sia  intervenuto  anche 
Pietrobuono,  parimente  fratello  dell'abate  di  S.  Giustina. 

[Nota  del  Gloria] 


376  APPENDICE 


VI. 


1323,  2  giugno  (Autografo  4,  5933,  Ar- 
chivio Diplomatico  nel  Museo  Civico  di  Pa- 
dova). 

In  Christi  nomine  amen,  anno  eiusd.  nat. 
milles.  trecent.  vigessimo  lercio,  indictione  sex- 
ta  die  secundo  raensis  lunii  Pad.  super  sala 
magna  episcopalis  curie  Paduane.  presentibus 
reverendo  viro  d.  fratre  Guidone  Dei  gratia 
Vangadiciensi  abbate,  d.  lohanne  de  Campo  S. 
Petri  d.  Albertino  Miixato  poeta  et  ystorio- 
grafo  Faduano  et  d.  Marsilio  de  Cararia  omni- 
bus testibus  et  aliis.  Strenuus  et  magnificus  d. 
de  Conradus  de  Oufenstain  civitatis  Pad.  et  di- 
strictus  capitaneus  generalis  ac  ducatus  Ka- 
rinthie  marschalchus- statuii -quod  ad  laudem 
divini  nominis  et  sui  sancii  gloriarn  beati  Pe- 
tri martiris  gloriosi  ordinis  predicalorum,  in  cu- 
ius  feste  inter  Paduanos  fuit  pax  et  unio  con- 
sumata et  ut  premititur  divinitus  roborata  et 
ad  perpetuam  memoriam  Sancte  Pacis  sancte 
Pacis  {sic),  quod  ipse  d.  capitaneus  Paduanus 
seu  locum  eius  tenens  vel  vices  gerens,  domi- 
nique  Potestas.  Anziani,  omnesque  Galstadiones 
fratelearum  et  cura  offìcialium  nunc  in  octava 


APPENDICE  377 

â– festivitatis  eiusdem  S.  Petri  et  in  festo  suo  dein- 
ceps  perpetuo  singulis  annis,  dum  celebrabitur 
missa,  accedere  personaliter  debeant  ad  eccle- 
siam  sive  locum  S.  Augustini  fratrum  predica- 
torum  de  Padua  ad  altare  predicti  S.  Petri  in 
eius  honorem  in  dieta  ecclesia  stabilitum  ibi- 
que  offere  et  illam  impensis  communis  Padue 
oblationem  portare  que  videbitur  dominis  Anzia- 
nis  et  quindecim  Gastaldionibus  et  in  eorum 
discrecione  et  determinatione.  Et  quia  propter 
deffectu  pecunie  in  communi  dieta  oblacio  ad 
presens  forte  fieri  non  potest  seu  non  poterit 
condecenter.  quod  in  futurum  per  unum  men- 
sem  vel  quindicim  dies  vel  circa  ante  dictum 
festum  prout  priori  vel  fratribus  conventus  Pa- 
duani  dicti  ordinis  expedire  videbitur.  propona- 
tur  inter  dominos  Anzianos  et  quindicim  Gastal- 
diones  de  qualitate  et  quantitate  diete  oblacionis 
et  secundum  quod  videbitur  malori  parti  eorum 
procedatur  et  fìat.  Quam  propositionem  d.  po- 
testas  Padue  vel  eius  vicarius  sub  pena  sacra- 
menti facere  teneatur.  quam  si  non  fecerit  ad 
terminum  predictum,  tunc  index  Ancianorum 
sub  pena  juramenti  hoc  proponere  teneatur.  Et 
quod  festum  eius  de  cetero  in  Padua  et  districtu 
solemniter  celebretur  et  celebrari  mandetur.  et 
fiat  per  regimen  civitatis  Padue.  eiusque  nomen 


378  APPENDICE 

in  numero  sanctorum.  qui  clebent  celebrari.  tam 
volumine  statutorum  communis  Padue,  quam 
in  matriculis  fratalearum  populi  Paduani.  et 
presens  reformacio  ponatur  et  scribatur.  Quod 
quidem  fecit  dictus  d.  Capitaneus  actenus  ad 
reformacionem  dominorum  Ancianorum  et  quin- 
decira  Gastaldionum.  in  milles.  trecentes.  viges. 
tertio.  indie,  sexta  die  quarto  measis  Madii. 
Scriptum  per  Petrimi  noi.  dictoriim  dominorum 
Anziano7^um  ^]. 

Ego  Franciscus  fil.  d.  Natalis  net.  de  Hem- 
bertis  -  not.  publicus  -  scripsi . 

VII.  ') 

1340, 19  settembre  (Autografo  n"T139  Arch. 
Diplomatico  nel  Museo  Civico  di  Padova). 

In  Christi  nomine  amen.  Anno  eiusd.  nat. 
mill.  trecentes,  quadrages.  indict.  octava.  dies 
martis  decimo  nono  mensis  septembris  Pad.  in 


1)  Queste  parole  sottosegnate  furono  scritte  in  carat- 
tere più  piccolo  dalla  stessa  mano  probabilmente  nel 
giorno  4  maggio.  {Nota  del  Gloria). 

2)  Questo  documento  è  il  XIV  dei  'Documenti  inediti 
intorno  a  Francesco  Petrarca  e  Albertino  Mussato  rac- 
colti dal  Prof.  Andrea  Gloria.  Voi.  VI.  Serie  V  degli  Atti 
del  R.  Istituto  veneto  di  scienze^  lettere  ed  arti,  Ve- 
nezia 1879. 


APPENDICE  379 

episcopali  palatio-cum  q.  dominus  Alhertinus 
Mussatus  dictus  poeta  q.  d.  lohannis  Cavalerii 
de  Padua  in  suo  ultimo  testamento  et  ultima 
voluntate  legaverit  certa  legata  ad  pias  causas 
et  in  pios  usus.  quorum  legatorum  distributio 
et  dispensatio  ad  reverendum  patrem  d.  episco- 
pum  Pad.  spectat  et  pertinet  de  jure.  quorum 
legatorum  quantitas  erat  et  est  librarum  sexcen- 
tarum  et  sexaginta  sex  denariorum  parvorum 
prout  de  predictis  constat  publico  instrumento 
testamenti  predicti  scripto  Clugie  per  Felicem 
Cavopey  de  Gingia  Venetum  not.  a  me  Uberto 
not.  infrascripto  viso  et  lecto.  Et  reverendus  in 
C.  pater  et  d.  d.  Eldebrandinus  permissione 
divina  epis.  Pad.  volens  anime  predicti  q.  d. 
Albertini-salubriter  providere.  cupiensque  ipsa 
legata  exsequi.  terras  et  possessiones  infrascri- 
ptas  retinuerit  et  adiudicaverit  ac  assignaverit 
ad  opus  predictura  et  executionem  ac  solutionem 
predictorum  legatorum  usque  ad  quantitatem 
librarum  quadrigentarum  denariorum  parvorum. 
Prefatus  d.  epis.  volens.  legatis  predictis  ad 
pias  causas  et  in  pios  usus  relictis  distribuere 
et  dispensare  infrascriptas  terras  et  possessiones 
prout  ex  oflicii  sui  debito  de  jure  tenetur.  con- 
sideransque  bonitatem  et  inopiam  ser  Johannes 
Tescharii  q.    David  de  centrata  Savonarole  de 


280  APPENDICE 

Pad.  tanquam  benemeriti  et  soliciti  ac  dispositi 
ad  opera  pietatis  locisque  et  personis  religiosis 
miserabilibus  et  pauperibus  serviendum  et  iuxta 
posse  providendum  titillo  et  nomine  pure,  mere 
et  irrevocabilis  donacionis-dedit.  cessit.  tradidit 
atque  mandavit  provido  et  sapienti  viro  d.  Alear- 
do q.  d.  Galvani  de  Baxiliis  de  contrata  sancti 
Antonii  confessoris  de  Pad.  et  mihi  Uberto  not. 
infrascripto  taraquam  publice  persone  stipulan- 
tibus  et  recipientibus  nomine  et  vice  predicti 
magistri  lohannis  ac  prò  ipso  et  eius  heredibus 
terras  et  possessiones  infrascriptas  de  bonis  et 
hereditate  q.  d.  AìherUni  Mussati.  In  primis 
in  et  de  possessione  quatuor  mansorum  terre 
vel  circa  posita  in  villa  Cone.-Item  una  pecia 
terre  aratorie  quatuor  camporum  vel  circa  ia- 
cente  in  districtu  Vacharini-coheret  — a  nuUora 
jura  q.  d.  Mahilie  uxoris  d.  Mussati  poeto  — 
.Item  una  pecia  terre  quatuor  camporum  vel 
circa  iacente  in  districtu  Vacbarini-coheret  — 
a  meridie  jura  d.  Mussati. 

Ego  Ubertus  fil.  d.  Bartholomei  notarli  im- 
periali auctoritate  notarius  hec  scripsi. 


APPENDICE  381 

Vili.  ') 

1329,  9  luglio.  (Autografo  n"  4338,  Arch. 
Corona  nel  Museo  Civico  di  Padova). 

In  C.  nomine  amen,  anno  nat.  eiusd.  milles. 
trecentes.  viges.  nono,  indicione  duodecima,  die 
nono  mensis  lulii  Pad.  ia  monasterio  S.  Stepha- 
ni- Religiosa  et  honesta  d.  d.  Richolda  Dei 
gratia  monasterii  et  conventus  S.  Stephani  de 
Pad.  abbatissa  -  titulo  et  nomine  locationis  usque 
ad  quinque  annos  -  locavit  Paulo  monario  q.  Co- 
radini-unum  molendinum  seu  postam  molendini 
positam  Padue  in  campo  [sic)  pontis  moiendi- 
norum  in  secunda  piarda  cum  una  domo  de  li- 
gnamine  -  cui  molendino  et  poste  ipsius  coherent 
ab  uno  capite  versus  pontem  molendinorum  et 
versus  sero  molendinum  q.  d.  Aìhertini  Muxatl 
poete.  ab  alio  capite  versus  mane  molendinum 
Francisci  specialis  qui  fuit  de  Pistorio-Pro 
cuius  locacionis  afictu  dictus  Paulus  monarius 
per  se  suosque  heredes  promisit  et  convenit  per 
pactum  speciale  dare,  solvere -annuatim-modia 


1)  E  il  XII  dei  Documenti   inediti   ecc.   raccolti    dal 
G  loria. 


382  APPENDICE 

vigiliti  boni,  sici  et  cribellati  frumenti  ad  mo- 
dum  consueti  afictus  molendini.  solvendo  omni 
septimana  prò  rata  de  dicto  afictu  -  et  annuatim  — 
unam  coxam  de  manzo  ponderis  librarum  tri- 
ginta  septeni  carnium  et  imam  libram  piperis 
integri  et  unam  librarum  (s?c)  candellarum  de 
cera  et  ad  festum  carnisprivii  unum  par  de  bo- 
nis  caponibus.  et  ad  festum  assensionis  d.  nostri 
I.  C.  unum  bonum  castronem.  et  ad  festum  S. 
Martini  unam  bonam  luntiam  de  porco  ponderis 
librarum  vigintiseptem  carnium -Facto -firmato 
quod  si  casus  accideret  quod  absit  quod  aqua 
per  inimicos  et  hostes  communis  Padue  occa- 
sione guerre  acciperetur-qua  occasione  dictum 
molendinum  mazinari  non  posset.  tunc  eo  tem- 
pore prò  rata  usque  ad  plenum  discursum  ipsius 
aque.  ut  prius  discurrebat  et  vagabatur.  ad 
solutionem  dicti  afictus  prò  rata  minime  teneatur. 
Ego  Paschalis  fil.  d.  lohannis  de  Burgoricho- 
sacri  palacii  not.   scripsi. 

IX. 

1330,  13  agosto.  (Autografo  n°  3,  T.  II  dei 
Documenti  della  famiglia  Mussato  n°  746  nella 
Biblioteca  del  Seminario  di  Padova). 

In  nom.  D.  D.  eterni  anno  eiusdem,  nat.  mil- 


APPENDICE  383 

les.  trecent.  triges.  indictione  terciadecima.  die 
lune,  terciodecimo  mensis  Augusti  Pad.  in  co- 
muni palatio  -  Nicolaus  Sachetus  q.  d.  Lauren- 
tii  Sacheti  -  ante  solucionem  sibi  factam  dedit. 
cessit-d.  Gualpertino  Muxato  q.  d.  Viviani 
de  Muxo  omnia  iura  omnesque  raciones  -  quas 
habebat-ex  iure  sibi  cesso  a  domino  Lauren- 
cio  Sacheto-ut  continetur  in  carta  iuris  et  ac- 
tionis  -  centra  d.  Tulchum  q.  d.  Parisii  de  Mu- 
ris-principalera  debitorem  et  centra -d.  Aì- 
bertinum  Muxatum  not.  q.  d.  lohannis  Ca- 
valerli  a  S.  Paulo  fidejussorem  et  centra  eo- 
rum  heredes. 

Ego  Simeon   not.  q.  d.  Antoni  not.  scripsi. 


X. 


1310,  28  gennaio.  (Autografo  n.  51,  T.  Ili 
Documenti  Mussato  n,°  746  nella  Bibl.  del  Se- 
minario di  Padova). 

In  nom.  D.  D.  eterni  anno  eiusd.  nat.  mil- 
les.  tricent.  decimo  indict.  octava  die  viges. 
octavo  mensis  lanuarii  Pad.  in  com.  palacio.  - 
D.  Fulchus  q.  d.  Parixii  de  Muris  de  centrata 
S.  Leonardi  principalis  -  i).  Gualpertinus  Mu- 
xatus  q.  d.  Viviani  de  Muxo  de  centrata  Gau- 
delonge-et  d.  Albertinus  Muxatas  not.  q.  d. 


384  APPENDICE 

lohannis  Cavalerii  a  S.  Paulo  fìdeiussores -con- 
fessi fuerunt  se  mutuo  accepisse  et  in  se  ha- 
bere  a  d.  Laurencio  indice  de  Sacheto  q.  d. 
Sacheti  de  centrata  S.  Andree  libras  trecentas 
et  quindecim  denar.   venet.  parvor. 

Ego   Manfredinus    olim    Biondi   s.    p.    not. 
scripsi. 


INDICE 


Avvertenza Pag.    3 

CAPITOLO  PRIMO 

Incoronazione  di  Enrico  VII  di  Lussemburgo  in  Mi- 
lano —  Condizioni  di  Padova  in  quel  tempo  —  Prima  am- 
basceria del  Mussato  all'  Imperatore  —  Nascita  di  Alber- 
tino Mussato  —  Sua  paternità  —  Strettezze  in  cui  ebbe 
a  trovarsi  dopo  la  morte  del  padre  —  Diviene  notaio  — 
Sposa  Mabilia,  figlia  di  Paolo  Dente  —  Viene  nominato 
cavaliere  —  Entra  a  far  parte  del  Consiglio  della  Repub- 
blica —  Sua  ambasceria  a  Papa  Bonifazio  Vili  —  Guel- 
fismo  di  Padova  —  Costituzione  della  Repubblica  — 
Legge  contro  i  chierici  —  Gualpertino  Mussato  abate 
di  Santa  Giustina  —  Albertino  esecutore  degli  ordina- 
menti di  giustizia  in  Firenze  —  Podestà  di  Lendinara    »      5 

CAPITOLO  SECONDO 

Seconda  ambasceria  del  Mussato  all'Imperatore  — 
Vicenza  si  sottrae  al  dominio  di  Padova  —  Lotta  fra 
Padova  e  Vicenza  —  I  Vicentini  deviano  il  Bacchiglione 
a  danno  di  Padova  —  Progressi  dell'  Imperatore  in  Lom- 
bardia —  Timori  dei  Padovani  —  Terza  ambasceria  del 
Mussato  ad  Enrico  —  Suo  discorso  all'Imperatore  — 
Condizioni  imposte  da  Enrico  ai  Padovani  —  Doni  dei 
Padovani  all'Imperatore  —  La  nomina  del  Vicario  impe- 
riale —  Aimone  vescovo  di  Ginevra  —  Sua  morte  — 
Quarta  ambasceria  del  Mussato  all'Imperatore  in  Geno- 
va —  Ritorno  in  Padova  —  Il  Mussato  espone  al  Senato 
l'esito  dell'ambasceria.  —  Nomina  di  Cangrande  a  Vi- 
cario di  Vicenza  —  Discorso  di  Rolando  da  Piazzola  al 
Consiglio  —  Discorso  del  Mussato  —  Defezione  di  Padova 
all'Impero "33 


386 


CAPITOLO  TERZO 


I  Padovani  si  riconciliano  col  Mussato  —  Uccisione 
di  Guglielmo  Novello  dei  Paltanieri  —  Si  vuole  la  guerra 
con  Cane  —  Cominciano  le  ostilità  fra  Padova  e  Cane 

—  I  Padovani  tentano  di  riprendere  Vicenza  —  Assalto 
di  Marostica  —  Atto  di  valore  del  Mussato  —  Cane  espu- 
gna il  castello  di  Mota  —  Si  volge  a  Camisano  —  Quindi 
a  Padova  —  Viene  respinto  —  Uccisione  di  Rizzardo  da 
Camino  —  Alleanza  dei  Padovani  con  Guecello  da  Camino 

—  Nuovo  tentativo  per  ricuperare  Vicenza  —  Cane  fa 
strax'ipare  il  Bacchigliene  —  I  Padovani  lo  rimettono  nel 
suo  letto  —  Assalto  di  Lonigo  —  Assedio  di  Poiana  — 
Valore  del  Mussato  —  Cane  devasta  il  territorio  pado- 
vano —  Viene  respinto  —  Esigenze  di  Guecello  -  Oppo- 
sizione dei  Padovani  —  Guecello  viene  cacciato  da  Tre- 
viso —  Congiura  di  Nicolò  da  Lezzo  —  Ribellione  di  So- 
limano de'  Rossi  —  Padova  è  messa  al  bando  dell'  Impe- 
ro —  Si  riaccende  le  guerra  con  Cane  —  11  Conte  di  Go- 
rizia viene  in  aiuto  di  Cane  —  Sconfìgge  i  Trevisani 
sulle  vive  del  Montegano  —  Morte  di  Enrico  VII    .       "    75 

CAPITOLO  QUARTO 

Continuano  le  ostilità  fra  Padova  e  Cane  —  Cane  de- 
via  nuovamente  il  Bacchiglione  a  danno  dei  Padovani 

—  I  Guelfi,  in  Padova  hanno  il  potere  della  Repubblica 

—  Abboccamento  fra  Bailardino  Nogarola,  Albertino 
Mussato  e  Marsilio  Polafrissana  —  Pace  tra  i  Padovani 
e  il  Conte  di  Gorizia  —  Cane  occupa  Montegalda  —  Gli 
Alticlini  e  gli  Agolanti  —  Vendetta  di  Nicolò  ed  Obizzo 
da  Carrara  —  11  popolo  assedia  la  casa  di  Albertino 
Mussato  —  Questi  si  rifugia  a  Vigodarzere  —  Orribili 
stragi  di  quei  giorni  —  Albertino  viene  richiamato  iu 
città  —  Sua  invettiva  contro  la  plebe  —  Il  podestà  Pon- 
zino dei  Ponzoni  —  Canale  da  Limona  a  Brusogana  — 
Tentativo  di  riprendere  Vicenza  —  Atti  eroici  del  Mus- 
sato —  Vien  fatto  prigioniero  —  Sconfitta  dei  Padovani 

—  Proposta  di  pace  —  Opposizione  di  Maccaruffo  —  La 
pace  viene  sancita  —  Ritorno  del  Mussato  in  Padova  — 
Sua  incoronazione  poetica »  117 


387 


CAPITOLO  QUINTO 


Nuovo  tentativo  di  ricuperare  Vicenza  —  Sconfitta 
dei  Padovani  —  Cane  occupa  Monselice  —  Ambasceria 
del  Mussato  a  P>ologna.  a  Firenze,  a  Siena  —  Cane  si 
impadronisce  di  Este  e  di  Montagnana  —  Si  rivolge  verso 
Padova  —  Nuova  Pace  tra  Padova  e  Cane  —  I  fuorusciti 
ritornano  in  città  —  Albertino  Mussato  fugge  da  Padova 

—  Giacomo  da  Carrara  eletto  principe  —  Abboccamento 
di  Iacopo  con  Cane  —  Mussato  viene  richiamato  in  città 

—  Cane  rinnova  le  ostilità  contro  Padova  —  Ambasce- 
ria del  Mussato  in  Toscana  —  Tentativi  inutili  di  pace 

—  Iacopo  cede  la  città  al  Conte  di  Gorizia  rappresen- 
tante Federico  d'Austria  —  Tregua  con  Cane  —  Cane 
tenta  sorprendere  di  nottetempo  Padova  —  Viene  re- 
spinto —  Vittoria  dei  Padovani  —  Fuga  di  Cane  —  Pa- 
ce —  Mussato  ambasciatore  in  AUemagna  —  Il  Duca  di 
Carinzia  vicario  di  Padova  —  Nuove  ostilità  di  Cane  — 
Nuova  pace  —  Frate  Paolino  —  Il  Duca  di  Carinzia 
scende  in  Italia  —  Tregua  con  Cane  —  Morte  di  Iacopo 

—  Mussato  ambasciatore  a  Lodovico  il  Bavaro  —  Tre- 
gua con  Cane  —  Morte  di  Iacopo  —  Mussato  ambascia- 
tore a  Lodovico  il  Bavaro  —  Tregua  fra  Cane  e  Padova 

—  Il  Mussato  di  nuovo  ambasciatore  al  Duca  di  Carin- 
zia e  a  Lodovico  il  Bavaro  —  Congiura  di  Paolo  Dente 

—  Vendetta  di  Ubertino  da  Carrara  .        .        .         Pag.   157 

CAPITOLO  SESTO 

Il  Mussato  esule  a  Chioggia  —  È  visitato  da  Marsi- 
lio da  Carrara  —  Corrado  di  Ovenstein  vicario  di  Pa- 
dova —  I  Carraresi  lo  colmano  di  doni  e  di  blandizie  — 
Engelmario  di  Villandres  —  Il  Podestà  Iacopino  de'  Boc- 
chi —  Soprusi  di  Ubertino  da  Carrara  —  Corrado  da 
Vigenza  dà  l'assalto  alla  Torre  di  Curano  —  Vien  fatto 
prigioniero  e  decapitato  —  Scelleratezza  di  Ubertino  da 
Carrara,  di  Tartaro  da  Lendinara  e  di  Engelmario  — 
Lodovico  il  Bavaro  discende  in  Italia  —  Cane  gli  do- 
manda il  vicariato  di  Padova  —  Non  l'ottiene  —  Pro- 
lunga di  due  anni  la  tregua  col  Duca  di  Carinzia  —  Con- 
giura di  Nicolò  da  Carrara  —  Marsilio  ricorre  per  aiuti 


388 

al  Duca  di  Carinzia  —  Coudizione  miseranda  di  Padova 

—  Nuove  scelleratezze  di  Ubertino  e  di  Tartaro  —  Con- 
gresso a  Verona  —  Discordia  fra  Marsilieto  ed  Ubertino 

—  Marsilio  affida  sé  e  la  città  nelle  mani  di  Cane  — 
Che  pensi  il  Mussato  di  questa  determinazione  —  Mar- 
silio Signore  di  Padova  —  Nozze  di  Mastino  e  Taddea 

—  Mussato  fa  ritorno  segretamente  in  Padova  —  Marsi- 
lio non  acconsente  alla  sua  venuta  —  Albertino  fa  ritor- 
no in  CUioggia  —  Riceve  nuove  ingiurie  da  Marsilio  — 
Muore Pag.  198 

CAPITOLO  SETTIMO 
Le  storie »  243 

CAPITOLO  OTTAVO 
Le  poesie  minori »  277 

CAPITOLO  NONO 
L' Eccerinis »  319 

Appendice "  365 


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PQ        Z?.rdo,  Antonio 

4^74        Albertino  Mussato 

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