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ARCHIVIO
— 1 —
GLOTTOLOGICO ITALIANO,
DIRETTO
DA
G. I. ASCOLI.
YOLDHE SECONDO.
ROMA, TOSINO. FIRENZE.
ERMANNO LOESGHER,
1870.
Riservato ogni diritto di proprietà
e di traduzione.
MILANO, COI TIPI DI 0. BERNABDONI.
SOMMAEIO.
Flechia, Postille etimologiche, I Pag. 1
D* Ovidio, Sul trattato De Vulgari Eloquentia > 59
Ascoli , Del posto che spetta al ligure nel sistema dei dialetti italiani > 111
Lagomaggiore, Rime genovesi della fine del sec. XIII e del princi-
pio del XIV » 161
Flechia, Postille etimologiche, I (continuazione) > 313
Ascoli, P. Mejer e il franco-provenzale > 385
Ascoia, Ricordi bibliografici » 395
D'Ovidio, Indici del volume > 459
Giunte e correzioni » 469
Il primo volume deW Archivio era de-
dicato a FEBEBICO BIEZ, 'il glorioso
' fondatore della scienza dei linguaggi neo-
latini/ Nel momento in cui si pubblica
questo secondo volume, giunge la dolorosa
notizia che il grandissimo dei romanisti
non è più.
Milano, 8 giugno 1876.
POSTILLE ETIMOLOGICHE
DI
0. FLECHIÀ.
I.
Saggio di un Glossario Modenese ossia studii del conte Giooanni Galvaxi
intorno le probabili origini di alquanti idiotismi della città di Modena e
del suo contado. Modena, 1868, in ì&*y p. 532.
Scrissi le seguenti postille etimologiche quattro e piti anni sono;
le scrissi principalmente coli' intento di mettere per così dire a fronte
due scuole, la vecchia e la nuova, la scuola senza metodo e quella
del metodo. Attendendo per debito d' uffizio ad insegnar glottologia
nell'Ateneo torinese, mi parve che dalla pubblicazione del Galvani
venisserai non solo buona occasione, ma obbligo di dimostrare come
nelle cose della linguistica piti non valgano gran fatto di per so soli
nò ingegno, né dottrina, né squisita coltura di lettere; pregi che ninno
avrebbe potuto negare al Galvani; ma si debba innanzi tutto chiedere
il quella, che ora può dirsi ed è veramente scienza delle lingue, il
metodo e i principj. Senza presumer punto di me medesimo e pur
confessando che nel campo dello etimologie si presentano non di rado
problemi di diffìcile e talvolta disperata soluzione, io mi confido che
nelle seguenti note il discreto lettore riconoscerà di leggieri la mag-
gior verisimiglianza delle nuove etimologie contrapposte a quelle del
Galvani; e questo merco principalmente del metodo col quale sono
trattate: agevolmente scorgendosi come il Galvani debba il frequento
suo anfanare all'ignoranza o, so vogliamo, alla non curanza di
quei principj fonologici e morfologici che formano il cardine scienti-
fico dello indagini linguistiche, e sono per conseguente la guida piti
sicura nella ricerca delle etimologie. Insieme con questa deficienza
de' principj glottologici è ancora notevole nel Galvani il falso punto
di vista etnografico, per cui egli esagera o frantende le influenze
galliche da un lato e le romane o, com'egli avrebbe detto, le laziari
dall'altro. Finalmente un rimprovero ancora se gli dee fare; ed ò il
non aver saputo quasi mai stendere gli occhi di là dalla cerchia mo-
denese, mentre, avendo puro a faro assai spesso con etimi di veci
Archivio gloltol. ital.. II. I
2 Flechia,
comuni princì[)alment6 ali* Emilia, alla Lombardia, al Piemonte ed
anche a tutta l'Italia superiore, egli avrebbe potuto dal riscontro
delle varie formo vernacolari ritrar lume circa il fondamento delle sue
congetture. Del rimanente, così nel Glossario Modenese, come nelle
altre scritture del Galvani, non si può non riconoscere, insieme con
un amore caldo e schietto di questa sorta di studj, anche un senso
squisito e un'attitudine particolare, che, corroborati da larga e sana
educazione linguistica, non avrebber mancato di dare un valente glot-
tologo all'Italia.
Risolutomi a pubblicare queste postille neìVArchivio Glottologico
Italiano, le do leggermente mutate qua e là della loro forma origi-
naria; e non senza farvi qualche giunterella, massime in quanto ò
alla sinonimia dialettologica.
A queste postille concernenti il Glossario Modenese del Galvani
terranno dietro alcune altre, scritte pure nello stesso torno di tempo,
relative principalmente ad etimologie sarde e piemontesi.
P. 120. A proposito del modenese (e reggiano) alValbazen, a
bacio, a tramontana, il Galvani, dopo accennato dell'etimologia
à' opaciis, congettura che tanto il bazen mod. quanto il bacio
toscano possano per avventura venire dal teut. ìrach, bah, bus,
tergo; notando come i luoghi posti a tramontana si chiamino in
modenese arvers (riverso, rovescio), quasi a significare che la
parte volta a mezzodì sia come la parte diritta, la faccia del
luogo che vede il sole; mentre l'opposta, ossia la volta a tra-
montana, sia la rovescia, e quindi come dire il tergo, la schiena.
Si può ammettere questa spiegazione quanto all' ari^^rs o invers
(riverso, inverso), proprio di varj dialetti nostrani per signifi-
care la parte di tramontana ; ma non punto la connessione etimo-
logica di bazen, bacio col germanico back. Il nome opactts pas-
sato a significar tramontana, che avrebbe dato origine sotto la
derivata forma di opacivus a bacio, di opacinus al mod. e regg,
bazen, parm. ombazein, di opacinius (opacineus) all'ant. tose.
bacigno, berg. vaghen, [vjaghen \ di opacaceus al san. apagac^
* Il suono gutturale mantenuto in queste voci bergamasche dà loro un ca-
rattere più recente, trasportandole ad epoca di formazione romanza, mentre
cobl la pilatiua del toscano bacio, bacigno, come l'equipollente sibilante dei
derivati emiliani accenn^Tebbero a formazione romano-volgare.
Postille etimologiche. 3
ciò, si presenta pure ia varj dialetti sotto forma non derivata,
come p. e. nel lucch. òmbaco, piem. uhac (sai. cun.), iivai (Acqui),
vai, nel lomb. ovac, ovaj, ovic, ovig, vac, vag, romagn. heg,
gen. lùvegu, e anche in dial. transalpini, come per es. nel cat.
ohnga, \iVO\\iihac, delf. /w&ac (cfr. Diez, £'/.?«?. IP, 7). L'antico
volgarizzatore di Palladio (p. 16) rende opacis locis con a bacio.
Il lat. opacus sonava propriamente ombroso ed era il contrario
di apricus; ma avea già per avventura anche il significato di
jìosto a bacio, vOlto a tramontana; e tale potrebb' essere il senso
del virgiliano: sol ruit intcrea, et montes umbrantiir opaci;
che altrimenti parrebbe tautologia.
Notisi ancora, a proposito di bacio, come male si potrebbe ri-
petere questa forma toscana da un ipotetico opacicus, secondo
che a pag. 134 mostra credere il G., rinunziando all'origine teu-
tonica toccata di sopra. Bacio viene da *opacivus, derivazione
verisirailmente determinata da solatio {solativo da solata) per
quella correlatività formale che l'istinto linguistico ama di porre
nell'espressione di due nozioni antitetiche, quale notasi per esem-
pio tra septemtrionalis (da seplemtrion-) e mericlionalis per m^-
ridialis (da meridies)^ tra lieve e greve per grave. Inammissi-
bile eziandio è la connessione formale che ivi pure il G. vorrebbe
stabilire tra il toscano ratio, e il lat. erraticus, donde il mo-
denese aràdeg. Ratio, quando si connetta etimologicamente,
come par verisimile, con errare, non può essere se non il risul-
tato di *errativus, che starebbe al suo verbo come per es. pen-
salivo a pensare, contemplativo a contemplare, fuggitivo a
fuggire.
Il Galvani avverte ancora come l'illustre Cavedoni gli dicesso
essere nel Livizzanese una località detta Bazinell, perchè posta
a bacio di colli più alti. Una siffatta denominazione è assai ov-
via, perocché i terrazzani chiamano talvolta i luoghi dalla loro
positura rimpetto ai punti cardinali dell'orizzonte. Quindi è che
nell'onomastica topografica d'Italia abbiamo varie località che
hanno un nome analogo, come p. e. nei parecchi Inverso (7) del
Piemonte, dove invers significa appunto bacio, tramontana, e
in altri nomi locali, dove la stessa parola opacus ci si presenta
sotto varie forme, come verbigrazia nel tose. Loiaco (=^ l'opaco),
neWIfbaga della Liguria e verisimilmente negli aferetici Baco
4 Flechia,
(Firenze), Bago (Emilia), Vago (4) e Vaga (Lombardia), Baio
(Bai, Bé) e Vai (Piemonte). La forma diminutiva di Bazinell
rende probabile l'esistenza di un altro luogo vicino chiamato
Bazen (Bazin), come presso il ligustico Ubaga si trova pure
un altro luogo detto Ubaghetta.
Osserverò come il latino opacus, che si potrebbe dir perduto
nell'uso generalo della lingua comune, se la scienza non lo
avesse ripreso, significante il contrario di diafano, di traspa-
rente, si mantenne pur popolarmente vivo nelle summentovate
forme indicanti principalmente tramontana, alle quali aggiun-
gerò ancora il boi. hagiira (= *opacnra), ombra, derivato da
opaco come per es. altura da all(^ frescura da fresco, e donde
si derivò poi novamente il participio abbagurà (= *ad'Opacura-
tum)f ombreggiato.
Riassumendo in ultimo i fenomeni che più notevoli si pre-
sentano nelle citate forme e derivazioni di opacus, troviamo la
prostesi (concrezione) del semplice articolo in Lobaco, lubac,
lùvegu; dell'articolo col segnacaso dativale in albazen; l'epen-
tesi di m in òmbaco e ombazen (cfr. per es. il pur parm. impo-
teca = ipoteca) ; l'aferesi dell' o à'opacus in bacio, bazen, baci-
gnOy vaghen, bagura, beg, Baco, Bajo, vac, vag, vai, Vago,
Vaga; la consueta mutazione di ^ in & e i; e di e in gr, e una
regolare vicenda della gutturale nel piera. Vai, Bajo {Be) (cfr.
Arch, gì. I, ind. in, s. lacu-); in una parola una varietà di feno-
meni che, considerati ciascuno nel proprio ambiente, quando
non rispondano a leggi più o men generali, ubbidiscono sempre
alla specialmente propria del dialetto a cui appartengono. Os-
servabile inoltre è la deviazione morfologica del gen. lùvegu
(= lùvigu)^ accennante ad un organico lùpicu (cfr. per es. ma-
negu = manicu'), che rimpetto ad opacum presenta, in un col
lucchese òmbaco, e piranese òbego, verso occidente, una tra-
sposizione d'accento analoga a quella di fìcdtum passante nel
tose, fégato, nap. focato, romagn. fégat e una mutazione d' a in
i (-e), pure analoga a quella dello stesso ficatum converso nel
boi. féghet, e, con inoltre la metatesi reciproca tra la gutturale
e la dentale, nel romanesco fetigo, fedico, sardo fìdigu (log.)
lomb. ed erail. ftdec, fédeg, fìdeg, fédeg, piém. fidig, mentre
ficatum viene poi ad avere un regolarissifmo riflesso nel sicil.
Postillo etimologiche. 5
ficaiv, sardo ftgàu (mer.), ven. mant. ievv.fìgn, friul. fìjadj ecc.
(cfr. DiEZ, i?^. ?6\, r\ 174). Colla forma del gen. liivegu si con-
nette ancora quella di alcuni dialetti di qua dagli Apennini, come
per es. il murazzanese (Cuneo) a neve {= a lùvigo; cfr. mane
=i manicò) y a bacio. In queste forme ligustiche Vu per Vo di
òpacum presenta un fenomeno, che dovette aver luogo prima
della trasposizione d'accento; che altrimenti da ópicum {l-Ó2n-
cum) il genovese avrebbe fatto più regolarmente lóvegu.
A p. 125 fa venire il modenese ciapér, acciapér (chiappare,
accliiappare) da capere, e questo da un ipotetico apere. Capere
non ha già una gutturale prostetica, come vorrebbe il G., ma
si un' originaria radice cap, come si può vedere dal raffronto di
essa colla corrispondente forma di verbi d'alcune altre lingue
indo-europee (cfr. Curtius, Gr, d. griech, et. I, iii; Corssen,
Ausspr. V 454). Quanto al ciapér modenese, esso accenna troppo
chiaro come si derivi insieme coli' it. chiappare da un organico
tema clap (cfr. Diez, Et. w., IP 20). Quando poi si volessero
a ogni modo connettere etimologicamente chiappare e le altre
sue dialettiche rappresentanze col latino capere, questa deriva-
zione sarebbe da spiegarsi, non già, come vorrebbe il G., per
mezzo di un ipotetico capiare, divenuto per metatesi ciapare,
che sarebbe contrario ad ogni analogia morfologica e fonologica,
ma si per via di un * ciapare, forma metatetica di caplare,
capulare, verbo denominativo dedotto da capulus o capulum
(manico, fune, cappio), donde sarebbero potuti venire regolar-
mente chiappare, ciapér, come per es. da dopare (= copiare,
copulare), venne il sardo giobare e sarebbero potuti venire un
it. *chioppare e modenese *ciopé7\
A p, 127 il G. dice che il modenese acsé, cosi, nacque da sic
mediante trasposizione di e, onde csi, poi csé, e quindi con vocale
prostetica acsé. Questa voce non può aver origine diversa dal-
l' ital. cosi, il quale nacque da sic, preceduta da cccu (eccic-sic;
cfr. p. e. costà ^ eccu'istac, quegli- eccu-ille ^ ecc.) o, come vor-
* Noto qui per incidente com'io propenda forte a credere che elli, egli, esti,
essù quelli^ quegli^ questi, codesti, sic-isif in quanto sono usati pel nominativo
singolare, siano originati verosimilmente dai pronomi t7/t', -l'/V, iste^ -lite, ipse,
'ipse, pigliati così in questo loro formo di nominativo senza piìi, e per con-
6 Flechia,
rebbe il Diez (ELic, r\l44), da ojqiie [ceque-sic), e presenta
una forma aferetica cominciante da un co- analogo al co- di
co-iale^ co-ianto. Ora il modenese, come, da cotale fa per sincope
dell' o: ctelj cosi da cosi è venuto a far ose. Si può solo dubi-
tare sé Va à'acsé sia suono avveniticcio o non piuttosto rap-
presentante la vocale iniziale di eccu, (od ceque), come si ren-
derebbe assai probabile àaWaciisé bolognese, d^iW accusi roma-
nesco e da altri esempj, dove Va non si trova dinanzi a gruppo
consonantico ed è verosimilmente una trasformazione dell' ^ (ce)
organico, convertito, come iniziale e disaccentato, in a, come per
es. nel romanesco accesso per eccesso, modenese aradegh da
erraticits.
A p. 127, a proposito del mod. dopa, coppia, egli dice « dal
latino copula i Romani trassero scolpitamente coppia', noi tra-
si)ortammo la i dopo la e. » Il mod. dopa non è già nato per
trasposizione deiri di coppia, ma si da copula, che mentre da
un lato, sincopandosi semplicemente in copia, generava il tose.
coppia, nap. cocchia, sic. cucchia, lomb. piem. cobbia, cobia, ecc.,
d'altra parte, modificato ancora per metatesi in dopa, si tras-
formava nell'emil. dopa, nap. chioppa, ven. chiopa, sardo cropa,
croba, cioba, gioba, joba, loba, ecc.
Alla stessa pag. vede nel' mod. adrée, addietro, un vocabolo
nato semplicemente da ad-re, rifacendosi sopra Prisciano, il
quale dice che il prefisso re?- gli sembra un apocope di retro.
Io credo all'incontro che tanto il mod. adrée, quanto le altre
analoghe forme emiliane riflettano ad-retro, che, perdendo il
secondo r, come per es. nel tose, vieto, addreto, addrieto, dreto,
drieto {-ad-, de-retro), si ridusse quindi per via di adreto ad
adrre, come per es. aceto in azée. La perdita del secondo r di
seguente senza raggiunta di un enclitico -ic {-hic)^ secondo che vorrebbero
il Diez e il Delius (cfr. Diez, Gr, d.r.spr,^ IP, 83 e n.), seguiti dal Forna-
ciari, dal Canello, ecc. Ui finale, procedente da e, viene qui, comt; specialmente
proprio deir ambiente fiorentino, ad essere di tutta regola, secondochò bassi
per es. in ogni (omnem), domani, stamani (-mané)^ Marti (Martem), Aleni
(Aihence), Figghini (Figlince, Figulince)^ Fiesoli (Fcesulce) ecc. (cfr. Rivista
di Filologia ecc., I, 2G5 n.). hi analogia delle dette forme pronominali si fog-
giò probabilmente poi quella di altri, come propria del caso retto, pur sin-
golare e maschile.
Postille etimologiche. • - 7
retro è qui verisimilmente dovuta al principio di dissimilazione,
come quella del primo in dietro da deretro (cfr. aratOy aratolo
per aratro, aratrolo, artetico per artreiicò [arthriticus], tra-
sto per trastro [tra^istrum], i)^^opio fer py^oprio, Procusle per
Procritste, ecc.).
A p. 147 «Armier. Ruminare, rugumare. In latino non si
> disse solo rumay donde rumare, ma si disse arcaicamente rw-
> mis, donde il popolo trasse rumiare, E da questo rumiare
> scorciato in rmier esce, per la nota prevocalizzazione, il pre-
» sente armier. > L' ipotetico rumiare dedotto da rumis è al
tutto in verisimile. Il latino, insieme con ruminare, ebbe an-
che rumigare proprio del romano volgare (Apuleius, Met.) e
a quest'ultimo, molto più spesso che non al primo, accennano,
come a loro tipo, i varj dialetti della famiglia neolatina; quindi
ant. pistojese nimicare S nap. riimmicare, rummicà, rommer
care, rommecà, ven. rumegar, ferr. rumigar (o rumgar), mil.
rttmegà, gen. remegà, rumeno rumegà, cat. remugar, boi. rum-
gar, romagn. rumghé o armughé, fr. ronger ^; con metatesi tra
m e g tose, (fior.) rugumare, sic. rugumiari *, e , con perdita
di g *, sp. port. prov. parm. e piac. rumiar, friul. bresc. crem.
gali, rumià, borg. reumià, piem. e lad. ru7nié; ai quali non esi-
teremo punto d' aggiungere il modenese armier (= rumier, ru-
milghjer, rumigare). Al lat. ruminare {ruminari), passato col
fior, rugumare alla lingua comune, si connettono il sardo ru--
* Il vocabolario italiano non ha rufnigare, voce latina cosi largamente
riflessa negli idiomi romanzi; e non ha rumicare che ti*ovasi nel volgariz-
zamento pistojese dei" Trattati morali d'Albertano da Brescia pubblicato dal
Ciampi (p. Ili) e che col nap. rommecare potrebbe far presumere un più
organico rumicare. Vedi però tose, (fior.) e nap. faticare, fatecare, fatica dal
lat. fatigare, nap. tecola da tegola ecc.
* Circa ronger -rumigare, significante nelF antico francese ruminare, ve-
dasi DiEZ, Et, IO. IP 8. V.
' Air azione assimilativa della precedente vocale d verisimilmente dovuto
il secondo u del toscano rugumare, %\c, rugumiari, poschiavese rumugà^ to-
msLgn, armughé (=rumughé), come ò dovuto air effetto della seguente vocale
il primo t ed e del cai. riminiare, Qen.remegd^ se pure in quest'ultimo non
si confuse col pref. re-,
* La perdita della gutturale sonora, massime dopo vocal palatina, è feno-
meno non punto rado, come si pud vedere p. e. in io (= eo,ego), leale (legalis\
8 Flechia,
minai (luer.), calab. riminiare, piac. annna?*, regg. armnér\
Rumare^, citato \\e\V Ercolano del Varchi, come usato anche
talvolta dai Fiorentini, e registrato dal Fanfani [Vocabolario
dell'uso toscano s. v.) come proprio della Versilia, può essere
il latino ii'njLmare, notato da Festo come equivalente di rumi"
nare, ma potrebbe anch'essere nato, per sincope e contrazione,
dalla raetatetica forma rugumare. E mulinare significante me-
ditare, fantasticare, anziché venir da mulino, sta probabilmente
per murinare, nato per metatesi da ruminare. DiflScile infine
il chiarire se e come digrumare, significante lo stesso che ru-
minare, rugumare, si colleghi etimologicamente con grumus
o non piuttosto con rugumare, preceduto da di, de {digruma-
re, digurumare, dirugumare).
P. 147. Verisimile assai e quasi indubitata la connessione eti-
mologica del mod. arnghér, ammorbare, soffocare, appestare,
attoscare, col lat. necare, dal quale anche V ital. annegare,
fr. noyer, prov. negar, ecc. (cfr. Diez, EL w. P, s. v. negare).
Si può solo dubitare se il mod. arnghér risponda, come vuole
il G., ad un verbo renecare, o non sia per avventura una forma
*
profondamente aferetica del più usitato internecare, col quale
si connettono i latini nomi internecio, internecivus, e il segna-
tamente notevole iniernecialis di Livio, adoperato ad indicare
la più ordinaria qualità de'morbi ingenerati dalla pestilenza, e
reale (regalis)^ emil. stria, striar {= striga, strigare^ strega, stregare), ecc ,
e in Terbi di forma analoga a rumigare, come p. e. nel sic. fatiari, lad. fadiar
(- fati gare) , ecc. Questa perdita poi della gutturale sonora si rende ancor
più verisimile dinanzi al getto che vari dialetti fanno in analoghe forme anche
della gutturale sorda, come per es. il piem. in arpie (erpicare), carie (cari-
care), desmentié (dismenticare), mastié (masticare), rampié (rampicare), ru-
sié (rosicare), sopié (zoppicare), ecc.
* Il sic. rugumiari, procedente, come s' è detto, per via di metatesi da ru-
migare e il calabrese riminiare presentano T epentesi d't formativa che ebbe
verisimilmente luogo anche nel ìog.remuiare (^rumig-i-are) e nel piac. rw-
mnar, armnar, regg. rumnér, armnér (= rumin-i-are)^ se pure in questi due
ultimi dialetti T i originario di ruminare nel sincopamento non si é trasposto
dopo n, onde da ruminare rumn-i-are.
* PotrebV essere che con questo rumare citato da Festo abbia qualche
connessione etimologica il rumar, rumér, ruma, rumé di varj dialetti del-
r Italia superiore in senso di grufolare, frugare, ecc.
Postille etimologiche. D
quindi più logicamente afBne al senso figurato à'arngliér. Questa
congettura sarebbe avvalorata dall' equivalente ternegaVy ter-
negà^ iarnegar, di dialetti così lombardi come emiliani, con cui
a ogni modo, parmi, si sarebbe qui dovuto raffrontare il raod.
e regg. arnghér.
A p. 142 e seg. cerca di connettere il modenese arbghett, in-
cubo, e arhghéry erpicare col gr. apTwàyr., raffio, àp-aCco, rapire, e
col latino harpagarCf e finisce per congetturare arhghett come
diminutivo di un latino barbaro arpagus, primitivo di arpagius
che s'incontra in alcune iscrizioni col senso di rapito violente-
mente alla vita. Quanto a me non dubito d'affermare che, come
arbghffr è la forma regolare che in tal dialetto deve avere un
corrispondente dì erpicare (lat. irpicare da irpex^ erpice), cosi
arhghett non può essere altro che una forma regolare di diminu-
tivo del modenese erpeg [erpice), e sonerebbe quindi in italiano
erpicetto ^ Questa etimologia è resa indubitata dal parm. erpeg
o repeg, e dal regg. repeg, che significano ad un tempo erpice
ed inciibOy e sono, i due ultimi, forme metatetiche di erpeg = ir^
picum (irpicem). Ne parrà strano che all'intuitiva popolare il
nome di uno strumento guernito di denti e adoperato principal-
mente per isterpare erbe e spezzar ghiove, sia parso acconcio a
* più propriamente erpichetto^ diminutivo, non già (Verpice, ma d' erpico.
Le forme emiliane e altre (mant., berg., trent., ecc.) terminano in gutturale
{érpec^ érpeg^ érpac^ érpag^ ecc.), in quanto che per tali dialetti il nome
latino passò come maschile nella seconda declinazione (érpicus^ irpiciés) prima
che Ve di irpicem (irpikem) determinasse il passaggio doiroriginaria guttu-
rale in palatina (cfr. Diez, Gr, V 255), la quale fu poi ne' dialetti dell'Italia
superiore generalmente surrogata dalla sibilante, come per es. nel mil. érpeg
(—erpice, erpicem, irpicem). Il piem. crpt, erpe, risponde anch'esso al tipo
emiliano e sta ad ^erpico come per es. mani, mane a manico^ tossì^ tosse a
tossico, ecc.;, che altrimenti sarebbe stato, come il mi)., erpeg (cfr. piem.^a-
leg — salicem^ vedeg^ veleg = viticem, ecc.). Sono ancora notevoli fra i proce-
denti dal tipo irpicus, erpicus^ il ven. àrpego, in quanto Ve (t) accentato qui
si converse contro la regola in a (cfr. Ardi. gì. I, 455 in principio, ecc.) e il
boi. arpéig, che accenna ad un organico erpico o erpéco. É poi quasi super-
fluo il notare ohe Va d' arbffhett (= erpichetto), come rappresentante e (i)
disaccentato, viene qui ad essere di tutta regola, come nel mod. e regg. a?'-
bghér^ parm-, boi., e mant. arpgar^ piem. e lad. arpj'e, ecc. -erpicare (cfr*
MrssAFiA, Rom. mìind.., pag. 23 e sogg.).
10 Flecbia,
dinotare un'affannosa pressione di petto, la quale presso i varj
popoli ebbe nomi cosi strani e diversi, come per esempio presso i
Greci salt'in dosso (z^'^l-zr^z), i Romani che sta sopra, addosso,
che pesa, che opprime {incubus ^ od incubo, -07iis), i Toscani la
fantasima, i Napolitani Y incornatura , i Veneti, Mantovani e
altri pesar olo, la pesar ola, gen. il pesante (pesariol, psaról,
pesant ecc.; cfr. sp. pesadilla), ì Sardi Yammuntadore o am-
mutadore, alcuni popoli lombardi e subalpini salvan, sarvan,
servan {silvanus) ^ i Siciliani lu mazzamareddu^, i Piemontesi
' Il lai. incubo, più specialmente proprio della lingua colta, ci si presenta
cou forma popolare nell'apocopato eneo degli Umbri (V. Prezzi, Ottadrire-
gio^ II, 11,31) e nel frinì, t-encw^ (v-encul-^encovo, inciubus. Quanto a / = »
secondario, cir.tescul-vescoxio, episcopus, vedul=vedovo, viduus^\ e circa v
prostetico, Arch. gì. 1,531). I contadini della Brianza hanno lenteg (V. Che-
rubini, Vocmil.e it.s,v. e sotto sai^van)^ che pure potrebb* essere un'altera-
zione anomala di incubus ^ colla concrezione delF articolo, e che più regolar-
mente sarebbe lencof,
* E il silvanus de' Romani come divinità di carattere boschereccio, pasto-
rale ed agresta (cfr Preller, Eóm. myth. p. 346 e segg.) che più tardi il po-
polo convertì in una specie di folletto; e in questo senso, oltreché in quello
di incubo, vive appunto in varj dialetti dell'Italia superiore, onde nel prom-
ptuarium di Vopisco leggesi « Sarvano o folletto, spirito famigliare, lemur. >
Chiamano inoltre i Torinesi col nome di sarvan e i Trentini di salvanell quel
bagliore o riverbero prodotto dallo specchio od altro incontro al sole, che
generalmente per giuoco si fa cadere o correre sopra dati oggetti o luoghi od
anche penetrare nelle stanze, dai Lombardi chiamato col nome di gibiganna
(mil.) o vecca (crem., mant), il quale ultimo nome usasi ancora in questo
senso in alcuni luoghi del Piemonte. Non è tanto strano che silvano e vec-
chia^ oltreché T incubo, denominino ancora il riverbero sopradetto, perocché,
fatto splendere e correre da persona non vista, agli occhi del volgo può facil-
mente assumere carattere e qualità di cosa diabolica o spiritesca.
' Il sic. mazzamareddu^ diminutivo di maszamaru^ potrebb'essere un com-
posto, di cui l'ultima parte fosse quella stessa degli equivalenti fr. cauchemar,
ingl. nightmare, terminati entrambi dalla voce teutonica mara^ f. o mahr, m.
diavolessa, diavolo, incuba, incubo, sicché propriamente il vocabolo siciliano
significhi il diavoletto che ammazza^ come il fr. cauchemar il diavolo che
calca^ e Tingi, nightmare la diavolessa notturna (cfr. il diavolo meridiano dei
Semiti). Partecipando come fa il siciliano di molte voci francesi o franco-
italiche, &1 pel dominio normanrìico, si per le immigrazioni pedemontane o
lombarde, si rende assai probabile questa origine di maszaìnareddu, composto
ibrido come cauchemar] tanto più che il siciliano ha pur frale voci d'analoga
* V. tutta volta Arch. fjlotL. I 520.
Postille etì mulini che. 1 !
la carcateja. i Friulani calcHit, il regg. anche carca-Jdl, eco.,
le quali due ultime voci hanno uno stesso signiticato« che dai
Toscani sarebbe stato verisimiluiente espresso mediante C(i/-
chiìio.
Quanto al nesso logico che può correre fra V erpicare e T af-
fanno causato dall' incubo, si noti ancora come il fr. fnìrccler,
ant. herceler, tormentare, inquietare, sarebbe, secondo la veri-
simile congettura del Diez {EL tr. IPp. 344), un diminutivo di
herser^ ant. fr. Arro^r (= erpicare), sicché varrebbe etimologi-
camente ei'pìcellarc; e come inoltre l'inglese to harroìc signi-
fichi ad un tempo eij)icare e tormentare. Del resto potrebbe
anch'essere che l'origine del nome erpice o erpicetto, usato a
significare l'incubo, si connettesse con qualche superstiziosa cre-
denza popolare, quale per es. che il folletto, la strega, uno spi-
rito infesto qualunque facesse correre uà erpice sul petto, a cui
volesse cagionare una tale oppressura.
P. 151 «Arsirà, per jeri sera. Pretto gallicismo, dicendosi
> nello stesso significato arsoir in lingua d'oil e arsdr in lingua
> d' oc. Arsirà risponde a re o 7^etro sera, cioè al modo nostro
> la sira indrè>. Arsirà viene, come le analoghe forme degli
altri dialetti, da heri-sera, né saprei perchè s'abbia da dir gal-
licismo. Da heri'Sera, erisera fecesi primamente ersera, come
p. e. da oripello (auripellis) si fece orpello (cfr. fr. oripeau)\ e
Vi di heri-y cosi in questa come in altre composizioni, si può dir
generalmente perduto non solo nei dialetti dell'Italia Superiore,
ma anche nel toscano, sicché da un lato per es. mil. parm. ecc.
jersira, yen. gersera, romB,gn.jirnottecc., dall'altro tosc.jier-
sera, jerlaltro, jermattina; che anzi nei dialetti emiliani, lom-
bardi e pedemontani cotesto i va perduto anche ne' riflessi del
semplice heri, quindi le forme del mil., piem., parm., ecc. jer,
romagn., friul.jiV, boi. ajir (con prostesi d'a che potrebbe per
avventura rispondere al lat. ad, come nel nap. ajére, sic. ajéri;
cfr. Arch. glott. I, s. 'jeri ecc.') ecc. Quanto ad er- che iniziale e
disaccentato, si traforma in ar-, esso presenta un fenomeno più
origine un sinonimo di mazzamareddu in carcavecchia o carcavegli ( V. Pa-
SQUAUNi, Yoc.sic.B. vv.) clie ha riscontro non solo nel piem. carcaoeja^ ma
ancora nel lionese carcacela^ quavquavela^ nel chauchevieille di Vaud, ecc.,
composto significante la vecchia che calca.
12 Fiechia,
meno comune ai varj dialetti italiani, onde per tenermi solo
ad esempj tratti da composti comincianti da heri, abbiamo per
heri-sera il sic. arsirà, Taret. arsera, il tìor.jarsera \ il friul.
jarsere ecc.; per heri-mane (propr. jermattina), il sardo (sett.)
arimani (jeri), corso arrimane (jermattina) ecc. (cfr. Arch.
glottoLUy ]}2Lg.9n.). Adunque per derivare il modenese arsirà
da re- o retro-sera sarebbe bisognato dimostrar prima che esso
non possa venire, come fa, regolarmente dal latino heri-sera.
Resta poi inteso che per noi non possono neanche avere una
diversa origine i citati arsoir e arsèr francesi.
A p^. 151 e seg. il G. mostra di propendere a vedere nel mod.
arsui, rimasuglio, piuttosto un vocabolo connesso col latino
barbaro arsura, tosatura di monete o metalli fatti rifondere a
fuoco, che non un'alterazione di voce rispondente anche etimo-
logicamente a rimasuglio, la quale nel modenese, non sincopata
dell' a, sonerebbe regolarmente armasui. Trattandosi di dialetti
che, come cotesti dell'Emilia, soggiacendo a cosi frequenti sin-
copi della vocale disaccentata, vengono ad aver gruppi conso-
nantici quasi impronunziabili e perciò soggetti a perdita di qual-
che suono, come vediamo per esempio nel iaent, parghir per
pardghir (^ perticarium) , aratro, csiéan per crstcan (cri-
stiano), ferr. dsnos per dsdnos (disdegnoso), dsrancinar per
dsgrancinar (disgranchiare), pingular per pindgular (pendi-
culare), boi. arbusir per arcbusir (archibugiere), ecc. si può ben
ammettere come assai probabile Tettlissi della m nel mod., boi.,
ferr., arsui, faent. arsoi per armsui, armsoi^ da amiasui, ri-
masuglio; tanto più che dialetti più o meno contermini presen-
terebbero indubitato il corrispondente vocabolo, come per es. il
regg. rimasulli, parm. armasuli, mant. rimasul, ecc.
P. 154 « Artsan. Artigiano. Noto questa voce solo per av-
> vertire come tali desinenze in -san o -giano suppongano forse
» un sostantivo astratto in sia o già, dal quale derivino piut-
* Non sono né Tuno nò T altro nel Vocahol. delVuso tose, del Fanfani; e il
eecondo neppure nelle suo Voci e maniere del parlare fiorentino^ ma sì il primo
nel Yoc. aretino (ms.) del Redi, il quale, considerandolo come allerazione di
jarsera^jersera^ lo riferisco perciò etimologicamente al lat. herisera; e jar-
sera negli Scherjsi comici dello Zannoni.
Posliì!-* ethuotogiche. 13
» :os:o che da! nriaiitivo reale. Artsan AixnyAe non verrebbe
> da arie, ma da arlesc per arteSce, dal qaalo uscirebbe aricsia,
> astratto di artese, parola offertaci Jalla lingua romanza e per-
> u-::a tra noi. Per conseguenza coriì'jiaìWy borffhiffimìo^ e
> simili si dedurranno da cjriesia e da borghesia, astratti di
» cortese e di borghese, non da corte o da borgo. Il vailese
> {:-3Ì e il montese ci permetterebbero di credere ali* esistenza
» delle voci vallesia e viontesìa dalle quali per ultimo escireb-
> bono dirittamente valligiano e montigiano. »
Non credo punto verisimile che i nomi venuti a terminare
nel tose. igianOy rom. e nap. isano, esano, Ital. sup. ezan, ian
(p. e. cortigiano, cortisano, cortesano, corteian, cortzan, ecc.),
procedendo dalla forma in ese (ensis), abbiano poi dovuto
passare per quella di un sostantivo astratto in -sia, -già, dal
quale immediatamente si derivino mediante il finimento -ano.
Il valore etimologico di cortigiano non è già quello di uomo
avente cortesia, ma si di uomo di corte, che sta in corte o
frequenta le corti, e si deriva perciò immediatamente da cortese
(=corten8Ìs), che originariamente significò pure di corte, poi
per traslato avente maniere di corte, garbato, ecc. Né paja
strano che da un aggettivo siasi immediatamente derivato un
altro aggettivo, di significato per lo più equivalente al nome
primitivo, sicché per esempio da parmensis siasi formato par-
7nensianus, donde parmigiano, parmezan, parmian, e per me-
tatesi, come dice appunto il popolo di Parma, pramzan\ peroc-
ché questa singolarità ci si presenta anche in nomi derivati per
mezzo de'suff. ale e oso, onde per esempio fecesi paternale dapa-
terno, eternale da eterno, perpetuale da perpetuo (cfi\ fr. con-
tinuel àacontinuiis), gravoso da grave, prosperoso da prospero
(cfr.fr. serieux da serius), ecc., nelle quali forme derivate ab-
biamo manifestamente aggettivi che si derivano immediate da
aggettivi, e perciò senza passar per la forma intermedia di un
sostantivo astratto come vorrebbe il Galvani per questi nomi
in 'igiano. E qui derivando come io fo, senza alcuna esitanza,
tutti questi nomi in -igiano da uno stesso prototipo per mezzo
di un doppio suffisso -ensi-ano, so di non andar d'accordo col-
r illustre nostro maestro il Die/,, il quale ammettendo questa
formazione poi nomi gentili, come puro per cortigiano, non la
U Flechia,
vorrebbe pegli altri, onde pianigiano per lui sarebbe plani^
tianiis da plani fia, artigiano artiiianiis da artitus, parti-
giano partitianus da partitiis, torrigiano turritianus da tur-
ritus (Gr. IV 336; Et, io. P 140, s. corte). Io penso all'incontro
che le forme plani lia^ artifus, partitus, turritus, non entrino
punto in queste derivazioni, ma bensì, quando s'avesse a risa-
lire a prototipi di romano volgare, le forme *planensis^ *ar-
iensis, ^partensis, *turrensis, le quali, per quanto ipotetiche,
hanno tuttavia una molto maggiore verisimiglianza. Il suffisso
-ensi'S forma in latino degli aggettivi significanti principalmente
che sta, che vive, che abita, che è nato nel luogo designato
dal nome primitivo', quindi p. e. non solo Parmensis, di Parma,
ma anche per es. portuensis (o portensis), che abita nel porto
(d'Ostia); lutensis, che vive nel l&to, nella melma; pratensis,
che nasce od è ne' prati; montensis, che è o sta nei monti, ecc.
Ora dato che il nova^ piano (planum) significante pianura fosse,
come è assai verisimile, già usato nel romano volgare, se ne de-
riva assai naturalmente *planensis, *pianese, che sta nel piano.
Come da mons fecesi montensis, da montagna [monianea) i Si-
ciliani derivarono muntanisi, montanaro. Anche a significare
esercenti un uffizio si foggiarono nomi col suff. -ensi-s, -ese. Sotto
l'impero romano si chiamarono laterculenses coloro il cui uffizio
era di tener note, cataloghi, registri (latercula); i Fiorentini
diedero nome di laudesi a certi loro cantori di laudi; i Corsi
da piato (placitum) chiamano piatesi gli avvocati; possiamo
quindi credere che fosse assai naturale il chiamare artenses
quelli che attendevano alle arti, turrenses coloro che stavano
a guardia in sulle torri e partenses gli uomini di parte. Al
qual proposito noterò come appunto con nome desinente in -ese
siano talvolta stati denominati ne' nostri volgari gli uomini di
una data parte, come per es. dagli scacchi si chiamarono Scac-
chesi quei Bolognesi che parteggiavano pei Pepoli aventi per
istemma uno schacchiere; e da Colonna Colonnesi i tegnenti per
la famiglia di questo nome. Pare adunque che non si debba
esitare ad ammettere per tutti i nomi di questa forma in -igiano
la doppia derivazione di -ensi-ano', tanto più che all'ipotesi del
Diez si potrebbero ancora fare delle objezioni morfologiche e fo-
nologiche. E cosi si potrebbe notare che se sarebbe regolare un
Postille etimologiche. 15
finimento in itianiis pel derivato da planitia, non lo parrebbe
j)iù pei dedotti da artitus e simili, i quali non avrebbero già
dovuto dare artitianus, ma arUtanus, ecc. come per es. dal
greco gentilizio neapolites si derivò non già *iieapoUtlanns, ma
neapolitanus. Inoltre, pure ammessa codesta formazione in 'itia-
nus, sotto l'aspetto fonologico non sarebbe probabile che quei
dialetti i quali non possono, come il toscano -igiano - -itianus^
-ensianus, oCFrire in una sola forma una rappresentanza di due
tipi diversi, venissero ad avere una sola forma desinenziale, la
quale rappresenti ad un tempo i suffissi p. e. di parm-ensia-
' nus e di plan-iiianus, come per esempio nel romanesco, il quale
nell'unico suo tipo volgare cortesanOy marchisano, ponlisa-
no, portisano, montisano, pianisano, accenna pure ad un solo
tipo organico che non può essere se non Asiano ^ ensiano\ pe-
rocché da 'itiano, in questo dialetto, non poteva procedere se
non 'izzano, quindi da planitianus sarebbe venuto pianizzano,
non pianisano. E V esempio che io qui reco del romanesco è
riferibile eziandio agli altri dialetti in genere; e in nessuno si
trova che la forma volgare possa foneticamente ripetersi da un
tipo originario -itiano; ma dovunque, in quanto al riflesso di -sia-
(sja), il suono rispondente all'organico -ensiano, tose, -igiano,
è quello stesso che i dialetti presentano per rendere il proto-
tipo dello forme toscane prigione (prensionem), fagiuolo, cilie-
gia, pertugiare, Ambrogio, ecc., forme tutte, che qui ubbidi-
scono alla legge gia = sja {sia). Non s'intende già di dire con
questo che tutti codesti nomi abbiano veramente avuto una
forma intermedia in -eìisis; che se questo può dirsi per es. di
Lunigiano, Lodigiano, Astigiano, Parmigiano, i cui tipi ori-
ginarj sono stati realmente preceduti dalla forma Lunensis ,
Laxidensis, Astensis, Parmensis, ciò forse non si potrebbe nò
provare né aCFermare di tutti gli altri. Ma crediamo si debba
dire in genere dei nomi in -igiano, che essi sono tutti subordi-
nati al tipo ensi-anU'S, tanto quelli cioè che l'hanno realmente
avuto nel romano volgare, secondo che si può senza esitanza
affermare per es. di Astensianus per Astigiano, attestato sin
dal secondo secolo dell'era cristiana *, quanto quegli altri che
* Si presenta come cognomo in un'antica iscrizione: il/. Vettius Ilastensia-
nus Hasta, cioè M. Vettio .Astigiano dWsti v'cfr- ^- Promis, Storia di Torino
K) Flechla,
potrebbero essere stuti derivati per analogia con suflisso già
più meno prossimo alla forma definitivamente volgare {esianus,
isiamis, esanus, isanus, ecc.), cioè specialmente i non procedenti
da nome locale, ma da un appellativo od altro, quali sarebbe
pianigiano, borghigiano, villigiano, colligiano, moniigiano,
alpigiano, campigiano, portigiano, valligiano, torrigiano, roc-
chigiano, frontigiano, boschigiano, artigiano, cortigiano e /b-
rigiano ^ dirimpetto a quelli che come gentilizj presuppongono
generalmente un precessore in -ensi-s, come Astigiano, Lodi-
giano, Litnigiano, Parmigiayio, Canigiano, (da Cana), Chian-
tigiano, Arnigiano, Barghigiano, Carpigiano, Marchigiano ^. *
Sarebbe qui occorso quel medesimo che rispetto ai gentilizj dal
finimento -it-ano, suffisso complesso ed ibrido, in quanto consta
del suffisso greco --.ty- e dell'italico -ano-, onde dissesi prima-
mente con greca morfologia Neapolites, Panormites, Anconi-
tes, Drepanites, ecc., derivati poi con nuovo suffisso (aìiu-s),
più rispondente alla coscienza linguistica degli Italiani, in Nea--
polilanus, Panormitamts, Anconitanus, Drepanitanus; d'onde
poi via via i morfologicamente analogi Salernitano, Amalfita-
no. Carmelitano, Samaritano, Metropolitano, eremitano, ecc.,
Aw^pag. 129). Altro esem\-io comparativamente antico di analoga formaziono
è il castrensxanus del Cod, Just,^ che quando fosse stato trasmesso agli odierni
volgari or sonerebbe castrigiano^ castrisano^ castrezan, ecc.; e che, rife-
rendosi airesercizio di un mestiere, verrebbe appunto ad appoggiare Torigine
di artigiano e torrìgiano come subordinati ad un oiMginario tipo di arten^
siaìiiis^ turrensianus,
* Non conosco, per vero dire, questo nome comò aggettivo vivente; ma la
sua formazione ò resa verosimile da Forigiani^ nome proprio di famiglia
toscana, che io credo s'abbia a connettere etimologicamente coirital. forese
(= "^^forensis^ da foras), di fuori, del contado, contadino, piuttosto che col lat.
forensis, del foro, appartenente al foro, al mercato, alla piazza, d'onde Fo^
rensianus^ cognome attestato da un'antica iscrizione.
' A questi nomi si potrebbe ancora aggiungere, come gentilizio, Canavesano
(piem.. Canauia?i\ il qualo derivandosi da Canadese {Canaì>ensis) per mezzo
del suff. ano verrebbe appunto a presentare uniti i due suffissi, d'onde -igiano;
se non che questo nome, come comparativamente recente e come non uscito
quasi dulia cerchia nativa, non assunse, anche rattenuto dal vivente Canavese,
quella forma toscana di Canav>i giano, che avrebbe preso come corrispondente
a un tipo Canaì^ensianvs o Canahensianus, quando fosse slato più antico e
più noto. Cfr. inoltro paesano - ^pagensianits.
Postille etimologìcho 17
ai quali si potrebbero ancora aggiungere alcuni altri tolti dei
dialetti, come per esempio il sardo golfitanu^ turritanu * (tor-
rigiano), ecc. Come ognuno vede in queste forme di nomi a dop-
pio suffisso {-it-ano) abbiamo un processo logico e morfologico
del tutto simile a quello che ebbe luogo nei nomi in -igiano^
vale a dire nomi gentilizj che senza cambiamento o al più con
lieve modificazione di significato si derivano da altre forme
equivalenti. Ora in quella guisa che per esempio il sardo golfi^
tanu, sebbene non si debba supporre un realmente esistito gr.
xoXtt^ttk; neogr. xoX(p{TiQ;, da cui derivarsi, pure sotto l'aspetto
morfologico si dee considerare come formatosi in analogia per
es. di Cagliaritano {Calaritanus\ cosi noi diremo derivati alla
maniera de' gentilizj Astigiano, Parmigiano, ecc. tutti i nomi
italiani terminanti in -igiano.
' golfitanu non é nel vocabolario dello Spano né in quello del Form ; ma
è nel Celti (Anfibxi e pesci di Sardegna^ p. 139); e dicesi di tonno che T in-
verno si trattenga in fondo ai golfi. Già s* intende che turritanu non potrebbe
appoggiare la derivazione di torrigiano da turritus^ come vuole il Diez, sia
perché qui dobbiamo vedere un derivato coli* ibrido suffisso greco-italico, sia
perché quando questo nome sardo avesse per fondamento turrituSy proverebbe
appunto quello che io notavo sopra, cioè che dato un primitivo turritus, non
turritianus ne sarebbe il proveniente, ma turritanus, dal quale poi sarebbe
stato impossibile il derivare foneticamente torrigiano^ torrisano^ torresan^ tor~
zan^ ecc. La forma toscana de* nomi in -igia (p. e. grandigia)^ cagione (p. e. pe-
scagione) e alcune corrispondentivi negli altri dialetti, le quali accennando a
prototipi in -tìia, -atione^ potrebbero rendere verisimile anche fuor del toscano
queste alterazioni, credo s'abbiano da ripetere non tanto immediatamente dai
tipi a cui pajono accennare, quanto piuttosto da una sostituzione sporadica di
forme intermedie in -ma, -ottone, determinata sia da principj meramente
fonetici, già manifestatisi assai per tempo nel romano volgare (cfr. Corssen,
Ausspr,y P, Q2 e segg., Diez, Gr, P, 229), sia anche da influenza delle forme in
-a^ione^ -isione (p. e. occasione^ provisione^ d* onde poi cagione, provvigione),
E ciò si chiarirebbe anche dal fatto che tali nomi, massime i primi, sono ge-
neralmente di formazione romanza, quali per es. cupidigia, alterigia, fran-
chigia, fatagione, carnagione, imbandigione. Del resto, quanto a nomi dal
finimento -igiano, che nello stesso toscano mettano sicuramente capo ad un
organico ^itiano, io non ne conosco esempio fuori dell* aretino servigiana
(Redi, Voc. Ar. ras,, b. v.), serva di monache, derivato probabilmente da servi-
gio^ piuttosto che da un tipo servitiana; e lo stesso nome Venetianus che nel
fiorentino, il quale ha per antica forma propria Vinegia = Venetia, pare avrebbe
dovuto mutarsi in Vinigiano, non vi suona mai altrimenti che Viniziano.
Archivio glottol. ital , II. 2
N Flechia,
V ^ » t . ìhivoli,», è dal Galvani dedotto da odversarius
;^i.j,. .'v. 'j ri; non fossìtimo non essere tutti d'accordo; ma
^ii \xiMV ::foìcr^ nel r di arvsari un suono nato dal <^ di
a*rr ' se/'«><jp v^. pp. Ili e 450); sicché per lui cotesta forma
\ontfbbe (^uasi a connettersi coW arvorsiim, an^orsus, arvor^
Sijtr'ius del latino arcaico; e qui confesso che esito assai ad ac-
c\.>siariiM a questa sua opinione, quantunque messa, credo, pri-
mamente innanzi dal Muratori {Aìit. IL, II, 1089) ', e accettata
l»o:, fra gli altri, dal Fabretti (Gloss. //. s. arvorsarius) e dal
Oorssen (Zcitschr. f. vergi, spr. XV, 155). Io reputo che nello
arvsari modenese, come pure nell'equivalente arvsaria reg-
giano e in quelle altre formazioni analoghe che potessero pre-
sentarsi nei dialetti dell'Italia superiore comincianti da ar-,
questa liquida consonante sia piuttosto da tenersi per rappre-
sentante il primo r di adversarius e per conseguente suono
metatetico o trasposto che dir vogliamo. Egli è assai naturale,
che il lat. adversarius trasformatosi regolarmente nel modenese
dia avversari, come vi suona infatti la parola avversario, ado-
peratavi nel suo significato etimologico e comune. Ora cotesta
comparativamente antica forma modenese avversari, massimo
in quanto significando diavolo, versiera, fìstolo, serpentello ecc. ,
era parola essenzialmente popolare, doveva naturalmente sog-
giacere a quella sincope delle vocali disaccentate, che fra i
dialetti dell' Italia superiore fu cosi estesa nella formazione
principalmente dei volgari emiliani e pedemontani; e quindi nt)
sarebbe dovuto venire un av'rsari (av'rsari). Se non che questa
forma, presentante il quasi impronunziabile gruppo consonantico
vrs, si racconciò con la metatesi del r, suono metatetico per
eccellenza; sicché da av'rsari fecesi arvsari *. Questa mia
* Il Muratori mostra però di «hibilaro di questa counessloue di forma del
moil. circj((iri coH'urcaioo urror*ii//i, <i/Tt'rjftiriiiò*, poiché, dopo di aver citato
i|Uesti due vocaboli, K>ggiuu):t': < uon ò facile il decidere «e i Moiieu«&i da cosi
remoti secoli abbiano condotto il loro arceròurio (>i:) >iiio a <|U'^-ti tempi. »
" La metatesi del r, più o meno frequente ne' vai j dialclli italiani, vor-
rebbe qui ad essere niolto analo^^a a quelli che ha Iuj^'O per es. nel iu:nai:n.
rtJTi, parm. regg. mol. art it\ per «cn, aerìr {- aprire^ ttpcrtre), se i;ou elio
il fenomeno «rui-^riari mutatu in arenari venne ad es-cre quasi uu.i uto.^-
mU, ^lante riuoommudo acvo/io delle tre condonanti.
Postille etimologiche. 19
opinione riceve, parmi, un appoggio dal fatto che in nessuna,
per quanto io mi sappia, di queste forme comincianti da ar-
più non si mantiene al suo luogo il primo r di, adversarius ^
mentre ben vi si trova in tutte quelle equivalenti forme che non
hanno ar- per prima sillaba, come per es. nel tose, avversiero,
avversiere, avversieri, avversavo, versiera, sic. avvirsieri,
virsieri, ecc. A provare pertanto come verisimile la rappre-
sentanza di d per via del r nel moden. arvsari si richiederebbe
una forma come per es. arversari, dalla quale soltanto si po-
trebbe fare una qualche testimonianza dell'antico e volgare ar-
riflettente ad-. Noterò ancora come essendosi introdotta cotesta
parola adversarius in significato di Satana principalmente per
mezzo della Volgata (Epist. S. Petri I, 5, 1) e degli scrittori ec-
clesiastici, da cui certamente non è da credere che fosse usata
un'arcaica forma né di arvorsariiis né d'arversarius, si rende
anche perciò men verosimile la conservazione di queir ar- in al-
cuno degli odierni volgari. Il solo caso in cui paja essersi vera-
mente conservato l'arcaico e volgare ar- per ad- è argine, pro-
veniente da argerem {arger per *adger donde agger, Prisc. I,
45), con mutazione dissimilativa del secondo r in n, ignota però
al veneziano àrzare. Il ven. arfìar, respirare, non è già da ar-
flare per ad/lare, come mostrò credere lo Schuchardt {D. voc. d,
vulg. lat. 1, 141), ma bensì da reflatare, donde per via di gra-
duali processi, al tutto proprj di questo dialetto {reflatare, re-
fiadar, refiaar, arfiar), si giunge alla forma finale à'arfiar (cfr.
Ardi, I, 433). Lo stesso dicasi de' verbi roveretani e trentini ar-
binar (adunare), arlevar (allevare), arvezinar (avvicinare),
arvenir (rinvenire, riaversi), dove lo Schuchardt vede pure
ar-ad (o. e. Ili, 73). Il consueto uffizio del pref. re-, cioè d'in-
dicar ripetizione, quanto ad arvenir é più che mai chiaro; e il
veneziano ha l'equivalente sotto la doppia forma à' arvenir e
revenir. Quanto agli altri verbi, dove il senso di re- non é
tanto manifesto, noterò come questo prefisso vi stia come per
esempio nell' ital. radunare, rammollire, raumiliare, rallen-
tare, ribassare, rimpicciolire, ecc. dove l' idea della ripetizione
non è necessariamente inclusa; sicché i succitati verbi trentini
possono, pur preceduti da re-, non significare altro che abbi-
nare (adunare, radunare), allevare, avvicinare.
20 Flechia,
Pp. 155 e 164. Per ispiegare il modenese aì^vuj (rivolgimento
propr. ^rivoglio, *rinvoglió)f vujér, avujér^ arvujér (avvolgere,
propr. Svogliare, *avvogliare, *rivogliare)t ricorre ad un *ro-
lìiare, da volvere, sinonimo di valutare. Cotesto ipotetico vo^
luare sarebbe contrario ad ogni analogia; ma dato pure un .
voluare^ non sapremo come potrebbe da questo nascere rego-
larmente un verbo colle citate forme del modenese e per conse-
guenza colle analoghe degli altri dialetti. Ora poiché 1* italiano
ha i nomi invoglia^ invoglio e il verbo invogliare (involgere,
inviluppare), formati, quanto al tema fondamentale, in analogia
del modenese e degli altri volgari italici, vediamo so ci sia dato
di giungere ad una piìi verisimile spiegazione di tali forme.
La connessione etimologica di questi nomi e verbi col latino
volvere pare non sia da mettersi punto in dubbio; ma il latino
non ci presenta alcuna forma, d*onde far venire più o men re-
golarmente un ìL (tose.) 'Vogliare {in-vogliare), -voglia, -voglio
{in-voglia^ in-voglio) insieme coir altre dialettiche forme, quali
per es. nap. commuogliOf commogliare (« con-voglio, con-vo-
gliare^ coperchio, coprire), sicil. cummogghiu, ammugghiari
(= in-vogliare, avvolgere) *, venez. invogar (involgere), boi. m-
'Vujnr, ecc. Si potrebbe quindi congetturare un romano *volu^
culunif *involticulum, *voluculare, *involucularc, donde me-
diante la sincope d^ambi gli u, pel primo in analogia di volto,
voltare da volutus, volutare, pel secondo, di speclum, spedare
da speculum, speculare, sarebbesi riuscito nel romano volgare
a *volclum, *volclare, 'involclum, *involclare, e nell'italiano a
' Nel nap. corumuoglio^ commoglià^ sic. cummogghiu ammugghiari ab-
biamo il fenomeno comune a questi due dialetti di mm = mb - nr, onde per es.
nap. chiummo (= plumbum), comnuì^tuto (- convenuto)^ sic. chiummìé^ cum-
mena (*conr«na, convenzione), ecc. Quanto aìVa per i del sic. ammugghiari
cfr. per es nap. ammattere = imbattere , sic. ammuccata = imboccata. È poi
quasi superfluo il notare che colle dette voci siciliano e napolitano rispon-
denti a convoglio e convogliare o significanti invoglio, coperchio, involgere,
coperchiare, non hanno punto che fare Tit. convoglio, convogliare, neologi-
smi venutici dal francese convoi, convoycr^ che due o più secoli addietro i
Toscani scrivevano convojo, convojare, e che con forme genuinamente italiano
sarebbero stati concio, conviarc (da via\ secondo che appunto cotesto ultimo
verbo suona presso qualche antico scrittore toscano (cfr. invio, inviare^ fr. en-
roi, t'nvoyer).
Postille etimologiche. 21
-voglio, 'Vogliare, invoglio, invogliare (cfr. speglio = speclum,
periglio ^periclum) \ Queste ipotetiche forme di voluculum, m-
voluculum son fatte probabili dal reale involucrum, in quanto
amendue i suflSssi latini -cru- e -culu- si tengono con grande
yerisimiglianza per etimologicamente identici ed hanno nella
loro applicazione una funzione al tutto analoga (cfr. Corssbn,
KriL beitr. z. lai. form. 341 e segg., L. Meyer, Vergi, gr. d. gr.
lat spr. II, 356 e seg,). Altro argomento d'esistenza per T ipo-
tetico voluculum si può cavare dall' it. vilucchio per volucchio
(cfr. vilume per volume, viluppare per voluppare *) che accenna
ad un organico voluclum e significa quello che il covolvulus
arvensis de' botanici. Questo vilucchio (= volucchio) e -voglio
starebbero fra loro quanto al rappresentare con diversa forma
uno stesso tipo originario {voluculum), come stanno per es. tra
loro agucchia o agocchia e aguglia dirimpetto all'unico tipo
acucla (= acucula per acicula), specchio e speglio (= speclum^
specidum), vecchio e veglio (=veclus, vetlus, vetulus), ecc.:
salvo ancora il difierenziamento prodotto dalla doppia sincope
toccata, Si -voglio - volclu7n. Questa, s'io non m'illudo, sarebbe
la meno inverosimile spiegazione délVit. invoglio, invogliare e
delle analoghe formazioni vernacolari in ordine al loro modo
di derivazione dal latino volvere. Avrebbesi qui un perfetto ri-
scontro morfologico coli' it. coperchio (= *coperclum, coopercu-
lum da cooperire), coperchiare (= coperclare da coperclum),
Cfr. lat. operculum, operculare da operire.
Volendo poi qui correre il campo delle ipotesi si potrebbe an-
cora, tra l'altre, mettere innanzi la congettura che avendo il
verbo volgere, insieme colle forme più usitate, eziandio le arcai-
* Il primo l di *volclum andrebbe apparentemente perduto in -voglio dinanzi
a -glio = clu come il l di balneum in bagno dinanzi a -gno = nju {-neu), sic-
ché da un lato voglio -*voUjo, *volclum ecc, dall'altro bagno -^baliio, *bal-
fìjum ecc.
* Qaalnnqne possa essere 1* origine di viluppo, viluppare (che ora qui non
d luogo da indagare), pare che dinanzi ali* ant. sp. volopar, al proT. (ant.) en~
tolopar^ (mod.) agouloupd^ corso inguluppà^ romagn. agulpé ecc. non sia
punto da dubitare, che viluppo, viluppare non istiano per voluppo, voluppare^
e perciò non presentino fenomeno analogo a quello che ebbe luogo in vilume,
vilucchio per volume, volucchio (cfr. = Diez, P, Et. io. s. v. viluppo).
22 Flechia,
che di vòglierey vogliendo ecc., ne possa essere nàto con analoga
struttura un nome verbale ^voglio, invoglio^ o ^voglia^ invoglia,
donde i denominativi Svogliare, invogliare; se non che la raris-
sima e quasi niuna derivazione nominale da verbi della terza ^
renderebbe più che mai inverisimile cotesta congettura.
A p. 132 si legge: « alvador, lievito, fermento. Noi da alvér
» o levare, deduciamo la voce aggiugnendovi la desinenza dei
» sostantivi attivi; ed i Toscani, dicendo lievito, la traggono
» dalla persona prima del verbo iterativo lievitare *, come si fa
» in fermento, moschetto, progetto, andito, sdrucciolo e simili.
» Quando dunque essi Toscani dicono che il pane è ben lievito.
' Cfr. DiEZ, Gr. IP p. 290, dove egli reca come soli nomi italiani procedenti
da verbi della terza beva (da bibere)^ cappa (da capere) e cigna (da cin-
gere^ cigntre). Credo che quest'ultimo debba esserne eliminato, non essendo se
non un'altra forma dell'equivalente cinghia (=cingla^ cingula\ come lo sono
cignare di cinghiare (= *cinglare^ *cingulare\ cignale di cinghiale (= *sm-
glaris, singularis\ rignare di ringhiare (= *ringlare, ringulare, da ringere)^
ugna, ugnare di unghia^ unghiare (= '^^ungla *unglare^ ungula^ ungulare\
voci tutte, le quali presentano ~gna per -nghia, fenomeno ch'io credo di tro-
var pure neW aovignatojo degli antichi capitoli della compagnia della Ma-
donna d' Orsammichele (p. 11), da me considerato come equivalente ad un
avvinghiatojOy donde si potrebbe inferire un'antica forma popolare fioren-
tina di ^avvignare per avvinghiare^ analogo agli allegati cignare^ rignare e
ugnare per cinghiare^ ringhiare^ unghiare,
' Noto per incidente come forma più legittima e genuina sarebbe anche
per l'italiano levitare^ non lievitare, non dovendosi generalmente ammettere
il dittongamento del lat. e in ie se non in sillaba accentata (cfr. p. e. piede,
tiene, ma peduccio, teneva), come p. e. in lievito, lievita, liécitano. Quindi ò che
impropriamente il vocabolario della lingua italiana reca come esempio e sotto
il capo di lievitare il liévitomi del Burchiello, che dovea porsi sotto levitare.
Si capisce come la volgarità della forma lièvito, nome, abbia per avventura,
anche nell'ambiente popolare, dove le leggi fonetiche sono istintivamente e
quindi piti regolarmente osservate, potuto tirare talvolta il verbo con cui si
connette ad ammettere il dittongamento di e in ie fuori di luogo, quale ò la
sillaba disaccentata, secondo che si vede nel lievitare de' canti carnascia-
leschi; ma il grammatico debbe appigliarsi a quelle forme, che sono da tenersi
per le più genuine e regolari, secondo i canoni della lingua. Egli é perciò
che non so comprendere il perchè, verbigrazia, il vocabolario registri, fondato
sopra due esempi di lieva, verbo, l'infinito lievare^ quasiché le forme quali
sono, per es., siede, tiene, viene^ ecc. potessero legittimare anche la registra-
zione d' un infinito siedére, tienére, vienire.
Postille etimologiche. 23
> per dirlo ben lievitato, ci presentano il participio del perduto
» verbo liévere, non quello del suo frequentativo lievitare y>.
Più objezioni si possono fare a queste poche linee. Primie-
ramente si può, dubitare se alvador risponda alla forma levatore,
secondo che paresi voglia intendere con «desinenza dei sostan-
tivi attivi»; giacché cosi nel modenese come in parecchi altri
dialetti non essendovi più che una sola forma riflettente foneti-
camente a un tempo il lat. -torem e iorium (tose, -tore, -dorè
e 'tojó)j si potrebbe sospettare ^ se alvador^ lievito, non risponda
ad un prototipo levatorium, it. levatojo, come per es. vi rispon-
derebbe indubitatamente nell'espressione modenese di pont al-
vador, ponte levatojo. E in questo caso alvador, lievito, come
rispondente ad un sostantivo toscano *levatojo, sarebbe nome
che vorrebbe dire cosa o sostanza con che si eccita il fermento
nella pasta da far pane, sostanza che leva, fa levitare, come
• n dubbio, che il modenese alvador risponda piuttosto al tipo ievaiorium
cbe non a quello di levaforem, mi si fece, direi quasi, certezza, quando ebbi
avvertito che il bolognese, il quale ha livadur^ lievito, e pont livadw\ ponte
levatojo, secondo il sistema ortografico seguito dai duo vocabolaristi Ferrari
e Toni, subordinato naturalmente a varietà di pronunzia pel suono, riflettente
Vo di 'torem e Vo di -torium^ differenzia il suffisso del nome d'agente (-tor)
da quello del nome indicante strumento (-tortu-m), rendendo il primo per via
di -dovr^ e l'altro con dui\ sicché, come dice ^er es, pont livadur^ p. leva-
tojo, dvanadur^ dipanatoio, rasur^ rasojo, ecc., dice poi smacciadour^ smac-
chiatore, cusdour^ cucitore, ecc. Differenziamento, il quale ubbidisce a quello
stesso doppio principio che nei due o, entrambi originariamente aperti, di
'torium e -torem^ conservò verbigrazia nel toscano, al primo il suono aperto,
che odesi in -tojo (frantojo ecc.) e surrogò al secondo un o chiuso, quale
suona in ^tore (fattore^ facitore^ ecc.)*; e che operò eziandio, pur producendo
effetti diversi, per tacer d'altri, nel napolitano, come verbigrazia in pesatura
(= *pinsatorium\ pestello, pogneturo (= *pungitorium per *punctorium), pu-
gnitqjo, servetore (= *servitorem), tradetore (= traditorem) ecc. ; ma che cessa
in varj dialetti, i quali, come s'è accennato di sopra, confondono, per processi
fonologici, le due forme in una sola.
* Qui mi devo permettere un' osservazioncella. L'o chiuso di fattóre ecc.
è il legittimo continuatore toscano dell' o; e circa l'o aperto nella con-
tinuazione di 'orio^ che è l'esatto parallelo dell' e aperta nella conti-
nuazione di -ério^ mi fo lecito di citare il primo voi. dell'aire?! , p. 488,
4^ ecc. (541 a). G. I. A.
24 Flechia,
per esempio scotitojo significa cosa che scuote, frantojo cosa che
frange; mezzo, strumento dello scuotere, del frangere.
Quanto poi a lievito sostantivo, fatto venire dalla prima per-
sona di levitare^ noto essere al tutto contrario ai principj mor-
fologici delle lingue indo-europee cotesto ripetere la forma di
un tema nominale dalla forma personale, d'un verbo. La coin-
cidenza formale di lievito nome con (io) lievito verbo è cosa del
tutto fortuita, come lo è per esempio dei nomi mischia^ mostra^
piega, ecc. colla terza persona de' verbi mischiare, mostrare,
piegare, dei nomi voglia^ tema, ecc. colle tre persone sing. del
sogg. de' verbi volere, temere. Sono nomi che fondati sul tema,
0, come dicono, sul radicale d'un verbo, è quasi impossibile che
non vengano a corrispondere a qualche forma flessionale di esso
verbo. Se questi nomi italiani di formazione romanza sono, per
cosi dire, maschilmente concetti, pigliano il finimento simbolico
e caratteristico di questo genere che è o; se femminilmente, pi-
gliano Va\ se in ambo i generi, qV o QVa, come p. e. conforto,
pecca, conquisto e conquista. Peggio poi sarebbe l'applicare
questo principio ai nomi citati in appresso, come per es. a fer-
mento, il quale tanto è lungi dal procedere dalla forma verbale
io fermento, che anzi da esso nome si generò il verbo fermen-
tare, essendo quasi superfluo il notare come fermento sia nome
latino, formatosi con. tanti altri per mezzo del suffisso -mento
e generatore poi esso medesimo nella lingua latina del v. fer-
mentare come lo sono per es. fomentum di fomentare, lamen-
tum di lamentari, tormentum di tormentare, ecc. e perciò l'ita-
liano fermento stia al latino fermentum come v. gr. momento
a momentum, strumento a instrumentum ecc., pei quali nomi
non avremmo più .alcun verbo donde ripeterne la forma.
Quanto a lievito per levitato non accade supporre un verbo
lievere che sarebbe contrario ad ogni analogia; perocché i verbi
rispondenti alla terza conjugazione latina sono verbi primitivi,
cioè derivati immediatamente da radici verbali, mentre in le-
vare, come in gravare da gravis, abbiamo un verbo denomina-
tivo procedente da Kvis, la cui sillaba lev- (da ^leghv-, = indo-
eur. *raghU', sanscr. laghu-, gr. è-Xaj^ó-) rappresenta un antico
aggettivo ariano, troppo noto nella grammatica comparata,
perchè s'abbia mai a scambiar per radice.
Postille etimologiche. 25
Se levitare è, come par verisimile, un frequentativo di levare
secondo che sono per es. minitare^ cenitare^ vanitare, huhuU
citare^ ecc. di minare^ cenare, variare, "bubulcare, tutti verbi
denominativi come levare, in tal caso lievito per levitato si
può considerare come una di quelle forme tronche di participio
passivo passato, si comuni al toscano, come pure ad altri dia-
letti, quali sono per es. dimentico, cerco, pesto, compro, ecc.
per dimenticato, cercato, pestato, comprato. Quanto poi a He-
vita sostantivo, quando non si voglia tenere pel detto participio
di forma tronca passato a valore di sostantivo, quali sarebbero
appunto gli equivalenti nap. levato, ven., mil. leva, piem. alvà,
riflettenti la participiale forma levaium, esso può considerarsi
come nome verbale procedente da levitare, quali sono v. gr. 1
sost. starnuto, vanto, invito, accatto, ecc. connessi con starnu-
tare, vantare, invitare, accattare. La verisimiglianza della qua-
lità di frequentativo propria di levitare apparirebbe eziandio dai
molti nomi verbali di analoga significazione, procedenti imme-
diatamente da levare, in senso di fermentare, quali sono, oltre
le citate dialettiche forme participali, il friul. levan, lad. alvan
che, col prov. levam, fr. levain, accennano ad un tipo levamen
(cfr. Arch, glott, I, s. levamen) ; il b. lat. levamentum che Pa-
pias ( Voc. s. V.) definisce fermentum, e alla qual forma risponde
il basso engadinese alvamaint (ant. trad. di S. Matt. XIII, 33;
XVI, 6, 11); lo sp. levadura (levatura), lievito, ecc. Si aggiunga
che il tempiese (gallurese), il quale ha liità (= levitare), non ha
poi alcuna forma rispondente a lievito (= levitum), ma adopera
in questo senso matrica (= matricem), come dir madre, origine
della levitazione.
Il Diez (Et. IO, V, s. lievito) non vuole che levitare sia fre-
quentativo, 0, com'egli dice, iterativo di levare, dal quale sia
poi venuto lievito; ma lo deduce da un antico levitus, ipotetico^
participio di levare, analogo a cubitus da cubare, domitus da
domare; e nota che se fosse iterativo, lo spagnuolo avrebbe
per avventura anche egli un t, cioè leutar ecc. non leudar.
n Diez attenendosi, come fa [Gr. IP, 401), all'antica teoria
dei frequentativi latini dedotti dal supino., e non alla nuova,
che li trae dal participio, può supporre un participio levitus,
donde derivar levitare, e negar ciò nondimeno a questo verbo
26 Flechia,
la qualità di frequentativo. Quanto alla objezione fonetica ri-
guardante lo spagnuolo, si potrebbe notare come in questa
lingua, per es. ohlìtare, frequentativo di oblivisci, suoni non
già olvitar, ma olvidar; e cosi nadar e sfiatare, dudar:= du-
bitare, ecc.
A p. 154, per ispiegare arvers, rovescio, il G. sì riferisce
all'arcaico \d^i, arvorsuìu per advorsum e deriva quindi la voce
modenese da arversum per adversum. Non dirò più dell* inve-
rosimiglianza di un odierno riflesso modenese dell'arcaico ar-
versum per adversum, già toccata a p. 18 eseg.; noterò solo
come tanto in questo vernacolo, quanto nella più parte dei dia-
letti dell'Italia superiore e, fra i toscani, anche nell'aretino, il
pref. lat. re- venga per via di sincope surrogato da ar- e in que-
sto stesso glossario del G. molte voci si citino in cui Var- iniziale
risponde indubitatamente al lat. re; quindi è che pel modenese
arvers non è punto necessario staccarsi da quel reversus, donde
vengono per via di mutazioni di suono, tutte spiegabili e note
alla fonologia italiana S non solo le varie forme toscane di ri-
* E così per es. ro-, ru- da rè-, per influenza assimilitiva della seguente
labiale, », come per es. in rovistare = revisitare (cfr. nap. revistare) ^ dovere
= deverCy debere^ doventare — deventare, piovano = plebanus ; perdita , o, dirò
meglio, assimilazione di r colla s seguente {rovescio, rebessu, arves ecc.), come
in dosso = dorsum; suso = *^sussu, sursum; giuso r= deosum^deorsum, ecc.*. E
come varie forme procedono da revers-ì-us , cosi lo svolgimento di so e co
= sjo, come p. e. in coscio, cacio -*casius (caseus); bascio, bacio = basium eco-
* A proposito di giuso noterò una svista corsa nella Grammatica del Diez
(I* 137, V 160) e ripetuta alla cieca dal Fornaciari (Gr, st. ecc., p. 8), cioè il
citarviei gioso, come forma dantesca presentante ancora regolarmente =
dirimpetto allo sporadico ed anomalo u=:o di giuso -^dedsum^ deorsum. Una
forma siffatta in Dante non s'incontra punto; ma in cambio di questo gioso
imaginario si sarebbero qui ben potuti citare, verbigrazia, il sardo giossu (mer.)
giosso (log.), il ven. io50, io, lomb. ^0. Lo sbaglio è probabilmente nato da
coufusion di memoria, che ha fatto credere a un gioso per giuso, in quanto
r Alighieri usa soso per suso, citato poi dallo stesso Diez (tot, 143; 165; non
toccato dal Fornaciari), insieme col pur dantesco lome per lume, come esemp;
d* anomala rappresentanza d' ù accentato per via d* ; forme che il Diez nota
come causate, ma non strappate dalla rima. Il che, se ò ammissibile per lome
dinanzi al lom de' Romagnuoli , ben può dubitarsi se pure il sia quanto a
soso per suso, che non saprei se, per conto ò^o — ù, trovi riscontro in qual-
che dialetto italiano.
Postille eliraologicbe. 27
verso t rìverscio (ant. san. e prat.), rivercio (san.), rivescio,
raverso, roversio, rovercio^ rovescio (fior.) , arverscio (aret.) ;
il sardo reversu (log.), revesciu od arrevesciu (mer.) , rebessu
(sett.), sic, riversu, romanesco riverzo, nap. revierzo, gen. re-
tersUy ven. roverso, lomb. (mil., com., bresc, mant., ecc.), rovers,
crem. revers, friul. roviers, ruviers, ruviars, ecc., ma anche il
mod.y boi., ferr., romagn., parm., piem., arvers, vegg. arves,
(cfr. Arch. gì. I, p. 221; II, p. 19).
A p. 157 ben confrontato argine coir arcaico o (se meglio si
voglia) col volgare arger per adger, donde per assimilazione
la regolare forma latina di agger (cfr. pag. 19). Quivi stesso il
G, connette il toscano capruggine col plautino caperarey cor-
rugare. Data come possibile cotesta connessione etimologica,
non saremmo poi per ammettere punto l'ipotetico derivato ca-
'prugare, donde far venire capruggine. Questo nome è di for-
mazione analoga ai molti nomi latini in -gon, quali per es.
torago(n), origo(n), albugo{n), cerugo(n), e cosi *caperugo{n).
Ora qui il suflf. -gon è essenzialmente proprio del nome, e a spie-
garlo non occorre la derivazione d'un verbo in -gare. E cosi
per es. collegando naturalmente ver Ugo con vertere ci guar-
deremmo dal presupporre un verbo *vertigare con cui connet-
terlo. Diremo verbigrazia che imago viene da un perduto verbo
*tmaW, attestato dal suo frequentativo imitari, come voràgo
viene da vorare, ma sarebbe assurdo il coniare degli ipotetici
*imagare, *voragare per {spiegare imago, vorago.
A p. 158 il G. fa venire il modenese schizzér, schizz, aschizz
e l'equivalente schiacciare da excutere per via d'un ipotetico
excuiiare. Abbiamo per molto più verisimile l'etimologia che fa
venir questi verbi dal teutonico (ant. alto tedesco) klackjan,
spezzare (Diez, EL w. IP p. 63). Da excutiare sarebbe venuto
*scuzzare o scozzare od anche scocciare, mentre klackjan dà
r^olarmente chiacciare (cfr. braccio = *brahjum, brachium) e
col sigma rinforzativo, schiacciare. Sarebbe inoltre inverisimile
la forma excutiare, non derivandosi verbi in -i-are, se non da
temi nominali e segnatamente da participj passivi in to (so);
quindi da excutere sarebbe solo potuto venir per via di excus-
siis, un eoocuss-i-are, dal quale sarebbe pur foneticamente im-
possibile dedurre uno schiacciare. Finalmente sotto 1' aspetto
28 Flechia,
logico schiacciare si deriva più naturalmente da verbo signifi-
cante spezzare che non scuotere, crollare.
La derivazione di piccare, impiccare da pendicare, imperi-
dicare, secondo che vorrebbe il G. a p. 160, non pare ammissibile
principalmente come contraria alle leggi di trasformazione. Più
verisimile, quantunque non al tutto regolare dal lato fonetico, ci
sembra la loro derivazione, insieme con appiccare, appiccicare,
spiccare, spiccicare, dal XoXmo picare, impeciare, attaccar
con pece (v. Diez, Et. tr. P, s. pegar). Piccare poi in quanto si
usa semplice, col significato di pungere, si connette etimologi-
camente con picchiare, e vengono il primo da picus, pico, e
l'altro da piclus, picchio, uccello, che, come ognun sa, ha spe-
cialmente per carattere il battere colla punta del becco e forare
il tronco degli alberi. Quanto a picchio con cui si connette
picchiare è troppo chiaro che viene da piclus, sincopamento di'
piculus^ dim. di picus, come pecchia, con aferesi d'a, da apicla,
apicula, Vicchio n. 1. da rictus, viculus, viciis. La forma dimi-
nutiva poi di piculus, per picus, con valore di positivo ha la
sua stessa ragione là dove filiolus, donde figliuolo per figlio;
apicula, donde pecchia per ape; umbiliculus, donde ven. &o-
nigolo, iptLvm. ombrigol, ecc. per umbilico *.
P. 156 « Arzinzer od arsinzer. Risciacquare, dicesi delle
» stoviglie, de* bicchieri e più specialmente del bucato, quando
> si vogliono ripurgare panni lini dalla cenerata e dal ran-
> naticcio. Da prima i Latini dissero mei since7*um per dirlo
» puro, defecato, sine cera. Donato infatti nelle sue note a
» Terenzio scrive: Sincerum: purum sine fuco et simplex, ut
' Fa maraviglia come dinanzi a questi fatti, che dorrebbero por
fra le nozioni elementari della grammatica storica della lingua o dei dialetti
italiani, il Cavcdoni (y. // Dorghini^ I, p. 61 1) riscontri morfologicamente pie-
chio con miccio^ derivandoli entr<imbì d*un modo, l'uno da picus, 1* altro da
micus^ mentre miccio rzmicius, miceus^ micus e picchio ^ piclus^ piculus^ pi--
cus, È poi singolare, che nel Vocabolario italiano (▼. p. e. Fanfani, s. picchio)
fti definisca il picchio per «uccello così detto dal picchiare, ecc.», che é
corno far nascere il generante dal generato, il padre dal figliuolo. A ogni
modo, se i signori vocabolaristi non conoscono le attinenze che passano tra
picchio e picchiare^ dovrebbero almeno ricordarsi che il nome latino picM^
il quale non può venir da picchiare, avrebbe pur da far qualcosa con picchio.
Postille etimologiche. 20
» fnel sine cera. Poscia dissero sincero, il mondo, il rinetto, il
> risciacquato. Orazio perciò: Sincerum est nisi ras, quodcum-
> qtie infundis, acescit. Da qui il volgo dedusse sincerare, per
» nettare, defecare, polire, e poscia resincerare per rinettare,
» ripolire, risciacquare. Di questi due verbi ne offre abbondevoli
> esempi la bassa latinità. Premesso ciò, ed avvertito che noi
» diciamo sinzer per sincero, ne viene che arsinzer è quanto
> Résincare o Risincare sincope di Resincerare o Risincerare.
> La sincope nostra è poi minore di quella che si ode nel fr. rin-
^cer di pari significazione. È però osservabile, massime pel
« significato attribuito alla voce e suoi derivati dalle lavandaje,
« che r alto tedesco ha un verbo reinen spiegato per purgare,
•purificare ed anche per aqua profluente abluere, il cui fre-
« quentativo è reinigen e che può essere dedotto da rin, rinn
« equivalente a rio, rivo od acqua corrente ».
Se noi prendessimo a considerare questa etimologia solo dal
Iato logico, non dovremmo punto esitare ad averla per assai
verisimile, perocché sincerus significando presso i Latini puro
e netto, sarebbe molto naturale che in senso di risciaquare
tosse adoperato un verbo che etimologicamente interpretato
varrebbe rifar puro, rifar netto. Pure noi crediamo che vi
siano assai ragioni che, appoggiando gagliardamente un'altra
origine, debbono far rigettare questa come del tutto falsa.
Primieramente non si vede il perchè, data un' originaria forma
di resincerare, nolV ambiente modenese non ne sarebbe potuto
venir assai regolarmente arsinzrer. La sincope di resincerarc
in résincare non ha alcuna verisimiglianza, e quando pure la si
volesse ammettere, da résincare sarebbe venuto al modenese un
verbo arsinchér. Se non che questa e altre obbiezioni che si
potrebbero fare sotto 1* aspetto meramente fonologico, tome-
nano, speriamo, afiiatto superflue dinanzi a quanto si verrà qui
appresso considerando.
Tatti i dialetti dell* Italia. superiore e, come vedremo più in-
aiali, con questi anche altri volgari neolatini presentano come
siAonimo del toscano sciacquare, risciacqiuire, varie forme di
Tcrbo che mostrano aver un* assai stretta connessione etimo-
logica fra di loro; perocché il veneziano, il padovano, il vero-
nese e il trentino ci danno rczcnlar, il friulano, il milanese,
30 Flechia,
il comasco e il cremonese rezentà, il bergamasco e il bresciano
rezentà, il romagnolo arzinté, il bolognese arzintàr, il par-
migiano arziniar e per metatesi anche ardinzar, come, per
metatesi pure, il reggiano ardinzer, il mantovano e ferrarese
arzanzaVy e quest' ultimo anche arzenzar, il modenese arzinzer,
il piacentino arzintà, il pavese, il novarese, il vercellese e il
canavesano arzente, il torinese arzenssé, l'astigiano arzanté
(nell'Anioni ancora rezenté), il genovese arruzentà, il ladino
arzantar, darzantar^ avgantar^ arganter.
Ora il fondamento comune di tutte queste varie forme di
verbo non può essere altro che il nome participiale recens, dal
quale si derivò il verbo denominativo recentare, recentari {re-
centem facere o fieri^ rinfrescare, rinnovare, rinnovare lavando,
sciacquare, risciacquare), già usato fin dal tempo di Nonio in
senso di renovare^ come nell'antica latinità si era già derivato
p. e. da frequenSy frequentare, da proesens, proesentare , e come
più tardi altri parecchi se ne derivarono in analogia nelle varie
lingue neolatine, quali p. e. gl'it. addormentare da dormiens,
arroventare da rubens, imparentare da parens, spaventare
da pavenSy nap., cai., sic. sbacantare, sbacantari (da vacans)^
votare, vacuare, spagn. calentar (da calens), scaldare. Da
questo recentare pertanto si deducono più o meno regolarmente
tutte le dialettiche forme anzidette, eccettuate quelle del man-
tovano, ferrarese e torinese che avendo z o s in cambio del t
proprio della maggior parte, presenterebbero un'anomalia fo-
netica, pur valutata secondo le leggi speciali dei relativi dialetti,
qualora si traessero immediate da recentare \ quindi è che per
queste forme la critica fonologica deve presupporre un prototipo
recent'i-are , donde esse procederebbero con quella stessa re-
golarità che le altre da recentare; al qual proposito occorre di
avvertire come fra i verbi derivati della famiglia neolatina ve
ne sia una categoria formale, la quale si deduce per via di un i,
come ve n'ha che si derivano per via A' ul (it. ol) (per es.
joC'Ul-are, gioc-ol-are, da jocus, gioco), per via d' ic {de-ment-
'ic-arc, dimenticare, da mens, mente), ecc. Per mezzo adunque
dell' f, materiale elemento di derivazione, si spiegano la forma
e l'etimologia di molti verbi che fatti venire senza più dallo
stipite loro, presenterebbero una fonetica irregolarità.
Postille etimologiche. 31
Prendiamo ad esempio alzare. Questo verbo viene indubita-
tamente da alliis; ma è chiaro che derivato immediatamente
da altus sarebbe stato e in latino e in italiano altare^ come
appunto se ne fece in latino ex-altare, ital. es-altare; giacché
una trasformazione meramente fonetica di altare in alzare
neir italiano sarebbe inammissibile come del tutto contraria alle
leggi di permutazione de' suoni. Ora si ammetta l'intervento
di un i come elemento di derivazione, ed eccoci un verbo neo-
latino alt'i-are, donde come da loro tipo, procedono regolarmente,
secondo le leggi speciali di ciascun parlare, V it. alzare, lo
sp. alzar, il prov. aussar, il fr, hausser, il sic. auzari, il sardo
alzare, arzare, ecc. nap. auzare o avozare, ecc. In tale ana-
logia parecchi altri verbi derivaronsi nella famiglia neolatina
(off. DiEz, Gr. IP, 401 e seg.; Arch. glottol, I, ind. 544 6,
II p. 8, n.).
La più parte di tali verbi derivati mediante i hanno per fon-
damento il participio passivo del perfetto, sicché avrebbero avuto
una totale analogia di formazione col frequentativo latino, se
non fossevi il differenziamento formale determinato dairi. Ora
come questi verbi del participio passato, cosi dal participio pre-
sente recens^, insieme con recentare, derivossi per via d'i, un
verbo recenUi-are ^ , che non è mera forma congetturale, ma
s'incontra ne' documenti della bassa latinità e viene registrata
nel Glossario latino-germanico del Diefenbach ^, in senso di
rinfrescare (frischmachen).
* È pressoché snperlluo T avvertire come T iniziale ar^ di queste forme
venga ad essere qui il riflesso dell' originario re-, fenomeno assai frequente
nei dialetti dell'Italia superiore (cfr. Archiv. gì, I, p. 220 e seg.). Il parm. ar-
dinsar e regg. ardinser^ presentando c2 = t, fanno naturalmente presupporre
avvenuta la metatesi prima del fenomeno ar = re, sicché vengano immediate
àsL redinjtar^ redinzcr -retinsar, retinzer\ resintar, resinter; recentarc; come
per esempio nel parm. ardond=:redond, retundo, rotundus, regg. ardonder
-redonder^ reionder, rotundare,
* A questo verbo derivato da forma participiale in -ente per via dell' i si
può ancora aggiugnere il ven. indormenzar o indromenzar (= in-dorment-
"i-aré)^ che sta ad addormentare come appunto ai derivati da recentare i
provenienti da recenl^i-are,
* La forma registrata dal Diefenbach ò recenciare ed è secondo quell'in-
certa ortografia che, intiodottabi fin dal principio dell'era volgare, si ò
32 Flechia,
Dissi che alcuni altri volgari neolatini hanno pure a sinonimo
od equivalente di risciacquare un verbo affine a quelli dell'I-
talia superiore. Citerò come nati da recentare il napolitano
arrecentare (risciacquare il bucato), il siciliano ricintari, arri^
cintari (pulire, rilavare, risciacquare), ant. spagnuolo recentary
catal. rentar (= *rehentary *recentare), e come foggiato da re-
centiare, il prov. recensar^ al quale non dubito di aggiungere il
francese rincer (ant. ort. mn^^r, rinser), per quanto a primo
aspetto paja discostarsi dalla organica sua forma, e non ostante
che il Diez, seguito dallo Scheler e dal Brachet S cerchi di con-
nettere questo verbo coli' islandico hreinsa^ purificare (vedi
Et w. IP, 416). Primieramente il piccardo recincer {rechin-
cher)y con significato di risciacquare, rende molto verisimile nel
comun francese un corrispondente etimologico, per esser questo,
com'è noto, assai strettamente connesso con quel dialetto, uno
de' tre principali della lingua d'oi7. La risoluzione di e fra due
vocali, di cui l'ultima sia palatina {e, i), è fenomeno consueto
nelle lingue neolatine, e niuno certamente sei dee sapere meglio
del Diez, che colla sua grammatica gettava le fondamenta della
fonologia romanza. E perciò come p. e. da placitum, placitare,
vennero plaid, plaider *, cosi da recentiare ben si potè, con
veduta via via venir sempre ondeggiando fra ti e ci dinanzi a vocale, onde
V. gr. condicio o condicio^ nuntius o nuncius^ pairitius o patr ictus, Pruden-
tius Prudencius^ ecc.
* Il Littré nel suo Vocabolario cita per rincer due etimologie: resinccrare^
messa primamente innanzi, se non erro, dal Menagio; e quella del Diez; e
mostra propendere per la prima, come preferibile perchè latina, e da cui ver-
rebbe a ogni modo, secondo lui, il piccardo rechincher. Fa maraviglia elisegli
non faccia parola di recentare^ recentiare^ dalla quale ultima forma, latina
ancor essa, sotto V aspetto fonologico molto piii regolarmente che non da re-
sincerarey deriva tanto il francese rincer, quanto il picc. rechincher.
^ Che in plaid =placitur)i^ plaider =z placitare il e siasi più verisimiimente
risolto nella sua posizione originaria, cioò fra le due vocali, che non dopo di
essersi per sincope combinato colla seguente dentale (*plactum ^plactar),
come vorrebbe il Diez (Et, io. b. piato) e dietro lui il Brachet {Dict, et. s. plaid)^
lo prova tra T altre cose, parmi, la qualità della rimasta dentale che in caso
di sincopamento, procedendo da cf, avrebbe dovuto essere piuttosto sorda che
sonora, secondo che appunto T abbiamo per es. in laitue (-lactuca), voiturc
{zzvectura), traiter (= tractare), lait^ allaitcr (= lacte, adlactare), profiter (-pyo-
Postille etimologiche. 33
trattamento analogo del e, giugnere a reincer, rincer. E cosi
questa forma di verbo che, fatto venir da hreinsay parrebbe
tuttavia allo stesso Diez più regolare se fosse rinser^ dedotta
da recentiare risponde perfettamente alle analoghe formazioni,
quali sono p. e. froncer da *frontiare, tencer, tancer da *ten-
tiare e a varj altri verbi che come avancer, eadencer^ comencer,
infiuencer^ ecc. avrebbero tutti per fondamentale una romanica
forma terminante in -ntiare^ quale sarebbe appunto in recen-
tiare.
Noterò finalmente come recens (recent-), \o stipite de' verbi
sinora discorsi, ci si presenti come nome d* analogo significato
nel cremonese rezent (= recente) in senso di sciacquato y ri^
sciacquato; e sotto la forma diminutiva di un sostantivo nel-
Tengadinese arzantel (= recentello)^ col valore di catinella a
fiso di sciacquarvi, risciacquarvi dentro i bicchieri, ecc.
E conchiudendo diremo dalle cose sin qui discorse parere in-
dubitato come dal fatino recens si derivasse un verbo deno-
minativo sotto la doppia forma di recent-are e recent-i-are con
senso di rinnovare, rinfrescare, nettare, risciacquare, lavare,
rilavare, rimasto essenzialmente proprio de' volgari gallici e
gallo-italici^; e come colla seconda delle dette forme si debba
connettere, insieme col mantovano, col ferrarese, col torinese,
col provenzale e col francese, il modenese arzinzer che, tenuto
fectare), fruitier (= fructarius\ droiture (= directura\ roter (= ruotare)^ exploit
ter {=explictare, explicitare), del quale ultimo ìojtzzct pud dirsi attestato
dalV esplectar, esplechar provenzale. Del resto nella sua grammatica (P 227)
il Diez ponendo plaider, insieme con aider, ad es. di fr. d = lat. f, riconosce-
rebl>e implicitamente nel d di plaider un risultato di t originariamente sem-
I^ce, e per conseguente il dileguo del e che qui non si potrebbe più conside-
rare come combinato per sincope con U Anche il Brachet, discorde da sd
stesso, sotto aider (op. cit.), reca plaid (^placitum) come esempio ài d- t
posto fra due vocali, mentre sotto questa voce (pag. 413) lo fa nascere da
plcKtum, Può vedersi a proposito delle vicende di e mediano, posto fra due
vocali, di cui qui non si fa se non un imperfetto e rapido cenno, il voi. 1 de\-
l Archivio gloit,^ principalmente a pp. 79-82, testo e note.
' U siciliano e forse anche il napolitano possono avere avuto questo vei-bo
per influenza francese o dell* Italia superiore. L'elemento francese abonda
in qaesti due dialetti più che altri non crede, e principalmente nel primo,
come avremo occasione di dimostrare con apposito lavoro.
Archivio gloUol. ital . Il 3
34 Flecliia,
conto (Ifìlle leggi foneticlie di quel dialetto^ viene ad essere un
risultato al tutto regolare del recentìare romanzo \
P. 163, « Avvinchùr. Piegare a modo di vinco o vimine. Dal
» positivo vimcn uscirono viminculits^ vinculus, vinclus (sic).
> Da quest'ultimo poi abbiamo fatto viìico a significare quel
» frutice lento e pieghevole donde usci il verbo vincio, se non
» anche l'altro vmco ». Quasi superfluo il notare che da vimen
neutro sarebbesi più verisimilmente derivato un neutro, qui poi
tanto più certo, in quanto il supposto derivato è realmente vin-,
cuhiyn, non vincuhis. Non sarebbe poi gran fatto probabile
una tale derivazione da neutri in -men, non avendosene alcun
esempio; e quando poi si dovesse ammettere, sarebbe stato piut-
tosto vimiinciiluni che viminculus (cfr. pectunciclus dal masch.
pecten). Affatto contrario ai principj fonologici è il dedurre l'ital.
nome 7:inco da vinclus (vinchwi) donde doveva venire vinchio,
come appunto ne venne T analogo al nap. e al ven. (cfr. p. 35, n.).
È poi strano il derivare il verbo latino vÌ7icio dal nome vmco,
che qui si presenta qual nome di formazione romanza; come pure
il supporne comunque possibile la derivazione di vincOy vincere,
verbo primitivo. Al più al più si sarebbe potuto pensare a un
antico tema hominale latino vinco- {^vincus, *vinca, ^vincian) ,
non potuto assolutamente nascere da vinclum, e dal quale sa-
rebbe potuto assai verisimilmente derivarsi viìicire,
P. 1G7. «Babhion. Babbeo. I Romani avevano un cognome
» virile Bàbhius che è spiegato: idem quod stulius. Da un suo
» accrescitivo o spregiativo esce la nostra voce ». E più pro-
babile che babbio, babbione vengano da babulus, che vuol pur
dire stolto e che sincopato in bablus dà regolarmente babbio,
babbione. In alcuni dialetti dell'Italia superiore babbio (piem.
babi, gen. baggiu, ecc.) significa rospo, verisimilmente per essere
rettile di aspetto stupido e goffo. Con nome logicamente ana-
logo i Milanesi chiamarono questo batracoide: satt, sciatto,
sconcio, malfatto, disadatto (= exaptus)*
* Questa etimologia di recentarc era già stata accennata dal Ferrari, dal
Muratori, dal Pasqualino, dal Cherubini, ecc.; e lo stesso Diez (ELw. IP,
s. rincer) ammette recentìare e receniare come tipi, il primo del prov. rc-
censar, il secondo dello sp. recentar, cat. rentar.
Postille etimologiche. ;^
Ivi: « Bacc. Bacchio. Il greco i^ix.Tpv ed il latino bac-ulum
T* lasciano supporre una radice bac o bacc che noi avremmo
• saputo conservare. I Toscani da baculo hanno fatto bacchio
» come da oculo, occhio. Dal positivo bacc abbiamo poi tratto
» hacciarell, bacciocch, bacchetta^ ecc. » Qui troppo chiaramente
si disconoscono le peculiari leggi fonologiche proprie del mode-
nese e del toscano. Il mod. bacc (bac) è un risultato regolare
di quello stesso tipo originario, donde procede il tose, bacchio
cioè di bac'lum, baculum, come per esempio il mod. occ, specc
(oc, spec) lo sono, insieme col tose, occhio, specchio, di oclus,
•
oculuSf spec'luìUj speculum. E quindi assurdo lo ascrivere al
mod. bacc la conservazione di una radice bac o bacc, più che
non si possa fare anche. al tose, bacchio, il quale, mantenendo
a ogni modo il suono gutturale, si potrebbe dire avere conser-
vato meglio del modenese il bac di baculum. Quando poi si
volesse a ogni modo trovare il rappresentante di un positivo di
baculum cioè di un primitivo *&ac-ii-m, il diritto di rappresen-
tanza spetterebbe non al modenese bacc {bac)t ma si all'equi-
valente berg., bresc, ferr., imol., bac, bacchio, donde per es.
ne'due primi dialetti baca, bacchiare, ecc. Cotesto bac adun-
que sarebbe il riflesso di un primitivo *bacum, di cui baculum
potrebbe tenersi per derivato; e donde sarebbero anche venuti
bacchetto, bacchetta, indipendentemente dalla forma baculum,
da cui il Diez tira queste voci spiegandole mediante alterazione,
sostituzione che dir si voglia, di suffisso, cioè di -atto in luogo
d'*w/o (cfr. Gr. Il-, 259; Et.to.V, s. bacchetta) \ So benissimo
* Nella 3.a ed. della sua Gramm. (Il, 280) il Diez omette quello che nelle
.dae antecedenti diceva di bacchetta'^ probabilmente perchè ricreduto o non
beo convinto della data spiegazione. II bac, di cui sopra, è anche notevole come
presentante dinanzi a baculum una forma del tutto analoga a quella di vinco
(dia!, venco, vene) dinanzi a vinculum, che il Diez (Et. io. 11% 80) suppone
possa rappresentare il primitivo di vinculum, cioò *vincum\ il che quando
fo?fie vero, come par verisimile, appoggerebbe anche l'ipotesi di un primitivo
*bacum. Se queste due forme (vinco e baco) si presentassero nel sardo me-
ridionale, dove si ha per es. ogu da oculus, umbragu da umbraculum, cor-
diga da craticula, genvgu da genitculum, unga da ungula, ecc. si potrebbe,
senza punto esitare, vedere in *cmct« e *bacu o *bagu due forme fonologica-
mente nate da otncu/um, baculum\ ma ne* dialetti continentali una tale ipotesi
sarebbe per avventura troppo ardita e comoda, o ad ogni modo incerta, non
36 Flechia,
che questo ipotetico primitivo *bacum incontrerebbe objezioni
nel campo della grammatica storica del latino, dove per es. il
Corssen (Kr*it beitr. 345; Aussjpr. P, 429) considera, jion senza
fondamento, baculum come procedente dalla rad, ba (cfr. gr. pà-
-i-\w, pà-Gi-;), mentre il Curtius e altri, come nel gr. pàx-xpov,
Pa*/.-TYipiov, cosi anche nell'equivalente bac-ulum, vedono un nome
formato dalla rad. bac, forma ampliata, per via della gutturale,
di ba. Dato comunque un ipotetico bacum, di cui baculum par-
rebbe essere un derivato, bisogna per la forma volgare supporre
avvenuto un raddoppiamento della gutturale, non solo perchè
viene attestata da bacchetto , bacchetta, piac, crem. hacca-^
reti, ecc., ma anche perchè negli altri dialetti dell' Italia su-
periore da cui parrebbe rappresentato, il primitivo bacum, la
gutturale sorda, mantenutasi fra due vocali, accenna general-
mente quantunque semplice, piuttosto ad una doppia organica;
perocché la semplice originaria sarebbe stata più regolarmente
riflessa dalla sonora, quindi per es. *bagà, "bagarell piuttosto
che baca, bacarell (bacchiare, piccolo bacchio).
A p. 112 il G. identifica il modenese beg celi' equivalente tose.
baco e, senza toccarne altrimenti l'etimologia, considera Ve di
beg come vocale sostituita ad «; e a pagg. 178 e 179, raflfer-
mata, per cosi dire, l'identificazione di beg con baco, passa a
dire del modenese bega, ape, che, derivata per alcuni da apecla
od apecida \ egli propenderebbe piuttosto a connettere etimo-
ostante qualche analogo troncamento, come per es. in lama da lamina, chiasso
da classicum^ vesco per vescovo^ torbo da turbidus, veltro da vértragus,
grotto da onocrotalus ecc. Già il piem. vene, tra gli altri, verrebbe a far
contro una tale ipotesi, perocché, data qui una forma apocopata da tsinculum^
essa avrebbe dovuto essere non vene, ma venco, cioè terminare in un o chiuso,
come fanno per es. aso da asinum, govo da juvinem, lebo (con concrezione
deir artìcolo) da ebulum, pento (con epentesi di w) da pectinem (cfr. var. dia!.
peco), garofo da ^carófilo {caryophyllus)^ nespo da mespilum, frasso da fra»
xinum, Seto da Septimum ni , 5teoo da Stephanum, ecc. Parrebbe quindi do-
versi conchiudere che come Vii. bacchio e Temil. ^'ac rappresentano bac'lum^
baculum, il nap. e ven venchio, vincUum, vinculum, così bac e vinco (venco,
vene) rifletterebbero le due forme, forse primitive, di *bacum e *vincum,
' L'etimologia di apicula sincopata in apicla, donde per aferesi il toscano
pecchia, non può essere per niun modo accettabile pel modenese bega, ape,
stantechè vi ripugnano fni T altre cose lo leggi di fonologia. Il Muratori, al
Postillo etimologiche. 37
logicamente con « bugonie ossia bu^-genite » nome col quale»
dice egli, i Greci chiamarono le api < perchè le credevano frutto
di generazione spontanea, cioè nata da buoi putrefatti », notando
inoltre « che agli scarabei si venne da taluno attribuendo una
origine non molto diversa». Rigettata senza la minima esitanza,
come affatto inverisimile cotesta etimologia che il G. estende-
rebbe implicitamente anche a beg, baco, comincerò dal notare
che beg e bega stanno naturalmente fra loro, come generalmente
la forma maschile e femminile dello stesso nome; che la ma-
schile è propria del modenese, reggiano, parmigiano, piacentino»
pavese, cremonese (béc) e mantovano, mentre della femminile
partecipano, in un col modenese, anche il regg., il parm., e il
crem., pei quali tre ultimi dialetti la forma femminile non ha
di per sé sola il significato speciale di ape come nel modenese,
ma piuttosto il generale di baco, bruco, tarlo, verme, insetto;
finalmente che in alcuni dialetti le forme di tali nomi presen-
tano qualche fonetica varietà, come il regg. beig, belga e nel
modenese, secondo il Marenesi ( Voc, mod. s. v.), anche beig^ ma
bega. La connessione etimologica di tutte queste dialettiche
forme cosi tra loro come anche col toscano baco, e con bigatto
(forma derivata da *bigo [*bico] come p. e. da lupo lupattó), pare
non sia punto da mettere in dubbio; e siccome baco e bigatto
si considerano generalmente come forme aferetiche di *bombaco,
*bomhicatto procedenti dal greco-latino bombyx (cfr. Dibz, Et.
quale poi sembra alludere il G., cita bensì a proposito del mod. bega il lat.
apicula (Diss. 33\ s, L Ant. it. s. bigatto^ ma solo per ripeterne formalmente
il loac, pecchia e lo sp. abeja; a cui noi aggiugneremo insieme col prov. e
pori, abelha e fr. abeille, anche il piem. av(ja aviga^ com. avic^ CL^ig^ "^al-
inaggese viga (per amga)\ forme tutte regolarmente procedenti dal sinco-
pato apicla; mentre dalla primitiva forma apis^ apem vengono ape, apa, lapa,
propij deU' Italia media e meridionale, il sardo abe (log.), abi (mer.), abbi
(sett), abba (temp.), e le vario forme di ave, ava, aa, èva, av, ev, af, ef, ecc.,
deir Italia superiore. Il pavese dvia sta ad ava, come il tose, alia ad ala\ e
ilio stesso principio morfologico d dovuto il mil. avi = avio, donde il lad. aviol,
aoiól = *aDÌolo, *apiolus. Lo stesso dicasi del lappia per appia, apia, avia
da* contadini lombardi, il quale insieme col fenomeno di pj=:*vj {y. Archivio
gioii. ly 5436) presenta inoltre, come il tose, e sic. lapa, la prostetica con-
crezione dell* articolo. Fra gli abbandoni etimologici à'apis, oltre al mod. bega
e regg. beiga^ accenneremo ancora il parm. vrespa (= vespa) e il rumeno al-
bina - alvina da alvus, bugno.
38 Picchia,
wórtAP, 8), resterebbe salo a porsi in chiaro come le citate
voci emiliane e lombarde si presentino con tale forma da non
potersi fonologicamente considerare, come risultati regolari, per
l'ambiente in cui s'incontrano, né del tipo baco né del tipo bico.
Lo stesso Galvani (p. 112), pure identificando beg con baco,
già avvertiva la diflferenza di suono che presenta 1' e di beg
rimpetto all'^ regolarmente nato da a condizionato come quello
di baco, onde per es. bég, ma mèg = mago, cioè nel primo caso
un é puro e schietto, nell'altro un è {ce) impuro, ossia misto
dell' a e dell' e. A questo fatto che già basterebbe a far difficoltà
per la deduzione di beg dal tipo baco, si aggiunga che alcuni
dialetti, come per es. il mantovano, il quale pure ha beg, u
lucchese che ha beco, il ventimigliese che ha bega, bruco, non
conoscono punto la legge, per cui l' a di baco in alcuni dialetti
emiliani, come anche nell'aretino, dovrebbe passare in è (ce); e
che le già citate forme di beig, belga, proprie del modenese
e del reggiano, presenterebbero qui un ei = a, che in tali dialetti
sarebbe al tutto senz' analogo esempio.
Contrastando pertanto la fonologia alla derivazione di beg,
beig^ bega, belga, dai tipi baco, ^baca, sarebbe da vedere se
per avventura queste forme non possano connettersi col tipo
bico-*bomblco, donde bigatto, E anche in ordine a cotesto fo-
netiche attinenze sorgerebbero gravi diflScoltà. Primieramente,
sebbene nei dialetti emiliani non siano radi i casi di un l ac-
centato riflesso da e ed ei dinanzi a semplice consonante, pure
è da avvertire che in tali dialetti questi fenomeni si ristringono
generalmente all'è seguito da nasale; sicché, come per esempio
si troverà mod. zema = cima, leu = Unum, furzelna^furcma,
vein=^vmum, regg. spelna = spina, speln = spmus, lem - It^
nwm, ecc., cosi d'altra parte si trova fìg- ficus, spiga ^spica,
formlga- formica, ombrlghel -umblllculus, ma non punto feg
feig, speg o spelga, ecc. Inoltre anche qui vuoisi avvertire che
questo stesso fenomeno d'^ e ei-l, pur cosi condizionato, é al
tutto ignoto ai dialetti che già si disse non conoscere punto
è [ce) = 6i, e pure avere beg, beco, bega. Si aggiunga infine che
ne' casi, dove Vi di bombicus viene, così in questi dialetti, come
altrove, a presentarsi accentato, si mantiene inalterato, come
in bigoll, bigoi, ecc. =*[bom]blculi^ vermicelli, ecc.
Postille etimologiche. 39
E dunque da vedere se non si possa trovare un altro più
verisimile tipo con cui connettere regolarmente le forme con-
troverse.
Dal greco-latino bombyx vennero le forme *bombax e *bam-
bax con cui si connettono baco, bombace, bambace, bambagia,
bambagia, mil. bomba(^, ecc. e a cui accennano Say.pà;ciov e barn-
bacium medievali. Ora a me pare non doversi tener punto per
inverisimile, che da bombyx {bombikem), insieme con bombax,
(bomhàkem), possa essersi svolta eziandio una forma *bombex
(bombékem), analoga p. e. a rervex, la quale, sotto l'influenza
4^1 maschile, a tempo in*cui si manteneva ancora il suono gut-
turale dinanzi ad e (cfr. p. 7, n.), passando alla seconda declina-
zione diventasse bombecum, donde poi per aferesi beco, appunto
come da *bombàcum, proceduto nella stessa guisa da bombax^
ne venne baco. Questa ipotesi che troverebbe principal fonda-
mento nel toscano e segnatamente lucchese beco (cfr. Fanfani,
Voc, d, uso tose. s. V.) e nel ligurico bega, toglie di mezzo ogni
difficoltà fonologica per tutte le citate forme proprie, cosi degli
emiliani, come de' lombardi dialetti, perocché tutte verrebbero a
regolarmente rispondere a un tipo beco, beca, (= *bombéco, *bom^
béco), onde per limitarmi a due soli esempj, come da théca, apo-
théca vengono ne' dialetti emiliani tega, bottega, teiga e botteiga,
cosi da beco, beca {bombecum) escono beg, bega, beig, beiga.
Pare pertanto che non sia da dubitarsi come da bombyx deb*-
bano ripètersi tre forme tipiche di romano volgare che tradotte
a foggia italiana sonerebbero *bombico, *bombàco, *bombéco e
per aferesi *bico, baco, beco. Colla prima si connettono le varie
dialettiche forme che in veste italiana suonano o sonerebbero
bigatto, bigattolo, bigattiera, bigattajo, *bigattella, *bigattino,
^bigattinino *bigattello, *bigattone, *bigattoso, *bigone, *bigolo,
*bigolino, *bigolotto, *bigoletto, "bigolone, bighero, bigherino,
^higherello, '^bigotto', bighellone (che presuppone *bighello),
bighettonaccio. Colla seconda (baco):*bacone {gen. bagon, piat-
tola), bacaccio, bacolino, bacherello, bacherozzo, bacherozzolo,
(aret. san. bacarozzo, romanesco e march, bagarozzo), bacara S
' Il Fanfani nel Voc. d. uso toscano ha «bacherà s. f. piattola. E voce
del dialetto senese ». Bacherà ò vocabolo di forma antisanese e propria essen-
40 Flechia,
hagaron (romagn.), bachiero. Coli' ultima (beco) *bego, ""bega,
*begone^ *beghinOy *beghinino, ^beghina, *begottOt "begaja \
Generalmente questi nomi indicano insetti, massime con valore di
baco, verme, bruco, tarlo, ecc. Etimologicamente loro connessi,
ma figuratamente adoperati, spno: col senso di babbeo, min-
chione: bigolone, bighellone, e per analogia di forma: bachi
(san,), *bigoli, *bigoletti, *bigolotti (lomb. piem.) per quello che
i fiorentini dicono diavoletti, diavolini e i francesi papillotes
(farfalline); *bigoli per cannoncini, vermicelli (pasta), *bigolo,
*bigolino, mentola, cecino, ecc. Derivaronsene pur verbi coi loro
nomi; quindi come da baco vennero bacare, bacato, bacaticcio,
bacamento, cosi da bego procedettero *beghire, *begare, *&^-
ghito, *begato, *begatello, da *bigo, "bigato, e da ^bigatto,
*bigattato. E notevole il reggiano *bigo, bacato {big, onde per
es. peir big, pera bacata), che accenna al tipo bico ed è forma
participiale equivalente a *bigato e sta a *bigare come per
es. gonfio = gonfiato a gonfiare (conflaré) ^
Il tipo baco si può dire proprio essenzialmente dei dialetti
della media Italia (tose. umbr. rom. march.) e ignoto a tutto il
resto della penisola % mentre i tipi *bico, "beco s'incontrano
zialmeote del fiorentino. Poiché si registra un sanesismo, perchè non darlo
nella genuina sua forma, che d bctcaraì
* Le varie voci vernacolari citate sopra con forma italianizzata, oltre le
rispondenti a bigatto e ad alcuni suoi derivati conosciuti pur dal toscano,
sono in quanto si collegano col tema *bico: boi. bigattela^ bigMein, bigai-
iinein, bigatto, bigattug; ferr. bgon^ bigatela; romagn. bigatela^ bigateriy
bigul, bigulon; mod. bgatten; mì\, bigolitt^ bigolin; herg, bigù, bigati-, crem.
bigatén; piem. bigatin, bigaton, bigoleti; parm. bigol, bigoi, bigolon o bi-
glon\ in quanto procedono dal tipo beco^ oltre ai già notati beg, bega^ beig
beiga, bec^ il mod. bgon, mant. bgott, parm. bgara, bghett, bghein, bghinein^
bgon, crem. begott,
* Fra le forme vernacolari del verbo citerò: ferr. bgà', mod., regg., parm.
bghtr, bgh%\ crem. bega, begàt^ begadell; romagn. bigaté. Il reggiano, oltre
al gièk avvertito participio big^ ha pure una singoiar forma d* aggettivo in
bgheng = *beghingo^ scemo, propr. bacato (cfr. questa voce nei suoi sensi
figurati). Alcune delle citate forme fognando come protonica la vocal radicale,
quale p. e. in bgà^ bgon^ bgott^ potrebbesi dubitare se piuttosto non si con-
nettano con uno che con altro tipo. Il più verisimile é che vengano da quello
che in ciascun dialetto si trova essergli più specialmente proprio.
' Il valverzaschese bagarot, lombrico, che parrebbe rispondere ad un tipo
^bacarotto (fior. *bacherott6) e proceder quindi da baco, è più probabile che
Postille etimologiche. 41
principalmente ne' volgari emiliani e lombardi. Il napolitano, il
siciliano e il sardo, come pure le altre lingue romanze, non co-
noscono derivazioni di bombyx come nome d' insetto, ma si sol-
tanto come significante bambagia, bambacino, cotonej quindi
nap. vammacia, vammacella, sic. bambaci, sardo bambaghe, ecc.
rumeno bombac, sp. bombasi, fr. bombasin, basin, ecc. Resta
incerto se il piem. baboja, e V aferetico boja, baco, bacherozzolo,
bruco, verme, insetto e T equivalente gen. babollu, che pajono
avere un'origine comune, si connettano etimologicamente con
bombyx; che il voler porre in sodo una tal coanessione trar-
rebbe, sotto l'aspetto morfologico e fonologico, a troppe più
congetture ed ipotesi che non consenta la sobrietà del metodo
glottologico \
Noterò infine come non sia punto verisimile che bega, nel
senso di briga, lite, rissa, contrasto, ecc. voce propria di varj
dialetti deir Italia superiore e usata anche in Toscana, qualunque
ne sia l'origine, abbia, secondo che vorrebbe il G., etimologi-
camente a che fare, col modenese bega, ape, perchè le api, dice
egli, sono battagliere e dannose a chi le stuzzica.
A p. 180 leggesi: <Bellitù. Beltà, bellezza. Pesto ci è in te-
^ stimonio che Verrio scrisse bellitudinem sicuti magnitudinem.
«La bellità dei nostri- rustici era dunque popolare in Roma
«sino nei migliori tempi della romanità». Il bellitii dei Mo-
denesi potrebbe essere nome foggiato in tempi comparativa-
mente recenti, in analogia non già dei nomi in -tudo (-tudon).
itia per *higaròt o *begardt, cioò presenti a = » od e protonico, e di prima
sillaba, fenomeno assai comune cosi ne* dialetti deiritalia superiore come an-
che in altri; qui anche più ovvio per T azione assimilativa dell' a seguente.
Questo stesso dialetto di Val Verzasca ha pur bejo, verme del cacio, ecc.,
accennante al tipo beco^ a cui starebbe come p. e. a theca^ apothcca il teja^
buteja di qualche varietà di dialetto piemontese.
• Si potrebbe qui ancora muover dubbio se i piem. e lomb. gatta^ gattaia,
gattina^ significanti ruca^ bruco, ecc., non presentino per avventura un' ulte-
riore aferetizzazione di bigatto, bigdtlola, bigattina, venuti ad importare colla
mozioQ femminile un senso deteriorativo o sprezzativo dirimpetto a bigatto,
il nobile verme da seta. La pelosità del corpo che hanno alcuni bruchi e la
qualche analogia che pel senso traslato offrirebbero 1* equivalente frane, chc^
nilU = canicula (cagnuola) e i mil. cagnon, baco, can, cagno, tonchio, ecc.
renderebbero molto incerta questa connessione (cfr. Diez, Et, io. IP 255 ; Che-
BL'BiNi, Voc. mil, s. gattina).
42 Picchia,
ma si piuttosto di quelli in -hct' {-tus) (cfr. servitù, virtii, ffio-
ventù), come in tempi indubitatamente neolatini fecesi da schia-
vo schiavitù. Di nessun nome in udine {-indine, -udine) si
trova, che io mi sappia, esempio di forme tronche in -ù; quindi
abitudine, gratitudine, ecc., né saprei perchè il modenese, mentre
da un lato presenta per es. la forma incuzen, rispondente ad
un basso latino incudÌ7iC7n, così non avrebbe da hellitudinem
ritenuto una più o meno intiera forma di hellituden ovvero
heliuden, con sincope analoga a quella delTit. beltà per bellità,
od anche, più conformemente alT indole del dialetto, beltudna
(cfr. mod. fruzna, ferruggine, calcina, caligine, ecc.). La forma
di belliiù non sincopata, come sarebbe da aspettarsi, in *beltù,
accenna già di per sé ad una formazione di origine più o meno
comparativamente recente, e la distacca sempre più dal belli-
tudinera di Verrio attestato da Pesto.
A p. 182 il G. confronta il modenese « ber leda o barleda, greto
più men cespuglioso )^ con due voci teutoniche; bar (ber), de-
nudato, scoperto, e led, landa; onde cotesta .parola per lui var-
rebbe etimologicamente landa scoperta ecc. Credo si possa tro-
vare in casa nostra un'etimologia più sicura che questa non è.
Nella prima versione del trattato d'agricoltura di Pier Ore-
scenzi io leggo (libro V, cap. 37): «il brillo è un piccolo arbu-
scello, il quale nasce nelle arene de' fiumi ecc. » e tutto il capitolo
è consecrato a questa pianta che è una specie di salcio e si
confonde col vinco, vimine o vetrice \ Trovo che il romagnolo e
il bolognese hanno brell, parm. brill, per vinco, vetrice, e in
un col modenese o col reggiano, posseggono berleda, berleida,
barleda, barleida, in significato di greto ^ E noto come dai nomi
di pianta in latino si derivassero assai collettivi in cium, onde
* Il testo latino dice: brillus est arbuscula quce in arenis fluviorum ori-
tur ecc. Il postillatore di Crescenzio (Ediz.mil. de* Class, it. Ili, 350) fa rispon-
dere questa pianta alla salix helix di Linneo, che il Targioni-Tozzetti nel
suo Di>. boi, dichiara per vinco da far panieri. I vocabolaristi emiliani poi
rendono il loro brell, brill per brillo, veti*ice, vinco, vimine e lo fanno ri-
spondere, il Morri, alla salix viminalis e, il Malaspina, alla s, purpurea di
Linneo.
' Il romagnolo ha bar le [:= brilleto) , e così una forma rispondente alla
lat. in -efum, it. -oto. Il Morri non registra questa voce a suo luogo, ma
Postille etimologiche. 43
verbigrazia da, palma j^almetiim, dtx poìnum pometum^ da salix
salictum (equivalente al salicetum della bassa latinità), ecc.
per luogo piantato di palme, di pomi, di salci od anche gwan-
tità di palme, ecc. Ora cotesto tipo in -etiim, di cui la buona
latinità ci ha trasmesso una cinquantina d'individui, fu conser-
vato ed esteso dalle lingue neolatine, onde p. e. nell' italiano da
leccio lecceto, da mandorlo mandorleto, da vinco viyicheto, ecc.;
e cosi da brillo, derivandosi in analogia un nome in -eto, ver-
remmo ad avere naturalmente *brilleto, luogo pieno di brilli o
vinchi. I dialetti cisapennini, e gli idiomi dell'Europa occiden-
tale, insieme colla forma rispondente alla latina in -cium, hanno
pure assai frequente la femminile, rispondente al tipo 'eta\
quindi l'antica e famosa pineta (e non pinete) di Ravenna
(roraagn. pneda, pneda, pneida). Questa forma assai comune
nel medio evo si è specialmente conservata in quanto divenne
nome locale, onde v. gr. Carpineta (boi. Carpneida), Fageta e
Faida (da fagus), Frassineta (boi. Frasneida o Frasneda^)
Farneta, Loreta, Lescheja (da lesca, carica, quindi equiva-
lente a carectum), Nooeta, Noglareda (dal friul. noglar, pianta
di noce), Olmeda, Ormea (= TJlmeta), Spineta, Spineda, Spinea,
Vernea, Verneja (dal celt. verna, ontano), Zenevrea {=Juni-
pereta); e di questa forma femminile, insieme con pineta o pi-
gneta, s'introdussero nella lingua comune anche idiveta e on-
taneta. Ora dunque, data una formazione analoga dall' emiliano
hrell {= brillo), noi veniamo a brelleda, brelleida che per
l'ha sotto vene, vinco, dove reca la varietà vene d'òarlé o d*fiom (vinco di
*brilleto^ greto, o di fiume), colla quale espressione anche si conferma la
connessione logica tra brillo e greto. Mi riesce poi assai singolare, sotto
rispetto cosi morfologico come fonologico, la forma hdrlc, sost. femm. sing.
che il Morri registra in senso di « salciaja, vetriciajo, luogo o greto pieno di
vetrici», rimandando a brell e recandovi inoltre l'esempio fé d'ia barle,
invimioare, far le viminate, cioè riparare con vimini gli argini de'fiumi. Que-
«ta voce, comunque abbia potuto nascere tale forma, non può staccarsi eti-
mologicamente da brillo.
* Il Mazzoni Toselli, Origine della lingua italiana (Bis. gallo italico,
sotto Frasneda) fa venire questo nome locale del bolognese (il quale non può
essere altro che Frassineta da frassino) da un suo celtico €fre o fra, vicino;
C5tfi, riviera; at, terra; frasinat o frcsnat, terra vicina alla riviera.» E diro
che questo celtomane è ancora citato seriamente oggidì a proposito di eti-
mologie.
44 Flecbia,
quella metatesi del r, secondo elemento di gruppo consonantico
iniziale, tanto frequente cosi ne' dialetti emiliani, come in altri
massime dell'Italia superiore (cfr. per es. modenese ferdor, per
fredor, terbian per trehiariy persam per presam, cherpér per
crepér, ecc.) si fa naturalissimamente berleda, berleida, bar-
leda, barleida, E cosi questo nome originariamente collettivo
col significato di *brilleto, vincheto, *vetriceto, *vimineto, fecesi
appellativo, passando a dinotare quello che il toscano greto;
cioè la parte laterale del letto di un fiume, che, cessata la
piena, resta scoperto dalle acque e più o meno ingombra di
rena e di ghiaja e dove allignano, come in luogo loro più na-
turale, i vinchi. Sicché come dall'arena il greto viene anche
detto arenale, renajo, renar éu (sardo log.), dalla ghiaja è
chiamato col nome per esempio di "ghiajuole (bresc. gerule) o
ghiajato (mil. geràa) o *ghiarile (parm. garil), ecc. cosi dai
brilli fu detto berleda {"brilleta).
E la medesima voce greto, essenzialmente propria de' Fioren-
tini, che il Biscioni (note al Malmantile) e il Salvini (ann. alla
Fiera del B.) traggono da creta, il Ferrarlo da crepido, il
Voc. di Napoli (Tram.) dall'anglosassone grit, sabbia, il Dìez
{Et w, IP p. 37) dall' antico nordico griot, ghiaja, appartiene
verisimilissimamente alla stessa categoria morfologica di berleda,
non essendo altro per avventura che una sincopata forma ri-
spondente a ghiareto (= glaretum da glarea come vinetum
da vinca) \
* Quanto a collettivi in -eium che, come *glaretum da glarea^ sarebbero
derivati altrimenti che da nomi di piante, vedansi p. e. i nomi lat. fimetum (da
fimus)^ letamajo, saxetum (da saxum)^ petraja, sabuletum (da sabulum)^
^sabbioneto (cfr. Sabbioneta ni.), ecc.; e Tit. macereto {-*macerictum da
maceries) , al quale non dubiterei d* aggiugnere fontaneto e pantaneto (da
fontana^ pantano), significanti rispettivamente luogo pieno o quantità di fon-
tane, di pantani; voci, a mio parere, bellissime ed efficaci, che se, per essere
registrate nel vocabolario della lingua comune, non hanno per sé l'autorità
di scrittore canonizzato dalla Crusca, ne hanno una ben altrimenti grave,
che è quella de* popoli italiani e, che più monta all'uopo della lingua, anche
del popolo toscano in particolare, presso i quali incontrandosi questi vocaboli
come nomi di luogo, mostrano di essere stati già e di poter esser tuttavia,
parole della lingua viva della nazione. Circa la sincope, a cui soggiacerebbe
*glaretum^ *ghiareto, passando in greto^ si confrontino p. e, i fior, a'una da
Postille etimologiche. 45
Pare adunque non debba restar dubbio circa T etimologia del-
remiliano berleda, herleida, barleda, barleida rispondente ad
un organico brilleta, procedente da brillOy vetrice, vipco, vimine
e quindi significante propriamente vincheto ^ vetriciajo, ossia
luogo pieno di vinchi, di vetrici, quindi per estensione greto,
come luogo dove generalmente allignano vinchi.
Resterebbe ora a cercarsi quale possa essere Y origine di
brillo. •
Guardando al latino, non ci si offre vocabolo col quale si possa
connettere in qualche modo brillo. Io non dubito intanto di
. vedere in brillo un nome derivato; e derivato in analogia mor-
fologica e fonologica di spilla = * spinta y spinula da spina,
culla -*cunla, cunula da cuna, pialla^* pianta, planula da
plana^ ecc., donde sarebbe da congetturare che il tema fonda-
mentale sia *brino, *brinus, donde *brinulus, *brinlus, brit-
lus, brillo. Questa congettura si fa certezza, dinanzi al bre-
sciano sbri, vetrice, perocché questa voce non può presentare se
non una dialettica forma rispondente a * sbrino, come vi a vino,
secondo che vuole un principio fonetico di questo dialetto, per
cui una voce piana venuta a terminare per apocope in n sem-
plice, r apocope non vi si ferma, ma si mangia ancora la n,
come succede eziandio nel bergamasco, in qualche altro dialetto
italiano e neirant. provenzale. Quindi per es. le forme bresciane
ca, ma, da, be, teré, fi, vi, bastò, bo, ju, negù per can, man,
pan, ben, teren, fin, vin, baston, bon,jun {unus), negun {nec-
corona (cfr. romanesco e nap. corona dell' aco pel tose, ed it. cruna; e sic.
cruna per corona ia senso di rosario), dritto da diritto, trivello da terebellum,
gridare da quiritare, fior, grofano da garofano, ecc. Se gorra, che dinota
pure una specie o varietà di salcio affine al vinco e che fra scrittori toscani
incontrasi solo nel traduttore di Crescenzio, non si dovesse, come brillo, tener
per Toce estranea al toscano, potrebbe contendere a glarea, glaretum V ori-
gme di greto; perocché in tal caso non si potrebbe non tenere pef assai ve-
risimile un sincopamento di gorreto in greto, che così sarebbe venuto ad
equivalere logicamente in tutto all'emil. ber leda. Ma della non toscanità cosi
di gorra come di brillo si ha ancora argomento dal non trovarsi queste voci
registrate nel Vocabolario botanico di Ottavio Targioni Tozzetti, che fu si
diligente raccoglitore di tutta la sinonimia volgare delle piante proprie della
Toscana; e per conseguente il ^or, greto vorrà essere etimologicamente in-
terpretato non già gorreto, ma ghiarcto.
46 Flechia,
-unus). Adunque sbri equivale a sbrin- s'Urino, come si ma-
nifesta anche dal pur bresc. sbrinér (=*S'brinarium, *sbri-
najo) significante luogo pieno di vetrici, vetriciajo e anche
greto. Il 5- di sbrin, sbriner, è quasi superfluo T avvertirlo, è
lettera meramente prostetica, presentante un fenomeno assai
comune ne' dialetti italiani (cfr. Arch. glott. I, indice, suoni,
s. prostesi di 5), come, per limitarci a pochissimi esempj dello
stesso bresciano, in sgarz (-^cardias), cardò, sfrazela, insieme
con frazela {-facella), stis {^Htio), tizzo, tizzone, spiioneza
{-pumicem), pomice, pomicia, ecc., ai quali ne aggiugnerò ancor
uno d'altro dialetto, più che mai calzantissimo; ed è il cremo-
nese sbrill {=*S'brillo) \ vetrice, vinco. E perciò la forma or-
ganica del tema fondamentale di brillo sarebbe lat. *brinus, it.
*brinOy come di spilla è spina. Ma donde questo briiio'i La
voce brillo, se non erro, non trovasi adoperata da altro scrit-
tore toscano, se non dal traduttore di Crescenzio; il quale,
come bolognese, usava verosimilmente in brillus una voce emi-
liana. Non avendo ne *brino ne brillo alcun riscontro neir Italia
media e meridionale, non è improbabile che qui si tratti di vo-
cabolo cisapennino, di origine gallica, connesso per avventura
etimologicamente col francese brin, parola d'etimo incerto, la
quale significa non solo filo d'erba, fuscello, ma anche virgulto,
verga, ramitscello, vermena, vermenetta. Da questo significato
generico, forse originario, potè poi svolg^ersi assai naturalmente
lo speciale di vetrice, inmine, vinco, come appunto quest'ultima
voce vinco, avente ora il significato speciale di salcio viminale,
non dovette verisimilmente in origine valere altro che ritortola,
legame, vinciglio, connettendosi manifestamente col verbo la-
tino vincire, avvincere, attortigliare, legare.
P. 188. ^ Bevla e Bevletfa. Donnola e donnoletta. Forse è
» detta bavoletta dall' aver bianco il pelo sotto la gola quasi
» si dicesse alla francese bavolée, cioè munita di bavette ba-
» vaglio. Comunque sia, il nostro appellativo rasenta assai più
» il francese belette che i molti altri nomi a me noti, coi quali
» trovo designata la mustela vulgaris ».
* Non ò registrato a suo luogo nel Vocabolario cremonese del Peri, ma si
trova, come suo sinonimo, sotto gourra, vinco, vimine.
Postille etimologiche. 47
Comincerò dall' avvertire che Ve di bevla suona altrimenti
che Ve nato da a secondo i principj di questa trasformazione
come propria dei dialetti emiliani; sicché già per questo solo
fatterello il riscontro con havoletta, ecc. mal si reggerebbe; che
in cambio dell' ipotetico bavolée per munito di bavette sareb-
besi piuttosto dovuto immaginare baveitée; che ad ogni modo
un fr. bavolée non farebbe morfologicamente riscontro con &a-
voletta, ma si con bavolata; che dopo tali confronti è poi strano
il salto che si fa a beleite, quantunque dalle cose che son per
dire apparisca, secondo mi confido, assai verisimile, come il nome
bevla venga ad avere con belcite una logica ed etimologica con-
nessione ; della quale però il G. non accenna di avere il minimo
sentore.
Bevletta è manifestamente diminutivo di bevla, come don-
noletta di donnola, quindi bevla, come primitivo, è la sola forma
colla quale noi dobbiamo aver da fare ne' riscontri etimologici.
Non par probabile che il mod. bevla si distacchi etimologica-
mente, come suppone il G., dai nomi volgari che ha la donnola
principalmente presso la maggior parte dei dialetti dell'alta
Italia, come per es. nel mil. bellora, gen. bellua, crem. bennula,
piem., brcsc, berg. beatola, parm. benla, mant. bendola, reg-
giano bendla, com. berola e belora, ecc. Tutte queste forme
accennano chiaro ad un tipo originariamente comune, il quale
secondo ogni verisimiglianza sarebbe più fedelmente riflesso dal
bellxila del volgarizzamento del tesoro di Brunetto Latini (l. V,
e. Ili, p. 33, ediz. 1533) e con forma più scliiettamente italiana
dal bellola lucchese (v. Laurent!, Amalthea onom, s. mustela),
mutatosi più tardi i^^ bellora, secondo una legge essenzialmente
propria di tal dialetto, per cui bambola vi suona bambora] pen-
tola, pentora; pillola, pillora, ecc. Il tipo originario pertanto
sarebbe un lat. bellula, diminutivo di bella, sicché i vari nomi
sovrallegati secondo la loro interpretazione etimologica propria-
mente varrebbero bellina, belluccia. Le varie forme, che venne
foneticamente a prendere questo tipo bellula, ci presentano
fenomeni assai naturali pei dialetti in cui s'incontrano. La pa-
rola bellula è una di quelle voci che, abbandonate per cosi
dire agli istinti fonologici del popolo, soggiacciono assai di leg-
geri a qtiella legge di dissimilazione che opera cessando la ri-
48 Flechia,
petizione di un suono in uno stesso vocabolo, e trasformando
generalmente, in dati modi, l'uno dei due; e qui un l [II) in
r w. Quindi come per esempio dal lat. pilula (tose, pillola) ,
ne vennero, con passaggio del primo l in w, ì\pi7iola lomb., piera.,
parm., piac, ecc., il pinnula sic, il pinnolo nap. ecc., cosi da
bellula, il crem. bennula, il piem., lomb. henola ecc.; e come
con inoltre l'inserzione di d il sardo pindula (mer.), cosi il fer-
rarese bendula, mant. bendala, regg. bendla, ecc.; come con
mutazione del primo l in r da pilula ne venne per es. il ven.
e lad. pirola, cosi da bellula il com., ven, e piem. berola, pia-
centino berla, ecc., e come finalmente con mutazione del se-
condo l in r il lucch. pillora, gen. pillura, pillua, cosi per es. il
lucch. e mil. bellora, gen. bellura, bellua \ Il modenese bevla,
come procedente da bellula, non ha per vero dire analogia di
trasformazione colle varie forme soprallegate, ma non avrebbe
però assunto forma, che dal lato fonetico presenti fenomeni senza
esempio. Pare che qui l'azione dissimilati va abbia operato d'altra
guisa, cioè mediante la sincope del primo l [II) % e quindi da
bellula sia primamente venuto béula, beùla, poi con rinforza-
mento della vocale nella semivocale, bevla ^ come per es. nel pur
modenese fravla da fraula, fràula, fra[g)ula, se già in ambe
coteste forme modenesi di bevla e fravla non fosse da presup-
porre avvenuta, dopo la sincope, un'epentesi di v, onde da béola
fràola siansi fatte "^bévola, "fràvola, quindi per nuova sincope.
' Il genovese 2}t7/ua, bellua vengono da pillura^ bellura per la notissima
legge, propria di quel dialetto, del far getto cioò 4el r (/) fra due vocali,
onde per es. cau = caru^ duu^ duru, oa^ora, furfua:=:furfura^ foa~fora^
fola^ faula, favula^ fabula^ e cosi bellua = bellura^ bellula.
* Il dileguo di suoni per effetto di dissimilazione pare indubitato; quindi quello
di suono iniziale, per es. nel gr. òxvetv per *3coxv£rv, ÒTTràw per *7ro7tTàw (cfr.
Curtius, Gr, d. gr. et. II, 281 e seg.), nel lat. imago ^ imitari per *mimago
*mimitari (cfr. gr. ft?/^o?, ^luéoixoii)^ bresc. armeli per marmeli (=minimel-
/tntis), dito mignolo, it. arcavola per *zarjf avola ^ '^zerjzevola ^ querqtiedula ;
di suono interno, per es. nel lat. ventficus per *^venenificus ^ in idolatra per
ido lo latra^ ecc. {cfr. Arch. g loti. I, ind. I, dissimilazioni).
^ Un analogo rinforzamento di m, secondo" elemento di dittongo, in v si ha
per esempio nel parm. navsa^z nausea^ avditor^auditorcm^ avton = autumnus -^
boi. avguri-augurium^ avrora=: aurora^ ecc.
Postille otimologiche. 41)
assai corounei della vocale: hévla^ fràvla \ A dissimilazione
operante la sincope del primo l {II) pare sian pure da attribuirsi
le equivalenti forme bióla e bióra (aventi un o chiuso, cioè un
» u)» proprie di alcune varietà di dialetto piemontese % in cui
r e originaria di bellula, venuta a trovarsi dinanzi a vocale, si
è, con fenomeno assai noto, trasformata in i ^ Pare adunque che
tanto il pevla modenese, come il bióla e bióra pedemontani,
possano considerarsi come procedenti da bellula al pari delle
altre varie forme di dialetti affini, salvochè quelle soggiacquero
a una specie di dissimilazione alla quale le altre si rimasero
estranee.
Il confronto di queste varie forme provenienti da bellula,
venuto a significare quello che il mustela de' Latini, ci porge
occasione di fare ancora alla sinonimia dialettica di questo ani*
male alcune giunte e osservazioni non prive di una qualche
importanza cosi dal lato linguistico come dal psicologico.
E primieramente io noto come oltre il nome di belluccia,
bellina^ dato a questo piccolo quadrupede, che in stato di na-
tura mostra istinti cosi feroci e sanguinarj, ci si presentino
ancora presso varj popoli europei altri sinonimi che, come bel-
luccia, bellina, vengono ad essere nomi di forma e di concetto,
carezzativi o vezzeggiativi, o, come dicono i Greci, ipocoristici.
' Qaanto alP epentesi di v tra vocali, cfr. p. e. ca-^v-oh da cd-ttlis^ caulis
ti^c^óla oi-f?-uó/a da rsiola ecc. Circa poi la sincope della penultima vocale
^ ^be-'V^uIa cfr. p. e. mod. nevla = ferr. e sic. ncvula (= ncbula)^ ostia, cialda,
waoà, pUgla-ptitegola ecc. \\ piem. hióla^ bióra ^ di cui più innanzi, rende-
rebbe men probabile la supposizione, che il mod. beota possa esser nato da
b€ulamb€ula (cfr, pcrm. benla, regQ. bcndla ecc.) , ciod con mutazione di ni
In uì^ feaomeno non isolato nel campo della fonologia, ma qui non troppo
Teriiimile.
' bioìa^ nel prontuario di Vopisco (a. 1561) reso latinamente per mustela ^
è TITO tuttATia sulle due sponde del Po monferratese e neirAstigiano ; muta-
toli naturalmeote in (t'ora, sulla destra parte del fiume, dove cosi generalo
è raqoazioDe r=r/.
* Come per es. in biarava^ be[t\arapa^ gioia ^ca^[p\ul la, liam = la;\t]amcȓ^
miolarzme\d]ulla, bvUa =: be[t]ula o bc\t]ulla. Non essendo inverisimilo cbo
qaevio òtf5/a, betulla, proceda dal primo tipo (betula\ cfr. lomb. brdola, brola)^
ti Terrebbe così ad avere un perfetto riscontro di trasformazione tra hiùla
■= òe't\ula e bióla :=b€\ll]u la.
.VrehìTio glottoL ìtal., II. i
50 Flechia,
L'antico fr. hele e il moderno belette, come pure il friul. 6i-
liie, equivalgono all'italiano bella, belliìia; bella significa pro-
priamente kjònne, uno de' nomi della donnola in danese; col
nome di bella cosuccia (schòndinglein) e di belV animaluccio^
(schònthierlein) la chiamano i Bavaresi; e il siciliano suo nome
di baddottida ^ non può essere, per chi ben ci vegga, se non
l'alterazione di una forma procedente da bella^ cioè di *bellot-
tuia, it. *belloitola, diminutivodi bella, come p. e. pallottola di
palla, viottola di via. L'italiano donnola {-domnulay domi-
nula), se si prendesse nell'originario senso della parola latina,
come diminutivo di domina, equivarrebbe all'it. signorina, ma
se lo pigliamo nel più probabile dell' it. donna, sarebbe don--
nuccia, donnetta, donnina, donzella; alla quale interpretazione
• aggiugnerebbe verisimiglianza il nome che danno a questo ani-
maluccio i Greci moderni di donzella o sposina, vu(;-<piT^a, i Te-
deschi di donzella, donzellina (frdulein, jungferchen), i Danesi
di sposa {brud), gli Spagnuoli di comaruccia (coìnadreja) *; i
* Il sic. baddottula viene dal Pasqualino ( Voc, sic, et. s. v.) considerato come
equivalente a ballottola, pallottola (dal sic. badda^ palla) < perchè corre e si
slancia alla preda a guisa di palla. » Questa etimologia , già molto inverisi-
mile sotto l'aspetto logico, perde anche più di probabilità dinanzi al biloc^
tuia, citato per lo stesso Pasqualino dal Diz. ms. di Escobar, che non può
essere altro che una goffa latinizzazione di billottula o biddottula, nato assai ^
naturalmente, sotto T aspetto fonologico, da bello ttula^ ma non potuto molto
verisimilmente venire da ballottula. Il beddattula della novella popolare Grat-
tula-beddattula viene dal Pitró {Saggio di fiabe ecc. , p. C) interpretato per
bella, bellina; ed ò verisimilmente alterazione di beddottula (= belloUula)^
operatasi per causa d* assonanza che fa come rimare questa voce con grat-
tuia, dattero, a cui sempre va congiunta. E chi sa se per la fata, a cui nei
terzetti della novella viene manifestamente indirizzato questo nome di bed-
dattula, non sia da intendersi appunto la donnola, che, come si nota più
innanzi, ha carattere misterioso e viene anche chiamata col nome di fata e
befanucciaì È poi quasi superfluo il notare l'equazione siciliana dd-ll, che,
come propria anche del sardo, ha determinato in questo dialetto la gallurese
forma beddula = bellula, donnola, voce introdotta visi probabilmente sotto la
influenza del genovese e per conseguente connessa col nome della donnola,
più generalmente proprio dei dialetti dell' Italia superiore.
* Il Costa nel suo Vocabolario zool. de' termini napolitani reca, a pag. 49,
la voce cumniatrclla (propr. comarucda)^ come propria di Molise, accompa-
gnandola di un punto interrogativo e senza darne il corrispondente significato
Postillo otimologichc. 51
Rumeni di donnina (nevashiica); ì Sardi di dona de munì,
donna de mele; i Portoghesi di donnina" [doninha) y ecc.
La nozione carezzativa che, come ognuno vede, importano
tutti questi nomi, è verisimilraente dovuta ad una medesima
causa; la quale, piuttosto che farsi consistere nella forma leg-
giadra e graziosa dell'animale, che d'altra parte, come già fu
notato, è notoriamente d'istinti feroci e sanguinarj, è più ve-
risimilmente da cercarsi nel carattere misterioso che, già in
antico e massime nel medio evo, gli era attribuito; tantoché
fra i suoi varj nomi si trova anche nell'antico inglese quello
di maga, fata {fainj); e presso i Bavaresi quello di hefanuccia
{mTtemelein). Già presso i Greci, se la donnola (ya).Yi) correva
sopra la strada, un' adunanza pubblica doveva essere differita.
Teofrasto dice {cha7\ IG) che se qualcuno, messosi in cammino,
vede attraversarsegli la via dalla donnola, egli non deve andar
oltre, se prima un' altra persona non gli passa innanzi, ovvero
se egli non getta prima tre pietre di là dalla strada. I Romani
le attribuivano una specie di veleno portentoso (v. Plin., Ilisl.
nat. 1. V, II, e. 33). Nel libro di novelle e di bel parlar gentile^
noT.32,tra i varj segnali donde prendere augurio, si pone «quando
l'uomo trova la donnola nella via» (cfr. Grimm, Myth., 1081;
DiEZ, Et. xcòrt. ir, 219). Ancora oggidì presso alcuni popoli
d'Italia, per significar magro, mingherlino, macilento, si suol
dire succiato dalla donnola (per es. sic. sucatu di la baddot^
tuia; berg. sisat da la benola), come da altri si direbbe nello
stesso senso succiato dalle streghe (per es. ven. suzza o supegd
da le strighe).
Parrebbe dunque che tutti questi vezzeggiativi, piuttosto che
suggeriti dalla piccolezza e leggiadria dell* animale, siangli stati
dati col fine di propiziarselo in quanto gli erano attribuite qua-
lità soprannaturali.
Noterò in ultimo che il latino mustela si è qua e là mante-
nuto ne' volgari neolatini, come per es. nell' alto Piemonte (??m-
stela ^ musteila), in alcune contrade ladine (grig. mustcila,
mustaila), nella Provenza {moustclo), nella Catalogna {mustela).
italiano. È assai probabile che cotesto rummatvcUa valgavi donnola e ven^a
a far riscontro cosi logico come etimologico collo sj). cotìiadvcja.
52 Flechia,
nella Lorena {moteilé), ecc. Inoltre in alcuni luoghi del Piemonte
(provincia di Cuneo) te donnola è chiamata vinvéra, il lat. vi-
verra y propr. furetto, trasferte per confusione di specie alla
mustela, alla quale, pur con confusione di specie, i Veneziani
diedero il nome di martora, lat. martes. Donnola, che, come
toscano, è diventato il nome proprio della lingua comune, ap-
partiene anche al napolitano, all' umbrico, al romanesco, al
marchigiano e al romagnolo inflno al bolognese; colle peculia-
rità fonetiche di r = d nel nap. ronnola^, e del d epentetico nel
march, dondola, romagn. dondla; fenomeno quest'ultimo, che,
come s'è già visto, fu toccato anche a benula = bellula, nel
ferr. bendula, mant. hendola, regg. bendla (cfr. Arch. glott. I,
308 n,).
P. 311. « Lans. Ansia, affanno. Se al verbo anxiare od an^
* xare (sic) ed alle voci anxituio ed anxietas togliamo le
» mozioni ed i finimenti, rimane la radice anx, ancs, od ans
» che deve significare affanno. Questa radicale la intravediamo
» nella parola composta anxifer e la vediamo nella nostra sem-
» plica lans per affanno o lena affannata, la quale non è che
» la primitiva aas a cui si è prefissa la l per proprietà loque-
» lare del nostro dialetto % come in languria, liimid, lam per
» ayno ecc. Da lans ^oì esce il verbo lanser per ansare, ane-
» lare affannosamente siccome da ans sono pure le voci più
» compite e baritono ansa od ansia, ansare, ansioso, ecc. Sul-
» r ultima delle quali potrò avvertire che que' che pronunziano
» anzioso trovano hqW antios ricordato da Festo, quanto occorre
» per prestar fondamento diW antiosus dai medesimi prediletto ».
* È questa una delle varia forme che per fenomeno assai noto (cfr. per
es. rito -dito) prende la voce donnola nelle varietà vernacolari del napo-
litano, mentre il leccese per es. ha donnola (v. Costa, Yoc» zooL ecc. s. v.),
dal quale non si potrebbe etimologicamente staccare 1* equivalente jonola
de* Tarantini (Costa, o. c s. v.; De Vincentiis, Vbc. tar. s. v.), che hanno an-
cora per sinonimo di jonola: muè'aredda, cioò micina, gattina, gattolina
(cfr. nap. muso, musa, micio, micia). Cosi i Calabresi chiamano lo scojattolo
gattarella o gatto de montagna*
^ Non è solo propria del modenese cotesta concrezione di l articolo col
nome seguente che comincia da vocale, ma si nota qua e là non infrequente
ne' vari dialetti italiani (cfr. Fleciha, Dell' origine della voce sarda Nura-
ghe, p. 28; Arch. glott.1,032, ecc); e noi ne recammo poco fa un esempio
in lajya, lappia da ape (v. p. 36 n.)
Postille etimologiche. 53
Per l'etimologia del modenese lans bastava il dire: lans per
anSf come lam per am {amo n.), languria per anguria j so-
stantivo maschile, analogo fonologicamente al ferr., boi., regg.
ansa {=^ ansia) e, in quanto è maschile, ali* aretino anscio, con-
nesso d'origine col lat. ango, angor, anxius, ecc. Ma perchè
il G. ha pur mirato alla storia delle voci latine etimologica-
mente connesse con lanSy occorrono qui alcune rettificazioni.
Noterò primamente come la radice di esse voci latine non sia
punto anx (= ancs), né ans, ma ang (cioè quella stessa donde
ang-ere^ ang-or, ang-us-tus, ang-ina, ecc.), forma indo-euro-
pea angh' (a^ft-), quindi, gr. olj^ ol^/j- (cfr. a/-o;, dolor^ ^TL'^y
angOf ecc.), sanscr. angh-, aghy e anA, ah (cfr. angh-a-m, ah-
gh-aSf ahh-as, agh-a-m^ peccato, aflfaM^no, angustia, anh-u-s,
strettof strettezza, travaglio, anh-a-ti-s angustia, travaglio, di-
stretto, ecc.). Il passivo augi ebbe naturalmente per suo participio
passato anC'tus, come p. e. jungi, junc-tus. Secondo una legge
fonetica del latino, il t iniziale de' suffissi formativi del tema nelle
sue combinazioni colla precedente consonante passa in ^ e cosi nel
caso nostro, dopo la gutturale o semplice o preceduta da liquida
o da nasale, onde verbigrazia da vectus, t}ectare, vexare {vec-
'Sare)f da *merctare (nierg-taré) *merxare, donde poi e m^r-
iare e mersare, da pultare pulsare y da spargere *sparctus,
*sparxtis, sparsuSy ecc., e cosi da anctus fecesi anxùs {anc-sus),
attestato da Prisciano. Ora come insieme coi participj, quali
per es. offensuSy impensuSy repulsuSy volutus, vengono i so-
stantivi femminili offensay impensay repulsa, voluta, signifi-
canti l'azione o l'astratto della nozione verbale, cosi col par-
ticipio anxus (da anctus) potè verisimilmente esistere un so-
stantivo *anxa (= *ancta)y che sarebbe per rispetto ad angore,
anxus quel che noxa (da "noeta) dirimpetto a nocere e ad un
analogo participio ^noocus (da "noctus), e la cui esistenza sarebbe
anche resa probabile dal composto anxifer = anxa + fer, come
p. e. haccifer = bacca + fer, furcifer = furca + fer, ecc. Dalle due
forme ananis, *anxa (= ang-tus, ang-ta) procedono direttamente
o indirettamente tutti quei vocaboli che in latino vi si con-
nettono logicamente e organicamente, o, per parlare col lin-
goaggio dell'empirismo, cominciano da anx- (= anc-s-, anc:t'y
ang-t'). Quindi direttamente da anxus ne vennero *anxia (donde
5 L Flechia,
r it. a^isia) e anxUudo \ come verbigrazia da argutus argutia,
da ^noxus (= *noctus) noxia^ noxitudo, da ineptus meptia,
ineptiiudo, e da "anxa anxius come da noxa noxius. Da
*anxia venne anxiosus e verisimilmente anxiare, come poi da
angoscia (= angustia) angoscioso, angosciare. Quanto ad "anxa-
re, qualora fosse veramente esìstito questo verbo che il G. cita
sopra come effettivo, ma che ad ogni modo non si debbe am-
mettere se non come ipotetico, non essendovene testimonianza
presso gli scrittori latini, esso sarebbe probabilmente verbo
frequentativo, come p. e. vexare, proceduto dal participio anxuSy
anziché sémplice denominativo derivato da *anxa. E singolare
come in angoscia, e nelle corrispondenti voci neolatine proce-
denti dal latino angustia (da ang-us-tus) cessi la nozione di
strettezza materiale che la radice angh viene a darci in questi
vocaboli latini, come anche nel sanscrito, nel germanico e nello
slavo ; e vi predomini assoluta la nozione di angi e angor n.
Noterò finalmente come ansa per ansia forma propria d' alcuni
dialetti (ven., boi., ferr., regg. ; anse friul.), come pure ansare,
piuttosto che rispondere alle ipotetiche forme latine a^ixa, a'nxa--
re, possono equivalere fonologicamente a ansia, ansiare (= *an-
xia, anxiare), verso di cui starebbero come p. e. tose, chiesa,
mil. gesa ecc. ad ecclesia e alle dialettiche forme chiesta (na-
politano), ghiesia (cai.), eresia (sic. sardo mer.), glesie (friul.)
gesia (var. piem.), ecc. E il mod. lans {^ans)^ equivalente a
l-anso, metterebbe capo ad un ipotetico ital. sost. *an520 = lat. ,
*anxium, a cui accenna eziandio il già citato aretino anscio.
Quando anche poi fosse corretta la sovrallegata lezione del-
l' antios di Pesto, che lo Scaligero, e seco lui la buona critica.
• n Meyer (Vergi, gramm. d. gr. u, lai, spr. II, 540) riscontra ana;itudo
con anxietas come se venissero entrambi da una stessa forma fondamentale.
Il derivarsi (V anxietas da anxius è fuor d*ogni contrasto; ma contro anxi-
tudo da anxius sta la fonetica che vorrebbe od anxietudo, quale infatti ne
venne, o ad ogni modo *anxttudo (cfr. tibìcen per tibii + cen da tibia -ì^ cen); e
sta la mancanza d* altri nomi in -fudo, dedotti da forme fondamentali in -io;
perocché noxitudo^ che lo stesso Mayer trae da noxius (ivi, p. 541), vuole
per le stesse ragioni dedursi da *woa7US (=t *noctus), alla qual forma starebbe
nocca per l'appunto, come i sost. offensa, repulsa, fossa ecc. ad offensus r«-
pulsus, fossvs, secondo che già si ò accennato di sopra.
Postillo etimologicho. 55
legge piuttosto anctoSy non credo che sia il caso di riferirvisi
per autorizzare la pronunzia cYanzioso, che massimamente sulla
boeca de' Romani e de' Napolitani equivarrebbe del tutto al-
l' italiano ansioso {= anxiosus) , essendoché questi per legge
propria del loro dialetto cambiano in ^ la 5 immediatamente
preceduta da n (come pur da r /), onde per es. rom. inzino,
scarna, nun zete (non siete) ecc ; nap. conzenzo, conzirjliOj
penzà, apprenzioney ecc., e quindi cosi pegli uni come pegli
altri, non solo anzioso, ma anzia, aìizietà, ecc.
P. 162. i< Attimo, azzimato roso atto. Noi diciamo cai*
> attiìnè quel carro coperto, ornato reso soffice da fieno da
» materassi, entro cui ^i fanno in villa gite festose, piacevoli
» e di sollazzo. Si può credere da aczimare per azzimare, at-
* t illare, ornare, apparare, tanto che carro attimalo, equivalga
- a carro azzimato e ciò per lo scambio della z nella t. Si
f potrebbe anche dire che da aptimus per optissimus si dedu-
* cesse attimato come da optimus si dedusse ottimato, ed allora
* il carro attimato sarebbe quello che venisse reso il più idoneo
» possibile ai passatempi e ai festeggiamenti delle liete brigate ».
InTerisimili entrambe ci pajono le etimologie qui proposte
per attimo. Prima di tutto è da notare che car attimo signi-
fica propriamente carro coperto come dire di tele, di tenda, ecc.
e non già carro azzimato reso atto, secondo che il G. di-
chiara questo vocabolo in servigio delle sue etimologie. Quindi
r identificazione di attimato con azzimato, già improbabile sotto
l'aspetto logico, riuscirebbe poi oltremodo diffìcile a spiegarsi
dal lato fonologico (cfr. Diez, Et, w. V, 164). Né meno infondata
panni la derivazione di attimo da ^aptimus per aptissimus, si
perchè la sincope sarebbe piuttosto insolita e sì poi principal-
mente perchè una derivazione verbale da una forma di super-
lativo non è gran fatto verisimile, e Vottimato da optimus,
immaginato dal Galvani, non esiste punto come forma partici-
piale analoga ad attimato'^ e non potrebbe essere» altro che un
nome indicante un astratto come magistrato da magistcr il
nome latino optimatem passato con forma italiana alla seconda
declinazione; due nomi che non sarebbero né l'uno né l'altro
verbali.
Vediamo or dunque quale possa essere la più probabile ori-
gine del modenese attimà.
Postille etimologiche. 57
romagn. tigam, ecc. che nel significato etimologico di coperchio
sarebbe qui venuta a sostituirsi alle più regolari forme di
tegmen^ tegìmen, tegùmen, significanti appunto coperchio, co^
perta, ecc. Questo nome tegamen, mediante il dileguo di g^ quale
bassi per es. in leale ^ legaliSy reale = regalis, nel ven., ferr.,
parm., ecc. stria (=» strigam per strigem), striar {:= strigare),
frinì, teùm^tegumen (cfr. Arch. glott. I, 525), ecc. sarebbesi
ridotto a tearnCy che mutando, per legge assai nota, il primo
e in t, passa in tiame, come p. e. creatore in criatorcy leale in
lialCi ecc. *. Data cotesta forma di tiame. Vi per effetto d'assi-
milazione muta r a seguente in e, come per es. in Rieti := Riate,
Reate, Bietrioe - Biatrice , Beatrice, avieno ^ aviano , avea^
no, ecc., onde tieme da tiame. Quindi il ferr. tiem con perdita
à*e finale, secondo la legge comune a tutti i dialetti deir Emilia
(cfr. p. e. romagn. tigam ^tigame), e il ven. tiemo con passaggio
della stessa ^ in o sotto 1* influenza del genere maschile, come
per es. nel pur ven. legume ^ legume, sic. ramu - rame (cera-
inen), ecc. Con questo nome di tiemo, tiem, significante coper--
chio, coperta, collegherebbesi pertanto etimologicamente il ferr.
e parm. timar e il modenese attimé, attimer (= *attimare) *,
^ Doe fenomeni analoghi, cioè perdita di ^ e trapasso d*^ in t, avrebbero
pur luogo in antian (tegame), proprio non solo del veneziano, ma anche di
piii altri dialetti veneti, ladini e lombardi (pad*, ver., com., berg. [onfùi], tir.,
trent. [antiam], friul. [antijan])^ sia che vogliasi connettere questo vocabolo
con Ugo ^tegamen, ovvero col gr. r^yavoy, padella, secondo che si rende-
rebbe assai più verisimile per gli equivalenti sic. tigdnu, nap. tiano^ sardo tianu
(log. e mer.) e dianu (sett.), lig. tian fino alla Provenza , dove il significato
del continente si confonde con quello del contenuto, e dove, pel dipartimento
del Varo, tiamoun^ accennando alla base *tegamone^ parrebbe staccarsi etimo-
logicamente dal ligustico-provenzale tian. Il prefisso an- di antian ven. ecc.,
sia che abbiasi per mera alterazione fonetica di in- (cfr. p. e. ven. ancuSene^
ìt ancudine^ \kì. incus), sia che vogliasi considerare come rispondente, per
«■empio, air «fi* del lat. an^fractus (lat. amò-, am-, an-, gr. «fi^e, intomo
da ambo i lati), sarebbe ad ogni modo assai singolare, come aggiuntosi al
■ome gr* r^y^oy, che propriamente suona *liqi*efattojo, *friggitojo,
' La contrazione di te (ta, ea) in t, che verrebbe ad aver luogo in timar,
§Uimé^ presenta un fenomeno assai comune, massime per sillaba disaccen-
tata, onde per es. tose. Pimónte - Piemonte, à\9\. pitanza^z pietanza, parm. e
ferr. pigar per piegar, moden. pimazzol per piumazzol ecc., e segnatamente
1,
58 FlechU, Postillo etimologiche.
v^rbo composto, equivalente a un semplice timer, come per esem-
pio alletamare equivale a letamare da letame (« Icetamcri)', sic-
ché in conclusione il modenese car attimo (= carro attegarnato)
significherebbe propriamente, come appunto s'intende nell'uso
paesano, carro covertalo, *accovertato. Non è improbabile che il
veneto tiemo abbia dato origine a queste voci emiliane, intro-
dottosi su per la valle del Po, come essenzialmente proprio delle
barche che dall' Adriatico muovono su per la gran fiumana.
A pag. 248, « buson, uomo che promette più di quello man-
» tenga a fatti, » viene dal Galvani raddotto a busione, nome
che davasi, die' egli, « ne' tempi di mezzo a quella specie d'aquila
»o d'avoltojo che, sebbene abbia grandi forme, pure si lascia
» battere anche dal corvo». Quanto a me. non vedo il perchè il
mod. btison non debbasi piuttosto connettere etimologicamente
insieme col buson de' Bolognesi e boston de' Reggiani, ecc. signi-
ficanti bugiardo, bugiardone, con quella medesima radice, da
cui si deriva bugiardo, bugia ecc., dia!, bosard, bosia, busiard,
busia, ecc. , al qual proposito si può vedere il Diez (Et. te. V
s. bugia). Noterò solo, circa la forma, colla quale qui abbiamo
a fare, come tanto il latino quanto l'italiano per via del suff.
on-, otte derivino immediatamente da verbi nomi d'agente, per
lo più in senso d'azione spregevole, biasimevole o vile; quindi
come p. e. in lat. bib-on- (bevono) da bib-ere, blater-on (ciar-
lone) da blater-are ecc., cosi nell' ital. ciaW-on^ da ciarUare,
litig-one da litig-are ecc. ; e cosi bus-on, bosi-on da ^bus-are,
*bosi'are « ant. it bugiare (= bausiare), dir bugie. Chi pro-
mette e non attende è raancator di parola, è, si può dir, bu-
giardo; quindi buson, propr. bugiardo, ristretto, nel modenese,
al senso più speciale di non attenitor di promesse, mancator
di parola.
[Continua.]
remil. e lomb. lini, lem rz legume, che attesU ad un tempo la perdita di ^ e
la contrazione, due fenomeni operatisi appunto in timar, attimi, come aventi
per organico fondamento Ugamare, attegarnato.
SUL TRATTATO
DE rULGABI BLOQVENTIA
DI
DANTE ALiaHIERI,
STUDIO
DI
FRANCESCO D'OVIDIO.
SOMMARIO.
I. Autenticità del trattato de v, e, — II. Titolo di esso. — III. Età e luogo in
che fu composto. — IV. Numero de* libri dei quali sarebbe dovuto constare,
se Dante lo avesse compiuto. — V. Se nel tentativo di comporre una Poetica
del volgare Dante avesse alcun precursore, in Italia e fuori. — VI. Quali fos-
sero le idee di Dante rispetto al valor relativo del volgare e del latino. Come
le sue opinioni o dottrine letterarie si venissero formando via via. — VII. Quali
fossero le idee di Dante circa il merito relativo dell* italiano e degli altri
idiomi romanzi. — Vili. Dottrine di Dante sulForigine, unità primitiva e po-
steriore frazionamento dei linguaggi , e sulla distribuzione delle lingue in
Europa. — IX. Dottrina di Dante del continuo e progressivo dividersi e sud-
dividersi dei linguaggi. Sua classificazione dei dialetti italiani. — X. Dottrina
di Dante sul volgare illustre. Doppia specie di comuni pregiudizj circa i
dialetti. — XI. Che Tuna e Taltra specie si dovessero trovare in Dante. Stato
della lingua poetica italiana ai tempi di Dante. Metodo suo di valutare i
dialetti e la lingua colta. — XII. Sulle minute applicazioni che Dante fa di
un tal metodo a tutti i dialetti d* Italia, compreso il fiorentino. — XIII. Qual
d il volgare illustre ? — XIV. II libro secondo.
L'intento mio, nello scritto che qui segue, è di determinare il pre-
ciso significato delle dottrine comprese nel trattato di Dante, e di
ricercare com'esse siensi generate nella sua mente; in ispecie quella
sul volgare illustre^ divenuta davvero illustre. Della quale han fatto
un gran parlare il Trissino, il Perticari ed i seguaci loro, compia-
cendosi di poter dire che anche Dante tenesse la lingua colta italiana
come letteraria fattura, dovuta agli scrittori tutti di qualsivoglia parte
d'Italia, non già come il dialetto toscano, adottato dagli scrittori.
60 D'Ovidio,
Il rimpianto campione del dialetto fiorentino procurò invece dimo-
strare, come una tale opinione non si potesse menomaipente attribuire
a Dante, essendoché questi nella tanto citata dottrina del volgare
illustre intendesse parlare semplicemente di stile, niente affatto di
linguai Senza partecipare alla compiacenza di quei primi, io non
posso neanche (mi si perdoni l'ardimento) acconciarmi ali* afferma-
zione del gran Lombardo. Che, se nel libro secondo parla Dante
piti di stile che di lingua, nel libro primo però è evidente ch'egli
vuol proprio parlare di lingua, e che, su per giti, ne parla in modo
che poteva contentare il Trissino e il Perticari. Se non che, io pro-
curo di mostrare come Dante, pur intuendo assai felicemente quanto
di letterario vi dovesse essere nella lingua colta, non riuscisse dal-
l'altro lato a ben misurare quanto ella dovesse al dialetto, in parti-
colare al toscano; ingannato com'era dalla falsa luce con che gli si
presentavano i fatti letterarj del tempo suo, dai pregiudizj della sua
mente, dalle preoccupazioni del suo animo, da una catena quindi di
illusioni; inevitabili certo a quei tempi, il che scusa Dante, ma pur
sempre illusioni, il che giova notare, per togliere ogni pericolosa
autorità alla parte erronea della sua dottrina.
I.
Quando, nel 1529, il Trissino ebbe pubblicato sotto finto nome a
Vicenza una traduzione del trattato De vulgari eloquentiay ì sosteni-
tori del primato di Firenze in fatto di lingua, anziché cedere, come
il Trissino aveva sperato, air autorità di Dante, sollevarono molti
dttbbj sulla reale esistenza del testo latino, da cui il Trissino diceva
d'avere tradotto^. Credettero di scoprire nel libro, che era dato per
dantesco, tali contraddizioni con le altre opere di Dante e tale assi-
dua repugnanza alla verità storica, che conclusero il libro non poter
essere di Dante, o tutt'al piti potere egli averlo scritto al solo fine di
far dispetto a' suoi ingrati concittadini. Sennonché, l'esistenza di un
* V. la lettera al Bonghi nella Perseveranza del marzo 68, ristampata negli
Scritti varj sulla lingua (Milano, 1868), e nella edizione milanese della tradu-
zione trissiniana del de v, e. (Milano, Bernardoni 1868), assieme alla lettera di
Gino Capponi, con cui questi fece eco ali* altra del Manzoni, temperandola
però notevolmente ; come pur fece non meno felicemente Giuseppe Puccianti
(Opuscolo sulla lingua, Pisa 1868, Appendice).
* Vedi, per esempio, VErcolano del Varcai, a pag.68 dell'edizione fiorentina
del 1846.
Sul de vulgm eU di Dante. 61
antico testo latino, da cui il Trissino avea tradotto, fu provata dalla
pubblicazione che di esso testo fece a Parigi nel 1577 il Corbinelli*,
e dal ritrovamento di tre antichi codici ^ che lo contengono. Che poi
questo testo antico latino non sia niente altro che quel libro latino
sulla volgare eloquenza, che Dante promette nel Convito ^, e G. Vil-
lani^ e il Boccaccio^ dicon di aver letto, fion c*è ragione alcuna per
dabitarne; giaccherie contraddizioni che altri vi notò con luoghi di
altre opere di Dante, come diffusamente più sotto si dimostrerà, o
sono apparenti più che reali, o sono spiegabilissime e naturalmente
richieste dal progresso continuo della mente e delle opinioni di Dante;
e cosi pure le dottrine erronee, che nel libro in questione si ritrovano,
hanno in fine un fondamento di verità, e certo ben si spiega come
germogliassero in quella mente, per /asta e potente che la fosse.
Anzi oso dire che, se anche il libro de v. eloquentia ci fosse giunto
senza nome d'autore e senza indicazione di età, basterebbe sol leg-
gerne pochi capitoli per dichiararlo risolutamente opera di Dante;
tanto esso è imbevuto dell' ambiente letterario de' primi anni del tre-
cento, e tanto ò improntato delle qualità singolari e caratteristiche
dell'ingegno e dell'animo di Dante.
' Si è sospettato che lo stesso testo latino potesse averlo foggialo il Trissino;
ma il sospetto ò smentito, non che dal ritrovamento dei tre codici antichi, dal
solo confronto del testo con la traduzione trissiniana; piena questa d*abbagli
così ingenui, da mostrare come il testo sia del tutto estraneo a chi Tha fatta,
troppo anzi estraneo, perchè rimastogli tale anche dopo lo studio fattoci per
tradurla A migliaja si contano gli equivoci e gli spropositi. Per citarne qual-
cuno, < biblia cum Trojanorum Romanorumque gestibus compilata > (I, 10)
U T. traduce < la Bibbia^ i fatti dei Troj. e dei R. « 1 E 4 totus orbis ipsa (lo-
cutione TQlgarì) perfruitur » (1, 1) il T. traduce < di esso volgare tutto il mondo
ragiona » i E < ipsum (il volgare illustre) carminemus > (= pettiniamolo, rimon-
diamolo; II, 1), ingannato dalF omofonia con carmen^ ei lo traduce € versifi-
chiamolo » ! E discretio (r= discernimento) egli Io rende con separazione^ ecc.
Cfr. pure le note della citata edizione del Bernardoni.
' Uno, il Trivulziano, ò del s. XIV ; un altro, di Grenoble, della fine del s. XIV
o poco dopo; il terzo, vaticano, è una copia fatta ai primi del s. XVI da un
codice della biblioteca di Lorenzo dei Medici, duca di Urbino (ediz. Torri,
p. xxxv-vii). < Un quarto codice (mi scriveva due anni fa il comm. Witte)
» dovrebbe possedere Mjlord Ashburnam, ma non ne ho mai potuto avere
> notizie ».
* Tratt. I, cap. V.
* Lib. IX, cap. 136.
* Nella Vita di Dante.
62 D' Ovidio,
IL
De' due titoli 'de vulgari eloquentia* e *de vulgari eloquio*, seb-
bene il secondo sia prevalso, io credo autentico il primo; perchè e' è
nella piti parte delle antiche edizioni, e perchò come 'libro di volgare
eloquenza' lo annunzia Dahte nel luogo citato del Convito, e 'de vul-
garìs eloquentiae doctrina' dice sul principio di esso di volervi trat-
tare, e il Boccaccio afferma ch'ei 'lo intitulò de vulgari eloquentia',
e finalmente a questo titolo appunto risponde il tenore del libro, che
è, e ancor più doveva essere se fosse stato terminato, un' arte poe-
tica, una tecnica degli eloquentes doctores*, un trattato 'dove in-
tendea (al dir del Boccaccio) di dar dottrina, a chi imprender la
volesse, di dire in rima*. Ma il gran discorrere che vi si fa nel
primo libro, per introduzione, di lingue e di parlate, dovè presto
indur molti a tenerlo per un libro sul linguaggio volgare, e quindi
a nominarlo 'de vulgari eloquio seu idiomate*, essendoché eloquio
non sia tanto l'eloquenza, quanto' il dettato^ la forma, la favella.
Infatti il Villani, che lo chiama 'de vulgari eloquio', pare sia stato
appunto colpito piti che altro da ciò che vi si dice sulla lingua,
poiché lo definisce come il libro « ove Dante con forte e adorno la-
tino e belle ragioni ripruova tutti i volgari d'Italia»*.
IH.
Il trattato de vulgari eloquentia fu certamente scritto dopo l'esilio,
giacché, come in tutte le altre opere a questo posteriori ^, così anche
qui egli se ne lamenta con quella sua tenera alterezza ^. E dal la-
mentare che fa al capo 18° del libro I, che « in Italia non vi sia
una corte come in Alemagna>», si deduce che il libro primo non fu
scritto durante la venuta di Arrigo (1309-1313), ma o prima o dopo;
anzi prima, perchè, se lo avesse scritto dopo, non si sarebbe potuto
tenere, parlando della mancanza di una corte in Italia, dal fare un
malinconico ricordo della infelice venuta dell'imperatore germanico.
Egli dice: «< licet curia in I. non sit, membra tamen ejus non desunt...
* V. De V. E. passim.
' Fuorché nella Monarchia^ che del resto ò da parecchi eruditi creduta an-
teriore airesilio. Vedi la Nota del Witte in Fraticelli, Op. min. di D. II. p. 270-73,
e Topuscolo del Bóhmer: Ueber Dante* s Monarchie ^ Halle 1866. Io sono con
loro, non foss*altro per la forma scolastica e tapina del de ifon., tanto inferiore
alla forma del de v. el. e degli altri scritti latini.
3 V De V.E. 1,6; I, 17.
Sul de vuig. el, dì Dante. 63
gralioso lamine rationis unita*», e queste son parole di chi s'illude
ancora; nò certo Dante le avrebbe pili scritte, dopo che le discordie
italiane avevano impedito ad Arrigo di formare delle membra cor~
poraliter dispersa una vera curia.
Sicché tra il 1302 e il 1309 cade la composizione del primo libro
dtv.e. Ma Tampia cognizione che Dante ivi mostra di varj dialetti
italiani fa supporre, com'è stato da altri osservato, ch'ei lo prendesse
a scrivere dopo essere già andato ramingo per buona parte d'Italia; il
che, insieme all'indulgenza grandissima con cui giudica il dialetto
bolognese ^, e alla minuta conoscenza che mostra d'averne ^, rende
assai probabile la supposizione del Bdhmer ^, e del Balbo \ che il
primo libro sia stato scritto sul declinare dell'anno 1304 a Bologna;
dove l'Alighieri, secondo ogni verisimiglianza, s' ebbe a intrattenere,
dopo andato fallito il tentativo, che con l'ajuto dei Bolognesi fecero
nel luglio di quell'anno i fuorusciti fiorentini, di tornare in patria
con la forza. E siccome al capo XII è menzionato Giovanni (I) mar-
chese di Monferrato come ancora vivente, e questi morì sul principio
del 1305, così bisogna credere che a questo tempo la composizione
del primo libro fosse già molto inoltrata.
Dall'esordio poi del secondo libro ^ si vede chiaro, che tra l'uno
e l'altro libro vi ò stata una sospensione. Ma quanto lunga questa
fosse e da che cagionata ^, e quando e dove Dante ripigliasse a
scrivere e dettasse la parte del secondo libro che tuttora ci rimane,
non v'è modo di determinarlo. Veramente, al capo VI, tra varj èsempj
• L. I, cap. 15.
' L. I, cap. 9. Dice di volere investigare, < qnare vicinins habitantes adhnc
dlacrepant in loquendo, ut Mediolanenses et Veronenses, Romani et Fiorentini;
nec non convenientes in eodem nomine gentis, ut Neapolitani et Cajetani, Ra-
vennates et Faventini ; et quod mirabilius est, sub eadem civitate morantes, ut
Bonoiiienses burgi s. Felicis et Bononienses stratae majoris ».
• Ueber Dante^s schrift '<fe vulgari eloquentia\ nebst einer untersuchung
des baues der DantescTien Canzonen^ Halle 1868, pag. 50. Ne feci una minuta
recensione nella Rivista bolognese^ fascicolo dell' agosto del 1869. A proposito
della quale, una lettera piena di ingegnose osservazioni ebl^ la bontà d* indi-
rizzarmi il eh. Tommaseo, sul Propugnatore (1869).
• Vita di Dante.
• < PoUicitantes iterum celeritatem ingenii nostri, ed ad calamum frugi
operis redeuntes>.
• Il Bdhmer crede verisimile che da un viaggio per faccende politiche, dei-
Testate del 1305, sia stata causata V interruzione, ma non dà nessun fonda-
mento a tal congettura.
64 D'Ovidio,
di possibili costruzioni, è addotta questa frase: «laudabilis discretio
marchionis Estensis, et sua magnificentia, praeparata cunctis, illum
facit esse dilectum » ; la quale non potendosi, a quanto pare, attri-
buire ad altro che ad Azzo Vili *, morto il Febbrajo 1308, e accen-
nando a lui come a persona ancora vivente, darebbe indizio che un
po' prima di cotesta data il secondo libro, almeno sino al capo sesto,
fosse già scritto. Sennonché, chi ci assicura che.la frase sia proprio
di Dante, e non piuttosto di qualche altro, e come tale addotta da
lui, pur dopo la morte di Azzo, ad esempio di una certa ampollosa
maniera di fraseggiare? Potendo dunque quella frase essere ^ o non
essere di Dante, neppure quel debole indìzio ci soccorre, e una data
certa per la composizione del libro secondo non si può assegnare. Come
neppure si può dar piena ragione dell'aver Dante lasciata in tronco
l'opera, nel bel mezzo del capitolo XIV del secondo libro. Il Boc-
caccio, persuaso a torto che Dante prendesse a scriver l'opera ««già
vicino alla sua morte », ò naturalmente indotto a sospettare che gli
altri libri non facesse a tempo a scriverli, perchè «dalla morte soprap-
preso». Il qual sospetto è espresso pure dal Villani. Il Bòhmer con-
gettura, che Dante smettesse di scrivere il trattato de v. el. per colpa
della espulsione, in eui fu involto, dei fuorusciti fìorentini da Bolo-
gna, seguita il 1.^ di marzo del 1306, e dopo non lo ripigliasse piU
perchè distratto da altri soggetti. Noi, senza pretendere d'assegnare
o date o ragioni precise, ci dovremo contentar di dire che l'Alighieri,
a cui frequenti motivi d'interrompere i suoi lavori eran dati dai for-
tunosi eventi della vita, dalle molte occupazioni pratiche, dalle cure
che metteva nella sua opera maggiore, sospese forse la composizione
del de vulgari eloquentia con l'intenzione di tornarci su; ma, distratto
sempre da tutte quelle cagioni, e probabilmente un pò* impensierito
delle molte difficoltà da incontrare per portare a compimento la mi-
nuziosa opera, tanto indugiò, che o abbandonò persin l'intenzione di
rimettercisi , o questa fu dalla immatura sua morte resa vana.
Se è vero, come a me pare verissimo, <^e il primo trattato del
Convito fu scritto verso il 1314^, e' s'avrebbe una prova che sino a
* Vedi il Fraticelli, e il Bòhmer, opusc. testò cit., pag. 2 n.
* E vero che V elogio, che essa contiene, contrasta con le severe parole che
altrove Dante dice di lui (I, 12); ma, se Dante ha davvero coniata egli quella
frase, Tha fatto per dar esempio d*una maniera di fraseggiare non sua; quindi
l'includervi un concetto non suo gli doveva riuscire naturale.
* V. la Dissertaz. premessa dal Fraticelli al Convito (Op. min. III). Né va
dimenticata la Diss, sul Cono, del prof. F. Selmi , sebbene vi si faccia un
enorme abuso di congetture e di troppo vaghi indizj.
Sul de vulg, eL di Dante. 65
cotesto anno Dante non aveva smessa V intenzione di compiere il de
vuiffori eloquentia; giacché, accennatavi la enorme mutabilità dei lin*
goaggi, egli avverte: •'Di questo si parlerà altrove piti compiuta-
mente in un libro ch'io intendo di fare; Dio concedente, di volgare
eloqnenzia *• ^. E ne parla infatti compiutamente nel capo 9.** del 1. I
dev^e.f scritto certamente prima del febbrajo 1305, circa dunque
nove anni prima del passo del Convito. Il che vorrebbe dire che
nel 1314 egli teneva ancora in serbo la parte del de vulg, eL già
scritta, e non aveva per anco rinunziato al disegno di compierlo e
di darlo in luce. E chissà se in quel *Dio concedente' non si riveli
il fastidioso pensiero dògi* inciampi già avuti a mettere in atto quel
disegno, e un cotal presentimento che anche per l'avvenire non sa-
rebbero quegl' inciampi mancati!
IV.
Giovanni Villani asserisce che Dante nell'opera •• promette di fare
quattro libri • , e allo stesso modo il Boccaccio pretende « come per
lo detto libretto apparisca lui avere in animo di distinguerlo e di
terminarlo in quattro libri*. Ma, veramente, Dante non fa esplicita
promessa, nò lascia chiaramente trasparire, di voler fare soli quattro
libri ; bensì egli rimanda tre volte al libro quarto 3, il che prova che
non meno di quattro libri egli voleva fare, non già che non ne vo-
lesse fare di piti. Anzi il Bdhmer credette addirittura di aver trovato
nelFesordio del libro secondo un indizio, che alipeno un quinto libro
pensasse Dante di aggiungere ^.
Dante dice: «< Pollicitantes iterum celeritatem ingenii nostri, et
• ad calamum frugi operis redeuntes, ante omnia confitemur latinum
• ("italiano) vulgare illustre tam prosaice quam metrice decere pro-
• ferri. Sed quia ipsum prosaicantes ab inventoribus (s trovatori»
» poeti) magis accipiunt, et quia quod inventura est prosaicantibus
» permanet firmum exemplar, et non e contrario, quìa quaedam vi-
• dentur praebere primatum ^versui"; ergo, secundum quod metricum
» est, ipsum carmìnemus. *> Che vuol dire in sostanza: il volgare il-
lustre è atto e alla poesia e alla prosa, ma siccome esso prende
» Tr. I, cap. V.
MI, 4 e 8.
* Veramente, il B. si é, dopo alcune objezioni eh* io gli feci, lealmente ri-
creduto; ma io devo qui ripetere, benchd non piti ad hominem, le mie ragioni
contro la sua ingegnosa argomentazione, per aver questa, anche dopo, trovato
fede presso il Die/, Gramm, d, roman. s, ì \ 79 o.
Archivio glottol. ìtal.. II. 3
66 D'Ovidio,
norme fisse nella poesia, e da questa i prosatori lo imitano, cosi
trattiamolo addirittura in quanto poetico. L'arte della prosa era an-
cora sul nascere,, mentre Tarte poetica, già, di molto progredita,
esercitava essa la prima influenza sulla formazione della lingua colta
italiana: fatto d'altronde non punto nuovo nella storia delle lettera-
ture *. E quindi naturale che Dante, pur avendo pronte tutte quelle
regole che ci espone sulla tecnica della poesia, non si sentisse in-
vece di entrare nella tecnica della prosa, dove non aveva, molto pro-
babilmente, niente di preciso e di concreto da dire. Non gli dovè
dunque parer vero di potersi tórre d'impaccio col subordinare tutto
alla poesia, e rivolgere tutta a questa la sua trattazione.
Ora, il Bohmer emendava le parole del testo cosi: ««...et quia quod
inventum est prosaicantibus permanet fìrmum exemplar, et non e
contrario, quod quidam videniur probare, primum ergo secundum
quod metricum est ipsum carminemus », e veniva quindi a dar questo
senso: « essendo la lingua poetica che serve di modello alla pro^,
e non, come alcuni credono, il contrario , cominciamo dunque dal trat-
tare jirtma del volgar poetico.» Donde il B. deduceva, che Dante dopo
avere esaurita la poesia^^ nel quarto libro , consacrato al sonetto e
alla ballata, sarebbe dovuto poi passare alla prosa in un quinto libro.
Ma prima di tutto, Temendamento del B. era arbitrario, giacché, seb-
bene il testo vulgato non soddisfaccia interamente, neanche con l'ag-
giunta «»versuì** fatta dal Fraticelli, e tanto mend poi senza di questa;
tuttavia, il senso generale che si trae dalie parole « quia quaedam
videntur praebere primatum » non isconviene punto al luogo ov'esse
si leggono ne'mss., anzi vi è proprio a proposito, essendo natura-
lissimo l'aspettarsi quivi od uno speciale argomento, o almeno un
vago accenno a notorie ragioni, per le quali la poesia serva di mo-
dello alla prosa. Eppoi, avesse pur Dante scritto a quel modo che il B.
emendava, non per questo se ne dovrebbe trarre quel ch'egli ne trae-
va; perchè, se anche Dante promettesse con quelle parole di voler poi
parlare anche della prosa, intenderebbe sempre dire della prosa illu-
stre; e di questa avrebbe dovuto trattare prima di venire allo stile
elegiaco e comico (libro quarto), cioè nel terzo libro.
* Basti citare Tesempio della letteratura latina. Quanta efficacia avessero i
poeti, e tutte le esigenze prosodiche e ritmiche della versificazione, nel fissare
e ripulire il linguaggio latino, ò ben rilevato da quasi tutti gli autori di storie
letterarie romane (Bernhardj, Biihr, ecc.) e dai linguisti (Corssen ecc.). —
Sono ancora notevoli le parole del Convito (I, 13): « Ciascuna cosa stadia na-
turalmente alla sua conservazione; onde se il volgare per so studiare potesse,
studierebbe a quella; e quella sarebbe acconciare sé a piii stabilità; e più
stabilità non potrebbe avere che legar sé con numero e con rime».
Sul de vulg, el. di Dante. 67
Del resto, eran tanto larghe le proporziooi con cui Dante conce-
piva l'opera sua sul punto di intraprenderla (dicendo nientemeno di
volere, dopo il volgare illustre, curarsi di illuminare via via tutti gli
altri inferiori, gradatim descendentes ad illud quod unius solius fa-
miliae proprium est), che ibrse egli stesso non era ben certo dove
sarebbe andato a metter capo.
V.
« Cam neminem ante nos de vulgari eloquentia doctrina quicquam
inveniamus tractassei» incomincia Dante; ma è questa un'esatta af-
fermazione, od una esagerazione inspiratagli dalla coscienza della
superiorità dell'opera sua rispetto ai tentativi anteriori? E, nel vanto
che si dà, pensa egli alia sola Italia, od anche alla Francia e alla
Provenza?
Poco piti giti egli dice: «locutioni vulgarium gentium prodesse
tentabimus, non solum aquam nostri ingenii ad tantum poculum hau-
rientes^ sed accipiendo vel compilando ab aliis, potiora miscentes, ut
inde potionare possimus dulcissimum hjdromellum», ed al Galvani
parve*, che ciò contraddicesse alle prime parole dell'esordio. Sennon-
ché, ciò di cui Dante nell'esordio si vanta è di essere il primo a fare
un trattato sull'eloquenza volgare; e questo non vuol poi dire che
tutti gli elementi, che egli mette assieme per comporlo, debbano essere
nuovi e scoperti da lui. Sua è, per esempio, la dottrina sulle varia-
zioni continue di ciascun linguaggio (1, 9), sua la classificazione dei
dialetti italiani (1, 10); ma le dottrine sull'origine del linguaggio egli
le ha nella sostanza attinte dai filosofi e dai teologi^. Oltreché, le norme
della poesia volgare egli le dà quali gli risultano dalla pratica dei
migliori poeti anteriori e contemporanei, lui compreso. Quindi è che,
come ad esempio di alcune abilità artistiche, di alcune tendenze, di
certi generi di componimento, deve recare le sue stesse poesie e le
sue proprie abitudini^; così, a proposito e delle stesse e di altre
abilità e tendenze e generi, deve citare altri poeti e altre scuole ; il
che egli fa non meno volentieri, rammentando più o men di frequente
' Dabbii sulle dottrine Perticariaue, p. 75.
' Dice al principio del cap. nono: Nos autem nunc oportet quaui habeaius
rationem periclilari, cura inquirere intendamus de t/5, in quibus nullius atic^
toritate fulcimur. 11 che vuol diro che negli antecedenti otto capitoli s'era
appoggiato ad altri autori ; ma beninteio non autori di manuali d'arte poetica
volgare: qui sta il punto!
MI, 2, 5,6,8, 10, 11,12, 13.
68 D'Ovidio,
gr italiani Guido Cavalcanti, Gino da Pistoja, Guido Ghislieri, Fa-
brizio, Onesto, Guido Guinicelli, Sordello e Giotto di Mantova, il
Giudice delle Colonne da Messina e Rinaldo d'Aquino; e gli stranieri
Arnaldo Daniello, Folchetto da Marsiglia, Girardo di Bornello, il Re
di Na varrà, Bertramb del Bornio, Amerigo di Belino! e Amerigo di
Peguilano *.
In questo senso egli recava nel poculum non solo Tacqua del suo
ingegno, ma prendeva e compilava dagli altri il meglio che's*aves-
sero, per mescolarlo con quella. E qui credeva egli che stesse Tori-
ginalità sua, nel fare un corpo solo di sparse dottrine, e nel fissare
in forma dottrinale le tante norme poetiche, seguito fin allora dai
poeti per un accordo spontaneo. E che a crederlo avesse ragione, un
breve cenno di ciò che prima di lui si era, o meglio non si era fatto,
basterà a provarlo.
Di qua come di là dalle Alpi, la lingua scritta fu, durante il medio
evo, solamente la latina. Vero è che pur dopo il rinascimento molti
scrissero in latino, ma non per necessità, bensì per istrascico di
un'abitudine vecchia, o piuttosto per una smania nuova, da cui tutti
erano invasi, di riprodurre, e nelle idee e nello stile e nella lingua,
l'antichità; sicchò il latino loro era, o procuravan che fosse, quello
de' classici antichi. Nel medio evo invece, il latino era usato come
r organo tradizionale e indispensabile della espressione letteraria ,
al modo che da noi è oggi la lingua aulica. E come noi, non che un
discorso, una breve lettera, non sappiam fare ameno di scriverla
in italiano, sia pure in un italiano spropositato e imbevuto di lo-
cuzioni e costrutti e pronuncio dialettali, e ci sgomenteremmo di
scriverla addirittura nel nostro dialetto; cosi, nel medio evo, chi per
poco tenesse in mano la penna, cercava spiegarsi nel tradizionale la-
tino, per quanto poi malagevole gli riuscisse di serbarne la corret-
tezza grammaticale, ed inevitabile di deturparlo di idiotismi volgari.
Cosicché il latino, e per l'uso incessante che se ne faceva, e per l'in-
filtrarvisi continuo di idiotismi recenti, era ancora in un certo senso
una lìngua vivente; fonti autorevoli della quale furon tenuti non solo
i classici antichi, ma eziandio la Volgata (non era possibile che lo
Spirito Santo non facesse testo di lingua) e l'uso contemporaneo 2.
Ma venne finalmente il tempo che al clero, che nel medio evo
aveva avuto il monopolio della coltura, sorgeva accanto, bisognoso
• Ibid.
^ Cfr. Thurot, Nolices et extraits de dioers manuscrits latins pow servir
à l'histoire des doctrines grammaticales an moyen àge^ p. i?04 o paski.
Sul de vulg, el. di Dante. 69
di esprimere idee e sentimenti suoi nuovi, il laicato; il quale fu
tratto naturalmente ad assumere le sue lingue native, non però per
Tolontà deliberata, non per consapevole ribellione al passato, bensì
per necessità spontanea ed irresistibile. Quindi avveniva, che molti
par seguitassero a scrivere latino, e spesso anzi in alcuni generi let-
terari a questo si attenessero, e credessero obbligo T attenersi, persin
coloro che in altri generi adottavano il volgare; ed un'idea conven-
tionale rimanesse sempre comune e ai dotti e agl'indotti, che cioè
il latino fosse il vero linguaggio dell'arte; sicchò gli scrittori volgari
spesso dell'imperfezione delle opere loro si scusavano, accusando di
povertà e d'impotenza il nuovo linguaggio. La grammatica, primo
elemento della coltura, era sempre la grammatica latina; e questa
ridocevasi ad esporre e chiosare Donato e Prisciano, a esercitare una
puerile sottigliezza sui testi tradizionali servilmente seguiti, e tutt'al
più a fare qualche piti copiosa compilazione. Sicché, abbandonato il
Tolgare alla discrezione di chi scriveva, e all'influenza di quelle con-
suetudini e norme che spontaneamente s'andavan formando fra gli
scrittori, al caso insomma, com'essi dicevano, solo il latino ritene-
vano regolare ed artistico, lingua grammaticale^ anzi grammatica^
come addirittura lo nominavano.
Veramente, la Provenza e la Francia, per più profonde mescolanze
etniche, e per maggior precocità nel prendere un nuovo assetto po-
litico, men che l'Italia legate alla tradizione romana, poterono avere
più presto di noi una propria cultura, a cui fosse naturale strumento
il volgare; ma in fondo neppur esse sollevarono questo a vero lin-
guaggio grammaticale. Tentativi di dar norme e sulla lingua e sul-
Tarte nuova non vi furono che scarsi, isolati, e tardivi molto. Solo
due secoli dopo ch'egli era in uso, venne in mente a Hugues Faidit,
autore del Donatz Proensals, di riprodurre un po' sul provenzale quel
lavoro grammaticale ch'era solito a farsi tradizionalmente sul latino.
Un pochino più oltre di lui andò Raymond Vidal de Besaudun, nella
sua opera intitolata Rasos de trobar; la quale certamente è, ad onta
del suo tìtolo, grammatica anch'essa; ma almeno ò più del Donatz
Proensals scevra di servile imitazione dei testi latini, ed ha poi la
velleità di riuscire un' arte poetica, offrendo qua e là alcune osserva-
zioni che si potrebbero dire dì ordine estetico e critico, come ad esem-
pio sono quelle sulla cattiva influenza che spesso sui trovatori eserci-
tano gli uditori ignoranti, sui cattivi effetti del credersi già esperti ed
intendenti prima di esserlo, sulla delimitazion geografica del volgare
provenzale e sul merito intrinseco di questo in rapporto a quello del
francese, sul non aversi a fidare a chius' occhi dell' autorità dei tro-
70 D'Oridio,
valori quando pur sieno valenti, e quella principalmente sul valore
del concetto espresso in un verso e sul dovere di evitare in poesia
le sconnessioni e le incongruenze {rajson mal continuada ni mal
assignada) *. Più assai che mera grammatica sono invero le Leys
d*amors^ della metà del sec. XIV, contenendo, oltre le dottrine gram-
maticali propriamente dette, anche la metrica^ e il trattato dei vizj
e delle figure ^ che son per noi moderni materie retoriche, ma entra-
vano nell'antica grammatica latina^. Sennonché, quest'ampia compi-
lazione, essendo posteriore di piti decennj al libro di Dante, e venuta
su quando la letteratura provenzale era piti che svolta, esaurita ad-
dirittura, è per noi di ben poco interesse.
Se alla fine del sec. XIII la Provenza, dove il volgare s'era da gran
tempo coltivato, non avea che meschini e isolati tentativi gramma-
ticali, che io credo a Dante rimanessero anche del tutto ignoti; in
Italia poi, dove la coltura del volgare s'era incominciata di recente,
e dove, per la già da noi rilevata tenacità della tradizion romana,
il culto del latino era sempre, nonostante le deviazioni pratiche, il
credo letterario della nazione, a nessuno veniva il pensiero di trattar
teoricamente del volgare. In verità, qualche scrittore ha asserito
che Guido Cavalcanti scrivesse una grammatica ed una retorica del
volgare, nientemeno! Ma darebbe prova di scarsa critica chi pren-
desse sul serio cotesta fola (a cui le note predilezioni del Cavalcanti
per il volgare devono aver dato origine), fidando sulla semplice as-
serzione di scrittori posteriori di secoli al Cavalcanti^, non confor-
tata da ninna testimonianza veramente antica, anzi recisamente
smentita dal vanto che l'Alighieri si dà di essere proprio il primo a
fare una trattazion teorica del volgare, laddove a lui di certo non
* V. Grammaires proc^ngales de Mugues Faidit et de Raymond Vidal de
Besaudun (XlIIfi siede) ^ 2.e édit. par F. Guessabd, Paris 1858.
' Las flors del gay saber estier dichas las leys d'amarsi contenute nei
primi tre voi. dei Mónumens de la littér, romane, pubi, sous les ausp, de
VAcad, d.jeux floratkx^ Tolosa 1841.
' Le parole di Filippo Villani {De Florentiae famos. civ. p. 33), riferite dal
Grion (Pref. ad A. da Tempo, p. 13), quando pure avessero grande autorità,
che non hanno, non importano punto quello che il Grion ne deduce. Domenico
Tullio Fausto (Tntroduz, alla lingua volg,^ senz'anno nò data; nel cap. Del-
l'ordinare la prosa) cita a proposito delle parole irsute^ oltre di Dante
(V. E. II, 7), anche la seconda parte della grammatica di Guido (V. Grion,
ibid.). Francesco Bocchi nell'elogio di Altobr. Cavale. (1609), dice esservi
chi affermasse aver Guido scritto de eloquio sui saeculi, de regulis ling,
etvusc, de nat, verbor., etc.
Sul de vulg, eL di Dante. 71
sarebbe parso vero di rammentare sin dal principio quel primo dei
suoi amici^ che tanto volte, e cosi di cuore, rammenta nel corso del-
l'opera.
Certamente, il pensiero di prender quasi a legittimare la nascente
arte e lingua volgare, facendole soggetto di uno studio teorico, non
era impossibile a cadere in mente di alcuno; perchè, se è vero che
la critica suole venire sol dopo lo svolgimento spontaneo dell'arte,
è pur vero d'altronde che la critica può avere un inizio precoce,
in una letteratura che, come l'italiana, muova i primi passi guidata
dagli esempj di un* altra letteratura nazionale anteriore e di contem-
poranee letterature di altri popoli. In simil caso, quel certo lavorio
riflesso che va fatto per imitarle letterature straniere, i molti con-
fronti che sorgono tra le opere presenti e le antiche, e il complesso
di opere e regolo critiche tramandato dalla letteratura passata, pro-
muovono la riflessione critica e l'amore della regolarità; di modo che
il pensiero di comporre una teoria dell'arte contemporanea si dovrebbe
addirittura presentar presto ed a piti d'uno, se non vi fosse della diffi-
coltà a pensare che il lavoro riflesso, che si fa sull'antico o sull'altrui,
si può fare anche sul proprio, e che l'attenzione, solita a prestarsi a
ciò che ò già celebre e riconosciuto degno di studio, si può anche dare
utilmente a ciò che par plebeo e indegno di considerazione. Difficoltà
più grave che alla prima non sembri, e a superar la quale si richiede
*ana grande originalità e larghezza di spirito. E di questa diede gran
prova Dante, mettendosi a scrivere un'ars poetica del volgare. Poi-
ché, i dottrinarj non si sarebbero mai degnati di applicar sul serio la
teoria a questo volgare; i poeti seguivan l'istinto e non erano curanti
della dottrina e della teoria; taluni erano insieme e dottrinarj e poeti,
ma non avevano fuse e contemperate in sé le due qualità: erano a
vicenda or l'una or l'altra cosa, latinisti pedanti in teoria, poeti
volgari in pratica ^ ; e ad ogni modo non avevano nessuno si acuta
vista, da comprendere dove la coltura del volgare sarebbe andata a
metter capo. Diente invece avea mirabilmente amalgamate in sé la
dottrina e la pratica, la scienza del passato e la coscienza del pre-
sente, r amore e lo studio dell'antichità e il presentimento sicuro
dei destini dell'arte nuova. Perciò non gli potè piacere quel poetar
in volitare a casoj che si faceva allora, ma d'altro lato non si lasciò
dominare dal pregiudizio che la regolarità e l'arte riflessa fossero
nn privilegio dell'antichità. Dotto insieme e novatore, volle si facesse
la dottrina del nuovo.
* Neanche in Petrarca c*ò ancora la fusione vera delle due qualità.
72 D'Ovidio,
E tanto è vero che tì fa proprio dantesca precocità ed originalità
nel concepire un'opera come quella de vulgari eloquentia^ che anche
posteriormente dovò correr gran tempo prima che si ripensasse a
scrivere arti poetiche del volgare; facendo a ciò unica eccezione An-
tonio da Tempo padovano, che alcuni decennj dopo di Dante, allorché
la coltura del volgare era stata viepiù sanzionata dal tempo, com-
pose in latino sulle Rime volgari un pedestre trattato, di pura me-
trica, sui sonetti» ballate, cameni, rotondelli, madrigali, serventesi •
motti confetti, il qual trattato, anche sema il confronto di quel di
Dante, è cosa davvero gretta e meschina *.
VI.
Le varie tendenze della mente di Dante sono, nella sostanza, ben
conciliate nelle sue varie opere; se non che, qua e là esse appariscono
ognuna per so troppo pronunziate, dove Tuna e dove l'altra, tanto
da parere quasi in contraddizione tra loro. Inoltre, prima di giun-
gere a un savio contemperamento d'opinioni estreme, egli dovò libe-
rarsi via via da parecchi pregiudizj. Di questi ò imbevuta, pih che
altra, la sua opera più giovanile, la Vita Nuova. Ben senti egli che
in volgare l'aveva a scrivere; ma pure, appassionato dell'antichità,
tuttora giovane inesperto» pieno verso il latino di quella fantastica
devozione che all'animo suo era naturale non meno dell'impeto sde-
gnoso, ebbe bisogno, per risolvercisi, dei conforti del primo dei sìàoì
amiciy cui la dedicava, di Guido Cavalcanti. Il quale, più provetto
di lui, e carattere com'era risoluto, sdegnoso e persino violento
( secondo il Boccaccio, G. Villani e Dino si accordano a dipingerloy,
pareva proprio l'uomo fatto apposta per dissipare le incertezze del
giovane poeta ^.
Ma di pregiudiij teorici Dante restava ancora pieno; giacché, al
* Fu la prima Tolta edito a Venezia (1509), e recentemente dal Gaioif (Bo-
logna, Romagnoli 1869). Lo tradawe, a mezzo il quattrocento, in dialetto,
i* udinese Francesco Baratella ancor sedicenne; anche essa traduz. edita dal
Grion (Ibid.).
' V. Vit N., § 3.- Quanto al famoso disdegno di Guido per Virgilio, io
mantengo sempre l'interpretazione che proposi tre anni sono nel Propugna»
iore (III, 2, 167 segg.). Nondimeno ammetto, che qualche idea di disdegno
letterario pofcMi essersi accompagnata, nella mente di Dante, ali* idea cardinale
del disdegno filosofico- teologico; perchè eertamente quell* influsso educativo
così forte, che esercitò su Dante Tarte antica, e Virgilio in ispecie, non lo
esperimentò il Cavalcanti; il qual perciò non poteva partecipare a tutti gli
entusiasmi di Dante per 1* Eneide.
Sul de vulg. eL di Dante. 73
capitolo venticinquesimo, commentando un sonetto oy*è personificato
Amore, egli si ferma a spiegare che cosa sia la personificazione, ed
a giastificarne Tuso; e per tutta giustificazione egli dice, che i rima-
tori sono, fatte le debite proporzioni, quel che in latino furono i poeti,
e quindi, avendo questi fatte molte personificazioni, come si vede in
Virgilio, Lucano, Orazio ed Ovidio, deve perciò esserne concesso Y uso
anche ai rimatori volgari. Lasciando la servilità di questo ragiona-
molto, egli dice poi cosa, che dimostra quanto fossero ancora ristrette
le sne cognizioni sulle letterature romanze, e quanto egli fosse ancora
dominato da quel pregiudizio, che, mantenendo il latino, circoscriveva
timidamente, non potendolo bandire, l'uso del volgare. «E lo primo
(cosi scrive), che cominciò a dire siccome poeta volgare, si mosse
però ohe volle fare intendere le sue parole a donna, alla quale era
malagevole ad intendere i versi latini; e questo è contro a coloro,
che rimano sopra altra materia ^ che amorosa; conciosiacosachò cotal
modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d'amore. Ma
dopo, estesesi le sue cognizioni di letterature straniere, ed allargatasi
(eom*ei racconta nel Convito) la cerchia dei suoi studj, per essersi
Ini dato alla filosofia e alla teologia, non ebbe scrupolo di far poesie
e prose volgari di soggetto non amoroso. E quando si pose alla im-
mensa impresa di rappresentare, nel!' immaginato viaggio pel mondo
di là, tutto il suo vasto mondo intellettuale, morale, politico e per-
sonale, fu un po' sulle prime incerto, ma fini per dare ascolto al suo
sagace presentimento dell'avvenire delle lettere.
Pure, assieme all'originalità, un certo spirito di sommessione,
spesso piti in principio e in astratto che in concreto, verso V antichità,
si sorprende quasi ad ogni passo nel divino poema. In sul descriver
fondo* a tutto l' universo ', egli dubita assai che gli possa bastare
una « lingua che chiami mamma e babbo « ; ma pure si mette poi a
descriverlo in una tal lingua. L'episodio d'Ugolino, così originale, co-
mincia con una reminiscenza virgiliana, della quale forse il poeta si
teneva piti che di tutto quel che segue, che a lui dovea forse parere
una naturalissima e facile descrizione, in cui l'arte non spiccasse
* Sulla parola materia fa mille arzigogoli il Perez nella sua ^Beatrice sve-
lata'; arzigogoli che, quando pur non fossero evidentemente infondati, ca-
drebbero assieme al sistema, già da altri mostrato falsassimo, della interpre-
tazione tutta allegorica di Beatrice. Del resto, se anche materia fosse nel
senso volato dal Perez, nelle sopra riferite parole di Dante resterebbe sempre
lo stesso pregiudizio letterario.
• Inferno, xxxn.
74 D'Ovidio,
quasi per nulla! Si tien molto delle conoscenze che gli cade in concio
di ostentare di pas.^i e di fatti e racconti antichi; e di latinismi co*
sper^'e, per farla pili alta delle altre due, la terza cantica; e coti
in tante altre cose mescola e accozza o spesso stupendamente amaU
f^ama le tendenze dotte colle tendenze geniali ed originali del suo
vasto e comprensivo spirito *.
Cosi, nel libro de v, eloqu,. Dante ha l'ardimento di dar dottrina
dell'arte volgare, ma lo scrive però in latino. K, nel capo IV del II
libro, dopo avere negli anteriori capitoli svolte tante osservazioni
sue, e tante idee del suo tempo, e mentre s'accinge a far altrottanto»
se non di piti, nei capitoli successivi, esce nientemeno che in questa
profession di fedo da classicista rigoroso: «... cos, qui vulgaritcr
- versi fìcantur, plerumque vocavimus poetas\ quod procul dubio ra-
» tionabiliter eructare praesumpsimus, quia prorsus poetae sunt, si
« poesim rccte consideremus; quae nihil aliud est, quam iictio re-
• thorica in musicaque posita. DifTerunt (amen (qui ò il buono) a
» magnis poetis, hoc est regularibus (i latini); quia isti magno sermone
" et arte regulari poetati sunt, illi vero casu, ut dictum est. Idcireo
- accidit, ut quantum istos proximitis imitemur^ tantum rectius poe*
• terour. *• È una tale incondizionata elevazione òeW imitazione a prin-
cipio dell'arte, che neppur il Monti ci troverebbe da ridire. Continua
poi: «Unde nos, doctrinae aliquid operae nostrae impendente^, do^
- ctrinas corum poeticas aemulari oportet. Ante omnia ergo dicimus,
• unumquemque debero materiae pondus propriis humeris excipero
« acquale, ne forte humerorum nimio gravatam virtutcm in coenum
• cespi taro necesse sit. Hoc est quod magister noster Horatius prae-
» cipit, cum in principio Pocticae: Sumite materiam ctc. dicit-. .Ma,
dopo ciò. Dante bravamente passa a far lo distinzioni tra lo stile
tragico, comico ed elegiaco, in senso assai diverso dal classico antico,
in senso tutto medievale^. Nò agli antichi pensa piti, se non molto
dopo, alla fine del capo VI, là dove, dopo aver citati quei poeti fran-
' Si poseoD vedere, 8u questo soggetto, i capitoli \iii, xiv e xv (voi. I) del-
l'acuto o Tasto lavoro del prof. Compabetti, Vtr<7i7io nel medio e&o, Li-
vorno, 1872.
* Nel medio evo il tragico, il comico e Telegiaco non accennavano al genere
letterario, come neir antichità, benbl alla natura dei soggetti trattati Un
soggetto o un personaggio eroico, come Achille, Hnea ecc., comunque trattato,
sia in un dramma, sia in un poema epico, sia in una lirica, era soggetto o
personaggio essenzialmente tragico, e tragico il lavoro che lo trattava. Perciò
r Eneide era ci* alta tragedia». Ogni soggetto poi, che avesse lieto fine, era
commedia. Vedi T epistola a Cane Scaligero, § 10.
Sul de vulg, el. di Dante. 75
cesi» provenzali e italiani, da cui si possa inoparare il modo di fare
i costrutti veramente eleganti (supremam constructionem), aggiunge
che forse gioverebbe molto (fortassis utilissimum foret) anche lo stu-
dio dei latini, uregulatos vid isse |3oe^as, Yirgilium videlicet, Ovidium
• in Metamorphoseos, Statium atque Lucanum; necnon alios qui usi
• sunt altissimas prosas, ut Tullium, Livium, Plinium, Frontinum,
• Paolam Orosium (sic), et multos alios, quos amica solitudo nos vi-
• MÌtare invitat » (come in quest' ultima frase si scorge il dotto, tutto
soddisfatto e ambizioso delle sue letture e dei suoi eletti studj!)^.
E più giù, sul finire del cap. XI, 'ove tratta delle parti della stanza,
parlando dei pedes^ e pur prendendo la parola nel senso medievale,
non può fare a meno di non ricorrere con la mente alla nomencla-
tura classica antica, ove pedes significava non le parti di una strofa,
ma qnelle di un verso. E, trattando della quistione, a quale dei tre
volgari suddetti si dovesse la preminenza, non si perita di dire:
«...Grammaticae positores inveniuntur accepisse sic adverbium aflSr-
mandi, quod quandam anteriori tatem erogare videtur Italis qui si
diccnt •» ^. E più giù (I, x), cotesto concetto è allargato e generaliz-
xato, dicendosi che la lingua di si ha sulle altre un vantaggio «• quia
magis videtur (così va letto) inulti grammaticae, quae communis estf».
Ma, nonostante questi ed altri simili omaggi all'antico, l'autore ha
la piena coscienza del presente. Egli è ben lontano da quell'età in cui
ingenuamente condannava l'uso del volgare in soggetti non amorosi
(v. sopra, p. 73); egli ora loda ed enumera i poeti volgari che can-
tarono l'amore e l'armi e la rettitudine, e dà so stesso per cantore
della rettitudine, e nota la mancanza, nella lirica^ italiana, di un
' Salla estensione delle cognizioni classiche di Dante vedi, oltre il citato
Ietofo del Comparetti, il bel lavoro di Schùck: Daniels classische studien
«ffid Brunetto Latini^ nei Neue jahrbucher fùr philologie und pddagogih
t. xa e xcii; Lipsia, 1865.
* Dante non sapeva la derivazione perfettamente latina di oc (=:hoc), e
oil (=hoc illud), mentre percepiva chiaramente quella di st da sic; perciò
erede che T italiano abbia un'affermazione di conio latino, laddove gli altri
nna sìfl&tta non abbiano. Ma per noi i tre idiomi romanzi son perfettamente
al pari; tutti e tre hanno un'affermazione di fonte latina, ma punto usualo
nel latino classico scritto, il quale non affermava solitamente col sic più che
fìieesse coW hoc e Vhoc illud,
* Dico apposta lirica, giacchd dall'indole del de V, E.^ che d nn trattato
sulla lirica, e dal poeta che Dante cita per esempio (Beltramo del Bornio), si
capisce com'egli per poesia guerresca non intenda punto l'epica romanzesca.
Questa anzi in Italia c'era già, ai tempi di Dante; e forse non glien erano del
tutto ignoti i saggi. Ma i poemi cavallereschi Dante li chiamava € prose di
romanzi > (Purg. xxvi, 118).
76 D' Ovidio,
qualche poeta guerresco (arma vero nullum Italura adhuc ìnvenio
poetasse).
La stessa disposizione a riconoscere insieme la grande capacità
del volgare, ed i grandi meriti del latino, si osserva nel primo trattato
del Convito. Quivi egli confessa.^, che «grande vuole essere la scusa,
quando a cosi nobile convito per le sue vivande, e cosi onorevole
per li suoi convitati, si pone pane di biado e non di formento\ e
vuole essere evidente ragione che partire faccia Tuomo da quello che
per gli altri è stato servato lungamente, siccome di comentare con
latino». Le scuse e le ragioni, che nei capitoli dal V al X egli adduce,
sono infette di formalismo scolastico; ma, a spremerne il succo, si
capisce che egli si risolve a scrivere in volgare per farsi intendere
dai piti, e perchè il latino ha fatto il suo tempo. «Questo (volgare),
>» egli dice, sarà luce nuova^ sole nuovo, il quale surgerà ove l'usato
n tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscurità
n per lo usato sole che a loro non luce » ^.
In tanta concordia di dottrine letterarie tra il Convito e il De vulg.
eloquentia, v*ò pure una singolare contraddizione tra un luogo del*
r uno ed uno dell' altro. Si dice nel De vulg. eloquentia^ che il volgare
sia più nobile del linguaggio grammaticale ^, e nel Convito si dice
proprio il contrario *, Il B6hmer crede che la contraddizione sia solo
apparente; che la parola nobile sia presa nelle due opere in un senso
al tutto diverso; nel Convito cioè nel senso di eccellente^ e nel De
vulg, eloquentia nel senso latino di conosciuto^ notorio^ e che quindi
il volgare, detto più notorio nel De vulg, cL, sia detto nel Convito
meno eccellente. Ora, si badi; dei significati latini di nobilis^ che sono:
molto conosciuto (sia pure in male), illustre^ d*alto lignaggio, eccel-
lente, solo questi due ultimi son rimasti all' italiano; gli altri due
sono affatto spariti, si da essere ormai ripugnante al genio della
lingua nostra una locuzione come nobilissimi scriptores, e, peggio,
nobile scortum. Rimasta dunque a noi la parola nobile soltanto nel
senso morale intrinseco e nel sociale, ed inoltre essendosi il verbo
nosco, fuor di composizione, affatto perduto, n'avviene che nel par-
lante italiano non v'è più alcuna coscienza della storica connessione
di nobile con nosco; sicché Dante, da buon italiano, non vedeva la
possibilità del trapasso etimologico e ideologico da nosco a nobiUf
anzi lo teneva assurdo. Se nobile venisse da nosco, egli dice al ca-
* Convito, I, 10. * Convito, I, 13. =» De V. JS;., J, 1.
* Convito, I, 6.
Sul de vulg, et, di Dante. 77
pìtolo XVI del trattato IV del Convito, vorrebbe dire che tutte le coso
«piQ nominate e conosciute in loro genere, più sarebbono in loro
genere nobili, *> che è falsissimo, e però è follia che nobile venga da
fiocco, ma nobile viene da non vile ^ Certamente, l'inspezione accurata
di antichi testi classici sarebbe bastata per convincer Dante, che
oltre i significati rimasti proprj all'italiano, nobilis ha in fondo anche
quello di mollo conosciuto; ma si sa bene come ai tempi di Dante si
leggessero i classici antichi : i concetti politici, religiosi, e sin le frasi
e le parole si pigliavano alla moderna, all'italiana, commettendosi
continui anacronismi. E come tutto il lungo studio dell' Eneide, del
De ^nibus, del Lelio, di Giovenale, di Orazio, di Plinio, di Livio,
non era bastato a insegnare a Dante di smettere il vezzo italiano
di costruire il verbo uti con l'accusativo 3; cosi non gli avrebbe mai
levato di capo il suo nobile nel senso prettamente italiano ^. Invece,
secondo la strana supposizione del Bòhmer, bisognerebbe ritenere
che Dante si ricredesse interamente su cotesto punto, anzi che giun-
gesse tant* oltre da piegarsi a concedere a nobile il significato di molto
conosciuto^ non solo come significato etimologico, ma come significato
attuale, vivente, si da non avere scrupolo di chiamare più nobile in tal
senso, sol da poco ammesso, ciò appunto che egli riteneva men no-
bile nel senso ovvio da tutti inteso; e tutto ciò, contro il suo solito^,
senza dichiarare che circa il senso di quel vocabolo egli avesse ab-
bandonata la sua antica e sì acremente propugnata opinione, senza
mettere sull'intesa coloro che, avendolo sentito a dire che fosse follia
dare a nobile il senso di conosciuto^ aveano poi tutto il diritto di non
aspettarsi giusto da lui cotesta follial
Nobile adunque, tanto nel Convito, quanto nel De vulg, eloqu,^ si-
gnifica perfetto^ eccellente] e se il volgare è detto là meno e qui
pid nobile, egli è perchè la nobiltà è una di quelle idee indetermi-
nate ed elastiche, che si tira dove si vuole, che si ripone ora in una
cosa ora in un'altra, secondo l'umore e secondo l'interesse oratorio
* Cfr. Isidori Orig. 10,184: € nobilis non vilis, cujus et nomen et genus
sctCìir ». Isidoro però (come bene avverte Schùck, I. cit. n. 78), col non vilis
intende dare una definizione, non un'etimologia; che anzi con le parole suc-
cessive cujus,,, scitur par che egli alluda alla derivazione da nosco.
* Vedi.p. es. De V, J?., II, 6. verso la fine.
' Anche oggi, del resto, molti letterati italiani vi diranno, con la massima
diain voi tura, che T « et Catonis Nobile letum » di Orazio (Carm. I, 12, 35 sg.)
«gnifica: ce la magnanima morte di Catone»!
* Si noti ad es. la ritrattazione che, della sua antica opinione sull'origine
delle macchie lunari, fa al canto secoudo del Paradiso.
78 D'Ovidio,
del momento. Nel Convito, Dante, avendo a coonestare T ardito ten-
tativo di esporre dottrine filosofiche in volgare, era naturalmente
inclinato a scusarsi con una ragione, che mostrasse non voler egli
prefei'ire il volgare per dispregio del latino, anzi per troppo rispetto,
epperò esce a dire che il cementare in latino le cantoni volgari sa-
rehhe disconvenuto, poiché sarebbe stato come un render servo del
volgare quel latino che gli è superiore «e per nobiltà e per virtù
e per bellezza; per nobiltà, perchè il latino ò perpettw e non comU-
libile, mentre il volgare ò non {stabile e corruttibile » (ed in un certo
senso è vero, che quel ch*ò fisso, normale, è più rispettabile di ciò
cho di continuo si rimuta, e non par soggetto a determinate leggi);
^per virtù, perocché molte cose manifesta il latino, che il volgare
fare non può, siccome sanno quelli che hanno Vuno e V altro ser-
mone » (ed anche quésto è vero , che cominciandosi allora allora a
scrivere in volgare, naturalmente per alcuni concetti, i quali in la-
tino avevano ormai la loro espressione certa e convenuta, si durava
molta fatica a trovare un* espressione giusta e conveniente in vol-
gare, e Dante ciò sapeva per esperienza, — siccome sanno quelli, ecc.);
uper bellezza, perché segue l'arte, le regole, la grammatica, e non
già l'uso, come fa invece il volgare» (e certo, guardando la cosa
da un punto di vista che direi architettonico, dovea naturalmente
apparire più bello, più armonico, di più perfetto disegno, un lin-
guaggio, come il latino, soggetto a norme precise e prestabilite, an-
ziché il volgare che sembrava vagante ancora e capriccioso *). — Ma
nel libro De vulg. el. la mente di Dante aveva un'altra piega; egli
si trovava a parlare del volgare, in latino, ai dotti, dispregiatori di
esso volgare; era quindi in vena di farne l'apologia. Sicché discor-
rendo del volgare (e, si badi, del volgare in genere, in quanto fa-
vella naturale umana di qualunque tempo e luogo), e confrontandolo
al linguaggio grammaticale artificiato (anche questo in generale,
latino, greco, ecc.), é naturalmente indotto a rilevare Còme sia in
fondo qualcosa di più alto e grandioso questo parlar volgare, spon-
taneo, essenziale alla natura umana, anziché il linguaggio gramma-
ticale, figlio xleir artifìcio umano. Con che in sostanza egli non viene
a dire, se non quello stesso che afferma neir Inferno (XI, 99-105),
* L'italiano, per osempio, oscillava allora tra averne e abbiamo, che la par-
lata popolare gli aveva entrambi, nò si vedeva un criterio superiore per pre-
ferire immancabilmente l'uno o raltro. Il latino invece aveva habemus senz'al-
tro. Or non doveva in questo, e in conbimili casi, avere il latino un'apparenza
di armonia e regolarità maggiore ?
Sul de vulg. cL di Dante. 79
dove fa Varie imitatrice della natura^ qual discente di sua maestra,
qual nipote di Dio dev'esser della figlia di Dio.
La tendenza apologetica, da cui Dante era dominato, come lo me-
nava talvolta a contraddirsi, cosi più spesso ancora lo spingeva a
singolari esagerazioni. A dimostrare, infatti, l'importanza del suo
trattato, egli nota cl\e l'eloquenza volgare non è tale da poterne fare
a meno come la latina, bensì è necessaria, come quella a cui non
tantum viriy sed etiam mulieres et parvuli nitantur. Circa la qual cosa
Dante sarebbe stato in obbligo di riflettere, come in verità le femi-
nelle e i bambini nulla potessero rilevare dal suo trattato latino, che
certamente non avrebbero mai letto.
Un'altra contraddizione, ancor piU insignificante, è tra il citato
luogo del de v, el. , dove tra l'altre ragioni della nobiltà del volgare
è addotta l'antichità sua, l'essersi cioè adoprato da che il mondo è
mondo, e la canzone Le dolci rime e il suo relativo commento^, dove
nega che la nobiltà consista nel valore ereditario e santificato dal
tempo, e sostiene doversi riporre nel valor personale attuale. Egli è
che nella canzone parla di nobiltà morale e sociale, volendo incul-
care la necessità di appor di die in die al manto che tosto raccorcia ^;
e nel de v. eL invece, riponendo la nobiltà del volgare nell'essere
connaturato all' uomo, deve per forza addurne a prova la grande sua
antichità.
VII.
Come la nascente arte italiana si teneva assai dappoco ris[>etto
all'antica, così si sentiva pur dammeno dell'arte francese e pro-
venzale, già tanto provette. Questo sentimento d' inferiorità era, al
solito, portato da alcuni sino al fanatismo e alla pedanteria. Quindi
Dasceano dispute, nelle quali per forza doveva esser gran confusione
di criterj, attribuendosi alle varie favelle qualità vaghe e imagi-
narie, e confondendosi lo sviluppo preso da una letteratura con la
potenzialità intrinseca della lingua che ad essa era strumento. Dante
stesso in ciò peccava^; sennonché, il suo retto istinto ispiravagli ap-
prezzamenti giusti, sebben ragionati con le cattive ragioni allora in
corso. Posta al capo IX la questiono della preminenza fra 1 tre vol-
gari, egli dice non sentirsi di darvi alcuna risposta recisa, avendo
* Conv. IV. Cfr. Bòhmer, op cil. p. 3.
' Cfr. Par. xvi.
' V. Purg. (XI, 07 sgg.): Così ha tolto l'uno all'altro Guido La gloria della
lingua .
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80 D'Ovidio,
o^dì lingua abondanti ragioni in suo prò; potendosi infatti dire della
lingua d*oil, che, per esser piti facile e dilettevole (!), le ò toccato
il privilegio della poesia didascalica e della narrativa (come le gesta
dei Romani e dei Trojani, e le bellissime ambages del re Arturo);
della lingua d*oc, che, come più perfetta e dolce loquela^ se ne aon
serviti prima che d*ogni altra i valenti lirici (^loquentes dootores),
come Pietro d*Alvergna, ecc.; e del volgar di si, fìnalmenta» che
egli ha il merito di esser piti vicino al latino, e d'aver servito a
quelli che sono i piti dolci e sottili tra i poeti volgari, come Gino
et amicus ejus (Dante stesso). Donde appare quanto piena cosciensa
avesse Dante che solo gì* Italiani, ed egli piti d*ogni altro, avessero
spinta Tarte sino al grado di arte sopraffina ed aristocratica; ed in-
sieme pur quanto volentieri riconoscesse 1 meriti delle altre lettera-
ture, e specialmente, in fatto di lirica, dei Provengali, ch'egli spesso
cita e chiama illustres e eloquentes. Quando però scriveva il primo
trattato del Convito, era ormai ristucco deli* ostinazione con cui molti
diffidavano, o facevan vista di diffidare, della capacità del volgare
italiano, offendendo per tal modo in lui e il sentimento nazionale, •
l'amor proprio; quindi contro a costoro egli fa un'invettiva solenne,
in uno speziale capitolo, perchè più notevole sia la loro infamiti^ •
sfuriando, da buon scolastico, con metodo analitico, dimostra essere
i malvagi detrattori dell'italiano mossi da cinque abbominevoli ra»
gioni: cechità di discrezione, maliziata scusasione, cupidità di ra-
nagloria, argomento d* invidia e viltà d'animo, cioè pusillanimità.
Vili.
Secondo il suo disegno sistematico, conforme all'elevatezza del suo
spirito, ed insieme all'uso che allora correva, di cominciar sempre
ab ovo, principia Dante il trattato de v. el, col parlar del linguaggio
umano in generale. Pone egli rispetto a questo, e risolve, tutte le
questioni fondamentali: perchè, cioè, di tutti gli esseri, al solo uomo
sia stata data la favella, e non anche agli angeli e agli animali, e
come non sia una vera eccezione, benché cosi paja alla prima, quella
dell'asina di Balaam, del serpe tentatore, delle piche ondo tratta
Ovidio, e dei pappagalli (cap. II); perchè al solo uomo necessiti questo
strumento, sensibile-intelligìbile, della parola (III); chi sia stato il
primo uomo dotato di loquela, e che abbia detto (IV); in qual luogo,
ed a chi rivolgendosi, abbia egli profferite le prime parole (V); come
il primitivo linguaggio sia stato 1* ebraico (VI); come la mirabile
unità sia stata spezzata per la confusione babelica (VII); come dopo
questa sieu dall'Oriente emigrati in Europa tre popoli, forniti cia-
scuno di un suo proprio linguaggio; e uno siasi stabilito tra le bocche
Sul de vulg. el, di Dante. 81
del Danubio o le paludi del Meotide, ad oriente , e il confine setien-
trionale d'Italia, l'orientale di Francia e l'Oceano, ad occidente (donde
poi gli Angli, i Sassoni, gli Sohiavoni, gli Ungari (1), i Tedeschi,
con lingue tanto alterate, da non serbar quasi altra traccia della comune
origine, che l'avverbio ^'d da loro tutti usato per affermare); un al-
trov il grecoi in quella parte d'Europa che vi è dai confini ungheresi
andando verso oriente, e in un pezzo d'Asia; e il terzo (donde poi
son tutte le genti di favella neolatina) siasi impadronito di tutta la
residua parte di Europa (Vili).
Che tali questioni, e le soluzioni di esse. Dante le abbia attinte
dalla tradi2ion dottrinale del medio evo, da un certo complesso cioè
di teologia, di filosofia scolastica e di inesatte e fantastiche opinioni
etnografiehe e geografiche, è cosa di per so evidente, e naturalissima.
Che delle tradizionali dottrine ed opinioni e dei soliti argomenti egli
abbia fatta una scelta, un impasto e un'esposizione a modo suo, ag-
giungendovi altresì, qua e là, qualche sua propria osservazione ed ar-
gom^ito, ò una necessaria presunzione, quantunque, a volerla minu-
tamente giustificare, e per dir così documentare, sarebbe da assumere
un'improba fatica, ben poco concludente del resto. Como pure, poca
eonolusione ci sarebbe ad andar rilevando tutti gli errori storici ed
etnografici del capitolo ottavo. Il quale non ha interesse, se non in
quanto ci fa arguire quali si fossero i limiti delle cognizioni d'allora,
e partioolarmente di Dante. De' quali limiti si può dire invero che
Dante stesso avesse un vivo sentimento, che, sebbene non gli impe-
disse, come in epoca di maggior maturità critica farebbe, di pur
trattare ciò che non sapeva, lo induceva, se non altro, a scannare
con un certo riserbo quelle parti, sopra le quali più scarse e difettose
eran le cognizioni sue. Sopra il greco, per es., che ignorava^, egli
sonrola; appena l'accenna in principio, e poco dipoi ne tace affatto,
anche là dove sarebbe dall'andamento stesso del suo discorso obbli-
gato a dire, se anche esso greco siasi spezzato in diverse favelle, o
no. Delle lingue nordiche dice, non restare altra traccia della comune
orìgine, fuorché l'accordo nell' affermare con jo (vero, del resto, solo
in eerti limiti), essendo cotesto accordo il solo facilmente percepibile
ad ogni piti superficiale osservazione, ed atto a dar nell'occhio a lui,
a distinguere i varj idiomi dalla loro particella affermativa ^.
* SvìUl facile questione, se Dante sapesse il greco, vedi Schuck., 1. cit.,
p. 272-81 ; CoMPÀBETTi, Virg. nel m, e., I, £60; Cavedoni, Osservai, critiche
ùUamo alla quest. se J>. ecc., Modena, 1860.
* Cotesto fu inteso troppo a rigore da chi volle credere che, pur laddove
(Inf. xvin, 60-61) Dante designa i Bolognesi come quelli che dicono sìpa,
Arcbivio glottol. ital., II.
82 D' Ovidio,
Molto gli tarda invece di arrivare al linguaggio romanzo, il solo di
cui abbia una cognizione diretta. Ma pure a proposito di esso, è co-
stretto talora a destreggiarsi, per non aversi a compromettere. Cono-
sceva egli infatti tre nazioni romanze, Italia, Francia e Spagna, e
tre volgari, italiano, francese e provenzale; cosicché aveva da far
coincidere il primo volgare con la prima nazione, aveva due vol-
gari da far coincidere colla seconda nazione (Francia), e gli restava
la Spagna, per così dire, in disponibilità. Sennonché egli, prevalen-
dosi di ciò, che col catalano, varietà del provenzale, s'arrivava ad
afferrare un po' di Spagna, ha la furberia di dire: «... alii oc, alii (n7,
alii sì affirmando loquuntur, utputa Hispani^ Franci et Latini**»^ e
cosi fa corrispondere alla lingua d'oc gli Hispani (cioè, con un pò* di
restrizione mentale, 1 Catalani) e non già quei Provinciales che egli
stesso più sotto rammenta; riuscendo così a sfuggire alla questione,
che lingua la Spagna parlasse, alla quale non poteva dare una ri-
sposta compiuta^. Son le solite ingenue malizie di chi, obbligato dal
sistema a riuscire compiuto, e d'altronde costretto dalla mancanza
delle cognizioni positive ad esser monco, procura di tòrsi d' impaccio,
senza parere di ometter nulla, e senza d'altronde nulla inventare.
Parimente, nell'accennare i confini geografici del volgare d'oc, si
limita a dire, come quei che lo parlano stieno nella parte occidentale
dell'Europa meridionale dai confini del genovesato in là, senza dir
fin dove si stendano; mentre dei volgari d'oil e di sì dà piti com-
piuta delimitazione ^.
intenda egli alludere a un avverbio affermativo di tal suono (il quale, in ogni
caso, sarebbe si po^ assai men frequente del resto, oggi almeno, dell' oi, affer-
mazione con leggiera tinta di meraviglia, simile a quella che colora il che!
ripulsivo dei Toscani). 11 sipa^ che mi dicono sentirsi ancora nella campagna,
in città divenuto oramai seppa^ è il congiuntivo bolognese del verbo essere
(=sfa); forma analogica (foggiata sopra àibes, éibe, v. p. e. Arch. I, 382 f.),
la quale si rinviene per larghissime zone (v. p. e. Arch, I, 377 n).
* Avvertasi bene che Latium nel libro de t?. el, é sempre Italia. Il latino nel
senso nostro ò sempre detto gramìnatica^ e gli scrittori suoi regulatos, e in al-
tri consimili modi.
' Altrove (II, 12), non avendo nessun interesse contrario, distingue bene
Spagnuoli da Spagnuoli, dicendo: Moc etiam Rispani usi sunt; et dico Hispa-
nos qui poetati sunt in vulgari oc,
^ A confine occid. del volgar d'oil, pone il mare inglese ed i monti dell'Ara-
gona (sic). Qui certo la lezione va emendata, ma come?
Sul de vulg. eL di Dante. 83
IX.
La confusione babelica ha dato luogo a una quantità di linguaggi
dirersi; ognun di questi poi si è venuto e si va tuttavia frazionando
in altri linguaggi piti o meno diversi V uno dall' altro. E neir asse-
gnare il modo e il perchè di tale frazionamento progressivo, Dante
crede far cosa tutta sua originale. Incomincia infatti col dire, di non
potersi in ciò appoggiare alV autorità di nessuno] e nel già riferito
luogo del Convito (1,5), accennata compendiosamente la dottrina sua,
ha la premura di avvertire che la si vedrà svolta compiutamente in
altra opera, con che dà a divedere quanto ci tenesse.
Pigliando a ragionare sull'idioma romanzo di cui s'intende bene,
e avvertendo che l'argomentazione simile si può replicare sopra ogni
altra famiglia d'idiomi, egli afferma che ora gl'idiomi romanzi sono
tre, ma che erano ab origine un' unica favella. E non si potrebbe
supporre che i tre volgari fossero sin dall'epoca della confusione ba-
belica tre idiomi a sé, affini bensì tra loro, ma distinti? No, dice;
troppo si somigliano fra loro i tre volgari romanzi, si somiglian tanto
da potersi intendere tra di loro; sicché, se fossero sorti tutti e tre
nella confusione babelica, questa non sarebbe più stata vera confu-
slone, come la fu. Duaque fu uno in origine, e dopo si venne suddivi-
dendo in tre^; ognun dei quali tre alla sua volta si va sempre sud-
dividendo all'infinito, non che tra gli abitanti della stessa provincia,
ma, quod mirabilius est^ tra quelli di una stessa città; sicché, a vo-
ler contare tutte le primas, secundarias et subsecundarias vulgaris
Italiae variationes, si può ritenere che in hoc minimo mundi angulo
non solum ad millenam loquelce variationem venire contigerit, sed
etiam ad magis ultra. E tutto questo, perchè il linguaggio (quello
posteriore alla confusione) è opra dell'arbitrio dell'uomo, che è va-
riabilissimum animai, epperò, tenendo della sua causa, come tutte le
altre cose umane (i costumi, le foggio del vestire), il linguaggio è
mutabilissimo. Ed il linguaggio, che dapprima è identico, ogni popo-
lazione se lo rimuta per conto suo, separatamente dalle altre. Quindi
nascono le divergenze, le quali col tempo vengono sempre crescendo.
* Questo ragionamento io ricavo dal passo, da nessun altro finora interpre-
tato: < Et quod unum faerit a principio confasionis (quod prius probandum
> est) apparet, quod convenimus in vocabulis multis, velut eloquentes doctores
» ottendimt. Quae quidem convenientia ipsi confusioni repugnat, quae fuit de-
> lictnm in aedificatione Babel». Neir ultima proposizione incidente, il senso
all'ingrosso si capisce; però il testo, come é, non soddisfa.
84 D'Ovidio,
Che se la lingua di un dato paese pare sempre la stessa, gli è perchè
la mutazione succede lentamente, in modo che nella breve vita del-
l'uomo se ne produce una quantità insensibile; ai si vetustissimi
Papienses nunc resurgerent, sermone vario vel diverso cum modemi$^
Papiensibus loquerentur. Certamente, le di variazioni dei linguaggi
sono cagionate principalmente dagli incrociamenti etnologici; e sul
modo poi di intendere Varbitrio umano vanno oggi fatte molte riserve;
tuttavia, e* è del vero nella dottrina di Dante.
La tanta varietà, continua Dante, della favella, cosi nello spazio
come nel tempo, togliendo il modo di comunicare ai lontani o ai po-
steri i proprj pensieri (auctoritates) e i proprj fatti (gesta)^ fece sentire
ìi bisogno di un linguaggio regolare e fisso, di una grammatica fa-
cultasy de communi consensu multarum gentium regulata^ la quale in
fondo altro non è quam quaedam inalterabilis locutionis identitas di'-
versis temporibus atque locis. Il qual linguaggio grammaticale hanno
i Greci, i Latini, ed altri, sed non omnes.
In che relazione stesse precisamente, secondo Dante, il latino scritto
coi volgari romanzi, non è facile determinarlo. Egli ammetteva vi
fosse stato ab origine in tutti i paesi latini un linguaggio popolare
romanzo, venutosi dope via via dividendo e suddividendo; quindi
il volgare italiano, per es. , non era per lui una derivazione del la-
tino scritto. Dall'altro lato però, egli spesso derivava parole volgari
dal latino, come sì da sic] e ciò indicherebbe che egli credesse a
una specie di filiazione del volgare dal latino. Forse ogni contrad-
dizione sarebbe tolta, se il pensiero di Dante s'interpretasse cosi:
che dal gran fondo popolare credesse egli essersi ricavato, a un dato
momento, per elaborazione artificiale degli scrittori, un linguaggio
aulico, il latino. E, a ripensarci meglio» non può egli averla intesa
altrimenti, giacché non dev'essergli certamente sfuggita la necessità
di dar ragione della gran somma di somiglianze, occorrenti tra il
latino e ognuno qualunque dei volgari romanzi. Che anzi egli fa un
gran merito all'italiano del parer piti simile al latino, quia magis
videtur inniti grammaticae, quae (si noti quest'aggiunta) communis
estj che è, cioè, comun patrimonio di tutti i popoli romanzi. Egli
doveva quindi considerare tal faccenda, come un Perticariano con-
sidererebbe oggi le relazioni della lingua aulica coi dialetti, che non
riterrebbe propriamente genefati questi da quella, o quella da un di
questi, bensì quella ricavata in certo modo da questi tutti per via
di una elaborazione dotta ed artistica; ed inoltre poi loderebbe molto
quel dialetto che, come il romano, il marchigiano o il toscano, s'in-
contrasse in molte forme e voci con la lingua aulica.
Sul de vulg, el. di Dante. 85
Dopo discusse le ragioni di relativa preminenza dei tre Tolgari,
di ohe noi abbiam già trattato ^ termina Dante il capo decimo con
una classificazione dei dialetti italiani. I quali egli, protestando che
oon la secondarie Tariazioni il novero ne anderebbe airinfinito^ rac-
coglie in 14 categorie. L'Italia è dall'Appennino divisa, come geografi-
eamente, cosi lingaisticamente, in due parti, la destra e la sinistra;
ed alla prima appartengono l a Pugl ia (non tutta, che egli per Puglia
intende il Regno di Napoli), Roma, il Ducato di Spoleto, la Toscana,
e la Marca Genovese, ed a loro annesse la Sicilia e la Sardegna;
ed aUà sinistra, l'altro lato della Puglia, la Marca Anconitana, la
Bomagna, la Lomb^ordia, la Marca Trivigiana.juui le Venezie, ed a
l<m annessi il Friuli e l'Istria. — Di certo, insieme a vere affinità
^oivi avvertite, vi si potrebbero censurare certi aggruppamenti fatti
troppo all'ingrosso, e molte omissioni; ma pur fa onore a Dante l'aver
arato la cara di tentare, allora, una classificazione dei dialetti italiani.
X.
Ora nasce naturalmente la questione, come s' abbia a regolarsi per
scrivere nobilmente in italiano. Ci fosse un volgare solo italiano, sa-
rebbe certo da adottar quello; ma, essendocene tante varietà e sotto-
varietà, si potrebbe esser tentati di credere che fra le tante se ne debba
scegliere ona, e quella adottar per illustre ed elevata. Ma cotesta ten-
iasione è da scacciare, chò i dialetti italiani son da lasciarsi dapparte
tatti quanti. B qui egli li passa in rassegna, e li dimostra tutti brutti;
e a tal fine, o ne accenna alcuni vezzi di pronunzia (non certo i soli
sa che egli trovasse da ridire, ma quelli che prima gli si presentas-
sem alla mente, o che pih lo avessero nauseato), o ne nota certi
difetti vaghi e indeterminati, ovvero ne riporta uno o due versiceli,
eerto con l'intenzione di richiamare con essi gl'interi canti cui quelli
appartenevano; canti triviali, forse a bella posta infarciti dei tratti
più caratteristici e piti plebei del loro rispettivo dialetto *•
' Per es. i due versi, che a spregio dei Fiorentini egli riporta, tManuchiamo
•nfroegti^. Non facciamo altro », ei non li cita pere ho contengano tutte pa-
role a ha sembranti brutte (come parecchi han creduto, e anche il Manzoni e
fl Pnccianti, i quali si domandano stupefatti, cosa mai di brutto abbia potuto
s eorge r s Dante nelle parole Non facciamo a/fro), giacchò a^tra bruttezza non
dovesno forse secondo lui contenere che VintrocqìAC^ o, tutt'al più, anche il
r; bensì li cita per richiamare un qualche trivialissimo canto fioren*
allora assai divulgato, qualcosa di simile forse, per trivialità, alla
Qestazione del quarantotto raccontata da un bécero fiorentinOj che
86 D'Ovidio,
Del resto, come dicevo, le citazioni che egli fa di vezzi di pronun-
zia, di parole, di canti triviali, di vaghe qualità, servono non ad
enumerare, ma solo ad esemplificare in qualche modo le ragioni della
ripugnanza sua per i dialetti ai quali appartengono. Le ragioni, in
verità, erano tante, quante erano le divergenze di ciascun dialetto
da quel tipo linguistico illustre che gli stava in mente (e che tra
poco vedremo qual fosse), e tutte esse in fascio determinavano in
lui quella nausea che ciascun dialetto gli produceva. Ed ecco perchè.
Oggidì, chi è iniziato alla scienza delle lingue, sebbene egli sia,
per esempio, di Napoli, ed avvezzo quindi a sentire e profferire le
parole di latina origine in quella particolar forma che hanno assunta
nella parlata di Napoli, non ha però alcun* avversione per gli altri
dialetti, e non trova punto strano che le stesse parole in questi ab-
biano una forma notevolmente diversa. Avvezzo egli a dir bb^rte, non
gli fa però specie che il piemontese dica bin o il bolognese bdin;
egli dice vage (bacio), ma non gli fa scandolo che il sannita dica
bbace ^ ; abituato egli al suo chille, lascia che il pugliese dica a posta
sua: cudde. Egli sa, che siccome per le naturali tendenze fonetiche
del suo paese, il latino bene dovea restarvi pressoché intatto, solo
rinforzando il b iniziale, e riducendo Ve finale a vocale indetermi-
nata; il basium attenuare il b in v, espungere Ti, e ridurre u{m) a
vocale indeterminata; V (ec)cu{m)illu{m\ perdere Vu succedente alla
gutturale, e ridur Vu(m) al solito; così, in forza di altre tendenze
locali, non meno naturali e legittime, il bene doveva in alcuni dia-
letti piemontesi ' assottigliare Ve sino a t, e ridurre il n quasi a un
n velare, e in bolognese sciogliere Ve tonica in una specie di dit-
tongo tra ei e ai, e ridurre il n al modo stesso del piemontese; il
basium doveva nel Sannio tener saldo il ò, e ridur siu a sju e quindi
a óe\ e in Puglia il doppio II di (ec)cM(m) illu{m) farsi doppio d lin-
guale, e Vi iniziale del pronome andar perduto.
Si ponga invece un napoletano, ignaro di scienza linguistica, e co-
stui, mentre troverà bello e naturale il suo bbene, vage, chille^ tro-
verà orribile, e poco men che un miagolo inumano, il bdin bolognese,
chi ha dimorato in Toscana può talora aver sentita recitare per passatempo,
e che incomincia: Bischeri^ stah' attenti a icché vi diho, E fdhela finiha ho
i'bbociare^ ecc.
' Con e è additato, non il suono iniziale del toscano scemo, ma quello del
e toscano tra vocali (invece). Il bbase, con vero /, non vorrebbe dir bacio,
ma basso. Notisi poi che il b, come pure il g, che non sia intenso al punto
che si suole indicare con la doppia, d ignoto ai dialetti meridionali, anche in
principio di parola.
F
Sul de vulg. el, di Dante. 87
Del àòa^ sanniiico vedrà una malagrazia da provinciale^ e nel cudde
di Paglia una ridicola storpiatura.
Certo, anche Tuomo della scienza potrà trovar pib bello un dia-
letto ehe un altro; potrà,. per esempio, preferire il napolitano al dia-
letto di Pozzuoli, si pieno d* uggiosi dittongamenti (alici, céna ecc.
flotto a Poxzuoli alùice^ edina ecc.); avrà tutto il diritto di dilettarsi
più del dialetto di Lecce che di quello, pieno di sgarbate aperture
di boeea, di Foggia; o di gustare più il milanese che il bolognese,
o il pitano più dei livornese. Ma Tuomo della scienza sa anche dare
a cotasie sue impressioni il lor giusto valore, quello cioò d*impres-
aioai acosiiche e in parte estetiche; non si sogna neppure di con-
dannare, come sregolato e tralignato, ogni dialetto diverso da quello
ohe a lui è nativo.
Oltre quel pregiudizio, figlio deir abitudine nativa e deir amor
patrio, può esservene un altro, contratto con la coltura. Là dove
esiste una lingua colta nazionale, Tuomo, più o men coito, prende
quella per tipo, e s'induce a credere che i vezzi di pronunzia, le
forme, le voci e gF idiotismi (sien pur capricciosi) di essa lingua sieno
in 8è stessi nobili e regolari, e che i vezzi invece e le forme e le
voci e gV idiotismi dei dialetti sieno intrinsecamente triviali, srego-
lati e capricciosi; quantunque spesso sieno in fondo dovuti a feno-
meni comuni anche alla lingua istessa. Il tronco /e* per fece o per
fede gli pare un debito omaggio alla brevità, il tronco /a* per fare
gli sembra nato dalla impaziente inettitudine della plebe a terminare
a dovere la parola intera. Per contrarioi 1* iniziato alla scienza sa che
la lingua letteraria ò aborigine un dialetto essa pure, che il suo
ciompo fonetico, morfologico e sintattico è suppergiù dello stesso
▼aiors che quel d*ogni altro dialetto; che se le circostanze storiche
ravessero favorito, ogni altro dialetto sarebbe potuto divenire il
primo nocciolo della colta lingua della nazione ^ Per lui quindi,
mentre è naturale che per ragioni letterarie si séguiti a dire e scri-
vere poi^ vino, prete, corpo, pepe, secondo la fonetica toscana lette-
nrinmente prevalsa; ò pur del resto naturale che esistano, e ?ian nel
caso trovate belle, e ad ogni modo ninna taccia incorrano di tri-
vinlità e sregolatezza, le voci p6 (milan.), vih (id.), pre^^ete (napol.),
ìe (id.), pever (milan.) o pQìpe (sannit). Ognuna di queste parole,
men delle toscane rispondenti, ha la sua chiara storia fonetica;
mona d*e88e può vantare d'essere eguale alla voce latina onde de-
• V. Ascoli, Arch^ I, p. v-xxxii, e D'Ovidio, Lingua e dialetto (Rivista di
' di MùUcr e Pezzi, I, 5C4-83).
8S 0* Ovidio»
riva 9 ognuna sa n*è piti o men discostata ^ o talora la toscana pid
delle altre; e ognuna nel suo proprio ambiente sta benissimo^ e mak
fuori ; onde forme toscane, seminate nel dialetto milanese, guastereb-
ber Turbanitas di questo, per la ragione istessa, in fondo, che forme
milanesi, sparse nel toscano, ne guastano la corretteiia.
Dei due pregiudiij, il nativo municipale e 1* acquisito letterario, or
Tuno or Taltro suol ispirare gretti giudizj ai profani della soienia
linguistica. Ma vi è un popolo (da noi ò il toscano) presso cui V un
pregiudiiìo cospira quasi sempre con 1* altro. Pel toscano, la sua pa»
rola ha un doppio pretio d* affezione ^ l'uno perchò è sua nativa,
connaturata oramai alla sua glottide e alla sua mente, l'altro perchè
è santificata dall'arte e dall'ossequio di tutti gli Italiani. Ed è par-
ciò che, fra tutti i popoli d' Italia, il toscano ò quello che meno ti
degna di imparare gli altri dialetti, e che più li canzona («nche, del
resto, per una certa tradizionale coscienza di superiorità intellettuale,
e per naturai tendenza alla satira).
XI.
A tenere i dialetti nel debito conto, son oggi pervenuti, senza l'aiuto
della scienza glottologica, a forza di semplice buon senso, parecchi
letterati; tra i quali ò giusto noverar per primi i manzoniani. Ma
nel trecento, quando la glottologia non era neppur vicina a spun-
tare, e non si era fatto ancora quel gran discutere di lingua e
di dialetti che si è fatto dopo; tutti, non escluso Dante, dovevano
essere occupati da pregiudizj contro i dialetti. Di certo, uno spirito
cosi acuto ed avido di spassionata razionalità, qual era Dante, non
poteva non sentire bene spesso la velleità di prescindere, anche in
questioni di linguaggi, da preoccupazioni sentimentali, di appoggiare^
com'egli dice, le spalle del giudizio piuttosto alla ragione che al ssn-
timento. Sennonché, e' gli era facile essere spassionato in astratto,
all'ingrosso, come quando deride quelli che credono sempre esser la
favella loro la lingua madre parlata da Adamo, e si protesta con-
vinto che parecchi popoli abbiano un parlare pid amabile e più eiB-
cace dell' italiano *. La difBcoltà insuperabile stava nel consideraro
spregiudicatamente le piccole minuzie, circa le quali l'animo suo avea
ab antiquo accolte inconsciamente certo impressioni, finite poi per
trasformarsi in giudizj abituali e incontrovertibili. Cosicchò il prò»
posito di giudicare spassionatamente rimaneva in Dante nient* altro
che un pio desiderio; anzi costituiva spesso alla sua volta un nuovo
• D4 V. E. l 6.
Sul de tmlg. ti. di Dante. 80
pragiadixio, spingendo lui non di rado a condannar con la ragione (ma
BOA eoA ragione) pur ciò che riusciva gradevole al senso suo, sol per
lama che il sentimento noi trascinasse al di là dei ragionevole.
Nel giadicara adunque gli altri dialetti italiani, Dante era a priori
mal disposto contro di essi, perchò divergevano dal tipo toscano» e
(Àt propriamente, fiorentino; il quale era doppiamente connaturato
alla sua mente^ e perchò suo fin dalla nascita, e perchè proprio ora-
nud dell* alta poesia^ come passiamo a dimostrare.
Allorehò in Italia si prese a scrivere in volgare, ognuno assunse
aatiualniente il suo dialetto nativo; tutt'al piti intromettendovi, se-
condo il genere di componimento, e secondo la coltura dello scrittore,
alena che di latino o di francese o di provenzale. L' alta Italia ebbe
B«l XIII secolo una letteratura volgare di indole popolana, intesa
spaeialmente a soggetti sacri e didascalici. Or la lingua dei menu-
Beoti che di essa ci rimangono, paragonata agli odierni vernacoli
della Lombardia e del Veneto, offre questo singoiar fenomeno, che
molte forme, proprie oggi di certi paesi, si ritrovano anche nei mo-
aumenti di quei paesi a cui oggidì esse sono estranee; di maniera
elle, ad esempio, un processo fonetico o morfologico, che oggi deve
dirn speeifleamente veneto trovisi colà anche in un monumento lom-
bardo, e vìeeversa. Ciò ha fatto credere a uomini assai benemeriti
della iUasirauone di quella letteratura ^, che una specie di recìproca
assimilaslone letteraria fosse successa nell'alta Italia, adottandovi gli
scrittori, accanto alle forme proprie, anche di estranee, peculiari bensì
ad altri dialetti, ma da chi in questi scriveva rese note ed accette
pure ni lettori e scrittori degli altri paesi. Ma i larghi studj dell* A-
•eoli kaa messo in chiaro come molte forme, credute peculiari di
qoesto o quel dialetto, si discuoprano ali* incontro genuine in cosi
eniesi giacimenti, da doversi ritenere che a quella età ogni scrittore
le dovesse sentire nel proprio ambiente dialettale; e, sebbene spesso
in qnento ambiente men salde, epperciò destinate col tempo a sparire,
per le preferisse alle più radicate e durature, per una maggior con-
iSsnutà che esse presentavano con le franco-provenzali *•
Con meno sicurezza si può parlare di quel singoiar miscuglio di
lingnnggio che si ritrova in molti monumenti, ora studiati con assi-
dna enm, e consiste in uno stemperarsi che fanno il provenzale, e piti
• y. principalmente Mussafia, Rendic. XLVI, 113-235. Ma il dottissimo
lemaBista, in un suo articolo sul primo voL deìV Archivio (Lit. Centralblatt,
12 apr. 73), ora mostra lealmente di ricredersi.
* V. Archivio, I, 307-312* 426-430, e pass.
90 D* Ovidio,
il francese^ co* dialetti dell'alta Italia, ia una forma ibrida franco^
italiana. Aspettando che i dotti illustratori della nostra poesia ca-
valleresca, alla quale i piti di quei monumenti appartengono, ci
chiariscano meglio su cotesto importante fenomeno, noi intanto cre-
diamo con l'Ascoli, che anche a precisare il grado e la natura del-
l'ibridismo di quei gerghi franco-italici dovano tornare acconci quei
criterj metodici, che ormai dai larghi studj dialettologie! dell'Ascoli
istesso risultano *•
Quel che seguiva nell'alta Italia, che cioè molti prendessero a
scrivere nel volgar proprio nativo, avveniva altresì nella media e
nella bassa Italia. Sennonchò, ivi non si restò paghi ad una culturi^
affatto popolana; chd un certo genere, vale adire la lirica amorosa,
si prese, poco dopo il principio del dugento, a coltivare con preten-
sioni d'arte. Dalla Sicilia ne parti l'esempio, giacché quivi efficacis-
sima protezione offeriva alle lettere la Corte degli Svevi, divenuta in
breve il centro di una poesia erotica alla provenzale, come quella
ove andava a far la prima comparsa tutto ciò che i migliori tra gli
Italiani componessero (in aula tantorum coronatorum prodibai, dice
Dante); onde tutta la prima letteratura lirica volgare venne a chia-
marsi siciliana. Ma naturalmente e i Siciliani e gli altri Italiani scri-
veano ognuno nel volgar suo, non già che tutti si provassero a ver-
seggiare in siciliano. Giacchò i Siciliani non erano certo quel che per
esempio furono in Grecia i Dorj, i quali aveano inventata di pianta
e perfezionata la lirica corale, e a questa cosi immedesimata la
forma dorica, che ogni altro greco poi non si sentisse di tentare
quel genere lirico se non in quel dialetto : i Siculi avevano sol dato
il buon esempio di cercar di riprodurre in volgare italiano la lirica
erotica dei trovatori provenzali; questi dunque erano i modelli del
genere, non i Siculi. Inoltre, perchè quel moto poetico provenzaleg-
giante incominciasse, eran giÀ si propìzie in più paesi italiani le con-
dizioni de' tempi, che, se la Sicilia non avesse rubato le mosse, certo
di li a poco sarebbe quel moto incominciato altrove; ed è anzi pos-
sibile che, prima ancora dell'esempio siculo, qualche principio altrove
ve ne fosse giÀ stato. Né e' è da dire che lo scrivere ognuno nel
suo linguaggio potesse recar confusione, giacchò in queir ambiente
cortigiano, dove era famigliare la parola del troverò di Normandia,
e in un* età che il popolo stesso dava ascolto ai cantatori francesi^,
• V. Arch., I, 449-453.
* Ciò neiralta Italia. Cfr. Miratori, Antiq. lial., Diss, XXX, p. 351 (ud
decreto del Comune di Bologna del 1238 ordina che i cCantatores Franci-
genorum io piatela Communis omnioo morari non poesint»).
Sul de vulg. eL ài Dante. 91
sarebbe mai potuto riuscire oscuro il verso del poeta umbro o to-
scano? Non solo allora i dialetti italiani, e proporzionalmente tutti
i dialetti romanzi, per essere più vicini alla sorgente comune, s'in-
tendeano a vicenda ben pili che ora non facciano; ma ancora quella
ktieratara siculeggiante s'aggirava in una così angusta cerchia di
idee 6 di sentimenti, e in un cosi frequente ritornello di frasi obbli-
gate, e quasi tecniche, che a non intendersi tra loro i varj poeti
iialìani che la coltivavano, ci sarebbe voluto un proposito deliberato.
Ma presto, per le sventure della casa sveva, dovò cessare perfino
quella specie di primogenitura dei Siculi rispetto agli altri Italiani.
B Aiano de' principi italiani, a gran loro vergogna, dice Dante, si
fece continuatore dell'opera di protezione. Ma non ve n'era bisogno;
giacché in Toscana, dove lo spirito si veniva destando a tale ope-
rosità, cui ò difficile trovar riscontro fuorché nell'antica Atene, e
dove fion l'impulso dato dall'alto, ma la diffusa e larga agitazione
dello spirito popolare moveva la coltura, la lirica d'arte, inaugurata
nel mexzodi, aveva già avuto larghissimo svolgimento. E già sin
d' allora, la Toscana cominciava, benché dapprima in ristretti limiti,
a esercitare un notevole influsso sopra altre provincie ^. E prima ad
esserne attratta fu la vicina Bologna, dove pur oggi si osserva, sin
nelle più basse classi della società, un* attitudine ad assumere il to-
scano, ài gran lunga maggiore che non sia dato scorgere nelle altre
città dell'Italia settentrionale. Alcuni poeti bolognesi, alcuni doctores
iUusires della città che allora era il foco della coltura latina tradi-
zionale, presero al moto toscano una parte così attiva, da servire di
addentellato agli ulteriori progressi della scuola toscana, come attesta
con vero entusiasmo Dante stesso^. Ed é pur egli che dice, il Qui-
nicelU e gli altri non avere punto scritto in bolognese, bensì in altro
idioma proprio della poesia illustre^; il quale noi, dai testi che ne
abbiamo e dagli esempj che Dante medesimo ne riferisce, vediamo
es s or s di stampo toscano. Oltreché non é a lasciare inosservato,
qoanto contribuisse a dare agli scritti di diverse provincie una pa-
lina uniforme, che talora si potrebbe credere dovuta a intenzionale
adosione della forma toscana, e nel fatto forse non é, la salda tra-
diaioDe, che nella scrittura restava, di forme ortografiche pretta-
mente latine, le quali per una felice conformità del vocalismo to-
* Per un tempo, alquanto posteriore in verità, si può vedere Antonio da
Tsmpo, neir ultimo capitolo del suo trattato sulle rime volgari,
« Porg. xx%T, 97-114.
» D. V. El^ l 15.
93 D'Ovidio,
scano si troTavano d'essere suppergiù anche toscane. Ad un bolognese,
mettiamo, potea venire scritto l' emistichio «< per te poeta fui ^ • per
semplice consuetudine di latinità, senza che il toscanesimo v'entrasse
punto. — Ma presto l'opera del Guinicelli e di tuttala scuola bolo-
gnese fu ripresa piti felicemente da una scuola piti schiettamente
toscana, e quasi affatto fiorentina, la quale, pur conseguendo l'intento
de' Bolognesi, di sollevare la poesìa, coli' altezza del pensiero e con
la dottrina, molto al di sopra dell' arte puramente popolana, meglio
di quelli però seppe schivare l'aridità e l'astrattezza, e reso l'arte
raffinata insieme e popolare.
Ma che era intanto avvenuto dei monumenti di quella poesia cor-
tigiana, fiorita, alcuni decennj prima che Dante nascesse, nella re-
mota isola? Essi avean trovato quasi solo rifugio in Toscana, quando
la coltura meridionale che gli avea prodotti era venuta a mancare;
difattx) son giunti sino a noi in codici toscani. Or, nell'essere in To-
scana raccolti, trascritti e ritrascritti, e divulgati, certo non poterono
serbare la nativa forma idiomatica. 11 toscano e il siculo han comune
la tendenza a finir le parole in vocale, e a serbare intatto il numero
delle sillabe della parola latina, e ciò rende facile il ridurre il siculo
a forma toscana, con lievi e spontanee mutazioni di suoni. Ognun
vede, p. e. , che il verso
E quannu Tomu ha rasoni di dui
diventa senza fatica:
E quando Fuomo ha ragione di dire.
E certo, nessuna di quelle ragioni scientifiche, che oggi potrebbero
indurci a mantenere scrupolosamente la forma dialettale d'una poe-
sia, poteva passar per la mente ai nostri antichi. Neppure il timore
di guastar la bellezza della poesia poteva in loro, giacché né il con-
cetto, né r armonia del verso, nò le frasi, da cui solo quella bel-
lezza risultava, potevano col toscanizzamento andar perduti; anzi piti
netta e pura impressione producevano, rimossane quella lieve patina
sicula che alquanto li velava al Toscano. Né poi questo presumeva
poco del suo linguaggio ^, si che il toscaneggiare il siculo gli dovesse
parere un travestimento volgare: c'è da credere anzi che gli sem-
brasse un'opportuna ripulitura.
La quale del resto non poteva poi sempre riuscire perfetta. Le
diversità fra il vocalismo siculo e il toscano s'incrociano con le con-
* C£r. Purg. xxii, 73.
« D. y. EL 1, 6, 13.
Su) de vuiff, eL £ Dante. 93
graense; cosicché nelle poesie sicule si trovavano alle volte rimanti
dae parole, delle quali nel toscano Tuna dovesse assumere altra vo-
cale» Tal tra serbare la vocale istessa del siculo; onde doveva o per-
dersi la rima, o Tuna delle due parole serbar la veste sicula. Era
facile, trovandosi a rimare amurusu con nojusu, ridurre, senza lasciar
traccia di siculo, amoroso e nojoso\ ma dove un poeta siculo avesse
fatto rimare amurusu e usu^ nutrisci e accriscù non restava che, o
taerìficar la rima trascrivendo amoroso e uso^ nutrisce e acci'esce^
OTTero, ponendo uso e amoruso^ nutrisce ed accrisce^ lasciar due
naeohie di siculismo sulla tela poetica sciacquata in Arno. Cosi, per
addurre qualche esempio, nel Lamento di Rinaldo d'Aquino si ha:
Vassene in altra cantrata^
E noi mi manda a dire.
Ed io rimango ingannata.
Tanti 8on 11 sospire.*..
Dove il toscano vorrebbe contrada^ ma è dovuto restar il meridionale
eontrata per far la rima ad ingannata^ sospire non è nò siculo né
toscano, ma posto per non isciupar la rima sicula diri-sospiri. E in
Odo delle (Colonne si ha risa e conquisa rimanti con prisa^ che non
è divenuto presa sol per non far divorzio dai due primi. E in Jacopo
da Lentino si ha avere e morire al posto della rima, che rappattu-
marsi non possono se non in forma sicula aviri^muriri^ e si ha Tag-
gettivo pari rimante con formare^ il quale quindi non è che un tra-
vestimento di furmari, E cosi in lui e in altri poeti : nivi (neve) e
dipartivi^ parisse (paresse) e morisse^ dimura (dimora) e paura, va-
hre (valere) e servire.
Cotesto macchie bastano a farci indovinare lo stato primitivo delle
poesie sioule. Del quale però possiamo, fortunatamente, avere un sag-
gio abbastanza schietto (non posso dir tale interamente, giacché qua
a là mi sembra che un po' ne sia stinto il color siculo) in alcune
canxoDi; specialmente in quella di Stefano Protonotario da Messina,
ohe già il modenese G. M. Barbieri trascrisse da un codice ed inseri
nel suo trattato della poesia rimata, e si può veder riferita da G. Gal-
vani nel suo libro sul Perticar! a p. 109 sgg. Il principio ne é questo:
Pir {priì) meu cori allegrari (alligrariì)^
Ki multi (tnoltuì) longiamenti (longamentiì)
Senza alligranza e ioi (gioii) d' amuri d statu.
Mi ritomo (ritornuì) in cantari,
Ca forsi leTimenti
Da dimuranza tomeria in usatu
L
94 D'Ovidio,
Di lu troppu taciri,
E quando {qtdannuì} Vomu ha rasuni di diri
Ben di cantari e mustrari allegranza (alligranzaì)^
Ca senza dimostranza
loi' saria sempri di pocu yalnri;
Dunca ben di' cantari onni amaduri.
Nella quale strofa si posson rilevare alcune locuzioni che certo non
eran più siculo che toscane, anzi eran di certo poco usuali in en-
trambi que' dialetti, e dovute all'influsso letterario che ormai veniva
dalla già provetta arte romanza d'oltralpe, come per es. quel dirnu-
ranza^ alligranza^ ben dV cantari^ da dimuranza tomeria in usatu.
Il qual frasario tecnico letterario comune aumentava sempre piti la
facilità di fare toscana la poesia sicula, la qual difatti si può chia-
ramente vedere come senza sforzo si riduca così:
Per mio (o meo) core allegrare,
Che molto lungamente
Senza allegranza e gioia d'amore ò stato.
Mi ritorno in cantare,
Chd forse lievemente
Da dimoranza tomeria in usato
De (o da) lo troppo tacere,
E quando l'uomo ha ragione di dire
Ben dee cantare e mostrare allegranza,
Che senza dimostranza
Gioia saria sempre di poco valore;
Dunque ben dee cantare ogni amatore.
Passando ora a trattar della poesia popolare sicula, dovrem dire
che il toscaneggiamento di essa non potesse certo riuscire sino a
quel punto, a cui (come s'è visto) agevolmente riusciva quello della
poesia cortigiana. La canzone che porta il nome di Giulio d'Alcamo,
a chi la confronti con quelle di Federigo, Enzo, Stefano da Messina,
Pier delle Vigne ecc., appare aflfatto' scevra dell'angustia d'idee,
di sentimenti e di frasi, che caratterizza invece quelle altre: in essa
la vena poetica è torbida, ma spiccia impetuosa, e si espande libera
e piena. Non v'ò quindi frasario convenzionale; non, tra le parole del
vernacolo, scelta delle piti scolorite e delle piti conformi a ogni altro
idioma romanzo; bensì v'ù l'uso piti largo e spensierato del verna-
colo stesso. Cosicché, il ridurre la canzon di Giulio a forma toscana,
sarebbe stata impresa davvero difflcile, perfino se fosse stata tentata
di proposito. Tanto piti poi, dovendovi anzi essere un proposito con-
trario; giacché, mentre le poesie siculo cortigiane erano di tal tenore»
che anche un poeta toscano suppergiti le avrebbe concepite e distese
Sul de vulg, eh di Dante. 95
al modo istesso, e quindi il toscano se le assimilava benissimo, e
spontaneamente le toscaneggiava come fossero cosa indigena; la
canzone popolana di Giulio era invece cosa tanto esotica^ così intinta
di colorito locale y che il toscano veniva a considerarla piti obiettiva-
mente, e tendeva a rispettarne la forma fonetica, come uno dei fat-
tori pid importanti della speciale impressione che la canzone gli fa-
cava* E dico tendeva a rispettarla, giacché non vi è da credere a
ona intenzione chiaramente consapevole, e rigorosamente conseguente.
Difatti, anche 1^ canzone di Giulio è qua e là attaccata dall' am-
biente toscano; il verso che Dante ne cita era probabilmente stato
in origine:
Traggimi di sti focura, si t'osti a buluntati,
e poi divenne:
Traggami d'està focora, se Veste a bolontate ;
il qnal verso, sebben un po' travestito alla toscana, ci ha pur tali
connotati^ da non poter serbare V incognito^.
Il toscaneggi amento, più o men completo, secondo i casi, delle
poesie sìcule, fu cosi spontaneo e facile, che passò quasi inavvertito;
e quando Dante, nell' ultimo quinto del secolo XIII, attese agli studj
poetici, esso era da un pezzo così perfettamente consumato, che
Dante in buonissima fede prese per schiette siciliane le poesie au-
liche ormai toscaneggiate^.
* Anche oggi il Toscano che volesse contraffare il Napolitano, per *u cugrpe
direbbe lo cttorpo, in cui resta il dittongo da o in pos. a tradire il napoletano,
e per < (T avite ditte ^ n§e signuri? » direbbe € C avite ditto, neh signorino? ».
Colti italiani e dialettologi stranieri, per influenza delP italiano scritto, into-
scaniscono spesso le vocali uscenti del napoletano; non eccettuato lo stesso
Wentrup, Beitràge z. kenntn. d, neapolit. mundart^ Wittenberg 1855, p. 27.
* n fatto della traduzione delle poesie siculo in toscano, sebbene evidente
a chiunque sia fornito di senso critico, ha pur penato molto, per il fiacco
metodo dell' erudizione nostra, a venire a galla ; e certo tuttora a molti parrà
uno scandalo il darlo, com'io fo, per cosa certa. Per iscolparmi quindi, o al-
meno per aver complici, ecco, a quanto so io, quelli per quos scandalum
€venit: Galvani (Dubbii ecc. p. 56-57), Palermo {Cod. Palat,^ p. ix), Bor-
GOGVoyi {Opuscolo sulle Carte d'Arborea, Ravenna 1870), Corazzini (Riv.
iiloL TeroneBO, e in una pubbl. per nozze D' Ancona-Nissim), Bartoli {I primi
dtu sec, d. letter. ital.^ Milano, Vallardi), e D'Ancona (in una lezione del
suo bel corso di lett. ital. tenuto all' Univ. di Pisa il 1867-68). — Un feno-
meno analogo, cioè la trasformazione delle elegie e giambi greci non-attici
in forma atticizzante, operata cosi dai copisti posteriori come dagli scrittori,
96 D' Ovidio,
Ciò posto, vediamo come alla mente di Dante si presentasse tatto
lo stato delle lettere e della lingua a* tempi suoi. Di quel qualunque
movimento dialettale dell'alta Italia, egli mostra di non saperne quasi
nulla; e ad ogni modo, se pur qualcosa ne sapeva, doveva conside-
rarlo come un moto tutto plebeo, senza portata artistica. Del Veneto
egli non conosceva che un solo, che tanto quanto si fosse ingegnato
di spogliarsi del proprio volgar nativo, e di scrivere in lingua nobile,
Ildebrandino di Padova^. Di Mantova rammenta Sordello con
molto onore, ma senza lasciar bene intendere, come Vedremo , se
quegli avesse scritto in volgare italico 3; e un Giotto, che gli avea
recitate molte e buone sue canzoni^ in che lingua scritte non dica '•
Di Ferrara^ Modena, Reggio, Parma, dice addirittura che non han
dato né possono dare alcun poeta. Di Romagnoli non rammenta che
due faentini: Tommaso ed Ugolino Bucciola, dei quali sa, semplice-
mente per udita, che si sien allontanati dal volgar patrio K Quello solo
adunque, che Dante prendesse in considerazione, era il corso di poe-
sia amorosa, con intenzione d*arte, cominciato in Sicilia, avanzato no-
tevolmente pei Bolognesi e perfezionatosi con la scuola fiorentina del
dolce stil nuovo. E tutto il corpo delle poesie di coteste scuole era,
quando Dante studiavalo, toscano, o per nascita, o per adozione
(bolognesi), o per inavvertito travestimento (siculi). Quindi Dante, ohe
a preferire la forma toscana sarebbe stato già abbastanza sospinto
dair esser quella la sua nativa, era ormai indotto dai fenomeni, la
parte fallaci, che si presentavano alla sua mente di letterato, a ri-
tenerla ancora come la forma storicamente legittima e appropriata
della poesia d'arte. Dall'altro lato però, vedendo come cotesta forma
linguistica fosse nei Siculi e nei Bolognesi non meno che nei Toscani,
dovè naturalmente indursi a credere che la non fosse né toscana nò
altro, ma propria di tutta Italia, un portato di tutta l'arte italiana f
XII.
Accompagniamo ora Dante nella sua escursione per tutta l' Italia dia-
lettale. Con che animo spassionato egli sia per farla, noi già sappiamo!
che, spesso a memoria, citavano nelle loro opere brani lirici, à giustissima-
mente supposta dal Renner* Qucestionés de dialecto antiqu. Graecor. poisU
elegiacae et iambicae^ negli Studien z. griech. u. latein. gramm. pubblicati
dal Curtius, to1« I.
• De V. El., I, 14. « Ibid. I, 15.
^ II, 13: €.... qui Buas multas et bonas cantiones nobis ore tenus intimavit».
* I, li: cHorum (Romandiolorum) aliquos a proprio (vulgari) poetando di-
vertisse audivimus^ Th. videi, et A. B. faventinos ».
Sul cid vulg. eL di Dante. 97
Comincia dal condannare il romano, per ciò che i Romani han la
pretesa di essere loro i primi nel favellare (forse per sentirsi di-
scendenti da chi avea in lingua, come in tutto, imposto legge al
mondo). Ma, dice, come sono i piti fetenti (sic) per la bruttezza dei
costumi e degli abiti loro, cosi per favella hanno un tristiloquio ^
dicendo per es.: Me sure, chinte dici? (« sorella mia^ che ne diciì^
forse). Certo, il dialetto romano, essendo per molti conti divergente
dalla lingua toscano-letteraria che Dante avea fissa in mente, ei lo
doveva di necessità rifiutare; ma, a forzar poi tanto la mano giusto
contro il dialetto che degli altri è il men dissimile dal tipo to-
scano-letterario. Dante fu tirato, come le sue stesse parole vengono
in fondo a confessare con quel paragone tra la triste lingua e i fetidi
costami, da malumore contro i Romani; tra i quali egli dimorando
per la infelice ambasciata presso Bonifacio, si vede che non era stato
in vena di farsene un buon concetto. Scarta poi 1* anconitano (di cui
cita r oscuro esempio: Chignamente sciate siate), e lo spoletino. Ag-
giunge poi, che a scherno dei Romani, Anconitani e Spoletini sono
state fatte canzoni, dove si contrafianno le parlate loro; e una dice
d'averne vista regolarmente congegnata d'un certo fiorentino di nome
Castra, che principia: Una ferina va scopai da Cascoli ecc. Donde
si Tede che, già sin d'allora, aveano i Fiorentini un tal sentimento
di superiorità in fatto di lingua, da mettersi a canzonare, a rifare
il verso, alle parlate altrui; e si vede pure Dante, che poi a propo-
sito di Firenze farà tanto lo spregiudicato, che qui ci dà dentro anche
lui, e non men degli altri si sente paesano paesano!
Passa dopo a condannare in due parole il milanese, il bergamasco
e tutti i dialetti confinanti, e per tutta requisitoria si accontenta di
dire che ci fu chi per canzonarli scrisse : Inte V ora del vesper Zio
fu del mes d*ochiover^\ dove certo non si può trovar nulla di brutto
o di reo, se non avendo un'esclusiva abitudine ed affezione per un
altro stampo fonetico, quale il toscano. — Dopo sbandisce Aquilejesi
e Istriani, perchè eruttano quel loro ^ Qes fas-tu?' che lacera gli
orecchi. Sennonché, V s di fas è un bellissimo avanzo di latinità (fa-
cis)^; nò si può dire, che unendosi al t del pronome, produca un
gruppo al toscano ripugnante. Il gè poi, che è quid^ mostra di certo
un notevole scadimento dal tipo latino; tuttavia, tanto ò legittima la
semplificazione del qu in hy & cui s'arresta il toscano c^e, quanto
il successivo ridursi della gutturale a palatina (ce), e di questa a
' Ascoli, Archivio I, 305 n.
' Ascoli, Ai-chivio I, 463.
ArcfaiTÌo gloUol. ita!., II.
0^ D'Ovidio,
sibilante (fé), cbo avviene noli* aqullejese ^ A Dante dunque il ^Ce fas
tu?' non lacera gli orecchi, se non perchò negli orecchi egli ci ha il
'Che fai tuf\
Scarta poi tutte le parlate montanine e contadinesche, che discor-
dano sempre da quelle de* veri cittadini per la grande loro sregola^
tezza d'accento (qui si scorge Tuomo di città!), citando ad esempio
di esse le parlate del Casentino e de* Pratosi (e qui si vede il fioren-
tino!).
Anche i Sardi, che non sono italiani, ma son da mettere assieme
agi* italiani y gli scarta perchò sono i soli che non paiono neppure
aver un volgar proprio, contraffacendo essi il lutino come le scim-
mie gli uomini, nel dir, per esempio: Domxa nova e Dominus lìxcut.
Donde traspare piti che mai il gretto pregiudizio da cui Danto era
dominato. Infatti, benché il sardo abbia in alcune cose un'impronta
più arcaica e latina, in altre però è anche più degenere che gli altri
dialetti italiani, e ad ojni modo ò pur esso un volgare come un altro.
Solo 1* italiano di Toscana, avvezzo a dir la casa^ poteva nel sa domo
(logudorese) trovare un*affettazione di latinità, e uso a dire il padrone^
dal su dowiii ricever 1* effetto come d*una scimiottatura del latino, e
abituato alle desinenze vocalizzate, veder nel logudorese opus^ corpus
un latinismo fuori posto *. Certo, se il dialetto sardo avesse avuto favo-
revoli le condizioni storiche, sarebbe potuto ben diventare (com*ò anche
diventato infatti) un linguaggio letterario. E se a* tempi di Dante fosse
stato veramente coltivato e stracoltivato, come ci si vorrebbe dare a
intendere dai propugnatori di certe Carte incredibili, Dante che di
' Il testo ha ce5, ma io sospetto che queir 5, difficile a spiegare, sia forse
dovuto a ciò, cbd o Dante od il copista i&tesso, preoccupato di dover notare
un s per lui singolare ed insolito, qua! era quello di fas, commettesse TinaT-
vertenza, o puramente grafica, od anche acustica e glottica, di anticipata-
mente attaccarlo anche al gè.
* 11 Deliis, nel suo bel lavoro Dcr sanlinischc dialcct. d, XIII, jahrhts^
Bonn ÌSOS, p. 2, nota che i due sostantivi sardi, citati da Dante, in realtà
non banno il s ali* uscita, e che quindi Dante li abbia voluti dare solo come
esempj lessicali, senza staro a riferire la lor precisa forma sarda. Sennon-
chd Dante, il quale dovea sapere che i sardi in molto voci serbano il s finale
(caratteristica della fonetica sarda che più suol fare impressione a un ita-
liano della media e bassa Italia), e d* altronde non dovev;i essere addentro in-
tutte le minute norme della grammatica sarda, credette forse che la forma
vera (singolare per lui e le:>sical mente e foneticamente) fosso domus e domi»
nus. Il Deliis crede anche probabile che D. scrivesse domun mea^ o non già
fiot?<i, che non ha niente di specificamente sardo; ma nulla ci assicura che
Dante dovesjo avere ritegno di porre un aggettivo non esclusivamente sardo.
Sul de vulg. el, di Dante. 99
una tanta e sì alta coltura sarebbe dovuto essere certamente in-
formato, lo avrebbe preso a considerare col rispetto con cui con-
siderò il provenzale e il francese; che avanti all'evidenza de* fatti,
ì suoi gretti pregiudizj municipali sarebbero senz'altro svaniti.
Loda poi il siciliano, perchè di Sicilia venne l'iniziativa del moto
poetico, e vennero parecchi valenti poeti {perplures doctores indi-
genae) che cantarono solennemente (graviter) , come in quelle canzoni
ohe incominciano :
Ancor che l'aigua per Io foco lassi '.
e
Amor che longamente m'hai menato.
£ eerto, non gli ci voleva molta generosità per trovar bello cotesto
siciliano; che, a conti fatti, ò toscaneggiato quasi del tutto! Ma a
prendere, continua egli, il siciliano proprio, quello che c'è presentato
dagl'indigeni di mediocre levatura {quod proditur a terrigenis me-
diocribus)^ non è punto preferibile, perchè trascina troppo le parole
{non tine quodam tempore profertur)^ come in « Traggemi d'este fo-
cora, se feste a bolontatc'»; che è l'addebito che anche adesso fan
sempre i Toscani ai meridionali.
Anche tra i Pugliesi, egli continua, ci è stato chi ha pulitamente
cantato, come in
Madonna, dir vi voglio,
Per fino amore vo'eì lietamente.
Dice pulitamente j e potrebbe dire toscanamente. Ma quanto agli
Apuli terrigenaey o per colpa loro o perchè contermini a' Romani e
Marchigiani, parlano in modo brutto, barbaro, schifoso {turpiter bar-
barizant, obscene loquuntur)^ come per es. in
Yolzera che chiangesse lo quatraro,
che ò un verso di un canto popolano, opperò, come quel di Giulio,
* Trattandosi qui di un poeta meridionale, m'immagino che Vaigua sia un
provenzalismo. Un poeta dell'alta Italia l'avrebbe invece potuto ben attingere
dal suo proprio ambiente, almeno sarebbe da questo stato facilitato all'a-
dozione del provenzalismo, giacché colà abbondano i riflessi del tipo aigua ;
▼.Ascoli, Archiv. I. 300 n., 347, 360, 376, 381, 383, 414, 510 n.
ino D'Ovidio,
arrivato sino a Danio in forma abbastanza pugliese. A rigore, nò vol~
sera (= aveva voluto), nò il kja per pja da pia di chiangeuCy nò
quatraro ("fanciullo), sono intrìnsecamente brutti. Solo da un punto
di vista esclusivamente toscano, posson parere porcherie (ohscenitatei).
Scarta ancora il genovese, e naturalmente la ragione n*ò la qua^
lità ligure, e non toscana, della sua fonetica; della quale dà un esem-
pio nell'abuso dello «, disgustoso al certo per un toscano.
Ripudia, perchò gli par troppo sdolcinato, il romagnolo, specie il
forlivese, che per affermare dice deusci e per blandire dice odo meo ^^
corada mea. Anche qui, al solito, impressioni grette e indefinite.
Per ragione affatto contraria, cioò perchò irsuti, ispidi ^ rossa^
mente aspri, e nelle parole e nell'accento, sbandisce i dialetti di tutti
que' popoli, come sarebbero Bresciani, Veronesi e Vicentini, che si
riconoscono alla parola magara^ che han sempre in bocca. A questi
aggiunge i Padovani, che fanno delle bruttissime sincopi di suoni,
dicendo, per es., merco, per mercato^ e così tutti i participj in -/u*, e
bonté per bontà, e cosi tutti i denominativi in -tasK Ma in verità
non si può, se non per preconcetto, dichiarar bruttissime tali sincopi.
Certo, a Dante non pareva brutto amò (» amavit)^ chò alla sincope,
per dirla a modo suo, nella terza singolare del perfetto, egli era
avvezzo dalla nascita, e T abitudine nativa eragli poi ribadita dal-
l' averla sempre trovata legittimata e consacrata dalla letteratura;
e gli parve brutto merco (« mercatus), perchò alla sincope nei par-
ticipj e nei nomi in ^atus egli non era avvezzo. E bonté {^^bonitate)
gli parve brutta sincope, perchò egli era avvezzo a quella in -d;
a un francese non sarebbe certo apparsa cosi orribile. Anzi, a Dante
medesimo il ì?ontó in francese non dovea parer brutto, perchò in
francese sapeva che cosi s* aveva a dire, ed era abituato a veder una
tal forma consacrata dalla letteratura di qucU* idioma'; e in padovano
gli parve orribile, perchò guardando al padovano, volgare italiano,
egli avea la mente all'italiano, e non sapea prescindere da quel par-
ticolare italiano, tosco-letterario, a cui egli era usato.
Condanna ancora i Trivigiani che, come i loro confinanti, ed an-
che come i Bresciani, fanno uua brutta apocope, dicendo nof prò nere.
' Suir entità fonica del gruppo, etimologicamente ortografico, e/, pud es-
serri dubbio. V. Ascoli, Arcato. I, 302-4 , 554 ; e cfr. MrssAFiA, DarsUllung
à^r romagnolischen mundart^ Vienna, 1872, §§ 171, 197.
' AfiroLi, Archiv, I, 431-2.
' V. infatti la citazione d*un verso illustre francese terminante con bont/^
al CHpo quinto del secondo libro.
Sai de vulg, el. di Dante. 101
et vt/*pro vivo^. Si noti, come Dante parta dalle forme toscane, e
naturalmente deva quindi trovare una grandissima barbarie nel nof
invece di nove^ ecc. Se a un Francese si chiedesse s'ei trovi brutto
il vif, probabilmente risponderebbe che, cosi svelto com'è, vif gli par
che esprima la vivacità meglio del languido vivo. E anche qui si
paò dire, che vif, neuf^ saran parsi a Dante bellissimi in francese;
e nel trivigiano, dialetto italiano, gli dan fastidio, perchè ripugnano
al particolar tipo di italianità, che stava in mente a lui.
Mette in un fascio Ferraresi, Modenesi, Reggiani e Parmigiani, e /
li condanna a non poter accedere al volgare illustre, per esser loro
connaturata la gorga (garrulitas) propria dei loro acerbi dialetti;
nella qual gorga si vuol certo intendere tutta in complesso la sgra-*
devole impressione, che ad un Toscano dovea fare la particolar fo-
netica de' dialetti emiliani ^. Ai Parmigiani fa un addebito particolare,
ed ò di dir monto per molto *; il che certo gli spiaceva perchè egli
non sapea distaccarsi dal toscano, che (anche tenendosi più vicino al
latino che non gli altri) davagli moUo\ giacché, del resto, né il gruppo
ni ha niente di duro, neppure all'organo toscano, né il trapasso di l
latino in n romanzo è punto inaudito.
Quanto a Trento, Torino, Alessandria ed altre città prossime agli ^
* Ascoli, Architi. I, 417-18.
* La garrulitas (che il Trissino col suo solito garbo traduce loqwxcità\)
il Bdhmer (op. cit. p. 12) crede accenni al fenomeno ar per re atono, pro-
prio de' dialetti emilicuii, ove si ha arspónder^ arzàn^ per rispondere^ reg-
ina. Ma è incredibile che Dante alluda a una simil minuzia fonetica, e
certo egli intende parlare di quel non so che di proprio a tutta la pronunzia
lombardo-emiliana, quel che noi diremmo V accento lombardo ecc. Noi del-
r Italia centrale e meridionale sogliam trovare nei dialetti dall* Emilia in su
una certa quasi gutturalità di pronunzia, che vagamente concepiamo e pur
ngunente denominiamo la gorga lombarda. E perciò ho creduto poter cosi
tndarre la vaga garrulitas di Dante.
• U Bòhmer (op. cit, 12 n.) congettura doversi leggere morto anziché
monto. Poco prudente fu invero il ricorrere ad emendazioni congetturali, qui
dove anche una superficiale informazione del modo come gli attuali dialetti
emiliani si comportino co* succedanei di multus avrebbe dato ogni sufiragio
>Ua lezione vulgata; che m bolognese e in modenese si ha dimondi per di-
wo/to edtmoZtt (mentre l'avverbio senza il di é molt\ e in parmigiano mont
àen^ per molto bene. Il morto per molto (a cui non suffragherebbe il parm.
weoa^ voleva citato dal Bòhmer, che in v[o]leva è question di / tra t? e una
Tocale, ed in molto è / tra vocale e cons. esplosiva) è bensì proprio del pisano
plebeo, e d* altri vernacoli toscani, romani e napolitani. Per It in nf, cfr.
Ascou, Archiv. I, 398.
102 D'OTidio,
estremi confini d'Italia, egli ne trova, per le solite ragioni, bruttis-
simi ì linguaggi, ma soggiunge che, fossero anche bellissimi, avreb-
bero pur sempre, stando quelle città ai confini, mescolati in sé molti
forestierismi, epperciò non meriterebbero neppure il nome d'italiani.
Anche questo non può parere che ad un Italiano del centro; perchò
del resto, se, per esempio, il dialetto piemontese ha molti caratteri
estranei ad altre parlate italiane, e comuni invece alle parlate fran-
co-provenzali, ciò lo renderà, se si vuole, men atto a diflfbndersi in
tutta Italia, ma non già inetto alla coltura letteraria, che, in sd me-
desimo, egli è sempre un linguaggio organico, omogeneo e vivo.
Quanto ai Veneti, egli dice, meno male che non ci pretendono nem-
meno (curiosa poi che al veneto toccò in appresso l'onore d* esser
letterariamente coltivato, e officialmente adoprato, più che molti nitrì
dialetti); ma se qualcuno di loro vaneggiasse tanto da voler affacciar
pretensioni, si ricordi se ha mai detto:
Per le plaghe de Dio tu non veras ',
verso, che non ha certo altra colpa se non d'esser veneto e non to-
scano, che del resto né plaghe é men bello (ed é più etimologico) di
piaghe, né verds (che può esser anche verrai j ma l'Ascoli preferisce
intenderlo vedrai] Arch. I, 462) è men bello o men legittimo di re-
drai, al quale anzi é superiore per la conservazione preziosa dell' «
finale latino (videre-habes).
Quanto poi ai dialetti di Perugia, Orvieto, Viterbo, Città di Ca-
stello, per essere affinissimi al romano e allo spoletino, crede persino
inutile parlarne.
Non ci é che un dialetto di cui faccia elogi, il bolognese. Assai
probabilmente, come s'è visto, egli scriveva il suo libro a Bologna,
ed egli era in buona con questa ospitale città; s'era quindi assae-
fatto volentieri al suo dialetto e l'aveva studiato con interesse, op-
però fini per trovarlo bello, e per darsi anche ragione del perché
fosse bello ^. Ma bello, s'intende (protesta egli) come volgare, munl-
* y. Ascoli, Archiv. I, 460-62.
^ La ragione della bellezza del bolognese la trova (I, 15) nel contemperare
che esso fa le proprietà dei dialetti suoi confinanti, prendendo dagrimoleti
lenitatem atque moUitietn^ e dai Ferraresi e Modenesi aliqualem garruli--
taterrij propria dei Lombardi, i quali la devono, secondo lui, avere ereditata
dal Longobardi. E cotesta ragione, valga quel che pud valere, é chiara al-
meno. Ben oscuro à invece im paragone ch^egli adduce per dichiarare quel
supposto eclettico equilibrio della favella bolognese. < Bononienses • . • • Dice:
Sul de vulg. el di Dante. 103
cipale! Dialetto per dialetto, ò preferibile il bolognese; ma non che
esso sia il volgare illastre! Se tal fosse, i poeti bolognesi, il mas-
ab Imolensib. Ferrar, et Mutinens. circumstantibus aliquid proprio vulgari
adseiseunt ; sicut facere quoslibet a finitimis suis convicimus (= come tutti
•oglion fare dai loro confioanti) , ui Sordellus de Mantua sua ostendit^ Gre-
mon», Brixi» atque Veronse confini: qui, tantus eloquentise vir existens,
non solum in poetando sed quomodolibet loquendo |)afrium vulgare deseruiti^.
Ora, il difficile di questo passo sta in ciò, che non si capisce chi secondo
Dante contemperi le parlate confinanti, se il volgar mantovano esso stesso
(eome parrebbero accennare le parole «ut Sord. de Mantua sua ostendit,
Crem. Brix. atq. Ver. confini », il che significherebbe che Mantova, favorita
dalla sua stessa posizione geografica tra Cremona, Brescia e Verona, prenda
qualcosa da tutte le parlate di coteste vicine città), ovvero il poeta Sor-
delio ( come parrebbero indicare le parole < qui .... patrium vulgare dese-
mi(>). Se il contemperatore secondo Dante è Sordello, perchd allora egli
dice che Sordello dimostra il contemperamento de Mantua suaì Dovrebbe
dire «ut S. (2e se ostendit»! E se il contemperatore è il mantovano stesso,
perchd mai ò Sordello che ne dà le prove? Forse con dar saggi scritti di
mantovano, dai quali si rilevi la contemperata struttura di quel dialetto? No,
perchè Sordello quomodol. loquendo patrium vulgare deseruitl — * Dunque
r arruffio di questo passo à grande, e bisogna supporre che il testo sia in
qtialche parte corrotto. 11 Bòumer [Jahrb, f. Dante gese II schaft^ t. II) si dà ad
emendare la frase < ut facere quoslibet a finitimis suis convici mus », e muta
quest* ultima parola in conjicimus^ mutazione al tutto inutile; muta Va in e,
intendendo poi il suis come Bononiensium^ cosa inammessibile, giacché, non
che un classico, ma neanche un qualunque italiano, scrivende in latino, di-
rebbe mai in quel posto suis per dir de' Bolognesi^ ma eorum^ ipsorum^ o
com* altro vuoisi. Eppoi il senso che ne verrebbe (< come ognuno dei confi-
nanti di loro Bolognesi suol fare, ad esempio Sordello ecc. »), insoddisfacen-
tissimo per sé, lascerebbe inoltre tutta intera la difficoltà del passo che ci
occupa. Al quale se dovessi congetturare un emendamento, io espungerei il
sua che é nella frase: cut Sordellus de Mantua sua ostendit», dove forse
il copista a torto T introdusse perchd impressionato dal suis della frase im-
mediatamente precedente: «sicut facere quoslibet a finitimis suis convìcimus».
Intenderei quindi: I Bolognesi aggregano al loro volgare qualcosa dalF imo-
lese, dal ferrarese e dal modenese, come del resto é positivo che tutti fanno,
di prender qualcosa dai loro confinanti; di che ò prova Sordello di Mantova
{Sordellus de Mantua; cfr. II, 6: Cinus de Pistorio ecc.), città confinante
con Verona, Brescia e Cremona; il quale, appunto perchè come mantovano
trovavasi in mezzo fra tali città, nel suo scrivere sempre si diparti dal pretto
niantovano e prese dalle vicine città e parlate. — II modo di procedere di un
nomo (Sordello) sarebbe dato per esempio analogo al modo di procedere di
'w popolo (il bolognese). Sennonché, v'é documento, o potrebbe almeno credersi
• priori, che Sordello scrivesse in un linguaggio lombardesco di tal natura ?
101 D'Ovidio,
Simo Quinicelli, e il Ghislieri, Onesto, Fabrizo, dottori illustri e pieni
di criterio quanto ai volgari, avrebbero scritto in bolognese! E in-
vece hanno scritto:
Madonna, il fermo core (Guinicelli),
Lo mio lontano gire (Fabrizio),
Più non attendo il tuo soccorso, Amore (Onesto):
parole tutte diverse da quelle cittadine di Bologna (quae quidem verba
prorsus a mediastinis Bononiae sunt diversa). E son diverse perchè
son toscane! Se Dante non lo sapeva, ben però lo sappiamo noi.
Scartati tutti i dialetti non toscani (anche quell'unico bello!) per-
chè difformi dal tipo toscano-fiorentino, scarta egli anche i toscani
per le divergenze che hanno dal tipo prettamente fiorentino, il quale
a lui era raccomandato e dall'abitudine nativa, e dal suo criterio sto-
rico-letterario; giacché, pur riconoscendo con vero entusiasmo i me-
riti storici dei predecessori, egli credeva però che tutto il corso poetico
siculo-bolognese-toscano avesse toccata la perfezione definitiva con
la scuola del dolce stil nuovo ^ ; scuola tutta fiorentina, ad eccezione
del pistojese Gino Sinibaldi, il cui dialetto nativo è tuttavia talmente
affine al fiorentino, che in brevi e forbite liriche non gli sarebbe stato
possibile di mettere in vista nulla che disgustasse i suoi amici di Fi-
renze. Sicché oramai, il linguaggio dell'alta poesia equivalendo per
lui al tipo fiorentino, naturalmente doveva' egli rimaner nauseato a
trovare, per esempio, in Bonagiunta Urbiciani un piassa alla lucchese,
per piazza, come sol dicevasi alla fiorentina e come scrivevasi da
quelli che per Dante formavano testo di lingua poetica.
Dei Pisani egli cita due versi di un canto popolaresco: Bene an~
donno li fanti Di Fior ansa per Pisa *. Dove certo, oltre tutto quel-
r altro che ci poteva essere di pisano nel resto del canto che egli
vuol richiamare, doveano dargli ai nervi queir anrfonwo , forma di
perfetto, allora com'oggi, propria di Pisa, ma estranea ancora al
fiorentino'^, e V-^ansa per -enza. Dei Lucchesi cita: Fo voto a Dio
che in gassara Eie lo comune de Luca; dove certo, dal punto di vista
fiorentino, è un vero scandalo il e scempio di Luca, e il r scempio.
• Cfr. de V. EL I, 10, 13, 17; II, 2, 6; Purg. xxiv.
' II BÓHBCEB congettura: Sene andonno, ... ; di che non si pud dir altro, se
non che può essere che stia bene.
• V. Flechia, Rivista filoL di Torino, I, 398 n. Eppure una volta quel pi-
pisanismo Dante l'ebbe ad adoprare; nella Gomedia però, oy'era più andante,
e per bisogno della rima {Par, xxviii, 105%
Sul de vulg, eL di Dante. 105
come pure il ss per szy di gassare^ e rete'=sta, e lo comuno. Dei
Sanesi cita: Onche rinegata avesse io Siena ^ dove trovava Vonche
{mimquam)y certamente non fiorentino. E degli Aretini ha: Vo tu
venire avelie^ dove 1* urtava Vovelle *.
Avrebbe dunque dovuto, giacché tutto ciò che fosse o aretino, o
sanese, o lucchese, o pisano, e non fiorentino, lo urtava, dire addi-
rittura: il tipo linguistico per la poesia è il fiorentino. Ma una tal
proposta o confessione gli sarebbe parsa rischiosa e , a conti fatti ,
irragionevole. Basta forse, pensava Dante, scriver fiorentino per
scriver bene? E qualunque modo o voce o pronunzia fiorentina si
potrà scrivere? Non ha egli anche il fiorentino delle parole malsonanti
e grossolane? Dunque, avrebbe dovuto concludere, scrivasi in fio-
rentino, ma ripulendolo, facendo una garbata scelta fra quante voci
e forme egli offre. Sennonché Dante, preoccupato contro i dialetti,
pensa: se anche il fiorentino ha dei modi brutti, dunque è anch'esso
un dialetto, brutto come gli altri; e difatti si può dar niente di piti
grossolano del canto: « Manuchiamo introcque Non facciamo altro n ?
— Dire: il fiorentino è il linguaggio della poesia illustre, gli pareva
che fosse come dire: si metta giù fiorentino purchessia, senza badare
a nulla, senza escludere nessuna parola o frase o pronuncia. Gli pa-
reva altresì, che il far del fiorentino il linguaggio della poesia finisse
come a far della poesia un monopolio dei Fiorentini, a negare a
priori l'accessibilità degli altri Italiani alla gloria della poesia (che
allora si chiamava indifierentemente la gloria della lingua\)\ e ciò
allo spirito suo, largo e comprensivo, che vantavasi di sapere spinger
lo sguardo ben oltre l'angusta cerchia cittadina, alla nazione tutta,
air umanità, sarebbe parso un gretto municipalismo. Municipalismo
cui egli anzi scorgeva ne' Toscani tutti, che già molto pretendevano
della favella loro ^, e per fuggire il quale egli era naturalmente
sospinto ad un eccesso opposto, sino cioè a chiamar il toscano un
turpiloquio. Oltreché, se é assolutamente repugnante al franco ca-
rattere dell'Alighieri quel che taluni han supposto, che cioè egli si
mettesse contro le sue stesse convinzioni ad inveire contro il toscano
' Il BdHifEB stacca ot? elle, intendendo, come il Gorbinelli, con lei. Ma rat-
inale aretino, che ci dà induvelle e qualche altro avverbio di luogo analogo,
ci fa capire che qui abbiamo a che fare con un ovelle nel senso di usquam,
q%ielq%te parU 1 riflessi di questa terminazione pronominale -avverbiale -elle
sono molti anche nella Italia meridionale, e anderebbero sottoposti ad un
accurato esame comparativo.
* DeV.E, I, 6, 11, 13.
106 D' Ovidio,
e il fiorentino, a solo fine d'indispettire i suoi concittadini; egli è
però certo che il gran malumore, che avea verso di quelli, dovè
notevolmente contribuire a fargli mettere un non so che di parti-
giano e di accanito nella sua condanna dei dialetti toscani. La co-
scienza gli suggeriva di dover contr'essi parlare, e la passione gli
faceva far la voce grossa. Era in coscienza convinto che toscano e
fiorentino non fosser tutt'uno col linguaggio illustre; ma c'ebbe
inoltre un gran gusto, di potere cotesta verità buttarla in faccia a
quei suoi tanto ingrati concittadini!
Se quella sua generosa premura di guardarsi dalle meschine borie
municipali, e quella sua ira accumulata contro i concittadini, non gli
avessero impedito di considerar la questione con la calma che gli
sarebbe stata necessaria per arrivare col ragionamento astratto,
senza il soccorso che la scienza a noi dà oggi, a vederci dentro
chiaro; egli si sarebbe certo avvisto di quello onde ci avvediamo
ora noi, cioè come gli addebiti che egli sapeva fare al fiorentino con-
sistessero semplicemente in qualche parola malsonante da evitare,
in qualche trivialità da escludere dagli scritti per ragioni di stile;
mentre quel eh' egl* imputava agli altri dialetti erano fenomeni ri-
correnti costantemente, vizj organici, inevitabili. Ed in vero, era
facile scriver fiorentino senza metterci l' inirocquCy ma non era pos-
sibile scrivere padovano escludendo i participj in -d e gli astratti
in d. E, del resto, era tanto piti profondo il dissidio tra lui e quei
fenomeni degli altri dialetti, di quello che era tra lui e persin le piU
brutte voci fiorentine, che egli si ridusse pure alla fine, nella Co-
media, ov' era men schifiltoso, a adoperare Vintrocque per vìa della
rima (Inf. XX); ma certo non scrisse mai né merco ^ né bontéy né
vif^ né nof, nò plaghe^ né gè fas-tu?, né verdsl
Egli confuse evidentemente lingua e stile, giacché una poesia di
un Bergamasco, o Bolognese, o Siciliano, scritta pure nel più scelto
bergamasco o bolognese o siciliano, gli sarebbe sempre suonata
male; mentre una poesia toscana non avea bisogno, per piacergli, -
che di essere scritta con una adatta scelta stilistica delle frasi e
parole toscane, E solo questa esigenza egli in realtà doveva avere,
allorché scriveva che Guido d'Arezzo, Bonagiunta da Lucca, Gallo
pisano, Mino Mocato sanese. Brunetto fiorentino, aveano adoperato
dieta non curialia scd municipalia tantum', che é una evidente esa-
gerazione, giacché non é possibile, che delle parole usate da quei
poeti tutte fossero municipali, e ninna fosse di quelle che anche
Dante stesso adoperava nelle sue canzoni!
Lo stesso metodo inconseguente di fastidire gli altri dialetti per-
ché divergenti dal fiorentino, e poi sostenere che il fiorentino è un
Sul de vulg, el. di Dante. 107
dialetto come gli altri, si vedrebbe oggi usato da molti Fiorentini;
i quali, dopo tanti secoli, sono ancora al punto ov' era Dante. Giac-
chò ridono di cuore di tutte le peculiarità di pronunzia, di parole
e di fraseggio degli altri Italiani, cui essi trovano ad ogni memento
in fallo; ma se poi si dice loro che il fiorentino non è un dialetto
come gli altri, ma suppergiù egli è la lingua, son essi i primi a
prenderne scandalo, e a citare le storpiature e i riboboli delle ciane
e de'béceri di Mercato vecchio e de' Camaldoli, gli ard *bai («avrà
i bachi), i voitta («ecco), gVimvecilli (imbecilli); che sono gli ana-
loghi deìVintrocque e del manuchiamo di Dante.
E lo stesso modo di ragionare, o di sragionare, troviamo per es.
in ano scrittore alquanto posteriore all' Alighieri, Jacopo Passavanti.
Le cui parole, al solito svisate con malafede dal Perticari, e ricondotte
al loro vero valore dal Galvani ^, sarà bene riferire. Dopo aver
confessato ch'egli scrive in fiorentino soggiunge: «I volgarizzamenti
*• della scrittura e dei dottori si deve leggere con buona cautela...
** perchè il nostro volgare (intende il volgare in generale) ha difetto
• di propri vocaboli, onde spesse volte rozzamente e grossamente, e
• molte volte non veramente, la spongono. Ed è troppo grande pcri-
» colo, chò agevolmente si potrebbe cadere in errore. Senza ch'egli
» avviliscono la scrittura, la quale con alte sentenze ed isquisiti e
• propri latini, con begli colori rettorici, e di leggiadro stile adorna,
• qual col parlare mozzo la tronca, come i Franceschi e Provenzali ^,
» quale collo scuro (1 1) linguaggio l'offusca, come i Tedeschi^ Ungari
^td Inghilesi; quali col volgare bazzesco e crojo (questo è il fratel
"germano àelìSL garrulitas ^ déìV hispidum e dell' aceròi^as di Dante!)
■ la incrudiscono, come sono i Lombardi ; quali con vocàboli ambigui
• e dubbiosi (I?) dimezzando la dividono, come napolitani e regnicoli;
• qoali coli 'accendo aspro e ruvido V arrugginiscono, come sono i Ro-
• mani; alquanti altri con favella maremmana, rusticana, alpigiana,
'V arrozziscono; ed alquanti men male che gli altri, come sono i
" Toscani, malmenandola troppo la insudiciano ed abbruniscono. Fra
» i quali i Fiorentini coi vocaboli isquarciati e smaniosi, e col loro
• parlare fiorentinesco istendendola e facendola increscevole, la intorbi-
•dono e rimescolano con occt (=»ci ho?) e poscia, aguale (= eguale), vie-
" Dubbii ecc. p. 299-307.
' Allude certo alla special proprietà della romanità franco-provenzale, di
eoDtrarre particolarmente le sillabe postoniche (sur = sicuro, islerz isola), il
che agli occhi di un Italiano o Spagnuolo deve certo parere un' eccessiva
degenerazione dal latino.
108 D'Ovidio,
avocata (^), pur dianzi, ma pur sì, berreggiate (=benreggiate?)..,«»
Si vede di qui che il buon frate, avvezzo a recitare e sentire la pa-
rola di Dio neir antica, sonora e maestosa lingua latina, tradizional-
mente consacrata al culto; a risentirla poi in volgare, in quel vol-
gare in cui quotidianamente diconsi tante cose futili e basse, gli par
di vederla travestita ignobilmente, e quasi profanata. Ci si rassegna
però alla meglio, ma a patto che si assuma il volgar toscano; chò del
resto la crudezza lombarda, 1* oscurità tedesca, la contrazione fran-
cese, superan le forze della sua tolleranza. In fiorentino gli basta
che si evitino vocaboli isquar ciati e smaniosi, le troppe storpiature
fonetiche popolari (tra le quali pajono intollerabili a lui alcune che
poi definitivamente furon legittimate dalla letteratura, come il po^
scia e il purdianzi)\ e le altre favelle gli sono irreparabilmente
uggiose, perchè, faccia pur, per esempio, il francese un'accurata scelta
stilistica, e' rimarrà sempre un linguaggio che accorcia e contrae,
pih assai del toscano, la parola latina.
XIII.
Se il volgar nobile, la lingua dell'alta poesia, non è nessun par-
ticolar dialetto, che cosa sarà? — Giacché Dante non s'è accorto
che lo stampo della lingua illustre è lo stampo fiorentino, dovrebbe
almeno rispondere, per istare al concreto, che la lingua illustre sia
quella che si rileva dalle opere degli illustri poeti italiani, e che per-
ciò può dirsi italiana, E questo infatti egli risponde, ma non senza
esser prima salito, da buon scolastico, nella sfera dell* astratto. In-
comincia quindi dal dire: in ogni genere di cose v'è un certo che
a cui esse tutte si riportano; ne' numeri l'unità, nei colori il bianco,
nelle azioni umane la virtù, nelle azioni cittadine la legge; e nelle
azioni italiane il tipo è quella certa italianità, consistente in certi
semplicissimi segni di costumi, di foggie e di parlare, secondo cui
esse azioni si commisurano. Il volgar illustre è l'italianità tipica
nella lingua, la quale italianità può manifestarsi più in una città che
in un'altra, ma di nessuna è esclusivamente propria. Il volgare illa-
stre ò dunque il volgare italiano. — Finqui siam sempre a una pura
astrazione, cioè a un certo ideale o genio linguistico nazionale, a
quella certa fisionomia comune di tutti i volgari italiani, la quale
fa sì che essi si raggruppino sotto una sola classe e denominazione
{volgare italiano), ma che poi non esiste in sé e per sé, a quel modo
che non esiste un mammifero^ puramente mammifero, che non sia o
uomo, o cavallo, o cane ecc., né esiste una leguminosa, puramente
tide, che non sia alla fin fine o fagiuolo, o pisello, o fava ecc. —
Sicché, con in mente questo concetto astratto di specie^ Dante prò-
Sul de vulg. el. di Dante. 109
segue: Difatto, come c'è un volgare proprio di Cremona, cosi ce
n*ò uno proprio di Lombardia; e come ce n'ò uno proprio di Lom-
bardia, cosi ce ne sarà uno proprio di tutta la parte sinistra d'Italia;
e come ce n'è uno proprio di tutta la sinistra d'Italia, cosi ce ne
sarà uno proprio di tutta Italia. E come il primo è cremonese, il se-
condo è lombardo, il terzo di mezz* Italia (semilatium), così il quarto
sarà italiano* — Ma questo italiano, messo li in senso di classe e
di fisionomia comune, appena che Dante lo ha fissato, assume subito,
di lancio, in mente sua, un significato più concreto e più individuale,
Tien cioò a denotare quella particolar lingua (che noi sappiamo es-
ser di base toscana), che si ritrova nei varj poeti illustri d'Italia-
epperò egli continua: Infatti di esso si son serviti quanti illustri dot-
tori ban composte poesie volgari in Italia; e Siculi, e Pugliesi, e
Toscani, e Romagnuoli, e Lombardi, e nativi dell'una o dell'altra
Marca.
E questo ò il volgare illustre; illustre, curiale, cortigiano e car-
dinale per tante belle ragioni, che ognuno può leggere, se ha voglia
di sillogismi e di distinzioni, nei capitoli XVI-XVIII.
XIV.
La forma poetica illustre che nel primo libro è principalmente con-
siderata come lingua nel senso proprio, nel secondo libro invece ò
presa piuttosto nel senso di stile. Egli è perciò che quivi Dante prende
a citare alla rinfusa versi di italiani, di francesi e di provenzali. Ma
quando per poco torni a question di parole, allora ritorna alla lin-
gua, e alla citazione di esempj prettamente toscani; com'è per esem-
pio nel capo 7.% ove si fanno tutte quelle curiose distinzioni fra
parole muliebri e virili, silvestri e urbane, pettinate e irsute, lubri-
che e scabrose.
Considerando dunque il volgare illustre come l'altissimo stile, vuole
che l'adoprino sol quelli ch'hanno ingegno e sapere, e solo in tre
specie di soggetti, l'amore, il valore e la rettitudine, e in un sol
genere di componimento poetico, la canzone. Al sonetto e alla bal-
lata prescrive d'assumere quando il volgar mediocre e quando Vumile',
nel qual precetto evidentemente non si considera la lingua (chò non
si può presumere Dante consigliasse per il sonetto e la ballata una
lingua diversa dalla lingua della canzone, e volesse poi che tal di-
versa lingua fosse un miscuglio di due altre lingue), ma lo stile.
E la canzone è per lui la poesia dello stile tragico (II, 1-4); sic-
ché passa a trattare della canzone, e fa cenno delle varie specie di
versi (11,5), de' costrutti, cui egli specifica in modo assai vago e ad im-
pressione (II, 6), delle parole, che classifica in un curioso modo (II, 7) ;
Ilo D'Ovidio, Sul de vulg* el, di Dante.
per determinare infine quali versi, costrutti e parole si addicano alla
canzone. Quindi passa a trattare la metrica della canzone; e le dot-
trine circa ad essa, ch'egli svolge, sono state dichiarate, esemplifi-
cate, e confrontate con la pratica stessa dì Dante nel Canzoniere^ da
due egregi romanisti, il Bóhmer nel piU volte citato opuscolo Ueher
Dante' s s. ecc. e il Bartsch nell' articolo Dante" s poetik del Giornale
della società dantesca di Germania (III, p. 303-867). Gotali dottrine
Dante le attingeva dalla tradizione de' poeti romanzi a lui anteriori e
contemporanei, operando però di questa una certa purificazione, cen-
surando cioò quel che al gusto suo non garbava, ad onta che altri
poeti n'avesser dato esempio (11,12). Promotore e maestro d'un* arte
aristocratica e riflessa, disdegnava forte i poeti rimasti in basso grado,
privi di coltura e di gusto, e li esortava a non provarsi ai più alti ge-
neri, come alla canzone. ^Pudeat idiotas (dice II, 6; cfr. II, 1) tantum
'accedere deinceps, ut ad cantiones prorumpant, quos non aliter deri-
Memus, quam caecum de coloribus distinguentem I . . . Desistant ergo
'ìgnorantiae sectatores Guidonem Aretinum (cfr. I, 13; Purg. xxvi,
424-26) et quosdam alios extollentes, numquam in vocabulis atque
*constructione desuetos plebescere.' — Quando un linguaggio è da un
pezzo letterariamente coltivato, già vi si sono insinuate alcune nor-
me, non giuste sempre, forse, ma ad ogni modo da tutti per tradi-
zione accolte, che impongono Tesclusiono di alcuni vezzi di pronuncia,
di alcune parole o frasi triviali, di alcuni costrutti o troppo illogici,
o stentati, o pedestri; e così a ciascheduno vien fatto molto natu-
ralmente di usare non altro che una scelta e una purificazione del
linguaggio parlato; laddove sul primo assorgere del dialetto a lingua
scritta, quelle norme e quella esclusione le deve oprare ognuno da
so, e non a tutti viene in mente che le sien necessarie, e molti non
han tanto gusto o coltura da sapervi felicemente por mano. Dante
fu colui che più d' ogni altro ne intese il bisogno, e ne venne a capo,
e per l'elevatezza dell'ingegno suo, e per la educazione classica di
cui egli era imbevuto. Aveva perciò in grandissimo fastidio quelli
che tiravan giti nel volgar loro, purché fosse, e non erano in grado
di elevarlo^ per cosi dire, a seconda potenza.
DEL TOSTO
CHE SPETTA AL LIGURE NEL SISTEMA DEI DIALETTI ITALIANI.
Il dialetto genovese, e le varietà liguri in generale, non eb-
bero in sino ad ora a rallegrarsi di studj molto accurati. Il
Fernow, in quel suo lavoro sui dialetti italiani che ben si può
dir mirabile quando si consideri il tempo a cui risale ^ si era
messo per la buona via. Ma il Fuchs, più di trent'annì dopo,
se addirittura non ha indietreggiato, stenterei a dire che abbia
determinato un vero progresso *. Venuto finalmente il gran Mae-
stro, egli portò, forse adottò, in ordine al genovese, una sen-
tenza generale, che non si può dir delle più caute, e che altri
hanno poi esagerato o peggiorato di non poco '. La sentenza, a
cai accenno, è premessa alla breve descrizione che del dialetto
genovese ci porge Federico Diez, e suona: *I1 genovese forma
Ha transizione dai dialetti della bassa Italia, e in ispecie dai
'sardi, a quelli dell'Italia superiore*.' Io per me non ho mai
^ È nel III Yolume del Romische studien von C. L. Fernow (Zurigo, 1806-8);
e il discorso intorno al genovese vi occupa le pag. 359-367.
* A Fuchs, tfber die sogenannten unregelmdssigen zeitwòrter der r ornati,
spraehen, nebst andeutungen ùber die wichtigsten romanischen mundarten^
Berlino, 1840. Yl si discorre del genovese a p. 141-48.
' Vedi così, in questo stesso volume, V Indice bibliografico^ al num. 3.
* Gramm. d, rotnan, sprach,^ V 85. E prosegue: *Qui ancora mantengonsi
*« ed air uscita {verde, braco, sotto \ ma: giardin ecc.). Fi si fa talvolta
'«ci (fiore sciù, sic. sciuri). Il e palatino si fa p o a? = J frane, (certo gerto,
'vieino vexin\ ma: ceppo seppo ecc.). Il g palatino ha riflessi diversi {giorno,
^liMvì, Zena Genova). Ma chi e ghi già diventano, alla lombardesca, et e
'|j (chiappare ciappà, ghianda gianda); pi si fa ugualmente ci (piangere
'eiaiu«). Di contro a z ritrovasi i^erlopiù g o s {pagienga, bellessa, mezo),
*^ si dilegua facilmente (bruciare bruxd, scrivere scrive, cucire cuxt, onore
W, opere opee); eu ed u già hanno pronunzia francese, ae è pari ad ai
^franc; e occorre anche il n nasale. L'ital. gli si pronuncia gi (figlio fig-
*9Ìo), il che s'incontra anche sul lido adriatico, a Venezia'. — Lo studio
del Lemcke sui dialetti italiani (Archivio di Herrig, VI, VII, IX), a cui il
Diez 8i riferisce (1. e. 81), non sono io ancora riuscito a vedere, e me ne
duole. Il mio valoroso Martini mi perdona poi di certo so non pongo il suo
lavoro (Saggio intorno al dialetto ligure di Stefano Martini; Sanremo, 1870)
112 Ascoli,
saputo ben capacitarmi del come si avesse ad intendere questa
speciale attenenza fra genovese e sardo; ma ho ancVio creduto
per lungo tempo che i caratteri settentrionali del genovese non
fosser tanti e tali, da farlo decisamente assegnare alla serie
dei dialetti gallo-italici. Senonchè il Nigra, in alcune comuni-
cazioni private, si compiacque d* insister meco sulla sua persua-
sione che cosi assegnar si dovesse; e ulteriori studj, che per
debito d'uflBcio io dovetti condurre sulle cose liguri, mi con-
vinsero ch'egli in fondo avesse ragione. Vengo ora a mostrare,
per quali criterj fonetici debba andar modificata la corrente
opinione sul posto che spetta al ligure nel sistema dei dialetti
italiani, dando a quest* uopo una caratteristica parallela del
dialetto piemontese e del genovese, e poi un riassunto, in cui
son valutate le intime concordanze per le quali i due dialetti
vanno tra di loro congiunti, e insieme son considerate le pro-
prietà per le quali il ligure si disgiunge dal pedemontano, sem-
pre con particolare riguardo alle relazioni che ne risultano tra
il parlar genovese e quelli delia bassa Italia. Varie ragioni mi
suggeriscono, o anzi m'impongono, di ridurre questo tentativo
sistematologico a quelle più modeste proporzioni ch'esso com-
porti *; ma io spero tuttavolta, che la sua qualsiasi utilità non
si debba restringere allo special problema che lo ha promosso.
fra i contributi propriamente scientifici; ma pur mostrerò che possa giorare.
Un altro giovane e valoroso ligure, il dott. Niccolò Lagomagoiore, darà alYAr^
chivio copiosi ed eletti lavori sui dialetti della sua provincia, e intanto pros-
simamente : Documenti inèditi del sec. XIV, con uno studio sulle relazioni fira
il dial. genovese di quel secolo e il dial. posteriore. Io gli cedo volontieii il
posto, sdebitandomi, con questo breve Saggio, di una delle troppe mie pro-
messe (Arcli. I 81 n.); e gli rubo intanto, senza volerlo, la priorità della gi^.
sta dichiarazione di un antico verso (v. num. 24, in n.).
' Non solo tralascio di tentare le varietà intermedie, come in parte ormai
si potrebbe; ma ancora non adopero se non una scarsa parte dei fonti geno-
vesi che sono a tutti accessibili. Mi limito ai seguenti: 1.^ Rime {storiche
di un anonimo genovese vissuto nei secoli XTIl e X/V, pubblicate dal Bo-
NAiNi nel quarto volume deirArchivio storico italiano (num. 18, p. 5-61), e le
cito per *XIV', più il numero della pag. dove l'esempio occorre;- 2.° Com-
medie trasportce da ro fran^eise in lengua zeneise da Steva De-Francbi,
Genova 1830 (t. ii e iv; citate per «1830');- 3.° Dizionario genovese-Vitaliano
compilato dal canonico Giuseppe Olivieri, Genova 1851 QOV). Le voci che
Del posto cho spetta al genovese ecc. 113
Fenomeni attinenti alle vocali toniche.
1. A.
Piemontese. Il fenomeno franco-ladino dell' ^ da rf, si conti-
nua ne\V'é = 'àre degli infiniti; peres.: porte, canté, ama, ste
(cfr. Ardi. I 297 n., 251). Esemplari sporadici sono cher carro,
érbu albero (allato ad àrbra albera, pioppo), chérpu carpine,
che ci portano a\Và in posizione, e in ispecie dinanzi a r. An-
cora dinanzi a r: gher, largo!, fate largo, bada! (cfr. prò v. pa-
rar ecc.); ma amer, amaro, può essere esempio infido, e rivenire
ad *amar'io; cfr. n. 2. E poi ei da ài od ai, per mero fenomeno
di assimilazione (cfr. ib.), in cuéic (mil. cuàj- cuéj-) qualche,
meistr (gen. meistru\lLlY , 39: maistro, il maestrale), ma[e]stro.
— Genovese. Schietto Va pur nell* infinito; p. e.: gagà ghiac-
ciare, porta, sta ecc. Ma pur qui: erbu albero (XIV: arboro 27),
che è del resto un esempio molto diffuso, allato ad àrbua pioppo ^ ;
e par sicura una traccia dì à=^d nella formola àn, quasi un' eco
del fenomeno emiliano (cfr. Arch. I 293-96) : rcena (piem. rana)
rana. Sarà ice da ià (ja) in imbricego imbricega (piem. anbriac\
romagn. imbarieg) ubriaco -aca *. In gucei (1830: guceri) guari,
e cucezi s-cucezi quasi (piem. cuasi scuasi), si può vedere in-
flusso dell' -i^ E r^ di pùce (pucere) padre, mt^ce {mucere)
rappreseli tano il dialetto di Monaco (ligure ancora), quello di Sarzana e il
nizzardo, provengono dai Saggi dello Zuccagni-Orlandwi. Quanto al pie-
montese, mi sono ristretto alle fonti che seguono: 1.^ Gran dizionario pi4^
montese^italiano, compilato dal cav. Vittorio di Sant* Albino, Torino, 1859; •
2.** Vocab. piemont,-itaL di Michele Ponza, quinta edizione, Pinerolo, 1859;-
3.^ *L liber d'i Salm de David, tradoutén lingua piemounteisa^ [Londra], 1840.
Si dice ^piemontese', ma più cauto sarebbe dire ^toiinese', sebbene si citino
parecchie voci del contado.
' Di altro esempio ligure, ancora dinanzi a r e in po.sizione: indcernu in-
4|tnio, si tocca nel prossimo studio del dott. Lagomaggiore. Circa sterna starna
(extttma?), rimaniamo dubbj.
* Apremmo quindi un caso di assimilazione progressiva (cfr. Arch. 1 260 ecc. ;
Ve della voce romagnola, air incontro, ò normal succedaneo deìVd);- e per
la regressiva citerò ancora pleitu^ lite, voce del contado, che veramente de-
¥* essere un latinismo curialesco, ma pur giova {pldito, Arch. I 81 n.).
■ Per guceri non penserei all'ai del prov. gaire\ ma gazzcea, gazzarra, d
pazaira XIV, 33 {gazarra 42). Mi sono anche notato con Y -i: centi pianti,
sost. e partic. (infìa.: édnze); ma non me ne ò occorso il singolare. Cfr., più
innanzi, il còrso ecc.
Archivio glottol. ital., II. 8
114 Ascoli,
madre, deve giudicarsi = di, quando si cousiderino le antiche for-
me maire (XIV, 14 17 19 ecc., 01. xii), layro layri (XIV, 40 53)
ladro -i, o patre ecc. dell' od. dial. di Monaco; cfr. prov. maire,
paire, laire *. Il che maggiormente induce a cercare un air
etimologico od analogico nei seguenti esempj di [ù]cer, che ri-
cavo dalle stampe del 1830 ^: me^puceru mi pajo (*pairo *pario),
ti me pùceri tu mi pari, che me pucere mi paja, te pùceran
(1868: paan) pajono, allato a pd pare;x- vùceru (*vailo *valio)
valgo, vùceran valgono;- i quali esempj entran facilmente nel-
r analogia del numero che segue (cfr. pucera ib.). Ma si ag-
giunge da quelle stampe medesime: repuceru riparo (ripar-io?,
cfr. d'accord'io d'accordo), se repucere si ripari*.
' Quanto airu, che à in pucere mucere e nelle altre forme da addursi in
questo numero e nel susseguente, sempre tra consonante labiale e Vos^ si
confronti per ora: muén mani (*màin[i]; ▼. num. 14, II), allato al sing. man,
' Cfr., per ora, pùceru (poaero) pajo, dalla ^Qittara Zeneise', ap. Fuchs 145.
^ qucp quale, che risalirebbe, secondo un saggio dell' Olivieri, al sec. XIV,
non sarà pur esso un esempio di ee = d, come noi sarebbe tee, tale, che pro-
babilmente gli sta allato (a me non occorse tee se non in funzione plurale);
ma si tratterà di 5'tia[r]e ta[r]e. Nelle poesie del sec. XIV: qt4ar23 3i 4252,
tar20 21 28 31 36 37 38 54 56. Entrerebbe quindi V ce di quce neW analogia
deW -ce di etee, vorentee, veritee ecc. (XIV: crwde /ttoe 17, bontae20^ engor-
dietae22^ voluntae22^ pietae23, la stae33; ecc.), cfr. Arch. I 432; o di quello
di frce frate fratello (XIV: /ra«46, pi. /rat 2223; frai nel dial. di Monaco),
grce crate- (graticcio), delle sec. pi. di prima conjugaaione: mirce, intrce ecc.
(XIV: dai-ce47, ^Mardat-t?c 59 60; pregai Oliv. p. xii), e dei plurali di -ato
-ata: incantce^ serrce^ bastonee ecc. (XIV: aproximai 12, pagai 13, le lor
pecae 13, serrae 51). E affatto analogo a quee, quale, sarebbe in ispecie: ani-
fnce\ che trovo nell* esclamazione (che animce / ) , se però ò di singolare (cfr.
anima-d-e, interjezione , ap. Martini 63, che sarà del sanremese). Esempio
illusorio di ce = d ò ancora eegua acqua, cfr. Arch. I 300 n. ecc. (aigua tut-^
torà fra i villici, Gelesia, De IV antichissimo idioma de' Liguri, p. 107; aiffa
a Monaco); e quasi superfluo avvertire che ccetu piato é *cdito Arch. I 81 n.,
o ricordar qui la genesi degli -ce tu che avremo al n. 24. Di ce d a di surto
per ettlissi di consonante, sono esempj: vcegu valico (ordigno di legno ecc.),
cega aliga alga, ceega clavica, nceghe natiche, sarvcegu salvatico. Così
il Fernow (l. e, p. 363) affermando imprudentemente che Va spesso si con-
verta in a genovese, ebbe la sfortuna di citare esempj tutti erronei (pietce
caritce, cegua; fceto retrceto^ cfr. n. 24), e aggiunse peggiorando (ib. 366, 442):
foe, che traduce ^fa', laddove ò *fate'; nà più felice d stato il Fuchs (o. c,
p. 145, 147), che ricalcando le orme del Fernow, ci aggiunge del proprio:
Del posto che spetta al genovese ecc. 115
2. -ARIA, -ARIO.
Avviene l'attrazione dell'i in entrambi i dialetti.- Piemon-
tese. L'intiera evoluzione è rappresentata dalle varianti dira
eira era, aja. E ancora s'abbiano intanto: caudéra caldaja,
fevré, fornazé;- cèir *clar-io, réir *rar-io, che sono alla fase
di eira \ Genovese: gentu pùcera (*paira, v. n. 1 e Arch. I
275) cento paja; cea (aira a0[r]a) aja, gcea ghiaja, sumosa fiu-
maja; cam *clar-io, rceu *rar-io (XIV: rairi 53);- suAa fioraja.
Ma la normal risoluzione genovese di -ario, è *'àro *'àr -à
(cfr. Arch. I 484): caegà *carigàr caligarius, fuma, marma,
càdeà calderajo, campa, cravà caprajo, dia ogliaro, ferra;--
sud solajo, sta, paggà pagliajo (nel piemont., sempre con la
risoluzione -é [*'ér *'dir]: fumé, canpé, cravé, fre;- sulé, ste,
'pajé).
3. ALT, OLT ecc.
Piemont.: àut, dutr, cdud, fdus, cdug calcio, cutre coltro,
duQ. Genov.: àtru, cddu, sàtu, cdguin calzoni, sòdu, pùsu
polso» ecc. Ma la vocal labiale di "ault ecc. ancora appare ben
di frequente nelle poesie del sec. XIV; e allato ad atro 18 23 37,
atri 37 47 {sodi 33, doze 27, vosse volle 41; ascotar 59), vi ab-
biamo auto 37, exauta 33, aotol62327 48, aotura2ò, aotri 37
42, aotre 16, outre (ancora per 'altre') 41 *. - Cfr. n. 17.
4. E lunga.
I due dialetti convengeno pienamente nel continuarvisi l' e ro-
mana per ei, a modo franco-ladino, escluse, per entrambi, le for-
molo en, em.- Piemont.: avéi, duvei, savei, vorei; vei vero,
MeirOf teila, seja *sei[d]a setola; ma velen, leti leno, pien piena,
vena, cadej%a\ rem, Genov.: avei, tazei, ecc.; da-vei -vero, seia
chiaro (ór[r]t4, t. il testo), e vede in foe una variante dell' infinito fd. Ma
gio^a che in quest'occasione si lodi la diligenza del Fernow, che sin da allora
(I. 0^281) aveva avvertito il fenomeno aretino e cortonese di d=: d; cfr.^rch. I
298, e il prossimo Indice bibliografe al num. 10.
* Cfr. Arch. I 275. - Il Ponza scrive ciair (cdir) rair ; e siamo allora alla
fjMe di atra.- A formola interna e atona: pairòl pajaolo.
' Il Martini (1. e. 86) dà per forme liguri: auto, sautOy mauta^ sondo, fauso,
e saranQO sanremesi. Così raggiungiamo Vautru di Monaco; e alle estreme
propaggini ligustiche verso orieute, il sarzanese ci dà: autru^ cauzàn^ ecc.
1 16 Ascoli,
sera, teia tela, veia vela, ceive pieve (plebem); ma sen se[r]en,
chena (n. 21), remmu, ecc. \- Ed ei danno analogamente en-
trambi i dialetti per Ve del romano éìis. Cosi, piemont.: meis^
peis, desteis teisa^ preis (caglio) preisa; genov.: meisua madia
(mensula), meizi, peiza egli pesa, speize, inteizuy sorpreizi, ecc.
5. E breve.
Entrambi i dialetti sono affatto alieni dal dittongo dell' e (ie).
Piemont.: a-mel miele, a-fel fiele, fen, r^n, pera pietra, pe,
deg, meje (j che rimedia Fiato: me-e me[d]e) mietere; e l'u-
nico esempio che io ne sappia addurre per il dittongo, è a for-
mola iniziale: y^r. - Genov.: a-mé miele, arfé fiele, pe, ven^
v-ei (1830: da eri) jeri, avantei *.
6. E di posizione.
Intatta in entrambi i dialetti; né fa eccezione il caso consi-
derato sotto il num. 4 ®.
* Nel riflesso di veneno-^ Ve ridotta ad i nel geoov. ventn, come in più
altri dialetti romanzi. E Vei normale non si vede più in due voci genovesi
che perdettero il -*- susseguente all'è: ree rete (piem. rct), soea setola (piena.
seja) e seta.
* Analogamente, dall' -^: piem. cel^ genov. gè. Ma v'ebbe il dittongo nel
riflesso di q[ul8erere (chiedere), attestato dallo e (ctf = *chie) d'entrambi i dia-
letti: piem. ricéde o arcéde richiedere, genov. se reccédan richiedonsi.
' Si ha, per questo capo, una netta separazione fra ligure e provenzale,
confrontando le seguenti voci del dial. di Monaco: lettu^ mesa^ veja^ con le
corrispondenti nizzarde: lieg, miego (miegoì) mezza, viello vecchia. Al qual
proposito giova notare, che il Dìez (V 153) non pone il provenzale fra gli
idiomi in cui occorra il dittongo dell' e in posizione. Ma veramente occoiTe
anche neil' antico provenzale, e piuttosto converrà studiare a ^uali formolo 6i
limiti. Cosi vi abbiamo: miech mieg mezzo, vielh-s vecchio, che sono esempj
in cui la sillaba susseguente ebbe in fase anteriore un J (medjo-, vecljo-; cfr.
prov. mielhs *meljus, e il frane, nièce ♦neptja). Anche Tant. prov. lieg^z iett^
ha il dittongo, e pur qui la fase anteriore ha per noi \o j (/^'{/o Arch. I 83).
Di certo, quest'te prov. potò parere al Maestro quasi un'arbitraria variante
di te (cfr. P 396); ma ulteriori studj debbono mostrare, che ciscuna delle
due forme ha la sua legittima ragion d'essere. Intanto ò evidente per tutti,
che tra leit-s e lieg-z^ entrambi per *letto', non si tratta già di due diversi
dittonghi dell' ^; ma: hit- è lejt^ coWo jt^ct^ è, vale a dire, pari al tipo cisal-
pino /(^j^[i(] , senza dittongo dell' e; e lieg- ò pari invece al tipo cisalpino lec\u\
(crzjtj)^ con Ve dittongata. Analogamente: veill-s è ve\c]ijo col j attratto;
o viclh'S è ve[c]fjo con r<; dittongata (dittongo e attrazione nel francese vieti).
Del posto che spetta al genovese ecc. 117
7. I breve.
Sull'i lungo, di regola ben mantenuto', non accade fermarsi.
Air^ romano rispondono poi normalmente entrambi i dialetti,
pure a modo franco-ladino, per et, cosi come vedemmo che fac-
ciano aire (n. 4), e con l'analoga eccezione per la formola in, —
Piemont.: peil, neir, peif {apeig) pico-, beive, peiver, genei-
ver\ ma seri sinus, fener.-- Genov. : pei pilus, pei pirum, nei-
gru^ peize, bette, peivie, zeneivau, ceiga piega, ^eizau cece
(quasi: cicero); ma sen, pénee. Circa Vi di posiz. , posson
vedersi i num. 16 e 18.
8. lungo.
Pur qui concordano i due dialetti, rendendo essi quésto suono
romano con pronunzia ^cosl chiusa, che di molto si accosta, se
pur non raggiunge, Vu toscano*. Piemont.: sul solo e
sole, celùr, smlry lùr, glorius, vuc-, nevùd, cuv (*co-e) cote,
5et/a.- Genov.: sx\ sole, cu (*curù) colore, dù (*durù) dolore,
stiu sudore, vxize, ecc.
9. breve.
Quanto abbiam trovato alieni amendue i dialetti dal dittongo
dell' e (num. 5), e tanto abonda in entrambi quello dell' o, cioè
quella comune risoluzione di un uè di fase anteriore, che si
può dire anch'essa franco-ladina e suona ò. Vìeraoni.: sòl
suolo, vói, pòi può (puole), dòl duolo, linsòl fiòl fazòl, òli,
cor, mòir muore, sòr e sóror, fora (e fora), bò, nòv nove e
nuovo, move, pròva, ròsa, nòie nuocere, ammaliare, còie, fò,
lo, gòg, mòd\ stòria stuoja. Genov.: so sóror e solum, ti
tu, se pò, sòa suola, mòa mola, fazò, cuaiò *corairór [colajuolo]
' Circa il tipo ueha^ orina, del genovese, ginghena^ cinquina, del piemon-
cfr. Arch. I 300-1, 493, ecc.
' Per il piemontese, troveremmo nel Sant* Albino Vo sens" alcun segno par-
ticolare, che egli intende si abbia a pronunziare come Vu toscano (rti alFin-
cootro, nella sua trascrizione, suol valere n). Per il genovese, troveremo nel-
r Oli Vieri: u (egli ha, per Vu francese, Vu). Le stesse avvertenze valgono
uehe in ordine ai riflessi delKu e a quelli delFu in posizione (num. 12). Io
iotanto pongo u, in entrambi i dialetti, per questo suono che rasenta oppur
tocca Vu toscano, ma solo quando sia accentato (fuori d* accento, che in ispe-
tim vuol dire all'uscita àtona, scrivo u), aspettando una maggior precisione
da chi sia in caso di suggerirla.
1 18 Ascoli,
filtro ecc., óiu, co, mòre, cóiu corium, fóa fuori, bó, move, róia^
stómagu, sòzu suocero, cóze, fógu, logu, iògn, róa; stòa; d-óved
d-operare, cau-d-ovia caporoastro (d-opera; cfr. il piemontese al
num. 22 in n.) \
10. di posizione.
Entrambi i dialetti, e con particolare concordanza, mostrano
il dittongo (sempre risolto in 6) pure in date serie delPo in
posizione. Ma si tratta, quasi senza eccezione, di posizioni pa*
latine, romane o romanze, oppur di posizioni semplificate (cfr.
Arch. I 299-300, 454 ecc.). Piemont.: dòrm dorme, sort
sorte (3. p. sg.);- son somnium (e somnus); ot octo, ndit\ cassa
coxa; di *o[c1j òculo-; fija, l'òj (Q giìj) lolium, cfìje 'coljere (cfr.
Arch. I 94), a m'òj *molljo (cfr. ib. 251 n.). Genov.: sdnnu\
otu, nòtte; cuSQy tijsjegu; poizu poggio; oggu *o[c]lju, obbju
*opljo opulus; fugga, loggu, ac-cogge cogliere, mdgga acquitriDO,
dogge doglie; z'ógga *jovja giovedì.
11. U lungo.
Si continua in entrambi i dialetti V fi franco-ladino. Pie-
mont.: dUr, mixr, mùl, luna, piilma, ctH, nft, ecc.- Genov.:
cu più, mfi mulo, diìu, fneùu maturo, cddùa caldura» nùvea
nuvola, ùga uva, zaziin jejunium, fùmme fumo, lùmme, séùma.
mùttu muto, imbùu imbuto, spùu lo sputo, nùu nudo, derùu
dirupo. Per 'lutra' (cfr. Diez V 166): lùdria entrambi i dialetti.
12. U breve e U di posizione.
Qui pure concordi i due dialetti, in normale analogia del num. 8,
e va qui richiamata la nota che è apposta a quel numero. Cito
per Tu: piem. gùvu juvenis, crtif, nùg, d-sura, rf-ut?, cùv, guv
giogo;- gen. zùvenu, crùze, nùze, zùvu. Per Vu di posiz.*:
piem. ùmbra, ùnga, ùnze, ùnda, mùnd, sùlc^ buca, mtute;
gen. ùmbra, ùn^a, v-ùnze ùnze, bùcca, ecc.
' L* ò si ridaca ad e nel dial. di Monaco (cfr. Arch. I 262, 350, 385-6; e
pur fra le varieU pedemootano devo occorrere questa riduzione): oti tuoi,
fiéj^ linséj, fera^ nevu nevi neve^ cheig€ {ch4*Ie), en lega (legu?) inTece«
gegu^ crévtru cuoprflo;- vea Tuota;- 6ete ^plo^ere cfr. n. 18;- ettu n. 10.
' Caduta la breve serie che dà normalmente Y ù del num. 1 1 (cfr. Arch. I
34-37 ecc.); quindi, p. e., piem. gùst giusto, gen. fùstu fusto.
Del posto che spetta al genovese ecc. 1 19
13. AU.
Pieni.: or^ tory goj gaudio.- Genov.: òu, góve (gó-e) •godere,
lódua alaudula.
Fenomeni attenenti alle vocali atone.
14.- I. Qui si son determiDate delle dififerenze, che bastavano di
per so sole, comunque lievi nelle origini, a diversificare gran-
demente Tun dialetto dall* altro. Il piemontese, cioè, il quale
di gran lunga non arriva a quella facilità ài espungere la vo-
cal di penultima nello sdrucciolo, che è caratteristica del gruppo
frmnco-ladino S supera air incontro questo gruppo nella facilità
' Per Tettlìssi piemontese della vocal dì penultima^ nello sdrucciolo, sì po-
trebbero facilmente citare: Undna lendine, iodfia allodola, e siroiglianti; e
co»l per la ettlissi della seconda protonica, che d fenomeno analogo, canbrin
camerÌDO, e simili, del dialetto stesso. Ma per ben rappresentarsi la diversità
che passa, in ordine alla frequenza del fenomeno, tra il franco-ladino dall'una
parta, e il piemontese, secondo la sua odierna determinazione, daiPaltro, bsista
considerar la serie piemontese: camera^ tórje^ finse ^ tìnie, géner^ getter ^
mllato alla serie francese: chambre, tordre (*torére tor[S]dre; cfr. *esre
efsjtre^ ecc.), feindre (fenjre fejnre), oindre (onjre ojnre), cendre^ gendre."
Il genovese, alla sua Tolta, lungi dell'espungere la vocal di penultima nello
admeeiolo, tende piuttosto ad allargarla: dàtta[r]u dattero, Senéivau nnm. 7,
fétSau ib.- Importante d il fenomeno piemontese dbiru atono finale che ri-
•poode ad -fn di fase anteriore. Così: guvu-^gùten (gen. sucenu) giovane;
aneHzu-^ìncii:en incudine (gen. anchiz3e\ circa lo i, v. Arch. I 371 n., e
cfr. it testuggine •= testud[j] ine) \ pentu zz *petfn (gen. pétene; circa il n in-
della voce piemontese, cfr. pentné pettinare); cardu - ^càrden, caprug-
i; asuzz^dsen (gen. ale) asino; termu = *termen (gen. terme) pietra di
confiae, allato a (ermtn, termine in generale; cherpu zz ^cdrpen (gen. carpe)
earpìnus; frassuzz^frdssen*. Il genovese, per quanto si possa comparare,
* Il Flechia, Arch. Il 36 n., mi presta altri due esempj : Setu zz *S(^ten
Septimo- n. 1., e St^u zz * Steven Stefano. Ma la serie degli et<emplari di
-tf étooo piem. =-u/ (-9/) di fase anteriore (p. e. Uébu ebulo-) va natu-
ralmente tenuta distinta, siccome quella in cui Vu ha una diretta ragione
etimologica. Spettano a questa serie anche nespu e nivu (cfr. it nespolo,
nnvolo), e di certo pur sfrpu (quasi: 'sérpolo') allato a Sfrpil (cfr. it
serpillo e serpollo). Di garófu pud restar dubbio se abbia a darglisi, per
fase anteriore, *garóf^ ^garófgl^ che entrambi sono tipi largamente
rappresentati ne* dialetti italiani ; ma il genov. ganòfanu parlerebbe per
^ord/fti.
120 AbcuIì,
di espungere vocal protonica (di solito un* 6? primaria o secon-
daria), piegando cosi alle condizioni emiliane; e inoltre, se non
supera il gruppo franco-ladino, di certo non gli cede nella ten«-
denza ad espungere Vo [u] q Ve àtoni all'uscita. Ma il geno-
vese, alla sua volta, nò ha la tendenza alPettlissi di vocal
protonica, né di gran lunga s* inoltra quanto fa il piemontese
neir espungere Vo [u] e pur Ve àtono ali* uscita. Qui basti una
breve serie di esempj per ciascun lato di questa doppia diffe-
renza. Protonica: piem. tle telajo, gen. tea (*teràr); piem. dìie
danajo, gen. dina; piem. fené fne *fenare, segare il fieno, cfr.
gen. fenéa ^fenaria, fenile; piem. ini vni, gen. teni veni; piem.
fnestra, gen. fenestra; piem. fenoi fnoi, finocchio, gen. fcnug*
gu\ piem. vzitiy gen. vczi'n;- piem. t?ritó (prima àtona), gen.
veritcc *.- L'^ e To [m] àtoni all'uscita: piem. vùc crù{\
réir num. 2, oj num. 10, gog^ ecc ; gen. vuze crùze, rceu (raeru),
òggii, iógUy ecc. ecc.
II. Va qui ancora brevemente ricordato il fenomeno genovese
cioè io quuiito abbia perduto la vocal finale e quÌDdi il n, non sì cooforina^
come 8*d veduto (aie ecc.), alla desinenza piemontese. E questa come ai di-
chiara? Sarà, io credo, il caso di un* atona indistinta, la quale, con uu feno*
meno che si riproduce in più favelle, si muta in labiale nell* assorbir la nasale
che le succede. Ad ogni modo, poiché s* ha indubbiamente -u = -^n, parrebbe
possibile, per entro alla periferia del piemontese, una riduzione dei tipi lom-
bardi di tei*za plurale, come cdmen légen ecc., ai tipi normali del piemonC:
tvii}ii4, rtndu rendono, polu possono (quasi : puol-ono), radunu radunano, oMi
abbiano. Senoochò, vi ha, per questo caso particolare, una doppia difficoltà.
La prima ò, che il genovese, il quale negli altri casi vedemmo alieno dall^M
- 'cn del piemont., ha anch*egli T-u nella terza plurale, poiché allato al
tipo: pt'jran possono, camman chiamano, ecc., si ha in Genova anche il tifM)
meglio popolare: cantu cantano, móu muojono (Lagomaggiore). La seconda
d, che non si posson qui dimenticare le forme provenzali, in ispecie le
derne, p. e. aòaundon de pa nella Parabola di Saint-Girons, Ariòge,
dgeoun mandjacon in quella dei dintorni di Puv, Alta-Loira, $*ass€idouloH^ li
(satollano, in quella di Agde, Il^rault, viangeavou in quella di Montpellier (Jf/-
langet sur Us langues et patois ecc. ^ Parigi 1831, p 506,514,510,51^), le
cui ragioni pajon convenire grandemente con lo pedemontane e le ligoatiche,
e non sono di mero ordine fonetico.
' Quando si tratti della formola iniziale: liq.^voc^ PetUissi porta seco
assai facilmente una prostesi (v. per es. Arch. I 221); e così nel piemontese
si ha il tipo frequentissimo: arpiùmé (r[e]pium. *rpium.), argina regina, il
quale riesce a divergere per doppio grado dal genovese (re-cùmmd ecc.).
Del posto che spetta al genovese ecc. 121
deir attrazione deir-t\ in ispecie del plurale, per la qual si otten-
gono i tipi cdderùin (sg. cdderùn calderone), scrivén (*scrivàin;
sg. scrivati), Toschen Toscani, ecc.; fenomeno che ha i suoi ana-
loghi in molte varietà pedemontane (canav. camp, pi. chemp;
tant, pi. tenti tene; ecc.), e va anzi per tutta T Alta Italia, come
già altrove ebbi ad accennare (Àrch. I 310, cfr. 544 a).
Fenobieni attenenti alle consonanti.
15. J.
Qui è, fra piemontese e genovese, Io stesso screzio che tra mi-
lanese e veneziano. Il primo ha, quasi senza eccezione (poiché
Siam di solito a formola iniziale, cfr. n. 23), g, il secondo co-
stantemente i. Piem.: ga, git getto, rampollo, gOg, góbia
(e goces; jovia, Jovis dies), gtiv jugum, gxcvu juvenis, gùvé,
gunCf gùn^e (v. num. 23), gudeg, giìré, gméiver; gUn jejunio-,
^'wil?» P^9 ® P^9 (P^^)* Genov.: za, zitta gettare, zógu,
•ogga, itit^u, zùvenu, iu({ Juvare, zùncu, zùnta, zicd jurare,
ienéivau; zazùn, pézu.
16. J implicato (cfr. n. 18).
Pur qaì divergono i due dialetti; e la divergenza si determina
per ciò» che il piemontese ò alieno da quella tendenza a ingros-
sare il j implicato, per la quale se ne ottiene una palatina
esplosiva, che alla sua volta reagisce assimilativamente sulla
consonante cui sussegue. Ora una rapida rassegna, delle sin-
gole formolo \ e sieno continuamente ricordate le normali ana-
logie del n. 18. LJ: piem. pàja, mej melius e milium, consej,
fi-ol fia, famia, maravia, smia Vimiliat, fója, coje num. 10;-
geno Y. ipàgga, méggu meglio, miggu milium, figgu figga, con--
we^ffu^ ecc. MJ : piem. vendùmia; genov. vendéna, VJ BJ :
piem.: gòhia n. 15, gàbia, ràbia, àbie habeas, canbié,- genov.
iS^a n. 15, gagga, ragga, àggce, cangd, cungu piombo (plumb-
•jo)» carùggu vico (quadru-vio), ga:a bieta (gcerava = piem. Wa-
* Qui si prescinde dagli eseinpj di fusione antica e perciò di base romana
ut, qoali sarebbero mex (medjo-) piem., o nega (neptja) neptis, genov. -
le distinzioni fra gli esiti antichi di simili formole, e gli ositi seriori,
si pod Tederà Arch. I 509 segg.
122 AscoU,
rava, barbabietola), ecc. PJ: gen. li'tgga (*lftbia; piem. lùpia\
lupia. Cfr. n. 20 (SJ).
17. L. R.
È caratteristico del genovese il continuo ridursi di -l- sl r; il
qual r tuttora si mantiene dinanzi ad altra consonante ^ ma
tra vocali, o venuto all'uscita, si dilegua, cosi come avviene
del r primario. Esempj per la formola l^cons,: pùrpa polpa»
pìirpti polpo, cùrmu colmo (del tetto), surcu, fcerpa felpa, arhn
albóre, marca, merga = mèliga '. Esempj per la formola l tra
voc.\ vu[r]eiva voleva, du[r]ù' n. 8, ma[r]ottu* malato, can^
deilrja, fo[r]a fola favola (le quali forme tutte hanno ancora il
r nelle stampe del 1830)^; ecc. Finalmente, a formola finale:
sA sale, md male (XIV: mar; cfr. ib. sor suole, dexeiver dice-
vole, basteiver), ecc. L'artic. (e pron.) che oggi suona: u, a, i,
e, suonava nelle generazioni andate: ru, ra, ri, re. Ancora si
vegga il num. 25. Del dileguo di r primario, superfluo ag-
giungere nuovi esempj.
18. L implicato.
Nelle formolo che sotto questo numero son considerate (cl pl ecc.
delle basi romane), abbiamo T antica intrusione di un j (p. e.
spekljo, onde speklljjo o spe[h]ljo, che sono i due esiti italiani:
specchio speglio); e circa gli effetti di questo j si determina
naturalmente, fra i due dialetti, quella stessa divergenza che
a suo luogo avvertimmo circa il j implicato che ha ragione eti-
mologica (num. 16). CL. Concordano i due dialetti neiravere
' Appena occorre aTreKire, che le forroole alt ecc. hanno uno svolgimaoto
lor proprio (nnm. 3). A formola àtona abbiam tottaTolta, con / in r, arie
altare (piem. autor); e assorda zi assaldà^ assoda (che avrà Vo latino, tatti
per 'saldare'; por nel piem.: salde) ci porterà anche alla formola tonica; cfr*
il piem. 9o/(^, e anche il gen. sarsa salsa, tocì cai manca la vera improota
indigena.
' Avviene quest* alterasione pur nel piem. (sur fu ^ sartia)^ ma con molta
sobrietà.
' Riviene a ^maUntu (cfr. num. 24) = prov. malapte malaut; v. Dick lets.
8. malato.
' V genovese negli articoli ra rs ri ro [vedi il testo più innanzi], ad in
'meuo alle parole quando non è accompagnata da altra consonante, si piV
^nonzia così dolcemente da sentirsi appena (Zuccaoni-Orlandixci).'
Del poeto che spetta al genoTese ecc. 123
a formola iniziale Tesilo di hlljj, e a forinola interna» fra vocali,
di solito quello di [k]lj; ma di questo Ij dà poi ciascuno di essi
quella diversa continuazione che deve*. Formola iniziale: piem.
éaméj cav^ cèrte clerico-, ciuvenda *clu[d]enda, siepe;- gen. ca-
md, cave, c^gru cle[r]ico-, coenda; ecc. Formola mediana (riflessi
coincidenti con quelli di LJ, n. 16), dove notoriamente conflui-
scono CL e tl: piem. urtja auric[u]la, sia sit[u]la *siclja, ój ocljo-,
vej vecljo-, fnùj fenucljo-, genùj, ecc.;- gen. oegga, segga, oggu,
veggUy fenùggu, zenùggu; ecc. GL. Formola iniziale: piem.
^and, gagà; genoY. ganda, gagà, gcea glarea, gt glire-. Formola
interna (v. Arch. 1 58 e 550 6) : piem. vie *vi[g]ljare; cfr. genov.
vegga veglia, vegghia, nel contado: véia. PL BL (riflessi
coincidenti con quelli di PJ BJ, n. 16). Formola iniziale: piem.
pian, pien, pieghe, piòva, piuma, ecc.; bianc;- genov.: can *,
* Qaindi -j- il piemontese, e -^- {-éÙ') i^ genovese, come per LJ al n. 16.
Contro quest* affermazione che lo g genovese, di oregga (auricla) per esem-
pio^ continui piuttosto un Ij che non uno kj di fase anteriore, si potrebbe
accampar F ipotesi che uno -hj^ tra vocali riducendosi non difficilmente a
-^'-, e questa formola avendo per suo normal continuatore uno g genovese,
ne venga che il tipo gen. oregga possa corrispondere al tipo italiano orec"
chia^ anzichd al franco-provenzale o pedemontano *ori\l\ja. Quest'ipotesi si
potrebbe altresì rinfiancare con T osservazione che anche i paralleli milanesi
offirono tra vocali uno g, & g nel milanese non risalga di certo a Ij ma vi
debba risalire a ^gj^^^-hj' (Arch. I 410 n.). Senonchd, circa lo g dei paralleli
genovesi, che per sé medesimo può ugualmente rispondere a {;' e a kj di fase
intoìore, va notato, che prescindendo dall'analogia piemontese, parla deci-
samente per Ij r aversi ancora lo schietto J in altre varietà liguri; p. e. sanre-
mese spejH^ ojuy ureja^ zenuju (Mastini 90, e analogamente meju pijdu ib. 41
49, ma g^gj" in ^an(2a ecc.), e così a Monaco: ej occhio, cùjai cochlearia,
Mfu vejcu Un esemplare classico in cui veramente si continua, pur nel ligure,
U-A;- di fase anteriore, ci offre ci genov. macca (mil. magga) macchia, e
«o&ipur nel sanremese, allato a ureja ecc.; magga all'incontro, o rispetti-
vamente maja^ essendo la risposta ligure dell'altro continuatore di 'mac|ujla',
^ dell'it. maglia. Anche nel parallelo piemontese d e: maca macchia, allato
^^a maglia, e del resto l'odierno piem. ha pure spec specchio, e altii
nmili. Occorre poi normalmente e, così nel piem. come nel genov., quando la
Romola sia preceduta da altra consonante (cfr. la differenza fra i tipi fran-
*«i cotwercle ed oeil)] così: piem. torc, gerc, cuverc^ gen. torcu, gceréu, cu-
vo^. Analogamente per QL: piem. e gen. unga,
' Por qui la vocal labiale in cuna pialla; cfr. Arch. 1 295 n., dove anche
^ d'aggiungere che il gallurese ptd/o, accetta, è comune pure al piemontese.
121 Ascoli,
caga piaga, ct'mie, cassa piazza, cathi piatto, spianato, cegd
plicare, ceive pieve (plebs), cove piovere, ciingu n. 16, ed plus,
cùmma; (e qui, o al num. IO, pur cola artiglio; cfr. piem. piote,
piota, zampa) *;- gancu bianco. Formola interna: piem. senpi^
dopi;- nebia^ stabi stabbio, subia subi subbio;- genov. 5^n-
cu, dtiggii*;^ ^gga^ sfàggu^ suggu. FL. Piem. fià fiato,
/?wm, ecc.;- genov., con la fricativa che è analoga alle esplo-
sive delle serie precedenti: sòu flatus ^ insà inflare, sacca fiac-
care, sancii fianco, su fiore, suma^a fiumaja; ecc.
' In due importanti esempj, il genovese serba la labiale: pidle placet, ecc^
piti plenus, tmpi. Ma non perciò manca alla Liguria la solita evoluzione pura
in questi esemplari, e per ora citerò dal dialetto di Monaco: jMcs empire
e riempi!, come in quello dei coloni genovesi di Mona ed EscragnoUes* l'en-
étr empirsi (v. i citati Mélanges ecc., a p. 524).
* Qui la media porta al quesito: dub[l]jo o du[p]lJo (cfr. it. sci^Ijo, scoplo)?
E analogamente nel caso di slugga stoppia (cfr. Arch. I 34). Ma il sanremese
dìiggu (non duju) decide per dub\l]jo*
' óu da Au di fase ligure anteriore (parziale assimilaz'ono dellVi air ti che
sussegue), è fenomeno costante; quindi: próu prato, hrùzóu bruciato, man"
dóu mandato, ecc. La fase delPwiti dura a S. Remo e Monaco: gùràu^ truvdu^
livàu^ ecc. Nella vera. gen. della 'Gerusalemme', abbiamo, quasi figura inter-
media: -aou (cankum^ liberaou)» Per la trasformazione fonetica di wilo in -<$m^
succede poi questo di assai singolare, che nel genovese il termine pasaÌTO si
possa confondere coli* attivo. Data cioò la base -atóre (p, e, piscatóre-)^ code
'^tóro per la tendenza generale ad allargare sempre più i confini delK-o ma*
8Colino(cfr. p. e., dal genovese stesso: pesu pesce, vealu verace, abòóu abate),
e dati insieme i due normali dilegui del -f- e del -r- quando si troTin fra
vocali (num. 17 e 25), noi saremmo p. e. a un genov. pescaóìé^ onde Todisno
péscóu^ pescatore; e pescòu sarebbe insieme il normal rifiesso genovese éi
'pescato'. Cosi seróu è passivo in quanto dice 'chiuso' (serrato\ e attivo in
quanto dice 'segatore' (serratore-, lat serra ecc.), e estimóu dice insieme ^a|^
prezzato' (stimato) e 'apprezzatore' (stimatore). Cfr. ancora, per -óu = -etòre
•itòre: peióu pesatore, cuncóu conciatore, cùsóu sarto (cucitore), tenjóu tm»
gitore, tìirnióu ftiriK^u tornitore, tiou (tirante, termine marinaresco) 'Uni*
tore\ ecc.*. E nelK-dti genov. può ancora confiuire una terza desinenza, che
d T-orto nella sua semplificazione -oro (cfr. -aro = -arto, n. 2; e nell* italiano:
martóro ecc.), onde il genovese ha normalmente -ófrju» Anzi, per il dj^egoo
* Più semplice sarebbe, dal Iato fonetico, il ricorrere alla figura
minati vale: 'à[t]ofr]^ ondo poi -óu da -du come nel riflesso di -4(o. Ma
comunque non manchi nei dialetti dell'Alta Italia questo tipo nominati*
vale, di che riparlo altrove, mi parrebbe tuttavolta un soverchio ardi*
mento il ricorrerci per tutta questa serie genovese.
Del polito che spetta al genovese ecc. 125
19. V.
Nel genovese si dilegua con particolar facilità: isua (piem. vis^
sola) bisciola *, zud {fìem. guvé) giovare, ucea ovaja (piem.
uvera), cud covare {v secondario; piem. cui;^), iardiu, stia,
ienzia, ccega chiavica. Assai più parco il piemont.: pùver puer
polvere, ciiverc cuerc, Qiula cipolla (v secondario), tutti esempj
di u = uv. Tutto Iv (rv) di fase anteriore, cioè prima il l (r) e
poi il V, tace nel genov. scezina selvaggina. Per l'apparente
sostituzione di ^ a un v che segue ad altra consonante (cfr.
Arch. I 61 ecc.), avremmo dal genov.: sgud s-volare (cfr. piem.
svolàss ecc.), ingh'ógge involgere (cfr. piem. inv'ója invoglio). Con
tendenza inversa, il piem. ci dà s-vass allato a guàss guado (cfr.
vaité avàit, guatare ecc.). Circa il g che si sviluppa nel geno-
vese tra vocali, Tuna delle quali w, come sarebbe, col dileguo
di V primario, in i'cga (piem. uva uà), o con quello di v secon-
dario, in sigud sibilare (allato a sid pur 'sibilare', sin sibilo;
cfr. Arch. I 104), si consideri insieme il g di bugàttu *btl[r]attu
buratto, o quello di piguggùsu pigoggi, pi[d]occhioso pi[djocchi.
20. S, CS; SCE, SCI.
Nel genovese è la tendenza di ridurre s- a s. Cosi: surM sor-
bire, sorba, surti, su su. E siccome avvien che s'incontri s
genovese anche per ss, o per 5 dopo altra consonante, delle
basi romane (p. e. scuasu squasso, morsu^)^ cosi è facile cre-
dere, che quante volte s'incontri s genov. per ss italiano (ad
es. risa rissa), d'altro non si tratti se non di g in i. Senonchè,
una più attenta disamina ci mostra, esser questa la regola: -55-
iwrmale del -t- fra vocali, tutto V-ator[i]o dell'antica base si riduce al solo
hJm; p. e. balla[t]ó[r]o^ odierno ballóu^ pianerottolo (ballatojo, ven. 6a/ac?dr),
oppure, più ancora rattratto, ma sempre in regola, co[l]a[l]ó[r]Oy odierno
^■^ (colatojo, ven. coladór). Ancora si abbiano, per -itorfijo: sbattóu mesta-
tolo (quasi: sbattitorio, smarrito Vi di -i7oro), strenSiou strettojo (stringi-
torio), ordióu orditojo. — Per To' di -orio^ che non abbia il riflesso da ó lungo,
▼•Tcsservaz. a p. 23. — Di qualche altra sorgente di -óu genovese, lo spazio
flou concede che qui si parli.
' *Nelle vicinanze di Genova, (il dialetto) rigotta, all' uso greco, la v ini-
liale; dicendo in, deca, per vino e vacca'. Oliv. (dallo Spotorno), viii.
' Qui si ricordi, oltre ingrasà e desgrosà. Io 5 di gosu e desgosà-se, gozzo,
dir liberamente ecc. (vuotare il gozzo), siccome quello che può avere impor-
tanza per l'etimologia della parola.
126 Ascoli,
genovese (ss- ital.) per ss latino; e -s- genovese {-ss- oppur -5-
ital.) per cs ps latino. Si confrontino cosi, dalFun canto: fosBO^
passa, missu missa, messùia (messoria) falce, ossu, russu^ bas^
sua bassura, fissùa, pàssim (passer), tussa (tussis), ecc.;- e
dair altro: asà (piem. assai, ^axalis, assile, sala ^assale), ^aiti,
tasu, tasd, taselli taxiUi, lasd, bùsu buxus, cosa, tòsjegu, teitt
risa, pasun palo (paxillus), oiùuia e sùnza axungia, lesta lixi*
via;- casa capsarius, [nisùn ne-ips'-uno- *]. Ora questo s^ nor-
mal risposta genovese di CS [PS] , che si dichiara per la normal
figura intermedia ssj (p. e. ^tessjer Uéiser teisser provenz., cfr.
Arch. 184-6 ecc.), si ricongiunge dalPun canto collo S'^ssj q
etimologico, com*è p. e. nel genov. pasti n passione, p^niu'n pen-
sione, e dair altro viene a determinare, per la sua costanza,
una somiglianza particolare fra il genovese e il franco-proven^
zaie {*busjo buis, ^casja caisse; ecc., cfr. Dikz P 261, 279), co-
munque la risoluzione dello ssj si fermi nel genovese a condi-
zione italiana (i). Ma queste osservazioni ci conducono ancora
a tentar di risolvere la difficoltà che presentano i riflessi geno-
vesi di SCE SCI, ne* quali forse sta una caratteristica compiu-
tamente analoga a quella che per CS PS testé riconoscemmo.
Par cioè afiatto singolare, che il genovese, il quale non risponde
che per fé a CE- *CE latino (ital. ce; cfr. n. 23), coincida air in-
contro coir italiano nel dar se si per SCE SCI {naset pesu pe-
sce, ecc.) '. Senonchè, pur qui si può risalire a ssj, onde s (cfr.
Arch. I 85-6 ecc.); e il genoY. pesu, p. e., potrebb' essere ^pessje^
cosi come il prov. peis {*péise). — Ancora mi resta di notare»
in ordine a ss (f) di fase anteriore, come il suo riflesso geno-
vese possa ridursi a 5, e sempre in analogia di quanto preceda^
pel fatto, quasi transitorio, delFi grammaticale che gli viene
a susseguire. Qui veramente bisognerebbe allargar 1* indagine e
disporre di più sicuri documenti che io non possa '; ma di certo
non è un mero capriccio se le mie fonti mi danno rusi rossi»
allato al sing. russu (01. 172), come danno erbasi erbacce.
' CoochiaJd poco nulla, anche per Ti che precede e Vù che saesegiM.
Pure nel romaneeco: nisuno^ Fernow III 294, a tacer dei dial. sardi ecc.
* Vedine più innanzi, nelle conclusioni.
' La mala sicurezza d^le trascrizioni non è forse più graTe e penosa in
alcun altro campo di ciò che sia nel ligure. I linguisti indigeni ripareranno»
Del posto che spetta al genovese ecc. 127
allato air-a55a = -acea ((J«*c?, v. n. 23), o dusi confetti (dolci),
allato a àuse {pan dùse pan dolce; 01. 164,318) \ Il qual
fenomeno ci avvia finalmente a z genovese per i di fase ante-
riore, in quanto provenga da s fra voc. (cfp. n. 23). Poiché, pa-
rallelo a russu rusi, trovo: méiie e méizi; e se è vero che i
da i occorra (al pari di s da s- ss) senz* alcun particolare in-
centivo (p. e. cazù ina[r]ozu)y risulterà sicuramente che anche
a formola interna la mutazione si compia in ispecie davanti ad
t: S'Cuaszi quasi, giuzia gelosia, dezideriu, mUzicante; azima
a8[i]ma, Icezina lesina. Cosi rasentiamo z^-sj-: geza ecclesia,
baiu basio-, ecc. Il piemontese non si difierenzia, circa le
basi che in questo numero si son raccolte, dal solito tipo del-
ritalia settentrionale; e quindi ci darà: sorbi, sorba',-- mors\-
sass, tass, buss bosso, lasse, frassu frassino;- pess, nasse;-
S'CtAOsi;- passiùn, cesa, ecc.
21. N.
Non mi è dato di addentrarmi in sottili particolari circa le
nasali del pedemontano e del ligure ' ; ma ò fenomeno cospicuo,
e comune ai due dialetti, il n faucale che occorre tra vocali
(cfr. Arch. IxLv). Cosi sono d'entrambi i vernacoli: lana, luna;
e come il piem. dice provana propaggine (provana) , cadena ,
urina, cuzina cucina, cosi il genov.: proana, chena catena da
fuoco, uena, cuzina. E proprietà comune può ancora mettersi,
malgrado il particolare efietto che la vocal piemontese ne ri-
sente, quel dileguarsi del n all'uscita atona, cioè nel propa-
rossitono antico, di cui avemmo parecchie prove al num. 14 in
nota; cosi piem. Stevu Stefano, térmu, calUzu n. 23, gen. Steva,
terme, caize.
* Ricorda qtiento fenomeno, fra tant* altro, la normal vicenda rumena, che
è per es. in gros grosso, allato al pi. grosi (^grósji), analoga a quella per
cui il macedovalaco fa di corbfu], corvo, il pi. cor gì (^córbji).
' Circa il ligure, possono intanto qui stare le seguenti osservazioni. Dice
r Olivieri (diz. vili): ^Nelle provincie d'Albenga e S. Remo, dà [il dialetto] un
anono nasale alia desinenza in ente; difetto [sic] proprio de* provenzali.' Il
Femow, alla sua volta (1. e. 362, cfr. Fuchs o. e. 143), trova in Genova il
suono ^nasale' del n, oltre che nel caso di cui tosto si parla qui sopra, anche
air Qficita, come in compassione razon^ e in voci come speranga^ panga^ se-
tnenga. Ma il Ceiosia, all'incontro (o. e. 91): *La n nasale, proprietà delle
lingue celtiche, ò ignota fra noi.'
128 Ascoli,
22. CA QV -CO; GA GV.
È caratteristico del piemontese il continuo dileguarsi del e di
-ICA (-iga): mastiéy desrneniié, sié; spia spigato, ^iàla cicala,
mania (manica), mélia, ecc.; e analogamente: laiiua lactuca;-
lié ligare. Questo fenomeno, che ha ragioni profonde, sta in cor-
relazione cSn quello di -aj -^J = -àc[o] (-ago), di cui restano abon-
danti prove nelle varietà pedemontane *;.e si combina con quello
di -t = -ICO: spi spico; mani manico, tóssi tossico {ctv.fó fuo-
co), ecc.*. La struttura fonetica del genovese, all'incontro,
non favorisce o non consente questi dilegui, e vuole: mastùgà,
sega, gigàa\ mànegu\ leituga; ligà, ecc. ^. Di QV (gv) perde
il piemont. la gutturale in èva (*ai[g]ua, genov. cegua, v. num. 1
in nota); e dal GUE di 'sangue' ebbe "gè, ondeje, come atte-
stano sanant sanù's (sanguinante, sanguinoso) ecc.; entrambi
fenomeni che ci riportano al franco-ladino. Un prezioso esempio
ligure (probabilmente sanremese) di GUE in *^e, e quindi nor-
malmente in ze, è sienze estinguere (Martini 87), cfr. Arch. 1 92.
Il genovese, del resto, perde facilmente, senza che s'alteri la gut-
turale, che è quanto dire da età non antica, il V di QV GV:
chindeg, asseghi, anghilla; ma: lengua (piem. lenga) *.
* laj lacus, -ai -é - -rfc nei nomi locali, v. Flechia, Di alcune forme de' n.
/oc, 12 n., Arch. II 4.
' Non essendo qui il luogo di digredire intorno a questi fenomeni, basti
ricordar brevemente, come il pedemontano venga a collegarsi, anche per que-
sta parte, col sistema franco-ladino (cfr. Arch. 1 264 e 553 b, 74, 77, 205, 207
144,523; ecc.), e come in ispecie la frequenza dell* -ta r= -ICA accenni al
fenomeno di Va = CA {*ga = GA), che certamente si protendea, o pur si pro-
tende, verso Torino, più che non faccia il Monte Civreri (Ciavrerio Ca-
prajo). Nel dial. della capitale non d agevole trovarne sicure traccie, anche
perchd i e* (e) delle voci accattate, in ispecie dal francese, si possono scam-
biare coi e (e) deir antico patrimonio indigeno. Ma il ^ di passe caddvra ma-
tricolarsi, subir gli esami per ottenere il diritto di esercitare un'arte, Spassar
capo d'opera' (cfr. il genov. cau-d-òvia al num. 9), sarà assai probabilmente
indigeno, e cosi quello di ceorin cacio caprino. Anche è notevole Ja^sa (Basso
Monferrato) per ^gazza*. E di più, altrove.
* Bene ha stria strega (onde striùn) pure il genovese; ma ò forma assai
diffusa per l'Alta Italia, e non punto caratteristica. Nò ammetteremo di leg-
gieri come pretto genovese: noria = nutrica , che sembra occorrere in una
poesia del sec. XIV (60).
* Dal piem. meritano ancora ricordo per CR (gr); aire (gen. agru\ maire
magro.
Del posto che spetta al genovese ecc. 129
23. CE CI, GÈ Gì.
CE, CI. Nel piemontese si oscilla ancora, a formola iniziale,
tra e e p; a formola interna, si trova g, dietro a consonante
(conservata o dileguata), e q ugualmente quando si tratti di CJ
(ci àtono -1- voc.) e della consonante che si riduce air uscita; ma
a formola che si mantenne fra vocali (ed è veramente, in fase
anteriore, g\ avremo i. Citiamo: cel, ceresa^ ceri, cengà e gengà
cinghiata, gener, géme S gei^ché, gità;^ caugina (le), duga (fó);-
gaga (ma: faca, e pur nel genovese, dov'è più singolare); brag,
a brage;- pag, vùg;- uzél, v[e]zin, luzi lucere, piazi piacere. -
Nel genovese, g costante anche a formola iniziale S e tra vo-
cali: z. Citiamo: gè cielo, geza *ce[r]esja, géme, gibbu, genee;--
gofa^ bragUf mUaga rovinaccio ('muracea'), làgu laccio (cfr.
Arch. I 90);- vinge, margu, furginCLy cdsina (lc\ càgA), dùse
(tó);- paze, veazu verace, peize pece, émbrezuy naiza narice,
reize radice, gimize, còze, s'òzu n. 9, vuze, crùze, lùzt. E lo i
mostra antica la metatesi in pruza pulce; freza felce ^ srazu
salcio. GÈ, Gì. Nel piemontese, g costante a formola ini-
ziale (cfr. n. 15) ; ma a formola interna, massime dietro a con-
sonante, prevale i *. Citiamo: gelé gelare, gener, gem gemito,
geni] gir \^ léze leggere; finge e finze, pùnge e 'pùnze, ùnze;
itrenie; ecc.- Nel genovese, i costante, anche a formola
iniziale. Citiamo: zeu gelo, zeneu, zemi, zermuggu, zenit a,
^e, astrenze, canze piangere; e tra vocali: caize caliggine
(piem. calUzu, v. num. 21), reze (piem. rege).
24. CT.
L* esito franco-provenzale e ladino di questa formola importante.
* Si noti gernéj (gen. gerneggu^ còrso cernilliu) crivello, 'cerniculo', allato
alla forme che sono studiate nel I.** voi. dell* Archivio (545 d).
' Ma lo g genovese d più affilato, ciod men rimoto da z, che non lo g pie*
montese o Teneziaoo; e analoga avvertenza ò da fare circa lo i genovese
(quasi ''i), sia esso da s lat. fra voc, oppur da j o ^ (num. 15 o ^3)* Onde
si spiega r osservazione di Dante {De vulg. e/., xjhj: ^che se i Genovesi per
'dimenticanza perdessero lo jr, bisognerebbe loro, od esser totalmente muti,
'o troTare nuova favella, ecc.'
' féci^ felci, si manifesta cosi, per doppio titolo, non bene indigeno.
* i che dietro a consonante dee volgere a g {pinze pùnge; cfr. gunge a!
B. 15, ecc.), T. la n. 2*
Archivio gloUoI. ital., II. 9
130 Ascoli,
cioè jl, occorre in entrambi i dialetti, ma la serie genovese oggi
appare alquanto più scarsa che non sia la piemontese. Citiamo
dal piemontese, per la risoluzione in jt: lAit laitua, fàii (onde
gli analogici slàit andàity cfr. Arch. I 258), seiltir saitùr sec-
tore- (falciatore, cfr. Arch. I 47), teit, streit, uHit, c'òit, sU*it
exsucto-;- per la mera assimilazione: pet, lei, òf, frUt \ Ora dal
genovese, per ìa risoluzione in jt: Icete (Màite), leitùga; fcetu
(stcrtu ecc.), trceta tratta, cuntreetu; teitxi, astreitu;^ per la
mera assimilazione: ottiit nòtte, ecc. Ma se risaliamo al geno-
vese del secolo XIV, la serie dello jt si fa ben più copiosa; a
oltre (aito 12 {daito ib., stolto 14), traiti 18, contraito AQ, tosto
vi ritroviamo: coito cocto36, noito 39, ot'to 36, d-oitover* 42,
ottanta 41, pointo *punjto puncto- 17 '. Accanto alla fase dello
jt si ritroverà nel ligure anche l'ulteriore risoluzione di questa
formola, vale a dire e (cfr. p. e. il lomb. fac, da fait *{&ìì} di fase
anteriore, Arch. 183, e in ispecie il doppio tipo provenz. fàit a
fac). Intanto noto dairOlivieri: vecciUa (vectura) porto, porta*
tura *, e ricordo: diciu fàciu, che son nelle Parabole del mon-
ferrino occidentale (ap. Biondblli, 555-6).
25. T, D.
La frequenza con cui si dilegua nel piemontese il d primario e
secondario fra vocali, fenomeno caratteristico, del quale altrove
si son divisate le larghe attenenze (Arch. I 310 ecc.), continua
' Quando la formola sia preceduta da ó o da ù, e io itpccie dal aecondo,
6i pud taUolta dubitare che T^abbian solo le apparenze di mera asaimiUiiooe,
e che si tratti Teramente di it (jt) coIPt assorbito; quindi p. e. frùt da fruii
(cfr. sùit),
' Il Terso dice: doitoter a iota a seie di, e il Polidori annota: 'Ci «pia-
gano: durò la gioia sedici giorni.' Ma si deve invece intendere: 'D'ottobre,
a giovedì {sógga), al di sedici.' E siccome la vittoria, di cui si canta, fu
riportata 'die dominica intranto vii septembris', coA il conto ci toma sùbito»
poiché il 16 di ottobre (giorno in cui Tarmata rientrava nei porto dì Qenora)
era per conseguenza un giovedì- Circa ojtóoer, si confronti ancora il 1.^ toL
delPArch. 279, 3(».
' A S. Remo Vaj non ancora contratto (dajtu), e le preziose pronuncle:
cf ijVi* = dicto-, JcryfM = scripto- (Mart. 49), con TIPT che dà la stessa risul-
tanza deiriCT, cfr. in Lombardia: scrigio degli ant. testi, e oggi ancora:
• scricùra,
* Anche ha: diccia desdìccia, detta disdetta, in ispecie nel giuoco. Ma è
pur della Sardegna, insieme con diciu, sentenza, e altre propaggini; ed ivi
è ucuramente d* importazione spagnuola.
Del posto che spetta al genovese ecc. 131
non solo, ma si rende anche maggiore, nel genovese. Notiamo
intanto dal piemontese, per d primario: reig (e radig), miula,
féa pecora (feda, v. Arch.1546), pùj *pe[d]ulj pidocchio (v. n. 18),
meizina, rie (e ride), ni nido {nià nidiata), cùa, cric, nu; -
per d secondario (cioè d che proveniva da t) : mùr (e madur) ,
spa, stra, sia segato -ata, sej-a setola, mé-j-e mietere, cué *co-
tarlo (porta-cote; cfr. Arch. I 545), buél, pué -potare.- Ora dal
genovese; per d primario: reize, crenga credenza, maula mi-
dolla, mégu, rie, niu, cùa, nuu, situ (piem. «iidilr) ; - per d
secondario: pròu prato, ecc. v. p. 124, cunfid confidata, nceghe
natiche, scea seta. Nelle poesie del sec. XIV, prezioso esempio
per il dileguo di d primario: sir col significato di ^essere' 11 27
(cfr. Arch. I 442), e ancora creenza 41, beneixon 20;- per il
secondario: poeam potevano 21, consolaa 19, pree *prete pe-
trael2;ecc.; prim. e sec. nella stessa voce: loao 43.- Questo
dileguo combinandosi di frequente, nello stesso vocabolo, con
r altro del r primario o secondario (n. 17), ne viene alla favella
genovese una snervatura affatto caratteristica e una partico-
lar facilità di cadere nell'anfibologia. Cosi son del genovese: od
orata (pesce), aò aratro (veramente: arato, che è pur del diz.
ital., aràtu sicil., onde si viene a un genov. '^aóu, v. p. 124), cud
polmone (corata), cuòu colatorio v. p. 125, ped castagna (cotta
a senza buccia; pelata), bei badile, dia ditale, menu maturo,
maóu murato e mutato; ecc.
26. P.
A entrambi i dialetti è comune quella frequenza di P fra vo-
cali, tra vocale e R, in v, che è caratteristica della regione
settentrionale. Citiamo: piemont.: savéi, savun, savùr, cavéj\
rava, sev siepe, curvi (*cuvrl, imperat. córv cuopri; e su curvi
si modella di'trvi *duvri de-aperire), crava *cavra;- genov.
savéi, savun, savii', cavelli, rava, cruvf, arvt aprire e aprile,
crava (negli ultimi tre esempj si fa notevole pur la concordanza
nella metatesi, com*è notevole la concordanza della prostesi che
ci occorse al num. 5).
Ora e' incombe di riassumere questo nostro parallelo tra il
genovese e il termine gallo-italico che più gli è attiguo, esten-
132 Ascoli,
dendo i confronti a quei termini meridionali coi quali il geno*
vese è potujto parere più specialmente apparentato, e tirar la
conclusione. Ma poiché io non devo presumere che lo schema
fonetico di tutti cotesti vernacoli meridionali sia familiare o
facilmente accessibile a miei lettori, cosi mi proverò, prima di
andar più oltre, a offrirglielo io qui in nota, molto sommario»
di certo, ma pur tale, se non m* inganno, che basti compiuta-
mente al caso nostro, e anche ne sopravanzi ^
^ li Dicz, come già sentimmo, nel toccare delle speciali attenenza
del genovese, accenna a piti di un dialetto sardo. Ora son tre i dia-
letti italiani, o gruppi di dialetti italiani, della Sardegna : il lojudo^
rese o centrale;^ il campidanese o meridionale (o pur cagliaritano)\''
il gallurese (non si confonda la Gallura dialettale can T amministra*
Uva) o pur settentrionale. Il logudorese si può dire, per certi capi, il
sardo per eccellenza; schiettamente sardo è però anche il campidanese;
ma non cosi il gallurese (suddistinto nelle principali varietà di Sassari
e Tempio), nel quale ben traluce il substrato sardo, ma insieme si
avverte tal mischianza e stranezza di fenomeni, che difficilmente si
può altrove riscontrare. Principalissimo fra gli elementi sopravvenuti
a comporro il gallurese, è senza dubbio il córso, e anzi di sicuri e di«
retti influssi siciliani, o napoletani, che da parecchi si affermano, a me
ancora non fu dato ravvisarne. Il còrso di Sartene deve star nelle piti
strette relazioni col gallurese (cfr. Spano ort. I xin; Casalis, •Dision.
geogr. ecc. degli Stati del Re di Sard., VII 141); e parecchie concor-
danze peculiari tra còrso e gallurese avverto anch*io in questo breve
schizzo. Ma la scarsa conoscenza dei dialetti còrsi, qui avvien di de-
plorare piti che mai; e per ora io sono limitato ai Canti córsi del
Tommaseo (il cui prezioso volume ò citato coi numeri di pagina che
accompagnano gli esempj) e al solito Saggio dello Zuccagni-Orlam-
DIN!. Pur della versione gallurese (Sassari), che questi dà, mi son
giovato; ma fonte prìncipalissima per il gallurese mi sono i Canti
popolari in dialetto sassarese, coi quali lo Spano (Cagliari, 1873) ha
nuovamente accresciuto le grandi sue benemerenze, anche perebè vi
ha riprodotto le molto importanti Osservazioni sulla pronuncia del
dialetto sassarese del principe Luigi Luciano Bonaparte, che dap-
prima accompagnarono il volgarizzamento del Vangelo di S. Matteo
in dialetto sardo sassarese (Londra, 1866) e furono trasuntate dal
barone di Reinsberg-DOringsfeld nel Jahrbuch del Lemcke (X, 399
segg.). Rimandano alle pagine di questi Canti i numeri che senz'altro
Dol posto elio spetta al genovese ecc. 133
Per quanto concerne il vocalismo, Vei da e e da i', entro
un limite comune (nura. 4 e 7), Vó da 6 e da serie determi-
accompagnano gli esempj sardi del breve prospetto che ora seguo,
e alla Ortografia sarda dello stesso Spano quelli che son precoiluti
dalla sigla art. Anche pel sardo settentrionale ho del resto messo a
profitto il Vocabolario sardo del medesimo autore. E i numeri delle
rubriche, si in questo prospetto e si nei susseguenti* corrispondono
a quelli che porta nel testo lo spoglio piemontese e genovese.
SmHo Mtteatrl^nale o fiUarese. Varitità di Sassari.
I. rf-— Uè dei particìpj-gerundj della prima conjug. (p. e. fahùhUndi favel-
lante 109, incuntrendi incontrando 154) non é di alterazione fonetica,
ma è un* assimilazione morfologica, di cui partecipano anche gli altri
dial. sardi (p. e. lugod. mandighendc e ^gande^ manducando ; e ne par-
tecipa anche il córso: guerdendu 161, lagrinvendu 118}. E analoga-
manta sarà da giudicare Vi nella 1. e 2. pi. di 1. conjug.: tnauemM
mtmeddi^ mangiamo mangiate; cfr. muncmu mùncddi [sic], mungiamo
mimgete, art. I 101 116. — K poi, per influsso palatino, tV da ià nel
seguente esemplare (cfr. p. 113, testo e nota 3): piéntu il pianto 67 72
88 133, piénu piango 66, pieni [egli] pianga 118, e quindi fuori di ac-
cento: pini piangere 137 139 (ugualmente nel córso: pientu pienti
«»t. 95 217 218 270, partic. 163 247, piène piangere 110, piangere e
piange 227, piéngunu 209, piénsinu piansero 246; e fuori di accento:
pi'niii piagnete 235).- Un esempio di <^ da d dinanzi a r fattosi dop-
pio, è la ghiiérra 175 (comune, del lesto, anche al logudorese, v. eoe.
a. ^gi^e' e s. it. 'chitarra*); e probabilmente non sarà il solo di é da
àr + cons. [Ho dal córso, per é da a in questa formola: èrme 158 162,
érburulQO^ tnércu segno [marco] 351, mérmeru marmoro 153, mérca
marcia, Ta, 279, chérne 373 387, c?i<?rni 381, ò^ròa 377 379, pèrle 369,
guérdaJ72\ Bastia: quertu querti^ Zrcc.;- e ancora dal córso, di
Taria ragione: gueri guari 273, ^emz 159 = zana Tomm., cfr. j:cni317^
janu 296, per entrambi i quali tipi ò da confrontare il genovese.] -
NoteTole: éba acqua (già benissimo dichiarato dairÀNGiis, a p. 5S0 dol
Tol. citato qui appresso), che ci porta dairun canto air Italia setten-
triODale con Ve dalKat di aigua (▼. p. 114 n.), e dall* .litro ci offre
frat=^tia, pel noto fenomeno sardo (logudore8e\ che ha i suoi precur-
134 Ascoli,
nate di ò in posiz. (num. 9 e 10), e finalmente Vii da u (num. Il
e 12 in n.), costituiscono un tal complesso di concordanze fra
Fardo MtuBtr. sorì in Copsica (dial. di Corte: bant\§re gnantìere Zucc.-Orl., cfr. fru-
néddu gonnella 59).
2. -drto. — calzolAgu Zucc., ramindggu calderajo (ramajo) Sp. Tocab.;- ctiiì-
néri cuciniere. [Cfr. i tipi còrsi: achia aja 399, J^nnaclitu gcnnajo 348
350, puUaghiu poUajo 366, callaghia calbja 382;- *nfurcatoghia *in-
forcatoria inforcatura 388; allato a sumère somiero 381, murtaru 379.
Quanto alla tenne palatina che si ay^icenda, in queste trascriziooi, con
la media, cfr. achiu aggio, ho, 348 ecc. allato ad aghiu 349, agiu 208;
inoltre : machiu maggio 348, viachiu 349, stntehiu 8trugg[i]o 350]
3. alt ecc. — dltu (che si legge allu con // di 'suono dentale dnro% Bonap.)«
caldu (da leggersi callu con // di 'suono dentale dolce*; cfr. còrso:
callu caldo 350 394, calla calda 388, calle calde 358) ; salia^ ecc.
4-12. — Lo schietto vocalismo sardo ha questo di afflitto particolare, che cia-
scuna Tocale tonica del latino tì si continui schiettamente per la vo-
cale medesima (t. Sardo centrale). Quindi non v*ha, nello schietto
vocalismo sardo, alcun dittongo che rifletta una vocale scempia latina;
né vale per esso la regola, estesa a tanta parte della romanità, della
norroal coincidenza dei riflessi dell'i e dellW, o delibo e delitti. Ma
nel sardo settentrionale, oltre che fa capolino qualche esempio di té
(=^)ediud(=^), incontriamo Ve per Vi lat. breve e in posiziona:
pélu^ nébi^ séddi sete, pébaru^ vétru\ trénta, d-éntru; e cosi l'o par
u lat. breve e in posiz.: cróSi, nóSi; móndu,
14. Vocali dtone. — Notiamo T-u (= -o it), e T-i (= -e it); p. e : culuriddu^
biancu^ lu cuali^ una leggio ecc. [Si confrontino, oltre il sardo meri-
dionale e il siciliano, i tipi còrsi che seguono: mischiatu di latti «
ttnu240, dolci vergini ilarùi57, lampada lucenti 2iì^ li cateni 234] -
'AUorchd la « e To, per effetto di flessione o di altro cambiamento ati-
'mologico perdono 1* accento tonico, sogliono spessissimo in sassaraaa,
'in tempiese ed in altri dialetti meridionali, convei^irsi in i ed u. Cosi:
'r^ftt viene, tinuddu venuto; fabédda parla, fabidddddu; vélti vaata,
^ciltiri; vedi vede, vidéndi;' mòri muore, muri morire; ecc.' Bo!Ia-
PARTE.
15.J. — gógu giuoco, guramentu^ ^obanedda 139; /u pegguBO.
16. J implic— U: melju, muljtri 155, filjólu 31, vólju70, fólja 172 acc, (
Del posto che spetta al genovese ecc. 135
il genoTesd dair una parte e il pedemontanOi ossia il tipo gallo-
italico occidentale, dair altra, da bastar di per sé solo a deter-
il tampieM: me^u^ mud^ri Sp. toc, fiddólu^ voddu^ 31, fondandosi ^^«i» ^ttentr
sulla basi col doppio / [cfr. il 17], che vedremo proprie del sardo me-
rtdionale; e ugualmente nel còrso: meddu [medru secondo Tortogr.
del ToMM.] 344, (iddola 2ib, toddu2ib3ii).- RJ: molgu (cfr. n. 17;
e6rso: morgu 298) ^moìjo muojo; a proposito del qual g d& g (j) di
Hae anteriore (cfr. ital. veggo tengo ecc.), si pud qui ricordare Tana-
logico sogu io sono, comune alla Corsica (Zucc. 463, cfr. 457) e alla ,
Sardegna settentrionale (napolet songh^).
17. /, r« — Frequentissimo il volgersi in / di un r che preceda ad altra con-
•onante; e questo / da r, cosi come il l etimologico o iW da 5 (num. 20),
pud alla sua volta provocare degli strani fenomeni che non ci ò dato qui
doserìvere. Esempj: filmadu^ [p^'^^j; *naUu marzo, [lalgu]^ ecc. ecc. -
RN dà rr^ p. es. iurrdda giornata 37; cfr. gli altri dial. sardi.- LL in
ddz beddu ecc.; come negli altri dialetti sardi, nel còrso, nel sici-
liano, ecc.
18. / iioplie. — PL: piànta^ ptanu, piobi^ pu, ecc.- CL: camd, cani, ecc.;
-CL- (-TL-): occi^ ilpiccu [i| specchio 90, un teccu 126;- FL: fiori ecc-
Bsempio sporadico di g^hj (BL) può parere il tompiese: ghiastimn
bestemmiare, ma d mal certo (Studj crit.^ I 35 = 313); cfr. del resto:
gj = tj (bj) s. Sardo merid., n. 16.
19. o. — òoit voce 17;- sudi soavi 129 (voc: suavi soave); cfr. gli altri dia-
letti sardi.
20. j^ C5, ecc. — La furmola s-vcons, £i fa nel sassarese: l-k-cons, (cfr.n. 17;:
ilpina [ijspina, baltoni (balloni^ v. num. 3) bastoni; ecc. ecc. [Questo
singoiar fenomeno occorrerà probabilmente anche in qualche parte della
Corsica; e intanto noto, dal 'volgar plebeo livornese': cuelta cucite^
questa -e, can mallino^ melchino^ béltie^ Zucc. 290-1]. — CS: lassaQ^^
UUì\ V. il sardo merid. — SCE SCI : pesu^ cresi 83, ecc. — SJ in /:
y^/a ecclesia 28, bald basiare37;- raloni (ragione ^ra^jone *rai<io-
ne) 92;- cfr. bruladda bruciata. [Còrso: casotti 388;- ^ruggiaca bru-
ciava 246.] — '^S - in /: calu Zucc. — RS, v. il sardo cenlr.
2^ co, qua^ ecc. — Singolare che v* abbia qualche esempio còrso e sardo set-
tentrionale di ga = ga (co). Nel còrso incontrai : gran ghiallu 208, lu
Jallu 248, dui jalli 366, di jallina 370, ghiaUina :^, n^^stra jali-
136 Ascoli,
minare il posto che spetta al genovese nel sistema dei dialetti
italiani. Son tutte vere e specifiche trasformazioni degli eie-
B.r4« Mtimtr. nella 207, la jatta 380, ha ghiambe 377; e ugualmente nel SMearese:
gaddu 30, ghiaddu a Tempio, donde ancora riabbiamo (Sp. voc.): ghiatia
gatto, ghiamba. [Maesempj illusoij tarebbero: éambd cambiare 122 ecc.«
in cui c*d metatesi del J: ^cambia ^cjambA, o il còrso stanòd cessar
(di pioirere) Zccc. 457 ecc., che ben ^a con stancare^ t. Dikz lese. s. t^
ma risalendo a stanjdr.] QVA QVE QUE ecc.: candu, sigki 110,
sightnti 163, si dilHnghi (▼. n. 20) 175, li linghi 111.
23. ce, ge^ ecc.— Il e di CE CI di rado è e nel sassarese, ma di regola è 2 ,
fra Tocali i. Es.: ceggu cieco 2084, éilcadi cercati Zucc. (ma ziled 123),
lelu cielo, crdit, noài^ sinieru (cfr. còrso: eaUe^ calice 212219, mal-
grado il solito e); ecc. A Tempio air incontro: óe/t, gntci^ sincerti^ ecc. —
Per QE 01 ho dal sassarese: ^enH (la méjenti 123), giru, /in^ìdcTuOl,
e la conserTazione della palatina sonora appar consentanea al num. 15.
24. et. — offif, fiofft, ecc.
25. 26. (, /), fra TocaU. — daddu dato, piljadduy aùddu avuto, appassiunaddi^
Siddi siete, incaddinaddu 164, vidda 98;- eabhu (temp. capif), ab^
beitu 90, sabbé\b7.
Per ultimo, si vuol ricordare, e per questo e per gli altri dialetti
sardi, il normale affievolimento che molte consonanti iniziali subiscono
per effetto transitorio della vocal Anale della parola che precede (▼. orf. I
12; BoNAPARTE, nelle citate ossenraz.; Arch. I, l); fenomeno che deve
ricorrere anche fra i Còrsi, e in modo affatto analogo a quello che si
avverte fra i Sardi (cfr. per ora gli esempj còrsi qui sopra al num. 22«
e al num. 26 del siciL).
Ora passiamo al sardo meridionale, non mirando so non a quei
fenomeni che distinguono questo dialetto dal sardo ceutrale, e con-
sistono principalmente nei prodotti palatini e palato-linguali. Fonte
primissima ci sarà il Nou dizionariu universali sardu-italianu com*
pilau de su sacerd, btnef. Vissentu Porru, Castcddu (Cagliari), 1832.
Ssr4« ■•rUUoasl« (cAmpidanese).
1. à, — Esempio dì jd in gè (=jV, cfr. n. 15): ^eniui =: logud. Janna janum
(cfr. ScmrcHARDT, vok. 1 185-6).- Siogolar caso di attrazione sarà T-din'
= *-art dell'infinito di prima conjus^. Il Porru scrive costantemente il
Del posto che spetta al genovese ecc. 137
unti latini, quali non trovano alcun che di analogo nell* Italia
centrale o meridionale. Si aggiungono poi Vù da Ó e per Tu
•ole wit [amdi amare, ecc.), ma dai testi si deve ricavare la serie »airi 8«rd« mtm.
-air ^ai {amdiri amàir anuti, ecc.; FucHS o. e. 192). In feltri fài^ po-
trebbe Tt essere etimologico; ma nessuno vorrà credere che quest'unico
esemplare avesse la forza di foggiare a imagine sua tutti i verbi in
•art (-dri).
2. -4rto. — argóla aja (ajuola); genndrgu gennajo, brebegdr^u -^rlu (cfr.
erólu ♦cor/u corium) ♦vervecario- pecorajo (Arch. 1,77-8 n.);- cap-
pedderi cappellajo.
li Vocali dtone. — L'-u e T-i, come ne! sassarese.
lS.j.~ ^o, genna num. 1, gogts^ gobia^ ^uncti, ^tin^tVi, ^ti ja[g]um;- Màju^
péui,
16. j implie. — LJ dà //, e che veramente si tratti della assimilazione che d
rappresentata da queste due lettere, si prova dalla ulterior fase altera-
tiva che ci offrono il còrso e il tempiese (v. sardo sett. n. 16). Es.: mel-
imi^ fUlu filla^ consillu^ c*i7/u, mulléri^ palla^ folla. — RJ, cfr. n. 2.—
HJ: carcangu^ testimon^u^ binga vinea, eastanga^ sanga sanies. — DJ:
•rgu, — VJ BJ: ghiag ganti ^viag ganti -,• cabbia ecc. - Di SJ, v. il
aom. 20.
17. I^r,— L in r occorre frequentissimo dinanzi o dietro a consonante, ma
raro fra vocali. Es. : colpu e corpti, duréi e dulci^ carcdi cracéi cal-
care, arsài e a/jdt, puriu e pulsu^pruppu polpo, cramdi ecc. n. 18;-
Unióru; ma: mola, soli, ecc. ecc.
l&lioiplic. — PL: piàngivi e pràngiri (cfr. n. 17), pldliri^ pianta^ planu
6 i^ranu, platu sost. (ragg. cattu^ piatto, può esser voce spagnuola,
come afferma il Porru, e ad ogni modo ò voce importata) ; FL : fiamma ,
/fata»; — CL: clamdi e cramdi^ claru^ crai *cla[v]e, eresia. Ma di par-
ticolar momento d la evoluzione sarda, piti specialmente propria di
questo dialetto, per la quale da -CL- si viene a gr {cr dietro a con-
fooante), col r trasposto e anche smarrito. Così: sprigu *spegru spe-
culum, priógu *pi[d]ogru, genìigu^ ogu {ogru nel distr. di Marghine,
Logud.), origa\' circu cerchio, cobercu^ mascu. Dietro a S, conservati
amendue gli elementi del nesso e preziosi per la dimostrazione di TL
in CL: lucrdi ust[u]lare, scrdu schiavo.
00. #, cf , ecc. — CS : fisu fiìdi^ buiu^ [cosa] ; ma con ss (a un di presso come
138 Ascoli,
in posizione e fuori (num. 8 e 12), e la evoluzione delle forroole
alt ecc. (num. 3); pei quali capi bene è' vero che il siciliano non
t^étUmmiA. Del log^idorese) : tasseddu^ tassai^ lassai ^ tossicUf tessiri^ ntassidda^
lissia (log. lisia), — SCE SCI: nd/tri, erésiri^pisi^ ecc.— SJ: iinilu
*ciois-jo, cenere, csréiia^ raioni (cfr. lardo seti.); ma òojrdt, easu ca-
sens, eresia ecclena.
22, qua^ ecc. — àceua^ lingua; del resto: sighiri ecc., cfr. gli altri dialetti
sardi. — QN, ▼. il sardo centrale.
^ <^^« ^'t ®cc. — GB- CI-: étlu^ ceréSia^ òtrtdi lat certare, cérriri cernere,
cessai^ òiliri cicer, cin^iri^ ciniSu n. 20, étrcdi;- perdi, ptKodi;-
LCI: dulci^ catò'fta;- CJ: braiiu^ lassù;' ^CE -CI: paSi^ nuSi^ gruii^
plàiiri^ aiéduy òt/lnu;- ▼. il testo più innanxi. QB- 01- : gelai ^
§éneru^ §iru\' tinàia [sic; sìnzia] giogiTa;- NOE NOI: tingivi^ spin^
giri^ fungivi \' cfr. pinita testé addotto.
!@. C fra vocali. — Cade il (, cioè il d secondario, nelle sec. pi.: amaù ecc.
e nel partic. perf. pass.: amàu ecc., cfr. la%u e ladus latns; del resto,
V. il sardo centrale.
. Non lasceremo questo dialetto senza ricordare 1* assai frequente
prostesi di a dinanzi a r: arriu ri?o, arriàli un reale (moneta), arHi
e ru, roTO, arrùbiu mbeus; ecc. Cfr. il siciliano, e i geno?. arrigà ecc.,
amaccd; e anche si può ricordare il còrso arripuchiatu 223, quasi 'ad-
-re-podjato', appoggiato.
Risalgo finalmente alla sezione centrale, al Logudoro, e ricavo il
breve spoglio che segue, cercando gli esempj nei noti e preziosi libri
dello Spano. Allego eziandio la Geografia, storia e statistica deW isola
di Sardegna, compilaxione di V. Angius, che forma il voi. XVlUter
del Dizionario del Casalis, citato di sopra (p. 132).
Strio c«BtnU« (logudoreto).
\. à, — Si conserva costantemente. LV, al posto deird, in certe forme con-
giuntive, si deve ali* anticipazione o propagginazione del j che risonava
nella lor Case fondamentale. Il più perspicuo esempio, già riconosciuto
anche dal Fischia, è nel congiunt di néro nàras narrare dire (nar-
rare): néria nérzas nérsat^ cioè: *nA[i]r-ja *niL[i]r-jas *oal[i]r-jst
(cfr. i congiunt delFant. log.: hàpia hdpias ecc. ap. Sp ort I 101 n.,
e per ri da t^' il n. 2 qui sotto); nel sardo merid.: indie, n/h^u eco*«
Del posto che spetta al genovese ecc. 139
offrirebbe minor convenienza col genovese di quella che offrano
il pedemontano ed altre varietà settentrionali; ma vero essendo
coog. néri néris nérit nérint. Ma non ne d diverso il fenomeno che sarde ««ntr.
occorre nel congiunt. di fdghere facere. Lo Spano dà fecU fectes fectet
(ort. I 145); senonchò Io et, col quale egli trascrive il tt della pronun-
cia (cfr. ort. I 24), d qui una sua illusione etimologica; e veramente
abbiamo: fette^ fettes fettet^ che in fase anteriore son feizes ecc. (cfV.
la prima pers. indie, fatto -=. fazzu del sardo merid., o attarzu = merid.
azidryu acciajo; ecc., v. num. 20in fine), ciod *fa[i]9-ja8 ecc. Terzo
esempio ò in un verbo che resta alla prima conjugaz.: lasso lascio,
congiunt. lessa lessas Ussat; merid.: léssi léssis léssit léssint,
2. 'arto ecc. — arsola cfr. merid., bar su vario; bennàrsu ▼. num. 23; ahha-
àorzu *aquatorio abbeveratolo, pazarsu (e paddarzu^ cfr. settentr.
num. 16) pagliajo; craharzu ♦craparjo caprario, frailarzu ♦fravilarjo
*fabriIario (fabbro), beroegarzu cfr. merid., canarzu^ quasi 'canajo%
eanattiere;- altri casi di ri = RJ: córzu corium, abberzo aperio; ecc. —
Del tipo "eri (forse non indigeno): gaéri chiavajo.
3. dtt.ect, — Il tacersi del / nei singoli esempj dteru altro, soddu soldo, non
ha nulla a che vedere coWdt (*aut) = alt ecc. del genovese. Cfr. dltu
altdre^ cdldu^ ecc.
4- ^.— sero^ plenu^ aghédu. 5. è, — mele, tefies tieni, deghe n. 23. 6. é
di posiz. — terra^ beste n. 19. Notevole: pinna 'penna'; cfr. il n. 10 e Io
spoglio siciliano.
7. 1: hinu n. 19, ispiga^ ecc. — i: pilu^ pira^ nie^ pighe n. 23, sidis sitis, bido
video, pibere^ zinlbiri\ bidru vitrum; — i di posiz.: isse ipse, tnfro,
birga, vinti trinta.
8. 0. — amore, flore^ soìe^ boghe n. 23. 9. coro cuore, now, roda. 10. corru
corno, morte^ nostru. Notevoli: tundere (merid. tundiri)^ lat. tondere,
tose, tgndere; respùndere risp9ndere; cfr. il n. 6 e lo spoglio siciliano.
Il>u: durti, nudu. 12. ù: buia n.22, nughe n. 23, uè ubi;- ti di posiz.:
mundu^ culpa,
13.tfu.~ Si continua il dittongo latino, ma con questo, di singolare, che, dato
V'U nella sillaba susseguente, si perde Vu del dittongo (cfr. Arch. 1 218).
Avremo quindi: fraude^ laude*^ ma: Idru laurus, pdsu pasdre riposo
(pausa), pagu pauco-. Si complica la metatesi in trdu taurus.
14. Vocali dtone. — L'-m come negli altri dial. sardi; ma V -e anzichò T-t:
morte^ latte^ ecc.
140 Ascoli,
insieme che il vocalismo tonico del siciliano affatto si distacca, nel
resto, dal genovese, ragion vuole che da queste ulteriori conve-
8«r4o c«su. 15. j. — A formola iniziale, si oscilTa fra j e ì (cfr. Arch. 1 508 n.): Janna
janua,jMrt juba,yd*/a; ja ia^juighe iuighe juàìce- (cfr. per Taccento
trasposto nel dittongo occasionale: cìiidu e cuidu c\ihiio\ jeunctre z€u^
nare^ jinlbiri.-^ A formola mediana, o 1* elemento inalterato o il dile-
guo: Maju^ pfjut péus^ ieunare; cfr. hoe - ho[d]ie Arch. 1 531, 359
n. 97. Ragion particolare è quella di ^ = ant. -((;- nella composizione:
aggudare e ajudar€y a^^unghere e adjtmghere. Cfr. ancora I! n. 23,
verso la fine.
16. j impHc. — LJ dà 1: meìtis^ fisu fisa^ constiu^ chiiu eilium, muserei
pa}a% fosa^ àiu^ diti, lózu^ ispoiare. — NJ dà n3X calcàniu^ Uiti^
mónii*^ b(nia, castdnìa^ manianu (merid. manganu) *mani-ano mat-
tino (cfr. òer-anu prìmaTera, comune al cgrso: di oerafiu212);- puniu
♦punnjo {merìà, pungu; Arch. I 86 n.). — DJ: oriu^ abbi so ad-video,
seio sedeo;- moju modio- (napol. t?itid;f ), cfr. Arch. I 195 n. e ko€
(napol. óje) al n. 15. — BJ VJ: rabbia eco, ma ruju *rti^o, cfr. n. 18
e 20, mbeo-, merid. rùbiu arrubiu\' dì hapo ecc., t. Arch. I 414 n.;-
jéa bfeta, comune anche al settentrionale, deve essere importato. — Di
S J, ▼. il n. 20.
17. /, r.— LL in dd: baddi valle, isteddddu BÌeWdiio (accanto a istélla)^ mas-
sidda maxilla, modde^ nudda^ ecc. RN in rr: carre^ inftrru^ ierru
•hi[v]emu, isterrere, corru^ torrare^ furru, — RS in ss: traéssa tra-
versa, a s'imbesse al rovescio (inverse), péssighe (merid : pressiu)^
mossigare; cfr. 'CL-, n. 18.
18. / implic. — PL: pianta^ pUnu^ plorttre^ pi^s^ [piàghere, piànghere]; PL:
flors e /(ore;- CL-: clamare^ claru, eròe [ant. cìae]^ crau clavus, [allato
a gamàri jamàre^ ^aru^ gas jàe^ §du jàu], -CL- ^TL- si continua
normalmente per^: o/u, orija^ ispiju^ benuja n. 23, fenùju^ béju ve-
t[n]lo, biju vit[u]lo; ecc. Ma è molto importante il rendersi esatta ra-
gione di questo j, A prima vista si crederebbe il prodotto di uno ij
di fase anteriore ([A]{;)> e quindi orija logudorese, a cagion d^eseoa-
pio, esser del tutto simile al piemont uria. Senonchd, noi vedemmo che
un LJ di fase anteriore dà i al logudorese (n. 16), e quindi avremo
in questo dialetto il tipo fila Alia, allato al tipo oH/o, laddove I due
tipi coincidono in quei dialetti oe* quali veramente si continua uà ìj
De) poato che spetta al genovese ecc. Mi
nienze tra il genovese e altri tipi settentrionali si venga ad ac-
crescere forza di prova a quelle che dapprima enumerammo, tanto
di fase acteriore anche nel caso di -CL- [k]ìj (p. e. piem. fia uria). 8«ru« cmu.
D*aItronde vedemmo CL iniziale fard nel logudorose // (= *c) ej: cla-
mare ^chiamare gamare jamare ecc., ciod gamare affievolirsi in j'a-
mare (1* ipotesi inversa: jamare rinforzato in gamare^ è interdetta dal
D. 15, cfr. n. 20), e vediamo ancora in varietà logudoresi conservarsi la
litorale a formola interna (ogru^ isprigu ^ispigru), come trovammo
che sia normale nel sardo meridionale. Dunque, come loj di jde gde è
DOrmal succedaneo dello kl[j] di clde crde^ così quello di oju *ogu
«ara normal succedaneo dello kl[j] di oclu ogru^ oppur quello di an-
niju *anmgu (anzi annigu è tra le forme positive in Angius 1. e. 469,
cfr. 449) normal succedaneo dello kl[J] di anniclu annigru^ che ha
QB anno. Ugualmente 8*ebbe g nel fondo logudorese per -CL — TL-
dietro a consonante (nella qual situazione non si risale per alcuna fa-
vella ad un semplice ìj di fase anteriore) ; quindi : isdu = isjau ^isgau
schiaTo, che sta aAViscrdu^ pur logudorese (cfr. il merid.), come gde
« arde od oju a o^rti; e ancora: masu = masju ^masgu masc[u]lo;
MMÌstis/at ^usgai U8t[u]lare cfr. il merid.; e finalmente il tipo chisu
cerchio, che pareva cosi enigmatico, ed ò normalmente *chirgu^ onde
chiriu chiisu^ come ss = RS n. 17. Cosi si conchiude, che il tipo logu-
dorese orija risponde ali* italiano orecchia e non al piem. ecc. uria (ori-
fjm), la cui risposta sarda dovrebb* essere *ortia nel Logudoro e Gorilla
nel Campidano. Locchò si dimostra ulteriormente, considerando come
nei riflessi di QL si abbiano anche tra i Sardi i due tipi che italiana-
mente si rappresentano per specchio speglio nel caso della tenue, e
9€gghiare vegliare nel caso della media. La base coagulare diede ciod
al logud.: gagare {^gagare^ cfr. istinchidda^ischintidda scintilla; ecc.)
• insieme cazare - calldi del merid.; e la base mg* lare diede al logud.
it^gare e insieme is-bizare^ bizare = billdi del merid. — Se io non
erro, le distinzioni e le riunificazioni qui esposte, vanno tra i documenti
pih singolari della singoiar potenza de* buoni metodi comparativi
19l r. — V iniziale (quando non sia fermato dalla legge generale di cui si è
toccato in fondo allo spoglio del sassarese) passa in d, e co^i passa me-
diano in ^, resta il b da V- in voci composte, dietro a n e s e ad
(cfr. il siciliano); tra vocali, ali* incontro, il r, sia esso primario o se-
142 AtcoH,
più che i fenomeni, di cui ora si tocca, rimangono estranei alle
isole che sono intermedie fra la Sicilia e Genova. La differenza
•mii* ttatt. condarìo, si dilegua di eoDtiouo. EiempJ : binu {su *inu il vioo) , ben-
nere Teoire, bentu^ bohfre^ balere valere; isboiddre {bóidu) Tuotare,
abbinare {blnu)^ imbidu invito, (nel merid pur dietro a r: serbiri^
serbidóri^ ant serbus servi Ano- 595; cerbu, cerbeddu)^ ecc. \— <5m,
pióere^ aéna^ nie^ ae avis; - sula subula, cutdu, jua juba, nue^ neula^
traey fa faba;- ^vr: tara labbro -a, colora (allato a cólubru) colu-
bra (strano Vó nel logud., e pur nel sicil.: cu/doria).— Di alcuni casi
di f sai-do da di fase anteriore, attiguo ad altra consonante, parlo
altroTe. — [Aggiungo esempj còrsi di V- in b. A principio di verso
o sentenxa: becchia2Q0^ bttrresti387^ bo to391, bende 286^ bocedSh
Poi: u beru il Tero358, a becehiezia la vecch. 377, chi òurianu che
von-iano 386, un baie non vale, accanto a una vale 392. E dove è nv
o Dv di fase anteriore: scumbid sconviure 351, imbernu^ abbùid av-
vexzare 369. — Di B- in v còrso, v. nello spoglio siciliano, n. 26.]
20. 9, Ci, ecc. — Imprima la gran caratteristica del -5 conservato : Umpus ,
obu8^ pegus^ pettus^ ladus^ corpus^ meius roelius, péus, minus^ cras^
frei, 80$ fiios ì figli (ipsos filios), $as fiias; crudeles, animales\ tue
mulghes mulges, bois mulghides, SS in /: basut tusìre (merid. fiu-
9^rt), tusu (merid. iussi)^ cfr. busa borsa (merid. bttssa) n. 17. CS,
V. il sardo merid. SGG SCI: ndschere^ créschere^ pische^ ischire
scire, ischidare ^ss-citare excitare svegliare (cfr. d-essedd lomb. ecc.),
dischente^ ecc. ; cfr. n. 23. SJ diede primamente /, com*d in qual-
che esempio del dial. meridionale, e / si è rallentato in J, analoga-
mente a ciò che avemmo al n. 18. Si osservino: camija^ cheja *c[rje6ia
chiesa, ehijina ^chinija cinis-ia, ptjone *pe[Q]8Jone pigione. La evo-
luzione medesima anche dal semplice SI: *a/inu (cfr. alinu nel dia-
letto di Massa; Paolo Ferrari), ^sjiou, dtnu, nel quale esempio non
si tratta dunque del mero dileguo di un s, [Ned d un mero dileguo fo-
netico quello del <- in anMsùa sanguisuga; ma il s vi tace per T illu-
sione che fosse Particelo: la-am&iiua, cfr. Tit. I-usignuolo ecc.]. —
Di ti logud. da ZZ di fase anteriore, che altrove compaio al rr attico
da 97 di fase anteriore, v. per ora il num. 23,
21. Ntuali, — E«empj sporadici delle assimilazioni progressive che Sicilia e
Napoli ci darebbero continue (nn=ND, mm=MB)« sono: ^'fifi^niMi vin-
Del posto che spetta al genovese ecc. 143
:he «Tvertimmo, fra piemontese e genovese, circa la base -ario
[d. 2; solo il tipo -AiRo nel piem., e i tipi -airo ed -aro nel gen.),
deniia, piumu (merid. prumu) piombo. -MEN: nómeny crimen^ rà- n^rdo mbu.
miné^ lefftimene (merid.: nomini^ crimini^ arràmtnt, legumini).
22: fua gwLt cu gu^ ecc. — Qui il logudoreee labializza di continuo, massime
« formola iniziale; fenomeno di cui già mi son lungamente occupato
nella Fonol. indo^it^-gr, § 27. Esempj: ebba equa, sdmhene (merid.
sdngMfìi) sanguine-, buia gula, belu 'gvelu ghelu gelu, bénneru gene-
ro-f ecc. Ma smarrito T elemento labiale di qua ecc.: cantUy chercu
quercua, chietu^ sìghire^ ecc. CR- GR- in r: rughe n. 23, rasiti,
ramgn gramigna (gramen), ranu |cfr. còrso: ranu 3G4, rammdti-
co 375). Di ON (nn ecc.) v. Arch. I 86, e qui sopra il n. 16. Si
dilegua sporadicamente la gutturale di -ICA -ICO: mon^u monta (merid.
mongu monya) m(5ni[c|o móni [eia, con la normale risultanza di NJ
a. 16;- ant. garriare (od. tornare) = garrigdre caricare (cfr. merid.:
mussM morsicare; Idttia quasi 'làttica', lattuga; pressiu persico, bui-
tfiii bellico, dove é da confrontare, per 1* accento, Tit bilico). Facile
del resto, qui come altrove, il dileguo di G attiguo ad u (e qui la seria
del Gli si confonderebbe con quella di -ICO 'igu) : ambistia n. 20 in
fine (cfr. merid.: rua e arruga^ Sp. toc. s. 'strada']; téula.
Zktt^ge,^ CE Ci ò che chi iniziale (cfr. p. 136) o mediano dietro a conso-
sante (v. SCE SCI n. 20), e ghe ghi mediano fra vocali. Es.: chélu^ cher^
tare v. merid., chérrere cernere (crivellare), chervu^ e con Ve atona
in a: cariata ceitisea, caìDet/d^ cervello; chisu cilio- n. 16;- binchere^
rdnchidu^ [tórcìiere]^ calche calcio (cfr. it. ca/c« =: calcio), dulehe dtir-
c^;- deghe^ déghere lat. decére, faghere^ pidghere, boghe voce, /ti-
ghe; ecc. Analogamente dovremmo attenderci ghe per GÈ; ma a for-
inola iniziale già potemmo vedere nel n. 22 come gli esempj si oscurino
par la successiva alterazione g'e be\ ò à formola intema bene avremo,
dietro a consonante: miilghere^ ittringhere^ tinghere^ ispdrghere^ ma
tra vocali gli esempj ci sono sottraiti dal progresso che fa qui T antica
tendenza romana dell'assottigliarsi e dileguarsi del g palatino (cfr.
Arch. I 80-1, 91-5; e in specie, qui più innanzi, lo spoglio siciliano).
Si osservino per ora: apporr (re (indi : pdrrer#) ad-porrlgere, réere reg-
gere, friere^ fuire (onde la prima pera, del pres. /mo), sucre sugere,
niéddu nero (nigello-; ó pur del córso). Il qua] fenomeno basterebbe di
144 Aseolif
non importa, come ognun vede, conseguenza alcuna. Le traccia
(li er^cons.9 da ÀR^cons. (n. 1), collegano bensì il genovese col
¥u4» cTtttr. per sé solo a render molto dubbia T antichità delle pronuncìe logndo-
resi che gh$ ecc. di contro alle basi Intine CE QB ece^ antichità che
a molti d parsa così preziosa. E altri argomenti, non meno poderosi,
concorrono a togliere ogni prestigio di anzianità a codeste pronuncìe,
e a provare che d'altro non si tratti se non di un'alterazione, relat ira-
mente moderna, di e e ^ di fase anteriore, alterazione specifica del lo*
gttdorese, che rifugge costantemente dalle esplosive palatine, come dalle
fricative palato-linguali. Mi limiterò a qui aggiungere due soli di que-
sti argomenti. Dato un g (antico sardo o italiano) da j latino, questo
^, che non ha dunque alcun fondamento etimolog^ico di suono guttu-
rale, passa ugualmente in gutturale e quindi in labiale logudoresa,
come se si trattasse di g latino (n. 22); p. e.: bennariu (merid. gen^
nàrgu) *Jenuario-, januarius, tettare e-j3ctare (cfr. merid. ghgitdi)^
gettare. E dato ancora uno 9c = STJ, ricadiamo a $h logudorese: pasca
^posòa^ postea, così come fosca fascia. Intorno alcuni esempj di 2
(j, i) logud. per e ^ di fase anteriore (segu cieco; ienia; réiis allato
a rées^ tu reggi), possono surgere dnbbj, più o men gravi, ae o no
sieno indigeni. È all'incontro certamente legittimo lo jrjr=rCJ, ohe pud,
come ogni altro jj di fase anteriore, degenerare in ti (cfr. n. £0 in fine):
afta = merid. 0110, acies (filo, taglio), erittu ericius; lassù (laUu nel
distr. di Marghine) laccio. Ma pur qui T estesissimo facca (l'ant. logud.,
dallo schietto facie-^ e perciò non sentendo lo CJ, ha faghe^ Ano. I. e.
586, cfr. calche qui sopra).
25. (f e < fra vocali. — Il d primario si dilegua facilmente : créste^ séere^ méigu^
fsu foedo-, rUre^ roere^ Inrou^ ecc. Ma il d secondario (da T fra vocali)
suol mantenersi : /intdu, pcusadu passada^ maduru^ nadare, pedire pa-
tere, mudu^ mudare^ sanidad4\ sec. pers. pi.: mandigadeSy finides ecc.-
Tuttavolta: ajudare e ajuare^ musare^ merid. musai ^ mussi [t] are. —
-T: mandigat mandigan\t\y ecc.
26. p tra vocali— sapire\ capu ca^ saòófu^ sabóre^ abbérrere aprire, co^
bérrere; PR: capra e araba. Strano esempio di P in v: chesca cespes.
Il o da P, col successivo dileguo: chen^lura (e chenàbura; merid.:
cendbara cenabura) cena-pura, venerdì, istùla (cfr. n. 19) stupula
stoppia.
Del posto che spetta al gonoTese ecc. 145
còrso, ma insieme e più lo collegano col piemontese e Temiliano
(esempj: ligure indemu, córso èrme, piem. chérpu, moden.pj^V^
FiDalmente sia ricordata la caratteristica prostesi doli* t a 5 im- i^«rdo entr.
para: isterrere stemere, istógamu stomaco, ecc.- Merid.: sferriri, stó^
gumu^ ecc.
Ci resta il siciliano, e darò uno schema abbastanza ristretto.
Ponte principale, il Nuovo dizionario siciliano-italiano di Viricenzo
lIoRTiLLARO, 3. ediz., Palermo 1802, cui aggiunsi i Canti scelti del
popolo siciliano illustrati da L. Lizio-Bruno, Messina 1867. Non mi
è dato consultare la monografia del Wbntrup, citata dal Diez P 83.
Circa le pronuncio delle palatine cho surgono ai num. IG e 18, si av-
Terte non poca incostanza nelle trascrizioni, e par di vedere che v'ab-
biano diversità fra paese e paese. Io altro non potei se non riprodurre
ciò che trovavo.
SldlliBO.
l.d.— awtdri^ amàtu] drvulu albero, sdnti, frati frater; ecc.
2. drto eee. — ària aja, armdriu armariiini^ operc'triu^ [cfr. coriu] a forinola
àtODa: cuiréftu cuirdmi] ;- jenmlru^ sulàru^ /iirndrw, sidddru sellajo;-
Cttppiddériy anneri armajuolo, littéra,
3. d/f sec — n-dufru, dutu^ [autdri oidrt]^ sdutu^ fduda^ fdusu^ sdusa, fduci.
Quando all'au preceda e, Tu suole essere attratto, a forinola àtona, dalla
gutturale, e perciò inTertito Vau in uà. Si osseryino: cdudu^ cuadidri
rìs-caldare, cuaddra caldaja; cducu calcio, cdugi calzoni, scìsagdri
scalzare, cuagétta calzetta ; cui si aggiungono ct*ac{na calcina, cuaòisi
calcese [e il fenomeno naturalmente si riproduce, ancora a formola
itona, dato pure un AU di genesi diyersa: cuatéla cautela]. — Altre
iiormole toniche: féutru (e fèltì^u\ mensa milza;- ctitra coltre, [cu-
téddu], dtici;- cótu colto, vota.
li— mirit valiriy pri^biru per yero!, dammiru daTTero [da-'n-Tero] !, sira^
tiiUy caténa^ vifM, sita^ munita; ecc., cfr. n. 6. éns: misi, pisu^
spisa^ prisUy ecc.; cfr. n. 6.
5. £— méliy filiy tini, levi, brèvi, dèci, tepidu ; petra, Petru. as : éneu, echi,
cecv^ Utu, déda t9sda.
fl. / £ posiz. — vermi, terra, cappeddu, seddoy vesti, NoteToIe come sì man-
taigm U ragione dell* antica é (n. 4), malgrado la posizione romanza, in
gamiddu camclns x^jiyiXo;, sicca (n. 16) sepia 9r,i:U, vinnina vindcmia
Arebjvio glottoL iUl., II. 10
146 Ascoli,
romagn. lerg); e se quindi concorrono anch*6ss6 a dimostrare
come il genovese s* incardini fra i dialetti gallo-italici» ci portano
sicUiMo (ìt Weadfmmia' ), né sono i aoli; intanto li ofr. il n. 10. B anche ton
noteTolì: stidda ^stflla', cfr. Arch. I 19 n^ e ntinna^ pinna^ vinnirù
sinniri, crisiri^ isca^ ben corrispondenti a ^antfnna', ^p(mna% ^fodere',
'scendere', ^cr^rscere', ^esc&^\ cfr. Diez I' 334, ScHUCU. I 344 345 300,
Arch. I 490; e qui innanzi, il n. 10.
7. L — spina^ vtvirif ecc. t. — pilu^ biviri, pici^pipU ecc^ ma: nsémmulm
in-simul. i di posiz. — virga^ virginia linu\ missu miìa'ri-n, ma pur
méttirsi méUiri.
8. o. — 5u/t, sulUf dunu^ duna dona (dÀ), curuna^ tira, amùri odiirì, lagri^
mu5u, vui Tos, rtici, rwdiVi, ecc. Non d particolare eccezione: nómu
nome (cfr. it nomina^ ecc.).
9. 6» — ftóou, scóla^ sùnuy cóciri^ fócn^ róta\ voi Tuoi; ecc.
10. ó di posiz. — mortif forti^ forsi^ porta^ corriti, parai, corpu^ orvu^ eoddu
ossu, sonnu , ponti. È un antico ó fuor di pos., normalmente rifleiso
per u, in cucchia cópMa (cfr. cubbia neirAlta Italia), chiùppu *plòpo
p5p*lo, eptirpu p5ljrpus; cfr. n. C. Notevoli inoltre: cuntu^ frunti^ mufifi,
rtfpunittrt, furma^ curti^ turnu sost, canii/trt, ben corrispondenti a
'cynto*, 'frante', ^mgnte', 'risponderei 'f^rma', 'cgrte', 't^mo% cono-
scere'; cfr. Diez I' 336, Schuch. Il 115-25, Arch. I 541 b in fine; e qui
addietro, il n. 6.
11. tf. — dt«rti, liina^ chiui plus; ecc.
12. ìt. — ju^n, luta lutum, ecc. ti di posiz.: ti/mti, tirju, tussi^ mllM, ece.
13. (lu. — addnuru alloro laurus;- orti, ecc.
14. Vocali àtone. — pèrdivi^ cridiri^ dncilu n. 23, ecc. (t da e at. di sili, me-
diana);- trvtiiji (érta)^ virminàsu {vérmi)^ mircanti (mA-ci), firrari
(/Vrrw), (istanti (fèsta), picurinu (pécura);viniri e r«n/rt (vifftt), tiniri
e t^n^rt (^*ni);- nìMìéddu (nócu), nuttdta (nótti)^ nuwinta e novtìnta
(ndot), muriti (móri^ móriri)^ ecc. ; cfr. sardo settentr. Uscite : j dntM,
jócu^ nòtti notte, navi nave; li sacri càrti, Au da o atono iniziale:
aucidiri (e forse anche atiseiri = osdri^ con fortuito ritorno ali* au lai.),
cfr. Arch« I 505 n.
lo.J. — pugu, juncti^ jencu num. 19, tnmiru 'jinnaru, ecc.; màjuy péju\ cfr.
num. 23.
hy.j iuiplic. — LJ dà gghj: figghiu^ migghiu^ nu^gghiu^ mugghiéri^ ogghtu^
Del posto che spetta al genovese ecc. 147
insieme ad avvertire, per una prima volta, come la connessione
tra il parlare isolano ed il ligure si possa piuttosto ripetere
9^99^^ ecc.— MJ: sina simia, ttnnina n. 21.— VJ BJ: légyu (lag- sicituno.
gìaro) •leti-o, cfr. lébiu oel sardo merid. e nel centr.; gàg(fa\ rdgga;
cfir. fUg ghiu rrmbhio; PJ: axcéu sapio, deca apium, sicca sepia;- cfr.
B. 18. — DJijdcuna educanda (diacona); oi e òggi (cfr., in uno stesso
canto: un ghiomtf e jpocajoma; e similmente: non ghtrt [=JtW] non
gire, in un canto di Catania). Cfr. n. 18. -* Di SJ, v. al n. 23.
17. 4 r. — LL in dd: iddu illu-m, gaddu^ ecc. L in r davanti a conso-
nante: pdrma, drma *alma anima, Gugghiérmu; piirpu polipo, ciirpa^
eórpu^ iùrfaru^ murta molta (in un canto di Messina), p^m;- dietro
a cooion.: affriggiriy cfr. n. 18. RL in rr: parrdri^ burrdri^ òrru
órlu^ ferra ferula, gurrdnna ghirlanda.
IS. I inpUe. — I nessi fondamentali si conservano in parecchi esemplari con
la sola alterazione del / in r (cfr. n. 17 e il sardo meridionale), mercd
la quale alterazione, relativamente antica, rimasero sottratti allo evo-
fauìoai normali che più innanzi si mostrano. Così : dis-praciri (allato
a pÙÈCiri dispiaciri)^ li praneti mei i miei pianeti (il mio destino ; iu
on canto di Francavilla) ; framdnii 'aggiunto che si dà a cosa nuova,
nilìda, ecc.', Tale a dire Sfiammante' (cfr. nuovo fiammante); Brasi Bla-
«OS, vrdi%cu bianco (cfr. janca in un canto di Messina, cchià ghianca
in nno di Sampiero Monforte), vrunnu biondo; e finalmente crésta allato
a chièsa. Ora le serie normali (cfr. n. 16). CL: chiamdri^ chiavi^
chiudiri\ criechiHt occhiu^ ecc.; GL: ghiómmaru glomere-, ghiru^ e
eoo la palatina rallentata: jajrj^ii. [A formola interna tra vocali: vig-
ghiari^ pud rimaner dubbio se la fase anteriore sia gl[j] o solo //.] —
PL: cAìdnii, chidntu^ chinu pieno-, chicdri e ghicdri plicare, chióviri^
cfct(ft,acc.; cucchia coppia, ma 5co^^fiiii=:sco[p]Ijo, scoglio; BL: ga^
sUsnàri (vorrebbesi: ghiastimAri) b[i]estemm[i]are; cfr. ghianca qui
aopra;- négghia; FL: ciri (suri)^ édmma^ cdscu^ cdtu^ uncdri en-
flare; ecc.
IfiL «. — Passò in b dietro a n (cfr. il sai'do centrale), e quindi subì 1* assimi-
lazione di cui al n. 21. Così passa in b dietro a s: arrisbighiàri svegliare
{oégghxa)^ sbindri {véna)^ sbinniri cedere a prezzo rótto (s- vendere .
v^fltntrt), sbintricdri sventrare (vèntri)^ ecc. Analogamente, e ancora
is concordia col sardo e col córso: fr&=:DV: abbersu ammodo (ad wr-
148 Ascoli,
dair inclinar dell* isolano al settentrionale, che non dal piegarsi
il ligure verso V isolano. È del resto assai notevole, e non prima
stciUaiMi 8um), abbicindri^ abbicinndri ETYlcendare ; ecc. Ma a forroola inìsiala,
dove le altre isole e il napoletano abondano di V in 6, non ho per il
Eiciiiano se non birblna verbena, che ò esempio sui generis. — Dileguo
di V fra vocali, non gran (atto frequente: faidda favilla, jVnoi juvencns,
jina *afna avena, tardlvu tardiu^ ristivu risHu^ lisia. Vu- in ^u«:
gurpi\ gutti = vutti botte, n. 26. ,
20. 5, c<, ecc. — S (SS) in j (cfr. il napolet. ecc.)-* zorba^ nzémmula (in na
canto di Piazza) v. n. 7, penzu (in uno di Messina), poisu (Messina,
FrancaTilla), Anxelmu. — SS in s: vdsu basso.— CS: cósa^ liiia^ vuiu
V
buxus, frdsinu^ [flàsu]^ Liidndru^ Savériu^ tdsa e tassa; iassdri^ fdjsv,
sdtsu^ iéssirij rlssot tdssicu; PS: cd/o, [ni5l^nt<]. — SCE SCI: pUtit eri"
siri ecc.— SJ, V. n 23.
21. n, m. — ND in nn: manndri mdnnu^ abbannundtu, lagrimdnnu^ cuannu^
pénniri^ rénniri^ sinniri scendere, nnivia indivia, linnu lindo, linniH
cuinnici^ connuòiri^ munnu^ unna^ ecc. — MB (nella qual forinola si
comprende anche lo NV etimologico, v. num. 19, e cfr. pure il nom. 26):
I. dmmu^ gdmma^ bamminu^ mfMtrcdri^ limmu^ mniaraiidri^ mututr^
rari turare ( *^im*barrare), chiàmmu piombo, ammuecdri imboccare ; -
II. mmicchiri invecchi[a]re, mmintdri inventare, tnmimiicdri *inver*
micare inverminare.
22. ca ecc. — Il e di GA, che stia nella fase anteriore dietro a vocal palatina,
si vede pur qui dileguato in monidli *monicale = monaca (cfr. Sardegna
centr. e merid.) e priori = prigari^ che saranno sicuramente indigeni
(cfr. napolet preti^ prega). Cadono ali* incontro in sospetto di voci stra-
niere: pèrca perti[c]a, scuriari scorti[c]are, vénca *'véadi[c]a vendetta,
cfr. Arch. I 78-79, 196 ecc. — CA inis. in ga: gagga cavea, gamiddu
camólus. — GU. ammadri^ aliato ad ammagdri^ incantare, presupporrà
nuìu allato a mdgu (cfr. fdgu e /UtA, fagus, frdgnla e frdula^ ecc.).
Pur qui smarrito il g dello gv anorganico di 'u[D]guaooo*: acannu (ia
un canto di Messina). — QVI in gi^ per avere anticamente smarrito
l'elemento labiale: ancidda anguilla, cfr. n 23. Del resto: esUnguirit
sangu. — GR: rdndt grande, rdppa grappolo.
23. c^, ge^ ecc. — CE CI iniziali: célu^ càntu^ cinniri, ecc.; passato in media:
gigghiu e ili um, f/ùira cista (cfr. balestra = bali^tta, ecc.);>isf^rfia. In-
Dei posto che spetta al genovese ecc. 149
d*ora notata, per quanto io mi sappia, questa vena occidentale
àeWér^cons. da AU^cons.^ e forse riuscirà di annodarla con
terni tra vocali: vuct, pàci^ ecc.; ma dietro a R si trova anche z: cdr^ siciliano.
lara^ allato a mirci^ sarciri (cfr. r/nctVt, rdncidu)\ e Ji ò costante
per CJ :jd9iu ghiaccio, jdjrju giaciglio, vraziu; /ajju;- valènza bi-
kncia (eir. cónza concia) ; ma si sottrae : fdcci facies, per la stessa ra-
gione che già avvertimmo al nnm. 23 del sardo centrale, in fine. — GÈ
Gì inixiali si rallentano in jeji (cfr. n. Ì5):jélujjémmulu geminns col
«dissimilato (cfr. Arch. 1519), jVnnaru,j mia, j755t4; e così a formola
interna fra vocali (cfr. il sardo): jiditu digitus, esempio che tramezza,
io eansa della metatesi, fra la serie iniziale e la mediana ; frliri^ fàiri^
frójiri porrigere; saitta; purpdina, ma caligini e cosi altri (lasciando
féggxri e Uggirti che si possono attribuire alla cultura). Dietro a
consonante, rimane la esplosiva, e appar tenue dietro a n: argéntu^
màrgini;^ chtdnciri piangere, finciri^ cinciri^punciriy Janeiri^ munciri^
itrinéirt, tinciri; dncilu^ evancélu^ ncénu ingegno, fùnc\i]a ♦fiing-ia
foogo (t. Arch 1 553 6); e analogamente per ogni altix) ng di fase ante-
riore: cncid^/a anguilla n. 22 '^^ cuncurdri congiurare, .incarta (ma:
cimtldrt = cun-jilari congelare; e in un canto di Mineo: cunjuntu);-
ttmèàri cambiare;- mancdri. Ma quale è poi la vera pronuncia di que-
llo che scrivono net ecc. ? Od é sempre la stessa ? Il trovarsi lo et pure
ÌBcoétint (cocttint) cagione (SJ; allato a camm{sa^ vasdri baciare), e
iaeii^tnM cugino, mette qualche dubbio, che si accresce per Tafierma-
tione del Wbntbup: valere z[ì] lo sci napoletano di sconsciurare con-
giurare (Neapol. mundart, p. 14). — Singoiar caso é quello di dinócchiu
(ntpolet. den&cchi^) ginocchio ; ma il d di strudiri struggere (destruere)
ara epentetico (napolet. strttdere),
U.a.^péttu^ pèttini^ ecc.
^^i— Si tengon bene (cfr. n. 5). In criju credo e r/w, allato a cridiri
t udiri, il dileguo ha una sua ragion particolare (cridju vidju, crigu
crijtt ecc.), e così in vàju vado. Del resto, neppure il digradamento di
I^Qa in media fra vocali; quindi: siti sete, assitatu^ ecc.
^P* *•— Lo stesso è a dirsi, di regola, circa il P; quindi: pipt pepe, sa-
P^i^ cdpu, dpa ape, r/po, jiniparu, cfr, crdpa, cupWrt;- e rici'oirt, pd-
^ni, cìMoértUy sono esempj di r = P comuni anche al toscano. Di PR
in frr, si noti lébln^ lepre.— Quanto a B, slam qui neir ambiente in
150 Ascoli,
l'ugual filone che è nell'Alpi orientali (Arch. 1 353-4 357 303 372
376, cfr. 288 e 276). Intanto qui si conchiude, che il vocalismo
Hkuiano. cui il Buo tramutarsi in r é frequentissimo anche a formola iniiiale:
vastuni^ vdttiri^ vandri^ vàuffu balza (n. 3)) vistiàmi^ fxildnfa bilaDcin,
vùgghiri (=*b<$Ijere) bollire; oroco, vrodu (cfr. n.l8), ecc> Ma insieme
é r ambiente in cui si fa noteTole anche la particolare estensione di B
in a formola intema, • in ispecie ro = RB: raroa, erva^ orr)u\^
frévi febbre. B che resti incolume fra vocali appar doppio in dbbilu^
cibbu^ e forse ha questa energica pronuncia ovunque si mantenga (cfr.
pel napolet: Wentbup l. c. 11, e pei diaL merid. in genere: D*Otidio,
Arch. II 86 n. ; al qual proposito, mi farò scrupolo di non trascurare le
ortografie genovesi come fiblm^ spiddu) ; e la doppia d tenue, come n«l
napoletano, in appi habui, vippita bibita (cfr. chiuppiri z: chioviri
n. 18).
Ancora notiamo: 1.® La prostesi di a: agghidnnara ghianda, «y*
ghidra ghiaja, che si fa cmitinua, con le false sembiante di prellMO.
dinanzi a r (cfr. il sardo merid.) : arricamdrif arricdmu sost, ecc., cfr.
ammir^iMdri^ ammustrdri; e consimile osservazione circa '«- *m-;
n»ésiri uscire, n^sita setola, n^iùrua sugna, m-bisHnu bestino (pesce):
onde si spiega : midtu (m^bidtu n. 21 e 4 ) beato. — 2.° La doppia con-
sonante che si risolve in nasale + cans.: méniu = meisu^ minteru
*metterono (misero; in canto di Sampiero Monforte) **, — 3.* Un per-
* Occorre frequente anche nel còrso il fenomeno di B- in r; ma
colà deY*essere attiva, almeno in parte, la legge stessa che domina
nel sardo, e fu da noi accennata in fondo allo spoglio del sardo set-
tentrionale. Si considerino i seguenti esempj còrsi : la terba la barba,
tilt posa verba non posa barba, ma: e berba {ebbàrba et barba) 377
379; /i con bueconi i buoni bocconi 21 1, ma ^ bonu {cbbónu est bone-)
:r71, na tella una bella 382, ma: e bella (ebbélla et bella) 308. An-
cora : da véje da bevere 373, moglie riaca ( = Triaca) 387 ; e inediaiio:
tritolo 304, come é anche in Sicilia. — L^ norma, a cui si allude, ha
del resto un* efficacia, più o meno avvertibile, in un numero infinito
di favelle; ma non è facile, per ora, il parlar con sicurezza delle
preciso relazioni che passino tra questi aTTicendamenti del sardo e
del c^rso e quelli che ne* vernacoli napoletani li ricordano.
** Nel còrso: minsére minse messere (il parroco) 2(>k Ma a chi
volesi^d vedere un fenomeno meridionale u«?i genov. lcn{jé leggiero,
dcsUngud dileguare, sciogliersi, ricordo che entrambi gli esempj
ricorrono anche alle Alpi. Così nella Valle Letenlina: limj^r s^ltn*
geri^ e dasUngud.
Del posto che spetta al genovese ecc. 151
tonico del genovese conviene, per ogni sua parte,^^aHa naturai
continuazione di quel complesso settentrionale, dk cui la Li-
guria dipende.
Passiamo alle vocali itone. Di effetti varj dell' -i Atono
sulla tonica di penultima, ben se ne vedono e al mezzogiorno
e al settentrione dell' Italia (cfr. p. e. Arch. 1 425-6); ma il nor-
mal fenomeno di attrazione, che ha per tipo il genov. *móini
*màin me[ii]n (num. 14, II), vincola Genova esso pure, e nel più
stretto modo, al resto deir Italia settentrionale; e se la Corsica,
per avventura, ci potrà offrire qualcosa d'analogo (cfr. córso
^^ii^irttr guari), pur qni sarà il territorio insulare che anticipi
io qualche guisa V Italia del nord e non mai Genova che fac-^
eia mostra di un fenomeno meridionale. Quanto all'n per Vo
iiono in genere, Genova conviene cogli attigui territorj setten-
trionali non meno che con l'isole; e all'incontro Vi per Ve
àtona in generale, che è specifico delle isole (ed in Sicilia si con-
nette con Vi = é), rimano estraneo al genovese come è presso-
cbi estraneo al resto dei dialetti del nord. Il discordare, che
fanno tra di loro il piemontese e il genovese, circa la sorte delle
vocali protóniche (14, 1), non si risolve poi in alcuna decisiva
somiglianza tra ligure e meridionale, giacché il lombardo è an-
cVegli alieno dallo espungere vocal protónica. Ma resta l'abon-
dinte conservazione dell' «u e dell' *^ all'uscita, che par con-
ferire una particolare impronta meridionale al genovese, e ci
domanda più attento discorso.
L'illasione è qni molta; ma giova imprima considerare, circa
l*'S, che se la vocal romana, da esso rappresentata, si aveva
ùi Genova a conservare, la ragion generale dell' o àtono in u,
P^ tatto l'ambiente settentrionale a cui Genova spetta, non
^oaseotiva ch'ella altrimenti si determinasse di quello che ha
i^tto. La qualità delle uscite genovesi di cui parliamo, non
laporta quindi alcunar affinità particolare fra Genova e le isole.
ticolare doTe fonologia e morfologia si confondono in special modo, ò la ffìoìii4
derìTazione verbale per -tVi-re (nella quale probabilmente coincidono la
base -icare, ital. '$ggiare ecc., e la base -idre): cnadùìri (n. 3)
rÌKaldare, ptfiior», curniari'Si scomeggiarsi, curputri colj'ire, cur-
ridre scorazzare, ecc.
152 Alcoli,
e anzi ribadisce la diversità generale già da noi avvertita, poi-
ché lo specifico tipo isolano richiederebbe -u ed -t; e siamo per-
ciò limitati al fenomeno della conservazione per sé medesima»
circa il quale tanto farebbe confrontar Genova con la Toscana
con Venezia. Ma c*ò ben di più. C*è che la conservazione di
queste uscite nel genovese, ed insieme la naturai determina-
zione deir-u, trovano i loro veri è conclusivi riscontri fra i
dialetti gallo-italici ed alpini. Cosi, per limitarci a fasi che tut-
tora durano, la Parabola nel dialetto di Borgomanero, al Lago
Maggiore (ap. Biondelli, 49), ci darà : ómu, priìmmu primo» cóla
collo, grassu, bsónu, sUbtu sùbito, san e salvu, légni, mórtu,
persu, vUstU'lii vteto-lo, gùstu;- pari padre, la fami (cfr. tùt»
-cu5St tutte-cose, ecc.). A poche miglia da Milano, T-u risuona
ancora, in ispecie dietro ai nessi di consonanti; e cosi a Oggio-
no, Alta Brianza, dicono óltru altro, tontu tanto; a Busto Ar-
sizio: ho' US tu ho visto, cóldu caldo, e insieme: grondi, grande
e grandi (cfr. Arch. I 295). L'-au od -o -()u = -Xto, che risuona
costante alle pendici meridionali del Rosa,, del Gottardo a del
Bernardino, restringendoci per ora a queste \ è attestato con-
tinuo per ràtona finale conservata, e per la special determi-
nazione deir-u. Il quale -u trovammo ancora frequente in Val
Poschiavo, che spetta al bacino dell* Adda (Arch. 1283); e lo
avemmo costante alle estreme Alpi orientali (ib. 343, 385-7).
Insomma, fra il piemontese, che più non mostra le desinenze
(Itone di cui si tocca, e il genovese che le serba, la differenza
si può dire meramente cronologica; e non è difficile ricavarne
la prova dallo stesso piemontese quale oggi risuona. Data per
esempio la base latina cote- (cos), primamente n*ebbe code cosi
il Piemonte come la Liguria; poi, entrambe le regioni: coe\
più tardi ancora, entrambe: co-v-e, rimediandosi cioè air iato
con r intrusione di v, intrusione che non ha ragion d* essera
se più non v*è la vocal finale (cfr. Arch. I, 111 370); e solo da
questo punto i due dialetti si separano, il genov. rimanendo a
cure, e il piemont. riducendosi a cov. Similmente, i piemont.
spui\ stranitv, nov (sputo, starnuto, nuoto), attestano la fase
^spi'(-V'U, ^stamii-V'U, 'iio-r-M, dove si comparano ancora util-
' Arcb. I 253 255 257 203 20C iHjS 270.
Del posto che spetta al genovese ecc. 153
mente, per il v che toglie l'iato prodottosi dal dileguo della
dentale, V'à[v]u dei participj di Val Maggia * e le figure corri-
spondenti di più dialetti di Lombardia (Ardi. I 257 306). La
divergenza, tra genovese e pedemontano, è dunque posteriore
a tre fasi alterative patite in comune. E la conclusione è, che
se, dairun lato, comunque d* altro non si tratti se non della
conservazione più o men tenace di un elemento latino e perciò
comune alla base di entrambi i dialetti, pur questa diversità
di durata certamente non si deve in alcun modo trascurare
dallo storico; è però dimostrato, dall'altro, che la parziale coin-
cidenza del genovese coi dialetti delle isole, in ordine a queste
àtone finali, ben costituisce un'attiguità o anche se si vuole
una continuità di fenomeno, ma non implica alcun vero distacco
fra il tipo genovese ed il settentrionale.
Arriviamo alle consonanti. Il ridursi di ct a jt (num. 24),
il n faucale (num. 21), il continuo dileguarsi del *D^ primario
e del ^T^ digradato in d (num. 25), e finalmente il continuo di-
gradare di ^P^ in V (num. 26), è tal complesso di concordanze
fra il genovese e il piemontese, che riassicura e determina, nel
più perspicuo modo, il posto che al genovese compete nella se-
rie de' nostri vernacoli settentrionali. Si aggiunge V ordinario
riflesso di CL fra vocali (num. 18), circa il quale presumo di
aver dimostrato, ad un tempo, come concordino in effetto il ge-
novese e il piemontese che in apparenza possono sembrare di-
scordi, e viceversa vadano affatto disgiunti il sardo logudorese
e il pedemontano od il ligure, che esternamente coincidono.
Di certo, per quanto è del dileguQ di d primario, ed anche, in
qualche singolo caso, per quello del d secondario (= t), la Sar-
degna ci offre delle analogie e delle coincidenze che possono se-
darre, e avranno probabilmente sedotto i sostenitori delle opinioni
che io tendo a confutare o a correggere, i quali, del resto, mi co-
stringono a indovinare o a escogitare, per la massima parte, le
ragioni che essi abbiano supposto militare, o militin veramente,
in favor loro. Cosi, per esempio, il sardo méigu medico (v. sardo
' Si trova scritto -rtoo, ma d noto che V -o delle solite ortografie lombarde
^ l*tt toscano (Tu vi é Tu). Qui, del resto, la qualità deiràtona ci torna in-
afferente.
154 Ascoli,
centr., 25), rappresenta un'intiera serie di coincidenze; e il nor-
mal participio sardo meridionale: amàu (sardo mer., 25) pare
addirittura un participio ligure. Ma qui, più che mai| giova
ed è facile T orientarsi per bene. Le serie napoletane e siciliane
danno intatti, di regola, il ^D^ il ^T^ e il *P^ delle basi latine;
locchè per lo meno vuol dire, che questi elementi non ri subi-
scono tali alterazioni che la scrittura sia costretta a ricon(H
scere \ La Sardegna, all'incontro, sacrifica il ^D* primario; e il
^T^ riduce a c2, ma a questo d generalmente si ferma. Ridace
similmente il ^P^ a b, ma non scende in sino al v. La Sardegna,
per tal modo, si stacca dal vero tipo meridionale » fermandosi
a mezza via fra questo ed il settentrionale. E in qualche raro
caso, si compie già in Sardegna anche il resto dell'evoluzione,
come trovammo avvenire, per il ^P^, in istula (v. sardo centr.,
num. 26), o nel participio del sardo meridionale per il *T*. Or
quale è dunque la legittima conclusione che da tutto ciò noi
dobbiamo trarre? E manifestamente questa : che la transizione
dal tipo meridionale al settentrionale si compie nella Sardegna
anziché a Genova, e che le coincidenze fra sardo e genoyese
qui meno che mai posson far dubitare del carattere settentrio-
nale di questo. Se, a mo' d' esempio, il sardo smarrisce, come
il genovese, il d di ridere^ non fa diversamente il piemontese
il francese o il ladino occidentale ecc. ; ed è l'isola che ha
comune il fenomeno con questo gruppo settentrionale. E se il
sardo meridionale perde il t (cioè il d=T) di amato- trovato^ ecc^
come fa pur Genova, chi mai potrà vedervi una particolare o
conclusiva concordanza fra sardo e genovese, quando sappia
che il sardo compie per eccezione, in questo tipo, la evohizione
alterativa (t, d, zero), laddove il genovese, del pari che gli altri
vernacoli settentrionali con cui si collega, la compie di conti*
nuo? Tanto è eccezionale Yamdu del sardo meridionale, che il
feminile dello stesso participio vi serba ancora il d {améda;
cfr. il tipo ladino beau beàda Arch. I 97).
' S*ha air incontro nel napoletano la media da tenue, per naaal che la pre-
cede, fenomeno che ricorda le pronunzie greche ed albanesi; e pure RT ift
rd^ fenomeno che ò anche attestato dalla scrittura, ed ha notevoli riteontri
nel còrso: spirdu di callu in cor (io ispiri to di caldo in cuore) 35Q|
danu meritano 365.
Del posto che spetta al genovese ecc. 155
Altro fenom6no, pel quale il consonantismo de* Sardi si avvi-
cina a quello dei vernacoli settentrionali, è Tavervisi e (g) nella
parziale risoluzione di CL (v. sardo centr., n. 18), anziché lo kj
a modo toscano, o quel suono intermedio fra kj e e che dicono
proprio dei meridionali. Anche va qui notato il continuo digra-
dare dì C fra vocali in g sardo (pegus pecora, logud. zégii
cieco, ecc.); e di più si aggiunge in appresso. Alle quali osser-
vazioni sia qui intanto lecito farne seguire un* altra, di vario
genere, ma ugualmente diretta a ridurre al giusto valore le
concordanze che avvertansi fra Genova e Sardegna. Si riferi-
tee questa considerazione al sardo settentrionale; il quale es-
seodo, come già si è accennato a suo luogo, il portato di un
ìero guazzabuglio di genti d* altre parti d'Italia, tr^ cui non
ultima di certo la Liguria, sopravvenute modernamente in quella
ftriscia dell'isola, si può correr facilmente rischio di creder di
confrontare due termini affini, quando in realtà non si tratti
se non del termine identico che in due diversi luoghi sia stato
{Proprio della gente stessa. A tal categoria di tipi potrebbero
forse spettare: pesu, (feza, cazu (pesce, chiesa, caso), comuni a
Genova e a Sassari.
Ci resta di riassumere le di£ferenze che intervengono, rispetto
^Ic consonanti, fra genovese e piemontese, considerandole più
specialmente in quanto esse pajano risolversi in particolari con-
tatti coi vernacoli isolani.- La frequenza genovese di L in r
(b*17), ha riscontro nel sardo meridionale, in quanto si compia
dinanzi a consonante; ma non ve Tha in quanto si compia fra
vocali, che è il tratto più caratteristico e in parte si riproduce nel
napoletano. Queste sparse somiglianze nulla però conchiudono,
come ognun vede, si perchè sparse, e si perchè nulla v'ha di
specificamente meridionale neir alterazione di cui si discorre, che
i indigena e caratteristica di tanta parte del territorio cisal-
piAo^ Riman poi distintivo peculiare del genovese, il dileguarsi
^ntinuo del ^R' secondario e del primario '. Il frequente
* Cfr. Arch. I 263 (dove si potrebbe aggiungere arma = ♦alma, an[i]ma; ma
tll*ioeoDtro sarà forse da espungere zofrUy solfo, quasi ^solferu, con {gf-Q^f) ;
t r pur neir articolo, ib. 259 26C 208.
' La somiglianza, da molti avvertita, fra genovese e portoghese, in ordine
al dileguo del L delle basi latine (portogb. dór do[l]or ecc.), non offre nulla
156 Ascoli,
dileguarsi di v tra vocali, è comune al genovese e al sardo
(num. 19); ma siccome, dall' un canto, rimane affatto estraneo
al genovese il fenomeno di v in b, che in Sardegna si avvicenda
col dileguo (e si estende alle altre isole ed al napoletano), a
siccome, dall* altro, il dileguo di questo elemento, facile ovunque
e particolarmente consentaneo alla rilassatezza della fonetica
genovese, occorre in larga misura anche neir Italia settentrio-
nale (p. e. bergam.: céra ovaja, mot muovere, ecc.; v second.:
sai sapere, ecc., cfr. Àrch. I 290 359 ecc.), cosi non si può trarre
alcun partito da questa parzial convenienza tra genovese -e sardo.
Né si vorrà attribuir particolare importanza al concordar che
fanno il genovese e il sardo nell* espungere il v di QVE QVI
(num. 22), concordia che affatto cessa in ordine al QVA (gen.
cuantu ecc); e ad ogni modo, tra il setjuiri di Sicilia e Vasseghi
di Genova o Yeseghii (eseguito) provenzale di Nizza, il termine
sardo, cioè sighiri, rappresenterebbe egli, qui pure, la transi-
zione, e non il genovese. Quanto a ^ da e, e i da ^ primario
e secondario (num. 23 e 15), non e* è contraddizione fra geno«
vese e piemontese, ma v*ha solo, che il primo s* inoltri nell'al-
terazione più che il secondo non faccia. Cosi vi s'inoltra, molto
meno che Genova, pur la Sardegna; e questa conformiti di at-
tenenze fra Genova e Piemonte e Genova e Sardegna, toglie
senz'altro che le assibilazioni di cui tocchiamo (comechò s'in-
treccino con un altro contatto sardo-ligure, di cui più innanzi
si parla) valgano a separar Genova dal settentrione, quando
pur si voglian dimenticare e il Friuli e Venezia e la Francia;
ma ben piuttosto si ha qui ancora ad affermare, badando in
ispecie alle condizioni siciliane, che la Sardegna tramezza fra
d*iotrÌBS6CO in sino a che noo fi provi che il portoghese sia anch'egli pu-
tato, come fa il genovese, per Io stadio del r. Ora, non solo questa prova uoa
d data, ma a priori ha contro di sé, che il r primario non si dilegua nel por-
toghese, laddove nel genovese egli ha comune la sorte col secondario (quindi,
a cagion d* esempio, così mul morire, come nttiin - inuila = molino). Terremo
dunque fortuito anche rincontro dejrodierna forma deirarticolo genovese: u,
a, col portoghese: o, a; e analogamente fortuita la sua coincidenza con Tar-
ticolo córso: u a (accanto a Iti la; né faccia illusione a-dru 34 i, che dov*esser6
aW«fu = allu, e così ind'idr' inférnu ih., = indifjtiti *n[d]ello; v. Sardo set-
teotr., n. 16).
Del posto che spetta al genovese ecc. 157
il tipo meridionale ed il settentrionale. Causa di molte dis-
gianzioni fra piemontese e genovese, e causa insieme di somi-
glianze, certo osservabili, tra il ligure e risolano, ma d'ordine
affatto secondario come questa lor causa medesima c'insegna,
è la particolare energia del ; implicato, sia esso etimologico o
intruso (n. 16 e 18). Gli effetti di questa proprietà comune, ora
coincidono tra il genovese e risolano, ed ora no. Cosi a lor
ai sottraggono, nel genovese, le basi -ÀRJO ecc. e NJ (n. 2 e 16),
che air incontro li subiscono fra i Sardi. Le basi PJ BJ FJ, co-
manque surte (n. 16 e 18), li subiscono ugualmente e a Genova
e in Sicilia. Nessun linguista oggi revoca in dubbio (non escluso
ine pure, che un giorno dubitai ^), che da queste basi si passi
a e {kj), g, s, per effetto del ; che ingagliardisce e assimila a
aò r elemento che gli precede (dal quale però, ove sia suono
sordo, resta egli medesimo in parte assimilato) ; di guisa che si
abbiano le successioni che a un dipresso si rappresenterebbero
come segue: pj pz pg pc 'e e;- bj bz bg ^g g\- fj fz fs ^s s.
A formola interna, è più facile quello sforzo, pel quale si pro-
muovono queste evoluzioni; ed è più facile che la evoluzione
si compia per la base bj o vj che non per le altre, in questa
essendo omogenei sin da principio i due suoni (entrambi sonori),
laddove per le altro c'è 1* antitesi e perciò il bisogno di toglierla
{pipg pc; fz fs). Quindi è che da pj interno si possa venire
anche a e toscano {piccione pipione-), e che da bj vj interno si
abbia anzi facilmente pur g toscano {deggio ecc., cosi come da
DJ; V. DiEzP 185-6), dove può ricordarsi anche il logud. ruju
(n* 16). Anche a formola iniziale occorrerà abbastanza facilmente
p= Tj BJ pur in territorj in cui non s* abbiano normali le evolu-
zioni a cui accenniamo: e cosi trovammo nel sardo meridionale
(num.l6) : ghiaggianti^ e pure il córso ci darebbe^ancu {ghiancu)
bianco, e nel Friuli : 'géspe = *viéspe vespa ecc., non diversamente
che }^e5fre = *diéstre destra o cére = tiére terra (Arch. 1 511 512).
Al S. Bernardino, come la robustezza deiy interno ci si mostrava
cospicua in '&^'w ='bjuto (*aviuto avuto), cosi vi avevamo C'^pj-
in cen-^pién- (Arch. I 271), dove siam proprio all'esito ge-
novese siciliano, esito che ritorna ad aversi normale, fra i
' ^%tàj crit,^ I 33 = 311 ; ma cfr. FonoL indo-iL-gr.^ pass.
153 A&coli,
Lombardi, in più d*un territorio valtellinese {cu più, cang pian*
gere, ecc., Arch. I 271). Altro effetto dell* energia di j, ò nel
genovese lo i = SJ (num. 20), fenomeno che ritroviamo, in più
ristretti limiti, fra i Còrsi ed i Sardi. Ma non tanto è notevole,
in questo caso, la energia per sé medesima, quanto è la qua-
lità dei suo effetto; e la osservazione si complica per lo i che
da altre basi ricavano e Genova e Sardegna. Ora, in quanto al
suono per so medesimo, l'esistere lo i in Sardegna, in Corsica
e in Liguria, stabilisce di certo una particolar connessione fra
questi territorj; ma siccome lo i è proprio, oltre che de* Ladini
e de* Francesi, pur de* Lombardi, e siccome, ali* incontro, la To-
scana ben possiede un suono intermedio f ra p e i (lo g tra va-
cali), ma di là in giù, se io son bene informato, nò questo suono
intermedio, né molto meno lo i, più non risuona in alcuna parte
del continente italiano, ne verrebbe, che anche per questo capo
la comunanza si dovesse intendere nel senso che in Sardegna
ed in Corsica si trovino come i precursori del fenomeno setten-
trionale \ Quanto poi allo basi etimologiche da cui surge lo i
ligure quello del sardo meridionale, vedemmo che sieno per
il genovese, oltre lo SJ, anche lo i {s fra voc.) di fase ante-
riore, massime dinanzi ad t, e principalmente lo e delle formolo
interne CE CI fra vocali (num. 23), che dà luogo a una cospicua
serie di concordanze sardo-liguri, avendosi, a cagion d'esempio,
pàze, vùze, del genovese, allato a pàii, bózi del sardo meri-
dionale. Senonchè, surgon veramente allo stesso modo, in questa
serie importante, lo z del genovese e quello del sardo meridio-
nale? Io non saprei decisamente affermarlo; ma devo insieme
confessare, che mi manca il modo di inoltrar 1* indagine quanto
vorrei. Il continuo p genovese per il e di CE CI iniziale, chie-
derebbe uno *i a formola mediana tra vocali (cosi ancora è
nel sassarese), donde facilmente si passerebbe a uno i, come
facilmente si ottiene, nel genovese, da ogni altro i di fase an-
teriore, massime dinanzi a vocal palatina, per analogo fenomeno
' Nul dialetto di Massa, che ò come dire fra Io ultime propaggini liguri ed
il toscano, ci sarebbe lo schietto / ( Paolo Ferrari ), p. e. iu baio basio- ,
e oellVijiiio che già citammo (s. Sardo centr., uum. 20). Del rimanente, chi
•a quanto è ancora da trornre circa la geografia dello /.
Del posto che spetta al genovese ecc. 159
dello g in s. Ma la costanza dello z genov. è assai notevole nella
serie di cui si tratta; e dovremo forse vedervi il correlativo
dello e iniziale di una fase anteriore, il qual d si è dovuto ri-
durre, mentre z poteva mantenersi per la particolar propensione
di questo dialetto ai suoni z e s. Posto ciò, verremmo proprio
a riannodarci col sardo meridionale, dove è e il normale ri-
flesso dello e di CE CI iniziali, e lo i a formola mediana non
è altro se non quella stessa modificazione della esplosiva pala-
tina che avverrebbe anche a formola iniziale, date certe uscite
vocali delle parole precedenti; cosi: célu, cena, ma: su zelu,
sa ièna (ànqius 1. e. 447, Bonapartb 1. e. 20). Analogo ra-
gionamento si dovrebbe ripetere circa lo s genovese che occorre
nei riflessi di SCE SCI. La incongruenza, già a suo luogo av-
vertita (num. 20), tra questo $ nella continuazione di SCE SCI,
e lo p in quella di CE* CI-, ò ben singolare; poiché non solo la
schietta sibilante dentale suole aversi ad un tempo in entrambe
le serie (p. e. venez. (iél e passe), ma la sibilante dentale per
lo se di SCE SCI già si trova quando pur dura lo e iniziale
(p. e. mil. ce/, cervéll, pess, nàss, cress cressént). Io perciò ho
proposto una dichiarazione di questo i genovese che toglierebbe
valore alla sua coincidenza con lo s toscano o col sardo meridio-
nale; ma qui ancora si potrebbe considerar Io s come un avanzo
di fase anteriore, favorito da quella particolar propensione del
gttovese per le sibilanti palato-linguali, alla quale anche si deve
il determinarsi dello *ssj « CS come nel toscano, benché in mi-
nora diversa e specifica \ L* articolazione s è propria del resto
^Ache alla Lombardia, ed ò pur fra i Ladini occidentali, e tra
i Mooodi occorre propriamente nelle stesse funzioni etimologiche
cÌK6 ha nel toscano ecc. Comunque, una certa connessione, in
ordine allo 5, tra ligure, toscano, còrso, e sardo meridionale,
consimile a quella che circa lo i testé avvertimmo, mal si potrà
negare; che sono, del rimanente, di quelle connessioni che T atti-
gniti la continuità geografica importa dovunque presso che
sempre.
' La sene italiana che meglio si accosta alia genovese, parrebbe la sici-
IsaAa (f. lo spoglio siciliano, p. 148, al num. 20), ma ne rimane tuttavolta non
poco diTersa.
t
l
IGO Ascoli, Del posto che spetta al genoTese ecc.
Ed ora la conclusione generale. Tutto ciò che è veramente
caratteristico dei dialetti gallo-italici, ricorre anche nel geno-
vese; e vuol dire un complesso di fenomeni, che non si risolvon
già in mere alterazioni o in fasi particolari di maggiore o mi-
nore integrità latina, ma si in vere e specifiche trasformazioni
che il substrato gallico fa subire alla parola di Roma. AH* incon-
tro, nulla ricorre nel genovese di ciò che è specifico delle isole
o del napoletano (come (/rf=LL, rr = RN, mm = mb, nn = nd; ecc.).
Il genovese, o diciamo addirittura il ligure, ha fisionomia sua
propria, e dee tenere un posto distinto nel sistema dei dialetti
italiani; ma deve insieme annoverarvisi fra i gruppi gallo-italici.
Egli si ferma, in ordine alle àtone finali, ad uno stadio che
la maggior parte delle altre favelle gallo-italiche ha sorpas-
sato in tempi diversi, e con ciò rasenta la condizione dei dia-
letti isolani. Coincide con questi in parecchi importanti feno-
meni, per il fatto che tra i dialetti sardi ed i córsi si determina
una transizione dal tipo della favella italiana del mezzodì a
quello della favella italiana del nord. Coincide con le isole per
la particolare energia del j implicato, la quale, per altro, non
costituisce un fenomeno specifico, e importa fortuitamente la
particolar coincidenza, tra ligure e siciliano, rispetto agli esiti
di PL ecc. Ma entra il ligure, col córso, col sardo meridionale
e col toscano, in un* orbita dello i e dello i, intorno alla quale
restan molte indagini da compiere.
Nessuno, che abbia pratica di simili studj, vorrà dubitare
che le ragioni morfologiche, in quanto pur vadano al di li dei
limiti della fonologia vera e propria, o pur le sintattiche (dove
in ispecie si considera la maggiore o minore abondanza dei
pronomi ridondanti), e finalmente le ragioni lessicaU, in quanto
possano entrare in simili quesiti, non debban tutte perfetta-
mente corrispondere alle conclusioni ricavate dalle teoriche dei
suoni. Pure, la riprova non sarà superflua, e speriamo che non
abbia a tardare. G. I. A.
RIME GENOVESI
DELLA FIUE DEL SECOLO HU E DEL PRINCIPIO DEL XIY,
EDITE ED ILLUSTRATE
DA
N. LAGOMÀGGIORE.
(Questo primo saggio degli studj che vo facendo sul mio dialetto ligure,
emprende e teata illustrare una serie di rime in antico genovese, della fine
àA secolo XIII e del principio del XIV. I componimenti di cui parlo, fonte
colloso e puro delPantica favella di Genova, sono contenuti in un codice del
dgoor avY. A. Molfino, deputato al parlamento nazionale, cui mi d grato
qvi esprimere la molta mia riconoscenza per la compita gentilezza con cui cui
seeolse, provvedendomi di ogni comodità per trascriverli e dandomi facoltà -1
pubblicarli come e quando io volessi. E delle Rime e del loro incognito autore,
rsgìosò Io Spotorno nel primo volume della sua Storia letteraria della Liguria^
pubblicatosi nel 1824 (p. 280 e seg). Nel 1840 le esaminò il prof. Bonaini,
eaeefltrasse, coadiuvato dairavv. C. L. Bixio di Genova, dodici componimenti
llfirìci (dieci in volgare e due in latino), che furono inseriti neW Archivio Sto^
fico Italiano (append., voi. IV, n. 18; del 1847). Il rimanente è inedito.
Io ora premetterò una breve descrizione del ms., e qualche cenno sul modo
da Bie tenuto nel pubblicarlo. Darò poi il testo delle Rime; e fatte a questo
Mgsìre alcune notizie suir autore, mi proverò ad offrire un saggio storico
sslb fonetica genovese, ed altre illustrazioni.
ms. d € in pergamena, di carattere antico e probabilmente coetaneo al-
rAvtore> (Spotorno, p. 281). Consta di due parti, o, per meglio dire, sono
àa» codici in uno, come già vide il Bonaini. Il secondo e più breve codice,
sseh*e880 in pergamena, si riconosce a prima vista dai caratteri mutati, che
Mao men regolari e di aspetto piti moderno. Questo secondo codice non ò
conpreso nella presente edizione. Sì V uno che V altro ha due cartolazioni :
r Una piti antica in cifre romane, T altra in arabiche; fille quali n'ò stata
*8SÌQi^ta una terza a matita, forse recentemente, da alcuno degli esploratori
^ codice, per numerare le pagine superstiti. Ma non direi col Bonaini chu
^ seconda o nuova cartolazione sia stata apposta per fare un sol codice di
^w che erano (Are Ti. stor.^ 1. e); poiché seguita anche Tantica, sebbene con
l'intervallo di tredici numeri, nel 2.^ codice. A me pare che lo scopo della
suora cart. fosse di escludere tutte le carte perdute del 1.** e del 2.? cod.,
•^ comprenderne altre, forse avanzo d'un 3.® codice, che l'autore della
siiOTa cart., a quel ch'io penso, avrà alligate in principio del l.'\ Queste
•^^'^ttino poscia state distrutte, com'è avvenuto d'altre carte del 1.° cod. che
Wcora esistevano al tempo che fu fatta la nuova cart., e delle quali or ora
Archivio glottol. ital., II. 11
Id2 Lagomaggiore,
darò il novero; e le nuove lacune hanno finalmente dato motivo alla iena •
ultima numerazione di cui eopra. La mia opinione si fonda sul num. 10 di
n. e. che ó segnato sulla prima pag. del 1.^ cod. (al quale segue poi TU nella
seconda, e così via) laddove il num. dell* a. e. è vi, e nel continuarsi che fa
la nuova cart. in più luoghi ove T antica è interrotta. Con ciò d chiarita,
del resto, la differenza, ora in più, ora in meno, della 1> cart. dalla 2.*; chi,
p. es., in principio del 1.^ cod. la nuova è avvantaggiata di quattro numeri
suir antica, e neir ultime carte le resta addietro di sei. Rimangono al
1.* codice carte C7 (134 pagine), delle quali 6 e mezzo comprendono ritmi
latini, pressoché tutti di soggetto sacro, esclusi dalla mia pubblicazione. Il
novero delle carte mancanti al 1.^ cod., secondo T antica cartolazione, d il se-
guente: le prime cinque; indi quelle che portavano i n. xvi; xx; xxi; xxxu,
xxxiii, xxxiv, XXXV, XXXVI (questa lacuna di cinque carte fa séguito ai ritmi
lat.); xl; xli; xlii; xliu; xliv; li; lvi; lx; lxv; lxvi; lxvii; lxviii; lxix;
Lxx; Lxxi; Lxxii; xcii; xciu; xcvii; xcviii; xcix; e; ci; cu; cui; civ; cv; cri;
totale carte 41. L* ultima carta del 1.^ cod. è la cvnii; onde, sottratte le
mancanti, restano carte 67. Soggiungo ora i numeri delle carte mancaati
della nuova cartolazione, oltre le prime nove: 20; 24; 25; 36; 37; 38; 39; 40;
45; 46; 47; 48; 55; 60; 64; 70; 71; 72; 73; 74; 75; 96; 97; totale carte 23, e
computando le 9 in principio: 32. Neil* ultima pag. (e. e vini), doi)0 il compo-'
nimento cxxxviii ed ultimo, rimane ancora una colonna e mezzo in bianco, tenia
però alcun segno che indichi la fine del codice. Nella carta appresso comioeia
il 2.^ codice; e quivi il numero della n. e. è 104, ma Ta. e. salta dal emù
al cxxiij; laonde, come già accennai, mancano in principio del 2.^ cod. carte 13»
Ne mancif pure la fine; e dopo le 14 carte superstiti, vi rimane ancora Ila
frammento di un* altra, scritto anch*esso '. 11 1.^ cod., fino a e. Lxxxxiiu a.
e. esclus., è a due colonne; e incominciando da e. lxxxxiiu, ne ha tre. [11 2.* coi.
è a due colonne.] Ora, siccome mancano le due carte precedenti (lxxxxii •
Lxxxxiu), si potrebbe sospettare che vi avesse principio un altro codice; ma
il tutto essendo omogeneo, sì nella lettera e sì nella grafia, mostra di etiert
stato vergato da una sola mano. Il bisogno di economizzare lo spazio, acciò
la pergamena bastasse a tutta la copia, avrà indotto, a un certo punto, il
nostro amanuense ad aggiungere una colonna di più. Che il nostro cod.
non sia T originale, ma una copia, e di copista ignorante, ò troppo manifesto
dai titoli latini de* componimenti volgari, troppo spropositati per imputarli
air autore, il quale appare uomo culto, secondo i tempi. Que* titoli li avrà scritti
r autore con cifre e abbreviature molte, non intese dall* amanuense. E por
de* ritmi latini gli errori più grossolani sono da imputare al copista, il qual»
ne commette anche non di rado, e taluni molto strani, nella scrittura volgare»
I ritmi latini sono inserti tra i componimenti volgari. Cominciano a e. xxr a»
e. tergp, e terminano a e. xxxi a. e. tergo. Qui mancano carte 5, come gi^
vedemmo, e a e. xxxvii a. e. ricominciano le rime volgari. Il numero dei.
* la fine del 2.^ cod. reno cacite 5 carte [noo più membrAasceeJ . che codi
una copi* recente di due o tre componimenti del mi.; copi» non cfstts e smmoderaat*<»
Rime genovesi d. sec. xiii-xiv. 163
componimeoti superstiti del 1.* cod. (noa compresi i latini) è di 138; di parec-
chi mAOca il principio, o il mezzo, o la fine, per le lacune del codice. La
■critturm in generale d chiara, eccettuate alcune pagine in cui 1* inchiostro ò
■biadilo. I caratteri adoprati sono quelli del comune alfabeto latino, com-
preso J, eseluso V, aggiunto il C colla cediglia (9Ì; e a suo luogo noi tratte-
dei Talor fonetico che alle ortografie di questo codice si deve attribuire.
manca naturalmente di punteggiatura, di apostrofi, di accenti. Le maju-
Mob non sono usate d* ordinario che in principio dei componimenti a ca^K)
dtl Terso. Parola rinchiusa tra questi due segni // // vuol essere trasposta,
«Modo stata scritta per isbaglio dall'amanuense prima di quella o quelle cui
dsTt seguire. Il puntino sottoposto a una lettera o a più lettere, equivale a
«a cancellatura. Lo stesso ufficio, ma raramente, fanno due puntini, Tuno a
firìtta, Taltro a sinistra della lettera; una croce. Tien luogo del puntino
Mi*! una curva, che s'innalza come un principio di parabola. Ma spesso
■isea, e allora Vi pud parere un r. Talvolta non si discernon bene tra di
loro r< e 1*0. E talfiata si vede un a?, ma dev'essere correzione di in 0, u
La cifre e abbreviature de' titoli lat. sono più numerose, più capric-
i; e, congiunte con errori di lingua, li rendono talvolta inintelligibili.
Dilli ligie usuali mi limiterò ad avvertire la linea iu tralice, soi'montata alle
àm «tremila da altre due linee diritte e volgenti a destra, = ru (beuast ''o
=Wtutnio\ e talvolta (ma raramente) = re (vent "sca = ventresca\
Io riproduco fedelmente il codice, con tutti i suoi errori, anche i più gros-
■km, sccetto quelli che sono additati, coi segni che dicemmo, dallo stesso
nimiiDie. In tutta la penosa trascrizione ho adoprata quella maggior dili-
rm di cui sono stato capace; e dopo aver compita, colla attenzione più
Kripolon l'intiera copia, la ripassai verso per verso sul codice, correg-
(Mdo Dslla stessa revisione anche le rime già pubblicate neirArc/iicto sto^
^« che rieompsjono al loro posto nella presente edizione. Ma per quanto
■i lii stata a cuore la riproduzione fedele del mio testo, mi ò parso tutta-
^ di dover qualche cosa concedere al naturai desiderio di renderne più
Me la intelligenza o meno molesta la lettura. A questo fine ho introdotto :
l**li|Hti accurata punteggiatura che mi è stato possibile;- 2.** le majuscole
*ii Kni propij (segnatamente per distinguere de 'Dio* da de prep. e de verbo
^', 'diede';- 3.* la distinzione tra u e 0, circa la quale non mi resta van
M(j M non in pochissimi casi;- 4.^ la giusta distribuzione delle sillabe e
littvt secondo le parole a cui spettano, là dove nel ms. stavano aggregate
ocoado i inggerimenti dell'orecchio od a caprìccio, anziché secondo il senso;
^ NBza riportare in nota la scrizione del ms., quando paresse straordinaria
B notarla lasciasse luogo a qualche ragionevole dubbio. Va poi da so che
h rinlto le sigle e cifre d'ogni sorta, mandando però fra le noterelle appiè
'f^ina tatto quello che fosse o dubbio insolito. In queste noterelle
^ poi segnar principalmente tutte le lezioni più o meno incerte, e tutte
^ ■ttooalie notabili del ms. Inoltre vi offro o propongo la correzione di forme
'^''vtemeate errate per isbaglio dell'amanuense, o di passi che non danno
***>; oppure mi contento di avvertirvi che il passo mi paia gravemente difet-
^ scorretto, senza spender parole in cerca d'una correzione troppo con-
164 Lagomaggiore,
getturale. Che se avessi volato notare tutto ciò che d o pare errato imII»
forma o nella sintassi, oppur tutte le ferme e parole della cui genuinità ai
può fondatamente dubitare, e cercar di correggere tutte le rime e raggiusterò
tutti i versi falliti, questa parte del lavoro sarebbe cresciuta a dismisura •
con molto scarsa utilità. Del resto, di certe scrizioni, erronee sì, ma frequenti
(p. es. di r aggiuntosi in fine di paroU senxa alcun valore), si dovrà riparli
nelle illustrazioni fonologiche.
I (e. vi).
che quela gran solenintae
ora do la nativitae
de la bia vergem Maria,
4 chi da festa tuta via.
e comandao gi fo quella ora
che lo tese a dir senza demora
a lo vicario de Criste
8 le cosso eh el avea viste,
e de cosse tanto honesta
fese ogni ano far gran festa,
quelo santo omo no fo lento
18 en far lo comandamento,
lo santo papa zo odando,
per lo mondo fé comando
che questa gran festa biaa
10 ogni anno fosse celebraa.
e per zo che gè manchava
avQf ordona Toitava,
che for De vosse che manchasse
tu a zo che atri gè meritasse,
poi un gran tempo aprovo
un papa creao de novo,
valente e savio o coopio,
Innocentio zenoise,
chi a far ben era tutp exposo,
e n monto faiti vertuoso,
manda per la crestianitao
che questa gran solenitae
citava dovesse aver;
si corno se comver per ver
a quela sunta inperarixe
chi de lo mundo e guiurixe,
doce vergem Maria,
chi senper seai nostra guia,
per aquistar lo doge viso
de Jeso Cripste in paraiso.
ir.
De beata Margarita (ivi).
Vergem santa Margarita,
chi in questa ilagel vita
en ogni onor e van deleto
1, 1. soUnnitae, 9. costcu 23-4. manca la rima; a conpio potremmo sostitoiV"*^
corUùe. 24. senoeise» 2^ ò scritto qua&i soUnitaeu Forse un a corretto; ^
forse un*t* agiriuuta dopo, tra Ta e T t scritto per isbaglio, nel poco spazio ci
ci rimaneva. 3'). comten\ il uu. com ver, 31. potremmo pur leggero 'mj
rarijctf, mancando alPi il puntino, o, per meglio diro, la linea obliqua
prata con tale ullicio in questa antica scrittura: omissione per altro non rara.
U, l d scritto quasi òfaragarita, 3. forse da espungere en.
Riìne genoTesi
mper avesti in sospeto!
Dtìna de gran belleza
aobel cun gra richcza,
rgenitai servai
leso Crìste e o amavi
tu devotioQ iojosa,
i qua e voi eri sposa;
poi che in lui consentisti
Iti da lui no ve partisti.
len parsse quanto voi 1* amavi ;
thi fantina contrastavi
ilo marvaxe tjrano
ehi Te percazava dano:
pigan neco e inìgo,
de Crìste grande inimigo,
ehi coQtra voi gran proa fé
fer trane de grande fé :
ai monto te trova forte;
che oi per pene ni per morte,
BÌ per lusengue ni per donne^
corno la scritura exponne,
Bo T6 fé comoviraento;
eU avei fondamento
n Crìste, si corno in saxo
cbi ta mai non pò dar squaxo.
loante vilauie oistì ;
« quante penne soferisti
^ loto e de greve batimenti,
peten e bacil ardenti,
ehicoxean e squarzavan
* ta Te sangonavam !
fuor ma misa en prexon
^ieTola da lo dragron;
^ Qter lo qua tosto enxisti
* presta morte gi daesti,
d. Bec. xiii-xiv. 105
nter pusor tormenti re
fosti alo scampar da De. 4o
degola fosti a la per fin,
gagnando lo regno divin.
mai inanti la vostra morte
festi a De pregerà forte 4\
pre caschaun chi ve pregasse
e a voi so reiamasse
quando a lui fosse meste
per scampar da alcun combre, a
o voi avese in memoria
e lezese vostra ystoria
pregando devotamente,
fosse exaudia incontente; 5t
e tuto zo eh oi demandasti
encontenente aquistasti.
vo antanto ama da lo segnor
pregai per peccaor, ?'*«
che me dea scampamento
da ognunchena noximento,
e me dea vita pura
e con vertue fin segura, oo
e me condugue in la per fim
a quelo regno chi e pin
do ben chi ne se pon contar,
ni pò increser ni manchar.
III.
De fiatitiiate beate Marie Virginis
(ivi, tergo).
Ben fosti veraxe manna,
doze vergen de bon ayre,
gloriosa de De mayre,
chi naxesti de santa Ana;
éi
^fmatera il ti, ma ò cancellato. 10. de qua voi. 14. il P a dì cantra'^
•••inon è chiaro; tiene dell' o. 20. trave. 21. l'è trova. 36. dragon;^ il
••• * tota. 38. il ma. da esti. 40. scampaa. 43. ma. 52. exaudio. 56. ptt
Spumar.
166
che anti che voi fossi naa,
creatura graciosa,
rosa lucente e graciosa,
8 fosti da De santifica,
voi sei la nave iojosa
chi aduto avei lo re de cel.
tuto da chi per voi quer
u la soa man pieotosa.
1 omo e vojo comò cana
de vertue e d ogni hen;
ma chi in voi speranza tem
16 may inderno no s afana.
Toy sei porto e scara e ponte
chi voi in cel a De montar :
ze, chi de doncha dubitar
so che per voi ne gè monte?
se tentation no gè engana
e portemo cor inigo,
per scampar da 1 inimigo
u voi seai nostra cabana.
per la vostra nativitae,
beneita vergem Maria,
ne conduga vostra via
28 en la sovrana citae
chi de tuti ben e pina: - '
voi ne Qo fai pervenir
en tanti zogui conseguir,
ss chi de lo cel sci reina. Amen.
IV.
Ad sanctum Petrum (ivi).
Glorioso apostolo san Pe
chi le ihave tenei de cel.
Lagomaggiore,
chi poei axorver e lìgar,
a chascaun guierdonar,
e per lo segnor De seguir
voresti morte soferirl
da Eroi fosti encarzerao
e duramenti inferrao
en guardie e stretture forte
per devei recever morte,
circondao da tuti laj
de monti cavaler armay.
constreiti de tar maynera
speranza d ensir no era,
se no de lo atissimo De
chi voi salvar e bon ere,
e vole e oi scampassi
e lo so povero guiassi;
e per la soa pietae,
en cossi gran neccessitae,
1 angero so degna mandar
per vesitave e con solar ve,
e de carcere cossi greve
ve trasse in tenpo cossi breve;
lo quar ve scosse d ogni peaa
e de prexon e de caena,
e n lego segur ve misse
a zo che ben seneguisse,
voi chi tanto ben avei baìlia
e sei de li atri cho e guia.
boi mi peccaor meschin
chi de iniquitae son tuto pin,
e n malitie e in peccao
son grevementi inprexonao,
e li inimixi o intomo
chi me ennavran noite e ionio!
it
111,7. forse preciosa. ]2, pietosa, 14. U 1.' sillaba dì vertue non si legf*
chiara. 18. vor, 21. la negativa perverte il senso. Forse noi engana^ o
ne engana; e il pe d ripetuto per isbaglio dal ts. precedente. 27. aya 'aiate*?.
31. e tanti, IV, IC. e bon ere. Piii e che e. Forse chi ben ere 'chi bea cr»-
de'. 22. eonsolar^ ovvero mandarve. 28. ne seguisse ì Poco chiaro.
Rime genovesi
santo priocipo beneyto
ehi in cel sei recoieto,
poi che oi' sei tanto possente
« 6 pin de ver tue tante,
pregai per mi lo segnor De
che in ogni perigolo me
a ncontra ognucbana noximento
et lo me dea salvamento,
e mi 1 angero so me defenda
che 1 enimigo no m ofenda;
• de peccao me faza mundo,
4S de che e sento si gran pondo,
e me faza si vertuoso
lui servi con cor ioyoso;
ti che per cura e per perguere
9t de voi, gran principo sobrere,
e sea salvo e mi menei
m qnela gloria unde voi sei,
con quelo greto benastuo
9i ehi da De V e conzeuo. Amen.
V.
Ad sanctam Luciam (e. vii).
Madona santa Lucia,
de gran meriti condia,
monto nobel per natura,
4 dolce e humel creatura,
chi gran.richeze a voi laxee
eiapiegasti in porvetae,
a mendigui sovegnando,
f aemper a De proximando;
d. sec. xiii-xiv. 167
en la corpaa fosti e acussaa
e a un tyrano apresentaa
de quela gente pagana,
per zo che voi eri crestiana. 12
per mantegner vergenitae
avesti grande aversitae;
tanto ve vossem perseguir
per virginitae vostra rompir, i«
voiandove partir da De,
e voi tira in logo re
unde chascbaun de lor
far ve posse desenor; to
che tuta soa forza missem
a zo che eli ve perventissem,
per zo che voi li confondeivi
chon le raxon che voi dixeivi. u
ma De chi sa soi servior
e aprestao secorcor
con lo so Spirito Santo;
unde fermamente tanto, 28
che ni corde ni con cavi
ni con boi ni homi bravi,
de lo logo unde voi staxeivi
e fermai li pei teneivi ss
ne ve poen mai stram uar
per de ver con voi peccar:
che nexun inzegno var
un De vor contrariar. 36
centra voi lo fogo ardente
e atre penne incontenente
fone amortae, corno De vosse
chi da conscio in tute cosse. 40
30. p^sttmU. 51. preguere. B5. Ve di greio partecipa dell'o ; - benastruo. —
V, 5. iajBOé 6. scritto e in piigasti; leggi empiegasti. 9. cosi il m«. Forse:
« mearptui fottu 22, pervertissem. Questo verso nei codice sta, per isbaglio
MTamaBoenie, dopo i due susseguenti (23-4). Due punti (:), segnati a de-
di easo, avvertono dell* errore. Altri segni ( // ) sono preposti , per lo
flae, ai due versi 23, 24. 29. con corde, 39. fonu
168
Lagomaggiore,
per la quar in la per fin
da queli peccaop meschim
d un fer iao pozente
44 fosti scana in presente,
en cel fazando habitanza
unde e ra nostra speranza;
tosto puni lo Creator
48 li nostri tuti noxeor.
santa vergem benastrua
chi sei tanto a De piaxua,
elo per voi scampa no degne
52 de tute cosse maregne;
e in si so amor ne ferme,
chi no manche e no merme,
eh a lo so regno ne conduga
5fi unde so splendo reluga.
VI.
Expositio Misereré mei Deus
(ivi, tergo).
Misericordioso segnor me,
voi chi sei redemtor me,
e vostro humel servior
4 chi sun grande peccaor
suplicando ve requerero,
doze pai re in chi e spero,
che segondo le quantitae
8 do la vostra gran pietae.
a mi pentio perdonai
tuti li mai che uncha fei.
aiai, Meser, marce de mi
chi semper pecco e noite e di;
e no guardando ingratitudem,
seguiido la gran multitudem
de la vostra pietanza
chi tuti peccai sobranza,
perdonando incontenente
a lo cor chi ben se pente,
la mea iniquitae destenne
en che me iorni son perdui;
e la vostra man soave
d ogni offenssion me lave
e da la corpa chi m afonda
da chi inanti me munda.
eh e me cognoxa oifeisa
de li mai chi m an conpreisa;
me peccai con cor dolento
semper denanti m apresento,
denanti voi chi tu veivi,
e mi perde ne voreivi,
cornisi greve pecca;
chi per voi sean perdonai,
a zo che tua marce venza
qucli chi dixem De senza
misericordia punir
e pur iustixia seguir,
en peccai son conzeuo,
if
la
so
2à
96
Al, per la quar cossaì 43.ponzente. 46. ms. unde era, 47. Ve di creator
non ò intiera, e somiglia ad un t. 48. vostri. 51. scritto ndegne^ ma
sopra il primo n è un piccolo o con un'appendice. E piuttosto un semplice
che e od oi, VI, 4. dopo il quarto verso è scritto, in caratteri rossi: 'Et
secundum tmtltitudinem; e così ogni tanto un frammento del salmo, cho
io ometto. 5. requero, 7. la. 19-20. Forse va letto destenge 'stingere*,
benché fra t e n ci paja ancora una lettera, somigliante a un e o ad un r. Il
testo lat. dice: dele iniquitatem mearo. Mu forse questo destenge ò uscito
dal cervello dell'amanuense, e VA, avea scritto destrui^ come la rima ri-
chiede. 2o, cognoxo;- offeiso, 26. conpreiso, 31. peccai.
Rime genovesi
cb i lo mundo vegni nuo,
e la maire chi me portaa
40 en li peccai me zenera.
tuli chi senper ami veritao
cosse m avrisii le quao
toa sapientia conposse,
44 chi a mi ^tavan ascosse.
Meser, asperzime de isopo,
chi in peccao ahundo tropo;
a zo che esca ben mundao,
45 chi tanto sun contaminao :
lavai me e fai me franche,
e pu ca neive esser bianche.
de 1 isopo cho ma dito
52 me par che se trova scrito,
che tree propietae ha:
che sun pree raixe faa;
basseta erba pichenina;
60 e polmo enxao meixina.
quella de la prea dixe
che in Cristo don far raixe,
per far segur fondamento
60 e de vertue casamento ;
e per basura humilitae
centra tute le peccae;
a soperbia contrasta don,
M con enxaura de polmon.
la neive a quatro propietae,
che odo dir esser cotae:
pulmeramenti de cel ven;
es poi deslengua aigua devem;
biancha e freida per natura.
de zo dixe la scritura
72
70
80
d. sec. xiii-xiv. 169
che ogni gracia e bon fiuto
dem aspeitar aver daito
da quelo De chi tute ve
e a chaschaun prove;
e zo che homo pò conseguir
dem atrui destribuir;
biancha avei per veritae,
e freida esser per castitae.
questa neive e questo ysopo
non de esser bon siropo?
da, Messer, a la mea oja
goyo e lagranza compia,
si che in la mente e in la faza
mostre che in tu to piaxer faza, si
con alegro proponimento,
senza alcun increximento;
cho servixio no e graevel
chi no se fa con cor piaxever.
Messer, stravozi to aspecto,
e no vei lo mei defeto.
tute le mee iniquitae
sean per ti mortificae.
crea in mi un cor mundo
chi de veritae sea abundo,
e spirito in mi renova
8S
92
93
no me parti, Meser, da ti,
chi degnasti morir per mi,
ne Spirito Santo me toier
chi me de con ti recoier.
dame alegranza, segnor me,
de ti chi e salvaor me,
e in spirito principal
99
39. porta. 41. tu; la 2.* e di veritae è un i corretto. 51. cosi il ma.
S'ha a leggere: ch*o mo ditoì 54. fa, 67. prumer. o forse anche pur^-
mer, 77. bianchezaì 78. che è questo femminile (cfr. 25-6^? Forse scri-
vendo aveva in mente T anima. 84. ms. iti tuto. 95. dee mancare un
verso.
170
103 fa sempe mi perseverar,
e agnomo chi desvie
mostero le toe vie,
e li empi chi morram
107 a» ti se coQvertiram.
trame de corpa e d arror,
chi de iustixia e segnor,
per che mea lenga preiche
Ili le toe aveerie esser drite.
la mea voxe e li me lavri
con tea sapientia avri:
lo sovram lavro in to amor,
115 sperando vei ti, Salvaor;
1 atro in lo to timor,
temando 1 infernar dolor;
per to loxi preicar e dir
119 e li eranti converti
sacrifica, Meser, vorea,
comò in antigo se sorea;
ma se tar sacrificio avesi
123 no te gè deleterexi.
la sacrificio tea grao
de spirito contribalao,
e so che t e monto grajo
127 cor contrito e ben pentio.
la to voluntae benigna
in toi servior consigna«
per refar le derrivae
isi mure de questa citae.
lantor, noi mundi de vicio,
te piaxera Io sacrificio
de iustixia e d onor
135 de li toi bon servior.
e en quelo che gente antiga fé
Lagomaggiore,
per ti servir a bona fé,
chi tuto ave compimento
quando Criste ave tormento,
te seram tuto acceptabel;
dagando gloria durabel
a caschaun chi seraoi degno
de possei lo to regno,
gloria loso e onor
sea a lo nostro creator,
chi ne conduga a queli ben
chi za mai no verram men.
i«i
111
VII.
De sancto Cosme et Damang
(e. vili tergo).
Considerando che sum re,
necho e malvaxe e re,
si mainganao da co a pe
che niente g e de san, 4
e o perduo lo tempo me,
ni so se viva deman,
pregem per mi lo Segnor me
san Cosme e san Damiam. Amea. •
Vili (ivi).
Chi per vila e per montagne
usa tropo le castagne
con vim brusco e con vineta,
sonar speso la trombeta. 4
e Lavicena comanda
de no usar tar vianda
chi fa tanto vento agrego:
schivaila, eh e ne prego. s
104. a *gnomo^ o a agnomo' ì 124. lo. 142. forse sera, VII, 2. correggo
van, 3. il ms. sima inganao^ che suona: &1 ni* ha iogaonato. Ma l'errore
è manifesto. Vili, senza titolo; immediatamente dopo quella che proeo»
de. 4. sona;- sp€$o pare sposo. 5. il ma. la vicena.
Rime genoTesi d. sec. xiii-xiv.
171
IX.
Di Symonis €t Judé (e. ix).
O san Simon e san Tade,
grandi apostoli de De,
de Criste coxim zerman,
4 lame de li crestian,
chi per la santa fé moristi
e monte gente convertisti,
pregai per mi lo Salvaor
I che in lui me dea tanto amor,
che ogni me faito e me voler
sea tato in so piaxer;
a ma conduga in paraiso
it linda e semper zogo e riso. Amen
X.
De sanclo Nicholao (ivi).
San ?«icheroso confesor
chi sai pin de pietae
a aprestao secorreor
4 an ogni neccessitae,
m mi malvaxe peccaor
tato pin de iniquitae
campar sea consolaor
• iB ognonchana aversitae.
XI,
JDe umeto Siephano prothomartire
(ITI).
Sam Stavam de gratia pim
chi par la fé morir prumer,
fmgBndo per li soi guerer
entre si greve remorim, 4
pregne per noi lo re de cel
chi ne conduga a bona fin,
e de questo mundo meschim
ne menno a lo sovram hoster. s
XIL
De Sancta Kaihelina virgine (ìtì).
Chi vo devotamente ojr
ristoria che voio dir
de mente e de gran dotrina
zo de santa Katelina, 4
per certo gì fazo asaver
che gran fianza pò aver
d avei secorsso intregamente
in ogni greve accidefte s
de questa vergem benastrua
chi e tanto a De piaxua;
che chi per lui vor demandar
tuto g a promise de dar. is
de lo re Costa fo fiìora;
monto fantina misa a scora,
tanto in leze se destense
che in dixoto agni si inpreise is
le sete arte liberar
com monto seno naturar :
si savia e ordenar
e d ogni ben àcostumaa fo
e de belecce e de dotrina
no se trovava, per fantina.
anti che diga soa y storia
ve voio dar in memoria t4
comò eia chi era pagana
devegne santa crestiana;
per zo de so convertimento
?. apottoii è abbreviato: opo/t, con una linea attraverso il /. X, 7. séoi.
XI» 2. nu>rù XII, 13. Costo, 15. correggo desteise, 10. ordénaa.
172
28 ve voio far comezamento. ^
dirove brevementi in somma
che un grande inperaor de Roma
un so car fìior avea,
32 da chi dar moier vorea
pu bella e savia e meior
chi se posse trovar lantor.
per cossa de si gran pondo
3G manda doi soi messi per lo mundo.
e in Alexandria vegnando,
e in la per fin trovando
questa fantina de bo^a ajre,
40 fem con li amixi e con la mayre
matremonio e contrato,
comò se dixe a sì gran fato,
che quante vertoe se cerchava
44 in questa s^sa se cercava,
li messi se . . . lantor
per consolar 1 emperaor,
e dir comò era ben compio
48 ^0 che li aveam perseguio.
venando noite la fantina,
per inspiratione divina
e deliberation sotir
53 infra si comenza dir:
se faita e si longa via
per mi cercando esser compia
da li messi de questo sposo,
50 chi a mi sta si ascoso,
e mi an vosuo ver
per saver se don piaxer
(ni creo che in mi consentisse
60 se manchamento gè sentisse);
ben son mata e da reprender
Lagomaggiore,
^ se alcun sposso vota prender
se no vego so ni proo
soa condition e moo,
comò elo e savio e scotrio,
san e bello e bem norio,
e le condition de si,
comò elo vor saver de mi.
per certo voio statuir
i nilun sposo consentir,
se elo no e si prefeto
che no gè sea nixun defeto.
1 endeman tute este cosse
a la maira contar vosse.
digando che atro no farea
se no comò proposo avea.
la maire con fronte iroso:
tu ai ma in ti perposo;
a tener questo partio
mai no troverai mario.
voi tu desfar si bello contrato
comò per noi in ti faito?
ni in lo mondo trovar poi
tar sposo comò tu voi.
la fantina gè respose,
e soa voluntae gè aspose:
se tar trovar no lo porroo,
vergenitae serverò.
a un hermito santo paire
ze, guiaa da soa maire;
e, recontando la raxun,
Termito fé responssion,
digando; fiìa, no re trai
pati si ben ordenav.
la fantina dixe: a bostuto
6^
80
84
8f
Oi
28. comen:g, 32. a chù 44. trovava, 45. la parola che tralascio è par con
tre altre lettere che paiono tti. Forse se parten^ ma non è scritto. 63. so; cor-
reggo: eso. 74. a la mair acontar 1 76. la 1 a sili, di proposo è in cifra,
cioè un p con un'appendice a sinistra dell'asta; la qual cifra in altri esempj
equivale indubitatamente a ro. 82. manca fOy o meglio e.
Rime genovesi
05 tener voio me statuto;
bì consentirò in sposo
se no corno e o preposor.
1 ermito odando este raxum,
100 conmenza con devotion
li ogi a cel levar ;
e De gi TOSSO revelar
^ de sto faito tuta la via
04 per spirito de profeci a:
che per vita e per dotrina
de questa santa fantina
qoela terra sarverea,
108 e a De se tornerea.
6 dixe : poni mente,
ee muar voi to talento.
la dixe che ferma staxea,
uini d rata guisa farea.
l'ermito dixe: or me intendi,
e zo che e diro atendi.
e so per ti un sposo tar
US che no g e cosa da mendar;
^ tuti li dexiderij toi
e 1 e pur tar comò tu voi:
e per certo savei dei
1» eli e sovram de i atri rei ;
e lo so regno nixum mor,
ni g e infirmita ni dor;
sempep alegreza e sanitae
m senza alchuna povertae.
eia respose: sauto paire,
<luesto sposo de bon aire
porosi voi far che e lo vise
1» e mi lo consentisse ?
elo gi dixe: ver lo poi,
se ben cree tu me voi;
e se consci meterai
147
d. sec. xui-xiv, 173
per to sposo 1 averai. laa
la dixe: e son per obeir
quanto de ben me vorai dir.
1 ermito dixe: questo sposo,
chi e si maraveioso, laa
de che e t o dito tanto ben,
no t o e dito lo centem,
fiio e d una dona aotissima;
monto e misericordissima, 140
de tute reine e sobrera,
nixuna n e de tar mainerà;
e fi apelaa Maria,
pina d ogni cortexia; 141
de tute e secorerise
e per tuto unde se requer
a caschaun e de river;
d ogni cossa da liveranda
a caschaun chi la demanda.
per che tu farai cossi,
che partandote de chi
in la camera te rechui,
e humelmenti prega lui
che degne mostra ti
lui e so filo con si. 155
la fantina obediente
tuto zo fé devotamente;
e quela che la requirir
incontenente i aparvi, 159
con monte vergem incoronae,
no se pò dir la quantitae,
con tanta luxe e resplendor
ohe no resplende sì lo sor. lea
e dixe a quela fantina:
che me voi tu, o Catalina?
e sun qui posso dar
151
%
^ preposo. 112. scritto drata (= d'altra). 128. e e mi^ cioè e en mL
145. de tuti. Qui manca un verso. 154. a ti, 158. requiri.
174 Lagomaggiore,
167 quanto se me pò demandar. e levarle per batesmo
eia respose: s o sei quela,
e son tuta vostra ancela:
pregove eh o me mostrei
171 lo car fìio che voi aver;
e poi che 1 e cossi ioyoso,
che me Io dagai per sposo.
lo fiior vegne a presente,
175 pu cha lo sol resplendente,
circundao de compagnia
tar comò gi convegnia;
a lo quar dise la reina:
179 doze fiior, questa fantina
per sposo dixete d aver,
se 1 e lo bon piaxer.
lo fantin alo gè dixe:
183 ben me piaxe, se la vise
d alcune macule purgrar
de che la vego esser tacbaa.
questa compagna desparvi,
187 e la fantina s adormi.
#como vegne la matim,
a 1 ermito fé so camin.
contandogi zo che la vi,
191 quelo monto se goy;
e dixe: sta seguramenti
e no temer de niente;
che ancoi lo verai
195 e per sposo lo veirai.
quela lo preise a pregar:
deiaimelo, per De, mostrar
maie che o, de che me peìsa,
199 donde e son staa da lui repreisa.
1 ermito dixe: se tu voi ben
cree e far zo che conven,
de santo crestianesmo,
le maie de paganitae
tute seram despegazae ;
e cossi lo santo sposo
sera de ti monto ioyoso,
e tu ben monto apareiaa
de zo che t o amaistra.
e caramente e volenter
quela gi dixe: si, meser.
lo gi comenza a mostra
ordinamenti e desclaira
li articoli de la santa fé,
per che ognomo salva se de:
comò Cristo in carne vegne
e passion per noi sostegno,
nao da quela vergem pura,
sovrana d ogni creatura;
e per salvar tuto lo mundo
ne trasse de gram profundo;
lo tergo dì resuscita,
pareisementi in cel monta,
regnando in soa maestae
e gloriosa terni tae;
e la per firn de retornar
morti vivi zuegar.
quella, si corno 1 odir vose,
gi confessa tute cosse,
batezaa fo de 1 aìgua pura
chi descaza ogni brutura,
e in ver cassa e retornaa.
fo caramenti amaistra,
e n quella meo fa preguera,
chi fo la noite primera,
envocando la gloriosa
171. avei, 184. purgaa, 192. questo suiBsso avverb. ha due forme: menti
mente. Qui la rima richiede la seconda. 195. forse l averai, 202. lavai
te. 227. e vivi. 223. ms. lo dir. 233. il testo pare scorretto. Forse ques
verso va tramutato al posto del precedente? 234. e n quello mooì e n quél
mo ('ora')?
Rime genoTesi
\ sa mai no sta ascosa,
> se gì pìaxa de mostrar
IO filo con ssi menar,
lo qual devenir sposa
e tanto dexirosa.
trando in leto la fantina,
eia noi te la reina
^ne con 1 onipotente
fiior si resplendente,
D tanta gloria e honor,
le no se pò dir lo tenor.
iamando la fantina,
1X6 a lui: o Catarina,
tki e me fiio glorioso,
he tu dexiri aver per sposo.
iBtor dixe la fantina:
t, gloriosa rejna,
le ta fiior degna foso e
destar seta li soi pee!
la maire dixe a lo fiior:
loesta fantina con pur cor
delie tanto dexirosa:
piaxate de avla per spossa.
bIo dixe: tanto e bella
B homaa questa pocela,
nenie in lui posso comprender
:be me paira de reprender;
K>i che 1 e si graciosa,
«fi la voio aver per sposa.
I maire dixe con gram paxe:
posJa comò te piaxe.
intor quelo santo roario
inelo gi mìsse in dio,
caro e bello e precioso
d. sec. xiii-xiv. 175
corno dexeiva a tar sposo. s7i
lo quar cossi iojosamente
se dexea encon tento,
trovandose 1 anelo in man,
chi de 1 aotri fo sovram. 275
e questo conserva tachim
a lo di de la soa firn:
de la quar firn dira adesso
1 istoria chi ven apresso. 27y
madona santa Katelina
de grande vertue e pina
fo de grande filosofia,
e de costumi ben guarnia. S83
poi de la morte de la mairo
de lo re Costo so pai re
de gram richeze era forni a,
chi de lo paire gi venia. 2!»7
quaxi dixoto agni avea,
monto bellixima parea.
dentro vestia celicio,
de fora porpora e naxicio. s»i
un gran Maxem imperaor
enn Alexandria era alantor,
ydolatro e pagam
per veso ogni crestiam. ^^
tuta la gente congregava
per festa chi s afrezava;
a dever sacrifica
grande mesior se fa, sm
com boi e bestie pusor
chi faxeam gram crior.
questa dona odando zo,
grando dolor aver in cor so, 303
vogando far si gran spesario
X ma. de uenir. 256. tra alo e fiior sono due lettere cassate, non saprei
•« li bella posta o uo; ma vi si ccorge so. 259. aoerla. 212. la quar.
t ò errore manifesto Yun gran maxem del ras. Dovea dire Maxemin o
:£imin (lat. Maximinus) senz'altro. 293. il ras. en nalexandria. 295. cos\
ID». 301). ave «cioè até).
176
Lagomaggiore,
in onor de 1 aversario.
con grande odacia e vigor
307 ze a reprender 1 enperaor ;
e conseigo contrastando,
e raxon sotir digando,
defendese no poeiva
311 a quela chi lo confondeiva.
in paraxo la fé moenar,
e con gran studio guardaa:
e, gran beleze che 1 avea,
315 maraveiosa gi parca.
e poya la fé de for menar
per conseigo raxonar,
spiando con scura ihera
319 donde e equal e chi el era.
eia respose ben e tosto:
fiia foi de lo re Costo,
noriga delioaraente;
323 ma tuto zo tegno a niente;
e servo a quelo segnor sobrer
leso Criste re de cel.
ma tu no sai che tu aori,
327 e in to dano lavori :
quello ohe servi noite e dì
ni si pò ayar ni ti;
e ti e li toi seguior
331 vivi tuti en grande error.
lo re dixe: segondo zo,
8 e pur ver lo dito to,
lo mundo e pur in error malvaxe
835 e tu sora e verax,
de la quar cessa e niente:
tu parli fermamente,
ni voio a ti consentir
ni creer zo che tu voi dir.
la fantina dixe lantor :
no te venza lo foror;
se raxon te reze, si e rei
e far le cosse che tu dei;
ma, se te porta to voler,
per servo te poi tener,
lo re chi lantor veiva
che defender no se poeva,
ocultamenti fé venir
cinquanta maistri sotir
de scientìa e dotrina,
per desputar con la fantina;
e se convence la porran,
gran don aver deveran.
la fantina sentando zo,
a De prega se de alo;
chi lo so angero gi manda,
chi de presente gi insegna
che venzua no serea,
ma tuti lor convertirea.
poy in presentia de lor
dixe a Timperaor:
se questi den aver gran ioja
per venze mi fantina croya,
a mi, se questi venzer dem,
chi me sera promissioni
ma Criste, me campion,
sera corona e guierdon.
con li maistri distando
e longamenti contrastando
per silogisme e per figure
e per proe de scriture,
e in breve tenpo tuti questi
3;
34
^
3s:
85
SS
3e
31
307. sembra enparaor. 312. moenar: non ò altro che un corretto in e. Ne
vedremo altrove di simih*. 319. e guai, 335. veraxe, 337. fermamente deve
essere errato. 343. fai, 364. dom, 365. forse chi me fava. 368. dispu-
tando. 372. in breve tenpo questi tuti.
Rime genovesi
fon devegnui quaxi muti;
^ixoa defender do se poea
s a la raxon che eia dixea.
lo re tarbao a li maistri
conmenza a dir: corno sei tristi!
and e vostra filosofia,
nchi 8i tosto fo sorbia
da una parva fantina
ehi par cossa si meschina?
e U maistri encontenento
» raspose pareisemente :
n certe raxon n a mostrae
éhd la mente n a iQutae,
e, per le cosse che omo a visto,
Vnaconvertui a leso Cristo.
lemperaor con menconia
iota qaella conpagaia
in eoQspecto de la gente
isfebroxar incontenente,
amaistrai da fantina
tt la santa fé divina.
ma gran miracolo fo quelo,
» che carne, roba ni cavelo
no fo tocae dsw quelo fogo.
cossi ne zen in salvo logo,
tosto guagnando, zo m e viso,
•U gloria de paraiso.
^presso zo que tirano,
precazaor de ognuncana dano,
con ingano e con losengue,
^eomo fan marvaxe lengue,
dixe a quella vergem pura:
consdia toa zoventura,
ami taremba e te declina;
^ Cagando ingua de la reina.
d. sec. xui-xiv. 177
1 emmaiem toa faro sculpir
e n mezo la citae constituir;
e, comò De, atuta gente
t aoreram devotamente. 4ii
quela respose: se tu rei
fossi quelo che tu dei,
no deveresi mai parlar
zo eh e gran peccao pensar. 413
quello aceiso de gran furor,
despoiar la fé lantor,
con peteni ferrai tirando
squarzai la carne sanguenando. 419
lo rei insi for de citae
per alcuna noccessitae;
e la fé en prexon scura
star doze di senza pastura. 423
e la reina chi romase,
pina damor de De vraxe,
con un so principe sobrer
de tuti li soi cavaler, 427
chi Profìrio s apelava,
e quelo re monto 1 amava,
a meza noite ze compagnom
de la reina a la prexon. 431
entrando in la prexon quelor
gue trovam gran splendor,
e angeli far meisina
sanando piago a la fantina. 435
la vergem li preise a preica
e n la fé amaistraa.
fon convertui de pagam,
faiti veraxe crestiam. 439
poi gi disse: benastrui,
bono ghe sei ancho vegnui;
chi per via de martirio,
^faneU. 28Q. viste. 396. fon. 401. de: Bcrittura incerta fra e ed a. —
*!«. iquarzar. Ut è senza la curva che fa le veci del nostro puntino. 424. tra
«W e romase una parola cassata, illeggibile, di 3 o 4 lettere.
AiehiTio glouol. ital.. II.
12
178
Lagomaggiore,
443 voi reina con Profirio,
averci tosto festa e riso
e gran corona in paraiso.
Profirio chi fo ardendo
447 fé converti incontenente
una bia compagnia
a chi elo era dao per guia,
zo e cavaler duxenti,
451 chi fon crestìam valenti,
e per zo che non manchasse
zo de che se norigasse,
a quela santa ogni iorno
455 venia meso monto adorno,
una bianca colunbina
con vianda monto fina,
poi Cristo pin de cortesia
459 gi vogne con gran conpagnia
de angel e vergene, digando
la fantina confortando :
son lo to creator,
463 per che tu fai tanto lavor.
non te spavento aflicion,
che semper e contego som,
tuto quanto tu soste
467 sento e sostegno in corpo me.
Cristo da lui qua si aluitao.
r omperaor fo rotornao ;
festa vegni a presente;
471 vogandola si resplendente
devegno turbao e gramo,
creandola trova morta do fame;
ogni persona menazando
475 chi roto avese so comando.
dixo: quar e staito si ardio
chi lo comando a strassaio? ^
aspete aver gram tormento *
en chi stai falimento:
d onde aven grande ailicion
li guardian de la preixom. f
vogando questi si ferir
la fantina preso a dir: «
sapiai, re, no m e aduto
da persona alcun conduto;
ma Cristo per angore so
m a norìgaa, chi far lo pò. 4
dixe lo re: no dir parole
per che e le tegne foro:
en to cor de aveì scrito
zo che aotro via e t o dito,
zo e farte esse si grande
comò reina chi comande;
cossi serai grande e posente,
regnando sovra la gente.
la vergem dixe: e, tu te guarda
che zuise De no te arda!
o pensa in zo che o te voio dir:
che don e De seguir,
segnor de gran possanza,
eternar, senza manchanza,
glorioso, da fir notao,
belissimo, no deformao;
o homo pim de infirmitae,
mortar cun gran meschinitao,
vilan monto desprexiao,
soccissimo e vituperao ?
lo ro con indignacion
AAQ, ardente, 4C8. correggo: s e aluitao (o aluintao);- il ms. quasi. 470. /e
està «fece questa»? 472. Vo di gramo a quel che pare era un' e, poi cor-
retta. 479. forse ò stao. 489. tegno. E fore (^favole') dev'essere dell'ama-
nuense, per fole o folle '^ perocchò altre volte la voce parole ritorna in rima
con folle (p. es. nel cxxxviii), e mostrando così di suonar paróle^ difllicilmeute
potrà rimare con fòre, 497. il ms. de de (ripetuto). 507. il primo e di soc-
(Àssimo ò addossato alFo, né si legge chiaro; anzi piuttosto lo apparenze sono
di un'^,onde sarebbe scecissimo.
Rime genovesi
xc: questo parlio o io dom:
viver sacrificando,
morir tormento alando.
gi disse: non benstentai
alcun tormento me toì dar;
le, corno Criste morir por mi,
irestaa son mori per si.
I so profem era lantor
isai pu fer ca lo seguor;
xe a lo re: centra tal gente
mostro andar pur duramente:
latro roe tute ferrae
zamo esse aparciae,
ite infra lo terzo iorno,
ì monto agui tute intorno,
rni aguo si ponzente
le la squarzen incontenente :
lesto terribel tormento
ra de li aotri gran spavento.
egando De devotamente
le per convertir la gente
I tal tormento la scampasse
^aele roe dissipasse,
e I angero de De vivo,
io xo con grande asobrìo,
iperse in diverse guise,
^oatro milia n ocise.
risina zo vegando,
I alantor sta celando,
1 imperaor dexeise,
duramente lo represe.
elo irao con la reina
I mtsse tosto in ruina:
. la quar, desprexiando
d. sec. \ni-xiv.
sacrifica per so comando,
traite le mamelle a prosento,
fé degolar incontenente,
ma inanti està passion
pregar con forte oration
questa santa biaa
qhe eia gi fosse recomandaa.
ola gi dixe: va segura,
che adesso in quella aotura
unde per lo regno mortar
aquistar lo celestiar.
doze reina, bia ti,
chi monti in cel anti cha mi;
e comò tu serai la su
prega per mi chi sun za zu:
cossi per breve passion
haj eternaa salvation,
de lo corpo de la reina
monto ne vene in ruina.
de lo rei cossi turbao
spiando che n era stao,
Profirio preise a criar
e piairamenti a confessar:
e sun chi sepelii
la rejna che voi dir?
crestian son devegnuo,
Criste servir semper tegnuo.
odando zo 1 emperaor
criar co monto grande dolor:
morto sun, no se che far,
ni per quar meo consolar
eh e quelo amigo manchao
d onde o semper pu sperao.
odando zo li cavaler,
179
>i:^
r,i7
.:.i
.1 ì 1
55'.»
f>>;i
5t»7
rr.ì
.)4.i
WLUstentar^ o forse benstentar, 514. mori. 519. correggo: pu (più). 533. as-
^^•0. 688-35. la costruzione ó sospesa. Mancano versi innanzi a pregando ? —
^^h feì oi7, pì'cga. 551. qui forse il testo ò scorretto: pare che manchi
M v«rt)o; s« pure non si voglia correggere qui appresso: dei per... 5G1. monti
•« VM<ii? 5G2. forse quel cL% che non dà senso, s'ha a correggere in e. —
5fl'5 il 2.« I rli sepciii non si letr^o chiaro. 571. rria. 572. no so.
130
chi eram monto do rivcr,
denanti tato lo genie
579 dixem por avertaamento:
e noi semo pu cristianai»
per De morir apareiai,
servior de leso Crisie»
583 per le cosse e omo a viste,
li qua! lo re con turba mente
fé dcgolar incontenente»
con Profirio biao
587 chi per zo e tuto ordenao.
de li corpi fé comando,
chi contrafesse condanando,
fossem dai maniar a cham»
591 per spaventar li crestiam.
morti questi, 1 emperaor,
poi inflamao de so foror,
chi uó cessava de ma far,
506 se fé la vergem apresentar,
e disse a lui: s e per mar arte
che tu sai far in tute parte,
cossi zovena fantina,
509 chi ai faito morir la reyna,
se voi enssi de questo error,
de le aotre done serai maor.
per che e te digo: no tardar
003 en de verte conseiaa;
unde, poi che te ne invio,
sapi prender bon partio:
adesso, o tu sacrilicherai,
Gtf7 o la testa perderai.
quela disse : fac che tu voi,
che perverti tu no me poi.
la sentencia fo alo daa.
Lagomaggiore,
che esse dovesse degolaa*
e conduta a lo logar
ordenao per degolar,
eia leva li ogi in ver col,
pregando Cristo re sobrer,
e disse: o Do salvaoiom,
gloria, honor e guierdon ;
Cristo pim d ogni bontae
e da ognuncha pietae,
pregote con gran fianza
che chi avera remembranza
de mi chi son ancella toa
en besogna alcuna soa,
o do la mea passiom
avera compassiom,
o avera compassiom
oJando mea lecion,
o in alcun perigolo so
vora 1 ai torio to,
messer, in tai demanda
consolation gi manda,
lantor voxe gi vogne da cel
chi dixe: monto volentor
tuto quanto ai demandao
tuto da De t e confermao;
ve tosto su, sposa biaa,
a chi e tan luxe daa :
a tu prometo bcneixon
chi an de ti compassion.
faito zo, fo degolaa,
e 1 anima in cel portar;
e per sangue laite ne insi
chi caschun pareise vi.
or pò caschaun pensar
579. aoertam.; irms.: averta amente. 584. o conturbamente. 5U3. pu; il
infamao^ con appena una traccia delFt. 603. scritto en, con quella
sovrapposta che tool rappresentare una nasale, ma che qui, come altrovei,
ha Talore; n poco chiaro, ma pur leggibile. GlG-17. scorretto. Potrebb«si
tare o in a, e leggere saluaciom (salutazione)? 619. de, 628. correggo o «i «,
620. scritto u ora. 630. tar, L* i senza apice, nd fai si leggo chiaro. 637. lem: jl
n non d aflatto regolare. 638. atui Va ooo ben chiaro. 611. porfoo.
Rime genovesi
[oanto De la tosso amar,
ihe qaelo so corpo biao
b da monti angeri portao,
D monta de Sinay,
rfaiti iornae provo de li.
I li can diligente cura
«I la eoa sepotora:
le quele sante osse biae
Assi oleo in gran quantitae,
ùìì sanna d ogni infirmitae
a menbre cbi ne son tocbae.
ir de penssar ogni letor
[unto De gi a faito honor;
ibi per tati e devorgaa,
som cossi santa renomaa.
I poi che la e cossi possente,
igBomo dcTotamente
i lui se poi tornar e de,
som speranza e pina fo
l «quistar de està santa,
M e de Tertuo tanta,
I ehi pò dar quanto se quer
i easchaun chi la requer.
iàsens imperaor meschini
rese possa a mala fin
b lo qual elo era degno,
hi era stao cossi malegno.
^ergem santa Catalina,
hi sei avocata fina,
, mi scritor de questa ystoria
qnista sovrana gloria.
XIII.
D€ tamefo Silvestro papa
(e xiu).
ìb SilTestro chi sanasti
\ la leTera Constantim,
d. sec. xiii-xiv. Idi
de error lo revocasti
a lo crestiam camim, 4
scampane de li contrasti
de li mortar assassim,
menaime a queli pasti
chi am doyor senza fim. "<
XIV.
De decem precepta Moyses
(e. xui, tergo).
Si corno soream le citae,
per meio viver ordenae,
statuti far, leze e comandi,
da oserva sete gram bandi 4
d aver e de persone,
per mantene le usanze bone
e aerose la terra in bem,
tegnando ognomo sete frem ; 8
e lezer fam in parlamenti
tati estl soi ordenamenti,
a zo che sapia caschaum
ni scusar se possa alcum 12
da questa leze chi lo liga
a viver ben in drita riga,
chi falisse e contrafesse
per condanao se cognossese: la
cossi lo nostro segnor De
a lo profeta Moise,
per noi salva e tra a le,
a vosuo a noi mostrar
lo cosse eh omo de oserva $1
per leze e per castigamenti
de li dexem commandamenti ;
che noi lezamo che elo de
a lo profeta Moise 23
seri ti e sculpij in prea dura,
ner tener ferma la seri tura,
L ▼. I* nota al vs. 292. 670. la. 675. aquistai. XIIl, Ut. e 1: il ms. Silwrùy
una sigla. 5. forte dovea dire scampaime (cfr. v. 8). XIV, 18. que»
è fuor di luogo, e va tolto (cfr. vs. 25). 23. dexe.
182
Lagomaggiore,
chi no ssc possa spcgazar,
20 in memoria eternar;
a zo che 1 omo fermamente
aver li deia ben per mente,
chi sea forte comò prea,
33 si che per vota alcuna rea
ni per tentacion nova
lo cor de 1 omo no se mova,
ma tegna ben so corso drito
37 in oserva zo che fo scrito
e in schivar colpa e caxom
d eternar condenaxom.
por zo de 1 omo e si gi dixo
'^» saver questi comandi dexem;
che monti som chi no li sam
chi fo poco cura n am.
e in per zo ve ro diro
^j a un a un si comò e so.
e sse tropo ve diesse^
o for men che e no dovesse,
yo che g e ultre piiai
19 e a mi 1 atro perdonay.
Primo precetor.
lo prime e che e voio dir
penssai entender e oir :
che un sor De dovei orar,
53 temer, servi e honorar,
e recognosce per segnor,
senza averne altri ni pusor,
corno a za faito atra gente
57 chi ne son in fogo ardente,
che 1 enimigo faxeva orar
e ydole diverse far,
. quele si corno De orando,
61 tu.(a speranza in le legnando,
per zo che Do no cognoscessem
ni la fo drita no tcgnessem;
che nixun se pò salva ni do
se no in cristiana fo, 6
comò in rayxe chi sostem
tute le aotro overe de bem,
e tristi queli a chi la mancha
a qui ella s arancha. «
centra questo comando fam
tuti queli chi se dam
a creer neguna gazarla,
sisma, error ni erexia ; 73
queli chi per arte torto
fan divinacion ni xorte,
aguri o malefìcij,
nigromancia ni aotri vitij; n
e chi orando far se fa
in anno novo per in ca
faiture, brevi e arlie
atre assai diavorie, si
che fan quele gente malcgnc
chi de bruxa serean degno
con tuti queli chi dan favor
en si marento e re lavor; ss
che lo diavoro li tira a le
fazando lo parti da De:
egi gè da tarhor aya
per re teneri for de via. »
o quanti son, pe le peccao,
chi per lor grande iniquitae
strapassam questo comando
e monto guise araigando ! ^
che monti son . . .
d alcun deleto per lor guai ;
che de le ventre fan lor De,
9€* A\, dB»e. Ai. ve ri, 50. lo prime che, 61. in lo. 88. scritto e
1 il ms. ha t (cioè in) arsati ma sopra arsai uno scarabocchio sbia-
M potrebb* essere un g (ingrasaiì).
Fiime genovesi
17 do avarilia oiiamdo,
de lo re peccao calnal
chi sor szhaìr tantri aotri mal;
tanto aman lo fìior,
VI chi for gaerre dom esser sol,
possessioni terra o atro aver
che li ogi vorem spesso ver;
anssitae d aver houor;
1(6 in atre cosso an tanto amor
che luti an li cor e mento,
De reputando por niente.
per che se pò ben dir o de
looche li no am ben drita fé;
che la scritura si ne dixe,
chi e nostra guiarixe,
che £0 se conta per to De
monde maor amor tu te.
per che se star no Tor pagam,
ma vive comò crosti am,
gaardate da lo falimento
inde questo primer comandamento.
lo segondo e d aver per man :
no prendi lo nome de De in vam.
e de questo e T intendimento
tti de no falir in sagramento.
or no zurar, e se tu zuri
garda ben se tu te sperzuri.
sagramento e cessa sagraa,
» chi esser de si oserva
che mai 1 omo no lo faza
86 caxqn grande non lo caza ;
zo e quando e tempo e saxon,
^ «6 eie requer insta caxon.
d. sec. xin-xiv.
183
monto persone am mara usanza
de meter Do su la baranza
de loi asdeiti monto viaa
pe far acreer la boxia. 153
far sagramento e fazo e re
quaxi pu renega De.
do, comò zuram levemente
o per poco or per niente! 137
che lenieramonti dam
zurando cun boca e con mam
su qualche libero o cartolario;
e sera tute lo contrario m
de zo che li deveram dir,
per far 1 aotru raxon perir.
aotri zuram tropo speso or
lo santo sangue de Segnor, 115
chi a lor de semper star in cor,
e si vilmenti lo vomen for.
lo gran merchao che eli ne fan
atoxegao eli lo troveram. 149
o quanto dano a so eser fa
la lengua chi frem no a!
tenera cessa e poco par,
ma tropo e dura da domar. 153
semper trei tu ofenderai
quando tu fazo zurerai.
prumeramenti oifendi De,
de lo quar traitor tu e; 157
poi ti mes tesso to condani
a sostener eternar dani ;
apreso ofendi lo vexim to,
toiando a lui lo drito so. ici
ma cossi comò la meisina
chi e preciosa fina
89. tanti. 104. manca il verbo (hanno); oppur s'ha a correggere anssitai, —
1 12. conta con sigla che anche altrove, benché di rado, sta per con, 1 1 4. voi, —
117. ò scritto pmety con una specie d*t sul p^ senza il r; così anche altrove.
Qui é scritto nel Codice il 2.® precetto del Decalogo; io Io tralascio. 129. se
h, 132. lor\- via. 139. zuramentoì Ma credo meglio corregger vam nel
w. preced. 150. il ms. aso cser.
184
a 1 omo sempre no se da,
imseno qsasdo besogno fa;
eossi zarar no se eovem
se gram caxom no se g etrevem.
che monti n e per le peceae
ids cài son si Tot de bontae,
ehe tar or zureram far un mar
chi sera peeeao mortar;
o XTzreram de far an ben
n? che a bestato far lo dem,
o per calche atra voluntae
donde no e neccessitae.
tuti queli chi zo zuram
IT7 encontenente se spezuram.
incontra esto comando yen
chi fa bon too e no lo lem,
gram displina si serva
181 chi voo fa e no lo oserva.
far a De tar promixiom
e monto grande obligaxon :
chi uncha la bescura
185 aspettar n a pena dura.
anche go oontrafazemo
se De ni santi iastomemo.
tropo e gram fala no loalo:
189 quanto e duncha iastemarlo!
ben e degno d aver fevre
chi a ra lengaa no fa seve.
per che guardate e inprendi
193 che lo De nome in vam no prendi.
lo terzo comando de la lej
dementegar noie dei:
che lo sabo, di sagrao
197 chi in domenega e cambiao,
t aregordi santificar
Lagomaggiore,
e tute a De sacrificar,
en li aotri di far to lavor;
en questo honera lo Segnor,
e en lo so amor repossa
senza far alcuna eossa
de vera ni d atro zogo
donde peccao avesse lego,
che, sapi ben, monto mar festa
chi fa ovra desonesta:
men mar serea aver arao
in di de festa, cha ballao.
che monti son chi quelo iomo
van a rei merchai d entorno,
donde lo demonio e censar
per far lo colo scavizar.
t arregorda festar si
che in quelo semper biao di
en onor de De se spenda,
per zo che a bon fina te prenda,
or se tu voi ben seguir De,
1 asemprio so inprendi e te,
chi lavorar se ìorni vose
quando lo fé tute le cosse,
e reposa in lo septem.
e cossi far noi apertem :
prmeramenti lavorar,
overe bone e drite far
en la nostra vita breve,
a zo che De poja ne leve
a reposa in scoso so
unde mancha alcun ben no pò.
e cossi sor lavaraor
pagasse in co de so lavor;
che poi la fin ogn omo porta
1 overa faita, o drita o torta,
e questi trei driti comandi.
201
205
209
SIS
217
221
1 BO. disciplina. 1 00. la cifra che vale r d sovrapposta alla sillaba «?. 200. fa, —
SOI. honora. 204. de vera: cosi nel ms. 215. che quelo. 217. a bona finì —
224. pimer. ; chd mal si disceme se la seconda lettera sia t o r. 229. ^a-
voraor.
Rime genoYOsi
cbi 8on monti forti e grandi,
questo e li aotri doi prediti
chi fon in 1 una torà scriti,
a De pertonnem per semor,
che tener demo per segnor
pim d ogni sacietae,
zo e la santa Ternitae.
e lo primer propriamente,
a De Paire onipotente;
e lo segondo a lo Fiior,
chi de De nome se sor;
lo terso se de per ben compim
a Spirito Santo tribuir:
per che semper avlsto sei
si ben festar comò tu dei.
lo quarto comando ancor avemo,
che paire e maire honora devemo;
so e portagi tar honor
che tuto sea pin) de amor.
ma per certo savei dej
che Eo che questa santa ley
per si comandi dir intende
in doe cosse con prende:
zo e Domenende amar,
e lo to proximo atretar.
li irei comandi che t o dito
a De pertenem comò e o scrito.
li aotri sete chi dere vennem
a lo proximo pertenem :
qai scriti fon da la Segnor
CD 1 atra torà per semor.
per zo da queli incomenzemo
che pur amar tegnui noi seme.
or pensa 1 amor che t a menao
d. sec. xiii-xiv.. 185
queli chi t am in^eiierao ; 2go
e cossi poi penssando inprender
zo che a laor se coven render.
se da bon cor li honerai
pu longamenti viverai. 273
a queli chi fam questo ben
cinque guagni gi ne vem.
lo primer guagno dir voi e:
grada e gloria da De. st?
1 atra e la vita naturar
che se gi de pur perlonga,
en grande tempo, o a lo men,
se breve fosse, in stao de bem. 2si
1 atro che elio s alegrera
de li fiioi che 1 avera;
che qual mesura in atri fai,
cotar in ti receverai. 2Sj
1 atro sera la fame bona
chi gi darà ogni persona
e la raxom chaza de for. 2ss
ogni vertue se bandeza
quando 1 ira fortuneza.
per che de firn che se comenza
ocier dei soa semenza, 292
per no laxate soperihar
ni la raxom segnorezar.
se tropo in for la laxi inspenze
gram breiga e poi in lo strenze : 290
pu e ca venze un castelo
venze lo cor chi e rebelo.
ben se pò 1 omo e de irar
contra una cessa chi e mar, 300
che la no faza creximcnto ;
o per atrui castigamento.
235. numto. 245. forse dir se sor, 246. compir. 257. se conprende. 260. 1 0;
Vo tiene delire. 264. lo. 267. pu. 271. correggo: a lor. 272. honorerai^
O lòrse anche -onererai. 278. l atro. 286. fama. 287. manca la e. xvi,
come già dissi nei cenni preliminari.
18G
Lagomaggiorc^
or in tar guisa te ne guarda,
yoi che 1 ira a ti lo cor no t arda;
e contra lui sta si guarnio
che la no crex a omecio.
lo sexto dixe: no fornica,
308 lo quar tu dei ben oservar;
che sapi ben che la luxuria
e la pu pesentc iniuria
che contra 1 omo far poesi,
312 aster se tu 1 ociesi :
per zo se scrive adeso in drito
de 1 omecio chi e dito.
o per Saverio ben scremir
310 entendi zo che te voio dir:
che de fornicatiom
e cinque ieneratiom;
e chascauna te vor noxor,
320 so a lui te lassi coxer
ni abraxar de van amor
chi te tornase in amaror.
la primera e menor grao,
324 se 1 un e 1 atro e desligao;
ma pur lo mar e si pesente
che danay son eternamente.
lo segondo o avoterio,
328 chi e grande vituperio;
ben e lìgao con lo demonio
chi con rompe matremonio.
a doio dem aver li gai
332 se intrambi doi som mariai.
quante anime e corpi deriva
esto peccao donde el ariva!
e quanti mai e dani n exe
330 donde està ofenssiom se texe !
grande son e greve e spese,
chi ben exponer le vorese.
lo terzo e vcrgcm comrumpir,
chi lonzi fa da De partir;
che la verginitae compia
de De e stalo e segrestia.
semeiante e de iardim pioso
pim d ogni ben e de reposo;
so calcum rompe lo murao,
da monto gente e pò guastao:
che de li mai chi poi gè som
lo primer n e stao caxon.
o quanti dani e guai a lor
chi do zo som comenzaorl
lo quarto peccao con le parente,
chi lo collo rompe a monte gente
crestiam son faozi e meschim,
ma pezo som ca sarraxim.
lo quinto e contra natura,
chi e gram desaventura ;
che no se de homo apelar
chi tem costume bestiar.
quanto avera mara ventura
chi userà cotar brutural
a la lor penna poni mente
quando la terra gi semente ;
per zo che cognoser mar
e utcl cessa per schivar,
un atro mar gu e de gran pond<
chi monto gente tira a fondo,
e per fornicar de penne
de tute queste cinque menno,
e qui in quela a seme ofeiso
en tuti i atri fi compreso;
e zo e de religiosa,
chi de Cristo e sagraa e sposa,
m per zo cazo in lo prumer
che la no e da alchun moier.
poi 1 avoterio gue pertem,
e
314. il ms.: io mecio. 3G7-8. dev'esserci scorrezione nel lesto. 374. d akhui
Uimc genovesi
378 che per so sposo Cristo tem.
e inter lo terzo per veritae,
che 1 a promiso verginitae.
on lo quarto diro corno:
380 che faita e sor d ognuchana omo.
1 aotro gram collo e penna porta,
che en Teritae 1 e carne morta,
or De ne guardo, se gì piaxe,
381 e omo no chaza en tar fornaxe.
non segur dormi presente
de preso a alcun serpente:
e poi che fornicatiom
«Bcossa e de gram tentatiom,
non e licito aguardar
to eh e colpa en dexirar;
per zo che 1 oio e fenestra
30 d onde esto peccao balestra,
corno tu vei che 1 e nimigo,
e te conscio e sì te digo:
se ben defender tu te voi,
a» penssar fucir quanto tu poi :
chi no se vor scadar a fogo
no se aproxime a lo lego,
che in matremonio etiamdo
400 fo 1 omo viver in stao re ;
che, se 1 e traito for de riga,
in peccao mortar se liga.
d onde esto peccao toie per ver
40i corpo e anima e aver.
d onde un axempio ve diro,
pò brevementi che porro,
ano homo vi e fermo e forte,
40B ma si ne 1 a portao la morte ,
xovem era senza moier,
d. sec. xiii-xiv.
187
chi d osto fogo ave pcnser.
provo gi stava una persona,
chi tegnua era bella e bona; ii-'
ma questo chi la perseguia,
considerando la folla,
tentao ne fo, ma per scampar
so n fuzir de la da mar. ^i<'
cossi scampa per aloitenarse:
grande vertue questa me parse.
dirn asai se ne porrea,
ma tropo v encrexerea. 42o
or caschaun se guard o schive
che intr esto mar no se derive.
lo septem e: no envorar,
chi ven apresso fornicar 121
dritamenti e con raxom;
cho la maor ofTenssion,
aster lo doe chi son dite,
com eie son de sovra scrite, .i2s
che far poesi a lo vexim to
e envorar zo che e so.
e in questo se comprende
tuto zo che mar se prende. 4Z2
e se cognose ben lo voi,
lo se comete in monti moi.
de lo prumer ve digo a presente,
zo che s envora ascosamente; ^30
prender le cosse in traicion,
se lo no sa de chi le som.
1 atro e parese in zo,
chi fa per forza 1 atrui so. 44o
in questa peccam li arrobaor;
eciamde de li gram segnor,
382. il ms. : en verità eie. 393. il ms.: lenimigo. 396. correggo: penwa. —
413-15. costrutto oscuro, massime per il gerundio del vs. 414. 416. fuzi, —
427. le. 428. il ms.: come le. 437. correggo: prende. 442. il de va
espunto.
188
Lagomaggiore,
chi fan tar or lezo e comandi
444 per far pagar li torti bandi ;
ni laxam guari esser pumui
queli chi som sote pe nui;
assai prende cosse e dinai
448 de peagi desordenai ;
segar strepam le atru cosse
poi che non e chi parla non osse.
chi a li soi procura dano
452 no e segnor ma e tirano:
assai son pezor in veritae
cha li arrobaor de strae.
ancor e furto e falimento
450 tardar e toie pagamento
a alcun omo o merzenar,
a chi for mancha lo disnar.
atri son chi per osura
4G0 d erichir an tanta cura;
lo tempo vender chi no e so,
lo termen daito yen alo;
guano certo se fa dar,
4C4 spes or de prò fam cavear,
e n pìcem tempo quaxi trovo
che assa pogi fan d un ovo.
monto spesor an de gran merchao
468 da queli chi som obligai :
se lo meschìm pagar no pò,
no gi roman ni ca ni bo;
che 1 usorer ne lo tra for
472 a tar mercha corno lo vor.
maniando vcn la morte degna,
tristo le de tar vendegna !
ben e de queli chi li scusam
con una raxom che li usam, 4'
digando che 1 empruo
en monte cosse g e gran scuo,
che elli ne scampa per viae
da monte grande aversitae. 4i
e respondo; no e per zo,
ma per strepar a ti lo to :
che se de li atri avese cura,
lo t aleierea 1 usura, a
chi semper te roman a dosso,
e si te roe tam fim a 1 osso.
1 atro e peccao de simonia,
chi e comò levroxia, 48
quando le cosse sagrae
son vendue o catae;
che De vor che in don se dea
dignitae, no per monca; 49
ma in tar yendea e acatai
pecca monto si prelati.
1 atro e quando per ingano
fa te sforzi 1 atrui dano : 4s
o guagnar centra natura
en peiso, numero e mesura;
o in merchantia falimento
faucitae, o scautrimento; se
o per far berueria
en terra o in mar alcuna via,
e n monto guise fali tristi,
pusor via de mar aquisto, 5o
cubiti li atrui piiar,
chi te de da lui squiiar.
esto vicio malento,
zo e fruto e mar toieto, 5C
446. scritto penui, 450. ne osse^ o n'osse. Il ms.: no nosse, 4G1. venden. —
463. g%uigno\- fan. 466. il g di pogi non ben chiaro. 467. merchai. 473. io
sospetto che FA. avesse scritto ma quando, 4!77. l empremuo. 479. correggo:
pu viae. 484. avrebbe a esser plurale: li...;- il ms.: lo ta le ierea. 493. t?en-
dee^ acati. 504. aquisti. 505. l atrui. 503-6. costruzione difettosa. 506. V e
di te non chiara. 508. zo e. Uè non chiara.
Rime genovesi
i orni in tanto guiso fam
con tato inzegne che li fan,
eh e detftingae no le so;
e in per zo me taxero:
the tropo g e a carminar^
chi To ben tigna peitenar.
perigolo grande e 1 atrui prender,
s che ma se sor e tardi render :
1 atra se prende con dozeza;
Qta qaesta e semper certeza,
^ 1 e daa ferma sentia
^ ehe alcun no ven a penetentia
^i de mar prender ofeiso,
le no render lo mar preiso ;
^ Dominide perdona gi da,
'te restai tucion no fa,
tttx^egamenti se lo pò,
Mtituando tuto zo
de dannaio che 1 a daito
t clU elo a lo fruto faito.
per che guardate, e schiva
t io poer cessa furtiva.
1 01 lem e o dito per schiva
tftzo testimoniar
ea Centra le proximo to.
e questo apresso ven per zo
che 1 atro dixe: no de fender
H per la 8oa cessa prender;
e questo aprovo si so tocha
ehe no 1 ofendi con la bocha.
a parme che so corso faze
d. sec. xiii-xiv. 181)
denanti corte o en piace, r.to
zo e in corte con zurar
e in piaza per raxonar.
no gè dormi ma semper vegi,
che De no vor che menti degi; mi
centra De chi e veritae
so meti questa iniquitao,
pu offendi ancor lui
en testimonia de atrui. ^ts
csto peccao quando lo vem
monto atri mai conseigo tem,
e spesor conseigo tira
fazo sagramento e ira, s^s
e fa perir 1 atrui raxom
e morte da senza caxon.
re testimonio chi rende
a un corpo trei n ofende : 550
eh elo prumer se ne condana;
e poi lo zuxe eh el engana,
chi mai ben zuìgar no pò
per lo fazo dito so; 500
poi si a De desprexiao,
da chi lo de fir zugao.
1 omo menteo e boxar
S3r grande fale e monto far; 501
e per zo che son tante
specificar se pò d alquanto.
che rea fame in atrui mete,
la qual la le de de no demete nes
se lo no veme e no refa
quela infamia che elo da.
perzo e re nome in atrui dar
510. fan: forse san. 519. senUntia, 521. a ofeistK 522. rende. 524. re-
siUmkion. 535. no dei ofender ; - ma. : de fender, 537. e en questo. 546. Terso
•corretto, per quanto pare, ed il senso ne rimane turbato. 557. il ma.: che
le. £58. ma.: cks Ungano, 563. ma.: mente o e. 565. son: ani s ò nel ma.
nft piccola corra. 567. fama. 568. panni di dover correggere: la qìial a le
tk no demete. 560. ma.: noveme^ o anche nooeine^ ma colFt aenz* apice. —
57 U ma.: per so. Forse dobbiamo correggere: peso.
190
572 ca soc cosso arapmar.
esti zorzuiaoi privai
serpenti son inveninai :
da lor te garda e no li aoyr,
5^76 tornapri in gola lo mar dir.
lo lor veni go sera per ascha
per questa amara teriacha.
atri go n e losengaor, '
580 chi de for mostrar dozor;
ma se ben ver so vero voressì,
da ra longa gi staresi.
tar asìhana lo pei te sor
584 che, se lo pò, rebufar te vor.
gram parte d esti losenguer
sum quaxi tuti mezoner.
De ne comanda tuta via
588 e omo no debia usar boxi a,
per quatro cosse che diro,
se ben me n aregordero.
che per mentir e boxiar
592 se pò 1 omo asemeiar,
poi che De refuar vor,
a lo diavoro per fiior,
chi boxar fo prumeramonti,
590 digando a li prumer parenti :
crei a mi, voi no morei,
ma comò De vo si serei.
anchor ne fa un atro mar,
000 che i omi fam descompagnar;
li quai inseme star dem,
veritae si gi li tem,
ma le boxio e lo mentir
604 1 un da 1 atro fa partir:
non e si bona compagnia
che no desfaza la boxia.
Lagomaggiore,
poi fa una atra gram mermanza,
toiando bona nomeranza :
chi per boxar e cognosuo
a lui lo ver no e cretuo.
eciamde chi menti usa
1 anima soa n e confusa,
spes or la fa peccaa,
poi in inferno strabucar.
per zo che pochi som remasi
queli chi seam ben veraxi,
sura veritae se confermemo
e le boxie bandezemo.
cos
lo noven e e omo no osso
mar dexirar le autri cosse,
donanti a dito de li mar
chi se soream e dir e far;
e de tuti esti falimenti
far vogamo punimenti
per rezeor e per poestae,
quando le colpe som proao.
ma or devear te voi
chi te ve d entro e de for,
e non e cossa si coverta
chi no gi sea si averta,
che lo cor io no desire
zo che in ver ti elo se ire,
e sapi si lo cor destrenze
che lo f rai to no dogi offende ;
che lo vorer chi d entro sta,
Dominide per faito 1 a;
per zo eh e lo so regno ve
le voluntae, punir de.
lo cor chi speso e assagio
mester gi fa star bem guarnio.
01-2
61C
620
es4
628
632
636
640
577. ò scritto a^cha^ cioè col s aggiunto di sopra. 579. il ma.: gene lo
sengaor, 580. mostran, 581. il ms.: uerso\^ Vu di uoressi ò scritto sovra
un p anteriore. 584. il ms. : lo senguer, 586. menzogner, GOO. fa, —
627. il ms.: maor de uear, 637. il mg.: che lo.
Rime genovesi d. sec. xiii^xiv.
rei (lexideri no dei seguir e poi induxo a tuti mar.
1<>!
per lo raxom cho volo dir.
1 animo to ni lo voler
&I4 uncha mai firn no pò aver,
ni compimento aver no de
cn queste cosse che ver lo de,
se no in De sorengamente,
Gtf de chi el e quaxi semeiente.
maio e chi prender a far camin
se lo no sa qual e la firn;
che finir 1 anima no so pò,
Gss ma zo si fam le cosse alo.
em per zo che 1 e maor
mai no se pò impir de lor;
ma quando la dexira De
650 o la s aremba tuta a le,
si trova compimento so
ni pur inanti andar no pò.
ma ancor te toie lo reposo;
000 che se lo mondo avessi in scoso,
semper solicito seressi,
ni sacia no te porressi.
1 engordixia e lo penser
dM fam mar spes or dormir so ser;
chi dere tropo gi va
reposo bon za mai no a.
ancor, zo eh el a penssao
ass se za 1 avesse conquìstao,
cho fruto n a elio conseguir
quando verrà lo so parti ?
apresso, de De toiem 1 amor
67S e 1 omo fam de re pezor.
1 atra e che la caritae mor
chi in lo proximo aver so sor;
e tuto zo far mar pensar; ùig
che de ognuchana inequitac
raixe e la '^upiditae.
doncha som' re li dexiderj
chi dam tanti vitupcrij: <)Si>
amortari se scampar voi,
alo, pu tosto che tu poi.
e se tu questo no farai
guagnar no poi ma perde assai; osi
per zo e bon restrenzer cossa,
donde homo perda, alcuna ocossa.
per 20 restrenzamo dexiderio
chi ne pò dar vituperio; gss
ma alo dexideri veraxe
unde ogn omo vive in paxe.
•
lo dexem e monto fer:
no dexirar 1 atrui moier. o(w
e ven apreso ben in drito
de lo novem lo quar a dito,
che chaschaun no de ossa
le autru cosse dexirar; nw
ma de lo corpo aor dir vesso,
pu car tegnuo ca le cosse,
en tree cosse dirove comò
concupiscentia regna in 1 omo: 700
1 una si e prumeramente
quando a lo mar lo cor consento;
le autre quando in la boca ven
zo che dir no gè co ven; 701
poi le autre menbre far servir
per far rea overa compir.
per fuzir questo gran mar
049. prende. 655. lo. 656. e lo. 658. pu. 669. a conseguir. 673. il e di
che ò scritto male. 676. fa. 682. il ms.: a lo; co^5l potremmo leggere
pur noi, ma io preferisco alo (Hosto'). 686. ocossa collo prime tre lettere
appiccicate insieme; corr.: cossa. GS\). scorretto. 61)5. avanti di cliaschaun
un s isolato. 703. / autra.
102
Lagomaggiore,
70S io fa mcstor monto sforzar;
eh e tropo gram bataia trovo
de 1 enuimigo chi m o provo;
se 1 stao da mi paxuo,
71S pu grevementi fi venifuo.
e questa e par la nostra carne,
7u chi no cessa guerrezana
XV.
(e. XXIl).
beneita e magnificaa
sea la vergem Maria,
qaella doce majro biaa
4 chi poor a o gram bailia
em cel, en terra, in ogni canto.
per soa grande pietae
prego lo so fiior santo
8 che ne perdono le peccàe,
a lo porto ne mene
de eternai salvaciom,
und e vita senza penne
ìt e ogni consolatiom.
XVI.
De planetu beate virginis
Dei genitricis Marie (ivi)-
E prego ogn omo che 1 intenda
con monto gran devotiom
tegnando a mente està lesenda
4 chi e de gram compassiom,
de lo gran pianto e de lo dol
che portava e soferia
la doce vergem Maria
s quando morir lo so fìior.
e si comò eia piansse e disc
quando el era cossi trista
san Bernaldo si lo scrisse
de chi eia fo maistra. it
or, segnor Da omnipotente,
mandai in noi o fai venir
qualche fontanna xoryante
per lo cor nostro atanerir» m
lo quar e secho a santa hamor
e de spine e intalvaighio;
e metilo en vostro timor,
si che elo sea convertio ^
e componito a legremar
con la nostra santa maire,
stremisse tuto e tremar
de la morte de tar paire. M
per De, Madona, or ne conitiU
che mainerà voi tenesti,
che esser voiamo aconpagnai
en le gran doihe che voi avesti ; ti
e no ve sea smarimento
reconi tar a noi lo dor,
I amaro a lo tormento,
de che noi samo che sei for. s
par che 1 abiamo meio in mante,
in qualche guisa di a noi :
in quelo greve accidente,
doce maire, unde eri voit »
che faxevi? comò stavi?
era con voi persona alcuna,
quando vo ve contristavi
entro cossi gram fortuna? ^
e la dona gi resposa,
chi e pina de bontae,
e chi no vor tener ascossa
le ovre de pietae: ii
flior, zo che oi me demandai
cessa e de gram dolor :
ma in bianza som zomai,
713. QMesto, XVI, 8. mori. 41. dopo respose noi ms. una croce.
Rime genoTosi
i for som de mai o do amaror.
maire som dita o apelaa»
e de pietae si grande,
cho e Bo Yoio star celar
t a uixum chi me demande.
or To apareiai scrivando
do notar so che e diro;
Toi lo scrivi lagremando
I IO che coo'doia portao o.
en Iherasalem era lantor
quando li marvasi Zue
manam tirando a desenor
> praiso e ligao lo segnor me.
odando so, inconteaente
sai in ver lai a me poer;
ma par gram remor de gente
I a gram penna 1 osai ver.
quando e lo vi cossi ferir
da pogniy de corpi e de natae,
aoa tanta injarie far e dir,
! la carne soe si tassae,
anspinao e spuazao,
iastemao con gram f aror,
scregnio e desprexiao;
a tar vergona e desenor
tota da dor me comovei,
lo spirito me somenti,
lo seno o la voxe perdei,
atrangoxa chazando li.
eomago eram mee soror
a atra femene monto,
chi vogando osto dolor
» de grande angustie eram ponite;
da le qnae fo la Magdaleoa,
chi pur ca tute aster mi
d. B6C. XIII-IIV.
193
no porta gran dolor o penna,
per zo che D^ la trasse a si. 84
poi, instigando li Zue
chi criavam: mora, mora,
e sacerdoti e pharlse,
fo zugao e traio fora ss
per lo comaudo de Pilato;
lo centrego criava,
con tuto 1 atro povero maio
chi de noxer no cessava. o»
iastemaudo con gram voxo,
lo me fiior si gamaitao
constresem a portar la croxo
donde elo devea esser iavao. oa
en quela doco visaura
e su la soa santa testa
de Invaio e de brutura
abondava gram tempesta. ioi>
e trista maire lo soguia,
com le aotre done chi pianzeara
vegnando in mea compagnia,
chi corno morta me rezeivam; loi
tam fin a quelo lego forno
donde lo fo crucificao,
per lo peccao de quelo pomo
d onde Adam fo prevaricao. loe
a mea vista in quelo legno
lo corpo so santo e biao
da lo povero necho e malegno
duramenti fo ia^ao. iis
elo guardando semper a mi
chi tanto tribular n era,
pu se dorea ca de si
chi stava in penna cossi fera. no
vogando lui cossi traitar
i
51.ee(aa. 64. ms.: io sai. 72. vergogna. 78. monte. 82. iouanzi a chi il
«a U naa croce;- pa. dì. povoro, 102^4. pianseioam, ovvero rezcam.
Ul.poepfio. 114. Irtòn/oa.
ArUvm irloctol. ital.. II. V*
194
Lagomaggiore,
e a si soza fin venir,
corno un angelo muto star
120 e tuto in paxe soferia,
tanta trìsteza ne portava,
lengua dir no lo porrea;
che lo cor me s arranchava,
124 vertue in mi no remanea.
o maraveia no era,
che lo so voto glorioso
chi de tanta belleza era,
128 pareva esser un levroso?
homo alcun si ben formao
no fo mai visto ni oyo,
ni alcun poi si des formao,
)32 livio, nigio e insocio,
sangue piovea da co a pe,
descorrando tuto intorno:
dolenta mi, che no gè foi e
136 morta consego in quello iornof
questo era lo me gram dolor
che sostener e no poeva ;
verme partir da tal flior,
140 ni mai aotro no avevya!
la mea voxe era pira,
chi no poeva ensir de for,
ma sospirando si zemia
144 quaxi szhatando per lo cor.
considerando che moria
la cessa che tanto amava,
d entro e de for me stramotia
148 1 angosa che de lui portava,
ma si me sforzai a dir:
o dece fiior, guay a mi
chi te vego cossi morir !
152 che no posso e mori per ti ?
guarda in ver està cativa
pina de szheso e de dolor;
no laxa de poi ti viva,
che no te dexe morir sor.
o morte, no me perdonar!
che se te schiva 1 atra gente,
tropo si me piaxe e si m e car
che tu me óci a presente,
o fiior, dece amor me,
che sozamente se portamo!
senza voi che faro e?
fai si che insemel noi moiramo.
o Zue fauzi e desperai,
d onde me ven tanta ruina,
prego ve che voi ociai
con lo fijior questa meschina!
guaime, morte, come e presta
de zuigar lo flior me!
che mara raxom e questa
che te dexiro e no me vei?
lo me viver e morir,
e lo morir vita me par:
lo sor me vego oscura,
e tenebrosa che dom e far?
oinie, donde me tornerò e
per dovei esser conseiaa?
respondime, dece segnor me:
da chi sere e pu oonpagnaa?
se no te piaxe o tu no voi
eh e contego morir deia,
car fiior chi tuto poi,
en qualche guisa me conscia!
lo Segnor lantor vogando
mi e san Zoane star
con oio e voto regardando,
entrambri cossi contristar,
de san Zoane preìsi a dir:
158
IM
164
m
in
ITS
1»
184
isa
120. soferir. 138-40. poeiva. E similmente altrove. 141. così il ms. 147. strck-
mortia. 154. così il ms. Io leggerei : pina d eszheso ('eccesso') de dolor. Però
cfr- il Yfi. 391. 175. oscuri. 188. entrambi. 189. preise. Va é cassato.
Rime genovesi
maire, esto sea io fiior
per compagna e obeìr,
19» chi fiior e de toa sor.
▼ozando poa la zhera soa
en Ter san Zoane, dixe:
questa te per maire toa,
196 en che parte eia staosse :
a ti fiior, la recomando,
chi te santa vita e pura,
per pregerò e per comando,
900 che tu n agi bona cura.
digando zo tuto era roche
e no poca proferir;
e moirando a poche a pocha
t04 s aproximava a lo patir.
ma e Zoane sospirando,
a lai niente dir poemo;
e la vertue sementando,
208 de compassion cazemo.
poi disse che se avea:
fer con axeo gi fo dao.
be n asaza, ma no ne bevea;
fìt e disse: el e consumao.
e monto provo de la morte,
che 1 era pur a lui finir,
dixe criando monto forte,
ti6 ben lo poe ogn omo oyr :
Dominide, Domiiiide,
per che m ai tu abandonao?
digando zo lo segnor me
alo mori e fo passao.
la terra comenza de tremar
e lo sol tuto oscurar
e le pree a schivizar,
tato lo mondo a intenebrir;
d. sec. xiii-xiv.
195
2:18
232
233
11 monimenti s avrim laor
e li morti resuscitami
la morte de lo Creator
le creature le mostram.
cime, chi porrea pessa
quanto dolor la maire avea!
ver la cessa contristar
chi raxom no cognoscea!
lantor fon tanti li guai me,
chi eram desmesurai,
che no poeva pu star in pe,
e derochando strangoxai.
ben foi passa veraxementi
d entro de for e de ogni lao
de quelo iao ponzente
chi m era stao profetizao. .^.j^
ma cossi grama com e me stava,
misera, senza conforto,
desirava e aspetava
d aver lo santo corpo morto. ^u
e poi le man in ato erzea
per abrazar lo me segnor ;
ma e sangonenta pu chazea,
non abiando alcum vigor. 2is
semper pu axeveriva
per li squaxi che prendea:
lo sangue chi zu caia
a lo men baxar vorea. ^50
uncha no e si dur cor
chi squarza no se devesse,
vegando che tar segnor mor,
senza colpa che 1 avese; 2:^3
e zo de morte axerba e dura,
che nixum homo ave unha pezor ;
e desorao senza mesura:
204- partir, 205. ma e e. 214. forse a Io finir, 222. oscurir. 224. T ultimo t
di intenebrir è seDz*apice e mai fatto. 22S, correggo : la mostram. 220, por-
rea: o misto d*e;- corr«: penssa, 241. il ms.: come. 258. uncìia pezo.
196
Lagomaggiore,
360 con doi laìron fo misso in mezo:
chi andava o venia,
senza alcuna compassion
lo scriava o lo scregnia
264 fazando a lui derii^om.
voi chi per via andai,
zo che ve xligo oi per De :
penssai bem e. aguardai
S68 s e tar dolor corno lo me.
ma infra zo se misse in vìs^
un noble homo anomao
Joseph ab Arimatia,
ìp2 chi so di si polo era stao.
a Pilato maragurao
ze privao per li Zue,
quese lo corpo e gi fo dao.
^6 e vogando menar con le
un atro disciporo privao,
Nichodemo gram maistro,
chi de zo era turbao,
^^ doloroso e monto tristo;
e aduso lo ferramento
che en cotae cosse se usa,
per dezshavar de co tormento
i^ lo santo corpo e me zusa.
e quando e li vi veair
per fa zo che se covenia,
e comenzai de re venir,
838 e me sforzai a dar aja.
1 um de lor li ihoi traxea;
1 atro lo corpo sostenea;
e lagremando lo rezea,
^ e rezando 1 abrazava.
e quando a basso fo devoso
nixum partir no me poea -
de su lo corpo spredoso
unde e tanto amor avea.
comego pianzea ogn omo
chi d cu torno m eram lantor;
ma no so dir quanto ni corno
era lo pianto e 1 amaror. aoo
lo sol no a splendor cotanto,
ni atra cossa tanto odor,
qpmo lo doce corpo santo
de lo beneito Bedemtor. 9H
e cossi corno morta stava
e passar de gram dolor;
de lagreme tuta bagnc^va
la faza de lo me amor. iqb
e poi baxava e man e pe,
e mi sbatando tuta via»
dixea: guayme, segnor me,
per che som e da voi partii^? m
che ave voi dito ni faito
da esse cossi mar trai tao,
ni per ohe voi sea staito
a cotar morte oondennao? SM
denanti mi ve vego morto,
doze speranza e vits^ mea;
da scampa no so pu porto
i^i speranza chi uucha sea. ssq
car fiior,' quanta alegranze^
me de ]o vostro naxìmento
cpmo e cambi in gran tristranza,
ver de vpi tar finimento! ^
se no cUe me penserea
aver faito d un mar doi,
pu vorenter mo ocirea
269. me.: in frazo, 276-84. costrutto difetloso. Ma forse si aggiusta ponendo
mena (menò) in luogo di menar. 284. forse mete* 285. ms.: eli, 286. ms.!
fazo, 290. 505ten&i{?a? 295. precto5o meglio che specioso. 206^ passaa. —
320. sea : sembi'a scritto soa. 323. tristanga, Uo ài cambio può essei^e e)i«o;
QDde meglio candno che cambiaa. 327. così il ms. Od errore per me, o pitti-
tpstp da scriversi m'oocirea^ cioè m'dcirea. Mo ò scritto con lettera maiuscola.
ili me gecoTesi
3i8 cha dever vivo senza voi,
cap segnor De, tu me consora
de lo io Spirito Santo,
chi me vet romaner sora
in tnrbation e in pianto.
de le lagreme che faxea
per le doie desmesurae
grande ahondazia descoroa
som qaele menhre sagrae.
segondo che se trova scrito,
in una prea par anchor
le lagreme de che ▼ o dito,
310 chi gè caitem alantor.
en qnelo me pianto e lamento
donde e era in qael or,
Tegnandome in regordamento
M4 11 faiti de lo me segnor,
tot e capitorava,
corno alo era annunciao,
com e lo rezea e hairiva,
318 chi da De paire era mandao;
e comò elo era in mi vegnuo,
stagando en vergenitae,
chi no ave dolor avuo
35« en la soa nativltae :
tote le cosse penssava
chi dao m avea gram dozeza;
ma tuto zo me retornava
355 em pa greve amareza.
e pò dixea: flior santo,
per piotai grada in ver de mi;
per che me lassi dorer tanto
d. sec. xiii-xiv. 197
ni tanto aloitana da li?
stagando in tanta avcrsitao,
tuto intorno semper stavam
d angeri gram quantitae
e so zo par cossa dura
da crear o pensar, corno
Dominide centra natura
poea morir in carne d omo,
assai pu me maraveio
che li angeri in lo regno so
non piansem tuti, quamvisdo
che li pianzen no se pò.
li disipori con pianto
faxeam 1 apareiamento
de sepelir lo corpo santo,
condio de tar unguento,
entr um morimento novo
che losep faito avea,
em hello drapo iancho, aprovo
fazando comò se dexea.
li se comenza a covoni r,
per honora la sepultura,
tanti angeri no se pò dir,
lo conito n fo senza mesura,
cantando com devotiom:
1 overa de De compia
de 1 umana generaciom
chi per ta morte era franchia.
quell faxeam dozi canti
per honorar lo so segnor;
e Maria axerhi pianti
300
363
3C7
371
37."»
379
383
387
329. consora è scritto quasi consore^ e dopo é aggiunto un piccolo a. iso-
lato. 335. abondanzia. 345. il ms. ^ te, e questo secondo t ò misto di r. —
347. manca la rima, e il costrutto é torbido. Forse bairava (cfr. lat. baju-
ìart). 358. garda, 363. manca un verso. 371. pianger. 375. correggo: de
cor tm^i^tifo. 383. ms.: lo conitcn fo. 385. e compia, 386. forse dobbiamo
loggwre s /'«mafia (in l- umana). 387. Ho introdotto nel mio testo una scrizione
che porge un qualche senso, tuttochd io stesso non ne sia ben persuaso. Il ms.:
grOi con un*s che mal si disceme da e. Cfr. dexerera^ finera (vss. 485, 487).
198
391 pim d eszheso e d amaror.
li me compagnom voiando
lo santo corpo sepilir,
e e forte retegnando,
395 no laxandolo partir,
dozementi li pregava:
per De, no ve conitai cossi;
lo fiìor che tanto amava
399 no lo partir acom da mi.
da 1 una parte lo piiavam,
tegnandolo quanto e poca;
un pochetim me lo laxavam,
403 che piaschaum laor pianzea.
per cosolarme de la vista,
da una parte deserò via
abrazando la le trista
407 chi n era cossi feria.
segnor, laxailo cossi morto
star comeigo pu un ora :
si n avero qualche conforto
411 em si pizena demora,
se lo vorei pu sepilir,
sepelir mi da li soi pe;
e asai m e pezo ca morir,
415 se dom viver senza le.
pietosa era la tenzom
inter mi e li mei frai,
chi de tanto e tar patrom
419 se vegamo desconseiai.
a la fin fo sepelio.
e lo sepolcro abrazando,
baxandolo con cor smario,
423 lo me fìio benixando,
lantor Zoane a mi vegnando,
a chi Cristo m acomanda^
Lagomaggiore,
mi rezando e sostegnando^
de quelo logo me leva;
che e, stancha e aflita
de lo gran tormento me,
no poca pu star drita
ni sosteneime sun li pe.
menandome entro per citae,
en ca de san Zoane entrae,
unde per gran necessitae
pusor di steti e abitai,
chi uncha vegnando per via
la veiva si contristar,
comovuy eram de Maria
a pianzer e a lagremar.
ni d amixi che 1 avea,
en questa trìbulation
eia rezeve no savea
alcuna consolation.
sempre, iaxando o sezando,
li soi fai ti mentoava;
esto mundo reprendando
chi maramenti araigava:
o mundo, quanto ai ofeiso,
chi ai lo me fiior ociso
chi per ti era deseiso
e da De paire era tramiso!
che mar canio m ai renduo
de cossi car e doze fruto
chi a ti era vegnuo
e comò e t avea aduto!
a li Zue corno a fiioi
vegne enter lo a conversar :
rezevuo no 1 an li soi,
ma 1 an vosuo descazar.
fin da Eroi se inconmenzam
4Stt
431
435
439
443
447
451
455
459
391. ms.: de stheso. 399. correggo: parti ancom. 403. pare piuttosto praii^
sea, AOi. consolarme. 405-7. scorretto. 413. correggi: 5ejpe/t. 433. entrai.—
460. Il ms.: cKe, con un a sopra Ve»
Rime genovesi
li Zuei de ìniariarlo,
e poi sempre machinam
403 la soa morte de che e parlo*
o quanto mar e punimento
rezeveram d osto peccao!
che lo lor povor dolento
4d7 sera per tato descazao,
desprexiao da 1 atra gente,
a De marento e condanao:
chi refuam lo car presente
471 che De avea a lor mandao.
e no ye voio aor pur dir
de cosse e faiti chi gè som;
questo Te hasta per oir,
47S e Criste ne faza perdom.
o regraciemo De
e la soa maestae;
chi ne faza aver in le
479 fé speranza e caritae;
e per pregere e per amor
de la vergom pietosa
ne conduga a 1 onor
483 de quela vita gloriosa,
chi ne darà saci amento
de zo che omo dexerera,
e d ogni zogo compimento
4117 chi za mai no finora. Amen.
XVII. (e. xxxvii).
d. sec. xiit-xiv.
109
che se 1 e drito e soave,
tuta guia la soa nave,
reze e monna e da conforto
4 e aduxela a bom porto.
ma chi la lengua a bona fé
no reze inguao comò lo do,
pezor inimigo non ha
d entro ni de for de ca. ^
chi dritamenti la manten,
conseigo mena tuti ben.
guielam bem queli chi 1 am,
de fin che eli am lo frem in man. ì2
XVIII.
Stude cognosdere te ipsum (ivi).
Se tu ben te cognoscexi
considerando chi tu e
e donde vai e d onde ve,
ogni scientia averesi.
che so tu te descognoscessi
tegnando e fazo e re camim,
meio sereiva en la per fim
che tu uncha nao no fossi,
or pensa adesso e meti mam
a li toi faiti examinar,
e a lo bem che tu dei far
no perlongar a i endemam.
12
XIX.
De biaexto (ivi).
Sum lo bisesto tuta via
sun le. f. vem sam Mathìa.
li dei doi iorni computar;
ma si te dei arcgorda
de no festar lo di prime,
ma semper quelo chi ven dare. Amen.
472. /m- 473. forse fom. 474. forse ve baste per o oir (vi basti per ora udi-
re). 487. finirai XVIII. 5. descognosci, per la rima. II. correggo: e lo
bem. XIX, 2. cosi il ms. Quei punti ci son messi per cassare o per abbrevia-
tura? Il senso m*ò oscuro.
200
Lagomaggiore,
XX,
Esto paciens in afflieionibus illuLtis
(ivi).
Chi ofeiso no se sente,
e aversitae sostem,
no de esse per to men
i vertuoso e paciente;
e n contra 1 ira ardente
porta Crìste semper en sem,
chi sostegiie mar per bem
8 ni se venia de presente.
quelui faza so redente
chi mesara quanto avem;
poi paga quando covem
12 con baranza chi non mente.
ma 1 omo e tropo corrente ;
per zo monto viaa rem
che chi 1 ira no destem
16 tosto enderno se ne pente. Amen.
XXL
De predicatione habenda (ivi).
Chi no guarda quando e comò
un gran faito s entrependa,
e che firn elo n atenda,
4 no me par bem bon savio homo,
chi star no vor contento
en quelo honor che De i a dao
e cupito tropo aotro grao,
8 pò venir in manchamento.
chi vor doncha esser prudente
e bem terminar so faito,
cerna bem lo primer traito,
per finir adornamenti. it
XXII.
Ad evitandum bratos (ivi).
Chi via tem de breve
per dover 1 atrui rapir,
no pò uncha bem finir,
ni bem guardasse da combre. 4
che pu Io so peecao lo fer,
chi lo sa tosto perir
e a mara fim venir:
per zo che 1 e de De guerre, s
qui quando se ira tropo e fer,
e nixum gì pò fnzi.
ze, chi de doncha falir
ni trar li cazi in centrar so sor? »
XXIII.
Contra superbiam (hi, tergo).
Per che menna 1 omo orgoio
ni menaza de far guerra,
quando man e ceio e oio
chi for ancoi sera sete terra? 4
chi devera dir: e voio
convertir lo cor qui erra,
e la man per che e soie
dir : 1 atrui strepando aferra. s
or pensante doncha afrezar
senza termen ni demora.
XX, 9. così il ms. XXI, 1. quando. Il ms.r qn; unico esempio di tal sigla. —
2, entreprenda, 4. savio ha nel ms. un puntino a sinistra. Ma la parola da
espungere è bon anziché sat>io. 7. eupifaì XXII, 6. fa. 12. correggo in
eoiitra, XXIII, 1. propriam. ogcrio^ poiché ia cifra del r sta sul secondo o. — ^
4. il chi forse va tolto. 9. pensata.
Rime gdDOvesi d. 8ec. xiii-xiv.
201
por tar o tanto dolor schivar,
is do far ben fin oho nel ora;
e quelo gram regno aqulstar
unde De li soi honora.
senza firn or no cessar,
16 e fin cho tempo ai lavora ;
e fa De semper to taor
chi de tu ha gram cura,
che te dea quelo honor
» che n acerta la scritura.
XXIV.
Ne sis perseverans in malo (ivi).
Chi san re voler s endura
no sor nncha ben finir;
ni qaelui bem compir,
4 chi bon oonseio bescora.
ventoso honor chi dura
no voler tropo seguir.
re faito no consentir,
8 ni laxai perir dritura.
de bem examina cura
KO ohe tu voi far o dir;
no fai cosa da pentir,
is ae tener voi strae segura. Àmen.
XXV.
Cantra quedam fallacie (ivi).
Chi m a faito tree fale
doni e far me compagnom?
no: che lo m a faito som
4 de voler citar a vale.
ni sum prea chi se ballo
fasse fondamento bon?
no: che verrà saxom
che lo defìcio desvalo. s
ze, chi mai de fiar balle
ni soe cosse a iotom?
doncha per questa raxom
par pu bon che e me ne cale. 12
XXVI.
Contra quedam detractoretn (ivi).
Quasi ogni greco per comun
e lairaor, necho e soperbo;
e in nostra contra n e un
chi de li aotri e pu axerbo. 1
che e no 1 a losengo tanto
che mai so crior se stagne ;
semper ma aguaitaan calche canto
per adentarme le carcagne. 8
doncha so semper do star ro
e no mondar le overe torto,
e prego 1 aotissimo De
che ma lovo ne lo porto. Amen. 12
XXVII.
De non confitendo in hoc vita
seu in iuventute (ivi).
Tu homo ohi vai per via
san e zovem e fresco,
non andar per vie torte
comò nave senza guia. 1
che, se lo mundo par che ria
XXIV, 5. chi non durai 8. laxar. 11. far. XXV, 2. ms.: don le. 7. nel
ms. quasi vorrà. XXVI, 5. ms.: la losengo. 7. così il ms. Me aguaita m'a-
nnotta. IO. mendor; sembra % piii che r. XXVII, tit. confidendo. 2. la rima
'vnol forte anziché fresco.
202
Lagomaggiorei
e vita longa deporte,
aspeita de doe xorte
8 o veieza o maro ti a.
doncha faza vigoria
DO te ingane ni conforte;
ni re vento alcun te porte
12 donde in dere alcun no sia.
lavora fin che n ai baylia
anti cha 1 ora te straporte;
ni aver alcuna aya
16 donde no se pò dar storte,
tuta la scritura cria:
poi che seram serrae le porte,
za no sera chi te reporte
80 a remendar chi marvaxia.
e no te digo boxi a
chi vanamenti te conorto:
se poi tornam gente morte
24 quelli chi sum passai ne spia. Anen.
XXVIII.
Non tardes ad bonum optu.
(e. xxxviu).
Quando alcum ben te vem a mam
o bon lavor da dever far,
tosto lo fa: no aspeitar
4 ni gè dai termen a deman.
che quelli chi bestento dam
em ben compir e ordenar,
tar vento se gi pò caniar,
8 che for za mai saxom no am.
lo cor de 1 omo e tropo vam ;
e chi no lo sa ben guiar
monto tosto pò derivar,
e mancamento aver de pan. Amen, is
XXIX.
Contro quedam
sacerdotem tenacem (ivi).
L omo avar exo8colento
chi tem tuto e no vor spender
ma par monto da reprender
e degno de gran tormento.
che gi zoa cresimento
ni a guagno re intender,
poi che atri de so mar prender
cererà con largo vento? ^
ma pu e misero e dolente
e degno su forche pender
preve chi no cessa offender
in si greve f alimento, ^
a chi masna no sento
de dever partir ni render;
ni la man voi mai destender
e 1 atrui sostentamento, la
ma fa viso ruzenento
debiando alcum amigo atender,
che de honor se de accender
e far bello acogimento. so
ma, sapiai, monto e atento
in dever le ree tender
per maor offerta prender,
prometando per un cento. S4
lantor no elo miga lento ;
6. ms.: de porte. 22, conorte. Il ms.: cornorto. Il puntino sotto il r ci avverte
che fu scritto per isbaglio. Cosi pure altrove. XXIX, 1. la 3.^ lettera del-
r ultima parola potrebb* essere un e invece che un o. La 4.^, tal quale ò scritta,
é un* e, ed d attaccata alla precedente. 3. così il dìs. M* apar o me paì^ì —
15. vor. 26. correggo imprender. 29. il ms. pponimento^ e sovra il primo p
la lineetta che vai re. 30. correggo: mai.
Rime genovesi
ma sempre lo vego prender
in guardase e in defender
SI de no far alargamento.
doncha e bon far preponimenio,
poi che mar no ver despender,
de farlo tanto descender
» che 1 avesse manchamento. Amen.
XXX.
Cantra mundum (ivi).
Ben e mato chi se fia
o questo mondo traitor,
^i ogni soi seguior
<P«P Titopera desvia;
^ mostrando che lo ria
cun rasplendente vigo
^ t*ichete e fazo honor,
> dii in mendor passa vìa,
^po render soza ensia
^ probio e desenor,
^^'^ morte pina de desenor
Mchi per deleti so congria.
^ Uie piaxe compagnia
^ menno in cotanto error.
^ star Toi senza paor,
M ^^rdate de tal folia,
• de entrar in iotonia
«ki render in la fin dolor.
^^ ai mortar enganaor
*r^^rdane, santa Maria. Amen.
XXX 1.
Oontra lectores et non factores
(ivi, tergo).
^i se speia in la doctrina
•^ta de li gram doctor,
• '^o menda so error,
***®giio e de disciplina.
d. sec. xiii-xiv. 203
chi laxa la meixina
per un poco d amaror
chi scampa de d ogni dolor,
par che tem via meschina. s
e de quanto ben e pina
la bia scritura lor
ben n avemo qualche odor,
ma in faito chi s afina? ^^
se in lor se tem spina
o un poco d asperor,
la fin mena en gram dozor.
ma in oreia asenina ^^
sona inderno 1 eira fina,
ni gè prender alcun amor.
cossi 1 omo Tor honor,
ma da lo lavor declina. ^
li cor son pim de sentina
de peccae e de puor;
e am un pertusaor
chi tropo ha sotir verrina,
per tira donde se straxina
chi sera so seguior,
cum desmesurao caler
che tem 1 enfernal foxina. ^
car acatam la bestina
queli chi son lecaor.
ni mai trovam scampaor
chi descende in tal ruina, 3:>
donde ogn omo se straxina
chi de De sera traitor.
ma defendane en quello or
la gram pietae divina. Amen.
XXXII.
Qìtod prò muneribus .... fiant (ivi).
Chi ben segur vor navegar
in questo dubioso mar,
21
3C
^^^ 9. rènde. 18. rende. XXXI, 18. prend4S. XXXII, tit. i puntini di
q^e«to e d'altri titoli, accennano a parole ch'io non seppi decifrare.
204 Lagomaggiore,
e fuzir fortùtìa grande,
4 a san Donao s arecomande ;
che 1 d cossa proa e certa
che ogni santo Yor offerta;
doncha ogn oiyio d està urbera,
8 chi uncha ver scampar, offera^
o com dinai o com candele,
se core vor a pine vere;
e chi non tem aor tar meo,
12 assai pò star de for a rroo. Àmen.
XXXIII.
Quodam moto de non superbiendo (ivi).
iPer zo che centra la morte
no vai esser prò ni forte,
chi semper aspeita de morir
4 no a raxom de soperbir. Àmen.
XXXIV.
Contro eos qui sine maturitate et
Consilio^ sed . • • . • <6 egerunt
in factis suis (ivi).
Chi sun faito re s asbriva
per raxon de mar finir,
che monto n o visto cair
4 per tener tropo aota riva.
e chi bon conscio schiva
ni a ben vor consentir
per so re voler compir,
8 pu in la per fim derriva.
ma chi ben strenze e restiva
lo so cor in far e dir
per guardasse da falir.
XXXV.
Quodam moto eontra eos qui
desiderant aurum (e. xxxix).
8
Gram maraveia me par a mi
de li homini chi sum perdidi^
ni am cognosimento in si,
e tuti ardem note e di
d argento d oro e de tari,
amassam e no sam a chi,
e dixem pur: tira in ver ti;
un pochetim dem rier ohi ;
poa quar sse sea mar lo vi,
che tute tempo staran li
donde uncha mar no somenti.
noi guardo De de far cossi. Àmen. »
XXXVI.
Excusatio cantra ieiunium et
adeventus (ivi).
Un conscio ve demando,
manchamento in mi sentando:
mea colpa ve confesso,
che denal m e cossi preso 4
e quaxi zazunao no o,
per le raxon che e ve diro.
e quanvisde che me ne scuse
tute le mente n o cofuse; s
ma se insta o defenssion,
no me ne fai reprenssion ; .
e se som caito a bandom,
star volo in vostro comando. is
en Votori me par una penna
13 quello me parche segurviva.Àmen. zazuna la quarentenna;
12. ms.: arroo. XXXIV, 3. correggo: monti. XXXV, 2. ms : per di di. —
9. man forse errato per mai, XXXVI, tit. adoentus^ senza VeU II. panni
di dover correggere a bando. 12. ms. uosto^ colVo finale scritto in alto.
Rime genovesi
che 8 o freido in atra terra,
16 chi n 6 semper mortar guerra
d un vento zclao chi gè usa
chi le carne me pertusa,
toto lo corpo me desecha
80 e li umor naturar lecha,
e chi ha poco roba in dosso
ben gì passa fin a 1 osso.
se 1 omo vor usar in piaza,
M vento o freido ne lo caza,
chi e si fér, iuigo e necho
che rosegar gi fa lo becho ;
chi no se scada a fogo
ss porreva bem trema per zogo.
voi savei ben chi gè sei stao,
che lo lego si e inventao
de diverse restauro,
85 mester gè fam restrenzeore.
in mezo semo compoxi
de doi xumi si ventoxi
chi mai de buffa no molam,
86 case grande e tenti crolam.
quando e me trovo U in mezo,
1 u me fa mar e 1 atro pezo.
chi no a fogo e roba assai
40 porreva bem aver li guai,
se exo for con poco in testa,
en monto guise me tempesta;
1 un for de za e 1 atro de la,
44 e coven pur che e torno in ca.
o chi per lo neccissitae
barcheza vor in ver citae,
trova arsura a gram zhantea,
45 con un provim chi gi desuea.
d. sec. xiii-xiv.
205
guarda in ver la tramontana,
e ven un ora subitanna
asbriva con tanta forza,
che chi no molase de 1 orza ss
e le atre cosse chi desventam,
chi tute vem chi gi consentam,
en mcndor beyer porca
pu cha mester non gi serea, 55
senza segnar si gram bevenda:
ma De semper ne defenda!
o quanta via m a ponito
lo perigoro che e ve conitòi do
quanvisde eh e tuta via
la morte provo doa dia
d una toleta sotir, breve,
chi me par cativa seve. et
ze, chi porrea pensar ni dir
en in andar e in venir
li perigori tai e tanti
apareiai da tuti canti? gs
apresso zo, se voi savessi
che dexeta g e de pexi !
rairo veiresi in 'coxina
pe^o grande de trazina 72
ni groncho da far pastia,
ma in don gè vec la zeraria.
lezha umbrina ni lovazo
ni pexo groso da marrazo io
ni gram muzalo peragar
no me fan za stomagar;
ni d atro pexo d avantaio,
so nor tar hor sete rizaio so
per bonaza e poche vento,
chi adevem de seme in cento.
32. cosi il ms. 96. tetti, 38. ms.: lume, 44. torne, 47. ms. agram, 56. se-
rea: la 1.^ vocale non ben chiara. 60. potrebbe leggersi coinio^ essendo scritto
cmto. Uà ponito ha per disteso anche il ms., nel verso precedente. Q^, e in
andar, 70. il ms. ha dopo dexeta due punti un pò* in alto. 74. vec : così
leggo. Possiamo correggere: vee vei (vedete), oppure ven, 79. ni atro, —
80. se non, 82. ms.: ade vem.
206
de tate delicae yiande
84 avemo dexeta grande,
li yim no som corno li sorem,
che niente d aygua vorem :
per zo sum schivai de bevier
88 che la lor vertue e xeive.
e in per son apensao
de zazunar poi san Thomao,
menando tuti per inguar
92 li santi de firn a denar.
per che deiaime conseiar
e dimene zo che ye ne par:
se don tener questa partia,
06 o andar per atra via.
voi chi sei forte de natura,
se per far vita pur dura
de per voi esse conquiso
100 maor logo in paraiso,
se aor cozi vorei
per preicar comò sorei,
digando che streito senter
104 e spinosa mena in cer,
poi che tanto e meritoria
passion de eterna gloria,
assai gè porrei meritar
108 e vita eterna conquistar.
XXXVIL
De yeme estate (ivi, tergo).
Dua raxon ve voìo conitar,
se no ve increxe d ascotar,
Lagomaggiore,
de doL chi se raxonavam
e enter lo se contrastavam,
corno se fa monto viae,
e per vile e per citae,
de la stae e de 1 en verno,
da gente chi stam inderno,
e par a mi che 1 un dixea,
chi ben vestio me parsa
(che 1 enverno in veritae
e pu greve che la stae):
eh e o tuto in ca reduto,
pam e vin e ogni fruto,
e zo de ben che De m a dao;
ma tu 1 ai tuto sparpaiao
for per li campi e per la terra;
e semper ai penser de guerra,
fortuna o re comovimento,
o gram rosa o tropo vento,
o pobia o sor o tropo umbria,
no te toiam la goya;
e un di poi aver dano
chi te fa perde tuto 1 ano.
ma quando e o in mi restreito
tuto lo me e recoieto,
e ben pim lo me grana
de tute cosse da maniar,
de bona biava e de formento,
carne for maio e condimento,
de capum grassi, ove e galine
e d asai monne salvaxine,
e induter lardo e mezenne
e companaigo d asai monne,
8
n
»
tt
84. il ms. de xeta, con uno spazio tra de e xeta ove lo scritto d cassato.
87. beiver, 89. e in per zo son. 101. si potrebbe correggere verei ossi^
verrei'^ oppure cambiare in pur il per del verso seguente. ÌOi, spinoso. — -'
107. potrei: Vei non ben chiaro. XXXVII, tit. De hyeme et destate. 1. dtio*
così leggo;- conitar-. scritto editar'^ dunque: conitar^ non cointar\ cfr. a^
XXXVJ, 60.
Rime genovesi
e gram tineli stivai tuli
96 de sazize e de presuli,
e la canneva o fornia .e pina
d*ognuchana bevenda fina,
de yim vermeio o bianche firn,
« e de cernuo dei hotim,
e bem guarnio Io me bancha
de cosse bone da usar,
e specie e confeti assai
41 per far conduti delicai,
som ormezao da ognuchano bem,
d asa ava e bom fem
per mantener pusor cavali
« e per segno e per vasali,
e assai legno e pusor logui
per scadarse a li gram fogi,
e cogo de seno grande
AS per far delicae viande ;
guarda e, comò e sum fornio
per far spesso gram convio!
gram copia o de luto bem,
i^Do t o dito lo milem;
per che tu fali, a me parer,
se tu la stae vo mantener;
ni voi aor tute descrovir,
o ma aspeitar che tu voi dir.
Estas.
1 atro dixe: e t o inteiso,
ohe in gram faito t e desteiso
Q a 1 inverno leso ai faito
eie zo che la stae i a daito.
tua grande honor e no apollo
<^rovisse d atrui mantello:
X^regote che tu me intendi
68
d. sec. xiii-xiv. 207
e lo torto no defendi.
la stae e pina de tanto ben,
gram festa par quando la vem,
che tute bem conseigo aduxé.
lo sol resplender con gram luxe, 72
lo qua 1 enverno e bandezao,
quando era 1 ajre nuverao.
che comò ven marzo e avrir
tute le cosse vei fiorir, 75
e venir la gram verdura
per montagne e gram pianaura.
le vigne, j orti e li iardim
tu ti abundam e sum pim so
de grande odor chi mostra adesso
che lo fruto vem apresso.
tu ti li monti son vestir;
li oxeli cantam e fam nij ; 84
le bestie grosse e menue
chi d iverno eram mar pasue,
per zo che la stae i e provo
tute fam fiior de novo, 8S
chi satham e trepam inter lor:
chi gni cessa tèm anchor
stillo de insi quando eia de
de queli che De la fé. 92
li arbori tuti avexendam
a zo che so fruto rendam,
1 um poi 1 autro maurando,
e monto guise delectando; 9&
che se e te dovesse cointar
e tanti fruti desguisar,
e averea tropo a dir,
ni tu porrosi tanto oir. 100
de stae s alegra chaschaun.
^6. il ms.: psutl, e sovra il p la sigla cho vai re. 46. ms.: da sa at?a, col 1.^ a
^1 atta che tira alFo. Possiamo correggere iava (biada). Le ove qui non ci
avrebbero che fare. 72. resplende. 73. nel ms. sopra qua uno sgorbio che
non so se sia r. 78. e per pianura. 97. nel ms. innanzi a te uno scaraboc-
chio, che somiglia a un d mal fatta
208
Lagomaggiore,
grande e pioem per oomun ;
che a lo povero no stol
104 drapo acatar so no voi;
ma quelli chi pon assai spender
pon luto or cerne e prender^
drapi sotir per star xorai
108 de lanna o lim o de céndao.
chi andar vor in parte alcuna
no a pensser de gran fortuna;
pescar pò 1 omo e brazeza,
112 bagnase bem e poi merendar,
no car che omo se dea lagno
per dar dinar d entrar in bagna
en tute parte o logo adorno
116 se dormi voi sover jorno.
veraxementi, zo m e viso,
la stae me par un paraiso;
lo tenebroso inverno
120 par semeiante a 1 inferno.
1 inverno vogo li omi strema,
e li arbori quasi sechar.
vento e zer e garaverna
124 chi tute cosse desquerna,
la grande arsura e lì provim
lo mar travaiam e li camim.
li gram zelor sum si coxenti,
128 li nasi taiam e li mentii
e li pei fam iurezeir,
tuthe le mam abreveìr,
i omi nui e famolenti
132 tuti trema e bate li denti,
le iaze o le gram nevere
tennem si streite le rivere,
che ni per terra ni per mar
136 se pò 1 omo guairi alargaa.
e per gram iaza e lavagi
tanti vego desanvataio;
semper capello t e mester
e zochali te porta derrer.
o quanti poveri meschim
vennam lantor a streita firn,
chi de stae solazar sorem
e lantor de freido morem!
no porrea dir ni scriver
comò e lonzi quelo vive
da quello vive benastruo
chi la stae n a cooevuo.
assai o dito e posso dir;
tu no te poi a mi scremir;
e zo che tu a mi vorrà responder
aprestao sum de confonder.
yetne.
149
ut
il»
XXXVIII (e. XLV).
1 un mania pim de beschizo,
1 atro va fora a la postizo.
so per correnza o cun dinar
eli se pon ben avinar,
da tute tenne negao
pam bescoto in vernigao:
a un traito lo bevem pim ;
parla gi fa greco e latim.
cevole e sar pestam asai,
donde li vermi sum corlai,
pu che la ventre pina stea;
no g e forza che gè sea,
si lenti omor se gè tem«
104. so: così il m6. 1 12. merendar: il r finale del ms. d un t corretto. 121 . stré"
ma: la ÌA vocale è poco chiara. Ì2d.alargaa: il penultimo a non si legge di-^
stintamente, e potrebbe anche parere im m. 1 38. desat)antagi. XXXVIII, 5. tetme
6i legge, ma poco chiaro. 1 2. correggo : for;KO (fortore). 1 3. ms. : siUntio mar. -—
Rime genoTesi
ui roba gì vem a man,
tnder no ve parlo
D, asdeiti e vituperi
liberi salterj ;
mostri e missare
idezai de lor hoste.
sorvesagenti
mai e si famenti
. la galea e soa ;
3 vam da popa a proa.
le usam li segnor
usar alchun de lor;
kun so remo tira :
:uarde de lor ira I
g e monto encrexosa
spuzente e vermenosa,
da for ruti pusor
tener lo re savor.
tor aiai in cor
une de benimor,
lucente fresche e fine,
rilente e cresteline,
) con tanto asbrivo
>r exe un fossao vivo;
50 V aregordai
erei conforto assai,
lomo va sote corverta
d, 880. xiii-xiv. 209
se n apresenta una oferta,
che no vorea mai che tar
venisse offerta in me otar : 43
zo e gram scalma e calura
d asai gente, e de spesura
de monti arsnesl e cosse lor,
chi monto aduxe re vapor 47
de pan, carne^ formaio, untume,
de gram suor e scalfatume.
de sota vem la gram puina
d aigua marza de sentina ; 51
da la quar ohi voi scampar
fazandose a li columbar,
semper oido troim e spuza grande
de qualcuna da le bande. 55
si che, sa per tormento assai
e per pur esser tribulal
se de salvatiom aver,
voi 1 averci, a me parer. 9»
or no voio e tanto dir
e ve deiai de zo scoi;
e se pu voi vorei andar,
penssai voi de confortar; oa
alegar voio lo contrario,
quaxi vozando cartorario.
de, comò el e bella cessa
a caschaun chi andar gè pò e osa d7
en cossi bello armamento
i deve mancare per lo meno un verso.- U tno con sopra una cifra
) come d in fojsa del vs. precedente, in colai del 10.®, e in palo del 15.®,
assata. Nel 14.o potremmo leggere a man gi oem; e il verso mancante
dopo il 15.0 18. il ms. pat con una cifra insolita e nrì, 21. scritto:
jmai si potrebbe correggere in afanai. Forse anche famenti d errore
uense; il senso, più che la forma, e* induce a rifiutarlo. Non so se
sarebbe di quel secolo. Io preferisco flreventi ferventi. Cfr. LIV,
fnte); LVI, 129 {fervente); CXXVI,23 (frevor). 33. cosi il ms.- d9
ì nome proprio ? 40. il ms. ha sull*o di couerta la cifra che vale r.
certa, 46. arsnesi; sotto il primo r potò esservi il punto di elimi-
54. oido: così il ms. 55. de le bande. 61. scoi ha nei ms. come un
piantato sul e.
vio glottol. ìtal., II. 14
210
Lagomaggiore,
de tal e tanto fornimento,
si ben desposo e traitao
71 e de tute cosse si bem ordenao!
mai non vi stol si grande alcun
faito per rei ni per comun.
no so che gè manche niente ;
75 tnto e armao de nostra gente
de citae e de rivera,
de cor fermo e forte ihera,
no de gente af egnaiza
79 chi per poco se scaviza.
ma som tuti omi si valenti
* e de scombate si ardenti
e animai de venze tenza;
83 che tu an faito cognoscenza
andando compagna! in àchera,
chi mostra la voluntae fera
d unitae chi ben s acorda
87 a tirar tuti a una corda,
de, corno serea gram deleto
a caschaun chi g a eleto,
chi andar gè pò e ossa,
91 per vei si bella cessa,
corno e de gente tante e tae,
e de galee si armae
de gram conscio de segnor
95 chi tuti parem valvasor;
e de gram comiti e de noihe,
sorvesaienti e voghe
chi in mar ferem a rastelo
99 a un som de xuvorelo,
chi si forte fam szhumar
la gram pianura de lo mar,
che sbatando fam remorim
103 chi va comò un xume rabim !
si grande e lo viazaigo,
che no g e ni gherego ni iaygo
a chi no debia deletar
ver la lor regata far.
barestre an e tante e tae
e in si grande qnantitae,
e bon quareli pas'saor,
dir no se pò lo conito lor.
li barestrei son tar e tanti,
che, vegi mezam e faniti,
som de ferir si acesmai
che lor par no ne vi za mai.
monto e bel ese in tar lego,
donde omo ve far tar festa e zogo,
vogando gram deversitae
de terre vile e citae.
e se combate gi covem
un gram vigor inter lor vem,
fazando asbrivo de leom,
forando corpi de random*
e s o verei a quelo faito,
voi no osando dar gamaito
ni chi atrui ferir dovei,
in pero che prove sei,
digando qualche salmi vostri
e De pregando per li nostri,
bem porrei porze e arme e pree
a li omini de nostre gàlee.
ma quele che e pu dere creo
me parem quele da Cogoreo»
nigre serie e manesche,
d atra sum de che betrescbe.
e parme, se cossi farei,
a sam Pe semeierei,
chi per li sol e si defende
91. correggo: poer, 116. ms.: belese, 132. ms.: pudere\ forse: pu drue» —
132-5. Questi quattro versi qui paiono fuor di luogo. E così pure più so^^
i quattro dal 116 al 119. 134-5. cosi il ms. (però datra).
Rime genovesi
190 e no lassase miga prender,
1 arma soa trasse for
con tar vigor e tanto cor
che armancho taia 1 oreia:
143 doncha fa bem chi gè someia.
penssa si doncha far e dir,
pricar li nostri e resbaudir,
che venze possam con baodor
147 queli chi Yorem venze lor ;
si che De n ahi loso e gloria,
e 11 nostri gram viteria,
a De segnor ne fazo prego,
151 che d està guerra sea mego.
XXXIX.
* Exemplum quenda ad instruendum
se de alieno casu (e. xlvi).
Quando un bom paire a so fiior
chi obeir a lui non vor,
ni star con si ni habitar
4 ma per lo mondo vanezar,
degno e cair per gram folla
em porvertae e gram famia,
sostegnando freido e cado,
8 comò vir e • . . . rubado;
che chi se parte de bon sezo
sempre va de mar in pezo,
ni se cognosce mai lo bem ^
u se no per mar quando 1 avem.
cossi lo cor malvaxe e re
de quelo chi descognoxe De,
chi paire e d ogni bem pim
d. sec. xiu-xiv.
Sii
e de richeze senza flm, le
chi 1 omo a soa ymagen fé
per zo che semeiar gi de
e seguir corno fa paire
ogni fìior de bom àyre, 20
e laxando 1 amor aotrui
conzunto star semper con lui,
lavor fazando e faiti driti
e li som comandai e scriti ; 24
se da tar segnor se parte ss
che da diversa parte e ponita
la mente chi da De s alointa,
ni mai no trova alchuna cossoe
unde la stea in reposse; 29
che laxando quello sor bem
ogni atra cessa gè vem mem,
sempre trovando manchamento
e nixun saciamento; 33
e cossi semper anxossa vive
en queste cosse fugitive.
per zo a mi rair or vem
che lo me cor stea serem, 37
che lo no sea spegazao
de qualche sozo nuvelao
chi da monti lai ma vem
amaregando ognunchana ben. 41
speciarmenti dir voio e
d un accidente monto re
chi me torba cor e mente;
zo fo lo meise de setembre, 45
d un legno armao de nostra gente
chi preso e stao subitamente
XKXIX, tit. Il ma : de alieno caU, 6. cfr. xxzviii, 40, e correggi: pooertae. —
8. il ms.: vir e ctoio. Quello che pare un t potrebb* essere un r, e allora
aTremmo croio. Dovremmo aggiungere e innanzi a rtUnido. ^, manca la rima
e quindi un verso. E il verso che precede pare scorretto. 26. da diverse
parte- 28. alchune cosse. 29. ni reposse. 40. me rem, meglio che m'avem» —
42. di voio è male scritta la 1.^ vocale.
212
Lagomaggiore,
da mortar nostri inimixi,
49 chi for gram parte n an ocixi»
e per lo gram desaventura
misi in prexon de gran streitura
en logo bruto e lavaiento
53 vermenoso e spuzolento,
donde e tenebre e freidura,
fame e sei con gram calura,
ni se gè sta de penna inderno
57 cerno se dixe de 1 inferno,
non aspeitando de tar fossa
che for mai ensi se possa,
d onde se de monto stremir
SI chascaum chi 1 ode dir,
e de la lor condicion
aver gram compassionL
e a lor li gai som maor
S5 per gran folia e colpa lor,
penssando star segur a terra
per si grande e forte guerra,
senia guaitasse in soi deleti,
&9 si comò a casa inter lor leti,
d onde sempre se devea
a?ri ben i ogi tuta via,
e far pu raxon adesso
73 che 1 ennimigo sea presso;
che speso aduxe gram combre
desprexiar lo so guerre,
che se li fossem ben guaitai
77 e de lor arme apereiai,
guardandose ben note e iorno
e da ra larga tuto entorno,
stagando atenti a xivorelo,
tft tegnando ben reme in frenelo,
per encazar o per seguir
o se pareise de fuzi
(che tar or fuga meio var
che con dano in breiga star, ss
e per schivar un gran darmaio
bon zerne fa so avantaio);
li no soream for stai prexi
si virmenti, ma defeixi; »>
eh e meio mori con honor
cha semper vive in dolor.
en zo se pò da noi pila
utel asempio, zo me par; n
che e o spesso oio dir
che 1 omo enprender per oyr.
per zo de esser 1 atrui caso
castigamento in noi romaso, 9?
enprendimento e speio e guia
per noi guarda un atra via, «
no pur in cosse temporae
ma eciamde spiri toae. m
che caschaum sta dubioso
en questo mar perigoroso
de questo mondo tra vai ao,
de cair semper apareiao,
pin de scogi e de corssai
e de rivixi pur assai,
e daxi toxego e venim
de berruer e d asaxim, ^*
chi semper dam a noi caxom
d andar en 1 eterna prexon;
e la quar chi seme va
tuto tempo mai gè sta, *
ni pregerò gè var ni messa
ni limosene con esse.
per che me par che me fa mestei*
guaitarsa in anti e in dere, ^
70. ti dovrebbe correggere deoerea; ma ad ogni modo non si uttiene rima. — ^
88. iiream U5. enprende. 107. ricixi d poco chiaro, ma pur si legge. Pnoafr^
anche leggere rinixi; non nimixi. 108. daxì\ coil il uu. 116. n€ fa. -^^
1 17. guaitart€.
Rime genoreti
ì DO tbiando cor de fanti,
cardasse ben da tati canti
la queli chi ne cercam noxer
ler tirarne sempre a coxer.
he per danar g e raxon tante,
[ir no se porrea quante ;
na pur de tree voio dir
hi pn le gente fan falir;
[ueate comprenden tuta via
aie le atre o gram partia.
e la soperbia maor,
ibi per 8i Bora vor bonor,
egnando li aotri sote pe ;
1 questa pu despiaxe a De.
^ atra e ayaricia meschina
lemeiante d idiproxia,
la quar asea si lo cor
che aniitae za mae no mor.
• qoesta soza marotia
rd iTor tesoro per rapina;
chi 1 omo avairo e coveoso
pv beTando e secceoso.
1 tira e luxuria ardente
1 dki hnixa carne cor e mente,
per che ogn omo ben enprender
conio da lui se defender.
e s mi par che aia enteiso
Bébé chi vor esser ben defeiso
^ qoesta inimiga fera,
^ tener cotar mainerà :
^ quando eia seguir te vor
•or tentar per darte dor,
** aproximar uncha in ver lui,
•• no pu arrancba e fui.
d. sec. xiii-xiv. 213
che se defender te voresi
greve sereiva e no porressi. 153
per che se tu voi star segur,
da ti a lui fa spado o mur,
e tege semper questo moo :
taia la corda e sta a roo. 157
or De ne dea ben guardar
navegando e questo mar,
che noi no seamo enganai
ni e nternar prexon menai ; m
Cristo ne mene a lo so ben,
chi aprestao per noi lo tem. Amen .
XL.
De puero atnanendo in fantia
per patrem (e. xlvii).
Chi so Aio no castiga
ni fer firn che 1 e fantim«
pu crexando un pochetim
mai no gi tem drita riga. 4
che atrui ponzo e peciga
en zo che lo moschi n
fa, tegnando tal camin;
n tuto zo che lo bordiga r
conseigo lo paire liga,
che de paga a tar quartim
che tristo quelo a la fim
chi so filo mar noriga. is
XLI.
Cantra perseccutaret EcUsie (ìtì).
D alcun baron o lezuo
centra la Zexia esse stao
per alcun tempo strappassao,
'^137. il T8. 133 dee cedere il tuo posto al 137, e questo* quello. Il ms.:
^^Jproxia^ e sorra il primo t di questa parola un piccolo 0. 135. 1* ultima
'•^ ^ onsitae ritrae più dell'© che dell' e. 142. Scritto enprend'er^ cbn
* Piccolo a sopra Ve; onde è oTvia la correzione: enprenda^ e nel ve. se-
C^'^'ta difenda, 149. o tentar. 161. ms : enternar. XL, ti(.: in infantieL
4\
214
Lagomaggiore,
4 chi no sea stao yenzao
e de ogni honor romaso nno,
marcito e inathemao,
e en la per fin danao
8 con quali chi 1 an creino,
che lesu Cristo a prometuo
a lo vichario che 1 a dao
a lo so povero sagrao
12 dover eser semper so scuo.
che se fosse scarchizao
lo cavo che 1 a cernuo,
nostro camim sereiva errao
16 e lo mondo confunduo.
hen e doncha malastruo,
con dur cor e azegao,
chi pende in senestro lao
20 per dir : e sero pur druo
d un honor tosto perduo
per dover ese condanao.
chi sun zo sta endurao
24 me par aver conscio cruo.
ma naveta de sam Pe,
che De gè mise per nozhe,
sposo flr corlar da 1 onda,
28 ma za mai no 1 afonda.
XLII.
Cantra blasfemia domini pape
(ivi, tergo).
De monti homi che vogo errar
gram maraveia me fazo,
chi mai non volem crivelar
4 so dito con bon seazo,
chi presuman pregan morte^
e iasmar meser.lo papa;
tegnando lo veire forte
li ferram su dura iapa.
poi che vichario e de De
i omi lo dem pur obeir;
ma quar lo sea, bon o re,
for De 1 a pur a definir.
e queli chi penser no fan
chi eli sum e chi elo e,
sapi pu che eli se dam
de greve sapa su lo pe.
de quanto se fonde e corno
pregando che segnor si ne vegna,
per che tegnuo si e ogn omo
pregar De che lo mantegna.
de, comò perde bon taxer
e pur si mesteso ingana
chi senza guagno alchun aver
poi soa lengua se condana.
XLIII.
De generare capitulum fratrum
minorum Francisco Jantce, Anno
Mcocii, festo pentecostès (ivi).
Una via de poi disna
me inconmenzai de raxona,
quasi in solazo, con uno frae
de monti fati strapassai:
poi se tornamo a li prensenti,
una raxon me vegne in mente;
e zo che se dixe inter noi
fo in mille trexenti doi.
savio homo era a me parer, .
e ben saveiva mantener
soa raxon e ben finir,
e g emconmenzai de dir:
20
u
XLI. 11. povoro. 23. si legge za piuttosto che zo. 27. speso;- /i;- corlaa. —
XLII, 5. pregar. Il ms.: pregan, 17-18. il testo pare scorretto. XLIII, tit. De
generali c(^itulo„, S, Francisci, 5. presenti, 12. ms.: e gem comenzaù
Rime genovesi
£rai me, si bem me par
de q»pitor generar
de 1 erdem de li frai menor,
v che a mi par che grande honor
a aq^niste la nostra citae:
eha e ye so in veritae dir
che de religiosi festa
9 mai non vi cossi honesta
e ordenai da tnti lay ;
ni e no aregordo mai
elle in Zenoa se fesse
M fetta chi si bem parese,
de ^Dte tute ordenae,
da tute parte coDgregae
famnto e lo mondo universo
• ■ • per torto e per traverso.
poesolo dir, che e gè sun stao
^ pusor via conviao
%8etao a la lor mensa,
nehe chi nncha ben s apensa
^ttxonando vor dir ver,
* lao vi nncha a me parer
tàikto inseme bela gente
i^itaiY cossi ordenarmente;
ù xnai fo in alchun oste
ua<le e viso si belle poste,
bì &n nave ni in buzi
«tante cape ni capuci.
ttt. qaaxi paream santi,
^^^Sni da diversi canti,
te citae e loghi strannj;
«® tuli paream capitanig,
IO « cavi de scìencia,
te houn vita e de astinencia,
pim de luxe e de doctrìna
d. 8ec. ziii-xiv.
215
de boni asenpi e disciplina, 48
per conseiar e trar de error
tuti noi aotri peccaor
chi d ogni colpa semo re
e de mar pim da cho a pe. ss
e questi santi homi cernni
tuti a un termen sum vegnuj
d ogni parte si loitanna
senza corno ni campanna sa
ni letera chi manda sea;
che piaschaun de lor savea
quando arrivar e quanto star,
che dever dir e dever far. ea
e quelo covento biao
monto usa a santo Honorao,
per so capitorio far adorno
e ordenao da tuto entorno, 6<
semper intendando a questo zogo
per speigase da Io logo;
ni quaxi aotro fa gi vea,
se no quando se devea, ^
per faiti lor melo compir,
dormi, maniar o misse dir.
che quando eli eram a torà
no se gè dixea aotra fora. n
tuti taxean, aster un
chi me parca esser zazum,
chi cantando una lecion
reconitavam soa raxon; 76
si che ogn omo che piaxea
animo e corpo, chi vorea.
ma e per star tropo loitam,
e chi lo cor o tropo vam, so
no lo poca ben intende;
che lo non me convenia prende
21
^^dinaa, 3&. ordenaamente. 42, si pud corregger vegnuù 63. eaipitoro. —
f^ *'«eonitei?a;- il ms.: toà. 77-8. il testo panni scorretto; compiaxea posto
"^^^c^ di che piatseoy darebbe un senso.
216
Lagomaggiore,
mea civa si che faesse
84 che me morim semper morese;
che le gente eram si acesmae,
poi che le tore eran segnae,
che per inpir le ventre seme
88 ogn omo veiva star a rreme;
tati vegando ordenamente
senza tenzon ni dir niente
piaschaum lantor speigava
9i zo che denanti se gi dava,
hella cossa era lantor
ver coitanti car segnor,
tanta compagna e tar parca
06 che nomerà no se porrea;
hen la vosi lantor conitar,
ma tropo avea laor a far.
poi se levam tuti in pe
100 por referir graci a De,
chi de lo so richo horsoto
a tanta gente faito lo scoto,
e a lo mondo per coman,
104 seza pagamento alcun,
e poi che avi dito assai
destexi raxom con qnelo fraì,
le cosse che lo me respose
108 no voio a voi tener asose.
or intendi lo so dito,
chi fo pu corno e o scrito:
tanto m avei loa li frai
112 che hem par che voi li amai,
e lo capiterò che se tem
congregao de tati hem
en censi grande compagnia»
che De n e sempre cho e gaia.
ma dir ve voio en veritae
che tuta 1 eniversitae
de esto capiterò presente
loa tropo grandemente
Zenoa de grande honor
e tuti soi hahitaor,
comò fontana e rajxe
de tanti hen comò se dixe.
che queli chi mai no gè fon
ne recontan cotae raxon:
che quanvisde enteiso avesem
cosse chi grande gi paressem,
tropo maor le an trovae
quando le som examinae,
de grande honor e de gran stao
che no g era reconitao.
che circondando la citae
e per carrogi e per contrae,
an visto torre e casamenti
tropo heli convenenti,
segnor e done e cavaler
e homi d arte e de mester
si ordenai de belli arsnexi
che tuti parem marchexi;
e la citae pina e fornia
d ogni hella mercantia,
richa de ioje e d ogni hen
per overar quando conven;
e omi cortexi e insegnai
e d ogni hen apareiai.
110
Ita
114
ist
195
la
144
86. eran è scritto male, ma pur si legge. 100. ms.: grada de. 102. inten*
desi a a tanta gente. 104. senjza. 106. qui destexi (distesi) non staffa al
senso, poichd egli, lo scrittore, non cominciaya allora, ma terminava, il suo
discorso. Forse la è roba dell* amanuense, e dobbiamo corregger d ette, —
108. ascose, 115. ms.: con si; correggo: cossi. 136. e convenenti. 144. quan^
do; o misto d*e. Ma s*ha a corregger: quanto^
Rime genovesi
d onor de faiti e de raxon,
148 ohi mostra ben chi elli son.
apreso zo si am proao
che grandem e pìncen in so grao
sum tati gran limoxiner
191 e daxeor quando e mester
a tati homi besegnoxi,
e pa a religiosi;
che tu son avexendai
ÌS5 a far ohonor a tanti frai.
no miga pur li gran segnor
an Tosuo festar con lor,
far pietanza e conviar;
lao ma bem i atri homi povolar
chi tenem stao grande e adorno,
aTexendandose ogni iorno
Od far hoDor e cortexia
ISA a cossi grande compagnia.
che ogni gè era a maniar
de persone ben u miiar,
con belo cosse e belo arsnexe,
lat no temando alcune speise;
e sempre chi in conviava
pa de cinquanta ne menava,
per honorar lo so convivio:
iTf tropo era ogn omo ben Servio.
dentro casa tan frai
Togo luti esser abrogai
cnm abundanza da arsnexi
ne de citain cossi cortexi ;
che in atra parte unde e sun staito
a lo capiterò chi g e faito
non son tuti si governai
180 dentro da casa de li frai ;
ni tar convi in atra parte
d. sec. xiii-xiv. 217
o visto far e orni d arte,
se no a coniti o a baron
o gram prelati o gran patron. i84
per che voio che vo sapiai
che monto se iaman pagai
de 1 onor che De i a daito
e che Zenoeixi an faito. iss
lantor e dixi : ben me piaxe
che dito avei raixom vraxe.
e bem creo che voi cognosai
en tute parte unde sea i^
tato lo honor chi se fa
eh e da De chie tute da,
e li ben li acoierei
che avei faito o farei. loe
ma Zonoexi, ben sapiai,
no som ancon ben saciai
de servixi e far honor;
e se gè fosse tempo ancor, 200
pu gè ne sereiva daito
da pusor chi non 1 a faito.
per che ve prego, quanvisde
eh o sapiai ben, e o pregei De 204
che guardo la nostra ci tao
d agnunchana deversitae.
elo respose: De chi pò
tute ben far, che tu e so, 208
Zenoa e soi habitaoi
mantegna semper in stao d onor.
XLIV.
Quodam moto: qui est sine fine
(e. XLIX).
A homo chi e senza fé
fianza dar no se gi de.
150. grande. 165. correggo: ogni di. 169. correggo: ne conviava. 171. con-
vio. 175. d arsneai. 177. scritto suz. Nettiteli latini il carattere dello jr è
posto non di rado per n m in fine di parola. 182. a orni. 190. raxom. —
19SL seaù 194. forse chi. 196. forse il secondo li va cancellato. 199. cor-
reggo: servigi. XLIV, tit: fide.
218
Lagomaggiore,
ma quelo chi uncha mar no fa
4 e fa lo bem che da far ve,
serve a De se 1 a de che,
porze la copa e dixe: he,
8 bem pò esse apelao re.
XLV.
De quodam viro Jan, a quo . . . auferi
procurabatur per quendam magnar-
tem quodam beneficio..» sed tan~
demper... oblatorum liberaius fuit,
unde versus . . . (ivi),
Em yeritae me som acorto
che tato Io mando e torto
e de li bon mortar gnerre,
4 pim de corssai e berrae.
che senza ofifenssion alcana
m a comovao gran fortuna,
d archun onor chi m eia dao
8 de eh e pareiva consolao,
penssandome de gorvenar
corno fan i atri segorar.
ma de vor no so che tanna
12 se me coposse una tannana,
chi fé lo tempo astorbea,
con bachanexi e groso mar
chi co ande e forte e brave
16 tarba tuta mea nave,
dixi infra mi: d onde ven zo,
a chi estrepao lo so?
e creo pur che lo demonio
20 m aduto questo conio
de grande invidia, ohi tem
quarcun irao de lo me ben:
si squarza vor lo faito me,
pur per tirar tuto en ver le.
sentando està condition
foi pin de grande aflicion ;
e de paor e de penser
lantor levai le man in cer.
por aver De sempre d avanti
me tornai a li gran santi,
che me daesem scampamento
centra ognunchana tormento,
asai pregai : che ve don dir ?
eli me preisen alo ir,
per mi fazando oratiom
co monto gram devotion.
ma quanvisde con le preguere
grande fossem e sobrere,
pur la fortuna no cessava,
ma pu semper reforzava;
e pensai pu: e son in cho:
santa Maria, che faro?
e lantor, corno De vosse,
chi sa meigar tute cosse,
un marinar vegne a presente,
eh e reputa per niente,
chi dixe: no aiai penser;
mostrar ve posso un tal senter
che, se voi ben me orerei,
d ogni perigolo scamperei;
che a monto omi mostra o.
un santo odi che ve diro;
e se voi li alumenerei
for d ogni perigoro ve troverei,
che, sapiai, el e cessa certa
u
»
40
XLV, tit. tandem*, il ma.: tiardez. 7. il ms.: dar chun... chi mela. Io cor-
reggo: era. 9. Il segno dal r buIFo di go; correggasi: governar, lì. de '^
ver, 12. composse;-- tavanna. U ms. tanàna. 20. m'a aduto \~ è scritto: o5io> — "'
30. tornai; d un m corretto in n. 34* così il ms.; =alo oir. 37. che le preg.-
51. cioè mostrao o. Il ms.: mostrao, 53. loì Cfr. vss. 72 e seg.
Rime genoTeai
ognunchana santo vo oferta:
Tor oche ni pernixe;
w le avera un jxe
Dise e gerite in cartorario,
DO troverei contrario.
)r dix e: se De a v ay,
grande e corno o me di,
>me 80 Toio saver
[uerir so gran poer.
to respose: e ve so dir,
rostro faito conseguir,
n caso perigoloso
IO o pn vertuoso
de 1 atri exaudibel
perigoli terribel,
gram nome e de gran voxe,
Donao e santa Croxe.
i son aor pur invocai,
aeli chi som trovai
onor voren aver,
itri santi, a me parer.
ihe, 8 o f ai zo che v o dito,
•stro faito andera drito;
fortuna e mar torbao
rra tnto apagao e abonazao.
do e oi questo sermon traitao
> che me fo conseiao;
i Donao fei me patron,
Aodar questa raxom.
no fo proferta
»to santo mea oferta,
ovai poi ni mar ni vento
16 fosse en noximento.
abia loso e onor
16 de tal defendeor;
d. sec. XHi*xiv. 210
che for me faito era cassao
se no fosse san Donao. m
d onde e prego semper De,
e pregem lui li amixi me,
che quelo gran segnor sobre
chi le ihave tem de ce, oo
citava degne e far comando
a questo santo cossi grande,
e sso officio adoiar;
che ben e degno, zo me par. loo
XLVI.
Cantra occisitatem et cantra eos qui
male celebrant in die daminica et
alias festas etc, (ivi, tergo).
Monto me par utel cessa
tener si la mente iossa
che no gè possa aproximar,
ni far demora ni intrar, 4
alcuna cogitation
Vanna ni tentacion,
chi fan falir e fan errar
e lo bon cor prevaricar. s
per zo dixe la scritura
che per aver la mente pura
e per scampar d ogni guerrer
chi ne poessem dar combre, 12
che 1 omo e semper tuto hor
faza qualche ovra e lavor
donde la mente ste atenta,
per no esse ruzenenta 15
de vicij e de peccae
che menna 1 ociositae,
chi voja 1 omo de vertue
s.: Unterà. 50, promiso e scritoì 61. ms.: dixe se deauay. Uà deve
geni. 73. pu, 97. camande. Anche degne panni da correggere; forse
uu (doni). XLVI. tit ociasitatem. 13. / amo semper «... 15. ms.: stea
220
20 e lo mete in servita te;
che no pò quasi fir tentao
chi semper vive invexendao.
no odi tu proverbiar
24 che axio si fa peccar?
e san Poro no dixe che
chi no lavorerà maniar non de,
no pur in cossa spiritual,
28 ma etiamde im temporal ?
chi iustamenti lavora
se noriga e De onora,
e sa ben che lavor
32 de li atri amixi e lo meior:
zo che tu ai bem lavorao
semper te sta apareiao;
anima e corpo e san,
36 e tuti guagni se ne fan.
De prime lavorar vosse :
en sexe di fé cotante cosse,
39 e reposa in lo septem
e noy da lui inprende demo:
chi lavorar unde noy semo,
per dever poa aver reposo
43 e sta biao in lo so scoso,
ma cozi quando festa ven
a noi se dexe e coven
tu quelo ìorno despender
47 e loso e gloria a De redender.
ma monto trovo lo contrario
lezando in nostro cartolario ;
de questa terra maormente,
51 unde breiga no somente.
Lagomaf^fiorei
che quando domenega rem
e 1 omo da laro s astem,
per vin per lenga e per gora
trovo che Io deslavora. ss
che de cexa nno curan,
ni le lor peccae no se scuram ;
e quando li dem De Ioar
li no cessam jastemar, S9
o in overe o in parole,
o in demostranze fole
de zugar, de lechezar,
de tropo beiver o maniar. ' 01
tuto quelo di Io cor s afanam,
en lor merchai I un 1 atro enganan ;
quelo e pu savio tegnuo
chi so vexim a confonduo. «7
semper li portam grande ardor
d odio, d ira de e ranchor;
chi uncha per 1 un 1 atro liga
mar en lor no s afaiga. ti
lantor vego pu bandezae
ogni raxon e veritae
cha in tuti i atri iorni,
che li cor stan pur adomi. 75
ma ve diro gran maraveia :
che no vego mai garbeia,
breiga, folio ni rimor
en i atri di de lavor; 79
ni cosse far centra la fé,
se no quando festar se de.
en unde se fa quarche rem or
corre alo tuti iumor; g3
no per far paxe ni partir,
20. servitue, 31. intendi: sai. 39* manca un verso, come ce ne avverte U
mancar la rima. 47. render. 49. ms.: nostro. 56. ms.: cexan no. 69. é
de ranchor^ oppure e ranchor. Fra de ed e leggasi gra^ ma abraso. 70. per
forse errato; ovvero e' è altra magagna. 75. pu. 80. nel ms. allato & fé wi
punto. 83. il ms. : minor tumor.
Rime genovesi
ma pa per dar o per ferir.
li no a logo la raxon,
S7 ni ben preiebar ni di sermon.
- chi per desaventura
receiva mar contra dritura
o ha la tenzba trencha o torta,
w conseigo li gai porta ;
ni da li savi e repreiso
ohi a 8S0 vexim a ofeiso,
ni segnor gè yego ardio
m per che lo mar sea ponio.
melo serea aver arao
cha 8i mar aver festao.
chi cercar vorese bem
n dir no porrea lo milem.
e i atri di che se lavora,
che 1 omo no a demora,
che lo cor e tuto daito
101 a dover far lo lor faito,
Tego ogn omo star cotento
en far so norigamente;
ni sa mai vogo la matim
107 Telo zovem ni fantim
far breiga rixa ni tenza
ni semenar rea semenza;
per zo cbe li omini son zazun;
tu e se for gè n e alcun
chi sea deszazunao,
non e for guari enbrumao.
ma poi, vegnando in ver la sera,
115 che lo stomago no feira,
che lo filo de la viee
gi fa far le frenexiee,
e lantor tu te guarda
J19 che lo lor cor non t arda;
d. sec. xm-xiv. ggi
recogite in ca de iorno
e noa andar la note entorno;
elio chi usa esser noitoram
n a tar or breiga 1 endeman. 123
che e o oio una nova:
chi zercha breiga si la trova.
chi vive en paxe e en raxon
De gi ne render guierdon. 127
or piax a De che caschaun,
e per semo e in comun,
si guie per si drita riga
che lo Segnor ne beneixa. i3i
XLVII.
De vitoria facta per Januenses con^
tra Venetos in Laiacio Ermenie,
anno mcclxkxxiiii, die sabati xxvii
madij, quia Januenses erant mer-
chatores in partibus Romanie, Et
fuit Admiratus in stola ipsorum
dominits Nicola Spinola, ut infra
(e. L, tergo).
L'alegranza de le nove
chi novamente som vegnue
a dir parole me comove;
chi no som da fir taxue, 4
ma da tener in memoria
si comò car e gran tesoro,
e tuta la lor jstoria
scriverà con letere d oro. s
zo e de la gram viteria
che De a daito a li Zenoeisi,
e De n abia leso e gloria,
contra Yeniciam ofeisi. 12
104. amtento. 1 13. ma. : no ne. 116. che; ma é più o che «; - vie. 1 17. fre^
n4»Ì9, 131. beneiga» XLVII, 4. erroneamente la stampa deirArch. stor.; chi
«•Off Mif» da sir taxue. Degli altri errori sfuggiti in queir edizione, non ay-
▼ertird se non quelli che mi ps^ conveniente avvertire.
222
e se per ordem ben savesse
tato lo faito corno el e stao,
15 assai meio, se posse
Yeniciam dissem intrando:
futi som, in terr ascoxì,
sperdui som noi avisando
19 li soci porci levroxi.
niente ne resta a prender
se no li corpi de li legni;
preixi som senza defender,
23 de bruxar som tati degni,
corno li fom aproximai
queli se levau lantor,
corno leon descaenai,
27 tati criando: a lor, a lor!
li fo la gran bataia dura
de le barestre, lance e pree,
chi da nona a vespe dura,
31 e cazinna p re galee.
bem fé mester 1 ermo in testa,
e da le arme fì guardao;
s era spessa la tempesta,
35 1 aere pareva anuvelao.
Veneciam fon vaguj,
le lor taride atraversae;
li nostri ghe montan gami,
39 chi ben puni le lor pecae.
cum spae, rale e costerei
Lagomaggiore,
o
u
gran venianza fen de lor:
venzui fon li mar guerer
e Zenoeixi n an 1 onor ;
chi vinticinque taride an
retegnue in questa rota,
che incontente li creman,
1 aver piiam chi g era sota.
or par ben chi som pagai
li Yenician tignosi :
ni conscio che za mai
mentoem porci levroxi ;
che la lengua no a so
e par cessa monto mole,
ma si fa rompir lo dosso
per usar mate parole.
tanto som pur vetuperae
quanto pu noi desprexiavam:
se da menor som conquistai,
men son tornai cha no mostravam* so
e speso odoi dir
che li sor tornar lo dano
d onde sor lo mar ensir
e scotrimento con engano.
e no me posso arregordar
d alcun romanzo vertade,
donde oyse uncha cointar
alchum triumpfo si sobre.
e per meio esse aregordenti
de si grande scacho mato.
15. qui manca una carta nel ms.;- posse fu già corretto dall*ArchÌTÌo Btor«--^
in poesse. 17. ms.: in terra scoxi, 18. noi non ben chiaro nel ms.; e
trebbe pur leggersi non\ ma il senso vuole il primo. 19 e 25. cosi nel ms.
29-30. la stampa dell*Arch.: dareste^ vespro/^ 31. la lineetta in cazina ò
vrapposta a ^t; onde TArch. stor., ma erroneamente, canzina. 34. pare 8* abbila
a correggere: si era. 36-8. vaguij^ garnii. 40. la stampa: rande. Veramente..^
1 carattefi sono oscuri; ma / si legge, e solo tra / ed a restano una o du^^
lettere inintelligibili, che però mi sembrano cassate. 52. osso, 56. vetupe"-^
rat;- la stampa ha più, e ^più' {pu) vuole il senso; ma, piuttosto che pMi -
leggasi pui pur, E pur per pu d errore frequente nel ms.
Rime genoT68Ì
Qille duxeati
noranta e quatro.
la De loao
doze maire,
ria n a dao
3 de si mar ayre.
le honor che De n a fatto
avemo meri tao;
rande orgoio e staito
a ese abaxao.
L ve e tuto sa
rnal provision,
indo mester ne far,
nostro campion.
XLVIII.
'tu iìASticie plurima dampna
uitur in terris (e. Lii).
homo ve raxom manca
e e per rivera,
Irin andar in schera
i de mar far;
chi dem pensar,
Irita la staera;
star in pescherà
►tri vorem devorar;
. pò agarafar
)n averta ihera;
chi raxon quera
vor scharchizar;
lenti, zo me par,
a chi no spera,
][uela man sohrera
uto zuigar
lenti meritar
20
d. sec. xiii-xiv. 223
quanto fo, sera e era,
che vegna maza chi fera
per dèver tuto pagar.
d onde ogn omo de pregar
che de tanta storbera
De ne retorne in mainerà
da devesse ben guìar. 24
XLIX.
De vitat'ia facta per Jant*enses con^
tra Venetos in gulfo VenicianO'-
rum prope ysolam Scurzule, an^
o o
no MCCLxxxxviii, die dominica, in-
trante vii septimo setembris; exi"
stente Amirato domino Lamba de
Auria (ivi, tergo).
Poi che lo nostro Segnor
per soa gran benignitae
a miso la nostra citae
de Zenoa in tanto honor, 4
fazando per soa possanza
li Zenoeisi eser sovram
d orgoioxi Venecian
a deverne fa venianza, s
e tanto a noi triampho da
chi contar no se porca;
ben me par che raxon sea
devernelo glorificar, is
e recognosce per segnor
chi iustamentl ogni persona
punisse e reguierdona
segondo che e lo lavora ; id
e scrive de zo che 1 e stao
qualche parte d.e 1 istoriai
per retener in memoria
XLVIII, tit. damna sequuntur, 12. forse ogn omo\ oppure ogno la
gnora la vogliono), riferito ai versi 5 e 6. XLIX, 12. ms*: de ver^
). lavar.
22i
Lagomaggiore,
2o lo grande honor che De n a dao.
veìr e che de antiga guerra
fo certa trega ordena,
e per scritture confermar^
24 enter una e 1 atra terra:
la quar trega in monte guise
queli Yeneciam rompin,
tegnando culti sol vexim
28 si corno gente conquise,
or no me 'voio destender
en lo faito de Laizo ;
donde li preisem tar stramazo,
32 che bem gè poem inprender
de cognosce Zenoeisiy
e prende spelo e dotrina
de Pisa, chi sta sovina; '
36 e no esser tanto aceisi
de soperbia e de orgoio,
chi per no vorer concordie,
ma tira pu in descordio,
40 a la raxon creva 1 oio.
monta via som stai semosi
de venir in tranquilo stao,
e quel am scmper refuao.
44 bem lo sam religiosi
che donde raxon no a logo,
comò li dotor han scrito,
pò 1 omo per rezer so drito
48 le arme mete in zogo.
Zenoa considerando
la propria condition,
e che tal or pu cha sarmon
52 fam le arme combatando
(che se dixe per dotrina
un poverbio monto bon:
che se sol perde lo savon
de lavar testa asenina),
e per responde a lo som
che Yeniciam moveam,
chi de gram rancor ardeam
de comenzar greve tenzon,
ordenamenti fen so sto
de garee e de gente,
cernue discretamente
si comò antigamenti sor.
e meser Lanba Doria fé
capitanio e armiraio,
nobel e de gram ceraio
e d onor comò lo de;
segondo quella profectia
che par che De gi revela
stagando in Peyra o in Cafa,
chi aera e sta compia.
1 armamento s afrezava
com ognuohana fornimento,
aspeitando tempo e logo,
per zo che la stae passava.
Yenexia lo semeiante
faxeva in diverse parte:
per zo soe garee parte,
comò no savese quante
centra noi re stilo aveam;
dir mostrando com menaze ;
mester e e omo li caze
e strenze si che in si stean;
devulgando lor gazaira
con ventosa vanna gloria
anti termen de viteria.
•
tt
M
81
tt
n
s»
21. la stampa: ver. 23. confermaa. 27. forse curti. 30. Laiazo. 40. Ta di
creta tieu deiro. 50. la cifra della prima sillaba é mal fatta, onde si le^
gerebbe piuttosto perpria che propria. 61. fé. 64. la stampa: for. 70. li r
di par non chiaro, e potrebbe pur leggersi pa^ come ha la stampa. 75. Ioga
e tempo^ per F assonanza.
Rime genof etti
) poi parsaa amara;
o gran possa mostrando
ìi, gente e monea.
se gram colmo avea,
9 andava mendigando
ra de Lombardia
ia, gente a sodi ?
ente, ta obi 1 odi,
tegnamo questa via.
i pa aiamo omi nostrai
Talenti e avisti,
ù par de lor n o visti
officij de mar.
me par gram folia
)xiar lo so guerre
sa poi eu derer
deia esser 1 ensia.
i in anti cbe vigilia
festa e tropo anxosso,
r cbe faze a rreosso :
exauta se bumilia.
mato qui bescura
i so inimigo vir;
ventura e coino un flr
ite cbe stormo dura.
. n e stai con soi guerre
a colpa enganai,
s;nando in man li dai
litao azar en dare I
» armiraio con so stol
usma examinando,
revisto comò e quando,
er fin se trasse for ;
d. 860. XUI-XIV.
225
candelando isoe gente
per farli tuti invigori,
cbi de combate e firir
mostram tuti cor ardente. i2i
cbe bela vista era lantor
de segnoi, comiti'e nozbe,
soversagenti con uge,
tuti ordenai a so lavori 128
cum barestrei tuti acesmai
com bon quareli passaor
cbi pertusam e mendor :
de 1 arte som tropo afinai! \Z2
non era li diversitae,
ma eram tuti de cor un
per far bonor de so comun,
ni temevan quantitae. isc
in Portovener se congregam,
porto grande per reposo,
contra ogni fortuna pioso;
li unsem e s apareiam. ho
de li partim, zem a Mesina,
li refrescbam e se fornim,
e demoran; e se partim
per tener le stra marina. 144
or entram con gran vigor,
en De sperando aver triumpbo,
queli zercbando inter lo gorfo
cbi menazavam zercba lor. i48
si cbe da Otranto se partim
quela bia compagnia,
per passar in Sibavonia,
d avosto a vinti nove di. iss
ma gram fortuna se comise
reggo: ma se si gram ecc. 97. aiamo; correggo: amo (abbiamo, in-
. 116. correggo: trailo. 118. la stampa: chusma. 119. previsto-. Ve
l'o, e potrebbe anch'essere. 121. la stampa: caudelando. 128. Il ms.:
I lavor; ma sopra con ò aggiunto a, e cosi va corretto. 144. la straì
I? 149. se parti. 151. la stompa: Ihaoonia, ma io lessi Sih., cbe è
più corretta,
.rohivio glottol. ital., II. ^^
22Q
Lagomaggiore,
de terribel mal e Tento;
e quelo comovimento
)5d parti lo stol in monte guiae.
tanto fo quelo destolbe
che no poen inseme stai,
per saver che dover far,
160 ni portentim ni conseie.
si che lantor per conseiar
da cossi greve remorim,
caschaun tem so camin,
164 pu segnando che gi par.
ma perezando in tar travaio
e in condecion si ree,
con vinti nostre garee
168 proise terra 1 armiraio
a un porto, De voiante,
chi Antiboro e anomao,
chi ingolfando da 1 un lao
172 de ver la faza da lavante,
e quamvisde che in quelo porto
avesem so scampamento,
che fosse de 1 atro armamento
176 n era arrivao cinquanta oto.
ma quelo iorno anti note
rezevem messo de novo,
che for dexe miìa provo
180 n era arriva cinquanta oto;
chi se oonzunsen 1 endeman
anti che fosse dìsnar coito:
en soma fon setanta octo,
184 chi d engolfa no s astalan.
con grande ardimento andavam
guastando per quela rivera
quanto d enemixi g era,
segondo che eli trovvavam.
o quante gente, asnese, terra,
casse e vile e possession
missem tute a destrution,
eh e tar usanza de guerra!
e quante belo contrae,
jsore e porti de marinai
li nostri an miso in rujna,
chi mai no eram travaiael
ma ben ve dìgo en veritae,
tropo me parem esser osi
guastando li loghi piosi,
comò stali de sposae.
gran deseno fen a lo sposo
auto duxe de Venexia
chi in mar i atri desprexia,
tochar lego si ascoso,
ben savei ohe chi menaza
andar a atri tochar lo naso,
quanto dor g e poi romaso
quando aotri lo so gi straza.
lo nostro hoste andar apresso;
a quela jsora zem drito
a chi Scurzola fi dito ;
e li fem un tal processo :
che un borgo pim e grasso,
murao, merlao tuto en tomo,
che li susa era e men d un iorno,
com bozom missem a basso;
e tuto 1 atro casamento.
154. mar. 158. star. 168. preise. 172. così il ms. 176. questo verso, che
evidentemente non ò qui a suo luogo, riproduce il 180.°, come già vide il
Bixio (Arch. stor.). Il quale soggiunge : < qui si dovrà dire che non si avea
notizia del resto della flotta». 183. octo^ piuttosto che otto, ha il ms. —
194. marina, 201. deseno pure nel ms., non grande seno, 209. forse anda
andando, 216. ms. : combozom.
Rima geB0T68Ì
stilo e maxon de quello lego
fon erémae e misse a fogo,
» mina e disipamento.
ma li borgeai chi so siol
a lor yenir previsto ayeam
le cosse lor porta n ayeam;
li rafacham n avem gran dolor:
a chi tanto lo cor arde
de strepar 1 atrui fardelo,
chi an le man faite a rastelo:
I de tar grife De ne guarde!
poi tegnando en quelo lego
so conseio 1 armiraio
per oeme so avantaio
t su si grande e forte zogo»
li nostri semper sospezosi
de i enimixi che li vin
teoir oom cor pim de yenim
t»6 de soperbia raiosi,
erìam tati a una voxe
>ler, alor, con vigoria;
« essehaun sa arma e cria :
^ De a aye e santa Croxe.
®* per zo che note era,
Pi^To Io sol de stramontar,
P^sam lo stormo induxiar;
^ ^ Se missem tuti in schera
^^^ 1 isora e terra ferma;
^ toti cavi ormezai,
^^r lor afemelae,
^••chaun so faito acesma;
^*?iiando proa centra vento
^ "^«r 1 oste veniciana,
^^•^ maistro e tramontanna.
d. sec. xiii-xiv. 227
armai con grande ardimento. 25S
ma de le galee sexe
partie per la fortuna,
no aiando nova alcuna,
penser an comò se dexe. 25g
niente me stan semper atenti
e confortosi tuti en torno;
tardi g e sea iorno,
ni stan miga sonorenti. 2co
qaela noite i enemisi
mandam messi che previssem
che Zenoeisi no fuzissem;
che i aveam per conquixi. s&i
ma li penssavam grande error,
che in fuga se fossem tuti metui,
che de si lonzi eram vegnifi
per cerchali a casa lor. »'>8
e vegnando lo di setem
de setembro, fom avisai;
a De e a santi acomandai,
forando insemel combatem. ^2
lo di de domenega era:
passa prima en 1 ora bona,
stormezam fin provo nona
con bataia forte e fera. 2*6
o quanti, for per le peccae,
entro cossi greve tremor
varenti omi morti e mendor,
e in mar gente stravachae ! 2So
tante era 1 arme de la tempesta
e de barestre, lance e pree,
en mar e su per le galee,
restar guerra senza vesta. ss4
quanti prod omi se engannavam,
^*^* 9tali, 847. pare entor^ anziché enter ; scritto : en tor lor, 257. men, —
J^* io correjfgerei fon (furono). Ma anche con for (forse) il senso si regge. —
^_^* ai potrebbe correggere con gli edit delFArch. stor.: de l arme la tem"
283. ma.: super. 284. ms.: re star. Oli annotatori delPArch. stor.
guerre = guérrer. Allora non più restar^ ma restan.
228
Lagomaggiore,
chi duramenti conbatando
moriam, e non savean quando,
S8S che li quareli pertusavaml
o corno e layro snbitam
per strepa tosto la vita
lo quarelo e la salta,
293 chi perdom alcun no fan!
ma ben e yer .che da primer
fo de li nostri morti alquanti:
ma tuti corno zaganti
296 fon conbateo sobrer.
si gran frase fo per certo
de scue, d arme e de gente
morti e negai encontenente,
300 tuto lo mar n era coyerto.
comò De yosse a la per firn
far honor de tanta guerra,
fo lo lor stanta per terra
304 e lor coyegne star soyim.
or che gram rota fo lauto,
quando li Venician prediti
se yim si morti e desconfiti,
308 e Zenoeisi yenzeor I
chi oitanta e quatro tenem
garee de noranta e sexe:
avuo an zo che gè dexe;
313 che si gram dano sostentem
de morti e d encarzerai,
che de pu greve descunfita
no se trovo razon scrita
316 che de galee fosse mai.
de, che grande envagimento,
con setanta e seti legni,
chi esser dorai som degni,
320 venze garee provo de cento I
de le garee che preisem
parte menam con li prexon,
chi in gran quantitae som;
en le aotre fogo aceisem.
segondo mea creenza.
De maor honor gi zunse
per la fortuna chi le pensa,
cha se stai ne fosse senza,
che dir se sor per veritae,
che asazando cosa amara
sor la doze eser pur cara
e de maor suavitae.
eciamde me pare anchor,
che lo stol asminuio
chi per fortuna fo partio
n a aquistao pu francho honoi
Zenoa, odando nova
de viteria si grande,
gazaira alcuna non ne spande
per la quar alcun se move
en cessa de vanitae,
comò sor far orni crudel:
ma ne dem leso a De de cel,
pregando de traquilitae.
e quaxi tuta la citae
procession fen 1 endeman,
che De reduga salvo e san
lo stol con prosperitae.
a li cativi chi fon preixi,
zo e pu de cinque milia,
de gran pietae s umiria
lo nobel cor de li Zenoexi;
aiando cognosimento
en far dexeiver cortexia:
de li aotri laxam gram parti€
pu assai de quatro cento,
e fo per zo che De per vi
297. fraso^ non frazo^ ha O ms. 312. sostenetn. 315. raxon, 340. movi
344. tranq.
Rime genovesi
esser lor cor inveninai,
e Zenoeisi temperai,
vitoria ne atribui.
d oitover, a zoia, a seze di,
lo nostro ostai con gran festa
en nostro porto, a or de sexta,
Dominide restituì,
ffemper da noi sea loao
leso Cristo oDipotente,
eM in si greve acidente
m a cossi gran triumpho dao.
per melo ese aregordenti
de zo che e diro adesso,
<2orrea mìle duxenti
^ norata e ceto apresso.
L.
Cantra eos qui utuntur nimis vth-
luntaHbiis terrenis (e. lv).
Che te zoa eser stao drao
de case, terre e dinar,
<^i t an faito declinar
« deyer eser perduo?
« sse ta ai deleto avuo,
pa mezo ora no te par.
'per zo era de schivar ;
> ma no te n e removuo,
m far ben non ai vosuo,
ce ta no t ai visto azotar,
« in morte aproximar
i lo to corpo malastrao.
de, comò e conscio cruo
"vorei tanto endnxiar
a deveser examinar
d. sec. XJii-xiv. 229
en partimento si nno
tuto entorno e conbatuo,
aprestao de trabnchar!
d onde, se ta yoì scampar
e no eser mai venzuo,
che no dito : e refao
cessa chi me pò dannar,
ma volo bem lo tempo usar
chi da De m e conzevuo f
pensa che De t a remuo,
moirando per ti salva:
forzate de meritar,
e de render 1 enpremuo.
che chi sera ben yìscuo
en dever drite ovre far,
deiando com De regnar,
quanto sera benastruo!
LI.
De vitandis et non frequentibus ere-
dencijs et mutut et fideiussoribus
(ivi).
Chi tropo usa de far creenza
o prestao o manlevar,
de far so dano, zo me par,
non pò uncha viver senza :
che error gè crexer o tenza;
o coven tropo aspeitar,
spender, turbar e travaiar,
e soferir descognoscenza,
mancamento e descresenza.
chi se vo for rangarar,
e no s afaita carta far,
no se trova drita lenza;
16
20
24
28
32
8
12
362.09(0? 370. così il ms. Correggiamo, come neirArch. stor., e dito» —
^. noranta. L, 15. a devese (o deveise}, LI, tit. freq%*entandis \- mutuis
^ nmhiaHonibus]- fideiìtssionibiM, 2. correggo: prestar, 5. crioce. 11. ms.:
^ faita;" carta ò scritto male, ma por si legge.
£30 Lagomaggiore,
ma far pa mester che venza^ soa mente n e confusa:
negando, quelo chi de dar:
e cossi sor descavear,
16 romagnando in marvoienzaé
d onde, in mea cognoscenza,
en terra chi no sor frutar
no e bon tropo afanar,
20 ni citar soa somenza.
LII.
Cantra quosdam vilipendentes casta-'
neis, et contro eos qui incidunt
alias castaneas, Dixit comendando
castaneas jochoso (ivi, tergo).
Se no ve increxera de oir,
una raxon ve posso air,
no tropo utel ni danosa
4 per no aver mente encrexosa.
e no trovo in montagna
mei fruto de castagna,
la quar s usa, zo se dixe,
g ben in pu de dexe guise.
boza, maura, cota e crua,
lo so savor non se ref uà :
per zo De gi fé lo rizo
12 en tanto aotro covertizo.
orni, fanti, bestiame
noriga e scampa de fame;
per zo fa bem chi la procura,
16 che cossa e de gram pastura:
se t e mester, servar la poi
ben tuto 1 ano, se tu voi.
ma chi guari o tropo 1 usa,
che 1 aduxe tron e vento
con un gram comovimento,
de cor bruxor e gram arxum,
chi rende monto gran aflicion»
segondo che som le nature
diverse, xeiver o dure,
pusor viae inter le gente;
che tar gè n e no se sente,
ma pu e vego orni asai
per vile, coste, e per casai»
chi pu engraxam de castagne
cha de capon ni de lasane.
legno e legname rende assai»
chi e de grande utilitae
en far vigne, torzhi e ponti,
vaxeli, e asneixi monti
unde stan le tere piose,
e tamte atre bone cose;
che se de tute dir vorese,
penser o no ve crescexe.
ni per zo laxero miga
che ancor no ve diga:
tinne e boto se ne fa,
e se tu voi una ca
LUI (e. Lvii).
se alcun perdon poesse aver,
che zoan li sati a 1 agnello,
andando a morte a lo maxelot
cossi va pur lo meschin homo
13. fa, 15. descavear \ u misto di n. LII, 10. se ref uà; la seconda lettor
di se pud essere un o. 12. e tanto, 17. servar; la l.a- sili, in cifra, end
potremmo pur leggere sarvar, 28. ms.: gene^ e non ben chiaro. 33. parrebb
lognamo. 38. Va di tamte ò cassato.
Rime genoyesi
^ ^n Ter la morte, e no sa corno.
wì a loj che zoerea,
^j che morir gi coverrea,
4BJi Ter le forche esse menao
^ ^r un xurio e verde peccaof
^r semeiante mocitae
'vam, per vile e per cìtae,
J.a maor parte de la gente,
^ ^i atri son poco o niente ;
ohi tute or la morte aspeitam,
e n lo mondo se deletam^
chi nncha tanti n a ocixi
17 con li soi fazi honor e rrixi.
cossi ne van senza astalarse
tntiì. in enferno apicasse;
e se in forche de tar menna
n nnd e de tute guise penna.
cHe mar me par che se guardam
da i enimixi chi 1 aguaitam,
da chi li son noi te e iorno
» semper assixi tuti in torno.
6 quelli chi lor paxe prenden,
mar guierdon a lor ne rendem;
che tropo son desordenai,
19 li mostran bello e poi dan guai.
w Toio e un pocho dir primer
^^ 1 un d est! nostri guerrer:
6li 8on trei, ma cascaun
tt te fa guerra per comun.
lo mondo mostra cosse assai
donde se fa de re merchai:
possesion, terre e case,
sr chi d un en atri son romase;
'^d e d omi segnoria,
tesoro e gran cavalaria ;
d. sec xiii-xiv. 1^1
moier, fiior, bela masnaa
per ti servì apareiaa, a\
de li quai renden spesso hor
lo lor amaro grande amaror ;
diverse robe per deleto,
per to doso e da to lete; 45
zogui e convij e iugorar
en instrumenti per sonar;
viande leche e vin lucenti
chi renden li omi pur parlentì. ^d
chaschaun segondo zo
quelo vor, se far lo pò; .
usa tanto questa me,
che la gi torna in mortar fé. 53
sapiai che e o visto pusor
menar moier de gran segnor
cossi grande e car asneise,
dond e faite fere speise. 57
la testa se horna d este spose
de perle e pree preciose;
le vestimento son dorae,
chi etra mo son hornae; 6i
li leti lor parem otar
muai per pascha e per denaL
gran compagna gi va derre
de gran segnor e ca valer; ^
homi de corte e sonaor
con sivoreli e tanbor,
chi robe aquistam e dinar
pur per schergnir e iufrar. 69
li e conduti delicai *
en monte guise apareiai ;
e li vin gè son diversi,
chi fan parlar in monto versi. 73
le dono chi gè son vegnue
^^I« ^*prao. 22. forse se guaiiam^ per la rima. 29. ms. : àaz. 42. rende, —
^ dimoro; forse errato per doze\ o meglio, per amor. 47. e 48. pu. 67. ms*:
*** fcor. 69. pud leggersi anche mfrar.
232
tute son cosse cernue,
e parem pu, corno se dìxe,
77 contese o grande emperarixe.
encontenente poi maniar
no s adementegan baiar
tute le dono e li segnor,
81 o inseme o per semo:
li si gran festa e bruda sona,
che m aregorda quando trona;
per zo no caze lo solar
85 che 1 a forte bordonar.
de, vegamo che liveraiga
segue questa incomenzaìga;
e za verei tuto in contrario
89 reversa tuto lo cartolario,
lo di no e da fir loao
so no de poi vespe passao;
che la fìn si e tuto or
®3 zuxe de ogni lavor.
tuta la gloria strapassa;
quasi ea mendor e passa:
quelo ben non var un nesporo,
^ chi ma szoise a passa vespo.
che per remar o per freidor,
o per un poche de caler,
lo misero corpo e derochao.
101 tuto gè va lo parentao,
tuti li amixi e li vexim;
ni gi zoam un lovim;
che moirando in gran dolor,
105 con sbatimento e con crior,
de tute cosse roman nuo,
oribel cessa e devegnuo;
quelo chi era si cortiao
Lagomaggiore,
da ogn omo e desprexiao: km
che anti vorea un so parente
sor dover star provo un serpente,
cha star a lao de quelo meschin
chi e vegnuo a tar fin. n
or che gi zoa aver usae
le gran viande delìcae,
lo bello asnese precioso,
a quello chi e da vermi roso f n
or son andai li lor tanbuti,
li xivoreli e li frauti ;
li strumenti e iugorai tati
al autor son fai ti mutL u
tuta la soa compagnia
vego star monto stremia;
si che in cexia ni in via
non e alcun chi guairi ria, ii
ni vego in quelo scoto
usar solazo ni stramboto.
ben ven ta or che alcun gè ne
chi dixe: de, che gran dano n e! is
ma lo meschin chi iase li,
se lo no a curao de si
en lo spacio che De gi de,
tristo le, che mar gè zel i\
monto me par che 1 an scregnio
le vanitae che 1 a seguio ;
chi 1 am menao a star confuso
entr un streito e scur pertusoi v
e n tar casa gi ven intrar
chi contraria me par
de li paraxi che omo fa,
per le condecion che la: i*
che cinque cosse voler sor
90. ms.: noe;- lo ao. 91. l'o di so poco chiaro; coir.: se, 97. il ma. ha
zoise^ con uno scarabocchio acanti lo ^, che per dir vero ha poca somigliania
con un 5. 98. corr.: rema (reuma). 105. Il ms.: sbatimento^ con una lineetta
sovra il primo a. 111. questo sor ('solo') forse rimase nella penna ali*;
nuense dal verso che precede, e va tolto.
». '.
Rima genovesi
1 omo chi casar vor;
so e che la casa paira
15 iooga, larga, aia e piaira,
e de belle pree cernue
chi sean ben picae • . .
peT far barcon en grande aoteza
esili dagam luxe e gran piareza.
D^^ 1 atra casa und omo ya
laP ta lo contrario lia:
■xxx^tà^ streita, bassa, scura,
IO £ barchon ni fendeura,
le -terra e, per soterar;
se de prea e, pocho gi var,
obci in far bello nborimento
no cognosco e avanzamento.
eossi beffao se troverà
ohi esto mondo seguirà.
no me piaxe star a scoto
a ehi tato voje lo borsoto.
lo mondo e re abergao,
cU a tato orni lecaor
da primer un bel disnar,
vfifoi U despoiar per scovar.
Iteame dixe: mania e be,
cba De per zo le cosse fé;
ft tu ehi e fresco e lenier
M IO che la carne te requer,
tv de toa zoventura
de Un che possanza dura;
pusite ben e no inmagrir,
d. sec xm-xiv.
233
che tu porressi meati vir; i73
usa bon vin quando tu poi,
se congriar bon sangue voi ;
no lavorar, penssa goer,
dormi e ropossa a to voler. 177
tristi quel! orni dorenti
chi mennam tai pensamenti!
che mennam tai
e a tormenti se egannan. isi
che de tropo gram conduto
ogni corpo n e destruto,
e per le cosse temperae
vive 1 omo in sanitae. 185
1 omo chi no e astinevel
d un bruto porco e semeieve,
chi con bocha tute aferra,
tegnando pur lo morrò in terra. 189
e queli chi tar via tenen
paraletichi devenne,
grevi, grossi, boegosi,
tuti marci e peanosi. 193
e se lo corpo n a travaio,
quanto n a 1 anima darmaio,
chi per un sor peccao mortar
de aquistar penna eternar! 197
che la gora conseigo liga
la luxuria e noriga,
chi fa tanti atri mar szhoir
che lo no se pò contar ni dir. sqI
or se tu voi ben penssar e comò
lAcotor; parrebbe nel ms.: cesar, 147. della parola che tralascio, leggonsi
cUmmente il m iniziale e le due lettere finali ue\ frammezzo ne reetano,
* ^ che pare, altre due. Forse dobbiamo leggere : chi sean ben picae,
M116 per far barcon ecc. 148. il r di barcon non assai chiaro. 153. /en-
'Mvti; la seconda vocale pare più che e. 165. despoia. 175. tra se e con^
fW «na lettera cassata (forse un od un* e), probabilmente da non leg-
f*C 180-1. così il ms.;- egannan dev* essere uno sbaglio per condannane
• fcne andava al verso precedente; il quale é lecito supporre fosse cosi: che
fékmenU se engannan^ qualcosa di simile.
£34
Lagomaggìore,
e Tir cossa e frager 1 omo,
guarda corno ta e nao»
ao5 nuo, povero, desconseiao.
semper vai corrando forte
jornaa fazando en ver la morte
unde tu sei, tuta via
S09 aspeti morte e marotia,
ni forteza ni zoventura
toier te pò quela ventura.
o ben o mar che 1 omo viva»
S13 la veieza pur 1 asbriva,
chi toie tuto lo poer,
vertue, forza e lo savei,
vegnando in tal condicion
217 che asai var men d un grazon ;
desprexiao en la per fin
e d amixi e de vexin
e da moier e da fiioi
221 e da i atri parenti soi;
sempre aspeitando la maza
chi de ferir tutor menaza,
e a nexun fa avantaio»
225 tuti menando per un taio
a far raxon donanti De
chi de zuiga e bon e re.
tristo lantor da tuti laj
229 chi per la carne avera i guai !
d onde, per De, alcun no prenda
cossi atoxega bevenda,
chi per deleto pochetim
233 rende tormento senza fin.
lo nostro terzo inimigo
e tropo re, necho e enigo:
Io demonio scotrio
chi in inferno a faito nio^
con tanti aotri re compagno
chi pu eh areina son,
e meritam la zu cair
per centra De insoperbir.
or mena elo in quelo arbego so
tuti quel! che elo pò.
per tanto e pur danoso e re
che elo ve noi e noi no le.
ententane d entro e de for,
diversi mar metando in cor :
soperbia, invidia, e ira
chi in inferno assai ne tira,
per zo che lo fo de cel cazao,
se omo gè va, o n e irao.
ma pur la soa gran ruyna
da a noi ese doctrina:
tropo de aver 1 omo penser
li cazi trar in ver so ser,
de no laxase insoperbir,
ni in centra De falir,
e semper esser obediente
a li soi comandamenti
chi son pin de cortexie
(che li peccai son vilanie).
1 aversario no dorme mai
d acompagnar in li soi mai;
e semper va d entorno e vaia,
ni d atro no s apareia
se no de fané esser toiua
la gloria eh el a perdua:
e per trane for de via
con i atri doi guerrer sa aya,
no cesando de tentarne
203. frager \ il r veramente non si legge, ma frage^ con un carattere atra
aggiunto sopra, che parrebbe più e che altro. 238. compagnon. 241. Tnltii
lettera di in soperbir é un misto di r e d* t ; un % corretto in r. 244. pu»
253. de. 254-5. collocando questi due versi dopo il 261.®, il costrutto si a
giusterebbe.
Rime genoTesi
eoa lo mondo e con la carne.
e donde noj pu xeiver semo
US da lai'maor bataia avemo.
em prevaricar la gente ,
iem mainerà de serpente,
chi mete unde la testa va
ffi tato 1 atro busto che 1 a.
e lo diavoro fa atretar
r i&eomenzando de tentar,
ehe tosto nn peccao acende
■I ehi da primer no se defende..
do&cha da scampar da li sol lazi
Misi conscio che ta faci :
\ che cossi tosto corno comenza
pi^MUf in cor soa semenza,
t nfoda, de for la caza,
^ iha la raixe no gè faza;
die lo peccao iantao in cor
mai no 8 arrancha senza dor.
de tati mai chi faiti son
Io demonio e stao caxon.
scampane. De, de quella brancha
mi di mai de noxe no se stancha,
a V^tor velando, pesca,
bagnando 1 amo sote 1 escha.
quanti e o qui, per le peccae,
n a preisi per 1 egorditae,
Mano Qxeli o bestiore
Ittchi stan teise 1 enzignore;
i ehi la morte inzenera
dieia tordo ingordio mar vi lelora.
«r de penssar 1 omo in so cor
• li ogi avri d entro e de for
Itt scampar de tanti aguaiti
• datante parte faiti.
^guarda chi tu dei seguir
dk aee. xiii-xiv. 235
d osti quatro che volo dir;
ma certo sei, no te inganar:
I un te fa bon e li atri mar. 909
lo mondo dixe: e te inganero;
la carne: e te somentiro;
lo d lavoro: e to ociro;
De dixe: e te saciero. 3i3
ma nixun e si inmatio
chi ben no cerne osto partio:
ogn omo incerne quar e ben,
ma pochi e nixun lo tem. sn
or De ne guardo e li soi santi
de li inimixi chi son tanti,
e ne conduga in quelo lego
und e semper eterna zogo. 32i
LIV.
Expistola quam tnisit de Riperia
Janna fratribus congregationihus
beate Kathelxne virgifiis tue (c.Lix).
Tuti voi segnor e frai
li quai a De servi sei dai
en santa cogregation
per special devocion, 4
e vostro servo e compagno,
chi vostro frai no utel son,
be dexiro, e ve mando
humelmenti saluando s
en lo doze amor de Cristo,
per che lo so regno s aquiste.
quanvisde che loitam sea
da voi con qui star vorea, i2
no crea che loitanura
parta quela ligaura
chi inseme n an ceduti
SMilm,: in genera. 301. tn, forse intruso;- ms.r le lora. LIV, tit. /a-
*>^;- etmgregatianis. 5. compagnon. 13. creai. 15. verisimilmente n a
236
Lagomaggiore,
16 e de stranier n a faiti conti;
e de pur cor acompagnai
per meio viver ordenaì,
andando ioseme in un carain
20 tuli armai de ben cor fin,
per esser ben tuti a una
con tra 1 asato e la fortuna:
che centra no far se pareian
24 li beruer chi sempre veniam ;
e noi sempre veiar demo,
chi mai de lui segur no seme;
centra li quai ogn omo demo
28 per so scuo aver la fé.
or devemo noi, zo me par,
per no tropo ociosi star
ni de sono esse sovreprexi,
32 per poer esser escisi
da queli balestrei felon
chi ne ferem in regaitom,
quarche raxon dir e cointar,
S6 per no laxese adormentar.
una raxon ve voio dir,
se ve piaxera de odir;
e per raxon ve de piaxer:
40 no e boxia ma e ver.
homi pusor s acompagnan
en un ben legno che li arman,
e tempo de forte guerra,
44 per andar a una terra,
con speranza de guagno far
per dover poi semper ben star,
fazando lo viaio lor
48 e navegando e gran baodor.
a la per fin per vento re
son spaventai da cho a pe,
querando per scampar de zo
o porto bon o pelago,
e quando assai sun travaiai
e d afano tormentai,
denanti una ysola i apar,
che li dexiram per lo star,
e a quela se som mixi;
ma si e de li ennimixi,
con atre terre en tomo,
donde e guerre si afamai,
chi an lo cor tanto crudel
e tuto pin de mala fel,
che sempre fam aguito forte
per ocie e dar morte,
or comenzam per lo folia
quela compagna ensir de via,
a poco a poco asegurase
en gran solazo e no guardate,
metando scara e paromaira,
en terra andando per la taira;
si che atri balla e atri musa,
aotri dorme e iaxe zusa,
manian e beiven e soiazan,
de festa e gozo se percasanu
nixun de lor sta apensao
d oise dir: scacho zugao;
tuti sum si adormentai
en sol deleti per lor gai,
che 1 ennimixi lor mortai,
semper velanti in li lor goaj,
subitamenti li am preixi.
22. ms.: la salo. •SA, trascriyo fedelmente il ms., che ha vetam; ma dolH
biamo corregger veiam, 27, ogn omo de. 32. la lezione à sicura; ma vuoili
correggere ofeisi, 36. laxase, 56. innanzi a li una specie di d mal formato.-^
59-60. qui non c'ò rima; per averla potremmo correggere: con aire terre «fi
torno assai. 63. corr.: aguaito.
Rime genovesi
senza poeser esser defeisi:
8i che tata la festa lor
M li e conyertia en gram dolor,
poi li am ligai a gran desenor,
e stirazai con gram remor,
e n streito logo encarzerai;
tt d onde no e conseio mai
che de qnela torre o ffosa
per reenzor ensi se possa.
in la quar comò in enfemo
et no se sta de pena inderno :
en lo qaar se sosten penne
desgnisae e de nove menno,
le qnae risto o specificar
96 en contar guisa, zo me par.
1 onna me par la gran calura
che aduxe la streitora
de lo logo e da la gente,
00 ehi 8on tegnoi streitamente.
1 atra si lo gram freidor;
che quando ven lo gran zelor,
1 enearcerao lantor no trova
04 chi lai d alcuna roba crova.
1 atro si e de vermi assai
chi sempre son si abraschai
107 de roe le carne meschine
chi fa li omi tremolenti
ahreivir e abate denti.
che d unna rocha tuta fogo
111 an ponto de si freido logo,
non porréya esser temperao,
d. see. xin-xiv. 237
tanto e zeror desmesurao.
zo yen a 1 omo dritamenti
chi de far ben non fo frevente, ns
ma zelao, marvaxe e re,
e freido in 1 amor de De.
1 aotra e vermi e serpenti oribd,
de monte guise son terribel: 119
de queli dir no se pò comò
li dem squarza e roe 1 omo
d entro e de for, con tar mesura
chi sera tropo axerba e dura. 1^3
li e desmesura dragonin
chi de li omi fam boconin.
li se pagam li desleai
deleti com penser carnai, i^
en li quai 1 omo e stravoto
chi in tanti mai e voto.
1 aotro e 1 aer de lo tormento,
abuminao e puzolento I3i
de sorfaro e de brutura;
che aduxe la streitura
de lo carzer pim de marzor, '
de 1 aer spesso e re lentor i35
fosco, con gran fomositae,
chi tute aduxe infirmitae.
questa fé a li omi delicai,
preciosi, van, desordenai, 139
luxuriosi e semper tenti
en curosi afaitamenti.
1 atro e lo speso tenebror,
scur, negro, senza relugor, 143
orribel e carzento,
92, paese. 90. correggo: reenzon. 96. ms.: eticontar, 99. de la gente, —
101. non 80 86 debba scrivere l air osi (T altra anche), o correggere: l atra
si #. 105. l atra. 106. sempre, 107. qui manca una carta. 110. più chiaro
aMrehhe: òhe in unna ecc. 124-5. desmesurai dragoin e bocoin\ ovvero
(ma, panni, meno bene): a desmesura dragonin ecc. 139. van; la vocale é
ooeora, ma preferisco v€m a vim (vini) per il senso. 140. con*.: atenti. —
144. finrse oon jrefiento "(caliginoso).
SSf^
LAgomtggiore,
uk -.ropo e greTe e gran tormento.
udi ao a tennen qnela note
47 ioade e 1 anime bescota :
a li tormenti se renoTam,
ni za mai reposo trovam.
en questo mar 1 omo s aduze
iji refuando la bia Inze
de De, Toiando fa ascose
le oTere soze e tenebrose.
poi sege zete e scoriae,
i\ò en monte mainer dae
da queli maryaxi serpenti
pa sozi assai cha li serpenti;
chi li batem e gamaitam
r-9 oi Qiai da zo no se retraitam,
semper renoyando li gai
a li meschin chi mai fon nai :
chi d està penna son batui
i«3 per mar che li an faito atrui,
iniuriao, ferie, ofeiso ;
per che li am aor lo contrapeiso.
1 autra e la soza visaura
irr de li demonii, si scura,
si terribel e si fera
che no se pò dir la mainerà;
si che no se pò dir soferir
ITI la vista d un senza morir:
pu un de lor par e tropo
a scampar de tar entopo.
zo a queli se conven
17.' chi guardam tropo unde non den,
refuaudo per vanitae
ver la divina maestae.
1 aotra e la gran confusion
179 de tae e tante ofenssion
quante 1 omo avea faito ;
a chi lo tempo era daito
per far ben, mar si 1 a speito
en li mar chi 1 am oompreiso. i
questo Termo de pentimento
gi roe de fora e d entro;
pensando aver si mar perdao
lo spacio a lui concevuo, i
e per vanitae tantinna
eser vegnuo in tar ruina.
la novenna e che ligai stam
si streitamenti e pe e man '^
e iavai con tar perno,
che stambuxa se pò endemo:
ni mai d eli alcum non scampa,
ni de tae grifo mai mai no zampa; s
che chi seme la entro va
perpetoamenti gè sta.
e zo e cessa driturera;
che quelo chi franche era >
de far zo che elo poea,
per si ligar no se devea.
per che se elio fosse stao
semper vengente e ben armao; >
no laxandose adormir,
ma defendesse e scremir,
si che per arme de vertue
1 eniquitae fossem venzue; fl
desprexiando li deleti
che lo deveiva aver sospeto,
chi comò venti gi fuzivan
e tanto mar gi apareivam; >
odando ben li xivoreli
de le Scriture, e i apeli
de li messi de De qui criam
155. mainere. 156. sergentiì 161. mai; Vi manca dell* apice; corr.: fitcr.—
170. no se pò soferir. 182. correggo: nia si. 188. ms.: tanti miml SOOl
reggi: sospeti. 210. futeivanì 214. fui è Bcrìtto in forma strana, e
per diicrazione.
Rime genovesi
15 e a far ben senpre ne inviam,
e con losenge e con menaze,
per zo che 1 omo mar no faze ;
e obeir a qaela gaia
19 chi ne da per tener via;
legnando nostre reme in frem,
apareiai a tute ben;
abiando forte preyixion
23 quando te yen tentacion
de 1 enimigo chi asaie,
e omo vencese le bataie
che lo ne da e tante e tae
97 (ma si e pn la veri tae
che lo no venze ni da dor
86 no pu a queli chi lo yor) ;
e centra la soa necheza
SI 1 omo ayese soa yisteza,
e forte cor per no laxar
ai maramenti soperzhar:
sa no serean tanto foli,
ras 81 dormiiosi e si molli,
eh eli ben no conbaiesen
con 1 inimixi e n yenceisen;
ni sofeream fasse ingano
9e chi gè rendessem mortar dano,
ni semena sun soa terra
aomenza de tanta guerra,
chi per deleto d un sor pointo
MS seguise mar chi no a coninto,
nomerò ni quantitae,
luto aquistar per yanitae.
pensemo doncha esser yenienti
Uì de schivar tanti tormenti,
si che 1 asempio de ro legno
ne serea dotrina e seno;
d/see. xni-xiv. 239
e de deyerse guaitar si,
e omo no posa cair li 25i
donde e o de sovra dito
e notao in questo scrito.
ma de la sovranna gloria
aiamo sempre in memoria, 855
chi tanta festa e zogo rende,
comò n acerta le lezende
certanna qui no pò falir,
che poco e quanto se pò dir: 259
tanta e la grande multitudem
de 1 enterna beatitudinen.
e quello doze re biao
chi fo per noi crucificao, 203
per pregerò e per ensegna
de la soa maire degna
chi de cel e dona e reina,
e de santa Catarina, fgj
ne conduga a lo regno so
unde alcun ben mancha no pò. 269
LV.
Contra iniurias (e. LXii).
Quando tu e iniuriao
e yenianza voi aver,
guarda no dir to yoler;
taxi, per meio esser yeniao. 4
LVL
De conversione Petri ThoolonariJ de
quo narrai sanctus Johanes Elle»
monisari ut infra (ivi).
Se me yoresi ben oir,
un asempio ye yorea dir.
Z36, ms.: che W;- con batesen. 237. ms.: en venceisez.; corr.: e no vences^
un. 238. ms.: so feream, 239. rendesse- 243. cointo. 245. aquistao. —
202-45. trapassa in questo periodo da una ad altra persona, dal singolare al
plorale. 2^.certanne\'pon. 26\. beatitudem, LVI, 1. me; scritto quasi mo.—
240
Lagomaggiore,
chi ne mostra e ne dixe
4 a cognuxe la gran laxe
e lo gran frato che de da
la limosina chi la fa,
per amaistramento e scrito
g de li santi chi 1 an dito,
per zo solca reconintar
un patriarchar d otra mar,
che per li hen che elo se faxea
12 da li poveri nome avea
san Zoane limoxene,
chi grande lego tener in ce,
e dixe che in una centra
\6 monto poveri una via
se scadavam a lo sor
e raxonavan inter lor,
li sol henfaito loando
20 6 li aotri vituperando;
speciamenti un segnor
de gran richeze e grande honor,
chi Pero Banche se palava,
24 chi mai limosina non dava,
e un de lor comenz a dir
e far promisse e proferir:
si son ingordo, zo me par,
S8 e tanto so dir e far,
che e avere, se requero,
limosina da quelo Pero,
e li aotri preisem a dir:
32 anti porrexi tu morir,
che tropo e misero e tegnente,
en li poveri negligente ;
gran maraveia parer de
35 se lo fa zo che uncha no fé.
quelo a la porta va e cria
e en prozon con gran stampia*
Pero lo cria e lo deschaza
cum furor e con menaza: 40
lo povero no se partia
ni de criar no somentia.
e cossi andando en tomo,
vegne un szhavo da lo forno u
cun un vaxelo pin de pam:
1 irao segnor gi de de man,
e trase un pan per dar mar mmae
a lo povero, chi lo preise^ m
e questa limosina morta
a soi compagnoi portar,
chi a penna crear poen
che faito avesem tanto ben. 9
enfra trei di Pero se sente
lasso e enfermo grevemente,
con freve e mar de tar rabin
chi lo menna quaxi a la fin. 56
e parsegi per vision
esser d avanti a quelo baron
chi e segnor universal
per zugar tar e qual. 60
e li nimixi fon presenti,
de li soi mai regordenti,
chi tute misem in baranza.
lantor fo Pero en gran temanza, m
no se pò dir lo penser quanto.
ianchi anger! vegnen da canto,
tristi chi no g era asceso
ovra de contrapeiso. m
lantor un angero for ensi
chi dixe alaor: sapiai per mi,
no g e bona ovra alcuna
ni limosina, se no una, 7t
3. correggo: ne aduxe. 9. recointar, 11. forse che elo faxea, 14. correggo:
tem. 22. honor; il primo o tiene delire. 23, se apelava, 33. ms.: teyènU, —
38. cosi il ms. 50, porta, 65. il ms. quasi no so pò, 70. a lori
Rime genovesi
d OB pan adnto da lo forno
trailo a lo povero 1 atro iorno.
per questo pan fo la baranza
}e toma qnaxi a unguanza.
e li dixem li angeli lantor :
86 ttt no pensi con vigor
de xttn^ atro a questo pam,
IO li neigri te ne porteram
en logi scuri e tristi,
che richeze unoha mai visti.
da li angari De fo pregao,
SA che retorna Pero in so stao.
e dise: oime ze, che tanto honor
m a faito un pan traito in furor;
e quanto pu meraveia e
IB ae luto avese daito lo me!
qaeli demonij meschin
con gran dolor se ne partim,
ehi de Pero eram anxosi
ga tiralo in logui tenebroxi.
reiomao Pero in sanitae,
tato e muao de sanitae ;
e preise in si conscio fin,
ee tener volando aotro camin.
lantor de novo se vesti;
nn povero zo gè requeri:
Pero monto alegramenti
m gi de la roba incontenente,
e lo povero chi avea
gran defeto de monca,
la revende per far dinar
me per sci faiti abesognar.
Pero la vi in dosso autrui,
• gran dolor n ave infra lui,
e non son degno (digando in si)
d. sec. xiii-xiv.
241
che lo povero prego per mi. los
vegoando note s adormi,
e un bello zoven i aparvj,
pu resplendente cba lo sol:
zo era De nostro segnor, ii2
de vestir cossi guarnìo
de che Io povero fo vestio.
e dixe a Pero: fiior me,
dime per che turbao tu e. 116
Pero la caxon gi spose,
e lo Segnor gi respose:
cognosl tu questo vestir?
en veritae te volo dir, 120
che quando a lo povero lo daesti
mi mestoso ne vestisti;
chi tuto freido era per certo,
e tu m ai cossi coverto. 124
d està limosina a ti. Pero,
gracia, honor te fero.
Pero lantor fo deseao,
e grandementi consolao; is3
pensando esser pu fervente,
e dar abondevermente;
e perponando in so cor
ogni richeza vaga for: i3f
che, poi e si amigo
de queluj chi e si mendigo,
che lo se mostra in soa forma,
mester fa che sega 1 orma, iss
e per piaxer a tar segnor
che sea pu comò un de lor;
che la richeza e pur caxon
de 1 enternal perdecion. no
e per compir questo so faito,
poi che 1 avea tuto daito,
7^ ii potrebbe pur leggere imguanza. 78. se è scritto sz^ cfr. v. 88. —
tt^«iar. -87. correggo: merirea e (meritere' io). 88. ms.: szy cfr. v. 78. —
^ coir.: voluntae. 122. ms.: mi tnesto^. Corr.: mi mesteso. 126. ms.: te
fero.
.ArchiTio glottoL iul., H. ^^
242
Lagomaggiore,
lama un so servo so notar,
144 a chi lo dixe, zo me par:
una privanza te comete;
ma per certo t emprometo,
se per ti parezao sere
148 a barbari te venderò.
e poi dixe: or m entendi;
dexe livre d oro prendi,
e en lerusalem anderai
152 e mercantia acaterai:
a un crestiam me vendi
e tu lo prexio prendi,
a povero destribuando.
156 e lo notar zo refuando,
fo menazao da benastruo
a barbari esser venduo.
lo servo, centra so voler,
iGO no vose a lui far despiaxer :
e vesti quelo a la per flm
virmenti, a moo d un meschin ;
a un argenter lo vender
164 e trenta dinar ne prender,
che de presente fon partij
e a poveri distribuì.
Pero incomenza in ca servi
168 e far li ofìcij pu vir.
per esser tanto humiliao,
da li aotri fo desprexìao,
speso ferie e gamaitao,
173 e quaxi mato reputao.
ma leso Cristo pusor via
privarmenti i aparvia,
le vestimento e li dinar
176 mostrando a lui per consolar.
1 emperaor a la per fin
de soa terra, e soi vexin
de 1 asentia d esto segnor
no eram senza gran dolor.
ma de soi vexin alquanti,
per visitar li logi santi.
De volante, vegne lauto,
disnando in cha de quello segnor
e tanto vim in quelo iorno
lo dito Pero andando in tomo,
che cognosuo fo da lor.
da torà se levan lantor,
e dixem: trovao averne
zo per che vegnui semo;
pensando d alosenga
e poi con lui repatriar.
Pero, considerando zo,
de quela cha se parti alo.
a lo porte chi era muto
dixe : avri la porta a lo bostato.
e faito zo, quelo reqaeria;
Pero tegne soa via.
quelo chi parlar mai no poe,
per Pero De gran don gi fé; •
e comenza alantor a parlar
e centra li aotri a raxona,
digando: quelo m a consolao
chi tanto chi e desprexiao; ^
che in 1 ora che lo dixe
che a lui la porta avrise,
vegando splendor de lui insir
chi tuto a mi restitui
la parola e 1 oja:
De sea sempre in soa ajai
lantor quel! zo vegando,
tuto lo di gem cercando;
ì^. poveri. 163. vende. \6i. prende. Ì9ì. ms.: da losenga. 197. cosi il
ma. 207. col gerundio, il senso rimane sospeso. Si potrebbe corr^ar^:
grande splendor de lui insi.
Rime genoTesi à, see. xiii-xiv.
243
trovar no Io poem;
se guardavan monto ben
nna gloria mondanna
evase la sovranna.
ada cho prendea
o niente in si tenea^
tri poveri digando,
aìgua in si usando,
tn masna de lo segnor
to aveam desenor
» in soa presentia,
k poi gram pene tenti a.
amigo de De biao,
ido in un logo privao,
te ovre encernue,
n insegne e con vertue:
cossi streito sente
iquistar lo regno de De;
r 806 pregare sante
a far lo semeiante.
LVII.
ms KoTolus frater regis JFVan-
m venit in Tuxia ad partes
*entie, anno Domini mccc prt-
Quidam de magnatibus Janue,
ns de facto ipsius quia vide"
T nimis prosperati, misit in
ynam, ubi erant prò Comuni
ìfficium cabelle salis, qtAodam
eius domini Luchini Gatiluxi
: Potestatis Sagone; et quia ipse
\it nomen suum, non potuti
sciret quis fuerit componitor ipsius
scripti; etpropterea ego ipsumpri"
mo ex terre faciens et ultimo conso-
lando eum, respondens scripsi ei"
dem ut infra (e. Lxiii, tergo).
E no so chi fosse aotor
de lo scrito che mandasti:
s o fosti eso, ben mostrasti
che senti de lo bruxor «
chi in Tosccanna e contraito,
do che e faito campium
lo frae de quelo gram barom,
tuto ordenao per lo gram caito. s
ni me maraveio miga
se voi vivi in pensamento,
che monto gram mexamento
pò szhoir zo che bordiga. \t
cosiderando lo so faito,
si s afira so ronzeio,
par che 1 abia per conscio
de menar tuto a faito. i6
ni e lo creo esse movuo
de si lonzi per dar stormo, ^
se no per venir in colmo
d onor chi g e inprometuo. so
chi sente venir fogo
a la maxon de so vexim
ben de pensar per san Martim
d aver semeiante zogo. 21
ma in questo me conforto,
eh ó ho visto antigamente
atri far lo semeiante,
r di guardavan aggiunto sopra, e oscuro; corr.: guardava. 219. da-
». 228. la seconda vocale di insegne, atUccata al g, pare più che e. —
tit Farei le seguenti correzioni: ubi eramx- quendam nuncium do-
Luchino;- Potestati Sagonce;- scire. Exterrefaciens poi non si legge,
cterUiens con un tratto sopra. 3. ms. so fosti e so. 5. Tosccanna;
jen che sussegue al s, potrebbe anch'essere 0. La stampa: Tosecanna.—
8.: si sa fira. Ma potremmo fors' anche correggere: *t sa afira (cioè
). 27. la rima vuole semeiente^ cfr. Arch. glott I, 308 ecc.
244 Lagomaggiore,
88 chi n e vegnuo a maf porto. chi renda bona crexenza;
e questo pur ta vìa tem
che tuto strepa zo che lo pò;
e se zo e lo faito so,
S2 no pò durar ni finir ben.
no savei voi che se dixe
che gente pinna d orgoio,
etai ne ere va li ogi
86 e i arranca le raixe ?
per che, doce amigo me,
daive conforto e resbaodor:
questo chi par un gram vapor,
40 tosto sera sentao da De.
e for De quele encontrae
a miso lui per castigar,
e per un tempo bordigar,
44 per punir qualche peccae.
e no som omo de parte,
ni so che deia esser deman;
ma pur 1 aoto torrexam
48 cria semper a tuti: guarda*
tante verno cosse torte,
che caschaun vego rangura.
chi donca vor ben star segur
52 se meta su rocha forte.
LVIII.
De semine verbi Dei de qua fit men-
cio in evangelio: exiit qui semi-
nat seminare etc, (e. Lxiv).
Piaxe a De che la semenza
de che parla la Scritura
en mi trovo la coctura
si che mai no sea senza
de cossi santa pastura ;
dagandome forza e dritura
per che 1 inimixi venza,
chi no me possam far tenza
a montar in quella aotura
dond e con vita segura
de De pinna cognoscenza.
LIX.
Quod elimasina iuvat in paradise
(Iti).
D ognunchana ben chi se sol far
per aquistar paraiso,
la lemosina m aviso
che posa pu in zo zoar.
ma qui da mal aquistao
pensar de esse lemosene,
s enganera de so penser
e troverase condenao. ^
LX.
De non tardando^ad bowum opHi (ìtì)l
Gram meraveia me par
che quaxi ong omo vego errar;
e durar breiga e afano,
cum rapina e con engano,
en aquistar a so poer
possesion terre e aver,
per soi fiioi multiplicar,
e si mesteso condenar
i
I .
35. ms.: e fai. 4 1 . e for De en quele contrae (od anche encontrae ; ef. Lxm, S)^-*
48. corr.: guarte. 50. corr.; rangur, LVIII, 3. trove, LIX, 5. dopo cto 8
198. ha (2e, ma cassato. Pare non (2a, ma de, vuole il senso. 6. pensa» '^
LX, 4. ms.: rapina.
Rime geooresi
ea 1 eternar prexon,
ìo e rendention :
li gè cbaze per so destini
malvaxe re morì m,
tre d aver za mai de poi,
fiioi ni da nevoi,
ene guari spese
tion ni mese:
sto n o per soe peccao
me tempo pur asai
del e de mar ayre,
)r dover scampar so pai re
rerean poi de dar
stia ni donar,
' soa anima cantar
m taritantar.
a e pu segur camin
e insto un pochetin,
sr atrui richeze prender,
mennam a pender;
che 1 omo e vivo e san,
Boe dar con soe man,
ipetar sun tar partio
shi gi verrà fallo.
d. sec. xiii-xiv.
245
ni per zo no e men amao
ni honorao da li voxin.
e zo fa lavor meschin,
no pensando lo peccao.
ma queluj chi e intrao
mar a so oso in tar iardin,
per che non pensa con cor fin
che se gi de cambia lo dao?
ze, chi de star asegurao,
vivando un sun tar pendin,
da 1 uixio devim
da chi el e semper agaitao?
aspe te pur esse pagao
con tar baranza o tar quartim
chi darà colmo senza fin,
tormento desmesurao:
ai sera tanto perlongao,
che no gi paira ben matin
a quelui chi tar camim
avera per tempo usao.
doncha e ben can renegao
e pezo asai cha can sarraxim
chi per deleto pochetim
vor esser si tormentao.
8
ìt
16
20
U
SS
LXI.
>ntra eos in devetum Alex.
(ivi, tergo).
> e la camin ferrao
deveo de li Alexandrin,
hi seme ne vem pim
ptt scomenìgao
LXII.
Cantra éos qui pingunt faciem acci-
dentali pulcrittédine (ìyì).
Dona alcuna no me piaxe
chi so viso disfigura
per mete faza inpostura,
chi a De monto despiaxe.
& semai e poi è aggiunto nel ms., sopra la linea, de, in carattere sbia-
mo, ma del tempo. LXI, 1. to. IO. ma.: oso oso. 14. tm «un (in su)?--
rae iuixio (giudizio). 21. perlongao; il primo o, misto d'e. LXII, tit.
2. il primo ♦ di disfigura è senz'apice, forse principio di un'e. Cor-
: desfigura. 3. ms.: in postura.
246
e se zo consente e taxe
quelo chi ne de aver cura,
consego mala ventura
s^n avera, per sam Portaxe.
ma quela soza marvaxe
pegaza de tar brutura,
certannamenti procura
12 che lo demonio la haxe,
chi conseigo habita e iaxe,
tirandola in preixon scura
de penna chi semper dura»
16 enter 1 etenrnar fornaxe;
unde no e za mai paxe,
ma dolor senza mesura,
spuza, tenebre e calura,
20 solfare e fogo pinate,
d onde e prego De vraxe
che gè cambio tar pentura
em peizem e in arsura
24 de che lo viso s abraxe ;
ranghe tornen e agaxe
e orribel per natura,
e possam nesso pastura
28 de lo mar levo ravaxe.
LXIII.
Contra insidias (e. lxv).
Un asempio ve posso dir
bon per schivar e per fuzir
tentacion, penne e dor
4 che 1 ennimigo dar ve vor.
«n 1 encontrae de Go-de-faar
vi star un homo per pescar,
Lagomaggiore,
sun un scoio a la marina»
cun una cana e con trazinan
capello in testa avea,
canvisde che no iovea,
per asconder in pescherà
a li pexi soa ihera.
tegnando 1 omo soie 1 esoka,
corno fa 1 omo chi pesca,
brusme gi vi speso zitar
per far li pexi aproximar.
cun esca de picem valor
tirava asai pexi e pusor,
grossi e menni per comnn.
si che inter li aotri ne fo od,
chi poi chi 1 avea devorao
cum esca 1 amo ìnvulpao,
1 omo un poco consentando,
ze in torno solazando;
de zo che 1 avea travoso
grandementi era ioyso,
sperando aver deleto assfdy
ma quanto fo poi lo so gaaj,
de che elo e doroloso e gramo^
sentandose poninto da 1 amO|
chi gi straza 1 enterior,
cum desmesurao dolori
meio per lui serea stao
aver un anno zazunao
quando tyrao fo a xuto ;
mal vi uncha tal condato,
gitao morto inter una cesta,
monto gi fo la morte presta;
corveiao de tar mainerà,
speranza d ensir no era.
16. eternar, 27. non correggo nesse in esse^ perehò credo che dipenda da
una ragione fonetica. LXIII, 5. ms.: en Un contrae. 13. l amo. 26. tòyMO.i—
30. pointo. 39. ma.: coveriao^ e sol primo o la cifra che significa r. D puli-
tino sopra il r ci avverte che 8*ha a cancellare. Ma dobbiamo corr^ggeiv:
coveriao (coperchiato).
ftime genovesi
tristo queltti chi a tar fin
yen per an hocum meschini
che per falimento sor
4€ s aqaista eterna dolor.
questo asempio che o dito
me par semeiante drito
e Ho moo representa
48 de 1 ennlmigo Chi ne tenta:
chi con peccae e gran deleto,
che noi detemo aveir sospeto,
e con esca pochetina
a» ne yor mete in mina.
questo malvaxe herruel
no cessa de zitar hrusmel,
per afasse in tomo aproximar
s§ qneli che lo cercha de maniar.
semper quando elo n engana
tem in man trazina e cana.
la cana e voia e leniora;
08 e cossi e toìo chi spera
en deleti e vanitae
chi tote son atoxegae;
che ogni carnai delectamento
S4 e men passa d un momento.
sotir e longa la trazina;
che questa vita meschina
par dover star longamenti,
ai ma pu la fuze incontenente;
che si e frage e sotir
eh e quaxi apeisa per un fir.
e ancor sta 1 omo ascoso,
n che strahaza lo bramoso
chi no gaita e no veia
en lo mar chi 1 apareia
d. S6C. xiii-xiv. 24?
Io pescao incapellao,
chi gi cera e ten privao 70
che lo no voga la faga
de so mar che elo prechaza^
che so te specia de luxe
enter lo scu peccao n aduxe*^ so
e n per zo ten 1 amo coverto
che lo ma no paira averto,
per farne star in eterno
inter la cesta de 1 enferno. 84
ma da si necho pesschao
ne defenda lo Criator^
che tar brusne ni esca
no intre in nostra ventresca^ as
per zo me par che ogn omo de
guarda ben quando e comò e que;
luxe in questa vita mortar,
per no aveir penna eternai; yt
e astenerse in tar mainerà
che 1 enimigo no lo fera,
ma per vita munda e pura
entre in gloria segura. 96
LXIV.
Contra adversitates (ivi, tergo)^
Monto fale grandemente
chi in alcuna aversitae
vegnua per le soe
no vor esse paciente. 4
che Ilo peccao e quelo chi monna
1 omo esser tormentao,
e se peccao no fosse stao
mai noa seguirea penna. s
43. per un. 55. correggo: per fosse. 70. eh e (ma.: che); Ve non chiara. —
71. Tomo. 76. cera; cosi dobbiam leggere; ma il e nel ms. mal si distingue da
ni: 87. para s'abbia a correggere brusme (cfr. t8« lo e 54). LXIV, 3. sup*
^Osei peceae. 6. a esser.
248
Lagomaggiore,
che De chi pò e tato sa,
chi e yraxe mego,
agn omo en fermo e cego
12 prevee de zo che mester fa.
chi Yor doncha esser rebello
ni contradir a so segnor,
aspeite esse ferio ancor
16 d asai pu greve mar telo,
ma chi le soe aflicion
in pacientia sosten,
comò per so peccao conven,
20 n aspeite pur gran guierdon.
che in una mesma foxina,
chi li metali proar vor,
23 la paia consumar se sor
LXV (e. Lxxiii).
zo che tu dei ben far 1 endeman.
goi e vatene a posar
per 1 endeman tosto levar.
ma per esser gùardao da De
5 da ogni avegnimento re,
semper a lo to enxir de ca
lo segno de la croxe te fa,
e prega De che te governo.
9 ma guardate da le taverne,
che per soperio vin usar
fa lo seno strabucar.
ognuncana di poi lavorar.
ma quando e festa dei feirar; i
e spender si li iomi toi
che De te menno a li ben soi. u
LXVL
Ad mutandum se de una damo in
alia (ivi).
Chi de novo se stramua
e hatra abitacion,
per aver rei sego bon
e ventura benastrua, 4
digage està oration,
chi me par sofìciente,
se se dixe atentamente,
com pura devocion: s
leso Cristo segnor De
chi tanto ve humiliasti
entrando en ca dee Zache, u
poi che a lui compisti
zo che 1 avea dixirao
fazando lui consorao,
soa casa beneixisti : 15
voi conseiai questa maxon;
e queli chi star gè dem
fornili de tuto ben
con abondever beneixon ; »
e gi seai defension
centra ognunchana ayersitae;
e gi da prosperitae,
con intrega salvation. »
12. ms.: preve e. 23. mancando la carta seguente e con essa la fine del com-
ponimento, il senso resta interrotto; ma si potrebbe supplire così: e lo tnetalo
s afina, LXV, 11. Vo di seno tien dell' e;- correggo: fan. LXVI, 5. ms.:
di ga gè. 10. come si vede, manca un verso, che dovea rimare con "hwni^
liasti, 22. pros]^eriiae\ la 3.& lettera ò un misto d't e d*e, e dev'essere un f
corretto.
Rime genoresi d. sec. xiii-xiv.
249
LXVII.
De rustico: moto (hi).
Vìlan chi monta in aoto grao
per noxer a soi vexim,
de per raxom in la per firn
4 sirabucar vituperao.
LX Vili.
Pro naoigantibus prope civitatem
(ivi).
Quando Io Tento pelegar
mostra zegi tenebrosi,
fazando le unde spesegar
4 6 ngroxar soi maroxi,
poi yei I arsura contrastar
con .... balumenoxi
chi no cessam de bufar,
8 menando porvin raioxi ;
en nixun moo de varar
sean lauto animoxi,
ni de vorevel trayaiar
]4| in tempi perigoloxi;
ina pensavo d ormeza,
e starve in casa ioyosi :
che monto n o visto danar
le pu per esser tropo amxosi.
LXIX.
De esemplo contra oeelatorem,
eontra mtMdum (iyi).
Si corno sor oxelaor
con sol oxeli cantaor
e con enzegne e con apeli
prende e aver oxeli, 4
grò, mezan e meniii,
chi speravan vive drui,
e per picbar un pochetim
son vegnui a mara fin ; s
cossi lo principe enfernal,
chi sempre vela in nostro mal,
con falose cosse e vanne
e deletacion mundanne, le
superbia e ingordietae
e mile miria peccae,
e con sotir enzegne e arte,
menam e tiram per gran parte 15
1 umannan generacion
a ternal perdecion.
grandi e picen e leterai
vago cair in questi guay: 20
chi seme seme passa de la
no pense mai tornar de za.
ze, chi doncha per niente ,
vor perii si maramente? 24
leso Criste chi tute pò
defenda si Io povero so,
che scampando de tar brancha
vegna a quelo ben chi ma non
[mancha. 23
LXX.
Pro moftdo contetnptu, in similitudo
sompni (ìyì, tergo).
Tuto Io mondo in veritae
vogo esser pin de vanitae;
LXVni, 6. dopo con^ il ma. ha una parola di cui leggonsi chiaramente le
ieltere sp iniziali e zi finali; delle due frammezzo, la prima pud essere un o,
O im a od un* e, T altra d r, a quel che pare;- r« di balumenoxi non ben
ebiara. ÌO, seai, ìì.voreve^ ossìa voreive, \Z.ms.: dormeza. \5. monti. —
LXIX, 5. grossi, 16. mena e tira, 2\.chi seme passa de la. 28. mat;- non^
Il ms.: ti. LXX, tit. prò mundi contemptu^ in similitudinem sommii»
£50
LAgomaggiore»
•e parine che ogn omo sea
4 si cubito d aver monca, .
che, o da iusto o da re lao,
no se gè prexia peccao.
chi aver pò dinar o terra,
8 ogn omo dixe pu : afferra.
assai laxa dir e preichar
chi pò 1 aotru agarrafifa*
che chi axio avese
J2 de mar prender o poesse,
despoierea volunter
zexia e otar e monester.
e zo che man frutiva prende
16 De sa ben comò se render :
pochi, o nixum o rairi, son
chi fazam restitution.
eciande quando li moren
20 a gran penna ordenar voren
che rendam quelli marastruj
chi ne remannen ta or drui;
a chi pu dor che la rapina
24 e n quantitae si pochetina
de zo che mar a preiso a so oso
quelo chi ne va in fosao eroso:
e cossi n a danacion
28 tuta una generacion.
cognoscea cossa per yer,
che nixun pò tanto aver
de tuto quanto lo bordiga,
32 che in la fin ne porte miga:
ma ne va pur remuando
cha lo di che 1 era nao;
ni aotra cossa se no zo
che faito a, portar no pò.
per zo me son aregordao
d un sono chi me fo contao:
da un homo chi sonava
che tesoro asai trovava,
chi in tefra sparpaiao era»
e he ne inpi soa busnera
e la borsa e le man soe,
tegnando strette intrambe doe;
tanta alegraza n avea
che cointar no se poca,
penssando vive in deporto,
casse aquistar e vigne e orto,
e tegner corte e grandeza,
g enimìxi bandezar;
si grande esser se creea,
ni si ni aotri cognoscea.
ma quando lo fo dexeao
e en so seno retornao,
de tuto zo no trova miga
comò quelo chi sonava,
ma assai men per lo peccaoi
de che en la fin e condenao,
che per laxar a li fiioi
a pu crexuo li guai sol.
che zoa doncha far lavor
en tanta angustia e suor,
che za mai no a reposo,
e semper a la morte in scoso^
de poi la qua el e straxinao
a semper esser tormentao?
chi no penssa de la fin,
pezo e cha un ase meschin.
m
4i
S2
II
16. rinde. 25. ms.; apreiso <tso oso. 26. così nel ms. Potremmo pure
care: in fosa o eroso. 29. correggo: eognossua (o cognotoua) eass^t é ptt
ver. 33. forse remìAoo (cioò nudo, dal mudare degli uccelli). 98. ms.: apor^
far, 39. de. ASt,in&.i bsne. 45. alegratua. id.porea. bO. ms.: gè nimùsL —
55-6. de iuto go no trowsoa corno ecc.? 59. panni scabbia a C(xrr6gg«rei Ma
Rima genoTati
LXXI.
Ege de la rumenta? (e. lxxiv).
anvisde che le Scritare
iyene creatore
deam amonimenti
▼iyer ordenamenti ;
otre gente odo assai
tato di yam per citae,
nai som la maor parte
se norigam de soa arte,
natim e tuto iorno
li trovo andar in tomo,
soa testa ruzenenta, [taf
ipre criando : ege de la mmen-
3yer zo chi s apenssase,
31 peccai considerasse,
parola chi par si yil
pò gran guangno conseguir.
chi a la mente tenta,
lentosa e porverenta,
per soi yicij purir,
la lengaa far bair,
zete per confession
Tor soa habitaciom
i poyer de coscientia
yraxe penitencia;
Mi cha romagne pura
^ni vicio e brutura,
reiar d entro e de for
e chi abithar gè yo;
m presta man, non lenta.
d. see. xm-xiv. 251
far comò la bona seryenta,
chi comò eia ode zo criar,
sor gni canto netezar. s?
ancor yego d asai mainere
andar bastaxi per carrere,
chi per vie drite e torte
vam criando monto forte 30
(chi no li cura d aoir
porrea bem tosto cair,
o rezeiver tar turlar.
chi gi parca ma rogar); 40
chi no cessam dir: gaardave,
zo e: segnor, apenssave
e guardavo quanto poei
da i enimixi che voi avei, 41
chi no cessam bustichar
per tirane a bustinar
entro quelo eternai fogo
unde paxe no a logo. 43
tristo quelo misero cativo
chi no fa ben fin che 1 e vivo :
che poi che nuo se ne parte
ni gi sera mai dito, guarte; 52
ma segondo 1 ovra che fé
pagamento receiver de,
e sempre esser tormentao,
per n vorese es guardao. sa
un atra craha e go sento:
ege osbergo ruzenento?
ma le arme chi den luxir
son le vertue, zo odo dir. 00
chi a vertue alcuna,
o da lemosena o zazuna,
LI, 19. tra punir e jmrtr, benché si legga più facilmente il primo, ho
la preferenza al secondo, perché più coniacente al senso. 27. apareiaa. —
Ds.: da oir. 40. ms.: maregar, 41. dopo questo verso viene: per tirarne
utinar^ ma con due erocelline a dritta e a sinistra (cfr. v. 86). 52. no
fra. 56. no;^ eeer. 57. forse criaia*,
252
fa alcuna oration,
64 fazala a tal etencion,
che ogni ruzem se refuam
per che se perde la vertue.
che li nostri zazuni som
68 tacbai de gram reprehension :
che la gora sempre cura
de maniar senza mesura;
che monti homi zazunar vei
72 chi per un di ne goem tre! ;
ni guari var lor zazunar
chi no se guarda da peccar:
1 omo lanlor zazuna ben
76 se corpo e anima s astem.
de le lemosene, De ro sa
comò caschaun le fa:
virmenti e tardi son dae,
£0 pur de le cosse refuae.
e le nostre oratiom
no som con drita entencion;
che con la bocha oro en zeixa,
84 e lo cor he a Venexia;
e digo si spesegando,
che no so corno ni quando
e sea in mezo ni in cho,
88 per zo che lo cor non g o.
unde ogn omo chi vor far ben,
poi che gi lo covem,
no spenda so tempo enderno,
92 per aver mar in eterno.
LXXII.
De custodiendo se ipsum (ìyì, tergo).
Se tu guardassi chi tu e,
e donde vai e don ve,
Lagomaggiore,
chi sempre e stao marvaxe e fé,
e dei raxon render a De, 4
za no terrexi mar in cor
ni in le ovre de for.
ze, no veitu che ogn omo mor,
de chi partamo con grande dor? 8
or pessa mo doncha de far si,
che in lo to parti de chi
possi seguir arrivar li
und e gran festa e semper di. is
e se cossi non penssi far,
aprestao e de squaxo dar,
e n tar profondo dover star
unde e penne chi no a par. i^
che farai doncha? sai che?
servi De con viva fé,
chi tanto meritar te de
che de servo te fa re. so
LXXIII.
Cantra ioca periculosa que faeiuni
hof%es rustici (ivi).
Fin che scada la foxina
parte guerffa e gibelUna,
ni vego bonaza intrega
d alcuna paxe ni tregua,
ni lo demonio s astem
de schavizar ognunchana ben,
e semper in atizar veia
ogni ma che 1 apareia.
cornando ben me conscio
con sotir e bon cerneio,
digo pur che no me piaxe,
vogando le gente marvaxe is
8
65. refue. 90. correggo: far gi lo ctmem, LXXII, 9. me.: pessamo; eorr.:
penssa mo. ìì.segur. LXXlll^ Ut. homines. ÌS. mainerà. 42. ms.: oroo.— ^
Rime genovesi
a chi noxe lo siropo
de chi li usam tar or tropo,
far per horgi ni per vila
16 marchesaigo ni cablila,
ni andar trepando In scera;
che li son de tal maniera
che per men de un dinar tar or
so moven garberia e gran remor.
ma no voio mlga biasmar
che no se deia solazar:
ma savei comò e con quai?
24 com homi ben acostumai,
chi san lo trepo ben fornir,
ben comenzar e ben finir;
ni con re ni caxonoxi
28 ni parler ni orgoiosi,
ehi per poche se corrozam
e 80 zogo tosto mozam.
no piaxe doncha zogo
S2 chi de guerra acende fogo.
che se sorpbaro pochetin
tocha un carbon ben pizenin,
alo crexe e prende conforto
26 fogo chi pareiva morto :
cossi de pizena parola,
86 1 exe de bocha fola
e de solfare tem miga,
40 rezovenixe breiga antìga.
d onde e volo tener moo
de* tal zogo star a roo,
per che, se devese, scusame:
44 e se falò, perdonaime.
d. see. xiii-xiv.
253
LXXIV.
De gtiagno furmenti mortuo
fruti/icante (e. Lxxv).
Monto grande maisterìo
ne da lo santo evangerio
chi de san Zoane e scrito,
unde leso Cristo a dito,
a soi discipoli preicando,
e per hasenlhio deszhairando:
e lo gran de lo formante
ne fa utel creximento,
ma e semenao In van
demente che intrego roman;
ma quando 1 e perio e mor
grande fruto portar sor,
e de lo so gran multipico
tuto fa lo campo richo.
o quanto creximento porta
grana chi pareiva morta!
cossi ogn omo, zo m e viso,
chi en esto mondo e mise
comò in campo per far layor
de che el aspeite grande honor,
se pur voi star intrego e druo
en van deleti mantegnuo,
e pur seguir 1 onor mondan
e zo che mostra lo cor van,
ni alcun fruto fa de ben,
o quanti dani e guai devem !
che tosto mor e roman nuo
12
16
20
24
LXXIV, tit. mortui fructificantis, 4. ma. tm de;- adito. 6. coir.: aseniho
(esempio). La 1.* sili, nel ms. è staccata; e nelP altra parte della parola, il
carattere, eh* io rendo per h^ è Tasta di un h^ più uno z unitovi a destra. —
7. sostituendo che ad e, si avrebbe un costrutto più chiaro. 21. vor. 26. dé^
um\ itine gì vem.
254
Lagomaggiore,
28 de quanto ben el avuo;
e caze ìnter lo in scur ferno
a sostener dolor eterno:
cossi gi torna in morte amara
32 la vita chi gi fo si cara,
ma quanto 1 omo e tribulao
per so Yorer da ogni lao;
e sostem grande infirmitae,
sa de monte guisse aversitae;
en le quae el e paciente,
corno fiior obediente
cbi Yor cozi esser ferio
40 per lo peccao che 1 a merlo,
chi porta penna e tormento
unde elo guagne per un cento
da quello paire e re biao
44 chi aia so regno apareiao:
questo chi, comò gran morto,
crexe con si gran conforto,
multiplicao con fruto tanto,
48 no sse pò dir comò ni quanto ;
e 1 aYcra de tuto ben,
chi no porrà mai Yenir men,
en questo stallo de Yita eterna
52 unde De li soi goYcma:
che mei e zazuna primer,
e semper poi festar in cel,
cha breYimenti chi festar,
56 poi in eterno zazunar.
doncha per certo se pò dir,
che chi Yor choci fiorir,
arde poi comò arboro secho,
60 men a seno cha un un becho.
ma chi se Yor mortificar
per dcYer poi YiYificar,
segua la Yia de Cristo
per che tanto ben aquiste.
LXXV.
De condicione terroarum et cioiiatum
(ivi, tergo).
Terra chi per gente alcuna,
no per Yoluntae comuna,
receive in si alcun segnor
chi cubita d aYer honor,
poi che no o segnor Yraxe
ma no ai intrega paxe.
che quelli chi no 11 am yosqo
semper n an lo cor gronduo,
ni mai cessam dasse lagno
de zi tarlo zu da caYalo;
per zo ne e mai la terra
senza gran ranchor e guerra,
che chi de raxon parer
che nixun homo possa aYer
per. forza d alcun marandrim
segnoria de soi Yexin?
mai salYamento aYer no pò
regnando zo che elo no e so.
o quanti ne son strabuchai
•per tropo in aoto montar I
che per mantener quelor
chi a lui an dao faYor
e n doYerli munerar,
couYen a lui 1 atrui strepar.
8
12
19
20
24
28. el a (xouo\ il ms.: elauuo, 29. lo scur inferno, 33. qiMndo. 34. ms.: so^
vorer. 44. correggo: chi i a. 51. quello. 60. cha un becho, LXXV, 5.. no
e. 6. mai no a. 10. forse jsu de scagno. 11. Te, di lezioue dubbia. È un
carattere aggiunto sopra la linea, che somiglia piuttosto a de^ ma forse pud
esser cifra equivalente ad e. Correggo: no e mai. 20. con*.: esser montai. —
Eime genovesi
6 terio far a li meschini,
che e lo mar vi a la per fin.
e cossi in monte guisse
S8 mar uncha se ne tramisse;
che per iniuria e rapina
la terra mete in mina:
e poi che elio fa tanto dano,
flt no e segnor, ma e tirano.
ma chi mantener yoresse
terra chi crexe deyesse,
per menar drita lignora
te Torra aver Poestae de fora,
chi per tener drita baranza
non aqoistasse cointanza,
per dar a picen ni grande
40 86 no zo che raxon comande;
e per drizar le cosse torte
fai iustixia si forte,
che ogn omo se spayentasse ben
44 chi aotrui noxer penssase,
procurando lo ben comun:
e se gè fosse for alcun
chi falimento gè faesse,
48 che penne ne sostenese.
cossi aerea la citae,
se ben staesse in unutae,
e pochi di, de fora e d entro,
se en grande honor e creximento.
ma ben g e un atra raxon
chi de guerra e caxon :
quando g e citain si grandi,
se chi statuti leze e comandi
desprexian per so orgoio,
fazando a atri grande inoio ;
si che ta or in questa guisa
d. sec* xni-xiv. 255
gè nase guerra e diyisa. eo
ma De sempre la mantegna
che senestro no g ayegna,
ma tute or gè sea paxe
e amor de De yeraxe. 64
LXXVI.
Quando preli<xverunt xxxx dies in
JanìM inter Guerfos ei Gibelinos
(e. LXXVl).
Un re yento con arsura
a menao gram remorim
enter Guerfi e Gibeilin,
chi faito a greye pontura: 4
che per mantener aotura
e per inpir lo cofin,
de comun faito an moria
per strepar 1 aotru motura, s
ensachando ogni mestura
per sobranzar soi yexin.
per zo crian li meschin
e de tuti se ranguram. i^
ma de tanta desmesura
pensser o a la per fin,
De chi ye li cor yoipin
no ne fera con spaa dura. io
LXXVII.
De cogitatione in anno novo (ivi).
Quando e penso in ano novo,
quanto tempo e o falioi
chi in falir son invegio
e pu peccaor me trovo; 4
26. ms.: che eia. 38 ma. : no na quistasse. 42. far. 43. ben se spaventasse. —
50. unutae od umitae pud leggersi (nel secondo caso, coll^t senz'apice, come
aorente). Ma correggeremo: unitae.
256 Lagomaggiore,
per corvime aotri descroYo; che lo mondum desvia
e lo cor si durao,
che chi tanto son pricao,
8 per dir scacho e no me movo;
a li morti vago aprovo
che no vego mai tornar;
quanto e o mise in aquistar
12 no me vara pu un ovo.
doncha voio e far controvo
de mi mesmo ben punir;
che chi se vor de mar pentir,
16 la pietae de De g e provo.
LXXVIIL
De tardando ad scribendo facta sua
(ivi).
Chi e peigro faxeor
e lento in soi faiti scrive,
senza dano e senza error
4 non pò longamenti vive,
lavoro quando e saxon
1 omo, avanti che passe 1 ora:
a compir un faito bon
8 non e mai da dar demora.
LXXIX.
De fragilitate humana contra
temptationes (ivi).
Vegando certannamente
retornar tuto in niente
quand omo pensa far e dir,
4 se no pu De in tanto servir;
caschauD chi se gè fia,
ni gè n e alcun si drito
chi no se ne parta nuo :
o pusor via preposo
tener stao religioso
en qualche secreto logo,
per fuzir ogni re zogo
de questo segoro fauzo re e van,
per no descender in borohan;
si che fosse da ogni lao
en De servir da tutu ordenao.
ma tuto or me ne retraito
la moie che De m a daito:
faita fo per me ai torio
ma assai me da . . .
che Eva la nostra carne
mai no cessa de tentarne.
o quanti ben ama strepa!
che averci va faito assai !
fin da mea zo ventura
vessi far vita pur dura,
e punir li mei peccai
chi som poi multiplicai,
e santamenti contemplar
le cosse celestiar,
penssando con mente pura
ascender in quela aotura,
aloitanao da lo profondo
de la vanitae de osto mondo.
de tanto ben tute or Eva
m a levao lo pe de streva:
quanto uncha ben e vosi far
m a faito sempre induxiar;
8
1!
li
9
LXXVIII, 3. e; tien dell' o. LXXIX, 3. quant omo, 5. mondo, 7. si drtM. —
11. secreto; la prima vocale sembra o. 16. forse da tuto (ossia da tutor);
ovvero tuto^ senza il da. 17. me n a. 20. la parola che ho tralasciato,
scritta nella sua prima parte in cifra, sarà forse: martorio, 23. ma.: atna.'^
Rime genovesi
lemper alegandome in contrario,
om e star contìnao aversario;
ehe tanto e me famiiiar
ohe no me so da lui guardar»
che la no sapia incontente
so che far volo privamente:
U880 de femena e per ver,
quanto se fa per vorel saver.
cossi tempo o per duo
che De m avea conceuo.
poi quando yen in la per fin
penssai tener aotro camin,
enfra mi considerando:
morir dei e no so quando;
q[uanTÌsde che moier ai
%>M poi far de ben assai :
se alcun tìcìo te guasta
in qualche moogi contrasta,
^ prendi qualche bon cosmo
de far forza a ti mesmo ;
ohe gloria ni de De vista
senza penna no s aquista,
'Mki Griste, de chi 1 era,
no 1 ave d aotra majnera.
cossi penssa lantor de far
zo che ve posso recointar;
e vessi in mi mortificar
li septi vicij mortar,
chi tanti an mortar fiioi
che morte dam in tuti moi :
de li qua tuti se dixe
che la soperbia e raixe,
6 questo peccao malegno
^ tti tuti i aotri a lo so segno.
prumer me vegne in memoria
d. seo. xiii-xiv.
257
lo pecao de vana gloria,
pessandola de scarchizar,
lo mondo e mi desprexiar, 7o
en robe e lesta e andaure
far vita un poche aspera e dura,
e esser pian e obediente,
e no voler leso de la gente. so
vogando mea compagnia
che e teneva questa via,
mi grevementi reprendando
me prevarica digando : 84
no e bon proponimento
chi fa desprexiamento:
vostri vexim ve teram vii,
chi ve teneam segnoril; ss
ni vorran mai usar con voi,
e a tuti starei de poi ;
e se voi V asetherei in bancba
li aotri ve vozeran 1 ancha; 98
e se obediente serei,
asai segnor ve troverei
chi ve vorran ati morir
e vostri fai ti asmenui. %
en aotre cosse aia bontae,
eh està me par gran mocitae ;
che chi no vo aver honor
tosto aquistar per desenor. laa
odando tante cosse dir
me comenzai atenerir;
de me vorer foi revocao,
per poer vive apagao. »oi
poi dixi : aotra via terrò,
1 envidia amortero.
per che don e aver doror
quando aotri crescem in Iionqr, los
40. siaa. 46. cancello per, 48. conceuo \ tra Tu e To un altr*ti, ma abraso. —
49. panni scorretto. 59. sembra glaria, 63. penssai, 75. penssandola. —
lOO. per; correggo: pò, 103. il r di revocao non chiaro.
ArdùTÌo glottol. ital., II. .17
258
ni alegraime d atrui mar,
chi sostener posso atretar ?
enoonmenzaime as tener
112 e refrenarme e a taxer,
che odio no ascendesse
per parola che e dixese;
e conmenzar vore reprender
116 chi e in zo vise offender,
sentando zo questa moier
me dixe alo con viso fer:
voi no savei che ve fazei,
120 8 o fai per voi una lei.
don e ver crexer me vexin
chi zercham pur sera e matim,
si comò homini re e faozi,
124 de tenerme sote cazi?
de lor ben dir no porream,
che eli yeritae e mentiream;
ni laxerea che no dixese
128 zo de lor che me parese;
che tal ve vor segnorezar
chi no fo uncha vostro par:
no voiai uncha ver grasso
132 chi ve vola tener basso,
vogando zo me restresi
da lo ben donde e me spensi ;
e a quella consenti,
136 che quaxi turba la vi.
lantor penssai contrasta 1 ira,
chi monti mai dere se tira;
e fuzir rìxe e rimor,
HO biasteme odio e ranchor;
Lagomaggiore,
e esser piam e quoto
e corno agnolo mansueto;
pacificar e tranquilar
se vise alcum mar ni dir far.
lantor quella me preise a dir
chi no cessava pervertir:
se tar stillo dovei tener,
e ve so ben dir per ver,
se vostri vexin saveram
che voi sei cossi human
corno voi ave! incomenzao,
sposs or serei iniuriao;
se no serei de dura testa,
spes or ve daram tempesta;
e poi che no ve turberei
men temuo ne serei;
che chi tropo ma lo ... .
fi rosso tar or vem :
per che ve digo pur
che osto camin no e segur.
oyo zo, per paxe aver,
consentir vosi so voler;
che chi a guerra in casa soa
soa breiga a longa eoa.
centra 1 acidia me aproai,
chi tem li cor adormentai,
morti e peigri a tuto ben;
de la quar monti mar ven,
desprexiacion metando for
e pusilanimitae de cor:
da mar esse astinente
e a ben tu acorrente.
IH
148
15*
IM
1«
IM
m
m
115. vore; Tultima vocale é mista d*o e d'e. Leggi vorei, 120. corr.: ima
tor lei. 133. restrensi, 137. ms.: contsta^ e il primo t con una cifra che
altrove significa ri. Ma, poniamo che s* abbia a leggere contrista^ si dovrà por
sempre correggere al modo che ho fatto. 144. mar dir ni far. 152 spess
or. 157. della parola che tralascio é chiaro il ^ iniziale e tè finale (= Un);
la seconda lettera avrebbe a essere un e od un* e, Ja terza r, la quarta i. So-
ppetto un en'ore. 158* così il ms. 165« ms.: me apràai, 171. ms.: astinehU*-^
Rime genovesi
lantor qaella comenza a dir:
8 o ye laxai si somentir,
o o no dormai ni possa!
ttò e ben aiai fin e o porrei,
pa tosto morir poresi
ca presnmao no averesi
sempre serei pu vigoroso
180 en serri De, s oi stai joioso :
per che laxeive conseiar,
no perdi zo che De ve vor dar.
cossi laxai me vorel drito,
184 cosiderando a lo so dito.
mixi me contra 1 ayaritia
per contrasta soa ayaritia:
da farti, engan e da boxie,
188 spesar! e traitorie
tossì schivar, si che e vivese
cortese e largo unde e dovesse.
fasando zo, mea compagna
m dixe: e volo che zo romagna:
che se voi no ave! scotrimento
san cavear far creximento,
e longo tempo viverci,
188 per inganao ve trovei;
e se ve! no ve forzai
en aquista zo che possa!,
tosto porrosi con vergona
foo mendiga vostra besogna.
tristo quelo chi a fame
e de dir a i aotri: dame;
chi a dinar si e segnor;
smU aotri van a desenor.
venzoo fo de tanto oir,
ni ben essai pu con tradir:
d. sec. xiii-xiv.
359
ma pur lo cor me remordea,
che me dano me crexea. sos
contra la gora me forzai
de far conbatimento asai:
desprexiar viande drue,
usando pan con erbe crue, 212
e zazuni entregui far .
per ment e corpo refrenar ;
sapiando che lo corpo druo
deven robelo e malastruo. 2i6
quela chi me sor contrastar
me preise alo a molestar,
e dixe : no ve voio seguir
per dover tosto incativir; 2S0
ni astinentia non e bona
chi desipa la persona:
monti n o visto quaxi inmatìr
per lo so corpo anichiiir. 224
possa! pu ben maniar e beiver,
ma no passai lo covenever:
che 1 e pu bon usar le cose
che lo Segno per noi far vosse. 22$
e sun pur de tar sententia,
che e no voio està astinencia.
tanto me preica e dixe,
che mester fo che la seguise. S32
e penser o che so preichar
a intrambi doi costerà car;
che lo me consentir tanto
me noxera de qualche canto.
vessi contrastar luxuria
chi me move speso iniuria;
e remover inmondicie
e diverse monto aotre malicie; 240
236
t
176. correggo: passai (possiate). 181. la prima e di laxeive non si legge, ma
in sua vece un carattere che non é di vocale nessuna, e solo tiene un poco
delire. 186. soa malitiaì 194. Te di cavear non assai chiara. 196. trove-
ni 199. vergogna. 205. foi, 219. nel ms. pare soguir, 225. penssai.
260
e conservarne in onestaee,
mategnando gran castitae;
e n contra la concupiscentia
244 tener streita conti nencia,
e da ognuncha penser yan
alo f uzir e star loitan :
ben sero e pu conbatuo
245 a consentir esse si molo,
quela lantor me comenza a dir:
zo no se porrea conseguir:
enderno smoierao sei,
S52 se da mi parti ve crei;
questo ligame, zo me par,
no e cossi per desgropar.
De fé primer Adam e Eva,
256 de che lo mondo se leva:
chi matremonio vor guastar
a De pensa de contrastar,
en veieza seai casto,
260 che pocho averci lantor contrasto,
entendando la raxon soa
me vegne molar de proa.
si che in pecae son invegìo,
264 e me cognoso per scregnio.
or no so e che far ni dir;
che som si provo de morir,
e de ben faito no me trovo
268 pur tanto chi vaia un ovo.
ben e ver che e o contanzar,
de che o qualche speranza,
de santi homi che e requero
272 chi ma aiem, comò e spero;
che debiam De per mi pregar.
Lagomaggiore,
che tar lavor me faza far.
che e perdonnaza aquiste
da lo doze lesu Cristo:
si che in lo me dereal iorno
la soa man me aea in tomo,
chi me guie e me defenda
che 1 rnnimigo no me offenda;
che la soa pietae,
chi tute venze le peccae,
en paraiso me conduga
unde sol resplende e luga.
LXXX (e. Lxxvi).
Madona, monto me peiaa
che toi figi son turbai :
si gram patremonio ai,
chascaun ne vor far preisa.
1 engordietae e tanta axeisa
e tanto son aatorbeai,
che toa dota an miso a dai,
a ti fazando grai^de ofeisa.
da nixum e sta defeisa,
e desenor t an faito assai,
e perduo ni ti no lai
che tropo e la toa speisa.
degna n e de esser repreisa:
creo che per toi pecai
sun 1 un da 1 atro si squarzai;
e sta anchor la peiga teisa.
queli chi tar xama an accisa
n an e n averan li guai,
ma re szhaveti che tu ai
no gè dam una puiesa.
«
vt
242. mante gnando. 248. correggo: druo^ per la rima. 254. cossi; errore pe^
cuxio (cucito). 269. contanza. 275. perdonanza. 284. dapprima fu scritto
luxe^ che ancora si legge chiaramente; poi corretto in luga. LXXX: manc^
il titolo. 5. tanto (o tant). 6. astorbeai; Ve sembra o. 11. così il ms. — •
19. szhaveti; il f è tanto abbassato (come pure altrove), da confondersi quasi
con un e.
I
Rime genovesi d. see. xiii-xiv.
26l
LXXXI.
Ck^'wttra quibusdam qui post pascha
rs'Ctfrfundcr in peccatum (ivi, tergo).
comeozar e no compir
no sor gran guagno conseguir;
clà^ nexuna vertue ayanza
4 so no g e perseveranza.
obi reioma in lo peccao
cbo 1 aveiva abandonao,
a Cam bmto se reforo^a
Selli a so vomito retoma.
en per zo posso reprende
monti homi che e vego ofende;
dki in tempo quaresemar
\t p^ chi voian schivar mar;
• comenza de far gran ben,
si corno sempre se coven:
fap lazunj e penitencia
M e ^Ter in astinencia;
dur lemoxene e orar
^ corpo e anima domar;
^ f ozir vanne parole,
Buo legando gente fole:
^ par che li aiam venzuo
lu«lo inimigo malastruo,
d ogni mar scotrimento pin
^ ?^v inganar qaali meschin
ehi no san tener lo stao
^ ben eh eli am comenzao;
^ <lQa lo fa cair speso or
■ tti itto chi assiu pezor
^ qnando ven lo di de pascha,
^U li an ben pinna la stacha
de viande e vìn assai,
e de novo son muai, ss
cantam, rien, zogan e balan
e en vanitae desvalan;
ordem ni cavestro ni fren
d alcun peccao no li desten. , 3d
quaxi ogn omo per carrera
perzor e sai eh o no era;
lo mondo segue, e bescura
che corso d asem pocho dura. 40
con zo sea cosa che lantor,
zo e vogando lo pascer,
1 omo se deverea sforzar,
se faito a bon, de meiorar; 41
e di loando in so cor De:
beneito sea voi, segnor me,
chi per la vostra passion
m avei schivao danacion; 4S
e pò che sei resusitao
e traìto mi d ogni peccao,
con voi morir e vive spero
e resusitar quero. ta
ze, che me zoa compasion
de soa morte com passion,
se quando el e crucificao
e a morte me son dao? 54
ma deverea 1 omo pensar :
poi che me vego aproximar
a la santa Ascenssion,
e voio ascender comò e don co
en gran cormo de vertue;
si che De no me refue,
ma in cel me faza ascender
a quella gloria prender m
eh el a promissa e darà
^•^XXI, 20. secando; Va par che tenga dell' u. 28. chi e. 38. corr.: pesar \
■* *ai : p jor. 44. ban\ Vo tien dell* e, e coel vnoUi correggere. 50. co-
'^'^Uo difettoso. 5L ma.: eompassion.
262
a caschaun chi la vora,
pinna e fornia d ogni ben
cs chi za mai no vera men.
LXXXII.
De quibusdam gracibus peceatis
(e. LXXVIU).
De quante guise son peccae
8i greyemenii abuminae,
chi fan de terra crior in cel
4 per acusar lo peccaorf
lo prime e 1 omecio,
chi demanda esser punio
e palezar lo so peccao,
s chi no e da star privao.
de sodimita e Io segondo,
chi e sozo, e de tar pondo
che chi comete tar peccao
it degno e alo de eser cremao.
1 aotro e de povero e d orfagnoi,
li quai De ten tanto per soi;
se alcun danno tu gi fessi,
10 De grevementl ofenderesi.
lo quarto e de no strepar
ni retener ni tardiar
alcun to lavoraor
sn lo guierdon de lo so lavor:
che, se tu poi, paga a man,
no benstentar a 1 cndeman;
che monti chi abesogna
ti no demandan per vergogna,
doncha se guardam tai e quai
de no cair in tal peccai;
che chi gè sera luegao
f% no vorrea uncha esser nao.
Lagomaggiore,
LXXXIII.
Faciens et consentiens pari p€t
puniuntur (ìtì).
Se sosten penna engualmenti
quelo chi fale e consente,
sempre a to poer desuea
che tu non fazi overa rea.
LXXXIV.
De non tardandum ad faciend
bonum opus (ìtì).
Chi va in logo si loitam
che za mai no am retomo,
che no pensa noite e iomo
de portago vin e pan?
zo e far fin eh el e san
overa e lavor adorno,
chi semper gi stoa in tomo
en quali di chi £n no anf
no veitu che 1 onor mondan
son lagne do eternar forno?
a far ben no dar soriomo
ni aperiongar a 1 endemaa.
LXXXV.
De adventu imperatorie m Lami
dia in Mrccii. Dixtf ut infra j
pter bonum principium et hot
famen ipsius (ivi).
Noi chi semper navegemo
e n gram perigo semo
en questo perigoloso mar,
ni mai possamo repossar.
LXXXII, 3. tfi eel crior. 5. mt.: lo mecio. 6. ms.: de manda. 19. a alem
22. mi.: ben stentar. 25. guardem, LXXXIV, :i. no a. 11. soriomaii
cifra inTece del primo r; il primo a tiene un poco deU*<. Correggo: so
no. LXXXV, Ut. famam.
Rima gMOf 68i
D deTomo uncha cesar
> pietoso De pregar
he ne scampo con soi santi
la perigoli chi son tanti
le lì gram con movimenti
lo fortuna e de gram Tenti»
tacbaneixi e unde brave,
^i contorban nostre nave,
enser an inter tante onde
li^ la nave no prefonde,
mer par tato ofoscao»
lo mar astorbeao;
3 par stella ni sol ni luna,
mio e lo cel de sta fortuna;
ì se trovemo conforto
e poer venir a porto;
I osemo streme li ogi,
auto e pin lo mar de scogi;
) sempre semo aguaitai
i& berroel e da corsai,
chi no cesam ni dar storte
eo rapinar e dar morte,
sempre temando esser conquixi
d ^eun nostri enimixi;
de vianda e de bevenda
^mo li scarsa bevenda,
chi 06 da monto gran guerra;
■^ arrivar possamo a terra
^ si greve ruyna.
*e savemo aotra meixina
d^ qoal de noi spere,
( >« no far a De pregerò,
^^ì la mai no abandona
^ì gè fa pregerà bona.
d. 860. xui-xiv.
263
e in gran tribalacion
sa tosto dar salvaci on, 4o
e en le grande aversitae
se move tosto a pietae;
che d alcun no vor la morte,
ni gi ten serrae le porte. 44
or creo con De anti,
che 1 a ojo qualche santi
chi 1 an pregao devotamenti,
che lo consolerà la gente, 48
e n tanta neccessitae
mostrerà gran pietae,
e se no romanera per lor
gi darà porto salvaor. 52
che quando note e mar tempo era,
entro si gran destorbera,
li naveganti De pregando
e alquanti legrcmando, sa
entro grego e tramontanna
se compose una tavanna,
con trojn, losni, vento ioio,
dentro lo quar se fa un oio ao
d una luxe naa de novo,
e gran serenna gi ven aprovo:
chi fa alo tar creximento,
tranquilar mar e vento; m
lo cel seren e resplendente
mostra lo sol monto luxente;
per che e spero e me conforto
de venir a segur aporto. a»
a lo mar si conturbao
e questo mondo asemeiao,
chi mai no e senza regaio
de guerra, breiga e travaio, ts
^^ eorr. : om, cioè amo (abbiamo)* 25. la atampa delFArch. stor. in dar^ e
^^ correggo anch*io; ma leggesi piuttosto nt. 30. così il ros., non berénda,
*<irie aveva a esser prev€nda. 35. forse alcun de noi. 45. o con de an<t,
'^^tadendo 'come avanti*? 60. correggo: ia quar. 68. correggo: porto.
264
Lagomaggiore,
und e la gente si iniga
che de paxe no g e mìga.
le ingani, scandar, orgogi
76 se pon apelar li scogi.
le fortune, mar e venti
son li diversi accidenti
e le grande aversitae
80 che aduxe le peccae.
stella, sor ni luna no gè par,
che ni bon omo ni lear
per luxir de gran ver tue
84 entro gente malastrue.
li corsai gè son si spesi
che pensar no lo porosi :
layri, usorer e inganaoy
83 tuto 1 atru voren far lor.
si son scarsi de vitoaria,
che rairi son in Italia
chi sean contenti in lo stao
93 de quelo aver che De i a dao.
tanto a tronao questa magagna
per tuto, fin a Lamagna,
che ventò ioio g e composo
96 da De chi g e si pietoso,
che 1 a bagna de so amor
la terra chi era senza umor,
e age faito un relugor,
100 zo e de novo emperaor,
chi per tuto unde s aduxe
mostra crexe soa luxe;
che de ben a si gran fama,
104 ben par certo che De 1 ama ;
servior de De veraxe,
ohi per tuto monna paxe:
quaxi ogni terra se gè da
per la gran bontae che 1 a.
per zo cascaun 1 aprexia
che campion e de la Cexia.
tuto vor, e no vor parte;
e tuto aquiste per esto arte:
speranza avemo, s a De piaxe,
che per tuto farà paxe.
vixitar vor la Terra santa
co possanza e gente tanta»
che queli logi sagrai
seram for tosto aquistai
en ben piaxer e en bontae
de la santa crestianitae
De gi dea forza e bairia
de guiarne per tar via,
e omo faza ovra e lavor
chi sea de lo so honor.
per noi e lui s aquiste
lo regno de lesu Cristo,
porto garnio d ogni ben
chi za mai no verrà men.
LXXXVI.
t>e condicione et statu civitatis JànU^
in persona cuiitsdàm dotniiu
filiorum (e. Lxxix).
D un accidente chi e stao
grevementi son turbao;
conpassio ne de sentir
caschaun chi 1 ode dir;
che lo dano e tanto e tar
che tuti tocha per enguar.
1:
75. li. 83. pò Itusir. 112. està, LXXXVI, 3. ma.: con passione, Corr.:
passion ne de sentir. 6. scritto enguar^ onde la stampa per enneguar, iti
qiiella cifra non rappresenta mai la sillaba ne, bensì n o en^ e qui é
perflua.
r so che lo sapia ogn omo,
x>Te in che guisa e corno.
CL dona d estro contrae
izia de seno e de bontae^
onor, costumi e cortexia,
n e soa par in Lombardia;
^ba d ogni beneixon,
rra, dinar e possesion,
8i dexeiver de persona,
igna era d aver corona,
into era so stao adorno,
he tute le done d entorno
^Giunterà la visitavan,
) spess or or la cortiavam,
forte de gente e de terra
per poer far paxe e guerra.
tìoì aveiva tai o tanti,
ntasna de servi e de fanti,
^0 tanto enor e de tar poer,
richì e ornai de tanto aver,
che sempre en grande onor crexean,
che nomerai no so poeam.
^hesti fiior con lor masnae
cn tanto son multiplicae
che tnti d un mesmo cor
*^ habitai d entro e de for.
^ dir se sor per antigeza
che de tanto gran drueza
^ 8oren li arbori squarzar
^ le naesse acolegar.
■^oe, per lo peccao, sapiai
* « la per fin inter osti frai
d. «ec. xiu-xiv. 265
naxe tanto odio e ranchor
e breiga chi dura anchor, 40
e de tal guisa se comoven,
che grandi, mezan e picen,
per gram richeza de lor maire,
son devegnui de mar aire. 44
quella chi tanto honor dixeam
en in ovre gi faxeam,
preisela a desprexiar
e grevementi iniuriar; 4S
che per overa de demonio
vossem strepar so patremonio.
tanto e crexuo lo lor foror
che travaia son inter lor; sì
che, per grande engordietae
de sezeosa voluntae,
lo grande arder che li an in cor
a congnao xama de for, se
e bruxao case e gran poer.
per compir so re voler
monti omecidij g e faiti,
per segnorezar 1 un i atri. eo
a la maire tanto bona
am misso man in la persona
per gamaitar e per firir,
e an squarzaoli lo vestir. gì
tanto e crexua questa tempesta,
lo rar li an levao de testa;
vegnui son in tanto fogo,
amor ni paxe no g a lego. es
chi vor tegner drita lignora
alo e cazao de fora.
^^Oì^ ha pure il ms. 9. esU, 20. e spessar la, 29. qhesti; pare mi e coN
'*^ in q. Forse V amanuense avea scritto chesH (= che sti^ che questi), e poi
**• correggere: qtiesti. 46. e in ovre. 49. ouera è scritto, non ouvra .
'^^ttHitat. 56. il ms.: acongnao. La stampa (icongnao de; ma questo de
w. *^ ^e^e nel ms , e solo e* d un c2, ma cassato. Corr.: a congriao (cfr. lui,
^» cnvni, 7; cxxxvi, 56). 66. così nel ms.
£66
la maire ▼eraxementi
72 par banddzar eternamenti.
de rapina e de mar prende^
e per strepar e per offende,
assai de sti malvaxi frai
76 son si crexui, e si montai
en soperbia e en van onor,
poestae no voren ni segnor;
Yoiando vive senza frem
80 de iustixia e de ogni ben.
e se regatam tuta via
de montar in segnorìa;
no an cura de bon faìto,
84 se no de gariar 1 un 1 atro,
e perenser o per gran peccae^
che tuta questa hereditae,
o per torto o per biaxo,
88 prenderai seme tal squaxo,
che se De gran perdonaor
no a pietae de lor,
che tardi se leveran^
92 se 1 aoto De no^gi darà mam.
e tanto son desquernai
la dita maire e li frai,
che de paxe no se spera
96 se no da quela man sobrera
de De mesericordioso,
chi za mai no sta ascoso
e chi in ogni gram ruina
100 sa dar conscio e gram mexina.
lo quar sempre pregar demo
per lo perìgolo che noi avemo,
che gè mando aconzo e paxe,
104 chi sea si frema e si veraxe
che caschaun in so stao
Lagomaggiore^
se trovo reconciliao,
abiando semper in memoria
d aquista 1 enternar gloria.
Lxxxvrr.
De beata Virgine Ckristum tenentem
in gremio (e. Llxx).
Santa Yergen chi tenei
sempre leso Cristo in brazo^
con lo quar voi sempre sei
en perpetua solazo,
e cossi ve trovo star
en tute zexie enpente^
voi deiai a noi mostrar
de far pur lo semeiente;
e si semper aver in cor
quelo doze fiior vostro,
per guiar d entro e de for
ogni faito e drito nostro;
che omo no possa voler
ni cessa far ni dir
se no tuto so piaxer,
ni da lui za mai partir:
si che noi zunti da lui,
lo ne conduga in la per fin
a queli logi benastrui
chi d ognunchana ben son pin»
LXXXVIII.
In accipiendo uxorem (ivi).
Quatro cosse requer
en dover prender moier:
zo e saver de chi el e naa;
e comò el e acostuma;
ios
s
»
Ì6
io
72. per^ ovvero bandezaa, 84. la lezione è incerta, potendosi pur leggere gon
nar, 85 il ms.: penser. La correzione è evidente: pensar, 88. prenderaé —
92. le prime due lettere di aoto non ben chiare. LXXXVII, 12. dito.
prendamo tal pagamento
Rime geoDteBi d. sec. xiii-xiv.
e la perdona dexeiver;
e dote conveneiver.
se queste cosse gè comprendi,
8 a nome de De la prendi.
2&T
LXXXIX.
Multa bona legimus sed non
inmitando servamus (hi).
Che Tar lezer e inprender,
e assai raxon intender,
meriti e segni tanti
4 che noi lezamo de li santi;
8 omo no pensa de far ben,
e astemese comò li fen
da li mai chi son si spessi,
8 or far forza a noi mestesi?
endemo a tempo e dinar speiso
chi in scora no a preiso.
che Tar tanto aver lezuo
12 e DO aver bontae crexuo?
a noi devem comò a quelig
chi in iardin e sta d atrui,
e d asai pome a preso odor,
le ma no a maniao d alcum de lor.
assai de ben od amo dir
che ne deleta in aoir,
e qoaxi un odor n avemo,
so ma per lavor no mastegemo.
questa vita miserabel,
ilnitiva, no durabel,
n e por presta da lo Segnor
H per far tae ovre e lavor
chi sea utel e adorno;
'^ che in la fin de nostro iorno
chi pu sea ca d un cento. ss
ma chi sera stao ocioso,
negligente e dormiioso,
pecco o niente lavorao, ,
se troverà vitupera©; 3«
e mise in eternai preixon
unde no e redencion,
ma gran pianti e zemi menti
e batimenti grandi de denti. 36
chi donch^ ode tanto dir
e preicar e amonir,
per che no penssa de far ben
so lavor, fin che iorno ten? ^
assai e homo bestiai
chi se precaza lo so mar,
e chi da lonzi no precura
anti che sea note scura« 44
che no e certa veritae
che lo mondo e pur vanitae?
guarda, che cento agni e viscuo,
de quanti deleti ai avuo 48
en che ne tu a presente,
chi for morrai in presente?
forzate doncfaa in esser scotrio
e prender tosto bon partio. ss
XC.
Contra homo qui habet semper
malam int$npc%onem (ivi, tergo).
Chi vor semper con nechizem
strepar, noxer e offender,
De gi dea con gratizem
longa vita e poche a spender. 4
5*^^XIX, 6. asUner$e. 8 o far, 46. che\Ve mista d'o 49. questo verso
seorretto. Forse: 9 che n aitu*. (e che ne hai tu).
S68
Lagbmaggiinre,
XCI.
De éUtmpno parcialitatum (ìtì).
iPer zo che monto me peisa
che la guerra e tanto axeisa
de malvaxe voruntae
4 chi son per vile e per citae,
no me posso uncha astener
che no diga me voler,
e da la lor desension
8 no faza alcuna mencion
dime voi chi sei da parte,
che guagnai voi de questo arte^
d onde o sei tanto animosi
12 e de iniquitai raioxi?
e pensar voi che lo meschina
o sea guerfo o gibellin,
en quanto dano e spessario
16 1 a metuo 1 aversario,
chi mai no cessa ni fina
de mete 1 omo in ruina;
e quanto da amaror grande
so questo chi par doze amor,
non monterea za, zo creo,
p esser preiso, sun tal breo;
ni aproximera a logo
U de cossi ardente fogo,
chi a proao questa tempesta
en la per fin la manifesta;
e quanto se ne segue dano
ss ben se sa in cho de 1 ano.
guerfi e gibelin ne spio,
ma d alcun n o ojo
s eli fon homi o demoni;
ma par a mi che li son connij a
chi an squarzao tuto lo mondo
e derivao en gran prefondo.
che guagno sente con avantaio
chi porta questo nomeraio, ai
chi 1 omo ten si azegao
che vexinanza ni parentao,
paire, frai, barba e coxin
guerreza con si gran polvimf 4ù
che se g avessem a partir
cosse, comò se sor dir,
d onde se sor naxe garbeia,
no n averea maraveia: «t
ma pur la sora voluntae
chi regna in lor per le peccae,
noriga questa marotia
semeiante a la giroxia; is
che ogn omo che 1 afera
manten semper in mortar gaerra»
ni mai de esto mar guarixe,
segnando ogni breige e rrixe. stf
se paxe fan alcuna avia,
tosto an faito rechaia;
ni gè var pur un bello evo
far matremonio de novo; tt
ni per beiver ni per maniar
li trovo uncha meiorar:
paxe de bocha no var niente
se lo cor no gè consente. A>^
questa marcita compagnia,
che lo demonio guia
chi aspeita pu in la fin
de tormentar queli meschin
XCI, 7. e de, 10. questa, 13. correggo: pensai voi (pensate voi). Ma si ha
tuttavia, fino al vs. 31, una dizione torbida e stentata che mi fa apspettare di
altro errore nel testo. 19. grande amaror, 23. aproximerea, 29. forse: ...«
gibellin e spio, 40. il ms. poluim o peluim^ chd Tuno e T altro può lag*
gersi. 43. d onde sor, 47. ms.: no riga, 48. ms.: se meiante. 53. alcuna
via, 64. qui dee mancare un verso.
Rime genovesi
Te diro che guagno rende:
1 aver desipa e la persona,
17 e tosto fa manchar 1 anonna;
e 1 anima de lo meschin
case in profondo romolin,
tirai da quelo mar guerre
TI a chi elio era andao dere.
chi cozi posaar no vosse
Bo e bon che la reposse.
che mai no e 1 omo parler
15 senza paor de so guerre.
e ae tanto a yento in proa
che 1 exa for de casa soa,
corno corre gran fortuna I
^ che apeso lo zazuna;
li dozci bochonin a rajri,
ma speso a de li amari;
ni tegnando questa traza
D mania cessa chi prò gi faza.
en dormir comò a re lete!
che g enimixi a in sospeto;
Tiazamenti e despoiao
n io che in gran tempo avea amasao :
asi squiia con asbrivo,
corno fa 1 argento vivo,
ma lo mato no se pente
•I 8e no quando penna sente.
1 omo chi francbeza avea,
^^ur andando unde vorea,
oUigao servo deven
85 d alcun segnor chi lo manten,
^^ la in ben de lo meschin,
^^ So lo tem sempre sovin;
d. sec. xui-xiv. £69
e sperando tornar in stao,
sempre se trova perezorao. 9^
si che quando e afolao
tardi lantor e apensao ;
e de 1 arror che 1 a tegnuo
se ten morto e confonduo, io3i
e s alamenta infra si,
digando : cime tristo mi,
chi son si in mara via
pur per mea gran folial 107
anti vose e a me vexin
baxai li pei sera e matin,
con lor stagando e solazando,
e seguir per via andando, Ui
car per far si mar biaxo
presa avesse si gran squaxo:
ben m a la guerra malvaxe
mostrao cognosce eh e paxe. iis
lo pensamento che fa questo
chi de guerra e sta si pesto,
per che no fa caschaun
anti che guerreze alcun? no.
a lo segnor De piaxe,
che chi comenzar vorese
guerra, travaio ni cembro,
faesse in anti osto penser. isa
XCII.
De non eundo de note (e. lxxxi).
Chi tropo usa con homo van
o marandrin o noitoram
per ree ovre seguir,
no sa uncha ben szhoir: 4
m
Uas.: la nonna 70. tiraa, 80. lo h è scritto con un'appendice sull'asta,
* *Uiiatra. 97. se lo^ o si lo, 99. pezorao. Il ras.: pezorao. 104. ms.: e sa
'^'••«nte. 108. avese, IH. seguii (seguiti), forse mei^lio segur (sicuro). —
"?• ttn, l^.piaxesse.
270
Lagomaggiore,
che 1 aquista mara fama,
e vexinanza lo desaraa,
e levementi e sospezao
8 d aver faito un gran peccao;
per che ven in gran darmaio
lui e tuto so linaio.
luti, andando per tar camin,
12 visto o venir a tar fin.
xeni.
De non laborando in diebus festivis
(ivi, tergo).
Chi a De no fa honor
de festar quando se dexe,
De fargi perde tar or
4 per un iorno pu de dexe.
XCIV.
Quedam amonido de aspectu
mortuorum (ivi).
Poi che la morte no perdona
chi ocie ogni persona,
e Ilo so corso e si comun
4 che no ne pò scampar alcun,
per lo zuixio de De
chi de paga hon e re
de tanto mar o tanto hen
8 chi za mai no verrà men ;
quando tu vei in la per fin
morto iaxer lo to vexin,
guarda tu ehi e romaso,
it
}$
chi aspeti si dur caso,
e vei che ogn omo se lagna
en devergi far compagna:
che monto e cosa meritoria
da li morti aver memoria,
e per quelor pregar devei
chi no se pon za mai valer.
lo corpo roman tanto orribel
che no so cossa si terribel.
tu chi vei quaxi ogni iorno
e la morte ai semper in torno,
per che stai pei gre e durao
en considerar to stao?
e, fin d aor che tu e vivo,
procura con grande asbrivo
d abandonar 1 onor mondan
chi e cossi fuzasco e van,
e ngana corno traitor
tuti soi mati seguior;
si comò pecaor meschin
chi dol aspeita senza fin,
perdando quelo regno biao
che De i a sempre apareiao,
con tanta gloria che zo
nixun homo pensar no pò.
se tu ben gè poni mente
comò acega tuta gente,
ben dirai chi son orchi
e pu bestiai cha porzi:
che monto speso gè son stao
enfra mi maraveiao,
che ni morte ni menaza
ni mar ni ben dir che De gi fac^« ^
40
xeni, 3. fagi (gli fa). XCIV, 16. de li. 37. il ms. ha un apice sull' o
poni, forse per la solita cifra che rappresenta la nasale (ponni), 39. aulS-
h di orchi il ms. ha una cifra che ftuol designare il r o la sillaba re; ma
verisimilmente ò superflua. Per la prima con orchi^ dovremmo sostituire n.
Ts. seguente porchi, forma che d pure del dial. odierno {parchi). 44.
che dir sia da sopprimere, anche per ciò che il verso cresce d*una sillaba^
Rime genoTesi
castiga ni conorta
tarti de via torta;
li segue mar far e dir,
> chi DO devesse mai ferir,
ochetio an desconforto
i vista de lo morto:
faita la sepotura,
im pur in via scura
nancha vicio e peccao
I so cor e norigao;
3 lo morto li parenti
mai ben aregordenti
cun ben far, ni de pagar
le, ponti ni ospitar,
rende convertimento
can bon proponimento;
i no am qualche tormento
he li aiam spaventamento,
enna e de versi tae,
le soe gram peccae,
De a mandao tar or
^ram castigamento lor.
eli scampan no se mendan,
ego che l atrui rendam;
)re retronam viciosi
rter e ogorioxi;
ì so parla am fren
i mesuram comò den.
sempre retronam in peccao
porco e asemeiao,
lavaìandose per tuto
pre e puzolento e bruto;
or in terra fruga ;
vento lo sor lo xuga,
lando far so avantaio,
d. see. xni-xiv.
271
tornar pur a lo lavalo; so
per pocho fa greve remor;
e tanto despiaxe tal or
che inanti tempo e amazao
e ociso e sboientao. g^
e cossi aven a 1 omo,
che morir no sa quando e comò;
nuo ne va comò lo vegne
chi tanta breiga chi sostegno. ss
e che no pensa lo meschìn
che semper ven la soa fin?
si te ven la morte apreso,
che for morraita pur adese. g^
se tu no ai presto conscio
aspeitando tal ronzeio,
tal corpo receverai,
mai guarir no porrà. g^
o, lo Segnor glorioso,.
chi e iusto e pietoso,
en tal caso comò e questo
ne dea conscio presto I loo
monto m ofende un guerre
chi e socisìmo e orribel;
per zo che el e invexibel
me fer de denati e de dere: 104
ma 1 archangelo san Miche
chi fortissimo e possibel,
da ennimigo si terribel
scampando me tire in cel. ]og
XCV.
De quibusdam sacerdotibt*s
(e. LXXXIl).
Si comò nostri avocati
den honorar previ e periati,
orreggo finir ^ anche fenir (lig. odierno: finu feni), 57. ma : dar cun. —
osi il ms.; intendi: de aversitae, 72. lo mesuram. 73 retrona retor-
78. vento sor. 80 torna, 92. ms.: morrai^tu. 96. porrai 104. de
mi. 106. chi e. 108. ms.: scampandome. XCV, 2. dem\ ossia demo;-
piati.
272
Lagomaggiore,
per ordem, o per degnitae
4 che li an d axorvo le pecae,
1 aoto Salvaor tirando,
con man e cor sacrificando,
e a lo povol demostralo
8 per pregar e per loarlo.
ma quando e ne sento tanti,
che dir no porrea quanti,
per andar defonsion
12 a l en tornai perdecion
e morti in peccao iaxer,
e no posso uncfaa taxer
che e no diga qualche raxon
16 en iusta lor presentiun.
voi a De che, so zo lezaro,
• che lezando se correxam,
e che so mende, che g e che;
;;) che e digo pu a bona fé;
e ste parole se li exponne,
pregoli che me perdonne.
ma ser yrai me voren pònzeu,
24 aprestao son de zonzo,
ma ben fa maor mester
mi dovei meigar primer:
ma De chi e bon meigaor
25 sane mi e sanno lor.
cubiti son d aver honor.
d asegnorir lo povero lo;
usa deversi hornamenti,
sotil e belli vestimenti; v
e aver delicai stalli,
e cavarchar grossi cavalli;
maor cura an ca de i otai
de portar speron dorai. »
tropo serea grande ystoria
ex pone lor vanna gloria.
ma in veri tao san Po
non teneiva uncha questo sente, m
e tar or per poco se iram,
ni per amolar se ziram;
sun 1 ira stam dur e boientì,
ni li vego pacienti: ¥
pur tosto se romperea un mur
ca d un homo lo cor dur.
visto n o de si furiosi,
bastereiva can raiosi. ^
astincncia fan grande
en schivar ree viande ;
ma de le bone, ve so dir,
procuran pur de conseguir: si
bon pan, vin, carne e pexi
tuto di cercham li soi mesi.
noi preican e omo zazune,
ma s o visti uncha gente alcant K
3. innanzi al secondo ;>, un pò* ài di sopra della linea, ò una specie d*i
uncinata. 5. d€ cel tirandoì 7. ma.: de mostralo, 10 porrea; il ma.: pcn%
ma con un piccolo a aggiunto iKipra. 11. forse: andar per lor prtsenHmtk
(cfr. T9. IG). Certo, così come sta, il verso non dà senso. UV en iusta te
reprension (cfr. vs. 11)? 21. «e se li cxponneì s e li exponnoì 23. f«r;
la vocale non é ben chiara, e può aversi per un o. Del resto io credo eh»
s'abbia a correggere: se o s'eli;- poni'\ corregp'i: ponser, 24. sonss none
lezione aicnra, poiché e* è ancora innanzi un altro carattere strano o scigio,
non del tutto dissimile da quello che altrove sta per con o per e. Ma qii
consonse non torna; bene sarebbe opportuno asonse o sosonie» 32 ma.: se
fi/. 33. ms.: d*' li cai. 34. grossi; scritto g*ssi, 42 ms.: amo lar^ e la
▼ocale di lar non chiara. 45. ;>u tosto, 46. ms.: ca dun^ con un tratto m^
nanzi al d^ forse princìpio d' altra lettera che non avea qui luogo (cfr. y%, 3). —
Rime genoTMi
ohi proearen de eesser grasi,
questi li son corno tassi.
o corno a segalo guajri
K> la vita de li santi Pajri,
chi usaTan con gran vertue
pan e aigua e erbe cruel
ma chi delichao se pase,
M la loxuria ne naxe:
qoanto e la lor castitae
hen se sa per le contrae;
6 tanto se parla de lor
• che speso n odo gran remor.
chi a fila for o sposa,
da lor foxina stea ascosa;
eciande lor zermanna
n gi stea sempre ben loitanna.
DO digo pu de sto latim:
De sa chi e boa peregrini»
dir gè porrea fin a seira;
15 ma fin d aor gè meto ceira«
86 d aTaricia don dir,
for ve increxerea d aoir :
dà la quar e tanto in lor,
io che tropo g an ardente amor;
ni ponne aver rendea certa
ni in bacir si grande oferta
de dinar ni d aotre cosse,
M donde soa mente posse
ni prenda saciamento.
a chi e fiior no sento
(ni fiior an ni den aTer),
d. aec. xiu-xiv.
chi poi lor fin deian goer,
tutor li vego anxosi
e de peccunia bramoxi.
unde de 1 atro se rangura
desurpar soa dritura;
diversi cleirixi se renoTam,
che 1 un 1 atro re se trovan.
tosto so fé se gi toie
chi candere ne recoie.
tute enzegne e sotiiance
fan per che lor ferta avanze.
ogni di se oferta avesse
se direa pusor messe:
ma pur per offerta alcuna
no se n ossa dir pur d una
lo iorno, comò el e ordenao
da santi chi 1 an conmandao;
e conmandao sea a bostuto
chi no oserva lo statuto,
che per aver ni per dinar
no se pò messa comparar,
de lo peccao de simonia
tuli e thaca la ierexia;
che ni prevenda vego dar
ni prender senza dinar:
chi la da e chi la prende
mortar zuxio n atende,
de esto malvaxe peccao
e grande e picea e amorbao:
con zo sea cessa per ver
che quanto li an e den avei
273
88
02
96
lUO
101
108
11^
11&
fSf7.€€S8€r; così il ms. 59. corr.: an seguio. 64. loxiAria; la prima vocale
incarta, potendo essere un* e. 74. ma.: pegrim^ con un apice in forma di vir-
gola tal r. 76. ceira non assai chiaro. 78. ò scritto m crexer'a^ cioè con
Ve aggiunta di sopra. Eppure increxera par migliore. 81. ma.: pone; onde
può leggersi anche ponen. Ma ad ogni modo correggeremo: poen, 91. forse
de l atro. 93. cleirixi; la scrittura è poco chiara, segnatamente nella
e; pure non vedo che si possa leggere diversamente. 1^. cosi il ms. —
96. / ofertaì lor ofertaì 105. forse condannao sera. 110. tuta.
ArchiTio glottol. iuL, II. 18
874
Lagomaggiore,
de li poveri e certamente,
ISO se DO lor vita e vestimente.
eo tempi trei che voi dir
li provi son trovai falir.
che in lo velo Testamento
124 fon monto re conmenzamento :
che in lo tempo de Daniel
lo De cheli apelan Bel,
faozo jdolo chi so orava,
1» che lo diavoro gè intra va;
e fazando sacrificio
queli previ con gran vicio,
dixean che lo maniavam
13S quanta oferta se gi davam
da quele gente berzignae,
ognunchana di gran quantitae.
de semora monte mesure,
130 bestie asai, con le man fure
cheli previ sorranchavau,
e privamenti devoravam
con gran masna che li avean,
Ilo che in taverne lo goeam.
acor in len tenpi antigi
fon malvaxi previ e inigi,
chi de la terra cran segnor ;
141 e zuegam con gran furor,
voiando far ovre torte,
santa Susana a greve morte
de fogo, per no consentir
]is de lo lor vore re compir.
ma Daniel mandao da De,
quelo zuixio faozo e re
e tuto quelo aceiso fogo
da li previ in so logo,
en li quai fon vituperio
d omecio e d avoterio.
brevementi ve 1 o scrito,
ma pezo fo che no v o dito,
en lo tempo de lo Salvaor
fon li maor perseguior,
con ogni remor e voxe
a dargi morte sun la croxe :
che per avaricia lor
e cubitando aver so honor,
leso Cristo condanam
e axosem Barrabam.
en lo tempo de presenta
son manifeste a tute gente,
che 1 avaricia grande lor
semper acrexe so vigor.
De sa quanta dovocion
eli am in lor oration :
che picem intendimento
g a fin ni comenzanto;
li santi versi de Davi
che se covcn dir ogni di,
quasi si tosto son liverai
comò li son conmenzai.
tanto son de ^uagnar,
che li se meten a zuguar.
p
123. previ\ il r d aggiunto di sopra. 120. ma.: che iù Per isbrogliara il eo-
strutto, io scriro cìuii (iotendeodo 'quelli'). 127. correggo: chi s aorooo. —
131. corr.: che io (o eh eh) maniava, 132. darà. 133. il r di birMìgmm
ncm molto chiaro. 134. U vocale ìd di dod ben chiara. 137. cfr. la BoCa
al Tt. 126. 141. ancor (ma.: a cor)\^ in li, 143. m».: terra. 152. da m h
previì ììj3. fo vituperio. 15C. fo; o mi»to d*a. 158. perseguior; Vi »•
certo. IGG. è manifesto^ o almeno son manifesti. 172. conienia niente. »
177. mi.: tanto ai..t; tra i ed t due lettere inintelligibili. Ma la parola ?••
ricìmilmente é ascai (aaietati). 178. sugar.
Rime geaoTesi
li dai con foror scorlando,
De e santi iastemando.
ma no me par che a laor se faza
[fU9Jt zogo de baihaza
fiperdecion de tempo,
idagando aotrui re aseio.
die poi che lo preve e sagrao
Bui no de manezar dao,
die libero e de 1 aversario ;
idù leze in tar cartorario,
legondo chi fi pricao,
ine par indemoziiao.
quanto dani fan li zogi
!TÌ8to scrito in monti logi.
h dao fa tuto desipar
^|ianto 1 omo a de sperar,
• ambandezar 1 amor de De,
(•iqnarzase da co a pe.
die no de lo preve dar
*lplendor de ben che elio de far ?
e le lo mostra tenebror,
quanto sera lo sor dolor!
ehi prìcha ben e no lo fa,
quanti guai gi yen a ca !
die lo condana si mestesso :
lo se gnarde chic de eso I
kn 80 che de zo son preicai
[/« amonij e castigai :
tta chi in mar persevera
ia non n mai bona spera.
^ lego fa tanto pecar,
tie di se pò per solazar,
le no 1 avei a greve
d. sec. xiii-xiv. 275
dir ve volo, un cointo breve: 212
un che e vi aver perduo
quanto el avea, in braghe nuo
(zo fo de noite a un zogo),
mester li era e roba e fogo; 210
da ca soa loitam era;
e s adormi, alando spera
scadase un pocho, intr un forno,
per andar a casa in anti iorno. 220
una vpia per bon destin,
per pan coxer ben matim,
con soe legno ben apareiae
per far bona matinae, 221
a lui dormando sovrevegne.
oir reeza chi gè vegne!
e lo forno accise fogo:
gi centra far un mar zogo. 228
la gran fiama fo desteisa,
chi de brugo era accisa;
e fazando so lavor,
quello sentir lo gran calor; 232
e agravao de lo dormir,
chi provo fo de lo morir,
e stremortio for sagi.
quando la femena lo vi 236
de gran penser cai te zu,
pensando: questo e Bazabu.
1 omo no fo ni morto ni vivo,
salando con tanto asbrivo; 240
1 un de 1 atro no savea.
or pensai chi aver poca,
considerando infra voi
maor penser de questi doi. 244
W.d«t; Va poco chiaro, e parrebbe un u. 181. ms.: alaor. Correggo: a
' *>*. 183. ni perdecion,..ì 184. corr.: asenio (esempio). 193. lo dao. —
.lW.n».: adesperar. 200. lo so. 204. cosi il ms. 223. ben apareiaa. —
^ ^maHnati. 226. oir; corr.: oi (udite);- reejga; la seconda vocale ò in-
•■rta, e sembra più che e. 228, corr.: g incontra, 232. senti, 235. il
non vuole qnest* e, 242. forse che.
276
Lagomaggiore«
d onde ogn omo de so prego
che no viva corno zego:
che chi tropo in mar se darà
2i8 no pò fuzir desaventara.
de li hon previ non parlo e
chi son gran servior de De;
che ben ne cognosco alquanti
255 chi me paren tuti tanti ,
casti e bon e limosenery
chi tuta la mente ha in cel;
largui, humel e ordenai,
256 e tuti in De predestinai
per veraxe devocion
e monto gran perfecion.
e piaxe a lo Segnor
S0O che li aotri fossem par de lor,
che in lor loso drito
stravozese questo scrito.
de questa gran de gidea
SM che ame oso aver vorea.
XCVI.
De non erigendo se ad inskmeia que
videntur magna in hoc seculo.
(e. LXXXIV).
Che te vai se con gran lagno
en gran faito a desteiso,
e siencia ai preiso,
4 per montar in aoto scagno?
che per ti lazo e tenpagno
no sta di e note teiso,
unde alo serai con preiso,
chi te penssi esser tamagno f
sun un buzo chi no e stagno
sote 1 onda serai preiso;
e De*che tanto ai ofeiso,
chi ve per sotir firagno,
te ferra de tal peagno^
che fé tu eri tropo ateiso
ben parai esser deseixo
dirai: cosi romagno.
men seno ai ca un cavagno,
chi per ti no t e repreiso :
che no e to tempo speiso
tuto in ovra d aragno?
XCVII.
Beda super ilio verbo Apostoli:
gaudium existimate ete, — Mm
indignemini si mala in wmtiM
florent, si vos patimini: ne* a^
enim Christiane perfoetionis k
temporalibus exaltari, sed pteìm
deprimi. Mali enim in celo nieki
habent, et vos nichil in wmib
sepe. Ergo illius boni od fsd
tenditis, quicquid eontingat in iiif
gaudere debetis. Ondo poksi M
vulgariter (iri tergo).
A li bom chi salvar sa dem
mai corrozar no s aperteoit
se Ili re an prosperi tao
e eli spesso aversitae. <
che per veraxe perfection
de crestiana relegion.
247. mt.: sedura, 250. con*.: piaxesse, 262, ms.: straoose so. 263-4.
é scritto. Cambiando gran in grada e oso in cso e cancellando il
dtf, ti otterrebbe un tenso. XCVI, 2. innaosi a e desteiso^ nnita aU*<,
cifra strana. Il modo più naturale parrebbe: t e désteiso. 3. nu.: si cucst
8. innanzi a tamagno é scritto dam^ che però va cancellato, cobm ce m
vertono i puntini. Il simile altrove. 14. cho se.
Rime genoTesi d. sec. xui-xiv.
277
Y no aspetta soa gloria
i ma trìbolation soferir,
l per vita eterna conseguir.
I che segondo un santo dito *
Kde san Beda chi 1 a scrito,
I li re non an in cai a far,
si li bon chi pur atretar.
doDcba sperando lo ben sovran
Biayer lo qua elli semper yan,
che i adevegna in ver lo camin,
den sostener in zogo pin,
. de prende zo per che li andavam
.......
CXVIII.
b$ piUffrinis qui debent compiere
tiagium (ivi).
Chi de far alcun viaio
loitam peregrinaio,
la forta fin da so hoster
4 guarir de 20 che fa mester,
per Tive li onde lo va.
ogn omo Vego che zo fa;
a chi de zo no e avisto,
èroman la mendigo e tristo
a famorénto e desorrao
&i d alcun inviao.
aiDonto g e ben investiò;
teche chi cozi no s e garnio
assai mendigar porrea,
^ mai trové chi gi dea.
egn omo e degno d aver zo
chi no 8 asia quando lo pò. \q
pu mato e assai ogn omo,
chi no sa quando ni corno
elo deia parti de chi
morto per dever star li 20
unde mai noite ni iorno
non avera de za retorno,
ma manchamento d ogni ben
e dol chi mai no yem men. 24
o quanto dol a lo meschin,
e pentimento senza fin,
chi no fé ben fin che poca
e de fin che tempo avea! ss
d onde e o gran maraveia
che ogn omo en zo no voi a,
e vive si bescuroso
en faito si perigoroso. 32
XCIX.
De non habendo in ore aliquot ma-
lum, vulgaliter (e. Lxxxv).
Chi tropo usa iastemar
o scregnir o mar pregar,
a De fa grande ofension,
chi segnor e de la raxon, 4
a lo quar perten punir
e mar e ben retribuir;
si che ogni iastemaor
fa zuxe si e De traitor:
la qual cossa si e gran folia
descognoscenza e Tilania,
centra en quelui soperbir
chi faiti n a per si servir.
8
12
IOYD, 12. ré; sembra ro. 16. corr.: in lo camin* Questo in ver è preso
U n, precedente. 17-8^9. probabilmente scorretti. XC Vili, 4. guarnir. —
H*iiia: ^«,..m vesiio. 16. ms.: sa sia. XCIX, tit. aliquod. 11. forse: tfH-
^^Mv quélui soperbir; oppure, cantra quelui ensoperbir.
278
Lagomaggiore^
de iastemar se trova scrito
un de san Grigo adito:
che in quelo marvaxe forno
16 d onde 1 exe fa retorno,
e queli n am penna e dol
chi in aotri dal la vor.
chi de zo no se refrenna
20 da De n aspeite d aver gran penna:
unde un aseniho voio dir
per far questo peccao fuzir,
e per salver corno alcun or
21 De paga li mar dixeor.
e en Venza era un marinar
usao scregnir e mar parlar,
che De vose atemorir,
28 per zp che tropo usava dir
xachao lo morrò a pusor,
e menazando star con lor.
per tropo dir e mar scregnir
32 parole fen rixa mar szohir:
con pugni e pree e xasi
danse de gran butacasi,
fenrisen e trasen e stormezar;
36 e traito un gromo de sar,
un se chinna per si scremir;
lo gromo fé 1 atro cair,
chi de poi quel atro stava
40 e no ben s aregordava,
e xacagi ben lo morrò e li denti
chi eran si mar dixenti.
loDgo tempo trase a guarir,
44 poi se preise a convertir;
che lo folo no se pente ••
r .
.'t*'
I
se no quanto penna sente»
chi fan i ogi star averti
chi per colpa eran coverti.
ma si pagao corno era degno^
gi parse poi lo segno:
poi da quelo vicio a astegne
per zo che mar gi entrevegne^
de questo asempio odo contai
de monti che De sor pagar,
per zo che li an la bocha fola
en sborfar mate parole,
unde ogn omo se restive
che la lengua no s asbrive
en dir cosse da pentir,
e poi gran dano soferir.
C.
J)e non utendo lihentér in litn
ì)icino utpote periculoso (ivi| tei^).
Chi con yexin o con loitan
a tenza o question a man,
unde pò re voler enxir
o gran spesarlo conseguir,
pu saviamenti che lo pò ^
se forze d acordar alo ;
e chi tropo a lo cor dur
ref renero per star segur: '
chi monti n an aquistai gai
per esser duri e reproai.
chi per ben te conscia ^
che tu exi de garbeia, '^
senza contrastar consenti: «
17. n a. 18. dar, 23. forse sàver; o far ver (far vedere). 25. en Venza» ^
29. xachao oì ocacharì 32. cancello mar (cfr. ts. preced.). 33. xasi; fofÌ0
per saxù 34. dense, 35. il testo pare scorretto. La prima parola , alai«ifi
avrebbe ad essere ferinse;- ms.r etrasen estormezar, 37. ms.: un secTuiìa. •?«>
46. quando. 53-4. scorretti. 55. fole^ per la rima. G, tit. ms.: ul pcuL Foni!
che dobbiamo invece interpretarle: vel procul (cfr. vs. 1)? <
'l^
Rime genovesi d. sec. xiii-xiv.
[mudo ta raxon dir sentì,
m/o te prenda foror ni ira ;
eiiTer la raxon te zira.
ÉOMÌ la gaerra e lo epessario
die te pò far 1 aversario:
ah e Tist o che quando un piao
• grevementi perlongao,
ehe pur in la fin se parte
ooii danno d una e d atra parte.
«ade in lo ben nixun no bestente
obi se pò far a presente;
èbe un mar ne tira dexe
ri corno fa de le cerexe;
ni mai alcun no vi falir
;ls «n far paxe temporir.
279
CI.
Ik quoàam malo yetne qui duravit
de mense octobre usque marcium
(iTi).
Ben son za vinti anni pasai
eh e no vi cotal j verno,
che li omi an deslavoral
èe faitl star gran parte inderno.
lo sol no a daito splendor
per gran grevor de nuvelao,
t o gra re vento e stao spesso or
esL vrostro dauo avexendao.
jd renovar o visto luna,
Ssa e passao pu de trei meixi,
jÌm no con bruda e con fortuna
■l^de vento pobio e bachanexi;
inm troin è lampi e gran zelor,
gragnora e lazo e gran ne vere,
chi n an guerrezài tuto or
en monto guise e mainere. 16
ma chapeler e zocorai
per li gran fangi e tempi croi
an guagnao ben assai;
se no che son manchai de szboì. so
e questi tempi marastrui,
zo me par e si se dixe,
da lebezho son vegnui
chi n e stao sempre raixe. 2i
ma piaxa a De che vento gregò
chi de lebezho e contrario,
d esti re venti sean mego,
revozando cartolario. 28
ma per tuti esti caxi re
no de 1 omo mormorar
ni corrazasse centra De,
chi sa ben che 1 a a far. 32
che s el e paire e noi fiioi,
li qua lo ve semper falir,
per meio dane li ben soi
ben ne de bater e ferir. 36
che enderno e mato stao
chi de lo mar no sosten dano;
e no sempre amo meritao
d aver mar, breiga e fano. ^o
che meio sa lo mego bon
zo che a 1 emfermo fa mester,
cha quello chi iaxe in passion,
chi sempre a gran dol e penser.
un de ogn omo deverea,
per scampar de mortar penna,
piaxer zo che De farea,
44
Vi
si comò fan le...ì si corno fai de le,.,ì CI, 3. a deslavorai. 8. nostro, —
Ukruda; )a seconda lettera e la terza non assai chiare. 14. iajto; Vo tira
poco air«. 15. ms.: tptuto or; dunque da leggersi tuto or, 20. ms.: cfe-
rJM. 27. sea. 31. eorrozasse^ 39. noi, 40. ms.: e fano. Intendi: e afano,--
ione a ogn omo.
S80
Lagomaggiare,
48 chi cel e terra guia e menna;
e semper avpi li ogi inver lui,
chi nostra luxe e segno;
chi cozi n a mixi nui
52 per vestine in lo so regno.
CU.
Litera missa per dominum Simonem
domino Romino de Nigro
(e. Lxxxvi).
Christus qui ad nucias fecit aquam
vinum,
quod voluit gustari voluit per ar*
chitrichinum,
III faciat incolumem dominum Romi-
num.
Rex qui regit machinam mundi
monarchie
sue sit regiminis dux potestacie ;
cuius sic ad dominum diriga tur
vie
TU ut beare valeat in extremo die.
E so ben che e son colpao
e degno de disciplina
(e se no n o tosto meixina
perduo avere lo piao),
5 per aver tropo tardao.
tropo son stao negligente
e vnir comò e promixi,
ni a voi letera scrisi:
d oi in deman lasa la gente
zo che se de far a presente,
quanvirde che de venir
sai ben scusame posso;
no fo fil sotir ma grosso
chi m a tegnuo a no partir:
ma tropo gè serea a dir.
ma no penssai in vrosto cor
che 1 amor sea refreidao;
che se son stao envexendao
d entro pù che no par de for,
si corno dixe san Grìgor;
e pur, che sea entrevegnuo,
fali o, pentio son;
per zo demando perdon,
e meto zu ogni arma e scuo,
e ssi me iamo esser venzuo.
ma nixuna loitanura
pò partir veraxe amor;
che sempre veia lo vigor
con gran penssamento e cura;
che tropo e gran soda ligaura.
e se no che lunsenga par
manifestar lo so voler,
cognosaì questo per ver:
a pena un ora posso star
senza de voi aregordar.
pur che 1 omo mar no faza,
for adeven per lo meior
i amixi veìse rairo or;
i«
19
50. chi e. CU, II. qìAod gustari voluit per,,, *^- vi. dirigantur mce;~ cuius ^ ^
ms. cMt;- sic ha pure il ms., non sit (cfr. Arch. stor., p.57). 1. la proseo^'^
lettera in volgare segue immediatamente, .senza alcun titolo, alla precedei
latina; per ciò ho creduto bene di non separarle, considerandole come una
tera sola, diretta allo stesso Romino Dinegro. 7. corr.: e venir (in venire). '
11. ms.: quanvide^ con cifra suIPt, equivalente a r. 16. ms.: urosf. 18. qx^*
sto se scompiglia il senso, e converrebbe espungerlo^ o almeno mutarlo in tt. '
22. ms.: falio, 25. ms.: essi meiamo»
tUme genoTMi
che lo 86 Sor dir per piaza:
40 chi verrà pu streito abraza.
^de fin a quai o prometuo
▼egnir a voi, e for boxia :
en la contraria partia
promession canio e mao,
45 se per boxar don fìr creiao.
ma a voi pu no me defendo
ni voio dir atra raxon;
ma removuo ogni caxon,
a De e a voi m arendo,
so e iusta persona atendo.
de merito e la curitae
e 1 amor e o me e tenei;
che de queluy pagai serei
per che tute ovre de pietae
» oon a la fin remunerae:
poi che sei stao comenzaor
aviva e alasgavada,
eh e tegnoeva iosa in faoda,
e daito m avei baodor
00 a dover scrive tot or.
per zo che no son in ci tao
no ▼ o pa tosto rescoso;
de mesi son besegnoso
per chi letere son dae;
60 chi no serean tanto stae.
tata la vostra masnaa,
che a presente e no anomo.
De chi preise forma d omo
d. set. xm-^xiv. 281
la faza sana e biaa,
e sempre viva consolaa. fo
Sepe quidam caritas quibusdam
occupacionibus per pendila exte-
rius non appart^t in opere, et ta*
men totam flagrat in corde.
CHI.
De nocimento casianetnrum,
(ivi, tergo)
Chi per vila o per montagne
usa tropo le castagne
con vim brusco e con vineta,
sonar speso la trombeta. 4
e Lavicena comanda
de no usar tar vianda,
chi fa tanto vento agrego:
schivaira, e ve ne prego. s
CIV.
QìMndo caniungitur viro con WBoreni
(ivi)
L aotissimo segnor De
chi forma Adam e Eva,
per lo quar ordem primer
tute lo mondo se leva, 4
questo novo matremonio
zonza in lo sor amor;
41-2. per ottenere il senso bisognerebbe, parmi, cambiare quai in qua (col
oignificato di qua it) e for in fo (fu). Su questo emendamento ho regolata Is
ialerpuozione. Il ms.: aquai, 42. e for\ veramente la vocale eh* io trascrivo $
tien piti deiro. 50-1. ho messo punto dopo atendOy benchò dubbioso del sen-
00;- persona errato per punitionì 52. correggo: e o me tenei. Il ms : come
#•.• CQ.paffao, 57. così nel ms. Forse: a acri (o avrive) la sgavadaì —
tt. correggo: tegneva. 62. corr.: resposo (risposto). 70. segue immediata-
aottlo ai vt. volgari un testo latino, oitato al vs. 20^;- exterius e tam^n nos
ai logsoiio ohiaramonto nel mo. CHI, 4. «ono;- ms.: la viuna. CIV, 6. «o.—
282
dote e aver e patremonio
8 n acrexa con tuto honor.
e la soa man presente,
santa, forte e ver tu osa
beneixa eternalmente
12 noi e lo sposo e la sposa;
e quelo De chi n a mennai
a star inseme està matin,
ne monde da ogni peccai
16 e ne conduga a bona fin.
CV.
De non Jiabendo grave ieiunium (ivi).
Se tu considerasi ben
zo che li santi Paire fem,
chi d erbe crue se pascean,
4 ni de vin mai no beveam,
lo zazunar chi ve par fer
ve de parer monto lenger.
o chomo e bon per pocho afano
8 schivar grande e greve dano I
evi.
Quodam moto notabile de barba (ivi).
Non e za ben raso
a chi e romaso
gran pei soto naso
4 per man negligente.
per picem pertuso
chi no e ben viso,
gran legno e confuso
8 tar or con gran gente.
per un sor peccao
no ben confessao
Làgomaggiore;
un homo e danao
sempre eternalmente.
fin che tempo ai
fa quanto ben sai;
che quanto atro fai
retorna in niente.
is
18
CVIL
De quodam presbitero (e. lxxzvu).
Se per dir asai parole
e preicar a gente fole,
se devese conseguir
mao offerta in me bacil <
o dinar in borsa mea,
assai preicar me par che preicherea. 6
CVIII.
De vivendo de suo labore (ivi).
Chi vive de insto afano
tem segur e bon camin;
ma chi cercha de esser pin
d atruj cosse con egano, ^
quando ven in co de 1 ano
se trova pur pu meschin;
e moirando in la per fin
no sosten eternai dano. 8
CIX.
De quodam qui paciebatur in oculo
(ivi).
Em per zo che peccar solo
centra De per me orgoio,
se o penna nenoio
zo che o firao desvoio. 4
CV, 8. la prima vocale di greve è cassata. CVI, 6. corr.: iuso, CVII, 6. as-
sai me par che preicherea, CVIII, 8. ne. CIX, 3. ms.: néoto. Forse: s eo
penna ne recoio (raccolgo), potendo quella cifra, che propriamente vale n,
essere scritta per isbaglio in cambio dell* altra che rappresenta r o la sillaba rg.
Ma ancora mancherebbe il e. Meglio: se o jpénna ni enoio (cfr. inoio lxxv,58). —
Rime genoTési
ina de tato zo me dolo,
p«ntio soDy e preigar.Yoio
De chi me sanne d esto oio,
B e san Columbam da Bobio.
ex.
De quodam qui decipit pluries
qt4endam (ivi).
Chi me engana de monea
pa de doa via o trea,
s mai DO entra en casa mea.
CXI.
De eupiditate sacerdotilnM (ivi).
E creo veramente,
che quando an preve consente
un qaiston tanto preicar
4 quando iorno e tanto da lavorar,
che unto 1 a de qualche seo
«hi lo fa cossi star queo;
« for misso li am in man
t l»eiver o zenzavro o safran.
TÙ zo maraveia me paira ;
<be quando 1 omo e in so aira,
din che par venir oxello
- no de laxar lo cazanelo.
CXII.
Di custodiendo gladium in tabula
(ivi).
Se coteleto voi guardar
a noze taiando carne,
d. sec. xiu-xiv. 283
per no deveite poi manchar
se sera mester taiarne, 4
quando ai taiao dexeivermente
per fornir toa ventrescha,
alo torna encontenente
to cotelé a man senestra. g
che se a man drita roman,
tardi tornerà a man toa:
ma va pur de man in man
corrando da pepa a proa. is
CXIII.
De moribus qui fiunt in sancto Mar"
tino (ivi, tergo).
Se De V ai e voi poei,
respondime se voi savei
d onde pò adevenir
una raxon che volo dir: 4
per che se beive tanto vin
en la festa de san Martin,
con tante sirene e benvegnue
chi tute son cosse perdue: s
che tanto beive alcun meschin,
che de envrianza sta %ovin ;
ni pon alainar parola,
ni movese, chi lo dola. 12
che e so ben veraxemente
ni gè dubito de niente,
che questo nobel confessor
chi in cel e de li maor, id
fo de grandissima astinencia
e de forte penitencia;
e che inter soi interior
entrava vin monto rair or, 20
6. corr.r pregar. Ugo mal fatto, e si scorge che prima era scritto preicar
(predicare). CXI. tit. sacerdotum. 4. quando iorno e da lavorar. 9. forse
ve pavra. CXII, 2. ms.: anoze. CXIII, 1. ms.: vai. U.po. 12. croia.
284
ni alcane cosse drae,
ma usava erbe e aigua eroe.
d ond e questa usanza naa
84 chi tanto e multiplicaa?
sapiui che gran marce farea,
se quando voi preicar devei
voi amaistra le gente
28 de muar questo accidente;
e tener streito senter
se montar vorei in cel;
ni tropo belve o manìar
32 li faza za prevaricar.
ma tanto e tegnuo 1 uso
6 per tuto si defuso,
eh e creo pu per certo
30 che o preichereì in deserto.
CXIV.
De Albingana, quando fuit in Ri'
peria con domino vichario (i^i)*
Albigana e bona citae,
8e la vivesse in unitae:
en bello lego e coroponua,
4 de monti bin la vogo drua;
e, segondo la ri vera,
sol aver bona pescherà;
e monto vile gè descenden
B chi a la terra guagno renden.
d entro, de for, lo so terren
▼ego eser pìn de ogni ben.
a monto ben a habilaa
i> de gente ben acostumaa;
che savi homi son per ver
if
u
*
La|[oaiaggitorei
e cortesi, a me parer.
ma ben so, in monto terre
de drueze naie guerre
e divixion per la citae,
chi han diverse voluntae:
che per tropo carregar
visto o monti arbori spezar,
e le mese tropo drue
per terra star abatue.
e de tal mar me peìsa a dol
s està terra sentir sol.
per che me par eh e possa dir,
se no encrexe a voi d oìr.
meio e dir ben e ascotar,
cha ocioso o greve star; ^
e per venze breiga de for
bon e prime venta so cor;
ni atra virtue no me par
se no la menta refrenar, ^
e zo de ben e om ode dir
poi che o inpreiso, e far e compir. S4
per De, segnoi Albinganaxi«
entro voi sea amixi;
no ve zonzi con Marchexi,
per che voi seai ìndivixi. ^
1 amor vostro e pur valeiver
entrego cha sparpaiao;
ognunchana cavo roman saÌTar
se n e pu un lignor for mermao. ^
guardai ve de descognoscer
forzanie star in bona bancha:
e lo ben vostro aor cognoscer,
no miga quando pur elo man cha. «s
che 1 ennimìgo ne persege.
^. aigua e erbe crue. 25. farei. 27. dmaistraù 30. voren; il mt.:
colFi senz'apice. CXIV, 1. Albingana. 17. forse le^ o piuttosto ha nA ▼«. 9^
gneote. 31. atro, 33. ma.: corno de dir. 34. correggo: e inpreiso* 39. ^ml*^
44. panremi di poter leggere anche forsarve^ ma non se ne vaataggiA il mb*
•0. 46. direi di espongere qnel pur.
Rime genoven
obi a li sol la gora seiga,
e ogn omo chi lo segue
80 menna enter mortar breiga.
e a monti 8oi faxeoi
grandi e pizem per lo mopdo,
de guerra mantegneor,
54 per tirarli poi a fondo.
per ira raxon se liga
e se noria lo cor de 1 omo;
e si lo fa ensir de riga
it ohe lo no sa conosce corno.
la gente son monto perigorose
e ognunchana parte e logo
d 4)nde la gente son danese :
m per De, guardai ve de tal fogo.
e caschaun se guardo testaeschin-
[che,
grande e picem, aoto e basso;
che tal se creo citai se, cinque,
« chi perde pu per doa e aso.
lo segnor De ve ne defenda,
e sea vostro guiaor;
e a bona fin ve prenda,
90 e ve mantegns^ in stao d onor.
CXV.
Be aleluya (e. lxxxviu).
Zhu me piaxe in mea corte
aJIeluya con bonoe torte,
cha laus tibi Domine,
^ ohi xacamento d omi e.
1 un sempre aduxe benne nove
^o e formalo e carne e ove;
d. 860. xiii-xiv. 285
1 aotro sempre ven con fame,
con erbe o lemi o inzisame: ^
1 un mantem 1 omo san e fresco e
[graso ;
1 aotro lo ten magro e paso,
che quando quareisema ven
si ve diro che m adeven:
un re mercao a ca me aduxe,
no me goe var raxon ni zuixe;
che alo me g e daito 1 arre
de rema, tosa o cataro;
e in zentura o in brager
doi ponit e son traito in dere:
tute 1 ano o assai a far
a retrornar in cavear.
per che me par senza falir,
de fin de chi el e bon sbadir,
che da no possa retornar
fin a lo di de carlevar.
12
^
20
24
CXVI.
De providendo de aliquo interesse
(ivi).
Chi breiga venir se sente
o alcun greve accidente,
ben da ra longa se de fornir
de cessa d averse de scremir;
e no ese lento in spender
per soa raxon defender,
ni mai esser dormiioso
en faito perìgoroso:
che meio e prender conscio
anti che fera lo ronzeio.
8
^0-60-1. scorretti. 65. citar (cioè gitar, gitar\ cfr. li, 20 e lxiii, 37). —
CXV, 12. ms.: che ma de ven, 18. ms.: doi ponile son 20 corr.: retornar^
« fora' anche refroiiar;- Ve di cavear non ben chiara. 22. ms.: tle bonsba'
4ir, 24. ms,: cor le var.
236 Lagomaggiore,
cha poi che lo corpo e trailo,
is dir: cossi avesser faito.
CXVII.
De rustico ascendentem in prospe^
ritate (ivi, tergo).
E no so cossa pu darà
ni de maor prosperitae,
corno vilan chi de bassura
4 monta en gran prosperitae:
otra moo desnatura,
pin de orgoio e de peccae.
grandeza centra dritura
8 despiaxe in tute contrae,
per zo che in lui no e dritura
ni cortexia ni bontae.
visto n o de tal aotura
12 chair in gran meschinitae.
CXVIII.
De rustico ascendentem in potestate
sive in baylia (ivi).
Cognoscenza no s asconde
de vilan chi a bajlia;
che for de raxon desvia
4 e li soi vexin cofonde;
ni ben fa ni ben responde
ni usa de cortexia;
ni per lui ben se cogria;
8 per poche fa soze gronde;
in mezo e da le sponde
tristo quelo chi se gè fia:
a la per fin se mal se guia,
12 ven che soa nave afonde.
CXIX.
De proditoribus (ivi).
Chi denanti m e corteise
e dere m e noxeor,
e 1 o asai per pezor
cha 1 ennimigo pareise.
1 un mo mostra le ofeise,
e guardandomene alcun hor:
1 atro asconde so furor,
per ferir de manareise.
cxx.
Quando dominus non iudicet ctfm
furore (ivi).
No se dexe Bt alcun segnor
en zuguar aver furor;
che fin che 1 ira ven in cor,
la raxon roman de for.
e tute quanto 1 a rapio
de quelo chi no 1 a merio,
gi tornerà si inpostao,
che tristo lo mar agurao !
ma chi punisse con dritura
soa terra fa segura;
e chi bescura lo punir
fa soa terra somentir.
CXXT.
De utendo in mane parvum do hono
tino (ivi).
De stae che la gran calura
e le tavanne e li negin
fan li corpi d imor pin
8
8
it
CXVI, 12. aoesse o atess e (avess'io);- segue al vs. 12 o quest* altro: e no so
cosa pu durot con una croce a sinistra, primo verso del componi m. susseguente^
ove ò riscritto. CXVII, 2. perversità^ ? 7. contra natura ? CXIX, 5. me mo^
stra, 8. cosi nel ms. CXX, 2. zugar^ o zuigar. 7. inpestao ?
Rime genovesi
4 e enfermar can penna dura;
per schivar ogni malHra,
dixa maistro Kobin
che chi sa siropo fin,
8 gentir, nao de grande aotara,
per confortar la natura
ne prenda ogni matim
no tropo, ma pochetim,
12 in conveneiver mesura.
e 20 loa la Scritura;
e pusor nostri vexin
sempre usando nostro camin
16 dixem che el e strae segura.
CXXII.
De nostri cives antiqui qui sunt male
dtspoxiti (e. Lxxxix).
Qreyementi me despiaxer
che li nostri maioranti
de mar far son si ranti
4 che nixun de lor a paxe.
luto lo mundo e malvaxe ;
che grandi, mezai^ e fanti
ardem de yìcìj tanti
*s Como chi fosse in fornaxe.
conturbao ogni cor iaxe,
quaxi tuti son erranti,
ma De voia e li soi santi
^ che, segondo a lui piaxe,
eie tar e tanto amo li abraxe,
«he de lor se cerna alquanti
«hi apage li xarranti
^ «n tranquilitae veraxe.
d. sec. xiii-xiv.
287
CXXIII.
De terrore parlamenti (ivi).
Se pusor an strenzimento
per penser d alcun tormento,
quando sona parlamento
d unna poestae segorar; 4
e per eh e no me spavento,
chi tanto ofeiso me sento,
de lo fer zuigamento
de lo gran re celestiar, ^
chi tuto ve ode e sa
quanto omo dixe e fa,
se pagamento atrui da
ni mai alcun gi pò scampar? 12
a e tal pendente ogn omo sta
senza chi aver ni stallo ni ca,
per che no penssa d andar la
donde alcun ben no pò manchar? le
o tristo chi morir se ve,
que li mar segue che lo fé,
e si portando da tar re
de senza fin penna portaa! so
donca ogn omo forza se de,
con drite ovre e con fé,
de far vivando h> per che
sempre con De possa e regnar. 24
CXXIV.
De no trepando manescamenti (ivi).
Se per trepar manescamente
e per aotrui desprexiar
CXXU, 1. despiaxe. 3. cosi chiaramente il ms. L*Àrch. stor. nanti, e così
forse (0 meglio in antt) possiam coiTeggere.
288
o mar de lui dere parlar
4 se corroza tante gente
tegnando in furor ardente,
ogn omo de so cor forzar
e refrenarsse, per schivar
8 cossi mortar accidente,
che chi somenza consente
malvaxe in soa terra star,
se dano no vor multiplicar?
18 doncha zetese a presente.
cxxv.
De ilUs qui faciunt alieno sìm (ivi).
Chi fa 1 aotruj roba soa
e no 1 o per bon vexin;
ni mer par ben nozher fin
4 chi speso no guarda in proa.
nixun omo to pan roa
chi aia nome d asaxin;
ni se 1 a lo cor volpin
8 no 1 usar in casa toa.
en omo chi mar far voa
no me par de seno pim.
en trar ben toi fai ti a fin
12 guarda ben testa e eoa.
CXXVI.
»
Litera misa domino Conrado de Auria
per Nic. de Castelliono (ivi, tergo).
A 1 aoto e nobel armiraio
de excellentissimo avantaio,
chi sempre e da fir loao
4 per le ovre che 1 a mostrao,
liagomaggìore,
meser Corrao Doria e dito»
chi se pò nQtar per scrito
de tar raixe eser insio
chi tuto 1 arbore fa xorio, i
Nicheroso da Castiion
con ognunchana devocion
si humelmenti se profer
comò de far servo a so ser. »
quanvisde eh e sea certo
eh e vostro seno si experto,
che se zunta gè f aesse
penser o che no falisse, u
no di vorea ma taxer,
ma no me ne posso astener
che la lengua non meta for
de zo che monto habondo in cor. n
e per zo, doze segnor me,
a voi aregordo de la parte de De
(chi dexiro con gram frevor
cresimento de vostro onor), n
che ve piaxa con gram cara,
per menar vita segura,
aver in sollicituden benna
en guardar vostra persona. »
specialmenti volo e dir
che no se ve possa offerir
esca ni don soperzhese
donde 1 amo fosse asceso; a»
ni in alcun aver fianza,
se no in proaa balanza:
1 omo e ofeiso monta via
de ver unde pu se fia. sft
ben so che letera savei,
e le gente d onde e sei ;
ma tar mostra de for bello,
CXXIV, 5. tegnando in cor furor ... ? CXXV, tit. aliena sua, 3. ni me
par. 9. e omoì CXXVI, 27 forse aver sollicitudenr 36. ms.: dever «fkie.—
46. forse: de fé pura e cor vivo, 50. cosi il ms. Senza Ve il costrutto sarà
più nitido.
Rime genoTesi
40 chi a d entro cor rebello.
per che ve de monto piaxer
e da tati lai per ver,
che sempre in mezo e da re sponde
MTostra gente ve circonde»
chi a in voi amor nativo,
de fé viva e cor puro,
che voi avei visto e proai
« en li faiti strapassai.
De chi fé cel e terra,
▼eritai e chi mai no erra,
▼e gaie e ve reze in quello stao
tt donde o sseiai pu consolao.
CXXVII.
Ih numoiterio sancto Andree de Sexto
(iTi).
Em per zo che 1 aversario,
chi desconza cartorario,
fé pramer comenzamento
4 d onde vegne partimento,
divixion e gaerra dura
de creator a creatura,
falta da lor in veritae
8 per star conseigo in aniiae,
conzunta d amor veraxe
chi sempre noriga paxe,
no presumando do strepar
is ma dover pur participar
quela grande eternai gloria
de perpetoal gloria memoria,
d. sec* xiii-xiv.
289
chi no se pò za mai finir
ni pò manchar ni somentir; io
si che a la fin ven in ruina
de quella profunda ruina
pinna de ognunchana pena e mal,
pozo d abisso enfernal, 20
tormentao li senza mesura
con queli de soa zura;
e centra De far poer so
de parti queli che lo pò : 21
pensser o che a la per fin,
per vanitae de cor meschin,
quelo mestesso demonio
no squarze co ssi re conio ss
quelo santo monester
chi semper e sta de De oster
(ben saverei voi quare e digo
se voi parlerei con Freirigo); 33
che per peccao chi sempre abonda
no daga lao da qualche sponda,
o no mermo de so bon stao
chi de ben e tanto renomao; ss
d onde monto me dorea.
per zo pregar se converrea
per noi e nostri amixi car
religiosi e segorar, 40
che De lo mantegne e aye
n lo so amo lo gaie,
e tuti lor degne defender
da caschaun chi vor offender. 4i
e quando e ben guardo
con che ponzente e forte dardo
1 ennimigo, per gran peccae,
CXXVII, 7. correggo: da lui, lì, de strepar ^^ il t di strepar somiglia ad
OQ e. 1 4. de perpetoal memoria ? 1 8. en quella profunda sentina ? 23.fa.-^
28. ma.: cossi. Correggi o intendi con si. 30. De; nel ms. quasi do, 31. cor-
reggo: quar. 37. donde \ le prime due lettere poco chiare. 46. Ve (dopo pon-
sente) non chiara.
Archivio glottol. ital.. II lU
290
Lagomaggiore,
48 aconza la nostra citae ;
che in men d un meise e mezo,
overando mar e pezo,
a atanto lavor desfaito
ss chi no porrea esser refaito
da^maistri doa miiia:
marvaxe e chi no se humilia
sote la man de De possante,
50 chi scorriae da tae e tante,
ben deverea asempio prender
de guardasse da ofender;
amaistramento e cura
00 de no tener volantae darà,
ni cor perverso ni biaxo
da poer venir in squaxo
ni in caso in tormento
M chi daesse perdimento
de corpo d anima e d aver,
per tato tempo mar aver;
in tar mar laxarse inspenze
08 per saver mar so cor destrenze:
che tardi caschaun se pente
ehi tanto sta che penna sente,
e mai no ni de mar pentir
72 alcun tropo temporil;
che meio e prender conscio
auti che fera lo rozenio,
ca, quando lo corpo e traito
76 dir: cossi avesser faitol
e inderno se guaita poi
quelo a chi son furai li boi.
doncha fa bon durai afano
.so de guaitar per schivar dano :
che, per che^e 1 omo rendou
e servir De a prometuo,
e intr unna capa e intrao,
e si e in aoto acercenao, M
se no per fuzir lo mondo
chi ogn omo tira a fondo,
e dover fa de De so seno,
e no esser re ni crao, n
ma si mastesso abaxar,
e soa voluntar laxar,
con fren forte de astinentia,
sote aotrui obediencia? «
parme, chi d atra guisa fa,
d entro de for ni guerra fa sta;
chi pò si venzer e no vor
aspeitar pò 1 entemal doL m
ma quanvisde eh e diga zo,
tanto e lo grande seno so,
la veritae e 1 onestae,
che le parole chi son stae m
en grande amor retorneram;
e che lor stao acrexeram,
en relegion comuna
si ben tirando tuti a una, im
che De ne serea honorao
e caschaun de lor biao:
lo segnor De gè manda aconso,
da chi ven ogni bon aconzo. w
se alegranza De ve dea,
zo che ve scrivo privao sea,
si che la gente no anastem
ni per noi sapiam che contrassei lu
ni se dcscordem in ter lor
63. cosi il ms. Ma forse dobbiamo staccare: ni in cas o in tormento. 71. fio
vi. 74. ronseio, 76. avesse. 9\. de; sembra do. 94. coir.: d entro e de far
in guerra sta. 112. contrastcn. Il carattere dello s per n finale, siccome
altrove.
Rime genoTesi
santi homi de tal valor.
ma peisame che e o inteiso
116 che lo contrasto e tanto axeiso,
e le parole devalgae
e per vile e per citae,
che se ne fa de re latin:
ISO De gè meta bona fin !
CXXVIII.
De eundo in factis suis in bono
mando (e. xc, tergo).
Chi segondo ordem de raxon
no pò iastixia compir,
ben pò de qaela riga ensir
4 per ben compir un faito bon;
che quando un camin usao
e mar segar per berruel,
tener de 1 omo aotro senter
s chi paira melo asegurao.
CXXIX.
De nuMÌi cives cantra civitatem lanue
(iTi).
A Toi corno antigo
amigo e car segnor
una privanza digo
4 de grande amor,
d una grande dona mea
un poche e insocia,
e in chi me intendea
® senza vilania.
d. aee. xiii-xiv.
per lo mondo son stao;
visto ho dono pusor,
gentir, d aoto lignao,
moier de gram segnor,
dexeivermenti ornae
e de gram belleza,
corteise e insegnae,
pinne de visteza;
ma tute queste, a ver dir,
a quella che me par
sovre le aotre luxir
no se pò comperar,
sovranna de possanza,
d ornamenti e d onor
non e in lui mancanza;
de le aotre e la fior,
e a gram familia
e de fige e de fiioi,
chi son tanta milia,
nomerà no li poi.
e quando a lui coven
tener corte o festa,
ogni so faito covem
a pointo e a sexta.
ma d un so greve caso
chi g e avegnuo
turbao son romaso,
iroso e gronduo.
zo no fo per peccae
ni per defeti soi,
ma per iniquitae
de soi nechi fiioi;
chi per tropo graxura,
en gran colmo d aver,
fazando guerra dura,
291
13
10
20
24
23
32
36
40
CXXVIII, tit modo. CXXIX. 6-7. forse: un pocho ensocia, en chi ecc. —
19. par quasi sovro. 31. forse avem.
2«e
44 perdem seno e saver.
che no gì fo basteiver
conbatese inter lor,
morte dar e rezeiver
48 con sbriva do foror;
ma fon de si mar ajre
con gran crudelitae,
che li aosatam la maire
&s de tanta dignitae:
ferilan grevementi,
en luj metando man»
e sol car ornamenti,
so le robe gi creman.
che 1 un 1 atro pensando
de mete sete pe,
e onor cubitando
00 per mar atiuisto e re,
dote e patremonio
i an vosuo strepar.
horta de demonio
64 e staita, zo me par;
che fogo ascoso d ira
e de rancor in cor
con gram fiama respira,
68 chi poi bruxar de for.
squartai son e divisi,
e traiti de soi logo:
mar uncha se son misi
72 en asi morta zogo,
chi aver e persone
toie zo se dixe:
a quclui De perdono
79 chi n e stao rayxe!
anti ca comenzasso
Lagomaggiore,
si axerbo stormo,
no so che gi manchasse,
tanto era lo lor colmo,
lo ben no e sapuo
se no quando mar ven,
per chi el e cognosuo,
chi lor savor retem.
e chi uncha ode novo
de tanta afiioion,
duro e so no se move
a gram compassiom.
e spero in De d aoto,
che chi no falira
che lo mar chi e faito
e ben convertirà.
De pin de pietae,
tal maire e tal masnaa
tornando in unitae,
fazala con sol aa.
cxxx.
Pro puellis in virum fratuduo^iulif
(e. xci, tergol
Fantina chi so maria
se dexe esser ben noria,
e de costumi si ornaa
che no luxa la centra,
e ogn omo con lo sposo
ne sea alegro e ioyoso:
che tar sposa e ben vestia
chi de seno e mar guarnia.
unde ogn omo chi sposa da.
51. ayootapn. 08. correggo: bt^xa, 70. corr.: so, 77. il mt.: chtmtniaS'
9€^ ma al di M}pra della prima sillaba ò scritto co. 81. correggo: /o. —
^\K ti aoto; probabilmente errato.
Rime genoTesi
quando ensir de de soa ca
e in 80 80 sposo stramaar,
2 la deveiva amaistrar
d ogni ben, maormenti
de cinque conmandamenti
eh e o visto pusor via
16 in un libero de Tobia.
e Ilo primer eh eia de far
8i e so soxero honoral.
lo segondo e so marìo
80 amar d amor neto e compio.
lo terzo e reze la masnaa,
a 80 lavor tuta ordena.
lo quarto e governar ben
ti la casa e zo che g apertem.
1 aotro e con gran descrecion
guardasse da reprenssion,
e d ogni fala e de heror
» per che manchasse so honor.
questa picena dotrina
86 ben inprende la fantina,
d aver honor se asegura
3t 6 de gran bona ventura.
CXXXI.
d. sec. xiii-xiv.
293
de la vergem coronna,
campion de ogni persona,
chi gracia de ben compir
me dea zo che voio eo dir, g
per zo che ogni dona e fantina
ne inprenda qualche doctrina,
o preposo e cose scrite
da poer pu segur vive; 12
e per meio in raxon venir
un breve asempio voio dir.
quando un nozher o marinar
scarso vento a par navegar, \q
per cavo montar o terra
de che lo vento gì fa guerra,
ben da loitam fa soa forza
en dover andar a r orza; so
e poi che 1 a tuto montao
corre poi largo e consalao,
vegnando a bon compimento
unde era so proponimento. 24
lo semeiante vor pur far
chi vor fantina ben guiar:
che da primer se de ortar
a coveneiver lavor far «
Quedam amonicio prò puellis
coniugatis (ivi).
A honor de la reina
chi d ogni vertue e pinna,
maire de De, vergem beneita,
sovra tute dono eleta.
CXXXII (e. xciv).
e se gran conta no lo fa
guardali ben de toa cha.
e ben gè n e de boin alcun,
ma inter vinti n e for un;
CXXX, 11. e in 50 sposo. 12. devereiva. 18. honorar. 27. heror; Ve, es-
lendo mezzo cassata, pare 0. CXXXI, 8. eo non del tutto chiaro. 10. qual-
che; e mista d'o. 11. r« aggiunta di sopra, in carattere sbiadito;- scriU;
COTP.: scrive, 16. ms.: apar; correggo: a per. 20. me.: ende ver . . . ar
•rxa. 22. consolao, CXXXII, 1. forse conto.
204
Lagomaggiore,
e per peccae li son si rai,
che no ne posso contar guari,
li religiosi no gè meto e
8 che li son orni tuli de De :
ma de queli co si gran se
de che e ve dixi da prumer,
chi dem lo mondo governa
12 lo quar lo ven perigorar,
chi seam degni no Toio dir
d eser cremai ni de morir;
ma quarche gran segnor tenese,
16 a chi zo fa s apertenese^
lor mete in tar destrenzimento
unde eli avessen mancamento
e de vianda e de bevenda
so debiando perde lor prevenda;
fin che levao elli avesse
papa che bon esser creesem,
en tute cosse andando apreso
24 con si drito e bon processo
unde De fosse honorao,
e lo mondo meiorao
e retornao in star de paxe
28 e in amor de De veraxe.
e per che se compisa zo,
30 faozalo De ehi far lo pò.
CXXXIII.
De quodam avaro (ivi).
Voi sei Lucheto benastruo,
tar comò e son si ve saluo,
dexiderando in voi 1 amor
de lo beneito Salvaor.
la caritae che dei aver
en voi che voio car tener,
m enduxe a voi zo devei scrive
de che voi possai pu segur vive.
monto bon nome ve fo dito,
zo e Lucheto de ro Drito,
chi mostra e o dei luxir
e drìte ovre seguir.
che questo mondo e tenebroso
é semper in stao perigoloso:
chi gè ven o gè verrà
nuo gè entra e n inxera;
e richi e poveri a la per fin
tu ti ne van per un camin;
chi pu se forza cosse prende,
de pu raxon gi coven rende.
or conscio e che o v apensei
e d entro da voi raxon face!:
cognosa lo vostro stao
de lo gran ben che De v a dao,
che voi tener no lo poei
se no ne fai zo che devei;
zo e da regraciarne,
e unde e povertae darne.
ben piaxe a mi eh o nom avei
che asai ben acostumao sei,
e avei bon proponimento :
e voi lo meti a compimento,
ma senza tropo benstentar,
per che o poessi strabucar;
12
li
5. ms.: strai. Correggo: si rairù 9. ms.: cosi. Cfr. cxxvii, 28. 15. tenesmi
probabilmente errato, e preso dal vs. che sussegue. Possiamo corregger: vi^
resse; o forse meglio toiesse (togliesse, intraprendesse). 22. creesem; la S9^
conda e non chiara. 30. fazalo, CXXXIII, 13. il r di tenebroso non chiaro. -^^
16. ms.: nxxera. 21. ms.: che ova pensei, 23. cognosai* 27. ^o e D0 regrt^^
darne. 29. ma.: cho no ma vei.
Rime genovesi
3on la bona nomeranza
1 omo in gran balanza.
ie d alcun sdir se sol:
li no yen se no de for -,
)e per torto e per traverso
a lo drito e da 1 inverso,
tar nave par ben compia
1 conza e ben fornia,
1 pincen pertuso g e
^oari ben calcao no e,
anamenti g entra 1 onda,
i la per fin la nave afonda
tuti queli chi gè son,
iossi picena caxon.
bon aibi De v a dao,
16 e son monto consolao,
in prosperitae d aver,
lai a atri e per tegner.
oi alando tuto zo
ro ben chi dir se pò,
ossa in voi mancha porea
ostra nave afonderea.
ir che V amo de pur cor
mo frae e car fiior,
e voio vostro defecto
rero niente a dir
► che so per voi guarir;
naire tropo pietosa
smasna esser tignosa,
feto che voi avei
iser largo unde devei,
d. 860. xiii-xiv. 295
e dar con grande pietae
unde voi sentir necesitae. 07
la limosena a una natura
chi e de gran bona ventura:
che a quelo chi la da
sempre reman e le tuta la; 7i
chi uncha fa questo ben
traze de borsa e mete in sen.
1 atre cose, dovei saver,
e omo possa retener, 75
fuzem a noi e noi a lor
e s abandonam con dolor;
si che in grande aversitae
torna la prosperitae. 79
de questo ben nixun se stanche,
ni penser aia che gi manche ;
che limosena chi la fa
e De la prende e De la da. ss
o guardai quanto De e bon,
che tute cosse ne da in don ;
senza criar ni demandar,
ne da zo che omo de usar. s?
noi da lui tanto ben amo,
a noi niente dar voiamo;
ni per criar ni per sgarrir,
no gi voiamo sovegnir. 91
noi seme quaxi someianti
d esto costume a li re fanti;
a li quai soi pairi dan
tuti quanti li pon ni san, 05
ni elli a lor darean sexe
de mille corbe de cerexe.
'anti di «dtr, sopra la linea, sono due lettere poco chiare, con una lineetta
pposta alla seconda. Esse mi parvero da leggersi /w;- sdir forse errato
tr. 43. ms.: pince. 49. Va di aibi ò imperfetto, e tiene qualche semi-
ta colla sigla per Ve. 52. dar. 57. corr.: or poi che v amo, 59. manca
rso. 63. ms. : lasmasna, Corr. : la tnasna, 65. e no esser. 67. senti, —
enssa. 89. V i di noi è mezzo cassato. Corr. : e noi , oppure a lui, —
ito quanto.
296
Lagomaggiore«
tuto quanto per De fi dao
99 rende De multiplicao;
e no so uncha eh e vise
che alcun homo apoverise
a dar per De ni a so messo;
103 chi sempre torna in si mesteso.
pre che e ve prego, amigo car,
che voi ve guardai d esser avaro;
che 1 avaritia si desten
107 e Tea far tu esti ben.
1 avaricia e una esca
chi in veieza pu refrescha.
so ser ne star meschin e laso,
ni donde aotrui ne roman grasso,
no lo lase tropo envegir
chi Yor d esto mar guarir :
e monto vor forza far
115 chi mar antigo vor desfar,
pu alo deveisse ponimente,
chi no era mar facente,
ni se trova in lui caxon
119 d aotra grande ofession;
ma danao pu per zo,
che lo no vose dar lo so
a Lazaro povero meschin:
123 pu per zo vegne a mara fin ;
zuegao foy punio e mise
e nternal fogo d abisso :
or poni mente quanto mar
127 faito i a no vorer dar.
or no volo e far parlamento
chi ve faesse oreximento.
ma pur noi semo in rea terra,
da tuti lai vegamo guerra;
e tante parte e no me vozo
che gè vega alcun bon gozo.
la vita nostra eulta e breve;
chi anchoi e san deman a freve;
tosto de chi se partimo;
e se noi donde andar devemo
no i mandemo fin de za
zo de che noi vivamo la,
inganai seremo: in zo
guardone De chi far lo pò.
quanta gi ven mara ventura
chi folamenti se bescural
lo segnor De per pietae
ne meta in stao de puritae,
en lo quar noi perseveremo,
che paraiso n aquisteremo.
CXXXIV.
De gula et ratione (ivi, tergo).
Una via de poi denal,
aproximando carlevar,
che li omi lonzi se preven
de la quaresema chi ven,
pensando alcun de pu maniar
102. a so messo (ma.: aso); Va ò oscuro, e potrebbe pur leggersi e.
105. guardai; il secondo a tiene dell* e;- corr.: avar, 110. il senso vii<
servo e non ser;' ne star (ms.: nestar); corr.: ne sta. 111. grasso; acri
g^'ssOf e Va alquanto oscurato. 116. qui certamente il testo è guafl
Forse quel pu alo nella sua integrità era epulon (epulone). E forse do«
dire: a Epulon devei pone mente; o simile. 119. ofenssion. 136. par
remo. 137. ms.: devèò; unico esempio di questa cifra con tal valore.
138. ms.: noi.
Rime genoTeai
per gran pensser de zaznnar,
▼oiando lo corpo si guarnir
t eh elo no possa axeiverir;
pesando e per contrae lantor,
Ti desputanza e gran remor
de doe persone descordae
it e de diverse voluntae»
ohi intr una casa stavan
ma inter lor se contrastavan.
1 un ayea i|ome raxon,
16 chi no Yorea mai tenzon;
1 atea avea nome gora,
ehi no era miga sora,
ma 1 ayava privamenti
M questa chi a nome ventre,
ehi en si tato recoie
10 ehe là gora a le mam toie.
or ve Toio e dir lo tenor
Mde tato lo contrasto lor;
éhe la gora si dixea
a la razon chi intendea :
e son camin e son porter
M de tato zo che fa mester
per norigar e dar annona
chi resa tata la persona;
tate le membro prende vigor .
tt de zo che e mando a tati lor;
e tote mi tegno asai messi,
sofecienti e monto spessi,
tQti ordenai a sp lavor,
va 8 avexendam inter lor;
^e 8 e gè mando possi o carne,
ioii san alo che dever farne:
^oxerla ben e saxonar,
^a per membro despenssar.
d. see. xiu-xiv.
297
d ogni vianda e bevenda
se da tati lor prevenda:
se gè soperzha alchuna fexe
per li ne va donde se dexe. 4i
si che per tuta està cura
coven che viva la natura.
e per zo e za mai no ceso
che no me percaze adeso 48
de mantener mea foxina,
per no descender in ruina:
d onde e no t o pu a grao
zo che tu m ai annuciao, &>
de li zazun chi venen,
chi in cativitae me tenem ;
che se zazuno quatro di,
mar gè vegne e mi e ti; so
e si te diro ben corno:
che lo no e si savio homo,
se tropo sta senza maniar,
che lo no perda lo parlar. eo
tu raxon dei voler dritura
e no esser tropo dura;
e per convertite, se porroo,
un breve asempio ve diro: w
che quando un mego vor cura
1 omo infermo d un gran mar,
fa gi fa guardia grande
e astinencia de viande; ^
le contrarie gi fa schivar,
e poi gi fa le bone dar.
d onde per esser pu possente,
voio far lo semeiente; t^
e questo asempio aver per man,
per mantener lo corpo san ;
le cosse bone speso usar
^^XXXIV, 32. tuU. 33. nel ms. una croce a siii
■^^^n-etto. 59. altra croce, a destra. 64. te diro.
298
Lagomaggiore,
70 e le ree laxar star.
or se lo zazuno e liìa
tuto lo corpo aosotiia,
en tute guise che savero
80 schivarlo voio, se porro
(e tant or staesselo a venir
quanto e gi lo stareiva a dir;
che a mi par che fa mester
84 atro albegante in me hoster) ;
e percazarne fin d aor
de reteneime in gran vigor
ni de li qua! e governo;
88 che no me vaga iomo inderno,
eh e no habia sempre asai
de bon conduti delicai;
si che con sauna e forte tascha
92 possa aspeitar la santa pascha.
che tuto vei ben avertamente,
e ben lo san tuta la gente,
che chi de dir o demandar
96 o alchun segnor parlar
o guaita pur de poi maniar,
per trovalo alegro star
e de la soa question
100 aver bona resposion :
ma chi uncha lo ve zazun,
rairo gi aproxima nixun;
che quaxi ogn omo sta gronduo,
104 iroso, necho e malastruo.
se De t ae, raxon entendi
e questo bon sermon imprendi
(che tar or ven che da un fole
se inprende ben bone parole):
no te par gran vilania,
quando un segnor per cortexia
a un so servo fa far
un bello vestir per so usar,
e si gè porze per so dom
qualche delicao bochun,
e 11 e si descognoscente
e vilam e for de mente,
che lo no usa volunter
lo don che i a faito so ser?
e cossi la cessa donaa
par vir e desprexiaa.
cossi noi semo desgraeiver
se omo vor far lo someièiver.
per che me par che homo non do
laxa perir zo che De fé,
segondo un nostro scartabello»
che dixe lo levo a lo porcello:
meio serea eh e te goese,
ca toa dona te perdesse.
non a De faito cosse tante»
che no se pò dir quante»
ni la bontae quant e ni corno,
tute in servixo de 1 omo?
per che homo de per tionorarlo
questo ben prendelo e usarlo»
si che no sea faito in van
MI
m
m
IM
77. Te in cifra. 78. corr.: asotiia, 81. ms.: staeasilo se vorrò +. Sopra é
scritto ai$enir. 85. percazarne o percazartne. 87. mi e li qiuii,.ì e in deÌP-
cao govemoì Meglio il primo. 105. il ms.: se de tae. Correggo: se De t ai
(se Dio t'ajuti); cfr cxxxvm, 32. 1 15. ms.: elle si descogno scente, 1 16. ms.:
forte demente. 119. forse scorretto. 128. ms.: catoa. 129. faito; Va tien
deire. 130. ms.: pò con un* appendice all'o, forse principio d'altra lettera non
più scritta; porea tornerebbe pur meglio per la misura del verso. 131. ma.:
quante.
Rime gtnoTesi
m so che fa qaela santa man.
ma per tato questo me dir
BO me tener rea ni vir,
wi creai eh e sea paganna;
i« ma o ben fé crestiana,
a da far ben o voluntae
quando e aero maura de etae ;
ma no penssai teneime in frem
J4 da fin che me zoventura ten.
la atre cosse laxo e ao star
par lo tempo quaresemar,
dondo se porreiva assai dir,
Mi a da ornamenti e de vestir
a da aotre cosse che fé De,
che elio n a mise sote pe,
a chi de gran deleto son:
■1 ma tropo n ai gran sospezon.
ut no Toio e aor pu dir,
ma toa responssion ojr;
a intender ben e ascotar»
■1 par no laxarme a ti ligar
•e ao in cessa drita e certa
a ehi me paira ben averta;
a par luxe mezan e ben
MI chi lama ben la qnestion,
chi n adrize in bona via,
ao tagnandoge partia.
«r o a dito zo che e so
M da to voler, e taxero.
Ratione.
or eomanz a dir la raxon,
cha vegnua e soa saxon:
gora, tropo m ai daito a far,
m «a a don tato aregordar
d. 86C. xiii-xiv. 290
zo che tu ai vosuo dir
per toa voluntae compir.
ma, se tu voresi far ben,
taxer poevi e dir men. i72
se lo to cor fosse ben casto,
con mi no t e mester contrasto;
se ti e toa compagnia,
da chi tu penssi ave aya, i^e
zo e le membro corporae,
fosi comego in unitae,
vo teresi aotro camin,
per che veresi a meior fin: iw
che tropo me par gran fala
entr un albego inseme sta,
e eser descordai de cor,
semper aver tenzon e dor. 184
or te prego che tu me intendi,
e da mi bon conscio prendi;
si che voler no te straporte
en manthener le cosse torte : iss
e no aver per mar niente
che parlerò asperamente;
che 1 aspera mexina si e forte,
sor scampar 1 omo da morte. los
tu diesti che tu e via
chi a le menbre day aya:
ma pusor via deven
che tu gi fai pu mar cha ben; im
e per tor ingordir tar or
tu fai morir tu e lor.
tu no e via, ma quintanna
chi tute menni in soza tanna. 300
si tosto passa to lavor
che ogni bocon con so dozor;
139. cvmt; 6 così al va. 143: penssar^ non penssai. 144. forse tnea. 145. ms.:
'. 145-51. costrutto difettoso e poco chiaro. 147. forse dande ;-- a de-
del verso nna crocellina. 163. ms.: oro...eso, 172. o dir men, 174. ms.:
noU. 197. corr.: to.
300
Lagomaggiore,
quaxi pu tosto sor fazir
204 cha tu 1 apairi de sentir.
tu e par d un monimento;
che zo che tu tiri d entro
pu sozo e poi che tu 1 inforni
208 cha un morto de trei iorni.
per ti nixun a hen s adriza,
ma lo collo se scaviza.
de ti me par che Saramon
212 conte una soza raxon:
che per la gora mor pu gente
cha per iao alcun ponzente.
si e ingorda de strangotir
210 che tu no poi mezo pair.
de li aotri mar e raixe
e de ogni hen desiparixe;
a un disnar guasti pu hen
220 ca dexe orni, tar or ven :
guastarixe per che t apelo,
herruela de maxelo.
tuto zo che tu vei si voi,
224 e perchazi li gai toi:
che quaxi tute enfermitae
venne de superfluitae ;
e rair ol e lo corpo francho
228 de rema, freve o mar de xancho
o d atro mar che omo sosten,
chi per toa caxon ven.
o quanti la morte n ahelestra
232 per desmesura menestral
o quanti dani 1 omo prender
per desmesurae he vendei
che chi de vin prende sozo uso
236 da tute parte n e confuso.
ma sa per che sanitai durai
per astinentia e per mesura.
monto me par che car costa
u sor hochon che Eva mania ;
che in linho con gran falla
hen stete agni doa milia,
e ne sentamo fin anohoi
noi chi semo soi fiioi:
e Ninive, la gran citae,
danaa da De per gran peccae,
per lo zazunio scampa,
la morte De gi perdona,
se no che 1 oio to e zeigo
en 1 asempio de lo mego,
che tu voreivi a mi mostra
per deveime amaistrar;
ma no miga in lo to verso,
ma dei prende lo reverso :
che chi stronzo da prumer
poi tu hen gi vai dere;
che ogni hon lavoraor
da far in anti so lavor,
ca pagamento demandar
chi gi covegna poi refar.
or se tu voi far hona via,
vivi sete mea guia;
si che intranhi per hon senter
ne guie De nostro nozher.
ma hen poitu maniar e heiver
quando e tempo conveneiver:
ma zazunar dei volunter
quando lo tempo lo requer;
e no grognir ni mormorar
quando tu 1 odi annunciar.
H
^
209. ms.: abesa driza. 210. collo \ il secondo o tira air 6. 223. cet; le due
vocali non chiare;- roZ, corr.: ooi. 227. rair or, 231. ms.: na belestra, —
237. sai;- ms.: masa. 240. ms.: usor\ intendi un sor, 241. familia. 249. cor-
reggo: zego, 256. va, 258. de far.
M
Rime genoTesi
ma rezeirelo alegramenti,
72 che eli e meixina de la gente.
schiva deleti e vanitae
comò le cose atoxegae;
che lo deleto d un momento
m senza fin pò dar tormento.
restrenzi man e bocha e denti,
e no seguir li rei talenti : [penna
che e no don pur sora portar la
00 la penna chi segue lo mar;
ma deveraite cremarte
asi comò per toa parte;
e se aspeti aver tar guai,
tardi lantor te pentirai.
le folle che tu ai vomue
da mocitae te son yegnue:
no Yoio e tuto responde,
se no te re voler confonde.
se tu non guardi in ver la Un,
peso e assai ca un morim
chi arena e tuto more
quanto gi ven sote le more.
ma mi e ti devemo far
comò lo savio morinar,
chi sa ben cern e la luxe
S90 quanto a lo so moria s aduxe,
so e cosa utel e fina
da dover far bona farina.
d onde in ogni condecion
no de 1 omo aver descrecion.
1 asempio che tu ai dito,
ehi te parsse cossi drito,
d. sec. ziii-xiv.
301
en ti lo voio retornar
per farte ben a la riga star: 304
de zo che De le cosse a falte
e per usar ne 1 a daite.
zo e ben ver; ma per raxon,
noi in nostra confuxion. 308
e tu de seno si fantin,
chi te metese intr un iardin
de belle cose e frute pin,
che tu voresi a la per fin sis
zo che t e dao per ben usar
tuto a un corpo desipar ?
no e bon prende tuta via
Zoe de che aotri lo convia. zie
contra segnor chi te da pasto
guarda ben no ne fai guasto.
che chi de zo che De gi da
no lo cognosce, mar gè va. 320
1 omo senza esser asenao
corno asen e descavestrao,
chi tut or vpr pu maniar
senza alcun aotro lavor far; 321
che quando eli e ben ingraxao
corrando vai purme lo prao;
se per lavor lo se requer,
li cazi traze in ver so ser. zta
e poi diesti che ben farai
quando in maor etae serai.
ma se tu pur agardi zo
li guay aspeti e dano to; 332
che tu porressi ben morir
en questo di, senza invegir.
279. la penna te cancellato. 288. io. 299. nel ms. una croce a sinistra del
vano. 307. se io non erro, fu prima scritto saxan (stagione, tempo oppor-
timo), e poi il 5 corretto in r dallo stesso amanuense. 308. no. 316. io» —
32S. ms.: corrando*^- vai; corr.: oa;- purme; forse errato per pur in;-
prao; Vo tira air e. 334. il ms. ha dopo di un piccolo tratto, che anche
potrebb* essere uno sgorbio.
302
pocco e savia, zo me par,
836 se tu te penssi de szhufrar.
or doncha pensa de far ben
fin che tu poi e iorno ten ;
che la luxe te verrà men,
340 e pur la morte sempre Yen.
fa ben quelo che te dìgo,
che per to ben con De te ligo;
e d ognunchana peccao t aste,
344 ovra fa chi piax a De.
la gora respose lantor:
tropo m ai dito desenor.
ma maraveia me far de ti,
348 che e no te vego e tu vei mi,
e dime mar seguramente
comò a persona de niente:
a 1 asen m ai afìgurao,
332 chi bestia e desprexiar.
ben aitu dito de mi asai
cosse chi paren veritai,
che e me oto deleto:
356 ma pur e t o in gran sospeto ;
che tu no poi maniar ni beiver,
ni zazunar te fa pur xeiver;
per zo no voi tu sostener
360 eh e deìa deleto alcun aver,
e daito m ai bon partio:
chi in mai in ti ben me fio,
e ben vorea atri spiar
364 se ta ai dito o ben o mar.
la raxon dise: in bona o!
un zuxe so chi e meior
de li atri, ogn omo aje.
Lagomaggiore,
e chi noi sempre reze e gaie :
lo spirito e chi mai no mor.
salario alcun non vor;
che, sapi ben, o n ama monto;
e son sempre si so cointo
che gi porto le baranze :
elio no sota mai de zanze;
e senza tener parte in alcun
da insto peiso a caschaan. ^
se 1 e lear e tu lo voi,
bon gè venisti anchoi;
che e spero in De che elio dira
zo de che omo s acordera.
la gora dixe : tropo e fer,
e m per zo n o gran pensar,
ma de ti e monto feiver,
e e mai servixo no gi fei:
maor poestai ai tu cha ler,
da che tu le baranze te.
no me foso za tremetua
de question si malastrua;
che vego ben eh elo dira
cosa chi me despiaxera.
e lo cor semper me dixea
che e conteigo la perderea!
ma se te piaxe d acorda
per ben comego star,
e mo obligo de far ben
en la quaresema chi ven :
che e per mi e per to prò
1 un di zazuDo e 1 atro no :
e parme, se omo fa cosi,
ni graverà ni mi ni ti.
347. fa. 351. afiguraa. 352. desprexiaa. 355. la lezione è dubbia. In luogo
di oto potrebbe leggersi oco\ di deleto: defeto o deseto. 358. pi*. 362. ehi
e mai in tiì 365. ms.: in bonao. 371. ms.: o na ma monto. 374. coiA
iims. 378. ms.: bono. 383. fever (da 'fidelis')? 385. le. 400. correggi: m
graverà.
Rime genoTesi
scoi de mi go che far posso;
che soma engua no rompe doso,
chi de tenzon far paxe 7or,
M no g e mester zuxe de for.
la raxon lantor respose:
le cose che tu ai prepose
mostran hen che fantin e
D8 e che ai poche amor in De,
chi tuta per noi la zazunaa,
oncha hochon non gè mania.
no voi tu hen e mi e ti
ut che De n aye ogni di?
or sapi ben che fa dir zo:
1 antigo e re costume to;
che ogn omo e confuduo
ne d aver re uso mantegnuo.
or no dir pu: pensa far ben,
da pur che fa te Ilo coven :
e se lo fai con grande amor,
m Iato sera lo to lavor.
lao dixe : e gè consento :
melo e porta picen tormento,
cha 1 eternar, -sempre moirando:
Ite per zo a De me n acomando.
o prego De e prego ti
che e la sentencia diga si,
che e la possa oservar
4» senza tropo darmaiar.
en questo zuxe s acordam,
e Io lor dito gi cointam:
li scrìti lor in man gi misem
At de quante question li dixem.
lo zuxe dixe: a nome de De,
d. sec. xiii-xiv. 303
chi maistro sea me,
e pina gracia me dea
zo dover di che insto sea, ^3^
e ntre 1 una e 1 atra parte
traito ne sea bone carte.
tu, gora, segondo lo to scrito,
cosse assai aveivi dito ^^
noxeiver a monto persone,
poche gè n era de le bone;
che me era aver taxuo
e aver daito asempio cruo: ^^
e tu, raxon, si respondi
saviamenti e ver diesti;
e se in dir fosti crudel,
tar petem era a luj mester; us
che man tropo pietosa
no lava ben testa tignosa.
viste le vostre alegaxom,
questa sentencia e ve don: ^2
che la gora con soa masnaa
con chi eli e acompagnaa
stea suieta a la raxon,
removuo ogni caxon; ^56
e tute zo che la raxon dixe
per che la gora non falixe,
si retifico e confermo.
ma se lo corpo fosse infermo, 46o
previsto sea e dao conforto,
e no gi sea f aito torto :
ma tuto sor in sanitae
ovre faza ordenae. <w
or no voio e tropo parlar;
la raxon sa choB g e a far;
402. fòpe\ Ve è mista d'o: para un o corretto. 409. zaztma, 415. confun-
duo. 418. correggo: da poi, 421. too; tra a ed o è un piccolo spazio abraso.
Forse è da correggersi: / atra. 445. respondesti. 448. a dir Tero, piuttosto
leggasi pecem che non peiem. Nel dubbio, do la preferenza alla seconda for-
ma. 459. ratifico. 463. ma tuto or ?
304
4
emtranbi fai vita si pura
468 che vostra fin sea si segura.
e luto zo ve comando
che vo oservei sote gran bando;
e ogni zuìnta se gè intenda
4'72 chi a De lo so honor renda.
cxxxv.
De accipiendo uxorem (e. cvii).
L omo chi moier vor piiar
de quatro cosse de spiar :
la primera e corno el e naa;
4 1 atra e se 1 e ben acostumaa;
1 atra e corno el e formaa;
la quarte e de quanto el e dotaa.
se queste cosse gè comprendi,
» a lo nome de De la prendi.
CXXXVI (ivi).
A omo chi e mar parler
1 oreia no consentir;
e ti guardar da mar dir
4 d otrui ni denanti ni dere.
e no usar in quelo hoster
d onde tu vei li boin fuzir;
bona usanza non rompir,
8 servixio fa volunter.
fui 1 omo chi e xarer.
guardate de soperbir;
che nixun no pò ben finir
Lagomaggiore«
chi e rebello in ver so ser.
Bona compagna pensa aver,
se segur caminar voi.
non di tuti secreti toi.
1 otrui non prendi ni tener.
a ben dar termen no voler;
e de le peccae te scoi.
lavora fin che tu poi;
e sta segnor de to poer.
malicie no mantener.
1 urtimor di te penssa anchoi.
nixun loe li ben soi;
ma sempre ame e diga ver.
Garamenti dei intender
le iuste reprenssion;
e se fosti ofenssion
ni folio, no dafender;
che maor fogo pò accender.
de mar faito quer perdom; .
che tute cosse an guierdon.
1 amigo to dei reprender.
e no cessar de ben imprender.
fa in centra 1 indignacion
si soave responssion
che lo mar no possa ascender.
Debito chi dar te conven
pu tosto che tu poi da
se tentacion te ven.
no voler sta senza fren.
ogn omo in perigoro va.
chi no imprende no sa.
lavora fin che iorno ten:
»
»
468. sea segura. 470. dopo uo un t abraso, del quale resta T apice. CXXXV,
6. quarta. CXXXVI. non ha titolo. 3. guarda, 16. V i di prendi, imper-
fetto. 22. l urtimo. 38. qui dee mancare un verso. II ms. ha sotto Tii di
pu un piccolo o;- Ve di che poco chiara.
Rime genoT66Ì
sensa astarla la morte ven,
chi mai piotai no ha.
se. Tei tu tornar chi va la?
n no, ma receiyer maor ben.
Ea lo mondo no te flar,
ohi e faoEo enganaor;
ni te fiar in traitor:
SI fai chi te Yor desviar.
e per enprender dei spiar.
no crei homo lecaor.
ma correzi to error.
85 no laxar morbo congriar.
ni ti centra atri corsi ar.
schiva lo breve dozor
chi da poi mortar dolor:
» ni in dere se pò siar.
Fermo manten lo dito to
quando el e ben ordenao;
per ogni vento no dai lao.
m ma se aotri meio proa zo,
lasa to dito per lo so.
e fui regego de dao;
e omo mar acostumao.
07 lo bon voler compissi alo;
no zo che esser no pò.
oonveneiver te to stao,
forzate star asnersao :
71 mar ara chi no ha boi.
Greve te mostra a la masna
quando la senti falir;
soe falle dei punir,
75 per esser ben acostumaa.
ma re compagnon per straa
no laxai con ti vegnir.
d. Beo. xiii-xiv.
305
pensate de ti scremir
centra cessa postiza: 79
pairala da aximinar;
che di no se pò desdir.
laxaria dei fuzir;
e ogni lengua abonimaa. 83
Homo de doia lengua fui,
chi lusenga da primer
ti presente, e poi te fer:
no te fiai tropo in atroi. 87
da zo che tu inpremui,
no dai in paxe destorber.
conscio da savio requer:
no usai conseggi crui. 91
ni desorra homi venzuj.
no sei de ti guerrer.
veia quando fa mester.
pensa li iomi perdui. 95
loya mar aquistar ni don
no prende perdando honor;
ni tener 1 atrui lavor.
defendi ben toa raxon. 99
en faiti tei guarda saxon.
no tenzonar con to maor;
ni desprexiar menor.
ni d alcun mar sei caxon. io3
penssa trar atrui de prexon.
alcun ben fa tute or.
e amorta to furor.
no voler perde jorno bon. io?
Ealende chi oserva mar
errando per erlia,
de santa fé desvia,
e n avera penna eternai ; in
44. fime ostala. 47. ms.: noma. 54. correnti; Vi sembra r. 71. ara; tra
e r un t sbraso. 81. che dito„ì che di no se pò e desdirì 83. abominaa^ «
91. ms.: conseff*. 96. aquistaa.
Archivio glottol. ital.. II. SO
306 Lagomaggiore,
che pocho 1 aotro ben gi var ni lo cor, che tu no sai;
chi for e de tar via.
De n amaistra e cria,
115 tuti iamando tar e quar,
volando a tuti per enguar
dal salvacion compia:
quando mar se gi congria
119 se crestian e deslear!
Lo segnor De chi t a creao
no te de mai insir de cor ;
che senza lui chi vive mor.
1S3 e chi uncha sera desgrao
de zo che 1 a per luj portao,
no 1 avera za per fiior,
ma romara serao de for
127 de quello so regno biao:
o comò sera tormentao I
no gi varrà ni frai ni sor:
che, corno dixe san Grigor,
131 segondo lavor sera! pagao.
Mato no fai to mesaio.
e apensaitene in anti,
per li perigori tanti,
135 ca tu comenzi viaio.
spelate per avantaio
en li faiti d enanti.
schiva breiga de fanti,
139 per no caer in d armalo.
ni venir sote rizaio
per oyr mozi canti.
no van in cel li santi
143 senza aver chi travaio.
No zugar 1 atrui voler
che toa colpa e asai.
monto de zo te dei voler,
e mendarlo a to poer:
che se qui te zuigeraì,
lo sovram zuxe apagerai.
ma lo to dano no taxer,
se per to dir gè pò valer,
mar dir no comenzerai.
rea nova no dir mai.
e li ogi guarda de mar ver.
Ogni di vai in ver la fin :
per che doncha orgoioso e,
per che te exaoti contra De,
chi pur vir e cha un lovin?
che no vomi tu lo venim
che tanto in cor manten?
a insir de camin re
no dai termen a damatin,
chi sote lo gran remolin
de la morte vai e ve.
ze, lo segur strazeto te,
e no straa de marandrin!
Peisa con iuste baranze
le overe che tu senti;
e se tu dei ben somentir,
zunzige si che 1 avenze.
no seguir no crei zanze
de van amixi ni parenti,
ogni di consumi e xenti:
e, le vanne alegranze
de lo mondo e soe danze
fuzi corno e da serpenti!
117. dar, 118. quanto. 125. ms.: no laveraza. 133. apensatene. 147. fol
doler. 148. ms.: emendar lo. 151. forse: ma l otrui dano. 159. |»i.
162. ms.: ain sir. 163. ms.: oda matin. 170. de ben somenti. 171. ms.:
venale. Corr.: / avanze. 172. forse ni creiy o meglio ni cree. 174, ms.iexenti'
177. forse corno da serpenti.
Rime genoTesi
rda ben se no te penti,
la morte no te lanze.
anchoi pò fa lavor bom,
liga: e faro deman.
nchoi e fresco e sam,
an te pò venir lo tron,
a si terribel son,
tati fa chair a pian;
snimico inìgo e can
i mescbin fa un boebon.
g andera a stranguiom
cozi sera stao van.
punir queli chi mar fan
o e trenchente lo fazon !
i ben toa dritura
» laxai raxon perir.
Eixerai quando dei dir.
fai rapina ni usura.
onna ovra no bescura.
pocho no te stremir.
fasente no seguir,
rdate d aver tnan fura;
mar aquistao no dura.
*ar da dover pentir.
adementega morir,
ener voi vita segura.
;a poi atru defendi
srzbao da so maor;
iraine a De honor :
u> no fai monto 1 ofendi.
ndo tro e montao, desendi.
Irito mante con vigor.
d. sec. xiii-xiv. 307
quar mesura tu fai aor
tar in la per fin 1 atendi. su
Temporir dei pensa da oster
chi desira ben dormir.
enprendi eo che de venir
per zo eh e passao derer. 215
de rixa no sei prumer.
pensa zo che tu dei dir.
anti che tu feri aootrui, sofer; 218
e no usar con tenzoner.
toe parole dei condir;
che perzo è lengua per ferir
ca nixun atro costerei. 222
Voluntae no te straporte;
guarda principio e fin.
e a omo de mar pim
te serrae le toe porte. 226
reprendi le cosse torte;
e sostenta li meschin.
schiva de falir per vin.
no te fiar in destìn, 230
dlvinacion ni xorte.
ni te mova de cor forte
alcun re vento ni polvin.
cura de far bona morte. 234
Xentar fa de casa toa
lengua chi venim aduxe,
che monti ben descuxe.
invidia no te roa, 23s
che la natura soa
'Chi andava scritto qui^ per T acrostico. Il componimento consta di ven-
e sezioni, da dodici versi ciascuna, e le ventitre iniziali ci danno Talfa-
> nella sua regolar disposizione. 196. su ovra è stesa una macchia, ma
ù legge. 211. qui, dopo il vs. 207, ci dev* essere ima lacuna di quat-
Tersi (vedi la nota al 180). 212. de pensa de. 217. qui manca un verso. —
. ms. : 90 fer, 221 . pezo.
308
se aoscura d otrui luxe.
sei de tu bon duxe,
242 guaitando popa e proa
em perzQ se conduxe
244 chi zara mar far ni voa.
Ybacalos se gì pò dir
chi e stao bon peregrin,
chi zerto e de poi la fin
248 dover poi sempre ioyr.
nixun ben pò mai falir
en lego de ogni ben pin:
mato e chi per pochetin
252 vogando lo mon(}o fiorir,
Yor tanto ben laxar perir,
ben me par seno asenim
portar lo viso in terra chin
256 chi in ver cer de li ogi avri.
^ Zeta via e descaza
se te senti mar avei,
fin che tu n ai lo poer.
260 e no aver lo cor de iaza :
1 amor de De cado te faza,
sote cui man tu dei cair.
pensa lui de far piaxer.
264 de 1 ennimigo te deslaza
per dover star segur in piaza.
ze, dormi tu? ma dei savei
che tosto te conven jaser,
268 e venir sote la maza.
Lagomaggiore,
CXXXVII.
De mulHs perfecHonihus qua$ pos
habers (e. cvm).
Pusor via son apensao,
che se da De fosse dao
eh e fosse zovem, frescho e san
e no a vose lo cor van,
ma con seno de natura
fosse pin d ogni scriturai
per dritamenti raxonar
e mi e aotri conseiar;
con memoria tegnente,
d aver ben tuto per mente;
abiando fren en far e dir,
e astenese da falir;
e caschaun staese atento
mi fazando parlamento;
chi me vorese noxer
se sentisse la man coxer;
e ogni dito e faito me
fosse in bon piaxer de De;
ni mai manchasse in borsa mea
vinti sodi de monca :
veraxementi, zo me par,
e serea un bon scorar,
e, se per mi no romanese,
un valente homo, se vorese.
e possee liberi assai
boni e veraxi e ben mondai;
e lengua e voxe ben sonente,
per parlar ardiamente.
240. ms. : sea oscura. 242. mancano due vs. 243. em peso, 266. la vocalo
se è alquanto cassata; ma e si legge, piuttosto che a, CXXXVII, 25. ms*
posse e;- gli ultimi quattro versi meglio sarebber collocati dopo il 2^^
Rime genovesi
CXXXVIII.
De conéUcione civitate Janué, loqvendo
con qtéedam domino de Brixa (iti).
Da Yenexia vegnando
trovai un me hoster a Brexa,
ehi comelgo raxonando
4 dize: e prego no ve increxa
respondime per vostro honor
a zo de che e ve spiero;
che speso ne odo gran remor,
8 nie la veritai e no so.
de Zonoa tanto odo dir
che 1 e de tuti ben guarnia,
che volunter voreiva oyr
is de Io so stao una partia;
e se la terra in rivera
ni e possante per responde
a questa gente sobrera
lochi la percaza de confonder:
zo volo e dir Yenecian,
chi se raxona inter noi
en forza de mar sovran,
so e ben se cointan per un doi.
de Zenoa niente so,
che uncha mai e no gè foi ;
e volenter intenderò
M de zo la veritae da voi.
en Yenexia son e stao :
terra par de gran possanza,
e de for a gran contao ;
28 e per zo fa gran burbanza
d. sec. xiu-ziv. 309
de viterie strapassae.
ma Zenoeisi mai no vi,
ni ne so la veritae:
dimela, se De v ahi I 32
alantor gi respoxi:
no den veritae celar
queli chi ne son semoxi;
pero ve voio stastifar. 3«
Zenoa e ben de tal poer,
che no e da maraveiar
se voi no lo poei saver
per da loitam odir contar; 40
che e mesmo chi ne son nao
no so ben dir pinnamente
ni destinguer lo so stao:
tanto e nobel e posente. , 4i
e s e vorese dir parole
per far mermanza de inimixi,
voi me terexi folle.
ma e lor tegno berbixi: 48
che chi in so leso habonda
e in faito ha mancamento
par a mi che se confonda;
ma 1 overa da compimento. 52
ben e ver che nostra terra
Yenician dedprexiando,
en una strappa guerra
de stranger a sodo armando 56
per sparmia la soa gente
e no voreigi dar afano,
no armando ordenamente,
ben sostegno alcun dano: eo
ma, comò sempre som proai
si etra mar si comò de za,
CXXXVIII, 8. 8i pud correggere: tit la veritai e no so^ meglio: ni la ve-
Tifai e ne so, 9. Zenoa, 13. ni rivera. 14. no e possante, 32. ms.: se de
«w hi. 42. ms : pina mente. 46. de i inimixi. 55. corr. : e una .62. ms. :
*t comodeia.
310
sci lozi 8on ben parezai
64 antigamenti, e De lo sa.
or ]a8o e star questa raxon,
e torno a zo de che voi me spiasti;
e dirove zo che e don,
68 per zo che me ne spiasti.
Zenoa e citae pinna
de gente e de ogni ben fornia;
con so porto a ra marina
72 porta e de Lombardia.
guamia e de streiti passi,
e de proTo e de loitam
de montagne forti xassi
76 per no venir in otnii man :
che nixum prince ni baron
uncba poe quela citae
meter in sugigacion
80 ni trar de soa francbitae.
murao a bello e adorno
cbi la circonda tuto intorno,
con riva for de lo marao;
84 per cbe no g e mester fossao.
da mar e averte maormente;
e guarda qaaxi in ver ponente.
lo porto ba bello a me parer
88 per so naveilio tener.
ma per zo cbe la natura
gi de poco revotura,
li nostri antigi e cbi son aor
tt g an faito e fan un tar lavor
per marayeia ver se sor,
e si fi apellao lo moor;
per far bon lo dito porto
Lagomaggiore,
e pur coverto e pu retorto;
edificao sun la marina
con saxi e mata e con cazina;
cbi pu costa in veritae
car no var una citae.
en co sta sempre un gran fana
cbi a ]e nave mostra intrar,
centra 1 atro de Gbo-de-fa
cbi lonzi i e fo un miiar.
li e corone ordeoae
unde le nave stan Ugaa;
e la fontanna bella e monda
cbi a le nave ajgua bonda.
zeyxa g e, e darsena
cbi a Pisan arbego da,
en gran paraxo da lao
cbi a prexon albergo e stao.
questa citae eciamde
tuta pinna da cbo a pe
de paraxi e casamenti
e de monti atri axiamenti,
de grande aoture e claritae,
d entro e de for ben agregae,
con tore in grande quantitae
cbi tuta adornan la citae.
en la qua e sempre e tuta via
abonda monto mercbaatia
de Romania e d otrar mar
e de tuti li aotri logar.
ze, cbi destinguer porrea
de quante mainerò sea
li car naxici e li cendai,
xamiti, drapi dorai.
m
m
IH
IH
m
68, m$ ne demandasti ì 71. ma.: aramarina. 75. xassi sta forse per Mci;
cfr. xnx, 33. 85. acerta. 88. navilio (efr. 191). 06. e pu ccoerto. 100. €«. —
ili. e un gran.,ì 113. e ecitande. 130. ms.: Ut,.e\ t (r% i\ t e Ve iant
due lettere, illeggibili;- ad «m segue una cifra cbe per solito vale «, e cosi
Tbo trascritta; ma la stessa, od una simile, sta altroTe per con.
Rime genovesi
le care pene e i ermerin,
le un e arcornim
e 1 atra pelizariai ?
32 obi menna tanta mercantia,
peivePy zenza^ro, e moscao
chi g e tanto manezao,
e speciarie grosse e sotir
i98 chi no se porean dir,
perlle e pree preciose
e ioye maraveiose,
e le atre eosse che marchanti
Ilo che mennan da tuti canti?
chi le Yorese devisar
tropo arerò a recontar.
e corno per le contrae
144 san le batege ordenae I
che queli chi sum d un arte
stan quaxi inseme da tute parte.
de queste mercantie fine
145 le butege ne stan pinne;
ben pince omo speiga
gran merze in vota e in butega.
pu me deleto in veritae
155 quando e vago per citae
batege averte con le soe cose,
che quando e le vogo piose:
e n domenega e in festa,
156 se la fose cosa honesta,
mai no iose le verea;
che ver dentro o gran covea.
d. sec. xiu-xiv. 3 li
tanti e tai son li menestrai
chi pusor arte san far, i6o
che ogni oossa che tu voi
oncontenente aver la poi :
se tu ai dinar in torno,
pensa pu de star adorno. 104
che se Lombardo o atra gente
gè vennem per qualche accidente,
la vista de le belle yoie
gi fan torna le borse croje; les
che gran deleto d acatar
strepan a monti omi li dinar.
un speciar a monta via
pu peiver o merchantia m
e in pu grosa quantitae,
ca un atra gran citae.
monto son omi pietosi
e secoren besegnoxi ; l'ro
arendui e aforender; .
a tuti gran limosener :
e tute terre de Lonbardia
per porvetae e per famia ino
li declinan per scampar,
per meia o per dinar,
en per zo creo che De
de monti avegnimenti re isi
1 a sempre defeisa, e rezua
e a grande honor tegnua.
si drua terre de le barestre
e si ne son le gente destre, iss
131. pelUaria. 132. direi di correggere: chi tante tnenne mercantia (men-
fiasBOrta), facendolo dipendere dal ts. 125. 140. correggo: gè mennan, —
142. ms.: aoerea recontar. 149. ben pince. Il carattere addossato all'è po-
trebbe pur essere un e, ma somiglia più ad un o. Il senso ci d& poco lame,
incerto eom*é esso pure; tuttavia, tra pince (per picen; cfr. cxxxiii, 43) e pince
(per pine), io scelgo il primo. 152. vegoì 157. vorea. 168. fa. 170. cor-
reggo: strepa. 17>. forse errato per af erender od of erender. 182. tn&ia ossia
wmania (mangiare)? Meglio: meaia (medaglia); cfr. Lx, 22. 187. con*eggo: si
drua la terr e de barestre.
31£
Lagomaggiore, Rime genovesi ecc.
che per venze soe guerre
ben n a per doe atre terre,
lor navilio e si grande,
192 per tato lo mar se spande,
si riche van le nave soe
che ben var d atro 1 «na doaw
e tanti san li Zenoezi
e per lo mondo si destaxi,
che unde li van o sian
un atra Zenoa gè fan.
[StguOfM (• OlutIrmticmL]
POSTILLE ETIM0L06IGHB
DI
G. FLECHIÀ.
L
gio di un Glossa^rio Modenese ossia stisdii del conte Giovanni Oalvaiti
ttomo le probabili origini di alquanti idiotismi della città di Modena e
el suo contado. Modena, 1868, in Ido, p. 582.
(ConUn«askme: ▼. pp. 1-58.)
P. 193 < 6 ir Olì. Zafifo, tappo. I Latini ebbero vir per virilitas
virilia ed ebbero vironem per virum come homonen per
iominem. Noi col noto scambio del t? in & ne deducemmo
orse hircne quasi <paXX(i;. Dalla stessa radice uscirebbe birucc
»el torzolo o stampone del maiz o gran turco. »
L'arcaico homonem per hominem non ci ofifre che una va-
tà di forma nella flessione del tema homon-. Ma ^vironem
* virum j che a ogni modo il Galvani non avrebbe dovuto
re se non come forma ipotetica, presenterebbe un fatto ben
ro, cioò un derivato dal tema viro- mediante il sufif. -on che
formazione d* accrescitivi, assai comune nelle lingue romanze,
t, può dirsi, ignoto al latino. Sarebbe inoltre inverosimile,
to r aspetto logico, che birone^ derivato, secondo che qui si
igettura, coli* originario senso di faX^($;, venisse poi per tras-
ad avere il significato di zaffo, tappo; essendoché nel tra-
ISO di tali significati si noti qui piuttosto un processo con-
krìo, cioò non mai il nome del (fxXkó; venuto a dinotare cose
teriali, come a dire strumenti, ecc., ma si piuttosto nomi
aggetti materiali passati, per qualche analogia, o di forma o
izione, ad esprimere il tfxXkó; (p. e. manico, bischero, pinolo^
).); e ciò per una specie d'eufemismo assai naturale, che qui
potrebbe dir verecondia, per cui si evitano gli appellativi
>pg delle parti sessuali; sebbene anche questi vengano poi
volta dalla volgare intuitiva del popolo applicati a significar
ArcbiTio glottol. ital., II. 21
314 Flecliia,
prodotti naturali d* analoga forma, come a dire piante, pesci,
conchiglie ecc. (cfr. p. e. lat. veretillum^ it. pincio marpno^ caZ"
zerella, tarant. minchiareddo, minchiozzo, tutti indicanti varie
sorta di pesci) e anche a qualificare persone con nomi di spregio,
ecc. (cfr. p. e. minchione da mentula, eco).
Rigettata pertanto come affatto inaccettabile questa etimo-
logia, cominceremo dall* avvertire come biron^ oltrechò uà.
modenese, si trovi collo stesso senso anche nel bolognese, con
quello di cavicchio^ pinolo nel piemontese, e i^asticciuola nel
veronese. È da notarsi inoltre che ne* dialetti lombardi ci si
presenta un vocabolo il quale, morfologicamente diverso, accenna
però di connettersi logicamente ed etimologicamente con biron;
ed è *birólo (mil. pav. piac. hiró^ berg. bresc. Wróf, ecc.), signi-
ficante bischero^ cavicchio^ pinolo. Da questi due nomi bir^one^
bir-ólo noi non possiamo staccare etimologicamente pir^one e
pir-ólo che s'incontrano con analogi significati, quest* ultimo
(pirolo) non solo ne' dialetti emiliani e in parte lombardi (boi.
ferr. cvem.piról^ bresc. piról, regg. j)ro/, parm.pr(Ji, piac pirO,
piuolo, bischero, ecc.), ma anche nel romanesco e nel toscano
{pirolOf piuolo, bischero, turacciolo, ecc.), e il primo (pirone)
nel siciliano {pirnni, pimneddu^ zipolo) e in qualche varietà
di dialetto toscano ed anche emiliano, con senso di cavicchU^
bischero, ferruzzo del clavicembalo. E qui ci si presenta natu-
ralmente anche il pirone che, con senso di forchelta^ è essen-
zialmente proprio de' vernacoli veneti, ladini e in parte lombardi,
r^oi avremmo adunque qui due riflessi fonetici d*una stessa
radice, cioè pir- e 6iV- {ctcpalla, balla, panca, banca, ecc.)
e due sufljssi -one e ólo, il quale ultimo ci dà ragione di con-
getturare, per la forma fondamentale del tema nominale pri-
mitivo, non già pÌ7^o, ma pirio, sicché da pirólo si assurga a
*piriolum, come per es. dal dial. varala a variola, ecc.^ Questo
piriolum ci conduce naturalmente al toscano pinolo {^pijuoh)^
* Il uap. pirolo per *perulo^ secondochd sonerebbe in questo dialetto la
forma analoga a pirólo, piuolo {^*piriolo), accenna a derivazione saecesaa
quando * pirio tì s^era già ridotto a piro, della, qual forma però, attestata
dal romanesco, non mi fan testimonianza nò testi nò vocabolaij napolitani.
Altra derivazione napolitana, che potrebb* essere così da *pirio come da pirOf
è peruóssolo, morfologicamente analogo air aretino piózsolo.
Postille etimologiche. 315
il quale sta per l'appunto ad un lat. *piriolttm, ììq\. pirólo^
come per es. il tose, ajuola, vajuolo, pajuolo alle basi *ariola
{areola), *variolo, *pariolo e alle dialettiche forme aróla, va-
rólOf paralo, ecc., e per conseguente non avrebbe punto a che
fare con piva, fr. pivot, ecc. con cui il Diez credette di con*
netterò etimologicamente il toscano pinolo {Et. w. V 325 e seg.).
E in quella guisa che noi veniamo ad avere questo doppio tipo
fonetico di pirolo e pinolo {pijuolo) pel riflesso della base
*pirtolum, cosi sarebbe da aspettarsi che il primitivo *pirium,
quando fosse ancor vivo ne* volgari italiani, si riproducesse
principalmente sotto la doppia forma di piro e pijo che sta-
rebbero fra loro come il dial. ara e il toscano aja=*arja, *aria,
area. E queste due voci abbiamo appunto la soddisfazione di
trovare, la prima nel romanesco piro, la seconda nelF aretino
pio (*pijo), che in questo stesso dialetto si presenta anche de-
riyato in piozxolo (= *pijozzolo, *piriociulum) ; e cosi piro, pio
(da *pijo), piàzzolo (per pijozzolo), significanti tutti cavicchio,
caviglio, pitMlo.
Se il toscano e segnatamente il fiorentino, come al dialettico
pirolo contrappone il suo pinolo, cosi anche pel dialettico jH-
rone presentasse un suo originario riscontro, la forma più ge-
nuina di questo avrebbe dovuto essere *pijone, contrattosi poscia
in Spione, analoga per es.* ad ajone {=*arjone, "arione, *areone
da area), accrescitivo à'aja, la cui forma più naturale pel ro-
manesco e pel napolitano sarebbe arone.
Pare adunque che sia da ammettersi come indubitata una
base *pirio, sopra la quale debbano naturalmente aggirarsi le
nostre indagini etimologiche.
Chiedendo al latino una voce con cui connettere cotesto *pirio,
esso non potrebbe darci, a me pare, se non epigrus, o, com* altri
leggono, epinrus, che secondo la definizione di Isidoro (Etym.
XIX, 19, 7) vale clavns qno lignnm Ugno adhceret, e signi-
ficherebbe quindi per T appunto cavicchio, caviglio, pinolo.
Questa voce ridotta mediante il dileguo dell' ^ che quf, come
di vocale atona ed iniziale, sarebbe assai naturale, airaferetico
pigms pinrns (forma resa anche verisimile dal pigros per
epigros che presentano alcuni testi di Seneca, Benef. II, 12),
e derivata per via dell* i formativo in pigrins o pinrins (cfr.
316 Picchia,
faggio = "fagitls da fagus, piaggia = *plagia da plaga), potrebbe
assai naturalmente convertirsi in *pirio. Non ostante però la
qualche yerisimiglianza che quest'etimo presenterebbe, masai-
mamente sotto T aspetto logico, io non dubiterei di rigettarlo,
e appigliarmi a un altro, secondo me, più assai yerisimile.
Il Salvini {Ann. sopra la Fiera, p. 419) a proposito di piùolo
ch'egli dice quasi piruolo, il Gagliardi {Lez. intomo all'ori^
gine, ecc. della lingua bresc, Voc. bresc. p. xxxvi e seg.), par-
lando del br. piró, forchetta, e il Pasqualino (Voc. sic. s. pira-
neddu) riferiscono l'origine di tali vocaboli al gr. ^relpeiv, forare^
trapassare. Per quanto cotesta etimologia non potesse dal lato
logico essere senza grande verisimigliahza, confesso che dinanzi
ad un semplice verbo greco, estraneo cosi al latino, come ai
volgari neolatini, avrei creduto doversi procedere con molta
ritenutezza nell' ammettere una tale origine. Ma cotestà etimo-
logia, che limitata ad una semplice indicazione del verbo ^nl^
sarebbe rimasta pur sempre una mera congettura e nulla più,
viene, secondo me, ad acquistare il massimo grado di yerisimi-
glianza rimpetto ad alcuni nomi 'del greco moderno, 1 quali,
mentre da un lato accennano manifestamente alla loro deriva-
zione dal detto verbo, dall'altro, e pel loro significato e per la
loro forma, mostrerebbero di avere probabilissimamente dato
origine ai nomi controversi dei dialetti italiani. Cotesti nomi
neogreci sono: TreXso;, dim. Treipxxiov, succhiello, zafifo, cavicchio,
pinolo, TTsifiov, vite, TvStpo-jviov , dim. Tustpo'jvàxiov , forchetta, for-
chettina, e Trs'.po'jvoSr/^r., forchettiera. Questi nomi, connessi in-
timamente con un verbo proprio della lingua a cui appartengono,
presentano assai chiara la loro nozione etimologica e signifi-
cano propriamente, come nomi di strumenti, foratojo, passatoja,
irapanatojo, trapassatojo, conficcatojo, infilzatojOt ecc. Quindi
è che mentre tali nomi sono per la lingua greca vocaboli in-
digeni ossia d'origine paesana, più noi sono per noi gì* ita-
liani corrispondenti (piro, pio, pirone, pirolo, birone, birolo,
piuoló), della cui significanza etimologica noi non possiamo
avere il minimo sentore nella nostra linguistica coscienza. Sic-
come però questi nomi italiani di forma derivata presentano
suffissi proprj de nostri volgari, è da credere che *pirio (gr.
-s'.piov; civ. paggio ^izxiìi'/j'f) sia la forma donde si derivarono
!
i
Postille etimologiche. 317
pirolOf pinolo {=*pirioló) e pirone, birone {:=^pirione), mentre
forse pirone, forchetta, s'introdusse con forma greca per mezzo
delle relazioni de' Bisantini co' Veneti, i quali poi comunicarono
questo vocabolo ai Ladini ed ai Lombardi. E cosi noi avremmo
avuto queste voci connesse colla vita nostra cotidiana e ma-
teriale di là stesso donde ci sarebbero pur venuti per es. boc-
cale, botte, borsa, colla, fanale, falò, mangano, piatto, sme-
riglio, ecc. (cfr. DiEz, Gr. P 57 e segg.).
Aggiungerò in ultimo che il Ducange registra, come proprio
di documenti ocitanici (Tolosa), bironerius, eh' egli dichiara per
gui vendit terebras, succhiellinajo; degli statuti marsìliesi, bi-
ronatus in senso di terebratus, foratus, succhiellato; e anche
galea pironada di scrittor veneto (Sanudo), per galea clavis
cùmpacta. Il francese piron, dinotante una specie di ganghero
proprio dell'arte de' magnani, è verisimìlmente connesso d'o-
rigine coir it. pirone , birone. Nel vocabolario etimologico del
Diez non è fatta, io credo, menzione dell'etimo di alcuno di
questi vocaboli; tranneché pel ptuo/o sopradetto e pel proven-
sale birou, birounieiro, succhiello, succhiellinajo, ch'egli cerca
di collegare etimologipamente col lat. veru {Et. io, V 442, s.
Terrina); ma che a me pare sia da dedursi anche esso, insieme
colle toccate voci ocitaniche, dal gr. Tzzi^m.
A p. 105, a proposito del mod. bledegh, solletico, il G. dice:
« Da licere o lecere (sic), piuttostochò da lacio, sembrano com-
» porsi i verbi adlicio, perlicio, sublicio, oblicio, delicio, elido,
» ne* quali primeggia sempre un'idea di moto, non un'idea di
» stato, di arresto o di legamento, quale appare negli usi che
» del verbo lacio fa il filarcaico Lucrezio. Da ledo o lido escono
» poi gì* iterativi ledo e lectico, ai quali, ove si anteponessero i
» preverbi sopravvisati , uscirebbero i verbi allettare ed alle-
» ticare, pellettare e pelleticare, sollettare e solleticare, oblet-
» tare ed obleticare, dilettare e dileticare, eiettare ed eleti-
» care, alquanti dei quali essendoci noti, fanno a noi fede sulla
» possibile esistenza dei rimanenti .... Da pelleticare verranno
» dunque le nostre belletiche che pronunciamo scortatamente
» hlédegh per significar quello appunto che i Toscani da sol-
» leticare dicono solletico. » A p. 290, registrando poi gattùz-
xel, che pei Modenesi è sinonimo di blédegh, egli dice: < I Fran-
318 Flechia,
» cesi, prendendo motivo dai molti fregamenti e dalle moine e
» ripassate del gatto, dicono gattugliare o chatouiller . • . Noi,
» per render meglio la leggerezza dei toccamenti, raoyiamo non
» da gatto, ma dal vezzeggiativo gattuccio o gattuxx, e ne de-
» duciamo il verbo gattucciolare o gattuzzlèr^ per cui gattut'-
» zel sono le gattucce ossia le moine gattesche che ci rappre-
» sentano i destri soffregamenti delle nostre dita. »
Il verbo licere o lecere qui non ha punto che fare. Allido
{adlido) pellicio (perlicio) ecc. non possono essere altrimenti
che da lacio, al quale essi stanno, come v. gr. affido, perfida^
ecc. a facio. 11 verbo lacio significa Hirar lusingando' e lo stesso
Lucrezio citato dal G. non nsoUo in altro senso, quando disse
lacere in plagas amoris (tirar lusingando nelle reti d*amore)
IV, 1 HO; lacere in fraudem (tirar carezzando in .inganno), 1201.
Ora il significato à'allicio, delido, elido, illido, pellido è
sostanzialmente lo stesso che quello di lacio, salvo che il trai-
mento che lacere -semplicemente e genericamente esprime, nei
composti viene meglio specificato. LMdea di stato che il O. dice
apparire negli usi lucreziani viene naturalmente esclusa dall* tn
che, reggendo V accusativo, indica moto .e non stato. Ammessi
poi, per semplice ipotesi, da forme d'iterativi altri verbi no-
vamente derivati per via à'ic come p. es. *delecticare, *pelle6^
ticare, già solo morfologicamente pochissimo verisimili, in quanto
sarebbero per avventura i soli di cotal formazione (-ect-ic-are)^
non vedremmo perchè T italiano o dirò meglio il toscano, come
da allectare, delectare ebbe allettare, dilettare, cosi da *ife-
lecticare *sublecticare, non avrebbe avuto diletticare, sollet"
ticare, cioè del gruppo et non avrebbe fatto tt, secondo che
portava la legge di trasfot*mazione, massime poi per essere coM
amato dal toscano il doppio t, che esso non solo Tha general-
mente dove, come qui, la regola il richiederebbe, ma non di
rado da un semplice ne ha fatto un doppio, tanto sotto T in-
fluenza dell'accento dopo la vocale tonica, come p. e. in pt-
gnatta-pineata (cfr. p. 311, n. 1), cattedra - cathedra^ attimo
-atomus, ecc. quanto anche dopo vocale disaccentata quale in
cattolico = catholicus, bottega ^ apotheca, ecc.
I Romani per significare 'solletico, solleticare' avevano, com'è
noto, tilillus, titillare, titillatio, titillatus, titillamcntum, a cui
Postille etimologiche. 319
aggiugneremo, come proprj della inedia latinità, gli agg. titillo-
sus (Fottc, App.) e titillicus (Db Janua, Cath.). Il tarantino
tiU4dicare e il nap. tillicare, Hllecare, tellecare, cellecare
(efr. ceslunia per testunia ^ testudinem) e il calabr. zillicare
accennano manifestamente ad un *titillicare derivato da iitil^
lare^ come per es. fellicare da fellare, vellicare da veliere.
Il napolitano ha pure i nomi tilleco (solletico) e tellecuso (che
patisce il solletico), e il verbo tellechejare o cellechejare (sol-
leticare), procedente da tilleco^ quale sarebbe un tose. *solleli^
chòggiare dedotto da solletico. Inoltre T 'ascella', còme parte
del corpo dove principalmente ha luogo il solletico , viene dai
Tarantini chiamata titiddeco (^ titillico), dai Napolitani tetel"
leca^ telleca, tillico, tilleco, sottatillico, sottatillecOj sottatel-
lecOt dagli Abruzzesi titella^ dai Toscani ditello, nomi tutti
etimologicamente connessi con titillus, titillare. Con *titilli''
care mostra pure di connettersi il romanesco tinticare, nato,
ascondo io credo, dalla sua forma metatetica tilliticare, che,
sincopandosi naturalmente in tilticare, passò quindi, con altera-
zione di 2 in n, in tinticare, (cfr. p. e. romanesco antro - altro).
Nel nap. telleco, tellecare ecco da vedersi un*'afere$i, nata
principalmente sotto V influenza della dissimilazione (cfr. Diez,
Et. w. V xxiii).
Dalla forma metatetica * tilliticare, donde il romanesco /m-
tieare^ viene con processi fonetici di diversa natura, il tose.
diliticare, dileticare, diletico, dove la dentale iniziale potò
passare, come in ditello = titillus, di sorda in sonora pur sotto
Tinfluenza della dissimilazione (cfr. p. e. tose. Ci^Wa/(2o= Cer-
otto, Cerreto-alto, Montaldo - Montalto, ecc.) S e il doppio l
* Non dabito punto di vedere in Certaldo un equivalente di cerreto + alto
(è svila cima d* un colle), donde, per concrezione e sincope, Cerretalto^ Cer^
Certaldo, La mutasione di un siffatto t in d non pud, mi sembra, in
ambiente dialettico recarsi ad altro che a principio di dissimilazione,
é por singolare che il Diez veda in ditello^ non già titillus, ma sì un nome
a ditOf ditale, cioè un nome procedente da digitus, osservando che
iITeCimo'di diUllo = titillus osterebbe del tutto la fonologia (J^t. to. II' 25).
Ma qaasto fenomeno, cioè il N mutato in d- per dissimilazione (cfr. Arch.
flift I, iad. 8. 'tute* ecc.), egli lo ammette pur già implicitamente, accettando,
fii (o. e. p. 68), dileticare = iileticare, A ditello fatto venir da digitus si
VA
220 Flecbia,
scempiarsi dopo vocale disaccentata (cfr. bulicare^er hullicare
da ebullire; balestra da ballista; puledro per pulledro da
pullus; mucilagine = mucillaginem). La forma tilliticare^ che
vediamo cosi trasformarsi in dileticare, potè, ridotta per aferesi
a liticare (cfr. nap. tellecare per tetellecare) e preceduta da
sub (cfr. nap. sottatilleco \ ascella), dare origine a solleticare
(« sub'liticare).
Quanto al mod. (regg. parm.) blédeg col relativo verbo bled'^
gher, bledgar, comincerò dall' avvertire che T equivalente ge«-
novese bullitigu, bullitigà, di forma meglio conservala, dee
manifestamente avere un tipo comune colle qui citate voci emi-
liane. Ma sarebbe per avventura assai diflScile mettere del tutto
in chiaro T origine e la formazione di tale lipo. Forse il se-
condo componente di bul4itigu, bul-litigà, b-ledg, b4edgher,
b'iedgar è quello stesso che ò in di-letico di-leticare, sol-letico
solleticare^ e la prima parte può riflettere il prefisso per che
qui renderebbesi piuttosto ovvio per T antica forma belletegà^
che trovo nelle rime genovesi di Paolo Foglietta, vissuto nella
potrebbe opporre, sotto l'aspetto morfologico, che una tale derivazione non
potrebbe dare se non un Tocabolo significante dito piccolo^ mignolo^ e se
r ascella avesse dovuto pigliar nome dalle dita, come parte del corpo in cui,
come dice il Diez, si ama di porre le dita, sarebbe stata chiamata noa già
ditello^ ma bensì molto più probabilmente *ditajo ( = digitarium)^ o dOaU
{= digitale). Noterò ancora come il romagnuolo didgl^ ditale, che ivi il Dias
fa rispondere anche di forma a ditello e air ant. fr. dee/, dial. cZeati, equivalga
morfologicamente ali* it. ditale^ boi. didal^ ecc. = digitale e presenti un ^' = d
(cfr. p. e. t§l=ztale^ amm$'/ = animale), fenomeno anche proprio di altri dia-
letti emiliani, dell* aretino, ecc. (cfr. Mussafia, Romagn. inund., p. 3 e aeg.;
Ascoli, Arch. gL tf., I 294, n. 2).
' Il composto nap. sottatilleco^ piuttosto che constare di sotta + tilleeo^ po-
trebbe essere che fosse un* alterazione di un soi + titilleco (^^^sub^titiUicus;
cfr. tar. titiddeco^ nap. tetelleca) e quindi si dovesse dividere in sot-^toHlUeo.
Va sostituito ali*! (e), anzichd essere fenomeno fonetico, potrebbe ripetersi
da un etimologia popolare che qui sentisse la prep. sotta (sotto), forma pro-
pria non solo del nap., del sic. e del sardo (mfto), ma anche di vaij dialetti
dell* Italia ruperiore; la quale farebbe presupporre un romano volgare Mubta
(supta)^ surrogato a subter^ subtus^ forse per influenza di supra^ infra^ eofifro,
intra. Il sub-titillicus^ che qui si congettura come base del sot-taHlUeo na-
politano, verrebbe anche a corroborare vieppiù la deduzione di solUtieare^
solletico da ^suh[tiljlitieare, *suh[til]liticus, *subHtillicare, '^subtiiillicus.
Postille etimologiche. 2^1
prima metà del secolo XVI {dr. ^. e. pellucidus =per'lucidus
ecc., e circa b^^p: bruciare -perustiare). E in questo caso il
lat. titillìis, titillare f essenzialmente riflesso nel toscano, nel
romanesco e nel napolitano, avrebbe eziandio una sporadica
rappresentanza neir Italia superiore mediante alcuni dialetti
emiliani e il genovese \
Venendo poi al mod. gattùzzeU gattuzzlér, pur significante
solletico f solleticare, gioverà anzitutto mettere innanzi altre
voci che pajono aver comunanza d'origine con queste del mo-
denese. Il trentino ha gattizzole, cattarigole, gattarigole; il
romagnuolo gattózzal, sgatùi, il ven. catorigole, il boi. ghettely
il berg. gatigol, gati, gatoli^ il ferr. gattuzz, il mant. gatuz-*
lole^ il hresc. gatigolj il ipsià. catizzole , il {rinì. gatarigoliSf
ghittiis, ghiti-ghiti ghitijà^ il sic, gatiigghiari, gattigghia-
mentu, gattigghiata, gattugghiari, chitichité (Modica ; cfr. friul.
ekiti-^hiti), diletico; il ventimìgliese ^a^ft^/ta, gattigliar; piem.
gatij {=:* gattiglio), gatié (Vopisco: gattigliare); il valverza-
schese ghetigà ; il posch. ghetta ; aless. gattgné, fé gattin, gai-
' li Muratori {Diss. 33 sopra U ani, t'f., a. solleticare) citando il modenese
far le bletiche (f§r al blédeg) e bleticare (bledghgr), soggiugne: «il latino
» vellicare significa pizzicare ; il che leggermente fatto vuol dir solleticare.
» Porse se ne formò velliticare^ frequentativo, mutato poi in bellitigare^ ble~
» tietare de* Modenesi ». Il frequentativo di vellicare sarebbe stato ^vellicitare
non *vellHicare* Se poi si fosse inteso di dire che da *vellicitare sarebbe
vamto per metatesi ^velliticare^ *belliticare^ *bl€ticare^ noteremmo che data
una metatesi, così di vel licitare come di sollicitare (digitis), donde lo stesso
Muratori trae il tose, solleticare^ le forme risultanti da questi verbi sareb-
bero state belliticare^ bleticare ^ solleticare ^ in quella guisa che per es. da
sucidut e fracidus vennero per metatesi non già sudico e fradico^ ma su-
dico e fradico; vale a dire che il suono palatino, il quale si dovrebbe supporre
che già si fosse svolto in *vellicitare e sollicitare quando seguì la metatesi,
avrebbe ancor mantenuto le sue ragioni nella secondaria sua posizione. Quando
perciò si volessero considerare il mod. bledghsr^ geu. betletegd^ bullitigd come
dedotti non senza una qualche verisimiglianza da velliticare^ questo verbo
dorrebbe piuttosto tenersi, non già per derivato di vellicare^ ma sì di veliere^
mediante il doppio suff. -t'M'c (cfr. p. es. ag-it-are^ fod-ic-are vell-ic-are^ da
^gere^ fodere^ veliere)^ e così quasi un equivalente di *vulsicare da veliere^
in analogia per es. di morsicare da mordere^ del romanesco vorticd^ svorticà
(s *o#/licare, ''^voluticare) da vohere (cfr. volto^ voltare per volutus^ oo/ti-
Uare\ ecc.
322 FJechU.
tìn. In tutti questi nomi o verbi si presenta una stessa
cale catt gat {ghet, ghit), alla quale non solo accennano ma*
Cora il fr. chatouiller, il borgognone gatailli, lorenesa gatUé.
vallone catK g<iti, gueU, il prov. catilh, gatilh^ gaiilhar. gm^
thià^ gaiig^f couiigà, couligcu^ ma forse anche il ted. hiUelm
solleticare, kitzel solletico, oland. hittelen, anglo sass. cttelon,
ingl. kiitle, per metatesi iickle, ant. nord, kitl {titillus)^ ecc.
Il Diez {EL u). IV 253) non dubita di derivare il fr. ehatcm^
iller e il prov. gatilhar dal lat eatulire^ andare in fregola,
mutato in catuliare, come cambire in cambiare; e ali* opi-
nione del Diez si accostano, ne* loro vocabolarj« il Littré, il Bra«
chet e, non senza qualche esitanza, anche lo Scbeler. Per qnanto
cotesta etimologia possa avere del verosimile, non si può ia*
tanto non avvertire come foneticamente il fr. chatùuilter pò*
trebbe avere fondamento in ^catuclare^ ^catuculare e il prov.
catilhar in ^caticlare, *caiiculare. A simili tipi sono pur re-
golarmente radducibili il sic. gattugghiari^ gatligghiari \ il
ventim. gattigliar, il piem. gatte. Fra le forme che ci si pre«
sentano nei dialetti dell'Italia superiore come fondate su caU
alcune accennano manifestamente ad un tipo *caticulo. Tali som
per es. il berg. e bresc. gatigol, crem. catigoL Altre mostrano
a ogni modo non aver punto a che fare col tipo catulire e
catuliare, come il pad. catizzole, mant. gatuzzole^ romagn. gm*
tozzal, il ven. catorigole e trent. cattaHgole** gaitarigote^ paU
tizzole, ecc. Alcune poi sembrano accennare anche più roani*
festamente a derivazioni da catus, gatto, quali per es. Talass.
gatin, her g. gati (m gattino), gatoli (- gattolino), (err. gatuzz
{e gattuccio), var. tir. gattaie^ mod. gattuzzel {^ gattùcciole), tee;
sicchò non potrebbe negarsi al tutto che tanto il fr. chatomller.
' Il sic. gattugghiari, gaUigghiari a* iotrodusM probsbilaenie in qiiMl*iiolft
iotieroe colla Tiiria mitre roci d'origìoa francata o frmneo>iUlica (cfr. ilrrà.
gì. it^ li. 33, n. 1); cha sltrìmaoti, vanando imnadisia da un romaso votfvt
cahte'lare, eatie^lare, ri tODerabba più varìsimilmaota gaUucekiari^ pmiHcchiÈrL
' 11 Caix {SUtr. d, lingua e d. diaL il., 57) eODDatta atimologieaoMBto fl
ytn, catoì'igoU col ini. scalpturiré , ratpara. Non è gran fatto probabiU eba
quatta voea ranata tia dÌTarta dal frìal. gattarigolis, traat. eailarigùté^
rigoU^ a ooo ti collagbi d* origina colla Taria altra coroinciaDti da c«l*« ji
le quali pare non abbiano ponto a ch<» fare con traipturire.
Postille etimologiche. 223
quanto le altre varie forme aventi per prima sillaba cat- gai-
{ehit^ ecc.) non possano muovere origfnariamente da caius che
sotto le derivate forme romano- volgari di catulus, caticulus^
caluculus^ catucius, ecc. abbia dato essere ai varj nomi e verbi
che pili apertamente mostrerebbero di collegarvisi. Un'analoga
connessione col nome significante gatto (cfr. ingl. kilten, gat-
tini ; ted. katze, kilze, kdtzchen, ecc.) potrebbero anche avere
la citate voci de*dialetti germanici; dalle quali però non è
gran fatto verosimile che possano derivarsi, come suppone il
Grandgagnage (s. v. cati), il fr. chatouiller e per conseguente
la altre voci affini dei volgari francesi e italiani ^
Sono ancora notevoli varie forme dialettiche dell* Italia su-
periore, e piuttosto lombarde, nelle quali la prima sillaba ò
gal {gar^ ghil) e che qualora si volessero connettere etimologi-
camente, secondo che alcuni fecero % colle voci comincianti per
cat^ gai^ presenterebbero difficoltà morfologiche e fonologiche
assai difficili a spianarsi. Tali sono mil. galitt {garitt), pav.
vogh. gaietta piac. glett, alto miU galiteg o galiceg, valt. ^At-
{t70t posch. ghiliciga. Forse, come le altre pajono connettersi
eoo gatto t gattaie , gattino ^ gattuccio, cosi queste con gallo^
galletto. Galett, galitt, garitt, glett (da galett) sarebbero ne'
dialetti, in cui s'incontrano, forme regolarmente rappresentanti
il piar, galletti; in galiteg^ ghiUciga si potrebbe vedere un
Dome verbale {gallettico) procedente da galitegà (galletticare),
eome diletico e solletico da dileticare, solleticare. E cosi noi
avremmo qui per rendere solletico, solleticare vocaboli di due
origini diverse, ma logicamente analoghe, le quali potrebbero
per avventura connettersi con espressioni popolari, dove i nomi
gatto e gallo entrassero segnatamente colla forma del dimi-
nutivo.
Dal sin qui detto apparirebbe in sostanza come il latino ti-
* Con questo tema cai, e più •peeUlmeate col friul. ghiti gkiti^ tic* chiti"
ehiié^ parrebbe connettersi nn Terbo chiticaré che, in senso di solleticare,
trovo regiatrsto dal Baruffaldi sotto la sdrucciola -tttco.
' Lo Sebaeller (Die rom. volhsmund. in Sudtirol^ 145) e il Caix (op. cit., 59)
wmàoao in qneste forme una metatesi, sicchd per es. il lomb* galit equivalga a
^gmUi^ • per eonsegaensa si colleghi etimologicamente per es. col boi. gheiUl^
pi«RL. ^oliV, ^afi/i ^cc., fr. chatouiUtr^ lat. caiulire.
324 Flechia,
tilluSf tUillare siasi mantenuto sotto varie forme e derivazioni
volgari deir Italia media e meridionale e per avventura nel
genovese e in alcuni dialetti dell* Emilia (mod. regg. parm.),
mentre i dialetti dell* Italia superiore in genere accennano in
un coi francesi ad una radice cat^ non estranea forse ai dia-
letti germanici, e presentano inoltre la rad. gali che, secondo
si è già notato, potrebbe connettersi con gallo come cat con
catus, gatto. Alle voci anzidette si possono ancora aggiungere
come sporadiche il march, morsicare, morsicoso; gli aret. cidelo
e scare felo, che in forma genericamente toscana sarebbero
cidolo, scara foto; il veronese carizole, e i sardi coricori^ zìH"
zirugu, zinziringu, ciculittas (log.), chirighittas (mer.), gattu
gattu (gali,) \ la quale ultima espressione giova a render veri-
simile quello che si disse di sopra in ordine a gatto; e farebbe an-
che credere che a gatto gatto possano etimologicamente equiva-
lere il friuL ghitighiti e il sic. chitichité, E pressoché superfluo
r avvertire come varj vernacoli, non avendo se non dei nomi per
. rendere il senso del verbo solleticare, prepongono ad essi nomi
il verbo fare, onde per es. mil. fa i galitt (fare i galletti),
sardo fagher coricori (far e), fai is chirighittas (far le eh.),
aret. fere lo scare felo.
In questo stesso articolo (p. 195 e seg.) il 6. cerca ancora
di connettere con quel suo ipotetico iterativo di licere che per
lui equivale anche a liquere, cioè Iettare (lectaré) e leticare
(lecticaré): primieramente per via di ^Iettare o *lezzare non
solo il mod. lezza, fango sdrucciolevole e intriso, ma anche Vìi.
lezia, lezio, lezioso ' ; poi per via di ^leticare il mod. ledga^
fanghiglia, ledig, viscido; la quale ultima voce egli vede ancora
neiragg. mod. smulédeg (= molle -i- letico), molliccio, lubrico; e
infine per via di *jpellettare (= *pellectare, per-lectare), il to-
scano belletta. É quasi superfluo il notare T inverisimiglianza
di tutte queste originazioni. Il mod. smulédeg, per es., non può
essere altro che un semplice derivato da molle per mezzo di
' Il soddixighi tempiese non pud essere altro che una Toce etimologiea-
mente rispondente a soUetico.
* L'etimologia più verisimile di lezia ^ lezio^ lezioso ò quella che tiene
queste tocì per procedenti da delicia, deliciosus (cfr. Disz, Ei. to. I' 41).
Postille etimologiche. 325
un suflSsso complesso e sporadico it-ico, quale trovasi per es. in
sorbitico (Sannazzaro, Bonarroti), 'avente natura o sapore di
sorba'; ed equivale quindi a moll-itico^ o, con suono più emi-
liano, molletico, che ò appunto la forma con cui il Vocabolista
bolognese (s. v.) accenna all'odierno smuledg di questo dialetto.
Quanto a ledeg e ledga ò assai probabile che insieme col parm.
e regg. lidga^ belletta e ant. mil. ledeg^ grasso, untume, mant.
dleg^ strutto, rappresentino una forma metatetica di liquido
{*lichidOt *lighido) passato in *lidigo, *ledigo, ^ledego, con fe-
nomeno analogo a quello che presenta il lomb.-emil. fideg, fedeg
per fighed t= ficatum (cfr. Arch. gì. II, p. 4), della quale ori-
gina partecipano forse anche il mil. Ulta, littori^ e con n = T, il
piam. a prov. nita, belletta, dove si avrebbe una forma non me-
tatetioa, ma solo sincopata di liquida {likida)^ cioè ^licda^ che
sarebbesi poi conversa in litia^ nitta (nfto), mediante un assi-
milazione bilaterale*.
* Il passaggio di l- io n- ha, per Tero dire, principalmente luogo per ef-
fetto di dissimilazione come per es. nel mil. navg 1= labellum^ paT. ndola^lòo'ia
(= lobula da lobo), pannocchia, berg. nodolazz lodala {alaudula)^ crem. nop-
pol=^ lappola (lapa), ecc. od anche d* assimilazione, come per es. nel parm.
onvim = ntiptftt, crem. nuénzz lupino^ ecc.; ma non ne mancano per avven-
torm asempj anche fuor dell* azione dissimilatiTa od assimilativa, come v. gr.
nel geo. (contado) necca (- leéca, electa)^ eletta, scelta (cfr. lomb., piem. equir.
U£a)t var. piem. (Pamp. p. e.) nùpia^lùpia^ mil. loja^ lój per noja^ ndj
(tffi-ocfia, tn-odto); nelPant. san. nero = loro (Milanesi, Doc, per la storia
delVarU san,. 111, 280). É tuttavia da avvertire che questo noro si trova nel
suo costrutto preceduto da li {li noro ornamenti) e non à quindi improbabile
che qui pure il fenomeno si operi in forza di dissimilazione (/-n= l~l] cfr. per
es. pì^m. lodnazz lodla, lodula^ alaudula)\ come potrebb* essere che da uno
•teuo principio si dovesse ripetere il n di nita e necca ^ dovuto principal-
mente al costrutto ordinario la litta-illam *licdam (liquidam), dare, la-
sciare, avere la lecca (v. Oliveri, Dis, gen.-it,^ s. neccia).
* Di cotale assimilazione progressiva e regressiva ad un tempo, vale a dire
progressivamente qualitativa e regressivamente quantitativa, abbiamo, s*io
non m' inganno, esempj in ratto = rap'do^ rapido (che il Diez trae da raptus
anche in senso di veloce. Et. io. II' 57) e in cutretta = coldàl-trep^da (cauda^
trepidai cfr. coditremola^ codinzinzola) che il Diez deriva da cauda-recta
(ivi p. 24). Altri esempj di siffatta assimilazione bilaterale ci si presentano
in dojji = *dod'ci^ dodici^ dozzina = *dod^cina^ dodicina^ sozzo = *Sì»d'cio^
eudieio (da sucido), frazzo zz frad^cio^ fradicio (da /roctdo), laizo (l-azzo)
= l'od'cio^ *l'adicio (da acido^ con prostesi concretiva dell* articolo). L* azione
356 Picchia,
P. 205 «Bubel. Fantoccello, fantoccino, bambolo. Un* antica
» voce celtica registrata dal dotto Schilter è bube, e questa
» valse e vale tuttavia in Germania pupus o puterulus; bubel
> equivale dunque a pupultis, ossia a fanticello o fantoccello,
» con una leggera tinta di spregio. Di qui bubaléd o bùbel per
» bambolaggini, fanciullaggini, bubbole. »
Per identificare il modenese hùhel col Ini. pupulus non oc*
corre la citazione di un celtico o teutonico buhe. Neil* ambiente
modenese bubel riflette assai regolarmente pupulìis^ dim. di
pupus, fanciullo, nome che il latino possedeva di proprio fondo
con radice verisimilmente comune a puer, pusus, putus. Il teu-
tonico bube ò dagli etimologi tedeschi (parlo di Orimm e della
sua scuola) considerato come voce pur loro venuta dal lat. jm-
pus (cfr. Zeitschr. f. vgl, spr., X 459). Quanto a b^p abbiamo
qui la stessa relazione di suono che neiremiliano bubla, bubbla
r:^upupula, tose, bubbola; salvo che in bùbel il primo b potè
svolgersi come iniziale, per assimilazione, dal p dìpubel, mentre
in bubla, bubbola le due labiali sonore poterono nascere con-
sentaneamente dalle sorde di ttpupula in forza di uno stesso
principio di digradamento fonetico, quando la prima non era
ancora, per aferesi, diventata iniziale. Notevole infine la con-
fusione etimologica di bubal§d = *pupulata^ con bùbel *bnb-
bole\ avendo questa voce origine diversa, comune colfit. bub^
boia.
À p. 205 e seg. vede nella prima parte del mod. bìidenfi
(bu'd-enfi), tragonfio, la particella bu (po'j) che usata dai
Greci in alcune composizioni a mo* di prefisso aveva il signi-
ficato di grande, onde p. e. bulimus, gran fame, ecc. e nel d
vede una lettera interposta ad evitare IMato. A me pare che
cotesta connessione col greco bu^ già per so stessa molto in-
assiinilativa (progressivamente qualitativa) della dentale sonora in questi
ultimi esempj si manifesta nel suono dello i (cioè i sonoro, non sordo); it
qual suono qui impedisce d'ammettere l'equazione di so^zo^^sucfus^ ^sveCm^
sucidus^ seeondoché correbbe il Diez {Or. V 184; Et %o. V 404, s. sueido); pe-
rocché in questo caso ne sarebbe uscito sozzo e non sozio^ cioè Io jr sordo
e non sonoro, come per es. in paoonazzo = *pavonacjo^ *pavonacio^ pavana^
ceus^ e generalmente ne' suff. -azzo^ ^ozso^ ^^tzzo^-acjo^ -ocfo^ -ucfo; -ocM,
-ocw, -ucio; 'Ctceo "Oceo -uceo.
Postille etimologiche. 327
Terosimile, si renda anche più tale dinanzi ad alcune altre voci
neolatine, dal O. non avvertite, le quali manifestamente si con-
nettono col budenfi o ìmdeinfi dei dialetti emiliani. Queste voci
sono p. es. il prov. ìxmdenflà^ gonfiare, fr. boursouffler (per
ioud'Sauffler)^ piem. hurenfi, gonfio, ecc., nelle quali voci sembra
piuttosto doversi vedere un prefisso accennante a hod- (bot), il
cui d, passato in r nelle due ultime voci, non potrebbe poi in
baursouffer tenersi per lettera avventizia ed inserta per evitare
l'iato. E non sarebbe forse al tutto inverosimile, che, secondo
presume il Diez {Et. tv. IP 233, s. bouder), questo bod si con-
netta etimologicamente col lat. bot-uhis, bot-ellus, che signi-
ficando presso i Romani le interiora, specialmente in quanto
sono rimpinzate e farcite, quindi salsiccia, importavano impli-
eitameote la nozione di gonfiezza. Al qual proposito sarebbe
ancora da mettersi innanzi il fr. bouder, stare ingrognato, propr.
star gonfio, botidin, piem. lomb. ecc. budin, bodin, sanguinac-
cio» ecc. È quasi superfiuo l'accennare che T ultima parte di
budenfi f cioè enfi, risponde all' it. enfio, che sta a inflare, en-
fiare, come gonfio a confiate, gonfiare. Cfr. Mussafia, Beitrag
M. kunde der nordit mund., p. 35, n.
A p. 206, sotto budenfi, dice che la botta era detta bufo dai
latini pure a particula bu quce magnitudinem signat; e nella
medesima pagina sotto buffa, dopo di aver detto che buffe
Un^onomatopea imitante il gonfiar delle gote e trovasi quindi
in buffo, sbuffare, soggiugne: «e bufo dissero i latini il rospo
e la botta che si gonfia appynto e s'abbotta soffiando». Messe
cosi assolutamente innanzi, l'una di queste etimologie viene
naturalmente ad escluder l'altra. Lasciando da parte la prima,
come del tutto inverosimile, potremmo ammettere, quantunque
XDolto ardita, la seconda e dire che dato un ipotetico verbo
buffare o bufere, soffiare, gonfiarsi, se n'avrebbe in bufo,
buf'Onis, un nome d'agente analogo a bibonem (da bibere),
edonem (da edere), ecc., passato ad appellativo; e cosi questo
nome latino del rospo significherebbe propriamente soffiante,
w/ftone, gonfiantesi. Un cosifatto nome d'animale risponderebbe
assai bene alla psicologia popolare. Cfr. p. es. il tose, fischione,
nome di una specie d'anitra che i Francesi dicono canard siffleur,
ì Tedeschi pfeif-ente, V anas penelope di Linneo.
328 Plechia,
P. 206 4c Buf el. Bufalo, bufolo. Piuttosto che da buhalus, si
> direbbe venisse dalla pronuncia grecanica bupalus^ giacchò si
» converte in /*meglia lap che la &». Il fnato da b latino non
è ne* volgari italici tanto raro che occorra di mettere avanti
un altro suono donde ripeterlo; testimonio bifolco = bubulcu8f
tafano = tabanus, tartufo = terros-tuber , scarafaggio = '^scarci'
bajus, scarabceus. Del resto, e il G. non V ignora punto, erano
già proprie del tempo de* Romani le forme bubalìis e bufalus,
rubus e rufus, sibilus e sifilus^ Albius e Alfius, differenzia-
menti dovuti in parte a varietà di leggi fonetiche, proprie d^li
antichi dialetti italici.
P. 207 e seg. Propende a derivare insieme col Muratori {Ant
it^ diss. xxxiii) bucato (modenese bughgda) dal ted. bauchen,
bucheriy far il bucato, lavare. Sembra molto più verisimile Te-
timologia di bucato fatto venire da buca, bucare, adottata, fra
gli altri, dal Ferrari, dal Menagio, dal Tassoni e dallo stesso
Diez {Et. w. I 91, s. bucato). Sarebbe stato cosi detto il bucato
perchè secondo il Tassoni «le donne di villa sogliono farla
(una cotal bollitura di cenci) in un tronco di salcio o d* altro
albero smidollato e sbucato dal tempo » o, secondo par più pro-
babile, perchè il ranno si coli attraverso a un panno minuta-
mente foracchiato (oggi detto ceneracciolo), sovrapposto ai panni
sucidi che sono nella conca del bucato. Il G. confronta poi il
mod. bugjieda col prov., sp. e ven. bugada, col piem. bugà
(var. bua), ecc. Scegli fa questo riscontro per accennare a ^ = c,
mi par superfluo, come di cosa regolare; se per accennare alla
forma feminile dinanzi al maschile bucato della lingua comune
d'Italia, sarebbe, mi pare, qui tornato molto acconcio l* avvertire
come il maschile bucato sia nella famiglia de* volgari italici,
anzi neolatini, essenzialmente proprio del fiorentino, e come tutti
i nostri dialetti non toscani e anche alcuni fra i toscani (aretino,
sanese, ecc.) abbiano la forma feminile; sicché qui venga ad
essere uno dei tanti, anzi ordinarj, casi in cui la forma fiorentina,
trionfante su quella o su quelle della grandissima maggioranza
dei dialetti italiani, venne accettata ad occhi chiusi e inconsa-
pevolmente dair intiera nazione.
P. 209 «Buia coiru lata. Pula. Per 1* attraizione della liquida
» noi la diciamo da bulga che gli antichi Romani enunciavano
Postille etimologiche. 329
» cosi in luogo di vulva o follicolo » come lo attesta Lucilio
» presso Nonio; e quindi bida, o più scolpitamente |)uZ/a e puUon,
»8ono r involucro o quasi la matrice dei semi e delle biade.»
La parola bulga (donde, per via di hulgea, hulgia, V it. bolgia,
fr. bouge, bougette, ecc.), secondo che abbiamo dallo stesso
Pesto» è Toce gallica (e forse anco germanica), significante sac-
chetto di pelle; e la troviamo adoperata assai per tempo dai
Latini in senso di borsa, valigia, bisaccia; né so se si potrebbe
nel campo latino connettere etimologicamente con vulva, quan-
tanque Lucilio T abbia adoperata con questo significato: ita ut
quisq, nostrum e bulga est matris in lucem editus; e non
credo che la fonologia possa ammettere 1a trasformazione di
bulga neirit. pu^a, che certo è una medesima cosa con bulay
come palla lo è con balla, panca con banca. Per meno inve-
rìsimile avrei pula e buia nati, come congettura il Ferrano, dal
lat. apluda *, perocché il significato é lo stesso, e le leggi di
trasformazione sono o regolari od almanco non senza qualche
analogo esempio: regolare Taferesi dell* a atono, come in mor-
ehia-amurc'la, amurcula, ragno -araneo, ecc.; abbastanza
regolare in buia, massime come proprio de* dialetti dell* Italia
superiore, il p mutato in 6: bubbola ^ upupula, bottega -ape-
thecùt bacio = opacivus, ecc.; non senza esempio la perdita di
l immediatamente dopo consonante, onde p. es. ìomh. pi'i^ plus,
ecc. (cfr. Nomi locali del Nap. ecc., p. 10, n. e) ; né senza esem-
pio iltf mutato in /, come in cicala - cicada, caluco ^ caduco,
ecc. Mi par pertanto che, se di pula e buia vogliamo un* eti-
mologia non al tutto in verisimile, sia cotesta à' apluda, già
sigtiificante presso i Romani loppa, lolla, pula.
P. 209. Fa venire bur, buro, bujo dal verbo buro (cfr. com'^
buro, bustum), osservando come questo verbo inchiudesse Tidea
della sepoltura, del sotterraneo, cupo e religioso, quindi, come
verbo sepolcrale, la nozione d*atro, nericante, ecc. Questa eti-
mologia non mi par gran fatto persuasiva, massime dal lato
della morfologia che mal saprebbe ammettere un aggettivo ro-
manzo cavato cosi senza più da un tema verbale. Molto più
• PuN. B. n., xvni, 23: Milii et panici et sesamce purgamenta apludam
voeant et alibi aliis nominibus,
ArehiTto glottol. ital.. II. »
330 Plechia,
verisimile è la già messa innanzi dal Caninio e dal Monosini
e accettata dal Menagio e dal Diez, cioè quella che fa venir
questa parola dal lat. burrus, gr. wuppò^, rosso scuro. Abbiamo
già avuto occasione di accennare a forme nominali derivate me-
diante il suff. 4o (cfr, Arch. glotLyl, ind. II, forme, -io; Diez,
Gr, IP 301); ora il toscano hujo ci conduce appunto a huritis
da hurrius per hurrus ; e da questo medesimo burius ne venne
regolarmente il buro, bur degli altri dialetti (cfr. Arch. glott I,
num. 99 e Diez EL w. V 94).
P. 213. < Burnisa, cinigia. I latini chiamavano prunà il vivus
» carbo o la bragia. Se noi ne chiediamo la nozione agli eti-
> mologisti, questi ci risponderanno che pruna viene à™ toì>
» 7:op(5?, sive a mpoOv ignitum esse, ut dicatur quasi jpwrina.
» Seguitando questa derivazione pruna sarebbe una metatesi
» od un trasponimento del grecanico puma, per cui noi mode-
» nesi, nominando burnisa il frantume di brago e la cenere calda,
» ciò che latinamente sarebbesi potuto dire prunicia, siamo più
» greci che romani, e stiamo contenti a raddolcire il p in & come
> spes§o nelle voci pervenuteci da fonte ellenica. » Assai veri-
simile cosi l'origine di burnisa dal la.t pruna , bragia, come
la connessione etimologica di questa voce latina col greco Trup,
fuoco. Diciamo connessione e non origine, essendoché cotesto
modo -di considerare il latino, in quanto è connesso etimologi-
camente col greco, quasi un derivato da questo non sia più am-
missibile oggidì che dalla grammatica comparata è stata^iven-
dicata T autonomia cosi morfologica come etimologica degli an-
tichi dialetti italici. Quindi è che per noi pruna non può essere
metatesi d' un grecanico puma né burnisa più greco che ro-
mano. Si tratta di un riflesso biforme di una radice indoeuropea :
pur, pru, forme ampliate purs, prus (cfr. sanscr. prws, bru-
ciare), colla quale ultima si connetterebbero pruna = prus-na
{ctv. cena^ces-na), prurio = prus-i-o. Burnisa poi non è che
una forma metatetica per brunisa da prunicia^ al qual pro-
posito si confrontino p. e. mod. cherdinzon = credenzone, cher-
senta = crescente, ferdor = freddare, ecc. Circa il p mutato in b
non occorre la fonte ellenica, giacché per questo rispetto bur-
nisa da brunisa starebbe a prunicia, com^ p. e. il mod. brogna
sta a prugna, pruna, V it. bruciare a ^prustiare, ^perustiare^
Postille etimologiche. 331
p«r pemstare, brustolare a ^pnistulare, perustulare, brina a
pruina^ ecc. dove il passaggio di p in b può considerarsi come
effetto d* assimilazione quantitativa di r sonoro sopra p sordo.
E qui torna assai ovvio, a proposito di burnisa, T allegare un
Tocabolo molto esteso nella famiglia de' dialetti gallo-italici il
quale si connette pure etimologicamente con pruìia, bragia, e
presenta, come burnisa, la mutazione di p in & e la metatesi
di r, voglio dire il nome della paletta del fuoco, che presso i
Lombardi e i Piemontesi suona bernazz, bcrna^, barnag, ecc.
I Latini, com'è noto, chiamavano la paletta batillum e in
Orazio {Sat. I, 5, 35) abbiamo prunojque batillum, una pa-
letta di bragia. Ora egli è assai verisimile che a meglio spe-
cificare questo significato di batillum che usavasi anche in
sén^o più b men generico di pala, siasi detto batillnih pru^
naceum o prunacium (cfr. focacius), cioè la pala delle brace,
relativa alle brace; e codesto prunacium venuto, come fa non
di rado l'aggettivo specificante, a prendere il luogo del sostan-
tivo specificato ^ in quella guisa che neU' Italia media e me-
ridionale avrebbe dato ^prunaccio, *prunazzo, cosi diede ne'
nostri dialetti le corrispondenti forme sovrallegate che consi-
derate nel loro ambiente linguistico sono tanto regolari quanto
sarebbero stati verbigrazia prunaccio e prunaxzo nel toscano,
nel romanesco e nel napolitano. Questa etimologia trovo già
messa innanzi dal Varon Milanese (1G06); al qual proposito
piacemi di citare le parole di Ottavio Ferrario, come quegli che
nelle sue Origines linguae italicae, sotto bernaccio, secondo che
egli italianizza la forma lombardo-piemontese, dà addosso agli
etimologisti grecomani che, come furono sino ai giorni 'nostri
pel latino, cosi non mancarono pei volgari neolatini: « Bernac-
9 ciò Insubres vocant batillum, sive palam focariam, gestandis
> prunis, unde nomen invenit quasi pr^tmatium, Extat libellus
» ioscriptus Varrò Mediolanensis, cujus auctor fertur Ignatius
» AlbanuSy qui licet in eadem haeresi sit, in qua et Perionius
• Cfr. cinghiale da porcus singularis; giaculatoria da prex jaculatoria\
inverno da tempus hibernum ; domenica da dies dominica ; fontana da aqua
fontana^ pignatta da olla pineata (cfr. nap. sic. pignata, sardo (mer.) pin-
§adti)\ dial. giobia^ giobbia da dies Jovia, ecc.
332 Flechia,
» et tot alii fuerunt, ut omnia a grseco, non minus ambitiose
» quam infeliciter torquenda, crediderit \ et ideo easdem fere
» ineptias obtruserit, pauca tamen habet non spernenda, inter
» qu3e hanc prunatii sive bernatii notationem. Menagius in gal-
» licis ubi bernage, quod gallice viri principis vasarium, sar-
» cinas atque impedimenta significata originem inquirit, addit
» apud Delfinates bernage palam focariam significare. > È quasi
superfluo l'avvertire come il primo bernage^ equivalente al prov.
barnage, fr. baronnage, it. baronaggio, non abbia punto che
fare col fatto nostro, mentre il bernage de' Delfinatesi in senso
di paletta, pur connettendosi col lat. pruna insieme colle so-
vrallegaie forme lomb. e piem., se ne distacca però morfologica-
mente, giacché esso, insieme col bernage e barnajo di alcune
terre piemontesi e col bernadzo della Svizzera romanza, procede
da batillum prunaticum, come il bernar, pur della Svizzera,
viene da 6. prunarium, Cfr. Mussafia, Beitrag ecc., 37, n., e
Ascoli, Arch.^ I 545, s. burni[d]u.
P. 223. Dopo di avere, a proposito del mod. carciofen, car-
ciofo, accennato all'origine arabica di questa voce, del che pare
non sia da dubitarsi (cfr. Diez, Et. w. V 34), il G. soggiugne:
4c la desinenza in n lascierebbe sospettare che carciofen fosse
» un aggettivo sostantivato, come sarebbe carduus carciòfinus ».
Il carciofen del modenese, egualmente che il carciòfano toscano,
rispondono piuttosto ad una forma che in italiano sonerebbe
più regolarmente carciofolo. Carciofola e carciofole disse l'A-
riosto nelle sue commedie, carciofola ha il napolitano, carciofel
il bolognese, ecc. Or dunque, cosi carciofen come carciòfano
sarebbero nati da carciofolo^, forma assai regolare che starebbe
a carciofo, come p. e. il lomb. caroiola a carota, e il tosò, seg^
gioia a seggia, cucuzzolo a cucuzzo, ecc., e l passato in n
presenterebbe fenomeno analogo a quello di garofano -carofilum
da caryophyllum, modano da modulus, muggine da mugile, ecc.
P. 225, il G., s. casél, cascina, dice che cag, gaglio, presame.
* Si può vedere a questo proposito Fuchs, Die romanischen sprachen^ p. 10
e segg.
* Il fior, carcioferaccio {acanthus mollis) del Micheli e di 0. Targioni Toz-
zetti (Dir, bot.-it^ s. v.) non può equivalere ad altro che a carciofo laccio^ e
presuppone quindi carciofolo.
Postille etimologiche. 333
Tiene da coagium, che, secondo lui, sarebbe il primitivo di
eoagulum. Il non avvertire debitamente le leggi di trasforma-
zione ha tratto qui in un grosso errore il G. Cag, cosi nel dia-
letto mod., come in altri dell* Italia superiore, ò un risultato
tanto regolare di cagVum, alterazione di coaguhim, quanto lo
eia inequivalente tose, cagghio, gagghio, caglio, gaglio; e quanto
p. e. il mod. spèé » speclum da speculum ; nel primo caso con
gì riflesso da g, nel secondo con ci da e. Vorrà dunque il G.
ricondurre spéc ad uno specium, primitivo di speculumì Dato
poi per ipotesi un *coagium, esso avrebbe potuto essere primi-
tivo di un ^coagiolum, non di coagulum, che è esso stesso un
nome primitivo e si connette cosi immediatamente col tema di
agerCf quanto potrebbe il suo ipotetico ^coagium^ il quale, quando
Teramente fosse esistito, sarebbe stato riflesso nel mod. da cai
e non da cag.
A p. 228 fa venire cavzcal, capezzale, da un capitale della
bassa latinità. Non da capitale, ma da capitiale; e questo da
capitium, circa i cui varj significati vedasi il Porcellini. Da ea-
pitale non poteva venire al modenese se non cavdwl, come
Tennero da capitone cavdon, da capitino cavden, da capitanea
cavdagna. Capitium ha pur dato il mod. cavezz, e, mediante
il 8uff. 'ulo, il tose, capezzolo.
P. 230. il Che liif lui qui. Noi da hic, invertendo le lettere,
» caviamo non chi, ma con pronuncia rusticana che, ecc. ». Qui
lo stesso frantendimento notato a p. 5 e seg. Non da hic con
trasposizione di e, ma da eccu-hic, donde V it. qui, ant. fr. equi^
iqui, sp. e prov. aqui ecc., come da eccu-hac V it. qua ecc., men-
tre da ecce- hic venne, tra gli altri, il piem. fi, da ecqe^ hac il
piem. fa, mil. sa ecc. ; in tutte queste forme colla perdita na-
turale del e finale e nelle italiane con inoltre Taf eresi dell*^
(cfr. CIÒ = ecce-hoc, però = per-hoc).
P. 231 e seg. ^Ciold, chiodo. Da claudere o elodere fatto
» clodus in senso di clavus, noi per metatesi ne femmo coldus
» e cold, ed ausiliando la o, per consueto ricordo della liquida,
» ciold. Cosi clavis divenne deva, clarus cier, clamare ciamér,
» e simili. » Una forma analoga ali* italiano chiodo in modenese
sarebbe éod; ora io non sarei alieno dal vedere nel cold mo-
denese (proprio anche del ferr. regg. e parm.) un l parassitico
S^4 Floehia,
Of eome dieono più eomonementa i grammatici, ^MBtekieo^ sic*
che éold eqairalga etimologicame&te al éod boi. miL ecc. e
chiodo toscano. Abbiamo 1* epentesi di / dinanzi: a consonante
p. e. hA sanese alhaco per abaco, yen. albeo da abete , mst.
pad. imeltnwyrìa^ tose. soccoUrino per soccoirino^ ecc. Ammessa
pare, come Torrebbe il G., la forma ipotetica di coldtis da da'
duSf ne sarebbe Tenuto cold, non éo/d; né il passaggio della
gnttorale in palatina o, come dice il G., il e aosiliato, sarebbe
qui punto Tcrisimile, perocché gli esempj di canja ^^ clavis, cwr
m clarus, camwr - clamare fanno piuttosto contro, che non prò*
Tino, essendo in essi il suono palatino del e dovuto alla sua
combinazione con l latino, che non s'è mosso di luogo. Quanto
poi al come chiodo (e quindi éod, éold, ecc.) si connetta eti-
mologicamente con clavus, si può vedere il Disz, Et io., II* 20,
s. Y. e I 181, s. fio. Io osserverò solo come insieme con chiodo
siavi pur chiovo ( nap. chiuovo, sic. chiome, ecc.), più vicino a
clavus; come un o sostituito per assimilazione ad a tonico si
abbia in Piovo, n. pr,, nato verisimilmente da Flavixis, nei dial.
cov, cóv (It. sup.) da cavus (cfr. Tequiv, covone), nell'aret. chió^
vola chióvela = clavula (per clavicula) da clavis, articolazione,
donde schiovolarsi {- exclavulare) un braccio, slogarsi un b.
(cfr. Redi, Voc, ar. s. vv.). Quanto poi a v subentrato a d, cfr.
ftrado (non domato) per bravo, padiglione àsipaviglione (=lat.pa-
pilionem), vidanda = vivanda (ant. pis. ), biodo, biadetto dirim-
petto a biavo = biavo dal germ. blau, blaw (cfr. Diez, Et. w.,
V 65, s. biavo), sicché biodo = ""biovo (cfr. dial. biov canav. *) sta-
rebbe appunto, cosi per o = a come per d = v, a, biavo, biavo,
come chiodo - chiovo sta a chiavo, davo. Cfr. però Mussafia,
Beitr. ecc. (43, s. chioldo), pel quale il mod. éold sarebbe da
clau-d'Um, clau-um, clavum, quindi con ol^au (cfr. p. e. friul.
góldi , goldé = gaudere) ; dichiarazione che si renderebbe assai
verisimile oesl dal lad. tlald = claud (s. Martino in Val Ma-
rubio), come dal friul. claud, due forme procedenti entrambe
da clavus (cfr. Arch, gì., 1 357, 513) e che potrebbero far so-
spettare nell'o di chiodo, éodo, éod, éo, ecc. dell' It. sup. un
* Per esempio nel piveroiiese, dove parallela in tutto a biov - biovo^ biavo
viene a trovarsi la forma ciov ^chiovo, davo. Cfr. inoltre Nigra, Arch. gl.^ Ili i6.
Postille etimologiche. 335
riflesso à'au romanzo, quale p. e. in topa, topo^taupa, talpa;
sospetto, però, non ammissibile per Vo di chiovo, la cui origi-
naria semplicità sarebbe, tra T altre ragioni, provata, parmi,
dairtio del nap. chiuovo; e il cui suono aperto, contrario alla
regola come di surrogante Va lungo di clàvus, sarebbe dovuto
allo stesso principio, pel quale suonano aperti cosi Ve di ghieva
come Vo di ghiova, procedenti entrambi dall*^ di glèba. Su-
perfluo il notare come il "claudus o *claudum, a cui s'appunta
il friul. claud e per avventura anche chiodo, codo, ecc., non
accennerebbe punto ad origine da claudere, come suppone il 6. ;
ma insieme con tutte le altre citate forme vengano ad essere
veri riflessi fonetici dell' originario tipo clavus.
A p. 236 le voci mod. cocca e coza, significanti guscio , e
Taltima anche guscio marino, conchiglia, sono dal 6. dedotte
entrambe da uno stesso fonte, cioè da cochlea, À questo rag-
guaglio osta la fonologia. Sta bene che cocca proceda da cochlea
oome p. e. il mod. cucccvr da cochlearium; e ciò secondo l'e-
quazione ca = c[l]ja, dia, propria di buona parte de' dialetti
dell'Italia superiore; ma coza noi potrebbe di niuna guisa, in
qaanto rifletta un'immediata base cochia, che non è già cochlea
privato di l, ma si conchia, conchea da concha (cfr. Diez, Gr. IP,
301 e seg.; Arch. gì, I, indici II, forma -to), che perde la na-
sale dinanzi a gutturale con fenomeno analogo a quello che
ebbe luogo in cocca - concha , cocchio = *conchlo, *conchulo,
cochiglia = conchylia, ecc. (cfr. Diez, Et tv,, I* 130 e seg. s. vv.;
6 J. ScHMiDT, Z. gesch. d. indogerm. voc, 101 e seg.). Ora da
ootesto *cochia, donde il tose, ma non il mod., coccia, venne a
questo dialetto coza, come da lachio (laqueo), laccio, venne lazz,
da brachio, bràccio, brazz, ecc. — In questo medesimo capo il G.
dice: « Vedranno i signori accademici fiorentini se nelle pistole
di Seneca sia da leggere coccia dov' essi lessero croccia, » Non
impossibile un errore di lezione croccia per coccia (nel testo
ÌMt, astrea). È tuttavia da avvertire che un tose, croccia, fatto
rispondere etimologicamente a cochlea, dal lato fonologico non
•
presenterebbe alcuna difficoltà. E indubitato che chiocciola, mor-
fologicamente considerato, non può essere altro se non un di-
minutivo di * chioccia, materiale riflesso di *clochia, "clochea,
nato per metatesi da cochlea, come p. e, ^clopa da * copia, co^
336 Fischia,
pula (cfr. Arch. gì., 1.515; II 6). Ora come p, e. al sardo da
*clopa, insieme colle varie altre forme (coba, góba, lóba, joba)
-venne anche quella di cropa e croba, coli' assai frequente mu-
tazione di Hn r, cosi clochea potè benissimo, insieme con chioC"
eia, dare al toscano eziandio la forma croccia (circa erraci cfr.
ant. tose. cremenza= clemenza, cristeo=clysterium, dicrinare
=^ declinare, concrusione - conclusione, Craldio^ Claudio, ecc.).
La detta lezione croccia adunque, per quanto a primo aspetto
possa parere errata e stare in cambio di coccia, agli occhi
della grammatica storica non potrebbe non avere per se una
grande verisimiglianza ; la quale si fa poi tanto maggiore e
direi quasi certezza, quando si considera che il sardo, in si-,
gnificato di lumaca, insieme con goga, coccula (log.) e cogga
(sett.) (da eloca, coda, concia, conchula), ha pur eroga; e il
siciliano ha non solo crocehiula (da * cr occhia ^*clochlea per
cochlea *), ma eziandio crozza, teschio, la quale ultima forma,
rispondente per V appunto a croccia, e tutte e due, insieme con
chioccia, non sarebbero se non tre diversi riflessi fonetici di una
stessa base "clochea da cochlea. Il toscano chioccia poi passò
in chiocciola per quella sostituzione assai comune di diminutivi
ai primitivi (cfr. Diez, Gr., IP 294), che in questo caso dovette
essere tanto più naturale, in quanto che per l'omofono nome
chioccia, d' altra origine e significato, ne sarebbe talvolta potuto
nascere equivoco.
P. 236 « Componder comporre. Feste avverte che spondere
» antea ponebatur prò dicere, unde et respondere adhuc manet.
> S'pondere era dunque ex-ponere colla giunta della d epente-
» tica frequente presso i Latini. Da spondere i Toscani , to-
> gliendo l'epentesi, fecero per crasi sporre \ i nòstri rustici,
» mantenendola , da pondere per ponere, fecero col preverbio
» cum componder per comporre. » Ponere e spondere sono
due verbi affatto distinti cosi d'origine •come di significato
(cfr. CoRSSEN, Ausspr. P 419 e seg., 479). Lo sporre de' Toscani
è nato da èxponey^e, sincopato in ecoponre, come porre da
• L* ipotetico clochlea, donde il sic. '^crocchia, crocehiula, presenterebbe
un* epentesi geminativa, quale p. e. il romanesco triatro = teatro, travertino
= tiburtino.
Postille etimologiche. 337
pcn're^ ponere, essendo rr » nr fenomeno essenzialmente proprio
de' Toscani e segnatamente de' Fiorentini (cfr. orrevole = on're-
volCf merrò-men'rò, verrò- ven'ró, derrata ^denrata^ dena^
rata, ecc.). I contadini modenesi poi fecero componder da com^
ponere, cioè inserirono un d immediatamente dopo n, seguito
anche non immediate da r, appunto come il boi. ha arponder
e reponere e la plebe toscana disse e dice p. e. cendere per
cenere, gendero per genero, tenderò per tenero, ecc. I Fran-
casi per inserire regolarmente questo d hanno bisogno che n e r
vengano a contatto immediato, quindi cendre da cenre (ci-
nere) tendre da ten're (tenerum) e (che qui più specialmente
importa di avvertire) pondre da pon're, ponere nel significato
speciale di por giù, fare le uova. Questa sorta d'epentesi tra
n 6 r contigui è essai di£fusa, e la conobbero anche i Greci
onde p. e. àvSso,- per *àyf^; da àvepó;.
A. p. 240, il mod. croi, cercine, è dal G. fatto venire dal fran-
cese creux; e ciò, die' egli, perchè il cercine è concavo e sot-
tocavo per accogliere « lo sferico della testa. > Croi viene, da
una latina forma corollium, corolleum, che senza sincopei da-
rebbe ai dialetti emiliani coroi, e con sincope, analoga a quella
di cruna ^ corona , dà croi. Questa etimologia è posta fuor
d' ogni contrasto dagli equivalenti nap. coruoglio, aretino co-
roglio e sanese corolla ^ Dalla sua forma circolare, e forse anco
dall'essere posto quasi a modo di corona in testa, fu pertanto
cosi chiamato in tutti questi dialetti quel ravvolto di panni
in cerchio che si tiene in capo per sicurezza del .peso e per
comodità di chi lo porta; e che i Fiorentini, e seco loro oggidì
noi tutti, parlanti una lingua comune, chiamiamo cercine con
Tocabolo derivato dal latino circinus.
A p. 241 e seg. deriva il verbo mod. crudcer, cadere, piombare,
dal latino -gruerc (cfr. con-grucre, in-gruere), *cruere, freq.
^cruitare, donde *mitare, crudare, cruda^r. Dell' origine di
qaesto verbo, che, riflesso in varj dialetti dell'Italia sup. e
connesso etimologicamente coU'it. crollare, fr. crouler, prov.
crollar, crollar, viene da rotare, rotulare, preceduto dal pref.
* Il Bamaldi già Tavea colta nel suo Vocabolista bolognese (Boi. 1660),
rtgistrsndoTi: croio o crollo, quasi corollium , ecc»
338 Flechia,
cum- (*crotare, ^corotare^ ^cum-rotare^ *crotulare, ^corotulare^
*cum-rotularé), già ebbi occasione di parlare nella Riv. di fil.
class. I 387 e segg., a cui perciò mi riferisco (cfr. inoltre Dibz,
Et, w. P 145, s. crollare; Ascoli, Arch, gl.^ I 59, n.)
Notevole a p. 242 e seg. è il verbo mod. ctalcer che giasta-
mente, parmi, il G. deriva da cotale, mod. ctcel; sicchò esso
verbo equivalga ad una forma italiana '^cotalare\ e che i con-
tadini deiralto Modenese usano come, se cosi posso dire, pro-
verbo, che sarebbe tra' verbi quello che il pronome fra' nomi.
Quindi p. es. ctalcer el nos, cotalare le noci, cioè smallarle, ctalcer
al scevay cotalare la sapa, cioè capettarla, ctalcer la canva, co-
talare la canapa, cioè maciullarla; vale a dire rendere le dette
cose cotali quali debbono, secondo la pratica, diventare. Non
possiamo però in questo capo consentire col G., quando dice che
le mozioni suffisso del latino diventarono antifisse nei volgari
neolatini, recando per esempio co-tale raffrontato coli' eolico
tolIUo^ col lat. taliS'Cumque. Al qual proposito si confronti
quello che già ne toccai a p. 5 e seg. e 333.
P. 244. Convengo col G. nel raddurre il mod. cubi, covo, ad
un prototipo cubium ; al qual proposito si sarebbe potuto recare
ad esempio concubium; ma non potrei accordarmegli quando
vuole che cubia, pariglia di cavalli, si connetta pure con cubile,
cubare, ecc. È troppo chiaro che il cubia, cubbia, gubia, gubhia
dell'Italia sup. etimologicamente non può staccarsi dall'equi-
valente coppia =^cop' la, copula. In molti dialetti (mil. bresc. ecc.)
questa parola conserva inoltre l'antico significato latino di le-
game, guinzaglio, ecc.
Molto verisimile ci sembra la connessione che pure a p. 244
fa il G. del mod. cuflirs, scuflirs, ascuflirs, accovacciarsi, col
lat. cubile*, onde qui si avrebbe una forma di verbo denomi-
nativo rispondente ad un romano volgare *cubilire, *excubilire
(cfr. excubare, eoccubice, excubitus, ecc.^ Notevole sotto l'a-
spetto fonologico l'aspirazione della labiale {fi- vi VI,), per
l'influenza dì l seguente, consonante, come r, ancor essa aspi-
rativa (cfr. Arch. gì. I 198, num. 115).
P. 248. Ammissibile la connessione etimologica che secondo
il G. avrebbe cuppról ed gianda (calice della ghianda) col lat.
cupa cuppa, it. coppa; sicché la parola mod. cuppròl (da cup^
Postille etimologiche. 339
parol) risponderebbe ad un lat. "cuppatHolum che in fiorentino
ayrebbe sonato coppajuolo. Non vorrei però staccato da coppa
Tequivalente caprài reggiano che il G. fa venire da capere»
li reggiano ha insieme con caprol anche coprol, e niente di
più comune nelle varietà dialettiche che il trovar trattata di-
Tersamente una medesima vocale disaccentata. S'aggiunga che
col suflf. -ariolo, riflesso dal rol delle forme suddette, si formano
di regola sostantivi secondarj e non primarj, quale sarebbe un
derivato da capere.
P. 248 e seg. « Ctirbela, Sorbola. La e e la 5 si scambiano
» tra loro facilmente . . . e . . . proprietà delle lingue galliciz-
» zanti di gravare l'accento sull'ultima o sulla penultima, ma
» non suir antepenultima sillaba. Per questa ragione la sorbola
» toscana, divenuta sorhela^ poteva passare tra noi a pronun-
» ciarsi corhela e chiusamente curhela per quel modo istesso
» che il verbo succhiare poteva venir pronunziato ciuccièr, »
Non credo che la fonologia sia per ammettere cotesto facile
acambio tra ^ e e, massime quale qui si vorrebbe di o a 5, quando
il e venga ad essere gutturale come appunto l'abbiamo in
curbela [= corbella). L'esempio di ciuccièr ^ succhiare non fa
a proposito, perchè in cucccer il è palatale; e fra palatale e
gutturale corre un bel tratto, quantunque la storia delle lin-
gue ci presenti non di rado l'evoluzione di un suono palatino
dalla gutturale, e quantunque il nostro alfabeto per la sua
imperfezione ci rappresenti i due suoni con un medesimo segno.
D'altra parte, il primo e di cucca'r = succhiare (succhiare,
succulare), nato da s, non ci dà tanto un'evoluzione meramente
fonetica quanto un e£fetto d'assimilazione regressiva esercitato
dalla palatina interna, che nel modenese, come nella più parte
dei dialetti dell'Italia sup., riflette regolarmente il ci di suc^'
dare (cfr. Arch. I 106, e il mio Nomi loc, del NapoliL ecc. p. 26
e seg.y s. Cicciàno). Il far dunque venire corbela da sorbela
(sorbella) presenta, sotto l'aspetto fonologico, una difficoltà che
rende assai problematica questa connessione. Forse corbela
nacque sotto l'influenza di corbezzolo od ebbe origine analoga.
Tenendo non inverisimilmente corbezza^ corbezzola, corbez-^
zolo da corvo {corbe), mediante la derivazione di corvicea,
corviciOf quasi volendosi dare al frutto di questo arbuscello
340 Fiechia,
(detto anche volgaf mente, con più originario nome, àlbatro » ar-
butus)y l'appellazione di ^coccola del corvo', in quanto questo
uccello, massime il corvus frugilegus, si ciba, come delle ulive»
cosi anche delle bacche àeWarbutus unedo. Della connessione
logica, almeno nell'intuitiva popolare, tra sorbo e corbezzolo*
avremmo anche un argomento nel nap. suorbo peluso, signi-
ficante appunto corbezzolo.
P. 257. Di-mondi, modo avverbiale, significante molto, sa-
rebbe pel G. dei mondi, analogo (salvo il numero) al fr. du
monde. Senza negare a questa etimologia una qualche verisi-
miglianza, non si può tuttavia non dubitare, se questo di mondi,
proprio anche di altri vernacoli emiliani (regg., parm., ecc.), non
possa esser per avventura un'alterazione fonetica di di molti
per di molto, come di fati [di fatti) per di fatto. Il mutarsi
d'un cosi fatto l in n, oltre all'esser fenomeno non infrequente,
generalmente parlando (cfr. p. e. montone = moltone, per metatesi
e sincope, da mutilone, ecc. ; romanesco antro da altro, ecc.),
ebbe pur luogo per multum, come p. e. nell'ant. gen. e parm.
monto, parm. mondben, piac. mo7ibe7i (da mondben, montben
-molto bene; cfr. piem. muiuben, mutben, mudben, mutubin,
ecc.). La preposizione di -de qui vi sarebbe come nell'it. di
molto, d'assai, ecc. Quanto a t in d, anche immediatamente
dopo n, oltre alle citate forme piac. e piem., cfr. il tose, polenda
iper polenta; e tenuto conto di questo fonomeno fonetico, si può
anche dubitare che di mondi equivalga a dei monti, venuto a
significar molto, come un tal senso ci si presenta dall'espres-
sione lomb. e piem. di muco, dei mucchi.
A p. 260, sotto dsèsi, disagio, osserva, come la pronunzia
modenese di cesi ^ agio {asio), adcesi, adagio, avendo riscontro
nella pronunzia della corrispondente voce francese (aise), ag-
giugne prova di gallicità in quel dialetto. Non credo che questa
pronunzia provi punto, poiché essa ubbidisce ad una legge ge-
nerale, propria cosi del modenese come d'altri dialetti emiliani,
e stendentesi anche di là dell'Appennino, la quale muta in ce (à)
un a tonico, fuori di posizione, come p. e. nel mod. cése^i, asino,
chcesa, casa, ecc. (cfr. Arch. gì. I 297 e seg.; Mussafia, Romagn.
mund., p. 3 e segg.).
P. 263 <«Dzernir. Cernire, cernere, discernere. I Latini da
Postille etimologiche. 341
y^ cerno, metatesi di cre7io da }(.fiy(ùy Qon avevano solo cretus,
a> ma cémitus. Su bocche galliche ossitene il dattilo doveva
a> sparire, e da esso cémitus, pronunciato cernìtus, usciva zernì,
> quindi il verbo zernir in luogo di cernere. Per conseguenza
^ il latino decernere diventava spontaneamente dzernir. >
Cer-n-o non può dirsi metatesi di cre-n-o, ma sono bensì forme
metatetiche il greco jtot-v-w, il lat*. cre-tu-s, cri-bru-m e cri-men;
perocché la forma primitiva di questa radice fosse car o scar
(cfr. Curtius, Gr.et., I n. 76; Corssen, Ausspr., V 474). Non è'
poi necessario di ricorrere all' ipotetica forma di un participio
cemitìASj né all'ossitonismo gallico, per ispiegare il modenese
xemir, dzernir sostituito a cernere, decernere. Abbiamo qui
uno di quegli esempj, non infrequenti nei volgari neolatini, di
verbi latini della seconda e terza conjugazione passati alla
quarta, come verbigrazia in convertire, fallire, digerire, fug-
gire, ecc. da convertere, ecc. (cfr. Diez, Gr. IV 136); nei quali
non si dee credere abbia punto operato T influenza francese, es-
sendo essi proprj di paesi, dove una tale influenza non sarebbe
ammissibile per ninna guisa.
A p. 263 deriva dzipcvr, succhiare il buono, levare la bam-
bagia dal farsetto, da zepp (zeppo, fìtto, ecc., lat. cippus ; cfr.
DiBZ, Et. w. IP 81, s." zeppa). Per quanto non in verisimile una
tale etimologia, si può tuttavia molto fondatamente dubitare se
questo verbo modenese, non ostante il doppio p, non s'inden-
tifichi piuttosto col latino dissipare, con cui mostrerebbero con-
nettersi più manifestamente il boi., ferr., mant. dzipar (sciu-
pare, rovinare), regg. dzipcer (molestare), ecc. La sibilante sa-
rebbe qui venuta a soggiacere ad alterazione dovuta a turba-
mento determinato dal contatto del d precedente, o forse anche
analogo a quella che ebbe luogo nel semplice scipare, usato
da Dante (Inf. vii 21 ; xxiv 84) e sippà (svellere, stirpare, ecc.)
del napolitano, rispondenti al poco usato lat. sipare, mentre
la pur latina forma stipare verrebbe resa dal tose, sciupare,
A p. 267 il Galvani vede nel modenese falistra, favilla, scin-
tilla, un nome connesso di radice con voci greche e latine pur
comincianti da fai- (9^X0;, 9à>^'.o;, oiXaiva, falce, falacer, fata--
ricce). Molto più probabile che il falistra emiliano si connetta,
come molte altre forme dialettiche dell' equivalente vocabolo.
3tó • Plechia,
^ col latino favilla mediante la forma metatetica di falliva^
Quindi mentre la prima forma (favilla) viene assai normal-^
mente riflessa, oltreché dal romanesco e toscano favilla^ pei*
esempio dal nap. faella, fajella, sic. faidda, Iji metatetica [fal-^
Uva) lo è dal ferr. e trent. falliva, sardo (log.) faddija, e, con
scempiamente di i, dal ven., ver., mant., bresc, berg., posch.,
parm., piac, faliva, borm. falia\ friul. falive, e, con sincope d'a,
ferr. fliva. Ora, insieme con queste forme, che riflettono solo
toneticamente favilla o falliva, se ne presentano ne' vari dia-
letti parecchie altre derivate con vario e singoiar suflSsso, la più
parte colla metatesi che ha luogo in falliva da favilla; quindi
il tose, favilesca ^ e favolesca {=favillesca), falavesca {sfalli"
vesca) ^ piem. falavesca, falavospa, falavosca, mil. faliveral e,
con mutazione di l in r, piem. faravospa, faravesca, faravch
sca, di f in p, mil. cont. palavera, palivera (cfr. faliveray,
' Questa forma di favilesca non é registrata nel vocabolario, ma d nel
Pataffio (p. Ili); ed è notevole per la conservazione delFt, onde accennasi a
. favilla più apertamente che non si faccia dair equivalente favolesca.
^ Notevole come questa toscana forma di falavesca trovisi pure, in un con
fqravesca^ nel vernacolo di alcune terre dell' alto Canavese (Cirio, Levone, Vol-
piano, ecc.), riflesso poi regolarmente dal valsoanino feluesci (cfr. Nigba,
Arch, III 17), dove la prima e è per avventura elOTetto d'assimilazione.
' Il mil. proprio ha lùghera, Sfavilla', con cui si connette etimologicamente
il piem. sblùa, splùa^ splùva^ ^scintilla', che il Vopisco registra (Promp-
tuarium, s. v.) sotto la piti organica forma di shellùa. Que£te voci pedemon-
tane non sono altro che il nome luce rispondente ad un prototipo luca (cfr.
Arch. glott. II 9, n.) e composto con un prefisso romanzo ( tis-, 6cr-, bar^^
cfr. DiEZ, Et, 10. P 70, s. bis), quale p. e. nell'it. bar-lume^ e nel piem. s^bar^
"luche, s-ba-luché, abbagliare. Qui il 5 ò suono prostetico (cfr. Arch, gl^ I 542,
8. prostesi) che non conoscono né il ventimigliese belùgora (-/t<cu/a)*, nò il
nizz. bellùga, prov. beluga^ nò il fr. berlue, bluette, dim. di *bellue (cfr. ant.
fr. bellugue), col sincopamento dellV, pur proprio delle forme piemontesi. Il
dileguo della gutturale ò poi, si può dir, normale, così pel piemontese come
pel francese (cfr. p. e. piem. laitùa, Vrùa ni., fr. laitue, verrue = lat. lactuca^
verruca', mil. lùghera, pav. /uera = lucaria). Sbar luche, sbalùché conservano
la gutturale sorda, in quanto questa risponde a doppia: *S'ber'luccare (cfr.
piem. raca = rocca; e Lucca =: Luca ni.). Il Diez trae il iomb. /w^^era dal-
l'antico alto tedesco loug, fiamma (J^^ w. IP 365, s. luquér).
* Al ventimigliese beliigora risponde morfologicamente Taleas. spUvora = s-heUluculA,
8-ber-lucula, col normale ts=i(, e col v epentetico, quale ha p. e. luogo nel piem. aplùta
per splùa.
I
\
Postilld etimologiche. 343
piem. (Carianetto) palavOj^. In alcune di queste forme derivate
ebbe poi luogo, insieme col dileguo di v (cfr. berg. falla - faliva)
la contrazione delle due incon tran tisi vocali, onde p. e. piem.
falospa^ faluspa, e falispa {c(r. falavospa), friul. falisce (da
falivisca; cfr. tose, e piem. falavesca), mil. felippola, piem. faro-
$ca (cfr. faravosca)^ com. firascola , e , con sincope pur della
prima vocale, Tant. mil. frispola e biell. flUspa. E tra queste
forme sincopate e contratte viene a cadere, secondo ogni ve-
risimiglianza, insieme col mant. falustra, ferr. fallistra, boi. /a-
lestra^ anche il modenese e reggiano falistra; forme tutte, le
quali derivate mediante uno stesso sufBsso, accennerebbero di
metter capo a "fallivistra, * favillistraj e quindi originarsi
anch'esse da favilla,
I varj suffissi derivativi delle allegate forme sono, come s*ò
visto, contrassegnati principalmente dai gruppi se {-ascolay
•escOt 'isca^ -osca), sp {-ispa, -ospa, 'Uspa)y str {-isira, -estra,
^ustra). I nomi lomb. in -era accennano al lat. -aria, onde per
es. falivera » *fallivaria, Sfavillarla (cfr* mil. lughera a *luca^
ria). Il suffisso del piem. palavòja {-óia) risponde probabilmente
alla base -oda (-ucla, -iicula), sicché palavòja = *fallivocla,
^favillocla, *favilluclap "favillucula (cfr. p. es. piem. plòja=*pel-'
loelap *pellucla, '^pellucula^ *pellicula e tose, ranocchia = *ra^
nocla^ *ranucla, ranucula). Va peri, che s'incontra nella se-
eooda sillaba di falavesca, falavospa, falavosca, palavera,
palavòja^ faravesca, faravospa, faravosca^ quantunque, 'come
protone, sia fenomeno non infrequente in posizione incondizio-
nata, qui però è più verisimilmente da attribuirsi all'assimi»
Uzione esercitata dall' a di falliva, mentre Vo di favolesca ^ fa^
villesca ò dovuto alla seguenza del semplice l cioè allo stesso
principio, onde p. e. Vo del tìor, pistolenza-pestilentia. Lo scem-
piamento poi del /, normale in buona parte dei dialetti del-
l'Italia superiore, nelle tre forme toscane viene determinato
dall'essere la liquida preceduta da vocale atona come p. es. in
bulicare -*hullicar e y mucilaggine-mucillagine, faloppa da
fallo t balestra = ballista j coloro, colui dirimpetto a quello,
quelli, ecc.
P. 270 «Flap. Floscio, soppasso. Come da flaccus temmo fiach
« eoa! da flabus o flabilis femmo per maggiore scolpimento non
344 Plechia,
^fiaby ma flap, nel senso di cosa, la quale, non avendo con—
« sistenza, è mobile ad ogni fiato di vento. » Fiapo (ven.), /lap,
fiapp, flapp (friul), è aggettivo limitato ai dialetti dell* Italia
superiore, e se il Mattioli usò fiappo, registrato nella prosodia
italiana dello Spatafora, e in qualche altro vocabolario italiano,
ciò egli fece, non come toscano o nativo di Siena, ma si come
lungamente vissuto fra i Trentini, dal cui parlare lo avea de-
sunto insieme con alcune altre voci designatrici di piante e
d'animali. L'ipotesi di un flabus da flare non è gran fatto
verisimile per essere, si può dire, insolita al latino una catego-
ria morfologica d' aggettivi primarj formati mediante il suflf. -60;
e non meno inverisimile un fìap da flabilis, come troppo ri-
pugnante ai principi fonologici, per l'apocope senz'esempio che
qui s'avrebbe. Il Diez cerca di connettere fiappo con alcune
voci teutoniche, colle quali però non avrebbe molta affiniti
logica {Et. w. ir, p. 28 s. fiappo). A me pare non inverisimile
che sul campo latino possa venire da flaccus, avente, com^
sinonimo di flaccidus, significato molto afiìne a quello di fiappo
e presentante nel trapasso della gutturale in labiale un feno-
meno assai noto nella* storia del greco e degli antichi dialetti
italici e, tra i volgari neolatini, del rumeno e del sardo. Non
debbo però tacere come l'Ascoli {Arch. gì. I, p. 514, n.) veda in
questo nome un riflesso di *flavio da flavi[d]o (cfr. flavescere,
appassire le foglie), conjp = ty, fenomeno essenzialmente pro-
prio del friulano, nel quale però, anziché flapp, flappe, sarebbe
stato, parmi, da aspettarsi, con attrazione d' f , fiaip, flaipe (cfr.
0. e, p. 510, num. 100; e p. 535) \
* Circa r ipotesi di fiacco in fiappo^ mi permetterò d' avvertire che le
sta contro la mancanza di queir elemento onde in simiglianti casi é pro-
mossa la esplosiva labiale che sembra assumere le veci della gutturale;
voglio dire il u (u), mercè il quale si viene da kv e ugualmente da (1? a
pp p, oppure da gì) e ugualmente da dv a, bb b (patru = kvatru, bis = dvÌB;
ecc.). Mi sia lecito riferirmi, per questa serie di fenomeni, alla FonoL
indo'it.-gr., p. 71-2, e più specialmente agli Siudj critici, Il 276-9; e
qui addurre, per esempio italico di tv in jp, l'esteso e certamente an-
tico pipita rnpiivita. — Quanto poi al mancare nel friul. fi^app, ricondotto
a fldvi[d]o, Vi che ò in Flaipdn ecc., v'ha due ragioni per non isgo*
montarsene; poiché imprima mi par sicuro esempio friulano anche il nome
di fwoììgliA JoppizzJovio, dove pur manca T internazione deU*t; e^ in se*
Postille etimologiche. 345
P. 271 € Fidlen. Vermicellini. Fides non è solo cetra o lira,
« ma è, grecamente ancora, corda o budello sonoro. Fidelino è
«dunque budellino .0 cordoncino, appunto come mostra essere
« la pasta in questione. » Questa etimologia, già messa avanti
da altri col diminutivo fidiculce (cfr. Cherubini, Voc. mil. s. fl-
delitt) è piuttosto speciosa che vera. Assai naturale che i ver-
micelli sian chiamati con nome equivalente a cordicelle^ cor-
doncini^ budelliniy nervetti, come sonerebbe qui un derivato
àdL fides', ma la grammatica storica ha parecchie obiezioni da
fare a questa derivazione; e d'altra parte havvi un altro etimo
da soddisfarne la glottologia per ogni rispetto. Primieramente
si può notare che dato un d originario quale si avrebbe nei
derivati da fides fidis, non sarebbe molto verisimile che que-
sto suono, trattandosi di voce essenzialmente popolare, si man-
tenesse costantemente intatto per dialetti, in buona parte de'
quali ne sarebbe normale il dileguo (cfr. p. e. piem. miola = me-
dulla^ fiiìza sfiducia, piò} = *pedoclo, piagi=pedaiicum, meizina
^medicina ecc.). Poi bisognerebbe supporre che il derivato da
fideSy al quale accennano, come a base del tema primario, tutte le
varie forme dialettiche di questo nome, fosse /ideilo, fidelli. Ora,
lasciando anche stare il cambiamento del feminile in maschile,
cotesto derivato mediante il semplice suffisso -elio non avrebbe
punto di probabilità, essendoché da fìdes fidis sarebbe stato
da aspettarsi piuttosto fideculce fidiculce fidicellce (cfr. avi--
cula, avicella da avis, ecc), donde foneticamente impossibili le
forme fidél sing., fidai pi., ecc.
L'etimologia da me proposta è filello^ diminutivo di filo
(cfr. Riv. di fil, class,, I, 385). Come ognun sa, la cosa a cui
più s'assomiglino queste sorta di paste, sarebbero piccoli fili,
fili corti; e infatti i Tedeschi le chiamano fadennudel (paste
filate) ; i Mantovani li dicono filadin, che in toscano sonereb-
bero filatini ed hanno quindi nel loro nome analogia di forma
con tagliatini (tagliatelli) e foratini, nomi di due specie di paste,
cosi chiamate l'una dall'essere tagliata e l'altra forata-, e lo
condo luogo, non ò necessario di considerare, nò io ho considerato, flapp
come un esito specificamente friulano, ma bensì andrebbe posto un antico
^flappo (= flàyi[dJo ; cfr. foppa = fÓTia fovea), comune a tutta 1* Alta Italia.
O. L A.
ArchìTio glottol. ita!., IT. S8
346 FXechia,
stesso vocabolario italiano definisce i vermicelli per filo di ^
pasta, ecc. Ora io non dubito punto di scorgere la parola filo,
come fondamento del nostro nome, derivatasi primamente io
filello (filelli), che poi, principalmente sotto 1* influenza della
dissimilazione, cioè per evitare la ripetizione della liquida /,
passò in fidello (fidelli), presentando, nel l mutato in d, un
fenomeno che non è punto raro ne' volgari italiani ^ Data co-
testa etimologia e cosi posto per fondamento un organico fidelli
(■ filelli), contro cui non si potrebbe oppor nulla dal lato logico,
la grammatica storica, considerate sotto i varj punti di vista
dialettici le varie forme di questo nome, non può non veder
trasformazioni e derivazioni rispettivamente operatesi colla mas-
sima regolarità*. Finirò con notare come il fidei {^fidelli) del-
l' Italia superiore sia passato allo spagnuolo, al catalano e al . .
sardo, come pure a qualche dialetto della Francia meridionale
{fideos, fideus, e, con epentesi di n, findeos, findeus, findei, ecc.),
in quello stesso modo che il vermicelli dell' Italia media e me-
ridionale passò con questa stessa forma agli Inglesi e con quella
di vermicelle, vermicelles ai Francesi ', il che basterebbe a
provare come T Italia, insieme col nome, abbia probabilmente
anche loro dato od insegnato la cosa \
' Cfr. p. e. prov. udolar^ cremoa. uduld (ululare), ferr. fidell (= filello)^ fi-
letto, scilinguagnolo, e, senz'impulso dissiznilativo, amido (amylum)^ sedano
(se Unum). Notevole qui specialmente il fen*. fdell^ che, di significato diverso,
ò però identico d'origine e di forma colla nostra voce significante yernìicellì;
come io ò pure, salva la forma, 1* equivalente filetto di vari dialetti; dove,
mancando T incentivo della dissimilazione, la liquida si mantenne natural-
mente intatta.
' Si appuntano ad un primitivo fidelli il lad. fideli^ piem. crem. piac.
ventim. fidéi^ gen. fidé\ e, tra* derivati, a fidelli ni il lad. parm. fidelin^
romagn. fedelcn^ boi. fedelein^ crem. fidelen, berg. fideli^ piem. fidlin^ piac. e
regg. /ìd/em, mod. fidlen^ pav. fidici; a fidelletti il mil. com. fidelitt; a
fi del lotti il mil. crem. fidelott; a fidelloni il pav. fidlon^ ecc. Gom*d
chiaro, nessuna di queste varie forme dialettiche potrebV essere foneticamente
raddotta ad altro tipo che a quello di fidello, filello.
' Quando questa voce non fosse stata pel francese un'importazione italiana,
ma di provenienza romanza, avrebbe sonato vermisssau, vermisseaux^ come
fece appunto nel senso positivo.
^ Uno de* nomi neogreci per vermicelli è ^c^tc, ma non ò già da arguirne
che possa dar qualche valore all'etimo da noi combattuto; essendoché qae-
Postille etimologiche. 347
A p. 293 il G., deducendo il mod. gmera, vomere, dal lat. vo-
mer^ dice che questo nome romano passato al femminile diede
vómera, e quindi, per influenza dell' accentuazione gallica, pro-
cedendo oltre r accento, ne venne goméra, gmera. Io non du-
bito che questa forma modenese non voglia essere spiegata
altrimenti. Credo innanzi tutto non potersi di ninna guisa ammet-
tere la pretesa influenza d'accentuazione gallica, e che, dato un
tornerà^ nel dialetto modenese ne sarebbe verisimilissimamente
venuto gomra od anche gombra (cfr. l' istr. gombro = gomro,
vomere) e lo stesso francese n'avrebbe fatto vo^nre o piuttosto
twibre (cfr. p. e. fr. nombre^numerus, chambre = camera). Il
modenese gméra, quanto al suo valore morfologico ed alla sua
accentuazione, sta al lat. vòmer come p. e. Tit. avoltojo a vul-
ture avorio ad ebur^ il sard. suerzu (logod.) a suber, il boi.
dura a cólurus per corulus, ecc. Queste forme di nomi vol-
gari non si debbono ripetere immediatamente dagli allegati temi
latini, ma bensì da altri temi derivati od ampliati che dir si
voglia mediante il suff. -io (cfr. Diez, Gr, IV 301 e seg. ; Ascoli,
Arch. I, indici II, forme -io); e perciò, come vennero avoltojo
da vulturio, avorio da * eborio , suerzu da "suberio, dura da
^coluria, cosi lo gmera modenese, nato, per via di sincope assai
comune ne' dialetti emiliani, da guìnéra, goméra, si connette
con un *vomeriay m. *vomerius, alla quale ultima forma accen-
nano il berg. gómér o, con epentesi di r, grómcr, il ver., bresc,
crem. gumér, mant. gomér o ghimér, parm. e regg. gmér, ven.
gomier^ ferr. gumier, mentre dal tipo femminile, oltre il mod.
gmera, procedono il boi. gumira, romagn. gmira^ il marchigiano
e romanesco goméra, Taret. gomeja e gomea, e il pist. gomiera.
La coincidenza fonetica che la più parte di queste forme verrebbe
ad avere colle procedenti da tipi in -aria, -ariuSy mi pare che
non dia fondamento a supporvi un' applicazione di questo suf-
fissOy come mostra credere il Mussafia (Beitr. z, kunde d. nordit
mund. im xv jahrh., p. 66); perocché oltre l'inverosimiglianza
ito fi9iQ sia una forma aferetica, non già degli esichiani (TftSeg^ intestini,
fffi^i?, corda, ma si d' òyi^cc, serpenti, come appare da f i5cov per òyt^iov, ser-
penti, serpentelli, Tuna e T altra forma significanti ancora vermicelli (pasta),
Siechd, come in Italia tali paste si denominarono per somiglianza di forma
dai Termii i Neogreci per analogia d'intuizione li chiamarono dai serpenti.
348 Picchia,
di un troncamento del tema vomer in vom- {"'vom-aria, *v(}m'^
arius) \ r aret. gomeja, gomea accennerebbe unicamente a *vo-
meria *, colla qual forma verrebbe ad avere le stesse attinenze
fonetiche, che p. es. capistejo, capisteo con capisteriumy cristeo
con clysterium, battisteo con baptisterium; e le altre forme
quali p. e. ven. gomier, pist. gomiera stanno ad un tipo in -erio
appunto come p. e. tose, mestiere^ ven. mestier a ministerium,
e tose, cristiere a clysterium. Circa la forma femminile noterò
come anche il tema primitivo abbia assunto questo genere nel
calabr. e sic. vòmmara.
P. 295. «Gnint. Niente. Era uso volgare latino il rendere
« pinguescente la pronuncia della n iniziale, dicevasi quindi
< gnatus, gnosco, gnobilis, gnarus, gnavuSy gnotus, invece di
« naiuSy noscOy nobilis, nariis, navus, notus. Per conseguenza
« il ne ens quidem, col sostituire la caratteristica, propria de'
<( regimi, alla sibilante propria del soggetto, non solo diven-
« tava neent o ne ente, ma diventava gnent e per più sottili
« enunciatori, gnint > Nelle voci latine, che qui si citano, il g
non è già suono prepositizio, ma notoriamente originario (rad.
gna- gno- ; cfr. Corssen, Ausspr. P 435 e segg.); e nel latino andò
poi perduto come iniziale, ma si mantenne interno, onde p. es. na^
ius ma agnatuSf nosco ma ignosco, nobilis ma ignobilis^ ecc.
(cfr. CoRSSEN, 0. e. P 82 e seg.). Quanto poi al g di gnent (donde
gnint) esso qui non è altro che quel g applicato a rendere, in-
sieme con n, uno de' suoni assunto da n/, sorto per complicazione
fonetica da ni {ne) seguito da altra vocale, onde gna {na)^njaj
nia ; gne {ne) = nje, nie ; gno {no) = njOy nio ; gnu {iìu) = w/w, niu;
e perciò, come p. e. aragno=^*aranjo, *aranio, arance , ve-
* Intiero il tema presentano nel tose, gumereccio^ e, con epentesi di r, gru^
mereccio {vomer-icius), bomberaja (zz *vomer-aria) ^ bomber-ale^ v>omer^ale^
come pure il piem. (ast.) bambì'-tippa (= *vomer'UCta vomer-tAcea^ quel fer-
ruzzo a paletta, in cui termina dall'un de' capi il pungolo, e che serve a
nettare il coltro e il Tomero.
* Dico unicamente a *i?omena, non ostante le forme ar. di poleo -pollajOy
pullarium; paleo =pagl%ajOy palearium; perocché Ve di gomeja^ gomea ò
un e puro, dovechò in poleo, paleo, tufea e simili abbiamo queir e misto d'o,
che ò caratteristico dell'aretino, come riflesso d'a tonico fuor di posizione'
(cfr. Gigli, Re g. per la tose, favella, Roma 1721, p. 581 n. d; Ascoli
Arch. I 298, n. 2).
Postille etimologiche. 349
gnente^^venjente, veniente, cosi gnent, gnentem*njente, niente
neente (cfr. Diez, Gr. V 181 ; Ascoli, Arch. I, num. 102, passim).
P. 296. € Granfi. Granchio. Romanizzando il teotisco krampfy
«non usciva cramfìus, ma cramfi per quel modo antico che
« ci mostra Mummi, Pompili, Papi invece di Mummius Pom-
< pilius Papius, ecc. > Questo confronto di granfi colle arcaiche
forme nominativali del latino è al tutto fuor di proposito. Il
ted. kratnpf, introdottosi ne* volgari dell* Italia superiore, assunse
forme le quali accennano chiaro a due tipi che ridotti a forma
latina avrebbero dovuto dare crampfu-s, crampfiii-s, crarn^
fiU'Sf e che in piena forma romanza sonerebbero nel campo ita-
liano cranfOt Granfio e, con mutazione della gutturale sorda
in sonora, granfo, granfio. Ora per novissima legge fonetica,
essenzialmente propria delia più parte dei dialetti dell* Italia
superiore, i nomi di forma rispondente ai latini di seconda e
terza declinazione che di regola nel toscano e per conseguente
nella lingua comune vengono a terminare nel sing. in o (lupo,
dono) e in ^ [cane, giovane)^ ne* dialetti summentovati fanno
normalmente getto delfo e dell*^, onde p. e. nel modenese i detti
nomi suonano lov, don, can, zoven. Or bene, a cotesta legge,
e a nuli* altro, è dovuta la forma del modenese granfi per gran--
fio che p. e. nel genovese, non sottoposto alla detta legge, suona
intiero in granfia. Come adunque per riflesso del tipo granfo,
serbato regolarmente intiero nel veneziano, dobbiamo pei detti
Temaceli aspettarci granf (piem., friul., regg., boi., parm., ecc.)
e» con aferesi della gutturale, ranf (mil. e var. piem.) e con
perdita di r, f/an/* (bresc. ecc.), cosi per 1* altro tipo granfio
dobbiamo aspettarci granfi (raod., ferr., piac, ecc.), che quanto
all'uscita sta al tipo italiano come p. e. il mod. sazi a sazio,
arvsari ad avversario, njlbi ad albio ecc. La doppiezza di tipo
propria di granfo e granfio (granf, granfi), limitati ali* Italia
superiore, è pur notevole nell* equivalente nome che, procedendo
dal lat. cancro- (cancer), s'incontra ne' dialetti dell'Italia media
e meridionale, vale a dire in granco (nap.), grancu (sic. sard.)
da un Irflo e in granchio (tose.) dall* altro, il primo accennante
a cranco (da cancro), 1* altro a orando (da cranculo, cancrnlo),
e cosi l'ultimo morfologicamente diverso da granfio, foggiato
per via del suff. -io, del quale partecipano il nap. grancio, ran^
350 Flechia,
ciò, sic. granciu e crancio (da cranco, cancro)^ dinotanti ne*
due dialetti, non più lo stiramento de* nervi, ma il crostaceo di
questo nome.
P. 306. «In co. Oggi. Ho altrove notato che co o schiaccia-
«tamente ciò, qui, qua sono il rovesciamento consueto à'hoc,
€ hic, hoc; per conseguenza incò è quanto in-hoc, sottinteso
€die». Inoltre, a p. 303, dice il G. : «esempi d* apocope abbiamo
< in incò per in hoc die od m hodie, nel quale vediamo la voce
« hodie raccogliersi in co o eoo, mutando lo spirito in iscolpi-
« mento, come facciamo pronunciando nihil, ecc.» Qui, come
ognun vede, il G. , stranamente contraddicendo a sé stesso,
scorge nel e di' incò, quando una metatesi di quello d*m-Aoc,
quando un rinforzamento dell* aspirata in gutturale. La traspo-
sizione del e di hoc non faavvi esempio che la renda punto ve-
risimile; e noi già l'abbiamo combattuta a p. 5, a proposito
à'acsé che il G. fa venire con analoga metatesi da sic. Egual-
mente inammessibile è la gutturalizzazione di h, quale si ha
neir unico esempio à' annichilare da nihil, nelle scuole pronun-
ziato nichil, come mihi mìchi \ Il modenese incò sta per anco
come in questo stesso dialetto stanno ingessa per angossa, in-
cora per ancora, inguella per anguella, inghirola per an-'
ghirola (da aquariola, con epentesi di n), inciova per anciòva
(cfr. boi. anciovva, sp. anchoa, port. anchova, ecc.), in tutte le
quali forme modenesi un a iniziale seguito da 7i-«-gutt. o pai.
è passato in i, secondo che tal fenomeno ha pur luogo in altri
vernacoli emiliani e lombardi. Quindi il mod. incò per anco
viene a connettersi etimologicamente cogli equivalenti ancòi
(antica forma dell'Italia superiore, ven., emil., lomb., piem. e
* Un avverbio di tempo, significante 'oggi*, nato da in hoc^ sarebbe certo
logicamente ammissibile e avrebbe analogia con adesso (=i ad-ipsum, sottin-
tendendosi tempus, punctum, momentum^ ecc.), nap. e altri adessa (ad ipsam
horaniy ecc.), ant. luce, issa {pipsa hora^ Inferno, xxvu, 21), e coi modi av-
verbiali in questo, in qitesta, in quello, in quella, sia che vi si debba ve-
dere un abbandono del sostantivo, come verisimilmente occorse negli allegati
eserapj, sia che vogliasi pigliare hoc neutralmente come avvenne nel fior, tn-
troque (r^inter-hoc; cfr. lat. inter-ea)^ e come fu in però (^per-hoc)^ ciò
(= ecce-hoc)^ nizz. accó, co (= eccu^hoc) ecc. ; ma di niuna guisa la fonologia
non potrebbe ammettere incò, nato da in-hoc.
Postille etimologiche. 351
gen.y usata ben tre volte in rima dair Alighieri, ma rifiutata poi
dalla lingua comune che, al solito, s'attenne airo^^ì toscano),
▼en. anciio (da ancnó)^ boi. ancù e incti, ferr. ancuó e incuó,
regg. inco, parm., mant., mil. incó, piem. ancóh gen. anco, prov.
ancuif e varie altre forme di uno stesso vocabolo, proprio di
vernacoli cosi dell* Italia superiore come della Francia. Ora egli
è chiaro che in questo vocabolo vi ha un composto, circa la cui
prima parte terminante colla gutturale {anc-, enc-, ine) vedasi
Diaz, Et. IO, r 21, s. anche; mentre la seconda (-oi, -o, -uo, -ìiOf
•ói, ó, ecc.) non è altro che un vario riflesso normale di tiodie,
il quale, come semplice, mentre piglia neir Italia media la forma
à'oggif ogge, viene poi anche a sonare oje nel nap., oi nel sic.
e sardo-mer., oc nel sardo-log., uè, uéi, uic nel friul. ecc.; e
cosi in modo più o meno conforme a quello che suona come
parte di composto.
P. 306. «Indéves dicesi della persona svogliata e che non
« appetisce verun cibo. Devescere, come devorare, era il man-
€giar tutto, indevescere doveva per contrario significare il
«mangiar poco di tutto e di mala voglia. Si direbbe dunque
« che la nostra voce venisse da indevescens. » Ammesso per
verisimile un indevescens, al modenese ne sarebbe venuto, per
via del nominativo, indevéss, di caso obliquo, indevessént, che,
anche sincopato, sarebbe ad ogni modo venuto a terminare in
-entf secondo che fanno di regola i participj di questa forma.
Conforme ai principj fonetici del modenese, indùves accenna ad
an organico inde/ice (cfr. mod. oréves = orefice). Non essendovi
nome latin^o con cui regolarmente connettere questa forma, penso
che essa sia probabilmente nata dair unione di in e deficit, che
darebbe un tipo italico indefice, e conseguentemente indeves
nel modenese. Il bolognese ha questo medesimo vocabolo sotto
la forma sincopata A'indévs, che qui pure presenta analogia di
foggia col boi. uróvs = orefice. Si cominciò verisimilmente dal-
l' usare essere in deficit, cioè in difetto, intendendosi princi-
palmente di sostanze o di forze fisiche, poi d* intelletto ; quindi
r indeficit, passato in indeves, colla perdita della forma verbale
venne a prendere T aspetto e il valore di un aggettivo, che, in bo-
lognese, insieme con 'malescio, svogliato', significa anche 'inetto,
disutile, imbecille'. Credo quasi superfluo T aggiugnere che il f
352 Flechia,
passato in v, oltrecfaò ne* riflessi emiliani , lombardi e veneti
à' orefice t s'incontra pure in questi stessi dialetti per il fai
scrofa e di qualche altro vocabolo (cfr. A7^ch, I 517). Quanto
a forme isolate di verbi latini, oltre al deficit usato comune-
mente in questa stessa foggia latina, col senso di disavanzo, si
confronti il sufficit, riflesso dal nap. zuffece ne' modi di zuffece
e basta o vasta e zuffece.
P. 308. «Inséda. Innesto, pianta innestata. Scinsero faceva
€ nelle scritture insevi ed insitum e non insatum dal satum
« del positivo sero, si dee credere che nella lingua parlata non
« solo facesse inserui ed insertum, ma anche insetum. Lo pro-
€ vano la nostra inséda per innestata ed il verbo toscano in-
€ sciare per innestare. Come poi da inserere femmo inserire
€ cosi da insetare od insdèr femmo insetire od insdir ^ fognando
«la quiescente della s per raggiugnere più prontamente la
« vocale tonica. » Il Galvani mostra confondere in un solo tn-
serere due verbi essenzialmente distinti, Tuno connesso con
serere (rad. indoeuropea sa, forma raddoppiata sa-sa- donde
^se-se-rcy serere \ cfr. Corssen, Ausspr. V 417, IP 249), ^semi-
nare', l'altro con serere (rad. indoeuropea sar\ cfr. gr. etpo da
*<yepttó, Curtius, Gr, et. 1, 320; Corssen, o. c, V 463), 'intrecciare';
riducendo, come egli fa, ad un medesimo verbo insevi, insitum
e inserui, insertum, mentre esse forme appartengono rispetti-
vamente all'uno all'altro di tali verbi, cioè sevi, satum, in-
sevi, in-situm a serere, 'seminare', semi, sertum, in-serui,
in-sertum a serere, 'intrecciare'. \j' insitum^ piuttosto che tn-
sàium, è, si può dir, normale, essendo proprietà del latino raf-
fievolire in i un a radicale, venuto a trovarsi nella seconda
parte di un composto, onde p. e. Ju-piter per *Ju'pater, con-fi^
cit, per *confacit, in-cipit per *incapit, bene-ficus per benefa-
cus, tubi'Cinem per tubicanem, ac-cidit per accadit, tra-ditus
per tradatus (cfr. datus), ecc. Non inverisimile che, come con-
gettura assai bene il Galvani, siavi stato nel romano volgare
una forma insétum (participio insètu^), la quale sarebbe verso
il perfetto sevi, insevi come p. e. sprètum, cretiim a sprevi^
crevi, e sopra tale forma si fonderebbe, insieme col toscano
inseto, anche il mod. inséda, il boi. inseida, il friul. inséd ecc.
coi rispettivi verbi tose, insetare^ insetire^ mod. insder, insdir ^
Postille etimologiche. 353
boi. insdir \ friul. insedd. E dallo stesso prototipo pare siano
da dedursi il tar. nzito, nzitare, sic. insitu, nsitUy per nzetOy in^
séiu, ecc., con mutazione d'd in t\ quale per es, in acito (tar.),
aeitu, munita (sic.) per aceto, acetu, muneta; mentre da in-
situSt sarebbe venuto insito ^ insitare^ forme essenzialmente pro-
prie del romanesco e del marchigiano, al qual tipo rispondon
pare il lomb. in$ed, énsed, insedà, insedi^ insidi, e la lombar-
deggiante varietà piemontese insi, ensi, ense {= insito)^ ensié,
ansia (= insitare), propria del basso Canavese, del Biellese e
del Vercellese.
Tutte le anzidette forme di verbi e nomi si connetterebbero
con inserere, insevi, insitus e importerebbero propriamente la
nosione d'inseminare, seminar dentro, seminato dentro, seme
intemo. Ma siccome nelV innestare trattasi di una specie di
seme (sorcolo, germoglio, marza, gemma) che non si getta o
' Le forme insdir, insdcer potrebbero ne* dialetti emiliani materialmente
uieha riflettere Terbi procedenti da insitus e così rispondere alle basi insi*
fori, insttire'^ ma il nome inseda, inssida rendono più probabili i tipi tn-
sStart insetire. Occorrerebbero qui, a risolvere il dubbio, le forme flessive
in cui sarebbe accentata V e d' inseiare, come per es. inséda = insetat, insé-
éUn = insetant, che altrimentP sonerebbero insda=:ins^itat, insden = insitant. Lo
staMO dicasi del ferr. insdar, insdidura e romagn. insdé, insdadura, insdott^
eKe foneticamente potrebbero rispondere così ad insétare come ad insitare,
colla quale ultima forma il Mussafia riscontra appunto il romagn. insdé (Darsi,
d. rom. tnund, p. 51). Sarebbe perciò assai conveniente che pe* verbi di fo-
neticamente variabile tema i vocabolari dialettici recassero, oltre la solita
forma dell* infinito, anche almen quella della terza persona sing., onde per
•0. nel romagn. ahé, leva, absté, aspetta^ psché, pesca, pné petna (pettinare,
pettina), ecc. E questo sarebbe anche utile pel vocabolario italiano; che cosi
i poco pratici della lingua e massime i forestieri avrebber modo di cono-
scere meglio il tema verbale e la pronunzia delle vocali radicali, varianti e
Timo e le altre secondo che pigliano, o no, T accento; onde p. es. tenere,
*^r«*» giocare, gioca o giuoco, udire, ode, uscire, esce, dovere, deve, morire,
wsore o muore, ecc. Se non che assai poco ò da sperare per questo rispetto
ialino a tanto che la compilazione de* lessici ò nelle mani di gente per lo più
digiona, se pure non nemica, della critica glottologica.
' Il vocabolario italiano, quello p. e. del Fanfani, accenta questo sostantivo
■111 secondo t: insito. Quest* accentazione ò contraria alla critica. Oli esempj
cbe se ne recano, sono o del Caro, marchigiano, o del Berni, addimesticato,
come 11 Cellini, col romanesco; nò quest* t'nstfo può essere altrimenti che
•éniceiolo.
354 Flechia,
sparge come la semenza propria, ma s* intromette in quelle varie
guise che ben sanno gli agricoltori, cosi l'altro verbo inserere
(da sevo, semi, sertus), significante propriamente metter den-
tro, venne anch* esso già presso i Latini a significare innestare ;
e quindi il venutone inserire ritenne pure questo significato in
alcuni dialetti quali il gen. (inseiy col normale dileguo di *r*)
il mant., il bresc, il berg., il crem., il piem., ecc. {inserir, inserì,
insrir, ansri, insri, ecc.). Notevole tra le forme nominali im-
mediatamente connesse con questo verbo V inserì aless. che sta
ad una base inserito, come il sopradetto insi, ensi ad insito.
Anche il suo frequentativo insertare, già proprio de' latini pur
nel senso d'innestare (cfr. insertatio per insitio), si presenta
con questo significato in alcuni volgari, come segnatamente nel
nap. *nzertà, 'nzierto, e neW inserta, insertu di alcuna varietà
di dialetti liguri più finitimi al provenzale, dove^ non ostanti i
francesismi entd, greffà, si mantenne pur vivo TocitaHico »n-
sertà.
Il toscano innestare, penetrato poi anche in qualche altro
dialetto (nap., friuL, piac, ecc.) per influenza della lingua comune,
è fatto venire dal Muratori (Antiq. it, II, 1104) da un barbaro
innextus per innexus, di cui innesto, i'Qnestare sarebbero ma-
terialmente una provenienza assai regolare; ma questa non è
che una mera sua congettura e pare che ne dubitasse egli stesso,
poiché cerca anche di connetterlo col ted. einthun {immitteré),
da cui non dubita poi derivare il fr. ente, enter, colle connesse
voci di alcuni dialetti dell'Italia superiore. Il Castelvetro, e
dietro lui il Ferrarlo {Orig. linguce it, s. innestare) e il Diez
(JEt. w, IP, 40) fanno con meno inverisimiglianza venire inestàre,
innestare, da insitare, sincopato in instare, passato quindi,
a scansare l'asprezza del gruppo consonantico, mediante l'e-
pentesi d'e, in in-e-stare. Mi sembra però che non sia da ri-
gettare un altro, per me più verisimile, modo di spiegare la
derivazione d'innestare da insitus, che il Ferrarlo, nel luogo
citato, dopo recata testualmente l'etimologia del Castelvetro,
accenna brevemente con queste parole: simplicius est: in-insi-
tare, inistare, inestàre. Avremmo qui novamente il prefisso in
come, verbigrazia, in incominciare ^in-cum-in-i tiare da initiare,
, initium, imprincipiare (pis. e liv.), e nel vernacolare ninzar,
Postille etimologiche. 355
linxar = in-in-itiare ( v. p. seg. ). Dato come verisimile questo
Uninsitare, l'evoluzione fonetica ne sarebbe assai più ovvia e
regolare. Il dileguo delFt in *ininstare da *ininsitare sarebbe
analogo a quello che ebbe luogo p. e. in destare = de-excitare,
rovistare = revisitare , acquistare = acquisitare , nicistà » ne-
cessitate, fastello = fascitello o fasciatello \ pestare = pistare,
pinsitare; il quale ultimo esempio torna specialmente oppor-
tuno a questo riscontro, poiché, oltre la sincope d't, ci pre-
senta ancora un analogo dileguo di -n*, fenomeno normale (cfr.
DiBZ, Gr. r 221 e seg.; Ascoli, Arch. I, n. 148), e inoltre il
passaggio deiri in e, onde come pinsitare, "pinstare, pistare,
pestare, cosi *ininsitare *ininstare, Unistare, inestare, in-
nestare '.
Come sinonimi dialettici d* innestare, innesto, sono essenziale
mente proprj dei vernacoli veneti calmo, incalmar, ecc., da
calamus, pollone, marza, sorcolo, e, come venezianismi, pas-
sati anche nel vocabolario della lingua comune. Il sardo infer-
chire (log.), infirchi, infilchi (sett.) non può essere altro che il
' Piuttostochd, come vorrebbe il Diez {Et, io. V 173, s. fascio), da fascet"
téUò. I derivati, mediaute il suff. elio, da anterior forma io etto, si possono
dire eccezionali; ma non sono pmito rari coli* intervento del t derivativo, come
p. e. nel tose, campitello immediate da campo, fasciatello da fascio, pesciatello
da pesce; nap. libbretiello da libbro, loggelella da loggia, ecc. 11 ferrarese
fasdel (fastello), anziché *fastel, già accenna col d ad un f semplice, non
doppio; ma qui per buona ventura abbiamo anche la non sincopata forma
di fassadel ^ fasciatello,
' Quindi anche annestare per innestare come annaffiare per innaffiare
(= in-^dflare), annacquare per innacqttare (= in^aquare), annitrire da inni-
trire nato , con epentesi di r (cfr. anatra » anate, àlbatro = drbuto, vetrice
sviticey, da ^hinnitire, donde poi, per aferesi, nitrir^, nitrito. L'i atono ini-
siale mutato in a si ha ancora pel toscano in annojare (= in-^diare), angui-
naglia, ancudine, ecc., e il raddoppiamento del n in innalzare, innamo-
rare, ecc.; nò si sa quindi comprendere come la Crusca, nella corrente sua
adizione, dica annacquare € corruzione del lat. adaquare », che sarebbe quasi
un* impossibilità fonetica, e faccia venire annestare cdal sost. nesto, premes-
tavi la prt'p. a». É poi quasi superfluo l'avvertire che innesto, annesto e
l'aferetico nesto sono nomi verbali procedenti da innestare, annestare, e si-
gniflearono primamente quello che innestamento, innestagione, poi vennero
anche ad esser sinonimi di sorcolo, maria, ecc., e come tali diedero origine
ai eollettivi annestajuola^ nestaja, nestc^o, nestajuola.
356 Flechia,
lat. infercire (da farcire), già usato dai Romani, oltreché col
senso proprio à' impinzare, anche semplicemente con quello
d'empiere e introdurre. Quanto al sopraccitato ente, enter
francese, con cui si connettono manifestamente il piem. ento,
ente, regg. einta, intcer, parm. enta, entar, ecc., venuti non già
dal ted. einthun, come congettura il Muratori, ma si, con molta
più probabilità, dal gr. £[^9^x0;, insitus, introdottosi nella bassa
latinità sotto la forma d' impotus, vedasi Diez, Et. vo. IP 286,
s. ente.
A p. 315 e seg. cerca di connettere il mod. linzcer, incidere,
rompere, dividere, ecc. (p. e. linzcer un pan) con vocaboli te-
deschi {lenten, solvere, laxare, lenz, primavera, aprile, lezzen
letzen, scindere) ovvero col lat. incidere, donde *inciare,
inzcer, quindi, con l prostetico, linzcer. Questa forma di verbo
modenese e reggiano, connessa con tante altre più meno equi-
valenti ^, proprie dei dialetti dell' Italia superiore, accenna ma-
nifestamente, insieme con quelle, di originarsi dal latino ini"
tiare, variamente riflesso da essi dialetti. Alcune di tali forme
avrebbero per base initiare non sincopato (ven. [cont.] inisiar,
var. com. inizzà), ma nella più parte ridotto per aferesi a [i]ni-
tiare, onde p. e. mant. nizzar, valt. nizzà, e, con prostesi di
s- dis-, trent. snizzar, friul. snizzà, e disnizzà, berg. snissà*
Altre risponderebbero alla forma sincopata in[i]tiare onde v.
gr. mil. inzà, berg., gen., vent. ingà, var. piem. engà, anzé,
ngé (dial. subap.). Altre finalmente (e sono le più frequenti) ri-
produrrebbero un tipo inintiare, forma sincopata d' in-initiare,
cioè initiare preceduto dal prefisso in-, d'uffizio analogo a quello
dell' m- d'incominciare (= in-cuxn-iniijtiaré), impromettere, im^
principiare (pis. e liv.), ecc. (cfr. p. 354). Questo tipo sarebbe an-
cora assai bene riflesso da ininzà (com. crem.), inninzà (mil.)
e inensi (bresc), passato quest'ultimo alla quarta conj. lat.
In parecchi avrebbe avuto luogo un' aferesi d'i, analoga alla
pur or summentovata e a quella, p. e., di nimico, niquità, na-
scendere, ecc.; quindi ninzà (mil., crem.), var. piem. ningé.
' Cioè nel senso di cominciare, cominciare ad usare (portando, spillando,
versando, tagliando, prendendo, ecc.), metter mano a, manomettere, come dire,
un abito, una botte, un fiasco di vino,* un vaso d* olio, di sapa, ecc. una pezza
di drappo, una forma di cacio, un paniere di frutta, un pane, ecc.
Postille etimologiche. 36f
ninfa e, con mutazione del n iniziale in /, dovuto al principio
della dissimilazione (cfr. lico)*no-u7iicornus, piem. Ungala da
nuciola, nuceola), parm. linzar, mod. regg. linzcer, piac. linzà,
bresc. liTisdf Unsi (cfr. inensi)y ecc. *
Fra i sinonimi dialettici di manomettere ecc., sono specialmente
notevoli: incignare essenzialmente proprio del lucchese (tnci-
gnaré), del nap. ('ncegnd), del sic. (incignari) e del sardo (mer.
inein^ai), rispondente al lat. enca^niare^ già usato da S. Ago-
stino in senso di rinnovare e procedente dal gr. >catv(5;, èYxxiv<Sci>
{novus, renovare) ' ; e il piem. antamné (cfr. fr. entamer, prov.
entametìar, entamenà), il quale, meglio forse che dal gr. èvràp-vw,
par debba originarsi dal lat. taminare, * in-tamiìiare, che non
ha da far punto colf oraziano intaminatus (sinonimo à'intactus),
dove in- è il pref. nominale avente forza di negativa, mentre
nel nostro "intaminare sarebbe prefisso verbale di valore ana-
logo a quello dei sopracitati. E cosi questo franco-provenzale tn-
taminarey connettendosi etimologicamente con *tameny Uagmen,
tagere, tangere, significherebbe propriamente toccare, e mette-
rebbe capo ad una stessa radice insieme con un verbo romanzo
logicamente affine, cioè con tastare (da taxitare, frequentativo
in secondo grado di tangere, per via di taxare ^*tactare da
^taoMS « tactus), col quale, specialmente in quanto suona un-
tore, assaggiare, deUbare, gustare, avrebbe comune la nozione
fondamentale ed originaria di tangere, toccare.
A p. 316 fa venire Uspa, dai Modenesi detto di fanciulla
svelta ed accorta, dal gr. Xi<;77o; (macilentus, callidus). Io credo
' Il Mussafia {Beitr. z. kunde d, nordxt. mtmcf. ecc., p. 69, 8. iuizar) cava
uehe queste ultime forme dal semplice inxiiare, o sincopato in ^trtfùire e
■eeresciuto di n o ^ meramente pro:>tetico, o passato per Tia d^aferesi d*t
•d epentesi di ti in nintiare^ con susseguente mutazione sporadica di n in ^.
Il Di£Z {Et, te. 1' 135, s. cominciare) non tocca se non del mil. n\ià^inUiare\
mm non dubita poi di ricorrere ad un xn-initiare per ispiegare Io «p. port.
tmpeidr^ come riflettente una base *xmpinttcwe da in[p]inxtiare. Male a pro>
posito però egli confronta questo verbo col sardo incumbeniai, quasi che
•Dche qui abbiasi un analogo b epentetico, mentre questo verbo non pud non
essere una stessa cosa coirit. xncumbeniare, procedente da xncumbenia e
raddacibile per conseguente al lat. incumbere. *
' Circa questo incignare può vedersi, oltre il Viani (Dii. d, pret franc.^ II
23 e negg^ e 487) e il Mussafia (o. e. p. 70, n. 2), anche Scipione Bargagli
nel Turamino^ pp. 64 e seg.
968 Flechia,
che tanto questo lispa mod. quanto il boi. lesp non siano altro
che una varietà di forma dell'equivalente it. vispo; e che la
liquida sia nata da v come p. e. nel lipera de' contadini to-
scani e lombardi e nel lipra de' Parmigiani per vipera. E in
tal caso la confrontata voce greca non v'avrebbe che fare.
Circa la non ben chiara etimologia di vispo, cfr. Diez, Et. w,
r 446, s. visto.
P. 317. Verisimilissima la connessione etimologica del mod.
lògher, podere, col lat. locus in senso di ^fundus, ager', onde
locuples, propriamente 'ricco di poderi' ; ma non credo alla con-
nessione formale di lógher con luogora, pratora, e simili. Que-
sti feminili plurali formaronsi ad analogia di latora, corpora e
altri siffatti neutri plurali della terza declinazione; mentre il
maschile e singolare lógher presenta il non raro fenomeno di
r nato da /, e sta per lóghel, che nel modenese sarebbe un ri-
flesso più regolare di loc-ulO'. Il diminutivo venne ad avere
già nel latino e più nei volgari odierni il valore di positivo ;
quindi la nuova forma del dim. mod. e regg. lugrett (logheretto,
locoletto), poderetto.
P. 318. « Lo t ed terra. Zolla, ghiova. Lot in genere per por-
« zione, divisione, scompartimento e quindi anche per que' gru-
« moli in che il terreno sommosso si divide, è voce interamente
«francese e che può attestare la nostra gallica origine^» Il
fr. lot e l'italiano lotto con senso di porzione ecc., è di origine
germanica, non gallica, come già era stato notato dal Menagio»
dal Ferrarlo e dal Muratori, e significa in quella lingua sorte
(cfr. Diez, Et, w, V 255, s. lotto); quindi i due sensi principali
dell' it. lottOj che suona, come nel francese, porzione toccata in
sorte, massime in casi di successione ed eredità, e quella sorta
di giuoco che tutti sanno. Questa parola non potrebbe adunque
attestar punto la gallica origine dei Modenesi, circa la quale
però etnograficamente nissuno vorrà muover dubbio. Quanto poi
al lot de' Modenesi (proprio anche del boi., mani, ferr. e regg.)
dinotante 'zolla, ghiova' si può ben dubitare se esso etimolo-
gicamente sia lo stesso che loito^ porzione. Questo dubbio eb-
belo già il Muratori, congetturandolo «forse da lutum, terra
che tiene, né si sbriciola {Ant. it., diss. xxxiii, s. lotto)»; e si
accresce, chi pensi l'equivalente Iota de' Lombardi, connesso
Postille etimologiche. 359^
probabilmente col po^a 'toscano (zolla secca), rispondente, a
quanto pare, ad un organico piota, pianta, e venuto forse a
significar ^zoUa', per quella certa somiglianza di forma che ha
una zolla di terra col piede, massime se largo o schiacciato
secondo pare significasse originariamente il sost. pianta, rimasto
in alcuni dialetti francesi, e sotto la forma di piota usato da
Dante (Inf. xix 120) col senso di ^zampa, artiglio', vivente tut-
tora nel piemontese, e, sotto la normale di dota, né* dialetti
liguri. Il Iota lombardo (mil. -lotta *), nato da piota, pianta,
foneticamente non avrebbe nulla di singolare; e sarebbe come
I)er es. V it. lastricare, lastrico da plastrnm (cfr. Diez, o. c. V
317, e inoltre, circa l- -pi- nel latino, Corssen Ausspr. P 114).
Al feminile lombardo, forma verisimilmente originaria, sta-
rebbe il masc. emil. lot, come p. e. il mod. lans ad ansa per
ansia (cfr. p. 53); rispondendo cosi ad un organico p/oto, pianto.
Noterò ancora in ultimo comò Vo aperto di lot. Iota, mentre da
un lato esclude la connessione etimologica di tali voci con Igto
s=lat. Intum*, accresce poi la verisimìglianza della comune loro
origine col toscano pio^a, e accennerebbe anche, con molta pro-
babilità, ad un originario au, che pei dialetti emiliani e lom-
bardi renderebbe normale T incolumità della dentale sorda fra
vocali.
P. 318. «Lov, Lupo. Come si disse Jnpiter e Jovis, cosi si
€ disse Inpus e lovns e da questa vasta e rusticana pronunzia
€ usci il nostro lov, ecc. » L' analogia che qui si vorrebbe sta-
bilire non regge punto, poiché Ju-piter e Jov-is vogliono essere
riscontrati in modo che Jov- risponda a Jm-, e il p di -piter,
che sta per pater, non abbia punto a che fare col v di Jovis,
Il valore etimologico di questi due vocaboli indoeuropei e le
loro affezioni fonetiche sono oramai tanto note nella mitologia
* La doppia dentale del mìI. lotta non pud accennare nò a doppia originarla,
né a gruppo consonantico (et pt), ma presenta un semplice fenomeno di rad-
doppiamento analogo a quello p. e. di vitta^ metta (=tneto), cornetta, ecc.
' Non pud essere altro che un errore di stampa, o del compilatore, V o aperto,
segnato per loto (= lutum) nel Vocabolario it. del Fanfani , mentre p. e. in
quello soggiunto alle Regole ecc. del Gigli ò dato come chiuso, secondo
già debbono far congetturare, tra 1* altre cose, la originaria forma latina e
il sic. luta^ loto.
aeO Flechia,
e grammatica comparata che potrebbe parere ozioso il fermanrisi
più sopra. Ammesso poi, solo per ipotesi, che Jwp- e Jox>' fos-
sero, come mostra credere il G., due mere varietà fonetiche di
una stessa sillaba originaria, ciò nondimeno non saremmo per
ammettere in alcun modo T analogia ch'egli cerca di stabilire,
essendo strano che dal lov modenese si voglia arguire un ro-
mano volgare lovus. Il mod. Igx) non può essere altro per la
grammatica storica di quel dialetto se non la forma regolare
che ivi doveva prendere il lat. Iv/po : u breve ed accentato che
passa in o chiuso per quella stessa legge per cui verbigrazia
jugo vi è diventato zqv, jùvenis zoven, cucuma cggma, ecc.;
p che mutasi in v come p. e. in rapa che si fa rava^ pipere
pevery ccepulla zivglla, ecc. Le ragioni dialettologiche per cui
suonano normalmente loVy lova, forme proprie non solo del mo-
denese, ma di tutti i dialetti emiliani e si potrebbe dir lombardi,
se non in quanto questi per la più parte qui fanno sordo il v se-
condario rimasto finale, onde piuttosto Igf che Igv (cfr. mil. scrif
per scriv, scrivere, canef per canev, canapa, ecc.), sono quelle
medesime che hanno dato Igvo, lava al veneto, lupo, lopa al
nap., lupUf lupa al sic, sardo, ecc. Il solo toscano e qualche
dialetto dell* Italia media (umbr., rom., march.), come pure qual-
che varietà dialettica dell'Italia sup. (tor., berg., ecc.) si sot-
traggono alla regola, avendo i primi lupo, lupa e gli ultimi
liiVy lùfy lava, lùa, e presentando gli uni e gli altri nella loro
varietà un'anomalia contraffacente ad uno stesso principio. Chi
abbia una qualche dimestichezza colle varie leggi dialettologiche
de' volgari italiani, comprende subito perchè dicasi normale il
lupOy lopa nap., e anormale il lupo, lupa toscano; anzi diremo
italiano, potendosi avere per probabilissimo che se gli scrittori
fiorentini avessero avuto naturale quella che per loro sarebbe
stata forma normale di Igpo, Igpa, questa, e non altra, sarebbe
stata la forma adottata dalla lingua comune \
' Trovo neirant. sanese /ot70, che sarebbe forma analoga a quella del pure
antico sanese stroioo pel fior, strupo^ stupro. Il lova del Malmantile, adope-
rato nel senso che vogliono fosse applicato questo appellativo alla vera balia
di Romolo e Remo, non può essere che un lombardismo nel valor largo in
che pigliasi questo vocabolo contrapposto al toscano.
Postille etimologiche. 361
P. 318 e seg. Secondo il G. il mod. lumadeg, mucido, stantio,
si connetterebbe etimologicamente con limus o lumus (sic), e
yarrebbe quindi limacciosOy e, attribuito ad odore, rappresente-
rebbe quello appunto che sentesi in luoghi umidi e chiusi. Questa
etimologia è al tutto falsa. Lumadegh equivale etimologica-
mente a romatico, aromatico e lo provano gli equivalenti boi.
v^madg, piac. armattagy crem. rumatec, pìem. armatiCy ruma-
tic, parm. armateg e lumateg e ven. aromatico. E non è cèrto
la più singolare tra le fortune delle parole cotesta di aroma--
tico, che, originariamente adoperato a significare la grata fra-
granza delle spezierie orientali, passava quindi in alcuni dialetti
a dinotare il tanfo che gettano i luoghi mufSti e rinchiusi.
Anche dal lat. fragrare, passato in flagrare, e significante ori-
ginariamente 'mandar buon odore', ne venne il prov. flairar,
fr. flairer, piem. fiairé, fieiré, col solo significato di puzzare,
P. 320. «Lunza colla z dolce. Costereccio. Da lumbitia caro
€ ossia dai lombi o lumbuli de' porci o de' vitelli. » Questo vo-
cabolo di macelleria e di cucina,' essenzialmente proprio dei
dialetti dell'Italia superiore, viene, non già da lumbitia, ma da
lumhea, lumbia, che ne' documenti medievali ci si presenta nella
forma longia, donde assai regolarmente ne' nostri dialetti lunza,
lùttza, come da axungia sonza. Questa forma lonza non è estra-
nea al toscano, quantunque ivi fosse piuttosto da aspettarsi
lungia, lugna o longia, logna *. Forse d'analoga origine l'agg.
'- 'È assai singolare che il Fanfani nel suo vocabolario rechi in uno stesso
capo lonza^ il carnivoro, e la lonza de' macella), cosi disparati tra loro e di
aigDificato e d'origine, venendo Ttino da lynx^ Taltro da lumhus. Ma ò que-
sta una pecca non rara pnnto nel vocabolario fanfaniano, come si può vedere,
anche leggendo a salti, dal trovar raccolti sotto un solo paragrafo p. e. ago-
glia: ago, aquila; guglia: idem; coto: pensiero e vesta; china: scesa e
cinquina; invasare: quel che viene da vaso e quel che da invaso\ lama:
palude e lamina; manza: il femminile di manzo e T amorosa; marcia:
marciume e camminata; marciare: camminare e far divenir marcio; pi-
▼ iere: la pievania (plebarium) e Tuccello (pluviarius); porca: lo spazio
tra solchi e la femina del porco; riso: l'azione del ridere e la pianta*
rombo: il rumore ed il pesce; salto: Tatto del saltare e il bosco; vena;
▼ena ed avena; ecc. Nò si creda che ciò sia. sistema; perocché egli, fa poi
due tre capi distinti dove sarebbe stato minor male farne un solo, stante
r affinità del significato e T unicità d'origine, come p. e. nei tre capi per
Archivio gloUol. Ital., II. ^4
362 Flechia,
lonzo, tardo per grassezza, snervato, accennante quasi col
primo significato a *lumbeus, "lumbius Q col secondo ad ^elum-'
beus, *elumbius, per elumbis, aferetizzato.
P. 323 <Malussén. Mezzano d'infima classe, Cozzone. Come
» si dice cozzone di cavalli^ cosi noi diciamo malussén da cavai
» e comprendiamo nella voce il cumulo delle furberie, de' na-
» scondimenti e delle traveggole che in simili contrattazioni
» sono costretti a subire i compratori. Nel glossario della media
» latinità troviamo -maluginosus xajcevTpsj^^T,;, subdolus. In
» Glossis Graec. Lat. Adde ex castigat. in utrumque Glossar.
» Germ. malignosus -, Se dunque maluginosus era una meta-
> tesi di malignosus, anche maluginus sarà altresì un'allitera-
» zione epentetica di malignus e vedremo nella sua derivazione
» da malignità la cagione del dispregio in che è caduto il vo-
» cabolo. > Il malussén modenese, come il regg. malussein e il
parm. malussén, accennano tutti del pari a un tipo in -ino {^ma-
lessino). Abbiamo qui adunque un nome d'agente o personale
che dir si voglia, derivato mediante il suflf. -ino, come p. e. in cea-
battino da ciabatta, vetturino da vettura, ecc. e il cui primitivo
sarebbe ^maloss- che, a presumerne intanto dal derivato, do-
vrebbe significare mediazione, senseria, contratto, massime in
ordine a vendita o compra di cavalli; e anche solo contratto
in genere, ma poco netto, quindi carrozzino, trufi*a, ecc. Or bene
un nome significante tutte coteste cose e materialmente con-
nesso coir ipotetico maloss noi abbiamo nel marSss lombardo
e piemontese, dal quale pure si derivarono mediante il suff. aria,
qui logicamente analogo al suff. ino della parola emiliana, un
marossé, fem. marossera (mil.), marosser (berg. bresc), m^a^
rosse (piem.), ecc. a cui in toscano e quindi nella lingua co-
mune avrebbe potuto rispondere *marossajo o *marozzajo o ^ma-
rocciajo. Da maross il lomb. e il piem. derivarono anche un
e gito connesso col lat. colere, cioè uno per luogo coltivato, ecc.; poi un altro
pel participio passivo di colere; poi un terzo pel contrario d'idiota, come
dir uomo colto, persona cglta, quasi che 1* ùltimo potesse essere altro che
participio pass, di colere^ con valore di aggettivo. £ poi quasi non bastasse
lo sconvolto ordine genealogico de* tre capi suddetti, fra il primo ed il se-
condo, n*è intruso un quarto, che è nd più nd meno che colto, participio
passivo del verbo cogliere.
Postille etimologiche. 963
verbo marossà, marossé {marossaré),- con senso più o meno
connesso col primitivo, e dal verbo il piem. cava anche un Yna-
rossór (marossatore), forma verisimilmente introdottasi sotto
r influenza francese, perocché al piem. sia più propria la desi-
nenza in ur, quindi *marossùr (cfr. p. e. suttnir, sotterratore,
artajur, ritagliatore) od anche la forma provenzale in aire,
onde *marossairey come p. e. rùmiaire (rumigator)^ rùsiaire
(rosicator), rimasta più specialmente propria del valdese, sa-
luzzese, ecc. Credo che dinanzi a questi soli argomenti già ca-
dono affatto le congetture del 0. in raccostare il malussen mo-
denese al maluginosus della bassa latinità, sicché non occorre
di mettere innanzi altre obbiezioni che gli si potrebbero fare
pel conto della grammatica storica. Se poi ci si chiedesse quale
possa essere T etimologia di questo vocabolo, noi diremmo a
modo di semplice congettura che forse vi sia qui per fondamento
quella stessa voce che forma la prima parte di mariscalco,
{maliscalco, maniscalco» mascalcia), parola notoriamente com-
posta di due voci teutoniche, marah, cavallo, e scale, servo
(cfr. it. scalco, siniscalco), che nell'ant. alt. ted. marahscalc e
medio a. t. marschalc, sonava *che ha cura da' cavalli, gar-
zone di stalla', e che nella lingua comune e nei varj dialetti
d* Italia venne principalmente a significare medico di cavalli e
ferracavalli\ mentre nella forma franco-germanica di mare*
scialle (t. marschall^ fr. marechal), usasi comunemente a di-
notare un alto grado della milizia. E ciò perchè nelle voci
dialettiche sopracitate (maross, ecc.), significandosi in ispecie
cozxoneria, cozzone, cozzoneg giare, non è inverisimile che esse
in origine valessero soltanto vendita, venditori di cavalli, ven*
dere^ contrattar cavalli. E siccome egli è appunto in questa
sorta di vendite, contratti, baratti che si suole, massime da chi
lo faccia per mestiere, palliare e mascherare i difetti delia merce
che si vuol vendere, ne accadde per conseguenza che queste
' Ecco in questo ferracavalli una di quelle tocì che il vocabolario italiano
ancora non ha; propria di qualche dialetto e usata anche neiritaliano ge-
Dtralmeute parlato; ma che meglio d*ogui altra (ferratore, maniscalco, ecc.)
dicendo il fatto suo ed essendo al tutto analoga ad altri composti itHiani
qule p. e. eonciaUtti, pelacani, spaiiacamminOj potrebbe adottarsi per Tuso
nnico e generale della lingua comune.
364 Flechia,
voci, oltre il significato ordinario, vennero anche ad avere quello
d'inganno, tru£fa, imbrogliare, tru£fatore, barattiere. Toccò lo
stesso al fr. maquignon che, significante da princìpio coueom^
mercante di cavalli, e nulla più, dicesi oggidì di chi fa mettiert
di vender per buoni de' cavalli cattivi e, per estensione» di truf-
fatore ; quindi maquignonner dinotante non solo arruffianar ei-
valli, ma anche trufiare. Quasi superfluo infine il notare clu
r emiliano malussen, quanto a / = r, sta al marossé, mil. e piao^
come maliscalco a mariscalco \
Marangone, nome d'uccello acquatico e per traslato sigili*
ficante palombaro, falegname marittimo, falegname in geam^
viene dal Galvani (p. 325) derivato dal latino mergxi9^ smergo;
e in questo nissun etimologo, che abbia fior di senno, gli torri
contraddire*; ma egli è al tutto fuor di via, quando per ispio-
garsi codesta forma di marangone^ nata da mergone, s*imi-
gina che fosse primamente usato mar-mergone , come a din
smergo di mare ^ quindi se ne foggiasse marangone. No:
mergone è venuto alla forma di marangone, mediante un gn*
duale processo meramente fonetico, cioè in virtù di leggi dM
la grammatica storica deve riconoscere più o meno operanti lol
trasformarsi della parola latina nella neolatina. Ed ecco in dM
guisa. Mergone, derivato da mergo per via del suff. -ane *, coot
p. e. da tuff'olo tuffolone (v. Savi, OrniL tose. III 272) *, ctnbii
r e protonica in a e si fa margone per quella stessa leggo p<r
cui da mergus, significante quella sorta di tralcio o propig*
* Il ChembiDi (Voc. mil^ b. marosa^e) deriva questa Tocé da non M ^^
spagnuolo marrozero^ che il Tocabolarìo di questa lingua poi non r^p^
Contro la verisimiglianza di quest* origine stanno ancora il lomb. • pi**-
maross e le forme emiliane derivate io -ino (-«n -€in) e il citato ▼«^
lomb. e piem. *marossare (-55<*, -55»'), come anche il piem. tnarasòr»
* Cfr. DiEz, Et, u?. II' 45.
* Men verii^imile il dedur tnerpone, anche nel senso di paiomharo^ imo^dit*
tamente da mergere^ quale p. i\ hcvone da bevere, piagnone da piagniti^ i*
quanto questa sorta di nomi d* agente importano per lo piìi un* aiiooe bini*
mevole o vile. Frequenti poi i derivati da nomo, anche con semplice valori
del primitivo : caprone da capro^ piem. tarpon da tafpa^ fr. herisson da crv
ciMJ? ecc. Cfr. Flechia, Dell' origine dilla voce sarda Xtkraghe p. 1?7 t ttf-
* Cito il Savi, perché i vocabolarj, compresi i due del Fanfani^ non rtfi*
strano tuffolone, usato principalmente dai Pisani.
Postille etimologiche. 365
gina che i Toscani dicono più comunemente capogatto, mediante
il sufil otta fecesi margotta, da mercurialis marcorella, da
Urrce'tuher tartufo, ecc. E cosi noi ci troviamo naturalmente
condotti a mar, sillaba iniziale di margone, senza bisogno di
chiederla al mare. Da margone, mediante T epentesi dell* a tra
r t g, 9\ viene a mar agone, come da sargo (lat. sargus, sorta
di pesce) a sarago, da salmone a salamone, da verbasco a
barabasco, ecc. Finalmente maragone diventa marangone, con
un* inserzione di n dinanzi alla gutturale susseguita da on, quale
ebbe^ luogo p. e. in angonia da agonia, in ancona da icona
(efr. l'equiv. sic. icona; acc. gr. eUóva, imaginem) e, per citare
una forma affatto analoga, nel dialettico parangone, paran-
gon per paragone. Che queste varie forme, le quali ci menano
passo passo a marangone, non siano foggiate a capriccio dalla
grammatica storica, come per ispiegare le loro più o meno pro-
blematiche derivazioni fecero pur troppo farneticando con quelle
loro famose scale alcuni etimologisti, e tra questi segnatamente
il Menagio, lo provano, mi pare, assai chiaro gli analoghi fe-
nomeni che son venuto allegando; e qui, per miglior ventura,
si può inoltre avvertire che le citate forme intermedie tra mer-
gene e marangone non sono mere ipotesi, ma fatti reali, come
qnelle che sono proprie di alcuni volgari italiani, perocché mar-
gone trovasi rappresentato dal sardo margone, dal sic. marguni
e dal ligure margon e magron, forma metatetica di margon,
e maragone, oltre all'essere pur riflesso dal sic. maraguni,
8* incontra anche in qualche antico scrittore toscano'.
P. 327 «Marraaja. Marmaglia. Dal (r. marmatile che spre-
« giativamente vale una truppa o quantità di fanciulli. Quando
«noi con pari dispregio vogliamo dire di un ragazzo che esso
«è un bamboccio, diciamo che esso è uno scimiotto; ora io credo
*che la voce francese venga da marmot, in celtico marm e
< marmous, equivalente a scimia o scimiotto. Marmaglia dun-
<qae da scimia, come canaglia da cane, sarebbero termini
«collettivi di spregio anche perchè, dedotti da bestie, vengono
' n Tocabolario non Io registra ; ma si pud vedere p. e. in una sacra, rap-
preMotaxione citata a brani dal Palermo, / mss. della palatina di Firense^
II 4361, dove leggesi il verso: q%iandù l'ho intorno, j/ore un maragon^.
366 Flechia,
« applicati ad esseri ragionevoli. » Altri celtologi o, dirò meglio,
celtomani, come Mazzoni Toselli, fan venire marmaglia dal
celtico mar o marrn, piccolo. Noi che, potendolo, preferiam
sempre le origini latine alle straniere, crediamo che marma^-
glia risponda ad un prototipo minimalia, collettivo da mini"
mus, come poveraglia da povero, ragazzaglia da ragazzo,
minutaglia da minuto, ecc. (Cfr. Diez, Gr, IP 331 e seg.). La
forma marmaglia da minimalia, chi sappia vedervi dentro
coir occhio della grammatica storica, non presenta alcuna dif-
ficoltà. Minimalia, menimalia (cfr. menimo, menomo), diede,
sincopandosi, 7ninmalia, menmalia, indi mermalia, marmalia
per l'appunto come minimus nell'ant. fr. fecesi merme, e come
minimare diventò nello sp. e nel prov. mermar, in qualche
varietà aless. marmé (p. e. in Casalcermelli , con senso di di-
minuire; circa rm-nm, cfr. nap.sic. arma = anma, anima, sic.
anche armali = animali, mil. armella = animella, seme, ecc.).
Una medesima e foneticamente analoga origine hanno il tose, ed
it. marmocchio, che, tenuto conto della sincope e della muta-
zione di n in r, si riduce naturalmente a mimnoclo, minimuclo,
minimuculo, come ginocchio a genoclo, genuclo, genuculo; e
il nome del dito mignolo in vari dialetti dell'Italia superiore,
procedente dal lat. minimellus o minimelliniis (Cfr. Ducangb,
s. minimellus ^ digitus auricularis) \
' Nel Tesoro de* Rustici di Paganino Bonafede, bofógnese, scritto nel 1360
e pubblicato da Mazzoni Toselli (Orig. d. lingua it,^ p. 258), il dito mignolo ò
detto el dito minimello e nel Promptuarium del nap. Vopisco (professore
d'umane lettere in Mondovl intorno alla metà del sec. XVI), specie di voca-
bolarietto volgare-latino, in cui la parte volgare consiste non di rado in glos-
se pedemontane, ridotte a forma più o meno italiana, si registra « deto mar-
mellino^ digitus auricularis ». Da minimellus^ recato in questo senso dal
Ducange, viene adunque marmell mil., com., berg., ecc. ; mentre la forma ri-
petutamente diminutiva minimelHno {cfr, p. e. uccellino = avicellinOj campa-
nellino, ecc.) viene riflessa dal lig. marmellin, crem. marmelen, berg. mar-
meli, bresc. (con aferesi dissimilativa) armeli, armili^ piac. marmlein^ boi.,
mant., piem. marmlin, donde con ettlissi di m o r in alcune var. piem. (can.
mond. ecc.) m^rlin e mamlin'^^ e da quest'ultima forma, per via dell' epen-
* Veramente in mamlin da marmlin vi sarebbe pei nostri dialetti qualcosa di foneticamente
singolare e dubito se si possa, s<^.nza esitanza, ammettere m. = rm. Abbiamo qui piuttosto
un" assimilazione di nm in mm, m, con fenomeno quale p. e. nel fr. dme^^amme, anme (da
anima) y le due ultime forme attestate dall' ant. franche, che d' altra parte conosce anche
Postille etimologiche. 367
A p. 827 il G. cerca di connettere etimologicamente il mod.
maroca e l'equivalente it. marame con mare^ fr. marais^ ecc.
È assai più verisimile l'etimologia che conduce queste due voci od
almeno la seconda a materia, materiamen. Si possono confron-
tare a questo proposito le forme francesi mairien (ant.), mer^
rotn, prov. mairam, mairan; e Diez, Et. w, IV 375, s. merrain.
A p. 333 il G. vede nel mod. muchcer (lomb. moccà, piem. mu-
chef ecc.), il lat. mtAcere, passato alla prima conjugazione. Il
mod. muchcer non può essere altro che un verbo denominativo,
derivato da mucus o muccus, m'bccolo, in quella stessa guisa
che da. mocco/o si derivò s-moccolare (Cfr. Diez, Et. w. II* 47,
382; MussAFiA, o. e. 79).
A p. 342 < Niel. Neo. I Toscani da ncevus, noi da nigellum. »
Possibile e non inverosimile questa derivazione; ma anche e
forse più da un *ncevellus che, come ncevus in neOy passando
in neello, finirebbe assai naturalmente in niello, niell, niel,
come p. e. neente in niente. E in tal caso il mod. niel starebbe
morfologicamente al lat. nwvtilus (usato da Gelilo, da Apulejo
e da altri) come anello ad anulus, martello a martulus, vi-
tello a vitulus, ecc.
A p. 348 «Pabi. Panico erbaceo o peloso. Da pabium po-
«sitivo ài pabulum, e ciò dai molti suoi semi di che si pascono
tfliUeo ^mamblin^ anche bamblin *, proprio di qualche terra delF Astigiano.
Teauto poi conto della citata forma mar/tn, si potrebbe sospettare se mtVit-
«m//- ridotto a mari- non trovisi eziandio nella voce piemontese marlàit
{marl'^ii=^ minime ll-acto), momentino, pocolino e in marlinghin (=mtfit-
mellinghino dal teutoforme minimellingo per minimellino)^ nome dato in
qualche terra del Canavese e del Biellese al «sonare a morto della campana
pei bambini. Notevoli ancora il marmell - minimello che in alcuni dialetti
dall'Alpi marittime suona capezzolo^ nel piemontese proprio detto mìmin-
probabilmente pur da minxmOy derivato in minimino.
• tUme. Un* analoga nMÌmilnzione non dubito di nrorKere noli' antino sanesc mémmino
(Stai. «m. II, p. 29). rÌ8i>ondcnte al miMment del testo latino, ^nivalcnte i>ercid a *ménmino
ménitnino, che l'editore Banchi <onrej;jre, secondo me fuor di i>ropo-^ito, in menorino, recando
m^ m tnino a colpa dell' amanurnHo. E forse anrhe uno siriMo fenomeno è da vedere nel citato
fétai. fnimin (cai>czxolo) = mimmin^ minmin^ tnitiimino: se fiid non fonse alterazione di mam-
mmo da m'ìmma, con nozione pari a quella de' siuonimi sic. titiddu (v. Voc- di Tasqu. s. v.)
àm UttOt to«c. teszolo da zizza, frinii M(ii/ da ttte^ var. pieni, (ast. movìà. ) pupin da ptipa.
* Mmnblén da ntamlin coll''eiicnte8Ì di b propria de gruppi Hecondaij mi mr (cfr. Dirz, Gr.
JS flS; ASCOLI, Arch.gl. u.iSTi); e il A iniziale di bnmbiin dovuto ad azione aaaimilativa
M % •penletico, qnale p. e. in homhero da tornerò, bomberaca da (;umm'ar(»bica, ere.
368 Flechia,
« gli uccelli. » Pabulum non può riconoscere un primitiTO o
positivo che dir si voglia nell* ipotetico pabium, poiché egli
stesso ò nome primitivo procedente immediatamente dalla rad.fNi*,
che esso ha comune coli* incoativo pascere e da cui si forma
per mezzo del suff. -bulum, come p. e. da sta- {sta-re) sta-bulum.
da /a- (fa-ri) f'a-bula, ecc. Dato poi per reale. un primitivo 'jw-
friu/ii, da questo si deriverebbe non già pabulum, ma pabiolum
come p. e. da brachium brachiolum^ da otium otiolum, daproe-
diupn praediolum, ecc., e supposto poi che pabulum fosse, ooo
già, com*ò veramente, un primitivo jpa-&u/um, ma un derivato
pab-ultim, esso non potrebbe venire che da un primitivo o po-
sitivo ^pabum, come v. gr. hortulus da horius, pratulum da
pratum, ecc. Il modenese pabi viene di là donde viene 1* equi-
valente pabbio de* Toscani, cioè da paVlum, pabulum, come
stabbio da stab'lum, stabulum, ebbio da eVlus, ebulus che
ne* dialetti emiliani dovrebbero analogicamente sonare stabi, ebi
(cfr. Arch. gì. it., I 304).
Non credo sia da ammettersi neppure in via di congettura
la separazione che a p. 351 vorrebbe fare il G. del mod. paM-
rez, panereccio, dal gr. 7:apcorj/ix, considerandolo voce gallica
e connettendolo col panaris francese. Tutte queste varie forme,
e francesi e italiane, non possono essero altro se non un ri*
sultato più meno normale dal lat. panaricium, forma meta-
tetica che prese assai per tempo nel romano volgare il gr.jMi-
ronychion, attestata da un esempio di Àpulejo. Sono però no*
tevoli etimologicamente il nap. ponticcio, morfologicamente il
sardo (mer.) panereddu (-panarello) e foneticamente il tosc.|W-
fereccio.
A p. 352 e segg. il G. rigetta l'etimologia che farebbe venir
pajuolo (mod. parai, dim. f. parletta) dal lat. par (pajo), accen-
nante in origine un pajo di vasi, -secchj, recipienti, ecc. con-
giuntamente adoperati. Confessiamo che questa uriginazione ha
pur sempre per noi la maggiore veri^miglianza; perocché tanto
la fonologia quanto la logica ha di che chiamarsi pienamente
soddisfatta. Il toscano pajo insieme colle corrispondenti forme
degli altri dialetti arguiscono manifestamente una prototipa
forma sparto {paì^ium), sostituita all'equivalente par (cfr. Arch.
gl.\ I 275). I diminutivi coppictta, coppiólo^ ecc. da coppia rea*
Postille etimologiche. 369
dono logicamente verisimile un diminutivo di *parium, il quale
dovea normalmente essere pariolum, donde escono pur normal-
mente le varie forme volgari: tose, pajuolo, ven. parola, basso
emil. parai, mant., parm., ecc. paról, con attrazione d*i, piem.
pairólf mil. pairó, ecc. Il Galvani vuol farci venir questo vo-
cabolo, pur proprio del provenzale {pairol, peirol, pairola, ecc.),
per canale celtico; il che abbiamo per affatto in verisimile.
P. 361 «Ped. Uberi, poccie, propriamente delle vacche. L'u-
«sare una tal voce in questo significato può aversi in testi-
< monio della nostra gallica origine. Infatti se è noto che pis
€ in vecchio francese valse petto in genere ed in ispecie le poppe
«delle capre e delle vacche; è noto altresì T altro proverbio
< volgare in Francia e che si applica a chi Ha mezzi di pagar I
«spese di un processo: la vache a bon pied; per dir ciò che
«noi esprimiamo coir altra frase aver i rugnon grass. Ed a
e questo pied, piuttosto che al più vecchio pis, confronta pun-
€ tualmente il ped de* nostri rustici. D* altra parte ped ricorda
«come alcuni dicano j^e^to alle poppe. » Non mi pare che 1* usarsi
la parola petto (voce d* origine latina) in senso di mammelle
possa menomamente attestare origine gallica in gente italiana ;
perchè tal voce, sotto la forma pis (ant. iv.peis, prov. peitz,
fitt mpectus), venne pure adoperata, anzi, in senso di poppe di
vacche, capre, pecore, giumente, ecc. si adopera tuttavia dai
Francesi. La vache a bon pied non può significar letteralmente
se non la vacca a buon piede; e lo dicono anche di animali
deir altro sesso e dell* uomo stesso e principalmente de* vecchi
per significare che sono ancora rubizzi, propriamente ancor
fermi in piede. Col fr. pied adunque non ha nulla che fare il
ped del contado modenese, il quale non è che una della varie
forme che secondo le dialettiche varietà piglia il lat. pectus,
venato anche a sonare, nello stesso modenese e collo stesso
senso, sotto la forma più organica pet (v. Maranesi, Voc, d,
dial. mod. s. v.). Adunque qui non sarebbe da avvertire altro
86 non il significato speciale che nei dialetti dell* Italia supc-
riore e nei volgari della Francia venne ad avere il riflesso
della latina voce pectus , che, significandovi in origine quello
che già nella lingua latina e ancora oggidì nei volgari dell'I-
media e meridionale, cioè quella parte superiore e ante-
370 Plechia,
riore del corpo, ossia del tronco, che tutti sanno, venne poi an-
che assai naturalmente a significare le mammelle della donna,
poi le mammelle in generale e in ultimo si ristrinse a dinotare
nella più parte di tali dialetti le mammelle degli animali do*
mestici, e ciò principalmente sulla bocca de' contadini e de'
pastori, quantunque, propriamente parlando, le mammelle degli
animali domestici, e de' quadrupedi in genere, siano quelle che
meno naturalmente si sarebbero dovute confondere colla parola
petto.
A proposito del moA.poles, perno, propr. pollice, a p. 374,
osserva il 6. che « il pronunciare con una sola l poles, e non
> polleSf tiene a quell'arcaico latino che avevano sulle bocche
» i coloni romani venuti tra noi a maestri di latinità. Pesto
» infatti registra polet e spiega pallet: quia nondum geminabant
» antiqui consonantes. » I coloni romani non sostituivano par-
lando le semplici alle doppie come mostra credere il G. : polet
per pollet non può essere altro che un fatto paleografico che
in linguistica non ha valore. Il poles per polles è dovuto, dirò
così, alla idiosincrasia ~ fonetica più o meno propria de' varj
dialetti dell'Italia superiore, per cui non di rado in cambio
della doppia consonante vi è la semplice. Ma qualunque possa
essere la causa di questo fenomeno, ella non sarà mai da re-
carsi alla pronunzia de' coloni romani; i quali, non si sa il
perchè, avrebbero insegnato le semplici ai Modenesi, e le doppie
ai Siciliani, ai Sardi e anche non di rado ai Francesi e agli
Spagnuoli. Noterò inoltre come T etimologia di pollex da polleo
sia da rigettarsi, non ostante l' affermazione d'Isidoro; tanto più
se, come par verisimile, pollex e allex (dito grosso del piede)
avessero fra di loro analogia di formazione {pol-lex, ahlex),
nel qual caso non sarebbe impossibile si fondassero entrambi
sopra una medesima radice (-Wc, -rie da lac, rac\ preceduta
da diverso prefisso (cfr. poUlic-eor, por-ric-io).
P. 274 «Pondegh. Topo grosso. I Latini, come chiamavano
» il Castore canis ponticus dal suo star nell'acqua, cosi chia-
» mavano ìnus ponticus il topo grosso e acquajuolo. Noi diciamo
» pondeghj ecc. » Sta bene che il modenese pondegh (come pure
gli equivalenti pondg^ pontga, pondga d'altri dialetti e pro-
babilmente anche il derivato pantegana veneto e comasco)
^ Postille etimologiche. 371
vanga da mus ponticus ^ ; ma né mus ponticus, nò canis pon-
Heus furono cosi chiamati, come dice il G., dallo stare nel-
r acqua, ma si dallo appartenere principalmente alla provincia
di Ponto (cfr. Plinio, Hist. nat, Vili 43, 55).
P. 377 ^Pruvana, in origine propagine, ecc. Fango fu, prima
» paco, poi pago, indi pagino. Il nome propago-propaginis ac-
» coglie rsotto un solo paradigma queste diverse mozioni, giacché
» il soggetto muove da pagere divenuto pagare ed i regimi
» escono dal paragogico paginare . . . Come per noi frigidus e
> /rigida divennero prima fridus e frida, poi fred e freda, ecc.
» cosi lo sdrucciolo propagine o propagina, sopprimendo la sii-
» laba gi e divenendo piano, si lasciò intendere firopane e jpro-
» pana . . . pruvana. » Qui ai fa principalmente una strana con-
fusione di formazioni e derivazioni, affatto contraria ai prin-
cipj morfologici. Primieramente grossissimo errore far venire
il nominativo propago da pagere e propaginis cogli altri casi
da paginare. Il nominativo sing. in -o, quanto al radicale o
tema che dir si voglia, non si differenzia punto dagli altri casi
e rapparente diversità é dovuta meramente a peculiarità fo-
netiche di declinazione, proprie di questa forma di nome. Il no-
minativo singolare dei temi nominali in ^n rigetta, insieme col
s, desinenza propria di questo caso al mascol. e al fem., anche la
nasale, e cosi per esempio da un tipo nominativale che nella sua
integrità dovrebbe essere rappresentato da *sermons, é venuto
sermo, da *virgon$ virgo, da *homons homo, e quindi da *propa-
gons propago. Il fatto poi dell' o mutato in t fuori del nominativo
sing. è dovuto ad una legge assai nota d'indebolimento della vo-
cale in certe condizioni, estesissima nel latino e direi quasi carat-
teristica di quella lingua (cfr. Schleicukr, Comp. § 54, trad. del
Pezzi, 40; Corssen, Ausspr. ecc. IP 259); sicché propagihis
sta per propagonis, come p. e. virginis per virgonis. Adunque
roriginario tema propagon- (pro-pag-in-), proprio di tutti i
casi, compreso il nom. sing., viene da pro-pag- (connesso con
pra-pag-are, pro-pag-es), per mezzo del suff. -on, come p. e. tn-
dag-on- da indag- (indag-are, indag-es), asperg-on- da asperg-
' Vedi però Diez, Et. to. V 343, 8. ratto, e Mussapia, Beitr. ecc. p. 91,
«. poBta^.
372 Flechia, ,
(asperg-eré), ambag-on- da ambag- (* ambag-ere, ambag-
ambig-ere, ambig-uns), ecc. Il far poi venire i regimi, come
dice il Galvani, da paginare, è un disconoscere la categoria
morfologica dei nomi formati per mezzo del suff. -on (indo*
europ. 'an), quali appunto i già citati ed altri (cfr. L. Metbb,
0. e. II 139 e seg.). Inoltre il dedurre propagin-, ossia la forma
tematica di tutti i casi, dal nom. sig. in fuora, che abbiam dimo-
strato non essere se non una modificazione fonetica ài propagon-,
da un verbo paginare, che è come dire da propaginare, è un far
procedere le cose al rovescio, poiché da propagon- (propagin-)
viene bensì propaginare, ma non viceversa ; essendo cosa troppo
nota la formazione di cosi fatti verbi denominativi, quali per
es. da caligon- {caligin-) caliginare, da margon- {mar gin-)
marginare, da nomen- (nomin-) nominare, ecc. (cfr. L, Mbybr,
0. e. II 13). Secondo il G. da frigidus, frigida, cadendo gi, sa-
rebbero primamente venuti fridus, fridà, donde il mod. fred^
freda. Più probabile del dileguo di gi, qui dovrebb' essere stato,
parmi, quello del sol6 i, quale per es. in valde da valide, cal^
dus da calidus; onde assai per tempo, cioè quando g sonava
ancor gutturale, da frigidus sarebbesi fatto frigdus secondo
si dovrebbe presumere dall' Aj9p. ad Prob. art, min. {Anal.
gramm. 444), dove è detto ^frigida non fricda' ^ e come sarebbe
anche dovuto accadere in *siriglis {*strigla) da strigilis (cfr.
striglium Vitr., striglibus Juvenal., ap. Forc), in viglare da
vigilare, donde poi tose, stregghia, stregghiare, vegghiare,
vegghia. E cosi la trattazione^ di questo frigdus sarebbe stata
generalmente analoga a quella di strictus, serbata la diver-
sità quantitativa nei riflessi di gd, et ; onde p. e. tose, freddo,
stretto, nap. friddo, striito, fredda, stretta, sic. friddu, strittu,
yen. fredo, streto, gen. freidu, streitu, piem. (tor. ecc.) freid,
streit, var. emil. fredd, strett, var. lomb. e piem. fregg, strecc,
fragg, strade, fr. froid, etroit, cat. fred, esiret, ecc. * Quanto alla
' Pare che questo fricda non possa essere altro che una variante della
retta lezione frigda,
* Cfr. però Arch. glott, I 20, 22, 84 n., 174, dove é dichiarata altrimenti
r evoluzione fonetica d'-igid- ne' varj riflessi romanzi del lat. frigido, Circeo
viglare, v. ib. 548, e.
Postille etimologiche. 373i
trasformazione di propagine in pruvana, anche qui abbiamo,
per non toccare se non del punto fonologico più essenziale, piut-
tosto che perdita, il passaggio di gi in ji (cfr. Arch. gì. it, I,
num. 190 passim)^ onde primieramente *propajina (cfr. nap. prò-
pajend), poi, con assorbimento di j in t, *propaina (cfr. sic. pur-
paina^ sardo probaina [log.], brabaina, ecc.), infine, •per via
di contrazione, "propana, *probana, provana, pruvana.
A p. 386 fa venire il mod. r ava nel,- rafano, ramolaccio, da
rava (l.rapa). Io penso che* venga dall'equivalente latino ra-
phanuSy che ha dato air italiano .non solo rafano^ ma anche
ravanOi ravanello. Il passaggio di f (ph) in v non è punto
isolato e lo stesso modenese lo presenta in oreves = aurifice ecc.
V. sopra, p. 351 e seg.
A p. 388 «Resta. Arista, resta. Bisogna supporre che i ru-
» stici pronunziassero egualmente resta per aW^to anche ne* tempi
» più remoti, se ager restibilis si dee spiegare con Pesto: qui
» biennio continuo secitur farreo splco idest aristato; quod ne
> fiant (sic; 1. fiat), solent, qui praedia locant, prsecipere. > Non
credo che il passo di Festo avvalori punto una connessione- eti-
mologica di restibilis con arista. Molti sono i luoghi in cui
s' incontra restibilis senza che abbia a che farvi V arista. Resti-
hiliSy sta, insieme col plautino prostibilis, a stabilis come pro-
stibulum a stabulum, e si connette quindi con restare come le
altre due voci con prostare. Ori in quella guisa che stabilis
significa che sta, cosi restibilis che resta, che resiste, secondo
che anche suona il lat. restare; sicché restibilis ager vorrà
propriamente dir campo che resiste, che regge a ripetute e
non interrotte seminagioni. Lo dice, mi pare, assai chiaro Var-
rone (L. L., iv 39): Ager restibilis qui restituitur ac reseritur
qtwtquot annis. Abbiamo poi fra gli altri restibile vinetum
in Columella (in, 18); restibilis fecunditas e restibilis platanus
in Plinio (Hist. nat. xxviii, 19, 77); ne' quali luoghi tutti non
può menomamente alludersi ad arista (cfr. Forcellini s. v.).
Quanto air etimologia di quest'ultima voce noterò come il Corssen
(o. e. II* 549) vi scorga un'antica forma di superlativo (suff. -ista),
proveniente dalla rad. indo-eur. ar nel senso di sorgere, venir
su, crescere, innalzarsi; onde propriamente sonerebbe la più
alta, la cresciutissima, la punta; mentre il Fick {Zeitschr. f.
374 Flechia,
vgL spr,, XX 177) vi scorge arista - as-ista, traendolo, insieme
col gr. ol<7T(5-; (= *ò(7-i(7To-;), strale, dalla rad. indo-eur. as, jàcere^
jaculari, sicché propriamente valga gr^^^o. L'it. getto e il {v. jet^
rejeton, in senso di germoglio, verrebbero ad avvalorare dal
lato logico questa interpretazione. Tornando ora al resta de'
nostri volgari, procedente da arista, noi non possiamo. vedervi
se non un'assai regolare trasformazione neolatina , operatasi
secondo due notissime leggi fonetiche: 1) aferesi d'a, come v.
gr. in ragno = araneo , rena = arena , rabesco = arabesco , eòe.
2) mutazione in e d'i tonico in posizione, quale p. e. in. cresta
verista, pesto -pisto, cesta teista, ginestra » genista, ecc.; e
cadrebbe quindi a vuoto, anche solo per questo, il volere ar-
guire da restibilis un'antica pronunzia rusticale di resta per
arista.
A p. 389 «Rigattér. Rivendugliolo, barullo. La voce mi
» sembra di provenienza francese. Dal verbo regratter, rigrat-
» tare o grattar di nuovo, in quella lingua si ha regrat per ven-
> dita al minuto o di oggetti di poco valore e regattier per
» venditore di seconda mano o a ritaglio. Noi alla nostra parola
» rigattiere tagliando la r, che rendea testimonio della sua no-
> zione, abbiamo impressa una storpiatura che a prima vista
p fa si ch'essa non renda più ragione di se medesima e ci ponga
» invece dinanzi ricatto per redemptio e l' ebreo ricattatore del
» Bonarruoti nella Fiera, quasi dicessimo ricattiere. » Non è
molto verisimile che sia d'origine forestiera una voce di tal
significato e piuttosto largamente estesa ne' volgari italiani
sotto le varie forme di recattiere (nap.), rigattiere (tose; ma
san. ligriitiere), ricatteri, rigatteri, riatteri (sic), regatteri,
arregatteri (sardo mer.), friul. e romagn. regatier, ecc. Venu-
taci dal francese, pare dovrebb' essere anche, e più essenzial-
mente, propria de' volgari jfedemontani, lombardi e veneti, i
quali generalmente non la conoscono. Il sanese ligrittiere, che
parrebbe accennare a *rigrattiere, non è probabilmente che una
popolare alterazione di rigattiere, L' etimologia che connette
rigattiere con ricattatore merita pure una qualche considera-
zione. Il Salvini, che sta per essa {A7in. al Malm., canto III,
st. 5; alla Fiera del Bonarruoti^ p. 149), ne cita in conferma
recaptarius degli Statuta Almce Urbis. Se questa' voce non
Postille etimologiche. 375
ci presenta una forma fittizia, coniata dal compilatore degli
statuti per rendere latinamente il ìHgattiere volgare, sarebbe
certo valevole argomento per connettere etimologicamente ri-
gattiere con recaptare; e in* questo caso rigattiere significhe-
rebbe propriamente ricattatore, che fa ricatti, ricompre (cfr.
nap. accattare, sic. accattari, piem. caté, fr. acheter, racheter,
comprare, ricomprare). Il mil. recatton, gen. recattona, treccone,
trecca, e l'equivalente sp. regatero, recatoti, regaton, connesso
manifestamente con regatar, regatear, rivendere a ritaglio,
verrebbero a confermare questa etimologia. — Altra origine di
rigattiere ci darebbe il Minucci {Ann, al Malm., e. Ili, st. 5),
facendolo venire da rigaglia, significante robe diverse di poco
prezzo, od avanzumi usati. Da rigaglia veramente sarebbe
dovuto venire *rigagliere o *rigagliattiere; sicché se rigata
tiere avesse comunanza d'origine con rigaglia (che in que-
^sto caso non do vrebb' essere da regalia), potrebbero dedursi
entrambi da un nome riga, righe (forse per strisce di panni,
vivagni, scampoli, ecc.), donde sarebbe venuto il collettivo ri-
gaglia analogo a minutaglia, cianfrusaglia, e rigattiere, come
vennero vinattiere da vino, mulattiere da mulo, panattiere
da pane. Mi sembra però che la maggior verisimiglianza stia
per rigattiere connesso con ricattare e procedente perciò da
ricatto, come p. e. barattiere da baratto. Le forme nap. recat-
tiere e sic. ricatteri, rigatteri avvalorano pure cotesta inter-
pretazione; che altrimenti, secondo l'etimo del Minucci, sareb-
bero state n. *rechettiere, s. *righitteri (cfr. n. chiavettiere, s.
chiavitteri, canitteri, panitteri; ma barattiere, bar atteri),
* Rudell, orlo, è pel Galvani roteilo (p. 391). Certo come
rotella suona in modenese rudela, cosi roteilo sonerebbe rudelL
Ciò non di meno io credo che rudell venga piuttosto dì là
donde viene orlo insieme cogli equivalenti de' varj dialetti
neolatini, cioè dal latino ora {estremità, margine, sponda,
orlo, vivagno). Questo nome si mantenne senza derivazione e
senza mutazione di genere e colla prostesi di v nel rumeno e
prov. vora, ant. fr. vore, di b nel cat. bora, e con cambiamento
di genere, forse per difierenziamento da ora-hora, nel ven. oro,
sardo oru, grig. ur, friul. or, e con accorciamento e conseguente
mutazione d*5 tonico in ó, quale p. e. in óv-*dvum, ovum, nel
376 Fleobia,
mil. òr. Ma la più parte de* dialetti presentano questo roeabolo
con forma di diminutivo; quindi col suff. -ula, *orula, donde.
con sincope, sp. orla, ant. fr. orle; col suff. -uh, *orulOf donde
nap. urolo e, con sincope, tose, e ven. orlo, sic. orlu, orru
(cfr. Carni, Carlo), inni, orli, emil. crei, urei (da ori, cfr.
MussAFiA, Romagn. mtind. § 94 e segg.) ; col suff. -ino, *orino,
donde ven. oriti, e, mediante l'intervento di é, ventim. oresin^
gen. oesin; finalmente col suff. -elio, onde, pur coli* intervento
di e, tose, oriscello \ e, con intervento di t {d), bresc^ bery.,
cremon., pav., ver. oradell e, in quest* ultimo, anche oridellt,
con sincope, ferr. urdell. Ora il ferrarese, come da urtar h
per metatesi rutar, così da urdell ha pur fatto rudell^ da
urdlar radiar, orlare, colle quali forme non è da dubitare che
non presenti analogia di fenomeni quella del mod. e regg. rudell,
fatto venire da urdell. Un analoga evoluzione di rti- ebbe ancor
luogo dair^r- di ervilia, erbilia (da ervum) nel tose, ruhigliù,
parm. niviott {^ erviliotto), msini. ruvion {» ervilione), ferr.
9*uvia, dal quale non credo sia da separarsi l'equivalente mod.
rudM { = ruvea, ruveja, ruvija), e dall'or- di armella («-
mella, animella, cfr. p. 360), quale p. e. nello stesso mod. m-
mela {nocciolo, animella, seme de' frutti) che il medesimo
Galvani (p. 393) riconosce come alterazione di armella.
Alla stessa pagina il G. fa venire il mod. ruga, bruco, verme,
da rauca* , usato da Plinio {Hist. Nat.^ xvii 18) in senso di vermi
nati dalle querce. E perchè non molto più naturalmente dal-
l'equivalente eruca, mediante la consuetissima aferesi della vo-
cale iniziale? Da rauca sarebbe più regolarmente venuto rocà,
roga.
A p. 400 il G. fa venire il mod. sbernrrr, spezzare, da ipff-
nari, appoggiandosi principalmente sopra un significato di re*
spingere, separaì^e che fresenìerébhe spernere in un frammento
d'Ennio. A me pare molto più ovvio il vedere in sbermrr un*
forma metatetica del verbo, che in toscano suona sbranart,
cioè un verbo procedente da brano ^ come spezzare da pezzo.
' Notevole questo oriscello ^ oricello, in quanto testimooiarebb* coiM tt*
tico s-c (in ^ct', -CI, p. e. in diSe-dicé), proprio deirodieroA pronimiia \^
tcana (cfr. AtroLi, Corsi di glottologia^ p. 22, Àrch. l XLvii).
Postille etimologicbe. 377
fare in brani, in pezzi. Circa la metatesi cfr. p. 44; e quanto
airorigine di brano, vedasi Dibz, Et. w. V 81, s. brandone. Il
citare poi che qui si fa, sull* autorità del Vossio, spernere come
contrazione di separino, nato da separo, ecc., non è più am-
missibile dalla grammatica storica del latino. Spémere {sper-
•nreré) è verbo del tutto analogo a cer-n-ere, ster-n-ere, li-n-ere,
si^n-erCf ecc. e quindi composto della rad. sper- (sprè-), con la
nasale originariamente applicata a formare il tema verbale pro-
prio del presente (cfr. Schleicher, Comp. der vergi, gramm.
§ 293, trad. it. 184).
A p. 400 il G. fa venire il mod. sangiott da un basso latino
*ManguUus nato da *sangulius, sicché prima sangoito, poi, non
si sa come, sangiotto, sangiott. Qui T autore non ha avvertito
che quasi tutti i riflessi neolatini accennano a metatesi di /,
onde i due tipi singlutus, singlutius (cfr. Schuciiardt, o. c. II
234), dal primo de' quali vennero, insieme col modenese, anzi
emiliano sangiott, anche il ven. sangioto, piem. sangiutt, bresc.
6 berg. sanglot, grig. sanglut, tar. sigghiutto, ecc. mentre dal
secondo procedettero il tose, singhiozzo, sic. sugghiuzzu, nap.
sellozzOs friul. sanglozz, senglozz, ecc. Il mil. sajutter che,
quanto al riflesso di -ngl-, sembra presentare un fenomeno di
fase anteriore analogo a quello delle forme sic. e tar., cioè Ij-ngl^
si appunta in *singlutulus, mentre il parm. sandocc, notevole
per Tanomalo nd^ngl, mostra pur di procedere da uno stesso
tipo morfologico, ma sincopato, onde sandocc - sing ludo, sin-
gluUo, singlutulus. Il selluzzo del napolitano, che da singlutio
avrebbe più normalmente dovuto fare segnuzzo (cfr. cegna^cin^
gla^ cingula, ogna-ungla, ungula, e tose, signozzo, signoz^
zarCf cfr. p. 22, n. 1), presenta, quanto al gruppo consonantico
{ngi)f un'evoluzione parzialmente analoga a quella delle forme
aic^ tar., mil., in cui s'ha qualcosa di simile a quella de* più
tamplici gruppi gì, ci, quale p. e. in teglia = tegla^ tegula, r^-
gliare » viglare , vigilare, speglio - speclum , speculum, ecc.
comparati a tegghia, vegghiare, specchio, ecc., cioè mil. -ju-,
sic. e tar. -gghiu- ^*lju, *llju, *nlju, *nglju, nglu (Cfr. Diez,
6r. V 209 e segg ; Ascoli, Arch. gì. I, nn. 118-122). Può restar
dabbio se nel san. singozzo, romanesco sangozzo, mant. singozz
ti abbia nna forma nata da singolzo, sangolzo (cfr. tose, tn-
Archivio gtoiiol. iial., II. 2'>
378 Picchia,
lizzare, santin/ìzza, montai, infizzid per infilzare, ecc.), piut-
tosto che da ^singlutio- con perdita di l, quale p. e. in Casteg^
gio da Clastidium, ecc.* Vuoisi finalmente avvertire il medievale
suggultium (cfr. Diez, Et. w., V 383), notevole, oltreché pel
suff. -IO, e per T assimilazione della nasale colla gutturale,
eziandio per T m = i, quale nel sic. sugghiuzzu *.
Pag. 410: «Sbrajer. Urlare, gridar forte. I Francesi dicono
» braire il ragghiare e di qui hrailler il gridar forte e con
» strido; i provenzali hanno hrai per grido e hraillar per gri-
» dare. È noto che le due II per noi gallicizzanti si ammolliscono
» e si lasciano intendere come una j. Braillar diviene quindi
» brajar e, con tendenza alla sottile desinenza francese, hrajér
» e colla giunta della s intensiva, sbrajér. Per conseguenza
» sbraj accresce il brai occitanico, e sbrajament è la mozione
» latina di una voce celtica più imitativa del rudo e rvdor della
» lingua togata. > Il verbo recato qui sopra essendo proprio non
solo del modenese, ma eziandio degli altri dialetti dell'Italia
superiore, importa il dirne qualcosa più che il G. non faccia;
tanto più in quanto egli mostra frantenderne cosi Torigine come
la parte fonologica e morfologica.
Comincerò dal notare che questo verbo si trova nei nostri
dialetti gallo-italici sotto due distinte varietà di forma, quali
sarebbero nel toscano e italiano mugghiare, mugliare, rag^
ghiare, ragliare, vegghiare, vegliare. Colla prima di queste
' Sarebbe da vedere se gozzo (donde ingozzare, sgozzare)^ come accenna
ad analogia materiale di forma, così non avesse eziandio qualche etimologica
connessione con singozzo^ sangozzo, donde singozzare, sangozzare, Men
probabile la sua connessione con gargozza, gar gozzo, gorgozza, stante V o
tonico, che, chiuso ne' vocaboli precedenti, qui verrebbe ad essere aperto.
' Tenuto conto dell' assimilazione di n col g seguita in suggultium^ si po-
trebbe ancora sospettare se il sic. sugghiuzzu e il tar. sigghiuttu non pos-
sano pur riuscire a *sugglutio^ *siggluto, in quanto che in questi due
dialetti gghia riflette normalmente tanto g(l)ja<t quanto (g)lja, riduzioni di
glja da già (cfr. Ascoli, Arch. gì. I, un. 118-122; II, Bel posto ecc., n. 18).
Questa doppia ipotesi sarebbe meno fondata pel sajùtter del milanese, dove
ja mai non si appunta ad un originario da o già, salvochò in tenaja da te-
noeta (tenacula), passato a dialetti neolatini mediante Tunica base tena(c)lja\
aicchò, dato un siglutulo (sigglutulo), pel milanese il risultato a gran pezza
più verisimile avrebbe dovuto essere saggùtter.
Postille etimologiche. 379
duplici forme •hanno comune uno speciale principio fonologico
il Ten. ibragar^y mil. com. berg. shragà, ecc.; coll'altra il mant.
boL parm. sbrajdr, crem. friul. bresc. piac. sbrajà, gen. sbraggd,
mod. regg. sbrajér, trent. brajar, piem. brajé ecc.; che ita-
lianamente sonerebbero bragghiare, bragliare, sbragghiare,
sbragliare. Ora cercando noi la forma prototipa, od organica
che dir si voglia, di questi verbi, a quella guisa che per esempio
da mugghiare^ mugliare riusciamo a *muglare (da *mugularé)
conservatosi anche nell'estesa forma di mugolare^ da rugghiare^
rugliare a *ruglare (da *rugulare), cosi da essi verbi si mette
naturalmente capo a *braglare forma sincopata di *bragulare,
che si deriva mediante il suff. ul da bragirc, attestato dalla
bassa latinità, né più né meno che come da mugire derivasi
*mugularej da rugire Wugulare, La forma in -tre che hanno
nella lingua latina molti di questi verbi significanti mandare
un suono, una voce, un grido (cfr. L. Meyer, o. c. II 37 e seg.)
basterebbe a rendere assai verisimile V esistenza d* un compara-
tiTsmente primitivo bragire, vivente in una parte del romano
volgare. Il fr. raire, railler e l'it. ragghiare, ragliare atte-
stano la preesistenza d' un romano ragire che il fr. riflette nella
forma primitiva e derivata % l'italiano solo nella derivata (^*ra-
* Il Tea. sbragar e il gen. sbragd potrebbero veramente riflettere del pari
la baia immediata cosi di * sbragghiare come di ^sbragliare; ma tenuto conto
delle rispettive loro peculiarità fonetiche, credo sia da assegnare la prima al
▼eneiiano, la seconda al genovese.
' railler è dal Menagio cavato da ridiculare; il Diez e con lui U Littré,
lo Seheler e il Brachet lo fanno venire da radere^ per via di radulare o ra-
éieulare^ con non molto apparente connessione logica. Ora T indubitata affi-
nità di brailler con braire doveva, mi pare, mettere in rilievo quella di railler
eoo raire. Quanto al trapasso logico non s* hanno che da raffrontare, conside-
rati nel loro valore di verbi transitivi, siffier^ gronder (cfr. grundire^ grun^
firn), huer^ Tit. sgridare^ fischiare^ nap. strellare (sgridare, rimproverare),
piem* brqfé e crijé (sgridare) ; e il lat. increpare, increpitare in senso di rtm-
krMare^ ecc. E quasi poi superfluo T avvertire come railler stia a ragulare
come eailler a coagulare. Noterò ancora come il Diez {Et, to.^ IP 236) e seco
lai lo Seheler confrontino brailler con criailler^ come avessero una deriva-
sione foneticamente e morfologicamente analoga; ma se noi ritiriamo questi
due verbi al loro rispettivo prototipo, l'analogia cessa; perocché il primo
finisce per metter capo a brag-ulare e V altro a quirit-aculare (cfr. it. gri-
daeehiare).
380 Flechia,
giare da *ragulare). Ora in quella guisa che allato al lat. rugire
vediamo porsi un verbo brugire, formalmente attestato dal fran-
cese bruire, gen. bruzzi ecc. e messo fuor d'ogni contrasto dal
brugit-rugit della legge alemannica, cosi insieme con ragire
si dovette presentare bragire (v. Ducange, s. v.), donde il fr.
braire, ant. it. bruire, e il derivato fr. brailler, prov. braillar
colle citate forme gallo-italiche di bragar, brajar, sbragar,
sbrajar. ,La forma organica adunque di questi verbi sarà
bragire, *bragulare^ che stanno a "ragire *ragulare come
brugire, *brugulare a rugire *rugulare. Il 6 è qui lettera
prostetica che potè per avventura prefiggersi come suono rin-
forzativo; ma che potrebbe anch* esser stato una mera prostesi
come p. es. in brusco, bruscolo venuti dal lat. ruscus, I dia-
letti liguri, emiliani, lombardi e veneti v'aggiunsero poi ancora
il solito s rinforzativo, non prefisso alle forme francesi e ^pe-
demontane.
Il toscano br aitar e, sbraitare si connette anch'esso etimo-
logicamente con questi verbi ; ma se ne diparte al tutto nel modo
di derivazione. Il prov. ha braidir e braidar (gridare, schia-
mazzare); e con quest'ultima forma coincide morfologicamente
il tose, braitare, sbraitare; e sono forme di frequentativo, che,
già si numerose nel latino, si trovano qua e là novellamente
riprodotte nella famiglia neo-latina. Come da vagire fecesi t?a-
gitare (Stat., Sylv. IV, 8, 35), da tinnire tinnitare (cfr. fr.
tinter), da crocire crocitare, da hinnire hinnitare, cosi es-
sendosi dal sopradetto bragire derivato *bragitare, da questo
ne venne regolarmente il prov. braidar (cfr. cuidar = cogitare)
e il tose, br aitare, s-braitare (cfr. ant. coitare ^ cogitare). Il
vedere poi, come alcuni fanno, nel toscano braitare, sbraitare
un provenzalismo, è un assurdo; il ^ intensivo e la tenue, più
organica che non è la media, danno a queste forme un'impronta
al tutto propria e tanto originale quanto esser possa nel pro-
venzale. Oltre braitare, e sbraitare, il toscano ha ancora
raitare, che sta a *ragire, ragghiare, come braitare, sbrai"
tare a bragire, "sbragire, *bragghiare, *sbragghiare. Inoltre
come vedemmo il provenzale avere, insieme con braidar, an-
che la forma braidir; e cosi con raitare, usato anche dagli
Umbri, troviam pure raitire, essenzialmente proprio dell'are-
Postille etimologiche. 38 1
tino'. Qaesta forma sta a vagire, raitare, come ad hinnire,
hinnitare starebbe Vhinnitire, donde, con epentesi di r, Unni-
trire, annitrire (cfr. annacquare ^inaquar e) e, con af eresi,
nitrire (cfr. naspare da innaspare, annaspare, nestare da
innestare, annestare). V. pag. 355, n. 2.
Adunque dal sin qui detto mi pare che risulti assai chiaro
come noi abbiamo qui a fare con due radici, cioè rag {rag), rug
{mg). La prima (rag-), sostituita al latino rud {rudere, rudi^
ré), ha dato, colla forma primitiva, il fr. raire, colla derivata
in *ragulare, *raglare, il fr. railler. Vìi. ragghiare, raglia-
re ^ nap. ragliare, arragliare, sic. ragghiari, arragghiari,
▼en. ragar, mil. raggà, ecc., e colle pur derivate *ragitare,
*ragiHre Tit. (tose.) raitare, raitire. Questa medesima radice
rag^ rinforzata con un prostetico h in hrag, ha dato ancora
come verbo primitivo (bragire) Tant. it. braire, fr. braire e
colla preflssione di s, V it. sbraire, ferr. sbrair ecc., come verbo
derivato con ul {^bragulare, *braglaré), fr. brailler, piem. brajé,
var. piem. (can. biell.) bragdr, braga, bragé, e col s, ven. gen.
lomb. sbragàr, sbragà, emil. sbrajàr, sbrajér, ecc.; e finalmente,
con forma di frequentativo, tose, braitare, sbraitare. Dalla
rad. rug (lat. rugire) vengono come primitivi Tit. ruggire
T6n. rugir, ferr. ruggir*, m\\. rusi ecc., e come derivati (*ru''
* raitiré è dal Fanfani posto nel Voc, d. Uso tose, come datogli dal voc.
«r* dmì Radi ; ma non V ha poi nel Voc, it., quantunque trovisi nella Cùmpth-
ttJÌ0tM del mondo di Ristoro d* Arezzo, doTe è sotto la forma di raitieno
(raitiTano) secondo il codice riccardiano, indubitatamente il più genuino, alla
c«i pubblicazione sappiamo attendersi dal eh. conte Vesme; mentre il codice
eldgiano, pubblicato dal Narducci e ristampato dal Daeli, ha ratieno, che
prtsappoo* una forma ratire contratta da raitire, come atare da aitare, ladire
da Uùdire^ tranare da trainare, ecc. La forma raitére, citata dal Redi {Voc.
,\ come propria de* Perugini, risponde a raitare e presenta quella mu-
à^a tonico in uu suono misto d*a e à'e, che 1' umbrico ha comune
eoB*ar«Uao e coi dialetti emiliani (cfr. Atxh, glott, I 298, n. 2).
* Circa le forme quali sarebbero ven. rugir, ferr. ruggir, com. rugi, bru^i^
ii polr^bo dubitare se reramente tì sia il riflesso di un verbo originario in
tre» o non piuttosto una deviazione morfologica di ru^àr^ ruggdr^ brugar
{rttglmr^ ruguUare), stante che ivi la forma regolare d*un primitivo dovrebbe
MMra piuttoato in -sir, "Mi, come p. e. in mùlir, mùSi, che riflettono tnugire
ia alcani dialetti dell* Italia superiore. Anche il mil. muggì potrebb' essere
382 Picchia,
(julare, *niglàre) Tit. rugghiare, rugltare, ferr. ruggir, ro-
niagn. ruga, coro, rwjfrf, boi. rujar, e, con preflssione di 6. ant
it. bruire, fr &ruir, prov. brugir, briizir, ver. com. par. brugi.
e con 5, gen. sbruzzi, e deriv. var. piem. (can. biell.) brvgàr.
brugd.
Tornando ora allo sbrajér modenese non saremmo dunque
per ammetterne la gallicità se non in quanto qui si potaste
trattare di verbo proprio degli antichi dialetti celtici, cosi tran*
salpini come cisalpini, ma passato poi nel fondo del romano
volgare e sottoposto alle stesse leggi morfologiche e foneticht
che governarono la riformazione e la trasformazione del parlart
originariamente romano. Quindi il romano o romanizzato ^àbrùr
gulare, sincopato in *sbraglaret trasformandosi nello sbrajétt
sbrajér de' dialetti emiliani presenta un fenomeno fonetico de-
terminato da principio analogo a quello per cui nella più parie
dei dialetti dell* Italia media e meridionale da raglare Tenne
ragliare, da coaglare {coagulare) quagliare \ due Terbi cto
nei dialetti emiliani, nàtivi con analoghi principj fonologici,
avrebbero sonato rajar, rajer, quajar, quajer; e in ciò M
tutto indipendenti, già s'intende, dal fr. railler, cailler^ quante
il possano essere state le citate forme dell' Italia media e M-
ridionale.
A pag. 412, il G. fa venire il mod. ed it. scandella (par prò*
prio di vari altri dialetti dell' Italia superiore), specie di biidi,
orzuola, spelta, da un ipotetico lat. * escare ^ , mangiare, dii
quale, secondo lui, sarebbe venuto escanda in significato di eoa
una deTUzione da muggdz:.*muglar€^ come potrebbe pur far MippofitS
Boet. muggada^ non muggida^ e il cont muggd; te già non ai tratta«i^Cii
nel milanese, come negli altri dialetti, d* influenza delle italiane forme
muggire,
' Più conforme però al principio fonetico de* dialetti emiliani aartbbe
sbragar^ sbragtr secondo che accennerebbero per es. il ferr. ca^^etr, mod.
che circa T evoluzione di gì rispondono non già a quagliare^ ma n p.cal*
TareU gagghiare, Sarebbevi dunque nelPem. sbrajar^ sbrajgr quella liMtt
eccezione che p. e. nel romagn. squajer^ boi. cajar per squagér^
' Dico ipotetico, in quanto non è attestato come verbo reale,
sia inverisimile, massime pel romano volgare, stante il nome nerbai*
mangiabile, usato da Tertulliano.
Postille etimologiche. 383
da essere mangiata; donde la forma di diminutivo escandella,
poi per aferesi scandella; e si appoggia principalmente sullo
spagnuolo escandia, che ha lo stesso significato. Il Diez air in-
contro suppone che tutte queste voci possano venire da candidus
con prefissione di s rinforzativo; e si riferisce, come ad esempj
logicamente analoghi, al ted. tceizen, frumento, che il Grimm
(Oesch. d. d. spr. 63) connette con loeiss, bianco, e allo spa-
gnuolo candeal (o candial = candidale)^ qualità di grano scelto
che dà farina di bianchezza singolare {Et, w,, V 368). Io credo
che sul campo neo-latino, almeno per V italiano scandella, non
sia da accettare nò Tuna né T altra origine. I Romani cono-
scevano già questa sorta di biada sotto il nome di scandula,
mentovato, tra gli altri, da Plinio (Hist. n. xviii, 7, 11) e da un
editto di Diocleziano, dove scandula è fatto sinonimo di spelta
(cfr. FoRCELLiNi, s. V.). Adunque nell* italiano scandella noi non
dobbiamo vedere altro se non una forma di diminutivo che sta
a scandula, come p. es. fabella a fabula, sportella a sportula,
tabella a tabula, vitellus a vitulus, ecc. Lo spagnuolo escandia
od escanda potrebbe anche non essere altro che un'alterazione
di scandula, donde pare non debba essere etimologicamente
staccato. Il Galvani vedendo esca, escare nella forma spagnuola
ha mostrato di non conoscere Ve prostetica che in questa lin-
gua, con fenomeno essenzialmente proprio anche del francese,
si prefigge normalmente dinanzi al cosi detto 5 impuro, come
p. es. in escala, escama (squama), escandalo ecc.; sicché ad
ogni modo male si potrebbe arguire a fondamento della stessa
Toce spagnuola un verbo escare. Di scandula, significante
spelta^ e preso in questa sua prima forma, non dubito di rico-
noscere ancora presso gli odierni volgari italici alcuni vestigi
ne* nomi locali di Scandolaja (Arezzo), Scandolara (Treviso,
Cremona), Scandolerà (Torino), Scandolaro (Foligno). Scandalo
(Padova), rispondenti ai tipi scandularia, scandularium, scan-
dutatum^ derivanti tutti da scandula, e significanti propria-
mente terreno f luogo, campo seminato di scandola\ Anche
* All« categorie nominali in -arto, -alo appartengono Tarj de* nostri nomi
locali originati da nomi di piante, quali appunto Scandolaja^ Scandalo. Vedi
qvaolo mUa prima p. e. Spellava (Fnligno) = spellarla da spella^ Filicaja, Fi^
384 Flechia, Postille etimologicbe.
il parm. scanzlay scandella, sembra appuntarsi in una base
scàndjula da scandula e verrebbe cosi, dalla sincope in fuofi,
a coincidere in tutto col romagnolo scanzula (parte dell'ara-
tro, chiamata rovesciato} o) , procedente da scandula in sensc
di assicella.
Assai verisimile la connessione che a p. 417 il G. vede ne"
mod. schermlir (da scremlir) tremare, rabbrividire' col prov
cremer, cremir. Se non che qui si sarebbe anche potuto toc-
care del fr. craindre (ant. fr. cremre - tremere) e accennac
quindi alla loro comune origine e al comun fenomeno della den-
tale mutata in gutturale, e indicar pure come alcuni dialetti
emiliani presentino questo verbo con forma non derivata, qual:
appunto p. e. il regg. sohermir, ferr. e romagn. scarmir^ ri-
spondenti a *tremire, mentre il mod. e boi. schermlir riflette-
rebbero *tremulire. Il passaggio alla quarta conjugazione €
ancora osservabile nell'ant. stremire, mil. stremi, bresc. strem
e strumi, ven. mant. stremir, rom. e march, siremire, ecc. ^
È poi infine ad ogni modo notevole, cosi ne' volgari italiani come
ne' francesi, il singoiar fenomeno della dentale passante in gut-
turale {crsitr), forse con principio analogo a quello che ha
luogo non solo in gr = dr (tr) , ma anche in ci = ti (cfr. la mia
Postilla sopra un fenomeno fonetico [ci « ti] della lingua la--
Una, spec. p. 16 e seg., ai cui esempj di grr=dr aggiungerò il
tarantino aggrittura = addrittura, ver. falagro = veratrum e
il ferr. végar da vegr, vegro, vedrò- vitrum).
' [Continua.'\
ligare (Tose), Filighera (Pavia) = /5/icaria da filice, ecc. Circa i nomi in
-ato, Todasi la mia dissertazione Di ale. forme de' nomi loc, dell* It, sup.^
p. 74-94, principalmente p. 74 e 91, a. ^Segrate'.
' Anche il piem. strùni in senso di ^muovere' ^crollare', ^scuotere' par-
rebbe accennare a *tremire, frèmere, ma così la nasale dentale come anche
la vocale labiale (che però avrebbe potuto essere determinata dairoriginario
m seguente come nel bresciano strumi), fanno pensare, se non ad origine, a
probabile influenza di trono = tono; tanto più che struni significa anche ^rim-
bombare', ^rintronare'. Sarebbero adunque le due nozioni distinte, ma pure
affini, del moto e del suono che espresse da due verbi diversi, ma pur ma-
terialmente affini (tremare, tronare), si sono confuse in un solo esponente.
P. METEB e il FBANCO-TBOVENZALE.
Fra gì' incoraggiamenti più autorevoli e più preziosi, di cui
V Archivio glottologico s'è potuto rallegrare, vanno di certo
quelli che il signor Paolo Meyer gli ha cosi cordialmente im-
partito, per due volte, nelle informazioni sugli studj neo-latini
da lai mandate alla Società filologica di Londra* La prima
^olta egli vi portava il suo benevolo e anzi generoso giudizio
intorno ai Saggi ladini, cui era dedicato il primo volume di
questa raccolta; e l'altra parlava, non meno benevolmente, della
prima parte degli Schizzi franco-provenzali, che si vengono
stampando per il terzo volume, insieme con questi ultimi fogli
del secondo.
Ma alcune obiezioni, d'ordine critico, risguardanti gli Schizzi
franco^rovenzali, che il Meyer deponeva, come in germe, nelle
informazioni sopradette, si videro poi sviluppate in un'altra e
pressoché simultanea relazione, che lo stesso Meyer dava degli
Schizzi medesimi nella Romania (IV, 294-6). Poiché a lui dun-
que pare opportuna d'insistere in codeste obiezioni e di allar-
garle, sembrerà lecito, e quasi débito, che V Archivio non tardi
a esaminare quanta sia la consistenza loro.
Muove il Meyer da un'obiezione d'ordine generalissimo. Nes-
sun gruppo di dialetti, comunque si formi, costituirebbe mai,
secondo la sentenza sua, una famiglia naturale, per la ragione,
che il dialetto, il quale rappresenta la specie, altro non é egli
medesimo se non una concezione, abbastanza arbitraria, della
mente nostra. Noi scegliamo, prosegue egli, nella favella d'un
dato paese, un certo numero di fenomeni, e ne facciamo i ca-
ratteri di codesta favella. 'Cette opération (si scasi ora l'allegar
* Sodo comprese nel terzo e nel quarto Annual Address of the Prtiidtnt
io the Philological Society, delivered at the Anniversary Meeting; T^ondro,
1874 e 1875.
386 Ascoli,
che fo l'originale di tre periodi, che non mi attenterei a tra-
durre a trasuntare) ^cette opération aboutirait bien réellement
*à dóterminer une espèce naturelle, s'il n'y avait forcément
* dans le choix des caractères une grande part d'arbitraire. C'est
* que les phénomènes linguistiques que nous observons en un
* pays ne s'accordent point entro eux pour couvrir la méme
* superficie géographique. Ils s'enchevétrent et s'entrecoupent à
* ce point qu'on n'arriverait jamais à déterminer une circon-
* scription dialectale, si on ne prenait le parti de la fixer ar-
' bitrairement.' Poi suppone che si prenda per caratteristico un
certo fenomeno che occorre nel picardo, e nota che se dai lati
di mezzogiorno e di levante si viene, per questo mezzo, a una
delimitazione tollerabile, la delimitazione si fa poi men buona
Terso settentrione, e verso l'ovest fallisce del tutto, poiché il
fenomeno si ritrova comune anche alla Normandia. Sarà dun-
que giocoforza, imagina egli ancora, dar di piglio a un altro
carattere, 'che si sceglierà per modo ch'egli ricorra in uno solo
' dei due dialetti (normando e picardo) i quali si vorranno tra
* di loro distinguere/ E trovato il carattere che varrebbe a
disgiungere il normando dal picardo, trova insieme il signor
Meyer ch'egli oltrepassi di gran lunga, verso occidente (o mez-
zogiorno), i confini della Normandia; ed ecco che anche questo
carattere sarà stato scelto arbitrariamente, 'secondo il luogo
in cui si voleva, giusta un'idea preconcetta, stabilire il con-
fine/ E la conclusione del nostro critico è questa: 'Segue da
ciò, che il dialetto è una specie ben piuttosto artificiale che
non naturale; che ogni definizione del dialetto è una definitio
nominis e non una definitio rei. Ora, se il dialetto è inde-
finito di sua natura, si capisce che i gruppi, che se ne pos-
sano formare (traduco letteralmente), non saprebbero essere
perfettamente finiti. Ne viene, che si potranno imaginare molte
maniere di aggrupparli, ciascuna delle quali si fonderà su d'una
certa scelta di fatti idiomatici, ma nessuna delle quali sfuggirà
all'inconveniente di segnare delle circoscrizioni là dove la na-
tura non ne porge.'
Si tratta dunque di una obiezione a priori, che ferirebbe il
mio saggio del pari che un altro qualsifosse, concernente una
qualunque serie di dialetti di una qualsivoglia regione del mon-
P. Mever e il franco- provenzale. 387
do; anzi ferirebbe, come io credo, una classificazione qualsi-
fosse di qualunque ordine di individui o di soggetti, reali o
escogitabili. Ma tutta codesta obiezione terribilissima, tutta
codesta disperazione di scernimenti che non sieno di necessità
arbitrarj, tutto si risolve fortunatamente in un bel nulla. Un
tipo qualunque, — e sia il tipo di un dialetto, di una lingua,
di un complesso di dialetti o di lingue, di piante, di animali, e
via dicendo, — un tipo qualunque si ottiene mercè un deter-
minato complesso di caratteri, che viene a distinguerlo dagli
altri tipi. Fra i caratteri può darsene uno o più d' uno che gli
sia esclusivamente proprio; ma questa non è punto una con-
dizione necessaria, e manca moltissime volte. I singoli caratteri
di un dato tipo si ritrovano naturalmente, o tutti o per la
maggior parte, ripartiti in varia misura fra i tipi congeneri;
ma il distintivo necessario del determinato tipo sta appunto
nella simultanea presenza o nella particolar combinazione di
quei caratteri. Supponiamo che i caratteri, e anzi i più spic-
cati, del tipo X sieno ABC, ciascuno dei quali si riabbia anche
in altre diverse combinazioni tipiche {ADE; BDG\ CDI\ ecc.).
Ciò naturalmente non infirma, per nulla, quella peculiarità che
appunto risiede nel trovarsi uniti i caratteri ABC. Che se prima
di venire senz'altro a dirette sperienze dialettologiche, ci è per-
messo d'insistere, ancora per un momento, in queste dimostra-
zioni teoricamente elementari, gioverà ricordar di nuovo la
ricorrenza d'un carattere o d'un complesso di caratteri d'ordine
peculiare od esclusivo, che può (ma non deve), insieme colla
simultanea presenza di caratteri ripartitamente comuni ad altri
tipi, entrar nella costituzione di un tipo distinto; onde, segnate
le proprietà esclusive per lettere minuscole, si viene a una for-
inola come questa: ABC ah. Dove è altresì da soggiungere,
che a determinare un tipo speciale può anche bastare un solo
cospicuo ed ampio carattere d'ordine peculiare od esclusivo,
tocche si può esprimere, per via di formolo, ponendo un tipo
ABC a rimpetto a un tipo ABC.
Orbene, passando a rapide e facili applicazioni dialettologiche,
e tali che particolarmente convengano ^\V Archivio, ricordia-
moci imprima del tipo ladino o della favella ladina, come in
ispecie si determina nella sezione occidentale e nella centrale
388 Ascoli,
della zona. Chi ha mai detto, o vorrà mai dire, che qui s'ab-
biano determinazioni arbitrarie, più o meno comode, non sug-
gerite o richieste dalle condizioni intrinseche del linguaggio?
Nessuno mai di certo. Ma proviamoci a passare in rassegna i
caratteri fonetici di quel tipo (e la fonologia dà sempre, in si-
mili casi, pressoché intiera la distinzione voluta), che si tro-
vano a pag. 337-38 del primo volume deW Archivio. Quanto vi
troviamo che sia veramente specifico, esclusivamente proprio
del tipo, non comune all'uno o all'altro dei varj tipi viventi
che sono od erano contermini al ladino^ Nulla o pressoché nul-
la. Prendiamo, a cagion d'esempio, il carattere ée-c^ latino
e segnamelo per A; aggiungiamo, secondo, il carattere pi ci ecc.
= PL CL ecc. del latino, e segnamelo per B ; e limitiamoci a an-
cora un altro solo, il carattere b'a = ca. latino, che segneremo
per C. Il primo di questi caratteri si continua nei dialetti lom-
bardi, pedemontani ecc.; il secondo e il terzo si combinan col
franco-provenzale e indi col francese; nulla é perciò di esclusi-
vamente proprio d'isolato; ma la riunione di ABC sopra uno
stesso territorio, incomincia a determinare il tipo.
Se poi ci volgiamo al franco-provenzale^ la figura tipica si
ottien sùbito, e delle più compiute, senza uscire dai confini di
quell'ampio elemento costitutivo che é I'a romano. Il franco-
provenzale mantiene intatto, generalmente parlando, I'a tonico,
e parimenti l'atono, per il quale si considera in ispecie Ta di
desinenza. Abbiamo cosi due caratteri, che si vorranno qui se-
gnare per A e per J5, e resultano comuni al franco-provenzale
ed al più schietto tipo della lingua dell'oc, ma sono all'incon-
tro in assoluta antitesi col tipo francese, nel quale volgono
costantemente in ^ I'a tonico fuor di posizione {ai ^) e I'a de-
•
sinenziale fuor d'accento (e). Ma il franco-provenzale si scosta
poi affatto dalla lingua dell'oc, per il ridurre ch'esso fa costan-
temente a ie i I'a tonico a cui preceda uno di quei suoni che
noi diciamo palatili; e questa é all'incontro una tendenza, che
si ritrova anche fra i dialetti dell'oli. Segniamola per (7 que-
sta tendenza, che resulta comune al franco-provenzale e a alcuni
tipi francesi, ma é in assoluta antitesi col tipo della lingua
dell'oc; ed ecco la formola ABC, formola afi'atto distintiva, poi-
ché raccoglie caratteri che unicamente in questo campo stanno
P. Meyer e il franco-provenzale. 389
raccolti. Ma non basta. Nel franco-provenzale, a diflferenza di
quel che avviene negli stessi dialetti dell' oil cui testé si allu-
deva, codesta riduzione dell' a si effettua, per la stessa causa,
anch' in sillaba desinenziale fuor d'accento; di guisa che il fran-
co-provenzale viene regolarmente a mostrarci, per codesta desi-
nenza importantissima, due diverse figure che stanno agli an-
tipodi runa dell'altra (lo schietto -a, all'italiana e secondo il
purissimo tipo della lingua dell'oc, se gli precede suono non-
palatile; e il sottilissimo -i, per un effetto che si direbbe la
esagerazione di una tendenza francese, ove gli preceda suono
palatile); e questa ò una caratteristica cospicuamente peculia-
re, cospicuamente esclusiva. Abbiamo dunque ormai la formola
ABC a. Nella quale, la proprietà esclusiva è tale per sé stessa
e per Tabondanza dell'elemento cui si riferisce, da bastare di
per sé sola alla determinazione di un tipo distinto; ed essa an-
cora si aggiunge a tal complesso di proprietà che pur altrove
ricorrono ma qui solo si congiungono {ABC), da bastare pur
questo, e per le ragioni medesime, alla determinazione di un
tipo distinto.
C*è qui nulla d'arbitrario? Son fatti questi, che il glottologo,
quasi per suo comodo, trascelga fra i molti, per farne, come
di sua invenzione, dei caratteri specifici? E questa doppia serie
del duplice riflesso dell' a, non ha essa grandissima parte anche
nel determinare acusticamente quella special parentela o somi-
glianza, per la quale avviene che i nativi del Vaud, dell'Ao-
stano, della Savoja e delle finitime sezioni del dipartimento
dell' Isera, a non toccar se non di questi torri torj franco-pro*
venzali, s'intendano fra loro con particolar facilità? Io avrei
scelto, stando al signor Mejer, 'un piccolissimo numero di fatti,
fra* molti.' Ma, in primo luogo, i fatti, dei quali discorsi nella
prima parte del mio Saggio e nelle linee che ora a queste pre«-
cedono, già per sé costituiscono, il ripeto, una determinazione
sufficiente, e non solo per ciò che esprimono, ma eziandio per
tutto ciò che é come implicito in essi, poiché non v'ha nessun
glottologo, il quale, data in una serie di dialetti contigui cotal
cospicua simultaneità di caratteri in ordine ai riflessi dell' a
romano, non voglia e debba inferirne senz'altro un'intima e
molteplice concordanza fra' dialetti stessi. E, in secondo luogo.
390 Ascoli,
io non mostrai peranco se non un capitolo solo della mia descri-
zione (III, 61-120), dichiarando d'averne in serbo altri venti^
due, che ho distintamente specificato (III, 65-6); e come dunque
Tiene il signor Meyer a parlarci, senz'altro, 'di pochi fatti'?
Sarebbero an^i troppi davvero; e ben piuttosto tocca a me di
qui anticipare la dichiarazione, che fra i residui capitoli non
ve n'è alcuno, il quale pur lontanamente s'accosti all'impor-
tanza del primo, sebbene tutti, oom'io spero. Varranno effica-
cemente e per la descrizione del tipo franco-provenzale e pur
come argomenti e motivi d'indagini più comprensive. Intanto
non sarà forse fuor di luogo il far sapere sin d'ora a chi vor-
vebbe farci star contenti all'antiche spartizioni (per le quali gran
parte del territorio franco-provenzale, arbitrariamente divelta
dal resto, era assegnata alla lingua dell'oc), che se proprio fos-
simo costretti a scegliere, per la collocazione del franco-proven-
zale, fra la categoria provenzale e quella del francese, dovremmo
decisamente preferire la seconda.
Già venni di sopra a toccare, per incidenza, di quella vivente
riprova delle argomentazioni dottrinali che s' ha nella somi-
glianza tuttora effettivamente sensibile fra codesti parlari che
io dico franco-provenzali, e venni insieme a toccare della loro
attiguità. Ma il signor Meyer dice all'incontro: Xe nouveau
' groupe propose par M. Ascoli, groupe, qui, on l'a vu plus haut,
* n'offre aucune unite géographique, échappe-t-il du moins à
M'inconvénient de réunir des dialectes fort dissemblables? Pas
Me moins du monde/ E poi continuando: 41 est de tonte évi-
* dence que le dauphinois ressemble plus au provencal qu' au
* franc-comtois et au lorrain, et pourtant le lorrain , le franc-
' comtois et le dauphinois sont englobés dans le nouveau groupe
* de M. A., duquel est exclu le provencal.'
Qui io cado veramente dalle nuvole, e cadranno con me dalle
nuvole tutti coloro che si son compiaciuti di considerare gli
^Schizzi franco-provenzali'. Poiché, in quanto a geografia, il si-
gnor Meyer dice proprio che manchi nel caso mio ogni unità
geografica (le nouveau groupe n'offre aucune unite géographi-
que); e quindi non lascia neppur luogo a credere che egli vo-
lesse allegare la mancanza d'unità politica; il che, del resto,
come ognun vede, se sarebbe stato cosa vera, era però tal verità
P. Meyer e il franco -provenzale. 391
che nel caso nostro non importava niente affatto. E il vero del
fatto nostro insomma è, che il ^franco-provenzale' forma un
tatto continuo, anche nell'ordine geografico, cosi come io dico
nella prima pagina del mio Saggio, accingendomi a descrivere
partitamente codesto territorio (III 61). Quanto poi al conglo-
bar che io faccia di dialetti fra di loro molto dissimili, per una
incoerenza che il mio critico dice inevitabile, io gli devo pur
dire che la conglobazione altro non è se non un parto dell' ima-
ginazione sua. I distretti, onde io formo lo schietto territorio
franco-provenzale, sono i seguenti (III 88-110): Ginevra/ Savoja,
Valsoana, Val d'Aosta, Vallese, Vaud, Friburgo, Neufchàtel, e
la sezion di Berna che è tra il Jura e il lago di Bienne; gli
spogli de' quali distretti sono distinti anche nella stampa col
maggior de' tre caratteri. E vi aggrego bensì (giustissimamente,
senz* alcun dubio) una modesta sezione del Delfinato, ma non
già 'il Delfinato' o il 'dialetto delfinese'; come ancora vi ag-
grego, e tutto sempre in perfetta contiguità geografica, una
modesta sezione della Borgogna e una parte del lionese (ib.
81-5), stampando i rispettivi spogli in modo meno appariscente,
per una cautela che potrà anzi sembrare e resultare soverchia.
Quanto poi alla Franca-Gontea e alla Lorena, io non fo che
rintracciarvi, in alcune distinte varietà dialettali, le 'estreme
vestigia del franco-provenzale' (ib. 110-15); e in questa esplo-
razione delle 'estreme vestigia' non penetro se non nell'estrema
sezion meridionale della Lorena (Vogesi), ponendo all'incontro
il complesso dei dialetti di essa Lorena, non già nel territorio
franco-provenzale, ma bensì nel francese (p. 116-19) ; come dopo
aver rintracciate le 'estreme vestigia' del franco-provenzale nella
sezione occidentale del Doubs (Franca-Gontea; ib. Ili), pongo
senz'altro la sezione orientale dello stesso Doubs nel territorio
francese (ib. 115-16). E la verità è qui dunque molto sempli-
cemente questa, che non solo è affatto imaginario che io abbia
^conglobato', per necessità di sistema, cose tra di loro eteroge-
nee, ma che le 'conglobazioni' provengono, per doppia maniera,
dal mio critico; poiché, dairun canto, è lui che ne fa nell' im-
putarmele, e, dall'altro, è lui che ne rifa col riportarsi, in ra-
gionamenti di questa sorta, a una fase conoscitiva che già
abbiam felicemente superata, parlandoci indigrosso di 'delfinese',
di 'franco-contese', e 'lorenese'.
392 Ascoli,
Ma i guai non sono finiti, e anzi ci restano i più gravi. Il
signor Meyer è convinto che il miglior modo di metter nella
vera sua luce il variarsi della parola neo-latina (la variété du
roman) stia non già nel segnare delle circoscrizioni determinate
da .questo o quel fenomeno idiomatico, ma bensì nel mostrare
sopra qual superficie di territorio ciascun fenomeno regni; e ci
voglia ben piuttosto, in qualche modo, la geografia dei carat-
teri dialettali, che non la geografia dei dialetti. Ora, codesta
obiezione, o codesto suggerimento che sia, non ha più bisogno
di particolari confutazioni, dopo quanto già di sopra mi occorse
d'avvertire. Ma non posso a meno di aggiungere, a questo pun-
to, che la considerazione del signor Meyer mi par molto sin-
golare, e per tre diverse ragioni. La prima è, che un suo
equivalente in istoria naturale sarebbe pressappoco questo : oc-
cupiamoci di sapere sin dove e coinè s'estenda il fenomeno
delle due dita, e la descrizione del singolo ruminante lascia-
mola poi a chi la vuole. La seconda è, che lo studio della
prolungazione di un dato fenomeno, cioè l'intenzione di per-
seguir la storia di un singolo fatto idiomatico al di là dei con-
fini in cui egli entra a formare una data combinazione dia-
lettale, non parrebbe cosa da raccomandarsi aXV Archivio , il
quale, ;pro virili parte, si è anzi industriato a darne egli l'esem-
pio (cfr. I 542, a-&, 'Regione ecc.'). La terza finalmente è, che
appunto gli 'Schizzi franco-provenzali' hanno insieme l'assunto
di determinare un nuovo gruppo e di studiare il prolungarsi
de' singoli fenomeni anche al di là del gruppo stesso, come già
appare, nel modo più compiuto e più manifesto, da quel capi-
tolo intorno al quale il signor Meyer riferiva.
Ed egli continua: 'Io aggiungerò ancora, che data pur la
' possibilità di un migliore aggruppamento dei dialetti neo-la-
'tini, non v'è, come io credo, nulla da intraprendere in questa
' direzione, prima che non si pubblichi un numero sufficiente
'd'antichi documenti di questi dialetti.' Qui la risposta, mas-
sime a volerla limitare al caso nostro proprio, è troppo facile
davvero. Ben vengano gli antichi o vecchi documenti; e dove
a me fu dato consultarne, io di certo non ho tralasciato d'ado-
perarmici con lo zelo migliore che sapessi. Ma ogni dialettologo
sa, quale e quanta sia, in un caso come questo, l'utilità che
P. Meyer e il franco-provenzale. 393
si possa sperare da documenti vecchi od antichi. Si riduce, in
fondo, al trovarvi conferma, o al ricorrervi con maggiore o
miglior perspicuità, il fenomeno dialettale che vive ancora. L'u-
tilità critica, fra documento e parlata viva, è in generale un'uti-
lità scambievole; e moltissime volte è anzi ben maggiore quella
che viene allo studio del documento dallo studio della parlata
viva, che non sia l'inversa. Oh insomma, spera egli il signor
Heyer di trovar dei documenti franco-provenzali, la cui anti-
chità sia maggiore di quella dei fenomeni che tuttora sussistono
ne* vernacoli che io studio? forse vuol significare, che il tipo
franco-provenzale si possa essere esteso modernamente a delle
contrade cui fosse prima estraneo? Ma chi vorrebbe condivedere
questa supposizione? E dato pure che ciò fosse, non rimarrebbe
ugualmente vera ed effettiva l'estensione sua presente? La sco-
verta lo studio d'antichi monumenti proverà, del resto, ben
altro: proverà una dilatazione ben maggiore di quella che io
per ora sia riuscito a misurare.
Ma il più terribile sta in fondo. Io mi sono servito, secondo il
signor Meyer, nel miglior modo che si poteva, delle fonti povere
e poco sicure, alle quali io era limitato; senonchè a lui pare molto
dubbio, che, 'meglio informato', io possa mantenere le mie con-
clusioni. Or quali conclusioni, di grazia? Quelle forse che si ri-
feriscono alla schietta famiglia franco-provenzale, intorno alla
quale il mio critico non avventura pur un cenno solo che pro-
prio la tocchi? Ma allora i suoi dubbj mi parrebbero davvero
una celia, ed egli di certo non intende celiare. i dubbj, che
lo angustiano, si riferiscono al 'lorenese' et ccetera, che egli
ha creduto 'conglobati' al mio franco-provenzale? Ma allora
essi feriscono la sua imaginazione e non lo studio mio. Dei
dubbj ben ne restano anche a me, come ognuno può capire, e
come ho debitamente dichiarato (III 65); e più specialmente
si riferirebbero a quella ^colonna longitudinale' in cui il tipo
franco-provenzale si viene sperdendo e fondendo nel francese ;
ma sono dubbj assai tenui; e il cauto riscontro de* varj fonti,
e la convenienza generale della prosecuzione de' fenomeni, non
permettono, il confesso, che io mi dia in preda al alcuna in-
quietitudine, neppure in ordine alle conclusioni affatto acces-
sorie. Ciò naturalmente non esclude, che io desideri vivamente
ArchiTio glottol. ital., II. 2C
394 Ascoli ,
d'esser meglio informato; e le migliori informazioni io le ac-
cetterò, con molta gratitudine, da chicchessia, e con moltissima
se mi vengano da valentuomini pari al signor Meyer; i quali
però non è forse inutile che si ricordino, come io, in sino ad
oggi, sia stato costretto, per comune sventura^ a giovarmi delle
sole forze mie.
Vorrei ora esser dispensato dal riassumere la mia anticritica;
e vedrò almeno di farlo con la maggior brevità che la chiarezza
consenta. Il signor Meyer non tocca, dunque, non avverte, non
corregge, non aggiunge alcun singolo fatto. Dedica la massima
parte del non lungo articolo a obiezioni teoriche, le quali son
dovute parermi originate da una sintesi temeraria, tal cioè che
punto non somigli a quelle sintesi sobrie che devono precedere
e accompagnare ogni analisi razionale, e ne sogliono riuscire
assai robustamente dilatate. S'aggiunge un'obiezione d'ordine
geografico, che è la mera negazione di una verità patentissima;
e finalmente s'aggiungono alcune obiezioni d'ordine più pro-
priamente dialettologico, le quali non hanno ragion d'essere se
non quando si supponga che io abbia detto o mostrato cose del
tutto contrarie a quelle che in effetto, e in manifestissima guisa,
io dissi mostrai.
Nel suo complesso, è una critica d'ordine estrinseco; e circa
l'intrinseco del mio lavoro, non lascia mai di esprimersi con
l'usata cortesia. Onde viene, se io non erro, doppia legitti-
mazione a questa diffusa mia risposta; la quale, del resto, non
vuole implicare alcuna conseguenza men che rispettosa, e si ri-
fugia, con vera e cordial sincerità, nel quandoque dormitat Ho^
merus. Pure, non è forse affatto superfluo il notare, come la
povera scoverta del 'franco-provenzale' sia andata incontro an-
ch'essa a quella bizzarra varietà di sentenze, cui sogliono an-
dare incontro e le scoverte minute e le grandi. La Francia
meridionale me ne rimeritò con una medaglia d'oro; e dalla
Francia del Nord me ne viene un giudizio, che si ritorce un
po' convulsamente in so medesimo, arrivando a determinarsi
nella curiosa proposizione negativa: 'che debba sin parere non
gran fatto utile che la tesi si dimostri \' Il Boehmer, alla sua
' P. Meter nella seconda delle citate relazioni alla Società filologica di
Londra.
P. Meyer e il franco-provenzale. 395
▼olta ', pur dichiarandosi contento del lavoro, trova in qualche
modo che non e* era bisogno che la scoverta fosse rifatta, poi-
ché il mio territorio Tranco-provenzale' non abbia confini diversi
da quelli che avesse il reame borgognone 'in sino alla fine della
prima dinastia', come a colpo d'occhio si vedrebbe da una carta
che Alberto Jahn ha inserito nella sua storia di quel reame; al
quale Jahn non sarebbe pure sfuggita la coesione idiomatolo-
gica dell'antico territorio borgognone in sino a' nostri giorni.
Ora io prometto al signor Boehmer, che mi studierò di rintrac-
ciare il libro del Jahn; ma intanto mi farò lecito di avvertirlo, che
OY* io dicessi, come a lui parrebbe, 'borgognone' anziché Tranco-
provenzale', mi confonderei stranamente coi dialetti 'borgognoni'
di Francia, cioè della provincia di Borgogna, i quali appunto
non entrano nel gruppo franco-provenzale, comeché lo rasentino
e nell'ordine geografico e nel dialettologico (cfr. Ili 73). Lo
Schuchardt, finalmente, che era preparato, in cosi mirabil modo,
a farla lui la scoverta, si compiace, da buon collega, che l'ab-
bia fatta io^ come già se ne eran compiaciuti i confratelli ita-
liani. G. I. A.
RICORDI BIBLIOGRAFICI.
1. GioTaxmi Flichia, in quanto d un romanista, si trovava, pochi anni or
•ODO, oella eondiiione difficile, e talvolta fatale, di un valentuomo che abbia
•otcitato grandi espettazioni prima di dare alcun pubblico saggio dell* opera
•oa* Ma, come d* improvviso, egli troncò gì* indugi; e seni* alcun apparato,
MBS* alcuna smania d* abbagliare, e quasi nascondendo il grosso delle forze
ella sempre e in ogni direzione tiene in serbo, mostrò agli intelligenti, con
rapida serie di pubblicazioni, che la fama, anziché esagerare come
&, era rimasta bene al di sotto del vero nel decantar gli stucy del primo
* Romaniicìu étudien, I 629.
' GtffUraJd/aK, 1875 (6 nov.), col. ÌA6S.
I
s
395 Ascoli,
dialettologo italiano. Le collezioui dell' Academia torinese prestamente si ar*
ricchiroDO di quattro suoi lavori, e son questi di cui pef ora mi limito a ri-
produrre i titoli: Postilla sopra un fenomeno fonetico \cl = 11] della lingua
latina (1871); Di alcune forme de' nomi locali dell'Italia superiore (1871);
Dell'origine della voce sarda ^Nuraghe* (1872); e Nomi locali del Napoletano
derivati da gentilizj italici (1874). La Rivista torinese di filologia e d'istru^
zione classica iC MiQ insieme parecchi articoli bibliografici molto istruttivi; e
questo volume àeW Archivio si orna delle sue Postille etimologiche^ preziosis-
sima caparra d*una cooperazione che deve farsi attiva sempre più. In tutte
le quali scritture, ma in ispecie nella Memoria sui nomi locali dell' Italia su-
periore e nelle Postille etimologiche^ s'ammira, insieme con la dottrina larga
e penetrante onde tutti impariamo, il carattere morale, se cosi può dirsi, di
codesta bella dottrina. Perchè il Flechia dispiega il proprio sapere con una
calma serena e sicura, che gli vien dalla coscienza d'avere accumulato, a
oncia a oncia, e tutto per virtù sua propria, un tesoro al quale* aspirava co' piti
perspicui intendimenti, e sul quale ha fecondamente compiuto le sue espe-
rienze diuturne e comprensive. E le ha compiute con una volontà pertinace
ma non irrequieta, con un animo pien di fede eppure senz'orgoglio, avido non
d'altro che di conseguir delle verità pellegrine, per farle comuni, quando che
fosse, con gente capace d'andarne compresa.
h" Archivio ha forse contribuito a indurre il Flechia a una più larga co-
municazione col pubblico; e certo, se ciò fosse, ne menerebbe un gran vanto.
Ma un merito sicuro òe\V Archivio ò almeno questo, di poter qui riferire al-
cune aggiunte e avvertenze, suggerite al Flechia dal mio saggio intorno al
ligure che si legge in questo stesso volume ed ebbe la fortuna di piacergli.
10 ordinerò e interpolerò le note dell'amico, secondo che ò richiesto dalle
ripartizioni del mio saggio.
A tonico (p. 113).- Agli esempj di er^zzàr^ si possono aggiungere: gen.
érze (piem. érzu) argine, érsu (1-arcio) larice, ércu (var. piem. erca-balestra).
11 sing. centu {cento), pianto, ò fra gli altri luoghi nella ^Gerusalemme', XII 95.
Il veutimigliese dandoci raina, imbriaigo, gairi (piem. t>atVe), ascaisi^ rende
forse più probabile che nelle rispondenti voci genovesi si abbia cB = ai,
Vocali àtone [alla nota nella quale si ripetono i piem. gùvu ecc. da
*guven ecc. di fase anteriore,- ricostruzione per la quale il Niora addusse
alla sua volta le forme canuvesi pééfh tèrmiti cdrpfn fràssfh Steven , - ma
si distingue, per considerazioni che rimangono intatte, fra questo tipo e quello
delle terze plurali; p. 119-20]. — Notevoli a questo proposito: azon zovon
ordon (ordine) dell' ant. astigiano dell' AUione. Per la terza plur., alcuni luo-
ghi, ci danno tuttora l'-en; così una varietà alto-canavese: màngen e min-
gen mangiano, ecc. [il Nigra, dal canavese di Val di Castelnuovo: periati
vénah pólan possono]. E meglio ancora parrebbero valere, per la dichiara-
Ricordi bibliografici: 1. Flechia. 397
xioiie del tipo tor. guvu = *gùvfny le antiche 3. pi. di due varietà molto
prOBsime al torinese, cioè del chierese e del saluzzese, che son p. e. le sog-
giontiTe débien dbien vdjen (valeant) ecc. La varietà alto-canavese, che
testé era citata, ha poi naturalmente V-en (=-u torin.) anche nella prima
plnr. dellMmperf. indie, imperf. sogg. e condiz.: mingdven o mingéiven (così
per ^mangiavamo', come per ^mangiavano'), mingéissen ( ^mangiàssemo' e
'mangiAciseno' ), mingrien ( ^mangiari amo' e ^raangiarlano' ) , ecc., allato alle
forme tor. mangctvu aviu ecc., 1. e 3. pi. anch'esse. — [Questa coincidenza
della prima pi. di base sdrucciola con la terza, che dipende dal passar fa-
dlmente in n il m finale che sussegue a vocale atona (*mangdvam *inan^
jàoan^ ecc.), occorre anche nei dialetti ladini, p. e. soprasilv. luddtan^
Imeeo-esg. iudéivan^ ìfi e 3 fi pi., nella qual regione vediamo anzi il feno-
tomo di -m in -n anche nella l. pi. di base piana (soprasilv. ludéin lo-
diamo, ecc., cfr. Arch. t 201-2, n.); e tanto piti legittimamente occorre la
eoineidenza delle due persone di buse sdrucciola nel friulano, dove -m in -n
pud dirsi fenomeno normale (ib. 520), quindi friul.: tnangdoin ^ mangdssin^
tmangaréssin^tìiiie forme che insieme sono di l. e 3. pi, e inoltre il -n dopo la
tonica in mangin mangiamo. V. anche Mussafia, Beitr. 2, kunde der nordt-
tol. mund. im XV.jakrh.^ p. 20 e 21, e qui più innanzi, n. 9-10, in fine. — A.]
Vocali àtone: attrazione delF-t del plurale (p. 120-21).- In varietà
biellesi e canavesane: nóim nomi, patch pochi, ecc.; ma -o^n -cen -on-^ónù
[Altri esempj canavesi: can cdn (=*càini), gat gàt^ tut tùjt^ garét garéjt;
»ant sdnt Nigra.]
VJ SJ (p. 121).- Circa édngu si può dubitare se' egli spetti a questo nu-
mero, o non piuttosto al num. 18 (p. 123), se, vale a dire, la sua base sia
plumbio o non piuttosto plumblo. Il combr cumbrin^ piombo piombino, del
dialetto di Pamparato (Mondovì) renderebbe non inverisimile la seconda ipo-
tesi. In questo vernacolo, r = i, d fenomeno normale.
chena^ catena da fuoco (p. 116 e 127), d pur del torinese.
tf^AÌ0 =: ei[ting[u]ere (p. 128), ò anche del torinese, specialmente col senso
neutro di ^soffocare'. [Canav. st{nz^\ Nigra.]
Allato a ;a55a=: gazza (p. 128, n.), e più comune: ajassa rz agassa^ di cui
jassa è per avventura una forma aferetìca; cfr. Diez less., s. gazza.
àurvi (p. l3l) = de-operire, Diez less., s. ouvrir. Per il semplice ^operire'
nel senso di ^aperire', si notino pprire uprire^ del sanese, dell'umbro e del
romanesco, e in ispecie la forma sanese uopre,- [Questa di op^rtVe = ^chiu-
dere', ^coprire', che passi a dire ^schiudere', d una curiosa vicenda, di cui
i fautori della dottrina dell' anti frasi, poichd ne esistono ancora, potrebbero
compiacersi non poco. Ma sarebbe, come sempre, una compiacenza vana; e
la storia di questo sovvertimento può riuscire molto semplice. L* esempio che
citano da Celso, e le molte testimonianze neo-latine, accertano l'esistenza
398 Ascoli,
simultanea di aperire e de^operire^ legittimamente sinonimi. Ora il semplice
operire (chiudere, coprire) scadde per tempo dair uso, soprafatto dal composto
cO'Operire^ il quale sMsoelliva per modo che la composizione non ne fosse
più sentita (copro). Così andava interamente perduta, nel popolo, la coscienza
del valor proprio à'op[e]rire; e sotto 1* influsso di aprire^ coesistente a d-opri-
re, potò senz* altro aversi come T estrazione anorganica di un nuovo semplice:
aprire = aprire (si pensi p. e. a questa serie: vo ad aprire, vo a doprire, vo
ad oprire). Aggiungasi che 1* apparente sinonimia di d-oprire e aprire poteva
anche andare raffermata dalla sinonimia effettiva di daprire e aprire {de-ape^
rire^ col de- semplicemente rafforzativo come in de^pramere ecc.; lomb. e
lad. darvi ecc. allato ad arvi ecc.), la cui simultanea esistenza non d però
ancora abbastanza largamente accertata. Caso non poco diverso, ma pare
analogo, di antica voce che or viva in forma mutilata e ripugnante alle ra-
gioni etimologiche, e viva in tali condizioni come. per effetto dell'essersi obli-
terata un* altra antica voce, d il nostro verna zz inverna (hiberno-), che non
8* avrebbe se fosse rimasto vivo T antico verna^ primavera. — A.]
Sardo settentrionale ecc. (p. 133).- Altri esempj cdrsi per e da d nella
formola dr+cons.: érburu; dischércu^ spérghie sparga, térdi^ schérpa^ ghérbu»
Sardo centrale (p. 139-45).- Vocali àtone (num. 14). L*o di uscita
latina ò qui incolume: ama^ atta, ecc.; cfr. Riv, di filai,, I 262 seg. Z> im-
plica to (num. 19). Ad ulteriore conferma di tutto questo, si aggiunge un
caso di [k]lj da CL, che appunto ci porta a i del Logudoro e II del Cam-
pidano: log. aguÀa, mer. a^t«//a,=:*acu[c]Ija, acucula. [Sarebbe anche da
vedere se alcuni verbi logud. in -izare non rivengano alla base -1C*LARE
(-i[h]ljare; cfr. ital. dormigliare e dormicchiare), anzichà alla base -ICARE
{'i\j]are, it. -eggiare); al quale quesito mi muove il combinarsi del log. paS'
siidre col mer. passillài. A.] SJ che dà /, onde j (num. 20). Notevole
esempio: o/dne =: ^asjone, tinozzo, che si dovrà connettere col piem. asi, ose,
usato principalmente col senso generico di vasi vinaij (tino, botte, ecc.), e
insieme di certo coira^to ital. ecc. E qui probabilmente anche annajare *an-
nasjare annasare, [iscujare ^scusjare scusare].
Siciliano (p. 145-51).- Vocali toniche (num. 1 a 13). Pur nel sic. oc-
corre e dsLmd nella formola dr+cons.: mérca, mércu, indérnu; cfr. ^Sardo
settentrionale' ecc. La convenienza che à fra siciliano e toscano in ordine
alle deviazioni dei num. 6, 8 e IO, si estende anche ai num. 4, 7, 9 e 12. Abbia-
mo cosi sic. e da e: péju [cfr. Arch. I 169 488], réda o réra^ sigrétu, sinzéru
[cfr. Arch. l 488], sirénu, régula, eresia [cfr. Arch. ib.], tutti i quali esempj,
a eccezione di sirenu, riscontrano 1*6 aperta nel toscano; sic. e da { di pos.,
oltre che in méttiri\ anche in jinéstra e lènza, che tutti e tre ritrovano V e
aperta nel tose; sic. ti da ci: dimura, allato al tose, dimgra [cfr. Arch.
I 552 b]; sic. o da u di pos.: nózzi, spórcu, fròtta, còppa, riscontranti un
Ricordi bibliografici: 1. Flechia. 390
aperto nel tose; ma s* aggiungono: culónna^ jórnu^ vrigógna^ tórbidu^ rój-
jfu, e lórdu^ mogghi moglie, forgia o foggia ful[i]ca, il primo de* quali (cu-
tanna) riscontra Yo aperto nel romanesco e in altri dialetti, e il secondo si
combina col nap. juorno. Per o = u fuor di pos. : grói grue, che si combina
col napoL gruojo. * '
Continuazione de* fenomeni liguri al versante settentrionale dell* a-
PDiNiNO.- Saggi del dialetto di Pamparato (Mondovì): agé alzare,
oli ja<; cod, fas^ cfr. p. 115 (num. 3); ràga^ rava-gé rapa bieta, arg albio
alveo» cfr. p. 121 (num. 16);- ganc^ néga^ cfr. p. 124 (num. 18);- cin céina
pieno -a, cànta^ éanz^ anci empire, senc^ dùg, stuga^ cfr. ib. ; - sa fiato, su
iiore, eni e hudéni (= inflo, -enfio) gonfio, cfr. ib. surti^ su^ ecc., cfr.
p. 125 (num. 20). È in questo dialetto anche e = CT (cfr. p. 130): fac^ strec^ ecc.,
e fra gli altri anche oc octo. Al qual proposito é pur notevole ùcàva e aucdva
(p. e. d'ùcdoa^ st'ùcdva^ ani l'ùcdva)^ per significare un* ora circa il prin-
cipio del pomeriggio, che non può essere altro che ^ottava', proprio del biel-
]«ee» dell* alto vercellese e del basso canavese [cfr. Arch. I 305 n.]. Il pam-
parioo ha pure, coirastigiano e l'alessandrino: serie scripto-, facendo così
riscontro col prov. e lo sp. [cfr. Arch. I 146-7, e Tant. e mod. roilan.]. Fra
h sue peculiarità ha finalmente il pamparino: -ai =: -dft, p. e. anddi andati,
che nel canavese e altrove si ò fuso in é: sulddi suldé soldati [cfr. p. 114,
n. 3]. Saggi del dialetto di Sassello (Acqui): andérno, p. 113
n.; chéllo^^temigo^ còrpo, fdcco fatto (che serve pure come es. di c=:CT),
^Ìé<^% àrd9J0, moizo pazzo; plur. zérri cerri, cóji chiodi, ecc., cfr. p. 120; —
iort egli sorte, /biti, sareisi *saressi = saresti, as( *al8l = fr. aussi, cfr. p.
125; éùf cdnzo, accdtta appiatta, cfr. p. 123 -4«
Fonti (p. 112-3 n.).- Le Commedie trasporta: ecc. devono essere della
seconda metà del secolo scorso, ristampate nel 1830. La versione: 'L
libsr d'i Salm ecc. non à nel torinese proprio, ma nella varietà saluzzese,
molto simile, é vero, alla torinese, ma pure con certe sue peculiarità, come
la conservazione del -5 di 2. pers. sing. anche fuor de* monosillabi e dello
forme interrogative, onde non solo p. e. stas^ fas^ manges-tù, mangdves-tù,
come nel torinese, ma anche ti t' mdnges, mangdves, ecc. — [Cfr. Arch. I
462-63. M*era io infatti notato da quei ^Salmi': ff guardes x li, ^e proun-
fei , t'ounzes^ xxiii 5, te counserves xxxvi 6, che (f t'arcordes viii 4; e insieme
qualche inuguaglianza di cui non so darmi ragione: e che t^ Vàbbies fd-lou,.,.
e chf ff iou fosse douminé viii 5-6; t*i strame, ent *l strem..,. t*i buttes
a euvert xxxi 20; s^ tf tase i siou . . . xxviii 1, ^f ff serche Vimpietd x
15.— A.]
2. Adolfo MussAFiA non ha ancora potuto dare airArc^itoto alcun contri-
buto letterario, ma gli ha dato nondimeno, in varie guise, tanti incoraggia-
400 ' Ascoli,
menti e conforti, da doversi in gran parte attribuire a merito suo che questa
collezione abbia avuto principio e venga prosperando. Se perciò, nel toccar
d* alcuni lavori dell* insigne romanista spalatrino, io tempererò e quasi sop-
primerò le lodi in cui tanto volontieri mi diffonderei, egli ò, che alla ragione
del tornar quasi superflua a* pari suoi ogni lode, si aggiunge V obbligo, che
ha la gratitudine vera e profonda, di non esser larga di parole.
Fra le scritture, che il Mussafia diede alla luce negli ultimi tempi, son
queste tre che Y Archivio ricorda con particolar compiacenza, comparse tutte
e tre nelle collezioni delFAcademia viennese: Darstellung der romagnoli^
schen mwndari (Descrizione del dialetto romagnuolo; 1871); Beitrag zur
hunde der nordiialienischen mundarten im XV, jahrhunderte (Contributo
alla conoscenza dei dialetti dell* Italia superiore nel sec. XV; 1873); Cinque
sonetti antichi^ tratti da un codice della palatina di Vienna (1874).
La Descrizione del dialetto romagnuolo (faentino), che s* incontra, per
molti rispetti, con quella dei dialetti ladini a cui VArchivio simultaneamente
si provava, ò la prima analisi- compiuta che di un dialetto italiano la scienza
possa vantare; e avrà il raro privilegio, che Tessere, nell* ordine del tempo,
la prima, non le tolga di rimaner perennemente fra le prime pur nelTordine
del merito assoluto. Mal si saprebbe qual parte più lodarne; ma fru le se-
zioni più cospicue va di certo quella de*dilegui delle vocali àtone (§§9l-
128; si noti in ispecie il sicuro acume del § 103); come fra le migliori pre-
rogative metodologiche va posta di certo la cura continua djf mostrar gli
effetti che delle tendenze fonetiche la flessione risente (§§ 11, 69, 90, 105, 128).
Il doppio criterio della quantità della vocal tonica latina e del posto che que-
sta occupa nella parola, ò applicato con maestrevole delicatezza alle partico-
lari condizioni del dialetto (§60). Un* importante correzione al Diez è poi
quella che concerne i limiti entro a' quali si compie il fenomeno d*i in e
(§§ 25 e 26; cfr. Arch. I, num. 33-35 e p. 300-1); e nella sezione dei dilegui
delle vocali atone, che già ponemmo tutt* intera fra le cose più belle, TAr-
chivio si compiace più specialmente della dichiarazione del processo per il
quale la formola R-+t?oc.+cons., a dir di questa sola, viene a dare AR+cons.
(come in armar rumore; § 1^), dichiarazione che ò mirabilmente colleguta
con quelli d'altri fenomeni congeneri e coincide con quella che se n*d qui
offèrta nel primo volume, a p. 220-21, dove anche sono i paralleli per il laent.
tn[d]5on nessuno (§ 126).
La distinzione fra il plurale e il singolare dei nomi mascolini, in quanto
consiste nel restringersi od oscurarsi della vocale tonica nella forma del
plurale (p. e. sing. avért aperto, pi. avirt', sing. brev bravo, pi. brév; càn
cane, pi. chen; ngd nodo, pi. nud^ §§ 238-42), ò felicemente ripetuta dal-
r azione deir-t che più non risuona (cfr. Arch. I 544 a); ed è felicemente
presunta i* identica azione d*nn t nella distinzione che identicamente si de-
Ricordi bibliografici: 2. Mussa fi a. 401
tamiiiia fra congiuntiTo e indicativo (p. e. armeria egli rimerita, armirta
egli rimeriti; sfha egli salva, sélva egli salvi; ecc., § 260). Il quale t io
lo eercherei nel tipo'^d^'a *mória ecc., onde dibia diba ecc. (cfr. Arch. I
432 464, e il faent. éva^ il friul. v-ébis ^ *dib[i]as ecc.) ; e vuol dire che re-
puterei Tt, o meglio il suo effetto, diffondersi analogicamente per tutti i re-
lidoi congiuntivi. Al qual proposito si potrebbero citare i tipi analogici ita-
liani: lodiate^ vendiate; ma ben più opportunamente Punico tipo congiuntivo
dal ladino di Sopraselva: laudij laudias laudijy vendij vendias vendij, sentij
seniias sentij^ allato ali* unico d'indicativo: laud laudas lauda^ vend vendas
mimIo, sent sentcu senta, — Un altro e piii singoiar caso di diffusione ana-
logica ci risulterà assai probabilmente anche il -jp della 3. p. del porf. di 1.
^ODjng., e di 'esse', nella varietà forlivese. Allato a un ^p, ebbe, ch^ d forse
tflktto estinto e rispondeva aWebb^ ebbi ebbe, del faentino (cfr. forliv. sp = abbi),
dev'essere primamente sorto fop fu (cfr. il boi. sepa, sia, allato al fusign. epa,
abbia), e questi due grandi esemplari potevan poi promuovere and§p^ man-
dfp ecc. Sarebbe un caso affatto consimile a quello di stette (stetit), che
prima attrasse diede (dedit), cioè ne fece dette^ e poi, insieme con dette ^ si
•obordind tutt*intera una conjugazione a cui entrambi erano estranei (ven-
dflte, credette; dovette; Diez). Se altri verbi, che non sien quelli della 1. con-
Jag. ìat., non ci mostran questo -p, ciò potrebbe dipendere da un*altra uscita
elle li avesse preoccupati, cioè appunto dall*-^^ di cui testò sentivamo il pa-
rallelo toscano, il quale ^ét s'avvicendasse normalmente con -^ (vendè ven-
déUe\ e pur di 'habere': imol. avé^ lugh. avét)^ e poi a questo lasciasse libero
il campo.
Ma ritornando alle influenze deirt, e estendendo insieme Tosservazione an-
che alle altre palatili, incominciamo dal ricordare anche i §§ 13, 26 e 71,
i qxiali pure ne avvertono correttamente di tali influenze. L* ultimo esempio
' che si adduce nel terzo di quei paragrafi: gris^l (griigl)^ crogiuolo, dovrà
anch* ei80 il suo t = o allo S = i; di fase anteriore ; e così pur la differenza
del riscontro, che è fra pjis placet (i»=i?=ja) e piega plaga {je^ja; § 20
in f.), deve dipendere dal fatto che il primo esemplare, a differenza del se-
condo, avesse una pacatile dopo la tonica {*pjez; cfr. Arch. Ili 72). Ugual
ragione avrà Ve (anziché e) di mesar ts mezar = *tnélar macero, e insieme
r« atono del rispettivo verbo mizre macerare, di cui si ragiona al § 70; ma
anche nission {nigjón) nazione, e pugitura^ appoggiatura, che si citano in
quello stesso paragrafo, devono 1*1=: a alla palatile. E degli esempj che il § 13
ei offre per e, anziché a (a), daWd di AN +con5., tre sopra cinque si chia-
riranno per la ragion dell* influenza palatile: ends -*d*nf SLUÌee^ ^énda ghian-
da, innenz nenM = *ina^nz innanzi (ma: pianzar piangere). Forse anche Tt,
che entra certamente nell* e di ébi (alvjo-) truogolo, è piuttosto un t d* attra-
zione (c^hf^; cfr. ^^é?^ = giliba = cavea, onde ghibiol\ che non il mero esito
402 Ascoli ,
del / (§§ 13, 163); al qual sapposto mi conforta in ispecie la molta estensione
di cotesta forma coirai: boi. e ferr. aib (Flechia, Riv. I 97), frinì, l-aip,
Arch. I 510. E finalmente ò notevole che il raro t = c pnr qui appaja in duo
casi di antico C'E : zira cera § 17, e alsir (elicere) «comodità', loisir, § 125,
cfr. Arch. Ili 72 n.
Ora juna rapida serie di noterelle minori, prima di lasciar questa bellissima
'Descrizione del dialetto romagnuolo'. §§ 32 e 55. Il soverchiare dell' «
da i di pos. {méll^ vélla\ è messo a giusto riscontro del soverchiare dell'o
da u di pos. (sótt asciutto, gost giusto). Ma siccome pur questa maggiore
estensione de' due fenomeni si risolve per gran parte in una livellazione di
lunghe e^di brevi (cfr. Arch. I 23, 34-37 ecc.), così giova pur confrontarla
coWé che entra anche nella serie dell'I, e coll'^ (ù) che entra anche nella
serie dell'io (§§18 e 41), sebbene in questi casi sia il riflesso della lunga,
anziché quello della breve, a oltrepassare i legittimi confini. §§ 22 e 45.
La differenza tra breve e lunga potrà ancora distinguersi nella posizione ro-
manza, d'accordo col toscano. Così: séljar (non s§ljar\ ex-éligere, tose, sel-
jere; e fulp (allato a /u/p), pólypus, tose, pglpo^ cfr. Arch. II 146. Ma nel
primo esempio vanno forse considerati anche i suoni eircostanti. § 59.
réÀna^ ruggine, ò qui fatto =2 oeni^me , con riflesso eccezionale dell' u. Ma
sarà r[u]é^na = robigine; cfr. Arch. I 547. §§ 114, 135; bsell (6i^«),
pisello, e ^uv, giogo. Il b del primo esempio, e il t? del secondo, son fermi
in troppi dialetti perchè si debbano chiarire esporre in maniera che paja
più specialmente convenire a questa parlata. E pure il ce di qu(iéc^ quatto
(§199, fatto pari a coacto-)^ è molto- diffuso; e io non oserei dire ch'ei rap-
presenti, per eccezione, qui, o nella moderna Venezia (quaco)^ o nel tori-
nese (quacé; e non qudit^ come coactO' vorrebbe), il fenomeno di GT in e.
Crederò piuttosto che quacé ^ qudco^ non sia=:coacto-, ma ben sia uno dei
tanti participj sincopati (cJ'itno ^ chinato, ecc.); e che '^quaéato^ o vogliam
dire il suo infinito *qu\v]acare^ sarebbe in forma toscana *covacchiato ♦co-
vacchiare, star rannicchiato nel covo. § 115. Ottimamente descritti due
singolarissimi casi : dbu ecc. = 6[6]t7u[to] ecc. (allato a bev bevo, ecc.), e dben
= bivdn =: vivagno. E saremo, in fondo, a questo, che riusciti attigui, per di-
leguo della vocale atona, due suoni identici o quasi identici tra di loro (bv bb),
il linguaggio, nell'intento d'impedire una soverchia riduzione, ricorre a una
delle dissimilazioni più eroiche di cui si possa dare esempio. Consimile fe-
nomeno, ma non così sovversivo, ò nell'engadino dtó-tettdu tettato, Arch. I
220. Ma s'ò lecito, una volta tanto, ricordare un accidente che spetta a fasi
ben rimote, gli ò bello vedere come dal romagnuolo venga singolarissimo
conforto a chi non vuol riconoscere se non un fenomeno di dissimilazione
nell'ad che la declinazione del sanscrito ap^ acqua, ci mostra dinanzi agli
esponenti di caso che incominciano per bh; p. e. ad-bhis = *ab^bhis ^ap^h bhis^
Ricordi bibliografici: 2. Mussa fi a. 403
con le acque. § 169. Beir esempio di dissimilazione abbiamo inoltre nel ben
cliiarito nuvla = l'uvula ugola, efr. Arch. I 532 513. E la spinta dissimilativa
TE iosieme riconosciuta nel § 185 (/dmina = nomina, ecc.), e ancora più lar-
gamente nel § 174 {altéria = arteria, ecc.). § 177. Qui d detto, ma in modo
li&tto dubitativo, che se murgój^ moccio, può rivenire allo stipite mttc-^ sa-
rebbe esemplo di epentesi di r tra vocale e gutturale. Ma questa d un'epentesi,
che a ogni modo non sarebbe così facilmente consentita, malgrado il logud.
marghinare allato a maghinare^ macinare, o altre analogie di simil fatta. E
Teramente, nel caso di mitrgój andrebbe chiesto, in primo luogo, se Vu vi
sia genuino, o non sia piuttosto la riduzione di una diversa vocale, per effetto
del m. La risposta non d facile; perchè Ta, che s'incontra in voci sinonimo,
è un elemento mal sicuro, sempre trattandosi di prima sillaba fuor d'accento.
É tottavolta codest*a un indizio importante contro il valore etimologico deWu
di murgój; e si vede in marghi^ moccio, marghión (un po' incerta, nella mia
fcmte manoscritta, questa voce), moccioso, inetto, di Valle Leventina, dai quali
soa ai possono disgiungere i com. e mil. margàj sornacchio, margajd sor-
Bacchiare. Quando poi Vu di murgój resulti genuino, non sarà fuori di luogo
il chiedere, se un traslato, analogo a quello per cui ^faex' venne a dire ^escre-
inento% non abbia a condurci da ^amurca' a 'moccio'. A ogni modo, non parrà
qui afSitto inutile un po' d'inventario dei continuatori del lat. amurca^ il quale
veramente dice Ma sporca spremitura dell'oliva, che precede l'olio'. L'aferesi
ri è costante, e dev'essere antica; e perciò illusorio Va- che pur c'ò dato
in una vecchia forma dialettale che tosto incontriamo. Lo schietto tipo mor-
fologico è nel catal. morca, spagn. morga (Diez), aret. morca^ s-morch§re
lerar la morca, purgar l'olio, fig. pulire, pareggiare, correggere, sardo merid.
imiXrga^ veuez. morga morchia, morgante raccoglitore di morchia, travasatore
^*oIio« friul. màrce. Il Diez attribuisce morca pure al milanese; ma qui ve-
xwaaente e* ha mórca^ che risponderà all'ital. fndrc/ita=:amurc'ia (cfr. p. e.
miL peréti cerchiare, covercéll coperchiello) ; e inoltre il contadinesco s-mólca.
Ad amurcla dee anche rivenire l'importante forma dell'odierno bergamasco:
wmtela (cfr. Arch. I 303-4), con ettlissi di r. Il sardo merid. ha poi, oltre
tntir^a, pure mt«r/a, cui rispondono normalmente i logudoresi murza e mùl-^
Ma\ e cosi veniamo a incontrarci con l'altra forma che d nel lessico italiano,
cioè con inorcia = amùrc-ea amurc-ia (cfr. Arch. II 138 144). Il Biondelli
(DiaL galL'ital.^ 91) cita amurcia^ morchia, dal Vocabulista ecclesiastico,
vocabolario lombardeggiante di Frate Bernardo Savonese (Milano, 1489); ma
Te- vi d certamente di falsa apparenza etimologica, e può solo chiedersi a
quale delle due forme derivate (amurcla amurc-ia) s'abbia veramente a ri-
condur codesta voce; dove noterò che un elenco valtellinese mi dà malia
'rimasura dell'olio', il cui /potrebbe accennare ad amiìrcia (cfr. mil. e
vaiteli, morìa marcia, mil. Irai' braccio), piuttosto che ad amurc'la. E il
404 Ascoli ,
discorso s'ò intanto già fatto troppo lungo, perchè mi resti ancora campo
di spendere parole anche intomo alla struttura morfologica del faent. mtir-
gój, § 193. incózan incudine; risale Teramente a ^incudj%ne\ e ai ri-
flessi, che di questa base si hanno in molti parlari moderni (cfr. Arch. I
371 n., II 119 n.), si aggiunga T antico aret. ancugine (Flechia, 12tp., II
192 n.). Più singolare è rincontro del faent. ingóstria, industria (§ 149), col
friul. ingustrie^ Arch. I 513. § 235. E qui discussa e lasciata aperta
la questione circa il t di intla nella, ecc.; ma si vede che T autore propende
giustamente a vedervi il t di intus^ anziché un elemento epentetico. GÌ* idiomi
ladini confermano, nel modo più perspicuo, il valore etimologico di codesta
dentale; e qui mi limiterò a citare T esempio soprasilvano ent^en la terra%
nella terra, letteralmente: intus-in Illa terra. § 248. Nel -ja enclitico,
che per la costruzione interrogativa si aggiunge alla 1. ps. sg. e pi. del Terbo
(ó'ja ho io?, cardén-ja crediamo?), altro non vedrebbe il nostro autore
se non una variazione di quell'a che si premette alla 1. sg. e alla 1. e 2. pi.
del verbo, ed ò quasi mtC appoggiatura pronominale indefinita (a crea credo,
me a cnoss io conosco; a cardi credete). Ma qui mi devo far lecito di ri-
cordare ciò che altrove ho detto intorno alle corrispondenti combinazioni ve-
neziane ó^go poss-io fem-io ecc. {Zeitschrift /*. vgl, spr,^ XVII 276 = Studj
crit,^ II 150-51). E noto finalmente ancora, che lo specchio delle desinenze
del presente faentino (§ 258) ci mostra fissato nel plurale del congiuntivo
il -ja alla prima, e un analogo -va alla seconda, anziché un semplice "V
com*ò nella interrogazione (si-v siete?). Son dunque le desinenze di codeste
due persone: -enja -évo, rimpetto ad ~en ^e delF indicativo.
Passiamo a toccare del Contributo alla conoscenza dei dial, delVIt. sup. nel
sec. XV {pag. 128, in 4**). S*ha qui lo spoglio di tre glossarj italiano-tedeschi
di quel secolo, due inediti, uno de* quali in due esemplari, e uno a stampa, in
quattro edizioni, tutte del secolo stesso; spoglio illustrato, che s'intende, anzi
amplissimamente illustrato, e preceduto da una introduzione grammaticale, op-
portunamente limitata alle due fonti più importanti, le inedite. Ne d risultato
il più copioso lavoro di lessigrafia comparata che abbia sin qui veduto la luce
intomo a* dialetti italiani ; e poiché é un lavoro che versa intorno a regioni
limitrofe alla zona ladina,, VArchivio gli è vincolato con legami di particolare
a£Snità, e mostrerà, a suo tempo, quanto gli sia stata profittevole una così
cospicua parentela.
Dice il Mussafia (p. 22), che i caratteri fonetici di una delle due fonti ine-
dite (B) accennino con su£Sciente sicurezza a Verona e circondario; e che
non v*ha poi nessuna ragione che osti a considerare Tal tra fonte inedita (A)
come del dialetto di Venezia, intesa però più propriamente, sotto questo no-
me, la parlata plebea, rustica, qual ci appare ne* poeti vernacoli di Padova,
Vicenza, Treviso, del sec. XVI, e oggi ancora, per molte parti, ne* vernacoli
Ricordi bibliografici: 2. Mussafia. 405
de' contadi di cotesto regioni e di Chioggia, Barano ecc. Ora io non sono
qui certamente per dire cbe questo doppio giudizio vada contro la verità; ma
pur mi vorrei permettere alcune avvertenze. Ancbe circa la fonto A, il giu-
dizio deve essenzialmente dipendere da* criterj fonetici ; e questi, a ben vedere,
ci conducono a una sentenza assai meno elastica, e specialmento a una cir-
coscrizione territoriale di gran lunga più ristretta. Poiché, in effetto, quali
fenomeni ci porterebbero mai al di là della cerchia della metropoli veneziana
(cfr. Arch. I 448-65)? Non bastano a ciò di sicuro le troncature affatto spo-
radiche {inanz ecc. p. 15, cfr. Arch. I 457); o il mal certo rasìAor (rasaórì)
r«aq)o, p. 18; o qualche esempio di più, che oggi non scabbia, di -o per -e
di nome maschile (ramo rame, ecc. ib.). Ma altro che appaja estraneo o ri-
pugni a Venezia non si vede aflktto in codesto fonte; e vuol dire, più spe-
eialmento, che non vi ricorra alcuna delle vere caratteristiche pavane (Arch.
I 420-33). Che se la base di questo fonte deve cosi parerci troppo allargato
dal Mussafia, ci deve poi d'altronde parere ch'ei limiti di soverchio quella
dell'altra. Dì certo, essa offre un carattere e un esempio che son cospicua-
nanto veronesi (v. p. 13, dove sono in ispecie da considerare gF infiniti, e
p. 16 al princ; e aggiungerei il fenomeno di j = *^=j lat, p. 18, cfr. Arch. I
432-33); ma altri suoi carattori ci lascerebbero indecisi tra Padova e Ve-
rona; e altri ancora, e un singolo ma cospicuo esempio, ci portano decisa-
mento verso Padova ( i dittonghi dellV e delPd, e in ispecie quello di vituoria ;
• crid = *cria[d]o, allato a crt'd, p. 15); a tacer dei singolarissimo d ed uà
(dehi ecc.), che accennerebbe all'alto bacino dell'Adige e alla Lombardia
(Arch. I 406-7), come accenna alle stosse direzioni: vénder -ìaì. vannere.
Ora si tolleri un brevissimo saggio di note e ricordi di varia specie, che
forrebb' essere meno indegno dell'opera magistrale intomo a cui s'aggira. Le
Tatiigia ladine non potrebbero non apparire scarsissime nella fase veneziana
o Teneto che ò rappresentoto da codesti glossarj; e del poco che riesco a
Botare, la parto che sarebbe più considerevole mi resto incerta. Così i plur.
foni, in -t, coma le femini B, le paipieri A, ecc. p. 19, i quali parrebbero
plorali friulani non appena spogli del -« (féminis ecc.), come appunto oc-
corrono nell'odierno muggiese (Arch. I 518-.19 n.); ma ci vorrebbe qualche
ttHeriore conferma. Poi: lume de rosa B, allume di rocca, p. 15, dove roza^
•0 è corretto, potrebbe stare per roca^ ro^ce^ cioè per la riduzione ladina o
friulana di 'rocca'; e non osterebbe il non trovarsi nel vocab. frinì, del Pi-
roaa se non lum di rocc. Ancora: desmenHè A* (desmentighi A'), p. 18, cfr.
frioL dismented dismentijd^ dimenticare, Arch. I 521-22;- auiono A, p. 14,
efr. ib. 507 (num. 93) ; - e il poco conclusivo ajere AB, aere, cfr. ib. 532. Ma
lo terze plurali (p. 19) si dovranno certamente ripetere da influsso lettora-
rio. Del participio in -esto ò citoto e sarà qui il solo esempio: tasesto^
p. 21. A proposito del qual tipo, giova insistere sull'antichità dell'esemplare
406 Ascoli,
movesto (cfr. Arch. I 431 459), che ormai può essere presunto il primo della
serie. Ne ritocco altrove; ma noto qui intanto come il fem. movesta^ mossa*
in funzione di sostantivo, va restituito tanto più sicuramente in un passo di
Bonvesin (cfr. Romania^ Il 115), ora che accanto a moést^ mosso, si vede lo
stesso movesta (móvesta), moto, movimento, nel bel vocabolario bergaaiasco
d* Antonio Tiraboschi, con un esempio dell' Assonica (sec. XVII). Eie
d*Qn bon ai dar, d la risposta a de che tempo é-lo, e si rende, nella
versione tedesca, per ^egli d in buona età'; p. 24 (A). Il Mussafia suppone
che 8* abbia ad accentare didar^ e così gli par giustamente voce affiitto sin-
golare e inaudita. Ma dev'essere aiddr (=:ajutare), che dal primo signiflcato
di 'assistere' passa a quello d'^esser valido.' Così il toscano aitante equivale
a 'robusto'; e la voce imperativa dide è nel friulano per 'fatti animo!', 'sn
da bravo!'. Ora dunque vedremmo nell'antico veneziano l'infinito in funzione
di sostantivo (esser valido == validità). Asunar AB, raccogliere. E il no-
stro autore annota: 'Così anche in Fra Paolino; in Ruzzante: arsunar (or
^zr.ad); ora nel ven. ver. e ferr. sunar. Pare un composto con 5U s-; a ò la
' prefìssione favorita. A stento da adunare ; con d in z { prov. adunar ) , e
' questo in $.' La combinazione con adunare parrà anche a me giustamente
rifiutata, malgrado qualche particolare allettamento che ci verrebbe dalla
Crusca, come ora appunto vedo da un' ampia scrittura che il valoroso filologo
Bianco Bianchi viene preparando intorno a' verbi composti della lingua ita-
liana. Scrive egli : ^asunare att., da aunare^ per le forme intermedie *ajunare
'(che ò nel glossario) *agiunare^ dev'essere voce romagnuola, e fa meravi-
'glia il trovarla in testi toscani; la forma assunare non può non ritenersi
' che come uno sbaglio di copista, dovendo essere sonora la pronunzia di «.'
Ma venga di Romagna o di Provenza la voce che è penetrata nella Crusca,
crederò poi che le forme vernacole asunar (a^ffundr) ar-'Sunar (= re^gundr)^
le quali nuli' hanno a vedere coli' a junar (azundr) provenzale, ci conducano
a una corrente molta estesa di paralleli importanti e non peranco avvertiti o
chiariti. É noto che dalla base latina simul (simil-) si ottengono due seri»
distinte di voci romanze, nell'una delle quali ò il concetto di 'radunare', nel«*
l'altra quello di 'somigliare'; e così: I. insembre {-in-seml-e)^ assembra^
re, ecc ; II. sembrare^ rassembrare^ ecc.; V attiguità de* quali concetti ci può
anch'essere facilmente rappresentata dalla vicenda ideologica della voce 'com-
pagno', che dice 'quello che si combina con un altro, iu quanto gli si associa',
e poi, massime fuori di Toscana, pur 'quello che si combina con un altro, in
quanto gli somiglia'. Ora, v' ha una corrente parallela, e anch' es.sa a doppia
serie, nella quale si vede l'elemento nn o n, in luogo dell'elemento mi {mr
mbr)', e così: I, loren. ensenne ensemble. Oberi. 210, cfr. voges. 123 (per la
chiave delle citazioni, v. Arch. Ili 9-iO e 60); assane ensemble. Cord. 12;
cambr. rassenné rammassé. Mèi. 466;- II. loren. f7 senne semble. Oberi.
Ricordi bibliografici: ^2. Mussa fia. 407
259; feiifi#r sembier, ressenner ressetnbler, Cord. 50; piccardo saneg sem-
blex, Schnak. 266; rouchi (arrondiss. d^Avesoes) senne semblant; borgogn.
sanne semble, Schnak. 245. Alle quali forme, altre se ne aggiungono colla
▼Deal labiale, che perciò accennano a nn > MN (cfr. somigliare - simigliare,
• meglio sumnd sund dell* alto milan., = ^enttnar^, come nel Jura: souner
temer): TOges. saune semble 133, ressoune semble 118, 5<; resounent se res-
•emblent 124, resonnont ressemblent 142; il cui ^ (u) si sarà primamente
•rilnppato nella sillaba protonica {s^nnàr ecc.) e poi comunicato anche alla
tonica (cfr. del resto: fgmna fiimna femina, nel piem. ecc.). Noi dunque
troviamo al di là dell* Alpi, per limitarci a queste sole forme: r^as-senndre
maeembrare, sundre re-sundre sembrare rassembrare; come tal quale di qua
dalPAlpi: a-sundre re^sundre assembrare, sundre sembrare (di quest* ultimo
si ritocca tantosto); e fermiamo intanto, per yia induttiva, che un antico
->SBM*NARC chiarirebbe appuntino ogni cosa. Contro la qual restituzione, se
por non sapessimo aTTalorarla con gli altri argomenti che tosto aggiungiamo,
neasuno vorrebbe, io credo, accampar 1* ipotesi che un prov. o ant. fr. en-
S€m*s insieme (odierno oeitanico ensen) foss*egIi il tardo progenitore di tutte
codeste serie. Sarebbe un'ipotesi, come ognun vede, affatto ripugnante; e
Topporle il doppio nn che insistentemente ricorre, e Vu che già dicemmo
accennare a nn = MN, sarebbe un opporle poca cosa in confronto della sua
aconvenienza patentissima. Ben piuttosto è da avvertire, che anche Ven-sem^
del prov. e dell* ant. fr., e lo stesso ital. insieme^ s* adattano a IN-SEM*N,
anxiehò a IN-SEM[0]L; come il prov. e fr. nom^ it. nome^ a nomen, o
il prov. /tim, it lume^ a lumen. L'Italia così avrebbe insieme (v., per il dit-
tongo, il nnm. 11) = IN-SEM*N, e insembre = IN-SEM[OJL; la Francia (ant.)
eft-«tfm-, ne* dlal. en-fenn- = IN-SEM*N, ed em6mò/e=:lN-SEM[0]L. E il
ladino, alla sua volta, vien poi a confermare ogni cosa, offrendoci, nella varietà
di Sopraselva: an-semmen^ allato a an-sembel^ entrambo per ^insieme*. Ora
questo SEM*N, che così diseppelliamo in Francia, in Italia e alle Alpi occi-
dentali, à sempre ben vivo in Rumania: semen (seamàn) simile, arsemene
pari, parimenti, sèaman io somiglio, ecc. (v. Cihac, p. 238-9); e la variante
SEM*N«SEM'L, comunque si possa ulteriormente chiarire, o sia anche di
aemplice alterazion fonetica, si manifesta a ogni modo, sin d*ora, ben preziosa
ed antica. Ma qui intanto rimane da avvertire nn fatto abbastanza curioso ; ed
4, che partendo noi diA re-sundre^ radunare, assembrare, rimasto enigmatico
al Mnssafla, siamo in effetto riusciti alla dimostrazione storica d*un processo
ch'egli medesimo aveva cautamente divinato, nel toccare altrove di sundre
•ombrare (Romania ^ li 124), ben riconosciuto da lui in Bonvesin, in Ruz-
saate, e nel mod. veronese. E passando ad altro, dopo aver rivendi-
cato al friuL bnjinz (p. 36 n.) la dichiarazione che ne dà TAreh., I 497 n., mi
lennerd a cospelo B, puntale del fodero della spada (p. 47). È sicuramente
408 Ascoli,
uno sdrucciolo (cóspelo); e anzi non esiterei a restituire una forma più schietta,
se pur men veneziana, colFo nella sillaba di mezzo (cóspoló)^ attribuendo Ve
a un particolar vizio dialettale (cfr. crédelo credulo B, dónela donnola A, e
simili; allato a colpevele e simili, p. 13, come da antichi documenti vene-
ziani: honorevele, chazevele caduca, quasi ^cadevole'). Ora questo cóspelo^ o
meglio cóspolo^ si ragguaglia al venez. cóspedo punta di ferro ecc., lat. cu'
fptde-, per un doppio fenomeno fonetico che si ripete frequentemente, e va
così descritto: Ve atona mediana, che lo sdrucciolo ha nella fase anteriore,
si riduce a vocal labiale per effetto della consonante labiale a cui succede, e
insieme si riduce a continua dentale (/) T esplosiva dentale della seconda
sillaba postonica (d), il cui proferimeirto si viene rallentando per la lontananza
deir accento. Sta cosi cóspolo a cóspedo (in cui d notevole il genere mutato),
come rit. tréspolo al tréspido che d pur del vocabolario italiano, lat. tri-
pede- (cfr. tris^pedium e tres-gonellus ap. Ducange)'. Terzo esempio è
tòrbulo B (p. 115), torbido, che ritorna in gran moltitudine di dialetti, cfr*
Arch. I 548 ò, aggiungendo gli aretini dwenir turbelo^ far turbelo^ tntur^
bolare (Redi); e quarto porremo il friul. fumul, di color di fumo, lat. fu-
mtdo-, riserbandone qualche altro ad altro luogo. Sotto denziva gen-
giva C (p. 49), in cui probabilmente altro non avremo (malgrado T acutissima
nota cbe ò in fondo a p. 63) se non un* allucinazione dissimilativa (zenziva
denziva) promossa o ajutata dal d- di dente^ il Klussafia raccosta e dichiara
qualche fenomeno fonetico in una maniera che mi dee parere alquanto ete-
redossa. Sta intanto fermo, che pei dialetti ladineggianti, a cui il M. allude, la
successione ò: z d d^ parallela & g p. Quanto poi al sic. dinocchiu e simili,
vorrei che mi fosse lecito ricordare la FonoL indo'it.-gr.^ § 28 n. E giacché
questo ricordo ci porterebbe anche fuori d* Italia e del mondo latino, mi sia
qui lecito toccare anche di remoti esempj delle denominazioni ^duro' e Sgravo'
per Sfegato', di contro a Uenero' e 4ieve' per 'polmone', seguendo T invito
che il nostro autore ce ne porge in una bella sua nota (p. 57). Vorrebbe egli
'Tra le forme odierne, cita il nostro autore, sotto trespi (p. 116), il
b)*esc. tréspec. Il più genuino trésped, tripos, à anche in un glossario latino-
bresciano, inedito, che il Tiraboschi, già lodato, spero abbia a pubblicare. Si
contiene codesto glossario in un codice cartaceo, che il Tiraboschi assegna
alla fine del secolo XIV o al principio del XV. Le voci vernacole vi sono
manifestamente di lombardo orientale ; ma io lo dico addirittura un glossario
latino-bresciano, a ciò indotto, oltre che da certi iudizj che il Tiraboschi ha
raccolto, pur da qualche criterio lessicale. Cosi appunto trésped^ oggi tréspec^
ò bresciano, e non ò del bergamasco, che ha tripé. Ugualmente la tnagiola^
che occorre nel gloss. per 'fragola', si riproduce nel bresciano odierno (ma[tJo-
/e, fragole; Rosa, Dial, cost, e tradiz. di Berg. e Brescia, 3.* ed., p. 76), e
non nel bergamasco, che ha fregu^ quasi 'fragone'.
Ricordi bibliografici: 2. Mussafia. 409
qualche eaampio di 'grava' = Sfogato* ; e VArchioio gliene aveva preparato
UBO (l 247), forse il solo che per ora si conosca. Ma quanto a ^Ueve' o leg-
giero' =: <polmone\ la serie è assai lunga. Il dottore J. Hammond Trumbull,
di Hartford nel Connecticut, in una sua Memoria: On Names for the Heart,
Licer, and Lungs, in Various Languages^ che io non conosco se non da un
pajo di sunti {Americ. Or, Soc.^ Proceedings, 1874, p. xxx-xxxi; Americ» Phi»
lùl0gic. Assodata Proceedings, 1874, p. 31-32), adduce per questo traslato,
oltre r inglese lights^ leggieri e polmoni: 'In Polynesian languages, Tenga
^nmma means light and lungs; Hawaiian akemama lungs is literally
Uight liver (^erm. die leichte Leber). The Eskimo jpuaA Inng is
'reUted io puloh to float on water; and the Mohawk ostiesera lungs*
'to estaserà feathers, etc' Nota ancora il Trumbull come in alcuni idiomi
dsir America e dell* Africa la voce che significa 'polmone*, o un suo derivato,
•erra d* epiteto spregiativo: 'codardo' ecc., del che la ragione deve stare, co-
B*egU pure accenna, nella meschina apparenza e nel meschino valore del
polmone d*un animale morto, in confronto del fegato ecc. Ora anche il dizio-
lario italiano registra 'polmone* col significato di 'uomo vile e dappoco* e un
esempio del Salviati; e questo valore di 'polmone* s* incontra pur nel dialetto
di Viterbo e dev'essere anche d*altri vernacoli italiani. Venendo a giemo,
gomitolo (p. 63-4; cfr. qui la p. 424), dice il M., che Ve vi sia una singoiar
trasformazione deird di glomus. Ma questa grave anomalia bisognerebbe am-
metterla per gran numero di dialetti neo-latini, pur fra di loro molto discosti,
come in parte si vede da questo stesso articolo (cfr. Arch. I 506 n. ) ; ed ò,
panni, quanto dire che non si possa ammettere affatto. Risaliremo sicura-
mente a due diverse basi romane: *glem^ e glom^; e vien da pensare al-
i*arcaieo hemo^ onde, per Òm da em: homo^ e anche a helus = holus. Ma osta,
per ora, a una dichiarazione di questa fatta, la natura ancipite delPd di glomus
{glim* e glòm). Del rimanente, per doppie forme che insieme sussistessero
nel volgare romano, e sono perciò entrambe riflesse dai dialetti neo-latini, Tuna
eon e od t e T altra con o o con u appunto per effetto dalla labiale attigua,
•a potrebber sùbito citare verso^ vorso- (v., p. es , Arch. I 516 ecc.), e mo~
nsmentO" monumento. Inchin a terra, insino a teri*a. Bene istruttivo
anche quest'articolo; ed evidente T influsso A' in fin infina-mentre ecc. sulle
evoluxioni dell* equivalente complesso preposizionale in cui entrava chi = ^tit.
Ma non vorrei attribuire a codesto influsso Ven deW en-chi-a^ insino, che
occorre sin dal principio del sec. XIV, e sens*alcun accompagnamento di par-
ticole oziose. Crederò piuttosto che Ven-chi-^^ tutto quanto genuino, abbia
promoeso, col suo en^ 1* influsso del sinonimo en-fin (in- fin); e mi risolvo,
ad modo che ora dico, 1* apparente incongruenza di un in dove piuttosto si
Tvolo e in effiitto si trova un de (de^chi-^ di qui a). Credo ciod che i due
sodi sincroni enehia^ dechia (Ceccbetti, Atti Istit. ven., XV 1618-19), sleno
Archivio glottel. iUl., II. 27
410 Ascoli,
in realtà un modo solo, il prìmo de* quali abbia la prefissione pleonastica dei-
Vin (in-de-cbfa endcbia enchla, = in di qui a); e sarebbe la prefissione me-
desima che altrove ho mostrato in un tessuto molto analogo: in^de-unde^
allato a de^unde^ unde, donde, nella qual combinazione pur veniva a tacere,
per ragione diversa, il de {in-d-tMnder innuonder inuonder ecc.; Arch. I 67).
Intanto mi valgo dell'occasione, per metter fuori un antico documento vene-
ziano, ancora inedito, nel quale, come poc'anzi accennavo (e non d il aolo),
8* ha enchia senza alcun accompagnamento che ridondi. Vi si hanno insieme
parecchi esempj del -s di seconda persona, in perfetta armonia con quanto
era detto di codesto carattere a pag. 461-2 del primo volume deWArchitia. E
il documento mi viene dalla intelligente e cortese amicizia di Cecchktti.
Nu dose Cum lo nostro conscio Cometemo a ti discreto homo
zan de varln che cum quanta sollicitudene tu pos [puot], tu
vadi a cavo distria, e la toras [torrai] lo discreto omo Nicolo
trivisan, e dela intrambi ensembre ande cum tuto lo maor studio
che vu poro enchia Modhon. Equando vu sere la debie avrir la
letera nostra la qual conten en man de vu entrambi, e fare qu^io
che se conten en ese
Data ultimo Novembri^ Vili ludictione [1309J
Johann! de Varino et Nicolao Trivisano
Ecoti avu comandemo per nu e per lo nostro conscio che aiando
[essendo] vu zonti [giunti\ a Modon tu Zane debis [debba] re-
magnir [rimanere] ad Modon et esser ali nostri Castellani ala
guardia de Mothon sicomo eli te ordenera. Ali qual vu dare le
nostre letere le qual nu li mandemo, e quelle che nu mandemo a
negropo. e dareli curaze LXXX furnide de colali e vanti [^uan<t],
milliari VI de falsadori, milliari VI de quarelli usadi e balleatre
L e libre XV de spago da ballestra . e fato zo tu Nicolo trivisan
va viaza mentre (viaz'a-m entro celeremente^ speditamente) ala
Chania et presentate alo rector alo qual tu daras [darai] le
nostre letere che nu mandemo si ad elio cho alo ducha nostro de
Crede, e daras alo dito rector lo remagnante de le arme, zoe
curaze C. furnide de eolari e de vanti, ballestre L, et libre XV
de spago da ballestre, falsadori milliari VI et milliari VI de qua-
relli usadi .e debis attender alo dito rector ala vardia dela
Chania et far si coello [co elio, com'egli] te ordenera.
Data die ultimo Novembris.
(LetUre Collegio, 1308-1310 \ p. 64.)
Due sole noterelle ancora, per toccar di s oro re B sorella (p. 109), e apio-
goler A specchiajo (ib.). Della prima voce sospetta il Mussafia che sia un
mero latinismo. Ma ò forma viva tuttora neir Istria veneta (Arch. I 445 n.),
e la ho pur da un antico testo veneziano, che sarà stampato fra poco. Di spi»-
Ricordi bibliografici: 2. Mussafia. 411
goier dice egli poi, che presupponga uno "^spiegalo = sp^culum. Ma imprima
VftTrebbe ìa doppia difficoltà, che nella regione in cui si Tersa coi presenti
•ftggi, e nelle contermini, sempre d continuata la base spechi e non mai la
base speculo»; e che ancora bisognerebbe ammettere la permanenza deirtV
ààìVè tonica, in una forma che fa di questue la prima delle due vocali pro-
Umiche (specaUrius). S* aggiunge poi, che appunto in questa regione abbiamo
la Agora spleeo = spedo (Arch. I 421 n., 461), nella quale la metatesi d gua-
rentita dalla seconda sillaba (-co e non -ciò o »gio, cfr. padov. spiegio)^ e
tolto con ciò ogni sospetto che spie» sia un* illusoria ricostruzione dei lette-
rati per uno spie» di pronunzia volgare. Insieme si aggiungerebbe il norma!
ierÌTato per -aria da codesto spleeo , ed ò spiegarlo (sec. XIII), splegher
(bis, sec. XIV), spleger (s. XIV), esempj pur questi che devo alle benevole
• dotte premure del Gecchetti. Ne viene, che una voce normale per ^spec-
eÌuajo% nell'età veneziana che ci é rappresentata da questi saggi, sarebbe
spieghér = splegher (pje -=. ple etimologico) ; e rimarrebbe da dichiarare Xol
della forma spiegoUr^ per il quale, anzichd a un vero incrociamento del do-
euoientato tipo veneziano 'spiegarlo' col lat. 'specularius' che nelle Matricole
si potea per avventura conservare, vedrei semplicemente una forma analogica
sulla stampa di 'cartolajo' allato a 'cartajo', e simiglianti, dove d anche da
confirontare, dallo stesso dialetto di Venezia: strazzoloso^ allato al più ant.
ifrojrjroio, cencioso. Del resto, nell* odierno veneziano, non altro che spèco e
speóìr.
E eosl staccamdomi, per ora, ma proprio a stento, da una tanto ricca mi-
niera di belle e buone cose, quant*ò questo amplissimo Contributo del Mus-
safia, passerò a toccar finalmente dei Cinque sonetti antichi^ o meglio delle
considerazioni, messe innanzi dallo stesso Mussafia e dal Caix ('Rivista Eu-
ropea' del De Gubernatis, anno VI, voi. I, p. 72-80), circa la patria che si
debba loro assegnare. II Mussafia, che li ha scoperti sopra una membrana, di
scrittura del secolo XIV, li crede toscani; ma copiati da un emiliano, che
▼* abbia introdotto Vei=:é ed oé lat. (non ae come ha la stampa del Mussa-
fia, per uno sbaglio che il Caix ricopia), e Veis =: éns lat: vetro, peisi^ ecc^
Il Caix però, nel suo buon articolo, adduce peise apreise meise (eis^ens)
dal codice ricardiano di Ristoro d* Arezzo, e anche ne cava un isolato seite
^seie (et = i). Supponiamo dunque, argomenta egli, che T autore fosse are-
tino, e cesserà il bisogno di attribuir Vei a un copista emiliano. Ma anche
litri eriterj aggiunge il Caix per V aretinità di questi sonetti ; e mi persuade
pib ancora che non vorrebbe; giacché circa gP influssi emiliani, di ragion
letteraria, eh* egli poi trova o nei sonetti stessi o in Guittone, ci sarebbe non
poco da ridire, come anche resulta dalla osservazione che ora aggiungo. Dico
doè, che ammessa Y aretinità dei sonetti, non ò perciò esatto, o almeno non
è sensa ambiguità, il dire col Caix che 4' uso di e» = i ecc. non era nel se-
412 Ascoli,
colo XIII aflatto ignoto alla Toscana, come ai crede'. Poiché 1* aretino ha in
effetto basi non toscane, le quali dipendono da un fondo dialettale che per
ora diremo, non sapendo far meglio, umbro-senone (cioò, per la rispettiva
lezione della spina italiana: circum-cipennino). Se ne ritocca ai num. 9-10
dei presenti JRtcordt, dove ò posto qualche particolar queisito intomo a co-
desto substrato dell* aretino, il quale naturalmente dovrà riuscire tanto piti
perspicuo, quanto piti saranno antichi i monumenti che del dialetto si pos-
sano osservare. Qui intanto aggiungo l'avvertimento, che Vei = e ecc., il quale
è a Bologna, ma nella direzione di sud-est non pareva piti continuarsi, poiché
Imola, Faenza ecc. più noi danno, ricompare oggi ancora, ben più in là, in
quella stessa direzione, dandoci Savignsmo di Romagna: vlei volere, ufeisa
ufeisi; mutneint; e anche preimzz*prem primo, dei dìre^ preigh prego. L*at
csei^é che può sentirsi anche negli Abruzzi ed é appunto ricordato dallo
Sehuchardt a proposito dell' et di questi sonetti (CentralblaU ^ 5 die. 1874,
col. 1628), non va poi trascurato di certo, ma neppur vuole un* immadiata
considerazione nel presente nostro caso.
3.. Saggio sulla storia della lingua e dei dialetti d'Italia, con t#n'tnfra-
duzione sopra l'origine delle lingue neolatine, del doti. Napoleone Caix.
Parte prima. Parma, 1872; pag. Lxxn-160, in 8^.
V Introduzione é molto migliore del Saggio^ perché d scritta manifesta-
mente un pò* più tardi, e il Caix ò ancora in quelKetà felice, che consente
a* pari suoi un progresso rapido e continuo. Anzi ò da credere che 1* Intro-
duzione sarebbe riuscita ancora meglio, se Fautore non fosse stato costretto
a mantenerla in una certa armonia coi capitoli a cui la premetteva; e le
esigenze di codesta armonia gli si renderanno, per sua fortuna, addirittura
moleste, quand*egli si farà a dettare il compimento del volume. La Critica,
dal canto suo, scorsi ormai quasi tre anni dalla pubblicazione di questa prima
parte, sente come stremate le proprie funzioni, dovendo accadere, non poche
volte, eh* ella sia tentata a ripetere, con poca o nessuna differenza, ciò che
r autore avrà già detto a sé medesimo. E si può anzi affermar sicuramente,
che uno dei migliori critici delle pagine di cui si viene qui a toccare, sarebbe
oggimai 1* autore stesso*
Buono é dunque, in generale, il discorso in cui sono riferite o esaminate
le varie opinioni o teorie che intomo alla genesi delle lingue neolatine furon
per 1* addietro professate, e si afferma e conferma la giusta dottrina che oggi
prevale (x-xlix). Bonissime poi le osservazioni critiche intorno alle pretese
influenze dell* elemento germanico; e acuta e felice la considerazione degli
effetti che jbì debbano ripetere dalla somiglianza fonetica (spesse volte proce-
dente da vera affinità originale) degli equivalenti latini e germanici, che si
trovavano come alle prese fra di loro: p. e. il lat. trahere ( = traere trarre)
Ricordi bibliografici: 3. Il Saggio del Caix. 413
eoi got. tairan (stirare) *. Se, del resto, ci fosse ancora bisogno di aggian-
fpere argomenti contro le ipotesi delle profonde modificazioni, e variamente
profonde secondo le diverse regioni romane, cbe V organismo latino abbia sof-
ferto per r immissione germanica, se ne potrebbe ricavare uno di piti, e tut-
V altro ch« liev«, dal fatto che una così cospicua porzione degli elementi
lessicali germanici, entrati a far parte degli idiomi latini, occorra ugualmente
in tutte codeste favelle. Poiché il fatto di questa comproprietà generale, che
giustamente eccitava la meraviglia del Diez (gr. V 67), dovrà senz* altro
ripetersi, nella maggiore e più importante sua parte, dalla molta antichità
dell* immissione, e 1* innesto perciò risalire a un* età in cui tanta era ancora
fa Titalità propriamente romana, da non potervi di certo il linguaggio latino
andar modificato, e anche variamente secondo le varie contrade, per virtti
fi un* infiltrazione che era esigua per sé, ed era poi la stessa dappertutto. La
eomunanza di codesti elementi germanici riesce anzi affatto inconcepibile se
Boo le si trova una ragione storica la quale si connetta, o addirittura s* iden-
tifichi, con quella dell* estendersi della parola latina al di là dei confini del-
ritalia, e sia perciò anteriore alle invasioni germaniche. Ora una tal ragione
storica, bastevole e congrua per ogni lato, io la vedo, molto semplicemente «
nel legionario di Roma, o sotto le insegne o fatto colono; la vedo, in altri
termini, nel linguaggio castrense^ al quale T elemento germanico delle truppe
ausiliari e le 'guardie' teutoniche dovevano aver dato una gran parte delle
trecento voci tedesche che si trovan comuni alle diverse favelle neo-latine.
Yegesio, nella seconda metà del quarto secolo, adducendoci burgus quasi
termine tecnico per 'castellum parvulum' (quem burgum vocaut), ci dà un
beli* esempio di codesta serie esotica che già a* suoi tempi dovea parer di pa-
trimonio latino, anziché roba estranea e d* importazione recente. I criteij fo-
nologici suffragheranno poi alla lor volta il raziocinio storico; e così é bello
▼edere il t- dello stadio gotico (non lo jr- dello stadio alto-tedesco) in tirare
toeeare torba taccagno^ che son tra codeste voci comuni, o i nessi -rd — /d-
dello stesso stadio gotico (non rt It dell* alto-tedesco) in ardito falda^ ed al-
tri, che pur sono della categoria medesima.
Ma riserbandomi a tenere altrove un discorso meno rapido intomo a questo
argomento, mi riconduco ora al Caix, per convenir siìbito che di pregi non
ne mancano pur nei fogli che tengon dietro alla buona Introduzione^ e per
tornare a distìnguere, in ordine ai difetti, fra il Caix d* allora e il Caix quale
' Fra le voci italiane nelle quali i due equivalenti sien come fusi insieme,
mi pare ben messo brattine^ in cui sarebbe Tant alto-ted. brittil (cfr. Diez
lesa. a. brida e brete\ modificato da ^réline^ che però non si può dire voce
latina, come £a il Caix, ma resulta dall* it. rédina ecc., ed é veramente un* an-
tica estrazion volgare di sostantivo da infinito (Diez gr. IP 291). Impasto di
bfidia e freno sarà poi la brina del venes., friul. bréne^ briglia.
414 Ascoli,
io lo presumo oggidì, sì the le ammonizioni sempre mi pajan piutlosio diretta
ai lettori che non ali* autore del Saggio, Le cause naturali e storiche, dalle
quali si abbiano yeramente a ripetere le varie trasformazioni della parola ro-
mana, son quivi considerate con occhio assai incerto, che talvolta smar-
risce ogni giusto criterio delle proporzioni effettive ^ Il Caix oggi per fermo
rimuterebbe, da capo a fondo, le pagine in cui ne discorre; e anche vorrebbe,
in quest'occasione, mandare in buona pace e il sanscrito e il bengalese e gli
AriaSy e ogni altra divagazione di simil fatta. Ma più ancora urgerebbe ch*egli
discorresse al pubblico de* suoi pentimenti o de* nuovi suoi argomenti e pen-
sieri intorno alla classificazione de* dialetti italiani, che avrebbe ad essere la
pagina culminante del libro (p. 34) ed ò riuscita una pagina ben singolare.
Non ò affatto possibile che il nostro autore persista a credere sufficienti i
motivi che per la sua classificazione egli ci ha dato in questo Saggio, La-
sciamo andare il gruppo illirio-italico eh* egli formava, ^all* estremo nord-est*,
coi dialetti Sparlati nelle ultime regioni alpine e piii particolarmente nel Friuli*,
esagerando il valore di alcuni punti di contatto che son realmente tra le
estreme propaggini orientali della lingua di Roma e le parlate friulane, e pre-
sumendo di aver trascelto il piti conclusivo o uno de* piii conclusivi fra co-
desti punti di contatto, quando ali* incontro non allegava se non una somi-
glianza del tutto illusoria (lo tj rumeno di moartzi ecc , cioè mort-f t, di contro
allo z friulano di muarz ecc, cioò mort^s\ p. 30). Lasciamo dunque andare
la sua caratteristica del friulano, che farebbe indietreggiar la scienza di piti
d*un terzo di secolo'; e fermiamoci piuttosto al gruppo ibero-italico, ch'e-
gli formava de* dialetti seguenti: 41 siciliano^ parlato anche ali* estrema Ca-
^ labria e in una parte della Sardegna [v. ora, Arch. II 132 n.]; il sardo diviso
Mn logodurese e campidanese; il córso; e il ligure,'' Ma che cosa ci ha egli
mai addotto per legittimare la sorprendentissima affermazione che il siciliano
abbia a andar divulso dal napoletano^ il quale entra, col toscano ecc., nel
suo gruppo italico? Men che nulla (p. 24-5). E per T^berità* del ligure
che cosa ci ha egli addotto? Un fenomeno che il ligure avrebbe comune
coli* odierno portoghese e appunto d comune anche al napoletano ( 1* esito pa-
latino di pZ), e un* altra coincidenza tra 1* odierno genovese e Todiemo por-
toghese, circa il valor della quale può ora vedersi TArch. II 155-6 n. e 122,
e dalla quale era a ogni modo assai curioso che si avessero a inferire origini
iberiche* (p. 25). Quanto poi alle ^proprietà singolarissime*, che il sardo
avrebbe comuni con lo spagnuolo, e sarebbero il fenomeno di f in ?i e 1* aspi-
rata che gli Spagnuoli rappresentano per j (p. 24), queste addirittura si ri-
solvono in mere illusioni. L* aversi in qualche parlata sarda h per e o per F
* Cfr. p. 2, 3, 5, 6, 14, 32, 33; lxvi.
5 Cfr. DiBFENBACH, Celtica, I 238 (1839).
Ricordi bibliografici: 3. il Saggio del Caix. 413
iniziale, e anche per g interno (Spano, Ort. 30), dove sarebbe anche da vedere
come poi si determini il suono iniziale quando la voce precedente finisca in
consonante, non d cosa da confrontarsi in verun modo col h che per il solo
F- ci occorre a* due versanti de' Pirenei ; e se altre parlate sarde hanno ma^u
per marchio o pay^a per pasqiia (Spano ib. 28), e simili, questa d un'alte-
razione che non ha pur la più lontana attenenza collo x U) ^^^ viene allo
spagnuolo da j (^, /) di fase anteriore. Eppur se ne potevano allegare di vere
e intime concordanze fra spagnuolo e sardo, qual pur sia la ragione sto-
rica onde poi s'abbiano a ripetere! Per il còrso, finalmente, T'iberità* par
che si dovesse presumere come da sé e non aver più bisogno d'alcuna pròva.
Or come si pud mai spiegare tutta questa bizzarra sicurezza pur nel Caix
della prima maniera? Egli non cita Guglielmo di Humboldt; ma la tradizione
letteraria ha forse malamente immesso nel suo pensiero qualche additamento
iberotogico di quel poderoso indagatore '. Senonchd, il seguir con sicuri pro-
positi i cautissimi additamenti dell'Humboldt, dando opera a rintracciar me-
todicamente i cimelj iberici che l'Italia per avventura possa offrirci, ben
sarebbe un assunto degno, e proficuo per fermo, qual pur fosse la resultanza
dell' indagine; ma un criterio iberico' per la classificazione de' nostri verna-
coli non solo non é trovato peranco, ma non si può tampoco cercare se non
per vie che sono affatto rimote da quelle per cui il Caix s'avventurava.
Il vizio di supporre dimostrato o dimostrabile ciò che in effetto non lo è^
8* estende poi anche a molti particolari etimologici, che dovevano essere ac-
cettati dagl'inesperti per virtù di una dichiarazione generale, secondo la quale
eran lasciate da parte le consuete spiegazioni fonetiche e morfologiche, tnti-
tili allo scienziato, cui bastano pochi cenni ne' casi dubbj, e sempre insuf^
fidenti per gli altri (p. vi). Ma quanti cpntrabbandi non ha coperto questa
ioaocante bandiera ! Il Caix sarebbe oggi tra i primi a scoprirli ', e tra i
primi a vedere quali importanti distinzioni sien trascurate pur dove egli non
esce dal vero'. Ma di utili e ordinate e copiose illustrazioni di determinati
• V. Prufung der untersuchungen ùber die urbewohner Hispaniens ver'
mittelst der vashischen sprache, §§ 32, 45, 46.
' Così rascare 13, guiól ib., abbacchio 52, bagola 62, cipiglio piglio 06^
ciotta 67, calca 76, pussé 81, crocchio 112, lonzo 134, stollo 136, molgia
154, ecc. Il fr. paupière d 'palpetra' anziché ^palpebra' (75), e ffemiid ecc. son
composizioni che equivalgono a 'quómodo', ma non ne provengono. Circa il
tt del logud. piatta ecc. (91), v. Arch. II 144. Curioso l'equivoco circa /u-
ganega (lat. lucanica)^ che deve ripetersi da una troppo rapida lettura del-
l'articolo Honganiza' nel less. del Diez; e curioso il citarsi i logud. aroattu
arvattare (64), che son forme transitoriamente aferetiche, anziché barvattu
barvattare. Per altri appunti alle etimologie del Caix, v. Flbchia, Riv, di
fil. class., I 380-95.
• Così a p. 122-3 non si avverte che si tratti di vocali fuor d'accento, e
a p. 113 le spinte dissimilative passan del tutto inosservate.
416 Ascoli,
fenomeni, pur se ne trorano parecchie (così a pp. 109, 124, 128); a un Tero
pregio del libro consiste poi nelPabondanza degli esempj che spettano a ver-
nacoli della Toscana. Spiace però che manchi assai volte T indicazione della
loro precisa provenienza ' ; nò a tutti sarebbe superflua una traduzione di pa~
recchi fra cotesti esempj, come là dove d detto senz* altro che cidélo è metatesi
di délico ( 112; V. Fanfani, Vocabol. dell'uso tose). Pregevole ò pur qualche
tocco intorno alla distinzione fra lingua scritta e lingua parlata (98, 151-2);
e r attitudine a un* osservazione larga, assidua e comprensiva, risulta, del re-
sto, da tutto quanto il libro. Che se la disinvoltura dell* esposizione d potuta
derivare, in qualche parte, da una soverchia fidanza del pensiero, resta però
sempre che anch*e8sa porgeva un indizio sicuro di mente ben limpida e vi-
vace. Era insomma il primo tentativo, un pò* sregolato, di tal che dovea ri*
spondere, e largamente risponde, alle belle speranze che destava.
4. Sull'origine dell'unica forma flessionale del nome italiano^ studio di
Francesco D'Ovidio; Pisa, 1872; di p. 59.
II D* Ovidio appartiene a quell'eletto drappello di Napolitani, che riunendo
e contemperando mirabilmente la pronta e viva perspicacia dell* uomo del
mezzodì con 1* ostinata e acuta penetrazione del settentrionale, simboleggiano
la vera e bella unità dell'Italia futura, e nel pensiero e nello stile. Giovane
anch* egli, ha ormai di gran lunga superato, per abondanza e raffinatezza di
studj, le condizioni, già assai felici, in cui ci appariva con Targuta primizia
che ora qui se ne ricorda. La quale intanto d stata degna che la Critica vi
s* affaccendasse intorno con bella insistenza, e rappresentata da* più valorosi
campioni. Ne scrissero: il Flechia nella Rioista torinese (I, 89-100, 260-68);
il Tobler negli Annunzj di Gottinga (1872, punt. 43, p. 1892-907); il Mus-
safia nella Romania (I, 492-99; cfr. P. Meyer, ib. 489); lo Schuchardt nel
Giornale di Kuhn (XXII, 167-86), mettendo fuori, in quest* incontro, moltA
sue notizie e osservazioni davvero preziose; e finalmente il Canello nella Ri-
vista di filologia romanza (I, 129-33), il cui lavoro promoveva una nuova e
feconda critica di Flechia {Rivista torinese, II, 187-200).
La tesi, che il D* Ovidio con più altri glottologi sostiene, si determina con
sufficiente brevità, ma con imperfezioni inevitabili, nel modo che ora dico:
L* unica forma che s'incontra, di solito, uei tipi di singolare del nome neo-
latino, come p. e. buono e morte dell* italiano, o bveno e muerte dello spa-
gnuolo, non rappresenta un determinato caso dell* antica declinazione, che sia
venuto a prevalere per una ragion logica o intenzionale, ma rappresenta od
d un esito fonetico, nel quale si venivano di necessità a confondere que* due
' Così, p. e., si vorrebbe sapere dove s'usi veramente, o se occorra in
tutte le terre toscane, il verbo delirare nel primo suo significato d* 'uscir
dal solco* (66).
Ricordi bibliografici: 4. Il Nome del D* Ovidio. 417
casi obliqui che principal mente entravano nella foggia volgare del discorso
romano (p. e. ad morte[m\ de morte) e insieme con loro, per più d* una serie
molto importante, pure il caso retto (cosi: ala^ ad a/a[mj, de ala)\ e se nel-
r unica forma, che sMncontra ne' tipi di plurale del nome neo-latino, abbiamo
realmente un determinato caso, come p. e. nel sardo bono$ (buoni; logud.),
pur qui non e* entra alcuna elezione o ragion logica e intenzionale, ma si
tratta che sopravanzi ciò che per effetto delle evoluzioni fonetiche e delPana-
logia era naturale che secondo le diverse regioni diversamente avanzasse.
Ora anchMo professo, da gran tempo, questa dottrina medesima; e poichd
si tratta di una questione, che può parere molto semplice, ma d in effetto non
meno intricata che importante, mi proverò a qui esporre qualche osservazione,
nuova rinnovata, che vai forse a ben confortare codesta dottrina. Ma seb-
bene, per r angustia dello spazio, il mio discorso dovr^ tenersi molto breve,
o anzi ridursi a un vero frammento (ed essere, già per ciò, non solo ben man-
chevole, ma anche imperfetto), bisognerà tutta volta acconciarsi a un pò* di
prefazione, che versi intorno alle cose sulle quali tutti in fondo si trovano o
dorrebbero almeno trovarsi d* accordo.
Le forme e combinazioni, che per 1* indagine, come d qui limitata, diventano
fondamentali e potrebbero dirsi degli esiti latini, son quelle che somma-
riamente rappresentano la riduzione a cui riusciva, di necessità, la declina-
sione classica, per effetto dei detrimenti fonetici e della espressione preposi-
lionale dei casi che a quei detrimenti si veniva accompagnando. Di codesta
riduzione giova poi distinguere due fasi diverse : quella in cui d cessato il -m,
e ancora resiste, più o men saldo, il -5; e quella in cui cessa affatto pure il
-<. La prima e più antica delle quali fasi ò ancora continuata, in modo più
meno frammentario, dal maggior numero dei linguaggi neo-latini; locchd
viene a dire, che, parte per Tetà da cui T immissione romana si ripete, e
parte per le predisposizioni idiomatiche che questa incontrava, l'antico -5
continua a risonare in quei linguaggi, più o mea fermo, più o meno continuo.
L* attitudine a conservare questa uscita latina gioverà che qui sia meglio ri-
cordata con la rapida varietà d^esempj-che ora segue. Lo spagnuolo così dice:
cantas cantamos cantais pei lat. cantas cantamus cantatis; padres patres;
mdrtes per Martis dies ; menos minus ; e ebbe huevos per opus. Il sardo (logu-
dorese) ci dà similmente: cantas cantamus cantades; frddes fratres; mdrtis;
mintis; obus, tempus. Il ladino di Sopraselva: cantas canteis (-eits)*^ frars fra-
tres; mars-gis, /indi/-^t5 = lunsedies-dies ; meins minus; temps. Il friulano :
cdntis 'cantdis; fràdis fratres; mdrtis. Il provenzale: cdntas cantati {-at's);
fratres; mens; ops, temps; e similmente T antico e moderno francese, come
ognuno conosce '. La fase di riduzione, in cui il -5 latino tace del tutto, ò
' Circa il tacere di -5 nel moderno francese, v. Diez gr. V 455-6. E circa
la permanenza del -s di seconda persona, in più favelle cisalpine, v. Arch.,
418 Ascoli,
ali* incontro continuata dair italiano e dal rumeno. L* italiano così dice: tu
chiami^ chiamiamo; padri, Imoi, nari; meno; petto, tempo; e il runaeno: chiemi
chiemfm; boi, neri nari; timp (coirartic. timptA-l), piept petto, ecc.
Ora Tediamo, un pò* più d* appresso, gli esiti latini e le continuazioni neo-
latine della declinazione dei tipi più importanti, al singolare. Per distinguere
le due diverse fasi della riduzione, non sarà necessario che qui si dia una
doppia serie d'esiti latini; ma basterà che Tesservi o non esservi il -5, se-
condo che si tratti dell* una o dell* altra fase, sia accennato per le parentesi
in cui si chiude codesto elemento: p. e. 6ono[5]. Avvertirò ancora, che negli
esiti latini io pongo e per Vi breve, ed p per Vu breve delle antiche de-
sinenze (cfr. p. e. grit. cantate cantatis, cant[i]amo cantamus; o i porlogh.
cantares cantardes, canta[ve]ris canta[ve]ritis, cantamos); ed e ancora per
Ve lunga di antica desinenza pur fuori d* accento (cfr. Tit. e = -i-, ecc.). In-
torno a* quali particolari, non sarebbe affatto inutile qualche ulteriore schia-
rimento; ma non parrà cosa necessaria, e qui manca lo spazio.
Dunque, per primo tipo: fiamma, ad flamma[m], de fiamma; e siamo
air unica forma: it. fiamma, frc. fiamme (-e = -a), ecc. Per secondo:
dòn6[m], ad dono[m], de dono; e pur qui e* era Tunica risoluzione, che si
K
continuerebbe, a cagion d'esempio, nelTit. dono. Terzo tipo: bong[s]^
ad bong[m], de bona. Qui abbiamo, dalTuna parte, Tant. frc. bons al retto,
bon ali* obliquo, e ugualmente nel prov. : &o[n]5 al retto, bo\n\ alT obliquo,
oppure nom. amars amaro, obi. amar; o ans, anno, in entrambi gT idiomi, al
retto, e an alTobliquo; ecc. DaU* altra parte, le uniche forme ital. buono,
amaro, anno, ecc. Ma, e qua e là, abbiamo tutto quello che degli esiti la-
tini ci poteva rimanere '. Quarto tipo: turrelsl, ad lurre\rn\, de turre; e
I 542 b, II 399 410. Singoiar cimelio d un esemplare di -5 di seconda per-
sona nel moderno milanese, che si deve alla doppia difesa del pronome en-
clitico e della significazione oscurata: sista^sitta, allegato dal Cherubini
(IV 222), che poi illustra sitta a questo modo: ^sitia, che tu sia; p. e. sitta
^ malarbett, che tu sia maledetto ; si usa anche assolutamente e a modo d* im-
^ precazione: sitta e che te sitta, e vi si sottintende che te sitta ecc.' A Venezia
si direbbe: siés-tu, — Reliquie moderne del -s di nomin. singol., s* hanno o
si ricordano in nota a p. 423.
' Il sardo logudorese rimanendo come fa, o più propriamente riuscendo,
ali* identico vocalismo del latino classico, avrebbe potuto serbare la differenza
tra &ono[5] dono[m] e bono, come la mantiene fra ladus o ladu, latus, ed
eo canto ego canto. E un tempo avrà avuto: &onu[5j al nomin., bonu nel-
Taccus. diretto e nel reggimento di ^ad' ecc., allato a bono nel reggimento
di 'de' ecc. Ma restò col solo bonu, come aveva legittimamente il solo bona
o il solo turre. Il Flechia si valeva, con acuta prudenza, del tipo logud. bonu
in prò della «teoria delT accusativo' (Rio., I 262-4, cfr. 267 n.).
Ricordi bibliografici: 4. Il Nome del D* Ovidio. 419
insieme par sortc[s\^ - cioò il uomin. sortis^ sia esso poi la forma arcaica o
forma risorta per via analogica,- ad sorte^nil^ de sorte. E il prov., per li-
mitarci a questo, dandoci tors sorti al retto, tor sort alPobliquo, e T italiano
le uniche forme torre sorte ^ ancora ci danno tutto quel che devono e pos-
sono *. Quinto tipo: népo[s]^ ad nepóte[m]^ de nepóte; cioè il tipo impa-
risillabo, con accento variabile, onde viene una gran diversità fonetica fra
Il retto e T obliquo. E qui avremo di quelle fedeli riproduzioni, che ci sono
rappresentate dal prov. neps nom., neooi obi., ant. fr. nies (nief nief-s) nom.,
neveu obi. (cfr. gl'ital. nievo e nipote), alle quali si ritorna in sulla fine del
presente articolo.
Intorno a tutto questo, non c*é e non può esservi alcuna dissensione fra
i romanologi. Ma 1* andar d'accordo intorno a questa parte, implica, siccome
ha fatto risaltare, anche troppo vivamente, pure il D'Ovidio (p. 10), una
quasi totale rinunzia alla teoria che neir unica forma neo-latina, o nell* unico
obliquo neo- latino, del singolare, altro non s'abbia se non l'antico accusativo.
Il supposto della prevalenza di questo caso potrà confortarsi, per sé stesso,
tidh argomenti d'ordine logico e pur con analogie storiche più o meno rimo-»
te; ma qui intanto resulterebbe che sia un supposto al quale affatto manchi
una conveniente ragion d' essere, e perciò un supposto che torna superfluo.
Un altro punto, sul quale, generalmente parlando, tutti sono d'accordo, é
per certo questo: che il fenomeno delPat trazione analogica, cioè il fe-
nomeno che consiste nel ridursi o adattarsi d'un dato tipo morfologico a un
altro tipo, storicamente da lui diverso ma logicamente ad esso parallelo o
congiunto, dee avvenire o ammettersi con tanfo maggior facilità, quanto d
maggiore la forza di quel tipo il quale resulta o si giudica esercitar l'at-
trazione; e che la forza va qui misurata dalla frequenza relativa dei diversi
tipi. Ma proviamoci sùbito a qualche applicazione di codesto principio; e pey
farci un'idea corretta dell'attrazione che l'analogia dei tipi di prima e di
seconda declinazione latina, complessivamente considerati, possa esercitare, in
tanto disfacimento delle forme, sul resto dei tipi nominali, rappresentiamoci
bene il fatto della serie infinita de' temi in -o e in -a, il quale in ispecie
dipende e si avvalora dal moto vivo e continuo dell'aggettivo o participio
mascolino in -o e dell'aggettivo o participio feminile in -a. Ora, nei tipi
d' esito italiano, accanto a bona, ad bona, de bona, avaro, ad €ivaro, de aoaro^
ci deve naturalmente essere stato: '^dmo[r], ad amóre, de amóre. La forza
ttnalogica dei primi due tipi, accresciuta pur da quella dei parisillabi di terza,
fini di solito, dopo le resistenze di cui restan larghi indizj (sarto, sartóre ecc.),
col sospingere al caso retto pur l' unica forma degli obliqui dell' imparisillabo
mascolino o feminile; onde l'unica forma: amóre. Lo stesso è in effetto pur
* Coaì, per brevità, senza dimenticar Muss. I. e. 494, cfr. Schuch. 1. e. 161 n.
420 Ascoli,
nel provenzale o neir antico francese; amór^ cioè 1* unica forma degli obliqui,
▼a anche al retto, e anche vi assume il -< che non gli spetterebbe, cosi otte-
nendosi il perfetto parallelo: prov. amór-s retto, amor obliquo, com'è organi-
camente avar-s retto, aoar obliquo. Ma neppur qui s* ha dunque TaccusatiTOf
che in tale o per tal sua coudizione venga ad assumere le veci del caso retto. -
Si dovrà similmente ammettere che il plurale si acconci, per attrazione analo-
gica, a una giusta simmetria col singolare, ancora ripetendosi una gran parte
della forza assimilativa di questo numero dalla maggior sua frequenza nel
discorso, la quale starà a quella del plurale così a un dipresso come due sta a
uno *. Gli esiti latini del plurale dei- temi in -a e in -o, danno a fil di regola
questi tipi: barhe^ ad harba[s\ de harhi[s\\ surdi^ ad 8urdo[s]^ de swdi[s]»
Per le regioni alle quali d estraneo il -j, la forma unica non dipende da
altra spinta che non eia quella della inevitabile necessità delle cose; non do-
veva e non poteva altro definitivamente restarvi se non barbe e surdù Quanto
al provenzale e alP antico francese, la loro immediata continuazione, pei temi
in -a, doveva risultare: barb^ barbas (barbes)^ barbs^ ed d evidente che non
dovesse sopravivere se non quella che sola aveva apparenze feminili e in ofH
ritornava Tanica forma del singolare (barba^ frc. barbeU accompagnata di quel-
Tesponente di plurale, che già era, per legittima continuazione deU*esito latino,
e al retto e ali* obliquo del tipo tors (turres). Pei temi in -o, la continuazione
provenzale e francese doveva risultare: sord al retto, sords agli obliqui, e
così fu e lungamente rimase (sort sorti)*. Ma, a poco a poco, cessava Toso
del -5 nel retto del singolare ; s*aveva perciò in quel numero il solo tipo sord
bon; e al plurale cessava insieme questo identico tipo che vi stava al retto,
e Tunica forma del plurale diventava del tipo sord-s (bon-s)^ ciod ancora la
forma del singolare +<. Suppergiti avveniva lo stesso nella zona alpina, ia
jspecie nel Friuli ; ma qui d bello il veder conservarsi, con qualche abondanza,
anche il tipo sordi dont, in tali casi, cioò, dove T-t fondendosi colla conso-
nante del tema, ne veniva come uno special simbolo di numero plurale, che
poteva scusare il -5; e così allato a fug-s fuochi, lung^s lunghi, ece.,*vi
avremo catéj capelli (LJ), due tutti (TJ), ecc., di che per ora si vegga TArch.,
I 509 511 512 517. Lo spagnuolo e il sardo non erano per vero costretti, da
ragioni di mero ordine fonetico, alla rinunzia d* alcuna delle forme di cotesti
* Ecco le risultanze dello spoglio d* alcune pagine dei seguenti scrittori:
Tito Livio, sopra 931 forme nominali, me ne dava 597 per il singolare e 334
per il plurale;- Cicerone, sopra 887, sing. 636 e pi. Sol ;- Machiavelli, so-
pra 898, sing. 652 e pi. 246. Avremmo dunque le seguenti proporzioni: 6 a
3V.;6V, a2'/,;6'/. a2'|,.
' Per agevolare la pronta intelligenza del discorso, ricordo che il compiuto
paradigma ant. frc. o prov. d questo: sg. ans retto, an obi.; pi. an retto,
ans obi.
Ricordi bibliografici: 4. Il Nome del D* Ovidio. i2ì
etiti del plurale latino ; e di certo devono averne avuto almeno due, per le due
che ci occorsero e nella Francia e nella zona alpina (bon[i] bone). Ma, ces-
iato il *5 del nominativo singolare (com^è pressoché del tutto), quegli idiomi
ti sarebber trovati co* seguenti tipi ; unica forma di singolare iurre^ unica di
plurale turres (amores ecc.); unica di singolare barba surdo (-du), con tre
di plurale: barbe barbas barbis^ boni bonos bonis. Le analogie, quella del
singolare in ispecie, spingevano potentissimamente a semplificar codesti plu-
rali; e la sempllficasione non poteva altrimenti ay venire che per quella <e-
ìeeion naturale onde riusciva preferita la forma in cui si conteneva identico
pressoché identico il singolare, accresciuto del -5, cioè della nota comune a
tutti i plurali; e perciò: sardo (log.) bona bona'S^ bonu bono^s^ come morte
ffiorte-s; e spaguuolo buena btiena^s^ bueno bueno'S^ come muerte muerte^s.
Ma neppnr qui, e molto meno altrove, alcuna preferenza intenzionale, alcuna
prevalenza d* ordine logico o per Tnn caso o per 1* altro.
Siamo così rientrati, quasi per incidenza, nel più vivo della disputa. E vi
rimaniamo, per venire, senza più, al proprio assunto di questo breve articolo^
che d di esaminare quanto sia il valore del tanto decantato argomento che
in favor della teoria dell'accusativo si ricaverebbe dalle continuazioni dei tipi
neutri imparisillabi dairaccento invariabile, come son corpus eicer nomen (cor^
jni[5], ad corpu[s]^ de corpore; ece). Poichd, dicono i fautori di quella teoria.
Il genitivo-ablativo (corpore) non si contìnua in questa serie, ma sola a con-
tinuarsi d la figura del nominativo-accusativo (corpu[s]^ it. corpo^ frc. corps^
tp. cuerpo^ ecc.), la conciliazione storica fra il tipo corpo e il tipo amóre
non si potrà conseguire quando non si ammetta, dalPuna parte, che amóre
sia amore[m]^ non già 1* ablativo o una forma in cui l'ablativo e T accusativo
tien venuti a coincidere, ed insieme non si ammetta, dall'altra, che la figura
corpus sussista alla sua volta in quanto é un accusativo, non già in quanCè un
nominativo, come accusativi manifesti sono d'altronde le forme bonas e bonos.
Orbene, qui prima di tutto non bisogna confondere, come pur si fa, due
quesiti che sono tra di loro ben diversi e si posson formulare nel modo che
segue: 1.^ si avvicendano ancora, nella declinazione neo-latina, le due diverse
figure tipiche corpus corporei 2.^ la figura tipica corpore va essa perduta
fra i Neo-latini?
Circa il primo quesito, che principalmente si applicherebbe ali* antico fran-
cete e al provenzale, la risposta deve risultare negativa. La forma corps sta
•ola nella declinazione di quei linguaggi, non vi si avvicenda con verun* altra.
Ma sarà egli poi lecito di far tanto caso di questa resultanza negativa, di
fondarvi tanta parte di una teoria di simil fatta? Si d mai considerato quanti
tieno finalmente, tutti insieme, gli esemplari neo-latini per la schietta e di-
retta continuazione di codesti tipi neutrali, i quali erano i soli ad avere due
figure oblique {ad corpus^ de corpore^ ecc., allato a ad bono^ de bono^ ad
422 > Ascoli,
amore^ de amore, ecc.), e perciò dovevan lottare contro V attrazione analogica
di tutto intiero lo sterminato esercito degli altri nomi ? Si d mai pensato, in
ispecie, al novero degli esemplari del tipo corpus, cioè di quel tipo che solo
in effetto, come fra poco vediamo, consente sicura questa risposta negativa?
La Francia odierna, per esempio, quanti ne ha di questi esemplari? Dae
soli (corps, temps); davvero un numero assai eloquente. Ed è molto ae per
r antica Francia, e per la Provenza, se ne concedan quattro ; perché lez latz
(latus) ha scarsa vita nominale, volgendo come fa ad ufficio dì preposizione;
ed oes obs (opus) non Tha guari più' viva del nostro ^uopo', e gens (genus),
di cui non ò affatto certo che sia veramente quel che pare, d ridotto a ogni
modo alle funzioni d* avverbio'. Dunque si rimane con temps, corps e pis
(peitjg pectus) ; e fra tutti insieme gì* idiomi romanzi , si passano a mala pena
i dodici esemplari'. Ora il tipo latino dava a 61 di regola e ha certamente
dato alla Francia: corps corpus, corps ad corpus, *corpre o *corvre de cor-
pore. Ma, lasciando stare che air alternarsi degli obliqui corps e corvre 8*op-
poneva, come già avvertimmo, tutta quanta T analogia della favella neo-latina,
c'ò da aggiungere, che l'analogia particolare dei temi in -so, i quali davano
di necessità, e all'antico francese e al provenzale, un'unica forma in -s (cosi
dos dorso, cors corso, ors orso, mors morso, pois polso, mis messo, ecc., e
anche os osso), bastava da sola od era almeno uno strumento efficacissimo per
imporre Tunica forma anche a corps temps peits. Che se passiamo ai territorj
dove il -5 non potè reggersi, e perciò corpo ad corpg de corpore era diretta-
mente esposto air attrazione della serie innumerevole dei temi in -o, d mani-
festo che il meschinissimo stuolo dei divergenti doveva andar travolto, con
tanto maggior facilità, nell'analogia universale. E quasi in compenso del fon-
dersi che faceva il tipo corpo nel tipo campo prato ecc , la desinenza plurale
di córp'Ora témp-ora péct-ora (quasi fosse: córpo^ra ecc.), che potea qui
mantenersi illesa in tutta la sua cospicua sonorità e poteva essere spiccata-
mente adoperata senza dar luogo ad alcuna specie d' equivoco, veniva bella-
mente a accomunarsi anche a cdmpora, prdtora, ecc., accanto a braccia
ginocchia ecc.*.
* Hempus', in quanto dice Hempia', traligna affatto nel prov. tin ten, ant.
frc. tin. E peggio ancora 'pecus' nell'aggettivo ant. frc. e prov.pec, sciocco
(cfr. il mod. frc. pècore). Anche ^pignus' traligna nel prov. peign (fra i La-
dini, all'incontro, lo troveremo nella sua antica ragione), che ha d'altronde
accanto a sé la forma penhóra, con l' accento sulla seconda come é pur nel
portogh. penhóra, allato a penkór, alle quali forme ritorniamo altrove.
' corpus, pectus, tempus, opus, latus, glomus, pignus, litus, stercus, rudus,
[genus, viscus, ulcus], pecus (sardo pegus), onus (sardo log. onus), frigus
(sardo campid. frius, rum. frig),
* Qui ancora, malgrado il Diez (gr. IP 61), l'-urt dei plur. rumeni, ai quali
Ricordi bibliografici: 4. Il Nome del D'Ovidio. 423
Senonchd, la risposta negativa Buold ormai estendersi anche al secondo
quesito, poiché si vien di solito afTerraando che manchi affatto la continna-
zlone popolare di corpore nomine ecc., o, in altri termini, che il genitivo-abla-
tivo di codesti neutri sia sparito. Ma se il vero fosse ali* incontro che gli
esemplari anzi ne occorrano più ancora numerosi di quello che parrebbe na-
turale aspettarne? Ora egli d proprio questo lo stato effettivo delle cose che
un* indagine più attenta c'indurrebbe a riconoscere. E ne uscirebbe questa
conclusione: che la declinazione dei tipi neutri come corpus, ad corpgs^ de
eorpore^ la quale, dalPun canto, appunto aveva un obliquo che non s* adat-
tava alla solita livellazione, e, dair altro, perchè cosi scarsa, doveva pur
cessare dall* interrompere T armonia generale, sia stata essa la prima a scom-
paginarsi, sì che le due figure ^p. e. corpo[s\ c9rpore) ne divenissero come
indipendenti Tuna dall* altra, uscissero ciod dal nesso flessionale, e sussistes-
sero quasi due enti lessicali tra di loro diversi, come più tardi doveva av-
Tenire anche di ghiotto (nomin.) e ghiottone (obi. gener.), falco e falcone^
sarto e sartore^ polve e polvere^ e- tutti i simiglianti *.
Passiamo dunque alle prove e agli indizj, e incominciamo dll tipo In -09,
•are (corpus).
Bello é Teder primamente la positiva conferma delle due diverse figure
importate dai Romani, e appunto ridotte a due diversi enti lessicali, in corff
eorffor, entrambi per 'corpo', e tymp tymmor (=3 tlmpor), entrambi per Hempo*,
pure ritorniamo altrove; cfr. in ispecie: frig friguri^ piept piepturi^ sterc
stercuri^ timp timpuri^ onde poi fum fumuri ecc., e Mussafia, Jahrb. X 356.
* Esempj di nominativi in -5 che hanno perduto la coscienza della propria
funzione, son dati dalKArch. I 544 a. III 4, e da Schuch. 1. e. 184-6. Nel sardo
BOpravive anche un esemplare in cui il -5 ò d* applicazione analogica: ni-
fnO'S ntmu-5, nemo (cfr. prov. hom^s^ ant. frc. 7ion-5, nom sg. di 'homo').
Per l*om, hamus, dei lessici soprasilvani di questo secolo, il De Sale (1729)
ci dà onjr. Ma non abbiamo noi ancora nel milanese un esempio di questo
-#, come già ne vedemmo uno per il -5 di seconda persona (p. 418 n.)? Che
può egli essere il mil. om/s, amico, se non d amig^s (cfr. prov. amic-s amig^s
nom. sg.) ? Poco meno isolato di codesto amis ò oggi 1* engadin. fics ficus. E
r aggettivo torinese fons^ fondo, profondo, non dovrà andare anch*egli tra le
figure nominativali ? Della persistenza di fons = fond^s^ come sostantivo, pure
ai di qua dell* Alpi, possono vedersi i luoghi dell*Arch. che ho testò ricor-
dato; e qui tosto riveniamo alla sua particolar tenacità nella regione francese
e provenzale. Il nominativo fossilizzato, che entri come tema nella mozione o
nella derivazione, si vede ciod nel tipo soprasilvano jpurfon<-5+ a Arch. I 13 n.,
ScBUCH. 1. e. 185, e nel prov. fonsar foncer (= fonser, fond-s-are), Disz less.
a. 'fondo' ; ma anche per certo in poussière (cfr. Dibz s. 'poudre' ), dove ac-
canto al prov. pois (=spulv*8) sono ancora da considerare: pussa nella Ta-
rantasia, e poussi nel Jura.
421 Aseoli,
come 8opravÌTono nel gallese o britone d* Inghilterra*. Ma pur le figure gloi-
sografiche di tempi più o meno bassi, coli* -ur o T-er che par nelle Teci del
classico -U5, quali sono stercur e glomer *, altro in effetto non resulteranno
se non di cotali voci vernacole, spiccatesi dall* antica declinazione e venute
alla dignità di nuovi elementi lessicali. Onde sùbito arriviamo a schiette forme
neo-latine; poiché a codesto glomer^ ovveramente ade glomere« si rappie-
cheranno le seguenti forme: nap. gliuómmero, [tose, gnómero*]^ sic. ghiétn-
maru^ sardo log. lórumu (= lómuru^ campid. lómburu; cfr. campid. rùnUmlu^
rullo, rumbulóni rotolo, gomitolo, pallottola); dove, per T-p, anziché -«, si
potranno piii specialmente confrontare parecchi esempj affatto analoghi che
qui ci occorrono fra poco. Ricaveremo dunque un ghiómerCy da porsi allato
al ghiómo del lessico italiano; e Tantica declinazione sarà beli* e ricompósta'.
Ma l'antico genit-ablativo potrà anche aversi nel francese oeuvre^ in quanto d
un mascolino; il quale se non é un latino òpere, altro non potrebbe essere se
non un tema 'opero', ricavato da 'operare'; come a cagion d'esempio lo spago.
ruego e i lad. rieug rdr, preghiera, sono estratti da 'rogare'. E v^avrebbOt
per vero, la Corrispondente estrazione ladina, in d-iéoer ad-over^ uso, da
'adoprare'; ma questue da verbo composto, e ne ritrae la significazione; lad-
dove T'opero' sarebbe un'estrazione da 'operare' la quale per nulla avrebbe
differito, se non pel genere, dall'antico feminile 'opera' ^, che pur sempre du-
rava così ben vegeto (frc. oeuvre fem., pr. obra). I lussi del linguaggio son
molti; ma pur non tornerebbe facile, io credo, trovare un'altra serie morfO'*
logica affatto parallela a questa che segue: 'un'opera, operare, un opero*
(sarebbe come porre: causa^ causare^ un causo; cfr. Diez gr. IP 290-91).
S'aggiunge, allo stento di una derivazione siffatta, che gli usi del masc. frc.
oeuvre son tali da mostrarlo voce arcaica e come evanescente, il qual ra-
ziocinio ha anche particolare conferma dall' essersi questo mascolino ferma-
mente accomunato al linguaggio britone *. Credo perciò potersi facilmente
' ScHUCHARDT, 1. c. 186; cfr. il pi. temor^yeu ap. Zbuss-Ebel 286.
' Il primo di questi esemplari d in Schuch. vok. II 138 (gloss. sangall.) Il
secondo ò da un glossario che e'd conservato in due mss. , uno a Erfurt e
l'altro a Epioal (sec. IK); e lo devo alla gentilezza del dott. Gustavo Lcbwe.
' Questa forma, toscana o italiana che abbia a dirsi, l'ho dalle versioni
che lo Spano dà di lórumu^ e dal Beitrag del Muss., 64 n.
* Cfr. Flechià, Riv. di fil. class.^ II 198.
* Poichd devo toccare del lat. opera^ it. opera ecc., m'ò d'uopo soggiun-
gere che non intentlo perche il Die/., gr. IL' 23, veda nell'it. opera ecc. la
continuazione del plurale di opus.
' ober masc, nel basso-britone (Legonidec ; pi. ober^ou, Zeuss-Ebel 288) ;
e l'identica voce ritorna nei dialetti britoni dell'Inghilterra (gali, òber^ coro.
óber)^ ma non mi ò dato vedere, in questo momento, se pur quivi sia maaehile.
Ricordi bibliografici: 4. Il Nome del D*OTÌdio. 425
iDsiaaare la persuasione, che per gli ant. frc. oes oeuvre (masc.) si Tenga
a reintegrare la declinazione antica, come prima vedevamo per grital. ghio^
mo ghiomere *. Ora, allato agli altri esemplari di nominativo-accusativo :
tempo, petto, corpo, lido, lato, sterco, pegno, uopo, non avrà poi T italiano
pur qualche altro esempio di genitivo-ablativo, che sia veramente popolare?
Il D'Ovidio non tocca se non di genere (p. 41), per dime che paja voce
letteraria, come già aveva detto il Diez per le corrispondenti voci del pro-
venzale (gendre) e del francese (genre). Non disputerò'; ma ne abbiamo de-
gli altri. Si fa presto a dire che anche ulcere (ulcus ulcere) e viscere (viscus
viscere) sien voci letterarie; ma la verità resta poi a suo luogo. L* aversi
il aing. fem. ulcera dal plurale latino (come la legna ecc.), coi tre plurali:
gli ulceri, le ulceri, le ulcere, non ò davvero tal condizione da persuaderci che
V ulcere non sia di tradizione popolare; e Tu incolume (non o, come in dolce
molce folce) non basta di gran lunga a provare che la parola sia dotta'.
Piuttosto sarebbe da opporre la mancanza d* altre continuazioni vernacole di
questa voce. Le quali ali* incontro non mancano per viscere, del cui carattere
popolare farebbero anche fede il plurale U viscere e Fuso e la significazione
di sviscerato; ma egli era un nome, a ogni modo, il cui plurale dovea natu-
ralmente inghiottirci il singolare. Mi resta: rudere o rudero (rudus rudere,
'calcinaccio* e ^ghiaja*), che tutti in Italia diciamo e scriveremmo, comunque
una definitiva sanzione del Vocabolario non se ne sia ancora veduta *. Chi
fosse tentato di licenziare anche questo esemplare, imputandolo di mera pro-
venienza letteraria, pensi allo spagn. rudéra (^rnd-aria), ruderi, e al diminu-
tivo frinì, rudine, ghisga, che presuppongono entrambi, ma il secondo in ispe-
cie, la figura del nominativo-accusativo *rttd [9]; ed eccoci nuovamente colla
' LiTTRÉ: 'oeuvre; du lat. opera, ou, pour le masculin, de opere, abla-
* tif de opus \
' In favore della popolarità di 'genere', é giustamente ricordata dal Ganello
{Riv. di fil. rom^ I 130) la mutata desinenza dello spagnuolo genero.
' Se Tu fosse lungo di sua natura, sarebbe affatto legittimo Vu italiano,
malgrado la posizione. E codesta lunghezza non d solo possibile, ma d anzi
grandemente probabile, poichd ulcus non si combina con IXxoc se non per
telcùs volcos, e quindi ha un t«- in cui si contrae la formola o*f voc. di fase
anteriore, come p. e. in urina,
* Curioso il vedere come i vocabolarj adoperino questa voce, comunque
poi non la registrino. Il Panlessico di Venezia non ha rudere, ma spiega
ruderale per 'aggiunto di pianta che nasce tra ruderi*. Un vocabolario latino
(n Nuovo Mandosio, Milano 1864) non ha rudere nella parte italiano-latina,
ma traduce rudus per 'rudere e rovinaccio*. Questo rovinaccio per 'calcinac-
cio*, deve poi essergli venuto dal Porcellini: 'Vetus [rudus] noetri vocant
rootfiocctV; ed d il ruvinazio dei Veneti, di cui si vegga la nota che segue.
Archivio glottol. ital., IT. S8
426 Ascoli,
declinazione ricomposta: rudg ràdere '. Va qui inoltre considerato il fem. mm.
Idture (lato), in cui la mutazione del genere, che a ogni modo non sarebbe
più singolare di quella che anche il rumeno ci offre e in mare e in lume
(▼. p. 431), era agevolata dal plurale l^turi^ normalmente feminile (cfr. p. e.
piept pectus, timp tempus, mascolini, coi piar. fem. piepturi timpuri^ e ugual-
mente ochiu m., pi. f. ochiuri^ ecc.), come n*era agevolata la riduzione del-
Titono -er- in -tir-. Eventi affatto consimili ci manifesta il fem. rum. termure
^tiérmfne, termine (costa, lido), allato al masc. term^ pi. fem. fermurt; e
ancora si confronti il fem. rum. marmure marmo. Ma il plurale leiuri ci
ricondurrà effettivamente a un singolare lat[u] (vedine la p. 422), e saremmo
ancora con la declinazione ricomposta: lat^ latere. Nel ladino di Sopraselva,
allato a temps tempo, scopriamo anche Tablativo, e con la propria significa-
zione di questo caso; o più esattamente Tablativo fossilizzato per Fuso pre-
posizionale del nome; locché scema, per vero, ma non toglie T importanza del
curioso esemplare. E tumper- in tumper~gi durante il giorno (quasi ^tempore
diei'), iumper-noc durante la notte'; dove ^tempV divenuto proclitico, ha
Ye in ti per il -m-, come in tumpriv dello stesso dialetto soprasilvano (Àrch.
I 43). Finiremo per adesso con una luminosa continuazione di tèmpore, nel
significato di Hempia', che ò il masc. friul. tèmpli (il prov. tempia ecc. ri-
vengono, com*d noto, al pi. tempora, Diez II' 23). Il quale templi sta nor-
malmente a tempore, cos\ come rari (*róvri) sta nello stesso idioma a
rt)bure.
E ora appunto veniamo ai tipi in -«r (cicer), -gr (robur), ^or (marmor).
• 11 sardo logudorese ci mostrerebbe la declinazione intatta, non solo per il
suono, ma anche un pò* per la funzione, dicendo, come riferisce lo Spano: su
cadaoer il cadavere, ma de su cadavere '. Neil* ital. abbiamo poi : pepe e pé- .
' Qui dee rivenire anche il ruvinazio^ calcinaccio, della nota che precede,
e la forma più genuina (^rod-in-aceo) essere il friul. rudindz; cfr. Rovigo
= Ro[d]ig-io.
- ' Anche Tant. frc. ha tempre 'per tempo'; ma d un mero avverbio, che
risponde al lat. tempori o temperi; cfr. lo spagn. temprano allato a
tardano.
' L* osservazione, a ogni modo preziosa, dello Spano, d qui riferita, con le
sue parole, in una delle note che seguono, e cementata pur nel seguente ca-
poverso, poiché s* estende e anzi principalmente si riferisce ai nomi in -6n.
L* esempio di caddver cadàvere parrebbe, dal modo in cui lo Spano si esprime
essere uno fra* molti; ma io non riesco a vedere altri esempj che il Logudoro
qui consenta, tranne pibere; se pur non sia da aggiungergli piiiere, polvere,
ciod il riflesso di un mascolino che rasenta molto dappresso l'analogia di
questi neutri (nom. lat. pulver^ oltre puhis^ obi. pulcere-). Noterò ancora
ohe il ^Vocabolario* dello stesso Spano non dà per ^cadaver' se non cadàvere^
Ricordi bibliografici: 4. Il Nome del D'Ovidio. 457
vtre^ marmo e mdrmore^ solfo e solforo {*^ore\ e cecc accompagnalo dal cam-
pid. eiziri (nap. cicere^ D'Ov. 58), come il friul. folff (folgì fólgori : sur*,
sóror) 8* accompagna alla sua volta airit. fólgore. S'aggiungono gVit. ror)ere
(-eró)^ cadavere {-ero), sovero sughero (*-er6, cfr. il sg. fem. sughera, ov-
veramente il pi. le sughere) suber, e acero (*-ere, cfr. il sg. fem. acera), e
ultimo papavero (*-tfre), che forse però riflette piuttosto il 'papaver' maschile
che non il neutro. Ora è manifesto e non controverso, che pepe marmo solfo
cece son le forme di nomin.-accus. piper ecc., le quali perdono il -r, come
di questa uscita latina avvien costantemente nelP italiano (v. Diez gr. V 225,
e less. s. vampo). E che cosa saranno poi, dal canto loro, pevere marmore
rovere eccr, se non il genit.-ablativo pipe re (de pipere, cum pipere) ecc.?
Si sono per vero tentati due modi diversi onda sfuggire a questa naturale
conclusione. Ha cioò pensato il D'Ovidio (pp. 42 58), che rovere ecc. abbiano
un* e epitetica, quasi a sussidio del -r mal fermo, come l'ha in effetto cor-e,
che altrimenti si sarebbe ridotto a co. Ma, pur tacendo della difficoltà di
questo doppio esito che per tal modo si ripetesse e durasse {pepe[r] allato
a peper-e, ecc.), sarebbe forse ancora da dire, che l'epitesi risulterebbe come
un privilegio dei neutri, poiché sarebbe esclusa da ogni forma o mascolina o
feminile che uscisse latinamente nel medesimo >r. Vedo bene che per più d'una
ragione questo argomento potrebbe andare più o meno infirmato; ma giovava
almeno che il D'Ovidio si fermasse a dirci perché allato a mate paté rifeiiti
dall'Allighieri (pcete^ meste nell'aretino), prete preveie pré[8]bite[r], peggio
meglio (agg. m. e f., D'Ov. 56-7), sdrto sàrtor, moglie mùlier, sor[o] soror,
non mai un pàtere o migliore ecc. Lo Schuchardt, dal canto suo, dopo es-
sersi posto sulla buona via, se ne ritrae, conchiudendo cos\ (1. e. 175): 'Del
< rimanente, la più schietta pur sarà, che si attribuiscano delle antiche ten-
'denze eteroclite ai neutri in -r; si confrontino: marmorem papaverem
'sulphurem, e si consideri che le voci spagnuole in -umbre, -ambre, •im^
^ tre sono feminili.' Circa l'ajuto che l'acutissimo tedesco cerca per la sua
mantenendo quest'unica forma pur nella proposizione: abberrere su cadavere
aprire il cadavere. Forse la distinzione di cui egli parla nell' 'Ortografia' é
ormai incerta, e quasi sul perdersi.- Il riflesso logudorese di 'suber' si sot-
trarrebbe all'osservazione, passando all'analogia dei nomi in -p: sùaru\ e per
altro modo si sottrae il riflesso sardo di 'papaver': log. pabaiile, camp, pa-
baùli ^papàure, con l'accento sulla seconda anziché sulla prima delle due
Tocali riuscite aderenti, com'è per es. nel log. cuido, camp, guido, gomito,
ct&[b]ito.- Quello di 'robur' parrebbe mancare al Logudoro. Nel campidanese:
rùvulu e orróli, che riverrà ad *o-róvli zi *róvre (cfr., nel testo, una delle
forme friulane), ma Vo- non m'é chiaro.- Di 'raarraor': log. mdrmaru, camp.
mdrmnri. Di 'guttur*: campid. e var. logud.: gùtturu,
« paté pur nell'ant. perug., m 32 33 35 40 (v. il 'Rie* n. 9-10).
428 Ascoli,
conclasione in codeste serie spagnuole, si vedrà nel seguente capoverso che
le cose punt(^non istanno coin*egli le ha supposte; e limitandomi per ora
alla presunta eteroclisia ^piperem ^fulgurem ecc., farò le seguenti os-
servazioni. Quali tipi latini avrebbero do?uto promuovere questa antica ete-
roclisia? Non altri, manifestamente, che i sostantivi mascolini in -er -ur della
terza declinazione. Ma non si vede perché T analogia di questi avesse dovuto
prevalere, o perchè non s'abbia piuttosto a imaginare, alPinverso, che pa^
paver papaoerem guttur gutturem fossero attratti da piper piper fulgur fui»
gur a farsi neutri anch* essi '. In secondo luogo, le figure, che, data un* ete-
roclisia definitiva, dovremmo riconoscere di semplice nominativo, sarebbero
manifestamente troppo numerose (pepe cece marmo solfo *fólgo'), e perciò
occorrerebbe anche lo stento d* ammettere la perpetua continuazione e del
vero neutro e del neutro tralignato. L* eteroclisia, in terzo luogo, b* avrebbe
a supporre estesa a tutta quanta la serie, poiché non v*è pure un solo
esempio che non serbi anche la figura trisillaba, cioè quella eh* era, per noi,
il caso irreducibile del neutro. Ora si badi bene anche a questo: che se per
piper sMmagina un acc. pipere[m] (o pure un epitetico piper-e)^ e così per
tutta la serie, si riesce ugualmente a infirmare la teoria che si fonda sul-
r assenza del caso neutro imparisillabo, poiché si sottrae alla prova tutta
quanta la serie dei neutri ! Ma forse é ormai tempo di dire, che non si potrà
piti insistere in tentativi di simil fatta, senza parere che si chiuda gli occhi
per non veder la verità. II Flechia, sebbene ancora si mostri ben tenero della
teoria dieziana dell'accusativo^ riconosce tuttavolta egli pure, e assai limpi-
damente, in cecere ecc. un caso obliquo che non é Taccusativo (Riv., II 197 198).
E noi intanto rifacendoci in cammino, ancora dichiariamo sicuri ablativi i
friul. rari ( = *róvri) robur, e l-ùvri uber (cfr. templi tempus Hempia*, p. 426),
' Le du^ serie mi parrebbero rappresentate in giuste proporzioni al modo
che segue. Serie dei neutri: fulgur robur murmur sulphur guttur femur
jecur ebur Tibur^ marmor ador cequor, uber cicer tuber suber piper aeer
verber papaver cadaver [iter]. Serie dei mascolini: augur vultur turtur fur^
fur^ passer anser vomer (vomis) uter later gibber aer career [ciner*= cinis,
pu/t?£r = pulvis ; cucum^ = cucumis; vesper vesperis e vesperus vesperi; cati"
cer cancri e canceris]. Nessuno, io credo, vorrebbe qui aggiungere alla serie
mascolina gli esemplari del tipo pater patris^ venter imber.
■ I mascolini 'passer' 'career' 'uter' 'turtur' 'furfur' non danno se non
passere {-ero) carcere otre tortore forfore (f.), non mai passe ecc., a ta-
cer di 'cinis e cener* che non dà se non cenere. Polve sarà piuttosto 'pulvis'
che non pulver (cfr. p. 423 n.). E se v*ebbe un *vome allato a vomere (cfr.
il 'Rie' 9-10; e um vomere, allato a hùmer sorta di vomero, nel vocabola-
rio italiano-epirotico del Rossi, citato dal Miklosich, Alban, forschung$n%
II 72), pur qui c*é latinamente e 'vomis* e 'vomer*.
Ricordi bibliografici: 4. Il Nome del D'Ovidio. 429
come anche Torremmo vedere T ablativo, secondo la particolare analogia del
seguente capoverso, nelle corrispondenti voci spagnnole roble ubre^ cui si
aggiunge, oltre pebre^ Tant. asre acer (Talbero, Diez s. acero; friul. djar *ajV,
Arch. I 370, 524). E air incontro potranno essere nomin.-accusativi, col -r che
si salvi per essersi dissimilato in -(, i frinì, róul ancora per ^robur*, e mifr-
tnul (-r-/ = R-R; ^folg9r* air incontro ci dava il fri. folg); sp. fndrmol\ cfr.
cdrcel,' Nel francese e nel provenzale, finalmente, il nomin.-accusativo e
Tablativo si dovevano ridurre, per questa serie di temi, a una forma sola,
poichd suol perdersi, in quegli idiomi, T&tona che precede air antico -r, e
aggiungersi un*e epitetica al nesso di consonanti che per quella perdita si
forma (p. e. minor, *min'r, prov. ménre^ ant. frc. mendre; pàstor, ^pasVr,
prov. e ant. frc. pastre). Quindi piper e pipere si dovevano entrambi ri-
durre e si riducono al prov. pebre, frc. poivre; e cosi fulg9r fulgore
entrambi al prov. foldre^ frc. foudre^ e marmor marmore entrambi a
fnarmbre. Similmente ne*6rigioni, mantenendosi o riuscendo sempre ancora
finale il -r latino (cfr. pescdder piscator, pijr pejor, ecc., Arch. I 46-7 ecc.),
ed espungendosi, dall'altra, V-e del latino stesso, mal puoi dire se p. e. i so-
prasilv. peiver suver ruver suolptr (ver (uber) sien figure di nominativo-ac-
cusativo o d* ablativo.
Arriviamo finalmente al tipo in -tnen (nomen, albumen).
Ritornerebbe qui l'importante fenomeno logudorese delle due foime ancora
distinte pur secondo funzione: su nomen il nome, de su nomene^ ecc.*. Vor-
remmo, di certo, veder meglio chiarita l'attenenza fra la forma genitiva
(ablativa), che lo Spano ci dà nell' 'Ortografia*, e le forme che stanno come
articoli del suo ^Vocabolario'. Teoricamente parlando, la schietta voce ablativa
* Anche ne' Grigioni : marmel (Gar. nachtr.), che però confronto per la sola
dissimilazione, e non per le ragioni della figura flessionale.
' La notizia dello Spano, riportata anche dallo Schuchardt (1. e. 175) e
pur da noi già citata per gli uscenti in -r, d in questi termini : 'Evvi anche
^ ne' nomi che sortono in inis lat. un'ombra di genetivo, dicendo v. gr. su
'ftom^n, 514 samberiy su semen^ ecc., de su nomene^ de su sambene^ ecc.;
^cosl nei nomi in er: su cadaver^ de su cadacere^ ecc. (Ortogr, sarda^ I 57)'.
La regola parrebbe insieme involgere e basi neutre e basi mascoline o fe-
minili. Ma, per nulla più dire dei temi in -r, quanti poi saranno quelli in
-n, schiettamente popolari e non neutri? Samben sambene^ potrebb' essere
l'obliquo mascolino (ad sanguine de sanguine), e giudicarsi attratto dall'ana-
logia della serie numerosa dei neutri in ^men; ma anche pud essere addi-
rittura il neutro latino sanguen sanguine (il che andrebbe ripetuto per
k> spagnuolo sangre^ fem.). Virgine imagine margine^ si manifestano, pel
loro g^ voci importate; v. Arch. II 143. Tecten', che dà pelten e pettene^ è
tal tipo di mascolino da confondersi legittimamente coi neutri. Ma non ci é
dato un *homen allato a hómine^ uomo. Vedi ancora il testo.
430 Ascoli ,•
dovrebb* essere, nel logudorese, tal quale la latina: nomine ecc.. E il ^Voca*»
bolario' ci dà: logndor. istdtnen (nella parte it.-sarda), istdmine (nella
sardo-it.); flumen fiumene; nomen nomene '; esamen esaminu\ sémen\
sùmen\ ramine^ legnmene^ ligàmen ecc.; campidan. nomini semini arra--
mini ecc. Ma, a ogni modo, é affatto manifesto che il sardo continui Tabla*
tivo e anche il nominati vo'^accusa ti vo, cosi come T italiano ha egli pure le
due forme riunite in vime vimine (Diez, V 215), addome addomine (FuscHiAf
1. e), e poi ripartite in sciame seme nome lume carme germe rame legame ecc.,
allato a termine fulmine^ il primo de* quali ablativi ha il suo nom.-acc. nel
friul. tiérmi^ laddove il rumeno riunirà term (*tiérm\ m.), che d medesima-
mente il nom.-acc, con Tablativo ben larvato che è nel femin. termure {*tiér-*
mene^ cfr. p. 426, e vergure^ vergine, dello stesso rumeno) '. Forma ablativa
pure il cadorino cólmen (fem., Ganello, Riv. fil, rom,^ 1 133, Àrch. I 381 ; cfr. i
verbi friul. colmd colmend)^ culmine. L'antico spagnuolo ci dà poi le due forme
nome * nomne^ la prima delle quali rappresenta il tipo solito nel portoghese^
ma raro nello spagnuolo, pur neirantico (lename)^ laddove la seconda si conti-»
nua normalmente nei moderni nombre lumbre ecc. (cfr. hombre homine-, hem-»
bra fem*na, ecc.). Ora, chi vorrà più negare che la prima di queste due figure
sia la nominativo-accusativa e la seconda Tablativa'? Lo Schuchardt, nel
luogo già più volte citato, s^era egregiamente accostato anche a codesto vero*
e anzi T aveva conseguito; ma venne poi a guastare, in qualche modo, Topera
sua, con quella specie di pentimento che ho già riferito nel discorrere dei
' Sotto 'costumanza*: costumen coshimene; cfr. petten pettene qui retro.
' Il D'Ovidio (p. 41) voleva liberarsi delPit. termine^ col dir che gli pareva
^aver risentita T influenza di terminus^\ ma era una sentenza, nella quale egli
di certo non insisterebbe più. Il pi^m. ^«^rmu = *termen (Arch. II 119) può
ugualmente rispondere e a termino (terminus) e a termine; e il gen. terme
(ib.) anche al nom.-accus. termen. Terme sarebbe frequente ne* ^Bandi luc-
chesi'; Canello, 1. e. 133. Circa Tit. fulmine credeva poi il D'Ovidio (ib),
che Vu potesse mostrarlo voce dotta. Ma sarà correttissimamente popolare
(^fulgmen fulmen, cfr. p. 425 n.); e così non fosse popolare anche il crt-
minel Anche si noti la coppia italiana letamare letaminare^ allato alla con-
genere coppia friulana che il testo, ora adduce.
* V, p. e. Dice, d, l. Ac. espan^ Parigi 1826.
* Il Diez (gr. I' 219, II» 332, cfr. V 204, 1I« 308), pone -mne per l'epitesi
d*-e: nomen nom'n nomne. Ma quali analogie spagnuole si possono addurre
per questa serie ? Ubre, roble^ pebre^ asre^ che già di sopra citammo, ci man-
terrebbero in un circolo vizioso (ubere ecc.); e non vedrei che Tisolatissimo
sastre *sàrc[r]tor, allato a maese magister. D'altronde (per tacer delle riduzioni
órden^ mdrgen, hollin fuliggine, e simili), lo Schuchardt ha egregiamente
ricordato gli esiti naturali di -men nello spagnuolo: Iettarne^ *betum[e] be^
fwn, *safm[e] sain sairae.
Ricordi bibliografici: 4. Il Nome del D* Ovidio. 431
temi In -r, dove dice che va considerato come sien femSoili le voci spagnnole
in -timore, '•ambre^ -tm^re, pensando così a un* eteroclisia lumen *luminem
(fem.). Resterà, mi pare, che, nello schietto suo amore per la verità, il mio
onorandissimo amico si voglia ora pentire del suo pentimento; poiché, dal-
Vun canto, l'assoluta affermazione che i nomi spagnuoli in 'ornare ecc. sien
di genere feminino, d tutt* altro che corretta, come deve già aver veduto
egli medesimo; e, dall* altro, la parte di vero, che pur vi si contiene, non vale
in alcun modo contro di noi. Vi hanno cioè delle voci spagnuole d* antica
base in "mine (suff. -men), che son passate al genere feminile: cumbre cui-
men, lumbre lumen, legumbre (Diez II' 22; cfr. anche il pi. f. velambres
sposalizio), e v* ha pur qualche voce di nuova formazione che entra in que«
st* analogia {la techumbre). Ma, imprima, c'ò una serie di voci spagnuole qui
spettanti, che ricadono, com*d regola dell'antico neutro, al mascolino: alam"
bre rame, enjambre sciame, mimbre vimine ', che son di base classica (a tacer
di nombre e renombre); osambre^ pelambre^ che son di base volgare; tir-
éUmbre (in alcuni lessici ò dato per fem.), cochambre^ che son peculiari alio
epagnuolo. Poi ò da considerare, che di tali formazioni ne passano al feminile
pur quando in effetto vi si continui la forma che altro pur non deve essere
se non il nomin -accus. del neutro ' ; e così son feminili i rum. culme lume ', a
tacere dei pur rum. aramf legumf* (onde riabbiamo feminili nel rumeno
tutti e tre gli esemplari di antica formazione che passano a questo genere
nello spagnuolo; cfr. anche il cador. la calmerìa addotto testò), e sono femi«
nili nom e lum in molte parlate cisalpine, Àrch. I 543 b. Finalmente è da
notare, che se altrove siamo limitati a cercar la ragione del trapasso in quella
specie d'ambiguità che rispetto al genere ò propria della desinenza -e (cfr.
arte morte pace; monte ponte; e gli ambigeneri fonte serpe carcere cenere)
per lo spagnuolo s'aggiungerà la spinta fortissima delle molte formazioni in
cui "Umne (-umen) ò un vizioso succedaneo di -udne (-udo -Udine) e
' Per questo esempio 1* indicazione del genere ondeggia.
' Escludo cioè r ipotesi troppo stentata di un lume fem., in cui si continui
il nominativo del paradigma eteroclito: lumen *luminem (fem.).
' Il rum. lume dice ^universo' 'mondo' ecc., per imitazione ideologica dello
slavo svjet lux, mundus, come già vide il Miklosich sin dalle Radices /tn-
ffuae slovenicae, 1845.
* aramf legum^ (allato al m. legum\ quasi *CBrama *leguma^ si potranno
lasciare in questa serie (cfr. Diez, 1. e), coir -e in *-a, come in netif ; ma
air incontro non saprei lasciarvi /timtnf, cioè ^ lumina^ e lo pongo fra i plu-
rali neutri venuti alla funzione di singolare feminino (cfr. Tit. pecora^ ecc.),
categoria che di certo non manca pure ài rumeno; così: tumplf tempia (tem-
pora), arme. Se questo non fosse, lumine ci sarebbe valso come esempio di
figura ablativa, quasi una degenerazione di lumine.
432 Ascoli,
porta perciò seco, abbastanza legittimamente, il feminile: costumbre^ muche"
dumbre moltitudine, dulcedumbre ecc., Diez II' 340-41 '. Il portoghese volle
all'incontro mascolini, secondo la ragione del nuovo saffisso, anche costume
e pesadume o pur pesadumbre (spagn. la pesadumbre^ pesantezza, quasi *pe-
6a[n]tudine'), come ha pur mascolini cume lume e legume. Ma chi vorrà
mai credere che, a cagion d'esempio, tra il port. lume (m.) e lo spagn. lum^
bre (t) V* abbia altra diversità fondamentale di quella che. sia tra il pori
ararne e Io spagn. alambre (aeramen), mascolini entrambi, o vorrà più credere
che questa diversità in altro risieda che nel vario caso ? Vi fu tempo in cui
le due diverse forme coesistevano in ogni regione per ciascun esemplare, come
ancora si vede in nome nomne {^nombre) per T antica Spagna, o nelle con-
tinue coppie sarde, o in vime vimine dell* italiano ; e più tardi poterono esse
andare quasi ripartite fra' dialetti affini, o potò sola sopravivere Tuna o Taltra
delle due. In favor della quale affermazione mi sarà forse lecito di addurre,
per ultimo, anche una riprova d'ordine indiretto. Suol dirsi che lo spago.
hambre (rr.famne^ allato a fame dell' ant. sp.), fame, si foggi sopra nomi-'
bre ecc., quasi fosse Sfamine'; e bene sta. Ma che mai ha indotto Sfarne' a
farsi Sfamine', e in Ispagna e pur nella Sardegna, la quale ha iMogud. famen
f amine (campidan. fàmini\ fatto anzi mascolino, come nomen nomeneì Gli
d, che un tipo fonetico, il quale nelle Spagne era affatto conforme a 'fame'
(ararne nome lume ecc.), e tra i Sardi ne era assai poco disforme (ara"
men ecc.), si avvicendava di continuo col tipo dalle due postoniche in -tt€
(aram[i]ne ecc.); e dato ardme[n] ardmine ecc., si capisce di leggieri come
ne sia promosso fdme f amine '. — Venendo finalmente alla Francia, V abla-
' Non so se altri abbia notato, che -umne^ ov veramente -umna, sostituito
a 'Udne^ risolve in gran parte anche l'enigma del frc. enclume per *incu-
d'ne, che d il tipo obliquo affermato dall'ital. incudine. Di fatti,
*encume: incudne : : amertume : amartudne.
' Poichò m'accadde toccare in questo articolo di qualche preziosa coin-
cidenza fra spagnuólo e sardo, siami lecito d'avvertire e dichiarare insieme
una discrepanza assai notevole che fra quei due linguaggi interviene. Lo spa-
gnuólo (come il portoghese) perde quasi affatto il tipo di perfetto che dicono
'forte' è perciò anche il participio che ne dipende (tipi it. cinsi vinto^ tinsi
tinto ^ parve parso); nella qual perdita s'ha poi la ragion vera del perdere
che fa lo spagnuolo (come il portoghese) il tipo dell' infinito di terza conju-
gazione latina. Dettosi, cioè, venci teni (vinsi tinsi) e vencido (ant. venzùdo)
tenido (vinto tinto), cosi come temi parti (temo partì) e temido partido
(temuto partito), si fini anche per avere gl'infiniti vencér o tenir (vincere
tingere), sul metro di temer o partir. Il sardo, all'incontro, ha molto usato
e abusato del tipo forte, come ora in ispecie si scorge dai participj e dal fatto
condipendente che l'infinito sdrucciolo, anziché mancare, abonda assai più
che non dovrebbe. Cosi: tentu (lat. tentus) e ténnidu, tenuto, pdrfidu (base
Ricordi bibliografici: 4. li Nome del D* Ovidio. 433
tivo 8i torna a eclissare, come nei tipi della categoria di cui prima si stu-
diava, e per analoga ragione, poiché era assai facile, a non dir necessario,
ch*ei si rendesse impercettibile. £ il provenzale e il francese posson cioè
ridurre MN, pur quando rimanga interno, al solo m; cosi nel prov. som
somelh (somno somn-iclo), nel frc. semer (seminare) ecc., ma in ispecie si
osservino i prov. cosdumna costuma^ ordumna orduna» Dato perciò il tipo
^nom'ne^ eh* era la prima e necessaria riduzione deirabl. nomine, se ne
otteneva assai facilmente: nomme nom[e]^ e quest'esito si veniva a confon-
dere con quello d*un antico nom.-accusat. nome. I tra esiti diversi, che nel
francese pur b" hanno: legume (allo stadio di home = hom*ne), essaim^ airain
(ant. araim)^ ci daranno forse modo, tuttavolta, di scernere i due casi (cfr.,
per il ladino: Arch. I 69 239 520-21); ma intanto e* è da aggiungere, che
Tantica apocope del tipo nom.-accus. nome[n], non si può, per ora, sicu-
ramente affermare in questa contrada; diguisaché potremmo anzi presumere
due volte nomne (nomane = nomen, nom*ne » nomine, come s'ebbe pebre
= piper e pipere), ridotto a nom[6] per la via testò indicata*.
E si conchiude col domandare: Sarà egli lecito dire ancora che la teoria
dell'accusativo è confortata dalla mancanza di esemplari neo-latini in cui si
riflettano le forme tipiche : corpore^ marmore^ cicere, nomine ? Non si dovrà
dire, proprio ali* opposto, in suffragio validissimo della teoria dell'unico obli»
,quo (o pur dell* unico caso) ottenuto per la necessaria coincidenza di forme
primamente tra di loro diverse^ che là dov*era un obliquo irreducibile^ que-
sti appunto sopravive, allato alla forma che per sé continua gli altri due
casi critici ? Y* ha un tipo neutro che non conta se non un esemplare solo :
«ap9[t] capite. Orbene, il caso inseducibile pur di quest'unico esemplare
ha saputo mantenersi, coesistendo nel rumeno: cap (capU'l^ il capo) e capft
(= capite), dov'è da confrontare, pel raro accidente del dileguo dell' -«: oaspgi
allato a oaspete, ospite, del rumeno stesso.
Ancora si voglia qui tollerare qualche rapidissimo cenno intorno ai nomi»
nativi degl'imparisillabi mascolini o feminili; che hanno saputo resistere alla
concorrenza dell'unico obliquo, e convivere con esso od anche soverchiarlo,
li D'Ovidio, nel tentare una rassegna delle forme nominativali che riman-
pàr-ui) parso, bdlfido (base vàl-ui) valso, dólfidu (base dól-ui) e dólidu
doluto, quérfidu (base *quer+ui) vuluto; con gl'infiniti: ténnere pdrrere
balere; e s'arriva per fino a ndrrere, narrare. Ma di più, altrove.
* Il DiEZ (P 216) cita nom ecc. appunto sotto MN. Tra le ant. forme
frc. per 'nomen', s'adduce poi dal Burguj anche nonne, Abbiam qui forse
l'assimilazione regressiva n = mn (cfr. prov. somelh e sonelhy Diez ih. 217)?
E malgrado la concorrenza del masc. Herminus', sia ancora ricordato tervin
= eermtn, entrato a far parte degli idiomi bri toni (pi. gali, teruyn-eu^ pi.
basso-brit termen^you^ Zbuss-Ebel 285 288), allato al frc. terme.
434 Ascoli s
gOQO air italiano e dei doppioni eh* esse importano (p. e. òrafo ànrìfex, allato
all'obliquo oréfice aiir(fice-), si moveva la domanda se abbia a inferirsene che
anche V italiano abbia percorso, come il francese, ^ono stadio di declinazione
ridotta' (p. 53). E si rispondeva di no; ma ha poi disdetto questa sua nega-
zione {Riv, torin., I 259), e ha fatto bene. Senonchè, bisognerà, io credo, far
qualche altro passo ancora, e venire ad una conclusione, che sarà altrettanto
naturale quanto sarebbe parsa, or non d molto, im vero paradosso. Avremo
cioè a conchiudere, che la condizione dell* Italia, rispetto alla Francia, non
sia diversa, in ordine alle forme flessionaii del nome, da quello che la gene-
rale condizione delle rispettive favelle richiede; ed d quanto dire che F Italia
qui pur mantenga la supremazia etimologica per la quale essa generalmente
8Ì distingue. Di certo, l'antico francese e il provenzale conservano il loro,
privilegio della distinzione funzionale tra forma di caso retto e forma di caso
obliquo, privilegio che devono alla facoltà di mantenere T antica sibilante
air uscita, e in ispecie alla facoltà ed alla spinta di mantenere e favorire il
^s di nominativo singolare. Questi fermò ne* suoi cardini 1* antica declinazione;
bon^s bonus, allato a bon bono, imponeva a emperddre^ imperàtor, di man-
tenersi nella sua corretta funzione allato ali* obliquo emperadór^ imperatóre.
L'italiano bw>no^ all'incontro, che era bene un esito legittimo e necessario
anche di 'bonus', cessava però d'essere un nominativo discernibile ; e questo è
stato il vero colpo di grazia per l'antica flessione. Ma circa la conservaziono
delle due forme flessionaii nei tipi in cui la differenza tra il retto e l'obliquo
risiedeva in altro che nel -;, 1* Italia, bene esaminata che sia, risulterà, o per
il numero o per la condizione de' suoi esemplari, superiore anziché inferiore
alla Francia. La coordinazione metodica degli esemplari nominativali ci mo-
strerà poi delle concordanze assai notevoli fra le diverse lingue neo-latine, e
resusciterà con particolare evidenza le condizioni della flession nominale nel
Tolgare romano.
Mi sia lecito di chiudere, non già con un saggio della coordinazione a
cui alludo, ma con qualche linea in cui se ne ripeta, per via d'esempj, il
desiderio.
A. Imparisillabi a accento fermo. 1. jùdec[sj judice, nuc[8] nu-
ce, ecc., che ò la serie in cui la differenza tra i due casi si manifesta anche
per l'avvicendarsi della esplosiva guttm*ale (h) con la palatina (e, onde p). Se,
come pare, il -5 del nominativo d caduto, od era instabile, prima dell'età in
cui da OS si dovesse aver ss ecc., dovea poi facilmente cadérne anche il -e,
quando non si sostentasse con una vocale epitetica; dove sono in ispecie da con-
frontare t7/d, in 16^ lòC'O^ tVd^a, cilloc, forme dialettali italiane, che hanno
riscontro anche fuori d'Italia e son qui ritoccate in un altro 'Ricordo' (n. 9-10)9
e pure a-dunch-e dunch-^ adunqìu ecc., riferiti, come fa il Diez, ad a-tunc.
Avremo cosi lo spagn. e port. cai calc[s|, nominativo già avvertito dallo
Ricordi bibliografici: 4. Il Nome del D* Ovidio. 435
Schuchardt; e nominativo affatto consimile si aggiungerà il rum. £ude Ju*
dec[8]; coi quali vien terzo il n. 1. S. Fele^ Felix, che ripetutamente s'in-
contra nelle provincie napolitano (Flechia, 1. e. II 198). Ma resistenza del
nominativo rumeno: lùde^ diventa poi un altro buon argomento in favor del
carattere nominativale del sinonimo napolitano : jurech^Cy con la vocale epi-
ftetica ; e qui tornerebbe in discussione il gruppo d* esemplari in cui entrano
grital. ràdica sorco^ il rum. 5a/Af = saPca, allato a salce (come per 1* alba-
nese ci è dato se Ih selku selgu allato a selce \ Miklosich, Albanische for^
schungen^ II 57), a tacer dei rum. nu/?, nux, il noce, e simili. Intorno alle
difficoltà del qual gruppo, son per ora da consultare il Diez, gr. V 237^ V 255
(cfr. il less. 6. fagotto) e il Flechia, I« c, II 194 e Arch. II 9, non dimen-
ticandosi, per r estrema sezione orientale (esempj albano-rumeni), le parti-
colari complicazioni che ivi importa la storia delle formule CB CI, GB Gì.
Ma, a ogni modo, non si potrà impugnar così di leggieri quel doppio e le-
gittimo esito fonetico della forma nominativale che si esprime con la pro-
porzione seguente:
nsL^, jureche: rum. lude : : it. ràdica: lomb. cotórna (coturnix).
2. homo homi ne. Le piti genuine forme deirant. frc: hom retto, home
(omn^) obliquo. II rumeno entrambe le forme nel pronome negativo: nime
nimene nimem^ nemo, allato ad on», pi. oameni (friul. om t«mtn). II sardo
logudorese nemo [5] allato a hominem ani. sp. homne^ sp. od. hombre; pori.
homem *homen. La Toscan^i: nimo e uomo (uomini). — caligo caligine:
nel veneziano amendue le forme, ma con distinzione di significati: caligo
nebbia , caliggine , caligine fuliggine. 3. csespes csespite. Ne* Gri-
gioni: engad. cisp, soprasilv. éispad; it. cespo^ cesto *cesp*to (Flech. 1. e. I
99; cfr. cespita). — cuspis cuspide: ant. venez. cespo cóspedo cóspelo^
Muss. Beitr. 47, e qui sopra a p. 408. — lampas lampade; bene estesa
la simultanea presenza d* entrambe le figure : it. lampa lampada (alb. lampf
lampadf^ Gihac s. lampa), lad. soprasilv. lampa ampa^ bass, engad. dmpula
(^lampala, cfr. qui sopra, a p. 408, e sp. lampara^ it. /dmpana), prov. torn-
ea, cfr. B. 6 e 7, làmpeza = ^lampeda « friul. Idmpide, 4. pul vis pul-
vere: prov. pois e polvera; it. polve^ polvere^ cfr. p. 428 n. 5. ros
rore; la Sardegna ha il nominativo nel eampidan. ros-Uy Tobliquo nel loga-
dor. rore; e il nominativo si continua poi nel prov. ros e nel rum. ro^e roU'f\
V. Diez less. s. ros.
B. iBfPARisiLLABi CHE RisospiNOONO l' ACCENTO. 1. sóror soróre. La
integrale continuazione di sóror nel nomin. prov. sorre^ allato alFobl. serór.
L* Italia ha *sóro = sóror, suor ecc., di cui v. Flechia 1. e. I 96-7, e soróre
usato da Petrarca. ^Quel soróre polifileggia', annotava il Tassoni; ma in
effetto vive ancora fra il popolo toscano : ^non curano i (ratei della soror^
se non è da più di hr^ (Giusti, Prov. tose. p. 127, già allegato dal Ganello);
436 Ascoli,
e occorre in parlari veneti, antichi e moderni; v. sopra, p. 410. Figure nomi-
Dativali sono ancora: frinì, sur^ rum. sor-f (pi. surori)^ frc. soeur *. 2. Tipo
glùtto gluttóne, dove T obliquo, in determinati territori, assume le sem-
bianze e anche può assumer la funzione dell* accrescitivo. Provenz. glot^i
Dom., gloto[n\ obi., ant. frc. gioì nom., gloton obi., ital. ghiotto ghiottone^'
prov. laire nom., Zatro[nj obi., ant. frc. Urre nom., larron obi., ital. ladro Ut"
drone;- prov. falc-s nom., falco[n] obi., ital. falco falcone; e il nominat. oggi
ancora nel frc. gerfaut girifalco, allato a faucon (Diez 1' 247, Tobleb L e.
1901 n.), e gwalch pur nel gallese (Schuch. zeitschr. 186) ;- prov. companh^s
nom., companho[n] obi., ant. frc. compatti^ compaignon^ ital. compagno coni'-
pagnone;' prov. drac dragon^ ital. drago dragone^ e il nomin. pure nel rum.
drac diavolo, alb. drek id. 3. Tipo tltio titidne, il quale sceveriamo
dal numero precedente. In ispecie per ciò, che, data la base feminile, come
d di solito (stati statione ecc.), la figura nominativale passa facilmente
al mascolino. Ital. tizzo s-tizzo tizzone^ spagn. tizo tizon (dove ò un prin-
cipio di distinzione ne* significati), friul. S'tizz tizzo, tizzòn s-tizzón pirosL
Ital. stazzo masc, allato al fem. stazione (cfr. Flech. 1. e. II 188-9). Men
concludente, per avventura, cioè piuttosto dovuto al linguaggio cancelleresco,
che non alla vera tradizione popolare, dazio (frc. dace^ Tobl. ib.), allato a
dazione^ con significazioni ben distinte. Ma ben valido, purché abbia lo m
sordo, il montalese frazo (Nerucci), frazione, resticciuolo, frasi di macinato^
]a semola. 4. Tipo amor amóre. Qui andrà fatta, mi pare, qualche
distinzione cronologica. Il D*Ovidio, e altri con lui, vedono le due figure negli
ital. duolo dolore^ ponendo cioò senz'altro duo/o == dolor, col -r latino che
si perda come neir italiano suole, e non curandosi del provenz. do/, o dei-
Topinione del Maesti'o che appunto manda dol con duolo fra i nomi neo-latini
estratti dal verbo (gr. II' 291). Pure, d assai probabile che duolo e dol sieno
dolor; ma sarebbe un caso di -r lat. molto anticamente affievolito o svanito
(cfr. Schuch. vok. I 35, III 9-10, lì 390-91, III 282-3, Corssen II« 655-6);
e un* altra età ci sarebbe rappresentata dall'ant. frc. chaure = càlor (cfr. sor^
re^ B. 1), allato a caWr = calóre (Tobler, ib., cfr. G. Paris, Étude sur le
role de l'accent latin dans la langue frangaise^ p. 52). Bella coppia italiana,
addotta da Flechìa, ò fieto fetore (Riv., I 99, II 191); donde si arriva ai tipi
in cui tutto il -tor spetta al suffisso, com'è in sarto sartóre (cfr. spagn.
sdstre p. 430 n). L*-àtor del nominativo (piscàtor ecc.), come dava nor-
malmente -^idre -aire al provenzale, -ere ali* antico francese, -dder (~éder)
al ladino e ai vernacoli ladineggianti, cosi nel tipo italiano doveva dare -dto
* Lo spagnuolo e il portoghese dicono ^germana' {hermana^ irmàa) per
'sorella'; ma nel significato di 'suora', l'uno e l'altro pur conservano tutt*e
due le forme: sor sorór.
Ricordi bibliografici: 4. Il Nome del D'Ovidio. 437
(cfr. p. 427), onde -at ne^ dialetti in cui, dopo T apocope del -r latino, et-
Teniva pur quella deir o riuscito finale (cfr. p. e. sur folg a p. 427), ed -af
por nel runaeno;- laddove T-atóre dell'obliquo (piscatóre ecc.) dava ri-
apettivanaente -ad(5r, -«(fo* ', "adùr^ ^atóre ecc. Così rivengono a salvator
imperàtor i nomin. provenz. salvddre salvdire^ emperdire (obi. salva^
dar ecc.), o i nom. ant. frc. sauvérrels] emperére\s\ (obi. scUveór ecc.); e son
figure nominativali il soprasilv. pescdder (allato a piscaddr)^ alto-engad. pe-
$^éder^ ecc., o gli ant. venez. aoogadro ànogaro^ avvocatore, Cankllo 1. e.
130, e il n. 1. padov. S, Salvdro^ Flech. Riv. II 198. Ma d ugualmente il no-
minativo nel rum. fmpfrdt^ alb. fmbrét^ imper&tor; e se qualche incrociameuto
morfologico e pur qualche scrupolo fonetico non ci tenesse ancora un pò* in-
eerti, dichiareremmo qui spettare anche il venez. segdl-o (allato a segadór)^
secàtor, segatore, che passa poi al friulano nella forma di segàtt^ e piii deci-'
samente il milan. ragionai^ ration&tor, ragioniere, col quale si combina il pi.
raxonatti di qualche documento veneziano (1494: dot nostri raxonatti^ due
nostri ragionieri, li soprascritti rasonatti'^ Lattes, La lib» delle banche a
Venezia, Milano 1869, p. 79). 5. népos nepóte: prov. neps nomin., nebot
obi., ant. frc. nief(nies) nom., neveu obi.; ital. nievo e nipote; e allato al rum.
nepót^ ò Talban. ntp, già riconosciuto per figura nominativale dal Miklosich
{Alban, forsch., II 44), come nominativali pur sono nevs neiv neif, de^dial.
grìgioni. 6. eétas setàte, necéssitas necessitate, ecc. Qualche
forma apparentemente nominativale qui in effetto potrebb* essere illusoria, e
dipendere da riduzione latina per dileguo di -5 e conseguente trapasso alla
prima declinazione; dov* erano anche doppie forme, entrambe genuine e an-
tichissime, che potevano sedurre, come Majesta -estae, allato a maje-
stas -atis, juventa -entae allato a Juventas -Stis; al che accenna,
non nel modo più felice, pure il D' Ovidio (p. 53). Ma la cautela, che qui si
richiede, non che trascurarsi, d stata, credalo, esagerata d* assai; e così, a
cagion d'esempio, le coppie ant. francesi: tnajéste[s] majestét^ poéste poe-
stéd^ e le corrispondenti coppie italiane, rimangono, per me, continuazioni
direttissime delle due forme d*una stessa declinazione latina. Qui intanto
m'accontenterò di citare ancora la coppia friulana jVte (Àrch. I 500; alb. j^(f,
ScHUCH. zeitschr. 186) e eiàd\ e nigisse, ^necésta, necessità, del friulano stesso,
insieme col gen. sizzia^ ^siccità, siccità (Flech. Riv. II 199). E un altro av-
vertimento,- o meglio un quesito, siami ancora qui concesso. Può egli stare, che
l'italiano perda per mero processo fonetico il -te di virtute vanitdte ecc.?
L'analogia di pie[de] fe[de] mercé[de]^ dove ò un d primario, o la digradazione
' L'accento qui apposto alle forme provenzali e ant. francesi, à una no-
stra aggiunta, per agevolarne, colla corretta lettura, il corretto riscontro
etimologico.
438 Ascoli ,
letteraria: virtù te virtude virtù^ potrà mai bastare a persuadercene, jqaando
UDO de* più usi tati esemplari, cioè estate (a tacer di salute)^ ci ricorda insi*
stentemente che il ^te postonico aveva a rimanere incolume pur qui, come ri-
mane nelle seconde plurali dell* indicativo e deirimperativo: amate ecc. '? Non
sarà egli piuttosto ragionevole di qui riconoscere una particolare inflnenia
della forma nominati vale , cioè, a parlar per via d'esempj, di *bónta (cfr.
pietà ecc.) sopra bontdte^ di *virtu sopra virtuteì Dove anche è da consi-
derare, che la maggioranza degli esemplari avrebbe dato un nominativo
sdrucciolo in -a, e per ciò veramente una voce con mezzo accento pur sul-
r ultima sillaba: calamità^ capacità^ avidità^ carità^ ecc. 7, Tipo sér-
pens serpènte. Il Diez nel lessico: ^ serpe ital., portogh. e ant. frc, spagn.
* sterpe^ prov. e lad. serp, rum. serpe^ abbreviazione comune a tutte le favelle
* neo-latine e certo molto antica, la qual ritorna pur nel gallese sarf, ' Piut-
tosto che un* abbreviazione, avrà a dirsi una riduzione: sérpes (cfr. gli epi*»
grafici meses mesibus ecc., ma in ispecie i pure epigrafici do/tf s =: dolens,
libes libens, ecc., Corssen P 252-56, Diez I' )^21), e appunto serpes pone ]»
Schuchardt per base delle forme neo-latine (zeitschr. 186). Il prov. e Tant.
frc. non ci danno per vero un nominativo serps da cui dipenda un obi. ser-
pent; e Tant. frc. serpe, o il prov. serp-s, vive ormai staccato dalPant. frc.
serpent'S o prov. serpen-s (il che si annota senza dimenticare ciò che 6.
Paris ne dice nella sua bella serie già di sopra citata); ma da ciò punto
non viene che abbia a rinunziarsi alla restituzione volgare serpes ser-
pente, come anche resulta dagli altri esemplari congeneri che ora addu-
ciamo (cfr. eziandio le continuazioni di lampas lampade, sotto A. 3).
Secondo esempio vorremmo porre il frc. prude allato a prudente ma ci av-
vilupperemmo con preux ecc., che son troppo difficili per potersi qui smaltire.
Passiamo dunque senz* altro ai fior. Cresci e S. Cresci^ Crescens (Flechia,
Riv. II 198), pel quale c*d appunto, in copia d* esemplari, Tepigrafico C re-
se es. £ sia ultimo, per ora, allato alla figura obliqua che é neirital. re-
cente ecc., la nominativale eh* è nel rum. rece^ fresco'.
* Il Diez vorrebbe questa successione: beltade *beltat beltà (gr. V 228,
cfr. 233). Ma quale analogia può mai addursi dall* italiano per il dileguo di
-e che sussegue a un* esplosiva ? Dove d un amct* = amate, o un 5<;f= siti[s],
o altro di simigìiante?
' Il tipo in cui al movimento dell* accento s* aggiunge Talternarsi di A e e
(cfr. A. l,p. 434), d rappresentato da durifec-s a uri fi ce, che dà la cop-
pia italiana o fiorentina: òrafo oréfice, già di sopra ricordata. Ma Ya di
òrafo è un pò* singolare, massime trattandosi di voce fiorentina, e più schietta
e bella è la forma che ci viene incontro nel plurale dell* antico perugino: Varte
degl'or fé (SUt. del 1342).
Ricordi bibliografici: 5. I Parlari del Papa oli. 439
5. I parlari italiani in Certaldo alla festa del V centenario di messer
Giovanni Boccacci, Omaggio di Giovanni Papanti. Livorno, 1875« di p. xiv-
736 in 8^
Il Papanti, con questa bella sua raccolta, rende un servigio segnalatissimo
alla dialettologia dell* Italia. Ci offre egli non meno di 700 versioni d'una
novella di Boccaccio, la IX della I giornata^ per la massima parte in ver-
nacoli viventi d*ogni nostra provincia; e se il suo testo ò dovuto riuscire, e
per quantità e per qualità, inferiore di non poco al Dialogo dello Zuccagni-
Orlandini, il numero delle versioni, ali* incontro, è smisuratamente maggiore,
e sono, in generale, vei^sioni ben fatte. Nessun* altra contrada d* Europa può
vantare un tal complesso di saggi vernacoli; e punto non esagera chi dice il
libro del Papanti un vero monumento nazionale. Di certo, non é un glottologo*
né pretende d'esserlo, chi ha messo insieme questa doviziosa suppellettile; ma
à stato quasi un bene che noi fosse, perché un uomo del mestiere sarebbe
stato tormentato da infiniti scrupoli, e T utilità della precisione scientifica
non avrebbe contrabilanciato, in questo caso, il danno del ritardo ch'essa
doveva importare.
Potrà cosi essere appuntato, con troppo facile' censura, 1* ordinamento di
cotesto versioni; il quale non dipendendo se non dal doppio criterio della geo-
grafia politica e della successione alfabetica delle provincie e dei luoghi, ò
in effetto un ordinamento che di necessità scompagina tutto il sistema dia*
lettale. Volete, a cagion d'esempio, studiare quel tratto del versante adriatico
deirApennino che sta fra il Lamone e la Foglia e fa parte della regione
gallo-italica? Voi avrete il saggio di Modigliana a p. 217, fra quelli dell^
provincia di Firenze; 11 saggio di S. Marino a p. 626, perchè ò di territorio
che non ispetta al Regno; e poi per S. Agata Feltria dovrete ricorrere a
p. 353 (provincia di Pesaro e Urbino), o per Cesena a p. 224 (provincia di
Forlì), e via cosi discorrendo. Ma perchè poi sono io così pronto a citar que-
st* esempio, se non per effetto del molto uso che con molto mio prò ho sùbito
fatto di questo bel libro, come in ispecie si vede ai num. 9-10 dei presenti
Ricordi! Nulla dunque potrà scemare il sentimento di gratitudine e di am-
mirazione, che ispira al dialettologo Topera compiuta con tanto rara abne-
gazione e cure tanto diiicate e intelligenti dall'egregio letterato livornese. É
una collezione la sua, che sola basterebbe a dare alimento a piii d'un vo-
lume di buoni studj ; e la sigla Pap., per la quale noi la verremo citando, sarà
certamente d'ora innanzi una delle più frequenti ad occorrere nelle scrittura
che concernano i vernacoli italiani.
*
6. Parallelo fra il dialetto bellunese rustico e la lingua italiana^ di Gtu-
lio Nazari; Belluno 1873; di pag. 109 in 8^ Da Pelmo a Peralba^ a/-
440 Ascoli,
manacco cadorino di Antonio Ronzon ('U dialetto cadorino', p. 114-32); Ve-
nezia 1872.
7. Un testo friulano dell' anno 1429 , edito da A. Wolf (Estratto dagli
«Annali dell' Istituto tecnico di Udine'); Udine, 1874; di p. 27.
8. Giov. Maurizio: La Stria, ossia I stìnqual da Vamur, tragicomedia
nazionale bargaiota. Quddar dii costùm da la Bragaja ent al secul XVI.
Bergamo, 1875; di p. vi-187 in 8o.
Il Parallelo del Nazari s'intitola ancora, e molto giustamente: «Saggio di
«un metodo d'insegnare la lingua per mezzo dei dialetti nelle scuole elemen-
«tari d'Italia'; e sarà seguito, per cura dello stesso benemerito autore, da
piti altri libretti consimili, se l'opera si vedrà favorita dagli uomini che
fra noi sopraintendono alle cose della scuola. Io già ebbi occasione di dire, in
altro luogo, come a me paja che l'assunto del Nazari si meriti ampiamente
codesto favore; ma qui ancora va tenuto conto della non poca utilità che
anche alla scienza de' dialetti potrebbe ridondare da una serie di libri di co-
desta specie.
A noi così accadrà di ritornar piti d'una volta a questo primo Paralello
del Nazari; e sin d'ora ne ricaveremo una breve serie di fatti, coordinan-
dola, sin dove si può, all'articolo «Feltre e Belluno' che s'ebbe nel primo
volume dell'Archivio (p. 410-15). Sincope dell' e àtona mediana: camhra
^endro 18, vendre * vènere venerdì 108 (cfr. Arch. I 401). - Lo i di fase an-
teriore che degenera in d: Bordi Giorgio 109, denér gennajo 95 (cfr. Arch.
I 405), dérbol germoglio ib. (cfr. ib. 383 n., 401), desólder dipanare *di8-
-vólier 95 (cfr. ib. 382 n., ecc.), mólder ♦miilgere 99 (cfr. Arch. I 383 n.,
401); ecc. — Per -ung od -une da -unj di fase anteriore: dunczs *iunj giu-
gno 95. — Participio in -est: ponést conduj^ést rimanést ecc., 46-7. In
néole nuvole 16, non s'ha é per u, ma bensì quell'antico *nIbulo, sinonimo
di nubile, che si riflette pur nel friul. niul^ piem. nivu ecc. — Pur qui ma-
scolino: al gendro il cenere 22 (cfr. Arch. I 403); e col genere mutato: al
nei la neve 22 72, che sarà esempio cospicuo anche per 1* antico ei = I (*néiv),
cfr. l'agord. séif Arch. I 402. Co' friulani ged in-sómp (ib. 524 533) si
combinano bellamente : cet quieto 94, in-són in cima 97. Notevole anche /i5,
molto, fortemente, intensamente, 96, cfr. Arch. I 87 144 408. Molnan l'anno
scorso 99, è da mo-V'é-n'-àn ora-gli-è-un-anno. Lévina lavina 98, avrebbe
un accento molto singolare, se ò corretto; cfr. friul. lavine livine. Curioso
germanismo, finalmente, il nome d'un uccello: crosnóbel crociere 95, ted.
kreuzschnabel.
Fra i saggi cadorini addotti dal Ronzon, son venti ottave dell'episodio d'Er-
minia, che rappresenterebbero la parlata di Pozzale. Io non aveva potuto
averne se non otto sole (v. Arch. I 404 n.), che davano, del resto, una lezione
a£&tto diversa. Ma le venti del Ronzon provengono veramente, com'egli ac-
Ricordi bibliografici: 6-8. Saggi alpini. 441
cenna^ da un giornale bellunese (^La Provincia di Belluno', del 9 novembre
1872), dove anzi sono, coli* argomento, ventuna, e uscivano alla luce, compio
credo, per merito del prof. Pellegrini (efr. Arch. I 345). Ne vengono, per
i nostri numeri (ib., p. 404-5), le aggiunte o varianti che ora do: 160-82. se
no ave a e taro se non avete caro 15, allato a vedo caro ib.; jgucia
zucca (testa) 12, bocia bocca 13, le vace 12;- le già te gatte 2. 170*
ceto quieto 14, fem. ceta 7, la s*ha cetd 4; cfr. qui sopra il beli, cet, —
10. santa 11. 129*. gói voglio 10, goléo volevo 12; des-guóite ♦dis-
vóite si vuoti 15; goje ♦vuóge occhi l 5 13 17; cfr. Arch. I 382. 129^ daói
2 e argom. Di i in d: donde *i(5nie giungere, verde *avérie apre, cfr.
Arch. I 382 n., 425. Di -di = -óin: boi buoni 8 11. 28. la se Vieste
si veste 17; la siente 5 (e senza stenti 8). — 81. auziei 5 (i auze^
Iute lì). ò(ì. duta nuote tutta notte 3. Per Vie seriore di zie de
cedere 4, e siede sete 4 10, cfr. corr. spiéri e pav. nieve Arch. I 331 424.
Di maggior momento ò per noi il testo friulano del 1429. È propriamente
una serie di saggi, che il solerte editore estraeva da un inventario dei red-
*diti della confraternita di Santa Maria di Venzone, scritto a più riprese
^durante il XV secolo'; saggi un pò* aridi, per vero, ma tuttavolta ben pre-
ziosi, che ci rappresentano la varietà venzonese, importante come anello di
^ congiunzione tra i vernacoli della pianura e quei della montagna'.
Neir ordine fonetico, é assai notevole il conservarsi intatto il dittongo
organico dellV e deird in tali congiunture per le quali ancora non ne
avevamo sicuri esempj se non dalle varietà del lido adriatico orientale (cfr.
Arch. I 491-2, 497). Cosi, per Ve: giener de la Bergine^ genero, 44 (cioè
ziéner\ cfr.: genero de la Bergine 6, cener 65); tienp tempo 108, Tarzient
Tercentum 86 124 (n. l.: Tar^fnt Tarcento); ma: Lurinz 116 117'»;- per
Vói quentre contro 26 108, inquentre 70. Schietto il dittongo, cioò non al-
largato in id ud, pur dinanzi al nesso che incomincia per r: giert certo 104,
pi. gierti 99, zierti 69, tiere 82 ; la muert 12. Dittonghi seriori (cfr.
Arch. I 483 492 497). Ve di fase anteriore, in éi: contein 21 94 95 97 112
113 114 {conten 4 22 23 26 99), tein 38 47 54 106 {ten 46 54); bein 64 120
123, pi. beins 84; terein 52 55 70 ecc.; poseit possiede 49 50 55 85; debeive
doveva 104; areiz eredi 3 ecc.; trej 70, tì^ej chiampi 85, trej bochons 86.- LM
di fase anteriore, in óu: louch 20 54 82 86 94 126 louc 97 (loc 57 117*);
four fuori 23 ecc.; soure sopra 6 7 8 11 14 34 71 (sore 5 15 19 22, de-sore
112); Flour 51, lour 112; di-d-avour di dietro (cfr. Arch. I 516 498) 2 44
49, davour IH, davour la muert 12. Ma nessun sicuro esempio di dittongo
improprio (cfr. Arch. I, neMuoghi citati pei seriori; noto tuttavolta
diebesi debbasi 111, allato a dibit debito 104. Bella conferma viene poi
da Saint March 111 {Sant Michel 115, Sant Linei 119), sot giù saints, sotto
i Santi 42 (cfr. giù quali 76), alla ricostruzione che era data nel primo vo-
Archivio gloUol. ital., II. SO
442 Ascoli ,
lume deirArchiTÌo, p. 457. E per buona integrità di forma Tanno aseora
eitati : maistieri (la sega over maistxeri di Stiefin de ìiene^ quasi 'mestiers*
per 'opificio'; per Vie cfr. tu sumitierj cimitero 109 e Arch. I 491 in t)
= magisterio 103, allato a ine$tri = magistro 117; e meitai metà = medietaU
19 119 {meitade in un passo Tenezianeggiantd 13). Se ru 43 Tal 'rÌTo\ come
pare (apreso uno n« e lis vijs publichis)^ tì abbiamo ancora quella tras£ir-
mazione caratteristica per la quale mi limito a citare le pag. 376 381 405
del I Tol. dell' Arch. (num. 33).— NoteTole anche la serie: Andree 57, /«.
dree 110 (Arch. I 501; e cfr. siridurar 109, quasi 'serratursjo'), Indrj Iniri
58. E come elemento lessicale: a lat allato 2, alat 77, dai ias 93. Nel
rispetto morfologico, sarebbero di molto momento: Fortunas Fortunato l, 2>9-
menis 73 85 (115: Domeni) Domenico, se, come pare, son daTTero nomiastiri
fossili. Nel quale incontro si pud anche notare, come certi plurali in -•' (p.
es. trej chiampi 85, fierti beni 99) non Tadan sempre posti così di leggieri
fra i Tenezianesimi ; t. qui sopra, a pag. 420. — Ma il fenomeno piii do(«-
Tole, che in questi saggi occorra, é nei seguenti modi: lasa a la frodagli
unis chiasis che forin... 53, a a-fit unis puestis di mucle aprcM U
deta siega 102, consignaQon d-unis IIII liris che pa;are...lOa. L'atte&to
editore appone un 'sic' tutte e tre le volte; ma ò manifesto che si tratti 4i
un problema e non d'una serie d'errori; e il problema si nsoWe nell'ato4i
'uni une' per 'alcuni alcune', o quasi per articolo partitivo, come aTrien o^Ilo
spagnuolo (p. es.: tendiendo unas pieles stendendo delle pelli'). Il primo pasto
dunque dirà: 'lascia alla confraternita alcune case che furono....*; il se*
condo: 'ha a fitto alcune poste di macina presso la detta sega'; e il terso
deTe dire: 'consegnazione di circa quattro lire (quasi: 'alcune quattro Bre*.
'un quattro lire') che pagaTa...'. GioTerebbe conoscere se duri e qaaato
s'estenda codest'uso friulano del plurale di 'uno'; ma intanto non par dob-
bio che la funzione mostrataci dal terzo esempio sia continuata nell'itiu «/,
di cui il Pirona così scrive: ^us (fita), vn, uns^ artic. indef. aTanti i nomi
' numerali = a un di presso , più o meno, all'incirca: ui riii^, «i
' franto = un venti, un trenta.' Lo Schuchardt, all'incontro, era indotto a
rodere in quest'urta, ui, il fossile d'un nominatiTo singolare (zeitschr. 185).
Ci resta il dramma bregaglioto del Maurizio. £ laToro che a* ispira a no-
bilissimi intendimenti morali e letteraij; ma Y Archivio non pud fennani i
considerare il poeta o il patriota, e deve star contento a risalutare 1* antico
e benemerito rappresentante della favella natia, che con quest'opera gli con*
tinua quel prezioso sussidio di cui per altre vie già gli era stato largo (v. Artà.
I 273-79). Il testo copioso, che ora il Maurizio ci regala, sarà UrgaoMiis
* Cfr. anche il logud. unos tantos parecchi, pochi. Spano Orf. I 40n^«
a Bastia: tini pochi\ Pap. 532.
Ricordi bibliografici: 6-8. Saggi alpini. 443
citato nei successivi capitoli dei ^Saggi ladini*; e qui basterà che si mostri
r utilità che da' primi fogli ne deriva in ordine a alcuni caratteri già de-
scritti avvertiti nel primo volume. Sieno co&ì addotti a ulterior con-
ferma della regola che ponevamo per il -n di plural feminile (I 274): da
quelan 4; lan mia 1, lan giuvna 5, lati idea n'Jiva 3G, lan nossa buna /i-
berta 52; da quistan ratera di questi pretesti 26, tantan volta 3, por divcrsan
via 19, cun cerlan oildda con certe occhiato 29; gueran da sanju 26, da
famigliari véla di famiglie vecchie 21 ; dodas vacca 33. 52*3 (I 277): n'Jiva
nuova agg. 36 57; mdivar muovere 55. 87 ecc. Continua tendenza a li-
vellare in a la postonica interna. Così a dà e etimologica o intrusa: córar 1,
béivar 5, éssar 7, véndar 8, bdttar 14, méttar lo, vicar 18, rlar ridere 22,
mungiar 52; giùvan 9, Ubar libero 11; sémpar semper 1, aitar altro 11; —
e insieme: nóbal 9, órdan 9, t Oman 46, spirai 42; — da o: didcal 38, t có^
mad 46. 137. agias e agius abbiate 42 45, fagias facciate 39, vìidtis
andiate 5, daventus diventiate 28; erus eravate 25, panzdoas pensavate 25;
ftlssus foste (sareste) 27 39.
9-10. Saggi aretini. — I. Poesie giocose nel dialetto dei Chiaìiajoli, di
Raffaele-Luigi Dilli di Casiiglion Fiorentino (b); Arezzo, 1870. — II. Im
Castagna, lunario di Michclangiolonc Cerro da Tornia (e); Firenze, 1870.
Fra le regioni italiane i cui vernacoli sien meno esplorati, o anzi men noti,
va di certo quella dell* alto bacino del Tevere e della contermine sezione del
pendio adriatico dell* Apennino; che d come dire quella regione, a esplorar
la quale appunto convitano, con le massimo attrattive, la etnografia e la
storia. K da sperare che qualche giovane e ben preparato dialettologo non
tardi a impadronirsi di codesto territorio; e intanto si potrà forse tollerare,
che valendomi della buona occasione di questi saggi chianajuoli, io qui dilati
un pò* il discorso, per tentare il sistema dialettale di cui i vernacoli aretini
ton quasi propaggini o appendici. S'avranno, com*d inevitabile, ben piuttosto
meri quesiti, che non veri additamenti. Ma la fase de* quesiti metodici d pur
tal fase dell* ignoranza, che pud annunziar vicina o prossima quella del molto
sapere.
La Foglia, che si versa nell* Adriatico vicino a Pesaro da tramontana, suol
considerarsi come il limite meridionale dei dialetti gallo-italici; e di là in giù,
sogliono parlarci di umbrico, di marchigiano, di romano e via discorrendo,
■euxa che si veda corrispondere alla elasticità di codesti nomi alcuna ragio-
nata o documentata realtà di cose. Ma i dialetti gallo-italici non finiscono alla
Foglia; e un substrato gallo-italico si riversa, d'altronde, anche al pendio
mediterraneo dell* Apennipo, per Talta valle del Tevere.
La Foglia potrà bene aversi come limite meridionale della serie romagnuola
«le* dialetti gallo-italici, e sempre limite approssimativo ; ma il pieno tipo gallo-
444 Ascoli ,
italico si continua manifestamente anche per il pendio meridionale del bacino
della Foglia stessa, e per la ralle del Metauro. Avremo cosi una nuova se-
zione gallo-italica, da dirsi, per ora, metauro-pisaurina; e un carattere, che
facilmente la distingua dalle schiette sezioni romagnuole, sarà la esplosiva
palatina nelle antiche formole ce ci gè gì (c, ^), alla quale lo schietto ro-
magnuolo contrapone invece la riduzione assibilata (^, i). Cosi a Urbino
e Urbanla troviamo pec pace, e a Pesaro pece; laddove a Cesena: posa, e
pésa ugualmente a Rimini. Cosi urbin. pianénd (che riviene a *piangénd)
piangendo, cmincand cominciando; e all'incontro ces. fori. rim. pianzendy rim.
cminzand ecc. Dov'd da notare come tra la Foglia e la Marecchia si oscilli
fra le due pronuncie; e perciò a S. Marino: piangend e cmeniand^ e anzi
così pure a S. Agata Fóltria, che rimane di sinistra alla Marecchia, o anzi
nel bacino del Savio.
La pienezza dei caratteri gallo-italici, e piti specialmente emiliani, che
testò si affermava manifesta ne* vernacoli metauro-pisaurini^ non può e non
ha bisogno d'esser qui partitamente dimostrata. Giova tutta volta che ci sof-
fermiamo a far meglio risaltare due cospicui caratteri che già si poterono
avvertire negli esempj addotti di sopra. Primo de' quali Ve (a) dall' a tonico
latino, e in ispecie fuor di posizione; laonde, p. e., urbin. rivéta arrivata, di-
spréta disperata, s foghe sfogare, ecc. Secondo, la tendenza a espungere vocal
protonica, dove in ispecie si considera il fenomeno concomitante dell' a che
s'aggiunge iniziale (fenomeno ben diverso da quello dell' a meramente pro-
stetioo); e così, p. e., urbin. snora coita signora civile, vleva voleva; artrové
ritrovare, arni ^arvnf rivenire; urban. s^arsvegghiassa si risvegliasse; ecc.
Insieme sia ancora qui notato Vo dall' t^ finale: urbin. ptd, urban. pió^ su,
virtó; f6\ 16 (urbin. lu) lui; com' d p. e. nell'imol.: ptd, só^ ecc. E come fatto
accessorio, il m- che s'accompagna al segnacaso dativo : urbin. m^a Cipri a
Cipro, ar corra m^al re ricorrere al re, feoen m-a j* alter facevano agli altrif
m-a lu a lui, m-a me a me, urban. m-a vù a voi, ecc., pes. d* fé capi m^al
re di far capire al re, m-a sta dona^ fan. m-ai altr^ ecc.; così come rim. m' e
seni sepolcre al santo sepolcro, m'aj eltre agli altri, savign. m-a te a te. Dove
accade insieme avvertire il sa (s-aì) ^consociativo' dei metauro-pisaurini ;
urb. sa la rabbia colla rabbia, per la rabbia, sa tott con tutti = contra tutti,
urban. sa la santa pacenza^ sa tutt el cor; fan. sa tutt quei '.
' Ricordo eziandio, con particolare intenzione, l' urbin. e urban. Ha lei,
urbin. dia colei, che s'incontra col savign. cesen. /ta, e di là, per la via se-
gnata dal ferrar, {/é, va a congiungersi col venez. cubila (e cU'Stia)^ e col lie
dell'antica Venezia e del Friuli {lic *ljé je^ Arch. I 529 n.). Insieme dovrà
andare anche il forliv. faent. li == *lia lei , comunque solo il forlivese ci dia
la mi la mia, e così sari =: s&rì&y dunar t == doneri a, laddove faent. e savign.
la meja^ savign. regalareja, E liei è del contado * toscano' (Nannucci, Saggio
del prospetto generale ecc., p. 47 n.); cfr. p. 449 n.
Ricordi bibliogrAfici : 9-10. Saggi aretini. 445
Che se dalla Talle del Metauro ci trasportiamo all'opposto versante del-
rApennino, ben troviamo subito un tipo dialettale assai notevolmente diverso,
in ispecie per ciò che di solito non si espungano vocali, neppure alle uscite
(eérti^ socésse^ módu)-y ma le vestigia gallo-italiche rimangono' ancora ben
manifeste a entrambe le rive del più alto Tevere e per la valle della Chiana
o delle Chiane, cioè di quelle acque che ora vanno solo in poca parte al Te-
Tere, e per la maggior parte sono ora date ali* Arno. Alludiamo in ispecie al
doppio fenomeno merco il quale, a parlar con un esempio, ^rimettere* ci dà
armétte armétterc^ e a quel cospicuo carattere per il quale da 'portato' si
doTrà avere porteto e da 'villano* vileno. Ma il versante occidentale dell* alto
Tevere e la Val di Chiana ci portano al di là dell* Umbria; e la esplorazione
delle propaggini o delle vestigia gallo-italiche così ci conduce a discorrere
per assai nobil parte dell* antica Etruria. Ora vien da chiedere, fra 1* altre,
quanto ancora avanzi di codeste vestigia, e in ispecie di quella che si po-
trebbe dire r acutissima fra le 'spie celtiche', cioè deir^ = A lat., pur lungo il
territorio umbro che é sul versante orientale del Tevere, e quanto ancora ne
avanzi pur nel sabellico, territorio circum-a pennino, per il quale arriviamo
air^ = À che è di odierni vernacoli abbruzzesi o d* altri anche più a mezzo-
giorno, e vi si accompagna con altri fenomeni che ben gli sono consentanei.
n Clanis de* Romani, la Chiana odierna, o veramente la Chiana dei dialetti
aretini, ha mutato genere e ha la sua legittima g per Ta latino. Ma anche
il Nar^ al limite meridionale dell* Umbria, mutato ancora il generose con é
= A , d oggi la Ntra^ dove importerebbe conoscere la precisa pronuncia che
abbia Ve di questa voce fra gl'indigeni, e dovrebb* essere un proferimento o
un mono afiatto diverso da quello che fra essi corrisponda alPt romano, tal
cioè che affatto escluda 1* equazione Nera =rnigra. E la sabina Rieiù e Chieti
marmeina, non sono esse due altri gran segnacoli, rivenendo per e = a ai ro-
mani RtdU e TedUÌ Di certo sarebbe un grave stento il voler ripetere l*^ di
Rieti a Chieti dal semplice influsso dell* i che viene a precedere la tonica, poi-
ché oesann esempio, che sia di schietta favella italiana, può essere addotto per
té da td. E Todiemo vernacolo di Bucehianico, presso Chieti, ci darà egli ap-
punto eirehé cercare, mèle male, ecc., e insieme arvenevc riveniva, dia si"
néura della signora, craune corona, e altro d* utile per noi, che qui é gioco-
fona traaandare.
Additata o divinata così, per esempj geografici (ChtVno, Néra, Rieti, Chieti),
la Tia per cui l*^ = a s'inoltri negli Apennini napolitani, noi ritorniamo all'alto
bacino del Tevere, fermandoci imprima a Città di Castello. Dove riabbiamo^
come neir attigua sezione del versante adriatico deirApennino, i tipici e 'ntu
Varni e nel rivenire, arm€S$a\ e poi: disperéta, sclerHi^ tiléni^ console^ ecc.
E Ti si continua, dalla contraposta valle del Metauro, anche il m- prefisso
mila particola dativa: m-al r*, m-a /mc, m^a co; a tacer di He lei. Anche a
446 Ascoli,
OrTÌeto: tn-a mene a me, m-a tene^ m-a quella duonna\ MontóflascoDo: m-a
voe a Toi, tn^a la sua corona; S. Lorenzo NaoTo: tn^a^llue a lai, m^-a la
vostra. Col quale m- Ta forse confrontato 1* elemento che vediamo prefino a
'qui' nel dialetto di S. Sepolcro (territorio tonano; sorgenti del Tevere): mi-
"qui^ e ritorna negli aretini emma-H ivi, me-li me-qui^ addotti dal Redi, mm-
mi-qui 'mm-qui del Biili '. A Perugia, o nel contado perugino, non vediamo
più il m- che s* aggiunga al dativo, ma nella stessa congiuntura ivi abbiamo
un <- : t-a Ita a lei, t-a lu a lui, t-a vo\ f-a sta donna^ t-a gli altre ^ l-«i
triste. Il quale t- va. forse connesso col t che ó nel de tolà per 'di colà* ia
un saggio del dialetto di Assisi (Pap. 531), allato a t-ajj altre agli altri; e
ancora confronterei: perug. infintila antico infintoli^ sin là (ap. Pap. 43),
riet. finente lóco^ sino allora (che dev'essere sino-f-mt+tZ/oc, cfr. mil. t/d^,
sicil. cZdocu = *lloco , costà), var. aret. finantallora^ sinent'a la sera b Gè^
finenta e 53, roman. insinenta^ 'nfinenta^ e pure in Terra di Lavoro: 'n/ìr*
nind' allora (Castellucio di Sora). Nel contado perugino si continuan poi i
tipici arvenendo^ s^arsentita ecc.; e IV = a: rispettato ^ passa buttate pasti
buttati, figure te-ve^ gastighe\ ecc. Pap. 43-4.
Ora, tra il perugino, a destra del Tevere, e il eh lanino o aretino
che s'abbia a dire, v*ha senza dubbio un'intima attenenza o quasi la atesaa
ragione di continuità ch'ó fra' rispettivi territorj. E comunque sbagliato nella
sola e cosi essenziale caratteristica che vi d espressamente avvertita (a,f =:j[«
che é feifomeno comune al rustico perugino e all'aretino), merita che qoi ai
ricordi un passo di Fernow (IH 282), il geniale indagatore che già piU sopra
abbiamo lodato (p. Ili): 'Al dialetto degli Aretini e Cortonesi, die' egli, vanno
' congiunti quelli di Perugia, Città di Castello, Borgo S. Sepolcro e Anghiarì,
'dedotto l'di, che in questi nuovamente si perde; e così il dialetto toecaoo
' passa gradatamente, per l' Umbria, nei romagnuoli e ne' romani.' ' Che se lo
spazio e la scarsità dei saggi perugini non consentono che la connesiioiie tra
perugino e aretino sia per ora da noi considerata più iniistentemente di dò
che il complesso del discorso vien senz'altro ad importare, sarà forte lecito
nondimeno che a questo punto si avvertano separatamente due o tre fatti
di varia natura, i quali pur si riferiscono a codesta connessione. Al pemgiao
Nàto, questo, risponde il chian. t^esto ; e col I- che accompagna il dativo, e
finanta ecc., di cui poc'anzi si parlava, andrà pur contemplato il conta Im' $e
' A Pitigliano, sul confine toscano verso il viterbese: di dimmellà^ & là,
Pap. 242. Nel messinese, oltre la congiunzione mt, che, di cui già si
(v. per es.: Lizio-Brcno, Canti scelti ecc.: p. 14, 66, 78, 98), il Pitré
scerebbe una preposizione mi, per, come vedo ora appunto nell'opera sna di
cui si tocca più innanzi in questi 'Ricordi'; ma non me nejK)no peranco pò*
tuto notare alcun esempio.
' Cfr. Caix, 0. c, p. 11.
Ricordi bibliografici: 9-10. Saggi aretini. 447
ne vettono e 45, che altro non può dire se non ^con lui se ne andarono (vire
= ire).' L* aretino flamba^ fiamma, si combina poi colPant. perug.: noie sem-
pre enfiambava noi sempre infiammava m 45 *. E il Redi ha nel suo voca-
bolario, alla voce or dio: ^ saper ordio^ parer ordio, tra gli Aretini, vale saper
*di strano, parer di strano, dispiacere. I Perugini, invece di ordio^ dicono
* ordo. Si profferisce ordio con la penultima breve e col primo o largo.' Sa^
pendoglxe ordo traduce ^dolendosi' nella versione perugina presso il Salviati;
e il prof. A. Rossi aggiunge ora nelle sue belle note (ap. Pap. 42): Uà la
sposa sa ordo de lasse la mamma^ dì perugino odierno. Anche a S. Sepol-
cro: che *n se prendlva ordio^ che non si prendeva fastidio.
Ma venendo finalmente a qualche pò* di descrizione comparata del dialetto
aretino, miriamo imprima alle due proprietà, che già di sopra si son più volte
definite e documentate, e in questo giro e* importano più d*ogni altra cosa. —
I. arcolco *ric(5Ico ricollocato, urliqui reliquie, due esempj che ricorrono nelle
ottave aretine del Lappoli (circa il 1530), citate dal Gigli;- Varporto il rap-
porto, e arti-are ritirare, nel vocab. del Redi;- e dai saggi odierni: arpards-
son riparassero b 76, armérii rimeriti 80, armasta 8, arfó 78, s'accorda 74,
arnire rivenire b voc. 3 ('ntuVarnire nel rivenire Pap. 90; Città di Castello:
^ntuV arn(^ perug. arnie\ arnisse arnisson e 53, allato a arviéne e 45, nella
qual voce manca naturalmente Tettlissi della vocal di radice che v*ò accen-
tata; arpenso e 52. II. cantasre cantare, nasta nata, temparcela^ chicemo^ masi
male, poer de fora uguali di villa (ciod ^pari di fuori*), trovcei trovai, torncei^
tutti esempj che provengono dalle ottave aretine del Lappoli;- altri esempj,
tratti dal voc. del Redi, già diede TArcbivio, I 298 (cfr. Flechia, Arch. Il
381 n.); e ora dai saggi odierni: la Chiena e 54 (ma fuor d* accento: C/ita-
nigne Chianini 49), lonteno 45, campene ib., chene cani 46, m§ne mani ib.,
f§me 6, beschieme bestiame 45, cheso caso 53, mirere mirare 46, neghere 48,
diooreto 45, soldeti 53 55, chiamete-me 6, speda 49, peghé paghe 6, chepo
rgpo 50; eson asino 48, dieoelo diavolo 51, Nepel Napoli ib.; lèdra b 20; ecc.
ecc. ìli. Ora Ve da i' in posizione, di esempj in cui l'italiano mantiene
Tantica vocale (cfr. il romagn., ap. Muss., §§ 32 33; e ant. perug. colonda
penta colonna dipinta m 28, benegno 43; conselglo 34; camorlenghe camer-
linghi 27 '). Da Lappoli : depengon^ fengo fingo, cui si può aggiungere breglia
' Gli esempj di antico perugino prendo, per la maggior parte,' dal bel la-
Torp del prof. Monaci: Appunti per la storia del teatro italiano. I. Uffijj
drammatici dei disciplinati dell'Umbria^ pubblicato nella Rivista di filologia
romanza^ ma anche in opuscolo a parte, che appunto cito per m e la pag.;-
e i restanti dalle Cronache e storie inedite della città di Perugia dal MCL al
MDLXIII^ pubblicate néiV Arch. stor. ital. (XVI tomo della I serie), che cito
per A* a' e la pag.
' Nei *Bandi Senesi': pento, fento, vénciare, convento, esempj che adduce
448 Ascoli,
briglia ; - dal yoc. del Redi : vénceta vento Tinto, tégnere tignere, infénta in-
finta (sost.), e di posizione seriore: meglio miglio, fameglia^ conseglxo^ ma-
ire gna^ colmegna colmigno;- dai saggi odierni: venta vinta e 48, penta
spinta (sost.) b toc. 15, tégnere tento 98 e toc, strégnere ma strinto toc. 19;
grillo^ pi. gregli toc. U; ceglio 8. IT. L'o da ij in posizione, di esempj
in cui r italiano mantiene l'antica Tocale (cfr. il romagn., ap. Muss., §§ 55;
e ant. perug. gionto M 15, agionte a} 528-29, pongiono m 53, a quisto ponto
49, colla culla 50; e anche Peroscia ♦Perusja 8 n., 9, a,* 71 *). Da Lappoli'
gionga^ ponse;- dal Tocab. del Redi: pò gnere pungere, mognere monto^ con^
gionto (Città di Cast, gionta)^ gionco giunco, fongo*;^ dai saggi odierni:
. ponto nulla, punto, b toc. 15, sponta 98. Y. -abjo arja si riducono co-
stantemente ad -eo -ea. Son riduzioni che deTono occorrere taWolta anche
in altri territorj toscani; e qui mi limito a citare civéo civéa^ circa i quali
può riTedersi TArch., I 486 n. Per le identiche riduzioni che occorrano in
alti-e regioni, citerò poi TArch. stesso, I 363 n. 2, 368 n. 4. E ora gli esempj
aretini. Da Lappoli: accceo acciajo, centonaso centinajo, j90^c?o poUajo, mtimFO ;
pi. pagliosi^. Dai saggi odierni: éa aja B 40, cacéa caciaja toc 7, pequeréo
il Canello nel suo buon lavoro sul * Vocalismo tonico italiano', Riv. di fil.
rom.^ I 219. A Zagarolo (Comarca di Roma): avea venta la guelfa Pap. 407.
Nel quale incontro noterò, non tanto per IV, quanto per la geografia del to-
cabolo, il viterbese grènfa^ coraggio di resistere, che mal si potrà disgiun-
,0^^^^ ^i^S^.r^--^*.'» gere da grinta (e grènta) di Lombardia'^ecc., ceffo, cipiglio, stizza, e pure
^ alterigia (v. Diez less., s. grinta).
* gionta in un saggio senese, allato a pungerlo; Pap. 445.
' Non va con questi, ma è ben notevole: ^concorre ^ col secondo o largo,
conchiudere.' Uo largo parrebbe accennare a con-claudere (cfr. con-c/au-
sus); e quanto a rr = DR (♦conclodre), concorre farebbe il pajo con Carrara
♦Quadrar[i]a e quaresima.
^ Il Lappoli ci dà anche gomeie vomeri, dove il Gigli aggiunge il sing.
goméa^ e entrambi pongono la schietta e, non V oe («), come ora anche il
Billi distingue fra gomèa^ dall'una parte, e poléo ecc. dall'altra. Onde il
Flechia acutamente arguiva qui sopra (p. 347-8), che la pronuncia aretina
contrastasse al *vomario *vomaria, da altri ricostrutto e anche morfo-
logicamente in verisimile, e persuadesse ali* incontro la ricostruzione *to-
mdr-io *vomer-ia (cfr. Schuch. zeitschr. XXII 174 n.). Ora io non presumo
di risolver la questione; ma, comunque io propenda per la sentenza del Fle-
chia, pur mi sembra di dover notare: che, imprima, se la voce fosse venuta
all'aretino da altro vernacolo di Toscana (cfr. civéa)^ il non avervisi 1'^ sa-
rebbe argomento di poco o niun valore ; e che, d'altronde, per quanto concerne
la morfologia, v ornarla (vom-aria) potrebbe derivarsi dalla riduzione nomi-
nativale *t3ome, della quale v'ò traccia (v. p. 428 n.), e così essere non meno
normale di quel che sia il frc. lumière dalla riduzione lum^ o l'ital. lamiera
dalla riduzione lama = lamna.
Ricordi bibliografici: 9-10. Saggi aretini. 449
pecorajo 68, stéo stajo 126, péon pajono *pdrjono 124 (all'incontro: moje muore
*morje 9Q)\- paglièa e 45 47, massèe raassaje 49. VL Assai notevole il pro-
dursi di kji (ci) Iji nji da TI LI NI anche ali* infuori dei casi in cui sussegua
altra vocale atona. Importa specialmente per la formazione dei plurali in -t.
Quindi non solo beschia bescliieme bestia bestiame, crischieno cristiano e 50
55, chiéne tiene b toc. (s. tienère) ', ma eziandio nepocchi nipoti, col fem.
nepocchie (onde il Redi inferiva i sing. nepocchio -a), e in un saggio di cor-
tonese montanino: suddici sudditi (Pap. 91), e altro vedi qui appresso. Ana-
logamente: Dio le sperghi = *sperdi sperda, *Dio le ammazzi', b 74, chiuggh}
♦chiudi chiuda 40. Per (;t = LI (LLI): huglico bellico e 53, e nelle ottave
del Lappoli: rascegli rastelli, e così tutti i plurali di codesta uscita nel Billi:
figliogli 40; pogli polli 32, débigli deboli 6 (cfr. me burgli mi burli 79);
colpevegli colpevoli Pap. 86, rompecógli ih. 87*. Ma nei versi del Cerro ab-
biamo -glie = -LI (LLI), e cosi '•gne = -ìil: occhieglie occhiali 51; frateglie
45, capeglie 52; vilggne villani 50^ cr ischio g ne cristiani ib., guadrigne, mon^
togne montoni, bogne^ 46, ecc., e anche occhie occhi 51, laddove negli altri
tipi ò schietto T-t: buchi 47, denti ib., campi 53, nostri 55, ecc. Il perugino
ci darà anch* egli "Ije per -LI e -nje per -NI, ma insieme ci dà pure -e per
T-I cui preceda altra consonante qualsiasi: ant. perug. fratelglie m 7, capel^
glie cappelli 30, martilglie martelli 39; glie cieglie li cieli 47, crudeglie 39,
apóstoglie 29, dgnogle 52, miràcogle 6; pangne panni 51, angne anni ih.;
gle chiavegle li cavigli (chiavigli) 28; occhie òO; prodigie 6; chiave 39, de-
sciplinaie ìì^ predecatore 25; qtiagle siano chiamate consogle dei mercatante
a' 528, coloro et guagle fanno et capelgle 529, con tagle ordenamente 531,
colgle Savie 528, dei pangne vecchie^ dei pesce^ dei merciare^ dei fabbre^ ib.»
e air infuori del plur.: Jegie Jesi a' 71; mod. perug.: tutt^ quiglie o quille
tutti quelli, cerig omenacce certi omacci, di torte dei torti, gli altre^ ecc.* Ora,
' Questo esemplare ritorna anche nel pistojese e nel lucchese. Lascio, del
resto, i confronti alpini e piuttosto ricordo il romagnuolo, ap. Muss. §§ 148
153. Dair aretino si aggiungerà vochiète vuotate b 66, che risalirebbe a *V0'
tiare^ anziché al voitare di Guittone, dove d anche da notare disipiéto^ dissi-
pato, ib. E non sarà fuori di luogo che qui si ricordi pur Chieti = ^Tiéti Teate.
E a Pesaro la bella fase intermedia: vulantjir (S. Sepolcro: volenchieri)^
manjira^ e cosi pansjir. Ancora allegherò per n=:MJ: chian. bastigna ba-
stignere (b); e per n = *n/J' = MBJ: perug. *nné scagno^ riet. 'n-cagnu^ dial.
d'Albano *n cagna^ in cambio.- Al Ha Ile lié^ lei, che di sopra incontrammo
per varj dialetti (p. 444 u.), qui risponde glie b 104 124, Pap. 87 89, cu-liei
hu^gliei Redi, glièie glièje Pap. 86 88 (cfr. méte me 86, téjc te b 48; e ant.
perug. lieie m 53).
* Nel saggio di Alatri (Pap. 388-9): omegni^ e altro di simile; e omegni
pure in quello di Veroli (ib. 404-5).
' Quest'-é si estende anche pel territorio viterbese.
450 Ascoli,
dovremo noi semplicemente conchiudere, che nella parlata aretina (cortonese),
rappresentata dal Cerro (Tomia), Tantico -t -volgesse in -« ne* soli casi in cui
era preceduto da suono palatile, laddove nel perugino pur ne* rimanenti ? La
cosa non resulterà per vero così semplice, ma insieme resulterà più istruttiva.
Imprima ò da avvertire, che il fenomeno di "Ije da -LI e -nje da -NI, il quale
ò a ogni modo un altro e importante criterio per la connessione arezio-perusina*
va essenzialmente ripetuto da un* età in cui 1*-» ancora schiettamente riso-
nava'; e il vero sarà, che alle uscite palatili Iji nji si aggiungesse un*-« epi-
tetica, così a un dipresso come si vede dopo il dittongo o trittongo uscente
per t negli ant. perug. deie dei m 8, puoie poi 8 15 39, suoie 9, date giudeie
37, e altri. Sarebbe stato un procedimento particolare, da non confondersi con
quello deir-t in -e nelle uscite in cui s*ha consonante diversa; e così si spie-
gherebbe che Tuno de' due fenomeni si possa trovare scompagnato dalFaltro.
Qualche altra varietà cortonese mostra ancora ben manifesta, per tutti gli al-
tri tipi, codest*epitesi òeWe ali*-» di plurale. Così in un saggio di cortonese
piaoigiano (Pap. 88-9): verte veri, passie passi, tempie tempi, cerchie scel'
iar^cchie corti scellerati (v. sopra), tanchie sbeffie (sing. sbeffo) tante beffe,
^lOitc^t^ giunti'; ttwematoccie, crischiegne (che dunque sarebbe: crischieni-e)
cristiani; »a: :gU altre^ che é però come corretto dal degV altrié^ degli al-
tri,, che è in un altro saggio di cortonese pianigiano (ib. 89), insieme a
quanta qtiantì *. TU. Di fonologico s'abbia qui ancora la tendenza a
far gutturale una palatina secondaria: ghissimino gelsomino b voc. 1 1, Ghiesù
Pap» 86, fé *gghìustis%a (Castigl. fiorent. ; e così ghiustisia a Città di Ca-
stello), ìb. 87; dove pud anche ricordarsi sperghi da *sperdi ecc., che avemmo
nel precedente numero, in confronto del romagn. rimegi rimedio, ecc., e an-
che venchi vinci b 108 *. Vili, Un particolare morfologico, di qualche
* Dico questo, senza dimenticare gli esempj di LE etimologico in Ije^ che
ci occorrono nella nota che segue.
* Nella versione cortonese del ^Dialogo** di Zuccagni-Orlandini: passie^
«tfiTitorte, vostrie, vostri, [cucchierie] ; occhie^ puochie pochi ; quarchie quarti,
fmschiés finichie^ f nicchie^ piaechie (I. piacchie piatti); torghie tordi, t co-
m^u^4hi4\ oltre caoaglie^ coUeglie^ coi linzuoglie^ cahogne, garufegne; e
.*utch« ^ HHftfiglie^ stuccheveglie sing., stucchevole, oltre glietè levare. —
ymalffi-tt^\ tlal ^Saggio' dei Caix, p. 128: corton. tucchie tutti, sanchie santi,
* ^^Uk ^ t^d r antico perug. de vetrie.,. m 29?
^ ij^titt H^ruit# ricolmano le ant. perug. moga egli muoja m 39, maghe'
Hm^ t^ iMtk^àik i^% ^ dighe *degi debbi tu debba, ib., degga^ debba (3. pers.)
v' ^ UtjfiWIHi^ ^ ^* allato ad aggia 28 31, m 40, aggio 41 49, veggio 49
>i* cìK it cOi^ nn^yM Aroh. II 135, e neirital. : tenga vegga, allato a (egna
Ricordi bibliografici: 9-10. Saggi aretini. 451
momento, d poi la grande frequenza di quella che si suol chiamare la
^sincope del participio perfetto di prima conjugazione', come ha la lingua in
tocco =: toccato e simili. Or se fra gli idiomi letterarj questa elegante pro->
prietà d pressoché un privilegio dell* italiano (cfr. Diez gr. IP 152-3), si
troverà poi difficilmente alcun vernacolo dell* Italia, o pur della Toscana, in
cui essa resulti piii cospicua di quello che è neiraretino. Duole, a ogni modo,
che manchi ogni studio intorno alla geografia e alla statistica di questo fe-
nomeno; e perciò m*d forse facilmente perdonato se qui avventuro, in una
nota, qualche altro mio cenno *. Anche dal versante adriatico potò il Mus-
safia addurci dei belli esemplari (Romagn, nitind, § 256): faent. l'ha ciap
ha chiappato. Ve scap i bo sono scappati i buoi, e altri, che giova aver
qui rammentato. Ma or si vegga la serie d* esempj che il mio materiale
aretino, pur cosi scarso, mi permette d*ammaunire. Dal saggio del Lappoli:
arcàico ricollocato; dagli odierni: le parte eno tocche e 47, v' hon magno
V* hanno mangiato 50; la notte varca la notte passata (varcata) b 24, a quel
' Forse il senese e il lucchese si potranno misurare coli* aretino, o anche
superarlo. Nel ^Dialogo' dello Zuccagni-Orlandini, la versione senese dà i se-
guenti esemplari : mi so' levOy mi so' fermo, cappello uso, unciò [non ci ho]
trovo, ho compro, ho piglio, ha incontro;- la lucchese con minore abon-
danza: ha incomincio, ho sarto il letto (saltato?), ha duro, ho trovo, ho
compro; cui s* aggiungono, da altro saggio lucchese nello stesso libro: ha
penso, gli han mando, ho lascio, mi son butto;- laddove la pisana non offre
che un esempio solo: ho compro accanto ad ho comprato, e la fiorentina non
ne offre nessuno, nò alcuno ne occorre in un altro sagginolo fiorentino che
le si aggiunge. Ma non ne dà nessuno pur la cortonese, comunque spetti al-
1* ambiente aretino o chianajuolo. Per il fiorentino, c*ò anche il comune lin-
guaggio letterario che non lascia arguire una vera frequenza. Nei saggi
pistojesi del Nerucci ho poi incontrato: m' è scappo pianto 113, e se v'ho
gwisto i' sonno 168, me l'ha regalo 171, e vu' m'ate rinserro 171, è rin-
verò 208, tu te lo sie' guadagno' 184, t' ha muto 205, l' ha mand'una lettera
223. — E dalle versioni del Papanti, mi son finalmente notato quanto segue.
Lucca: ebbe conquisto, me l'avrai insegno; Montale (Pistoja): arebbe
butto, 'ghi fosse casco i' sonno; Montalcino (Siena): fiato butto; Arci-
dosso (Grosseto): fu-ne chiappa, fatica butta; e anche a S. Lorenzo Nuovo
(Viterbo): avrebbe butto, — Qui, del resto, non si può discorrere della ra-
gione istorica di queste forme apparentemente ridotte ; ma d intanto manifesto
da codesta raccolta d* esempj come non si regga, o almeno scompaja, nell'uso
toscano, la distinzione ideologica che si voleva stabilire fra il tipo desto e il
tipo destato, quando cioè si determinava che non si avesse Tuso promiscuo
de* due tipi se non in quanto il vero participio viene alla funzione di agget-
tivo, così da tenersi per modo legittimo io era desto = io era [mi trovavd\
destato, ma illegittimo io l'ho desto (v. Quintescu, nell* Archivio di Herrig,
t. XXXVII, 197-202).
452 Ascoli ,
ch'é varco al passato 76, l'acqua cKé varca 34, é varco il rigo 82, t'ari stroppo
t'avrei rotto (strappato; stroppare strappare, voc. 19) 56, gli hén chévo «on-
gue gli haDDO cavato 56, un m* ete parlo non m'avete parlato 58, Vesti scorda
l'aveste scordata (di strom. music.) 10, s*era ardormento (faent. indurment
addormentato) 90, lu te parrà ardormento 112, m' héno agrappo m'hanno
aggrappato 90, nun me fussi adirizzo dirizzato 106; avv'arquisto^ avv'a^
quistOy ebbe racquistato acquistato, Pap. 86 88, fadiga butta fatica gettata
(buttata), 86, tempo butto 88 91, se fusse svegghio si fosse svegliato 86, nun
ci aéte chiappo non ci avete dato nel segno (acchiappato; cfr. il faent. ciap
addotto testé) 90, aribbe mandi avrebbe mandati, s'era rivi s'era arrivati, 91.
E riassumendo finalmente il nostro discorso, noi abbiam dunque, al versante
mediterraneo dell' Apennino, in una sezione del vero territorio etrusco, ciod
nella regione arezio-perusina, dei cospicui caratteri gallo-italici o emiliani,
i quali entrano naturalmente a far parte pur di quello schietto tipo gallo-
italico che occupa nel versante adriatico la valle del Metauro. Ma entro a'
confini della Toscana moderna s'aggiunge poi, da nord-est, a quel versante,
un territorio schiettamente gallo-italico, la Romagna toscana (Modigliana,
Firenzuola, ecc.), la quale d veramente, anche nell'ordine dialettologieo, parte
integrale del territorio emiliano, e tocca appunto, dal nord, la valle del Me-
tauro, sovrastando insieme al territorio aretino. Ora si chiede: L* elemento
gallo-italico, che si propaga per l'alta valle del Tevere e con Arezzo e la
Chiana tocca il Valdarno superiore, dipende egli per intiero dalla sezione
adriatica che dicevamo metauro-pisaurina e non si distende per il territorio
d'Arezzo se non come una vena della parlata perugina, oppur s'insinua egli
direttamente, in qualche misura, dal versante adriatico all'aretino, e anzi da
altre sezioni di quel versante, che son più a tramontana? A queste parreb-
bero intanto più specialmente accennare Vei di cui si toccava a p. 411-12 S
e le sibilanti di sariegia^ ciliegia, zongo (allato a gionco)^ giunco, dusi
duca, che son nel vocabolario del Redi. Non posso io poi per ora vedere se
le varietà perugine offrano anch'esse delle prime plurali in -no, come le dà
costantemente YaLveiìiio: pigliano pigliamo b 84, faciéno facciamo 94, varchién
(dinanzi a consonante) 12, ajéno abbiamo 40, sién begli siam belli ib., f ariano
faremo 96 , arién ditto avrem detto 90, arvedariéno rivedremo 96 ; penseno
pensiamo, corton. Zucc.-Orl. (ant. perug.: pregamo m 52; acciò che pariamo
44, giamocie andiamoci 49, posamo ih, ^ piagnamo e feciamo 38; laudemo
32, facemo 34, semo 34, avemo 46, dicemo 44; anderamo condiz. 52; pode^-
semo 52). Nò so ben dire quanto si estendano, nel tempo o nello spazio, le
' Notevole, a questo proposito, Vai da e nella formola EN, che é nel cor-
ton. baine ap. Zucc.-Orlandini. h\i dall' ^ delle formole EMP ENT risuona
poi, all'altro versante, pur nei rimin. i teimp^ cuntcinta^ Pap. 227.
Ricordi bibliografici: 0-10. Saggi aretiui. 453
prime plurali in -no di cui pur s* hanno esempj nel Nannucci ( Saggio del
prospetto ecc.: abbiano 22^ siano 223, poniano vogliano stiano' crediano
379; avevano eravdno stavano sapevano dicevano 47 244; avereno sareno
direno (areno vedreno potreno 92 281 ; avessino fossino potessino dicessino
volessino 120 305). Ma se la ragione di questo -n- deve ripetersi, come par
certo, dalla forma apocopata (p. e. abbidm abbiàn abbiàn-o), e se la costanza
di questo tipo d caratteristica della regione in cui siamo, non sarà egli na-
turale che si pensi air-en che ò nelFaltro versante apennino {sen siamo, ecc.;
cfr. p. 397)? * Ad ogni modo, dato che nell'aretino s'abbiano dirette immis-
sioni romagnuole o emiliane, per qual via sarebbero queste avvenute? Pei
pas» apennini che mettono alle sorgenti dell'Arno ? Non parrebbe, se badiamo
a qualche vaga indicazione circa il dialetto Casentino'. per quei passi che
potrebbero convergere alle sorgenti del Tevere ? Il saggio che s' ha di S. Se-
polcro (Pap. 91-2) non arriderebbe, dal suo canto, a quest'ipotesi, ma po-
trebbe significare men di quello che a prima vista paja. Ci ajuti chi pud; e
di certo potrebbe, volendolo, il Billi, che già ebbe campo di mostrarsi molto
sagace e molto accurato.
H. Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, raccolti ed illustrati da
GitÀseppe PiTRÈ. Con Discorso preliminare, Grammatica del dialetto e delle
parlate siciliane. Saggio di novelline albanesi di Sicilia e Glossario, Quat-
tre volumi, in 8*; Palermo, 1875.
12. Canti popolari di Noto, studii e raccolta di Corrado Avolio; Noto,
1S75.
Nessuno, meglio del Pitrd, potrà dire col Salmista: inclinavi in parabolam
aurem meam\ e il suo nome, che da parecchi anni risonava onorato tra le
file di coloro che studiano con serj intendimenti nelle letterature popolari, vi
ai farà per certo uno de' più famosi dopo la pubblicazione di quest' amplis-
sima raccolta, condotta con così grande amore e tanto squisita dottrina. Pur
degli studj intorno a' quali più specialmente V Archivio s'adopera, d grande-
mente benemerito il dotto siciliano, che lor porgeva un'assai larga messe
' L'aretino ha rimare^ romore (Redi); e nell'ant. perug. : gridò el populo
a-rremore^ a-rremore tucte gridavo^ m 39. Anche la Crusca ha rimore y con
esempj di Francesco da Barberino; e il romagnuolo armor^ alla sua volta,
presupporrà di certo: ^remór. Notevole la grandissima estensione di quest' e
od t nella prima sillaba dei continuatori di rumore-. Cosi d remór nell'ant.
venez. e nel trentino; e pur nel córso: rimore Tomm. 206; e ne ha sentore
anche la Sardegna, nel campidanese remóriu =: romàriu rumore (cfr. Arch. I
220 n.). — Noterò qui ancora l'aretino ^gniscòsta argnicòsta (a T), di nasco-
sto, di sotterfugio' b voc. 11, allato al faent. gniscùs nascoso. Ma ò anche a
Roma: nisconne nascondere, Pap. 398.
* Vedine ora il saggio di Papiano, Pap. 567.
454 Ascoli,
di schietti saggi delle Tarie parlate dell' isola sua. Ed ha egli anche eereaio
di giovare più direttamente a codesti stndj, con la bell'appendice lettieogra-
fica e con l'apparato grammaticale premesso alla sua collezione. Il qaak
consiste de' seguenti tre lavori: la traduzione della Memoria fonologica del
Wentrup (p. clv-lxxxiii); uno schizzo originale, sulla fonetica delle Tarie
parlate (cLxxxiv-cciii); e un altro schizzo originale, che versa intorxko alle
forme (cciv-xxx). Pur di tutto ciò gli devono essere ben grati i dialettologi; e
il terzo di questi capitoli, in ispecie, d per essi un regalo de* più opportom.
Che se intorno al primo, e per averci V Archivio un po' di rimortOi, e anche
un po' per non disubbidire a ciò che par voluto dal decoro de* nostri stndj,
si rende qui inevitabile una qualche censura, tutto però si ridoce a tal tosa
che ha assai facile rimedio e punto non scema l'importanza del libro e la
molta stima che s'd giustamente guadagnata il suo operosissimo antore.
Nel Saggio ^sul posto che spetta al ligure entro il sistema del dialetti ita*
liani* (Arch., II 111-60), si é dato uno schema fonetico pur del aardo e del
siciliano, affin di agevolare l'intelligenza di ciò che si veniva dicendo iatorao
all' idioma che formava il soggetto di quello studio ; e lo schema s'ananaztava
per 'molto sommario, di certo, ma pur tale, che bastasse compiutamotte al
^ caso nostro, e anche ne avanzasse (p. 132).* Nelle parole premease allo spo-
glio siciliano (p. 145), si citavano le fonti a cui pensatamente Tautore sa li-
mitava, e avvertivasi che non gli era venuto fatto di consultare la mooognàk
del Wentrup. Ciò indusse il Pitrò a lamentar che nell'Italia continentale imi
troppo scarsamente conosciute le cose di Sicilia, e ciò deve anche aver eoe-
tribuito a persuaderlo dell'opportunità o della necessità di ammannirci tri-
dotto il lavoro dell'erudito tedesco. Ma com'era una sobrietà, che provAÌva
da libera scelta, e non dalla scarsità de' fonti che fossero qui in Milano ac-
cessibili, quella a cui io mi riduceva nel detto 'Saggio*, co&ì io poteva fa-
cilmente presumere, che il mancarmi lo studio del Wentrop non mi dovent
nuocer più che tanto, poiché di materiali siciliani ne avevo a suificieaia, e
l'arte di adoperarli non ò ignota in Italia, e dal 1859 impoi, cioè dal tempo
in cui si pubblicava quello studio, ha fatto naturalmente de' grandi progrestt.
Il mio quadro non sarebbe riuscito più ampio, né diverso in alcun modo, n
io pure avessi conosciuto, mentre lo componevo, la monografia dell' autore
alemanno; la quale, pe'suoi tempi, gli ha fatto molto onore, ma, senza sss
colpa e senza alcun merito mio, sottostà, per varie ragioni, al rapido schino
deirArchiDio '. Ed ora avviene che il lavoro tedesco sia offerto all'Italia,
* Cfr. le aggiunte di Picchia, a p. 393. II Wentrup ed io ponemmo ti-fM-
tnula per esempio di i in e. Meglio valeva por menu meno, col Flechia; poi-
chò in realtà non si continui io-s(mul, ma in-sémol, onde TiV dell' ital
insième^ che s'd considerato più sopra, a p. 407.
Ricordi bibliografici: 11-12. Saggi siciliani. 455
colo senz* alcuna di quelle emendazioni ed aggiunte, che tanti Italiani gli sa-
prebber fare, ma eziandio voltato p.er modo che anche i più esperti non tì
si raccapezzino facilmente, e tutti dubban convenire che assai di rado 6*é
Tista più chiara la ragion della vecchia e severa sentenza: traduttore ^ tra-
ditore *.
Ma non dobbiamo mai dimenticare, che i lavori grammaticali costituiscono
un accessorio, non punto essenziale, nelPopera del Pitrd, e che pur codesto
accessorio, ofiTertoci da lui con tanta modestia e con così schietto amore per
gli studj siciliani, riesce in effetto di non poca utilità, come in questa stessa
raccolta si verrà in più occasioni mostrando. Anzi sin d'ora ci giova notare
il fenomeno di GA in Ja, avvertito dal Pitrè in parecchie parlate siciliane
(p. cxciv, cfr. AvoLio, p. 9), come più sopra era da noi avvertito nel córso
.e nel sardo (p. 135-6). Ne esce una delle concordanze più cospicue che sien
tra i nostri parlari isolani. 'In Messina, dice il nostro autore, Milazzo, Noto,
^Sciaeca e parte in Erico passa (il g di GA-) in jijamma gamba, jaridiu
' garetto, jarjiuni garzone, jalera galera, jaddu gallo, jaddina gallina, jatta
* gatta. Nel mezzo: majuzzcni (Milazzo), majasenu (Sciacca) magazzino, pa-
^jari (Noto) pagare'. Non pare che questo fenomeno sia da mettere in diretta
relazione con quello della palatina che nel francese o nel ladino subentra alla
gutturale delle formolo CA e GA; poiché, dalKun canto, il fenomeno insulare
81 limiterebbe ad esempj di ga (primario o secondario) inj'a; e, dalF altro*
sempre per il solo g (non mai per e), si estenderebbe anche ad altre formolo '•
Così nel notigiano: ajru^ agro, e luonju *lonju lungo (Avolio, 9 31), ai quali
non aggiungo sagnu^ sangue (ib. 31), siccome esempio che facilmente am-
mette una dichiarazione diversa (sang[u]e sange ccc.)< Anche ò notevole una
' Non posso sfuggire a uno degli obbIi<^hi più incresciosi, che d quello
di allegar delle prove, quando si tratti di un tal giudizio e di un caso com'è
questo. Ma potrò almeno esser breve. A p. clxxxii si legge: 'Il dittongamento
^invece àeWe e dell' te ha luogo tanto nella sillaba aperta come nel toscano,
^quanto nella sillaba chiusa come nel napolitano'. E l'originale (p. 165): 'non
'ha luogo nà in sillaba aperta, né in sillaba chiusa'. — A p. olxxi: 'o per
^ragione di posizione: sc\ L'originale (160): 'o per metatesi: 5c'. - A p. clxxv:
'Si trova in posizione'. L'originale (162): 'È trasposto'. — A p. CLXXi: 'ci-
' minia^ lat. barb. caminata, frane, cheminóe, pj'obabilmente il frane. Lehnu-
' vort'. L'originale (160): 'probabilmente voce presa a prestanza dal francese'
(cioè, con parole tedesche: franiosisches lehnwort),^ A p. clxxv: 'fptrdti,
'spiritus, spirdari^ dal ted. Stamme'. E l'originale (161): 'dal tema stesso'
(eiod, con parole tedesche: von demselben stamme).
* Qualche esempio di Ja- in luogo di GA-, che mi occorse in iscritture
del continente napolitano, può essere illusorio, e risolversi nell'aferesi di g
('atta) e j intruso (la-j-atta).
45G Ascoli ,
particolar riduzione del nesso FL, o meglio dello s che ne ò il normal con-
tinuatore siciliano, la quale occorrerebtt^ nella sezione occidentale dell* isola,
e parrebbe coincidere con quella che é caratteristica della Calabria. Il Pitré
cosi ne scrive (p. cxci-ii): ^Ora in molti comuni della provincia di Girgenti,
^ in qualcuno di quella di Caltanisetta, e per la provincia di Palermo in Val-
< lelunga ecc., passa questo FL in una specie di x albanese: -xiatu flatus,
' 5^iwmi flumen, fiamma fiamma, %iMri florem, x^ancu flanc-.' Dov'è da ricor-
dare che gli Albanesi di Sicilia, i quali appunto sono in quella regione, di-
cono 'xJdur = sic. sdurit^ calabr. hhiavuruy *fiàvuru, odore (v. Cam a.rda, Gram-
matol. alban.^ I 71, Schuch., Zeitschr.^ XX 256: A., Sludj crit.^ II 184). Giova
poi la serie d*esempj, ne* quali d sicura e manifesta la prostesi di n {ngranni
grande, ecc.; p. ce), a persuader viemeglio che tniatu (mmiàtu)^ beato, sia
*m-beato, v. qui sopra, a p. 150. Ma non è per ^epentesi' d*t che scabbia
finciu fìngo, tinciu tingo, strinciu stringo, ecc. (p. CLXXXix); bensì ò la prima
persona eh* entra nell* analogia delle altre due, com*d p. es. anche nel Tenez.:
strenzo strensi strenne stringo ecc., o pur cresso eressi eresse cresco ecc»
(cfr. assippillisciu^ AvoLio 147). Né per tannu^ allora, andava fatto alcun
tentativo etimologico a p. ccxxviii, dopo essersi riferita, a p. clxxvi, la giu-
sta dichiarazione del Wentrup, che vi riconobbe anch*egli una formazione
analogica, foggiata sopra quannu quando.
Air esempio del Pitrò par che s* ispirasse anche TAvolio (p. 354), e non
sarebbe picciol vanto Taver di tali seguaci. L*Avolio si professa poco men
che digiuno di severe istituzioni glottologiche; ma in effetto palesa, massime
nelle prime trenta pagine, un* attitudine e una maturità veramente singolari
per codesta maniera di studj, sì per la sobria e lucida e sicura esposyciooe
de' fatti, e sì per il modo che vi ragiona intorno. Di certo, ove perseveri in
cotali indagini, egli si farà sempre più cauto; ma non d men certo, che egli
vi riuscirà come gli eletti riescono. Di alcuni fenomeni notigiani, che da lui a
buon dritto si fanno risaltare, credo tuttavolta che di gran lunga non abbiano
tutta r importanza che egli lor vorrebbe assegnata. Alludo in ispecie alla riso-
luzione di CL, che ò é nel notigiano, laddove è kj nelle altre parlate dell* isola;
e air essere la media palatina (g) affatto estranea al notigiano, che dà ghe
ghi ecc. per gè gì ecc. delle altre parlate. Il primo di questi fenomeni, a
dirla qui di passata, non ò, nell* ordine fisico, se non la solita risoluzione
dell* esplosiva gutturale che in una fase anteriore riesca intaccata dalla con-
tinua palatina; e abbiamo così le serie seguenti: 1. ke ki (primitiva pronunzia
.dei lat. CB CI), kje hji (cfr. in ispecie Talbanese), e finalmente ce et; 2. ha
che per T intermedio kja si riduce al ladino ca ecc.; 3. A/, che per klj si fa
/;;' e indi e. Neil* ordine storico, e limitato il nostro discorso agli esiti di CL
(esempj notigiani: ciavi 145; ciamari 147; ciaru 289, ciara 300; e corrispet-
tivamente, pur nell'esito di PL: ciantdri 141, dna piena 125), il toscano ci
Ricordi bibliografici: 11-12. Saggi siciliani. 457
offrirebbe Io schietto ?ij; il solito siciliano e il napoletano una gradazione
più avanzata verso e (Arch. II 155); e lo schietto e sarebbe tra' Sardi, com*d
poi ne* vernacoli settentrionali (Arch. ib.). Il proferimento notigiano resulterà
perciò solo in tanto notevole, in quanto la Sicilia per esso anticipi la evolu*
zione che pur nella corrente insulare già sapevamo compiuta dal sardo. Quanto
al secondo fenomeno, giova imprima formularlo per bene, e mi par che es-
senzialmente dovrebbe farsi ne* termini che seguono : Dove la solita parlata
siciliana mostra g nelle risposte dei latini GB Gì, sieno esse popolari o di
voci che la cultura abbia importato, e cosi pur dove T abbia per risoluzione
d*altre basi etimologiche (v. Arch. II 146-7, n. 16), ivi il notigiano offre gh; e
dove la solita parlata siciliana abbia j, oppure oscilli fra j e //, sia nella
continuazione di GÈ Gì, sia in quella d*altre basi (v. Arch. II 146-9, num. 15,
16, 23), ivi il notigiano, o resta a j\ oppure oscilla fra ; e gK Do ora degli
esempj notigiani, che ho scelto per modo di evitare la ulterior complicazione
d*un possibile effetto de* ^monosillabi forti' che precedano a palatina iniziale:
sparghiU spargete 131, arghientu 124 146, né ligghi né firi nò legge né
fede 156 307, Ughiennu leggendo 307, lighilla leggerla 308, vigghilia 304,
rigrjhina 123 143, li ghienti le genti 102 315, ri ghintiliiza di gentilezza
162, la ghirai la girai (circondai) 292; cagghia gabbia 292, Ugghi leggieri
289, sagghiu saggio 315, agghiu e aju habeo 123 145, vaggkiu e vaju ♦vad-
-jo vo 138; ghigghia (solito sic. gigghia) ciglia 125 137; fujemu'ni-nni
fuggiamcene 132; tu jurici il giudice 166,JiMrtci 169, ghiurica giudica 235;
ri jinnaru di gennajo 126^ jittari 132 300^ jettu 147 308; ecc. Le condizioni
del notigiano qui pur costituiscono come una specie di anticipazione sulla
Sardegna, dove nel dialetto logudorese si risponde, a cagion d'esempio, con
ispdrghere al notigiano spar ghiri, e con fuire al notigiano (siciliano) fùjiri '.
Ma nel logudorese s*ha la gutturale anche nella serie della tenue: chelu
cielo, dulche, deghe dieci, seighi sedici, laddove il notigiano ci dà in questa
serie il suono palatino: celu 213, a-ruci dolce 147, réci dieci 248, sirici se-
dici 123. Quanto poi alla pretesa antichità di codeste gutturali notigiane
e logudoresi, altro per ora non mi permetterò se non di ricordare ciò che
intorno alle serie logudoresi già ebbi a dire qui sopra, a pag. 143-44.
Avverte ancora l'Avolio (p. 4): 'In molte parole Va che porta l'accento,
*si cambia in e: siminériu, gren grande, culenti colante, lavannéra lavan-
^daja, ecc.' Il fenomeno sarebbe di molto momento, senz* alcun dubbio; ma
io non sono perauco riuscito a trovarne esempj ne' Canti notigiani; e dei quat-
tro eh»- l'Avolio adduce, il primo e 1* ultimo non fanno al caso (cfr. Arch. II
* Qui andrebbe toccato pur del córso ; ma per ora debbo limitarmi a ram-
mentare gli esempj che da questo dialetto s'allegarono a pag. 134, num. 2.
E va anche ricordato 1* aretino; di cui a pag. 450, num. VII.
Archivio glottol. ital., II. 30
458 Ascoli, Ricordi bibliografici: 11-12. Saggi siciliani.
145, n. 2), il secondo d sicuramente una forma proclitica, e il terzo pò-»
irebbe essere illusorio e altro non rappresentare se non quella deviazlcHie
morfologica che si riproduce neirit. tagliente ecc. (Arch. I 544 6, II 133).
Parrebbe, all' incontro, bene accertata questa alterazione per la varietà di No-
vara (Sicilia); ma gli esempj, che ne adduce il Pitrd (o. e, glxxxvi), non escono
dalla formola K-\'nas,^ o in posiz. o fuori: q'uennu quando, dumennu domanda
\sentu santo}, peni pane, femi fame. Di ab +con5. in ér siciliano, t. qui so-
pra, a p. 398. Finalmente, il fenomeno notigiano di str in s: masu ma-
stro 14, -finesa finestra 121, ì>osi Tostri 121, vosa 122, addimusi 147, si ri-
produce anche nel continente napolitano, in Terra d'Otranto. Ecco esempj
spettanti a questa contrada, che ricavo dai Ckmti popolari delle provincie
meridionali, raccolti da Antonio Casetti e Vittorio Imbruni: voiu vosa 138
paternosi 175; fenesa 169 170 290; menesa minestra 94 231; musate mostrati
166, ti muesi ti mostri 321 418; mesu-d'-asa maestro d'ascia 226; seppau
sippau 319 320, cui risponde, in altra variante, strappau strappò, 319*
G. I. A.
INDICI DEL VOLUME.
PI
F. D'Ovidio.
I. Suoni.
d fuor di posizione in é (ce)^ ne" ver- tieolo (sardo) : 142; d'intera sillaba:
nacoli metauro-pisaurinì : 444; in 37-41, 41 n, 319.
parlate chietine : 445 ; nel perugi- di: vedi s. d fuor di pos., s. d di pos., s.ce.
no: 446; nell'aretino: 446, 447; ai in a: 381 n.
avanti nasale in una parlata sicil.: air- piem. da acr": 123 n.
457; negF infiniti piemont.: 113; per aint friul. da anct: 441.
assimilazione morfologica: 133; per alt intatto, o in at: 134, 139.
effetto di t contiguo o propagginato: al + cons. in d{u) + cons. : 1 15, 145.
57, 113-4, 133. Vedi ancora sotto dn in àn: 113; cfr. 133.
ce. Circa Vd in o: 334. Apocope, d* intera sillaba : 35 n, 45';
a bregagl. per ogni postonica interna: di ti (o) ed e: 120, 152-3.
443. dria, drio: 115, 343; 134, 137, 139,
d di posizione in ^, avanti r: 113, 133, 145; 448. Vedi ancora sotto rj\
144-50, 396, 398, 399; avanti na- Assimilazione: 325, 339,343,367n;
sale: 457; per assimilazione morfo- esercitata da suoni palatili, 401-2.
logica: 133; per effetto di i ante- Attrazione: 113-4; 115, 145; 120-1;
cedente : 133, àij propagginato: 138. 136-7; 138-9 ; 396.
Vedi ancora sotto ce^ uob, du^ intatto: 139, 145; ridotto ad d per
a fuor d'accento, in t: 350; in o: 343. effetto di u che sia nella sillaba se-
Accento, ritratto: 4-5, 133, 138; guente: 139; in ó: 119, 145.
avanzato: 9 n. au atono, primario o da al[t]^ si fa in
ad- in ar-ì: 19. sicil. tio, se preceduto da e: 145.
oc tonico, continuato per semplice e: au sicil. da o atono iniziale: 146. E
116 n, 145. vedi óu.
ce genov., apparentem. da d, e in- b^ sempre doppio in alcuni dialetti:
vece da de, di di f. a.: 114 n. Vedi 86 n, 150; *6- in 'Pp-i 150; b in
uce. v: 150.
Aferesi, di vocale: 4, 355 n, 356, ft da e: 141, 147-8.
362, 366 n; di /, scambiato per ar- b da g. Vedi ge^ gi.
tieolo: 435; di «, scambiato per ar- bj» in ^-: 121; in J-, ghj'i 147.
460
Indici. — I. Suoni.
'bj' intatto, o in -gy-^ o in -ggh)-:
121, 147.
bl^ in bj e successivi esiti: 123-4 (e
V. s. bj-, 'bj-)\ in ftr, rr (oltre g-
in gastimari sicil.): 147.
e- dal e di CA, tracce nel piera.: 128
n; esempj cadorini: 441; cfr. 455.
6 da ci: 155, 456; da pi: 123-4, 456.
e da pj: 123-4, 147, 157.
e (k) dair antica palatina delle for-
mole CE ci: 143-4, 457.
e in i: 4, 32 n, 40 n, 128 n.
e nelle formole icà, ice, dileguato:
128, 143, 148; venuto a -^-: 128.
ce, ci: 129, 136, 138, 143-4, 148-9,
435. Vedi anche s. cj.
cj: 129; 138, 139; 149.
ci cU' (e -f /-): 123s 123 n, 135, 137,
140-1, 147, 336, 398, 456.
or da ci: 137, 140-1, 147, 336.
cr- in r-: 143. E vedi s. gr,
-C5-: 126, 135, 137, 142, 148. E vedi
ssj.
'Ct' in 'jt-: 129-30; in ce: 399.
dy primario o da f, dileguatosi tra vo-
cali: 130-1, 144, 153-4, 345; e cfr.
149; d in /: 408.
-d'c- in 'ZS'i 325 n.
di {dj)\n ghi: 449, 450.
Dissimilazione: 47, 48, 319, 325 n,
346, 366 n, 374, 402-3, 429.
Dittongamenti: 87. Dittonghi se-
riori: 441.
dr in rr: 448 n.
é lunga, in éi: 115-16; in i: 166 n,
145, cfr. 398; in té: 56, 441, v. 'dit-
tonghi seriori'.
é breve: 116, 145; ién da cn in va-
rietà friulane: 441.
é di posizione, intatta: 116, 134,
139, 145; in i sicil. {e tose): 146,
cfr. 402; in a: 9 n; in te, entro de-
terminati confini, pur nel proven-
zale, 116 n; esempj cadorini: 441,
friulani: ib.
e toscana,^di posizione, e suoi riscon-
tri: 145-6.
é per o nel dial. di Monaco, e pure
in alcune varietà piem.: 118 n.
é da t: vedi s. ina.
e atona, in i: 5 n, 134, 137, 140, 151,
e cfr. 139; in a: 6, 9 n, 11, 20 n,
50 n, 365; sincopata: 440. E v. s.
'a bregagl.' ed 'Apocope'.
ea in ta, te: 57.
et: vedi ^é lunga', *é breve', 'ens', H
lunga', H breve'.
en atono finale, si riduce nel piem. ad
u: 36 n, 1 19-20 n, 396-7.
éns^ in éis: 116; in is: 145.
Epentesi, di a: 365; di b: 306-7 n;
di d, tra vocali: 149, cfr. 334, dopo
ti: 48, 52, 337; di g: 125; di t: 8 n,
30-1, 114, 134; di m: 4; di n: 34G,
350, 365; di r: 36 n, 336 n. 355,
374; di u tra cons. lab. e voc: 1 13-4,
114 n; di v tra vocali: 152.
Epitesi d'e, dopo -t: 450.
Ettlissi: 119 n, 120, 151, 355; 366 n.
/•in o: 351-2, 373.
fi, intatto: 137, 140; in fj: 124; in
s: 124, 147; in x: 456; in fr: 147.
^, sempre doppio in alcuni dial. : 86 n .
g^ dileguatosi per effetto d'u conti-
guo: 143,' 148.
g (gh) da palatina primaria: 143-4,
457; da palatina secondaria: 450,
457.
g per v preceduto da altra cons.: 125;
per bl: 147; e cfr. rtid-, s. v,
ga^ originario o da ca, in ga^ja^ g^jcLt
nel còrso, nel sardo settentr. e in
varietà siciliane: 135-6, 455.
gè, gii 129, 136, 138, 143-4, 149.
gì ridotto a solo g: 378.
gì-, -g'I-: 123, 147, e cfr. 377.
^7*, ridotto a solo r: 143, 148. E v.
s. cr.
gite in gc jc: 128.
gv: vedi s. qv.
Indici. — I. Suoni.
461
{ lungo, in é^ éi: 37, e cfr. 87. E v.
8. ina.
i breve, intatto: 134, 146; in éi:
117, e cfr. 87; in té ser.: 441. E v.
8. Iti,
i di posiz., 146, cfr. 398; in e dove
neirital. resta i: 447-8.
t atono, in a: 366; in ui 378.
'ido in -p/o, dietro a labiale, in tocì
sdrucciole: 40S.
ie in t: 57 n.
f'n- in en: 1 17.
ina in enai 117 n.
J, intatto: 140; in dy, ghj: 134; in
g: 121; in i: 121, 140; dileguato:
140.
j complicato: v. s. (/, w/, n;, r;, ^J.
Jf ecc. da et nel piena, a nel ligure:
129-30.
l m d: 346.
l in r: 122, 137, 147, e cfr. 155.
linn: 325 n., 332, 357.
Id in //: 134. E v. s. U.
li in Ij: 449-50.
Ij (originario, e anche da e/, gl^ cfr.
122-3), intatto: 134; ridotto a solo
j: 121, 123, 123 n.; in ggìij: 146;
in -g^-: 121; in i: 140; in // (e
dd): 135, 137.
;/ in dd: 50 n, 86, 135, 140.
il da /<2, It, ij: vedi sotto queste for-
mole.
It, io '^: 134; in Id: 319 n; in nt:
319, 340. E V. s. a/*, a/+cons.
/+cons., preced. da voc. diversa da
a: V. s. a/+cons.
ip dileguato nel genov.: v. s. o.
Iz in ^j: 378.
-m in -n: 397, 452-3.
Metatesi, di /: 56 n, 129, 335; di
r: 18, 131, 137, 139, 330, 376; tra
le iniziali di due sillabe vicine: 30,
31 n, 149, 321 n, 325, 325 n, 342.
mb in tnm: 142, 148.
mhj in fi^, onde n: 449 n.
mj, intatto: 127: in n: 127, 147, 449 n.
tnj' da mlì: 56 n.
mm, da nv: 20 n, 147, 148; da mb:
142, 148.
n in n: 127.
n finale in dileguo dopo vocale alona:
127.
n in r: 135, 140, 366.
n in <?: 363 (?).
n+t n+s ecc., da tt zi ecc.: 150.
n in «(£: 337.
*id in nn: 142, 148.
ti^ in gg: 378.
n^?i/ in n : 22 n.
n^r^ in nd: 377.
ni in n/t: 449-50.
nj in ni: 140, in -ng -ne: 440.
nr in rri 337.
n^ in nd: 340.
d lungo in w: 117, 137-42, 146.
<J breve, intatto: 146, cfr. 398; in
6: 117-8; ov in 6\t: 443.
ó di posizione, intatto: 146; in u
sicil. (o tose): 146, cfr. 402; in 6:
118; «enf da ónt in var. friul. : 441.
òu ligure da du di f. a.: 124 n.
pmbQÌnv: 131, 136, 144, 149, 154,
314, 320-21, 326, 330-1.
'pd- in 'tt' : 325 n.
p;, originario o da pi: 122, 123-4,
124 n., 147, 156-7. Come venga a
e: 157.
pi, intatto: 137, 140; in ;}r: 137, 147;
in chj: 147; ridotto a solo /: 359.
Prostesi, deir articolo: 3, 4, 35 n,
36 n, 52, 325 n; di a: 138, 150; di a,
per effetto delPettlissi di vocal pro-
tonica: 120 n., 444, 445, 446, 447^ di
b (avanti r) : 3§0, 382 ; di t (av. a s
+còns.): 145; di n, m: 150; di s: 46,
342 n, 356.
qv, gv: 128, 133, 143, 148, 156.
r, dileguato: 122, 137; in l: 135.
rj: 115, 134, 135, 137, 139, 145, 314-5,
ri in rr: 147.
462
Indici. — II. Forme.
rn in rr: 135, 140.
s in 5': 125.
5, dopo n, in z: 55.
s assimilato a r che gli precede: 140,
e cfr. 141.
-sS in /: 135.
s finale intatto nel sardo: 142.
sce, sci: 126, 135, 142, 143-4, 148,
159.
sj: 86, 126, 127, 142, 149.
-55-, intatto: 125-6; in 5': 142, 148;
in zz: 148.
"Ssj- , originario da C5 , |}5 , in s:
126, 148.
str in s^ 458.
«, dileguato: 131-1, 138, 144, 153-4;
in dd: 136.'
ti (tj) in Jtji ci: 449-50.
(; in gì: 17 n.
t7: V. 8. ci.
tr in cr: 384.
ù lungo in u: 118.
ù breTe e t^ di posizione, intat-
to: 118, 139, 146 (cfr. 398-9); in
o, 0: 360, 399; in dove Tital. re-
sta air ti: 448; — iti intatto nella
posizione, perché sia lungo di sua
natura: 425 n, 430 n.
-u in -d, nel romagn. ecc., 444.
u, tra TOC e cons., in v: 48.
u finale da -en, nel piem.: y. s. en.
uén da dn, én da dn^ uin da un, pe!
tramite di tim[i], win[t], e con si-
gnificazione morfologica: 114 n, 120
-21, e V. s. * Attrazione' e 'Plurali
interni'.
t?, dileguato: 125, 135, 141-2, 150;
in b: 135, 141-2, 147-8; in /: 358;
vuó' guó' góz 441.
vj: vedi s. bj.
tj7, da 67, in fi: 338.
Vocalismo napolitano e siculo 92-
5; sardo: 134.
ru in gu: 148.
z in d: 439, 441.
ze in genov., pel tramite di gc^ da
^we: 128.
/: 135, 158-9.
II. Forme.
Nome.
Neutri in -7W€w, 143, 429 segg.
Neutri in -ti5, 422, 423 segg.
Neutri in -ur ecc., 426 segg.
Mascolini in -wr ecc., 428 n.
^aióre (-ttórc), -dto^ -ório e -atório^
come nel genovese coincidano, 124 n.
^dtum^ "éto^ -éta^ -éda^ -ea, -eja^ ecc.,
42-4.
-on, 'One^ 58, 364.
-tore nel piem., 363.
-ensi-awc», donde -bigiano ^ -ùawo,
-Jan ecc., 12-17.
-itoMO, 16-17.
-wdne in -umne, 431-2.
Temi ottenuti per estrazione dal ver-
bo, 424.
Storia generale della declinazione neo-
latina, 416-38.
Il 'S del pinr. e dei neutri, 417; del
nomin. sing., 423 n.
U-a nel fem. e V-o nel masc. che
s'estendono oltre i confini etimolo-
gici, 9, 39, 42, 46, 55, 57, 124 n ,
129.
Eteroclisia, 427-8.
Genere mutato, 496, 431-32, 440.
Neutri plurali fatti feminili, 43, 426,
431 n.
Tipi nominativali, 419, 428, 433-38,
442, 470 b.
Plurali con distinzione interna, 121,
120-7, 151, 397, 400. Cfr. «Congiunt.
romagn.'
-n di plur. femin: 443.
Indici. — IL Fonn6.
463
m- che 8*aeeompagDa al segnacaso del
dativo, 444, 445-6 ; cfr. sa {s-a) 444.
C- nella stessa funzione, 446.
*uni' ^une', nel signif. di 'alcuni' 'al*
cune', 442.
Pronomi nominativi toscani in -t, 5 n;
enclitici, 404.
He ecc., lei, 444 n., 449 n. •
Verbo.
'tare, 27, 31, 150- i n.
Prime persone di pres. sing. che entra-
no nell'analogia delle altre due, 456.
'$ di 2. pere, sing., 399*, 410, 417,
418 n; plur., 417.
Prime persone pi. in 'én ecc., ^én-o
ecc., 397, 452-3.
Prime persone plurali coincidenti colle
terze, 397.
'•as -US in 2.0 pi. del bregagl., 443»
-en, desinenza lombarda di 3. piur.,
se risponda alK-u piemontese, 120
n. Cfr. il 1.° Indice, sotto -cn.
'Onno, desinenza toscana di 3. plur.
di perfetto, 101.
'P, desinenza forlivese di 3. sing. di
perfetto, 401.
Congiuntivi sardi, 138; romagnuoli,
400-1.
Antitesi fra spagnuolo e sardo, in or-«
dine alle forme forti, 432-3 n.
Participio in -esto, 405-6, 440.
Delle forme che soglion dirsi di par-
ticipio sincopato, 25, 451-2.
Particelle.
Àvverbj affermativi neo-latini secondo
Dante, 73 n, 81.
acsé 5, 6.
ad-retro 6, 7.
aiddr dide 406.
aigua 99 n, 114 n, 128.
alValbasén 2.
ahadór 23.
a mar-io-? U3.
ampa ampula 435.
amurca amurcMa a-
murcia 403.
ansa^ ansare 54.
antian 57 n.
anxa 53-5.
anxus 53.
anxitudo 54 n.
apicula 36 n.
arbghér 9.
arbghett 9.
ar din zar 30.
armiér 7.
armeii 48 n , 366 n.
arnghér 8, 9.
arrecenddre 32.
III. Lessico.
arsirà 11, 12.
arsui 12.
arvsari 18, 19.
arvuj 20.
arzantel 33.
arzaoola 48 n.
arzintar 30.
arzinzér 28, 33.
a\r'\sunar ecc., 406-7.
asre 429.
altimé 55 segg.
avogadro 437.
avvinchér 34.
babbioy babbione 34.
baboja, boja, babollu 41.
bacara 39.
b<ic{o 3.
Baco 3.
baco- 35-6.
baddottula 50.
Sago 4.
bagura 4.
Baio 4.
Baiinell 3.
beg, bega (dial. settentr.)
36 segg.
bega (tose.) 41.
beghino 40.
bele, belette 50.
bmtu 41-2.
bellora 47 segg.
bollai a'47 segg., 469 b.
bendo la 47 segg.
benla 47 segg.
berleda, barleda 42 segg.
bernage 332.
bernaza 331.
ber ola 47 segg.
beola 46 segg.
bgheng 40 n.
bieta, bietola 56 n.
bigatto 40.
bighellone 39.
bigolo 39.
bigotto 39.
464
Indici. — III. Lessico.
bilite 50.
hirbina 148.
hirò 314 segg.
hiron 313 segg.
birounieiro 317.
biura, biuta 49.
bledegh 317 segg.
bombc'co 39.
bouder 327.
boursovffler 327.
bracar, brajar 380.
bragire, bragulare
379 segg.
bragitare 380.
6rairc, brailler 380.
braitare 380.
&rt7/o 45-6.
trcwa 413 D.
br citine ib.
brugire, rugire 380.
bubbola 326.
&wftc/ 326.
i^wcafo 328.
ftifden/ì 326.
budin 327.
i^w/a/o 328.
&M/b 327.
bujo 329-30.
bujinz 407.
bullitigd 320.
^wr 329-30.
&wrMisa 330-1.
òu^on 58.
cadovra 128 n,
ca^ 434.
caprol 339.
capruggine 27.
carciofano 332.
Carpineta 43.
caticulare, catucu-
lare, 322 segg.
calori gole 321 segg.
catulire 322 segg.
cavdagna 333.
celgcarc 319 segg.
ceresia- 129.
pe, f cs 97-8.
cespita cesto 435.
ce^ p^d ecc. 440, 441.
chalouiller 322 segg.
chendura 144.
chesva 144.
Chiana 445, 447.
C/iiea- 445, 449 n.
chiodo, chiovo 334-5.
chioma 56 n.
c/iisu 141.
ciapér, acciapér 5.
ct^tia 22 n.
cinis-jo (-ja) 158,142.
Cioreri 128 n.
Clanis 445.
dopa 6.
c/ura 347.
cocca 334.
cochlea 334-5.
cold 334.
cd/mcn 430, 431.
concorre 448 n.
cont-a 446.
convoglio 20 n.
copula 146.
corbezzolo 339-40.
cospelo ecc. 408.
cotario- 131.
cote- 152.
coja 334.
Cresci 438.
crocea 334-5,
croi 337.
crosnóbel 440.
ctoZorr 338.
cubi 338.
cuddg 80.
cw/iirs 338.
cummatrella 50 n.
cummuoglie 20.
cima 123 n.
ct/ou 124 Q.
cupprol 338-0.
ct«-&c^a 339-40.
cutrclta 335 n.
ddocu 446.
de-chi-a 409.
deslengud 150 n.
digrumare 8.
dimondi 340.
c?t<«//o 319.
d/d^ 325.
donnola (la) nella mi-
tologia popolare, 49
segg.
dzipeer 341.
cJa 133.
emmali 446.
enchi-a 409-10.
enclume 432 n.
eneo 10 n.
/aca 129.
.facies 144, 149.
Faida, Fageta 43.
falistra 342-3.
/«mine 432.
Farneta 43.
fastello 355 n.
/ai?j7/a 342-3.
/l'éi 129 n.
Fc/tj 435.
ferracavalli 363.
flamba 447.
fiappo 344-5.
ficatum 4, 5.
/ìdc//o 345-6.
yroéj (neogr.) 346-7 u.
finenta ecc. 446.
fionda 56 n.
/Zaj?/) 344-5. .
/b/^ 427, 429.
Forigiani 16.
Frasneda 43.
frigido- 372.
Indici. — III. Lessico.
465
fùmul 408.
Oalitt 323.
gastimari 147.
gatarigolis 321 segg.
gatié 321 segg.
gatligghiari 321 segg.
gatta ^ gdttola, gattina
41 n.
gatto^ venuto a significa-
re il «solletico», 323-4.
gattuzsel 321 segg.
gliitijà 321 segg.
gicmo 409.
gioso ecc. 2Q n.
glem- e glom- 409.
gliuómmero ecc. 424.
gmera 347-8.
gniscHS ecc. 453 n.
golfitanu 17.
goméa 448 n.
/70j-yo 125 n, 378 n.
granfa^ granfio 349.
greto 44.
grinta grenta 448 o.
t7/o^a ecc. 434, 446.
impiccare ,28.
twcfl/mar 355,
inchin 409.
incignare 357.
inco 350-1.
incumbenzdi 357 n.
indéves 351-2.
in fin tu ecc. 446.
infirchi 355-6.
initiare 356-7.
innestare 354-5.
insdir^ insdcer 353 n.
tnseda 352.
inselare^ insetire 352.
in 8 e tu m (per 'insìftum')
352-3.
intaminare 357.
tn»er5, Inverso 2, 3.
invoglia^ invoglio 20.
«nWn^n/a 446.
Ippico- (anche per 'in-
cubo') 9.
tstàla 144.
isau 141.
jureche 435.
kitzeln 322 segg.
/an5 52, 54.-
/a( 442.
/dfure 426.
lazzo 325 n.
ledegh, ledga 325.
Lescheja 43.
/t(2^a 325.
liquidus 325.
/i5pa 358.
/t(;a, litton 325.
Lo baco 5.
/^co 434, 446.
logher 358.
lonza, lonzo 361-2.
/o/)a 360.
Loreta 43.
/o« 359.
/ofa, /o<fa (lomb. per
'zolla') 359.
iQto lotoì 359 D.
/ora 360 d.
lughera 342 n.
lumadegh 361.
/wfra 118.
luoegu 3, 4, 5.
/Mcrt 428.
rw-a 444, 445-6.
maese 430 n.
malussén 362 segg.
mani-ano (per 'mat-
tutino') 140.
marangone 364-5.
marlait, marlinghin
367 n.
marmaglia 365-6.
marmelly marmeli 366 n.
marmocchio 366.
nmrojs 362 segg.
masu 141.
maa^amared(fu 10 n.
meitat 442.
mémmino (3.plur.)367 n.
mi congiunz. e prepos.,
446 n.
mieda 56 d.
mimin 367 n.
miqui ecc. 446.
molnan 440.
wion« ('molto') 101 n.
montone 340.
mùaga 129.
wiMc/iflPr 367.
mu/trtar« 8.
mustela 51.
naevellus 367.
Nar 445.
ndrrere 138, 433 n.
neptia 121 n.
Nera 445.
D i b u 1 = nubilo 440.
nief ecc. 437.
niel 367.
nimo ecc. 435.
ninzd 356-7.
ntfa 325.
nitrire 355 n.
ntjjrar 356.
Noceto 43.
Noglareda 43.
w(?rfa ('nutrica') 128 n.
tist'm 353.
oeuvre masc, 424-5.
oitover 129.
Olmeda 43.
onjr 423 n, cfr. giunte
e corr.
opacus 3, 4.
466
Indici. — III. Letsico.
opacaeeus, opaci-
nii8, opaeiTUs 2.
ora 375.
ordio^ ardo 447.
Ormea 43.
orróli 427 n.
oralo-, orala 376.
ottimato 55.
ove tu 105.
pabaule 427 n.
pabi 368.
pajuolo 368-9.
palavera 342-3.
panereccio 368.
pantegana 370-1.
pec 422 n.
ped, pet 369.
penhór ecc. 422 n.
petto per ^mammelle'
369-70.
picare (da *pix') 28.
picare e pTc[a]lare
28.
piccare 28.
picchiare 28.
piota 123.
pirio- 316 seg.
piro 315.
piron 314, 317.
piruni 314 aegg.
piuolo 314 segg.
plauta, plautam359.
j>o/«5 370.
pondegh , pondga
370-1.
pòpalus 146.
potasi pus sa 423 d«
poussiire 423 n,
pruvana 373.
prùza 129.
pw/a 329.
^iio^V; ecc. 402.
^u^ 114 a.
ragire, ragulare
379.
raitler 379 n.
raitare^ raitire 380-1.
raire 379.
rang^ ('granchio')
349-50.
ratio 3.
ratto 325 n.
rece 438.
receotare, recentiare
29-34.
remore^ rimore 453 n.
r«near 32.
repeg 9.
r«5<a 373-4.
restibilia 373.
reTersns 26-7.
réjna 402.
Rieti 445.
rigattiere 374-5.
rincer 32-3,
rti 442.
rubiglia 376.
rti(?«a 376.
rticTe/ 375-6.
rudéra 425.
fWtndj 426 n.
rudine 425.
rugìre, ragulare 381
seg.
runuidegh 361.
rutilare 8.
romicare, rumina-
re 7.
rumela 376.
mvinajio 425 n.
5-a 444.
sasSina 125.
5atn 430 n.
Saint fri. 441.
sajùtter 377-8.
lafTdnf, sanùs 128.
sandocc 377.
sangiott 377.
sastre 430 n.
sbragd 378 segg.
sbrajér 378 segg.
sbraitare 380.
5Òrf 45-6.
sbrinér 46.
scandelta 382 tegg.
scaodula 383.
scarwtr 384.
schermtir 384.
schiacciare ^ schijsér
27-8.
8 e m*n = sem*! , s e m*n a-
r e = sem*lare, 407.
senittr ecc. 407.
s^afut 321 segg.
5^ti4 125.
silvanus 10 n.
5^i'n«nto 446.
singhiozzo 377.
siogultus 377-8.
smutedegh 324-5.
sntjjdr 356.
solleticare 320.
50<(a 320 n.
souner ecc., ▼. Miifwr.
sottatill^che 320 n.
sordr« 410, 435.
sozzo 325 n.
sdiu 118, 129.
spiccare 28.
spiegolér 411.
Spineto^ Spineda^ Spi-
neja 43.
spiegar io 411.
5p/iìa 342 n.
5/«ni« 123.
5<r«mt 384.
stria 128 n.
5frtìn^ 384 n.
suerzu 347.
suitar, T. scnncr,
svass 125.
Indici. — IV. Varia,
467
t-a 446.
te g amen 56 Be^g.
tcUccarc 319 segg.
tèmpli 426.
tempre 426 n.
ten tin 422 d.
ternegar 9.
^e5fo tristo 446.
tiaTif 57 D.
tichìe 322.
ft>m 56 segg., cfr. giun-
te e correz.
timar 56 segg.
tinticare 319.
titillus ecc. 318-21, 324-5.
tremire, tremulire
384.
trésped^ tréspec 408.
tumper- 426.
tiirbolo 408.
termure 426.
XJbaga^ Vbaghetta 3, 4.
wftre 429.
ulcus 425 D.
umtTit^t/^ 446.
t<5ai 141.
YagOy Vaga 4.
Vai 4.
vergure 430.
r«rno 398.
Vernea^ Verneja 43.
t7iaia-men(r6 410.
Vicchio 28.
vilucchio 21.
vinco 84.
voluculum, Tolucu-
lare, involuculare
21.
Tomer-io ecc., 347, cfr.
448 n.
Zenevrea 43.
zude 435.
IV. Varia.
Filosofia e storia generale del linguag-
gio, secondo Dante, 80-2; continue
e crescenti divariazioni del linguag-
gio nel tempo e nello spazio, se-
condo Dante, 83-4.
I tipi dialettali, 385-9.
L* elemento iberico, 414-15.
Le ^spie celtiche', 444 Begg.
Latino: sua persistenza nel medio
evo, 68; suo influsso sulla lingua
letteraria italiana, 91-2, 360; sua
preminenza suiritaliano, sec. Dante,
73-6, 78 ; sue relazioni storiche con
le lingue romanze, sec. Dante, 84.
Equivalenti latini e germanici, che si
somigliavano ed eran come alle pre-
se fra di loro, 412-13.
Antichità deir immissione dogli ele-
menti germanici comuni a tutti gli
idiomi neo-latini, 413.
Lingue romanze sec. Dante, 82-3.
Libri grammaticali romanzi anteriori
a Dante, 69-71.
II francese: suo influsso sul sici-
liano e napolitano, 33 n, 322 n; sui
dialetti emiliani, 340-1; suirarcaica
letteratura dell* Italia settentriona-
le, 89-90; suoi titoli di preminenza,
sec. Dante, 79-80. Il franco-pro-
venzale, 388-95. Vestigia ladine,
405. Il tipo gallo-italico sin dove
si estenda verso mezzodì, 443-4 ; ve-
stigia gallo-italiche, 445 segg.
L* i t a I i a n : suoi vantaggi sulle al-
tre lingue romanze, sec. Dante, 75,
80; sul latino, sempre sec. Dante,
73, 79; ^italiano' in quanto nome
di classe, ed in quanto vale 'lingua
letteraria d* Italia', e confusione dei
due concetti nella mente di Dante,
108-9. L* italiano confrontato al
francese e al provenzale, in ordine
alla declinazione, 434.
Lingua letteraria: dell* Italia supe-
riore, 89-90, e sec. Dante, 96 ; del-
r Italia centrale e meridionale, 90-6,
104; definitivo predominio del fio-
rentino, 106, 328, ed abbagli di
Dante intorno a ciò, 96, 105-6.
Lingua poetica italiana formatasi e
disciplinatasi prima della prosasti-
ca, 65-6.
468
ludici. — IV. Varia.
Dialetti: pregiudizj comuni intorno
ad essi, 85-8; pregiudizj di Dante,
88-9, 96; come classificati da Dante
i dialetti italiani, 85; e come da.
lui estimati, un per uno, 97-106.
L'aretino, 411-12, 443 segg.
Il bolognese sec. Dante, 63, 81 n,
102-4.
Il córso, 133-50 passim, 398.
Il fiorentino, 96, 105-6, 328.
Il ligure: suo vocalismo tonico,
113-9, 133-51, 396, 399; suo vo-
calismo àtono, 119-21, 151-3; suo
consonantismo, 121-31, 153-9, 397,
399; sue frequenti anfibologie, 131 ;
sua durezza secondo Dante, 100,
129 n. - 'Antiche rime genovesi',
161-312.
I vernacoli metauro-pisaùrini,
444.
II perugino, 445 segg.
Il piemontese: suo vocalismo ecc.,
V. i luoghi che son citati per il
ligure.
11 sardo: sue suddivisioni 132 n; suo
spoglio fonetico, 133-45, 398; suo
valore sec. Dante, 98.
11 siciliano: suoi francesismi, 33 n;
suo spoglio fonetico, 145-50, 398-9;
sua priorità letteraria, come debba
intendersi, 90-1; travestimento alla
toscana subito dalle sue rime illu-
stri, 91-5. 'Saggi siciliani', 453
segg.
Particolari connessioni fra i verna-
coli insulari, 455, 457.
Il toscano, in quanto si distingue
dal fiorentino, 98, 104-6.
Dante: sue cognizioni classiche, 74-5,
77,81; sue cognizioni etnologiche
e linguistiche, 81-2; sua spassiona-
tezza, 89-9, 105; suo spirito pole-
mico e apologetico, 78-9, 80, 105-6;
sue resipiscenze, 73-6; sua origi-
nalità nel concepire il De vulg,
eloqu.^ 71,
Il De vulg. eìoqur. autenticità, 60-1, .
71-2; codici, 61; titolo, Q2\ epoca
della composizione, 62-5; numero
de' libri, 65-7 ; differenza tra il pri-
mo e il secondo, 60, 109-10.
11 Convito, 64, 66 n, 76-9.
Il De Monarchia^ 62 n.
Guido Cavalcanti, 70, 72.
Passavanti, 107.
Bordello: suo linguaggio, 102 n.
L'attrazione analogica, 419-20, 421-2,
428.
Antifrasi apparente, 397-8.
Varietà fonetiche, adattate a distin-
zioni ideologiche, 435, 436.
'lieve', 'tenero', il polmone, 408-9.
'grave', 'duro', il fegato 408-9.
'polmone' per 'vigliacco', 409.
GIUNTE E CORREZIONI
Pag.
3, in fine al secondo capoverso, ag-
giugni: (cfr. Mussafia, Bei^
trag ecc., p. 92 s. radegar).
4, lin. 34, dopo fécalo, aggiugni:
Pag.
'sic. ficatu*\ e liu. 38 e seg.
espungi: 'nel sic. ficdtu\
6, lin. 21, dopo 'emil.' aggiugni: 'e
ven.', e cancella 'ven. chiopa\
Giunte e
Pag.
In fine della nota ag^giugni:
^come altrui ad analogia di lui^
colui, costui,^
7, lin. 6, aggiugni: (cfr. Rio, di
fiL cl.^ IV 350 e seg.).
8, lin. 3, aggiugni: Quanto al nap.
ammagliare, ammagliecare, ru-
minare, cfr. Asc. I 546, s. man-
giare e magliare ai relativi ri-
mandi.
10, alla nota 1 si apponga: La forma
lombarda lencof messa ipoteti-
camente innanzi, come quella
che avrebbe dovuto essere la
regolare, trovasi realmente nel
dialetto delle Tre Pievi (Coma-
sco). Cfr. MussAFiA, Beitrag ecc.,
pag. 78 s. mazaruol, dove, come
pure nel Yoc, mil, del Banfi (s.
salvan) sono ancora parecchi
sinonimi dialettici d* incubo',
qui non recati.
11. In fine della nota aggiugni: Cfr.
Giovanni detto Incalcavecchia,
pittore orvetano d* intorno alla
metà, del secolo XV (G. Mila-
nesi, Doc. per la storia dell'arte
san., II 219).
15, lin. 26, dopo (sia) aggiungasi:
(cfr. Riv. di fil. ci,, IV 351 e
seg.).
19, lin. 23, in cambio di: ^mostrò
credere \o..,.\ leggi: ^mostra-
rono credere il Diez (Et, w, s.
argine) e lo...'
23, in nota (lin. 13), si dà per aperto
Vo chiuso del sufF. tose, -tojo, ed
è per conseguente da torsi l'e-
sempio di cui fa parte.
25, lin. 20, 1. 'participiali'.
33, lin. 16, aggiugni: È notevole an-
cora il resentd (:=:recentale),
'secchia di rame', 'sciacquatojo'
del ventimigliese.
correzioni. 469
Pag.
36 n., lin. Il, 1. il nap. vinckio e yen.
vendo,
49, alla nota l aggiugni: Cfr. tut-
tavia Rio. di fil, ci,, IV 353 ; e
Curtius Gr, et, II* 249; donde
si potrebbe anco congetturare
beullula per epentesi da bellula,
sincopato quindi in beulla, beola.
56, lin. 4, dopo 'parmigiano' in luo-
go di 'ha' leggi: 'e il mani,
hanno'; e lin. 8, prima di 'e i
Ven.' aggiugni: 'il mantov. ha
timin per dinotare l'arnese so-
vraposto alle culle de* bambini
per difenderli dalle mosche.
— . Nella prima parte di queste 'Po-
stille' (p. 1-56), s'ha la sem-
plice e, somministrata dall'orto-
grafia del Galvani, in luogo
deir^, da a ton., del mode-
nese ecc. Nella seconda parte
(p. 31 3-84 ),y introdusse IV, sino
a pag. 328.
86 n., I. 'pure il g\
116 n., lin. 7 dal basso: 1. et. Circa
il contenuto di questa nota, d
poi da confrontare il § V degli
'Schi3zi franco-provenzali', che
sono inseriti nel terzo volume
dell' Archivio,
118, num. 10 (e pag. 126), 1. tòsegu,
121, num. 16, 1. góbia,
147, num. 18, 1. Brasi,
150, n. *, lin. 1, I. 'frequente'.
151, lin. 9, 1. wt^[<j]n.
313, lin. 2, 1. hemonem.
319, lin. 21, 1. tilleco,
325, n. 1, lin. 8 e seg., s'espunga da
'mil. loja . . .' fino a 'm odioY ;
u. 2, lin. 2, 1. 'quantitativa....
qualitativa'; e a pag. seg. n.,
lin. 1, 1. 'quantitativa'.
313, lin. 35, espungi ^mucilaggine
• = mucillagine\